Il problema dell'essere spirituale

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NICOLAI HARTMANN

IL PROBLEMA DELL’ESSERE SPIRITUALE A cura di Alfredo Marini

« LA NUOVA ITALIA » EDITRICE FIRENZE

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Ia edizione: gennaio 1971

Titolo originale dell’opera:

Das Problem des geistigen Seins Walter de Gruyter & Co., Berlin 1933 Presentazione, traduzione e glossario di Alfredo Marini

PRINTED IN ITALY

© Copyright 1933 by Walter de Gruyter & Co., Berlin & 1971 by « La Nuova Italia » Editrice, Firenze

PRESENTAZIONE

Presentare quest’opera di Hartmann, parlare, in generale, del pensiero di un filosofo che ha scelto per sé la fedeltà all’essere in quanto tale, la disciplina dell’obbiettività e il disprezzo per la parzialità dei punti di vista [Standpunktlichkeit], può sembrare imbarazzante per chiunque, an­ che per chi lo ha fedelmente tradotto. Da un lato, trat­ tando la sua filosofia come un punto di vista tra gli altri, non si vorrebbe dare l’impressione intempestiva di condurre una polemica a buon mercato contro uno dei piu grandi pen­ satori del nostro tempo; dall’altro, la preoccupazione di non essersi mai abbastanza liberati del proprio punto di vista (qualunque esso sia), ingenera il timore di non saper aderire con pari lucidità agli eterni « contenuti » di pro­ blema [Problemgehalte], alla cui elaborazione ΓAutore de­ dicò tutta la vita, e quindi di non esporre mai abbastanza fedelmente il suo pensiero. Hartmann, infatti, non ci of­ fre, come Natorp, un metodo filosofico di pensiero il quale, senza sfornare « proposizioni definitive sulla struttura del­ l’universo », ci garantisca « la via sicura per un infinito progresso della conoscenza », togliendo la filosofia dalla « condizione vergognosa di dover tornare ogni momento sui suoi passi e di trovarsi ogni volta, dopo enormi sforzi, press’a poco al punto di partenza » non ci offre, o non intende offrirci una nuova « impostazione » di problemi [Problemstellung] filosofici piu o meno tradizionali, più 1 P. Natorp, Philosophie, ihr Problem u. ihre Probleme. Ein­ führung in den kritischen Idealismus, Göttingen 191812, pp. 12-13.

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o meno « decisivi »; soprattutto, non ci offre una nuo­ va versione del problema che la filosofia è a se stessa sempre di nuovo. Quest’ultimo problema, che fu quello di Husserl, era il piu lontano dalla mente di Hartmann. Nicolai Hartmann ci offre dei risultati. In questo senso, anzi in ogni caso, nulla è piu superfluo che la pretesa di esporre i risultati del pensiero di Hartmann: i suoi scrit­ ti sono tutti da leggere; essi non contengono suggeri­ menti, prospettive, allusioni; essi contengono nella forma più chiara i precipitati del suo pensiero, i risultati decanta­ ti, obbiettivati, compatti come cose, delle sue ricerche. Hartmann non ignora i problemi, se non in quanto essi sono soltanto « opera umana » e presto o tardi, a seconda del peso che acquistano nello spirito obbiettivo, passano di moda e sprofondano nell’oblio. Cosi, egli conosce bene le formulazioni e le definizioni concettuali che la nostra tradizione filosofica ha dato delle categorie dell’essere e del pensiero; ma queste, come tutti i « concetti », sono a loro volta soltanto una parte dell’essere, mentre le cate­ gorie stesse ne sono la struttura. Ed è la struttura dell’es­ sere che la sua dottrina delle categorie intende portare al­ la luce. Quanto all’essere stesso, Hartmann è il primo a dire che « non lo si può né definire né spiegare ». Infatti, « l’essere è il termine ultimo a cui può volgersi l’indagine. Ciò che è ultimo non è mai definibile. Si può definire sol­ tanto in base a qualche altra cosa che stia al di là di ciò ch’è cercato. Ma dietro a ciò che è ultimo non c’è niente... Non c’è proprio da stupirsi. Questa difficoltà non riguarda so­ lo l’essere. In tutti i domini problematici c’è qualcosa di ultimo, che in quanto tale non può essere determinato piu intimamente. Nessuno può definire che cosa siano lo spiri­ to, la coscienza, la materia. Li si può solo circoscrivere, farli risaltare rispetto a ciò che è diverso e descriverli per mezzo delle specificazioni » '. 1 N. Hartmann, La fondazione dell’ontologìa, trad. F. Barone, Milano 1963, p. 127.

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Hartmann ci offre dei risultati, dunque, ma risultati che non sono soluzioni di problemi posti dagli uomini e perciò risolubili dagli uomini, bensì elaborazioni [Bear­ beitungen] di problemi, tanto irrisolvibili quanto inevita­ bili, posti all’uomo dall’essere stesso. Esiste per noi il problema dell’essere perché l’essere stesso ce lo pone. Che non si tratti di un problema « nostro », che non si tratti come per il primo Heidegger, del problema del « senso » dell’essere, che il problema sia « dell’ » essere nel senso sog­ gettivo del genitivo, non significa tuttavia (come nell’ul­ timo Heidegger) che l’Essere si ponga nell’uomo la do­ manda su se stesso e che l’uomo diventi il luogo e lo stru­ mento dell’avventura dell’Essere. Per Hartmann, il con­ cetto tradizionale della metafisica è pura Standpunktlichkeit sistematica, che si distrugge da sé perché, acriticamente, ignora la permanenza della dimensione metafisica dei pro­ blemi. Permanenza che Hartmann, come Husserl, accetta o affronta, senza timore e tremore, senza angoscia. Piuttosto, secondo Hartmann, va imputato al neokan­ tismo (non già a Kant) il pregiudizio che la filosofia non debba essere metafisica: ciò equivale a credere « che nella scienza si debbano ammettere solo quei problemi che si possono risolvere ». In realtà, la domanda metafisica che sta al fondo di tutti i problemi, in cui tutti i problemi « vanno a finire » e per cui, in generale, le domande si im­ pongono senza alcun riguardo alla loro solubilità o insolu­ bilità, non è altro che l’« enigmaticità del mondo » che « non è creata dall’uomo, né può essere tolta da lui » *. In questo senso, l’essere è solo la dimensione di tut­ ti quei problemi che hanno un margine di irrazionalità, e quindi sono « metafisici », di tutti gli eterni contenuti di problema che non è l’uomo a porsi ma che proprio all’uomo si imporranno sempre, e che sono altresi la base inesauribile di tutti quelli che l’uomo si pone e risolve. 1 N. Hartmann, Filosofia sistematica, trad. A. Denti e R. Can­ toni, Milano 1943, pp. 125, 136; Kleinere Schriften II, Berlin 1957, pp. 281, 283.

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Può stupire che una filosofia la quale si occupa solo di problemi metafisici irrisolvibili, ci offra solo risultati con­ creti; può stupire che una « filosofia » che vuol esser « scienza » dell’« enigmaticità » del mondo, riesca effettiva­ mente a produrre una grande massa di risultati precisi ed univoci (scientifici) circa tale enigmaticità, senza esau­ rirla né risolverla con costruzioni sbrigative, ma anche sen­ za assumere consapevolmente su di sé quell’enigmaticità, senza farsi sempre di nuovo problema a se stessa in quanto filosofia! Tra l’essere indefinibile e l’eternità non umana dei suoi problemi da un lato, e una filosofia altrettanto eter­ na (e non umana), altrettanto impraticabile, dall’altro, si apre per Hartmann una dimensione che, in prima istanza almeno, è al di qua sia della tesi dell’essere o dell’oggetto («realismo» naturale), che di quella del non-essere, del pensare o del soggetto (« punti di vista speculati­ vi », idealismo in testa): è una dimensione neutrale o me­ diana che forse non è ancora filosofia, ma certo non è di per sé enigmatica. È la dimensione della « elaborazione » scien­ tifica dei problemi metafisici, l’ontologia. « L’ontologia — dice Hartmann — prende la “ via mediana ” tra questi estremi. La sua tesi è: c’è un ente reale fuori della co­ scienza, fuori della sfera logica e oltre i limiti della ratio; la conoscenza dell’oggetto è in relazione con questo ente e ne riproduce una parte, per quanto la possibilità di tale ri­ specchiamento debba restare incomprensibile; ma l’imma­ gine della conoscenza " non esaurisce l’ente ”, non è com­ pleta (adeguata), né simile all’ente. Il realismo naturale con la sua tesi, nuda e cruda, della realtà, ha ragione, per­ ché il reale si trova nella direzione obbiettiva della cono­ scenza naturale; ma ha torto per la sua pretesa di adegua­ tezza. I punti di vista speculativi hanno ragione in quanto confutano quest’ultima pretesa, torto in quanto tolgono il reale dalla direzione obbiettiva. Nell’ontologia si riassu­ me ciò in cui ambedue hanno ragione. Essa conserva la tesi realistica della visione naturale del mondo, ma scarta la sua pretesa di essere adeguata. Con ciò, essa fa qual­

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cosa di molto simile a quello che la visione scientifica del mondo ha sempre fatto » In questa prospettiva, l’ontologia procede per tre gra­ di, che sono: quello « fenomenologico », quello « aporetico » e quello « teorico » (cosi, almeno, nella Meta­ physik der Erkenntnis [1921], perché Hartmann, come s’è accennato, è ben lontano dal concepire un vero e proprio « metodo filosofico » che comporterebbe un « monismo metodico » da lui già criticato nel neokantismo e nella fenomenologia. Il metodo della conoscenza è per lui, rispetto all’oggetto, quello che per Natorp era l’esse­ re, come oggetto, rispetto alla conoscenza: una pura funzione. E quindi può cambiare secondo l’oggetto). Il momento fenomenologico consiste nella ricognizione e descrizione esauriente di quella parte dell’ente che è co­ nosciuta; il momento aporetico, nella esplicitazione delle aporie ed antinomie « naturali » che emergono dal fenome­ no descritto; la teoria, nella soluzione o nella elaborazione di tali aporie, non già partendo da un punto di vista sog­ gettivo, ideologico o speculativo, ma servendosi di quel mi­ nimo di ipotesi circa la parte sconosciuta dell’ente ('mi­ nimum di metafisica) che è permessa e giustificata dal fenomeno e dalle sue aporie naturali. Quando Hartmann parla di punti di vista speculativi [spekulative Standpunkte], non intende riferirsi sol­ tanto e in generale alla cosiddetta filosofia delle Welt­ anschauungen, ma, in particolare, sia a quelle teorie che i suoi maestri Cohen e Natorp consideravano « dogmatiche », sia a quelle che Husserl chiamava «pure costruzioni di pensiero» (e dalle quali, dal can­ to suo, non escludeva lo stesso idealismo critico dei marburghianil). Mentre Husserl, cui stava a cuore l’intui­ zione del fenomeno-essenza e il ritorno alle cose stesse, rifiutava innanzitutto il costruzionismo delle « ipotesi » marburghiane, Hartmann concentrava nella Standpunktlich1 N. Hartmann, Metaphysik der Erkenntnis, Berlin u. Leipzig 192512, pp. 181-182; La fondazione dell’ontologia, cit., cap. I a.

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keit il difetto fondamentale di tutti i sistemi filosofici, con le loro unilateralità, estremismi, forzature: e la Standpunktlichkeit è il soggettivismo, il far centro sulla soggettività, la pretesa di essere l’ombelico del mondo, il non ricono­ scimento della centralità e obbiettività delle cose stesse, della durezza del reale e del peso dell’essere. Per lui, l’espressione più pura e riassuntiva dell’atteggiamento fi­ losofico speculativo è quindi proprio l’idealismo critico, o trascendentale, della Scuola di Marburgo: la sua pretesa che la riflessione sulle condizioni trascendentali della conoscenza (l’« origine » di Cohen, come l’« unità sin­ tetica » di Kant) fosse la « filosofia prima » e non, co­ me in Kant, la preparazione alla metafisica; che il fon­ damento della conoscenza fossero le sue stesse leggi e non la « cosa in sé » di Kant; che ci sia dell’essere solo « per » il pensiero, che l’essere coincida con l’ « oggetto » e sia quindi una pura funzione del pensiero, la « x » incognita nell’equazione della conoscenza. Cosi, sia Husserl che Hartmann (il quale fu molto vicino alla fenomenologia di Husserl, e specialmente di Scheier, appunto negli an­ ni del proprio distacco dal neokantismo) « tornano alle cose stesse », ma a Husserl interessava di piu il ritorno, a Hartmann la cosa, o, se preferiamo, all’uno interessava il « vero » essere delle cose, all’altro il loro « essere » vero e proprio. Il che, come vedremo, non è precisamente la stes­ sa cosa. La « neutralità » della fenomenologia husserliana è una riflessione trascendentale sulle intenzionalità del­ la coscienza o del mondo-della-vita, che si astiene dal parteciparvi, e viene ottenuta mediante l’ « epoche » non solo del non-essere neokantiano, ma anche della kantiana « cosa in sé » (che non è necessariamente la « cosa stes­ sa »!) ed altresì di tutta la dimensione gnoseologica. È, quindi, una neutralità metodico-filosofica che scopre una dimensione nuova ed autonoma della ricerca e non si concepisce come introduzione a un punto di vista specula­ tivo particolare, ma come filosofia tout court, cioè come

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introduzione « sempre di nuovo » (e non una volta per tutte) alla visione spregiudicata « nel » mondo dell’atteg­ giamento naturale o del senso comune (e il senso comune, per la fenomenologia, contiene « anche » la speculazione, l’ideologia, il mito, la fede, la tesi dell’essere e quella del non essere e, insomma, omne humanum). Problema, que­ sto, che gli specialisti di fenomenologia husserliana chiama­ no anche tZeZZ’einströmen e che noi potremmo indicare, in modo inesatto ma suggestivo, come il problema del ' ritorno nella caverna ’, secondo il mito platonico. La « neutralità » dell’ontologia di Hartmann è invece, da un lato, una posizione-limite puramente iniziale fLa fon­ dazione dell’ontologia, cap. X a, e cap. XXII a) la quale non riguarda il lavoro che l’ontologia compie, ma il modo di apparire della dimensione ontologica stessa nel momento in cui, compiuta l’« epoche » (non dell’atteggiamento naturale ma solo della Standpunktlichkeit speculativa), ne scopriamo la possibilità; questa neutralità, che è tale in quanto è al di sopra dei punti di vista [ übers tandpunktlich], coincide, d’altro lato, con quella sovrastoricità [Über­ geschichtlichkeit] dei problemi che l'ontologia pertratta, del­ la quale il filosofo è, secondo Hartmann, il funzionario o l’amministratore [Verwalter] *. L’« epoche » di Hartmann, se è lecito servirsi di questa parola, che del resto Hartmann occasionalmente usa, è soltanto «epoche » del non essere, e non anche dell’essere come quella di Husserl. Perciò la sua ontologia, che teme di scambiare i punti di vista con l’essere stesso, ma fa un’eccezione per il punto di vista « originario » dell’essere, non si mantiene neutrale, è anzi destinata a scegliere fra Z’intentio recta dell’atteg­ giamento naturale e scientifico e Z’intentio obliqua della riflessività. Quest’ultima, per lui non fa parte dell’atteg­ giamento naturale ed è, in ogni caso, un tipico punto di vi­ sta idealistico, sia essa riflessione sulla conoscenza (la 1 N. Hartmann, La fondazione dell’ontologia, cit., p. 120; Kleinere Schriften II, cit., pp. 280, 285.

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morale, l’estetica, la cultura in generale) o sulla « co­ scienza »; sia essa logico-trascendentale o fenomenologicotrascendentale. « Abbiamo dietro di noi — dice Hartmann — un secolo di formazione intellettuale riflessa, tale da non conoscere il tipo e il presupposto della propria riflessività. Una simile formazione si identifica con una fondamentale incapacità di cogliere l’aspetto dell’essere originariamente dato » (La fondazione dell’ontologia, cap. IV d). La riflessione husserliana sui modi di datità non è meno riflessione della riflessione marburghiana sul fatto culturale: esse appunto si fermano al dato (oggetto o fenomeno), non arrivano al­ le cose. L’aspetto dell’essere « originariamente » dato è, per Hartmann, quello còlto dalla coscienza ingenua del mondo, non meno che dalla coscienza scientifica, e l’on­ tologia si pone sulla linea retta della loro intentio. Met­ tendo fuori causa, definitivamente e una tantum, i « pun­ ti di vista », egli riconquista quella direzione geradehin che Husserl chiamava l’intenzionalità della corrente di coscienza o della Lebenswelt, ma il fenomeno che de­ scrive non è l’intenzionalità del mondo-della-vita, perché quest’ultimo, egli non lo mette fuori azione ma vi par­ tecipa e, sul prolungamento virtuale del realismo inge­ nuo e delle scienze obbiettive, « compie » a sua vol­ ta l’intenzionalità naturale. Il fenomeno che la sua on­ tologia « vede » è, allora, soltanto il correlato obbietti­ vo di quell’intenzionalità. È facile immaginare che questo « presupposto realistico » si proietterà come una ben pre­ cisa condizione di possibilità sul carattere intrinseco dei fenomeni, sulla nascita delle aporie e sulla funzione delle teorie che l’ontologia di Hartmann successivamente de­ scriverà, discuterà e sistemerà *. In questo quadro, ciò che l’ontologia di Hartmann de1 Cfr., al proposito, A. Banfi, Principi di una teoria della ra­ gione, (s. 1.), Parenti, 1960, pp. 366-367; F. Barone, Nicolai Hart­ mann nella filosofia del Novecento, Torino 1957, p. 21.

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scrive, discute, organizza e classifica è sempre e soltanto V« essere »: i « momenti » dell’essere (esserci ed esser-cosi); le « maniere » d’essere (sfera reale e sfera ideale, con le rispettive sfere secondarie della conoscenza e della logica); i « modi » d’essere (possibilità e impossibilità, effettualità e ineffettualità, necessità e casualità, nel loro ordinamen­ to formale generale, ma soprattutto nelle loro differenze a seconda delle sfere in cui ricorrono); le « categorie » dell’essere, comuni al momento essenziale dell’essere reale e alla sfera secondaria del pensiero. L’essere « reale » i cui caratteri essenziali sono la temporalità e l’individualità, è stratificato: lo strato inferio­ re portante è quello fisico-materiale, seguono lo strato orga­ nico, quello psichico e quello spirituale. La dottrina « generale » delle categorie riguarda le categorie comuni a tutto l’essere reale in quanto ritornano e non ritornano nei diversi strati, oltre alle modificazioni e alle leggi secondo cui ritornano. La dottrina « speciale » delle categorie analizza invece i singoli strati: l’opera che presentiamo, Il problema dell’essere spirituale, contiene appunto la dot­ trina speciale delle categorie dello strato piu elevato del­ l’essere reale: quello dello spirito.

Abbiamo detto che i libri di Hartmann sono ‘ tutti da leggere ’, e il lettore non tarderà a individuare da sé il filo conduttore e la limpida architettura di quest’opera. Noi ci serviamo solo di quanto ci basta a completare il discorso iniziato. Un discorso che intende rilevare som­ mariamente quello che, con rispettosa audacia, potrem­ mo considerare il limite e il pregio di questo lavoro ma che (nel pensiero di Hartmann) sarebbe, « in sé », meno rilevante: la sua « impostazione » del problema Come s’è visto, il fenomeno che Hartmann descrive e 1 Per un’analisi dei motivi ispiratori più validi e profondi di questa, che A. Banfi giudicava la più bella opera di Hartmann, vedi sempre R. Cantoni, Il problema dello spirito nella filosofia di Nicolai Hartmann, in « Studi filosofici », IV, 1943 (ora nel voi. Mito e storia, Milano 1953).

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chiama « l’essere originariamente dato », non è quello della fenomenologia, ma quello che la fenomenologia mette tra parentesi per descriverlo come un momento della cor­ relazione, nei suoi modi di datità, nel suo senso, senza mai negare ma solo sospendendo la tesi dell’essere. In questo senso Husserl usa la formula famosa « tanta appa­ renza, tanto essere », essere che l’apparenza solo oc­ culta e falsifica nel suo significato, nella sua verità. Per Hartmann, le cose stanno piuttosto cosi: noi conosciamo solo una parte dell’ente, quella parte che è oggetto per noi. Un confine, quello dell’ « obbiettazione », lo divide in due, da una parte la « corte degli oggetti » o fenomeni, dal­ l’altra il « transobbiettivo » che, col progredire della cono­ scenza, può diventare oggetto per noi. Questo confine, però, non può spostarsi all’infinito perché « è provato che esi­ ste il fenomeno dell’inconoscibile per noi ». Ci sarà quindi un secondo confine, quello della conoscibilità, oltre il quale si trova il « transintelligibile ». « A completare il quadro », dice Hartmann, si introduce il « concetto affermativo della cosa in sé ». Se la cosa in sé non va intesa in senso negativo [im negativen Verstände], come in Kant, e l’essere non si riduce all’essere-oggetto, non per questo il confine dell’obbiettazione va scambiato per un confine antico: non è che l’essere sia al di là dell’oggetto, « la par­ te conosciuta deve pur avere lo stesso carattere antico » È una conclusione che suona simile alla formula hus­ serliana menzionata: ma il suo significato è diverso perché l’una riguarda la verità dell’essere, l’altra l’essere della veri­ tà. Hartmann non compie la riduzione fenomenologica, descrive il fenomeno della conoscenza allo stesso livel­ lo « ovvio » della fattualità culturale sul quale si muoveva, sia pure riflessivamente, la teoria della conoscenza, e lo schematizza nel rapporto soggetto-oggetto. A questo punto, capovolge bensì la prospettiva di Natorp e mette la cosa 1 N. Hartmann, La fondazione dell’ontologia, cap. IX b; Il pro­ blema dell’essere spirituale, cap. X 2.

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stessa al posto della « x » incognita, ma lo fa quasi conti­ nuando l’abitudine criticistica di interrogarsi sulle condi­ zioni di possibilità del dato di fatto. La differenza è che, questa volta (e in ciò sta il capovolgimento) la condizione di possibilità è nell’esistenza dell’essere e non nelle leggi della conoscenza. Il dato di fatto è che la direzione naturale della cono­ scenza va verso la cosa stessa, nella « convinzione fon­ damentale e universale » che essa esista prima e indipen­ dentemente dalla conoscenza stessa. Altro infatti è l’« obbiettivazione », che è produzione da parte del soggetto di qual­ cosa che prima non c’era, altro l’«obbiettazione », che è il rendersi oggetto della cosa stessa per un soggetto. L’obbiettazione non riguarda minimamente la cosa, ma solo la conoscenza che, in quanto conoscenza della cosa è quindi un atto trascendente, e per la quale l’antinomia della trascendenza è costitutiva. In termini criticistici, si potrebbe dire che l’essere in sé della cosa conosciuta è la condizione di possibilità della conoscenza e del suo feno­ meno. Ora però non si tratta di una possibilità trascenden­ tale, ma di una « possibilità reale ». L’« ipotesi » cri­ ticistica, che Husserl giudicava costruttiva perché non intui­ tiva, è divenuta l’« essere ». Quanto all’antinomia della trascendenza, essa è un contenuto di problema, uno di quei tipici problemi metafisici che non sono opera dell’uo­ mo e che si porranno sempre, perché il mondo è enig­ matico ma l’uomo non può cambiarlo di sua testa (Filoso­ fia sistematica, p. 125). Perciò Hartmann, nella prospettiva della sua « on­ tologia critica », non farà né una teoria trascendentale della conoscenza, né una fenomenologia trascendentale della coscienza, ma una « metafisica della conoscenza ». La conoscenza stessa, come rapporto tra un soggetto e un og­ getto che hanno la stessa « maniera d’essere », è solo una relazione antica [Seinsverhältnis] entro il quadro del­ l’essere reale, e precisamente al livello dell’essere spiri­ tuale, di cui fa parte. Limite e principio supremo della co­

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noscenza diventa la « possibilità reale » per un punto del­ l’essere chiamato soggetto, di mettersi in relazione con gli altri punti dell’essere. Ciò che Hartmann chiama « l’auten­ tico fenomeno della conoscenza », trascurato dalla fenome­ nologia husserliana ', sarà quindi quella parte dell’essere in sé della conoscenza che sporge nella « corte degli ogget­ ti ». Il fenomeno della conoscenza è un fenomeno tale qua­ le i fenomeni che la conoscenza stessa sempre conosce. Di fatto, Hartmann compie una riflessione sul fenome­ no della conoscenza, ma rifiuta di riconoscere che tale ri­ flessione ponga innanzitutto un problema di metodo trascen­ dentale. In generale, per lui, prima viene la conoscenza, poi il metodo. Come l’oggetto della conoscenza ha le sue radici nell’essere in sé, al di là di ogni divenir oggetto e di ogni conoscenza, e non viceversa, cosi la conoscenza in quan­ to rappresentazione o immagine dell’oggetto nella coscien­ za deriva dall’oggetto stesso e non viceversa, e cosi, an­ cora, il metodo della conoscenza ha le sue radici nell’« atto trascendente » (nel concreto lavoro) della conoscenza, e non viceversa. « Un simile atto trascendente — anche se inteso a sua volta come oggetto di teoria della conoscenza — è un oggetto metafisico... Come però tale oggetto sia possi­ bile rimane un grande enigma. E a un’analisi piu attenta, l’enigma si suddivide ancora in una serie di aporie parti­ colari, che contengono tutte un residuo irrazionale — in aporie metafisiche dunque» (Filosofia sistematica, p. 155). Se la conoscenza consiste nel cogliere un esistente in sé, anche la teoria della conoscenza coglierà la relazione an­ tica soggetto-oggetto come un esistente in sé. La stessa cosa vale, in particolare, per quell’ente che è la rappresen­ tazione o immagine, e per quell’altro ente che è l’atto trascendente. Neppure a proposito di quest’ultimo, che Husserl chiamerebbe il lato « noetico » della coscienza, alcun problema di metodo potrà emergere, perché anch’esso, come ogni altro ente, è superoggettivo, è in sé piu di quan­ to sa di se stesso, è indifferente in sé a ciò che sa di sé, non 1 N. Hartmann, Metaphysik der Erkenntnis2, cit., p. 108.

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trascende mai innanzitutto (neppure « trascendentalmen­ te »!) verso se stesso e le proprie segrete categorie. In effetti, proprio il rapporto con un simile « essere in sé » (un concetto gnoseologico che l’ontologia conserva, benché nelle sue mani diventi anfibolico), che contraddice alla fondamentale indifferenza dell’« ente come ente », determina sia la struttura del fenomeno, sia quella delle « aporie naturali » che, secondo Hartmann, ne emergono. E questa è anche l’origine prima di tutto il suo « costrut­ tivismo ». Se il « problema della conoscenza » diventa il problema dell’essere della conoscenza, ciò non significa sol­ tanto: della sua ratio essendi, ma anche: di un « certo tipo » di essere. È questo il modo in cui il « problema della conoscenza » perde in Hartmann il suo prestigio di « filosofia prima » e diventa il più eccentrico pro­ blema, l’ultima Thule della filosofia. Ed è cosi che il pro­ blema del rapporto della filosofia con se stessa, il problema del metodo filosofico, dell’inizio, dell’autocoscienza o del­ l’unità della conoscenza diventano, al limite, una cosa sola, coincidono all’infinito alle spalle della conoscenza in una « x » inconoscibile, o piuttosto incosciente, che è l’esatto rovescio dell’oggetto neokantiano. A questo punto, siamo in grado di capire con quanta ra­ gione si possa definire Hartmann « un pensatore reattivo » '. La dura simmetricità della sua reazione rispetto a Natorp e a Husserl rende assai plausibile la sensazione che il « punto di vista » da lui rifiutato in essi, non solo si capovol­ ga in un nuovo punto di vista, ma vada tanto óltre da ri­ fiutare in essi anche quella specie di « contenuto di proble­ ma » che forse è la ricerca filosofica in quanto non rinuncia a farsi problema a se stessa. Secondo F. Barone, infatti, Hartmann finisce coll’assegnare alla ricerca filosofica « una splendida posizione di superfluità » in quanto, nella sua ontologia, la comprensione filosofica delle categorie 1 J. Klein, Nicolai Hartmann u. die Marburger Schule, in Nicolai Hartmann. Der Denker u. sein Werk, a cura di H. Heimsoeth e R. Heiss, Göttingen 1952, p. 124. 2

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verrebbe ad essere « una copia della copia dei genuini principi dell’essere » In effetti, nonostante l’ammirazione di Hartmann per l’atteggiamento naturale e per il metodo scientifico, un’im­ postazione che non cerca di risolvere ma solo elabora i contenuti di problema, è forse piu simile ad una statica discussione e cernita del già dato e del già fatto che allo sforzo, sempre presente nell’atteggiamento naturale e nel­ la scienza, di risolvere veramente proprio i contenuti di problema. Hartmann risponderebbe che lo sforzo si fa (non se ne parla) e se ne devono vedere i frutti. Ma, co­ me punto di vista, la sua ontologia è un punto di vista che pretende di non essere tale (non si accetta fino in fondo), e pretende di non essere tale nella misura in cui appunto ritiene di neutralizzarsi o di annullarsi (senza che la « fatica » dell’annullamento debba creare una prospetti­ va ed apparire essa stessa) davanti all’essere, al già fatto, di « non esserne » che la corrispondenza, il rispecchia­ mento, l’immagine. Questo non è tipico né della coscien­ za spontanea, che integra e modella gli oggetti percepiti, che inventa, mitizza, filosofeggia, né di quella scientifica che opera con schemi artificiali, lancia la sua rete di ipote­ si, interviene a « provocare » la natura per conoscerla. In­ dicativo è, al proposito, il costante atteggiamento ‘ spon­ taneistico ’ di Hartmann nei riguardi del metodo: il metodo, secondo lui, si può formulare soltanto a poste­ riori, quando lo si è già applicato. E appannaggio degli epigoni. Uno sforzo filosofico di risolvere i contenuti di proble­ ma presupporrebbe naturalmente un concetto non pura­ mente obbiettivo del mondo e della soggettività. Del re­ sto, non si vede perché il mondo debba essere già fatto e non è cosi ovvio che se ne possano conoscere i caratteri pro­ blematici permanenti e le strutture essenziali, quando tutto l’essere reale, compresa la conoscenza che ne abbiamo, 1 F. Barone, Nicolai Hartmann nella filosofia del Novecento, cit., p. 295.

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è temporale e quindi, secondo Hartmann, sempre indivi­ duale e irripetibile. Non si vede perché la temporalità debba essere consi­ derata soltanto come una caratteristica uniforme del reale, comune alla pietra, all’animale, alla coscienza e allo spirito (in quanto sono tutti nel tempo e si consumano) e non anche secondo le strutture soggettive della temporalizzazione. Non si vede perché l’essere ideale debba venir descritto soltanto come un pezzo o ritaglio obbiettivo en­ tro l’essere reale e non anche come risultato di un’attivi­ tà di idealizzazione fondata sul « carattere d’orizzonte » di ogni relazione intenzionale, su quella distanza dell’essere da se stesso che è significato, orientazione, prospettiva, in senso lato soggettività. Giacché questa parola non indica necessariamente una tesi speculativa, ma piuttosto un con­ testo di fenomeni e di problemi. Hartmann parla del tran­ sobbiettivo e del transintelligibile: ciò implica almeno una corte o alone di « apparizioni » possibili non tematiche e il rimando a un orizzonte; ma l’alone e l’orizzonte, a loro volta, non sono apparizioni o datità come le altre, ben­ sì strutture universali dei modi di datità delle « cose stesse ». Quando poi la cosa stessa da descrivere è lo spirito, bisogne­ rà pure riflettere su queste strutture e riconoscere che tale riflessione ha un carattere trascendentale. In generale, come abbiamo visto, l’ontologia non nega queste strutture, ma può sottrarsi al compito di una fenome­ nologia trascendentale grazie alla precisa scelta che ne de­ termina la peculiarità: quella di considerare la « cosa stessa » come una « cosa in sé ». Vediamone il riflesso sul problema dell’essere spirituale. Nell’opera che qui presentiamo, Hartmann distingue tre categorie fondamentali dell’essere spirituale: lo spirito per­ sonale, lo spirito obbiettivo e lo spirito obbiettivato. Lo spirito obbiettivo e quello personale si distinguono dallo spirito obbiettivato perché sono « viventi », mentre que­ st’ultimo non lo è; si distinguono tra loro in quanto, nel­

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lo spirito personale (o individuale) è presente la coscienza, o un certo tipo di coscienza, mentre lo spirito obbiettivo (o comune) ne è privo: non esiste infatti una « coscienza comune ». Il baricentro della « personalità » è nella sua vita morale, cioè nel suo rapporto con le altre persone e col mondo comune: l’individualità della persona è propria­ mente un momento-limite, perché, in quanto spirituale e quindi « espansiva », ogni suo atto riguarda lo spirito comune, inizia e termina in esso. Lo spirito obbiettivo [Gemeingeist] non è sostanziale come quello hegeliano, non consiste di individui né di gruppi, ma è presente in ogni individuo e in ogni collettivo di individui, che ne sono i portatori. Le sue strutture sono quelle della tradizione e del­ la comunicazione o ripresa nel tempo; i suoi « campi » sono quelli del linguaggio, del diritto, della scienza, della morale, del costume, della religione, dell’arte e della tecnica. Lo spirito vivente (personale e obbiettivo) obbiettiva i pro­ pri contenuti in formazioni reali-sensibili (scritti, statue, edifici, ecc.) sottraendoli alla vita: si ha cosi lo spirito obbiettivato che, privo di vita e di coscienza, ha una duplice lacuna e consiste solo dello strato reale materiale e di uno strato spirituale irreale (perché sottratto al tempo) che ne è il contenuto. Il rapporto tra queste tre categorie è caratterizzato da una serie di lacune: lo spirito obbiettivo manca di coscien­ za, mentre la coscienza personale è inadeguata allo spiri­ to obbiettivo; lo spirito obbiettivato manca di coscienza e di vita; lo spirito vivente (personale-obbiettivo) è sepa­ rato dai suoi prodotti. Esse stanno sullo stesso piano in un rapporto di coordinazione reciproca in quanto si richia­ mano e si « integrano » a vicenda (Il problema dell’essere spirituale, cap. XXXVI 3); non starino invece in un rap­ porto di subordinazione e ciò significa appunto che l’unità sintetica dell’essere spirituale è un contenuto di problema che si può elaborare previa descrizione, ma è inutile « impostare » perché non è risolvibile. Lo spirito che l’ontologia descrive è spirito umano, finito e storico: non

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spirito fluttuante o assoluto [schwebender, o abgelöster Geist], quindi, ma empirico e portato dai gradi infe­ riori dell’essere reale che sono la materia, la vita e lo psichismo. La storia dello spirito non è del tutto necessaria, né del tutto libera, almeno nel senso che eventi fisici, vita­ li e psichici, nei rispettivi strati portanti che la condi­ zionano, possono intervenire a turbarne o a determinarne negativamente il corso. Questo spirito non va costruito in base a categorie che gli sono estranee: non in base al concetto di «vita» (Simmel), né a quello di vissuto (Dilthey), né di autocoscienza (Hegel), né di «compi­ mento» (Scheier), ma va indagato nelle sue manifestazio­ ni empiriche, come appunto fa l’ontologia. Per l’ontolo­ gia, però, questo spirito finito, è finito e imperfetto solo perché è la parte « obbiettata », la sola parte visibile in piena luce, dello spirito in sé. Quanto alla soggettività, Hartmann afferma ( cap. X 4) che « il rapporto soggetto-oggetto è una particolare creazione dello spirito », un novum categoriale tipico dello strato spirituale dell’essere. Esso però non riguarda tutto lo spirito, bensì soltanto lo spirito personale, che è sem­ pre individuale ed è anche l’unico che abbia coscienza: la coscienza infatti è una categoria che appartiene allo strato inferiore dello psichismo, ma si protrae nella re­ gione spirituale solo in quanto si sovrastruttura nel rap­ porto conoscitivo soggetto-oggetto. Su questa base si sviluppa poi l’autocoscienza (come sapere mediato di sé, come «io») e quindi anche la personalità vera e propria, che è la personalità morale nel suo rapporto io-mondo, analogo al rapporto soggetto-oggetto ma più ricco e con­ creto (capp. X 4, XI). Lo spirito personale, dunque, è l’unico che abbia co­ scienza, ma la coscienza dello spirito personale è propriamen­ te una sovrastrutturazione della coscienza secondo il mo­ dello puramente formale e relazionale della « coscienza conoscente ». Secondo questo modello, la soggettività è esclusivamente il correlato dell’oggetto (non già l’og­

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getto il correlato di quella!) come risultato di una specia­ lissima operazione della coscienza: l’« obbiettazione ». Per arrivarci, la coscienza si libera dalla tensione istintiva di aderenza al « proprio » « mondo-circostante », che è tipica della coscienza animale, e prende distanza dal­ le cose; cessa di porsi al centro del mondo, si rende conto della effettiva casualità ed eccentricità della propria posi­ zione in esso e, in questo senso, prende distanza anche da se stessa rispetto al mondo, ossia si « conosce » come puro correlato formale di esso: allora il mondo, l’« unico » mon­ do, « le appare come neutralizzato » (cap. IX 2). Questa sor­ ta di involontaria « fenomenologia della coscienza » che, dal­ lo strato animale, attraverso lo psichismo si protrae nello spirito è, se vogliamo, quanto rimane in Hartmann del Bildungsroman hegeliano della coscienza. Sta di fatto che la coscienza è una delle categorie piu « tormentate » nell’onto­ logia di Hartmann. La coscienza, la psiche e la psicologia in genere, hanno scarsissimo spazio nei suoi scritti e non sono quasi mai tematizzate direttamente se non a scopo po­ lemico (ad es., capp. I 3-4, XXXII 4-5, XXXIII); nel che si può vedere, non tanto un’eredità dell’antipsicologismo rigoroso dei marburghiani o di Husserl (perché non è ne­ cessario essere « psicologisti » per occuparsi della psiche e dei suoi problemi), ma un’intima necessità dell’« imposta­ zione » ontologica. Nonostante l’attribuzione della « coscienza » allo spirito personale, tale impostazione comporta, secondo lo schema basilare dell’« obbiettazione », un metodico appiat­ timento della dimensione soggettiva, per cui 1) né Γob­ biettazione, né l’obbiettivazione vengono mai descrit­ te come attività costitutive, 2) la soggettività, intesa in senso ristretto come correlato virtuale e formale del­ l’« obbiettazione » e attribuita in esclusiva allo spirito personale, mantiene un carattere puramente individuale e non è « anche intersoggettività », come in Husserl, 3) l’attività dell’« obbiettivazione » non è attribuita allo spi­ rito personale soltanto, ma è comune ad esso e allo spirito

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obbiettivo, benché questo sia privo di coscienza e non sia soggetto: ciò significa che l’obbiettivazione non è considera­ ta un’attività « soggettiva » e la soggettività, correlato cono­ scitivo e quindi spirituale dell’oggetto, non è però correla­ to originario delle obbiettivazioni dello spirito. In questo senso « il cammino dell’esperienza viva resta nell’ombra, solo i risultati ne balzano alla luce della coscienza ». Il sog­ getto conoscitivo (Γomologo) è dunque correlato dei pro­ dotti dello spirito, ossia dello spirito obbiettivato, come lo è dei fenomeni dello spirito obbiettivo e personale, e cioè solo in quanto « si obbietta » conoscitivamente tali pro­ dotti e fenomeni non diversamente da come « si obbietta » le cose materiali e tutto ciò che è già fatto. Se l’« obbiettazione » non viene descritta come modi­ ficazione intenzionale dell’« obbiettivazione », ma solo co­ me « l’opposto » di questa (benché opposto ne sia sol­ tanto il « telos », che nell’una è l’idea greco-aristocrati­ ca di « teoria » e di « vita contemplativa », nell’al­ tra il concetto servile-artigianale-industriale di « pro­ dotto » e di « vita attiva »); se la soggettività non è « anche intersoggettività » e l’obbiettività non viene descritta come costituzione intersoggettiva del mondo, si che le produzioni dello spirito personale-obbiettivo sono conside­ rate soltanto come obbiettivazioni della « vita » dello spi­ rito; se manca una teoria della costituzione della soggetti­ vità come monade concreta e una teoria della costi­ tuzione dello spirito obbiettivo come società intermonadica a partire dal mondo-della-vita; se lo spirito personale è descritto (cap. XI 2) essenzialmente nei suoi tratti ob­ biettivi (e lo spirito obbiettivo è naturalmente spirito già costituito nei suoi campi e nelle sue categorie); se lo spi­ rito obbiettivato, con « l’enigmaticità » della sua duplice stratificazione, sembra indicare nella stabilità esteriore del­ la formazione reale-sensibile e nella resistenza del materia­ le scelto il carattere essenziale dell’obbiettivazione in quanto tale, tutto ciò, ripetiamo, non è un « difetto » che la nostra acuta e impietosa intelligenza ci permetta di sco-

χχιν

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prive nella filosofia di Nicolai Hartmann, ma è dovuto semplicemente al presupposto-chiave dell’ontologia che consiste, in questo caso, nel trattare lo spirito come una cosa in sé, in generale, in una rinuncia a « costituire l’ogget­ to ». Nel senso di Hartmann, questa è la conseguenza neces­ saria della richiesta eliminazione dei « punti di vista ».

La Problemstellung di Hartmann e, in generale, la sua ontologia critica può quindi essere interpretata come uno dei piu poderosi e sistematici tentativi di distruzione dell’« ideologico » che siano stati compiuti dalla filosofia te­ desca contemporanea. Questo filosofo disincantato, reali­ sta, che fa tesoro della tradizione e disprezza hegelianamen­ te il soggettivismo e lo « spirito d’avanguardia » è poi di una radicalità rivoluzionaria tanto piena di riserbo quanto priva di falsi rispetti umani. Non fosse che come semplice « radicalismo del sentimento », la posizione di Hartmann (simile in questo a quella dell’ultimo Heidegger) è il ten­ tativo di rifiutare un atteggiamento di fondo della nostra tradizione filosofica che, come direbbe Heidegger, ha scam­ biato l’essere con il valore ed occultato cosi il problema del­ l’essere. Un atteggiamento di fondo che, troppo evidente nel­ l’idealismo e nello spiritualismo di maniera, è presente tut­ tavia in tutti quei « punti di vista » che sono il marxismo, il cristianesimo, la fenomenologia, la psicanalisi, e l’ideo­ logia tecnico-pragmatica che accompagna il metodo spe­ rimentale della scienza moderna: « presupporre » l’alie­ nazione, il peccato, il « mondano », l’inconscio, l’impotenza dell’uomo di fronte alla natura; « constatare nel presente storico » lo sfruttamento e la violenza, il dolore, la cadu­ ta dell’intenzionalità, la nevrosi, l’ignoranza dell’uomo nei riguardi della natura; « decidere » di accettare la violenza per eliminare lo sfruttamento, di santificare il dolore per raggiungere la beatitudine celeste, di epochizzare il « mondano » per recuperarne il senso, di rivivere la frustra­ zione rimossa per trasferirla nella luce di un’intersoggettività cosciente e superarla, di « utilizzare » la pro-

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pria ignoranza applicando le proprie teorie unilaterali all’esperienza in un orizzonte di adeguazione teorica e di potenza tecnica illimitato. Tutti questi « punti di vista » infatti, in un modo o nell’altro hanno in comune un model­ lo dialettico fondato sulla « soggettività », o meglio, su un concetto unitario e « centrale » della soggettività che fa di essa lo scandalo, il lievito sempre nuovo e sempre « pre­ sente » di tutto l’essere *. In questo senso, l’ontologia critica di Hartmann è pa­ ragonabile (e paragona se stessa) solo alla «conoscenza» scientifica, non tanto o non solo nel metodo che, per certi aspetti, potrebbe cadere sotto la sua critica dell’ideologi­ co, quanto per la sua impostazione: perché la scienza, che « è impostata ontologicamente in tutte le sue ramifica­ zioni », « fu sempre rivolta all’ente come ente e tale è ri­ masta anche nel suo straordinario sviluppo » (La fondazione dell’ontologia, p. 337). Uno sviluppo che, quantunque sano e autentico nel suo nucleo propriamente scientificoconoscitivo (Il problema dell’essere spirituale, cap. XLI 2), ha le sue momentanee « tendenze » storiche: chi si lascia ingannare da queste ultime e le scambia per l’essenza stes­ sa della scienza non è più in grado di padroneggia­ re l’apparato concettuale che si è venuto accumulando nella tradizione. Cosi, non solo Bergson, i critici francesi della scienza e una certa « scolastica » fenomenologica han­ no finito per condannare la scienza, ma già l’idealismo neo­ kantiano, il positivismo puro e il pragmatismo, avendo escluso i problemi metafisici fondamentali dalla filosofia, hanno poi ridotto la scienza al « pensiero scientifico » come tale, rendendola indipendente dall’essere del mondo. « Essa venne intesa come puro pensiero quantitativo, con il presupposto che il quantitativo sia l’unica cosa esat­ tamente comprensibile... Il qualitativo e, ancor piti, l’au1 Rispetto al carattere soggettivo dei valori e al carattere ideo­ logico degli Standpunkte, assai significativa (e peraltro tanto simile a quella di Scheier) è la concezione hartmanniana dell’« essere in sé » dei valori (vedi Ethik, capp. 14 e 16).

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tentico sostanziale1 rimangono esclusi da ciò che è com­ preso. Ci si limita a relazioni, a leggi, a forme e le si intende come poste, introdotte o addirittura create dal pensiero. A fondamento di quest’ultima concezione c’è di nuovo il pregiudizio che le relazioni non siano qualcosa dotato di essere, ma qualcosa di puramente pensato... Queste tenden­ ze filosofiche e tutte le sottospecie da esse generate costi­ tuiscono in fondo un’unica grande esclusione della cono­ scenza dalla scienza... (Questa esclusione) ha influenzato le sue inferenze teoretico-speculative. Oggi ciò è chiara­ mente visibile nelle ardite conseguenze tratte dalla fisica teorica. Lo stesso concetto di legge naturale, che un tem­ po era fondamento della determinazione esatta, è ora in via di dissoluzione... Nelle formule matematiche ci si allonta­ na dal dato effettuale e si rovescia infine addirittura la si­ tuazione problematica. Non si chiede più quali formule meglio corrispondano al dato, ma quale interpretazione del dato corrisponda meglio alle formule calcolate: come se fossero le formule e non i fenomeni indicabili il saldo terreno su cui si eleva tutta la rimanente costruzione » (La fondazione dell’ontologia, cap. XXXVI d). Come abbiamo avvertito, quella che abbiamo cercato di disegnare è solo la Problemstellung di Hartmann. Ma, come gli eterni contenuti di problema, anche il problema della filosofia può essere di quelli che l’uomo non può « impostare » una volta per tutte di sua testa (anche se poi finisce sempre col farlo). Cosi, molti frutti positivi pos­ sono venire da un'impostazione che, come tale, resta fatal­ mente discutibile, e una filosofia fortemente originale può contenere la più abile ed efficace « elaborazione » di motivi universali e di problemi comuni a un’intiera cultura. Pro­ prio rifiutando il « panmetodismo » di Natorp e la povertà fenomenologica del suo trascendentalismo logico, Hartmann riconquista la connessione empirico-fenomenologica tra l’og­ 1 Sul concetto di « sostanza » vedi Hartmann, Philosophie der Nalur, capp. 23-24; e le osservazioni di Jean Wahl in Les aspects qualitatifs du Réel, Paris, C.D.U., 1955, pp. 102-19.

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getto e il metodo, il senso della specificità delle categorie e del loro uso pertinente entro specifici universi di discorso, la cautela critica nei riguardi delle false analogie e dei di­ scorsi non verificabili. Proprio perché la fenomenologia di Hartmann non è preceduta da un’« epoche » di tipo husserliano, egli sarà in grado di utilizzare direttamente, per la propria ontologia, il lavoro filosofico della tradizio­ ne, dall’aporetica aristotelica allo spirito obbiettivo hege­ liano (già rivalutato dai neokantiani e da Simmel), al cri­ ticismo kantiano e, in generale, ai vari contributi dati dalla filosofia o dalla scienza all’elaborazione di questa o quella « categoria dell’essere ». Proprio perché, a differenza di Heidegger, s’accosta all’« Essere » come a un « ente intramondano » e, invece di superare o distruggere « la » me­ tafisica, si limita a ridurla al minimo, la sua eliminazione dei punti di vista non è il rifiuto di « vedere » le essenze per « ascoltare » la parola dell’Essere, ma è il ritorno a quel modo di vedere che, a torto o a ragione, egli considera ori­ ginario e naturale; e la sua mancanza di rispetti umani non è la fine dell’umanismo in quanto tale ma, a torto o a ragio­ ne, la fiducia nell’opera e nel lavoro dell’uomo come ente storico e finito. Hartmann ha percorso una sua strada, ma è una strada che chiunque sia culturalmente in grado di farlo, può ri­ percorrere con lui. Vista, come va vista, in connessione con le filosofie del « metodo », dell’« inizio » e della « fine », dalle quali e rispetto alle quali si è sviluppata e definita, la filosofia di Hartmann, tutta quanta, sembra volerci sugge­ rire che questi problemi devono coincidere ed estinguersi nella ricerca concreta. Quello che resta è solo il lavoro ef­ fettivamente compiuto (die gegangenen Wege di Hus­ serl), e quello che conta è solo il lavoro da compiere. A questo proposito, il lettore potrebbe essere colpito dal­ l’affermazione ricorrente di Hartmann che « la coscienza di­ vide gli uomini, lo spirito li unisce ». È un’affermazione che sembra suggerire l’esistenza di un rapporto dialettico tra la coscienza e lo spirito (o, se vogliamo, tra ideologia e seien-

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za) ammesso il quale, però, la divisione dovrebbe essere an­ cora visibile nello spirito e l’unità dovrebbe esser già presen­ te nella coscienza. Allora, la direzione dalla coscienza allo spirito sarebbe la direzione dalla divisione all’unità, l’uni­ versalizzarsi dell’esistenza; e anche Γ« espansività » del­ lo spirito dovrebbe essere in qualche modo già presente nell’intenzionalità della coscienza (perché, come dice Antonio Banfi, « la coscienza è la prova fenomenologica del­ lo spirito nel soggetto ») *. Ciò, naturalmente, potrebbe in­ durci ad esaminare a fondo il problema e il fenomeno della « coscienza ». Hartmann osserva giustamente che, in essa, la tendenza alla « verità » è sempre ostacolata da correnti subdole e forti (mitiche e speculative) che danno «l’appa­ renza di una maggiore profondità ». Tale profondità, av­ verte il filosofo con antica severità, è solo die Tiefe der Niederung, la profondità della bassura, mentre quel­ l’apparenza è dovuta alla mancata perlustrazione della loro origine1 2. Se è vero, e nella misura in cui è vero, che è la coscienza a dividere gli uomini nei loro mondi-circostan­ ti, lo spirito ad unirli in un unico mondo, Hartmann ha dunque fatto la prima parte di un lavoro che andava fatto e che non è mai finito: per capire l’origine della divisione, lo sforzo dello spirito che accomuna e il senso di questo « mondo di tutti », a noi resterà sempre da « perlustrare », alla radice dell’« ideologico », la regione sconosciuta (che, perciò, ha molti nomi) della coscienza, della sogget­ tività o dell’esistenza, il mondo della percezione o della vita o della produzione della vita.

Alfredo Marini

1 Vedi, per es., Il problema dell’essere spirituale, pp. 492-493. 2 Alla Undurchschautheit ihrer Herkunft (Il problema dell’es sere spirituale, cap. ix 4, 1).

IL PROBLEMA DELL’ESSERE SPIRITUALE

PREFAZIONE

Determinare l’oggetto delle scienze dello spirito nelle sue specificazioni, quali la letteratura, l’arte, il linguag­ gio, la scienza, la religione, la morale, il diritto ecc., è un compito che riguarda queste scienze stesse. In quella molteplicità, tuttavia, esso costituisce un’uni­ tà ed abbraccia fenomeni che insieme si contrappongono sia al mondo materiale, che al non mena molteplice oggetto delle scienze della natura: in questo senso, la sua determina­ zione sfugge ampiamente alla competenza e al metodo delle scienze dello spirito e diventa tema di ricerca filosofica. Le specifiche branche del sapere possono benissimo mo­ strarci come si configuri un determinato processo storico di evoluzione letteraria o artistica, ma non quali valori d’es­ sere possegga tale sviluppo in se stesso, e quale sia la sua relazione nei confronti dell’essere, piu rozzo, del mondo delle cose entro il quale anticamente si dispone. A questo punto, basta guardare per accorgersi che qui emerge il problema generale dell’essere spirituale in quanto tale. È il problema di cui si occuperà questo libro. Non si fraintenda il nostro assunto. L’essenza dell’essere spirituale, in ogni sua forma fenomenica, è profondamen­ te enigmatica. Il problema ad essa relativo è, in fondo, un problema metafisico. Non appartiene, cioè, a quelli che si possono delimitare, trattare e risolvere con procedimento sommario. Inoltre, la sua storia è seminata dei più gravi er­ rori. Quasi tutti i tentativi che sono stati fatti di capire l’essere spirituale sono caduti nell’unilateralità, nel pregiu­ dizio tradizionale o nella costruzione speculativa; oscil-

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PREFAZIONE

lana prevalentamente tra gli estremi di una visione del mon­ do, tendono a considerare lo spirito, o come fondamento di tutte le cose, o come un puro accessorio delle cose. Che, in tal modo, esse non possano rendere giustizia al feno­ meno dell’essere spirituale — in quanto risultanza comples­ siva di una molteplicità data — è facile capire. Questo stato di cose, ormai, non è piu un segreto. Ep­ pure sempre nuove teorie, nelle quali ritornano vecchi pre­ giudizi, si incaricano di coprirlo di nuovo. È come se l'e­ sperienza storica, che lo spirito fa del grande enigma del proprio essere, per lui non esistesse affatto. Il compito di queste ricerche, per contro, è quello di render palese e dimostrare coi fatti che esiste una via d'ac­ cesso praticabile, la quale fa tesoro di questa esperienza sto­ rica e si attiene, per il resto, ai puri fenomeni della vita spiri­ tuale stessa, senza perdersi in ragionamenti grandiosi; una via che inizia sempre da ciò che è palpabile e a portata di mano, se necessario da ciò che è apparentemente esterio­ re, ma tuttavia cerca e scopre l’essenza dell’essere spirituale meglio di quanto non facciano le teorie costruttive. Si tratta di una via che, per certi rispetti, è già stata tentata da qualche precursore. Il merito maggiore spetta a Wilhelm Dilthey e al suo modo di lavorare, a metà tra la sto­ ria dello spirito e la filosofia. Altri poi hanno saputo continuare, in altre direzioni, l’opera di tutta la sua vita. Se consideriamo i diversi domini parziali del problema, tro­ viamo una serie di contributi preziosi. Ma la varietà dei fe­ nomeni è ben più ampia e, per quanto ne so, non è mai sta­ ta affrontata, nei suoi tratti fondamentali, come un tutto. Direi di piu: che neppure la pericolosa eredità di Hegel è stata valutata nelle sue piu feconde intenzioni. Chi, al pro­ posito, aveva assunto un atteggiamento critico ha sempre sentito troppo fortemente il pericolo, chi invece aveva incli­ nazioni speculative ne è stato senz’altro vittima. Devo dire esplicitamente, in questa sede, che è stata proprio l’interiore discussione con la filosofia hegeliana del­ lo spirito, durata molti anni e ripresa sempre di nuovo, ad aprirmi l’accesso al problema di cui presento qui gli sviluppi.

PREFAZIONE

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Che in Hegel, dietro la metafisica dello spirito, ci sia un saggio prezioso di autentica e storica fenomenologia del­ lo spirito — e non intendo, con ciò, l’opera che porta questo titolo —, è un giudizio della cui importanza ho preso co­ scienza solo lentamente, nella misura in cui venivo liberan­ domi della dialettica e della metafisica hegeliane. Ciò signi­ ficò per me che, circa il problema dell’essere spirituale, c’era bisogno di un’altra distinzione tra ciò che è vivo e ciò che è morto, in Hegel, oltre a quella che Croce, a suo tempo, fu in grado di dare. Di qui, fino alla visione organica della enorme complessi­ tà del problema, la strada era ancora lunga. Da solo, nel pen­ siero solitario, difficilmente sarei riuscito a percorrerla. L’aiu­ to mi è venuto da un gruppo di giovani intelligenze che, negli anni 1929-30, si raccolsero nel mio circolo di discus­ sioni a Colonia e con me, per due semestri ininterrottamente, indagarono sui problemi della filosofia della storia. Nei protocolli di quelle sedute è delineata buona parte di ciò che costituisce nei suoi tratti fondamentali il contenuto e l’indi­ rizzo di questo libro. È nell’essenza di simili discussioni che il mio e il tuo del bene spirituale sfumino l’uno nell’altro e il contributo di ciascuno scompaia nella cosa comune. Il tut­ to è però valorizzabile solo in modo unitario, quantunque l’autore non possa considerarlo come soltanto suo. In questo senso non posso considerare soltanto mio questo libro. Ed ecco i nomi di coloro che, a mio parere, ol­ tre a me, vi hanno contribuito maggiormente: Heinrich Springmeyer, Robert Heiss e Bodo v. Waltershausen. Sono nomi che oggi non dovrebbero essere del tutto sconosciuti agli specialisti. Con questo, non intendo liquidare l’aiuto di questi col­ laboratori con un semplice grazie. Le cose stanno, piuttosto, cosi: ciò che io presento in questo libro è, in piu parti, sia opera loro che mia. E quanto ciascuno di essi in se­ guito dovesse rivendicare a sé, dovrà essergli senz’altro rico­ nosciuto. N. H. Berlino, agosto 1932 3.

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PREFAZIONE

PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

Questa seconda edizione arriva tardi. Avrebbe dovuto apparire dieci anni fa, perché già allora il libro era esaurito. Ma un libro che parla dello spirito e della vita storica, della sua potenza e della sua realtà, era sgradito a chi allora deci­ deva che cosa i lettori tedeschi dovessero leggere e che cosa no. Cosi la nuova edizione, nonostante gli sforzi dell’edito­ re, non ebbe luogo e, da allora, l’opera è mancata sul mer­ cato librario. Se oggi riprende di nuovo le vie del mondo, il mondo che trova è mutato, e la sua fortuna può ben essere un’altra. Se lo spirito di cui è testimonianza corrisponda allo spirito al quale parla, se questo si riconosca in quello, resta però da vedersi. N. H. Göttingen, gennaio 1949

INTRODUZIONE FILOSOFICO-STORICA

1. I

TRE COMPITI DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA

Il problema dell’essere spirituale non è senz’altro quello della filosofia della storia: né la storia è senz’altro storia del­ lo spirito, né lo spirito senz’altro storicità. Vero è che lo spirito ha sempre una sua storicità e che con storia, in sen­ so proprio, si intende sempre storia dell’uomo. L’uomo è un essere spirituale, l’unico, di questa specie, a noi noto. Non è certo « soltanto » spirituale ma, per l’appunto, « an­ che » ed essenzialmente spirituale. E, in quanto tale, è storico. L’essere a-spirituale non ha storia. Questa relazione accosta immediatamente il problema del­ l’essere spirituale all’ambito problematico della filosofia della storia. È necessario qui, prima di ogni ricerca, delimi­ tare e fissare positivamente il problema nelle sue articolazioni. A questo scopo, la cosa più utile è rifarsi consape­ volmente agli studi già compiuti, e non c’è dubbio che questi riguardano, oggi, molto più i problemi della filosofia della storia che quelli dell’essere spirituale. Ecco la ragione per cui questa introduzione deve essere filosofico-storica. Con ciò, essa è costretta a descrivere una deviazione. Ma questa deviazione, data la posizione del problema, è ancora la via più breve e quindi, relativamente ad essa, la più diritta. Quanto poi allo stato del problema, neppure esso è pacifico. E questa è una caratteristica importante dei tentati­ vi filosofico-storici contemporanei. Ci si chiede a die serva una filosofia della storia, accanto alla ricerca storica positiva; a quale domanda essa debba rispondere. E, già su questo

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INTRODUZIONE FILOSOFICO-STORICA

punto, non c’è unanimità. Si è d’accordo soltanto sul fatto che vi sono problemi della storia che non sono quelli della storiografia. Ma cosa essi siano e su quale questione fonda­ mentale convergano, è controverso. In ogni scienza, là dove sorgono controversie, si ha anche un rapporto vivo ai problemi, vi sono prospettive aperte. Quanto alla filosofia, poi, essa ha imparato sempre e soprattut­ to attraverso scontri e battaglie. Proprio la varietà di opinioni contrastanti sul problema filosofico della storia è istruttiva. Essa dimostra che qui s’avrebbero da risolvere a un tempo, più d’un gruppo di questioni. E utile allora prendere sul serio e valutare attentamente questa disparità. Infatti, proprio la molteplicità, sia dei problemi che dei procedimenti, po­ trebbe indicare che, in questo caso, non tutto si riassume in un’unica questione fondamentale — o anche che la questio­ ne di fondo, che forse vi si nasconde, non è ancora matura. Si possono qui distinguere tre gruppi di problemi, presen­ ti tutti nel pensiero contemporaneo, ma molto chiaramente distinti tra loro a seconda del contenuto, dell’orientamento degli autori. 1. Conosciamo, per mezzo delle fonti, solo parti del processo totale. Come si svolge il processo storico nella sua totalità? Se ne inseguiamo la tendenza oltre il presente, verso il futuro, in che direzione lo vediamo muoversi? Ha esso mete sue proprie? Ubbidisce a certe leggi? 2. La nostra conoscenza di ciò che è storicamente lontano non è soltanto lacunosa, ma anche inadeguata, piena di pregiudizi e di errori abitudinari. Come deve lavorare una storiografia che pretenda a validità scientifica? 3. La nostra vita e la nostra conoscenza si svolgono entro un solco storico. Noi lo conosciamo ingenuamente e solo nella sua immediatezza; prendiamo per assolute le sue forme e con­ sideriamo noi stessi, giudici obbiettivi. In che modo, invece, sia noi che il nostro storico comprendere, siamo storicamen­ te condizionati? Qual è la struttura ontica della nostra sto­ ricità? E come superare, nella ricerca e nella comprensione, la nostra condizionatezZa storica?

INTRODUZIONE FILOSOFICO-STORICA

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Di questi tre gruppi di problemi, il primo è quello della metafisica della storia; il secondo, quello della metodologia del pensiero storiografico; il terzo è quello dello storicismo e del suo superamento. Il primo ha ancora in comune con la ricerca storica positiva, l’oggetto: l’andamento della sto­ ria universale; diverso è solo il modo di accostarlo. Il suo atteggiamento è ingenuo; le teorie che produce, tutte quan­ te dogmatiche. Il pericolo, cui resta esposto, è quello di ogni speculazione: il superamento costruttivo dei limiti di ogni sapere possibile. Nel secondo gruppo di problemi com­ pare la critica filosofica del pensiero storiografico: radicale quanto basta per interessare non solo la speculazione relativa alla storia ma anche, e insieme, l’indagine positiva dello storico. Lo storicismo, infine, riporta nuovamente il proble­ ma della critica a quello del processo storico, in quanto cer­ ca di cogliere quegli aspetti, ai quali la critica si rivolge, co­ me (prodotti di quello stesso sviluppo storico che, per loro mezzo, andrebbe compreso. Sembrerebbe cosi, che i tre gruppi di problemi si scaval­ chino secondo una linea ascendente univoca. Si sarebbe, an­ zi, tentati di vedere, nel terzo, una specie di sintesi dei due precedenti — se non che, proprio qui, il rinvio al processo stesso sotterra l’univocità del problema. Se il sapere relativo al processo storico è, esso stesso, storicamente condizionato, allora ogni conoscenza critica di questa condizionatezza sarà, a sua volta, condizionata a un sapere relativo al processo storico. Siamo evidentemente, di fronte a un circolo. La cri­ tica cade prigioniera nella sua stessa rete. Questo gruppo di problemi dello storicismo, pur costituendo un compito conseguente e ineludibile è, nei suoi presupposti, dialetti­ co. E, finché non si riesce a sciogliere la dialettica, è illusorio sottrarvisi. Per questa ragione, dobbiamo provvisoriamente conside­ rare i primi due gruppi di problemi, come da essa indipenden­ ti e impregiudicati, per vedere in che misura abbiano deter­ minato lo stato presente della filosofia della storia.

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2. La

INTRODUZIONE FILOSOFICO-STORICA

metafisica della storia

La molteplicità della interpretazioni speculative della storia non si restringe alla vera e propria filosofia della storia. Se ne trovano già nel pensiero mitico. Ben nota è l’anti­ chissima concezione secondo la quale, in principio starebbe una « età dell’oro », una condizione di .perfezione paradisia­ ca, rispetto alla quale tutti gli sviluppi successivi non sareb­ bero che un incessante peggioramento, e il processo storico, quindi, un unico grande decadimento. Più recente, invece, la prospettiva opposta, che pone in un lontano futuro la per­ fezione e la felicità e vede ottimisticamente nel processo cosmico-storico degli eventi, un’ascesa verso di esse. Ne tro­ viamo traccia, a livello della grecità, non solo nell’utopia platonica, che crede visibilmente ancora a una vicina imma­ gine del futuro, ma anche nella teoria contrattuale, cre­ sciuta in un terreno ben più realistico-disincantato, quale ci è conservata in Epicuro. Per il pensiero dei popoli cristiani, fu Agostino a dar for­ ma, in modo rimasto poi classico, al concetto di ascesa, co­ me realizzazione ed espansione del regno di Dio in terra. Egli delineò così l’idea fondamentale di una visione teleo­ logica della storia, sulla quale si modellarono le teorie del­ la storia dell’idealismo tedesco. In contrasto con l’idea herderiana di un processo univer­ sale di sviluppo che mostra ancora chiaramente la forma di un processo naturale di tipo superiore, si fa luce in Kant, con tutte le cautele della sua concezione criticistica, il pen­ siero di uno scopo finale della storia, di carattere morale. Le forze che tendono alla realizzazione di questo scopo non sono, è vero, forze morali — esse si costituiscono, piuttosto, nell’« antagonismo » delle disposizioni e degli interessi uma­ ni — ma sono tali, comunque, da indurre l’uomo alla « socie­ tà civile » e alla « libertà sotto leggi esteriori ». La teleo­ logia dello scopo finale non viene ancora elevata a tesi meta­

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fisica: essa si cela ancora dietro la disponibilità di un « come se » — concepito, s’intende, non come una pura finzione. I sistemi speculativi dell’idealismo tedesco abbandonano poi, come nei fondamenti, cosi anche a proposito del proble­ ma della storia, ogni riserva critica. Su questo punto, Schel­ ling precedette tutti col Sistema dell’idealismo trascendenta­ le (1800). Dello scopo finale non è qui piu questione. Il problema è solo: come si debba pensare garantita la sua rea­ lizzazione nella storia. Tale garanzia non può trovarsi nell’agire dell’uomo, non già perché questo agire è limitato e neppure perché l’uomo manchi di libertà, anzi, proprio a causa della libertà che l’uomo ha. Libertà significa proprio il contrario di ogni garanzia per una direzione coerente del processo; essa è essenzialmente libertà per il male come per il bene e non può quindi, per sua natura, assicurare la tenden­ za verso il bene. Schelling ne trae argomento per conclude­ re alla necessità di un agire divino nella storia. Solo una ne­ cessità che abbracci ogni libertà e la recuperi entro il suo più ampio corso, può assicurare la realizzazione dello scopo fi­ nale. In questo modo, se l’uomo appare qui come attore sul palcoscenico della storia universale, è però Dio stesso l’au­ tore del grande dramma. Ma questo è solo l’inizio. Una volta superati i limiti della prudenza, non è facile fermarsi. Lo scritto di Fichte Lineamenti dell'epoca presente (1806) che volle essere un processo aff'illuminismo e, a ben guardare, in effetti lo fu, contiene una periodizzazione della storia secondo due punti di vista, quello della ragione e quello della libertà, che costi­ tuirebbero, insieme, lo scopo finale. In principio domina la ragione, incontrastata ma anche incosciente di sé e senza libertà: uno stato di innocenza che ha il suo modello eviden­ te nel mito del paradiso. Ad essa segue l’epoca della libertà e del peccato incipienti. La libertà si indirizza ora verso una ribellione contro quei comandamenti della ragione, che essa attribuisce a un’autorità esterna, non sapendo che sono, inve­ ce i suoi. Questo sviluppo sfocia nella lotta aperta contro la ragione e la libertà scatenata festeggia l’affossamento defini­

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tivo di ogni superiore validità. Tale è, secondo Fichte, l’il­ luminismo che egli descrive come l’epoca, appunto, della piena peccaminosità. Ma la libertà non può sussistere come pura rottura dei vincoli, non può sussistere cioè senza la ragione. Essa dunque, una volta svegliatasi, finirà col rico­ noscere che i valori, contro cui si era scagliata, sono i suoi stessi valori. Essa scopre così di essere una cosa sola con la ragione, alla quale dovrà ritornare come all’adempimento della propria essenza. Perciò Fichte vede emergere, nel corso successivo della storia universale, un’epoca di incipiente giustificazione e santificazione, sulla cui soglia già si tro­ verebbe la sua stessa attività filosofica. La perfetta ricon­ ciliazione di ciò che, fin dall’inizio, era sostanzialmente uno, occupa, per conseguenza, la quarta e la quinta epoca: sin­ tesi di libertà e ragione, età aurea del futuro, compiuta giustificazione e santificazione. Due cose colpiscono in questa costruzione della storia: l’unificazione di ascenso e descenso e il diverso andamento dei due momenti costitutivi dello scopo finale, ragione e li­ bertà. Lo stato di felicità sta all’inizio e alla fine, l’infelicità sta nel mezzo. Però, questa è depressione soltanto rispetto alla ragione. Essa è, infatti, peccaminosità. Ma la peccami­ nosità è una fase ascendente delia libertà. Nell’immagine fichtiana della storia, la libertà comincia col nulla: al­ l’inizio c’è ragione vincolata e senza libertà, nel mez­ zo libertà scatenata senza ragione, solo alla fine le due si incontrano e si potenziano a vicenda avvicinandosi alla perfezio­ ne. Il corso della libertà nella storia è, quindi, un’ascesa uni­ voca, mentre la ragione comincia col decadere, e solo a partire dal punto di massima depressione ricomincia a salire. Libertà e ragione descrivono insieme e contemporaneamente, curve diverse: si tagliano la strada e si mancano a vicenda, per incontrarsi solo alla fine. Ciò non è senza significato per la metafisica della storia. Vi è contenuta, in nuce, l’intuizione che il divenire dell’uma­ nità, quand’anche lo si spieghi in modo idealistico-teleolo-

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gico, non può essere compreso in base all’unità di un solo principio.

3. La

filosofia della storia di

Hegel

La filosofia hegeliana ha portato questo conflitto ideale a una soluzione ohe si lascia alle spalle le unilateralità dei predecessori e supera, nella sua grandiosità, tutti i risultati già raggiunti dalla filosofia circa il problema della storia. E poiché con il concetto di storia che essa ci offre, le presenti ricerche dovranno per piu lati (e anche proprio a proposito dell’essere spirituale) fare continuamente i conti, non pos­ siamo fare a meno di richiamarne, qui, le tesi di fondo. La formulazione che stiamo per darne, implica da parte no­ stra una scelta che non esaurisce certo, né lo pretende, la ricchezza del pensiero hegeliano in proposito; tale scelta è in funzione di quanto seguirà. 1. La metafisica idealistica della ragione diventa, in Hegel, una metafisica dello spirito. Portatore del proces­ so storico è lo « spirito obbiettivo »: un essere di livello su­ periore a quello dell’uomo singolo, una generale sostanza-spiri­ to dotata di un modo d’essere e di una vita propria. Riferiti a questa, gli individui spirituali si comportano come acciden­ ti. Ciò che conta veramente, è solo lo spirito obbiettivo in essi, non essi stessi. Gli individui sono solo espressioni par­ ziali della sua essenza. Non sussistono fuori di lui e ne sono anzi, in tutto e per tutto sostenuti e portati. Potrebbero, ac­ cecati, « separarsi » [Tabscheiden] da lui, ma lo « spirito se­ parato » è condannato a morte. 2. La tesi generale di fondo è questa: che lo spirito è tutto. Lo spirito è anche, secondo Hegel, la verità del non-spirituale, del materiale, del vivente — ma appunto, in forme che non sono la sua propria. Esso si sveglia nell’uomo, giunge alla coscienza e vi si riconosce, ma in modo per nul­ la ancora completo e anzi, dietro la pluralità degli individui,

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resta la sostanza spirituale comune, non riconosciuta, della quale e nella quale essi vivono. 3. La generale sostanza-spirito non è solo il portatore ma anche la guida del processo cosmico. Al governo del mondo sta la ragione e il piano del corso storico è il venire a sé della ragione. 4. Essenza della ragione è la libertà; scopo finale della storia: l’essere della libertà, la sua autorealizzazione. A questo scopo finale, il processo si dirige da sé, qualunque cosa si proponga, in esso, l’uomo singolo. Anche nel suo fa­ re è implicita sempre, ignota a lui, la tendenza dello spirito verso se stesso. 5. La storia universale è quindi il « progresso nella co­ scienza della libertà », e questa è la sua interna legge co­ stitutiva. Lo spirito è bensì « l’in sé libero », ma la libertà è «effettiva » quando chi l’ha, anche la conosce; nel caso con­ trario, egli è in realtà schiavo, piuttosto che libero. In tutti i tempi, i popoli sono staiti liberi nella misura in cui « sono stati consapevoli della loro libertà ». 6. Tuttavia, non è che l’accento sia posto esclusivamente sullo stadio finale; ed è questa la principale differenza tra la visione hegeliana e quella fichtiana della storia: l’essenza della storia è il processo stesso; ogni stadio è una caratteri­ stica figura dello spirito, che non si ripete. Nel risultato, il processo è soltanto superato, e l’eredità spirituale dei popo­ li è che, in essi, si conserva il vero. Visti nel tutto, proces­ so e risultato devono coincidere nel loro contenuto. Perché « la verità è il tutto ». 7. Nel processo, cosi inteso, uno « spirito del mondo » unitario attraversa la pluralità delle figure storiche. Ma, poi­ ché quello deve svolgersi in queste, esso dovrà pure scindersi nei molti « spiriti dei popoli », e dar luogo così a diversi « principi » o ideali fondamentali dello spirito storico. Ogni singolo spirito di popolo ha il suo proprio « principio », che è suo compito realizzare nel mondo. Il processo storico è il succedersi degli spiriti dei popoli

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e perciò, in quanto storia delle idee, la trasmutazione dei « principi » dello spirito. 8. Un simile « principio » comincia a realizzarsi da sé, nella vita storica di un popolo, molto prima che di esso si abbia coscienza. Il principio agisce come un’interiore de­ terminazione del destino, come una missione oscuramente sentita, entro un dato cerchio di popoli, in un dato tempo. La realizzazione del principio è, però, l’autorealizzazione di quel popolo. 9. A ciò corrisponde la periodizzazione dello sviluppo di uno spirito di popolo, secondo i concetti di giovinezza, maturità e vecchiaia. La giovinezza di un popolo, l’età in cui faticosamente si fa luce è, per Hegel, l’età felice della sua storia. Qui l’individuo è ancora tutto protetto nella semi­ incoscienza dello spirito comune; non ne è ancora uscito per rendersi indipendente e si sente ancora esclusivamente membro del tutto. Qui il popolo opera attingendo inconsapevolmente al proprio principio e, quanto più s’awicina alla propria matu­ rità e vecchiaia, tanto più l’operosità trapassa nel godimento dei suoi propri frutti. Ma nel godimento il vigore si sfibra; l’individuo sale in primo piano, sente di essere qualcosa di indipendente e si stacca cosi dal tutto. È l’inizio della dis­ soluzione: un popolo che ha realizzato quello che era il suo compito non ha più nulla da fare al mondo e si estin­ gue. A godere davvero dei suoi frutti, saranno i popoli nuovi, che portano nel mondo un nuovo principio. 10. Strumenti della autorealizzazione dello spirito sono le private passioni degli individui. La ragione si serve di esse e, in esse, giuoca l’uomo nella sua stessa interio­ rità: si che, perseguendo degli scopi personali, questi compie sempre anche qualcos’altro e contribuisce cosi alla realizzazio­ ne del principio comune. È questa 1’« astuzia della ragio­ ne » nella storia. In questa forma, secondo Hegel, la ragio­ ne agisce nella storia come provvidenza; e a ciò si connette la caratteristica posizione che egli assegna alla libertà. L’uomo serve il principio, senza saperlo; la sua moralità consiste però

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anche nel servirlo consapevolmente mediante una libera de­ terminazione di sé e per amore del principio. Cosi, la sua libertà è implicita nella predeterminazione. 11. In generale, né il singolo né la massa sanno quale sia nel loro volere e nel loro impegnarsi, la cosa effettivamente « voluta ». Ogni cosa grande, nella storia, accade però là, dove essa sa­ le al livello della coscienza ed è perseguita in un impegno li­ bero e personale. Perciò è importante dire alle masse die co­ sa esse propriamente e realmente « vogliono »: ecco il com­ pito e l’opera della grande individualità storica. I grandi uo­ mini della storia non sono quelli che, con le proprie idee, precedono le masse e, per cosi dire, le trascinano a ciò che esse non « vogliono »; ma quelli che sanno dire alle masse che cosa esse « vogliono realmente ». Il volere, da solo, non basta a fare, cosi come l’esser liberi senza coscienza: bisogna anche sapere ciò che si vuole. L’individuo assurge a grandez­ za storica nella misura in cui si eleva alla coscienza dello spi­ rito comune. Questo gli conferisce insieme il suo esser-per-sé. 12. Perciò è illusorio voler correggere il mondo con la violenza, e lo è anche ogni appello al « come dovrebbe esse­ re », ogni rivolgimento non organico, ogni presunzione in­ tellettualistica di un singolo o di un gruppo, ogni proiezio­ ne ideologica. Nella realtà storica c’è solo il corso costante e intimamente necessario dello spirito obbiettivo. Volerlo superare o precedere è una forma di accecamento. Il vero è in ogni epoca qualcosa di determinato e diverso: è, per cia­ scuna, quello che, nel corso dello spirito obbiettivo, sta ac­ cadendo, ciò che via via corrisponde al suo storico progre­ dire. E cosi, ogni pessimismo è malposto: il bene non è fissa­ to allo scopo finale, è sempre già qui, ed è sempre in fieri. Il solo a non saperlo vedere, è chi non ne è partecipe. E aspira perciò ad un preteso « meglio ». Ma costui è già su­ perato dalla storia stessa: proprio la storia esercita la cri­ tica, in quanto lascia cadere ciò che non sa modificarsi. Essa è di volta in volta il giudizio universale.

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4. Filosofia

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materialistica della storia

Non è il caso di sottoporre a una critica le tesi hegeliane. Per la verità, esse sono state criticate spesso, e sempre con lo stesso risultato. È ben facile mostrare dove e come esse supe­ rino speculativamente i limiti del sostenibile; ma con ciò, poco si è guadagnato se, a nostra volta, non si disponga di punti di vista e di criteri capaci di spiegare la ricchezza dei fenomeni storici che, pure, esse abbracciano. Che presup­ pongano una metafisica e che tutte le critiche colpiscano solo le conseguenze di questo presupposto, è fuori dubbio. Nessun contemporaneo accetterà queste tesi, cosi come sono formulate. E tuttavia è facile rendersi conto che non si rende loro giustizia semplicemente col disfarsene. È una cosa che capita di continuo, in filosofia: quando qualcosa è facile a confutarsi, vuol dire che il suo senso non sta in ciò che è confutabile. Una presa di posizione non soltanto critica ma capace anche di una valutazione positiva di queste tesi, sarà quindi compito di una successiva ricerca. In che misura que­ sto compito eminentemente costruttivo sia stato finora tra­ scurato, non è qui possibile anticipare . * Basterà frattanto tener presente al di qua di ogni valutazione, l’immagine, il puro e semplice schema, della storia, che queste tesi ci offrono. A questo scopo, è istruttivo contrapporre, alla me­ tafisica hegeliana della storia, il suo contrario, quella « materialistica ». Marx la elabora in consapevole opposizione ad Hegel. Essa è, in vero, piuttosto una teoria della società che della storia, ma in quest’ultima dimensione essa penetra tanto pro­ fondamente, che il irisultato ne è ancora una volta uno sche­ ma costruttivo della storia. Il contrasto sta nel punto di par­ tenza che, qui, non è più la sfera dello spirito, ma quella del bisogno e dell’economia. Nella storia, secondo Marx, i rapporti decisivi sono sem1 Cfr. sotto: Parte II, cap. XVIII.

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introduzione filosofico-storica

pre quelli economici, e cioè specialmente i rapporti di pro­ duzione. E decisivi essi sono, non soltanto per il mercato, la borsa, la politica commerciale; non solo per il modo di vita e l’esterno benessere, ma anche e proprio per le correnti spirituali e la loro vicenda. Al fondo di ogni attività umana e di ogni sviluppo degli umani rapporti sta un costante biso­ gno vitale. L’uomo deve guadagnarsi la vita; deve procu­ rarsi ciò di cui ha bisogno; deve « produrre ». Ma ciò dipende, a sua volta, dai mezzi e dalle forze che egli impiega nel suo lavoro. E cioè, soprattutto dal genere di strumenti usati e di forza naturale sfruttata, oltre che dal tipo di forza lavorativa che egli stesso vi impegna. La forma di produzione, quindi, è determinata dai mezzi di produzio­ ne; ma, mentre tutti possono possedere un semplice utensi­ le, solo il capitalista avrà le macchine. La comparsa della macchina come mezzo di produzione, costringerà il lavorato­ re alla macchina ad un rapporto di servitù, che trasforma la sua vita alla radice. La forma di produzione è cambiata e, con essa, anche la forma di vita. D’altra parte, la nuova forma di produzione fa nascere una nuova forma di società: fa sorgere intiere classi, confe­ risce loro una struttura, orienta i loro interessi e determina il loro rapporto sociale con altre classi, acutizza i contrasti e crea infine la « lotta di classe ». In tal modo essa interviene a modellare la vita sociale, politica, spirituale. Ogni specie di rapporto sociale si esprime, infatti, in tendenze spirituali, idee, valutazioni. Ma ciò significa che la forma sociale è de­ terminante anche per 1’« ideologia ». Nella logica di questi tre gradi di dipenden­ za, sta inoltre la ragione di un enorme allargamento del concetto di ideologia, che abbraccia ora tutto il mondo spirituale ed ogni suo particolare settore: la morale, la scien­ za, l’educazione, l’arte, la visione del mondo, la religione. Sulla storica differenza tra rapporti di proprietà e rapporti di lavoro, e in piena dipendenza da essa, si forma cosi un’al­ trettanto differenziata e multiforme sovrastruttura di intui­ zioni, modi di pensare, valutazioni, pregiudizi, illusioni.

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Ogni tipo di classe, ogni forma di vita sociale appare co­ si accompagnata dall’epifenomeno del corrispondente spi­ rito particolare (della « coscienza », dice Marx, ma intende, con ciò, tutto il tipo e la direzione della vita spirituale). Non è dunque lo spirito a determinare l’essere storico, ma è l’essere storicamente divenuto — in ultima analisi, l’es­ sere economico — che determina lo spirito. E non è lo spi­ rito a governare la storia: esso viene anzi, nella storia, mol­ to volgarmente manovrato dalle forze economiche. Va da sé che anch’esso dovrà, a sua volta, reagire su queste. L’ideologia si rivela per l’appunto, come un fattore storico, secondario, sia pure, ma, una volta cresciuto, non privo di considerevole efficacia. Questo aspetto balza in piena luce nella stessa teoria marxiana della lotta di classe, la quale infatti viene condotta in no­ me di una specifica ideologia. Engels e le successive elabora­ zioni della teoria sono andate ancora più in là, su questo punto, giungendo fino ad una specie di azione reciproca tra ideologia ed economia o a un loro vicendevole adattamento. Con questo, non scompare però il rapporto fondamentale, indicato da Marx, che l’intiera vita spirituale sia il prodot­ to delle forze economiche e che ogni spirito nuovo abbia la stessa origine. Neppure di queste tesi vogliamo qui fare la critica. Esse sono oggi più che mai al centro delle discussioni ed è certo che l’ultima parola su di esse non è stata ancora pro­ nunciata. La crisi che le riguarda interessa forse non tanto la loro portata filosofico-storica, quanto piuttosto la loro at­ tualità sociologica e politico-sociale. Da questo punto di vista, la questione è, anzi, di troppo immediata attualità. Il nostro problema si pone su un piano essenzialmente diver­ so, e la prospettiva in cui queste tesi ci interessano è un’al­ tra.

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5. Fondamentale

situazione equivoca nella filosofia

DELLA STORIA

Se confrontiamo tra loro le filosofie della storia di Marx e di Hegel, ci colpisce dapprima soltanto la loro opposizione. Si tratta di una opposizione che sfiora la contraddizione lo­ gica, in cui una teoria sembra negare puntualmente ciò che l’altra afferma. Ma in quanto, come c’è da aspettarsi, ambe­ due contengono un nocciolo di verità, si dovrebbe conclude­ re che i rispettivi difetti stiano nella unilateralità dei loro punti di partenza. E poiché questi riguardano, in ambedue i casi, fenomeni determinati ai quali in ogni momento pos­ siamo rifarci, si può aggiungere che ciascuna teoria ha visto solo un frammento del fenomeno complessivo della storia. Qui però non ce la caviamo tanto a buon mercato. Alla radice di un contrasto che tenda a diventare un rapporto di contraddizione, deve stare, secondo la logica, un genere co­ mune. Nel caso di due teorie che si contraddicono, esso può trovarsi solo in un comune presupposto inespresso. E se questo si rivela erroneo, ne deriva l’identità dei rispettivi errori di fondo. A questo punto si può tornare da capo a chiedersi, do­ ve stia quell’elemento fondamentale comune, all’interno del quale le teorie si contraddicono. Non lo si potrà cercare nelle tesi stesse ma, come s’è detto, come qualcosa di ine­ spresso dietro di esse. Bisognerà dunque andare a vedere la struttura logica di ambedue le prospettive: la forma della costruzione tradirà il presupposto metafisico. L’esame ci rivela una cosa semplicissima (fin troppo semplice): che ambedue le teorie presuppongono un rap­ porto univoco di dipendenza tra i fattori del processo stori­ co. Non si tratta di una dipendenza temporale entro il processo — questa potrebbe ben essere omogenea, cioè, re­ lativa a termini della stessa specie — ma di quella dipendenza, situata in una diversa dimensione e, in sé, intempo­ rale, che interessa gruppi di fenomeni eterogenei entro

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l’essere storico; in una parola, del rapporto di dipendenza tra essere spirituale ed essere non-spirituale. Giacché, è pacifico che, nel contenuto complessivo di una fase storica, essi stan­ no sempre insieme e nel più stretto rapporto reciproco. Il problema è solo, se la componente spirituale dello sviluppo determini quella materiale (economico-sociale) o viceversa. Qui sta dunque l’elemento che le due teorie hanno in comune, ed è solo a partire da questo elemento comune che si può cogliere più esattamente il loro contrasto. Ambedue cercano di comprendere la totalità dell’essere storico a par­ tire da un solo gruppo di fenomeni. Se noi, entro questa to­ talità, indichiamo l’essere spirituale come strato superio­ re e quello economico come inferiore, possiamo dire con una formula: Hegel cerca di comprendere il tutto « dall’alto », Marx, « dal basso ». Ciascuno cerca di arrivarci a partire da uno solo degli estremi, sia pure l’opposto. Hegel non la­ scia posto, accanto allo spirito e alla sua autorealizzazione, all’intervento originale del fattore economico nello svilup­ po storico; Marx, a sua volta, non prevede alcun libero gio­ co di tendenze propriamente spirituali oltre l’azione delle forme di produzione. Ambedue concordano quindi nell’af­ fermazione di una dipendenza unilaterale e irreversibile e nell’esclusione di principio di ogni intreccio di determina­ zioni autonome provenienti da diversi livelli. Ambedue concepiscono l’essere storico in modo puramente monistico e ammettono una sola fonte di energie determinanti — come se fosse ovvio che non ce ne possano essere molte e svariate, del tutto autonome e capaci di accostarsi bilan­ ciandosi a vicenda. Quindi commettono ambedue lo stesso errore, solo, col segno cambiato. Ciò si può esprimere anche così: fanno am­ bedue, come se la possibilità di una determinazione dell’es­ sere storico « dall’alto », escludesse la possibilità di determi­ narlo « dal basso », e questa alternativa fosse pregiudizia­ le e necessaria. Ad ambedue sfugge che questi due casi non costituiscono un’alternativa valida, che la disgiunzione non è esaustiva e che ci possono essere molte altre forme di de­ 4.

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terminatezza. Non solo dimensioni eterogenee possono in­ teragire nel corso storico — combattersi, limitarsi o po­ tenziarsi a vicenda — ma possono esserci anche altri strati dell’essere storico, oltre a quelli posti agli estremi, capaci anch’essi di contribuire in modo originale e caratteristico al­ la determinazione del tutto. La struttura sociale, per esempio, che, in sé e per sé, non è né una formazione economica, né spirituale, potrebbe, accanto a tutti i fattori esterni che la determinano dall’alto o dal basso, contenere ancora una pro­ pria legge, capace di agire in maniera indipendente sul tutto. Ciò ohe le due teorie, nella loro unilateralità, hanno in comune ci dà, né più né meno, i termini attuali del pro­ blema della filosofia della storia; in questi termini esso si tro­ va ormai da molto tempo, ma ciò non significa che il pro­ blema sia stato superato. Anzi, il caratteristico errore di im­ postazione ne emerge con chiarezza: il problema viene ag­ gredito da due lati, ma da nessuno dei due è colto nella sua totalità e pienezza.

6. Stato

del problema dal punto di vista metafisico

GENERALE

Quanto grave sia questo difetto di impostazione, è indi­ cato soprattutto dal fatto che esso si presenta uguale in pa­ recchi campi. Esso è notissimo nella metafisica dell’organi­ smo dove, a tutt’oggi, si combattono due opposte teorie: quella meccanicistica e quella vitalistica, che spiegano l’orga­ nismo, rispettivamente « dal basso » e « dall’alto ». Il prin­ cipio di causalità è e rimane una categoria dello strato inferiore dell’essere, o natura inorganica, la teleologia in­ vece (e ogni vitalismo, apertamente o celatamente se ne serve) è e rimane una categoria dello strato superiore dell’es­ sere, o coscienza. Che l’organismo possa avere anche un suo proprio principio di determinazione, distinto e indipendente dai due suddetti, è una terza possibilità, quanto mai ovvia

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e a portata di mano, ma che non riesce a trionfare dei vecchi e radicati pregiudizi dominanti, benché anche dal lato sperimentale non manchino segni ad essa favorevoli. Non molto diversa è la situazione a proposito del pro­ blema antropologico, del quale oggi tornano ad occupar­ si pensatori di grande rilievo. L’uomo è un essere pluristrato: è per lo meno un essere spirituale e fisico a un tem­ po. Si dovrebbe cercare di comprenderlo a partire da questa pluralità di strati. Al contrario: assistiamo a una continua fioritura di teorie che vogliono comprenderlo, o soltanto in base allo spirito (l’ethos, la libertà) o soltanto dal lato della natura. Tra queste ultime vanno comprese anche quelle che procedono con gli strumenti di una psicologia scientificonaturalistica. In generale si può dire che, nella metafisica, pre­ domina la tendenza a concepire formazioni complesse in modo monistico-unilaterale dall’alto o dal basso; ossia, per mezzo di categorie che non sono le loro e che costituiscono in esse tutt’al più dei momenti parziali, ma non sanno co­ munque restituire il carattere peculiare del tutto. Agisce in questa tendenza l’atavico pregiudizio che la spiegazione in base a un « unico principio » sia la migliore; che il marchio della verità sia il semplice. Si schiva in tutti i modi la plura­ lità dei principi e già si diffida della più « semplice » forma di pluralismo, il dualismo oltre il quale, a ogni buon conto, non si osa pensare. Accade cosi che, in campo metafisico, due principali tipi di spiegazione del mondo si fronteggino quasi senza reciproca mediazione e, spesso, ridotti alla forma acuta di un’opposizione logica: e cioè, appunto, la spiegazione « dall’alto » e la spiegazione « dal basso ». L’una si attiene alla ragione, allo spirito, alle idee, a Dio; l’altra alla materia, alle leggi di natura, alla causalità. Quella spiritualizza materia e natura, questa umilia lo spirito a puro annesso della materia. La lunga serie degli « -ismi » filosofici rivela chiaramente questa dualità tipologica. Il difetto iniziale si vendica pro­ ducendo la scissione e rinconciliabilità dei modi di pensare.

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Il dualismo, cui da due parti si tenta di sfuggire, diventa cosi inevitabile: nella duplicità dei campi, esso si riproduce. La situazione complessiva della metafisica è, appunto, una caratteristica situazione equivoca, l’equivoco, però, è lo stes­ so da ambo le parti.

7. Chiarimento

ontologico della questione

Scoprire un errore di fondo non vuol ancora dire cor­ reggerlo, anzi per lo più, in filosofia, le vere perplessità cominciano proprio dopo fatta la scoperta. Nel caso in esa­ me, ciò non si può dire. Il fenomeno complessivo del « mon­ do », per quanto impenetrabile possa essere nei suoi parti­ colari, mostra tuttavia, indiscutibile e riconoscibile allo sguardo più superficiale, il suo carattere stratificato. Ora, se riusciamo, almeno nell’impostazione del problema, a render giustizia a questo suo carattere, facciamo, con ciò stesso, giustizia della situazione equivoca. Per comprendere questo carattere pluristrato, basta ri­ farsi alle nozioni più ovvie e generali. Nessuno mette in dub­ bio ohe la vita organica si distingua essenzialmente dalla real­ tà fisico-materiale. Però, non sussiste indipendentemente da questa: se la porta dentro, poggia su di essa, anzi, le leggi fisiche penetra­ no in profondità neH’otganismo. Il che non impedisce che questo possegga, in più, leggi proprie, che non si riducono a quelle. Tale autonoma legalità si sovrappone e informa poi la legalità inferiore puramente fisica. Analogo è il rapporto tra l’essere psichico e la vita or­ ganica. Come dimostrano i fenomeni di coscienza, lo psichi­ co è del tutto dissimile dall’organico e forma su di esso un proprio strato d’essere. Ma, dovunque lo incontriamo, esso è sempre portato dall’organico, ne dipende. Quel che è certo è che noi non conosciamo, nel mondo reale, alcuna vita psichica di cui non sia portatore un organismo. Se ora volessi­ mo trarne la conclusione che esso non possieda caratteri o

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leggi che non siano riducibili a quelle dell’essere organico, disconosceremmo di nuovo il fenomeno e cadremmo in una « spiegazione dal basso ». La psicologia ha mostrato al di là di ogni dubbio, che qui vigono leggi autonome specificamente psichiche. È poi vero che queste leggi ci sono scarsa­ mente note (la psicologia è una scienza giovane), ma, da tut­ to ciò che ne sappiamo, emerge chiaramente la loro originali­ tà, autonomia, inderivabilità. L’essere psichico è dunque un essere portato e, come tale, dipendente ma, nella sua origina­ lità, autonomo. Infine, dal superamento dello psicologismo in poi, è un fatto ben noto che il regno dell’essere spirituale non si dissol­ ve, a sua volta, in quello della psiche e delle sue leggi. Né le leggi logiche, né il carattere proprio della conoscenza e del sapere sono esauribili nella dimensione psicologica. Ancora meno, le sfere della volontà e dell’agire, o quelle del valore, del diritto, dell’ethos, della religione, dell’arte. Tutti questi campi, già solo nel loro contenuto fenomenico, si estendono molto oltre il regno dei fenomeni psichici. Come vita spi­ rituale, essi costituiscono uno strato superiore dell’essere, do­ tato di un carattere proprio, di una ricchezza e varietà nep­ pure paragonabili a quelle degli strati inferiori. Ma anche qui, esiste un rapporto analogo allo strato d’essere inferiore. Lo spirito non sta sospeso in aria: io conosciamo solo come vita spirituale portata — fondata sull’essere psichico, pro­ prio come questo lo è sull’organico e poi sul fisico-materiale. Anche qui dunque, anzi, qui soprattutto, scopriamo l’auto­ nomia dello strato più elevato, rispetto a quello inferiore, proprio nella sua dipendenza da esso.

8. Molteplicità categoriale e legge di dipendenza

Le implicazioni di questa struttura stratificata sono evi­ denti. Il rapporto tra gli strati dell’essere si può riassumere in tre punti.

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1. Ogni strato ha propri principi, leggi, categorie. Non si può mai comprendere nella sua specificità l’essere di uno strato, se si usano le categorie di un altro: quelle dello stra­ to superiore, infatti, non sarebbero pertinenti, mentre quel­ le dell’inferiore sarebbero insufficienti. Il regno delle catego­ rie non ha una struttura monistica; spiegare il mondo intiero in base a un solo principio o gruppo unitario di principi, fa parte delle cose impossibili. Dovunque e comunque si ten­ ti di far ciò, si sarà portati anche a far violenza alla origina­ lità categoriale. Piuttosto, la sfera stessa delle categorie è stratificata. La sua molteplicità è dello stesso ordine di gran­ dezza che quella degli strati dell’essere. 2. Nella struttura stratificata del mondo, è sempre lo strato inferiore a portare quello superiore il quale, in questo senso, non è un essere indipendente, ma soltanto « sovrapoggiante» [aufruhendes]. Si può vedere in tale «poggiar sopra» una costante dipendenza del superiore dall’inferiore·, senza natura materiale, niente vita; senza vita nessuna coscienza; senza coscienza, nessun mondo spirituale. La direzione di tale dipendenza non si può capovolgere. Non si può dire: senza vita, niente materia; senza coscienza, niente vita, ecc.; i fatti dimostrano il contrario. Analoga e corrispon­ dente è la direzione della dipendenza nell’ambito delle ca­ tegorie: le categorie inferiori ritornano nelle superiori a mo’ di elementi; le superiori dipendono quindi dalle in­ feriori, non possono trapassare la loro compagine, ma solo formarla ulteriormente, o sovrastrutturarla. Le cate­ gorie inferiori sono le più forti e questa « legge della forza » è la legge fondamentale della dipendenza categoriale. 3. Questa dipendenza dello strato superiore dell’essere non pregiudica affatto la sua autonomia: lo strato inferiore è solo la sua base portante, una conditio sine qua non. Al di sopra di essa, lo strato superiore dispone di un’illimitata possibilità di configurazione propria. L’organico poggia bensì sul materiale, ma la sua ricchezza di forma e il miracolo della vita non derivano da quest’ultimo, ma gli sopravvengono co­ me un novutn. Parimenti l’animale rispetto all’organico e lo

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spirituale rispetto all’animale, sono un novum. La novità che contraddistingue ogni strato non è altro che l’indipendenza o « libertà » delle categorie superiori rispetto alle inferiori. È una libertà che restringe la dipendenza alla sua natura­ le misura e può quindi coesistere con essa nell’unità di un continuo rapporto di stratificazione categoriale. In rapporto alla precedente, questa legge si può esprimere come segue: le categorie inferiori sono bensì le « più forti », ma le supe­ riori restano, al di là di queste, « libere » '. La legge della forza e quella della libertà formano, insie­ me, un rapporto inscindibile e unitario, anzi, esse costituisco­ no, in fondo, un’unica legge categoriale di dipendenza che domina da cima a fondo tutta quanta la stratificazione monda­ na e il cui significato è quello di una vera e propria sintesi di dipendenza e autonomia. Della dipendenza, tutte le teorie filosofiche si preoccupano; ciò che esse ignorano è l’autono­ mia nella dipendenza. E ciò, in quanto concepiscono la dipen­ denza come dipendenza totale. Ma è proprio quello che, nel­ la gerarchia degli strati dell’essere, non si trova. Se si desse una dipendenza « dall’alto », non vi sarebbe neppure bisogno di un ordine gerarchico, giacché le categorie superiori sono di gran lunga le più ricche, e, qualora la loro pienezza di de­ terminazioni invadesse l’essere inferiore, non solo lo determi­ nerebbe a sufficienza, ma lo superdeterminerebbe, rendendolo allora in effetti totalmente dipendente. Ma esse non esorbi­ tano perché sono categorie « più deboli » e l’essere inferiore ha la sua completa determinazione da se stesso. Non c’è quindi alcuna dipendenza « dall’alto », ma solo « dal basso ». Quest’ultima però non può essere totale, perché la pienez­ za di contenuti dell’essere superiore eccede di molto le ca­ tegorie inferiori le quali non possono minimamente « coprir­ la » neppure là, dove restano continuamente in vigore. Rima­ ne perciò sempre, allo strato superiore dell’essere, ampio spa1 Queste due leggi richiedono naturalmente una fondazione più esauriente, per la quale ci manca ora lo spazio. Una trattazione più esatta si trova nel libro Der Aufbau der realen Welt, Berlin 1940, capp. 55-61. Ad esso rimandiamo anche per quanto riguarda, supra, il punto 1, relativo alla molteplicità categoriale.

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zio per una autonoma formazione categoriale. Le categorie inferiori sono, appunto, le più forti, però anche le più povere e elementari. Ora si vede bene come le due leggi enunciate chiudano la porta a ogni deduzione unilaterale, a ogni tentativo di spiega­ re il mondo monisticamente, sia « dall’alto » che « dal basso », e quindi anche a tutti gli « ismi » delle costruzioni metafisi­ che. A una costruzione « dall’alto » contrasta la legge della forza, che permette solo una dipendenza del superiore dall’inferiore. Ad una spiegazione « dal basso », è la legge della libertà a sbarrare la strada, in quanto mette a nudo l’incapacità delle categorie inferiori di restituire la ricchezza delle formazioni categoriali superiori. Con la violenza del discorso si può naturalmente rivendicare tutta la dipen­ denza che si vuole; ma, in base ai fenomeni, se ne può solo indicare una molto limitata. E, in filosofia, è permes­ so pensare solo ciò che i fenomeni attestano.

9. Applicazione al

problema filosofico-storico

Ciò che vale per il « mondo », varrà anche per la storia che in esso si svolge. Anzi, vale per essa in un senso anche più proprio che non, ad esempio, per la vita organica o per qualunque altro singolo strato dell’ente. La storia ha in­ fatti in comune col mondo stesso la struttura pluristratificata. Essa è un processo nel quale fattori di tutti gli strati dell’essere intervengono in modo determinante; un proces­ so che può essere considerato quindi, tutt’al più, come la ri­ sultante complessiva di forze eterogenee, che continuamen­ te si scontrano tra loro. La storia è un processo economico e spirituale insieme, è la vita elementare ma, in pari misura, la vita spirituale dei popoli. Le condizioni geografiche e climatiche vi hanno parte non meno delle idee, i valori, gli errori, le prevenzioni ideo­ logiche e filosofiche; i mezzi tecnici, non meno delle sug­

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gestioni di massa; Io scontro e l’incontro « casuale » non meno dello sforzo pianificato e dell’impiego di energie spontanee. Questa concezione è semplice e nient’affatto nuova. Essa ha tacitamente presieduto allo spassionato lavoro degli storici, ogniqualvolta questi abbiano aderito al senso pro­ prio del loro compito. In misura molto minore l’hanno te­ nuta presente le varie teorie filosofico-storiche. Ecco perché, di fronte a queste, essa assume un significato rivoluzionario. Ciò appare più che mai evidente, se ci volgiamo alle due teorie della storia più caratteristiche del sec. XIX, il cui senso contrastante è stato più sopra indicato. La metafisica hegelia­ na della storia, non solo spiega unilateralmente i processi sto­ rici a partire dallo spirito, essa presuppone addirittura che questi processi non siano in fondo, altro che processi spiri­ tuali. Le componenti inferiori dell’accadere storico rischiano qui, quanto meno, di scomparire rispetto a quella della vita spirituale; e se vengono prese in considerazione, è però solo in vista di quei fattori spirituali che in esse si esprimono. Lo stesso dicasi della metafisica « materialistica » della storia. Essa è preoccupata, non solo di comprendere tutto l’accadere storico in base ai rapporti economici, ma presup­ pone anche, tacitamente, che tutti gli avvenimenti si ridu­ cano, in fondo, a quelli della sfera economica. Le strutture sociali e le ideologie vengono senz’altro assorbite in questa sfera di eventi e vi compaiono solo come loro espressioni, an­ nessi, epifenomeni. In senso tanto rozzo, non sarà certo a Marx e ai maggiori tra i suoi seguaci, che potremo rin­ facciare questa unilateralità. Ma tutta la prudenza dei miglio­ ri serve a poco, quando l’intima tendenza della teoria è di acutizzare, anche contenutisticamente, l’unilateralità; tanto più che tale tendenza, una volta liberatasi, è destinata, nella mezza intelligenza di molti seguaci, a rompere ogni freno. Il meno che si possa dire è che, in ambedue i casi, l’ac­ cento unilateralmente posto su uno strato dell’essere storico, ha svalutato, e, insieme, privato dei loro diritti gli altri stra­ ti. La costruzione di una totale dipendenza comporta, appun­

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to, che tutto il peso venga spostato sull’elemento che si pretende indipendente. Hegel non si limita a violare la legge della forza (e Marx, quella della libertà), ma l’uno e l’altro attenuano anche la pienezza della realtà storica. Cosi, ogni costruzione unilaterale si dimostra erronea. L’impostazione erronea da cui scaturiscono teorie contrad­ dittorie della storia dipende, come nel caso delle opposte vi­ sioni del mondo, da un pregiudizio comune che, in questo come nell’altro caso, è un pregiudizio monistico. Soltanto col superamento di tale pregiudizio si apre la strada a un metodo rispettoso della complessità del fenomeno.

10. Conseguenze

per una possibile comprensione del

PROCESSO STORICO

E come per la visione del mondo, cosi anche per la concezione della storia: è facile indicare, all’ingrosso, come si debba ovviare all’errore, ma l’attuazione di questo compi­ to non è certo a portata di mano. Si tratta, intanto, di trarre le dovute conseguenze da questo carattere stratificato della realtà storica. Possiamo riassumerle nei seguenti punti. 1. La pluralità di strati dell’essere storico rivela lo stesso rapporto di fondo, proprio del mondo entro cui si svilup­ pa. Anzi, come s’è visto, gli strati che lo costituiscono sono gli stessi. Anche la loro legge categoriale di dipendenza, a meno di minori differenze, sarà quindi sostanzialmente la stessa. Anche qui, le potenze « portanti » dovranno essere quelle inferiori; quelle superiori, a loro volta, in quanto por­ tate, manterranno sempre una loro indipendenza. Ne segue che i fattori specifici di ogni strato, nella loro originalità, restano inderivabili e possono esser rilevati solo nel corri­ spondente ambito di fenomeni. 2. Di conseguenza, la piena struttura o forma del pro­ cesso storico risulterà quanto mai complessa. In essa può farsi valere, per principio, tutta la varietà mondana dell’es­

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sere; cosicché, nella misura in cui ciò avviene, ogni suo mo­ mento sarà un fattore essenziale e autonomo. 3. Il compito che ne deriva è sterminato e, comunque, oltre i limiti delle capacità umane. Il problema fondamenta­ le della filosofia della storia condivide carattere e destino con la maggior parte dei grandi problemi filosofici: non è esau­ ribile, contiene un resto irrazionale, è insomma, un au­ tentico problema metafisico. 4. Detto questo, però, la questione si riapre in una nuo­ va prospettiva. La metafisica idealistica della storia si sforzava di costruire la totalità del processo, inserendovi il presente e predicendo il futuro (Fichte). Per questo era necessario conoscere uno scopo finale e spiegare il divenire come rea­ lizzazione e adempimento di un determinato senso teleologi­ co. Tutto ciò si è dimostrato insostenibile davanti al pro­ gredire delle ricerche storiche. Dopo questa esperienza, la filosofia della storia non può più tanto facilmente illudersi di schizzare il corso del processo. Essa abbandona la questio­ ne dello sviluppo temporale e affronta un problema prelimi­ nare che si pone in una dimensione diversa. Tale dimensione è perpendicolare a quella della temporalità e i rapporti che la caratterizzano sono rapporti categoriali. E in quanto tali rapporti collegano le diverse componenti reali del molteplice storico, la questione riguarderà le particolari forme di in­ nesto reciproco tra categorie eterogenee. Ossia: sarà necessa­ ria una ricerca ontologica. 5. In questa stessa dimensione e quindi, di nuovo, in via preliminare, si pone ancora un ultimo problema: chi sia portatore di storia o, meglio, quale sia la struttura di quel­ la formazione reale di cui si dice che « ha una storia ». Non potrà trattarsi naturalmente d’altri che dell’uomo o di qual­ cosa che lo sopravanzi, come la comunità, il popolo, l’umanità, lo spirito e le sue forme. Questo problema ha il vantaggio di poter esser trattato quasi sempre fenomenolo­ gicamente. Tutte le formazioni reali menzionate possono es­ sere sottoposte ad analisi ed alcune di esse (come comunità o popolo) lo sono già state ripetutamente.

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I due ultimi punti potrebbero essere quelli di maggior attualità, se non di per sé e in ogni caso, certo però in relazio­ ne allo stato effettivo del problema filosofico della storia. Il penultimo (n. 4) riguarda una questione che è di gran lun­ ga la più ampia, grave e materialmente complicata, oltre che metafisicamente più ambiziosa. L’ultimo problema indicato (n. 5), che rispetto al precedente è solo un preludio, è invece più immediatamente aggredibile. Il suo oggetto ammette delimitazioni provvisorie a piacere, e ogni ricerca parziale compiuta ci fornisce una porzione di quel fondamento che è necessario per la trattazione del problema ontologico-categoriale. Questo è anche il punto d’inserzione delle nostre ricer­ che. Esse estraggono dal pieno dell’essere storico il solo es­ sere spirituale: cominciano quindi dal punto in cui l’es­ sere storico si distingue decisamente dal non-storico, senza pretendere però, col rilievo di questa sua diversità, di esau­ rirlo. Sul peso che spetta, nel processo storico, ai fattori non spirituali, queste ricerche non dovranno né potranno decide­ re nulla: esse si manterranno quindi sostanzialmente al di qua dei veri e propri problemi metafisico-storici, non tanto per isolarne uno tra gli altri, quanto per rendersi conto, prima di tutto, di quali di essi si possano trattare e da dove la trattazione possa aver inizio. Non saranno quindi ricerche filosofico-storiche in senso proprio, per quanto abbiano con­ tinuamente a che fare con la storicità dell’essere spirituale, bensì soltanto ricerche preliminari a una possibile fonda­ zione della filosofia della storia e delle scienze dello spirito.

11. Loro

riflesso sui problemi metafisico-storici

Anche prima di ogni ricerca, possiamo però dare un’idea di quali riflessi abbia un regresso, anche solo di principio, alla suddetta questione preliminare, in rapporto ai proble­ mi di una metafisica della storia. In base alla nuova impo­

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stazione, infatti, questi ultimi si dividono con molta evi­ denza in due categorie: quelli che si possono affrontare e quelli che no. Ci spieghiamo con qualche esempio. Delle questioni irrisolvibili fanno parte le seguenti. È la storia un accadere cieco come quello dei processi natu­ rali, o è diretta a un fine? C’è o non c’è in essa qualcosa come un’intenzione che possa determinarla? Vi domina la necessità o il « caso »? L’uomo, con la sua volontà, vi ha una funzione determinante? È egli libero, nel senso di poter gui­ dare la storia? O c’è nella storia una ragione ben altrimenti determinante, die decide al di sopra della sua testa (come ci hanno detto gli idealisti tedeschi)? Inoltre: la storia ha un valore? È essa la realizzazione di qualcosa di cui porti in se­ no l’essenza e la cui esistenza la trascenda, ovvero è un acca­ dere privo di senso? Per lo meno: ci porta in su? È un pro­ cesso ascendente? Cercare una risposta a simili domande vorrebbe dire attingere molto al di là dei fenomeni. Questi sono i pro­ blemi di metafisica della storia in senso stretto. E sono pro­ prio questi a venir retrocessi e quasi sospinti in secondo piano quando passiamo ad occuparci di problemi fenomenologici. Ciò non significa che in altri modi essi non si possono af­ frontare, e, in tal caso, ci si offrirebbero naturalmente anche delle possibilità di soluzione. Tutto considerato, però, la strada per arrivarci potrebbe essere molto lunga, e co­ munque non percorribile senza un’accurata trattazione dei suddetti problemi preliminari. Una metafisica della storia che, allo stato attuale del problema, volesse abbreviare que­ sta strada, o saltarla via, e cioè, intendesse cominciare dai problemi della teleologia, del determinismo o della ragione nella storia, sarebbe senz’altro condannata al fallimento. In questo modo, naturalmente, è sempre facile tracciare uno schema della storia, sia in senso positivo che negativo, ma è sempre uno schema non discutibile, una vuota specula­ zione, un castello di carte. La situazione cambia rispetto a un secondo gruppo di problemi, affini a questi e non meno fondamentali, per quan­ ,0.1 IO 7-0

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to non altrettanto ambiziosi. La storia è soltanto storia degli individui, o anche di organismi superiori, storia del collet­ tivo? È poi anche storia di un universale concreto che non sia un semplice collettivo? Le forme storicamente mutevoli della vita economica, politica, spirituale sono di carattere collettivo, o sono in realtà qualcosa d’altro, che la comunità vivente assume soltanto a propria forma? Ci sono ripetizio­ ni, omogeneità, legalità del corso storico, o tutto è nella sto­ ria unico e irripetibile? È poi tutto temporale-processuale, nella storia, o vi è compreso anche qualcosa di sovratempora­ le? E la temporalità del suo accadere è la stessa dell’accade­ re naturale? La differenza tra accadere storico ed altro acca­ dere è una fondamentale differenza di temporalità, o si riduce a un diverso carattere dell’accadere, entro un’u­ nica temporalità? Infine: la storia è condizionata, e in che misura, dalla coscienza storica? E, dato che la stessa coscien­ za storica agisce nella storia, è essa soltanto storicamente con­ dizionata o è a sua volta un fattore determinante del corso storico? O i due stanno in un rapporto di azione reciproca? E che forma assume quest’ultima? Neppure a queste domande si può rispondere d’acchito e neppure un’analisi di struttura del tipo accennato è tale da portarci direttamente alla soluzione. Qui però, ci è consenti­ to di lavorare metodicamente a una soluzione perché questi problemi non varcano i Limiti dell’esperienza storica, ma restano, nonostante il loro carattere fondamentale, vicini ai fenomeni storici. Soltanto, non è con essi che si può co­ minciare, è, anzi, necessario il lungo cammino di una ricerca preliminare che, già da sola, richiederebbe il lavoro di tutta una vita. Cosi, la sola analisi fenomenologica dell’essere spiritua­ le, che pure è soltanto una parte del lavoro preliminare, po­ trebbe offrirci una quantità di indicazioni sul come ci si debba accostare a questi problemi. Anzi, questa analisi ci dà spesso la sensazione di toccare con mano la soluzione, e solo un atteggiamento sufficientemente critico può preservarci da conclusioni premature. Tra le cose che essa ci permette

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di rilevare in modo indiscutibile sono, ad es., quelle totalità di tipo spirituale, presenti in ogni periodo storico che poggia­ no sulla collettività degli individui, ma non si identificano con essa perché possiedono una struttura diversa e un diverso modo di essere storiche. Rilevabile è, poi, il loro rapporto sia agli individui, sia al collettivo; a questo proposito emerge, anzi, un momento importante della originalità die le governa. In che misura però quest’ultima sia spiegabile come legalità di un processo storico, è tutt’altra questione, cui non si può rispondere altrettanto bene. Giacché queste totalità spirituali si rivelano costantemente, ciascuna come un uni­ cum storico rispetto al quale ogni analogia resta sempre esterna. Molto più precise sono le indicazioni che possiamo ottenere relativamente al loro rapporto con la temporalità. Esse ci mostrano chiaramente che lo specifico della mobilità storica non va cercato nel tempo in quanto tale, bensì nella struttura del movimento nel tempo; sicché, quegli elemen­ ti sovratemporali che, spesso, si è supposto o sostenuto es­ ser presenti nella storia, si riducono, a ben vedere, a un mini­ mo che, poi, non appartiene propriamente neppure alla real­ tà storica. Per finire, è circa il posto spettante, nella storia, alla coscienza storica, che possiamo attenderci i maggiori ri­ sultati. Su questo punto, la ricerca è anche di immedia­ ta attualità, in quanto riguarda un grave problema del nostro tempo, quello dello storicismo e del suo superamento. Questa prospettiva deve servire per un primo orienta­ mento e solo la ricerca potrà confermarla. D’altronde, essa si riferisce a un solo aspetto della questione generale relativa al problema della storia, — certo, di gran lunga il più im­ portante, ma tuttavia non il solo. L’altro aspetto è il pro­ blema del metodo.

12. Logica

e concettualizzazione della storia

Passare dall’essere storico alla conoscenza storica è come passare dalla luce solare della realtà all’ombra della riflessio­

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ne. La caratteristica di ogni problema critico è di ricondurci dall’oggetto del conoscere alla conoscenza stessa. Anche la critica kantiana segui questo percorso, sia pure limitatamente alla conoscenza della natura. La crescita delle scienze dello spirito e la progressiva scoperta delle loro interne difficoltà metodiche ebbe come conseguenza la critica della ragione storica. Dopo il fallimento delle grandi costruzioni filosofico-storiche, era fatale che proprio su di essa si appuntasse­ ro le maggiori speranze. Non aveva la critica kantiana, pur nei suoi limiti, fecondato nel modo più durevole la filosofia teoretica? Cosi pareva giusto aspettarsi che una sua estensio­ ne alla conoscenza storica, avrebbe posto quest’ultima su una nuova base. Al tempo del neokantismo il problema era ormai matu­ ro. Cominciò Windelband, nel 1894, con la distinzione tra scienze « nomotetiche » e scienze « ideografiche ». Que­ ste ultime, che sono le scienze dello spirito, si distinguono ra­ dicalmente dalle scienze naturali perché non cercano leggi del reale, non mirano al generale, ma al caso singolo in quan­ to tale, a ciò che è unico nel suo genere e irripetibile. Ciò che lo storico porta alla luce è sempre qualcosa di individuale, sia che si occupi di persone, decisioni, atti, ovvero di popoli, eventi, guerre e di tutti i loro sviluppi. Qui sorge un problema che Rickert ebbe il merito di precisare e affrontare. Ogni scienza adopera concetti, e i concetti sono, per loro natura, formazioni generali, non più che abbreviazioni, di fronte all’infinità estensiva e intensiva della realtà. Nelle scienze di leggi, i concetti si trovano a casa loro, giacché leggi e regole sono anch’esse delle generalità in cui si prescinde dalla pienezza del caso concreto. La co­ struzione dei concetti delle scienze naturali è, a suo modo, esemplare, ma non è trasferibile all’oggetto della storiogra­ fia. Questo, il suo limite. L’oggetto individuale, in una scien­ za che vuol comprenderlo rigorosamente per quello che è, non sopporta infatti alcuna generalizzazione. Anzi, si po­ trebbe aggiungere che, anche là dove la storia, proprio co­ me la natura, procede secondo una legge, i concetti di questa

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legge non riuscirebbero tuttavia a cogliere il caso singolo. Non ci riescono neanche nella natura, con la differenza che, alla scienza della natura, il caso singolo non interessa: ciò che conta, per lei, è la legge. Alla scienza dello spirito, invece, importa il singolo in quanto tale. Qui ci vorrebbero, insomma, dei concetti individuali. Cosa impossibile se altre mai. I concetti sono per loro natu­ ra generali. Ogni attività del capire procede per via analogi­ ca: è sempre un capire « per mezzo di » qualcosa di cui già si disponga. Se si dispone già di « concetti puri dell’intellet­ to » e si opera con « analogie dell’esperienza », l’intel­ ligenza va avanti per la sua strada; ma dove ogni oggetto è unico e singolo, e si debba cogliere proprio quella sua singolarità, essa fallisce. Questa è una difficoltà di fondo delle scienze idiografiche. Per contro, si dirà che i concetti di una cosa indivi­ duale non sono necessariamente concetti individuali. Si potrà, con Simmel, far larga parte, nella storiografia, all’idea di « legge individuale » e cercare cosi di rilevarne la continui­ tà con la scienza di leggi. Ma ambedue i rimedi fanno cilec­ ca, non appena se ne tenti un’applicazione metodica in sede storiografica. Un metodo non si può costruire in anticipo come la regola di calcolo di una scienza esatta. L’unica via dimo­ stratasi praticabile, fino ad oggi, è quella seguita da Dilthey. Egli ha collegato l’idea di una scienza storica puramente de­ scrittiva con quella di un « comprendere » contrapposto al « capire » — un procedimento, questo, che salva ancora il concetto, soltanto come mezzo d’intesa e, in una, male ne­ cessario della scienza; mentre attribuisce tutto il peso di una formazione dei concetti a un comprendere intuitivo molto somigliante all’intuizione artistica. Ma, anche cosi la difficoltà è superata solo praticamente e, inoltre, solo per chi possieda un’eccezionale capacità d’in­ tuizione storica. Non se n’è potuto ricavare un metodo espli­ cito che chiunque possa imparare ad adoperare. Soltanto la personale maestria di Dilthey poteva padroneggiare un simile procedimento. 5.

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13. Il

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problema del valore nella ricerca storica

Una seconda difficoltà conoscitiva è costituita dai punti di vista valutativi che lo storico consapevolmente o inconsa­ pevolmente adotta. Per arrivare a dominare l’enorme mate­ ria fattuale che gli sta di fronte, egli deve fare delle scelte, e ogni scelta presuppone un punto di vista. Cosa è significativo e cosa no? Come è ben noto, interviene qui una presa di posizione, molto complessa, che lo storico deve alle particolari tendenze dei tempi in cui opera. Secondo Troeltsch, Γ « oggetto storico » nasce, come un qualcosa di determinabile in generale, soltanto mediante una definizione « dall’esterno » dello scopo della ricerca. Non è quindi neces­ sario, in questo caso, pensare senz’altro a quella che si di­ ce un’esposizione storica tendenziosa: il carattere partigiano dell’interesse per certi lati del tutto storico concreto, ha sem­ pre già deciso che cosa sia rilevante o significativo, non appe­ na l’attività conoscitiva si metta in moto in una determinata direzione. Che, per contro, l’ideale di una storiografia spassionata sia destinato a imporsi solo in modo imperfetto, è a priori facile a capirsi. È una vecchia esigenza, oggi spesso riafferma­ ta, quella che ci si limiti a « esporre l’accaduto ». Della sua serietà, non è neppure il caso di dubitare. Dubbia è piut­ tosto la sua attuabilità, giacché la costante presenza di una direzione di interessi e di scelta è un fatto ineliminabile al quale neppure l’idea di una comprensione intuitiva o quella di un procedimento puramente descrittivo, possono sottrarci. Piuttosto, si possono distinguere abbastanza nettamente due tipi di punti di vista valutativi: quello soggettivo o in­ trodotto dal di fuori, e quello obbiettivo, desunto dal peso specifico degli avvenimenti storici. Che si rappresentino Alessandro, Cesare, Napoleone come degli eroi del loro tem­ po, oppure come degli avventurieri spinti in alto dall’onda della storia, sarà sempre e soprattutto una questione di pre-

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fetenze, gusto, modo di valutare la grandezza umana L’illustrazione del significato che le campagne di Alessandro ebbero per l’evoluzione e il carattere del mondo ellenistico, non è però questione di gusti, ma solo di occhio per l’inter­ dipendenza dei fatti storici. Del resto, quanto più gli esempi scelti tendono agli estremi, tanto più evidente si fa l’opposi­ zione tra le due specie di valutazione. Ma come segnare un confine tra di esse? La materia fat­ tuale con cui la scienza storica ha a che fare, non si presenta generalmente in forme tanto ben caratterizzate. Anzi, qui ogni confine si confonde e, in pratica, è raro poter decidere in modo univoco se, dietro le valutazioni introdotte, stiano dei valori effettivamente presenti nella storia stessa. A tale scopo, non disponiamo di alcun criterio, che non abbia, a sua volta, un carattere valutativo e per il quale non si ponga ancora lo stesso problema. Questa aporia della valutazione sbuca fuori dalle più di­ verse questioni particolari. Tra le più note è quella della periodizzazione o della costruzione delle epoche storiche. Bi­ sogna riferirsi alle individualità rappresentative dei po­ poli e ai periodi della loro vita? O alla storia dello spirito e delle idee (per es., alla storia della religione, come avviene abitualmente nella storiografia cristiana)? O alle vicende politiche e militari? O alle interne evoluzioni della economia mondiale? Non è qui neppure il caso di chiedersi se non ci siano partizioni capaci di riferirsi a tut­ ti questi aspetti insieme; senza una certa violenza inter­ pretativa avremmo infatti scarse probabilità di ottenere una risposta positiva. La conseguenza è che, anche qui, si tratta di decidere quale strato della fattualità storica sia da conside­ rarsi il più importante. Tale decisione, dunque, spetterà sem­ pre alla valutazione. 1 Si ricordi qui, nell’esempio dello Hegel, la « psicologia del ca­ meriere », per il quale di eroi non ce n’erano, non perché i grandi uomini della storia non fossero tali, ma perché lui era un cameriere.

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14. Generalità sul

problema metodologico

Non è un caso che questa presentazione della questione di metodo, e cioè secondo le sue due direzioni fondamen­ tali, lasci insoddisfatti; non è un caso neppure che non si riesca veramente a risolverla, benché proposte ingegnose non manchino. Ciò che manca è però soprattutto una cri­ tica della ragione storica. Manca, prima di tutto, quello che la critica kantiana aveva messo in luce al di là della pura ri­ cerca di metodo: l’analitica positiva, quell’indicazione di fon­ damenti gnoseologici, con la quale essa offriva, nei limiti in cui aveva affrontato il problema della conoscenza, una co­ struzione dei fondamenti. Ecco che cosa ancora manca alla trattazione del problema della ragione storica. E questo non è stato ancora seriamente compreso, neppure come pro­ blema generale. D’altra parte, perché una discussione puramente metodo­ logica è infruttuosa? Perché mette innanzi un proble­ ma secondario, perché vuol cominciare da quello con cui una ricerca viva ha termine. Nessuna conoscenza metodologica an­ ticipatrice può precedere quella conoscenza delle cose il me­ todo della quale essa indaga. È un punto di vista che, a qualche contemporaneo, può ancora sembrare paradossale. E possiamo spiegarcelo: l’epoca del metodologismo nella filosofia e nella scienza positiva è ancora vicinissima a noi. Fu sul finire del sec. XIX, quando la tendenza positivistica non lasciò al pensiero filosofico altro da fare, che spigolare all’ombra del progresso delle scienze speciali. E che altro poteva fare la spigolatrice, se non occu­ parsi dei mezzi e dei modi, cui quelle dovevano il loro pro­ gresso? Fin qui, avrebbe potuto trattarsi, per la filosofia, di una decadenza, ma non di una falsa strada. Quando però la filosofia si immagina di illuminare cosi il percorso della conoscenza scientifica, di mostrarle la via e fornirle i metodi, allora comincia l’errore. In linea di principio, va detto che ogni metodo è condi­

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zionato dall’oggetto, da una parte, e dalla struttura di quel­ l’atto complesso che chiamiamo conoscenza, dall’altra. Questi due fattori, non possiamo variarli a piacere, ma dobbiamo ac­ cettarli cosi come sono. La conoscenza di un determinato oggetto non può variare ad arbitrio, ma deve applicarsi al­ l’oggetto secondo gli appigli che questo offre, — non importa in che misura tali appigli siano determinati dal carattere proprio della conoscenza o da quello dell’oggetto stesso. In ogni caso, essa non può fare un passo avanti se non comin­ ciando di li. Con questo però, la sua via e il suo modo di procedere sono tracciati: essa non può cambiare né l’una né l’altro. Certo, li può mancare, ma allora, per l’appunto, non è più conoscenza. Ne segue che, in senso rigoroso, non è possibile alcuna generalizzazione e alcuna trasposizione del metodo da un gruppo di oggetti a un altro: ogni specie di oggetti richiede il suo metodo proprio. La concezione volgare di una generali­ tà dei modi di conoscenza è erronea ed ha fatto molto danno: soltanto nel senso più esteriore si ha, qui, una tipica generale del metodo, ed è quella relativa ai molto discussi concetti di induzione, deduzione, analisi e qualche altro. Ma sono proprio quelli che non compaiono mai isolatamente nel processo reale della ricerca e, quindi, non lo costituiscono come tale; sol­ tanto la particolare maniera di usarli, i loro punti di inserzio­ ne e il loro intrecciarsi in un più ampio contesto, costitui­ scono il metodo. Presi in se stessi, non sono metodi, ma solo astrazioni di elementi metodici quanto mai variabili. Ogni scienza lavora instancabilmente al proprio metodo — non però in quanto rifletta sul metodo o lo faccia oggetto della ricerca: piuttosto, elabora il proprio metodo nella misu­ ra in cui si dedica completamente al proprio oggetto. Il suo progredire è un continuo cominciare, provare, fallire e ritentare — finché le riesca di fare un passo avanti. Lotta col proprio oggetto per dominarlo e, in tale lotta, conquista il proprio metodo. Il metodo, insomma, le nasce tra le mani mentre lavora intorno alla cosa stessa, si identifica, an­ zi, col progredire di questo suo lavoro. Se lo crea molto pri­

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ma di rifletterci sopra; mentre lo crea non ne sa nulla e, finché lavora davvero, non ha bisogno di saperne nulla. Ne segue, ancora, che ogni sapere circa il metodo è cosa secondaria, dovuta cioè a una successiva riflessione: la co­ scienza metodica non precede mai, può soltanto seguire. Non si può prescrivere un metodo come una norma, ma si può possederlo, cioè padroneggiarlo, senza conoscerlo (e questo è il caso più comune, in cui il lavoro di ricerca è fruttuoso), e viceversa, si può conoscerlo senza possederlo, cioè senza saperlo usare (e questo è il tipico lavoro degli epigoni: me­ todologia). Ovviamente, non è detto che possedere e cono­ scere debbano escludersi a vicenda, ma di solito non si in­ contrano affatto, e quando veramente si incontrano, è stato il possedere ad aprire la marcia, e il conoscere l’ha seguito. I veri maestri di un metodo, e soprattutto i pionieri, quelli, insomma, che lo creano, raramente conoscono con pre­ cisione la sua struttura. Cosi come lo trovano, nel loro ab­ bandonarsi alla cosa, lo adoperano e non ne sanno dire gran che. Chi invece vuol carpire il segreto della loro capacità, non si atterrà a ciò che essi ne dicono, ma al loro effettivo operare. È sufficiente che essi possiedano tale capacità. Che poi sappiano anche dire come fanno, non conta nulla. In questo, sono simili agli artisti, e la loro è un’arte che non si può insegnare. Valga, a conferma di questa tesi, la maggior parte dei grandi storici, di quelli che per primi, e da soli, ci hanno di­ scoperto una zona del passato. Al confine tra filosofia e storia, Dilthey è incomparabile esempio di una capacità metodica, che né lui né i suoi discepoli hanno saputo metodologicizzare e che si è dimostrata non apprendibile e solo imperfettamente imitabile. Nel campo della filo­ sofia sistematica, un esempio istruttivo e d’alto livello, potrebbe offrirlo Hegel. Quella dialettica che è argomento di molte discussioni e che costituisce la struttura intima del suo pensiero, ci viene incontro, nelle sue opere, con tut­ ta la sua irresistibile forza euristica. Ma egli stesso non la conosceva e non la conobbe a fondo nella sua essenza. La

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sentiva, bensì, come un superiore modo di « esperienza », ma gli scarsi cenni ad essa dedicati non ce ne tradiscono il segreto. Dobbiamo andarla a cercare nella sua indagine og­ gettiva, cioè nel lavoro complessivo della sua vita. Questa ricerca è compito degli epigoni. A questo punto dovrebbe riuscir chiaro perché la meto­ dologia sia, in generale, un lavoro d’epigoni e, quindi, non sia in grado di indicare una strada. Quando i veri grandi problemi vengono insabbiati, ecco che l’interesse si volge ai procedimenti seguiti dai Grandi e si nutre del loro lavo­ ro. Tali spigolature possono anche, a modo loro, dar buoni frutti — non però quando dimenticano il loro posto e credono di indicare la via a nuove conoscenze oggettive. In ogni pro­ gresso conoscitivo, la prima cosa è un metodo vivo e operan­ te, l’ultima cosa è la coscienza metodologica. Quella è l’o­ pera del pioniere; questa, di chi fa ordine nelle retrovie. E questa è la ragione oggettiva del fallimento della me­ todologia filosofica della storia.

15. Lo

STORICISMO IN QUANTO PRIGIONIERO DEL PROBLEMA

FILOSOFICO-STORICO

Come abbiamo accennato più sopra, in quanto lo storicismo tematizza la storicità della stessa coscienza stori­ ca, porta la questione metodologica a coincidere col pro­ blema fondamentale del processo storico. Con ciò, esso cade in Un’aporia della quale non è necessario occuparci qui. Ma non questo lato negativo, bensì il suo prezioso contenu­ to positivo, è quello determinante per il terzo gruppo di problemi filosofico-storici. Come leggiamo nella storia? Co­ me siamo, a nostra volta, storicamente condizionati? E, con­ seguentemente, come è condizionata la nostra coscien­ za storica? Queste domande si riferiscono alla dipendenza della scienza storica dalla effettiva situazione storica del­ l’uomo che la professa. Tra l’altro, esse hanno un peso filo­ sofico decisivo perché è in questa direzione che si può tro­

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vare una soluzione, sia pure soltanto relativistica, al proble­ ma del valore nell’ambito del problema metodico. Ma queste domande ci portano anche più in là. Ci sono due tipi di coscienza storica. Prima di quella scientifica, ce n’è un’altra, ingenua, che può essere primitiva o svilup­ pata, ma, intanto, è indipendente da quella. Ogni uomo vive in proprio un tratto di storia, è capace di raccontar­ la e la consegna cosi alla generazione seguente. Accanto al­ la storia vissuta in prima persona, abbiamo cosi quella raccolta per tradizione diretta. Ambedue vengono integrate da una tradizione consolidata — sia quella della famiglia o del paese o della nazione — e, inoltre da tutto ciò che, negli edifici pubblici, monumenti, giorni commemorativi, festività e istituzioni varie, rivive del passato e ad esso ri­ manda. A questi esempi si potrebbero fare ancora moltis­ sime aggiunte; in ogni caso, tutte queste cose insieme costituiscono V humus di una vera e propria coscienza sto­ rica prescientifica. La scienza storica, d’altra parte, co­ nosce molto bene questa humus e la sfrutta, con cautela, certo, ma ampiamente, come una delle sue fonti. Orbene, nella coscienza storica prescientifica, la condizionatezza storica è ancor più palpabile che nella co­ scienza scientifica. Essa si distingue anzi da quest’ultima, soprattutto per il fatto che mette in mostra i propri limiti e non li nega, come fa quella, né li dà per superati. Proprio la « casualità » e noncuranza, che da un lato, n ; denunciano l’atteggiamento fondamentale non « storicista », costitui­ scono, d’altro lato, la sua forza. Mentre l’una è compietamente prigioniera e non sa prendere distanza da tutto ciò che dal passato si protende fino a lei; l’altra comincia pro­ prio con lo stabilire una distanza tra sé e il passato, senza arrivare, tuttavia, a sciogliere completamente quel legame. È chiaro che questa situazione si perpetua necessariamente, nonostante ogni progresso. Per questa ragione, l’imposta­ zione data dallo storicismo alla problematica della scienza storica non è superabile, e ogni tentativo in questo senso urta contro una solida muraglia.

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Del resto, questa stessa impostazione si rivela, a sua vol­ ta, limitata. Essa sembra irrigidirsi nella prigionia della co­ scienza storica intesa nella sua condizione presente, invece di comprendere quest’ultima nel suo esser divenuta, cioè a partire da quel passato che la determina. Un com­ prendere di questo tipo non si sottrae certo, da par­ te sua, a quella prigionia, però intrattiene con essa un rap­ porto diverso perché ne tematizza la fattualità. Che qui stia aperta una strada, e che la si possa percorrere senza l’esal­ tata pretesa a risultati assoluti, risulta dal fatto stesso che, con ciò, si abbandona definitivamente il problema del meto­ do per volgersi a quello dell’oggetto storico. Cosi si ritor­ na, infatti, sul fruttuoso sentiero dell’esperienza, che sta aperto alla coscienza storica. A questo scopo, è la coscienza storica prescientifica a per­ metterci di fare il primo passo. Essa riposa, come s’è detto, su ciò che, del passato, si protrae fin dentro il presente. Bi­ sognerà chiedersi allora che cosa implichi e che struttura abbia questo « protrarsi dentro » [Hineinragen\. La cosa stessa è, infatti, abbastanza strana: essa racchiude, per quanto suoni contraddittorio, un esser-presente di ciò che è passa­ to. Siamo evidentemente di fronte a un aspetto fondamenta­ le della struttura dell’essere storico, capace di interessare, a un tempo, il divenire storico e la coscienza che ne abbiamo.

16. L’esser-presente di ciò

che è passato, nella

STORIA

La storia non è un puro e semplice succedersi di accadi­ menti, ma è interdipendenza nell’accadere e interdipendenza di una specie molto particolare. Una sua caratteristica parti­ colare è che in essa il passato non è passato completamente, scomparso e del tutto morto, ma, anzi, resta in qualche mo­ do ancora vivo nel presente. Naturalmente, non ne viene per per questo affatto diminuita l’unicità e l’irricuperabilità.

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La presenza del passato non è ripetizione, e neppure ana­ logia: si potrebbe chiamarla, molto più propriamente, ima specie di conservazione, un restar presente di ciò che è sta­ to, nonostante il suo sprofondar via. È soprattutto questo, che noi possiamo indicare come un « protrarsi » di ciò che è passato, « dentro » nel presente. Dunque, come si pro­ trae il passato nel presente? E in quali modi ciò avviene? Si potrebbe credere, a tutta prima, che uno di questi modi sia, innanzi tutto, il nesso causale. Non c’è, qui, un passato che determina il presente e in esso si rivela? Non ci sono, d’altra parte, interdipendenze causali nella storia? Ep­ pure, questo non è affatto un primo modo di quel protrarsi. Nel rapporto causale, la causa passa nell’effetto o, meglio an­ cora, «trapassa in esso». In questo trapasso, essa si consuma, scompare del tutto, non si mantiene nell’effetto e non vi si ri­ vela. Quando non si conosca già da prima — per esperienza o per scienza —la particolare specie del processo, non si può in nessun modo desumere, dall’effetto, la particolarità della causa. Questa è sparita nell’effetto, non vi si mantiene, non vi si protrae. Se il processo storico non fosse altro che un processo causale, non vi sarebbe alcun protrarsi del pas­ sato nel presente. Anzi, i particolari modi secondo cui il pro­ cesso si protrae si possono cogliere in piena luce proprio col contrapporli al rapporto causale. I due più importanti, ben­ ché non si possano distinguere con assoluto rigore l’uno dall’altro, stanno tra loro in un contrasto tuttavia sensibile. Il primo, possiamo chiamarlo un protrarsi « tacito ». Esso si estende a tutto ciò che, del passato, è vivo in noi, aderisce a noi o ci domina, senza che noi lo sentiamo come passato. È il caso di quasi tutte le sopravvivenze tradiziona­ li, ad es. usi, costumi, buone maniere, il cui senso ori­ ginario è dimenticato né, d’altronde, corrispondereb­ be più alla mentalità contemporanea; che, tuttavia continua­ no a sussistere come « contemporanee » perché sentite come tali e perché ciascuno le conserva e le fa proprie. Lo stesso vale per i modi di dire e di pensare, per certe intui­ zioni religiose o filosofiche, per certe tendenze morali, giuri­

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diche o politiche, per le l’idee e i valori, i pregiudizi e le su­ perstizioni. Nessuno si dà pensiero, nella vita pratica, circa la loro provenienza. Nulla di tutto questo è consaputo come passato, e non è neppure dato oggettualmente; d’altra parte, la sua efficacia non è ancora scomparsa. Continua a vive­ re in coloro che vivono, come ciò che era prima — non immutato, tuttavia riconoscibile per chi lo studia. Il passato è, qui, ancora presente, ma tacito, impercettibile. Il secondo modo è, invece, un protrarsi « percettibile » ed ha, fin dal principio, un comportamento opposto al pre­ cedente. Qui, l’uomo vivo sa che il passato è passato — sia che l’abbia sotto gli occhi come tale, sia che lo « senta » co­ me nient’altro che passato. Egli conosce anche quel suo protrarsi, e tale conoscenza è parte integrante di questa for­ ma del protrarsi stesso. In questo caso, qualcosa parla a lui come una voce che viene dal passato e, talvolta, essa è sen­ tita effettivamente come tale. L’immagine della percetti­ bilità vuol esprimere appunto questo rapporto: l’esser pre­ sente del passato nella coscienza che il presente ne ha. Ogni nostro vissuto, che il ricordo tenga fermo, si prolunga, in questo senso, percettibilmente nel presente: e cosi pure tutto ciò che ci viene raccontato o è contenuto nella tradizione fa­ migliare o locale, nella leggenda e nell’aneddoto, per non par­ lare dei ricordi a cui ci rimandano sculture, edifici, rovine, pit­ ture. Tutti questi elementi del passato, naturalmente, pos­ sono anche esser vivi in coloro che vivono, senza che essi deb­ bano saperlo espressamente. In tal caso, il protrarsi ta­ cito copre quello percettibile e i due si completano a vicenda: il passato storico di un popolo, ad es., si conserva per lo più in ambedue le forme, benché in porzioni diverse e solo parzialmente coincidenti. Nel caso del protrarsi per­ cettibile, ciò è ben evidente quando si visitano paesi di antica e grande cultura e le tracce del passato si affollano davanti a noi in tutta la loro lontananza, estraneità e stranezza. Ciò di cui sono tracce è scomparso dalla vita storica e può pro­ lungarsi fino a noi solo per mezzo di una presentificazione oggettuale.

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Una particolare sottospecie del protrarsi percettibile è quella fornita dalla scrittura, la quale costituisce un caratte­ ristico problema parziale dell’essere spirituale, e co­ me tale dovrà essere studiata a fondo più avanti. La percet­ tibilità e l’oggettività risultano qui straordinariamente po­ tenziate dalla singolare capacità della scrittura di lasciar emergere ciò che non è presente. Non è un caso che la sto­ riografia si attenga in primo luogo a questa fonte. Soltanto al quarto posto si colloca, infine, la scienza storica. Questa non si identifica affatto con le proprie fon­ ti, neanche là, dove esse siano già documenti seriori nella forma di scritti o immagini, ma comincia sempre e soltan­ to con la loro valutazione e valorizzazione e dipende, per­ ciò, costantemente dalle forme fondamentali del protrar­ si. Si tratta di una dipendenza la cui determinazione è ca­ ratteristicamente duplice: mentre il momento selettivo del­ la ricerca storica, quello che ha una connotazione valutativa e conferisce una direzione al problema, è ancorato quasi esclusivamente a tutto ciò che, dal passato, tacitamente si prolunga nel presente; quasi tutto il materiale su cui opera, le si offre invece nel modo del protrarsi oggettualmente percettibile. Poiché, ora, sia la difficoltà metodica che la storicistica aporeticità della coscienza storica risiedono com­ pletamente nella prima specie di dipendenza, è facile capire che l’ulteriore chiarimento della situazione va cercato nel problema del protrarsi tacito. A questo aspetto del problema si riferiscono le ricerche contenute nella II parte di questo libro. L’essere spirituale come fenomeno comune sovrapersonale è il piano su cui il protrarsi tacito si muove.

17. Momenti selettivi

nella conservazione del pas­

sato

Non tutto ciò che è passato si protrae nel presente e ogni conservazione di ciò che è storicamente divenuto, sotto-

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stà a una selezione. Ma non l’opinione e la valutazione deci­ dono che cosa, del passato, debba sopravvivere e che cosa no, bensì il contenuto e il carattere dell’accaduto stesso, di quel­ lo che è passato e dovrebbe protrarsi, come anche del presen­ te dentro il quale soltanto esso potrebbe protrarsi. Qui, dunque, non regna arbitrio alcuno e non abbiamo neppure una scelta cosciente, ma solo lo storico variare dell’esistente. Ciò che in esso o contro di esso si afferma, si conserva nel nuovo configurarsi dei rapporti e permane in essi presente. Se ne deduce che due sono i momenti rispetto ai quali si distingue conservazione e trapasso. Nel caso del protrarsi tacito, si possono indicare senza difficoltà: il primo è la proprietà (di una costumanza, di un modo di vedere, ecc.) di essere-in-vigore, di essere ancora-vivo, cioè la capacità del­ la « cosa » stessa di trattenere in sé, con una certa costanza, la persistente vitalità dello spirito anche là dove, per altri rispetti, esso muti incessantemente. Lo si vede bene nel ca­ so degli ordinamenti giuridici: finché sono espressione di un effettivo sentimento del diritto, la loro validità dura; man­ tenuti oltre questo limite, sono sentiti come invecchiati, e allora insorge la tendenza a respingerli. Il secondo momento, invece, risiede nella specificità del presente o, per cosi dire, nella capacità dello spirito vivente di trasfigurare un proprio contenuto invecchiato, di adattar­ lo convenientemente alla nuova forma di vita. Tra gli esem­ pi più evidenti, ne sono la struttura statuale, la costituzione e tutte le istituzioni pubbliche le quali, nel caso di un po­ polo in energico sviluppo, sono in continua trasformazione. È pressoché impossibile, in pratica, nonostante le illusioni dei periodi di rivoluzione, far spuntare improvvisamente dal terreno una nuova struttura statuale. La novità vera è sempre un tentativo arrischiato, è instabile, insostenibile perché inusitata, e, solo dopo esser stata sperimentata a caro prezzo, può consolidarsi, ma questo, ancora, solo in quanto in essa venga ripresa una precedente esperienza. La via più naturale è la trasformazione organica dall’in­

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terno, nella quale agisca la potenza trasfiguratrice del nuovo che diviene. Nel protrarsi percettibile, dove la cosa non ha più in se stessa alcuna vitalità e rimmediatezza della tradizione è stata lacerata, i momenti essenziali sono altri e diversi. Ciò che qui si protrae, si mantiene entro un medium di maggio­ re durata nel quale è « obbiettivato » e attraverso il quale viene fissato. Le tracce dei tempi trascorsi possono dipendere dalla pietra o dalla scrittura per mezzo della quale arri­ vano alla posterità. D’altra parte, perché questo avvenga, è necessario anche un determinato atteggiamento dell’epoca presente: i tempi devono essere aperti a quelle tracce che loro si offrono, devono avere l’organo adatto a coglierle. An­ che il gusto e l’interesse devono sentirsi attratti. Un’opera letteraria o artistica è come insabbiata e sepolta in un’epo­ ca che non la capisce, che non sa riconoscere ciò che essa « dice », e questo può accadere anche di un’opera che tut­ ti hanno sempre sott’occhi. Ogni « rinascimento » avviene attraverso un volgersi interiore e spontaneo dell’interesse, perché è un ritrovare e un riscoprire. A questo, si intrecciano poi altri motivi molto impor­ tanti: può esserci, ad es., una valorizzazione del prestigio e dell’autorità dell’antico, in quanto un certo presente in­ tenda servirsene a giustificare determinate tendenze at­ tuali. Allora ci si richiama senz’altro all’antichità della tra­ dizione come a una garanzia o a una consacrazione. Fu cosi quando i fondatori dell’impero tedesco si richiamarono all’antico « impero romano germanico »; è cosi ogni volta che la ricerca religiosamente ispirata si richiama ad Agostino o a Lutero. Neppure il filosofo disdegna simili pezze d’ap­ poggio: « Questo l’ha detto Kant » o « si trova già in Aristotele » — sono nomi che ispirano soggezione. Infine, non bisogna dimenticare che ciò che corrisponde a un bisogno costante, a una problematicità sempre viva, a un’inclinazione generalmente umana, si conserva con tanto maggiore facilità. Molte concezioni religiose, anche se d’origine piuttosto fortuita e non più adeguate alla cultu­

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ra più recente, dimostrano pur sempre una straordinaria ca­ pacità di sopravvivenza storica, perché continuano a soddi­ sfare una profonda nostalgia che è negli uomini, la quale non muta benché muti il loro modo di comprendere il mondo. Qualcosa di simile accade pure ai problemi fondamentali della meditazione filosofica, i quali, anche nella variopinta molteplicità e opposizione dei sistemi, si conservano perché il mondo e la vita presentano agli uomini sempre gli stessi enigmi. Su questa stessa base si perpetuano anche pregiudi­ zi e ogni altra futilità: per es., anche nei tempi più illumi­ nati, resiste la credenza superstiziosa nei segni di buono o cattivo augurio, inconfessata, sempre irrisa ma indistruttibi­ le. Sta di fatto che l’uomo precipita sempre di nuovo nella stessa perplessità di fronte a ciò che non è in suo potere, a ciò che egli chiama « caso ». La sua ignoranza circa il prossimo futuro è ineliminabile.

18. Distinzione

delle diverse sfere di vita storica

L’atteggiamento fondamentale di un’epoca si riflette uguale in ambedue le forme fondamentali del « protrarsi » che abbiamo indicate. Ci sono epoche tradizionaliste ed epoche antitradizionaliste, quelle che conservano il vec­ chio perché è vecchio e quelle che per la stessa ragione lo rifiutano. Per le une, è questo un valore comprovato e consa­ crato, per le altre, una sopravvivenza e un peso. Nel primo caso, la tacita premessa è: era meglio una volta, i vecchi erano più intelligenti, erano ancora vicini a Dio; nel secondo, invece: prima era peggio, i vecchi non sapevano ancora quello ohe oggi sappiamo, la loro autorità è sospetta. Come si vede, nel contrasto di questi atteggiamenti va­ lutativi si ripresentano ambedue gli aspetti filosofico-storici del descenso e dell’ascenso, con la differenza che, qui, pos­ siamo riconoscerli immediatamente, prima e senza bisogno di una introduzione da parte della riflessione filosofica. Si

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tratta di modi fondamentali di atteggiarsi della vita sto­ rica in ogni epoca, forme essenziali dello spirito del tem­ po. Le teorie filosofiche che vi si allacciano, la filosofia stessa, è storicamente secondaria, è già un portato di quelle, un loro precipitato nel pensiero. Si confronti l’epoca dell’Umanesimo con quella dell’illuminismo: là una non incrinata pietà per ogni reliquia del passato, qui la tendenza generale a disfarsene. Ad ogni atteggiamento di fondo corrisponde un proprio precipitato filosofico. A questo proposito, più ancora che le epoche, si potreb­ bero distinguere le diverse sfere della vita storica e, soprat­ tutto, della vita spirituale. Le opposizioni si trasferiscono allora nella simultaneità della loro comune esistenza. A cau­ sa della loro intima struttura, tali sfere sono molto variamente atteggiate rispetto al proprio passato, e ciò impli­ ca una fondamentale differenza nella rispettiva coscien­ za storica che le accompagna. Ci sono sfere portate per voca­ zione alla storia e sfere altrettanto naturalmente « antistoriciste »: a seconda del prevalere delle une o delle altre, in una certa epoca, anche lo spirito dell’epoca apparirà in gene­ rale rivolto alla storia o da essa remoto. A uno degli estremi di questa scala sta, indubbiamente, la sfera della vita religiosa, soprattutto nel caso di reli­ gioni che si richiamano a una rivelazione o alla figura di un fondatore. La vita religiosa, non solo è rivolta al passato ma, anzi, vive di un passato che sente come sempre presente, se non addirittura elevato al di sopra del tempo. Un fatto o evento originario oggettivamente percettibile e, come tale, temporalmente localizzato, è alla base di tutto; mentre il modo di sentire religioso, che lo comprende come qual­ cosa di a-temporalmente presente, non cancella affatto quella localizzazione temporale. Ad essa corrisponde l’assoluta au­ torità del documento, del libro sacro. Una religione che per­ desse questa presenzialità del passato perderebbe se stessa, cesserebbe di essere ciò che è, riducendosi a reminiscenza. Se all’estremo opposto poniamo la sfera dell’inge­ gnosità pratica e del dominio della natura, ossia la tecnica,

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il contrasto diventa evidente. La tecnica, pur valendosi di ogni più lontana acquisizione, a patto che le sia utile per progredire, non si rende affatto conto che essa sia qualco­ sa di passato. Cerca dovunque le vie più brevi per quelli che sono di volta in volta i suoi fini e vi si immerge completame­ le, vive tutta nel presente e volta le spalle al passato. Ha ben­ sì una storia, non però una coscienza storica. II vecchio è per lei soltanto sopravvissuto, mentre il nuovo è vero. Tra questi estremi si snoda una lunga serie di gradi. È noto con quanta forza il passato faccia valere la propria autorità nel campo del diritto; come, a ogni buon conto, si finisca sempre col riprenderlo in considerazione, e quale accanita resistenza sappia opporre quando si tentino innovazioni. Lo stesso dicasi per le strutture sociali, per la morale, gli usi e i costumi predominanti, e perfino per la lingua. Solo che, in questi casi, il protrarsi del passato è qua­ si sempre tacito, mentre il diritto, già attraverso la ricerca dei precedenti, vive rivolto al proprio passato, ne ha una co­ noscenza oggettiva. Molto più mobile, se non indifferente al tempo che fu, è invece l’economia: sebbene la sua fedeltà alla tradizione sia, per molto lati, straordinariamente tenace, essa non è conservatrice per amore del passato; piuttosto, nella misura in cui si attiene a metodi sperimentati, il passato la trattiene. È soggetta, d’altra parte, a pressioni molto violente che la costringono ad abbandonare, via via, i metodi antiquati; pressioni esercitate dalla tecnica, dalla scoperta di nuove riserve di materie prime o dalle sue stes­ se crisi di produzione o di mercato, tutti fattori, questi, che incessantemente contrastano all’inerzia della tradizione. Un posto a parte spetta alle scienze. Le scienze natura­ li, per es., non si interessano affatto del proprio passato; scartano spietatamente ciò che non trova conferma, ma con altrettanto scrupolo raccolgono ciò che permane. Dimostra­ no, quindi, un’apparente fedeltà alla tradizione: in realtà, è soltanto il loro « sicuro cammino » a conservare le con­ quiste fatte. Fatto tesoro di un bene storico, eccole poi pri­ ve di coscienza storica. 6.

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Ben diversamente la filosofia — e, con essa, alcune Scienze umane. Qui non c’è alcun cammino che sia sicuro; solo uno spingersi avanti a tentoni, con continue e sconosciu­ te occasioni di errore. Di qui, una certa insicurezza rispetto al passato. Nel suo progresso, la filosofia non sa conservare tutte le proprie conquiste, non accumula metodicamente il « buono » della storia, non sa in ogni momento ricono­ scerlo con certezza come tale. Cosi, durante la strada, essa deve vedersela sempre di nuovo con ciò che s’è lasciata al­ le spalle, e sempre di nuovo deve decidere che conto farne. Anche la filosofia vive rivolta al passato. Ma non vive del passato. Più difficile dire che posto spetti qui alle arti, nelle qua­ li la più profonda pietas verso le opere dei vecchi maestri può accompagnarsi a una consapevole presa di posizione contro di essi e, comunque, alla più violenta lotta per il nuo­ vo. Quando l’operare artistico è dominato dalle vecchie for­ me stilistiche, il loro protrarsi nel presente è tacito; quando poi diventano percettibili, vuol dire che sono ormai divenu­ te «obbiettive», oggetti di una coscienza nella quale ci si sa da esse distanti. Allora si potrà anche rispetta­ re e ammirare l’antico, ma non più sentirlo come proprio: il nuovo, che si fa luce, l’ha già lasciato indietro. Il nuovo modo di vedere, di udire, di sentire preme incessantemente verso ciò che meglio gli conviene. Esso solo, motore della storia, si muove e vive secondo una legge sua propria e soltanto in essa; in questo senso, esso è, nonostante tutto, alieno dal passato e, come le sue opere, appare a se stesso in un eterno presente.

19. L’essere

spirituale nella storia

Queste riflessioni sono soltanto accenni e prospettive per possibili ricerche che non rientrano nel nostro compito presente; perciò non hanno alcuna pretesa di originali­

;

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tà e compiutezza. Dal punto di vista delle nostre ricerche, esse hanno l’unico merito di averci portato, senza che ce ne accorgessimo, dal problema della storia, cosi come esso og­ gettivamente si pone, al problema fondamentale dell’essere spirituale. Ci conducono, insomma, dal problema del pro­ cesso storico e della sua struttura, alla questione relativa alla struttura e al modo d’essere del contenuto del proces­ so, ossia di ciò che « ha una storia ». È certo che non è solo l’essere spirituale ad aver una storia. Ma è altrettanto certo che ogni storia è anche ed essenzialmente storia dell’essere spirituale. I popoli, gli stati, l’umanità non sono, in quanto tali, spirito; ma senza l’impronta dello spirito in essi, il flusso degli accadimenti che li attraversa non sarebbe storia. D’altra parte, lo spiri­ to, in ogni sua forma, importante o meno importante, ha indubbiamente sempre una storia. Questa affermazione, che oggi suona alquanto ovvia, non lo è stata sempre. È la tesi fondamentale dello storicismo. Ed è fondamentale quanto basta per meritare, nonostante le aberrazioni dello stori­ cismo, di non essere dimenticata. Con le precedenti considerazioni abbiamo dunque mostra­ to come la storicità di ogni presente implichi un passato, che in esso si protrae; come il protrarsi riveli certe forme essenziali e come queste variamente si modifichino, in rela­ zione alla struttura differenziale propria dei campi spirituali. Come è evidente, le differenze che ne emergono non sono del genere di quelle che si susseguono nel tempo, ma di quel­ le che si ritrovano in tutte le epoche. Non si tratta, quindi, neppure di differenze storiche, ma di differenze che potreb­ bero, anzi, condizionare la struttura del processo storico. In generale ne consegue: che ci sono condizioni della struttura del processo storico, le quali non sono, a loro volta, storiche; che è possibile coglierle solo da un atteggia­ mento che guardi da un’altra dimensione, in un certo senso, verticalmente rispetto al fluire del tempo; che si tratta di strutture d’essenza (sia dell’essere spirituale in generale, sia dei campi spirituali o dei loro rapporti reciproci).

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INTRODUZIONE FILOSOFICO-STORICA

È inoltre possibile indagare tali condizioni strutturali e, precisamente, prima di affrontare il problema filosoficostorico vero e proprio il quale, infatti, non ne è pregiudica­ to in alcun modo. A rigore, neppure i processi parziali, quali si svolgono nei singoli campi spirituali, sono « storia », ma solo i loro incontri, intrecci, stratificazioni e condiziona­ menti reciproci in un tempo e in un accadere complessivo; in breve: solo la loro concreta unità è storia. L’analisi delle condizioni strutturali può essere qui soltanto un lavoro pre­ paratorio a una filosofia della storia. Questo valga di orientamento. Prima di tutto bisogna sapere che cosa sia « spiri­ to » in senso storico — spirito rispetto a cui e in cui si co­ stituiscono quei processi parziali. Lo spirito storico non è lo spirito singolo della persona. È, piuttosto, un fenome­ no complessivo, di altro ordine di grandezza, che, a buon di­ ritto, possiamo chiamare « spirito obbiettivo ». Che cosa questa definizione significhi, non può dircelo però alcuna metafisica, sia essa idealistica o non, ma soltanto l’analisi del suo ricco contenuto fenomenico. Inoltre, e in secondo luogo, bisogna cercare di mettere in chiaro il senso e le implicazioni di quelle obbiettivazioni dello spirito che, quasi incapsulate nelle « opere », trasportano e conservano un bene spirituale attraverso le vi­ cende dello spirito storico. Evidentemente, il loro modo d’essere e la loro norma sono diverse da quelle dello spirito storicamente progrediente e mutevole. In terzo luogo, bisognerà preparare il terreno ai due com­ piti suddetti per mezzo di un’adeguata comprensione dello spirito individuale e personale. Si vedrà che questo non è il compito più facile. Tuttavia, il fatto che le persone appaiano per lo più in datità immediata, comporta che il corso delle nostre ricerche debba iniziare proprio da que­ st’ultimo problema.

Parte I LO SPIRITO PERSONALE

Sezione I

DELIMITAZIONE DEL PROBLEMA

Capitolo I DEFINIZIONI ERRATE

1. Del

cominciare senza aver definito i concetti

Prima di fare qualunque nuovo passo innanzi, sem­ brerebbe indispensabile poter dire cosa sia lo spirito, in ge­ nerale. Una definizione ci vorrebbe, anche soltanto nomina­ le, non fosse altro che per escludere equivoci. A questa richiesta, dobbiamo invece opporre un rifiuto. Dello spirito e di quasi tutti i concetti tematici fondamenta­ li della filosofia (materia, sostanza, vita, coscienza o, ad­ dirittura, essere, realtà, valore) va detto che, a maneggiare simili oggetti, si scopre inevitabilmente come una de­ finizione nominale serva soltanto ad ostacolare la ricérca. Non solo sarebbe metodicamente sviante, ma non ci servireb­ be affatto per capire qualcosa. La verità è, e lo diciamo subito, che non siamo affatto in grado di definire tali con­ cetti fondamentali, perché ciò presuppone una ricerca che non abbiamo ancora condotto. Ognuno degli elementi che rientrano nella definizione va elaborato, e soltanto dopo aver­ ne elaborati un buon numero, si scopre quanto siano errate tutte quelle definizioni provvisorie che si possono dare sul­ la base dell’uno o dell’altro di essi.

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

Piu pulito, anche se dapprima meno soddisfacente, è un procedimento che sappia rinunciare in tempo a una preci­ sione logica necessariamente ingannevole. In ogni caso, non è possibile attingerla prima di aver chiarito i re­ lativi fenomeni: solo da essi si possono ricavare determinazio­ ni positive. Nel caso nostro, tale descrizione coincide quasi del tutto con la ricerca che stiamo per intraprendere. Dato lo stato attuale del problema, anche a proposito del­ l’essere spirituale la cosa migliore da farsi sarà soltanto di mettere in luce i tratti essenziali di una sterminata folla di fenomeni. Se volessimo cominciare con una definizione di concetti, finiremmo coll’avvolgerci in un circolo e mette­ remmo il carro avanti ai buoi. A meno che, naturalmente, non volessimo accogliere uno dei molti concetti di « spiri­ to » offertici da qualche famoso sistema filosofico. Ma chi non s’avvede che, in tal caso, accoglieremmo anche dei pre­ supposti non ancora giustificati? Ecco dunque il primo errore che dobbiamo evitare. Se la ricerca comincia senza aver definito il concetto del proprio oggetto, non è tuttavia il caso di dolersene. In fondo, è preferibile cominciare con l’elastico concetto popolare, co­ sa che tacitamente facciamo sempre (salvo che, appunto, non ci contrapponiamo ad esso con una definizione), anziché fornire una definizione insufficiente. Entro certi limiti, tutti abbiamo un’idea della vita spirituale e, se ap­ pena l’approfondiamo, troviamo che anch’essa è più ric­ ca di quanto non si sospetti. Possiamo assumere questa idea come un punto di partenza, nonostante sia tanto diversa in ciascuno di noi e carica di tanti pregiudizi. Il nostro compi­ to sarà di delimitarla e, insieme, di estenderla ma, a questo scopo, dovremo lasciar parlare i fenomeni stessi. Perché i dati si mostrino e si lascino descrivere, bi­ sogna però sgombrare la via da certi ostacoli di altro genere, prodotti non già dal senso comune, ma proprio dal pensiero filosofico. Nessuno vorrà negare, infatti, che il nostro modo di intendere i fenomeni spirituali sia variamente condiziona­ to da formazioni concettuali tratte dalle costruzioni dottri­

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I. - DEFINIZIONI ERRATE

nali di scuole vecchie e nuove. Di solito non ne siamo consa­ pevoli; il nostro pensiero le ha già assimilate. Ma è un fatto che qui si annidano i pregiudizi piu pericolosi. Ne risulta la necessità di stabilire, prima di tutto, che cosa lo spirito non sia o, per lo meno, che cosa non sia sem­ pre. Si imposta così un lavoro preliminare che è insieme di chiarimento e di delimitazione. Il suo scopo è di circoscri­ vere il problema ma, cammin facendo, ci apre anche degli spiragli sui relativi fenomeni.

2. Insufficienza

del concetto di

«

vita

»

Tra i tentativi filosofici di definire l’essenza dello spirito, quello compiuto dalla « filosofia della vita » è for­ se ancora oggi il più corrente. Ha il vantaggio di non limita­ re lo spirito alla singolarità della persona e di far posto invece a fenomeni di maggiore estensione storica. Esso at­ tribuiva allo spirito il carattere della « vita ». Naturalmente non intendeva, con questo, riferirsi alla vita degli animali o delle piante, ma a un tipo più particolare di vita. Con­ tro la parola, intesa rigorosamente in questo senso, non c’è nulla da obbiettare. Senonché, non si riesce ad intenderla in questo senso soltanto: « vita » significa molto di più e questo « di più » si fa valere sempre di nuovo. Senza che noi ce ne accorgiamo, anche i concetti trapassano nell’organologico. Si tratta, in sostanza, della vecchia contrapposizione tra spirito e materia. La materia è rigida, senza vita e, come è naturale, ci rimanda innanzi tutto al suo opposto, la vitalità. In questo c’è del vero. Senonché, la vitalità non con­ traddistingue soltanto lo spirito, ma anche tutti gli strati dell’essere che si trovino « sopra » la fisicità. Se poi si pretende di riferirsi così non già alla vita organica ma a quel­ la « spirituale », anche qui, non c’è nulla da ridire, salvo

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

che si tratta di un idem per idem: cosi facendo, si afferma soltanto che lo spirito ha un carattere spirituale. Ecco perché tutto questo sforzo di caratterizzazione è male impo­ stato. Esso è sterile anche sotto un altro rispetto. Sia la vita umana e personale che la vita storica sono vita spirituale; però, non soltanto spirituale. Saremo allora costretti a in­ tendere la vitalità in ambedue i corrispondenti gruppi di fenomeni come ciò che connette, in noi, l’essere vitale a quello spirituale. E se, per entro questa connessione, vo­ gliamo mettere in rilievo la vita spirituale rispetto alla pura vitalità, dobbiamo evidentemente aver già stabili­ to, in altra sede, che cosa le distingua. Il che significa che dobbiamo già sapere che cos’è lo spirito. Se, infine, per sottrarci alla sua ambiguità, sostituissimo al vivere 1’« esserci » [Dasein], non faremmo che peggiorare ulteriormente la situazione. Infatti, tutto ciò che è reale, c’è: non solo l’uomo e l’animale, ma anche la pietra. E se inten­ dessimo riferirci esclusivamente allesserei spirituale-umano, allora diverrebbe superfluo proprio il concetto di « esserci » e... ci saremmo mossi in circolo.

3. Spirito e

coscienza

Insomma, come si vede, è stato scelto uno strato troppo profondo della realtà. Se prendiamo invece lo strato supe­ riore a questo, troviamo il campo dei fenomeni tematiz­ zati dalla psicologia, quelli della coscienza. Anche l’opi­ nione che lo spirito sia coscienza è molto diffusa. E non è propria soltanto dello psicologismo: anche le teorie ideali­ stiche l’hanno sempre tenuta in favore. È però facile dimo­ strare che anch’essa pesca troppo a fondo. Benché, come vedremo in seguito, non tutto l’essere spi­ rituale sia coscienza — è ovvio che questa appartiene, in qualche modo, alla sfera dello spirito. Ci si può chiedere se

I. - DEFINIZIONI ERRATE

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lo spirito, a sua volta, sia parte della coscienza. Ci sono for­ me di coscienza che, di spirituale, hanno ben poco; alle qua­ li non si può negare ingegnosità pratica e una certa intelli­ genza; che restano, tuttavia, strettamente strumentali ai bisogni vitali e incapaci di qualsiasi intenzionalità autono­ ma. Ne troviamo qualche esempio tra gli animali superiori, ma nön si può dire quanto si estendono nella scala dell’evo­ luzione e, a questo proposito, i pareri sono ancora oggi di­ scordi. Probabilmente si può dire che, almeno là dove si hanno organi sensitivi, si trovi anche un inizio di coscienza, sia pure assai dissimile dalla nostra. Esperimenti di psico­ logia animale sembrano anzi confermarlo. Si tratta co­ munque di gradazioni e sfumature di cui non riusciamo in alcun modo a fissare la varietà. Come la coscienza non-spirituale trapassi in spirituale, non è qui il caso di discutere. Indubbiamente però, con quest’ultima, si instaura qualcosa di speciale, un novum che non è deducibile logicamente dalla serie dei gradi, ma ad essa si aggiunge, in modo analogo al rapporto che l’orga­ nismo stabilisce tra sé e la natura inorganica. L’esistenza di questa relazione è indubbia, benché non sia il caso di voler spiegare l’organismo a partire da una forma, sia pure evolu­ ta, di meccanismo. Analogamente, non sarà dunque il caso di voler comprendere lo spirito in base alla coscienza. Il problema dell’essere spirituale non è di competenza della psicologia: ecco una certezza che, da alcuni decenni, può dirsi acquisita. Era una tipica tendenza dello psicolo­ gismo, quella di comprendere il logico, lo gnoseologico, tut­ ta l’ampia sfera dell’ethos, del creare artistico, della fede, ed altro ancora, come psichico e di spiegarlo secondo leggi psichiche. È risultato che si trattava di un vicolo cieco. Il superamento dello psicologismo ha voluto dire svelare all’occhio del filosofo tutto il regno dell’essere spirituale ’. 1 Che, da allora, la psicologia stessa sia mutata, fino a diventare, in alcuni importanti autori, una scienza dello spirito, riconosciamo qui di buon grado. Solo che, appunto, in simili casi, essa è qualcosa di più di quanto il suo nome non dica. Anzi, dovrebbe forse as­ sumerne un altro.

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

Dunque, non si può caratterizzare lo spirito in ba­ se alla coscienza: anche così si pescherebbe troppo profondo. Quando però, come di fatto avviene, intendiamo con questa parola la sola coscienza spirituale-umana, ricadiamo nel ca­ so del termine vita, usato nel senso di vita spirituale e, di nuovo, ci muoviamo in circolo. Bisognerebbe allora sapere in anticipo che cos’è spirito per poter caratterizzare la co­ scienza, ossia lo spirito cosciente. La caratterizzazione suddetta è sbagliata in un altro senso ancora. Non è vero che ogni attività dello spirito sia cosciente. Non è vero, per lo meno, nel caso del creare e dell’intuire artistici che, anzi, non sanno quello che fanno. E cosi per ogni altro modo intuitivo di comprendere, pensare, arguire: le vie della riflessione, anche se corrispondono rigorosamente alle leggi della logica, non cadono, in questo caso, entro la coscienza, ed è soltanto una successiva rifles­ sione di tipo filosofico a scoprirle. A scoprirle come quelle, appunto, che il pensiero filosofico ha sempre già percorso. Lo stesso dicasi delle innumerevoli generalizzazioni che noi abbiamo sempre già compiuto ogni volta che arriviamo a una determinata rappresentazione, convinzione o concezio­ ne su cose, persone, situazioni. Il cammino dell’esperienza viva resta nell’ombra, solo i risultati ne balzano alla luce della coscienza. E tuttavia, nessuno vorrà negare alle svaria­ te sintesi, da noi compiute nel movimento stesso dell’espe­ rienza, il carattere di attività spirituali.

4. Lo

SPIRITO IN RAPPORTO ALL’ESSERE PSICHICO SUB­

CONSCIO

È quest’ultima considerazione a rivelarci l’esistenza di un’altra possibilità: che l’essere spirituale abbia le sue radici nei processi psichici subconsci e possa venir compreso in base ad essi. È un’ipotesi che ha fatto molta strada in alcuni sistemi filosofici ed è stata, anzi, sviluppata fino al limite

I. - DEFINIZIONI ERRATE

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di una vera e propria metafisica generale dell’ «inconscio ». Su tale metafisica, non sprechiamo parole: essa ha il merito di aver tanto chiaramente svelato nelle proprie conseguenze la perniciosità dei propri presupposti, da essersi distrut­ ta da sé. Resta però il fatto indiscutibile che l’essere psichico non si riduce alla coscienza, gli atti psichici non si riducono a coscienza di atti e meno ancora al loro « esser vissuti »: che, anzi, l’esser-vissuto, in quanto tale, non appartiene affat­ to alla loro essenza. La psicologia del vissuto, che identi­ ficava l’atto col suo esser vissuto, s’è rivelata insostenibile. Se, quindi, c’è un essere psichico che non si riduce a coscien­ za e un essere spirituale che, neppure esso, si riduce a co­ scienza, è ingannevole riferire questo a quello e definire lo spirito per mezzo dell’essere psichico. Con questo torneremmo indietro ad uno strato inferiore dell’essere. L’apparenza di una omogeneità fra i due ambiti problematici può sussistere soltanto finché non li si osservi più da vicino; essa è favorita dal fatto che la nostra conoscen­ za dell’essere psichico subconscio è molto limitata. Molto più noto è l’inconscio spirituale che, però (circostanza deci­ siva) è anche profondamente diverso dal primo. Lo si è vi­ sto dagli esempi che abbiamo fatto. Le leggi logiche sono obbiettive e riguardano la struttura dei contenuti di pensie­ ro, non degli atti, delle operazioni o degli stati. Se quindi noi, nel nostro pensiero oggettivamente diretto, le osservia­ mo senza saperlo, non ne segue che appartengano all’essere psichico. L’incoscio psichico collima, con la coscienza, da un lato diverso da quello dello spirito; o, se si preferisce, si pro­ trae nella coscienza, a determinarla, muovendo da un altro lato. Esso è lo sfondo della coscienza, la profondità dalla quale questa si leva, e costituisce una sfera di rapporti ancora in gran parte « animali ». Nella scala del Vitale, sta molto piu in basso della coscienza e non è distinguibile dai fenome­ ni enigmatici (e forse per essenza enigmatici) dell’istinto. Cosi si può capire perché spesso si sia pensato che già la

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PARTE 1. - LO SPIRITO PERSONALE

vita vegetale contenga dello psichismo. Può essere un errore, ma ha un senso. Per contro, l’essere spirituale, cosciente o incosciente, compare solo a ridosso della coscienza, quasi la afferra dal­ l’alto e la porta al di là di se stessa. È questa la sfera ontica piu elevata. La coscienza è, in un certo senso, solo una sot­ tile striscia tra questa sfera e lo psichismo inconscio. Ambe­ due si protendono sul piano di quella e la determinano varia­ mente, se pure in senso opposto. Dal canto suo la coscienza conosce questo contrasto e distingue, in linea di massima con molta precisione, anche se non sempre e in tutti i casi, le potenze superiori e inferiori con cui ha a che fare.

Capitolo II

TEORIE FILOSOFICHE UNILATERALI

1. La teoria dell’autocoscienza

Se con la coscienza abbiamo pescato, ancora una volta, troppo a fondo, possiamo forse aspettarci che l’autocoscienza corrisponda meglio a quello che chiamiamo lo spirito. Questo nuovo termine suscita una questione molto più seria. Evi­ dentemente, qui non si tratta più di aver colto o mancato la sfera cercata: sarebbe difficile, infatti, attribuire l’autoco­ scienza a qualcosa d’altro che all’essere spirituale. La que­ stione è solo, se lo spirito consista veramente, in quanto tale, nell’autocoscienza. Aristotele, che fu il primo ad elaborare un concetto pre­ ciso dello spirito, lo ha definito come il « pensiero di se stes­ so »; una definizione che ha resistito fino ad Hegel e si ritro­ va nella dottrina leibniziana della appercezione, nel kan­ tiano « io penso » - che - accompagna, nel concetto fichtiano dell’io. Secondo Hegel, lo spirito è fondamentalmente il suo proprio esser-per-sé; e se anche, nell’andamento gra­ duale di questo esser-per-sé, un’imperfezione si annida, essa fa parte tuttavia dell’essenza dello spirito e, al suo inter­ no, preme verso la propria risoluzione. Il presupposto è, qui, l’affermazione che il compimento appartiene all’essenza dello spirito in generale. Questo stesso motivo metafisico traspare già in Aristotele: il νους dev’essere « pensiero di pensiero » perché dev’essere pensiero della perfezione più alta; solo cosi è puro νους. Ma la perfezione più alta è, ap­ punto, lui stesso, e perciò deve pensare se stesso.

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

Questo profondo pathos dell’autocoscienza conviene, da un certo punto di vista, perfettamente al problema dello spirito: è l’espressione del fatto che lo spirito va concepito come « la cosa più alta » che noi conosciamo. Per la stessa ragione, questo punto di vista è bene impostato e supera ampiamente tutte quelle teorie che « pescano troppo a fon­ do ». Se poi « il più alto » sia da intendere anche come per­ fetto, è un’altra questione. Qui deve cominciare la critica. È poi vero che lo spiri­ to è una perfezione? Sarà vero, forse, per lo spirito divino, al quale Aristotele appunto si riferiva. Lo stesso valga per le determinazioni hegeliane, che hanno tutte la loro radice nel pensiero dell’assoluto. Ma lo spirito di cui noi trattiamo, non è divino, né assoluto, ma è solo quello che noi conoscia­ mo, il nostro, quello finito, empirico, lo spirito, insomma, che vive e muore nel tempo, che ha una storia e un desti­ no. Tale spirito empirico, indubbiamente, non è perfet­ to. A modo loro, lo sono molto di più l’organismo o, nella sua infallibile legalità, la materia inorganica. Ogni strato dell’essere ha la sua specie di perfezione che, proprio negli strati inferiori, sembra realizzarsi nel modo più completo, forse proprio perché è una perfezione di specie inferiore. Lo spirito, quello noto a noi, è tra le cose più imperfette, ben­ ché la sua specie sia la più elevata. Di rado mantiene nella realtà ciò che la sua idea promette e la sua vita è un inces­ sante sforzo per la propria realizzazione. A questo proposito, è il caso di superare certi pregiudizi, che, non visti, entrano però in molte definizioni filosofiche. Quanto all’autocoscienza, come tale, bisogna tener presenti tre punti: 1. C’è anche un’autocoscienza molto imperfetta. È pur ve­ ro che solo un essere spirituale è in grado di servirsene, ma anche per lui non cade dal cielo e deve essere conquistata. Una coscienza capace soltanto di accompagnare l’io è pura­ mente formale, non è un sapere pieno e concreto circa se stessa. 2. Lo spirito deve bensì essere capace di autocoscienza,

II. - TEORIE FILOSOFICHE UNILATERALI

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ma il suo dominio non comincia con l’autocoscienza. Non è vero che lo spirito sappia sempre che cosa esso stesso sia. Er­ rata è soprattutto l’affermazione hegeliana secondo la quale lo spirito è, in realtà, sempre ciò che di se stesso conosce. Per lo piu, anzi, ignora che cosa esso stesso sia, eppure è spirito nel suo sapere di altro. Nulla è più raro e difficile da ottenere di una effettiva autoconoscenza. Per solito lo spirito sa, di sé, solo ciò che, vivendo, « esperisce » come a sé pertinente. Cosi l’uomo viene a sapere la verità sulle proprie intenzioni solo quando queste gli divengono sensi­ bili nelle sue azioni. Quello che la voce popolare chiama « coscienza di sé » è piuttosto autodisconoscimento che co­ noscenza di sé. È l’orgogliosa consapevolezza della tracotanza del « sé ». 3. E non è vero neppure che sia essenziale allo spirito Bes­ ser rivolto a se stesso, cioè, avere se stesso per oggetto. Piuttosto, esso ha per oggetto qualunque cosa, salvo se stes­ so. È per natura rivolto a tutto ciò che incontra, è, in­ somma, molto più coscienza del mondo, che autocoscien­ za. In ciò sta la sua apertura verso il mondo in cui si trova. Altrimenti, infatti, se ne starebbe chiuso in sé. Che il suo oggetto più alto, e forse anche il più attuale, sia simile a lui, non cambia nulla: i suoi orizzonti si stendono, per quanto spaziano i loro raggi, verso ciò che esso non è. Uno spirito che fosse pura autocoscienza, sarebbe uno spirito li­ mitato a se stesso. Naturalmente, la tesi che lo spirito sia autocoscienza potrebbe non implicare necessariamente che esso sia rivolto su se stesso: però lo suggerisce involontariamente. Da que­ sta impostazione sono usciti, del resto, fin troppi pregiudi­ zi idealistici. Bisogna quindi attenersi senz’altro all’importo positivo della tesi opposta: lo spirito, per quanto ne sappia­ mo è prima di tutto rivolto fuori di sé, ad altro e a tutto ciò che si trova alla sua portata. Il suo contenuto, poi, è tutto ciò che gli riesce di abbracciare. Il che significa: non ciò che comprende di sé, ma ciò che comprende del mondo. La misura della sua appartenenza al mondo è anche la misura 7.

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

della sua possibile autocoscienza. Lo spirito è, per essenza, espansivo.

2. L’equiparazione dello spirito con la ragione Nelle teorie d’una volta, si trovava quasi costantemen­ te la definizione dello spirito come ragione; una concezione che ha piuttosto la caratteristica di una distinzione insuf­ ficiente che non di una precisa equazione. Eppure, l’aristo­ telico νοΰς viene tradotto altrettanto bene con « ragione » che con « spirito ». Dal fatto che anche qui predomina l’orientamento verso una ragione divina-assoluta, possia­ mo prescindere: è del tutto evidente infatti che la determi­ nazione in questione abbraccia anche lo spirito umano-fi­ nito. Come per la teoria dell’autocoscienza, neppure a que­ sta concezione si può negare una certa legittimità, tanto più che sotto il titolo di ragione si intendono spesso le funzioni superiori della comprensione, dell’intelletto, della percezio­ ne sovrasensibile, o dell’apprezzamento valutativo. In ogni caso, comunque lo si intenda, il termine « ragione » indica sempre Γ« appercezione » di qualcosa che una semplice percezione non coglierebbe. Anche questa contrapposizio­ ne esprime qualcosa che in effetti è caratteristico dell’essere spirituale. L’insufficienza sta nel fatto che i suddetti momenti, pur essendo decisamente spirituali, non trovano affatto nel ter­ mine « ragione » una designazione univoca. Piuttosto, e al­ l’inverso, bisogna già sapere cosa sia ragione; ma a questo scopo non è sufficiente il contrasto con la sensibilità: il con­ cetto di ragione va compreso in modo positivo, altrimenti resta vuoto. Come comprenderlo positivamente, se non, ap­ punto, attraverso quei momenti che valgono come specificamente spirituali? Ancora una volta, si può determinare me­ glio la ragione per mezzo dello spirito che non lo spirito

II. - TEORIE FILOSOFICHE UNILATERALI

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per mezzo della ragione. Con le sue funzioni, i suoi atti e la sua attività, lo spirito ci è di gran lunga più noto. I motivi dell’equiparazione sono, anche storicamente molto diversi. Con « ragione » si intende: o il principio su­ periore che l’uomo porta in sé, diciamo, il divino; o il rigo­ re logico e la intellegibilità, la « razionalità », l’ideale del pensiero concettuale. Sul primo senso, non ci accapiglieremo. Dal punto di vista dell’uomo, infatti, una ragione sovrumana come deter­ minazione dello spirito empirico, non è neppure apprezzabi­ le. Dato che non la conosciamo, ogni determinazione per suo mezzo è determinazione del noto per mezzo dell’ignoto, di un ignoto del quale si può tener conto in sede di pura ipotesi. Altra cosa è la « razionalità ». Benché storicamente anche la ragione come ratio, sia stata per lo più elevata a ra­ gione divina (cosa dalla quale possiamo agevolmente prescin­ dere), il suo difetto è piuttosto quello di essere una determi­ nazione troppo ristretta. La ragione come « razionalità » non abbraccia neppure di lontano tutta la pienezza dell’essere spirituale, ma, anzi, lo riduce entro i limiti del concetto del generale, del deduttivo, dello schema logico. Il suo mo­ dello, fatte le debite differenze, è restato ogni volta sempre quello del pensiero matematico. La razionalità, cosi intesa, è tuttavia uno dei caratteri dello spirito (insieme con altri più decisivi): infatti, solo una creatura spirituale può padroneggiarla. Ne è, in ogni caso, solo un momento, che non vale indifferentemente in tutti i campi, ma soltanto nel trattamento obbiettivo di de­ terminare regioni di oggetti. Ha il vantaggio della semplici­ tà, dell’ordine, della sintesi, ma non necessariamente quello dell’intuito. Non basta neppure a soddisfare la cono­ scenza; non parliamo poi degli aspetti emozionali, attivi o valutativi dello spirito.

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

3. Il concetto antropologico dello spirito Dalla doppia tendenza, implicita nel concetto di ragio­ ne, a scivolare, da una parte, nel superumano, dall’altra, nelle strettoie del logico, siamo riportati, senza volerlo, al1’ «uomo »; che ci risulta essere appunto il portatore dello spirito. Se ora assumiamo l’uomo nella sua finitezza, ma, insieme, nella pienezza del suo vivere ed esperire, arriviamo alla seguente definizione: specificamente umano, nell’uo­ mo, non è il suo essere materiale, organico e psichico, ma il suo essere spirituale. Si giunge cosi a un concetto antropolo­ gico dello spirito. Il vantaggio di questa impostazione è, per lo meno, quello di aderire rigorosamente allo spirito empirico, cioè a quello del quale soltanto abbiamo esperienza. Al contrario, il pensiero che potrebbe esserci un altro tipo di spirito signi­ fica ben poco. Certamente: il cosmo è grande: creature del­ l’ordine dell’uomo possono esistere su pianeti di altri soli; l’uomo non ha, nell’universo, il monopolio dello spirito. Non vorremo spingere il nostro empirismo, a proposito del pro­ blema dello spirito, fino al punto da ignorare del tutto simi­ li prospettive — sia che si creda che una certezza su questo punto sarà un giorno raggiunta, sia che non lo si creda. Senonché, tale prospettiva non ci è di alcun sussidio per un qua­ lunque miglioramento delle nostre conoscenze circa lo spi­ rito. Non possiamo, insomma, che attenerci allo spirito umano. Se questa è una limitazione, ha comunque carat­ tere di necessità. Il concetto antropologico dello spirito, che non incontra, in questa direzione, alcuna difficoltà, ne incontra però in al­ tre direzioni. Se si volesse seriamente definire lo spirito a partire dall’« uomo », bisognerebbe intanto sapere, nel senso del contenuto, che cosa l’uomo sia. Ma lo sappiamo noi? Certamente, si dirà, entro certi limiti. Ma quali sono questi limiti? Sono ancora i limiti di ciò che sappiamo dello spirito! Infatti, non intendevamo certo riferirci all’uomo come

II. - TEORIE FILOSOFICHE UNILATERALI

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corpo organico, e neppure come essere psichico! Per definire lo specifico umano, ricorriamo invariabilmente a caratteri come conoscenza, coscienza dei fini, intuito, libertà, ethos, attività creativa ed altri ancora — ricorriamo, cioè ad al­ trettanti aspetti dello spirito. Continuiamo, insomma, a de­ finire, inversamente, l’uomo in base alla nostra frammentaria conoscenza dello spirito. Il che è molto istruttivo e dimostra appunto, che, nel processo definitorio, questo è un ordine che non si può invertire. A tale proposito, non deve ingannare che non sia possi­ bile cogliere i caratteri dello spirito su altro soggetto che l’uomo. Questa circostanza non ha niente a che vedere con la definizione dei concetti. Evidentemente, l’uomo e il suo mondo costituiscono il campo stesso dell’esperienza che abbiamo dell’essere spirituale — ma non nel senso die prima si arrivi ad un concetto dell’uomo, e poi se ne deduca­ no singole caratteristiche. Non dal concetto dell’uomo, ma dall’uomo stesso ricaviamo i caratteri dello spirito. E, nella misura in cui ne risulti un concetto dello spirito, riusciamo anche a cogliere concettualmente lo specifico umano che è nell’uomo.

4. La vita spirituale come compimento d’atto

Invece che alla razionalità, potremo anche attenerci al lato attivo della vita spirituale. Che un tale lato esista, non c’è dubbio. Volere e agire, reagire personalmente, rifiutare, avere intenzione, amare, odiare e via dicendo, hanno un evidente carattere d’atto; e cosi pure conoscere, pensare, riflettere. Non si tratta però, di puri atti psichici, più o meno oscuri o istintivi, bensì di atti spirituali. In che cosa tale carattere spirituale consista, non vogliamo discutere per ora; tuttavia, si concederà che essi appartengono ad una superio­ re categoria di atti. È quanto, qui, ci interessa. Non è vero che questi atti siano tutti in senso pro-

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

prio, « attivi » — come risulta dagli esempi. E, quindi, neppure che in essi il lato « teoretico » o «patetico » dello spirito, scompaia. Quale sarà allora la loro vera carat­ teristica? Si sarebbe tentati di determinarla aristotelicamente col dire che contengono una energia, qualcosa che non può ridursi né a uno stato, né ad un processo: qualcosa che, in es­ si, si instaura e, insieme, si consuma. Il momento delYenergeia si può opportunamente descrivere come un « compiere ». Scheier, che lo intende in questo modo, ne trae la seguente conseguenza: che gli atti spirituali « sono » in generale « soltanto nel compimento »; o, anche: che sono effettivi solo in quanto e nella misura in cui « vengono compiuti ». Se ne ricava inoltre: se lo spirito esiste solo nella vita d’atto, sarà valida la proposizione: lo spirito esiste solo nel compimento. Avremmo cosi una determinazione parziale, non derivata da alcun concetto già dato né da alcuna teoria e neppure ricalcato e desunto da altri campi. Anche questa presenta, tuttavia, alcune difficoltà. La più lieve è, ancora, che in tal modo si torna ad una preoccupan­ te promiscuità con concetti psicologici. Infatti, anche per tutti gli atti psichici, consci o inconsci, si può parlare di « compimento » — in ogni caso, l’uso di questo termine non è limitato agli atti spirituali. E come segnare un confine, se non, appunto, presupponendo ciò che si vuol ottenere, una definizione dello spirito? Molto più grave è la seconda difficoltà. Per « compi­ mento » si deve evidentemente intendere qualcosa di più che un semplice accadere neutrale o un processo. Se il compi­ mento fosse un semplice accadere, l’essere spirituale lo avreb­ be in comune con i processi spirituali inferiori. Ma se deve indicare qualcosa di più, ciò vuol dire che il compimento comporta un « compiere » attivo. Allora però, dietro il compimento sta necessariamente 1’ «esecutore » — il che s’accorda peraltro molto bene con l’idea di un essere spiri­ rituale inteso come l’identico nella molteplicità delle sue intenzioni. Ma chi è questo « esecutore »? Non sarà appunto

II. - TEORIE FILOSOFICHE UNILATERALI

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lo spirito, anzi, addirittura il carattere più proprio dello spirito? Se, come abbiamo detto, lo spirito si definisce co­ me ciò che « è solo nel compimento », allora l’esecutore presuppone, a sua volta, un compimento, nel quale esi­ stere; poiché anche quest’ultimo richiede chi lo compia, l’ese­ cutore degli atti presupporrebbe un secondo esecutore che lo dovrebbe... eseguire. Ne risulta, in tutti i modi, un regressus in infinitum. Più concretamente, l’aporia si può formulare come segue. Secondo Scheier, l’esecutore degli atti è la « persona » Se, come appunto sembra evidente, la persona è spirito, essa sarà anche « in compimento ». Allora però, a sua volta, viene compiuta da un esecutore. Insomma, c’è un altro alle sue spalle, oppure si compie da se stessa? Come si vede, in questo modo non si può procedere. Questo « compiersi » è quanto mai ambiguo: alla fin fine, lo si potrebbe anche intendere meccanicamente, nel senso in cui anche le orbite planetarie e il moto degli elettroni « si compiono ». Nel principio, nel concetto stesso di compimen­ to, deve nascondersi l’errore. Tale concetto non si può evi­ dentemente trasferire dagli atti allo spirito stesso. Allo­ ra però, è anche falso che lo spirito consista negli atti nei quali si esplica; è chiaro invece che ad essi non lo si può ridur­ re. Non è possibile riassumere sotto lo schema dell’atto, l’agente stesso. Dovremmo, al contrario, considerare l’essenza della persona, come qualcosa di primario, di non caratterizzabile in base al compimento. Questo ci sarà utile in vista del concetto di spirito; infatti, tutto ciò che fa parte della personalità si può cogliere descrittivamente nei suoi fenomeni, specialmente in quelli della sfera etica. Ci si prospetta, qui, un compito cui porremo mano in seguito. Non bisogna tuttavia dimenticare quanto di pertinen­ te è contenuto nel concetto di compimento. L’essere spiri­ tuale ha una mobilità tutta particolare, è un mutarsi, uno svilupparsi, un vivere diverso da quello della sfera organica. In un certo senso dunque, qui tutto è davvero in compimen­ to. Uno spirito quieto, nel quale nulla si compia più, è mor­

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

to; uno spirito stantio è l’assenza stessa di ogni spirito. Il vero problema però, è proprio come debba qui intendersi lo sviluppo, perché ciò che si è sviluppato non venga poi eretto a principio dello sviluppo.

Capitolo III RISULTATI PROVVISORI

1. Spirito

fluttuante e spirito poggiante

Tra le rappresentazioni piu antiche e venerabili del genere umano, c’è quella di uno spirito autonomo, indipen­ dente e per cosi dire « fluttuante » al di sopra di tutte le cose terrene. Ogni visione del mondo di tipo mistico o religio­ so, i concetti di dio e dell’anima, il pensiero della morte e quello dell’al di là, convergono su questo punto. Anche la speculazione filosofica ha conservato, per secoli, questo trat­ to, e qui ha le sue radici la concezione aristotelica di uno spirito, figlio di un altro mondo, che penetri nell’anima θύραθεν. Le visioni del mondo cosi orientate, per quanto rie­ scano diverse nei particolari, attribuiscono concordemente allo spirito un essere non soltanto autonomo, ma anche svin­ colato: il suo mondo è un mondo a sé, più elevato, accanto a quello empirico. Calchiamo ancora un poco le tinte, e ci troveremo in piena metafisica generale dello spirito. Allora, soltanto il mondo dello spirito avrà il valore di essere in sé, mentre il mondo delle cose ne sarà solo il riflesso, il regno di una gradualità di imperfette forme d’apparizione, se non, addirittura, un mondo apparente. Questa concezione è la stessa che solleva lo spirito al di là di ogni caducità, lo sottrae al divenire e al processo, e lo pretende eternamente identico a se stesso. Perciò anche si fa continuamente appello alla dimostrata sovratemporalità

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PAKTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

dei contenuti spirituali, di qualcosa cioè, che in verità non è lo spirito ma il suo oggetto: il matematico, il generale, l’essenza, la legge. La questione è però, appunto, se lo spirito stia proprio in questi contenuti e se sia tanto facile identificarlo coi suoi oggetti. Una volta tolto l’altro suo lato (il lato attivo, il suo esser-nel-compimento) e sacrificata, cosi, la temporalità, ci si riduce al solo lato contenutistico, quasi che lo spirito non fosse che l’oggetto di una coscienza ideale. In tale sublima­ zione, si è dimenticata la vera e propria vita dello spirito che, sebbene non sia di tipo organico, pure è, anch’essa, una vita nel tempo. Con ciò, è andata perduta tutta la ricca feno­ menologia dello spirito personale e storico. Non solo il terre­ no fecondo dell’esperienza è stato abbandonato, ma lo spirito stesso è stato defraudato della sua ricerca e della sua lotta, del suo fallire e riuscire, in breve: del suo legame con la terra e col terreno su cui cresce. Tre cose a questo proposito, vanno tenute presenti, in base alle quali si distingue metodicamente tra ricerca effettiva e concreta, e fantasticheria speculativa. 1. Abbiamo a che fare con lo spirito soltanto nei limi­ ti del nostro campo d’esperienza; con lo « spirito empiri­ co » che è l’unico che conosciamo e possiamo verificare. Dob­ biamo attenerci all’uomo e alla sua vita spirituale, cosi come ci si offre nella varietà dei suoi modi di manifestarsi. Solo cosi possiamo soddisfare, nel campo pieno di difficoltà della filo­ sofia dello spirito, all’esigenza kantiana di un limite critico. Tale esigenza oppone infatti, alla speculazione, il limite del­ l’ «esperienza possibile ». 2. Qualunque forma di spirito incontriamo nel campo dell’esperienza, è temporalmente determinata. Storico o personale, esso sarà, in tutto e per tutto, qualcosa che è dive­ nuto e, quindi, passerà. In questo senso è pari al vivente orga­ nico e in questo senso è vita (sebbene diversa): che gli tocca morire. Solo il vivente ha in sé la morte. L’inanimato non la conosce e trapassa continuamente in altro ‘. Il sovratem1 II discorso sulle « cose morte », che incontriamo continuamente,

III. - RISULTATI PROVVISORI

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potale e l’ideale, neppure la conoscono, perché, privi di real­ tà e di peso, ignorano ogni caducità. All’irreale, nella misura in cui c’è, possiamo accordare il carattere di un essere svinco­ lato e « fluttuante ». Ma lo spirito empirico è spirito reale. 3. Non c’è, nei limiti dell’esperienza, alcuno « spirito fluttuante ». Noi conosciamo soltanto lo « spirito pog­ giante ». Ciò consegue inevitabilmente dalla stratificazio­ ne del mondo reale, di cui abbiamo parlato più sopra, e dalle leggi categoriali che, in quell’occasione, abbiamo messo in luce (cfr. p. 25 ss.). Non conosciamo alcun essere spirituale che non sia sostenuto da un essere psichico; e poiché questi è a sua volta sostenuto dall’organico, la stratificazione del reale arriverà fino al livello materiale. Que­ sto rapporto di fondazione è una serie continua di dipenden­ ze ontiche alla quale non troviamo al mondo alcuna eccezio­ ne. Essa non compromette l’autonomia dello strato di volta in volta superiore, e quindi, neppure quella dello strato più elevato: l’essere spirituale. Ma ci insegna, con tutta eviden­ za, che tale autonomia non va intesa come assenza di vincoli. La specificità e la legalità proprie dello spirito non spez­ zano il condizionamento dal basso. Nel mondo reale non c’è alcuno « spirito sospeso » o fluttuante, c’è solo quello che si eleva sopra il livello di un essere inferiore e gli « pog­ gia sopra ».

2. L’autonomia

dello spirito fondato

A questo punto, incontriamo un altro errore, più volte criticato ma duro a morire, il quale consiste nel credere che l’essere spirituale, esistendo nel mondo solo come condiziodai tempi dell’idealismo in poi, è radicalmente errato e, in sede me­ tafisica, sviante. Suggerisce, senza dirlo, che nelle cose ci sia una vita nascosta. In quel discorso infatti, questa opinione si nasconde effettivamente. Ma di « cose morte » non ce n’è, dal momento che non ci sono cose vive.

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PARTE I.

- LO

SPIRITO PERSONALE

nato dall’essere inferiore e su questo fondato, debba anche intendersi come una sua conseguenza e potersi « spiegare » in base a quello. Ciò che abbiamo detto or ora dello spirito « poggiante » e della sua dipendenza, potrebbe venire in­ terpretato in tal senso. Dobbiamo guardarcene: nulla sareb­ be più falso. Una tale concezione presuppone che i momenti della real­ tà psichica si combinino variamente e, a un sufficiente livel­ lo di complessità, si trasformino in spirito; analogamente, ci si raffigura l’essere psichico come un composto di momen­ ti organici, e l’organico, a sua volta, di momenti materiali. Si ha cosi una continua riduzione dell’essere superiore al­ l’inferiore: la forma estrema di questa maniera di pensare è il materialismo. Non è però necessario discendere fino al livello della materia; ci si può eventualmente fermare al li­ vello dell’organismo: ecco allora ridotto lo spirito alle fun­ zioni vitali (biologismo). Se invece ci arrestiamo al livello psichico, abbiamo lo psicologismo. Il principio è però sempre quello: lo spirito viene concepito come un composto (non importa se di processi psichici, organici o meccanici). Non è caso di dimostrare l’insensatezza del materialismo, il quale vi ha già provveduto da sé e a sufficienza. Ma il principio della « spiegazione dal basso » non è sparito con lui. Di questo principio va detto che, anche su basi organiche o psicologiche, non solo non raggiunge il suo scopo, ma non è neppure in grado di perseguirlo. I fenomeni spirituali do­ vrebbero lasciarsi « scomporre » in elementi di tipo non spi­ rituale. Di un’analisi effettiva però, in questa teoria, non si parla mai: ci si limita ad una affermazione e l’affermazione resta, quindi, una pura ipotesi sospesa in aria. A questo proposito, bisogna tener presenti soprattutto due cose: 1. I fenomeni spirituali sono, bensì, qualcosa di mol­ to complesso, ma non per questo sono dei puri composti: per quanto li si analizzi, vi si troveranno sempre componenti specificamente spirituali, in nessun modo riducibili a forme di realtà non spirituali o in base a queste soltanto comprensi­

III. - RISULTATI PROVVISORI

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bili. Paura, speranza, fiducia, pensiero non si possono scom­ porre in elementi psichici meglio che in elementi materiali. Tanto meno, poi, le superiori unità della vita spirituale: le persone, la comunità, lo spirito storico. Sono unità solide, totalità sui generis che non si possono comprendere in base ad altro che a se stesse. Su questo punto, le cose stanno per l’essere spirituale proprio come, alcuni gradini più sotto, per l’organico anzi, in generale, per tutte le stratificazioni ontiche. Infatti, neppure una vita organica si lascia scomporre in ato­ mi, o una vita psichica in funzioni organiche. La scomponibili­ tà non si estende mai a ciò che è caratteristicamente proprio della sfera superiore, ma si arresta sempre alla compagine del­ le condizioni ontiche preliminari « sopra » le quali questa « poggia ». 2. Nel suo « poggiar sopra », lo spirito dovrà naturalmen­ te accogliere certe determinazioni dell’essere inferiore (per es., la temporalità, la finitezza, la corruttibilità ed altre ancora ). Né potrà superarle, dal momento che è fondato su formazioni che ne sono, a loro volta, prigioniere. Le categorie inferiori valgono, anche per lui, come « le più forti ». Ma questo è an­ che il limite della loro importanza per lo spirito: non ne segue cioè, affatto che esso sia soltanto una loro « conseguenza ». Vi saranno sempre anche momenti della sua sfera propria, e saranno appunto quelli che ne costituiranno il carattere speci­ fico, perché in essi sta l’elemento incomparabile, là novità categoriale dell’essere spirituale, la sua autonomia ontica. Se inoltre si pone mente alla pronunciata originalità del­ l’essere spirituale rispetto ad ogni altro essere — alla sua caratteristica intersoggettività, personalità e spontaneità, all’individualità (di livello particolarmente elevato), varie­ tà e novità delle sue superiori connessioni unitarie — risul­ terà evidente che la vera materia di cui lo spirito è fatto, so­ no le sue proprie determinazioni fondamentali e non i fili stereotipi di un determinismo fisico o vitale che ne pene­ trerebbe l’intima compagine. Questa è la ragione per cui è impossibile « spiegare » lo spirito « in base a qualcosa ». Solo il composto e l’eterono­

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

mo si possono spiegare in questo modo. Lo spirito però, nonostante il suo « poggiar sopra » e la sua dipendenza esi­ stenziale, ha leggi proprie e completamente originali. Non lo si può affatto « spiegare »: i suoi tratti essenziali si possono rilevare solo descrittivamente. Ma ciò va fatto diret­ tamente nell’indagine circa il carattere specifico delle sue ma­ nifestazioni fondamentali.

3. Superamento

dell’alternativa metafisica

A questo proposito c’è ancora un’importante conseguen­ za da trarre. Come s’è visto, l’essere spirituale è un essere « fondato » e, insieme, « autonomo ». Tale duplicità è l’espressione ontologica della sua posizione nella serie degli strati del reale, e troverà una più esatta conferma nella ri­ cerca che segue. Si vedrà che essa è quanto mai utile per il chiarimento di numerose questioni particolari che rimarreb­ bero, altrimenti, ingarbugliate e confuse. Senonché, proprio questa duplicità ha l’aria di essere una contraddizione e continua a sembrare tale perché alle sue spalle si cela un pregiudizio categoriale non superato. Sembra infatti che il rapporto di fondazione contraddica l’autonomia. Quello è una forma di dipendenza mentre, si pensa, autono­ mia significa indipendenza. Ne seguirebbe che lo spirito deb­ ba essere o dipendente o autonomo, ma non tutt’e due le cose insieme. Il ragionamento presuppone erroneamente, da un lato l’equivalenza tra autonomia e svincolamento (il « fluttua­ re ») dall’altro l’equivalenza tra indipendenza e composizione d’elementi. Allora, naturalmente, siamo posti di fronte a un aut aut. Nulla produce tanta confusione, in filosofia, come l’accoglimento non dichiarato di alternative non provate da cui, poi, si traggono inavvertitamente le piu ampie conse­ guenze. Che la stessa e medesima cosa non possa essere in­

III. - RISULTATI PROVVISORI

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sieme dipendente e indipendente, sembra a prima vista, la verità più ovvia e banale. Nella vita, però, davanti a casi concreti, ci accade di con­ statare che le cose stanno altrimenti. Nelle nostre decisioni, per esempio, dipendiamo continuamente da una quantità di circostanze e possiamo muoverci esclusivamente entro i li­ miti che esse pongono alle nostre possibilità; nello stesso tempo però, ed entro quegli stessi limiti, noi siamo del tutto indipendenti dalle circostanze. È una caratteristica essen­ ziale di ogni situazione umana. Se non fosse cosi, infatti, non ci sarebbe proprio nulla da decidere e tutte le vie del nostro comportamento sarebbero prefissate nei limiti particolari. Nella realtà effettuale, non facciamo esperienza più co­ stante di quella che dipendenza e indipendenza vanno di pa­ ri passo. Da un punto di vista formale, del resto, tale esperien­ za non è affatto contradditoria. Ogni caso concreto rivela una interna varietà, una struttura complessa; ma è sempre fatto in modo tale che, in esso, un’insuperabile necessità da un certo lato, lascia spazio dall’altro, alla libertà. Ora, questa stessa relazione ritorna, più in grande, nella sovrapposizione degli strati dell’essere — e noi l’abbiamo formulata nella du­ plice legge della « forza » e della « libertà » (cfr. l’introduzio­ ne, p. 26 ss.). La formazione superiore è di volta in volta di­ pendente ma, nella dipendenza, eminentemente indipenden­ te: tra autonomia e fondatezza non c’è alcun rapporto di alter­ natività. Autonomia non significa svincolamento (assolu­ tezza), proprio come esser portato non significa esser compo­ sto di elementi appartenenti al portatore. L’errore sta nell’inclinazione costante a concepire, da una parte, la formazione autonoma come qualcosa che « fluttua » senza « poggiare », la formazione dipendente, invece, come « scomponibile » in quei fattori dai quali dipende. Dello spi­ rito, in ambedue i casi, va perso l’essenziale, ossia, né più né meno, il « poggiar sopra » di una struttura autonoma non scomponibile.

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

4. Radicalismo antitetico

della mentalità popolare

E SUO SUPERAMENTO NEL PENSIERO ONTOLOGICO

A non tener nel debito conto questo stato di cose, diventa impossibile capire la caratteristica posizione che lo spirito occupa nel mondo e, quindi, l’essenza stessa dell’essere spiritua­ le. A chi sa, ciò potrà anche sembrare ovvio ma, visto che nessuno nasce sapiente e ciascuno acquisisce i propri pregiu­ dizi non già dal trasparente e ordinato sapere dei sapienti, ma dalla massa di ciò che è stato tramandato alla cieca e accolto a mani dietro, non sarà inutile, a questo punto, pigliarla un po’ più larga. La nostra digressione è dedicata al carattere radicalmente scisso delle concezioni popolari. Come abbiamo mostrato nell’introduzione, si crede di poter spiegare il mondo o « dal­ l’alto », o « dal basso »; si è o per l’onnipotenza dello spirito, o per l’onnipotenza della materia. Si pone cosi senz’altro come assoluta una realtà-base, di tipo materiale o di tipo spirituale. Chi abbandona la fede in una divinità, perché il mondo non gli sembra creazione divina, precipita ciecamente nel materialismo. Chi è insoddisfatto della piattezza del materialismo, e sia per una più profonda necessità dell’anima, o per ben precisi problemi di senso, non ha altra scelta che rifugiarsi, malconvinto, nel concetto tradizionale di Dio. In ambedue i casi, dunque, ci si trova inchiodati agli estremi. Non si nota la ricchezza delle possibilità e meno ancora l’eloquente va­ rietà dei fatti offerti dall’esperienza, capace di dischiuder­ ci ben altre prospettive. Si è prigionieri, insomma, di un ra­ dicalismo degli opposti. Quell ’aut aut che, al livello di pensiero filosofico ci si è rivelato erroneo, lo ritroviamo già nella coscienza filosofica popolare, il che significa, ovviamente, che la vera origine di tale pregiudizio è in quest’ultima. E allora, se vogliamo fare un’analisi spassionata dei fenomeni dello spirito, dobbiamo spingerci molto a fondo nell’eliminazione dei pregiudizi, fino a far tabula rasa in noi stessi. Pur con tutta la buona

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III. - RISULTATI PROVVISORI

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volontà, non è però facile soddisfare a questa esigenza, perché i pregiudizi si annidano in una sfera, quella dei sentimenti, che non chiede consigli al pensiero. Sta di fatto comunque, e a dispetto di ogni primato as­ segnato all’atteggiamento critico, che tale radicalismo del sentimento trova un terreno propizio proprio in filosofia. Per accorgersene, basterebbe scorrere la serie dei grandi sistemi. Quelli che cercano di rendere giustizia ai fenomeni spirituali, finiscono quasi sempre, per quanto in diverse guise, a un presupposto concetto di Dio. E quelli che vi rinunciano, ten­ dono quasi senza eccezioni, a un modo di vedere, in senso lato, materialistico: ne sono classico esempio, nel sec. XIX, le teorie darwinistiche dell’uomo. Nella filosofia, esattamente come nel pensiero popolare, c’è ancora necessità di liberarsi dalla suggestione degli estre­ mi e di imparare un sobrio rispetto dei fatti. Il primo a con­ vincersi che i fenomeni non tendono agli estremi, né li per­ mettono, dovrebbe essere proprio il filosofo. Nel mondo ef­ fettuale non esiste un’alternativa « Dio o la Materia », ma una gerarchia variamente articolata degli strati dell’essere, i qua­ li si compenetrano secondo un caratteristico rapporto di di­ pendenza-indipendenza. In questa gerarchia, nessuno strato è « onnipotente » — né in alto né in basso. Le formazioni su­ periori sono infatti sempre le più deboli e non possono mai superare la legalità elementare delle inferiori; mentre que­ ste ultime sono sempre le più povere e semplici e non rag­ giungono la pienezza d’essere propria delle superiori. In que­ sto rapporto di sovrapposizione e sopraelevazione, non è con­ tenuta alcuna tirannia di uno strato rispetto a un altro. Le leggi della materia dominano incontrastate soltanto nel loro regno: oltre a ciò, esse sono un fondamento portante che tut­ tavia non domina ciò che porta. Cosi, lo spirito è potente nella sua sfera, ma non onnipotente nel mondo: oltre i confini della sua sfera, esercita la sua potenza soltanto su ciò di cui, attraverso la comprensione, accetta e rispetta l’originale legalità.

a.

Sezione II DETERMINAZIONI ONTOLOGICHE FONDAMENTALI

Capitolo IV POSIZIONE DELLO SPIRITO NELLA STRUTTURA STRATIFICATA DEL MONDO

1. Il rapporto

ontico di sovrastrutturazione

Con quanto precede, abbiamo delineato, ma non deter­ minato a sufficienza, la posizione dello spirito nel mondo. Per una orientazione preliminare circa il problema dello spi­ rito, è molto importante capire quale sia questa posizione, perché essa ci offrirà il quadro di ogni determinazione ulterio­ re. Se partiamo dal rapporto di fondazione e dall’autono­ mia di ciò che viene portato, e, su questa base, tentiamo di comprendere, ad esempio, il rapporto tra lo spirito e l’orga­ nismo, ci accorgiamo subito che la caratterizzazione prece­ dente è insufficiente. Lo stesso rapporto di dipendenza e di autonomia, ritorna a proposito dell’organismo e della ma­ teria fisica. È forse il caso di concludere che, in effetti, lo spi­ rito sta all’organismo come questo alla materia? Qui appunto, l’inadeguatezza diventa sensibile. Essa non consiste nel fatto che la nostra proposizione salta a piè

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

pari lo strato dello spirito: questo la rende soltanto più evi­ dente. Si può forse esprimerla cosi: c’è, si, in ambedue i rap­ porti, un esser-portato e un’autonomia dell’essere supe­ riore, ma non si tratterà, nei due casi, dello stesso « esser-por­ tato » e della stessa specie di autonomia. L’intiero rapporto ontico di stratificazione, viene concepito dunque in un senso troppo indifferenziato, come se restasse sempre identico nono­ stante la varietà degli strati. Come si differenzia allora, e dov’è la differenza? Il punto in cui è più visibile, sono le relazioni di contenuto. È vero che l’organismo non si riduce alla materia e alle sue leggi, eppure contiene ancora dentro di sé sia l’una che le altre: è una formazione spaziale e corporea, ha peso e iner­ zia come ogni altro corpo fisico e le sue cellule sono fatte di atomi. È evidente che l’organismo è anche qualcosa di più, ma non abolisce, non si lascia alle spalle, tutto questo: porta con sé la materia, limitandosi a « sovraformarla », a farne un elemento per qualcosa di più alto. Tale rapporto di formazio­ ne ulteriore mostra chiaramente in che cosa consista la sua au­ tonomia e come questa resti vincolata al carattere degli ele­ menti sottostanti che essa « sovraforma ». Le leggi, le catego­ rie dello strato fisico, restano in vigore, si protraggono quasi fin dentro l’organismo, ma non possono venir superate mai dal novum della sovraformazione perché, come è noto, sono le più forti. L’autonomia dell’organismo è, quindi, molto limitata: in un certo senso, esso può formare solo ciò che è offerto negli elementi dati — che possono essere sia le leggi che gli atomi. Questo è quanto, più su nella stratificazione, è destinato a cambiare. Se infatti il rapporto di sovraformazione restas­ se invariato anche in seguito, lo spirito stesso dovrebbe esser fatto di atomi, avere un peso, e cosi via; similmente, suoi elementi dovrebbero essere i processi vitali. Come si vede, qui comincia un rapporto diverso, che si può già indicare con chiarezza a proposito della posizione dell’essere psichico ri­ spetto all’organismo. Anche qui, abbiamo un portare e un poggiar sopra, ma sono di specie diversa. La vita psichica

IV. - POSIZIONE DELLO SPIRITO

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non « contiene » in sé l’organismo; in essa, gli organi non so­ no gli elementi, neppure nel senso più lato, e tantomeno le leggi dell’organismo vi fungono da materiali da costruzione. Lo psichico, non è soltanto qualcosa di più che una sovraformazione dell’organico ma, anzi, è qualcosa di tato genere diverso. Ha lasciato cadere il carattere proprio dell’essere organico, ne ha cancellato il modo di formare: il suo rappor­ to all’organico si limita al puro e semplice esser-portato. La dipendenza è perciò ben lungi dall’esser tolta: gli strati organici si rispecchiano nella vita psichica, la influenzano, la incalzano in vari modi, ma non ne fanno parte né le rassomi­ gliano minimamente. L’autonomia dello psichico rispetto all’organico è, dunque, di altro tipo ed ordine di grandez­ za, che quella dell’organico rispetto al materiale. Questo rap­ porto, invece che come sovraformazione, si può indicare come « sovrastrutturazione ». L’immagine contenuta in questa parola vuol significare: dallo strato inferiore e poggiando su di esso, si eleva uno strato superiore nel quale non tutte le ca­ tegorie del primo ritornano — un insieme di strutture che si sono completamente emancipate da alcune categorie essen­ ziali degli strati portanti e perciò si presentano quasi come se fossero « fatte di un materiale diverso ». La metafora del « materiale diverso » va presa, ovviamen­ te, con cautela: essa deve soltanto caratterizzare il contrasto con quella che abbiamo chiamato sovraformazione. È ap­ punto in questa che le forme inferiori diventano « materia » delle superiori (cosi, ad esempio, quelle dello strato fisico­ materiale costituiscono la « materia » dello strato organi­ co). Là dove la sovraformazione è sostituita dalla « sovrastrut­ turazione », non sono le forme dello strato inferiore a fungere da materiali per una formazione ulteriore, ma quest’ultima ne ha ora di suoi propri, non più paragonabili con quel­ le. In termini rigorosi, si può dire anche che le categorie in­ feriori non filtrano tutte nello strato superiore, che restano indietro e che il loro « ritorno » è interrotto ’. 1 Nel mio lavoro sulle « leggi categoriali » (in « Philosophischer Anzeiger », 1926) ho considerato la « legge del ritorno » come conti-

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

Si consideri, a questo proposito, l’essere psichico. Qui scompare soprattutto la categoria della spazialità e tutto ciò che essa implica, la densità materiale che la riempie, la corporeità e tutto il complesso, estremamente articolato delle sue leggi. Ecco la ragione per la quale i metodi costruiti secondo il modello dell’indagine fisica non hanno potuto af­ fermarsi in psicologia. In biologia era forse ancora sensato, sia pure con una certa unilateralità, parlare di una « meccani­ ca dello sviluppo »; ma in psicologia, non ha alcun senso parlare di una meccanica della percezione o della rappresenta­ zione: sia l’immagine che il metodo corrispondente, sono del tutto fuori luogo. In questo campo, anche ogni metodo quan­ titativo è ugualmente destinato a fallire. Le categorie mate­ matiche e fisiche, infatti, non si adattano per nulla ai fenome­ ni psichici. E ciò che vale per l’anima, varrà a maggior ragione per lo spirito.

2. Il regno dello spirito come mondo a sé, al di sopra DELLA VITA PSICHICA

Solo più avanti, nel corso della presente analisi, sarà possibile dimostrare quest’ultimo punto. Tuttavia, da quanto è stato detto fin qui, risultano già chiare le linee generali. Chi non abbia ima vera e propria prevenzione in senso mate­ rialistico o biologistico, non cercherà certo le categorie della materia o dell’organismo nel dominio spirituale. È anche a priori evidente che alcune determinazioni ontiche che pure irrompono nella sfera psichica, non riescono però a protrarsi più oltre in quella spirituale. In questo senso, riassumendo, si può dire che, nell’ambito della realtà stratificata, c’è un taglio tra lo strato organico e nua. In tale forma, non potrei piu conservarla. Entro quali limiti vada intesa, si veda, più particolarmente, nell’opera Der Aufbau der realen Welt, Berlin 1940, capp. 50-52.

IV. - POSIZIONE DELLO SPIRITO

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quello psichico, il quale divide gli strati superiori da quelli inferiori in maniera piu radicale di quanto questi lo siano già tra loro. In sede ontologica, e per esprimere questa circostan­ za nel modo piu conciso, si potrebbe dire che i rapporti di so­ vrapposizione al di sotto del taglio, hanno il carattere di me­ re sovraformazioni, al di sopra di esso, invece, sono sovrastrutturazioni, nel senso indicato del termine. Nel primo caso, le categorie inferiori ricorrono, modificate, nello strato supe­ riore; nel secondo, una buona parte, e decisiva, di esse resta indietro e l’accesso nello strato superiore dell’essere le è proibito. Se questo valga anche nel rapporto tra l’essere psichico e l’essere spirituale, le osservazioni che precedono non posso­ no decidere. A questo scopo, s’è visto, non è neppure sufficien­ te osservare che la vita spirituale non si riduce né alla coscien­ za né ad altro modo di vita psichica. Altrettanto insufficiente è constatare che non si tratta qui di un puro « compimen­ to di atti ». Tutto questo distingue, bensì, lo spirito dalla vita psichica, ma potrebbe anche alludere a un rapporto di sovraformazione. Se lo spirito fosse soltanto spirito personale, non sareb­ be neppure possibile indicare con esattezza la diversità del rapporto. Ma esso è qualcosa di più, anzi, la caratteristica della vita spirituale è proprio che i singoli individui non sussistono da soli e non hanno dunque alcuna esistenza rea­ le al di fuori della sfera della vita spirituale comune. Consi­ derarli nel loro isolamento è muoversi in astrazioni e allonta­ narsi dal vero. La miglior prova, ce la offrono quelle monogra­ fie storiche in cui si cerca di esporre la vita di un individuo (un artista, un poeta, un politico). In questi casi, l’autore è costretto a uscire dal proprio tema. La persona singola, col suo destino, il suo sviluppo, le sue imprese, non si può capi­ re se non nel quadro della situazione storica complessiva, nel­ la quale, a sua volta, il peso decisivo è sempre quello della si­ tuazione spirituale. Le persone singole non traggono la loro esistenza spiri­ tuale soltanto da se stesse, ma appartengono, dal principio

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

alla fine a un ambito spirituale, nel quale crescono e nel cui patrimonio di contenuti hanno radici. Questo non significa che per se stessi non siano nulla: la loro originalità è soltan­ to limitata, non tolta. Non è però isolabile né si deve pensa­ re che sia imponibile a piacere. Quello che noi chiamiamo un ambito spirituale storicamente dato è però qualcosa di molto diverso dall’essere psichico: non è composto di sog­ getti; non consiste nella somma dei portatori di coscienza, né alcuna coscienza singola può considerarlo del tutto suo. È un fenomeno spirituale di altro ordine di grandezza: è spirito storico, obbiettivo. Se ne tratterà ampiamente piu avanti; per ora, basta tener presente che le categorie specifiche dello psichismo, la soggettività e la coscienza, non vi si possono applicare. Es­ se gli competono tanto poco quanto quelle dell’organismo competono alla vita psichica. In quanto però la persona singo­ la, intesa come essere spirituale, è condizionata dallo spi­ rito obbiettivo, anche il suo caratteristico modo di es­ sere sarà sottratto alle categorie psicologiche. Ne consegue che, effettivamente, l’essere spirituale non sta in un rapporto di sovraformazione ma di sovrastruttura­ zione rispetto all’essere psichico. E soltanto cosi è da inten­ dersi la specialissima autonomia che, anche rispetto alla limi­ tatezza dei processi psichici, lo contraddistingue. Ed è pro­ prio di questa autonomia che dobbiamo occuparci. Essa è sta­ ta riconosciuta nelle leggi stesse dell’ethos, del diritto, della comunità sociale, dell’operare artistico e conoscitivo, ed è difficile che qualcuno, oggi, la consideri ancora, alla maniera dello psicologismo, come il più perfetto prodotto di funzioni psichiche. L’essere psichico è privato, esoterico, non partecipabile: con lui si può entrare in contatto, non penetrarvi. Ci si può condolere o rallegrare con qualcuno, ma il nostro sarà sempre un altro dolersi o un altro rallegrarsi accanto all’altrui, quali­ tativamente diverso anche nella massima intimità. Invece il pensiero altrui, una volta capito, possiamo considerarlo sem­ pre quello: si tratterà di un secondo atto di pensiero, l’atto

IV. - POSIZIONE DELLO SPIRITO

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di un’altra coscienza, ma il pensiero resta lo stesso. Il pensie­ ro è dunque, da cima a fondo, obbiettivo. È espansivo e col­ lega, laddove lo stato di coscienza isola. Lo stesso si può di­ re di scopi volontari, direzioni di sforzi o operazioni, con­ vinzioni, modi di vedere, di valutare, di credere. Anch’essi appartengono alla sfera dello spirito e lo spirito li collega mentre la coscienza li isola.

3. Le

tre forme basilari dell’essere spirituale

Questa differenza spiega perché lo spirito obbiettivo stia al centro del nostro problema e perché gli dedichiamo la prin­ cipale delle nostre ricerche (vedi Parte Seconda). Si vedrà inoltre che è esso a offrirci il più ricco campo di fenomeni. Questo dice molto circa la collocazione ontica dell’essere spirituale in generale. Se infatti i suoi caratteri più propri fossero quelli dello spirito personale, sarebbe difficile co­ gliere la differenza tra la sfera dello spirito e quella della vita psichica. Per quanto riguarda, in particolare, la triplice forma del­ l’essere spirituale, bisogna qui integrare quanto si è detto al termine dell’introduzione e aggiungere che anche questa è una differenziazione ontica, sebbene la separazione che ci per­ mette di tematizzare successivamente le tre forme sia soltanto metodica. Provvisoriamente, possiamo spiegare il loro rap­ porto reciproco come segue: lo spirito personale e quello obbiettivato stanno tra loro in un rapporto di profonda eterogeneità, tanto da non rivelare, presi a sé, alcun legame comune. Essi si connettono però nello spirito obbiettivo: ambedue infatti, sia pure in modo molto diverso, gli sono connessi. Questo rapporto è radicato in due coppie di opposti che si incrociano abbracciando tutto lo spirito. Da un lato, lo spirito singolare si oppone allo spirito comune, dall’altro lo spirito vivente allo spirito non-vivente. Lo spirito personale

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

e quello obbiettivo hanno in comune la vitalità, per quan­ to essa assuma, nei due casi, diverse forme e modi d’essere. Lo spirito obbiettivo e quello obbiettivato, a loro volta, han­ no questo in comune: di essere ambedue sovrapersonali e sovraindividuali. Spirito singolare è solo quello personale; spirito non-vivente è solo quello obbiettivato. Quello, lo riconosciamo in noi stessi, uomini individuali; questo, nei prodotti del creare spirituale, nelle costruzioni, formazioni e « opere » che, in quanto tali naturalmente non vivono né mutano, ma sono contenuti spirituali « fissati ». Ora, poiché il contenuto spirituale delle « opere » — consegnato nella scrittura o in forma artistica — permane sopra il flusso reale della vita storica, quasi assunto in idea­ lità, e in questa elevazione resiste ai mutamenti storici dello spirito vivente, si può anche dire che sia sottratto alla real­ tà; d’altra parte, ciò che viene rappresentato nell’opera fat­ ta, è, appunto, soltanto rappresentato e non realizzato, né la pretende a reale. Si può quindi aggiungere che solo lo spirito personale e lo spirito obbiettivo sono « spirito reale », mentre l’obbiettivato non lo è: reale, nelle opere già fatte, non è il loro contenuto spirituale, ma solo la « materia » formata che lo trattiene (la scrittura, la pietra con la sua forma spaziale ecc.). Dunque, soltanto lo spirito « vivente » ha una realtà; quello sottratto alla vita e fissato in una materia è, senz’altro, spirito irreale. Ne segue, ancora, che si dà spirito individuale solo in quanto vivente e reale; spirito obbiettivato, solo in quanto savraindividuale. Solo lo spirito obbiettivo vivente riunisce in sé sovraindividualità, vitalità e realtà. La sua intimità con lo spirito personale costituisce il mondo reale della vita spirituale; la sua intimità con lo spirito obbiettivato è la quintessenza dello spirito storico. Anticipiamo queste determinazioni, senza ancora giusti­ ficarle, allo scopo di offrire una visione d’insieme; la giustifi­ cazione emergerà nel corso della ricerca. Sempre a scopo di orientamento provvisorio, aggiungeremo le seguenti conside­ razioni.

IV. - POSIZIONE DELLO SPIRITO

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È ovvio che non ci sono tre spiriti diversi, l’uno accanto all’altro, né tantomeno indipendenti tra loro. C’è solo l’uni­ co, unitario indiviso e indivisibile essere spirituale. La tri­ plice forma d’essere dello spirito è sempre già contenuta in questa unità, intimamente intessuta e inscindibile da essa. Non si tratta di parti di un tutto o di membri di una compagine, meno che mai di elementi o pezzi da costruzione. L’immagine dei « diversi lati » di una stessa cosa, è già più appropriata. Ma anche questo paragone zoppica. Sono le tre categorie fondamentali dello stesso essere spirituale: questo, in conclusione, è ciò che si intende col termine « for­ me d’essere » [Seinsformen]. D’altra parte, se nella ricerca dobbiamo affrontarle se­ paratamente, questo non è per nulla un male necessario im­ putabile al metodo. Infatti, che le forme categoriali fonda­ mentali siano tre, è proprio un dato di fatto, un’evidenza ontica che trova conferma in gruppi di fenomeni di tipo dispa­ rato. Come sempre nei casi di grande varietà, nella totalità, che resta unitaria e indivisibile, emergono spontaneamente certe strutture dotate di una relativa indipendenza. Nell’ambi­ to del nostro problema, questa si rivela, sia nella differenza dei modi d’essere, sia nella loro particolare funzione entro il tutto della vita spirituale. Solo lo spirito personale può amare e odiare, solo lui ha un ethos, porta una responsabilità, si assume una colpa o una pena, ha un merito; solo lui ha coscienza, previdenza, volon­ tà, autocoscienza — e tutto questo va inteso in senso proprio e primario, non metaforico. Quanto allo spirito obbiettivo, è il solo portatore di sto­ ria in senso rigoroso e primario; lui solo, propriamente, « ha storia » ed è spirito comune-sovraindividuale pur essendo reale e vivente. Le sue mutazioni e destini sono la vicenda storica e il destino storico. La temporalità e la contingenza, le ha però in comune non solo con tutti i viventi (anche non-spirituali), ma anche con lo spirito personale. La sua vita si muove però secondo un diverso ritmo: le più ampie unità di misura sono quelle del tempo storico.

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

Infine, solo lo spirito obbiettivato si protrae nel senzatempo in una dimensione irreale e sovrastorica. Diverso è an­ che il suo rapporto al tempo e alla storia. Il suo destino è quello che tocca a tutto ciò che è ideale e, in sé, atemporale, nella temporalità del processo storico.

Capitolo V

L’ESSERE SPIRITUALE COME UNITÀ CONCRETA

1. Generalità d’essere

circa il rapporto fra le tre forme

Le tre forme dell’essere spirituale si presentano in un rap­ porto di coordinazione reciproca. Non che ima predomini e le altre stiano in sottordine; piuttosto, ciascuna ha una sua particolare dignità e superiorità rispetto alle altre; superiori­ tà che è, in ciascuna, tanto diversa da quella delle altre, da escludere in partenza ogni possibilità di conflitto. Ne de­ riva, anzi, un caratteristico rapporto di integrazione e di dipendenza reciproca, la cui trattazione costituisce parte es­ senziale della nostra ricerca. Questo è un punto di fondamentale importanza. Perché se il pensiero filosofico inclina generalmente all’unilateralità, questa inclinazione è poi assolutamente dominante nel pro­ blema dello spirito. La concezione oggi più diffusa è forse quella secondo la quale, nel campo dello spirito — anche dello spirito storico — tutto poggia sull’essere dell’indi­ viduo. Non resterebbe allora che ricondurre le grandi cor­ renti spirituali della storia a una somma atomistica di tendenze individuali, il che non permetterebbe in nessun modo di comprendere il carattere temporaneamente uni­ tario del loro orientamento. Ciò dipende dal predominio della considerazione sociologica, nel cui concetto e nella cui essenza sta la pretesa di trattare tutti i fenomeni storici

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

di tipo sovraindividuale come fenomeni collettivi. È no­ stro compito invece, quello di indicare prima di tutto, nei fenomeni, l’importo irriducibile e le strutture proprie dello spirito obbiettivo. Se si evita Scilla si incontra Cariddi. Dalla parte oppo­ sta, infatti, sta in agguato, mai vinto del tutto, il pericolo della metafisica hegeliana dello spirito — non vinto, non perché ci si senta tentati di assumere una sostanza spiri­ tuale generale, ma semplicemente perché, anche qui, si è presupposta tacitamente una alternativa che non ha alcun diritto di essere. Involontariamente, appunto, si crede che, se non è sull’individuo che tutto si fonda, tutto debba al­ lora fondarsi sullo spirito obbiettivo. Cosi gli si fa carico di ogni cosa, senza tener conto dei fatti e, insieme, si sva­ luta l’individuo. Tutto questo è umano, ma radicalmente sbagliato. Non ci sono fenomeni spirituali che si possano considerare propri dello spirito obbiettivo soltanto, — cosi come non ce n’è di puramente spirituali. E questo perché non esiste uno spirito obbiettivo che sussista per se stesso accanto agli individui, — cosi come non c’è un individuo che stia a sé, accanto allo spirito obbiettivo. I fenomeni pongono, da ambedue i lati, stretti limiti al volo specula­ tivo del pensiero. Per questa ragione, ogni alternativa del genere è profondamente errata, campata in aria e non sui fatti. Noi abbiamo a che fare soltanto con lo spirito empi­ rico, il quale ci mostra, su tutta la linea, soltanto la intrin­ seca concomitanza di individuo e spirito obbiettivo. E, poi­ ché su quest’ultimo termine — purtroppo difficilmente sur­ rogabile — grava l’ipoteca di rappresentazione esagerata, proprio da questa parte sarà il caso di osservare la più pru­ dente moderazione. Ci sono, infine, nella storia dello spirito, anche certe tendenze a sopravvalutare lo spirito obbiettivato. Si iden­ tifica, per esempio, l’arte di un periodo con le opere d’arte che esso ha prodotto; o si considera il tipo di composi­ zioni allora prevalenti come il vero e proprio orientamento spirituale dell’epoca. Quest’ultimo sarà, bensì, soltanto una

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l’essere spirituale come unità concreta

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prassi espositiva che non viene teorizzata (né comporta se ne traggano conseguenze generali), ma l’errore, in princi­ pio, resta lo stesso: si dà la preferenza a una delle forme fondamentali dell’essere spirituale, invece di prendere nota dell’intreccio delle opposte maniere d’essere. Si vedrà che proprio il carattere di indipendenza delle obbiettivazioni spi­ rituali è apparente.

2. Comune fondamento delle forme d’essere

spi­

rituali in uno stesso strato portante

Se ora collochiamo le forme coordinate dello spirito personale, obbiettivo e obbiettivato, nel quadro ontologico della struttura stratificata del mondo e delle sue leggi ca­ tegoriali, vediamo che esse non sono affatto una continua­ zione della stratificazione, non si sovraformano né si sovrastrutturano l’una all’altra, ma appartengono alla concreta e inscindibile unità di un identico strato ontico dell’essere, anzi, sono proprio loro, nel loro intreccio, a costituirlo. Per quanto diverse dunque, esse occupano nel mondo la stessa posizione; stanno, cioè, nello stesso rapporto rispetto all’essere psichico, organico e materiale. Naturalmente, que­ sto rapporto assume aspetti diversi a seconda dei casi, ma nella sostanza resta identico. In tutte e tre le forme d’es­ sere dello spirito è lo stesso fondamento e la stessa auto­ nomia nella dipendenza: solo il contenuto di tale auto­ nomia può variare. Identico è anche, per tutte e tre, il rap­ porto di sovrastrutturazione: non sono sovraformazioni di stati o processi psichici, non hanno atomi o cellule ele­ mentari, non sono spaziali. Insieme e nello stesso modo, « poggiano sopra » lo stesso strato; non sono fluttuanti e, se gli togliamo di sotto i piedi il loro fondamento reale, crollano. Basterà illustrare questa loro condizione di parità ri­

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

spetto a uno solo dei punti toccati. Il più problematico sembrerebbe, da questo punto di vista, quello del fonda­ mento. Prendiamolo dunque ad esempio. Nel caso della personalità singola, non c’è dubbio che essa ci si presenta sempre connessa e portata da un essere psichico-corporeo che noi tuttavia non identifichiamo con la sua natura spi­ rituale specifica. Tale rapporto diventa però problematico, non appena prendiamo in considerazione lo spirito obbiet­ tivo. Se quest’ultimo fosse uno strato, sovraordinato allo spirito personale, e dovesse essere considerato in tutti i sensi come una formazione superiore, si potrebbe senz’al­ tro dire che esso è un portato delle singole realtà spirituali e che poggia, in virtù della loro mediazione, sulla struttura ontica degli strati. Ma non è cosi. Risulta, invece, che non è sovraordinato agli individui, né sta a loro fondamento: le due parti stanno piuttosto in un rapporto di coordinazione e mutuo condizionamento. Si tratterà dunque, in questo caso, di un altro modo di esser-portato, immediatamente proprio dello spirito obbiettivo. Non è neppure difficile indicarlo. Oggettivo è sempre lo spirito di un popolo vivente o di un gruppo di popoli: è portato dal corpo popolare e con esso sussiste e decade. Tutte le particolarità di specie vitale, relative alla purezza o mescolanza della stirpe, alle condizioni di vita e al tipo psichico tradizionale, hanno qui un peso altrettanto deter­ minante che nell’individuo — solo che la compensazione delle particolarità individuali produce un carattere medio relativamente costante che solo lentamente, nel susseguirsi delle generazioni, degenera. Già da un punto di vista vitale, l’individuo è necessariamente incatenato alla «vita della specie » e ne è portatore nella stessa misura in cui ne viene portato. Lo spirito storico, quindi, entro il quale l’indivi­ duo si sviluppa, non è tanto un portato di quest’ultimo, quanto un portato della vita della stirpe. Ancor più originale è il modo di essere « portato » del­ lo spirito obbiettivo. Le obbiettivazioni sono possibili solo in una « materia », nella quale l’importo spirituale si im­

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l'essere spirituale come unità concreta

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prima. La « materia » stessa ha però sempre un modo d’es­ sere inferiore e si rivolge sempre e soltanto ai sensi. È una circostanza che interessa, ad esempio, tutte le arti. Benché il « poggiar sopra » abbia qui una struttura molto parti­ colare, resta sostanzialmente un modo inferiore dell’esserportato. Si pone, a questo proposito, un problema speciale, il vero e proprio enigma dell’obbiettivazione in quanto tale che richiede, per essere svolto, una apposita ricerca. Lo po­ tremo affrontare soltanto alla fine delle nostre analisi.

3. Conseguenze

in rapporto alla presente ricerca

Ciò che abbiamo detto a proposito dell’« esser-portato » vale anche per il rapporto di condizionamento « dal basso » e per quel novum che autonomamente vi si aggiunge. Ognuna delle tre forme dell’essere spirituale ha un tipo diver­ so e suo proprio di autonomia ma, relativamente alla loro posizione rispetto al fondamento portante, sono tutte della stessa grandezza e mostrano lo stesso rapporto di sovrastrutturazione. Il livello d’essere dello spirito è dunque lo stesso in tutte e tre le sue dimensioni. Siamo dunque di fronte a un unico problema comples­ sivo, nel quale nessuna differenziazione potrebbe offuscare l’interdipendenza. Ciò è piuttosto rilevante dal punto di vista metodico, in quanto ci permette tranquillamente di ap­ plicarci ai fenomeni singoli: non solo, quindi, alla naturale triplicità delle forme fondamentali o maniere d’essere, ma anche alle loro varie differenziazioni, alle categorie partico­ lari dei diversi gruppi di fenomeni. Grazie al loro intrec­ cio costitutivo, la interdipendenza delle categorie emergerà spontaneamente nel corso dell’analisi. Infine: l’integrità e e totalità dell’essere spirituale dovrà rivelarsi da sé, e con tanto maggiore evidenza quanto più riusciremo a cogliere i tratti essenziali all’interno dei singoli gruppi di fenomeni. 9.

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PARTE I. -LO SPIRITO PERSONALE

Se volessimo partire dai tratti comuni, bisognerebbe che fossero dati a parte, accanto alle forme di apparizione. Per la verità, un simile campo di datità non manca giacché, nella vita, le tre forme dell’essere spirituale compaiono sem­ pre insieme. Ma questa specie di datità è indifferenziata e poco perspicua: siamo subito sopraffatti dalla sua ricchezza fenomenica e ci perdiamo in essa senza riuscire a cogliere alcuna forma determinata. Non appena penetrati più adden­ tro nella sua compagine, ci si trova risospinti, senza volerlo, verso fenomeni parziali. Un individuo spirituale che non si trovi entro uno spirito comune, è un’astrazione; uno spi­ rito comune senza individui lo è più che mai. Vi sono bensì prodotti spirituali, di un certo tipo, che sono dotati di un importo spirituale proprio, ma anche questi restano stret­ tamente connessi a uno spirito vivente cui vanno riferiti e per cui soltanto sono ciò che sono. Tutto questo è noto; non solo: l’abbiamo concretamente sotto gli occhi e ne ab­ biamo, si può dire, il sentimento certo. Ma aver sotto gli occhi e sentire non significa ancora penetrare e capire. Ora è caratteristico che, nella tematizzazione della vita spirituale empirica, ad onta della stretta connessione delle forme spirituali, le differenze siano le prime ad emergere. Allo sguardo ingenuo si presentano sempre per prime le per­ sone, come unità spirituali date, cui riferirsi; alla considera­ zione storica si offrono invece, del tutto naturalmente, le situazioni, gli eventi, i mutamenti di ordine macroscopico; mentre alle scienze dello spirito si presentano spontanea­ mente le opere del creare spirituale. Le partizioni del nostro oggetto complessivo corrispondono, quindi, fin dall’inizio, al diverso atteggiamento che assumiamo. Per essere, almeno inizialmente, all’altezza del problema complessivo, non ci resta che accettarle cosi come sono e proseguire sulla via già imboccata. Sarà proprio una descrizione differenziale a per­ metterci di cogliere, mediatamente, l’elemento comune. An­ che qui, come già in molti altri campi, si riconferma che ciò che non appare comprensibile nella sua totalità, lo diventa nelle sue interne distinzioni.

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Ciò è possibile soltanto se tutte tre le forme dello spi­ rito appartengono allo stesso livello d’essere, hanno la stes­ sa posizione di fondo in un unico mondo comune, e recano gli stessi tratti tipici di uno strato dell’essere. Il momento ontico fondamentale di tutte le ricerche che seguono è, perciò, l’esistenza di un simile piano unitario dell’essere, nel quale esse stanno in una connessione inscindibile — un piano d’essere, quindi, abbastanza ampio da abbracciare an­ che i loro contrasti, per quanto profondi possano essere. Le riflessioni che precedono ci forniscono questo momento fondamentale, ma soltanto le determinazioni particolari del­ l’analisi fenomenale ci permetteranno di coglierlo in con­ creto.

Capitolo VI DETERMINAZIONI FONDAMENTALI DELLO SPIRITO VIVENTE

1. Vita

spirituale e realtà

Con la discussione del rapporto ontico di stratificazione e della posizione che l’essere spirituale vi occupa, abbiamo già fatto un considerevole passo innanzi, rispetto ai tentativi di definizione tradizionali — che si sono dimostrati tutti negativi — per passare ad una loro determinazione positiva. Si tratta, per ora, soltanto di determinazioni molto genera­ li e, nella misura in cui lo sono, non molto significative; però ci aprono già degli spiragli verso una maggiore concre­ tezza. Su un punto, è tuttavia necessario un ulteriore chia­ rimento ontologico. Ci riferiamo al concetto, or ora intro­ dotto, di realtà. Abbiamo mostrato come lo spirito persona­ le e quello obbiettivo costituiscano, insieme, lo « spirito vi­ vente »; oltre a questa comune forma d’essere, abbiamo loro attribuito anche il modo d’essere della « realtà ». La cosa può sembrare strana: finché almeno, non si sia chiarito in che senso questa parola debba intendersi. In effetti, nella terminologia filosofica abituale, tale senso non è univoco. Tentando di soddisfare a questa esigenza, però, la discus­ sione deve oltrepassare le determinazioni generali comuni dello spirito: lo spirito obbiettivato, infatti, non ha carat­ tere di realtà. Col problema della « realtà spirituale », in­ troduciamo una distinzione all’interno delle forme d’esse­

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

re dello spirito o, che è lo stesso, una prima, fondamentale determinazione dello spirito vivente. Ora, per mezzo di una definizione, è assolutamente im­ possibile render conto di che cosa sia realtà. L’identificazione, molto frequente, di realtà con effettualità, è erronea. Oltre alla effettualità reale, ci sono, infatti, sia la possibilità reale che la necessità reale — in contrapposizione alle pure pos­ sibilità d’essenza e necessità d’essenza. Altrettanto illecita è l’identificazione tra realtà e datità, perchè quest’ultima non è affatto un modo dell’essere, ma soltanto un modo della og­ gettualità, cioè dell’esser oggetto per un soggetto. Ancor più corrente è un terzo errore: quello che, scambiando la realtà con la cosalità, trova una parvenza di giustificazione nel senso etimologico del termine « realtà » che, infatti, deriva da res. Già il medioevo, però, col suo realismo concettuale, ha superato questo significato della parola; ne è derivata una generalizzazione del termine e un allargamento semantico che resiste ancora oggi. Qui non si tenta l’impossibile. Né noi abbiamo bisogno di un « concetto » rigoroso della realtà, ma soltanto di una determinazione estensiva univoca. A questo scopo, è neces­ sario guardarsi dal ridurre il senso del nostro termine-a quel­ lo di cosalità. Si capisce che lo spirito vivente non potrà mai essere reale, se questa parola significa la maniera d’essere di una cosa o alcunché di cosale. Fatta questa limitazione, si dovrebbe dichiarare irreale tutto ciò che non sia fisico, corporeo, materiale, il che, infine, comporterebbe difficoltà non lievi. Bisognerebbe, per esempio, dichiarare reale l’ana­ tomia di un corpo organico, irreale la sua vitalità. Di un uomo, sarebbero reali « la carne e le ossa », non le sue emo­ zioni, i suoi atti, il lavoro o le sue azioni nei riguardi di altri uomini; tanto meno, allora, il suo destino, le sue espe­ rienze di vita, l’amore, l’odio. I grandi avvenimenti storici, evoluzioni e crisi, il mutare dei tempi: tutto questo sarebbe irreale; reali sarebbero i cannoni e la carne da cannone. Come si vede, è questo un concetto piattamente materia­ listico della realtà. Né regge alle sue proprie conseguenze,

VI. - DETERMINAZIONI DELLO SPIRITO VIVENTE

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dato che esclude dalla realtà lo strato piu decisivo della vita effettuale dell’uomo e affonda il coltello nel bel mezzo della struttura del mondo, recidendo le giunture precipue dell’essere. Naturalmente, un concetto si può definirlo, in maniera dittatoriale, come si « vuole »; ciò che, poi, con quel concetto non si può fare, è: capire il mondo. Proprio questo è l’errore: credere che il primato spetti alla maniera d’essere materiale. Altrettanto erroneo sarebbe attribuirne uno simile all’anima o allo spirito: quest’ultimo avrà il primato che spetta al più elevato strato dell’essere, ma non quello di una maniera d’essere (modalità) superiore. La caratteristica più propria del mondo effettuale è di avere « da cima a fondo » un solo ed unico modo di realtà, per mezzo del quale si connette insieme tutta l’eterogeneità de­ gli strati. Destini e situazioni, azioni e intenzioni (purché effettivamente nutrite), divenire storico e storico trapassare, sono reali come lo sono cose e rapporti di cose, processi ed eventi fisici. Hanno esattamente la stessa durezza e la stes­ sa fragilità d’esistenza, lo stesso carattere di temporalità, contingenza, irripetibilità e irrecuperabilità; sono potenze, moventi o resistenze altrettanto reali, nella nostra vita, quan­ to quelli. Sia che si voglia controllare un processo neutrale o un tratto di processo storico, bisognerà che ciò sia « real­ mente », effettivamente in nostro potere; e in questi casi, non il potere reale o l’impotenza, ma solo il suo contenuto sarà di volta in volta diverso. Non importa che si urti con­ tro la resistenza del ferro o contro quella di uno statuto vigente: è sempre la stessa realtà, sia pure di una diversa resistenza. E che non sia possibile cambiare una cosa, una volta accaduta — né fare che non sia accaduta, né farla ritornare presente — ci riconduce alla nota circostanza per cui il reale è, in ogni caso, incatenato a un suo tempo de­ terminato; si tratti di un movimento nel cosmo o di un fare umano, di una vicenda internazionale, di un torto fat­ to, o di un momento di pienezza e di felicità. Se si tien conto di tutto questo, deve risultare evidente come non sia possibile far progredire il problema dell’essere

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

spirituale anche di un solo passo, senza un adeguato con­ cetto di realtà. Adeguato ai fenomeni è, però, solo il concetto che abbracci insieme, sia il materiale che l’im­ materiale; solo così si può comprendere l’intimo intreccio di spirito personale e obbiettivo nella stessa dimensione d’essere, nonostante che soltanto il primo appaia in indivi­ dui corporalmente percepibili. E soltanto cosi si può com­ prendere il rapporto di fondazione e di sovrapposizione, il vario gioco degli impulsi fisici nella vita dello spi­ rito e lo sforzo di quest’ultimo per signoreggiarli. Sia gli impulsi che la signoria su di essi sono qualcosa di reale, proprio come il « poggiar sopra » e lo sforzo. Infine, solo cosi si può capire la struttura stratificata del mondo effettuale: è la struttura di un « mondo reale » che si stra­ tifica nella graduazione delle sue forme d’essere. Lo strato dell’essere spirituale è il più alto soltanto rispetto al con­ tenuto e alla formazione categoriale: quanto al suo modo d’essere, esso non è affatto un’estenuazione di quello de­ gli strati inferiori. La legge modale basilare del mondo effettuale si può, anzi, esprimere dicendo che il suo carat­ tere di realtà, nel passaggio dagli strati inferiori ai supe­ riori, non aumenta né diminuisce, ma rimane costante. Ciò che effettivamente decresce è, qui, la preponderanza del momento materiale, che però non va confusa con la realtà. Su questa base è possibile comprendere la vita umana e la vita storica in tutta la loro pienezza, in quanto proces­ si reali, senza concedere spazio a fraintendimenti natura­ listici. Esse presuppongono un contesto esistenziale che ab­ braccia il vivente e il non-vivente, lo psichico e il non­ psichico, lo spirituale e il non-spirituale; presuppongono, in una parola, l’unità e la totalità del mondo reale.

VI. - DETERMINAZIONI DELLO SPIRITO VIVENTE

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2. Realtà e individualità Individualità e realtà sono strettamente interdipendenti. Ciò non significa che individualità e realtà siano la stessa cosa: anche ciò che è comune a molti individui, è realiter comune — e in questo sta poi la sua generalità. La quale, a sua volta, sarà reale soltanto se anche i casi singo­ li, ai quali si riferisce, lo sono. Lo spirito vivente non è mai un « mero » generale concepito, per cosi dire, in abstracto, indipendentemente dai casi e dal loro « numero : non è dun­ que una pura essenzialità, una essentia. « Ha », bensì, caratteri essenziali propri; non « è », però, l’insieme di es­ si ma, piuttosto, un caso specifico « tra » di essi, un singolo ed unico, un individuo nel senso rigoroso della parola. Anche per questo lato, esso non si distingue dalle cose, dagli organismi e dagli accadimenti: Tunica differenza è che, nel suo caso, l’individualità è incomparabilmente piu ricca, e perciò appunto, vi ha un peso tanto rilevante. L’individualità della cosa, pur comportando la stessa unici­ tà e irripetibilità, è indifferente per l’uomo, il quale, nella vita come nella scienza, la sfiora appena, mentre at­ tribuisce una grande importanza all’individualità delle persone, delle occasioni vitali, degli eventi e mutamenti storici, le cui particolarità lo toccano da vicino e diventano, in parte, le sue. Dunque, l’individualità non è una caratteristica dello spirito personale soltanto, ma anche dello spirito storico. Il quale appunto, è diverso in ogni periodo storico; non ritorna più — nonostante eventuali elementi di comunan­ za e di analogicità — ad essere ciò che una volta era stato; è singolare e irreversibile. Con ciò risultano insufficienti tutte quelle teorie che fanno dello spirito obbiettivo una astratta generali­ tà o una mera « forma » (puro eidos) cui gli individui non

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

potrebbero che « partecipare ». Dal punto di vista delle per­ sone singole, lo spirito è certamente qualcosa di comune a tutte. Ma questo è solo un aspetto: dal punto di vista storico, infatti, come fenomeno globale in un determinato tempo, lo spirito è in tutto e per tutto singolare. Il caratte­ re di individualità non dipende dall’ordine di grandezza della formazione spirituale. Le unità più grandi sono sem­ pre qualcosa di comune ai loro membri, ma ciò non impedi­ sce che esse siano, a tutti gli effetti, singolari in rappor­ to ad altre formazioni di pari ordine di grandezza. Proprio come l’individuo umano, anche lo spirito storico varia qualitativamente da caso a caso. Doppiamente sospetta è, quindi, ogni sua riduzione a realtà o a legge generale: 1) perché sovrappone uno schematismo concettuale, proprio a quei fenomeni che il pensiero storico dovrebbe comprendere nella loro singolarità; 2) perché tale schematismo, a rigore, dovrebbe essere applicabile anche alle singole persone. Nella vita, questa schematizzazione semplificatrice e rubricazione di uomini secondo « tipi » ed analogie esteriori è pur frequente (e, come modus vivendi, sarà anche necessaria); ma nessuno vorrà sostenere che questo sia il modo migliore per render giustizia alla personalità. La vera e propria personalità è diffi­ cile da cogliere e non riusciamo mai, per quanto acutamente ne spiamo i segni, a rendercela del tutto trasparente. Ciò che, nella vita, chiamiamo la nostra esperienza dell’uomo, non è che la routine di un classificare a colpo sicuro. Che procede, appunto, secondo analogie e trascura proprio gli aspetti più originali e insostituibili. Il fatto poi che, in questo modo, almeno finché non cerchiamo l’intimità umana, ce la caviamo bene nella vita pratica, spiega perché ci affezioniamo al nostro sche­ matismo e non ce ne stacchiamo più: la routine ci ha ormai nascosto l’individuo.

VI. - DETERMINAZIONI DELLO SPIRITO VIVENTE

3. Individualità

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ed esistenza

Quella particolare maniera d’essere che è 1’« esistenza » appartiene alle due determinazioni fondamentali della realtà e della individualità. L’esistenza, nel linguaggio concettuale dell’ontologia, è l’opposto dell’essenza. Soltanto il sin­ golo esiste, ed esiste « sotto » la propria essenza; rispetto alla quale è dunque, limitato, pur possedendo una deter­ minatezza e una maniera d’essere più elevate. Esistenza e realtà non si identificano, perché anche l’importo comune, presente nell’individuo, è reale; ma soltanto l’individuo, come tale, è un esistente. Dunque, lo spirito vivente esiste e perciò sta nei li­ miti di un’estensione determinata di tempo, esiste solo in essa e non fuori. Per la sua « vita » — anche storica — ciò è molto importante, perché lo sottrae alla pallida neutralità dell’atemporale: lo spirito fa la sua comparsa nel flusso del divenire (viene all’esistenza), per tornare a sparire nel flusso. A questo proposito, le teorie filosofiche commettono due tipi di errore. O attribuiscono l’esistenza soltanto alle cose — ed è questo il caso del concetto materia­ listico della realtà; ma anche del concetto aristotelico del σύνολον, in cui la materia rientra come componente essenzia­ le. O ammettono l’esistenza del solo essere spirituale, ne­ gandola dell’essere cosale. In questo modo si è costretti a declassare la fisicità ad apparenza e si finisce in una meta­ fisica idealistica. Ugualmente male impostato è anche il concetto kierkegaardiano di esistenza, secondo il quale il mondo, in cui lo spirito si trova, non esiste, ma è soltanto per lui, unico esistente, ed è, quindi, il suo. Ambedue le tesi sono false, ambedue contengono lo stesso errore di fondo, la presupposta alternativa tra l’essere come materia e l’essere come spirito. Esse dif­ feriscono cioè soltanto nella scelta tra queste grossolane semplificazioni di opposti. Invece, in sede strettamente

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

ontologica, ciò che la materia, la vita, la psiche e lo spi­ rito hanno in comune è proprio l’esistenza. Se si nega che abbiamo in comune l’esistenza, tale negazione si estenderà automaticamente, non solo alla loro realtà e individuali­ tà, ma anche al loro carattere di temporalità. L’interdipen­ denza delle stratificazioni viene cosi offuscata e l’imma­ gine del mondo sconvolta. Un uomo esiste e una cosa esiste. Esistono in modo mol­ to diverso, ma esistono insieme nell’unico mondo esistente. Anche l’esistenza, in sé, è la stessa, e può contenere illimi­ tate differenziazioni dell’esistente. Solo cosi è possibile in­ contrare delle cose al livello umano dell’essere.

4. Esistenza e temporalità

Un altro momento di connessione tra lo spirito vivente e l’essere non-vivente è la temporalità, intrinsecamente connessa, a sua volta, con la realtà, l’individualità, resisten­ za. Tutto ciò che è temporale è reale, anche se non è spaziale; e ogni realtà è temporale (il che non implica, naturalmente, che realtà e temporalità siano la stessa cosa). Realtà e temporalità, come temporalità e individualità, temporalità ed esistenza, hanno soltanto la stessa esten­ sione. Le essenze sono atemporali e, infatti, non hanno nè individualità nè esistenza. Ma lo spirito vivente non è un’essenza: esso è nel tempo, sorge e passa, esiste sol­ tanto in una determinata durata. Reca, in quanto personale e in quanto storico, la finitezza di ogni reale. Ogni sua figura, non solo è mutevole, ma comincia e finisce, nasce e muore. Per quanto sembri un semplice dato di fatto, e il pensiero storico ne tenga conto con molta naturalezza, anche a questo proposito si incontrano molti pregiudizi. Ne distinguiamo tre gruppi.

VI. - DETERMINAZIONI DELLO SPIRITO VIVENTE

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1. Vi sono teorie metafisiche che negano allo spiri­ to il carattere di temporalità: e ciò, sia a causa della fede nell’immortalità, sia per voler ignorare l’individua­ lità. Quest’ultimo atteggiamento è caratteristico delle teorie logico-idealistiche; il primo, invece, della men­ talità scolastica di indirizzo averroistico. Questa s’accorda, a sua volta, con la vecchia dottrina della trasmigrazione delle anime nell’opinione (recentemente sostenuta anche da Scheier) che lo spirito si temporalizzi solo per mez­ zo di un corpo vivente; dove il presupposto è che lo spiri­ to per se stesso, sia atemporale. Tesi che sarebbe for­ se sostenibile, se non si intendesse lo spirito come vi­ vente e, insieme, esistente; ma è inevitabilmente con­ traddittoria nel caso contrario. Il nòcciolo della diffi­ coltà si rivela, se soltanto spingiamo un po’ piu a fon­ do il presupposto metafisico e assumiamo lo spirito co­ me qualcosa di originariamente generale, essenza o idea; cioè come un άεί öv platonico. Questa concezione, un tempo molto diffusa, conserva ancora il sentimento dell’« eterno » come per la cosa per definizione più elevata e perfetta che ci sia; che è poi un giudizio di valore. Qui sta forse la vera radice di tali modi di rappresentarsi lo spirito. Con tutto questo, però, ci si è enormemente allontanati dal dato — tanto che non è più neppure il caso di occu­ parsene da un punto di vista scientifico. 2. Neppure assumendo, all’opposto, che la temporalità sia un carattere esclusivo dello spirito (quasi che la materia, l’organismo ecc., non fossero anch’essi tempora­ li) riusciamo a metterne a fuoco l’immagine. La conseguenza inevitabile ne è, che le cose ricevono la loro temporalità dal­ lo spirito, cioè dal soggetto, e vengono ridotte al « suo » mondo. Conseguenze che furono sviluppate anche troppo deci­ samente dalle varie tendenze idealistiche e soggettivistiche del pensiero. Tale concezione del mondo si ritorce però contro lo spirito ogni volta che questo, nella vita, deve fare i conti con la durezza delle cose e con il loro carat­ tere temporale. In effetti, il tempo non è una categoria

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PAKTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

esclusivamente spirituale. Lo scaturire e defluire del tempo, la sua durata e successione, sono caratteri che lo spirito ha in comune proprio con le cose, e restano, gli stessi, nell’accadere naturale come in quello storico. Anche qui, ciò che cambia sono soltanto le forme particolari del sorgere e trapassare, della permanenza e della successione. 3. L’errore ingigantisce quando, pur lasciando alle cose la « loro » temporalità, si postula tuttavia un tempo speciale dello spirito. È un’impostazione che si incontra ormai di fre­ quente presso i contemporanei. Il tempo, nel quale l’uomo vive, sembra essere tutt’altro che quello nel quale girano i pianeti. Questo, sarebbe un flusso uniforme ed omogeneo; quello, una costante anticipazione del futuro e conservazio­ ne del passato. Si tratta, in questo caso, e in qualche altro ancóra, di differenze che hanno un fondamento effettivo. Tali differenze non interessano però il tempo come tale, ma il comportamento dell’ente nel tempo. Se vogliamo indicare il comportarsi nel tempo come la « temporalità » propria di ciò che è nel tempo (benché l’espressione resti sempre equi­ voca) è evidente che potremo sempre parlare di diverse « temporalità ». È innegabile allora, che lo spirito esistente si comporti nel tempo in modo molto diverso dalla cosa, dall’evento fisico, dall’organismo vegetale o animale. Ma, nonostante le differenze nel comportamento, il tempo è sempre lo stesso.

5. Unità ontica del tempo in tutti gli

strati del reale

Prova quanto si è detto, il semplice fatto che processi di qualunque livello d’essere possono svolgersi, non solo paral­ lelamente e simultaneamente, ma anche intrecciandosi e com· penetrandosi inscindibilmente nelle forme più comples­ se dell’accadere reale: gli eventi della vita personale e stori­ ca. Processi psichici attivi coesistono, nello stesso flusso tem­ porale complessivo, con eventi chimici, spirituali o organici.

VI. - determinazioni

dello spirito vivente

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Il tempo non segna alcun confine tra gli strati dell’essere; solo lo spazio ne segna uno; ma la temporalità è tanto poco legata alla spazialità, quanto la realtà all’individualità. Essa fa po­ sto a processi reali di ogni specie; li collega in modo omoge­ neo e diventa il piano ontico delle loro relazioni reciproche. Solo cosi diventa possibile, per il nostro conoscere, seguire correntemente gli eventi, senza alcuna differenza, sia che si tratti di movimenti celesti, o di evoluzione nelle condizioni della nostra vita sociale. Solo a questa condizione l’inizia­ tiva spirituale può intervenire nei processi naturali, come avviene in ogni forma di signoria sulla natura, nella tecnica e nel lavoro produttivo. E cosi si comprende anche che l’oscillazione delle condizioni organiche possa influenzare la vita dello spirito, attraversarla, elevarla, deviarla. La simultaneità, l’inconclusione in un unico flusso del tempo è la condizione fondamentale di tutto questo. La simulta­ neità dell’onticamente eterogeneo è possibile soltanto se un solo e medesimo tempo raccoglie in sé tutte le speci di processi. Illustrazione assai plastica di questo concetto è la crono­ logia storica, intesa non come disciplina retrospettiva, ma proprio nel corso stesso degli avvenimenti. Essa dispone di misure, i giorni, i mesi, gli anni, i secoli, le cui unità co­ stitutive non furono tratte dall’accadere storico, ma da quello meccanico-cosmico. Giorni ed anni sono, infatti, rota­ zioni e rivoluzioni cosmiche, sia che le intendiamo in senso tolemaico, che copernicano o empirico. In più, rispetto ai processi storici, hanno soltanto l’uniformità. Appunto per questo ce ne serviamo allo scopo di localizzare temporalmen­ te i processi non uniformi; cosa che non sarebbe possibile se non ci fosse un flusso temporale identico a se stesso, ca­ pace di abbracciare tutto, anche gli eventi tra loro più eterogenei. Per la comprensione del mondo spirituale è, dunque, essenziale che ci sia « un » solo tempo e che sia identico per tutti gli strati della realtà. Il tempo è una categoria fonda­ mentale comune a tutti gli strati e, in questo senso, è sullo

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

stesso piano della realtà, dell’individualità e dell’esistenza. Si è visto come ciascuna di tali categorie sia stata unilate­ ralmente accentuata nei sistemi metafisici: per separare lo spirito dalla materia, si è voluto usare queste categorie l’una per l’altra. Ma senza risultati apprezzabili. È un controsenso cercare la differenza, tra cose indubbiamente eterogenee, proprio là dove non è; segnare spartiacque artificiali dove non ne esistono. Confini e differenze ne avremo a sazietà, non c’è alcun dubbio: ma sarà bene ricavarli dai fenomeni stessi.

Capitolo VII

PARTICOLARITÀ CATEGORIALI

1. Temporalità

e processualità

Anche il momento della processualità è connesso col tempo. Non fa però tutt’uno col tempo perché è qualcosa di più che un mero « essere-nel-tempo ». Infatti, anche ciò che permane è nel tempo; ma solo il processo vi scorre. La processualità è temporalità ricorrente nella forma d’essere stessa. Il tempo è flusso, corrente inarrestabile; e tutto ciò è nel flusso diventa, a sua volta, flusso; assume la forma d’essere di una corrente inarrestabile; non è insomma, soltan­ to « nel flusso », ma « è » flusso anch’essa. Lo stesso vale per le cose; le quali non stanno già nascen­ do o trapassando, ma piuttosto, esse sono questo stesso na­ scere e perire. La cosiddetta costanza delle cose dipende solo dal modo di datità: l’oggetto cosale muta, infatti, molto più lentamente del soggetto e, per questa ragione, gli ap­ pare col carattere della sostanza. In realtà, ciò che chiamia­ mo cosa è solo uno stadio di relativa stabilità entro un pro­ cesso. Lo stesso dicasi dei corpi celesti, dei sistemi cosmici, degli atomi: che non sono qualcosa di estraneo al processo e neppure sono soltanto « nel » processo ma sono, proprio essi, il processo. Se l’uomo li vede altrimenti, e cioè in con­ trasto col processo, è solo perché le sue categorie intuitive si sono adattate al metro ristretto della vita pratica. Analogamente, è processo la « vita ». Il vivente, l’orga­ nismo, non è un’altra cosa, accanto al processo, ma è essen­ 10.

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

zialmente processo. Non c’è alcuna forma di vita che non sia tale come progressiva formazione o progressiva dissoluzio­ ne della forma. Il lato morfologico e quello fisiologico di un tutto non sono altro che l’opposizione di punti di vista umani. Per lo psichismo, valgono analoghe considerazioni; ma qui, veramente, tutto sembra fluire. Quanto s’è detto si applica, infine, anche allo spirito vivente che, quindi, non solo sta nel processo, ma « è » pro­ cesso. Questo è l’importo di verità contenuto nell’afferma­ zione che lo spirito stia solo nel compimento. Qui ha la sua radice quella che chiamiamo la mobilità e la vivacità dello spirito. Come si vede, lo spirito ha la determinazione fonda­ mentale della processualità — non altrimenti che indivi­ dualità e temporalità — in comune con tutto ciò che è reale. Non sarà il caso, comunque, di dimenticare che la sua è una specie molto particolare di movimento e di vita. La particola­ rità non sta però nel solo carattere di inutilità, ma anche sem­ pre nell’essenza del suo interno equilibrio, cioè della sua con­ servazione. È qui che ne scopriamo l’originalità. La vita spirituale, privata-personale o storica, non si ri­ duce né a quel puro e semplice esser-mosso che essa ha in co­ mune con la materia, né a un puro e semplice processo di formazione, quale è riscontrabile anche nell’organismo. Lo spirito è anche interno e spontaneo mutamento, continua ri­ cerca e ritrovamento di nuove configurazioni, non legate a una tipica formale costante (come l’organica) in ogni individuo, né tale da riprodursi (come quella) in un perenne ringiovani­ mento o modificarsi lentamente sotto la pressione delle mu­ tate condizioni. Lo spirito è ben altrimenti libero nelle proprie espressioni, sia in piccolo che in grande, nella persona singola come nel comune « spirito del tempo ». Tutto ciò che, nel suo ambito raggiunge originalità e grandezza è anche unico e irripetibile, perché lo spirito non è sovraformazione di un dato, ma libera configurazione sovrastrutturale, vicen­ da creativa non paragonabile, al mondo, con alcun’altra.

VII. - PARTICOLARITÀ CATEGORIALI

2. Processualità

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e identità

È essenziale in ogni vicenda o mutamento che qualcosa, in essi, permanga e non muti; senza di che, non vi sarebbe affatto mutamento di qualcosa, ma puro sorgere dal nulla e sparire nel nulla. Acquisizione decisiva della filosofia preso­ cratica fu l’aver visto che non si dà, nel mondo, nascita dal nulla né passaggio al nulla. L’aspetto negativo di questa tesi si trova, in forma matura, in Parmenide; il suo corrispettivo positivo si annuncia in Eraclito: tutto è mutamento di qual­ cosa che permane identico; l’uno trapassa sempre nell’altro; la via verso l’essere e quella che ce ne allontana — con un’immagine, « la via all’in sii e all’in giù » — sono una stes­ sa e medesima via; sorgimento e trapasso costituiscono « un » processo. Nel caso di processi naturali si arriva, cosi, al concetto di sostanza. Dove qualcosa muta, là qualcosa permane. Anche non considerando la conservazione della materia in un flusso, almeno il flusso stesso permane: la sua dinamica ha un’inerzia propria. Ogni realtà si affida alla costanza del processo e della sua legge. Si può contare sul flusso delle cose perché questo ha una sua inerzia, indugia nelle sue forme proprie finché nessuno lo arresta. E del resto, quale potenza al mondo dovrebbe arrestarlo? Nel campo organico la forma della costanza è diversa. L’organismo singolo è fragile, minacciato, ma la vita della specie si mantiene, in quanto lo ricrea. Attraverso la ri­ produzione, la morte di un individuo viene compensata ad abundantiam. La costanza non ha, qui, la forma della sussi­ stenza — ciò che permane non è identico immutabile — ma quella della superesistenza, cioè di un processo vitale di ordi­ ne superiore che, portato dall’andirivieni degli individui, prosegue oltre e al di sopra di essi. Per quanto riguarda il mutare dello spirito, invece, non si può dire né che si fondi su qualcosa di sostanziale, né che si riproduca mai, tale qual’era. La sua costanza non è quella

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

meccanica dell’inerzia, né quella organica della riproduzione. Tuttavia qualcosa in esso resta pure identico al di là del mu­ tare che, altrimenti, non si tratterebbe di un mutare. Lo spirito ha una propria forma categoriale di identità, che non ha il carattere pacifico di un’inerzia passiva o di una legge in­ violabile che la domini, bensì deve essere ogni volta prodot­ ta dallo spirito stesso e, quasi, accadergli spontaneamente. Lo spirito deve sempre, innanzitutto, identificarsi con se stes­ so, al di là della distanza temporale e al di là del suo stesso interno mutare. La sua costanza è uno spontaneo attenersi a sé, un nascere per sé o restar fedele a se stesso. Lo spirito non ha bisogno di alcuna potenza sotto di sé o sopra di sé, che lo coadiuvi, perché possiede la caratteristica capaci­ tà di consistere nella propria sfera o anche — s’intende — di non consistervi, di perdersi. La sua conservazione e la sua identità poggiano sulla libertà. Già nelle nostre attività quotidiane possiamo trovarne sufficiente conferma. Quando uno promette o pattuisce qualcosa, garantisce di se stesso, ma di un se stesso futuro e quindi mutato: identifica il se stesso presente con quello futuro, che egli empiricamente non conosce ancora e che, in ogni caso e, forse, con sua sorpresa, dovrà prima conoscere. Nessuno può dire come giudicherà o sentirà un anno più tardi; meno ancora, che cosa allora vorrà; viceversa, si può essere senz’altro sicuri che sentirà e vorrà in modo diverso. Tuttavia, pur sapendo di mutare, si può garantire, rispondere di se stessi e far dipendere il proprio agire futuro da una volontà non futura ma presente. Quando poi si tratterà di mantenere la promessa fatta, avremo ancora la stessa identificazione, questa volta retrospettiva, con il se stesso di prima. Non c’è costrizione in tutto questo: possiamo sovrapporre la volon­ tà presente alla passata ma, in tal caso, rinunciamo a noi stessi, non ci identifichiamo. Il nostro fare poggia sulla li­ bertà. Che noi « possiamo » attenerci a noi stessi in identità, pur essendo mutati di fatto, è già abbastanza sorprendente. Come ci si può identificare con la propria volontà, un tempo dichiarata, così con le proprie mete e propositi, senti­

VII. - PARTICOLARITÀ CATEGORIALI

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menti errori e colpe di un tempo; con le simpatie, l’intima confidenza, l’amore di un tempo. Nella stessa misura di tale identificazione, si produce di fatto l’identità della propria persona. Dell’unità del nostro essere personale non ci ac­ corgiamo neppure: essa si riduce sempre alla questione del­ l’impegno, della responsabilità, dell’energia con le quali compiamo interiormente la sintesi di ciò che il mutamento disperde. Ciò che in un uomo chiamiamo personalità, carat­ tere morale, ethos individuale, dipende in tutto e per tutto da questa energia, dalla quale dipende anche la sorte dell’uni­ tà spirituale dell’uomo. Qualcosa di simile si può indicare anche nella vita dello spirito storico. Anch’esso può attenersi o rinunciare a se stes­ so, congiungersi con se stesso oltre il tempo o sparpagliarsi nel mutamento. Se nella storia qualcosa di grande si esprime, è sempre sulla base della fedeltà a sé. Solo ciò che si attiene alla propria tendenza fondamentale può salire in alto. Anche lo spirito obbiettivo è qualcosa di unitario e identico, ma solo nella misura in cui sa identificarsi pro- e retrospet­ tivamente con se stesso. Lo spirito è quel reale che ha la forza di sorvolare sul proprio esser-nel-flusso. Ha la processualità in comu­ ne con ogni altro reale: da questo punto di vista variano so­ lo le forme del mutamento; ma con nessun altro ente ha in comune l’identità del mutamento: questa è la sua caratte­ ristica, il suo privilegio.

3. Identità

e finitezza

Un ulteriore momento dello spirito, conseguente alla temporalità, è la finitezza. Anche questa è comune alle cose, all’organismo, alla psiche: la finitezza è, anzi, attributo es­ senziale di ogni realtà. I suoi limiti, nell’essere, sono gli stessi della temporalità, perché sorgere e perire significano già inizio e fine.

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

Questo momento va scisso nettamente dalla questione « come » lo spirito sorga e perisca. Decisivo è, innanzitutto, soltanto « che » esso sorge e perisce (in senso puramente em­ pirico, sotto i nostri occhi, in quanto spirito personale). Es­ so si sveglia o si addormenta in ogni uomo. Tra le due cose c’è solo un breve attimo, e poiché lo sviluppo dello spirito non può essere veloce a piacere (infatti, nulla gli viene regala­ to, ma tutto dipende dal suo impegno), ciò implica che an­ che il livello raggiungibile dallo sviluppo individuale è limi­ tato. Di fatto, comunque, benché il livello di tale sviluppo oscilli entro limiti molto ampi, la finitezza di principio è la stessa per tutti. Inizio e fine dello spirito personale sono connessi alla vita organica, alla nascita e alla morte. Lo spirito personale non si può trasmettere da un individuo all’altro ma, come del resto la vita psichica, deve sorgere ex novo in cia­ scuno. Non si può trasmettere la coscienza, e lo spi­ rito personale, a differenza dello spirito obbiettivo, è appun­ to legato a una coscienza, non può farne a meno. Fin qui, inizio e fine dipendono dal fatto che lo spirito personale è portato dall’organismo. Ma c’è anche una delimitazione interna: lo spirito ha una vita particolare, una circolazione propria; cresce a determinati compiti, fino a un certo livello dell’ambito che gli è proprio, ma poi la sua carica si esaurisce ed esso si ferma, campa del già fatto e la sua vitalità decresce. Tale esauribilità è propria dello spirito sin­ golo come dello spirito comune. Una stessa deperibilità li ac­ comuna. Ma la vita dello spirito conosce ancora una terza forma di « fine ». Lo spirito vive solo nel mutamento, in un pro­ cesso di trasformazione continua. L’intima condizione del mutamento è però, come s’è visto, la capacità di identificarsi con se stesso. Ora, tale capacità è limitata; il mutamento può sommergerla e cessare automaticamente di esser tale: nasce allora qualcosa di nuovo che non si identifica più col vecchio; e questo nascere è, insieme, il passare del vecchio, la sua fine. L’unità si dissolve, lo spirito si spacca, si sparpa­

VII. - PARTICOLARITÀ CATEGORIALI

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glia, rinuncia a se stesso. In questo senso, l’interna decaden­ za dello spirito umano è già in atto durante la vita; e lo è pure l’interna decadenza, l’autodecomposizione dello spirito comune storico, quando un popolo ha passato il suo segno e, vivente ancora, sparisce dalla scena della storia.

4. Lo

SPIRITO IN RAPPORTO ALLA SPAZIALITÀ

Il mondo reale nel quale lo spirito vive, presenta, alme­ no nei suoi gradi inferiori, il carattere della spazialità. Ma lo spirito poggia su questi gradi e perciò, pur non essendo a sua volta spaziale, il rapporto alla spazialità è per lui decisi­ vo. Si tratta, in due sensi diversi, di un rapporto intieramente positivo. In primo luogo: una realtà spirituale, anche se priva di spazialità, deve però in qualche modo dominare lo spazio. Vive infatti in un mondo spaziale, benché spaziale non sia la sua vita. Se lo spazio non è una categoria reale dello spirito, ne è però una categoria d’intuizione: lo spirito non può vivere se non è cosciente della spazialità e non sa muoversi in essa. A tale scopo, si vale di una sua intuizione dello spazio, che non ha bisogno di essere rigorosamente identica allo spazio inteso, appunto, come categoria reale del mondo cosale. Basta che ne sia un riscontro, per quanto parziale e deformato ’. In secondo luogo però, e mediatamente, lo spirito vivo 1 È un punto che in questa sede non possiamo dimostrare e che rientra in una dottrina generale approfondita delle categorie. Lo stesso dicasi per le considerazioni che seguono. Qui noteremo sol­ tanto che è un errore identificare senz’altro categorie della conoscen­ za (o dell’intuizione) e categorie reali. Tra le une e le altre sussistono differenze decisive che è compito dell’analisi categoriale mettere in luce. Questo stato di cose è rimasto tanto a lungo ignorato perché finora si è concepita la dottrina delle categorie quasi soltanto nel quadro di una teoria della conoscenza. I punti d’accesso veramente decisivi si trovano invece nell’ambito dei problemi ontologici. Cfr.. per es., Der Aufbau der realen Welt, cit., capp. 10-14.

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

è anche legato allo spazio reale; e questo è appunto il senso dell’affermazione che esso, in quanto a-spaziale, vive tutta­ via in un mondo spaziale. Esser legato allo spazio non si­ gnifica aver forma spaziale o esser spazialmente localizzato. Si tratta, a ben guardare, di un rapporto molto elementare e per nulla enigmatico, cioè: di una semplice funzione del rapporto ontico di fondazione. Lo spirito, nel suo « poggiar sopra », è connesso al portatore organico-corporeo e, per questa via, anche alla materia (due strati dotati, appun­ to, di spazialità). Uno spirito « fluttuante », capace di esi­ stere senza fondamenti ontici, supposto che ci fosse, sarebbe diverso, come è diversa la descrizione che ne hanno sempre dato le teorie idealistiche e spiritualistico-metafisiche. Questo era però anche il loro errore, perché l’esperienza non conosce spirito alcuno fluttuante e noi dobbiamo attenerci soltanto allo spirito empirico. Dire che lo spirito è legato allo spazio, nel senso in­ dicato, è dire una verità quanto mai concreta e famigliare. Che io viva in una determinata città, significa per me, come individuo spirituale, che ben precisi fattori, connessi con questa città, questa popolazione, questa regione o contrada e con queste condizioni di vita e di lavoro, determinano il mio sviluppo spirituale. Ne dipendono essenzialmente, sia il mio orizzonte di vita e di conoscenza, che la mia imma­ gine del mondo e la prospettiva stessa nella quale mi appare il restante mondo spaziale. Una volta spiritualmente forma­ to, posso naturalmente superare queste condizioni — an­ che senza ampliare il mio campo spaziale. Come creatura corporea legata a un certo spazio, non sono dunque in­ catenato anche spiritualmente a questo luogo, anzi, spiri­ tualmente non sono affatto incatenato a uno spazio. Resta vero che le impressioni e gli influssi spazialmente dererminati lasciano dei segni indelebili sul mio sviluppo, che non potrò più cancellare né sostituire. E sarebbe falso, come lo è l’idea di uno spirito sciolto da ogni legame spa­ ziale, considerarli come qualcosa di puramente esterno. Tut­ to ciò che ha contribuito a dar forma allo spirito nel suo

VII. - PARTICOLARITÀ CATEGORIALI

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divenire gli è e resta essenziale. Ma ciò, ancora una volta, non significa che spaziale sia lo spirito. Ogni individuo spirituale è legato per tutta la vita e necessariamente a un organismo individuale. L’ambito in cui è localizzata la sua libertà di movimento configura anche in modo primario il suo campo visivo spirituale. Ogni per­ cezione è infatti legata all’immediato orizzonte spaziale. C’è percezione solo a partire da un punto spaziale ed ogni intui­ zione del mondo è e rimane prospettica. Lo stesso dicasi di ogni esperienza che viviamo o compiamo e del destino che anche interiormente ci tocca. Chi ci sia amico e chi ne­ mico, chi amiamo, in quali movimenti storici siamo coinvol­ ti e quali posizioni siamo costretti a prendervi, insomma, qualunque cosa ci tocchi o ci riguardi, dipende in gran parte da « dove » viviamo, da chi incontriamo spa­ zialmente, dalla situazione politica complessiva in cui spa­ zialmente siamo implicati. È possibile, ma solo entro certi limiti, ribellarsi a que­ sti legami spaziali. Ed è possibile in generale solo perché il legame non riguarda lo spirito in quanto tale, ma il suo fondamento ontico portante. In sé e per sé, nonostante il legame, lo spirito resta non-spaziale.

5. Spazio

intuitivo e tempo intuitivo

L’affermazione che lo spirito entri nei tempo per mez­ zo del corpo si è dimostrata errata. Il tempo è una cate­ goria reale dello spirito e gli compete originariamente e im­ mediatamente. Lo spazio non è invece una categoria reale dello spirito, gli compete solo mediatamente e, in sostanza, non è affatto a lui che compete. L’affermazione valida dunque, è: lo spirito entra nello spazio solo attraverso il corpo. Sia lo spazio che il tempo sono però categorie intuitive

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PAKTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

dello spirito. Non la sola percezione, ma anche la rappre­ sentazione, il pensiero, la fantasia si muovono in quelle due forme. Ciò è particolarmente significativo in quan­ to lo spirito possiede, in queste forme d’intuizione, un’illi­ mitata libertà di movimento, quale in ogni caso non possiede rispetto al tempo reale in cui vive e allo spazio reale al quale il corpo lo tiene legato. Nessuno può realmen­ te sciogliersi e allontanarsi da quel punto del tempo in cui sta vivendo; nessuno può tornare indietro nel passato e nes­ suno incontrare anticipatamente il futuro. Tutti siamo le­ gati al flusso eguale del tempo che ci spinge avanti senza poter essere sospeso né affrettato. Nel tempo, non abbia­ mo alcuna libertà di movimento: veniamo mossi e basta, come le cose e ogni altra realtà. Nel tempo intuitivo, però, ci muoviamo liberamente, il pensiero si sofferma senza difficoltà presso un evento passato e, nei limiti della pre­ visione, presso un evento futuro. Lo spirito presentifica ugualmente la cosa vicina e quella lontana nel tempo, ma resta, dal canto suo, imperterrito nella propria presenza rea­ le. Cosi, nella sua forma intuitiva, esso dispone della libertà di andare al di là del tempo reale a cui appartiene. Tale superamento è però qualcosa di irreale e non può con­ traddire al suo legame temporale. Tutto questo vale anche per l’intuizione spaziale in rap­ porto allo spazio reale. Per la verità, ciò che è spaziale nello spazio, non vi inerisce tuttavia come inerisce al tempo. Lo spazio non ha alcun movimento proprio, non porta con sé ciò che in esso si trova, lascia campo a movimenti auto­ nomi è, anzi, il campo dei movimenti di tutto ciò che si muove. Ma il movimento spaziale è limitato in un determi­ nato tempo. Lo spirito incarnato, col suo orizzonte psico­ percettivo spazialmente limitato, dispone realmente solo della libertà di movimento del corpo. L’uomo viaggia, migra, conosce paesi e popoli; ma il suo esperire è costan­ temente legato a quel luogo nel quale si trova. E tuttavia, non è legato a quel luogo nella rappresentazione, nei pensie­ ri, nella fantasia, perché qui vige un’altra legge: attraverso

VII. - PARTICOLARITÀ CATEGORIALI

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la categoria intuitiva egli è libero di soffermarsi spiri­ tualmente dove vuole; nella rappresentazione si porta al di là del legame spaziale che, attraverso la corporeità, lo trat­ tiene. Ma, come s’è detto, tale superamento è irreale e non lo sposta per nulla dal luogo in cui effettivamente si trova. Cosi lo spirito si eleva al di sopra dello spazio e del tempo pur essendo ad essi realmente ancorato; né può stac­ carsene, per quanto si elevi. Conduce, nelle dimensioni del mondo una doppia esistenza, perché tali dimensioni « ri­ tornano » in lui come le sue proprie. Il potere e la libertà di cui dispone nelle sue forme intuitive costituiscono, nel mondo, il suo privilegio rispetto a tutto ciò che si trova altrimenti prigioniero nello spazio e nel tempo. Ma tale privilegio è appunto insufficiente a toglierlo dal suo ef­ fettivo stato di prigionia.

6. Aspazialità

e acosalità

Quello che, con qualche ragione, benché erroneamente, è stato chiamato il carattere sovrasensibile dello spirito (er­ roneamente perché si pensava solo al « senso esterno ») è, in realtà, il suo carattere acosale. Il quale è dato, quan­ do è data la aspazialità; benché le due cose non siano identiche. Qui sta il fondamentale momento categoriale che divide l’essere psichico e categoriale da quello materiale e organico. Ciò che li unisce è la temporalità, resser-in-un-tempo, l’appartenenza al flusso complessivo dell’accadere; ciò che li divide è la spazialità. I processi materiali ed organici sono spazio-temporali; quelli psichici e spirituali, soltanto tem­ porali. Le due forme fondamentali della processualità sono omogenee, parallele, immediatamente correlate fra loro in una sola dimensione; nelle altre dimensioni sono eterognee, divergenti, irrelate. Ogni contesto reale che oltrepassi il taglio mediano degli strati, è un contesto temporale-acosale.

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

Per la struttura processuale dello spirito vivente e, so­ prattutto, dello spirito storico-obbiettivo, questa è la base di ogni ulteriore specificazione. In questo rapporto si tiene conto sia della dipendenza che dell’autonomia. Ogni carattere e formazione propriamente spirituale, pur muovendosi in una regione sovracosale, poggia inevitabilmen­ te su un fondamento d’essere cosale. Se la nostra immagine del « poggiar sopra » è di tipo spaziale, non è però spaziale il poggiar-sopra stesso; e se lo spirito, attraverso il corpo, è legato allo spazio, non si tratta però di un legame spaziale. Solo il tempo e il carattere di processualità conferiscono unità al mondo reale. Le categorie reali di tempo e spazio non possiedono pari dignità: la più fondamentale, quella che raggiunge le regioni più elevate e abbraccia ogni realtà, anche spirituale, è il tempo. Lo spazio si interrompe a mez­ za altezza: oltre l’organico, non troviamo più nulla di spa­ ziale. In questo senso, che lo spirito sia mediatamente con­ nesso allo spazio, non cambia nulla. Spazio e tempo sono le più superficiali — puramente metriche — categorie del mondo reale, e non ci aprono la sua più profonda compagine. Tuttavia, il loro rapporto ci ri­ vela già molto chiaramente la caratteristica posizione che lo spirito occupa nel mondo. Ecco perché un’esatta compren­ sione ontologica di questo rapporto, riveste tanta im­ portanza. La concezione tradizionale lo ha nascosto sotto più di un pregiudizio: per lo più, fuorviati dal loro paralle­ lismo nel mondo cosale, si insiste eccessivamente sull’omo­ geneità di tempo e spazio. In altri casi, sviati dalla acosalità dell’essere spirituale, se ne esagera l’eterogeneità. Non è vera, per es., la nota sentenza secondo la quale, ciò che è unito nello spazio è diviso nel tempo, e ciò che è unito nel tempo è diviso nello spazio. La prima affermazione riguarda soltanto l’essere cosale; ma la seconda si riferisce anche all’essere psichico e spirituale e qui, appunto, è inesatta. Sul piano spirituale, le più varie differenze coesistono tranquillamente nello stesso tempo, senza esser divise spa­ zialmente. I rapporti di accostamento e vicinanza vi hanno

VII. - PARTICOLARITÀ CATEGORIALI

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un carattere tutto particolare, che permette un’illimita­ ta molteplicità nella simultaneità. ■Ciò che vale per lo spazio, si riflette esattamente nel rapporto tra cosalità e processualità. Quest’ultima occupa una zona di realtà molto più ampia che non la forma della cosalità. Come vi sono eventi aspaziali nel tempo, cosi vi sono processi acosali. Non c’è però cosalità che non sia processuale, né spazialità che non sia temporale — almeno nell’ambito dell’essere reale. È il carattere di proces­ sualità a collegare spirito e materia, mentre è il carattere di cosalità a dividerli.

7. Inclusione

reale dello spirito nel mondo reale

Per lunghissimo tempo, lo spirito è stato considerato co­ me un essere « di un altro mondo ». Il pensiero filosofico si incontrava, in questo, con la mitologia e la religione. Si pensava di cogliere nel regno delle pure essenze quella « sfera ideale », riposante in se stessa, con la quale lo spiri­ to veniva identificato. Tale sfera, esiste certamente; ma è solo una sfera di oggettività per lo spirito: non è lo spirito stesso, né il piano della sua vita. La sua vita è reale, tempo­ rale, e non somiglia per nulla all’essere senza vita delle es­ senze. Nulla, meglio della sua inclusione o inserzione nell’uni­ co mondo reale, è atto a caratterizzare lo spirito, il quale ne fa parte come ogni altro essere non-spirituale. L’essere dello spirito è un essere di questo mondo: un essere d’e­ sperienza che esperisce se stesso e scopre se stesso solo nel corso del proprio sviluppo. Si tratta, ancora una volta, di qualcosa di molto con­ creto. Lo spirito a noi noto, è continuamente in lotta. Per lui, ne va sempre di qualcosa, che può raggiungere e po­ trebbe mancare. A suo modo, può essere minacciato, esser posto in causa, avere un destino. La sua iniziativa è con­

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

tinuamente richiesta; ogni situazione di vita pretende da lui che intervenga, che agisca. Nel campo dell’ethos per­ sonale, questo è l’aspetto del rischio interiore, la possibili­ tà del peccato, della colpa. Solo una creatura spirituale reale, impegnata nella lotta, può avere colpa o merito. E se ha avuto colpa deve portarla. Lo spirito è moralmente re­ sponsabile, cosi come può soffrire ed avere un destino. Il tutto della vita spirituale rivela un costante dinami­ smo. Possiamo, per comodità di osservazione, studiarlo in sezione, ma la staticità della sezione è un’astrazione che non esiste nello spirito vivo. Qui le teorie con­ templative hanno prodotto molto disorientamento. Lo spi­ rito vivente non sta li, come uno spettatore disinteressato, mentre la vita reale scorrerebbe, affollandosi, davanti a lui; sta invece, anche lui, sempre in mezzo alla calca. Viene spinto, proprio lui; e spinge a sua volta. Può, bensì, elevarsi a contemplare; ma, allora, deve lottare per elevarsi. Si può dire, piuttosto, il contrario: il mondo nel quale lo spirito vive e muore, questo mondo che impelle e che vive seriamen­ te, è già il mondo dello spirito. Il quale non vive in un mon­ do che gli sia eterogeneo. Il mondo è il suo mondo proprio perché è quello degli individui e della vita storica come anche delle cose e dei rapporti oggettivi. Il rovescio di questa inclusione ed omogeneità è che lo spirito non ha un suo mondo privato. Come soggetto sin­ golo, l’individuo spirituale non ha un suo mondo interiore, come non ha, davanti e fuori di sé, il mondo comune; ma è implicato in esso come un suo membro. Soltanto cosi sono possibili ritagli prospettici del mondo in base ai limiti entro cui esso è dato all’individuo. Tale ritaglio costituisce però il suo mondo di rappresentazioni e di pensieri. Egli non vive né lotta, non soffre né muore in questo mondo, ma in quell’unico mondo reale al quale appartiene. La diversità dei mondi spirituali individuali è, dal pun­ to di vista ontico, secondaria. Nessuno ne negherà l’esisten­ za, ma non è certo un esistenza « in sé ». Ognuno di tali mondi ha il suo vero significato soltanto nel suo riferimento

VII. - PARTICOLARITÀ CATEGORIALI

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all’unico mondo reale cui tutti appartengono e di cui cia­ scuno è solo un’immagine parziale e deformata. In questo riferimento univoco si fonda anche la loro mutua relazionabilità, la loro parziale identificabilità. Da questa dipende, a sua volta, ogni possibilità di comprensione e di comunan­ za spirituale. Perché solo chi sogna ha un mondo tutto suo. Gli uomini desti — come dice Eraclito — hanno tutti un solo mondo.

8. Dipendenza

e signoria dello spirito nel mondo

Quest’unico mondo è poi la struttura pluristrata com­ plessiva del reale: il mondo dell’essere, spirituale e non, nel quale trova posto l’intiero rapporto di fondazione e di auto­ nomia. Solo in esso diventa comprensibile che l’essere spi­ rituale goda di un’autonomia ontica, perché questa presup­ pone l’unità del mondo relativamente al suo modo d’essere. Ma nell’esser-portato non si esaurisce il suo rapporto con gli strati inferiori, rispetto ai quali, lo spirito non solo ri­ ceve ma anche dà. Esso fa la sua parte, nell’accadere totale, in quanto dà forma, non solo a se stesso ma anche, entro certi limiti, al materiale, al vivente, allo psichico. Vi è an­ che una determinazione inversa, che dallo spirito ritorna all’essere inferiore. Ciò non vuol dire che le categorie in­ feriori non restino le più forti: lo spirito non modificherà le leggi della natura, ma impara a capirle e ad utilizzarle. Riesce cosi a modificare ciò che ubbidisce a tali leggi, in quanto vi aggiunge del suo. Entriamo qui nel vasto campo del dominio sulla natu­ ra, del lavoro applicato alle cose, della manipolazione del dato naturale a fini umani. Vi rientrano quasi tutte le at­ tività sensibili e tutto ciò che è tecnica. Non ogni opera­ zione dello spirito è benedetta nel mondo. L’uomo è diven­ tato ciò che è, nella lotta. Ha distrutto vite, cancellato intie­ re speci animali. Ma si è creato un ambiente oggettivo di­

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

verso da quello che la natura gli offriva; un ambiente che co­ stituisce parte considerevole del suo mondo umano (agricol­ tura, allevamento, vie di comunicazione, città). Col crescere di questo mondo di oggetti, l’uomo ha trasformato sia la propria vita che quella della natura. Ha cambiato la faccia della terra. L’uomo può saccheggiare la natura e, in tal modo, mettere in pericolo anche se stesso; ma può anche mi­ gliorarla, comprenderne le potenzialità originali e realizzarle attraverso un saggio dominio. In ambedue i casi, lo spirito rivela il suo secondo volto: quello onticamente rivolto « all’indietro ». Anche questa circostanza, la sua possi­ bilità di agire nel flusso totale degli eventi, lo pone alla pari con ogni altro reale. Cosi è, già nell’agire privato del singolo. Non c’è attività umana i cui effetti non si riper­ cuotano in un determinato ambito. Ogni azione è come un urto che, una volta impresso, non si può piu richiamare. Lo spirito è libero di imprimerlo o meno, dopo di che la sua libertà cessa. È questa, una legge fondamentale del­ l’ethos umano. Ma il rapporto ontico di determinazione che vi è contenuto è ancor più generale e caratterizza già, prima di ogni valutazione morale, la posizione dello spi­ rito rispetto alla natura. Lo spirito è, e rimane, dipendente, ma si tratta della dipendenza del dominatore dalle forze che vuol governare. Egli domina, è vero, ma sopra forze la cui legge e la cui essenza non è in grado di mutare. Può accadere, cosi, che non riesca a controllare, come l’apprendista stregone, gli spiriti da lui stesso evocati.

Sezione III

L’INDIVIDUO SPIRITUALE

Capitolo Vili SPONTANEITÀ DI INCREMENTO E CONSUMO

1. Autodatità

ed autocoglimento

L’individuo spirituale occupa, come oggetto di consi­ derazione, una posizione tutta particolare, che già vale a differenziarlo dallo spirito obbiettivo. Il pensiero conside­ rante si trova qui, rispetto al suo oggetto, a proprio agio, perché, se lo spirito non si risolve nel pensiero, il pensiero — anche quello filosofico — è pur sempre spirito. Per la considerazione, tuttavia, questo è a un tempo un vantaggio e uno svantaggio. Il vantaggio è facile a vedersi. Lo spirito, in quanto individuale, può guardarsi dal di dentro, non ha bisogno di fare alcun giro per raggiungersi, si possiede ed è immedia­ tamente dato a se stesso. Questa circostanza, che non è ap­ prezzata nella vita pratica, lo è invece nella vita filosofica. Ne è prova la coscienza che la persona ha di esser-io. Non che questo sia già un sapere particolare circa se stessi; è però un’autodatità centrale di tipo immediato e certis­ simo. L’analisi filosofica può cominciare da qui e 11.

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

può anche procedere riconnettendo più dati a questo punto centrale. Lo svantaggio è, però, che l’io fa da ostacolo a se stesso. Come, giustamente, ha detto Fichte. Proprio perché lo spirito è a sua volta pensiero, compare accanto a se stesso come soggetto del pensiero che lo pensa, — rispetti­ vamente, dell’intuire che lo intuisce. Cosi, ciò che viene in­ tuito non è lo spirito stesso il quale, per sua essenza, è sempre anche soggetto. Il sapere del Cogito comporta bensì un’autodatità e una certezza di sé non ingannevoli ma, proprio per questo, non è ancora un coglimento cono­ scitivo di sé. La certezza di me può esistere con la più profonda ignoranza di « che cosa » io sia. Per conoscere che cosa esso sia, il soggetto deve diventare oggetto di sé: il che non gli riesce mai completamente. In questo senso, l’autocoglimento presenta un deciso svantaggio rispetto al coglimento di tutto ciò che non sia il proprio sé. La direzione conoscitiva naturale del soggetto è quella « verso l’esterno », verso ciò che gli sta « di fronte ». Star di fronte è appunto, essere-oggetto. Per prendere se stes­ so ad oggetto, il soggetto dovrà anche ridursi all’effettiva con­ dizione di uno « star di fronte ». Ma, dato che non può abbandonare se stesso, dovrà allora in un certo senso dimen­ ticare che ciò che deve essere colto è lui stesso. Dovrà insomma, proprio nella dimenticanza di sé, concentrarsi su se stesso. È un’interna difficoltà, della quale la riflessione fi­ losofica sullo spirito soggettivo non si libera. C’è tuttavia una circostanza favorevole: lo spirito singolo non è condannato aU’autointuizione. Egli trova i suoi simili fuori di sé, nel mondo, e in essi lo spirito gli sta di fronte. Se qui si trattasse dell’essere psichico, ciò non gli varrebbe molto, perché questo è a ciascuno per sé: ma si tratta dello spirito, e lo spirito, anche quello personale, è espansivo, trascende ed è ciò che è in verità, solo nel suo rapportarsi al mondo al quale appartiene.

Vili. - SPONTANEITÀ DI INCREMENTO E CONSUMO

2. Autoformazione ed

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autorealizzazione

Come l’individuo organico, cosi anche l’individuo spi­ rituale si sviluppa. Ma questo svilupparsi è ben diverso da quello. L’organismo svolge le sue disposizioni secondo una norma evolutiva che domina il suo di­ venire. Dello spirito va detto invece, che deve sempre, innan­ zitutto, farsi ciò che è. Non è il caso di intendere questa espressione in qualche senso metafisico; non nel senso di Hegel, per esempio, per cui allo spirito presiederebbe un’idea, che esso dovrebbe realizzare. Il senso dell’espressione è quanto mai semplice, empirico: allo spirito, la sua configurazione propria non cade dal cielo, non viene da sola e non va da sé. Vuol essere forgiata e conquistata; senza applicazione non si sviluppa, e capacità e disposizione non la garantiscono. Solo lo spirito stesso può realizzarla ed essa richiede il suo impegno. Nel regno dell’organico e nella sfera psichica le cose stanno altrimenti. L’organismo si riproduce in individui nuovi, la forma della specie trascende, si eredita; la confi­ gurazione ritorna immutata, o mutata in misura irrilevante. La vita trapassa continuamente in nuova vita. La nuova conformazione è determinata dalla forma passata. La varia­ bilità è qui qualcosa di casuale, una pura oscillazione che si compensa da sola. Quanto allo psichismo, è vero che non si trasmette e che si desta nuovo alla coscienza in ogni individuo. Il suo risveglio è tuttavia implicato nel processo complessivo dello sviluppo i cui fattori, gli esterni come gli interni, sono sempre già pronti e non è affatto la coscienza stes­ sa a doverseli procurare. Tutto funziona in modo che si riproducano sempre quegli stessi bisogni, necessità e istinti che predelineano alla vita psichica determinate direzioni di sviluppo.

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

Lo spirito è ben diverso. Anch’esso rinasce nuovo in ciascun individuo e non viene ereditato insieme con la vita. Ma deve farsi da sé, deve impegnarsi ad ogni passo. Non è puro sviluppo di predisposizioni: si pensi soltanto che, se il bambino impara a vedere e a camminare con lo svegliarsi graduale delle facoltà degli organi e degli arti, a parlare non impara però automaticamente con lo svilup­ po organico. Deve imparare a ricevere, a combinare, a ca­ pire. Lo stesso vale per la orientazione pratica nel mondo, nella vita, nella sfera umana. Ciascuno deve fare le sue esperienze, deve sbagliare, fallire, soffrire, tentare sem­ pre di nuovo, osare. L’esperienza degli altri, da sola, per quanto istruttiva, non gli serve a nulla — non per­ ché non faccia al caso suo, ma perché non è la sua. La vita è un insegnante a pagamento ed è insostituibile. La predisposizione, per quanto brillante, da sola non basta e neppure l’istruzione, da sola. Quel tanto di saggezza di vita, di cui si ha bisogno, bisogna guadagnarselo. E cosi per ogni altro insegnamento. È una cosa che non spetta di diritto a nessun uomo: lo spirito, nel suo conte­ nuto, non si eredita. Solo l’impegno, il lavoro lo producono. È una cosa da conquistare. Dati di fatto e risultati posso­ no esserci offerti: l’intelligenza dipende da noi; all’intuizione comprensiva, alla scoperta del senso arriviamo soltanto con la nostra fatica. Questa è la legge di ogni educazione, l’interno limite di ogni insegnamento. E tuttavia, l’uomo non smette di imparare finché vive: è continuamente in lotta per il proprio essere, in una continua autoformazione ed autorealizzazione. La vita dello spirito è una specie molto particolare di vitalità. Non è fissata in forme determinate come la vi­ ta organica, ma dispone di se stessa con una certa libertà. Nessuno può modificare il proprio tipo somatico, la propria natura biologica: in questo campo si può solo conservare e valorizzare. Lo spirito però, in un certo senso, può configurarsi in modo diverso, secondo la dire­ zione che sceglie, secondo ciò che fa di se stesso. La piega

Vili. - SPONTANEITÀ DI INCREMENTO E CONSUMO

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impressa con attività spontanea e di propria mano, è deci­ siva. Ecco perché le variazioni qualitative dello spirito nei di­ versi individui sono cosi straordinariamente notevoli — non paragonabili alle variazioni biologiche di una specie. Nel dominio organico la disseminazione comporta soltanto devia­ zioni connesse alla variabilità di uno schema; nello spirito, essa riguarda il contenuto essenziale, fin nella radice. Ciò consegue appunto alla circostanza che lo spirito non diventa ciò che è in virtù di leggi già date, ma deve farsi da sé. Esso è quindi, per quanto riguarda il suo esse­ re proprio, e nonostante la sua dipendenza e condizionatezza, affidato a se stesso. Da questo punto di vista lo spirito è svantaggiato rispetto a tutti gli altri tipi di essere reale. Ma, insieme, è superiore a tutti. Dispone quindi, per svi­ lupparsi, di un margine di tutt’altro ordine di grandezza. Se poi consideriamo che, col crescere del margine di variabilità, cresce anche la probabilità di emergenze straordi­ narie è chiaro che ciò assicura alla dimensione dello spi­ rito storico, nella quale solo ciò che è straordinario emerge, una enorme possibilità di plasmazione.

3. SUPERSFRUTTAMENTO DELLA VITA ED AUTODISTRUZIONE

Lo spirito non plasma soltanto se stesso ma anche il mondo in cui si trova. Invade gli strati d’essere che lo sostengono determinandoli dall’alto, ma poiché esso vive e muore in concomitanza con il naturale configurarsi di quelli, la loro riplasmazione mette in pericolo la sua stes­ sa esistenza. Ciò non ha un valore generale né necessario: lo spirito con tutta la sua sfera di influenza, è solo un’effimera isola in un cosmo che la sua attività non è in gra­ do di distruggere. Sembra tuttavia che essa comporti

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

una certa costrizione nei riguardi della dimensione vitale immediatamente portante. Lo spirito consuma la vita. Questa non è una novità e non è il caso di trarne argo­ mento, come fa Klages, per un pessimismo dell’autodi­ struzione. D’altra parte non si dovrebbe neppure discono­ scere che questo punto di vista contiene senz’altro una parte di verità, un ammonimento di cui bisogna far tesoro. Almeno nell’uomo, è un fatto indiscutibile che lo sviluppo spirituale comporta un « consumo ». Tra la vita corporale e quella spirituale dell’uomo c’è uno speciale rapporto di reciprocità. Lo spirito edifi­ ca sopra il vitale, in parte lo trasforma e perfeziona; sa metterlo al sicuro, custodirlo, proteggerlo, coltivarlo. Può potenziare le attività organiche, accrescerle, affinarle; può educare delle facoltà, accendere e spiritualizzare la forma corporea, il suo movimento, il suo habitus comples­ sivo. Ma proprio questo entusiasmo indebolisce anche le forze vitali, il sano istinto, la naturale autoconservazione ed autoregolazione. La vita organica, lasciata a sé, si selezio­ na costantemente nella dura lotta, si potenzia in direzio­ ne della pura forza vitale. Lo spirito taglia per traverso questa direzione, devia da essa, sospinge per un altro verso. Quando esso riduce, e deprime ciò che la vita ha costruito, la robustezza cede alla raffinatezza. È noto a tutti che il lavoro spirituale consuma la vita. Lo spirito è però fondato sul lavoro perché sempre e solo lavorando ottiene ciò che è suo. La sua costruzione richie­ de grande sacrificio. Il corpo è governato invece da un’altra legge: è lo spirito che deve costringerlo all’impegno dan­ neggiando cosi l’armonia organica, il suo interno equilibrio. In questo senso, lo spirito dà fondo ai tesori accumulati dalla vita. L’affaticarsi, l’intristire, il crollare della vita corpo­ rale sotto le sollecitazioni dello spirito è un fenomeno tra i più comuni. Ci si può chiedere in che misura la vita sappia riprendersi da tale sforzo. Di fatto, una certa dege-

Vili. - SPONTANEITÀ DI INCREMENTO E CONSUMO

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aerazione vitale è innegabile nei portatori di cultura. Tanto più che essa non si esaurisce nel corso di una generazione — il che sarebbe consolante — ma viene ereditata dalle successive. Le stirpi colte sono sempre condannate a sparire: a bruciare, bastano poche gene­ razioni. E se forze popolari più sane non sopraggiunges­ sero di rincalzo, ogni superiore educazione spirituale sa­ rebbe condannata a un rapidissimo esaurimento. Da un punto di vista di igiene dei popoli, si dovrebbe dire che essa può sopravvivere in una nazione soltanto finché sussi­ sta una quantità sufficiente di vitalità ancor vergine e non spirituale, da consumare. Tale riserva, ovviamente, non può mai essere presente in misura illimitata presso alcun popolo. Storicamente, assistiamo ad una specie di invecchiamento dei popoli — un processo le cui ra­ dici non vanno certamente rintracciate in questo solo or­ dine di fatti, ma che può esserne in parte determinato. Il livello culturale dei popoli storicamente dominanti è pagato a caro prezzo. Quella che chiamiamo la nostra organizzazione culturale, scolastica ed educativa, tutta la nostra vita spirituale costruita con tanto dispendio di energie, si presenta, da questo punto di vista, come uno sfruttamento pericolosamente intensivo della vita. Non è il caso di nasconderselo. Le conseguenze si fanno sentire, alla lunga, anche sullo spirito. Se lo spirito consistesse uni­ camente nella cultura intellettuale, il danno sarebbe forse riparabile. Ma poiché lo spirito è anche capacità di valu­ tazione, ethos, forza creatrice, educazione degli affetti, capacità di gioire, pienezza di senso della vita personale, si cela qui una minaccia, molto più grave, alla stabilità stessa del nostro abito complessivo di vita. Poiché lo sfruttamento della disponibilità di energia vitale deprime innanzitutto proprio queste dimensioni della vita perso­ nale.

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

pericoloso ideale culturale. rica

4. Un

Prospettiva sto­

L’uomo non può vivere come uomo, senza il più in­ tenso impegno spirituale, che però paga — a quanto pare — con la vita. Trarre da questo dilemma conclusioni affretta­ te sarebbe certamente ingannevole, né questo è lo sco­ po delle nostre considerazioni. Però la crescita lussureggian­ te dello spirito è pericolosa e lo spirito, una volta destato­ si, ha la tendenza a lussureggiare. Pericoloso è l’ideale educativo attuale — non però per la sua tendenza verso l’alto, quanto per la sua tendenza ad allargarsi. « Tutti devono avere una cultura » — ma questo non è sopportabile per un corpo sociale vivente, perché comporta la distruzione delle proprie riserve, le quali risiedono soltanto nella vitalità intatta. Se infatti si pensa all’umanità, all’eguaglianza, alla giusta partecipazione di tutti ai massimi beni, non biso­ gnerebbe dimenticare che il grande esperimento riguarda qualcosa di inusitato, che solo le future generazioni ne ve­ dranno le conseguenze, che qui si potrebbe andare incontro ad un’autoeliminazione sistematica. Chi d’altra parte volesse trarre da queste considerazioni alimento al proprio disgusto per la cultura e alla propria sensibilità decadente, commetterebbe l’errore di voler giudicare il corso della storia universale in base a un minu­ to cosmico. Se guardiamo spassionatamente al fondo della situazione, riportiamo l’impressione non già di un invecchia­ mento o indebolimento, quanto piuttosto di una certa giovanilità, immaturità e audace sbrigatività dello spirito. Ciò che fa difetto è la riflessività, la chiarezza, la sicurezza di giudizio. Del resto, non è lo spirito, in effetti, storica­ mente giovane? Ha dietro di sé pochi millenni. Chi po­ trebbe dire che questo è molto, quando la vita sulla terra (perché è della vita che parliamo) e lo stesso genere umano misurano la loro età con unità di misura tanto piu grandi? E chi, valendosi di criteri empirici, oserebbe limi­

Vili. - SPONTANEITÀ DI INCREMENTO E CONSUMO

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tare il futuro del processo storico? Le fondamentali condizio­ ni cosmiche mutano solo secondo una periodicità cosmica, rispetto alla quale lo sviluppo storico scorre su un metro temporale in miniatura. Non è utopico dire: siamo an­ cora all’inizio della storia. Comunque sia, sta di fatto che in ogni sfruttamento smoderato che l’uomo fa dei tesori naturali è da vedere una chiara immaturità dello spirito. Esso non fa che segare il ramo sul quale poggia. O se ne accorge quando è trop­ po tardi, oppure, se vede venire ciò che sta per avvenire, è però troppo prigioniero del presente per rinunciare al vantaggio dell’istante. Il singolo non pensa alle genera­ zioni future. Ma è necessario ciò? È essenziale allo spiri­ to una tale miopia? Non può farsi furbo, imparare dalla propria esperienza storica? L’uomo ha già razionato certi consumi, che un tempo erano destinati a indiscriminata rapina. Perché non dovrebbe amministrare con lungimiranza e saggezza anche il capitale della propria vitalità organica? Questo rapporto di fondo, per cui lo spirito consuma la vita, non è superabile. Ma la vita organica si rinnova e ricrea le proprie forze. L’incapacità dello spirito di ren­ dersene conto e di regolare di conseguenza il proprio rapinoso sviluppo, non è uno stato insuperabile. Lo spirito può maturare, imparare, comprendere il senso del suo esser-portato. È una saggezza che certo nessuno gli re­ gala. Anch’essa, come tutto ciò che lo spirito è dive­ nuto e deve diventare, va conquistata. La maturità del suo modo di vivere deve procurarsela da solo, lottando. Lo spazio storico necessario è a sua disposizione, ma anche qui vale il principio che lo spirito è destinato a plasmarsi da sé, a trovare da sé la sua strada, a imporsi da sé la pro­ pria legge. Anche qui, esso è costretto a farsi ciò che è.

Capitolo IX COSCIENZA SPIRITUALE E COSCIENZA NON SPIRITUALE

1. Scioglimento dalla tensione istintiva

Pericoli e compiti di questo tipo non riguardano la co­ scienza in quanto tale; ma esclusivamente la coscienza non spirituale. La coscienza non spirituale non cresce in modo sfrenato. Essa si tende nelle funzioni vitali e non se ne stac­ ca per abbandonarsi a se stessa. È una coscienza ancora del tutto strumentale. Si è mostrato più sopra che lo spirito non è caratterizzabile come coscienza. Però c’è una forma di coscienza che gli è caratteristica. La coscienza dell’uomo è diversa da quella degli animali superiori e ciò che ha di comune con questa è soltanto la base, un protrarsi delle forme inferiori dell’es­ sere nelle superiori — il che si può esprimere anche dicendo che queste ultime sono portate. La vita coscienziale dell’animale è già data, per quanto ci è possibile penetrarne la forma, nel rapporto dell’ani­ male al suo mondo circostante. Ogni psicologia animale deve attenersi a questa datità esteriore. Ma il rapporto al mondo circostante mostra, anche nelle forme più elevate di coscienza animale, una caratteristica immediatezza, man­ canza di distanza, adesione incalzante e senza ritegno. Esso si riduce quasi a un afferrare, assalire, fuggire, impaurirsi. La stessa timidezza dell’animale rispetto a ciò che sembra osser­ vare, non esce da questo atteggiamento complessivo: è un al­

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

tro indice di quella tensione immediata in rapporto all’ogget­ to della brama e del timore. Tale tensione ha origini puramente vitali. Autoconserva­ zione, fame, lotta per l’esistenza, esser minacciati e fiutare il nemico, impulso sessuale, concorrenza con gli animali della stessa specie, ecco i fattori di fondo determinanti, che as­ sicurano una tensione costante della coscienza animale. Ciò che esula da tale ambito non interessa l’animale, si può dire anzi che, per la coscienza animale, non esista. Per questa sua essenziale compromissione nel rapporto istintivo ed autoconservativo, la coscienza aderisce strumentalmente all’organismo. Neppure quella che chiamiamo intelligenza degli animali esce da questo quadro. Essa può bensì dimo­ strare che anche la coscienza tesa e aderente è capace di certi passaggi, che può imparare dall’esperienza, trova­ re e battere vie nuove. Ma l’inventività resta limi­ tata e le sue forze motrici non superano mai le sollecita­ zioni istintivo-ambientali. La coscienza spirituale, invece, compare con lo sciogli­ mento della tensione, la liberazione progressiva dagli impulsi, il distacco dalla cosa con la quale ha a che fare. E non si limita certo agli interessi vitali dell’individuo. Il suo mondo ambiente non si costituisce in base al bisogno impellente, ma si moltiplica nei contenuti ed è, a rigore, pri­ va di limiti riconoscibili: i suoi limiti possono ampliar­ si fin dove arrivano l’esperienza e la supposizione. Essa rivela cosi un rapporto fondamentalmente differente al mon­ do in cui l’individuo vive: un rapporto obbiettivo di penetra­ zione e di coglimento. Con ciò, anche la capacità di orien­ tazione nel mondo poggia su altra base e da questo dipende la differenza tra coscienza dominatrice e coscienza strumenta­ le. Il rapporto di distacco e di astensione è ben lontano dall’avere un’origine intellettuale. Non si tratta neces­ sariamente di un comportamento di osservazione e di consi­ derazione teorica. In esso, l’attualità vitale non viene elimi­ nata ma solo sottratta all’immediatezza o, meglio, alla schia-

IX. - COSCIENZA SPIRITUALE E NON SPIRITUALE

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vitti di questa, mentre vien fatto posto ad un rapporto mediato di comprensione del mondo. Se il rapporto mediato non è ancora necessariamente riflessione è però certamente un ambito di riflessione possibile e quindi impli­ ca già, di fatto, una superiorità rispetto alla tensione della coscienza reattiva. Lo scioglimento da questa tensione è alla base di ogni possibile intuizione complessiva del mondo circostante.

2. Eccentricità interiore e orientazione verso il MONDO

Ci si chiede quale forma abbia la coscienza spirituale del mondo e quale posizione assegni a se stessa in quello che essa considera il mondo. Recenti ricerche al confine tra psicologia animale e antropologia hanno portato questo pro­ blema a un certo grado di maturità. Le considerazioni che (seguono sono formulate sulla base degli studi di H. Plessner anche se, come è ovvio, la diversità del contesto in cui noi ci poniamo il problema, comporterà uno sposta­ mento d’accento *. La forma della coscienza animale è la posizione frontale rispetto al proprio mondo circostante — e questo non nella sola percezione ma anche in ogni altro rapporto vitale ad esso, sia di minaccia che di attività o di reattivi­ tà. Tale « frontalità » ha la sua « forma chiusa » nella posi­ zione centrale che la coscienza assegna a se stessa e in cui es­ sa si « pone ». È questa, secondo l’espressione di Plessner, la sua « posizionalità di forma chiusa ». Caratteristica di tale coscienza è dunque la discrepanza tra la posizione che essa 1 Cfr. Helmuth Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch, Berlin 1928; soprattutto i capp. 6 e 7 su « La sfera del­ l’animale » e « La sfera dell’uomo ».

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

assegna a se stessa nel « suo » mondo e la posizione che essa assume nel mondo effettuale. Che, per l’appunto, centrale non è; come del resto neppure il « mondo circostante », al cui centro la coscienza si pone, e quello reale in cui effettivamente si trova. Ne risulta che la stessa « chiusura » è una pura conseguenza della forma posizionale. La coscienza spirituale si distingue da questa, perché è consapevole della propria appartenenza al mondo dato e della casualità della propria posizione in esso. Se è posta, non è però al centro del mondo dato, il quale cessa co­ si di essere « puro mondo circostante » — circostante è infat­ ti il mondo incentrato nel soggetto — per diventare « il mon­ do », cioè il mondo reale nel quale esso convive con altri. Que­ sta mutata posizione rispetto al mondo, intesa come forma della coscienza, è la sua « posizionalità di forma eccentrica ». Per l’uomo, il mondo che gli è dato non ha più carattere circoscrivente e non lo concepisce come qualcosa che lo circonda e che gli si riferisce come a un centro. La posi­ zione che l’uomo assegna a se stesso nel mondo, dal punto di vista del mondo è « eccentrica ». Egli non orienta più il mondo su se stesso, ma se stesso sul mondo. È cosi che l’uomo comincia a orientarsi obbiettivamente « nel mondo ». Nell’impostazione generale di questa coscienza, primario non è l’uomo, ma il mondo che fuori di lui ha il suo centro. Egli si situa cosi nel mondo che comprende. E se anche questo mondo compreso non è che una porzio­ ne del mondo effettuale, non gli vale però più come l’unico mondo esistente: egli infatti non riferisce il mondo a sé, ma sé al mondo. Invece l’animale non si situa; e neppure ne ha bisogno, visto che è già sempre — senza alcun inter­ vento della coscienza — saldamente inserito nel mondo effettuale e non potrebbe esserlo maggiormente. Non ha bi­ sogno di un’interiore posizione eccentrica. Ma l’uomo ne ha bisogno perché tutta la vita e la sua lotta nel mondo riguardano la posizione che egli tende a raggiungervi. Pren­

IX. - COSCIENZA SPIRITUALE E NON SPIRITUALE

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derlo per quello che è, è per lui una necessità pregiudi­ ziale. Questa interna divergenza che separa la coscienza spi­ rituale da quella non spirituale, dipende strettamente dal­ lo scioglimento dalla tensione. Comprendendo la propria posizione effettiva nel mondo, la coscienza si solleva e si astiene dalla tesa aderenza; il suo mondo non si riduce più a ciò che qui ed ora la minaccia o l’attrae, ma contie­ ne anche molto di più e d’altro, che non dipende da lei. Poiché ha preso distanza dalle cose di cui si occupa, ed è coscienza distaccata, il mondo le appare come neutra­ lizzato.

3. La

mutata orientazione come discriminante delle

VISIONI DEL MONDO

L’interiore passaggio della coscienza alla « forma eccentri­ ca » si identifica dunque col mutamento della forma di datità del mondo. Il « mondo circostante », che è un puro mondo degli istinti, diventa un « co-mondo » col quale l’uomo vive. Se, per visione del mondo, intendiamo la vera e pro­ pria forma della visione in cui il mondo appare alla coscien­ za, il discriminante primario delle visioni del mondo va ricondotto all’opposizione tra coscienza spirituale e co­ scienza non-spirituale. È un’opposizione che non ammette termini medi: tra il mondo soggettivo e quello oggettivo non c’è alcun ponte, essi si escludono a vicenda. Ciò che li divide è un radicale mutamento di atteggiamento della co­ scienza, un salto. Che io veda il mondo come « il mio » o come « il mondo senz’altro », ecco il vero discriminante delle visioni del mondo, comunque elevate e complesse esse siano. Il suddetto mutamento di orientazione dipende però dall’interiore scioglimento dalla tensione inerente alla

148

PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

propria vita istintiva. Tale liberazione tuttavia non avviene di colpo: è un processo molto lento, gravato da mille interne resistenze ciascuna delle quali richiede un parti­ colare impegno e viene superata con fatica. Da un punto di vista storico, questo processo non è mai compiuto. L’uoma porta sempre con sé la propria origine, e la coscien­ za animale che è in lui non scompare mai del tutto. Nell’uomo sopravvive sempre anche l’animale, e cosi la coscienza non si libera mai completamente della sua in­ veterata forma posizionale. Anche come coscienza spirituale conserva a lungo la tendenza a riferire tutto a se stessa, a porsi, sia nella pratica che nella teoria, al centro del mondo. Solo un’esperienza vasta e profonda — non ultima l’esperienza che il pensiero maturo, anzi, filosofico, ha del suo oggetto fondamentale: il mondo — può cancellare gli ultimi resti di coscienza non-spirituale. Ma, poiché il contrasto delle forme posizionali è radi­ cale e non permette alcun passaggio graduale, bensì solo un salto di qualità, la coscienza che sale lentamente, per fasi storiche, verso la posizione spirituale, risulta diseguale nelle sue forme di transizione e quasi intimamente spezzata. E dato che essa sente tale scissione come la sua propria, do­ vrà lottare per la propria salute. Per lo piu la coscienza umana si trova ad aver raggiunto ed a tenere saldamente la posizione eccentrica in certe dimensioni di vita, mentre in altre resta ancora prigioniera della posizione centrale di for­ ma chiusa. Nel complesso, la bilancia pende chiaramente verso la prima posizione — ma con ricorrenti contraccolpi storici che sembrano a tutta prima inspiegabili. La cosa più sconcertante è che siano proprio le sfere spirituali più elevate a conservare più a lungo la posizione centrale tipica della coscienza non-spirituale. Ci si aspette­ rebbe l’opposto: è proprio qui che la tendenza a sciogliersi dalla tensione dovrebbe essere più progredita. Di fatto, ac­ cade il contrario: nel pensiero mitico domina la rappresen­ tazione dell’uomo come fine della creazione; nelle visioni del mondo religiose e filosofiche si ripresenta costantemente

IX. - COSCIENZA SPIRITUALE E NON SPIRITUALE

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connessa di solito a una svalutazione del mondo reale la concezione antropocentrica del mondo. Il colmo è raggiunto proprio da quei sistemi metafisici che si presentano come non-metafisici e critici. Rientrano in questa categoria tut­ ti i soggettivismi, relativismi, idealismi. Neppure le varie­ tà più recenti, che apparentemente vi si oppongono, ma in realtà sospendono il senso obbiettivo dell’essere e della ve­ rità, costituiscono un’eccezione: vi rientrano quindi, ten­ denzialmente, anche il pragmatismo e lo storicismo delle Weltanschauungen. Tutte queste tendenze ignorano di essere residui di coscienza non-spirituale dentro lo spirito filosofico. Ma a tradirle è la rozzezza della loro posizione: la loro contrad­ dittorietà rispetto alla posizione eccentrica, da tempo rag­ giunta e consolidata nella vita pratica, le rivela per quello che sono.

4. Legame

e libertà

Ma perché, bisogna chiedersi, proprio quei campi del­ lo spirito in cui il volo della coscienza è più alto, restano più a lungo legati all’origine? La libertà dello spirito dipen­ de sempre dallo scioglimento della tensione; e là dove que­ sta si risolve nella pace contemplativa è lecito aspettarsi il massimo di libertà. Viceversa, bisogna tener conto di due elementi che cambiano il senso di questo rapporto. 1. Le cose, come ci appaiono in una visione del mon­ do, sono ben lontano dal dipendere dalla pura contempla­ zione. Non sono affatto il campo della maggiore libertà spirituale, anzi, neppure della maggiore scientificità o pu­ rezza conoscitiva. È proprio qui che la tendenza verso la « verità » è attraversata ad ogni passo da altre correnti, di solito molto più forti, ma insieme più opache perché radi­ cate nella passività di atteggiamenti sentimentali inconsa­ pevoli. Tali correnti assumono sempre nuove forme, assor­ 12.

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

bono certi risultati della conoscenza, si adattano, indossano sempre di nuovo l’abito dell’oggettività, ostentano anzi la dignità di un senso « più profondo », mentre la mancata perlustrazione della loro origine incrementa, a loro riguardo, l’apparenza di una intuizione superiore. La critica non ne viene a capo tanto facilmente. Certo, è da una profondità che esse hanno origine; ma è la profondità della bassura, della coscienza non-spirituale. Ciò che, a questo proposito, riproduce sempre l’inganno, è il presupposto che il pensiero speculativo sia pensiero libero, mentre invece è più legato che mai. Il pensiero specu­ lativo non segue l’intuizione dovunque essa lo porti, ma le prescrive una meta. Si tratta, in effetti, di un pensiero che ha ben poco a che fare con la conoscenza. Quest’ultima, quando davvero segue senza influssi esterni la propria strada, diventa, certo, una libera coscienza universale. Ma, proprio per questo, non si avventura tanto facilmente nella specula­ zione e preferisce obbedire a un’orientazione cosciente sul mondo. Il pensiero speculativo invece, ricade sempre nel vizio atavico di orientare il mondo su di sé. Negli oscuri bisogni metafisici agisce appunto il noto ancoramento della coscienza alla sua forma primitiva, e finché quelli dominano tra le quinte del pensiero filosofico, questo pende verso di essi e tende a ricadérvi. Non possiano strappare a forza que­ sta radice. Sulla via dell’intelligenza e della comprensione del mondo, essa ci impegna in una battaglia senza quar­ tiere. 2. Un primo scioglimento dalla tensione e una prima in­ clusione eccentrica nel mondo dato si realizzano proprio nei rapporti pratici di vita. Qui infatti, è la stessa attualità della vita che impone all’uomo una superiore orientazione. L’orientazione della coscienza sul mondo diventa obbiettiva e quindi, nella stessa vita pratica, superiore a ogni altra. Grazie ad essa, l’uomo acquista la capacità di dominare le cose e le situazioni, e la sua coscienza si eleva dall’aderenza servile a un libero signoreggiamento. Giacché la cosa e la situazione richiedono di essere comprese per poter essere

IX. - COSCIENZA SPIRITUALE E NON SPIRITUALE

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valutate; e quanto più l’uomo vede obbiettivamente la situa­ zione in cui si trova, tanto maggiori sono le sue possibilità di plasmarla liberamente. La forma di coscienza che dischiu­ de all’uomo tutte le sue possibilità e la dimensione stessa della sua libertà, è appunto quella della posizione eccentrica. Che è poi la forma della coscienza spirituale. Non c’è alcuna contraddittorietà nel fatto che la di­ stensione e la libertà della coscienza scaturiscano da uno stato di costrizione e trionfino dapprima proprio là, dove la coscienza ha urgente bisogno di esse come fattori di supe­ riorità nella vita pratica. Ogni ascesa avviene sotto costrizio­ ne perché soltanto con la forza possiamo imporla alla nostra struttura originaria. Per quanto riguarda, in particolare, la coazione alla libertà, non è questa l’unica forma, come si vedrà, né la più sorprendente, in cui ciò accade. Ciò emerge tanto più chiaramente in assenza di ogni coazione: nella coscienza della speculazione o della vi­ sione del mondo. Nella scelta di un’immagine del mondo, non c’è alcuna coazione pratica immediata: alla vita pratica, essa resterà indifferente finché verrà a patti con le esigenze del suo corso e non ne turbi le acque. Le cose starebbero al­ trimenti se il « mondo » fosse un’essere capace di sentir­ si misconosciuto e capace di vendicarsene sull’uomo. Il mondo è invece supremamente indifferente a ciò che l’uomo ne pensa; le immagini fantastiche che questi se ne fa, non lo toccano e, in fondo, non se ne ha a male; essere misco­ nosciuto, disprezzato, diffamato agli occhi dell’uomo, non lo turba. Solo la conoscenza di esso ne è turbata, falsata. Questa però importa all’uomo. Vige qui la più grande tolleranza, ma soltanto da parte del mondo, non da parte della coscienza. Perché, dove man­ ca ogni stimolo all’ascesa, essa non si eleva tanto facilmente, anche se tutto il cielo si spalanca sopra il suo capo. La liber­ tà, infatti, non le viene mai regalata: deve conquistarsela, deve impegnarsi in proprio per farsi tale, quale secondo la sua essenza già è. Se l’impegno s’arresta, essa ricade imman­ cabilmente nella forma della coscienza non-spirituale.

Capitolo X

L’OBBIETTIVITÀ

1. Oggettualità

del mondo.

L’obbiettazione

Se la coscienza si riporta nella sua vera posizione, le cose le appaiono in se stesse per quello che sono. L’urgenza, l’arroganza della posizione centrale le precludono il mondo obbiettivo che sta dietro il mondo circostante soggettivo. Riorientandosi sul mondo, la coscienza rimette se stessa al proprio posto, ritorna nel proprio angolo e smantella quel mondo circostante che le impedisce di vedere il mondo. È solo cosi che il mondo le riesce visibile nella sua obbietti­ vità. E dato che le cose diventano oggetti per lei, essa di­ venterà il soggetto di tali oggetti. La coscienza non-spirituale non è un vero e proprio sog­ getto, né ha veri e propri oggetti: le manca, al proposito, la necessaria distanza rispetto alle cose. Solo la coscienza spiri­ tuale arriva all’oggettività, la quale è conseguenza (e non causa) del superamento della tensione e dell’assunzione della posizione eccentrica. La coscienza spirituale è coscienza og­ gettuale e sa le cose come di-fronte-a sé, come i propri og­ getti. Le cose non diventano oggetti da se sole, ma solo at­ traverso la forma e l’opera della coscienza, e sono tali soltan­ to « per » la coscienza, non in sé. Per la verità, le cose sono sempre state di fronte alla coscienza, — nel mondo in cui questa e quelle coesistono —, ma si trattava, appunto, di pu­ ra e semplice coesistenza, forse di un rapporto di causazione, di stimolo, di utilizzazione, ma non di un rapporto di obbiet­ tività. Rispetto allo spirito, emerge qui un altro tipo di

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

« star-di-fronte »: lo star-di-fronte come modo di apparire, l’esser-per-lui delle cose. « In sé », esse sono ciò che sono anche senza lo spirito, ma oggetti esse possono essere solo «per lui ». Possono dunque diventare oggetti solo se lo spi­ rito, con la forma di coscienza che gli è propria, se le rende oggetti, se le ob-jetta. Tale diventar-oggetto delle cose è funzione di una particolare attitudine della coscienza nei loro riguardi, un suo modo di dedicarvisi. Questa funzione è la conoscenza. La forma della conoscenza è l’obbiettazione \_Objektion\. L’animale non è capace di obbiettazione. Nella misura in cui le cose gli sono date, vengono incluse nella sua sfera vitale: sono bramate o aborrite, altrimenti restano indif­ ferenti. Questa forma di coscienza non può arrivare all’obbiettazione. Una cosa diventa oggetto solo per una coscienza che faccia attenzione a come la cosa sia costituita in se stes­ sa, a cosa essa « sia » — non in funzione di un impulso o di un desiderio, ma puramente e semplicemente per ciò che essa è. Ciò che conta, qui, non è che l’impressione che la coscienza ha della cosa sia giusta o sbagliata, ma l’atteg­ giamento della coscienza in quanto tale: anche in caso d’er­ rore, la cosa è pur fatta oggetto di coscienza. Anzi, solo sul piano di questo rapporto di obbiettazione si può coglie­ re o mancare il bersaglio, si può distinguere tra verità e er­ rore.

2. Conoscenza e

oggetto di conoscenza

Il concetto di oggetto che ci interessa nella fattispecie è il concetto dell’oggetto di conoscenza. Nel quale, si badi, non rientra l’oggetto della rappresentazione, del pensiero, della fantasia. Non ci interessa quell’oggetto intenzionale o interiore che si riduce alla propria correlazione con l’atto, ma l’ente che, pur sussistendo in sé e indipendentemente dalla coscienza, nel rapporto conoscitivo vien fatto oggetto

x. -

l’obbiettività

155

di coscienza. La coscienza, che può pensare e rappresentar­ si qualunque cosa (anche ciò che nel mondo effettuale non esiste), può invece conoscere soltanto ciò che esiste in questo mondo. La conoscenza è un rapporto di trascendenza: essa coglie o rende oggetto ciò che sussiste in sé. Conoscenza è obbiettazione di ciò che, da se stesso, non è oggetto di un soggetto. Le cose, l’ente, il mondo cosi com’« è », sono indifferenti all’obbiettazione. Ad essi non importa se e in che misura diventano oggetti di conoscenza. L’ente di per sé non è oggetto ed ogni essere è sovraoggettuale. Quando vien fatto oggetto non ne risente affatto: l’essere non si riduce certo al suo esser-oggetto. Che diventi oggetto, non dipende però da lui, ma dalla capacità della coscienza di obbiettarselo *. Queste determinazioni sono essenziali alla comprensio­ ne di quell’oggettività che distingue la coscienza spirituale da quella non-spirituale. Non che lo spirito non sia capace anche di un libero gioco del pensiero o della fantasia. Lo è certamente; ma non è questo che caratterizza il suo rap­ porto al mondo in cui si trova: caratteristico è invece so­ prattutto il suo modo di orientarsi in questo mondo. Da questo punto di vista, non è importante che cosa esso ne fantastichi, essenziale è, invece, che cosa esso ne conosca. Ciò che conta è, dunque, quanto del mondo effettuale esso sappia rendersi oggetto. In quanto alla coscienza, la sua rio­ 1 II concetto di conoscenza che qui assumiamo richiede, sotto molti aspetti, di venir giustificato. Si veda, a questo scopo, la mia Metaphysik der Erkenntnis, Berlin 19251 2, parte I. La conoscenza vi viene definita non come un’unità di senso, non come giudizio e nep­ pure come un mero rapporto intenzionale, bensì come un rapporto trascendente il quale collega la coscienza con ciò che è in sé e, rispetti­ vamente, gli permette di apparirle. Se nelle considerazioni che pre­ cedono sostituiamo un qualunque altro concetto di conoscenza — ad es., logico, idealistico o di teoria dell’immanenza — la caratte­ ristica posizione della coscienza spirituale rispetto al mondo risul­ terà incomprensibile e ne deriverà un controsenso che nessun compro­ messo permetterà di cancellare. Il che non fa meraviglia perché si verrebbe a presupporre inavvertitamente la forma già superata del­ la coscienza non-spirituale.

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

rientazione entro il mondo e il suo starvi a proprio agio sono in tutto e per tutto una funzione della sua obbietta­ zione del mondo. A questo punto, bisogna guardarsi da un facile equivoco. L’« obbiettazione » di cui si parla qui, va ben distinta dalΓ« obbiettivazione ». Ciò è tanto più necessario in quanto l’obbiettivazione è proprio un’operazione dello spirito, an­ zi, tra le sue più elevate funzioni rientra appunto quella di obbiettivarsi. Di tali funzioni non ci occupiamo, per ora; ne tratteremo più avanti. Le obbiettivazioni sono formazioni produttive dello spi­ rito stesso, nelle quali esso si esprime e si plasma in evi­ denza. Anche l’obbiettazione è opera sua e soltanto sua, ma non dà luogo ad alcuna formazione produttiva. Essa riguarda esclusivamente il rapporto che lo spirito in quanto conoscente stabilisce col mondo in cui vive. Ciò che viene ob-jettato deve prima essere qualcosa in sé; non è l’obbiettazione a produrlo, si a farlo oggetto di un soggetto. Ciò che viene obbiettivato, invece, non presuppone alcun essere oltre allo spirito. È piuttosto lo spirito vivente stesso a trarre da sé il proprio prodotto, a formarlo nell’obbiettivazione e a renderlo cosi indipendente. In un certo senso, quindi, l’obbiettivazione è l’opposto dell’obbiettazione. Ob­ biettivazione è spontaneità, un produrre, un mettere-al-mondo. Obbiettazione significa cogliere, accogliere, recepire, capi­ re e non è altro che percezione, esperienza, visione, intelli­ genza, scoperta. Il suo oggetto le è dato ed essa non ne modifica né l’esistenza né la forma.

3. Lo

SPIRITO CONOSCENTE E L’eSSER-PER-LUI DEL MONDO

L’atteggiamento conoscitivo, per noi individui spiritua­ li di un certo livello di sviluppo, è qualcosa di corrente. La nostra vita si muove in una progressiva conoscenza come pu­ re in una lotta costante per ottenere beni e raggiungere mete.

x. -

l’obbiettività

157

In questo progredire, diventano oggetti per noi sempre nuo­ ve regioni del mondo. L’obbiettazione procede sempre avan­ ti, il suo raggio si allarga. E con esso si allargano sia l’am­ bito dell’oggettività di coscienza, sia la nostra orientazione nel mondo. E poiché qui l’atteggiamento della coscienza è obbietti­ vo, essa si abbandona al campo oggettivo senza riflettere su se stessa. Per lo spirito, questo è diventato un atteggia­ mento ovvio. Eppure, a guardar meglio, l’ovvietà è qualcosa che fa meraviglia. In questo caso, l’orientazione sul mondo ne è solo un lato, il lato pratico e di maggiore attualità per la vita perché ogni valutazione e ogni padroneggiamento la presuppongono. L’altro lato riguarda invece lo spirito stesso, in quanto, per il semplice fatto che il mondo gli diventa oggetto, viene ad assumere nel mondo una posizione parti­ colare. La peculiarità di tale posizione dello spirito consiste nel fatto che il suo rapporto alle cose mette anche le cose in un altro rapporto rispetto allo spirito. Esse, in quanto ob-jettate, non sono più soltanto in sé, ma anche per lui. In quanto la coscienza, nel conoscere, si abbandona alle cose, queste le si danno a loro volta, e si danno come ciò che sono in sé, danno il loro essere-in-sé. Ciò distingue la datità conoscitiva da ogni altra datità. Anche all’animale qualcosa è dato, ma non come ciò che è in sé, bensì solo come ciò che lo minaccia o attrae, che lo nutre o gli giova. In questo senso, anche l’organismo è il punto di riferimen­ to di un esser-per-lui delle cose. Ma è un esser-per-lui di tipo diverso, perché le cose non sono, per lui, ciò che sono in se stesse. L’animale da preda non è, ad esempio, per l’a­ nimale da rapina, ciò che è per sua natura — un vivente capolavoro della natura — ma soltanto una preda, il che non appartiene necessariamente all’essenza di questa specie animale. Per lo spirito invece, l’animale da preda è ciò che è in base alla propria essenza. In altre parole: è il suo og­ getto.

158

PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

L’animale rientra nello stesso mondo reale in cui anche l’essere spirituale si trova. Ma per « lui » il mondo è altro da ciò che è in sé. Il suo essere-in-sé non gli si dà, né esso sa ob-jcitarselo. Per lo spirito invece, — nei limiti di ciascuna obbiettazione — il mondo è quello che è. Il se­ greto dell’obbiettazione è che l’esser-in-sé le si dischiude. È cosi che lo spirito può conquistare la sua speciale po­ sizione nel mondo. Essa consiste in un altro, l’effettivo, esser-per-lui del mondo in cui si trova — nell’esser-per-lui di ciò che il mondo, in sé, è. La stranezza di questo rapporto viene in piena luce se teniamo presente che lo scioglimento dalla tensione e la riorientazione della coscienza consistono proprio nel pre­ scindere da ciò che le cose sono « per la coscienza ». In forma paradossale, questo si può esprimere come segue: solo in quanto l’uomo supera nel proprio atteggiamento di coscienza il puro esser-per-lui delle cose e impara a vederle nel loro essere-in-sé, esse diventano effettivamente, anche per lui, ciò che sono in sé. Quel primo esser-per-lui era infatti soltanto un essere-per-l’istinto, e per l’istinto le cose non sono ciò che sono, ma solo ciò che quello vi vede, brama o teme. Lo spirito invece, vede nelle cose quello che c’è. Questo vedere è conoscenza. Questo stato di cose, che è fondante per l’essenza del­ la coscienza spirituale, è anche abbastanza elementare. Sol­ tanto, è difficile metterlo in rilievo, dato che i concetti già fatti non lo esprimono adeguatamente e bisogna ricorrere a circonlocuzioni ostiche. Tuttavia diventa chiarissimo se sia­ mo pronti a coglierlo in un esempio concreto altrettanto elementare. Per lo scimpanzè, la banana è una cosa molto ben determinata e ardentemente desiderata. Ma l’esser de­ siderata non è caratteristico della banana. Caratteristica del­ la banana in quanto tale è invece qualche proprietà costitu­ tiva sua e sua soltanto, della quale si possa dire che essa la possiede « in sé ». Orbene lo scimpanzè, che coglie soltanto l’esser-per-lui della cosa desiderata in quanto tale, non rie­ sce a concepire come la banana possa essere anche per lui

X.

- L’OBBIETTIVITÀ

159

ciò che è in se stessa. Ma la coscienza spirituale, che ha pre­ so distanza rispetto all’esser-desiderato, riesce senz’altro a cogliere qualcuna di quelle determinazioni che la banana possiede in sé, e può individuarne via via altre in una in­ tuizione progressiva. La banana è un oggetto, la coscienza se l’è ob-jettata. Nei limiti di tale obbiettazione, essa è anche per lo spirito ciò che è in sé.

4. Soggetto ed « io »

nel rapporto conoscitivo

II rapporto soggetto-oggetto è una particolare creazione dello spirito, senza il quale non sarebbe e per mezzo del quale soltanto, compare nel mondo. Con ciò, entra nel mon­ do qualcosa di nuovo, qualcosa che si dispone al di sopra dei rapporti reali e li sovrastruttura, senza turbarne la consi­ stenza, quasi rispecchiandoli. Certo, paragonare la coscienza conoscente a uno specchio del mondo non è esatto; infatti, non si tratta qui minimamente di ciò che si suol chiamare un riflesso e, quindi, questa parola non rende giustizia a quello che, nel rapporto complessivo, è il lato del soggetto. Il paragone esprime solo una corrispondenza tra il mondo e una sua immagine; tale però che ogni singola coscienza coglie un ritaglio diverso dell’unico mondo. Quanto al re­ sto, il rapporto di conoscenza è del tutto singolare e non paragonabile ad alcun altro. Quello stesso mutamento, nell’orientazione della co­ scienza, che fa del mondo un oggetto, fa della coscien­ za un soggetto. Soggetto e oggetto sono in un rap­ porto di rigorosa correlazione. Ma questa correlazione va in­ tesa rettamente: non le cose sono correlate al soggetto, ma solo il loro esser-oggetti, cioè il loro star-di-fronte, il loro esser-obbiettate. L’essere delle cose è sovraoggettuale e ri­ mane, anche nel loro star-di-fronte, indifferente all’obbiettazione. La correlazione riguarda dunque soltanto la coscien­

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

za e la sua attività conoscitiva, non il mondo che essa ren­ de oggetto. Anche la correlatività è quindi solo un’espressione uni­ laterale, una similitudine non adeguata al tutto del rappor­ to conoscitivo. Tuttavia, dal punto di vista interiore della forma di coscienza, essa coglie nel segno. Infatti, a rigore, la coscienza è soggetto puramente e semplicemente in quan­ to è ciò, grazie a cui le cose sono oggetti. Perché, in sé, non lo sono affatto. Questo è molto significativo per quan­ to riguarda la coscienza stessa nella sua interiorità. È un’af­ fermazione spesso ripetuta, che la autocoscienza compaia soltanto con la coscienza d’oggetto e si sviluppi in rapporto ad essa. Non vogliamo discutere questa affermazione, la qua­ le getta comunque un fascio di luce su quella che è l’es­ senza della riorientazione. La coscienza prigioniera dell’im­ pulso, per quanto si arroghi una posizione centrale, non è affatto un’autocoscienza. Ciò che essa pone al centro, non ha la forma d’essere dell’« io ». L’« io », infatti, è sapere di sé. Solo in quanto la coscienza si costituisce a soggetto di oggetti — il che accade, appunto, nell’obbiettazione — si stacca intimamente dal mondo: e solo in questo distacco riesce mediatamente a scorgere se stessa. L’interno punto d’origine e di riferimento esiste già, ma la coscienza non­ oggettuale non ne sa nulla: può saperne qualcosa solo in quanto scopre che quello è il soggetto degli oggetti. L’autocoscienza è una coscienza mediata. E l’immediatezza nella quale appare a se stessa come « io » è un’immediatez­ za mediata — un’immediatezza, cioè, nella quale la coscien­ za non sa della mediazione che ha compiuto. L’autocoscienza è un fenomeno fondamentale dello spi­ rito individuale, ma è ben lontana dall’essere un puro feno­ meno conoscitivo: anzi, il suo centro di gravità sta nell’at­ teggiamento pratico dell’individuo spirituale. Un atteggia­ mento, questo, che non si può derivare dal rapporto sog­ getto-oggetto: qui lo spirito è più che soggetto, è persona; e soltanto a partire dalla personalità possiamo comprendere

x. -

l’obbiettività

161

il fenomeno dell’« io ». Ma questo argomento richiede un capitolo a sé.

5. L’esser-per-sé

dello spirito e l’esser-per-lui del

MONDO

L’autocoscienza ha la forma dell’essere-per-sé. Qui l’e­ spressione hegeliana, altrimenti pericolosa e spesso abusata, è appropriata e insostituibile. Nel suo sapersi soggetto di oggetti lo spirito è di fatto, anche per sé, ciò che è in sé. Perché in tal modo lo spirito si è fatto realmente soggetto, ed è tale in sé. Nello spirito empirico dell’uomo, questo esser-per-sé non è mai perfetto. Nel suo sapersi soggetto, l’uomo sa ber. poco di sé, come del resto, nel suo saper le cose in quanto oggetti, non è detto che ne sappia molto. L’uomo non è affatto una coscienza spirituale già bella e compiuta. La riorientazione interna è un processo lento, che difficilmente giunge a termi­ ne, sia nella vita del singolo individuo che nella vita storica dell’umanità. Inoltre, per quanto si spiritualizzi, l’uomo re­ sta sempre ancora un animale, la coscienza spirituale coe­ siste in lui con quella non-spirituale; e poiché l’una contra­ sta con l’altra, vi sono sempre, nella sua vita, zone di con­ flitto. Tuttavia, in questo perenne contrasto, anche la legge della riorientazione resta viva — nella misura in cui resiste e in quanto è ripristinata sempre di nuovo. Ciò significa: 1) in quanto l’uomo va oltre la concezione delle cose come essenti solo « per lui », e proprio allora, le cose diventano effettivamente « per lui » ciò che sono in sé; e 2) in quanto l’uomo prescinde da sé quale punto di riferimento delle cose, e proprio allora, egli diventa effettivamente « per sé » ciò che è in sé. Infatti, è proprio cosi che egli diventa sogget­ to, cioè effettivo punto di riferimento degli oggetti, ed è per questo che si sa soggetto di oggetti. Il suo esser-per-sé è dunque effettivo se il mondo è

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

effettivamente per lui. Questo rapporto ha poi di caratte­ ristico, che anche il mondo, diventando oggetto dello spirito, subisce un processo. Se più sopra abbiamo dichiarato che l’essere delle cose resiste indifferente all’obbiettazione, que­ sto non significava che nel complessivo rapporto ontico nulla dovesse cambiare. Bisogna dire, invece, che in tal modo le cose stesse entrano in un nuovo rapporto. Che diventino oggetti di un soggetto non ne pregiudica, è vero, il carat­ tere cosale e neppure i rapporti reciproci; resta il fatto che esse si pongono con l’uomo in una relazione nuova, prima inesistente. In questo senso, la relazione conoscitiva è senza dubbio anche una relazione d’essere, la quale com­ porta e stabilisce un legame di tipo nuovo, quasi uno speciale livello sovracosale. In se stessa, la cosa non possiede alcun « essere per qualcuno »; solo quando « qualcuno » compare, per il quale essa possa essere qualcosa, compare anche questo ordine o livello dell’essere, la cui caratteristica è di sovrastare a tutti gli altri tipi di ordini. Che qualcosa sia anche « per » qualcuno ciò che è in sé, è una circostanza che, per quanto capace di tra­ sportare l’essere cosale a un superiore livello di digni­ tà, continua a restargli indifferente ed estranea. Dal punto di vista del mondo, però, questa circostanza non è infe­ riore né indifferente. Il mondo non è soltanto il mondo delle cose ma è l’insieme di tutti gli strati dell’essere: è quindi anche il mondo dello spirito. Ma in quanto lo spirito si assegna, nel mondo, una posizione tale che tutto ciò che è, è inoltre qualche cosa per lui, stabilisce nel mondo un rapporto di senso di cui l’essere non-spirituale non sarebbe capace. Prima ancora di ogni esplicito intervento plasmatore, la sola presenza dello spirito nel mondo è già donazione di senso e plasmazione del mondo. Ciò è dovuto ad una capacità di obbiettazione la quale eleva il mondo, da puro ente in sé a ente « per lo spirito ». Un ente non può mai avere senso in sé, ma solo « per » qualcuno. Il fatto fondamentale della do­ nazione di senso è che un ente del mondo si fa tale che,

x. -

l'obbiettività

163

« per » lui soltanto, l’ente può aver senso. È lo spirito a farsi un tale ente in quanto, come s’è detto, fa del mondo il proprio oggetto e di se stesso il soggetto. Per la verità, questo è soltanto il terreno di una possibile donazione di senso. Ma è un terreno solido sul quale si accumula tutta quella ricchezza di senso che si presenta nel mondo col carattere dello spirito personale.

Sezione IV LA PERSONALITÀ

Capitolo XI FENOMENO E PROBLEMA DELLA PERSONA

1. Il polo interno della

soggettività

Il caratteristico rapporto dello spirito al mondo in cui vive, sta nell’obbiettività dell’atteggiamento interiore, in quanto puro rapporto di coglimento. Ma il polo interno del rapporto, sul quale converge ogni esser-per-lui è di per sé rilevabile solo formalmente. Resta indetermi­ nato che cosa esso propriamente sia. Sappiamo che la sua caratteristica funzione nel rapporto di conoscenza è di essere soggetto di oggetti, intendendosi il concetto stesso di sogget­ to in senso puramente relazionale; ma, infine, questo non si­ gnificherebbe nulla piu di un generico star di fronte al­ l’oggetto. Lo spirito è evidentemente molto di più: solo se ci riesce di sostituire questo di più al posto del semplice soggetto, anche l’oggettività diverrà comprensibile nella pienezza del suo senso. Se, nel mondo, lo spirito è ciò per cui il mondo ha un senso, dovrà anche presentare ima struttura corrispondente a questa sua funzione. La sua posizione di soggetto resta ancora, da questo punto di vista troppo esteriore e indifferente. Lo spirito non è 13.

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

soltanto spirito rispecchiante. La capacità di coglimento non è la sola determinazione del suo rapporto al mondo, perché è inserita e condizionata da una quantità di altre relazioni allo stesso mondo. Lo spirito è implicato nell’at­ tualità del contesto vitale. Agisce e patisce, si aspetta e teme, si prende cura e spera, opera e lotta. Tuttavia, nella varietà di questi atti e rapporti si mantiene identico a se stesso e riesce a identificarsi con se stesso perfino al di là del proprio mutamento. Ciò che qui va notato è che questa sua partecipazione nell’attualità non toglie quell’obbiettività che s’era prodotta con lo scioglimento della tensione dell’impulso. La ricaduta su questo piano sembrerebbe doverla dissolvere. La caratte­ ristica dello spirito è invece proprio quella di mantenersi, an­ che nel contesto vitale, a distanza dalla cosa di cui si occupa; e se talvolta la perde, conserva di principio la capa­ cità di riacquistarla. Immerso nell’attualità, non ricade nella coscienza non-spirituale: è un ancoraggio che non si scioglie mai realiter, e se si scioglie, ciò non significa che l’individuo si sottragga alla partecipazione. Si sottrae soltanto alla schiavitù del proprio istinto, perché è questa che man­ tiene la bestia in una tensione senza distanza. L’opera e la conquista dello spirito è appunto quella di assumere nella distanza e nell’obbiettività, l’intera variopinta pienezza delle relazioni vitali per dominarla secondo il suo stile. Ma rispetto alla varietà di questi rapporti di attività e di vita, che cos’è propriamente lo spirito? È chiaro che non è possibile esprimerlo con una parola, né definirlo rigo­ rosamente con un concetto. Dovrebbe però essere pos­ sibile darne una descrizione approssimante — e ciò non di colpo ma, appunto, attraverso quella ricchezza e varietà di atti e relazioni di vita di cui esso è l’interno polo e l’unità. Tale varietà, infatti, è palpabile e per tematizzazioni parziali si lascia analizzare. Indichiamo comunemente questa unità del singolo esse­ re spirituale col nome di « persona », il quale serve già a distinguerla dall’organismo, ed anche dalla vita psichica e

XI. - FENOMENO E PROBLEMA DELLA PERSONA

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dalla coscienza. Con questa parola intendiamo l’individuo umano in quanto, con l’azione e la parola, con la volon­ tà e con l’impegno, come portatore di opinioni, idee, pre­ giudizi, di pretese o diritti, di interessi o valutazioni, in un modo o nell’altro prende posizione. Questo senso, sommariamente definito, del concetto di « persona », va te­ nuto presente, badando soprattutto a che l’accento cada sulla accennata varietà delle reciproche relazioni. Col che abbia­ mo già oltrapassato il piano del puro esser-soggetto.

2. Soggetto

e persona

Mentre è ancora possibile considerare il soggetto come se fosse solo nel mondo che rende oggetto per sé, nel caso della persona ciò non è più possibile, se non in un’astra­ zione la quale dovrebbe necessariamente ignorare quella che, della persona, è l’essenza vera. Le persone coesisto­ no già sempre in una comune sfera spirituale nella quale si muovono ed entrano in relazione. Ma questa sfera, a sua volta, non è più caratterizzabile in base alla persona­ lità, perché comprende le persone a un livello obbiettivo, fa parte del mondo totale in cui esse vivono, costituisce il piano delle loro azioni e reazioni, è, insomma, il loro comune mondo spirituale, è spirito obbiettivo e sto­ rico. In quanto tale, esula da questo contesto e richiede una ricerca specifica. Non ci nasconderemo certo che questa caratterizzazione dello spirito personale sconfina già nel campo dello spìri­ to obbiettivo: ciò è implicito nel contesto stesso della cosa ed è, quindi, inevitabile. Avvertiamo però che non è affatto contradditorio caratterizzare la personalità in base a feno­ meni spirituali sovrapersonali e questi, di nuovo, in base a fe­ nomeni personali. Non si tratta, infatti, di una costruzione sintetica, nella quale non potremmo procurarci i mattoni per i piani inferiori prelevandoli dai piani superiori. Prima di po­

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

tersi permettere costruzioni di questo tipo, il nostro tempo ha ancora una lunga strada da percorrere nello studio dei problemi spirituali. Il nostro compito, molto più modesto, è quello di analizzare un vasto e complesso fenomeno ri­ spettandone l’unità e, tuttavia, affrontandolo per tematizzazioni parziali e successive. Il procedimento descrittivo è libero di presupporre tutto ciò che appartiene al fenome­ no totale. Ciò che non può fare, invece, è chiarirne tutti gli aspetti in una volta sola. È, questo, un procedimento che distingue ma non isola. L’uomo sta di fronte all’uomo non come soggetto ma co­ me persona e, nella vita, i suoi antagonisti sono le per­ sone. Che intanto sia anche un soggetto ed abbia di fronte a sé una soggettività estranea, resta vero. Ma il suo rappor­ to agli altri viventi e al mondo comune non si esaurisce nell’esser-per-lui del mondo; tanto più che gli altri, e pro­ prio « per lui », non si riducono a meri oggetti. Si rileva, qui, un altro legame tra l’uomo e il mondo rimasto oscuro finora: il suo proprio essere-per-il-mondo. Se il mondo è oggetto « per lui », è per lo stesso mondo che egli, a sua volta, è qualcosa. Ma ciò che egli è per il mondo è qualcosa di ben diverso, perché l’uomo non è oggetto per il mondo, nè puro soggetto del suo esser-per-lui, ma una crea­ tura che in esso opera e soffre, gode e produce; che nel mondo ha il proprio destino e a sua volta diventa desti­ no per il mondo. Tra lui e il mondo c’è un rapporto dina­ mico di reciprocità, un formare e un venir formato. Nel mondo e per il mondo, l’uomo è anche un principio di creatività perché, nei limiti delle sue capacità, contribuisce a determinarlo e a trasformarlo in una misura che, per il mondo stesso, risulta essere decisiva. Anche se il suo agire può sempre perdersi nella vastità del mondo, le forme che egli vi crea appartengono a uno speciale livello d’essere e costituiscono un mondo dello spirito entro lo stesso mondo non-spirituale. Infatti, il mondo non è mai compiuto ma lascia spazio alla creatività. L’essere personale contri­ buisce alla creazione del mondo.

XI. - FENOMENO E PROBLEMA DELLA PERSONA

3. La persona

e l’« io

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»

L’obbiettività è inscindibile dalla soggettività, la coscienza oggettuale dall’autocoscienza. Ciò significa che il fenomeno dell’io è connesso al fenomeno della conoscen­ za. Ma quello che nella vita noi chiamiamo « io », questo qualcosa di interiore che nell’espressione linguistica si presen­ ta come « prima persona », non è un puro soggetto ricavabile come l’opposto degli oggetti. Ma è piuttosto la persona che, parlando di sé, dice « io »; mentre il suo interlocu­ tore non è tanto la cosa che si dà oggettualmente, quanto l’altra persona che le è data come « tu » — la « seconda persona », come dicono i grammatici. Solo nei rapporti per­ sonali 1’« io » è quello che è: la forma in cui la persona intimamente sa di sé — mentre sa di altre persone. Ma neppure il « sapere » esprime il rapporto effettivo: perché proprio nei confronti del « tu » la relazione primaria non è quella del soggetto che sa, ma quella della persona che agisce e subisce azione. E ciò che vale per il rapporto al compagno-uomo vale anche per il rapporto alle cose, agli stati di cose, alle situazioni, alle circostanze della vita, insomma: al mondo. « Io » lavoro, « io » voglio qualcosa, « io » mi trovo a mio agio in certe circostanze. Questa è l’espressione che naturalmente la persona, a seconda del suo rapporto di vita, usa per sé. Ed è un’espressione molto piu originaria dell’« io penso », col quale il filosofo compie la sua riflessione sul soggetto. Da Cartesio a Kant, a Fichte, il con­ cetto filosofico dell’io si è fissato, a torto, sempre più esclu­ sivamente sul rapporto teorico al mondo. A questo proposito è opportuno precisare che 1’« io » è, si, espressione di un’au­ tocoscienza e, quindi, effettivamente di un sapere; ma ciò che questo sapere sa, non è il soggetto del sapere ma la perso­ na immersa nel mondo della vita, che muove le cose e trat­ ta con altre persone. È l’espressione concettuale della co­ scienza personale testimone di sé. Un « io » impersonale è impossibile quanto un « tu » im­

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

personale. Il linguaggio, coll’evidenziare questi caratteristici pronomi personali e le forme personali del verbo, dà chiara prova della posizione centrale che i rapporti personali occupa­ no nel pensiero e nella vita dell’essere spirituale. Prima del­ l’essere personale non vi è un essere del soggetto — cosi co­ me non c’è un essere della conoscenza senza quello della vo­ lontà, del sentimento, o dell’azione con tutti i suoi effet­ ti. Quello che chiamiamo « io » è l’autocoscienza che emerge dalla pienezza e dalla varietà dei contesti di vita: è solo a questa autocoscienza che il soggetto aderisce in quanto è sapere di sé per la mediazione dell’oggettività.

4. Datità, inconoscibilità e conoscibilità necessaria

La personalità è l’autentico nucleo, la proprietà categoria­ le fondamentale dell’individuo spirituale. Ma ciò non ci con­ sente di definire lo spirito come noto in base ad essa: perché definire la personalità equivale a definire lo spirito. Angusti limiti sono posti qui alla nostra indagine e la stessa descrizione è costretta a procedere per vie traverse. Qui non è possibile separare e spezzettare: la personalità ci si presen­ ta soltanto come una totalità. Ogni pretesa deduttiva è mal posta perché non c’è nulla cui sia possibile ricondurla. La specialità propria dello spirito, il grande novum categoriale che lo stacca radicalmente da ogni altro essente, è anche ciò che esso ha di veramente imperscrutabile e, in gran parte, di irrazionale alogico e sovraintelliggibile a un tempo. Nel caso della persona, troviamo conferma alla regola, tanto spesso verificata, per cui proprio la cosa più nota e corrente è la meno conosciuta e conoscibile. Infatti quando, in un modo o nell’altro, abbiamo a che fare con delle perso­ ne, praticamente non ci sbagliamo mai circa il loro carattere personale. In questo senso, la personalità non solo è ricono­ scibile facilmente, ma addirittura con necessità. Nella pra­ tica, dunque, noi ne conosciamo molto bene i caratteri

XI. - FENOMENO E PROBLEMA DELLA PERSONA

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distintivi e, in questo, difficilmente ci sbagliamo. Ma non per questo abbiamo una conoscenza teorica di tali caratteri, non possiamo indicarli come fondamentali, e tanto meno sappiamo qualcosa circa l’essenza di ciò che essi annunciano. Nel mondo della vita, la nostra maniera di sapere le persone è di tipo vissuto. Ci sentiamo toccati da cia­ scuna in modo particolare, siamo colpiti dal loro agire, dalle loro intenzioni, dai loro sentimenti, dal loro stesso sguardo. La datità dalla persona altrui è immediata, non conoscitiva: nella viva relazione alla persona, la persona è data direttamente. Non si può neppure affermare che, con ciò, non sia dato il nòcciolo, l’essenziale della perso­ na in quanto tale. Sta di fatto che ancora non si tratta di un coglimento obbiettivo di tale essenza. La persona sa dell’altra persona come pari a sé, ne percepisce con sicu­ rezza la pretesa ad essere trattata come persona e questo determina fin dall’inizio il comportamento dell’una nei ri­ guardi dell’altra. Ciò che ciascuna ignora è « che cosa » sia questo Pari-a-sé. Si tratta inoltre di un sapere che non riguarda ancora minimamente l’individualità particolare di una personalità determinata, ma soltanto la personalità in quanto tale. Ri­ guarda cioè il carattere di esser-persona che è comune a tutte le persone, e che va ben distinto da quella che può essere una personalità particolare. Impariamo a conoscere a poco a poco una personalità in base ai suoi atti, al suo com­ portamento, alle sue prese di posizione: per comprenderla, dobbiamo prima farne l’esperienza. La personalità in quanto tale, invece, è data immediatamente con l’individualità uma­ na, prima di ogni ulteriore esperienza. In questo senso, si può facilmente riconoscere, nell’intuizione di persona, uri elemen­ to di apriorità che la determina immediatamente, comunque e dovunque un individuo spirituale entri nel nostro raggio visivo. La personalità è dunque, a un tempo, categoria in­ tuitiva dello spirito, e categoria reale dello spirito stes­ so. Infatti l’immediata necessità con cui la persona è data al­

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

l’altra persona, è intuitiva. Entro certi limiti, è analoga a quel­ la che, nella sfera dell’intuizione di cosa, è la categoria della cosa. Come, in questa sfera, la cosa viene intesa quale so­ stanza e sostegno delle proprietà — un modo di rappresenta­ zione che viene abbandonato soltanto nella conoscenza scientifica — cosi nel mondo spirituale intuitivo, la persona. Anch’essa viene colta come una specie di sostanza: quella che qui agisce, patisce e si esprime; che è colpita dal nostro comportamento o ci colpisce col suo; che reagisce a quello e si attende che rispondiamo a questo. La persona viene sempre intesa, tanto come portatrice di una coscienza situa­ zionale, che come fattore reale della situazione stessa, sì che lo specifico carattere di quest’ultima è condeterminato dal tipo e dall’adeguatezza della coscienza situazionale. Con questa forma categoriale dell’intuizione reciproca tra persone, sono date molte cose. Prima di tutto, un sapere immediato circa la pretesa dell’altra persona ad essere trattata come tale, pretesa analoga a quella avanzata dalla persona propria. Ne risulta un piano inter-personale di ac­ cettazione e riconoscimento reciproco. La conoscenza di tale piano non coincide però con l’intelligenza della par­ ticolare situazione interpersonale. Perché in questa forma della datità personale è implicito proprio che la persona altrui trascende la situazione, che resta identica attraverso un’imprevedibile molteplicità di situazioni e che si mantiene come una sostanza nel mutare di quelle.

Capitolo XII

LA PERSONALITÀ COME CATEGORIA REALE

1. Identità

e totalità nel mutare della persona

Le categorie dell’intuizione non si identificano con le categorie reali. Tra le une e le altre c’è solo il rapporto di approssimazione. Come l’intuizione spaziale non è la spa­ zialità reale, ma una semplificazione, una definizione, un’im­ magine trasposta dello spazio, cosi pure la personalità come forma intuitiva del corrispondente essere spirituale. Es­ sa conferisce alla persona intuita l’aspetto di una sostanza (cosa che in realtà essa non è), la vede come un che di identico e conchiuso, in una totalità tutta raccolta nel momento presente. Con ciò, è colto bensì qualcosa dell’es­ senza della persona, ma in modo inesatto. E, se in questo mo­ do la persona vera e propria resta sconosciuta — nonostante, in quanto persona, sia data con necessità — ciò dipende anche da questa forma d’intuizione. Abbiamo mostrato più sopra in che senso l’identità della creatura spirituale non possa intendersi come per­ manenza, né la creatura stessa come sostanza (cfr. cap. VII 2). Ciò vale in primo luogo per la persona che, infatti, non è divisibile né scomponibile e viene colta quin­ di, a buon diritto, anche intuitivamente, come un tut­ to. Tale totalità non si concentra tutta nell’ora, ma si di­ stende nella vita, nella durata, nel mutamento della persona. L’identità, in questo contesto, è qualcosa che bisogna sempre produrre e che richiede, da parte della persona, una capacità di trascendenza che vada al di là del suo

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

mutamento temporale. Essa deve sempre, innanzitutto, identificarsi con se stessa, e risulterà più o meno compatta a secondo del grado in cui vi riuscirà. La sua conservazione è fondata sulla libertà e va costatemente strappata a quelle forze che tendono a dissolverla. Ciò è risultato soprattutto evidente nella capacità di tener fede e di adempiere alla decisione presa, al fine pre­ scelto, all’opera intrapresa, alla promessa data. È la forza di garantire e di rispondere in proprio, per tutto ciò che incre­ menta l’unità e la compattezza della persona; che non può ricevere da altre parti questa unità, senza la quale è desti­ nata a disperdersi nella molteplicità dei suoi stadi di vi­ ta. Nulla di permanente che le sia proprio, le è dato in anticipo, salvo, forse, l’identità dell’individuo somatico, della fisionomia che resta riconoscibile attraverso il muta­ mento o, se vogliamo, del nome. Ma ciò è illusorio: l’iden­ tità personale non sta in questo. La cosa acquista un significato molto più generale quando si consideri che l’identità della persona non riguar­ da singoli atti e impegni assunti, ma tutto il suo essere più intimo e proprio. Ogni comportamento di una per­ sona verso un’altra è già, in quanto tale, una promessa, e cosi viene inteso. Ci affidiamo a qualcuno perché lo ab­ biamo messo alla prova nella vita, contiamo su di lui perché presumiamo che resti uguale a se stesso. Siamo costretti a contare sulla sua identità, pur sapendo che può mutare. La vita non sa offrire a tale scopo, condizioni più favorevoli: se ogni nuova situazione di vita cambia le persone, vuol dire che esse restano imprevedibili, giacché le situazioni sono uniche, effimere e, nella loro singolarità, incalcolabi­ li. Questo vale soprattutto per la sfera più intima della persona, quella dei sentimenti, delle decisioni, delle valu­ tazioni. Chi calpesta ciò che ha onorato, chi non resta fedele al proprio amore o alla propria amicizia non perde soltanto l’oggetto della propria stima, amore o amicizia, ma anche se stesso; tant’è vero che, anche per le persone cui questi senti­ menti erano diretti, egli diventa un altro.

XII. - PERSONALITÀ COME CATEGORIA REALE

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L’intima infedeltà verso se stessi è autodissolvimento. Non che lo stabilirsi nell’identità personale debba voler dire cessazione del mutamento, della maturazione, del rinnova­ mento. Ciò che stringe la persona in unità e totalità con se stessa è proprio il suo mantenersi nel mutamento: si tratta di un’identità nell’estensione temporale dei contenuti. La tota­ lità della persona non sta nella sua complessione istan­ tanea, ma in una interna complessione che si distende attraverso il tempo. Se si parla di una totalità presente della persona, essa comprenderà allora implicitamente la presenzialità del proprio passato e la garanzia del proprio fu­ turo. iMa ciò significa che la totalità personale, che sembra data con tanta immediatezza nell’intuizione, è in verità la sintesi di qualcosa che non è mai realiter composto in unità, perché si dispone nel tempo. È questa una sintesi che la persona stessa deve compiere su di sé, perché non c’è nulla di permanente dietro di lei che possa assumersi questo compito. Quanto alla persona dissociata, dispersa, labile, il problema sarà, fino a che punto essa sia ancora persona. Solo l’impegno spontaneo, la libera coerenza, l’intimo professarsi sanno compiere fino in fondo quella sin­ tesi. Ciò che la vita stessa porta avanti senza direzione pre­ cisa, ciò che per noi continua a valere come persona ben ché ne porti soltanto passivamente il nome, non è persona Può essere individuo, soggetto, coscienza, singolo nella sua parzialità empirica. Ma la persona è totalità: è quella creatura spirituale che deve sempre innanzitutto farsi tale, quale in verità è.

2. Persona e

situazione

Un primo tratto positivo dell’essenza della personalità, in quanto categoria reale dell’essere spirituale, consiste in una

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

costante, spontanea e mai compiuta autocostituzione, o auto­ compimento, per il cui concetto non disponiamo tuttavia di una espressione rigorosamente adeguata. Altre caratteristiche vengono in luce se consideriamo il rapporto tra la per­ sona e il suo ambito di vita. Rispetto all’unità e alla to­ talità personale, penetriamo così ancor piu addentro nel­ la sfera della volontà, dei sentimenti, dell’ethos. La proble­ matica etica riguarda infatti, quasi esclusivamente, la per­ sona in quanto tale. Dobbiamo quasi tutte le nostre co­ noscenze circa la personalità, a quel lavoro filosofico che si svolge sotto il titolo dell’etica. L’ambito della vita personale non è un campo di og­ getti come quello del soggetto, ma un campo di azioni e reazioni. Azioni e reazioni da non intendersi, qui, come è ovvio, in senso meccanico o organico; anzi, non possiamo neppure limitarle agli atti propriamente « attivi » — e in questa misura l’immagine è impropria e non va presa alla lettera —: dobbiamo invece includervi ogni atteggiarsi pura­ mente interiore, ogni modo di intendere, prender posizione, comportarsi in una data situazione di vita. Anche così, il campo dell’azione risulterà molto più ristretto del campo del­ l’oggetto. È un altro settore dell’unico mondo reale, però i suoi limiti non sono più quelli dell’oggettualità, ma quelli dell’attualità viva. Ogni essente che il soggetto colga, può diventare oggetto; ma attuale per la persona sarà soltanto ciò che in qualche modo la riguardi, la commuova, la com­ prometta, la sfidi. La vita personale è un’ininterrotta catena di situazioni nelle quali essa deve orientarsi. Che questo orientarsi consista nel puro e semplice prender posizione, nella coerenza del comportamento e nell’intervento attivo, ha qui un’importanza solo secondaria. In senso lato, anche un atteggiamento, una presa di posizione, sono azioni; e del resto è abbastanza noto come l’atteggiamento che la per­ sona assume in una data situazione ne sia già, di per sé, un fattore costitutivo reale. Tra situazione e persona sussiste infatti un rapporto

XII. - PERSONALITÀ COME CATEGORIA REALE

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particolare che, pur nella molteplicità dei contenuti, resta sostanzialmente invariato. La persona non va a cercarsi la situazione, ma vi « capita »: è vero che può vederla venire ed anche, entro certi limiti, evitarla. Con questo, però, non si sottrae certo al flusso degli eventi: sposta soltanto lo stato delle cose e non può evitare di suscitare nuove situa­ zioni senza saper mai con certezza se siano preferibili a quella di partenza. Resta comunque caratteristico del rap­ porto in esame, che la situazione in cui l’uomo viene effettivamente a trovarsi gli sopravvenga non richiesta, non scelta, come un destino, seppure, non sempre immerita­ tamente. In generale è la situazione ad aggredirlo, ed egli vi si ritrova a cose fatte. Una volta entratovi, però, non può più evitarla. Non può « retrocedere » perché non può fare che ciò che effettiva­ mente è accaduto non sia accaduto; non può scansarla perché la situazione lo circonda: è la sua situazione. Può solo « andare avanti »: deve attraversarla tutta, deve venirne a capo. In altri termini: deve agire in essa. E non gli servirà a nulla mantenersi inattivo; anche l’omissione è un agire e può essere altrettanto decisiva, meritoria o colpevole quanto il più attivo degli interventi. In effetti, l’indecisione non è meno decisiva della de­ cisione più decisa. Così la situazione lo costringe a deci­ dere, né gli lascia, in questo senso, alcuna libertà. Egli deve decidere e decide, di fatto, sempre, qualunque cosa faccia o tralasci di fare. Come però ci si debba decidere, la situazione non dice. Essa ci concede un certo margine per agire in questo o in quel modo, e allora, se non troviamo in noi stessi alcun punto di vista determinante, restiamo disarmati di fronte ad essa. La nostra libertà riguarda dunque il co­ me della decisione, non la nostra volontà di decidere. Per­ ché in ogni caso la situazione ci costringe a farlo. E a farlo liberamente. In questo senso caratteristico, noi siamo proprio costretti alla libertà. Da questo angolo visuale possiamo determinare un tratto

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

centrale dell’essenza della persona. La persona è quella che « viene a trovarsi » in situazioni e in esse deve orientarsi. So­ lo per lei le mutevoli condizioni della vita sono effettivamente situazioni e queste non pongono altri che lei di fronte a una vera decisione. E ancora: è la persona che la situazione sempre di nuovo costringe a liberamente decidere. La persona, dunque, è quella che, per sua necessità, è Ube­ ra ma, insieme, necessitata alla propria libertà.

3. L’esser-coinvolto nel flusso

dell’accadere

Un animale è mosso unicamente da sollecitazioni istin­ tive, la persona, invece, da tutto ciò che accade nel suo ambito proprio. Tutto la riguarda: è interessata, avvinta, impressionata, indotta a prender posizione pro o contro qualunque cosa la sfiori; risponde interiormente a tutto col suo sentimento, con i suoi desideri, nostalgie, avversioni. Un semplice soggetto d’oggetti, sarebbe pensabile anche come qualcosa di puramente contemplativo e disinteressato. Non cosi la persona, e non conosciamo, del resto, un soggetto puro che sia privo di personalità. Per la persona, tutto ciò che è obbiettivo ha anche un peso d’essere che va accettato e del quale bisogna tener conto. E poiché tutto ciò che può diventare oggetto ha un essere sovraoggettuale, la persona si rivela (anche qui, in ben altro senso che il soggetto) come quell’essere « per » il quale il mondo è ciò che è in sé. Di questo stato di cose troviamo conferma via via che penetriamo più addentro nella vera e propria attualità vivente. Non si tratta di un semplice « ne va di », di un inte­ resse o di una partecipazione emotiva. Infatti, la persona par­ tecipa al flusso dell’accadere anche in un altro modo: vi è im­ mersa, ne è trascinata e come gettata qua e là. Non solo le sue decisioni, la sua volontà e le sue iniziative vi rientrano, ma anche quegli aspetti di destino che porta con sé, e tutto il suo vivere e patire. Essa appartiene a questo flusso, lo vede

XII. - PERSONALITÀ COME CATEGORIA REALE

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approssimarsi, ne esperimenta la superiore potenza e deve in qualche modo fare i conti con tutto ciò che esso comporta. In questo essere trascinata e coinvolta, il corso degli eventi la chiama in causa continuamente: non può mai esserne spettatrice, né contemplarlo dal di fuori. Può certo intima­ mente elevarsi al di sopra del flusso, ma solo in quanto sopporta ciò che in esso le tocca di sopportare. Non può evitare di essere chiamata in causa piu di quanto possa evitare di essere coinvolta. A tutta prima potrebbe sembrare che essa sprofondi di nuovo nello status della coscienza non-spirituale. An­ che la bestia, infatti, è coinvolta e vive nella tensione del­ l’impulso, mentre l’obbiettività si conquista a patto di sciogliersi da questa tensione. Ma qui essa sembra pren­ dersi la rivincita e l’obbiettività sparire di nuovo. In­ vece è proprio il contrario. La persona non rinuncia alla sua distanza dalle cose, il suo esser-coinvolta nell’accadere poggia già sul rapporto di obbiettività. Superata è la reat­ tività immediata: ad essa si è sostituita la coscienza d’og­ getto, l’inibizione, la riflessività. Tra i due casi c’è, evidentemente, una profonda dif­ ferenza: l’animale si trova al di qua dell’obbiettività e non solo si muove nella dimensione dell’impulso, ma ne è preda e non ha modo di opporvisi. È prigioniero di po­ tenze interne ed esterne e non è chiamato alla scelta: il suo agire gli è predeterminato dall’istinto e dalla si­ tuazione vitale; non ha libertà, ma solo una reattività im­ mediata. L’essere spirituale sperimenta invece, attraverso la coscienza d’oggetto, l’inibizione; si fa un’idea della situa­ zione e può vedere diverse possibilità. Questa mediazione gli frutta un ambito di libertà, il poter-cosi-o-altrimenti. La situazione esercita una coazione anche sulla persona, ma non è coazione a un comportamento predeterminato, bensì alla decisione. Una decisione che, però, spetta a lei. Ciò introduce nella condizione dell’esser-coinvolto una modificazione radicale. Non si tratta, nel caso della persona, di una dipendenza incondizionata, ma piuttosto di un nuovo

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

richiamo ad agire, a prender posizione, ad assumere un at­ teggiamento rispetto a ciò che le accade. Da questo punto di vista, la persona è quella che mostra elasticità là dove ne va di lei stessa, che è capace di comportarsi con dignità quando si tratta di sopportare e soffrire, che conserva spon­ taneità pur essendo trascinata dalle cose, che nella strapo­ tenza di un destino esterno sa ancora mantenere un’interiore superiorità; che, insomma, modellata e plasmata dalle po­ tenze reali che la trasportano e la sospingono, pure continua sempre a plasmarsi da sé.

4. Gli atti emozionali-trascendenti In tutto questo si cela ancora un presupposto che, pur essendone il contraltare, è presente in ogni attività ed ha la forma di un rapporto passivo-ricettivo. Esso riguarda il modo in cui il mondo reale è dato alla persona. A questo proposito, è certamente caratteristico il rap­ porto conoscitivo, nel quale, appunto, la persona è anche ricettiva. Questo non è certo il rapporto primario, perché è già la sovrastrutturazione di un diverso e più fondamen­ tale rapporto al mondo. A partire dal primo, possiamo tutta­ via illuminare quest’ultimo, tenendo presenti le forme dell’esser-coinvolto e dell’esser-chiamato-in-causa. Abbiamo parlato deU’obbiettazione come di una parti­ colare relazione d’atto rispetto alle cose. Questa relazione, intesa come un atto, è trascendente; diciamo che è un atto trascendente. Con ciò, intendiamo sottolineare che non è un semplice atto di coscienza (come pensare, rappresentarsi, fantasticare) ma un atto che va al di là della coscienza e la collega a qualcosa che esiste indipendentemente da essa. La trascendenza è questo andar oltre. A rigore quindi, non l’oggetto è « trascendente » — non è l’oggetto ad andar oltre i confini del mondo di coscienza (tanto più che già ci si trova! ) — ma l’atto.

XII. - PERSONALITÀ COME CATEGORIA REALE

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Atti di questo genere sono molto più frequenti dell’atto conoscitivo e sono caratteristici dell’essere spirituale che infatti, per sua natura, si volge e si apre verso il mondo in cui si trova. Negli atti di tipo emotivo-ricettivo il mondo reale è dato altrimenti e più profondamente che nella co­ noscenza. La trascendenza però è uguale in tutti. L’uomo non « esperisce » solo come osservatore teorico, ma anche come chi è colpito dagli avvenimenti nei quali è coinvolto: « vive » situazioni, « subisce » il proprio destino, deve « sop­ portarlo » e intanto sente il peso della propria realtà. È proprio nella forma di questo esperire, vivere, subire, sop­ portare, che l’uomo è inserito nel flusso degli eventi. Qui però li « esperisce » altrimenti che nel conoscere: li espe­ risce nella loro inevitabilità, nella durezza della loro realtà, ne è a sua volta commosso, colpito, ostacolato o favorito, oppresso, affaticato o anche innalzato, esaltato. Questo espe­ rire e questo vivere sono pienezza di attività. Quella che chiamiamo esperienza di vita, è sempre esperienza di questo tipo. Esperto è chi molto ha operato, sofferto, superato. La trascendenza di questi atti, la pienezza e l’urgenza di ciò che in essi viene a datità sono, naturalmente, molto maggiori che nel rapporto conoscitivo. Dal quale non di­ pendono e rispetto a cui sono sempre in prevalenza, specie nelle relazioni interpersonali. Esperisco il trattamento, la fiducia, il disprezzo degli uomini, anche senza conoscerli veramente; posso sperimentare al vivo le conseguenze del mio agire, anche senza comprendere che sono tali. L’espe­ rienza emotiva precede l’esperienza conoscitiva; quest’ulti­ ma compare sempre sulla base di quella. Chi « fa » quest’e­ sperienza non è però il soggetto, ma quella persona che è coinvolta nell’accadere reale e in esso si apre la strada. Lo stesso vale per una serie di altri atti, anch’essi emo­ tivo-trascendenti, ma non in egual misura ricettivi. Ogni aspettazione del futuro è di questo tipo, e cosi Tesser pronti o disposti a qualcosa, ogni sperare o bramare, temere o pa­ ventare. L’uomo, non soltanto è nel flusso dell’accadere, ma anche lo vede approssimarsi e comunque affronta sempre l’el-t.

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

veniènza non evitabile, sia che la sappia prevedere o no. Una cosa gli è sempre garantita: che il futuro si avvicina e che gli si farà dinanzi come il suo presente. Nell’aspettazio­ ne,. nella speranza, nel timore, è già chiamato in causa dal proprio futuro, ancor prima di viverlo attualmente. E questa pre-occupazione non è illusoria: di solito lo occupa e lo preme non meno dell’attualità; tanto reale è l’irresistibilità dell’avvenire effettivo! Questi atti trascendenti lo collegano con ciò che sta per accadere: lo inducono all’an­ ticipazione entro il cerchio della sua attualità di vita. Ciò serve a gettare nuova luce anche sugli atti pro­ priamente « attivi », sul volere, lo sforzarsi, l’agire. Anch’essi possiedono un rovescio di ricettività, sebbene passi per lo più inosservato. In primo luogo, infatti, l’uomo sperimenta nel suo agire la resistenza delle cose; non può mutare la le­ galità delle cose, può solo capirla e imparare a servirsene. Ciò che chiamiamo lavoro è un continuo lottare e venir a patti con questa resistenza. Anzi, è proprio quando comin­ ciamo a lavorare a una cosa che ne scopriamo le proprietà. In secondo luogo, l’uomo sperimenta la forza della situa­ zione, che lo costringe alla scelta e all’azione; e questo serve alla sua esperienza e lo fa maturare. Infine, il peso delle azioni che egli compie nei confronti di altre persone ricade su di lui, lo definisce e quasi lo segna. È qui che gli tocca il merito e la colpa. Si sa che è l’altra persona ad essere direttamente colpita dal suo agire, ma proprio questo agire si riflette su di lui, in quanto l’importo etico di ogni sua intrapresa lo riguarda in prima persona. Che tutto questo lo chiami in causa di riflesso è altrettanto ine­ vitabile e da lui indipendente quanto il fatto che qualcosa, nel vivere e nel patire, lo riguardi direttamente; egli esperimenta cosi, senza averle volute o cercate, le interne con­ seguenze del suo agire — anzi, già del solo volere, e della pura intenzione — proprio come, nel corso degli eventi, ne subisce le conseguenze esterne. Anche questo carico mo­ rale, che cosi ricade su di lui, chiede di esser portato.

XII. - PERSONALITÀ COME CATEGORIA REALE

5. Il

183.

connesso degli atti e l'unità della persona

Gli atti trascendenti or ora menzionati, come altri ad essi affini, non si presentano mai isolati, ma costitui­ scono nella vita personale un intreccio inestricabile, un con­ nesso d’atti, in cui ciascuno condiziona e s’appoggia all’aliro. Se le esigenze di una considerazione analitica li tengono separati, è solo per riconoscerne la varietà e coglierne le strut­ ture. In questi atti si esplica il rapporto vitale che allaccia la persona al suo mondo; in questi atti, il mondò le si apre e le è dato in modo primario. Si può anche dire che questi atti sono le intime forme della sua appartenenza al flusso degli eventi, della sua partecipazione, del suo esservi coin­ volta; hanno perciò la drasticità dell’accadere reale e, in que­ sto senso, corrispondono esattamente alla durezza del reale. I momenti ricorrenti dell’esser-chiamato-in-causa e dell’esser-chiamato-in-causa-atìticipatamente-di-riflesso, rispecchiano in ogni sua forma questa durezza. Ne traspare un nuovo fondamentale carattere della personalità: la persona vive in questo intreccio di atti emozionali-trascendenti, siano essi attivi e spontanei o ricettivi; vive, cioè, in un mondo che, in tali atti, le si apre e le è dato primariamente. Essa è chia­ mata in causa e, per ogni verso, premuta e sospinta dal di­ venire universale ma, insieme, è indotta a prendervi l’ini­ ziativa di un proprio sviluppo indipendente e a diventarne un fattore determinante. Il suo destino in tale flusso coin­ cide col crescere della sua esperienza e col suo riscatto dalla passività. La varietà delle relazioni al mondo implicite nel connes­ so degli atti personali è di una ricchezza incalcolabile. In quanto la persona vive abbandonandosi, si disperde in questa varietà, e cioè, non soltanto nel succedersi delle si­ tuazioni e degli stadi di vita, ma altresì in una simultaneità che vede variamente accavallarsi sentire ed esperire, patire e sperare, temere, agire. Contro tale dispersione essa deve

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

continuamente concentrarsi nella propria unità e tota­ lità: si tratta di uno sforzo costante di identificazione-conse-stessa. La persona non si esaurisce nei propri atti, non è uguale alla loro somma; non è l’esperire e il sentire ma l’esperiente e il senziente; non il volere e l’agire ma il volente e l’agente. L’esperire e il volere non sono affatto identici, ma lo sono l’esperiente e il volente. Tuttavia, proprio questa identità non è data in anticipo e va innanzitutto conquistata. Ora, poiché la persona, intesa nella sua totalità, include la molteplicità degli atti nei quali si supera verso il mondo, cosi è proprio in essi e per essi che la totalità della persona si pone in una continua autosintesi. La sua ricchezza è an­ che il pericolo, che la minaccia dall’interno, di dissoluzione ed autodistruzione. La sua conservazione coincide però con la sua stessa lotta contro il pericolo, col suo tenersi salda entro la dispersione. Come sa intimamente resistere alla tentazione di lasciar­ si andare al flusso degli eventi, cosi sa anche opporsi alla distrazione dell’abbandono ai propri atti. È caratteristica della persona la capacità di serrare le fila anche contro il potenziale esplosivo contenuto nella varietà dei suoi propri atti. È solo per questo coincidere con se stessa, che diventa unità — un’unità che, vista dal di fuori, ha quasi l’aria di una sostanza — e si contrappone cosi ad altre persone.

6. Espansività e

sfera della vita personale

Se la persona coincide con se stessa, ciò non significa che si conchiuda in sé. Il soggetto è solo un punto di riferi­ mento, un contro-polo degli oggetti; la coscienza è una sfera in sé chiusa, nessuno spartisce con altri la propria co­ scienza, ciascuno ha la sua, anche se vive in perfetto accordo con altri. Nessuno può penetrarvi per vederla dall’interno. La coscienza divide gli uomini; lo spirito li unisce. Se è vero che la persona è individuale e che non passa da un uomo

XII. - PERSONALITÀ COME CATEGORIA REALE

185

all’altro, tuttavia essa trascende, si espande nella sfera di vi­ ta che divide con altre persone, si circonda, in un certo sen­ so, della loro sfera privata e vive in essa come se fosse la propria. Non solo si identifica con se stessa in una propria interiore totalità, ma si identifica anche con un determinato settore del mondo, al quale, nel flusso degli eventi, si sente fatalmente collegata, o attivamente si lega in base a una propria teleologia. Tutto ciò che accade in questa sfera è come se accadesse a lei stessa, e se ne sente colpita come dal proprio destino. Questo ambito della vita personale, che è anche la sua sfera di influenza — o, se vogliamo, il suo cerchio magico — è un carattere fondamentale della personalità come catego­ ria reale, in quanto sa plasmare la realtà e dar forma al mon­ do al di là della vera e propria attività cosciente della per­ sona, e costituisce il palpabile, sensibile e costante miracolo della sua essenza. La persona non può costruirselo di proposito né liberarsene ad arbitrio: data una persona, è data una sfera personale. È una funzione della sua forma d’essere ontica che sussiste e cade con la sua esistenza nel mondo. In un certo senso, è forse questo l’aspetto più peculiare della personalità in quanto categoria reale. La chia­ ve per la comprensione di questa sfera riservata sta, tut­ tavia, negli atti trascendenti della persona, nei quali essa supera l’interiorità di coscienza e muove le fila di una relazione viva al mondo, tale che, se una parte del mondo le appartiene, essa, a sua volta, fa parte del mondo. Qualora venga strappata a forza da questa parte di mondo — cosa che un destino umano non esclude — vi lascia le sue radici, come nel suolo quelle di una pianta abbattuta; allora deve gettare nuove radici, o morire. Il radicamento comincia già nella più bassa sfera d’essere, con le cose di cui la persona si circonda. Quando diciamo che queste cose le « appartengono », che sono le sue, non alludiamo ancora a un rapporto giuridico di proprietà. Il diritto verrà in seguito, a sanzionare o a garantire un rap­ porto di origine interiore e naturale. Ciò che conta, non è

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PARTE I. - LO SPIRITO PERSONALE

che la persona abbia il diritto di disporre di una cosa, ma che se la sia veramente appropriata, che sia la sua. Pro­ prietà, in senso rigoroso, non è cosa che si possa acquistare o alienare. Una autentica proprietà è inalienabile, perché è qualcosa che solo per la singola persona è ciò che è. Cosi, è di sua proprietà lo strumento con cui lavora, che in una mano estranea, inesperta, incapace di dominarlo, cessa addirittura di essere uno strumento. Lo strumento, « in quan­ to » strumento, non può essere ceduto a piacere ma appartiene alla vita personale, si che bisognerebbe cedere anché quella parte della persona che gli corrisponde. La quale, ovviamente, è invece inscindibile dal suo tutto. Lo stesso vale per tutto ciò che un uomo possiede di ve­ ramente suo: per la casa, il cortile, il campo, gli animali, l’ambiente della sua vita quotidiana. Tutte queste cose ri­ cevono un po’ del suo spirito, come del resto, egli stesso riceve un’impronta da tutte le cose che concorrono a ren­ derlo questa determinata persona. Le sue abitudini, la sua capacità, abilità, ingegno, la sua stessa maniera di vivere, sono determinate da questa sfera di cose proprie, alla quale è legato. Ciascuno porta il segno della sfera per­ sonale propria, come questa porta il suo. I gradi di una tale identificazione progressiva possono essere molto differenti: il contadino sulla sua terra o l’artigiano nella sua officina sono persone in un senso molto più forte di quanto non lo sia l’odierno, semisradicato abitante di una grande metropoli. In ogni caso, però, la sfera propria e l’unità della persona non possono mai essere assenti del tutto. Questo fenomeno diventa ancora più significativo al li­ vello superiore del rapporto personale coi propri simili. È qui che il miracolo della sfera d’influenza appare in tutta la sua forza. Qui infatti, il rapporto diventa reciproco. Le sfere di vita si intersecano, si confondono e producono appar­ tenenze reciproche di ordine superiore. Non che si identi­ fichino: soltanto, si agganciano reciprocamente. Anche persone diverse possono « appartenere » l’una all’altra. L’u­ na è allora qualcosa di determinato (il che le è essenziale)

Γ XII. - PERSONALITÀ COME CATEGORIA REALE

187

solo per una determinata altra o per poche altre persone.

PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

formazione del collettivo contribuisce essenzialmente a plasmare lo stesso spirito vivente, si potrà aggiungere che essa è la formazione che lo spirito obbiettivo sa dare a se stesso relativamente al proprio strato fondante. Questa concezione del diritto e dello stato come autofor­ mazione di uno spirito storico vivente non richiede dunque minimamente l’ipotesi di uno stadio preliminare in cui non vi sarebbero stati né il diritto, né la società. La teoria del bellum omnium contra omnes non è la chiave giusta per capire l’ordine sociale ed è, anzi, altrettanto superflua, quanto improbabile. Altra cosa, sarebbe riferirla, con oppor­ tune modificazioni, ai rapporti reciproci di piccole comuni­ tà etniche, dalla cui concorrenza potrebbero esser sorte istituzioni comunitarie più ampie e storicamente rilevanti: restando indifferente in che misura tale sviluppo sia stato determinato da una dialettica di superiorità e sotto­ missione, ovvero dal pacifico accordo. Ma si tratterebbe appunto, di un’altra cosa, perché i portatori di un simi­ le bellum omnium non sarebbero più singole persone, ma già formazioni collettive.

Capitolo XX VITA E SPIRITO DELLA LINGUA

1. Le

sfere peculiari dello spirito obbiettivo

Da quanto abbiamo detto risulta chiaro che lo spirito obbiettivo non è sufficientemente caratterizzato in base alla forma dell’organizzazione in comunità. La vita statua­ le è, si, uno strato essenziale nella vita dello spirito comune, ma resta pur sempre uno strato elementare. Se lo spirito non è tutto lo stato, neppure lo stato è tutto lo spirito. Lo stato è in primo luogo un collettivo di persone (ma già il di­ ritto non lo è piu) ed è, inoltre, una costruzione geografico-spaziale. È spirito solo nel senso che produce costan­ temente se stesso in una attiva auto-configurazione, sia in sede giuridica che politica. La politica, infatti, non è mai una questione privata, anche se detentore del potere è un singolo, perché anche quel singolo si occupa appunto de­ gli interessi dello stato e di ciascuno. L’essenza dello spirito obbiettivo si può affermare nel­ la sua purezza solo in quelle sfere che gli sono peculiari. Ma non si può fare un elenco o descrivere il quadro rigorosa­ mente completo di queste sfere, perché si suddividono, cia­ scuna, in sfere parziali e non mantengono confini netti né tra di loro, né rispetto ad altri tipi di formazioni comuni. Indicheremo, alla rinfusa, le seguenti: il linguaggio; la produzione e la tecnica; i costumi esistenti; il diritto vigen­ te; i valori piu diffusi; la morale dominante; la forma tradi­ zionale dell’educazione e della cultura; il tipo più comu­ ne di atteggiamento sentimentale e umano; il gusto prevaXJ.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

lente; la tendenza dell’arte e della critica d’arte; lo stato della conoscenza scientifica; la visione del mondo dominan­ te, intesa in ogni sua forma, sia come mito, che come reli­ gione o filosofia. Questi territori non sono soltanto di specie diversa, ma anche di diversa importanza e valore. A seconda dei tem­ pi, inoltre, l’uno o l’altro di essi passa in primo piano, mentre i restanti sono relativamente trascurati — e ciò, natural­ mente, senza considerare la loro intrinseca dipendenza o auto­ nomia. Infine, a seconda dei popoli, determinati campi pos­ sono riscuotere il maggiore interessamento, altri invece re­ stare nell’ombra o deperire. In ogni caso, nessuno di essi può mancare del tutto. Nella nostra analisi del fenomeno fonda­ mentale, possiamo ignorare tutte queste differenze; è es­ senziale, prima di tutto, fissare ciò che vi è di comune nel­ l’eterogeneo. Parimenti, sarà per ora indifferente riferirsi a questo o a quello stadio di sviluppo dei popoli: le modalità della genesi, qui non interessano. Del resto, gli stadi più avanzati non sono meno significativi di quelli originali o pri­ mitivi.

2. Ricevere la lingua,

crescervi e apprenderla

Scegliamo, per esempio, il campo spirituale del lin­ guaggio. Se prescindiamo completamente dal problema dell’origine e dello sviluppo e ci limitiamo letteralmente al dato, e cioè alla maniera d’essere effettiva e per tutti evi­ dente di una lingua viva, troveremo che il rapporto tra la lingua e l’individuo che la parla è estremamente istruttivo. In sostanza, il rapporto è questo: il singolo non si crea una lingua propria, ma la trova già come lingua parlata e la « riprende » da chi la parla, appunto, parlando con lui. Ciò che il bambino che non sa ancora parlare (inians) già pos­ siede, è solo la naturale tendenza o capacità di imparare a parlare e a intendere ciò che si dice. La direzione delle sue

XX. - VITA E SPIRITO DELLA LINGUA

279

disposizioni e del suo istinto è dunque di crescere in una sfera di comune comprensibilità, quale di fatto sussiste tra i vivi. Quanto alla lingua, invece, il bambino la « riceve » dapprima senza intenderla, poi più o meno indovinandola, finché pian piano gli si apre, gli diventa famigliare e riesce a dominarla. Questa ricezione e ripresa dalla lingua è un pro­ cesso variamente graduato di « apprendimento », che presuppone un costante impegno psichico; nello stesso tem­ po è però anche il processo per cui si entra a far parte dello spirito comune preesistente e si « cresce in esso ». Che il bambino, in un primo stadio di sviluppo, si crei in parte un linguaggio suo e vi si trovi a proprio agio non è un’obbiezione. Perché, da un lato non si ferma in quello stadio, dall’altro non riuscirebbe neppure sommariamente ad esprimersi in tale linguaggio se gli adulti non vi « ac­ consentissero » e non gli venissero incontro interpretando­ lo e collaborando a crearlo. L’essenziale è proprio che il bambino supera da solo questi tentativi e li abbandona, adeguandosi alla lingua che sente parlare e riprendendola. Con ciò, egli riprende il patrimonio ereditario della cerchia umana nella quale vive, un patrimonio che ha raggiunto nella lingua parlata una certa stabilità e che gli si offre come già plasmato. Lo riprende ingenuamente, senza sapere di che cosa si tratti e senza la minima possibilità di discussione. Non può saperne più di quanto sia contenuto nei moduli stessi della lingua parlata e non può neppure immaginare, almeno in questo processo di crescita, che possa essere altrimenti, che, insomma, lo stesso contenuto si possa esprimere con altri suoni, che la stessa esperienza o sensa­ zione possa assumere un’altra forma spirituale-categoriale ed essere parimenti compresa ’. Nel nostro esempio, la controprova del nostro ripren1 Questa ingenuità della ripresa linguistica non è soltanto del bambino, ma traspare chiaramente anche nella assolutezza con cui molti popoli agli albori della loro civiltà sentivano lo straniero come « muto » o incapace di articolare (cfr. βάρβαροι, nemcy). È il punto, di vista di un monismo o assolutismo -soggettivo della pro­ pria lingua.

280

PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

dere la lingua e crescervi è che la lingua resta relativa alla cerchia umana che ci è più prossima. Il bambino non ripren­ de la lingua dei suoi antenati o dei contemporanei della sua razza, ma solo quella degli uomini tra i quali cresce. Non eredita una lingua come una predisposizione costituziona­ le e parla la lingua di chi gli parla. Trasferito in tenera età in un paese straniero, farà sua quella lingua e, con es­ sa, la forma e il patrimonio spirituale di quella civiltà. La lingua materna non è necessariamente quella della ma­ dre corporale. La lingua è infatti spirito comune formato e vivente, e lo spirito non si « eredita » per affinità di sangue ma, del tutto indipendentemente da questa, viene « ripreso » dall’individuo che in tale spirito è cresciuto facendo progressiva esperienza della sua intima conforma­ zione.

3. La

legge della tradizione

Si può riprendere solo ciò che può essere tramandato ( traditum ). Il principio, al quale le precedenti considerazio­ ni ci hanno portato, si può dunque formulare anche cosi: lo spirito non si eredita, ma solo si « tramanda ». È una vicenda di tradizione e ripresa in cui lo spirito corre di generazione in generazione, continua a vivere in sempre nuovi individui, sopravvive ad essi in quanto spirito ob­ biettivo. Si può riprendere lo spirito vivente soltanto in quanto si cresce in esso come in una permanente sfe­ ra spirituale: perché solo in tale sfera permanente è possibile un’esperienza viva costante che permetta di farla propria. D’altra parte, solo lo spirito che vive in chi è vivo si offre immediatamente alla viva esperienza. Questo dar­ si ed offrirsi immediato è il suo modo fondamentale di tra­ scendere e di trasmettersi — il (radere nel senso più am­ pio della parola. E la legge della tradizione, nel senso più

XX. - VITA E SPIRITO DELLA LINGUA

281

ampio, è che lo spirito non ha altra via che questa per so­ pravvivere direttamente all’individuo e passare oltre. Ciò implica altresì che la crescita entro la sua sfera sia un continuo apprendere e acquisire. Sulla via che l’individuo deve percorrere per giungere a livello storico nulla gli è dato in regalo: deve fare da solo tutto il lavoro di acquisizione. Se lo spirito si ereditasse come si ereditano proprietà, dispo­ sizioni, facoltà, all’individuo sarebbe risparmiato questo la­ voro. Ma come non si può ereditare una lingua e bisogna ap­ prenderla — non importa se in un « crescervi » ingenuo-in­ fantile o nella consapevole conquista di una lingua stranie­ ra da parte dell’adulto — così sarà anche per ogni altro con­ tenuto spirituale. Ci vuole la spontaneità dell’intelligenza e dell’elaborazione, perché, se lo spirito è per essenza espan­ sivo, unisce gli uomini tra loro e appartiene a tutti quelli che sanno coglierlo, è altresì nella sua essenza di doversi fare ciò che è, e questo, in ogni individuo. Un valore, o un contenuto spirituale, si espande solo nella misura stes­ sa della capacità individuale a corrispondervi. Così il bambi­ no, nel riprendere la lingua degli adulti, compie un lavoro spirituale cospicuo; questo lavoro coincide col suo impegno spontaneo, che è interiore formazione di sé attraverso la ricchezza di forme di tale lingua. Una volta che l’abbia ap­ presa e se ne sia impadronito, anche il suo pensiero scorre­ rà completamente in quelle forme ed egli si sarà allora impa­ dronito del proprio pensiero. Ciò che chiamiamo « padroneg­ giare una lingua » è, piuttosto, un esserne interiormente dominati. Proprio là, dove, senza riflettere siamo indotti a vedere l’inizio della spontaneità linguistica individuale, tale spontaneità sta già venendo meno di fatto. Non che scompaia, ma diventa libera per altri compiti e più elevati, ai quali si rivolge tanto più quanto più è dominata dalla forma linguistica ripresa. Il contrasto osservato con il rapporto di ereditarietà ci suggerisce un confronto con le sfere inferiori dell’essere. Nel regno organico la vita si trasmette costantemente e la riproduzione individuale è affidata all’individuo vivente: la

282

PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

vita aderisce immediatamente alla vita, senza interruzioni, quantunque il singolo portatore di vita perisca. Il segreto di questa trasmissione di vita è l’ereditarietà. Nello strato suc­ cessivo dello psichismo, la situazione cambia. Qui la catena è interrotta e discontinua: la vita psichica si desta in ogni individuo diversa, nuova e non trasmissibile. Ciò è anche troppo evidente nella coscienza: ogni individuo ha la propria, che non deriva, come la sua vita organica, da quella degli individui che lo hanno generato. Che la coscienza divida gli individui non è verificato soltanto nei rapporti tra i singo­ li viventi nella contemporaneità, ma anche tra i singoli che si susseguono nella catena delle generazioni. A livello della coscienza, dunque, la continuità è spezzata. Essa si ricostituisce tuttavia a livello spirituale; non certo con un ritorno all’ereditarietà, ma per altra via, spe­ cificamente spirituale. Questo nuovo continuum ha appunto la forma della tradizione. La sfera spirituale comune si as­ sume la funzione di collegamento; in essa gli individui acquisiscono quei contenuti spiritualmente formati che poi, a loro volta diffonderanno. È dunque in questa sfera, che abbraccia e determina gli individui dai quali è portata, che la tradizione continua a vivere. È in questa sfera che lo spirito obbiettivo si incarna in sempre nuovi individui. In effetti, ciò che accade qui trova una certa analogia nel­ la vita organica: soltanto la funzione, il tipo di questo tra­ mandare è completamente diverso. L’individuo riceve la vita; quanto allo spirito, oltre a riceverlo, deve conquistar­ selo. L’importo spirituale e la sua formazione nel corso del­ le generazioni, passano attraverso la coscienza e la sua spon­ taneità. Ma poiché è proprio la coscienza a dividere gli individui, il modo di quésto trascendere sarà esclusivamente spirituale. Tale modo è appunto quello del riprendere e tra­ mandare e si fonda sulla espansività del contenuto spiritua­ le. La coscienza non può tramandare se stessa, e tanto menò i propri atti, ma può tramandare i propri pensieri, le proprie vedute, opinioni, conoscenze. Obbiettivo è ciò che trascen­ de. E la sua vitalità negli individui è la vita dello spirito obbiettivo.

XX. - VITA E SPIRITO DELLA LINGUA

283

La vita organica si eredita, la coscienza sguscia fuori nuova; enigmatiche l’una e l’altra. Invece la continuità del­ la vita spirituale si dispiega apertamente davanti ai nostri oc­ chi, senza i segreti e i limiti deH’incomprensibilità. Conside­ rata come un puro fenomeno, la vita sovraindividuale del­ lo spirito obbiettivo — che tanti pregiudizi impediscono ancora di riconoscere per quello che è — non è affatto enig­ matica. È un semplice e fondamentale dato di fatto della vita umana; e chi come tale la intenda, è in grado di capire, attraverso di essa, molte altre cose ancora.

4. L’importo spirituale della lingua Se la lingua non fosse altro che la convenzione este­ riore del comunicare, la ripresa e la trasmissione di un lessi­ co testimonierebbero soltanto la capacità comunicativa dell’individuo e la possibilità di una relazione spirituale in generale. Il che non sarebbe già poco, ma non influenzereb­ be minimamente chi impara la lingua nell’intima formazio­ ne delle sue opinioni e riflessioni, nella sua sensibilità e nella sua intelligenza. Naturalmente, non è cosi. Il linguaggio non può fare a meno di plasmare dall’interno la varietà dei contenuti che enuncia. Il vocabolo, la costruzione della proposizione, la locuzione, il modo di dire e la stessa cadenza che li accom­ pagna possiedono tutti una peculiare capacità di plasma­ re i contenuti, sottolineano certe sfumature, altre ne mettono in ombra, hanno insomma un effetto selettivo che non opera soltanto nella comunicazione ma, da questa, si riflette sulla concezione stessa. Visti dall’interno i vocaboli, cosi plasmati, non sono altro che i concetti e, in quanto tali, ritagliano altrettante porzioni nel continuo pluridi­ mensionale della realtà effettuale vissuta. Delimitano, sud­ dividono, ordinano, sceverano e connettono il concepito che solo cosi sovraformato viene elevato alla coscienza. Si può

284

PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

dire allora che il lessico, con tutta la sua varietà di forme è, per chi lo possiede, un insieme di generalità preformate — con caratteristiche di fondo predisposte e già selezionate — nelle quali si precipita via via il materiale dell’esperienza interna ed esterna. L’obbiettività dello spirito individuale, la sua distanza dalla cosa e la posizione eccentrica che dà a se stesso nel mondo concepito, rendono possibile que­ sta crescente acquisizione di esperienza. La lingua si sviluppa sulla base di tale obbiettività; una base che essa stessa con­ tribuisce ad allargare. Le parole e le locuzioni si rivelano cosi come i veicoli di atti spirituali formativi di contenuti e, quindi, come una massa sterminata di categorie della com­ prensione, del pensiero, dell’intelligenza stessa. Ma non basta. Esse assumono esattamente la stessa funzione nei vari e continuamente mutevoli modi di reagi­ re della vita pratica: nel modo di sentire relazioni, situazioni, esigenze umane; nelle scelte e nelle valutazioni che queste richiedono. Giacché, non solo le caratteristiche strutturali dell’esperienza possibile, ma anche le sue componenti di valore, positive o negative, subiscono nell’espressione lingui­ stica una formazione, selezione, enfasi o censura preventiva che permette loro di emergere alla coscienza o le ricaccia nell’inconscio. Ma secondo i valori preferenziali che l’espres­ sione linguistica obbiettivizza e rende comunicabili, lo stesso sentimento dei valori e, con esso, l’atteggiamento e la scelta — indirettamente, l’impostazione complessiva dell’uomo — riceveranno un orientamento corrispondente. La lingua viva è quindi strettissimamente connessa con una serie di altre sfere spirituali — indirettamente, con tutte. Nasce e muore insieme con le loro forme e muta con esse. Chi riprende un patrimonio lessicale riprende, insieme, molto di più; perché nel lessico e nel discorso lo spirito vi­ vente dà forma a tutta la sua esistenza. Tale opera formatri­ ce è, in molti campi — particolarmente nel sapere, nella morale, nella valutazione — cosi adeguata, che perfino una lingua morta può restituirci l’importo spirituale di un’epoca passata. Ecco dunque perché la scienza della lingua è, in

XX.

- VITA E SPIRITO DELLA LINGUA

285

senso eminente, una scienza dello spirito. Infatti, lo spiri­ to obbiettivo, cui la lingua appartiene e nella quale parla, è uno solo in tutta la possibile varietà dei suoi campi; e in qualunque forma si esprima, in quella possiamo sempre cogliere tutto lo spirito.

5. Ruolo

attivo dell’individuo nella vita della lin­

gua

Che anche al singolo spetti in sede linguistica una fun­ zione creativa, è perfettamente compatibile con ciò che precede; va detto, anzi, che il singolo svolge una tale fun­ zione, anche senza volerlo o saperlo, ogni volta che riesce ad esprimere qualcosa di nuovo. La vita della lingua non è una seconda vita, piu generale, accanto o sopra quella di chi la parla. Essa non si riduce alla tendenza espressiva del singolo, ma dipende dal fatto che la tendenza espressiva degli individui ha a che fare con vissuti sempre nuovi. La lingua viva non sta ferma, ma muta continuamente. Dal punto di vista del singolo, il mutamento procede len­ tamente, per ampi periodi storici; il singolo, però, vi si trova sempre immerso attivamente e creativamente coi suoi privati tentativi espressivi, ed è quindi un momento integrante della vita della lingua. Comunemente, lo è in mi­ sura minima; ma la sua posizione non è diversa da quella dei maggiori creatori di linguaggio, i maestri della parola, oratori, scrittori, poeti, la cui creatività è molto più in­ tensa. Tutto ciò non cambia il rapporto di base, perché prima di poter essere creativo, il singolo deve pur sempre ripren­ dere, far propria e dominare quella data lingua nella quale è cresciuto e che più tardi potrà modellare attivamente. D’al­ tra parte non bisogna dimenticare che ogni dominio ha qui piuttosto il carattere di un lasciarsi dominare, affidandosi allo spirito della lingua, consentendovi interiormente. Per­ ché anche questo è caratteristico, e cioè che la capacità di

286

PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

emergenza dell’individuo cresce tanto più, quanto più egli si lascia dominare. Là dove lo spirito obbiettivo raggiunge la massima autorità sul singolo, raggiunge anche la massima mobilità e allora i tentativi e le scoperte dei singoli non sono altro che il suo stesso cercare e trovare. La creazione del singolo — quando ha forza bastante a mettersi in lu­ ce — soggiace alla legge dell’obbiettività e diventa tramandabile. Non appena prodotta e compresa, cessa di apparte­ nere al suo autore, per diventare di chiunque la « intenda ». Chi capisce si associa. Ciò che cosi è stato espresso è bene comune dello spirito vivente; e da allora segue storicamente le sorti dell’intiero patrimonio lessicale. Resta incorporato nello spirito obbiettivo col quale viene via via ripreso. Cosi nell’esempio della lingua, possiamo trovare in nuce tutti quanti i momenti fondamentali della vita ob­ biettiva dello spirito. In primo luogo, la caratteristi­ ca relazione reciproca del portare ed esser portato, che esiste tra spirito individuale e spirito obbiettivo. Gli individui sono i portatori, vivi ma variabili, dello spirito comune; il loro contributo creativo lo mette in movi­ mento, lo fa avanzare; ma questo movimento, in quanto unitario e progressivo, è solo dello spirito, non degli individui. Allo stesso modo, lo spirito obbiettivo è a sua volta elemento portante della spontaneità e della capaci­ tà creativa individuale. Perché in ogni vita umana è a lui che spetta la prima formazione dell’individuo, in quanto lo lascia partecipare e concrescere al proprio livello; una volta raggiunto tale livello, l’individuo comincia a gode­ re di una certa libertà di iniziativa e di scelta spiritua­ le. L’ambito di questa libertà permetterebbe una varietà ed un’originalità sconfinate, ma ciò che il singolo aggiun­ ge di proprio a questa lingua — che gli è pervenuta e « che per lui detta e pensa » — è sempre trascurabile rispetto a ciò che ne riprende. Anche e perfino nei rari casi di grande creatività individuale, nessuna opera individuale è lontana­ mente paragonabile alla ricchezza di un patrimonio lingui­ stico tradizionale accumulatosi nel corso dei secoli. Nessuno può fare a meno di questa « massa spirituale » o di sostituir­

r

XX. - VITA E SPIRITO DELLA LINGUA

287

la con un’altra di propria creazione. Ce ne rendiamo conto a fatica, perché nella nostra attività costruttiva, portiamo al­ la coscienza soltanto il nuovo che, perciò, ci appare spro­ porzionatamente ingrandito. A questo proposito, la coscienza linguistica potreb­ be ben essere considerata un’insostituibile misura di valori. Perché il singolo non sa mai abbastanza quanto egli sia do­ minato dalla lingua che porta il suo pensiero; anzi, di so­ lito, non sa neppure quando e in che misura gli accada di es­ sere effettivamente creativo. Se la vera originalità non è vo­ luta, non è per lo più neppure consaputa; tant’è vero che la bocca popolare ignora tranquillamente i veri autori dei suoi detti. Nel complesso però, la capacità portante dello spirito individuale è altrettanto poco commisurabile a quella dello spirito obbiettivo, nel campo linguistico, quanto in ogni altro campo spirituale che permetta iniziativa coscien­ te.

Capitolo XXI

CONOSCENZA E SCIENZA

1. LO « STATO DELLA SCIENZA» E L’INDIVIDUO CHE IM­ PARA

Ciò che abbiamo detto a proposito del linguaggio si può ripetere mutatis mutanàìs, per tutti i campi dello spirito. Ab­ biamo dovunque lo stesso rapporto tra spiri.to comune ed individuo. Lo spirito comune porta ed è portato. La sua capacità portante è dovunque la più forte, e l’individuo può compensarla soltanto se integrato in una collettività. So­ prattutto, Io spirito comune esiste sempre come qualcosa di già determinato e formato, mentre l’individuo può crescervi solo accettandolo ed adeguandovisi. Tutto ciò è ben noto in sede conoscitiva, scientifica, educativa. Nessuno comincia a conoscere da solo e dal prin­ cipio. Abbiamo a nostra disposizione un lavoro accumulato per secoli; innumerevoli cervelli hanno partecipato all’opera complessiva e il risultato di quest’opera, raccoltosi in un’uni­ tà obbiettiva, costituisce di volta in volta lo « stato della scienza », un patrimonio comune che si tramanda. Tale stato della scienza — sia esso di una singola scienza o di tutte — riproduce fedelmente i tratti dello spirito obbiettivo. Non si riduce all’intelligenza di un singolo, non può raccogliersi tutto insieme nella coscienza di nessuno scienziato, ma re­ sta tuttavia un multiforme contesto unitario, in cui ogni parte si riferisce alle altre, si che un suo mutamento interes­ sa sempre il tutto; il quale è consaputo da ciascuno come un tutto unitario, benché nessuno riesca ad abbracciarne

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l’intiera estensione. Dal punto di vista della storicità tale « stato », nella sua immobile permanenza, non esiste ed è soltanto la sezione trasversale di un processo globale, uno stadio del lento avanzare storico. Un avanzare che, a sua volta, si identifica con il lavoro progressivo della conoscen­ za, con la vita scientifica stessa. Tale vita, in quanto non si raccoglie in una singola coscienza, né può esaurirsi nella durata di una vita umana ma, portata dal lavoro conoscitivo di molti singoli, procede al di là di ciascuno, è l’autentica vita dello spirito obbiettivo. Nello stato di una scienza ogni lato è condizionato non solo dagli altri ma, in quanto è anche uno stadio del pro­ cesso, anche da tutta la serie delle precedenti acquisizioni conoscitive, dal grado della loro certezza, dall’ampiezza del­ l’esperienza fino allora compiuta. Qui non sarà il parere del singolo a decidere della validità o non validità di questo o quel particolare, ma la sua stessa conferma nella tesa unità del tutto e del suo interno progredire. Non è pensa­ bile che un singolo possa percorrere a suo piacimento l’e­ sperienza di intiere generazioni, rifare la serie delle sco­ perte già fatte, trarre da solo tutte le conclusioni e sotto­ porle a tutte le prove. L’autodidatta che, ignorando lo stato della scienza, vi contrappone liberamente immaginazioni proprie, viene a trovarsi in una posizione ridicola. In ve­ rità, non riesce ad andare oltre i primi passi, ed ogni sua conclusione resta necessariamente arretrata. Di fatto, il singolo comincia ad approssimarsi a quello che di volta in volta è lo stato del sapere, sempre e solo come apprendista. E tale deve restare a lungo, se proprio ci tiene ad elevarsi al livello effettivamente raggiunto dalla scienza. Per raggiungere il piano dello spirito scientifico obbiettivo, dove si pongono i problemi e comincia il vero lavoro della ricerca, è anzi necessario impegnarsi con tutte le forze negli anni più favorevoli della propria formazione È solo cosi che il singolo acquisterà infine, nel proprio campo scientifico, una capacità di giudizio autonomo. Il processo di crescita all’interno di questo campo im­

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plica, più evidentemente che in altri, una riassunzione ed una partecipazione attiva, perché si compie nella piena luce della coscienza, con fatica e sforzo coscienti. Qui, a dif­ ferenza che nell’apprendimento della lingua, la semi-consa­ pevole imitazione e rintima assimilazione non sono ancora una ripresa: infatti, non si tratta più soltanto di afferrare e appropriarsi, ma di capire. D’altra parte, il capire ri­ chiede un superiore impegno, perché nulla gli vien dato gra­ tuitamente e deve aprirsi la strada dal basso e per gradi; lo stato della scienza è come un sistema in cui tutti questi gradi del capire sono contenuti, e chi impara deve salirli uno per uno. Non può saltarne qualcuno, né invertirne l’ordine, né illudersi di salire accettandoli passivamente. Il capire segue un ordine obbiettivo che ha la sua legge nella via obbligata d’accesso ad ogni singola sfera ogget­ tuale. È un ordine che non coincide con questo o quel metodo d’insegnamento o d’apprendimento, ma è, anzi, il presupposto di ogni metodo; il quale a sua volta non è una semplice guida sulla base di una traccia già data obbiettiva­ mente. Solo dopo aver raggiunto un certo dominio dello stato obbiettivo dei problemi, il singolo può entrare nello stadio vero e proprio della ricerca e della scoperta. Per la verità, neppure allora cesserà d’imparare, ma lo farà in un altro modo. Le vie non sono più tracciate e, con l’occhio al problema, egli deve cercarsi la propria. Con ciò è, e rimane, condizionato dallo stato della scienza, vi poggia sopra, ne è totalmente dominato. Anche qui, tuttavia, il massimo dominio raggiunto consiste, più che altro, nel lasciarsi do­ minare. D’altra parte, lo stato obbiettivo della scienza ha proprio la caratteristica di spingere oltre e al di là di se stes­ so, e quindi il suo dominio sull’individuo non consiste nell’indurlo a fermarsi ma diventa, in lui, impulso personale a progredire.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

2. L’educazione scientifica e il diventar uomo

L’apparato, estremamente articolato, della ricerca teo­ rica, dell’insegnamento e dell’istruzione, cioè gran parte di quella che chiamiamo cultura, si preoccupa di educare i singoli nel senso di crescerli al livello attuale del sapere. L’alto valore di questo tipo di formazione, l’ampiezza delle pubbliche istituzioni che vi si dedicano, la massa enorme di lavoro che il singolo deve esplicare per divenire partecipe di tale formazione, sarebbero incomprensibili se qui tutto si riducesse all’apprendimento di nozioni. Neppure il pra­ tico valore d’uso di determinate nozioni potrebbe giustifica­ re una tale profusione di sforzi — senza insistere sul fatto che, di tali nozioni, ben poche sono pratiche in questo senso della parola, e quelle che lo sono davvero, sarebbero acqui­ sibili in un tempo molto minore. Ma, appunto, non si trat­ ta di pure e semplici nozioni. Si tratta invece, né più né meno che della formazione del singolo uomo in quanto uomo. Perché è appunto l’uomo che deve partecipare allo spirito del tempo, crescere dentro il vivente spirito obbiettivo ed educarsi fino a raggiungerne il livello attuale. Uomo, nel senso pieno della sua epoca storica, il sin­ golo diventa solo quando può vivere coscientemente nella comune atmosfera spirituale, quando con la propria intel­ ligenza si fa partecipe di ciò che i migliori elaborano nei vari campi del sapere — in una parola, quando vede il mondo, di volta in volta, cosi come lo vede la sua epoca. Bisogna ricordare qui quanto già detto (cap. X 3 e 4) circa lo spirito individuale e l’essenza di quella sua funzionebase che è la conoscenza: e cioè che il suo conoscere è l’esser-per-lui del mondo, ossia — almeno tendenzialmente — del mondo quale è in sé. Questo esser-per-lui è la parte che l’uomo vi ha, il suo diritto sul mondo. Come creatura spirituale, l’individuo pretende di partecipare al mondo in questo modo, che gli è peculiare, ma non può farlo come singolo e deve dipendere dall’ampio lavoro comune, non

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solo dei contemporanei ma delle precedenti generazioni. Il processo della conoscenza è comune, sovraindividuale, sto­ rico, e i suoi movimenti hanno l’ampia cadenza del divenire storico. Lo stato del sapere riassume, in ogni epoca, il la­ voro conoscitivo di una serie di epoche. Perciò il singolo non può far si che il mondo sia-per-lui, nel senso e nella misura raggiunta dal suo tempo, se non imparando. Il singolo diventa un uomo imparando, partecipando, sviluppando le proprie capacità di elaborazione intellettuale. E diventa uomo, nel senso dell’umanità di cui è portatore e rappresentante, solo crescendo a sua volta fino al livello di quello spirito obbiettivo nel quale è nato. Questa non è una via traversa o impropria, ma la via breve dell’intel­ ligenza: l’unica che lo spirito personale, nei brevi termini della sua esistenza, sia in grado di percorrere fino in fondo.

3. La parte riservata all’individuo nel movimento DEL SAPERE

L’altro aspetto, corrispondente e complementare a que­ sto, riguarda la parte che è riservata al singolo ricercatore, allo scopritore, al pensatore. Nessuno svolge un lavoro scien­ tifico, per poi portarne con sé nella tomba i risultati, validi o non validi che siano. Ciò che il singolo ha trovato appar­ tiene immediatamente, non appena trovato e reso noto, a chiunque lo capisca. Va oltre, si ripercuote nel sapere dei contemporanei, si espone alla critica e ai controlli, viene rettificato, riformato e diventa, cosi, un possesso spirituale comune. Ha fatto la sua parte per migliorare lo stato della scienza, ed ora continua a vivere della vita di questa, a muoversi nel suo movimento. È un movimento che ha la forma generale di un prendere e di un dare; il singolo però, in quanto è creatore e scopritore originale, non si limita a trasmettere ciò che riceve ma restituisce più di quanto ha avuto. Egli riprende il problema nello stadio più recente 21.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

del suo sviluppo, vi inserisce la propria soluzione parziale e, cosi modificato, lo restituisce. Naturalmente, anche questa diffusione ha il suo ritmo proprio, che spesso è molto lento; molte nozioni entrano a far parte della cultura generale solo dopo generazioni, altre, troppo esoteriche, non vi giungono mai e restano riservate agli specialisti. Ulteriori limiti a tale diffusione sono im­ pliciti nella struttura stessa del comune mondo spirituale e sono i limiti di ogni ambiente linguistico e culturale. Ma non sono barriere di principio: ed hanno la stessa casualità storica di un determinato spirito obbiettivo rispetto ad altri consimili e stranieri, nei quali non può espandersi a suo piacimento. Per quanto riguarda il ritardo che colpisce que­ sta penetrazione, si tratta, anche qui, di un fattore di ini­ bizione, di resistenza — un fattore antitetico, come ve ne sono in tutti i campi. In sé tuttavia, il senso di un bene spirituale non è quel­ lo di dividere i singoli, come può fare un bene materiale, ma di legarli. È infatti, per natura, espansivo ed ha la ten­ denza innata a valere per tutti, a diventare cioè spirito ob­ biettivo. Solo cosi è possibile spiegarsi l’ovvietà per cui uno spirito del tempo in vivace sviluppo accoglie e fa proprie le vedute dei singoli: esso se ne nutre segretamente e costi­ tuisce anzi, in ogni momento, il loro insieme e il loro concreto contesto. A questa funzione attivante che è dell’individuo, fa da contrappeso il fatto che ogni ricercatore e scopritore deve aver cominciato coll’imparare. Deve essersi portato all’al­ tezza dell’effettivo stato dei problemi, per poter contribuire a farli avanzare. E il suo stesso ricercare e scoprire presup­ pone costantemente come punto di partenza lo stato effet­ tivo dei problemi. Non può partire, a piacere, da un altro qualsiasi stadio dello sviluppo scientifico, perché è proprio la situazione scientifica complessiva nella quale è cresciuto a proporgli quei compiti che egli concepisce come i propri. Essa lo tiene legato a sé e resta determinante nel suo pen­ siero anche se già superata su singoli punti. Il passo avanti che l’individuo compie, per quanto possa sembrare grande

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ai contemporanei, resta pur sempre un passo, in una marcia che andrebbe valutata nel suo complesso. Un piccolo passo, se paragonato alla massa del lavoro preliminare che l’ha reso possibile. Cosi, anche nella più originale delle sue ricerche, il singolo è portato dallo spirito obbiettivo nel quale sta im­ merso e dal quale, più che da se stesso, trae l’opera propria. Un’opera che vi ritorna con tutti i suoi effetti, perché se è l’opera del singolo nella scienza, è sempre anche l’operare della scienza in lui.

Capitolo XXII MORALE VALIDA E MORALITÀ INDIVIDUALE

1. Peculiarità

della ripresa in sede etica

Non altrettanto chiara è la situazione nel campo della pratica condotta di vita, della morale e dell’educazione inte­ sa, quest’ultima, nel senso limitato di indirizzo pratico­ morale da dare ai giovani. Qui le cose si complicano no­ tevolmente, perché interviene il momento della valutazione e della coscienza di valore. Non si può negare che l’influen­ za dello spirito del tempo sul singolo sia particolarmente forte proprio in questo campo: fin da bambino, ciascuno vede come agiscono gli altri, ne osserva le conseguenze, ode i giudizi altrui e vi adegua inavvertitamente il proprio sentimento dei valori. Cosi si cresce nella morale dominante dei propri tempi non altrimenti che nella lingua e nel sapere e cosi si viene intimamente plasmati da essa. Tuttavia, è proprio in questa sfera che tradizione e ripresa consapevole trovano i loro limiti, specialmente là dove assumono la forma di un ammaestramento. Nulla è più noto della vanità di ogni dottrina, consiglio o ammonimento morale. Chi sta facendosi uomo inclina a respingerli e vi sente facilmente un importuno o banale moraleggiare. Neppure la saggezza di una autentica e provata esperienza, quantunque indiscutibile, può trovare facile ac­ cesso presso la volontà altrui. Nessuno impara per esperien­ za altrui — non perché questa non s’attagli anche alla sua vita, ma perché non è la sua. Ciò vale per l’esperienza umana

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PARTE Π. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

e le relazioni con gli altri, come per la conoscenza di sé e il comportamento verso se stessi. La via dell’esperienza pro­ pria è insostituibile. Si impara pagando di persona. Ma questo, cosa vuol dire? Forse che qui lo spirito di­ venta impotente, o che l’individuo se ne sente abbandonato? Proprio qui, dove ne va dei legami e dei valori più vivi e attuali, della responsabilità personale e di gruppo, sussi­ stono anche i vincoli più robusti e le più salde strutture formali dello spirito comune — come quelle relative al­ l’ambiente, alla classe, alle caratteristiche etniche ed alla contemporaneità. È proprio su questo terreno che tali strut­ ture si impongono al singolo con maggior forza. Qualunque cosa egli faccia o non faccia, si espone al giudizio, sollecita il riconoscimento o provoca il rifiuto. E nessuna cosa gli sembra più importante e decisiva, per la sua vita e il suo destino. Il fallimento della « dottrina » non può dunque signi­ ficare che il singolo sia abbandonato dallo spirito obbietti­ vo, quasi ne fosse estromesso. Non si dà neppure il caso che l’ethos privato dell’uomo sia costretto a far da sé o a cominciare da capo: la base della tradizione è comunque data ed egli deve crescere in essa per poterla sovrastare. La differenza riguarda, qui, soltanto il modo di questa cre­ scita; che è diverso perché diversa è la forma della tradi­ zione e della ripresa. La quale infatti non può essere una sorta di imitazione interiore, come nel caso del linguaggio, perché l’ethos esige decisione ed impegno personale; né può ridursi al semplice ammaestramento, perché qui non basta convincere l’intelligenza ma bisogna convincere anche il sen­ so morale. Anzi, bisogna prima di tutto risvegliarlo. E nel far questo non si può pregiudicare né trascurare il modo di sentire individuale. Convincersi di un valore o di una neces­ sità morale è radicalmente diverso che convincersi di una conclusione teorica o scientifica.

XXII. - MORALE VALIDA E MORALITÀ INDIVIDUALE

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2. La via dell’esperienza etica Quanto si è detto ha la sua ragione obbiettiva nell’es­ senza stessa della validità morale, la quale infatti ha il carattere di un’esigenza, di un « dovere » che si pone al­ l’uomo. Impartire a chi sta facendosi uomo un insegnamen­ to morale, significa pretendere che egli riconosca ed approvi quell’esigenza e, quindi, vi si sottometta. Ma nessuno può riconoscere un’esigenza, se non facendola propria. E non può farla propria se non ne sente, sia pure oscuramente, il valore. Come è ovvio, nulla vieta di aderire semplicemente a un’autorità. Mentre è incontestabile che l’educazione all’e­ ticità comincia proprio con l’autorità di un volere estraneo, e che la varietà dei comportamenti possibili appare all’uomo moralmente immaturo sotto forma di alternativa tra obbe­ dienza e disobbedienza. Ma l’immaturità trapassa in matu­ razione, e si tratta appunto di vedere che cosa, in questo processo, prenderà il posto della vacillante autorità esterna. Il puro adeguarsi non è un comportamento morale come, del resto, non lo è l’opposizione pura e semplice. Nella cieca disciplina non si raggiunge eticamente la maggiore età: l’educazione etica non può fermarsi all’autorità, anche se è da lì che comincia. Una volta nella vita, presto o tardi non importa, viene per tutti il momento di mettere in di­ scussione, dentro di sé, i principi già ciecamente accettati. E solo allora, nell’intima convinzione scaturita da tale esame, l’ethos assumerà la sua forma autentica. La conoscenza dei valori non si acquista, o non si ac­ quista soltanto, per mezzo di ammaestramenti teorici. La vera chiave, al proposito, è la vita stessa. La situazione vissuta ed esperita in tutta la sua serietà, risveglia il sen­ timento del valore. E non è da credere che, nel vivere umano, sia sempre l’evidenza e la realizzazione del valore a svegliar­ ne la coscienza; molto piu spesso proprio l’esperienza viva dell’abbiezione può insegnare in extremis un valore, rive­ larne la validità oggettiva, promuoverne l’esigenza. A chi ha patito ingiustizia, o si è sentito solidale con l’oppresso,

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PAKTE Π. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

il valore della giustizia si rivela da sé; chi è stato ingannato sa apprezzare il valore della sincerità; e solo chi ha sofferto per la sfiducia altrui, può tenere nel dovuto conto la fiducia in lui riposta. In questo senso, sulla via dell’esperienza etica personale si desta e matura passo passo la coscienza di valore. Nella vita di un uomo, a ogni diversa intuizione del valore corrisponde un tempo proprio, uno specifico stadio di maturità, perché le condizioni pratiche di essa risiedono nell’attualità vissuta dell’esperienza. Tali condizioni non si verificano tutte insieme e l’uomo diventa ricettivo per valori diversi nei diversi stadi di sviluppo della sua vita. L’ammaestramento può ben anticipare tale processo di ma­ turazione, ma non per questo la coscienza di valore si svi­ lupperà in anticipo. Quando poi l’uomo avrà fatto la sua esperienza e, maturato nell’intimo, sarà ormai in grado di « cogliere » il valore, ogni dottrina sarà superflua e superata.

3. Lo SPIRITO OBBIETTIVO COME MAESTRO D’ETICA

Da quanto abbiamo detto, dobbiamo forse concludere che non esiste qui tradizione e ripresa; che il singolo non cresce dentro l’ambito di valori di una morale vigente, si da esserne intimamente plasmato? L’ethos non si tramanda? Il vivente spirito obbiettivo non interviene anche qui nel divenire individuale? Sarebbe una conclusione errata: le vie per le quali lo spirito obbiettivo raggiunge e trae a sé l’individuo sono molteplici. In quanto morale vigente, esso non si riduce a un complesso di norme ma è, prima di tutto, una modula­ zione del sentimento morale immanente nella vita degli uomini. E dato che le situazioni nelle quali viene a trovarsi il singolo sono sempre già determinate dal sentimento mo­ rale di tutti gli interessati (dai loro taciti presupposti e aspettative, dalle loro naturali esigenze e ragioni valutative) è lecito concludere che lo spirito obbiettivo della morale esistente contribuisce a configurare le situazioni di vita dei

XXII. - MORALE VALIDA E MORALITÀ INDIVIDUALE

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singoli e per mezzo di queste, col crescere dell’esperienza morale, determina altresì il risveglio della coscienza di valore. È proprio lo spirito obbiettivo, dunque, a preparare il ter­ reno dell’esperienza morale. In una comunità umana, non si danno situazioni che non riguardino, innanzitutto, i portatori dell’ethos vivente. In ogni situazione di vita, il giovane si trova davanti per­ sone, i cui sentimenti sono determinati da tale ethos. È quindi sempre lo stesso spirito, quello che egli scopre nel sentimento morale, e quindi, nel riconoscimento o nel ri­ fiuto altrui. Perché di ogni situazione da lui vissuta e sen­ tita, ciò che gli balza incontro, vivo e concreto, è questo riconoscimento o questo rifiuto. Comunque agisca o si com­ porti nei riguardi degli altri, sperimenta in modo infalli­ bile la validità o non-validità del proprio comportamento, non certo, o non soltanto, nel giudizio che essi ne danno (il quale potrebbe anche essere unilaterale o ingiusto) ma, in modo molto più diretto e convincente, da come lo accol­ gono: se lo gradiscono o ne sono feriti. La loro reazione, infatti, è qualcosa di reale e, perché involontaria, di genui­ no; esperibile a sua volta come il contraccolpo del nostro stesso comportamento, ma con la stessa evidenza di ogni no­ stra esperienza di un valore o disvalore nel comportamento altrui. Quella stessa sfera reale che determina l’esperienza etica e sveglia, forma ed amplia a poco a poco la sensibilità mo­ rale di ciascuno di noi, costituisce quindi anche il vivente ethos comune. Essa coincide con quello spirito obbiettivo vivente che, in quanto spirito morale comune, orienta la coscienza di valore del singolo — e, mediatamente, tutto il suo atteggiamento morale — verso determinati valori; che sospinge la sua sensibilità per il dover-essere in generale, verso determinate esigenze morali tra le molte possibili e, in tale direzione, lo lascia progredire. Questo processo, però, si identifica col crescere dell’individuo dentro lo spirito ob­ biettivo dell’epoca. Ed è un crescere al livello della morale vigente. La differenza, rispetto alle sfere dello spirito, si riduce

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

dunque alla via seguita in questa crescita. È una via che, nonostante cominci dal rapporto di autorità, non passa per l’insegnamento che un uomo può fornire a un altro uomo; e, da questo punto di vista, l’antico principio dell’« insegnabilità della virtù » resta ambiguo. Questa via non passa neppure per l’imitazione, nonostante l’importanza assunta qui dal rapporto esempio-emulazione, perché anche questo rapporto soggiace alla legge della maturità di valutazione: l’emulazione non è necessariamente imitazione, né l’esempio può convincere se non è sentito come un valore o rivelato in base a dei valori. Bisognerà dire, piuttosto, che la via di questa crescita è determinata in modo decisivo soltanto dalle continue sollecitazioni cui le situazioni di vita, in­ fluenzate già esse dallo spirito della morale vigente, sotto­ pongono la sensibilità morale. Vero ed effettivo maestro d’etica risulta essere, cosi, lo stesso vivente spirito obbiettivo, quale il giovane scopre ogni giorno concretamente in uomini e cose. È questa la potenza decisiva che dall’interno dà forma alla scelta, alla coscienza, all’atteggiamento morale di fondo. L’educatore umano può solo inserirsi in questo processo di formazione e farsene consapevolmente strumento. Può utilizzare i con­ flitti che si generano da sé nell’uomo in formazione, può addolcirli, semplificarli o, se lo stadio di maturazione dato lo permette, lasciarli sublimare in questioni di principio. Egli può dunque partecipare alla vita effettiva del diveniente e solo come co-vivente contribuire a dar forma alle sue situazioni di vita — perché tutte le istanze morali impo­ ste dalla convivenza già contribuiscono in modo eminente a tale opera di formazione '. Non può però risparmiargli 1 Questo, evidentemente, è un problema di tatto pedagogico in un ambito, oltre tutto, assai limitato. Sussiste sempre il pericolo di diventare artificiosi a causa del proprio « atteggiamento pedagogico ». Il giovane ha l’orecchio finissimo, su questo punto: percepisce anche la più leggera inautenticità della situazione creatasi, nota subito il se­ condo fine pedagogico, sente che ci si fa gioco di lui, che la situazione non è seria, che è tutta una finzione. E allora, aperta o velata, si ha la reazione negativa: l’opposizione a una coscienza di valore che, forse, già stava annunciandosi.

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l’esperienza (anche la cattiva esperienza) ma deve lasciar­ gliela fare in proprio. Non può anticipare il corso spon­ taneo della crescita, e quindi deve rimanere un puro stru­ mento del maestro vero. L’ethos personale di un pedagogo che operi consapevolmente, può essere soltanto quello di ritirarsi davanti a lui.

della persona come forza mo­ trice NELLA VITA DELLA MORALE

4. Corresponsabilità

Ecco dunque ripresentarsi anche qui il noto schema del rapporto fondamentale. Anche qui, è il singolo che si famigliarizza con lo spirito obbiettivo, lo riprende e vi cresce dentro. La diversa via per cui ciò avviene, è dovuta alla funzione particolare che l’ethos stesso assolve nello spirito complessivo di un’epoca. È ben vero che l’ethos, come del resto la conoscenza, dell’uomo, è un modo dell’esser-per-lui del mondo: infatti, con la sua apertura ai valori, cresce anche il valore che il mondo acquista per lui e per mezzo di lui. Ma l’altro e più attuale aspetto dell’ethos riguarda il suo rapporto al mondo: sia il corrispondervi interiormente, sia l’agire in esso. In ambedue i momenti è presente tuttavia anche l’inverso dell’esser-per-lui, ossia il suo proprio essér-peril-mondo. Qui lo spirito non è solo rivolto al mondo ma anche contribuisce, in un modo ben determinato, a formarlo: non solo ciò che esso opera sul mondo, ma anche tutto ciò che opera su di sé e fa di se stesso è, insieme, anche per il mondo. In tale riferirsi al mondo comune, l’ethos porta il peso singolare della responsabilità. Ma poiché quella parte del mondo « per » la quale la persona singola, nel suo ethos, è qualcosa, è in primo luogo proprio il mondo spirituale comune, tale essere-per-il-mondo significa immediatamente essere per lo spirito obbiettivo. E la responsabilità che la persona porta, è corresponsabilità per lo spirito obbiettivo,

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

per la sua sussistenza o rovina, per la sua vicenda e la sua dinamica storica. Ora, la responsabilità — e la libertà di decisione che ne è il presupposto — compete naturalmente all’individuo. Il singolo (non lo spirito obbiettivo) vuole, decide, agisce, nutre propositi e intenzioni. Ma come lo spirito storico di una data sfera umana condiziona ampiamente la formazione dell’ethos personale e lo tiene immerso, per tutta la curva del suo sviluppo, nei suoi tipi formali comuni limitando, cosi, la libertà della decisione privata; allo stesso modo, anche tutto ciò che il singolo opera in virtù del proprio ethos personale, e di esso esprime nell’opera, sbocca di nuo­ vo nell’ethos comune e nello spirito storico del tempo. In senso stretto, non c’è alcuna attività che riguardi esclusivamente il singolo, comunque grande sia il valore che essa riveste per lui. Ogni azione produce effetti, anche se l’agente non li vuole o non sa quali siano, perché incide in un ethos complessivo esistente e sempre lo compromette. Anzi, non c’è forse intenzione, valutazione o scelta che ri­ guardi una singola persona soltanto (per quanto riferita direttamente solo ad essa), ma tutte riguardano anche lo spirito comune e riecheggiano molto al di là della sfera pri­ vata del singolo. Esse trascinano, inducono, turbano, dis­ suadono. Tutto può servire d’esempio: nell’attrazione come nel disgusto, nel bene come nel male. Ogni comportamento della singola persona può svelare ad altre persone valori nuo­ vi, ma può anche portare la confusione o la cecità nel loro senso dei valori. Ogni comportamento appartiene insomma a quella sfera nella quale cresce chiunque si stia formando eticamente. In verità, l’uomo è sempre involontariamente anche edu­ catore. Nella sua vita, soltanto raramente si accorge di es­ serlo, né mai si rende conto dei particolari effetti e influssi che da lui si dipartono. Quando tutto è già accaduto e gli sta davanti agli occhi, può bensì rendersene conto, ma la tardiva conoscenza non cambia né può arrestare il corso ulteriore di ciò che a suo tempo è stato fatto. Cosi il singolo è anche qui, senza saperlo, un momento

XXII. - MORALE VALIDA E MORALITÀ INDIVIDUALE

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co-determinante nel movimento complessivo dello spirito obbiettivo. E la sua responsabilità nei confronti di questo è, in ogni momento, pari a quella che egli ha nei confron­ ti del suo prossimo. Ciascuno è mosso dalla morale viven­ te e la muove a sua volta, per quanto sta in lui. Ne è por­ tato e, insieme, la porta, contribuendo a determinare la sua vicenda. Quel rapporto di condizionatezza reciproca tra spi­ rito personale e spirito obbiettivo che incontriamo dovun­ que, vale anche nella sfera dell’ethos.

Capitolo XXIII

LA SFERA DELL’ARTE E DELLO STILE DI VITA

1. Gusto

artistico e sentimento dello stile

Il rapporto tra spirito comune ed individuo si pro­ spetta in modo ancora diverso nel campo del gusto domi­ nante, sia nella vita che nell’arte; e cioè nelle forme e nello stile esteriormente sensibili che l’uomo conferisce a tutto ciò che fa di sé o delle cose. È questo, comunque lo si in­ tenda, il terreno della cultura estetica: non soltanto delle arti vere e proprie, non soltanto dell’opera o del punto di vista creativo, ma anche di tutto ciò che nella nostra vita quotidiana è determinato dallo stile e dal gusto prevalente. Il modo in cui si « vedono » le forme — e non solo nel senso strettamente visivo — interessa tutte le sfere della vita. Si tratta sempre anche di un vedere che « dà » forma. Esso agisce, forse nel modo più evidente, nel concetto che l’uomo si fa di sé e nella configurazione esterna che dà a se stesso: dal modo di vestire, fino al modo di gestire, di muoversi o di comparire e a quelle che si chiamano le buo­ ne maniere. Nulla forse muta storicamente in modo tanto sensibile sotto gli occhi stessi dei vivi, come questo modo di dar forma e nulla, forse, in modo cosi unitario e mas­ siccio. Qui più che mai, il singolo è visibilmente plasmato dallo spirito obbiettivo, e soggetto, come si dice, al gusto dominante. Ciò non significa che egli obbedisca consapevol­ mente a una legge; piuttosto, non appena si sveglia alla coscienza della forma, è già pervaso dal gusto generale e già lo ha fatto proprio: sente « secondo » quel gusto come

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

secondo una legge, senza tuttavia sentirlo come una legge. Potrebbe certo venirgli la fantasia di darsi una configura­ zione per qualche aspetto diversa; ma, dominato com’è dal­ lo spirito del tempo, non lo farà mai, salvo che particolari circostanze non lo inducano all’opposizione. E quando lo fa, non può persistere in tale abnorme autostilizzazione senza pagarne il fio perché, cosi facendo, « dà nell’occhio », esula da quella forma che è abituale, gradita a tutti e da tutti pretesa; insomma, « fa scandalo ». Tutti questi territori spirituali — dalle altezze dell’arte, fino alle quisquilie della moda — appartengono al fenomeno complessivo dello stile. Non è necessario pensare subito ai particolari e ben differenziati stili dell’arte. Stile, in senso lato, è qualunque carattere dell’attività formatrice, che sia comune a un’epoca o ad un ambiente umano. Un livello estremamente elevato di organizzazione e forse anche di consapevolezza stilistica, troviamo invece nella poesia, nel­ la musica e nelle arti plastiche, architettoniche, figurative. È ben noto come questi stili artistici siano strettamente connessi a determinate epoche, ed anche come la sensibi­ lità artistica dei contemporanei ne sia tributaria. Gli indi­ vidui di una data epoca formano, infatti, e creano, attingen­ do direttamente a quell’unitario sentimento dello stile che li accomuna; è per questa ragione, del resto, che ciascuno ri­ sulta immediatamente comprensibile ai contemporanei. Es­ si vedono, odono, pensano, parlano secondo i canoni dello stile. Anzi, lo stile non è, in fondo, che questo: una ma­ niera comune di vedere, di udire, di pensare e di at­ teggiarsi. Lo stile è la forma costituita, in tutti pre­ sente, del loro atteggiamento interiore. Perciò essi danno forma ad opere che recano il carattere dello stile. Non sono liberi di formare altrimenti, ad arbitrio; e se ci pro­ vano, cadono nell’informe. Questo rapporto resiste anche quando la genialità indi­ viduale riesce effettivamente a cambiare lo stile. Perché qui, nel vedere e nell’udire del genio, l’interiore forma co­ stituita diventa davvero un’altra: in ciò consiste, appunto, la genialità. Ma se lo stile dell’arte si differenzia illimi-

XXIII. - ARTE E STILE DI VITA

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latamente, si modifica o cambia dalla radice, conserva però sempre la capacità di conferire al suo tempo un carattere unitario. Il mutamento di quest’ultimo coincide col muta­ mento di quello. Ne è prova l’atteggiamento tipico dell’e­ pigono che, sentendosi sradicato dal suo tempo, imita lo stile dell’arte precedente. La sua opera resta un’imitazione e, come tale, è essenzialmente diversa dalle opere cresciute su basi spirituali autoctone. Nell’imitazione, infatti, lo stile non è più la viva forma interiore di un sentire, vedere o udire personali; e quantunque si sforzi di attingerla per entropatia, una volta separata dallo spirito vivo dello stile, essa non può che sfuggirgli.

2. Stile

di vita e

« buon

gusto

»

Diventa cosi evidente come lo stile sia qualcosa che può essere vivo o morto proprio nello stesso senso in cui può esserlo una lingua. La vita dello stile è la vita interiore e genuina dello spirito obbiettivo, per quanto si tratti, anche nel contenuto, di plasmazione esteriore e visibile. E si può aggiungere che si tratta di una vita spirituale tanto più genuina quanto meno la sua disponibilità è obbiettivata nella coscienza; cioè: quanto più lo stile è soltanto la forma comune del vedere, dell’udire, del sentire comuni — e del corrispondente valutare; o, ancora: quanto più lo stile, puro e indisturbato dalla coscienza giudicante, funge quale norma interiore del gusto vivente in una data contemporanei­ tà. È una caratteristica del gusto, specialmente se riferito a oggetti d’arte, di reagire in modo immediato, di valutare col solo sguardo, senza chiedere ragioni. Non consiste nel soppe­ sare col pensiero, è lontano da ogni intelligenza raziocinante, non gli serve un perché. Che qualcosa « piaccia » o « non piaccia » può dipendere da un contesto reale, da presupposti reconditi e complessi quanto si vuole. Non è però mai coscienza delle condizioni e dei presupposti. Al contrario, la coscienza indagatrice lo svia, lo dissolve. 22.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

Ora, lo stesso si può dire dello « stile di vita » — e sotto questo titolo bisogna intendere tutto ciò che, in forme visibili di tipo ovvio o convenzionale, fa della nostra vita qualcosa di costantemente modellato e connesso. Ci riferiremo al gusto di un’epoca nella moda e nel ge­ stire, nel modo di parlare e nelle buone maniere, nell’at­ teggiamento, nel comportamento, nello stile epistolare e bu­ rocratico. E ancora, alla maggior parte delle forme di cortesia; al modo di mettersi in mostra, di ritrarsi e di farsi scru­ polo; di mostrare o fingere intenzioni e sentimenti; alla libertà o al ritegno nell’esprimere opinioni; al senso del limite tra la apprezzabile riserva dei privati sentimenti e l’insincerità; alle forme di commercio sociale e di conqui­ sta amorosa; alle barriere tra l’onesto e il disonesto. Il com­ portamento del singolo ha qui certamente un ampio mar­ gine per libere variazioni; e tali variazioni, oltre al loro ro­ vescio etico, sono anche immediata espressione della perso­ nalità individuale. Perché ogni formazione di questo tipo è sovraformazione di forze vitali e naturali umane, di desideri, avversioni, passioni, istinti. Ma l’impronta dello stile, che vi si sovrappone non è, in sé, né buona né cattiva; né naturale né contro natura; e neppure appartiene a qualcuno personal­ mente. È una formazione obbiettiva di tipo autonomo, che domina lo spirito del tempo e reca in sé, nella propria sovraindividualità, tutti i caratteri dello spirito obbiettivo. È questa plasmazione stilistica ad avere una storia. Essa muta infatti parallelamente alla morale, al diritto, alla struttura dello stato, al linguaggio, alla vita politica; e il suo mutare è collegato per molti fili al mutare di que­ ste. Inoltre, poggia sempre sul proprio passato, che, sen­ tito come tale, in essa ancora si protrae. Tale passato è senti­ to allora come il « gusto di ieri »; spesso, anzi, senz’altro come qualcosa di negativo, che va evitato e dal quale ci si vuole allontanare. Un simile rifiuto è, in sé, certamen­ te ingiusto; ha però la sua buona ragione storica in quanto, appunto, non è altro che la coscienza di progredire la­ sciandosi qualcosa dietro le spalle. La plasmazione stili­

XXIII. - ARTE E STILE DI VITA

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stica conosce talvolta una certa inerzia, e può anche continua­ re ad esistere come forma storicamente consolidata entro lo spirito mutato: è allora che viene sentita come vuota « forma », come un « codino » da parrucconi, come un puro impiccio. In tali casi, l’esplosione del temperamento indivi­ duale può essere addirittura risolutiva. Anche perché non ci si può scuotere di dosso a piacere, o in modo pura­ mente negativo una forma già consolidata: questa può es­ sere soltanto soppiantata da una nuova forma positiva. Sebbene, spesso, la decadenza di una antica ed elevata cultura sembri favorire un interregno di carenza formale, il rapporto vero è un altro: anche li, sta certamente forman­ dosi un nuovo stile di vita, che solo al vecchio modo di sentire appare informe. Sia che il mutamento storico avvenga con ritmo rapido e vario (come nella moda), o che segua la lenta cadenza delle più vaste trasformazioni sociali, il fenomeno fondamentale non muta. La tendenza al nuovo non è mai morta del tutto, anche quando le forme dello stile di vita sembrano aver raggiunto una stabilità secolare; e così, neppu­ re i più volubili cangiamenti nelle correnti sensazionali ed effimere del gusto potrebbero sottrarsi del tutto all’impronta tirannica della tradizione. In ogni caso, il mutamento inte­ ressa tutti i contemporanei — anche quando sia, dapprima, localmente o socialmente limitato e seguito dai più, soltanto di lontano. Ma anche ciò che riesce a diffondersi soltanto in una cerchia ristretta di co-viventi, resta comunque soggetto ad un’unica legge, che è quella del mutamento storico comune. Entro limiti ampi o ristretti, lo spirito obbiettivo è fonda­ mentalmente lo stesso: non va misurato secondo l’estensio­ ne, ed è tanto poco identificabile con la somma degli individui che abbraccia, quanto lo è con la somma delle determinazioni formative che imprime in essi. In quanto reca in sé tale insieme di forme, come un’impronta interiore comune ai suoi portatori, non è altro che vita spirituale effettiva.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

3. La « VITA » DELLO STILE

Nello stile di vita e nello stile artistico possiamo meglio afferrare il mutamento della vitalità spirituale. Uno stile è storicamente vivo solo se è presente nel modo di vedere e di sentire, e governa effettivamente il gusto dei singoli. In que­ sto caso, vale per lo stile ciò che vale per una morale e o per un diritto vigente. Una morale « vive » solo nella misura in cui è determinata nel giudizio e nel sentimento di valore degli uomini. È morta, quando tale sentimento è mutato e si è ormai rivolto ad altri valori, assumendoli a propria norma. Un diritto effettivo è vitale solo finché, bene o male, cor­ risponde negli uomini al sentimento reale del giusto e del­ l’ingiusto. Che poi una forza esistente possa mantenerlo e imporlo anche al di là di tale corrispondenza, non cambia l’essenziale: il diritto che cosi sopravvive, è ormai minato e, in un tempo più o meno breve, dovrà mutare, adeguandosi alla mutata coscienza del diritto. La stessa cosa si può dire per il gusto e lo stile di una data epoca storica. Ciò che « non piace più » è appunto « estraneo al gusto », ossia, diventa di cattivo gusto: il suo stile non è più vivo nel sentimento degli uomini. Parlare, come noi facciamo, di « vita » del gusto e dello stile, non è valersi di una metafora: questa vita è parte essenziale dello spirito obbiettivo e della sua mobilità storica. È insostitui­ bile e, come la vita organica, non si può scindere in elementi, né ricostituire sinteticamente quando non sia più viva. La vita dello stile è sempre concrezione totale; una totalità che abbraccia più regioni e obbedisce, attraverso i tempi, a proprie leggi. Non è oggetto di volontà e di aspirazione, né individualmente, né in generale; piuttosto: tutto ciò che cade sul suo terreno è già preselezionato dallo spirito vivente nel senso della sua apprezzabilità, e la coscienza non lo conosce altrimenti che in questa scelta preventiva. Neppure il gusto e lo stile sono mai creazioni arbitrarie del singolo, anche se talvolta il singolo può effettivamente

XXIII. - ARTE E STILE DI VITA

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precorrere i tempi. Anche il grande artista trova un limite nella sensibilità artistica della sua epoca. Senza il suo pubblico, gli rimane forse un lontano futuro, che non può vivere in prima persona, mentre nel suo tempo è deriso, isolato, anatemizzato; e il moto dello spirito vivente passa oltre. In genere però, l’artista è, anzi, dominato fin nel­ l’inizio, dal sentimento artistico contemporaneo, e ben ristretti sono i limiti in cui può esercitare autorità su di esso. Né può senz’altro uscirne fuori, visto che questo è vivo in lui. La sua lotta con lo stile vivente che lo domina ha successo se, creativa e liberatrice, riesce a farlo avanzare. Si dovrebbe ritenere che l’estetica abbia molto da dire su questo punto. È vero, forse, il contrario. L’estetica — quella di cui disponiamo — conosce bensì la costituzione formale dello spirito, ma solo relativamente alla fenomeno­ logia dell’opera d’arte. Essa non si è curata della « vita dello stile » come elemento comune a tutta una contemporaneità. Sa tutto circa la struttura dell’atto intuitivo, in parte, perfi­ no dell’atto creativo. Ed analizza tale struttura. Ma la vita spirituale comune che ha prodotto la struttura e ne pro­ duce costantemente i mutamenti, non è problema per lei. Quella che riesce meglio a cogliere qualcosa della « vita dello stile » è ancora la storia dell’arte perché, se non altro presupponendola, le rende giustizia. Questa, come la storia letteraria o musicale, è storia dello spirito, e il suo livello problematico è quello dello spirito obbietti­ vo. Lo stato del problema esige dall’estetica un migliore orientamento in questo senso. Ogni arte è infatti anche autoformazione ed autoespressione di uno spirito vivente, ed è quindi strettamente coinvolta in tutti i suoi temi. Lungo la strada, che qui si apre, di un allargamento della problematica estetica, dovrebbe essere possibile far luce sulla fondamentale questione, gravata da difficoltà d’ogni sorta, del valore artistico.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

4. La forma della crescita

entro il gusto del tempo

Come per l’ethos, il sapere e il linguaggio, anche nel caso del gusto, dell’arte e dello stile di vita abbiamo il fenomeno della, crescita individuale entro lo spirito obbiettivo. Per quanto il gusto possa diferire da uomo a uomo nei parti­ colari, c’è sempre un elemento base, comune a tutti i con­ temporanei: la forma del sentire. Il sentimento del gio­ vane, viene acquisendo questa forma insensibilmente, e non per intenzione esplicita, ma attraverso la semplice convivenza con coloro cui essa è comune. Diverso è invece, ancora una volta, il modo della ripresa e della tradizione. È simile a quello che abbiamo visto a proposito del linguaggio ma, sia l’insegnamento che l’ap­ prendimento vi hanno, se possibile, un’importanza anche minore. In questo campo l’insegnamento è inefficace, non perché non sarebbe convincente (come nella morale), ma perché diventa possibile soltanto e unicamente dopo che una certa comunanza del sentire si sia già stabilita. Quindi, non appena è possibile, è già superflua. Straordinario potere ha, invece, su questa capacità di ripresa il consentire con altri, l’interiore accordarsi del sentimento, l’adeguarsi di un gusto ancora incerto a quello fortemente caratterizzato e decisamente affermato di altre persone. Un simile consenso e accordo non è neces­ sariamente condizionato a un proprio autonomo sentire (come nel caso di un modello etico): il sentimento perso­ nale del giovane, in fatto di gusto, non ha scrupoli nell’adeguarsi, soltano che incontri una forte guida. Ciò è quan­ to mai evidente nel campo del gusto convenzionale, nel­ la vita di ogni giorno, in tutto ciò che è convenienza, bella figura, buone maniere, modo di esprimersi, moda. In tutti questi casi, il gusto personale diventa consapevole solo dopo essersi da lungo tempo consolidato entro il « gusto do­ minante ». Quando il senso dello stile, maturato e divenuto consapevole, si guarda intorno con occhio critico, ha sempre già ripreso tutto ciò che poteva dello spirito vivo del tempo.

XXIII. - ARTE E STILE DI VITA

315

Ed è proprio per mezzo di tale ripresa che acquista la capacità di valutare ciò che incontra nel suo cammino. Ma neppure nelle arti vere e proprie la cosa cambia. La tendenza artistica attualmente viva e creativa è sempre la piu convincente. Lo è appunto attraverso la sua vivace creatività, e solo finché convince si mantiene in vita. Il singolo ne è colpito e trascinato come da una corrente. Che tuttavia, in questo campo più che mai, siano singole personalità a guida­ re la marcia, non cambia nulla al rapporto di fondo. Tali per­ sonalità sono infatti i più eminenti rappresentanti dello spi­ rito artistico del tempo; e la loro opera diventa un possesso spirituale comune. Alla funzione emergente dei creatori fa da contrappeso però, nell’opera prodotta, il suo caratte­ re di bene comune. Nelle opere si adempie la legge dell’espan­ sività: esse « appartengono » a tutti quelli la cui sensibilità sa corrispondervi. Le opere che guardiamo, udiamo, com­ prendiamo, a loro volta formano la nostra capacità di guar­ dare, di udire ed anche di comprendere. Su di esse maturano e si educano gusto e sensibilità artistica. La grande forza della creatività e dell’emergenza in­ dividuale è il carattere peculiare delle arti rispetto alle altre dimensioni dello spirito. Qui come in nessun altro campo, è proprio il singolo che provoca e mette in moto la storia. Egli mobilita lo spirito obbiettivo in quanto lo precede dal­ l’interno, ma non lo anticipa al punto da non appartener­ gli più e da non poter essere a sua volta compreso a partire da quello. Questo « precorrere i tempi » — appunto, di quel passo decisivo per il quale lo spirito vivo del tempo è maturo — è il segreto dei grandi. Dai quali proviene una forza segreta che i contemporanei avvertono, cui cercano di resistere, ma che finisce sempre col conquistarli. Giacché, in fatto d’arte, la gran massa degli uomini è sempre puramente ricettiva, passiva, gregaria. Questa passività della massa è un fattore di resistenza che l’artista creativo deve sempre superare con la forza della propria opera.

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PARTE Π. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

5. Suggestione ed

educazione artistica

A ciò corrisponde l’enorme suggestionabilità e suggeribilità del gusto, la tendenza delle masse alla ripe­ tizione, all’imitazione esteriore di un dato modulo va­ lutativo, a convincersi e a lasciarsi convincere di qualcosa, senza averci ancora capito nulla. Sono sempre una minoranza quelli che, comunque vengano a contatto con un’inattesa novità artistica, sono davvero capaci di giudicarne con indi­ pendenza. E tra quelli che non ne sono capaci, solo una mino­ ranza sa di non esserlo. L’opinione altrui, la parola d’ordine ormai lanciata, lo slogan subito trovato dalla « critica », van­ no incontro ai loro gusti, li dispensano dalla discussione, so­ stituiscono la loro personale presa di posizione. Essi sono preda della suggestione e non se ne rendono conto. Siffatti sentimenti sono certamente impropri e inau­ tentici, ma sarebbe un errore negar loro ogni significato nel divenire reale del gusto artistico. Del movimento dello spirito obbiettivo fa parte anche il sentimento inautentico; ne è anzi, un fattore del tutto essenziale, perché non riguar­ da il comportamento di alcuni individui, ma quello della gran massa. Degno di nota è infatti che, attraverso questo sentimento inautentico, riesca tuttavia a farsi luce anche molta sensibilità artistica autentica. Assorbire un gusto « che è nell’aria », e perfino captare giudizi già fatti, non esclude affatto il formarsi ulteriore di un’intima e autentica convinzione. L’esperienza insegna, anzi, che questo è spes­ so uno sbocco obbligato. Ciò che nella sfera etica è assolutamente impossibi­ le, è qui addirittura ovvio: da un’atteggiamento imitato ed esteriore verso un oggetto, nasce un rapporto d’interiorità e di contatto diretto col suo specifico valore artistico. Si è in­ dotti, dall’esterno, in una posizione di interiore ricettività. Certo, non sempre questo avviene e quando avviene, è solo nei limiti di una personale maturità artistica. Ma, nel com­ plesso, il processo di maturazione e di crescita del singolo in

XXIII. - ARTE E STILE DI VITA

317

una data sfera di valori estetici e dentro il sentimento di va­ lore prevalente nello spirito del tempo, segue questa via ob­ bligata. Ne è conferma evidente il fatto che certe unilatera­ lità di scarso peso, e abbastanza casuali, ben presto supe­ rate dallo spirito del tempo, vengono riprese tuttavia e si diffondono non meno delle innovazioni più decisive. Come si svolga questo processo, come accada che a partire dalla pura suggestione si possa arrivare a un’ef­ fettiva liberazione e formazione del sentimento di va­ lore, è problema di competenza della psicologia e attende ancora una risposta soddisfacente. Sta di fatto, però, che que­ sto tirocinio della crescita produce, in una data contempora­ neità, una straordinaria omogeneità del sentimento, del gusto, della valutazione artistica. Tale omogeneità, come fenomeno generale, è però la vita stessa dello spirito obbiettivo — in quanto vita di un determinato gusto e di un prevalente senso dello stile. Qui sta inoltre la ragione per cui — nonostante che la sensibilità estetica non sia propriamente insegnabile — esiste di fatto qualcosa come un’educazione e una possibilità di direzione in campo estetico. Deve esser ben chiaro, tuttavia, che l’effettivo potere educativo non risiede in coloro che si assumono la funzione di casuali mediatori — perché anch’essi sono solo subordinati e gregari — ma soprattutto nella iniziativa dei produttori d’arte. Ciò che fa veramente progredire la cultura e l’educazione estetica, sono le opere originali.

Capitolo XXIV

ALTRE SFERE DI VITA SPIRITUALE

1. Religione

e mito

In nessun campo il carattere massiccio di unità e di totalità dello spirito obbiettivo è cosi sensibile, potente e ri­ conosciuto come in quello della religione, e in quello stret­ tamente affine del mito. Potremo aggiungervi anche varie altre forme di 'Weltanschauung, a patto che non abbia an­ cora assunto un carattere filosofico-scientifico — che è, appunto, la forma che esse assumono nelle fasi storiche piu tarde. In ogni spirito del tempo è presente una determinata e prevalente immagine del mondo, nella quale è assegnata all’uomo una determinata posizione. Anche qui, tutto è rela­ tivo al particolare stato della conoscenza; l’immagine del mondo, però, non è mai conoscenza scientifica, e neppure ne tiene conto. La visione del mondo va sempre molto più in là e, senza curarsi dei limiti tra sapere e non-sapere, chiama in causa l’ignoto, gli conferisce l’impronta adatta all’insieme e produce cosi un’immagine unitaria capace di soddisfare ai bisogni metafisici del tempo. La visione del mondo, in questo senso, non è mai un prodotto del pensiero solitario. È un patrimonio spirituale storicamente acquisito: il singolo Io riprende, vi cre­ sce a suo modo e, quando pensa in proprio, ne è già sem­ pre condizionato in questo suo stesso pensiero. Pur traman­ dandosi e mutando nel corso della tradizione, la visione del mondo resta sempre l’unità di un contenuto comune. Anche

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

quando interni conflitti la spezzano, è sempre sostenuta, in un senso o nell’altro, da grandi masse. La maggior durata storica spetta qui alla religione: la forma della sua tradizione è consapevole e accuratamente custodita; le sue fonti sono storiche anche là dove la fede ne crede sovrastorico il contenuto d’insegnamenti. La dottrina, infatti, è gran parte della tradizione: tutto ciò che è stato tramandato vi ha una speciale autorità e il contenuto dottrinale comincia presto o tardi a consolidarsi nei dogmi; il che spiega anche perché un mutamento repentino, quando accade, sia estremamente radicale. Nella religione, il contenuto ha un peso enorme, perché riguarda il rapporto attuale dell’uomo con quelle potenze alle quali l’uomo si sente consegnato e che, secondo lui, lo governano. La rappresentazione di più dei, o di una divinità unica è, a questo proposito, predominante, ma non è certo l’unica possibile. Invece, è sempre essenziale che si tratti di potenze superiori con le quali l’uomo debba necessariamente venire a patti — comunque poi se le raffiguri: come provvidenza, destino, fatalità, o semplicemente come la direzione, indipendente dall’uomo, del processo universale. Per quanto interessa il problema dello spirito obbiettivo, nella fede non si tratta di errore o di verità, come nella morale o nel diritto. Si tratta bensì del rapporto tra il singolo e la dottrina tramandata. Caratteristica di questo rapporto, nella religione (e, similmente nel mito), è la ripresa puramen­ te passiva, il puro accordarsi, la venerante dedizione a ciò che si presenta come una verità superiore. Certo, anche qui non manca la libera discussione della dottrina da parte del sin­ golo; può, anzi, diventare particolarmente intensa in tempi di elevato rigore dogmatico e può sboccare nel tentativo di fornire, in una specie di sapere (autentico o presunto) un sostegno alla fede. Ma si tratta di una tendenza secondaria e, inoltre, imposta alla religione più spesso per ragioni di difesa contro miscredenti e dubbiosi che da esigenze spontanee. L’apologetica è solo un fenome­ no collaterale, identico, del resto, nello spirito personale e nello spirito obbiettivo. Anche per il singolo la discussio­

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XXIV. - ALTRE SFERE DI VITA SPIRITUALE

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ne nasce solo quando forze spirituali di altra provenienza cominciano ad opporsi, dentro di lui, alla dottrina tradi­ zionale.

2. La

vita della fede come vita prototipica dello spi­

rito OBBIETTIVO

Qui l’elemento orginario e caratteristico sta piuttosto nel fatto che lo spirito comune della religione porta indisturbatamente e avvolge l’individuo come in un velo protettivo — si che questo spirito vivente, sentito come tale anche dalla comunità dei credenti, quasi pensa a lui e per lui, gli risolve quegli enigmi tormentosi che non sapreb­ be sciogliere da sé. Prende in sua vece quelle decisioni essenziali che da sé non oserebbe prendere. Come uomo religioso, egli è sostenuto dal vivente spirito comune fin nelle più piccole incidenze della sua vita. Da ciò appunto la forza che la religione ha per lui. L’autentico vivere religioso come forza presente nella vita degli uomini che ne sono accomunati è, quindi, la forma più pura e prototipica in cui ci si presenta la vita stessa dello spirito. Si può dire anzi, che questa è la sua forma ideale. Lo spirito obbiettivo, nella sua perfetta configurazione, è appunto la perfetta permeazione degli individui dall’unità di uno spirito, la loro comunione in quell’unità — non in un ambito di contatti superficiali o di esteriore comunanza, ma dall’interno e dal profondo della loro essenza. La vita della fede, quando sussiste intocca­ ta da potenze disgregatrici, realizza questo ideale con straordi­ naria purezza. Essa collega il singolo allo spirito comune, più saldamente del linguaggio o del sapere, dei costumi e della morale, dell’arte e del gusto. E cosi si capisce che grandi forze storiche di rottura, risoltesi magari in direzioni tutt’altro che religiose, siano spesso cresciute proprio su questo terreno.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

La vita religiosa può essere personale o comunitaria; ma quest’ultima, comunque articolata — come vita di una famiglia, di una comunità, di un popolo o di un gruppo di popoli — sta sempre in un rapporto di reciproco condizio­ namento con la vita religiosa personale. I suoi rapporti con la potenza superna, il singolo deve regolarseli da sé, e in ciò lo spirito della religione lo lascia libero; alla stessa stregua, nella morale, ciascuno deve prendere le proprie decisioni ed esserne responsabile. Ma circa il modo di intendere tale potenza suprema e di comportarsi, nei suoi confronti, il singolo è il figlio dello spirito religioso in cui è cresciuto. La concezione del mondo e di Dio, dell’uomo e del desti­ no, della missione dell’uomo e della salvezza dell’anima nessun singolo se la crea a proprio esclusivo uso e consumo, né, in tal caso, la crederebbe valida. La santificazione del contenuto della fede attraverso la fede di tutto un mondo in essa accomunato — e, più ancora, delle passate generazioni che nella tradizione continuano a vivere ■— è il fondamento, sentito come una forza, sul quale cresce la convinzione personale. Solo nel quadro di una tradizione accolta, cosi, come intangibile e santa, il singolo può dar forma a un proprio personale rapporto con la divinità. La straordinaria stabilità che lo spirito obbiettivo può storicamente acquistare in quanto fede comune, non ha però origine dalla dogmatizzazione del contenuto dottrinale, — questa ne è piuttosto una conseguenza — ma nella proprietà dello spirito religioso di riferire la sua forma, storicamente divenuta, alla assolutezza di quella stessa potenza sovruma­ na, che è il vero oggetto della dottrina e della fede. La carat­ teristica storica fondamentale della religione è il dover negare la sua stessa storicità, ma, con questo, anche di misconoscere la sua stessa durevole vitalità. È solo su questa base che si rafforza il potere consolidan­ te della tradizione, la dogmatizzazione della dottrina e il sopravvento della teologia sulla viva fede.

XXIV. - ALTRE SFERE DI VITA SPIRITUALE

3. Spirito

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rivoluzionario della tecnica

Gli aspetti caratteristici di questo tipo di tradizio­ ne e di solidarietà emergono in piena luce se le confrontiamo con quelle di sfere spirituali « non tradizionali » come, per esempio, la tecnica. Anche qui, si capisce, una tradizione c’è, ed anche qui può assumere forme rigide, come dimostra la storia corporativa delle arti e dei mestieri. In so­ stanza, però, le novità sono meglio accolte qui, che altrove. Se un’epoca è ricca di grandi invenzioni capaci di influi­ re in modo determinante sui modi di produzione, essa subirà una specie di trasfigurazione che, dalla tecnica, si estende agli altri campi, alle forme di vita sociale, alle idee, ai valori e, infine, alla stessa visione del mondo. In tal caso — come accade nel nostro tempo — da questo settore dello spirito si origina una specie di movimento rivoluzionario che può pervadere gradualmente l’intiero spirito del tempo. Quella che si vuol designare come « la mancanza di tradi­ zione » della tecnica, non è affatto una mancanza di tradi­ zione nella tecnica stessa: ma piuttosto il suo effetto antitradizionalistico in altri campi. Tutti lavoriamo con strumenti, utensili, meccanismi tradizionali, e lo facciamo secondo i metodi tradizionali che abbiamo imparato. Nessuno è costretto a inventare e sperimentare tutto da sé, ricomin­ ciando da zero. Ciascuno trova metodi e strumenti già speri­ mentati, impara a famigliarizzarsi con una forma di attivi­ tà già data, e solo sulla base di questa, può a sua volta operare, sia pure per introdurvi delle innovazioni. Ciò va­ le per il moderno lavoro di fabbrica, più ancora che per i mestieri vecchio-stile, e vale per l’opera del direttore tecnico come vale per quella dell’operaio. Si tratta di una ripresa e di una crescita di quello che è lo spirito vivente della tecnica, analogamente a quanto si è visto per la scienza, l’arte, lo stile di vita. Anche in questo campo, l’apprendimento permette di esercitare un dominio il quale, ancora una volta, è in gran parte un lasciarsi dominare.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

Perché solo chi si lascia dominare dallo spirito vivo della tecnica, se ha la fortuna di essere un inventore può, a sua volta, renderla migliore. La differenza sta solo nel ritmo del progresso tecnico e nell’ampiezza della sua oscillazione tra stasi apparenti ed impetuosi balzi in avanti. Tale differenza riconduce ad un’altra: la creatività tecnica è connessa alle finalità esterne del bisogno. E non solo queste sono soggette a mutare ma la creatività stessa è obbligata a seguire sempre la via più breve. Ciò che qui conta, infatti, è soltanto il raggiungi­ mento di un dato fine. Un minimo progresso teorico, un’in­ venzione apparentemente insignificante, può spalancare improvvisamente una via più diretta. Ed allora la tecnica sarà costretta a gettarvisi. Su questo punto, essa non ha scelta. Nello spirito della tecnica, la svalutazione della tradi­ zione non è autolesionismo, né ripudio violento delle proprie acquisizioni, ma anzi, ha il senso di un organico, continuo e inevitabile progresso e un carattere di vivacità spirituale più suggestiva e palpabile che in molti altri campi. Se lo spi­ rito tecnico non è orientato verso la propria storia passa­ ta, non è perché sia astorico, ma perché il proprio pa­ trimonio storico di acquisizioni, nella misura in cui è ancora vitale, se lo porta sempre appresso, presente e insie­ me superato.

4. Lo SPIRITO OBBIETTIVO NELLA VITA DELLE ISTITUZIO­

NI POLITICO-SOCIALI

Di tutti i campi spirituali menzionati, il più centrale e il meglio afferrabile è, agli occhi dello storico, quello del­ la vita politica. Parlandone (al cap. XIX 3) come di una sovraformazione della comunità originaria preesistente e costi­ tuitasi indipendentemente dallo spirito, non ne abbiamo certo esaurito le proprietà. Perché con tale sovraformazione, la vita dell’uomo come cittadino comincia appena, e l’iniziati­

XXIV. - ALTRE SFERE DI VITA SPIRITUALE

325

va è sempre quella di singoli capi capaci di indicare alla massa i suoi traguardi. Ciò nonostante è chiaro che un de­ terminato orientamento politico riguarda sempre la comuni­ tà e non il singolo, anche e soprattutto quando sia un singolo a guidarlo e la massa vi consenta. Questo vale in ge­ nerale, si tratti di politica interna o esterna, di equilibrio tra gruppi di potere entro la società o del rapporto tra popoli e tra stati. Perché ne va sempre, per essenza, della cosa comune. Fin qui, è tutto molto ovvio e non ha bisogno di dimo­ strazioni. Ma si potrebbe obbiettare: che ne è dello spirito? In primo luogo, dello spirito obbiettivo? Si sa che l’iniziativa aspetta allo spirito; ma allo spirito personale. Tutto il resto, anche ciò che su tale iniziativa si fonda, costituisce la situazio­ ne data. Ma una situazione politica è, in quanto tale, qualcosa di non voluto, si crea non richiesta, eppure è in essa che bisogna agire. È dovuta ai fattori più svariati: biso­ gno, miseria, incremento demografico, rapporti economici, concorrenza internazionale. Situazioni siffatte sono di inte­ resse generale e comune, e solo in quanto tali riguardano il singolo. Dobbiamo rispondere: la politica non consiste nelle situazioni; come del resto il comportamento del singolo in una determinata circostanza della sua vita, non consiste in tale circostanza. Politico è piuttosto l’atteggiamento che lo spirito comune prende in una data situazione, la tendenza che segue, il rischio che si assume o l’impresa che tenta, co­ me pure il modo in cui cerca di realizzarla. Un determina­ to orientamento politico si può già considerare come una reazione dell’istituzione politico-sociale alla situazione in cui si trova. È quindi, necessariamente, la forma di un compor­ tamento o di un atteggiamento comune; il quale, natural­ mente, è di natura spirituale e, non potendo essere quello di una singola persona (neppure se ha origine dalla iniziativa individuale), rientrerà nell’orizzonte fenomenico dello spiri­ to obbiettivo. Al di là delle varie tendenze del momento, è importan­ 23.

326

PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

te soprattutto la direzione di fondo dello sviluppo politi­ co di un popolo o di una qualunque istituzione esistente. Tale direzione si modifica molto lentamente: per più di quattro secoli, pur nel mutare della situazione, la politi­ ca della Repubblica Romana rivela, ad esempio, una costan­ te tendenza di fondo, non altrimenti, per quasi un millennio, la politica del Papato, o anche quella, parallela, del­ l’impero — nonostante tutte le oscillazioni, le crisi e le rinascite. Qualcosa di analogo troviamo anche nello sviluppo del parlamentarismo inglese o in quello del moderno movimento operaio, e in altri movimenti simili che hanno contribuito a determinare l’immagine complessiva dell’oggi. In tutti questi casi, ciò che nel continuo mutare delle situazioni assume sempre nuove forme e si conserva vivo, è un certo « spirito »; uno spirito che, a sua volta, può ben mutare, ma non secondo l’eventuale arbitrio di un singolo che intenda mettergli le briglie, si invece organi­ camente e nella salvaguardia del suo carattere proprio. Quanto al singolo uomo di stato, la sua azione si nu­ tre di questo stesso spirito e ne è anzi pervasa in modo eminente; che è poi la sola ragione per cui riesce a far colpo sulla massa. Egli esercita anche un proprio influsso sul­ lo spirito storico, ma solo in quanto già prima informato, motivato e portato da tale spirito. Viceversa si può dire che un uomo di stato può essere tale, in gene­ rale, solo in quanto dominato dallo spirito storico del suo popolo e disposto ad agire nel segno di quel­ lo spirito. Non esiste per lui libertà di decisione di fronte alla corrente che lo porta, come rappresentante della quale ha ottenuto fiducia e assunto un posto di comando. È libero solo nel modo di azionare i comandi.

XXIV. - ALTRE SFERE DI VITA SPIRITUALE

5. Dinamica della

327

tendenza politica e crescita indi­

viduale IN ESSA

Ciò che vale per la tendenza complessiva che governa la vita di un popolo, vale a un di presso, anche per le tendenze dei vari gruppi, strati, classi o partiti che lo compongono. Anche in queste c’è sempre uno spirito comune — sia pure particolare — che tiene avvinto il singolo. I cambiamen­ ti storici si susseguono, qui, secondo un ritmo più rapido, molto più aderente di volta in volta alla situazione del mo­ mento. Ma anche qui, nella forma di una continuità di ten­ denza politica, sussiste il legame col passato. E tale conti­ nuità significa che precedenti atteggiamenti e finalità so­ pravvivono, sia pure altrimenti disposti nel contesto del­ l’attualità. Cosi sopravvivono antiche inimicizie, antichi nazionalismi, antiche rivalità, o anche l’antica superiorità di un popolo rispetto ad altri, la sua egemonia o la sua prepotenza; cosi resta vivo il prestigio di un tempo, una vecchia aspirazione alla libertà o all’indipendenza. L’individuo cresce naturalmente nella tendenza del tutto o del gruppo sociale cui appartiene. Impara fin dal­ l’inizio a vedere il mondo della vita pubblica secondo ta­ le tendenza; non lo vede mai sotto altra luce. È così che quella tendenza diventa la sua. Gli apprezzamenti e i giudi­ zi, i pro e i contro dei partiti, come pacifiche ovvietà o come tesi appassionate, gli giungono per lo più nella forma acritica di parole ad effetto. Egli non può imparare a pensare poli­ ticamente se non in quelle categorie, comunque articolate o primitive esse siano. Esse hanno su ogni successiva riflessio­ ne il vantaggio di una vitalità immediata, per cui colpiscono con forza ed hanno maggiore efficacia persuasiva. Il loro po­ tere è quindi un potere di suggestione che agisce prima della riflessione e del giudizio, anzi, spesso vi si oppone vittoriosamente. Il giovane che raggiunge l’età della ragione e comincia a giudicare è già sempre pervaso e domi­ nato dal vivo fluire di questa tendenza. Le passioni politi­ che del suo ambiente sono diventate le sue.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

Questo è l’interno dinamismo in cui si tramanda lo spiri­ to politico di un gruppo, di un popolo, di un’epoca. Può ac­ cadere che il senso originario e i veri fini della tendenza va­ dano persi o impallidiscano nell’inerzia che segue il trionfo; che essi cadano nell’oblio, mentre la tendenza prose­ gue storicamente il suo corso, quasi una forza cieca che de­ ve esaurirsi per potersi placare. Non si può certo af­ fermare che simili tendenze dall’esito cieco o infecondo non appartengano più alla vita dello spirito. Vi apparten­ gono invece, ed hanno talvolta la forza di determinare il destino di intieri popoli; solo che le loro radici non sono più tanto profonde e i grandi impulsi di rinnovamento non sorgono più da esse, ma contro di esse. Accade però anche che esse ritornino al loro senso originario, o, riempiendosi di un nuovo contenuto ideale, ritrovino una intera ragion d’essere e assorbano cosi le tendenze più vive e attuali.

Capitolo XXV

FUNZIONE DELL’EDUCAZIONE NELLO SPIRITO OBBIETTIVO

1. La

via per cui l’individuo diventa uomo

Consideriamo ora, come ultimo esempio, il campo del­ l’educazione. Esso si intreccia coi già nominati, ma non di­ spone, accanto a quelli, di un contenuto specifico: il suo contenuto non è altro che il nucleo vivente di ciascun cam­ po spirituale. Si può educare al sapere, alla morale, al di­ ritto, all’ordine sociale, al civismo, alla consapevolezza po­ litica, come all’arte, al linguaggio, alla musica, alla poesia, a uno stile di vita, a una religione. In questo senso, il campo della pedagogia non è indipendente e si può paragonare a quello, molto più ampio, della storia. Infatti, neppure il processo storico è qualcosa di specifico, accanto all’essere proprio di ciascun territorio spirituale: ma è appunto la forma stessa della loro esistenza nel tempo. Tuttavia, come la storia della lingua, del sapere e della morale è qualcosa di diverso dalla lingua, dal sapere e dalla morale, cosi anche la corrispondente attività pedagogica. In generale, la pedagogia guida il singolo nella sua crescita entro lo spirito obbiettivo; e poiché solo in tale crescita il singolo può diventare uomo, nel pieno senso del suo tempo e del suo ambiente, possiamo dire che l’educazione è la via per la quale l’individuo diventa uomo. Questa via assume anch’essa diverse forme storiche, a seconda che lo spirito vivo dell’epoca vi si dedichi come a un compito specifico, oppure no. Ciò non significa però

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

che la formazione dell’individuo umano sia opera di educa­ zione solo in quanto cosciente e consapevole, perché è già tale nelle sue origini inconsapevoli. Né l’educazione è pre­ rogativa di determinate età: solo la parte consapevole di questo cammino è legata allo stadio della giovinezza. Alla scuola materna succede il maestro di scuola e a questo, la scuola della vita: una successione che non è puramente cronologica, perché queste fasi coesistono e si sovrappongo­ no. L’apprendimento e l’insegnamento accompagnano l’uo­ mo ininterrottamente lungo tutto l’arco della sua vita; se è vero che l’uomo non finisce mai di imparare, anche più significativo è il fatto che egli insegni continuamente — con tutto ciò che dice, opera, omette, in tutti i suoi sforzi, errori, propositi e successi. Qualunque atteggiamento e rapporto umano ha due facce: una voluta, e rivolta coscien­ temente al proprio antagonista, e una involontaria, per lo più anche inconsapevole, il cui effetto è incontrollato. Da quest’ultima dimensione scaturisce il vivente insegnamento che ciascuno, con la propria opera e il proprio destino, si­ gnifica agli altri.

2. Lo SPIRITO OBBIETTIVO COME MAESTRO d’OGNI DOTTRINA

Se ora esaminiamo il risultato concorde che abbiamo ottenuto in tutti i campi osservati (e cioè: che il comporta­ mento del singolo, il suo sapere, il suo parlare, credere, valutare ecc., sono già modellati dallo spirito comune del suo tempo, e che proprio vivendo in queste forme già date ciascuno è d’esempio e d’insegnamento agli altri), otteniamo il principio: che ogni educazione è educazione allo spirito obbiettivo. D’altra parte, qualunque sfera di co-viventi, non può allevare i figli altrimenti che in quello spirito che effettiva­ mente possiede. Allevare i giovani significa perciò, necessa­

XXV.

- EDUCAZIONE E SPIRITO OBBIETTIVO

331

riamente, guidarli nella loro crescita entro lo spirito obbiet­ tivo, finché diventino uomini. Ma, dato che il principio informatore di quest’opera di formazione è appunto la for­ ma stessa in cui preliminarmente vivono coloro che eserci­ tano un’influenza e che sono d’insegnamento e d’esempio, otteniamo con pari evidenza il principio: che ogni educa­ zione è anche, in ultima analisi, educazione attraverso lo spirito obbiettivo — e lo è, si badi, indifferentemente sia come pedagogia consapevole, che come involontaria influen­ za. In questi due principi — che potremmo chiamare i principi di ogni attività pedagogica in generale — si rias­ sume il rapporto tra spirito individuale e spirito obbiettivo quale si rivela, identico, in tutte le regioni dello spirito, sia pure nelle modulazioni più varie. Questo rapporto carat­ terizza anche in modo univoco il senso di ogni sforzo con­ sapevolmente pedagogico. Che un tale sforzo sia necessario e che, a un livello elevato di civiltà, sia necessaria anche un’efficiente organizzazione dell’educazione, è dovuto all’e­ lementare circostanza che lo spirito non si eredita, ma solo si tramanda. In tutti i campi, bisogna riprenderlo, acqui­ sirlo, farlo proprio. E dove ciò non si realizza da sé, nella semplice convivenza — come invece accade per la lingua, i costumi e lo stile di vita — deve intervenire l’insegna­ mento e l’esercizio consapevole. Perché l’insegnamento, sia teorico che pratico, mira sostanzialmente allo stesso fine cui tende anche la ripresa per imitazione e adattamento, e cioè al padroneggiamento del patrimonio spirituale traman­ dato, un padroneggiamento che da parte dell’individuo, come sappiamo, è piuttosto un lasciarsi governare. Questa necessità raggiunge la massima urgenza nel cam­ po del sapere. La conoscenza è ciò che la pura convivenza riesce meno facilmente a trasmettere: si tratta di un enor­ me tesoro di esperienza e di lavoro intellettuale, per lo più molto distante dalla vita pratica. Riprenderlo, significa rielaborarlo con metodi opportunamente abbreviati, in mo­ do da permettere all’intelletto individuale di impadronirse­

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

ne. Ciò spiega perché, negli instituti d’istruzione esistenti, l’educazione intellettuale abbia un peso predominante. Fon­ damentalmente però, quella necessità esiste in tutti i campi spirituali. Da questo punto di vista, il senso delle istituzioni edu­ cative esistenti è che lo spirito obbiettivo tende spontanea­ mente a prendere nelle sue mani la crescita e la formazione umana del singolo, specialmente là dove essa non procede spontaneamente. Infatti, nessuna istituzione scolastica, in quanto tale, è opera di un singolo. E il vero maestro — sia pure sotto forma di maestro di scuola — è, anche qui, lo spirito obbiettivo, come del resto lo è sempre e dovunque, nelle persone di tutti coloro coi quali passiamo la vita. Maestro ed educatore è colui, nel quale la pedagogicità dello spirito obbiettivo si incarna e si obbiettiva. Egli è il portatore di un’alta missione che riguarda il tutto della vita spirituale; e più ne è consapevole, più accetta di farsene strumento. L’opera e il concorso dei singoli educatori formano, idealmente, l’istituzione educativa — che è l’organo costi­ tutivo dello spirito vivente e, in un certo senso, l’organo della sua riproduzione storica di generazione in generazione. Se lo spirito fosse ereditario, se l’uomo in evoluzione non dovesse prima riprenderlo e rielaborarlo, un tale organo sa­ rebbe superfluo. Ma lo spirito non si eredita e solo il vi­ vente può trasmetterlo al vivente. E può farlo soltanto in quanto vi è cresciuto e ne partecipa. Il segreto di ogni efficacia educativa dipende dal fatte che l’educazione assume, nella vita dello spirito obbiettivo, la stessa funzione che, nel regno organico, spetta alla pro­ creazione e all’ereditarietà fisica. L’educazione è, a un nuovo livello dell’essere, un’analoga riproduzione del già divenuto e un’analoga trasmissione del già divenuto — in un modo radicalmente diverso e con ben altra libertà di movimento.

XXV. - EDUCAZIONE E SPIRITO OBBIETTIVO

3. L’ambito

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della personalità

Qui ha radice e senso ogni preoccupazione pedagogica. L’insegnante amministra un patrimonio spirituale che non è suo, oltre al quale non ha nulla da offrire, e senza il quale è vuoto di contenuti. Dato che solo per partecipazione ad esso, egli è cresciuto alla sua attuale umanità, è ovvio che possa farsene mediatore solo nei limiti di tale partecipazione. Ma tali limiti sono insignificanti rispetto alla partecipazione ancora del tutto carente di chi sta imparando, e al problema di fondere ogni particolarità individuale nella cooperazione con altre forze docenti. C’è un limite molto più importante, che colpisce ogni possibilità di dare o ricevere educazione e dottrina — ed è quello inerente al carattere di comunanza dell’essere spiri­ tuale stesso, quello che divide lo spirito obbiettivo dallo spirito personale. Infatti è possibile mediare, trasmettere e riprendere solo un importo spirituale divenuto comune e ob­ biettivo. E l’opera del pedagogo si preoccupa solo della partecipazione ad esso — non importa se attraverso il sapere o l’atteggiamento interiore, la valutazione o la formazione della sensibilità e della fede. Il principio or ora enunciato: che « ogni educazione è educazione allo spirito obbiettivo », acquista tutto il suo peso solo se cominciamo a comprenderlo dal suo lato nega­ tivo, come criterio dei limiti di ogni educazione possibile. La sua forma negativa suona infatti: « non v’è educazione possibile allo spirito individuale ». Ciò non significa, naturalmente, che ogni formazione del carattere e ogni opera di formazione esercitata sul gio­ vane, nel suo sviluppo personale, siano illusorie. Ma solo che tale direzione o guida non può affatto dirigere l’individuo verso un tipo voluto o contenutisticamente determinato di carattere personale. Ciò di cui il singolo abbisogna, nella formazione del suo carattere, è piuttosto l’elemento gene­ rale, quello che, nell’ethos del tempo, rappresenta un’ef­ fettiva acquisizione. E ogni premonizione personale dell’e­

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

ducatore si muove soltanto in questi limiti. Egli non può prevedere, né predeterminare concretamente la futura personalità del suo pupillo; tentando di far questo, può bensì negarla o falsarne lo sviluppo. L’allievo cresce sotto le sue mani sempre diverso da come egli lo vede; come debba esser veramente, resta sempre da vedersi. L’individualità personale cresce solo da sé. Si forma spontaneamente secondo una propria legge, che può non te­ nere conto di tutto ciò che è insegnamento ed educazione. Non la si può anticipare pedagogicamente per indicarle la strada. A ciò corrisponde l’ampio margine del quale la personalità dispone nell’elemento comune in cui cresce. Ogni spirito comune vivente abbraccia nella propria unità una sterminata varietà di caratteri personali. E ciò non costi­ tuisce soltanto il suo limite, ma anche la sua portata, la sua interiore ricchezza, vitalità e grandezza Lo spirito ob­ biettivo non è la camicia di forza dello spirito personale, non minaccia di uniformare l’individuo. È soltanto base, livello, e i limiti che pone consentono alla molteplicità individuale una libertà di movimento che nessuna caratteriologia saprà mai esaurire.

4. Sviluppo individuale

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e generale del singolo

Non è che l’individuo venga dapprima inserito nello spirito comune come in uno schema generale uniforme, per poter quindi operare una sovraforinazione del generale che gli conferirebbe una nota personale. Né, inversamente, egli svilupperebbe dapprima un suo carattere personale, cui poi la crescita entro lo spirito obbiettivo offrirebbe base e soste­ gno. Le due componenti procedono invece di pari passo lungo tutto l’arco dell’evoluzione individuale. La particola­ rità cresce insieme con l’elemento comune e trasporta via via nella sfera di proprietà personale ciò che riprende dallo spirito comune; il quale ne ottiene a sua volta nuove possibilità di svolgimento proprio.

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XXV. - EDUCAZIONE E SPIRITO OBBIETTIVO

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Non abbiamo due diversi sviluppi della persona, ma un unico sviluppo, a un tempo individuale e generale. I mo­ menti della personalità e dello spirito sovrapersonale restano però, in questo svolgimento unitario, nettamente eterogenei. Il loro intreccio costante non ne cancella l’eterogeneità. Ora, la caratteristica saliente di questo duplice processo unitario è che l’insegnamento e l’educazione fanno presa sulla componente comune che lo spirito vivente trae in sé, ma non sulla componente individuale. Se l’educatore volesse controllare anche questa, la falsificherebbe, perché finirebbe necessariamente col costruirsene una immaginaria, o peggio ancora, coll’imporre e suggerire l’imitazione di un carattere estraneo. Sono due modi sicuri di ignorare ciò che la per­ sonalità in formazione ha di effettivamente originale. Si ripete qui quanto s’è visto nel campo dell’ethos esa­ minando la differenza tra emulazione ed imitazione. L’emu­ lazione si riferisce al suo modello in quanto vi scorge un valore morale universale — per esempio, lo spirito di sacri­ ficio, o di giustizia, l’energia, il dominio di sé — o parecchi di questi valori insieme. Questi valori sono tali per chiun­ que e perciò l’emulazione di essi ha un suo insostituibile valore nello sviluppo dell’ethos personale. Qui è possibile prendere a modello qualcuno; non si tratta di imitarlo ma di commisurarvisi moralmente, in quanto incarnazione o esempio di un ideale di validità generale. È un modello che si può sempre lasciar cadere quando abbia perso il suo valore. L’imitazione si rivolge invece alle proprietà personali. Essa non può condurre ad altro che all’errore. Il senso di una proprietà è di essere peculiare di un singolo e di non rientrare in nessuna norma o tendenza dello spirito ob­ biettivo. Se qualcuno cerca di ripeterla in se stesso, non farà che minare i caratteri propri, non riconosciuti e ancora latenti, falsificando cosi la propria personalità.

Sezione III

VITA, POTENZA E REALTÀ DELLO SPIRITO OBBIETTIVO

Capitolo XXVI

LO SPIRITO IN GRANDE E LA SUA UNITÀ

1.

Unità

concresciuta e totalità

Le considerazioni dell’ultimo capitolo ci hanno offerto una visione complessiva, sintetica, ma abbastanza articolata dei diversi campi spirituali. Essa doveva servire innanzi­ tutto come orientamento preliminare, ma intanto ha posto in luce un tratto fondamentale, che si ripresenta conti­ nuamente, pur nella ricchezza delle sue variazioni: la fon­ damentale relazione che intercorre tra spirito personale e spirito obbiettivo. Questa relazione ci si è presentata come un reciproco portare ed esser-portato — e cioè, da un lato come ima ripresa e una crescita individuale entro lo spirito obbiettivo, che è insieme adeguazione ai suoi contenuti; d’altro lato come il vivere stesso dello spirito obbiettivo negli individui, capace di dar forma al loro rapporto col mondo comune e, mediatamente, al mondo stesso. Perché il mondo in cui l’individuo vive, a sua volta viene sovraformato dal comportamento degli individui. I diversi campi di vita spirituale sono solo diversi lati di questo permanente rapporto di fondo. A ogni determinato

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

spirito del tempo appartiene una determinata vita sociale e giuridica, una determinata tendenza politica, una determi­ nata morale o visione del mondo, una fede, un dato gusto o stile di vita, una data arte, poesia, educazione, tecnica, lingua. È nella natura della vita umana che formazioni di questo tipo siano sempre compresenti e costituiscano in­ sieme un patrimonio spirituale comune che si tramanda. Questo significa però anche che esse costituiscono sem­ pre, nella loro interna connessione, una ben precisa e con­ cresciuta unità dello spirito obbiettivo, dalla quale i sin­ goli elementi — il contenuto specifico dei diversi campi — si possono separare solo per astrazione. Non v’è lingua che non sia espressione di un certo sapere, di una certa morale, forma sociale, religione; che non sia veicolo di poesia o di reciproca intelligenza entro determi­ nate coordinate di gusto; e cosi via. Analogamente, non v’è forma sociale, morale, giuridica, che non sia connessa al gusto, alla visione del mondo, all’educazione, alla lingua, alla tecnica di un dato tempo. Ciò non impedisce, natural­ mente, una certa libera variabilità dei territori spirituali gli uni rispetto agli altri. Ma sappiamo per esperienza che tale libertà ha limiti molto piu ristretti di quanto le dif­ ferenze di contenuto lascerebbero supporre. Non è misura­ bile in base alle combinazioni in essa « pensabili ». Il pro­ cesso della crescita storica dello spirito è di carattere orga­ nico, sia in piccolo che in grande, e la connessione dei suoi momenti materiali ha, fin nei particolari, carattere di reci­ procità. Se quindi torniamo a guardare nella sua unità ciò che l’esame ha considerato nella separazione, il carattere unita­ rio dello spirito obbiettivo si rivela molto simile a quello dello spirito personale. Si tratta, in grande, della stessa uni­ tà che quest’ultimo presenta in piccolo, cioè nell’indivi­ duazione. Si può dire anzi, inversamente, che il contenuto unitario dello spirito obbiettivo, cresciuto in un lento pro­ cesso storico, ritorna nell’individuo. Infatti, ogni singolo che cresca in quello spirito, lo riceve. Ne abbiamo conferma nell’esperienza pedagogica: i singoli campi spirituali si pos-

XXVI. - LO SPIRITO E LA SUA UNITÀ

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sono benissimo distribuire, per ragioni didattiche, in un corso di studi che articoli la materia con criteri selettivi; ma non è possibile separarli totalmente, né impedire che l’allievo sia introdotto a uno qualunque di essi dalla stessa comunità in cui vive e si muove. Lo spirito obbiettivo è per sua natura espansivo: non v’è artificio che possa impedirgli di penetrare nel processo di formazione individuale. Lo spirito obbiettivo, inteso in questo modo come il prodotto di una determinata « crescita unitaria », è lo spirito in grande. La sua vita, che è pure una vita in grande, è la vita storica. Non si vorrà ora fraintendere questa concezione nel senso di una costruzione metafisica dello spirito. Lo spirito in grande non è uno spirito-sostanza; non è neppure uno spirito fuori o accanto allo spirito umano, ma in tutto e per tutto questo stesso spirito — inteso però nel senso dei fenomeni descritti: come quello che vive nei molti, che si tramanda e viene ripreso, fatto proprio, dominato, trasmesso ad altri e solo cosi sottratto alla limita­ tezza individuale. Con ciò, la ricerca ci riporta al problema della sua ma­ niera d’essere e riprende il cammino iniziale, quello del­ l’adesione descrittiva e del rilevamento dei fenomeni. Ma ciò non sarà più nella separazione dei singoli territori, bensì in una visione complessiva di essi; mentre lo stato di cose già posto in luce nei singoli campi sarà in seguito costantemente presupposto.

2. Unità obbiettiva nella molteplicità soggettiva

Accanto al primo carattere fondamentale dello spirito obbiettivo — tradizione e ripresa — ne emergono di nuovi, finora soltanto accennati. Un altro tratto rilevabile nella maniera d’essere di ogni spirito comune esistente, è l’unità. Questa maniera d’essere è di una peculiarità e di una enig­ maticità senza paragone. Se l’unità dello spirito obbiettivo

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PARTE Π. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

si riducesse a quella del singolo spirito personale, se cioè la totalità obbiettiva fosse pienamente rappresentata in co­ loro che di volta in volta se ne fanno portatori, non sorge­ rebbe su questo punto alcuna diffcoltà. Ma non è cosi. Il contenuto dello spirito obbiettivo non si esaurisce in al­ cuno dei propri rappresentanti e nessuna coscienza umana può accoglierlo nella sua totalità. Tuttavia, tale totalità esi­ ste ed è saputa, sentita e rispettata come esistente. Questa affermazione rivela tutto il proprio senso, se consideriamo questo spirito che si tramanda, nel suo con­ tenuto. Abbiamo visto che esso costituisce in ogni campo una concreta totalità, nella quale tutto si appartiene in­ scindibilmente. La stessa cosa vale per l’unità complessiva di questi campi. È un’unità concresciuta i cui membri non possono essere separatamente per sé. Se qualcuno ne man­ casse, resterebbe frammentaria e quindi non sussisterebbe veramente come unità. Ora, quanto al contenuto, lo spirito obbiettivo è sempre diviso tra i suoi rappresentanti, in nes­ suno dei quali è totalmente ciò che è. Solo una collettività di contemporanei può accoglierlo tutto insieme. Senonché, è il caso di dire che l’insieme si frantuma qui nella plura­ lità degli individui: in tale separazione sembra dissolversi il suo carattere unitario. Se lo spirito obbiettivo avesse la forma di una somma di individui e fosse a sua volta un collettivo, bisognerebbe accontentarsi di tale separazione perché, di un’unità o di una totalità esistente, non si potrebbe neppure parlare. Ma, come s’è visto, non è un collettivo e la sua forma d’essere non è quella di una somma di individui. Bisogna aver sempre chiaro davanti agli occhi questo aspetto del fenomeno. E cioè che, da un lato, il sapere di un’epoca non è fatto di individui ma di intuizioni e giudizi; il diritto non è fatto di persone ma di precetti valevoli; la lingua non è fatta di uomini parlanti ma di parole e locuzioni e cosi via analogamente, in tutti gli altri campi. Mentre, d’altro lato, se lo spirito obbiettivo vien trasmesso, ripreso, fatto proprio da sempre nuovi individui e collettivi, il

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341

senso della tradizione non si riferisce alla somma degli in­ dividui, non la persona o il collettivo delle persone è og­ getto di tradizione e ripresa, ma il patrimonio spirituale che esse hanno in comune. Inoltre, ci si può appropriare una varietà di contenuti già formati, mai una varietà di uomini. Ed anche questo vale, evidentemente, per tutti i territori dello spirito. Se, dunque, lo spirito obbiettivo è qualcosa di radi­ calmente diverso dal collettivo degli individui, la sua spe­ cifica unità e totalità non verrà certo intaccata dal fatto che la sua concentrazione in un collettivo si presenti, piut­ tosto, come una separazione. Infatti, questa dubbia concen­ trazione non è la vera forma e la vera maniera d’essere della sua unità. La sua totalità è di tutt’altro tipo: è totalità di contenuto. Ciò significa che tale unità potrà essere còlta e descritta soltanto nel suo contenuto. Essa non si contrappone, né alla pluralità, né alla comunanza degli individui, ma è por­ tata da ambedue. In quanto portata, appartiene però a un ulteriore livello dell’essere ed ha una maniera di essere essen­ zialmente diversa, che, a differenza dell’individuo e del col­ lettivo, solo negativamente è possibile delineate. Le maniere d’essere sono infatti qualcosa di ultimo e non ulteriormen­ te analizzabile. Non si possono definire, ma solo mettere in luce nei fenomeni stessi. Una definizione, in questo sen­ so, può solo guidare l’intuizione verso ciò che essa dovrà co­ gliere, e cioè il fenomeno. Ma il fenomeno è questo: che lo spirito obbiettivo, nonostante l’apparente separazione, è in­ vece in tutti i campi unità di contenuto e l’individuo che vi cresce lo intende e lo sente come un’unità, sebbene sia ben lungi dal poterlo accogliere e rappresentare totalmente nei termini angusti della propria coscienza.

24.

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3. L’unità

PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

della scienza e la sua maniera d’essere

Come lo spirito obbiettivo non si risolve nello spirito personale, cosi s’è visto che neppure l’individuo, con le sue caratteristiche proprie, si dissolve nello spirito obbiettivo. La personalità possiede sempre dei tratti particolari che spiccano sullo sfondo spirituale comune, pur restando entro i limiti di variabilità possibile che esso le pone. Un aspetto essenziale del rapporto di reciprocità tra personalità e spi­ rito comune è che essi non si risolvono mai l’uno nel­ l’altra, ma si oltrepassano a vicenda da opposti lati. L’in­ dividualità spirituale-personale, infatti, è qualcosa che il singolo non spartisce con nessun altro, mentre lo spirito comune è ciò che collega gli individui, senza però pro­ priamente obbligarli. L’esempio più noto di questo tipico rapporto ci è of­ ferto dalla conoscenza scientifica. Si ricordi quanto è stato detto (al cap. XXI 1) circa lo « stato della scienza ». Tale « stato » è l’insieme di tutto il sapere accumulato da lungo tempo ed ora disponibile per tutti, ma che non si trova tutto insieme nella testa di nessun singolo. Ciò sarà stato possibile, forse, agli inizi della scienza, ma in uno stadio più avanzato è impossibile e, di fatto, non accade mai. Solo lo scienziato dilettante può cadere in una simile illu­ sione, perché in realtà è un individuo che non è cresciuto in questa sfera, o vi è cresciuto solo superficialmente. L’au­ todidatta arriva subito in fondo, perché trascura lo stato dei problemi. L’esperto e, più ancora, il ricercatore attivo che nell’ambito delle proprie competenze potrebbero aspet­ tarsi di possedere intieramente la scienza corrispondente, sanno meglio di tutti quanto ne siano lontani. La possi­ bilità di concentrare intieramente anche una sola scienza nella testa di un singolo è un’immagine fantastica da sprov­ veduti. Se però se ne volesse concludere che tale totalità non esiste, si andrebbe completamente fuori strada. C’è invece, in ogni tempo e in ogni scienza, una totalità dei risultati

XXVI. - LO SPIRITO E LA SUA UNITÀ

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acquisiti, uno stato in sé organico dei problemi il quale, per ciascuno di essi, pone ben precisi confini tra sapere e non sapere. Ma questo stato di cose dovrebbe appunto in­ segnare a tutti che la maniera d’essere delle totalità spirituali non è soltanto quella di concentrarsi nella testa di un indi­ viduo. D’altra parte, lo « stato della scienza », in particolare quello di una singola scienza, è tutt’altro che una sem­ plice astrazione, o un puro profilo ideale che non si trove­ rebbe realizzato in alcun luogo. È invece reale, senza possi­ bilità di dubbio, nella collaborazione degli scienziati e dei ricercatori di una data epoca. È anzi, un tutto vitale e progressivo che si sviluppa in un suo modo peculiare; e ogni singolo uomo di scienza, pur non potendolo materialmente « possedere » è però immediatamente cosciente della sua esi­ stenza, si che ad ogni passo è costretto ad orientarsi in esso e ad appoggiarvisi. Cosi com’è, lo stato del suo problema non dipende da lui; egli può solo farlo avanzare col proprio lavoro, ma, a tale scopo, deve intanto riprendere il pro­ blema nello stato in cui lo trova. Che lo stato della scienza sia reale nella collaborazione di molti intelletti, non ha il senso di una separazione, ma è una forma di unificazione, anche se questi intelletti — come nella scienza contemporanea — sono sparsi qua e là per il mondo. Non si tratta certo di un’unità spaziale, ma nep­ pure di un’unità di coscienza. È una concentrazione di tutt’altro genere, un’unità comprensiva le cui dimensioni sono soltanto quelle del contenuto scientifico. Per quanto varie e divergenti possano essere le funzioni di ciascuno in questa divisione del lavoro, esse convergono però tutte naturalmente in un contenuto unitario. Non possiamo raf­ figurarci questa interdipendenza dinamica di tutti i lavori di ricerca come una somma: è un’organizzazione del pro­ gresso conoscitivo, fondata sullo stato dei problemi (a loro volta interdipendenti), e regolantesi secondo il movimento complesso di quelli; in essa, il singolo è impegnato costantemente come un portatore che, insieme, è portato dal tutto.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

Proprio in questo progresso unitario, si fa luce l’unità di quello che, di volta in volta, è lo stato effettivo del sapere. Da questo punto di vista, che le file della ricerca specia­ listica possano procedere anche per lunghi tratti parallelamente, senza interferire e perdendosi reciprocamente di vista, non cambia nulla. La tendenza verso una totalità è purtuttavia presente e, a breve o lunga scadenza, riemerge. Abbiamo cosi circoscritto la maniera d’essere della scien­ za. È invece impossibile determinarla ulteriormente, e cioè, in senso positivo: le maniere d’essere non sono definibili, ma si possono soltanto descrivere. Questo vale anche per la maniera d’essere del processo vitale dell’organismo, un pro­ cesso che risulta da infiniti processi particolari eterogenei: solo questi ultimi sono alla portata dei fisiologi. Il tutto, invece, appare soltanto nel fenomeno complessivo, viene accettato come pura ovvietà, epperò resta del tutto incom­ preso e, per il nostro intelletto, profondamente enigmatico. Ma chi oserebbe perciò mettere in dubbio l’esistenza di questa totalità? L’enigma in quanto tale c’è, e sta li in piena luce! Non meno data e non meno ovviamente accettata, an­ che l’unità e la totalità della scienza esiste in ciascuna epoca. Esiste e la si avverte. Sia il contemporaneo, che lo storico nel suo rivolgersi al passato, la sentono come qualcosa di unitario e totale. Chi ne è avvolto e condi­ zionato vive e ricerca in essa come in una sfera che sa totale, pur non potendola dominare con lo sguardo. I po­ steri però, in forza della loro posizione distaccata e in base a un diverso stato del loro sapere, possono ormai considerarla come un modo di vedere e di pensare invecchiato, ma uni­ tario e oggettualmente afferrabile, e, quando e comunque la incontrino sulla loro strada, ne riconoscono facilmente le tracce.

XXVI. - LO SPIRITO E LA SUA UNITÀ

4. L’unità

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di lingua, gusto, arte, morale

Non in tutti i campi questo rapporto è evidente come in quello scientifico. Il rapporto è però sempre lo stesso, e solo le diverse strutture di contenuto possono lasciar credere che la situazione sia diversa. Si potrebbe credere che, in una comunità linguistica, ogni singolo possieda la lingua in modo completo. Questo comincia subito a non esser vero per quanto riguarda il lessico, per diventare senz’altro illusorio rispetto alla varietà delle possibilità espressive ed al dominio di esse per mezzo della viva « locuzione ». Il linguaggio del poeta possiede una ricchezza di forme non paragonabile a quella di alcun altro. Ma neanche le forme del linguaggio poetico possono essere esaurite dal singolo poeta. Una lingua può sempre offrire soluzioni nuove se un’iniziativa espressiva la mette in movimento. Ciò nonostante resta una sola lingua ed è sentita come una totalità unitaria. Questo sentimento ha la sua conferma nell’immediata comprensione che accomuna nella contemporaneità chi parla la stessa lingua. Analogamente per Io stile di vita, il gusto artistico, il sentimento morale. Il giudizio di gusto non differisce soltanto da uomo a uomo, e molta parte di ciò che si rivolge al gusto artistico resta irraggiungibile per molte persone. Tuttavia, vi è in ogni epoca un orientamento uni­ tario del gusto, ben determinato e caratterizzato fin nelle più sottili sfumature. Non meno articolata è la sensibilità per lo stile di vita, per il decoro, il costume, la convenienza, le buone maniere, e il singolo viene plasmato corrisponden­ temente da tutto ciò che piace o tacitamente è preteso. In ogni epoca vi sono uomini per i quali tutto questo è solo una vernice superficiale che non li trasforma intima­ mente e, accanto ad essi, altri uomini che hanno realmente uno stile e sanno vivere con stile. Si tratta tuttavia, nei due casi, sempre della stessa plasmazione: ciò che varia è soltanto il grado della partecipazione e della crescita entro la corrispondente sfera obbiettiva. Tale unità di plasmazione

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

è inconfondibile anche nelle sue manifestazioni più este­ riori e frammentarie. Nel sentimento morale poi, questa divergenza raggiunge la massima ampiezza. Di solito, chi è privo di coscienza, eticamente sordo o indifferente, è anche per molti rispetti cieco ai valori. Il suo ethos è molto più ristretto di quello comune al suo tempo. Ma anche chi possiede una sensibili­ tà morale molto sviluppata pecca di unilateralità. Neppure in lui si concentra tutto l’ethos del tempo. Tale ethos, può essere comune solo in quanto permette ogni sorta di differenze e di graduazioni individuali, e tuttavia, nella vita comune degli uomini, si raccoglie in unità ed è sentito come un tutto. Come unità in sé tesa e conclusa, appare anche allo sguardo retrospettivo dello storico, ed è chiara­ mente riconoscibile in ogni traccia che la vita dei singoli si lascia alle spalle. Ma anche qui, l’ethos non si concentra nella singola persona: la sua maniera d’essere è quella dello spirito obbiettivo.

5. Unità

spirituale della vita sociale

In maniera ancora diversa questo rapporto si esprime nella vita sociale, giuridica, statuale e politica. La parteci­ pazione media del singolo a queste sfere di vita comune è molto limitata, se non scarsa. Ciò che ne viene a sapere, ciò che ne vive in prima persona, ciò che ne comprende e può giudicarne è assai poco. Forse ancora minori sono le sue capacità di partecipazione diretta e attiva e la sua capacità di cosciente corresponsabilità civile. Eppure, proprio in questo campo la partecipazione attiva del singolo è parte integrante ed essenziale nella vita del tutto. Del resto questa limitatezza dei singoli e frantumazio­ ne del tutto in essi è, di fatto, molto più profonda di quanto non sembri a prima vista. Anche chi per mestiere o vocazione partecipa attivamente alla vita pubblica e dovrebbe più di ogni altro possedere una visione del

XXVI. - LO SPIRITO E LA SUA UNITÀ

347

tutto, in realtà non la possiede. Il funzionario o l’impiegato la possiedono nell’ambito delle loro competenze, ma fuori di esso non sanno nulla; chi ha responsabilità direttiva deve affidarsi alle singole competenze, deve cioè limitarsi a una visione sommaria. Già i soli campi della politica finanziaria, economica o estera, richiedono ciascuno un’avanzata divisione del lavoro per poter essere controllati: chi occupa il posto più elevato non può mai farsi direttamente un’idea concreta dei particolari. Il quadro complessivo in base al quale egli deve comprendere e dirige­ re l’organismo dello stato è, in tutti i sensi, un’abbreviazio­ ne e un riassunto. Anche questa è una necessità, altrimen­ ti non si avrebbe affatto un quadro d’insieme; d’altra parte, poiché i fattori d’equilibrio di uno stato dipendono, in tutti i campi, dai fatti singoli, egli potrebbe non vedere l’origine degli squilibri in tempo per appianarli sul nascere. Neppure la vita politica effettiva si concentra tutta nella sapienza e nella sensibilità dell’uomo di stato che la dirige; anche se ha la fortuna di fare centro in quei parti­ colari che, per il momento, sono i più urgenti. In questo caso, come sempre, nello spirito personale è rappresentata solo parzialmente la vita dello spirito obbiettivo. Tuttavia, la totalità unitaria dello spirito obbiettivo è qui più palpabile che altrove. Non è tutta in alcuno spiri­ to soggettivo ma si totalizza interessando tutti come si­ tuazione complessiva e tendenza generale. Esiste storica­ mente e vive la sua vita nella comunità dei contempo­ ranei; della quale rappresenta cosi intimamente il comu­ ne destino, da trascinarli tutti con sé e diventare l’espli­ cito destino di tutti. Del resto, tutti i grandi movimen­ ti storici sono qualcosa di comune, che agisce come tale nella vita privata dei singoli. Il singolo può benissimo aver coscienza del proprio essere-trascinato; che è sempre anche coscienza di sé e del proprio destino. Nella misura della sua maturità civile, ciò equivale alla coscienza del­ la propria corresponsabilità.

Capitolo XXVII

MUOVERE E VENIR MOSSO

1. Fare,

agire ed esser-sospinto

Esaminando lo spirito obbiettivo nei suoi singoli territori (capp. XX-XXII), avevamo parlato dell’iniziativa operante dell’individuo che lo mette in movimento. In­ fatti, dato che il suo movimento complessivo non ha mai sosta, mentre la forza che lo produce si compone di in­ numerevoli spinte che provengono dalle iniziative indi­ viduali, si potrebbe pensare che qui il principio motore non sia altri che l’individuo, e che la sua iniziativa, cre­ sciuta a grandi proporzioni, possa prescrivere al processo storico dello spirito, le sue mete. Ora, i limiti di questa forza motrice sono dovuti al fatto che lo spirito obbiettivo non si esaurisce mai nell’individuo. Se tutto lo spirito di un’epoca potesse incarnarsi, sia pure relativamente a un singolo territorio particolare, in quello dell’individuo, sarebbe certo pensabile che questi lo muovesse, non solo attivamente, ma anche secondo fini precisi. Se però come abbiamo mostrato, lo spirito complessivo è solo parzialmente presente in lui, l’individuo non può mai sapere con certezza quando e con che mezzi egli lo muova. La situazione è sostanzialmente sempre questa: egli crede di muovere e viene mosso; e viceversa: egli muove effettivamente, e non sa di muovere. Ad aggravare straordinariamente questa situazione si aggiunge il fatto che il singolo non sa di recare in sé le forme stesse dello spirito obbiettivo — anche perché,

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

effettivamente, le reca in sé. Per lui, è molto più facile sape­ re come e quando se ne discosta. Ciò che è comune, infatti, è ovvio e non si nota. Questo rapporto è chiarissimo in sede morale. Qui il singolo agisce immediatamente attraverso il suo com­ portamento; un comportamento che sembra plausibile e non sembra, che ferisce ed obbliga, che costruisce e abbatte; ma il singolo raramente sa come tutto ciò accada. Non sempre è il bene a far del bene, né il male a far del male. Il cattivo esempio può essere più istruttivo del buon esempio. Quanto all’esempio, per lo più non si sa come darlo — vuoi per mancanza di finezza e di sensibilità rispetto ai propri errori, vuoi per non voler giudicare tanto importante la propria ingiustizia, o perché la si ritiene compensata da ben altro. È umano esser ciechi per la propria debolezza. Altret­ tanto umano è non considerare la piccola increspatura del­ la giustizia o deU’ingiustizia privata, come un’ondata capace di muovere il mondo. Ancor più trascurabile appare la que­ stione in che misura, nel valutare gli altri, si renda loro o non si renda giustizia. Si dimentica che noi singoli non siamo semplicemente i singoli; che abbiamo in comune certe uni­ formità morali; che i figli di una stessa epoca tendono ad er­ rare nella stessa direzione, che dietro tutte le iniziative per­ sonali c’è già l’ethos comune con la sua impostazione di fon­ do e le sue storiche unilateralità. Le lacune di un singolo si sommano con quelle di molti altri; in questo modo, ciò che era piccolo e privato diventa alfine una grande ondata che, certo, può muovere molte cose. Proprio questo essere figli del proprio tempo è l’es­ sere dello spirito obbiettivo in noi. È un errore credere che, in noi, lo spirito morale del tempo sia solo ciò che è buono, grande ed eroico. Anche la nostra piccolezza, la nostra debolezza e viltà gli appartengono essenzialmente — al­ meno nella misura in cui non siano soltanto una carat­ teristica personale, ma una « comune » e prevalente tipicità essenziale di coloro coi quali viviamo. Anche lo spirito ob-

XXVII. - MUOVERE E VENIR MOSSO

351

biettivo ha i suoi punti di forza e di debolezza. E tutti e due appartengono a noi, in quanto siamo portatori del suo orientamento globale.

2. Il movimento

spirituale nella vicenda delle ge­

nerazioni

Il singolo, con la sua iniziativa, è dunque già immer­ so nel moto o nella corrente dello spirito obbiettivo che in lui si libera. Che qui sia in atto una legge importante, per quanto difficile ad esprimersi con una formula, si vede chiaramen­ te esaminando il noto fenomeno per cui la morale varia da una generazione all’altra. La generazione che si sta for­ mando — sebbene imprigionata nei modi di vedere tradi­ zionali — mostra sempre anche una certa opposizione nei confronti della precedente. Ciò non dipende soltanto da giovanile animosità o da immaturità. Anzi, con la matu­ rità si accentua anche l’opposizione — ad onta di ogni condizionamento, autorità, influenza o costruzione; ad onta della stessa venerazione infantile e di quella comprensio­ ne per gli anziani che, con la maturità, è destinata a cresce­ re. Tale opposizione può essere di varia intensità, dal­ l’imperiosità rivoluzionaria, a sfumature quasi insensibili. Ma la situazione di base resta invariata: la gioventù cre­ sce sempre con una duplice tendenza: vogliono diventare come i vecchi ma, insieme, non proprio come loro. Cre­ scendo sotto la loro tutela ne hanno conosciuto le qua­ lità e i difetti, e molto prima di poterne giudicare ob­ biettivamente, il loro cuore era stato conquistato da quel­ le, disgustato da questi. Il disgusto è la molla verso il nuovo. Nessun atteg­ giamento morale potrebbe mantenersi nella pura negati­ vità. Sotto il rifiuto si muove una nuova tendenza, profonda­ mente sconosciuta, ma intimamente necessaria, inarrestabile;

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

la quale cerca a tentoni di farsi strada finché, nell’età adulta, raggiunge la dimensione della coscienza e dell’obbiettività. L’impulso che genera questo movimento non proviene tut­ tavia soltanto dall’energia che sospinge la giovane genera­ zione, ma anche essenzialmente dalle debolezze della vec­ chia — che è divenuta quale è, per essersi fatta largo a suo tempo secondo una propria tendenza determinata e altret­ tanto unilaterale. In questo contrasto, il singolo raramente sa quali siano le proprie debolezze, e solo tardi le riconoscerà, se pure ci arriverà mai. Quando infine — forse nell’incomprensione dei suoi figli — se ne renderà conto davvero, esse avranno già lungamente agito e compiuto la loro opera di fecondazio­ ne negativa. Esse hanno mosso e non sapevano di muovere. E cosi molte altre cose che lo stesso uomo, nella coscienza orgogliosa del proprio fare, ha posto in essere, in verità erano soltanto l’espressione del suo correre-insieme, entro le file.

3. Il

motore inconscio e il suo fattore antagonista,

NELLO SPIRITO DEL TEMPO

Secondo gradazioni variabili, la stessa cosa accade in tutti i campi dello spirito. Il politico che occupa un posto di responsabilità, con una dichiarazione avventata può sca­ tenare una reazione ricca di conseguenze, mentre l’obbiettivo che si propone di raggiungere può, una volta raggiunto, sfu­ mare nel nulla. Tutto dipende, infatti, da quale tendenza, stato d’animo, pubblica suscettibilità, esistenti o sul nascere, egli vada a colpire con le sue parole o con le sue azioni. Allo studioso può capitare di giungere, dopo anni di appassionato lavoro, a risultati che né lui, né i suoi con­ temporanei sono in grado di utilizzare o di apprezzare — la­ voro a lunga scadenza di cui forse nessuno sente il bisogno. E può accadere che un risultato collaterale, apparentemente

XXVII. - MUOVERE E VENIR MOSSO

353

insignificante possa invece gettare una luce insperata su problemi rimasti per lungo tempo irrisolti. Cosi sono state fatte alcune grandi scoperte. Giacché l’importanza, il senso e il successo di una scoperta, dipendono dallo stadio di sviluppo che il problema ha raggiunto nel sapere dei contemporanei. Chi conversando o discutendo esprime un’originale espe­ rienza interiore, conia senza volerlo un’espressione felice che viene ripetuta e si diffonde; ma non è necessario che egli sia consapevole di esser stato creativo e forse non è neppure in grado di riconoscere la propria invenzione, quan­ do gli torna indietro per bocca di un altro. Se invece, come spesso accade, la stessa persona lima consapevolmente l’e­ spressione e dà fuori una bella sentenza, questa, appena pronunciata, è già dimenticata. Il fattore determinante per la fortuna delle parole non è questo e non è in suo potere, ma, poiché in molti uomini molte cose cercano costantemente un’espressione, quella che lo soddisfa fa furore. Lo stesso dicasi del gesto e della posa, dello stile di comportamento, del modo di mostrarsi e non mostrarsi, fino ai trucchi del vestire e della moda. Lo stile di vita, e il gusto sul quale esso si fonda, si prestano ai più sottili interventi da parte del singolo; il quale non potrà mai prevedere se 1’« impulso » da lui dato avrà un effetto stimolante o di ri­ pulsa. Ogni impulso proviene certo dall’individuo; ma non è l’individuo a decidere se il suo intervento metterà in mo­ vimento qualche cosa oppure no.

4. L’artista

e il suo pubblico

Perfino nell’arte vige la legge, tipica dello spirito co­ mune, del fattore antagonista. Qui più che mai (cosi si vor­ rebbe credere), la creatività individuale è autonoma. Ora, questo è indiscutibile fin che si tratta della produzione arti­ stica in se stessa, astrazion fatta dalla contemporaneità e dal

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

pubblico — cioè: fin che non si tratta del movimento stesso dell’arte o del gusto contemporaneo come modo di vedere, di udire, di intendere. Ma, per l’appunto, quando mai si parla di una pura produzione individuale? Solo in astratto. Come non esiste un individuo isolato, cosi non esiste un suo fare isolato. Il suo fare proviene sempre da un determinato livello di sensibilità artistica comune uscita dalla scuola del proprio passato; e in tale sensibilità ritorna — per agire in essa o per reagirvi. Nel suo fare, l’artista può anche colpire o mancare il bersaglio, e non solo nel senso della riuscita o del falli­ mento di un’opera, ma anche nel senso che essa può incon­ trare o non incontrare, che può aprirsi una strada negli animi della gente o attendere invano davanti a una porta chiusa. Ogni opera si rivolge a chi la guarda. Per essenza, l’opera fatta è ciò che è, solo per coloro che la guardano nel modo giusto. L’artista, senza il suo pubblico, non è che un solitario; maestro di visione egli diventa solo se è capace di aprire gli occhi a un mondo di contemporanei. Lo spirito obbiettivo può muoverlo solo chi, con ciò che mostra, ha la forza di muovere chi guarda. Patrimonio comune dello spirito del tempo diventa, anche nell’arte, solo ciò che si afferma e « fa furore ». Il geniale autore diventa un capo e viene, anche esteriormente, coronato dal successo. Ma che cosa fa si che, con la sua opera, egli possa « sfondare »? Non la sua sola capacità di intuizione e di creazione: lo dimostra la quantità delle opere a suo tempo incomprese, poi « scoperte » dai posteri e di­ venute bandiera di uno spirito più tardo. La decisione spetta all’altro fattore, il quale è sempre presente in ogni spirito obbiettivo, nella sua ricettività, nella sua capacità di reimparare, nella sua perseveranza e autonomia di movi­ menti. Qui entrano in gioco molti elementi di casualità, di mistificazione e di cattiva orientazione, dovuti a giudici apparentemente autorevoli che vengono ascoltati perché sono i primi a prendere pubblicamente la parola; si pensi alla cri­ tica professionale, agli « slogans » rapidamente coniati; si ag­

XXVII. - MUOVERE E VENIR MOSSO

355

giunga la caccia all’inusitato e al sensazionale, e la scomparsa dell’effettivamente nuovo e grande nella massa di ciò che sod­ disfa un gusto basso e volgare. Rimane tuttavia ancora qual­ cosa, che si può chiamare il destino di un’opera nello spi­ rito del suo tempo. Anzi, la stessa falsificazione del pubbli­ co giudizio fa parte di questo destino. Perché lo spirito arti­ stico di un’epoca, se è tale da lasciarsi falsificare, è sventura a se stesso, come all’autore e alla sua opera.

5. Spontaneità

personale e situazione generale dello

spirito

Dovunque si guardi, in ogni territorio dello spirito, ciò che muove tutto è la forza dei singoli che, sommando­ si in un effetto complessivo, sfocia nel movimento sto­ rico dello spirito obbiettivo. Tuttavia, essa non è mai affi­ data alla pura e semplice spontaneità individuale. Dietro l’agire individuale — sia esso spontaneo o involontario — la via è già indicata e condeterminata dal­ la tendenza generale in cui quell’agire è cresciuto, e da cui emerge come iniziativa particolare e personale. E an­ cora, a questo agire si sovrappone dall’esterno un secondo fattore determinante e selettivo, e cioè che i contemporanei recano in sé le stimmate dello spirito comune. Possiamo in­ dicare questo fattore come la situazione spirituale generale in cui l’intervento individuale si inserisce. E, secondo le con­ dizioni che trova, — secondo il prevalere di questa o quella tendenza; secondo la sua maggiore o minore saturazione — il nuovo si afferma o non si afferma, produce un movimento o cade nel vuoto. Perché sempre lo spirito del tempo procede cercando a tentoni davanti a sé ciò che può avvenire; sempre ten­ de a trasformarsi, ha bisogno di progredire, e vive nel­ l’aspettazione del nuovo. Ma tale aspettazione, bisogno o ricerca, è anche sempre rivolta in una precisa dire­

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

zione. Una direzione che agisce selettivamente rispetto a tutto ciò che lo spirito del tempo è in grado di accogliere. Quanto allo spirito del tempo, esso è ricettivo per tutto ciò che, di fatto — anche quando giunga improvviso — si tro­ va nella direzione del suo cercare, mentre tende a respin­ gere tutto il resto. Per l’artista e per la sua opera, lo spirito del tempo è un destino, come lo è per ogni scono­ sciuto figlio del proprio tempo che segua unicamente il proprio sentimento, ignorando di imboccare vie nuove. Può anche darsi che, col tempo, ciò che è veramente grande e degno finisca necessariamente col trionfare. Ma sarebbe temerario ottimismo, credere che tutto ciò che vale debba per forza affermarsi. Vi sono grandi profe­ tiche intuizioni che nel loro tempo restano incomprese e derise; che vengano riscoperte dopo secoli e storicamente festeggiate, non cambia nulla a quello che è stato il lo­ ro destino. Ormai, esse appartengono a un’altra vita spirituale, per la quale non hanno lo stesso significato che avrebbero potuto avere nella propria. Lo spirito obbiettivo cui esse erano rivolte è morto e appartiene al passato: esse non gli hanno impresso alcun movimen­ to e il passato è ormai chiuso nella sua immobilità. Se riescono a mettere in movimento lo spirito nuovo che le raccoglie, l’effetto non è più lo stesso.

Capitolo XXVIII LA POTENZA DELLO SPIRITO OBBIETTIVO NELLA VITA DELL’INDIVIDUO

1. Resistenza

dello spirito del tempo e impotenza

DEL SINGOLO

Le ultime considerazioni lasciano già intuire chiaramente quanta parte abbia lo spirito obbiettivo nella vita dell’in­ dividuo; come non solo lo porti, lo indirizzi, lo guidi fin dai primi passi, lo formi e lo tragga nel suo flus­ so, ma anche prepari una specie di destino alla sua ini­ ziativa personale, là dove essa autonomamente si mani­ festa. In quest’ultimo senso, lo spirito obbiettivo potrebbe essere considerato semplicemente come una controistanza dell’attività personale e, dato che questa non mira all’indi­ viduo ma, appunto, allo spirito comune, esso non do­ vrebbe necessariamente opporsi all’iniziativa individuale. Ma le cose cambiano non appena l’individuo intraprende qualcosa « contro » il vivente spirito comune. Allora egli incontra una resistenza, anzi, vere e proprie opere di difesa. Una difesa molto superiore alla forze dell’indi­ viduo, una potenza di un altro ordine di grandezza. Sia che lo perseguiti direttamente, sia che si limiti ad un rifiuto pas­ sivo, essa resta in ogni caso una potenza superiore contro la quale è inutile lottare. Se ha questa potenza « contro di sé », il singolo è impo­ tente: può agire ed affermarsi soltanto se l’ha « dalla sua »; che è quanto dire: se essa stessa accoglie la 25.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

sua causa e la fa propria. Ma questo, a sua volta, accade sol­ tanto se nello spirito obbiettivo è già realmente presente una tendenza favorevole, un moto di ricerca e di lotta o anche solo un bisogno corrispondente. Dato però che la mobilità del singolo è superiore a quella dello spirito obbiettivo, è più corretto esprimere questo rapporto, inversamente, come segue: la causa del singolo ha « dalla sua » lo spirito obbiettivo, se va incontro a una tendenza attuale o potenziale di quest’ultimo. In piccolo, la cosa è già visibile a proposito dello stile di vita. Chi suscita scandalo, viola il costume o le convenienze, rompe un’abitudine invalsa, ha contro di sé l’opinione dei più. È la persona che i più cercano di evitare e che, nel caso di rapporti sociali sufficientemente esclusivi, viene senz’altro messa al bando. Qui, a difendersi, non sono soltanto gli uomini, gli altri, gli individui come lui. Sono loro, certo; però non è la loro individualità a difen­ dersi, ma l’elemento comune in essi dominante. Quando solo alcuni si mettono sulla difensiva, mentre altri approvano, non sorge una vera resistenza; o, quanto meno, non ta­ le da superare essenzialmente l’ordine di grandezza dell’agire individuale. Solo quando tutti assumono lo stesso atteg­ giamento, si levano come « un sol uomo » e, quasi serrando le file, formano una barriera nella quale il singolo non può far breccia, allora abbiamo la caratteristica opposizione di ti­ po superiore. Una tale opposizione quindi, si fonda già sull’interiore uniformità dei molti. È una funzione tipica dello spirito obbiettivo nella quale, se cosi si può dire, il singolo che in un modo o nell’altro dà scandalo, spe­ rimenta la potenza dello spirito obbiettivo come cosa concre­ ta e palpabile. Ciò dissolve ogni possibile dubbio circa la durezza della sua effettiva esistenza. Che, in tal modo, il sin­ golo riconosca anche l’essenza e il valore dello spirito obbiet­ tivo, è un’altra questione. In ogni caso, però, fa esperienza drastica della compattezza di una forma spirituale esistente quando, nei molti che l’hanno in comune, difende se stessa.

XXVIII. - SPIRITO OBBIETTIVO E INDIVIDUO

359

La sua sconfitta non è altro che il fatto del suo isolamento. E questo isolamento è appunto la sua impotenza.

2. Delitto

e castigo.

Diritto

e potere

Questo stesso fenomeno — ma molto più grave e serio, in quanto tocca i fondamenti stessi dell’ordine sociale — lo ritroviamo nel campo giuridico. Qui, lo spirito comune vivente si crea anche un’organizzazione visibile, con la quale si difende da qualunque iniziativa individuale gli attraversi la strada. Questa organizzazione, che è dotata anche esterior­ mente del potere di resistere agli attacchi individuali, si ma­ nifesta concretamente nell’istituzione di quell’istanza che ha il compito di amministrare la giustizia. In questo caso, il violatore dell’ordine esistente è senz’altro un trasgressore del diritto, perché l’ordine che infrange è appunto quello imposto dalla legge. Nel giudizio che viene pronun­ ciato ed eseguito nei suoi confronti, egli sperimenta al­ lora la resistenza del diritto vigente. Che si tratti di una semplice infrazione o di un delitto, di una sentenza di diritto civile o di una pena inflitta ed eseguita con la forza, non cambia questo stato di cose. Ciò che emerge chiaramente è proprio la potenza dello spirito obbiettivo, che qui diventa un’istitu­ zione dotata di una precisa competenza. Per il diritto po­ sitivo vigente, questa è tutt’altro che un’esteriorità: un diritto privo di forza non è diritto valido. Ed è proprio all’individuo e alla sua privata iniziativa che esso si oppone, grazie a una forza che, d’altra parte, nei limiti della sua libertà giuridica gli permette anche di proteggerlo con­ tro la privata iniziativa altrui. Se però ci chiediamo cosa propriamente sia questo pote­ re, d’onde provenga, chi in ultima analisi ne sia il por­ tatore, non possiamo rispondere rifacendoci un’altra vol­ ta a un « diritto valido » sul quale esso riposerebbe. Perché

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

la validità del diritto presuppone appunto il potere. Né ha senso spostare ulteriormente la questione col risalire alla costituzione politica, a un determinato decorso storico o alle circostanze che danno il potere in mano a un determi­ nato gruppo. In nessuno dei modi suddetti si va al nòccio­ lo della questione. Poiché ogni potere esistente è portato dal­ la comunità nella quale e sulla quale si esercita, la questione è interna e di principio.

3. Delega

del potere.

Ordinamenti

e interiore va­

lidità

Un potere che non riposi su un diritto è illegittimo; un diritto che non poggi su un potere è privo di forza e di ogni validità. E tuttavia, che il potere debba fondarsi sul diritto e questo, a sua volta, sul potere, è un evidente circulus vitìosus. Bisogna fare un passo avanti e chiedersi dove, sia l’uno che l’altro, affondino le loro radici. Ora, il detentore del po­ tere non si fonda su se stesso ma sulla comunità. Non come individuo ha un potere, ma soltanto come rappresentante della volontà comune. Si tratta di un potere delegato. Se perde questo nesso, il suo gioco è finito. Lo stesso dicasi per quelle magistrature che hanno il compito di applica­ re le leggi. E d’altra parte, il diritto in che cosa consiste? Forse nelle formule, negli statuti? Se l’ordinamento non è più vivo negli uomini e non è più portato dalla loro coscienza e dal lo­ ro sentimento giuridico, non è già più un diritto vali­ do: la sua validità è puramente esteriore, ogni interiore necessità gli viene a mancare. Nella misura in cui un determi­ nato statuto effettivamente « vale » in una comunità umana, esso è portato dalla viva volontà giuridica e non è altro che l’espressione di quella. Ciò non significa che l’individuo ne voglia consapevolmente ogni singola determinazione, ma solo,

XXVIII. - SPIRITO OBBIETTIVO E INDIVIDUO

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che, nel complesso, tutti quanti approvano le leggi esistenti e le riconoscono come proprie. In questo senso, il potere proprio di un diritto vali­ do è soltanto quello che vive nella comune volontà giuridi­ ca. Nella sua radice, esso si identifica con l’esser-in-vigore del diritto nell’uomo stesso o, se si preferisce, con la comune coscienza che l’esterna validità, l’effettiva applica­ zione degli statuti, è espressione di una interiore validi­ tà. Allora il diritto è portato da una volontà giuridica con­ forme, che non è cosa privata e individuale, ma approvazione concorde degli uomini. E proprio questa volontà sostanzial­ mente uniforme è fonte di quel potere che permette al di­ ritto di affermarsi. Quell’interiore uniformità dei singoli che domina un gruppo, un popolo, un’epoca non è altro che lo spirito in essi storicamente vivente. Non importa come vogliamo chiamarla: se uniformità della coscienza, o del sentimen­ to, o della volontà giuridica; sono comunque definizione ine­ satte, perché qui non si tratta propriamente né di « co­ scienza », né di « sentimento », né di « volontà ». Si potreb­ be parlare piuttosto di una comune tendenza. Ciò che conta è soltanto che si tratta dello spirito comune, il quale vive in molti e, in questi molti, diventa un potere; e inoltre, che il singolo può benissimo non sapere nulla di que­ sto potere, salvo sperimentarne l’insuperabile compat­ tezza qualora, nel suo agire, l’abbia contro di sé. Nell’obbiettività storica dello spirito, diritto e po­ tere si congiungono, e, infatti, nella storia effettuale compaiono soltanto uniti. Lo spirito obbiettivo parla in generale nella legge, in particolare nel giudizio dei tri­ bunali. E solo finché questo rapporto si mantiene vivo, sia la legge che il giudizio sono « giusti ». Senza lo spirito vivente in cui si radicano, ambedue fluttuano nel vuo­ to e non si può che considerarli ingiusti. Senza di esso, sono soltanto espressioni di un potere non legittimo o addirittura usurpato, sono espressione, insomma, della pura « forza », e chi vi soggiace si vede fatto oggetto di violenza.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

Allora però, essi finiscono coll’aver contro di sé lo stesso vivente spirito obbiettivo, perché contrastano con la volontà giuridica effettiva la quale, in quanto volontà comune, già tende a scalzarli. Diritto e potere provengono dalla stessa fonte e presuppongono la stessa interiore validi­ tà, lo stesso essere-in-vigore. L’interiore validità del diritto si identifica cosi col potere che esso esercita sugli uomini.

4. Tendenza comune

e volontà individuale

Come non è necessario assumere qui una volontà indi­ viduale cosciente relativa alle singole prescrizioni, tan­ to meno è necessario supporre l’esistenza di qualcosa di speciale come una volante générale accanto o dietro la volontà dei singoli. Una tale supposizione parte da un punto di vista radicalmente errato. Si pensa che ci sia, innan­ zitutto, una volontà privata, la quale avrebbe in ciascuno un contenuto e una direzione diversa. E proprio questo è l’errore. Il singolo cresce fin dal principio dentro un ambien­ te comune, con comuni bisogni, necessità, esigenze. Le quali, però, non sono altro che le sue; e, nella misura della sua intelligenza, l’impostazione stessa della sua volontà viene inevitabimente integrata nella direzione comune. Invece, non c’è nessuna volontà singola che, già nel suo sorgere e prender coscienza, non riveli determinati tratti co­ muni per contenuto e direzione. Parimenti, non c’è sentimen­ to individuale del diritto che non contenga, fin dall’inizio, l’atteggiamento fondamentale comune. Ma ciò che, nell’at­ teggiamento fondamentale, è comune, non è altro che il fe­ nomeno dello spirito obbiettivo. Se il concetto della volonté générale vuol riferirsi unicamente a tale fenomeno, si può mantenerlo senza pericolo; ma ciò è reso difficile dalla storia che grava su questo termine. L’elemento comune contenuto nella tendenza o nell’atteggiamento di fondo, è

XXVIII. - SPIRITO OBBIETTIVO E INDIVIDUO

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comunque un fenomeno rilevabile, anche se bisogna evitare di confonderlo con le interpretazioni che tradizio­ nalmente se ne danno. Il potere della tendenza sta sem­ plicemente nel suo esser comune. Nella sfera del diritto e dello stato non c’è un potere altrettanto originario. La volontà individuale conserva pur tuttavia, nei con­ fronti della tendenza comune, un ampio margine di autono­ mia. Può anche estraniarsene totalmente: in tal caso è iso­ lata e nell’isolamento, impotente. Per questo, non si può interpretare la tendenza comune neppure come « volontà di tutti ». Infatti, anche a prescindere dalla volontà dei sin­ goli, vi sono sempre divergenze tra i gruppi. Sebbene nella divergenza ci sia sempre, da qualche parte, una tendenza sotterranea alla concentrazione o all’equilibrio; e sebbene dall’oscillazione di questi contrastanti poteri scaturisca sem­ pre una risultante che esprime la tendenza prevalente. Lo stesso accade ai singoli o ai gruppi che sono porta­ tori di potere. Entro certi limiti, il potere incarnatosi nei loro rappresentanti può allontanarsi dalla tendenza comune, anzi, può essere usato senz’altro contro di essa. Ma allora, il portatore del potere non può evitare che la tendenza gli si rivolga contro. Alla lunga, egli non saprà resistere in questa situazione. Perché il suo potere è una delega all’esercizio dello stesso. Quello spirito storicamente ob­ biettivo cui egli fa violenza, è l’unica fonte del suo pote­ re; e un potere avulso dalla sua fonte e reso artificiosa­ mente indipendente, è storicamente condannato a morte.

5. Paradossalità del

diritto rivoluzionario

Il potere che si rende indipendente può anche non essere quello di un qualunque detentore di potere, ma, ad esempio, il potere puramente formale di un diritto soprav­ vissuto o di una costituzione politica antiquata. In ogni

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

caso, ha contro di sé quella che è la vera e viva sorgente del potere, non appena cominci a contrastare con la tendenza complessiva dello spirito obbiettivo. Se quest’ultima gli dichiara guerra e cerca di rovesciare tale arroccamento di potere, abbiamo il tipico fenomeno della rivoluzione. Considerato nel contesto delle nostre precedenti consi­ derazioni, questo fenomeno ci permetterà di parlare di un « diritto rivoluzionario ». Perché qui, di fatto, è lo stesso spirito comune vivente che cerca di darsi una nuova forma, corrispondente al proprio stato di progresso effettivo. Ma quanto mai discutibile e difficile a decidersi è che specie di diritto sia quello cui si pone mano in questo modo. Certa­ mente non è un diritto positivo, valido, riconosciuto. Va­ lido è piuttosto il diritto che si vorrebbe soppiantare. Se tuttavia ci si appella a un diritto puramente ideale, le difficoltà aumentano: allora dovrebbe mancargli il potere! L’essenza della situazione rivoluzionaria è invece che, in essa, la forza si oppone alla forza. Si può esprimere questo paradosso con una formula anche più stringente. Il capo rivoluzionario va contro il potere e il diritto esistenti. Se fallisce, ciò che esisteva prima resta in vigore ed egli diventa reo di alto tradimento. Se vince, col nuovo potere acquista validità un diritto nuovo di cui egli diventa latore legittimo. Cos’è che decide, qui? È solo questione di successo o insuccesso e, quindi, in ultima analisi, di circostanze esterne e casuali? Ciò vorrebbe dire ridurre il diritto e il torto a una questione di casualità. Il controsenso resta insolubile finché si tengono separa­ ti il diritto e la forza escludendoli l’uno dall’altra come fattori opposti e indipendenti. Si risolve invece riconoscen­ done l’origine comune nella tendenza di fondo dello spi­ rito comune vivente. Certo, in ogni repentino muta­ mento politico ha larga parte il caso. Ma non è questo il solo fattore decisivo. Se in uno stato la situazione si è fatta insostenibile, lo spirito rivoluzionario non vi avrà mai pace finché il nuovo non trionferà, anche se i suoi assalti

XXVIII. - SPIRITO OBBIETTIVO E INDIVIDUO

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vengono ripetutamente respinti. Dove invece la situazione è sana e solo un gruppo di scontenti mira a rovesciarla, il nuovo, anche se dapprima vittorioso, non si manterrà, e dovrà ancora piegarsi al vecchio ordine. Se guardiamo a certe situazioni storiche attuali, troveremo certo alcuni esempi contro questa tesi; se invece ne seguiremo gli svi­ luppi su un arco storico più ampio, troveremo confermata la nostra regola. Ne consegue che qui opera sempre anche un terzo fat­ tore, che poi è il fattore veramente fondamentale: la deci­ sione, a più o meno lunga scadenza, spetta sempre alla tendenza effettiva del vivente spirito comune. Che il rivo­ luzionario diventi un traditore della patria o un le­ gislatore legittimamente al potere, che le novità montanti cedano alla forza delle vecchie istituzioni o trionfino, viene deciso in ultima analisi dalla direzione verso la quale tende di fatto la viva volontà giuridica e sociale del tempo. Ciò che corrisponde a questa direzione, avrà dalla sua tutta la forza viva dello spirito obbiettivo; ciò che vi si oppone, l’avrà contro di sé. Perché, nell’un caso, tale tendenza storica è già quella da cui nasce la rivoluzione, e in ciò sta il diritto di quest’ultima. Nell’altro caso, la rivoluzione nasce da una tendenza esteriore e marginale e questo, allora, è il suo torto.

6. Fenomeni

di potenza in altri campi dello spirito

Non in tutti i campi il carattere di potenza dello spiri­ to obbiettivo si presenta altrettanto concreto, corposo e vi­ sibile. Più o meno latente, esiste però dovunque, e dovunque può levarsi con tutto il suo peso di fronte all’individuo. È nell’essenza del potere in generale di restare inafferrabile per l’individuo finché questi vi si accorda, non vi si oppone, se ne nutre e ne è portato, per rivelarglisi invece

366

PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

nella sua effettiva durezza non appena l’individuo gli si vol­ ga contro. In tutti i campi, sono soprattutto le personalità di rilievo, i creatori, i capi, quelli che ne fanno l’esperienza e che possono parlarne con cognizione di causa. La realtà dello spirito obbiettivo, infatti, resta celata all’uomo medio, che è troppo in accordo con essa per poterne fare esperienza. In ciò consiste appunto la medietà, ma anche la forza, l’e­ quilibrio e la sicurezza della sua posizione di uomo medio. In sede morale, invece, la potenza del vivente spirito comune diventa molto sensibile anche per l’uomo me­ dio. Qui nessuna istituzione precisa interviene a nome della comunità, e tuttavia il reprobo subisce le conseguenze morali delle sue azioni: è il comune senso morale a condannarlo. Cosi anche in sede di religione e di visione del mondo: l’ideologia non-conformista, indipendentemente dal­ la sua verità, deve misurare tutto il peso dell’opinione tra­ dizionale dominante. Un’opinione, che il singolo non può scavalcare e di cui deve tener conto. Un’opinione che, quan­ do non è intollerante, procede inerte su binari fissi e minac­ cia di sospingerlo nell’isolamento, — a meno che egli non vi sappia individuare una tendenza propizia. Questo però vorrebbe dire che il singolo, con le sue convinzioni, è in realtà già coinvolto in un moto incipiente dello spirito obbiettivo e che la sua fede non è infine soltanto sua. Il fenomeno della potenza acquista il massimo rilievo là, dove uomini nuovi annunciano allo spirito del tempo valori nuovi e pretendono il riconoscimento di nuove norme. Il sentimento di valore in una determinata epoca storica ha una sua logica propria ed è indotto a nuovi sviluppi solo se dettati da un’intima necessità. Deve invece respingere, vero o falso che sia, tutto ciò che contrasta col suo orientamento. Viceversa l’individuo, davanti a que­ sta superiore potenza, non può imporre la propria verità e resta un incompreso, il martire della propria idea. La legge della verità, che forse sta dalla sua parte, non gli giova, perché non è la stessa legge che governa lo spirito storico. Questi ha una legge propria, un proprio ritmo di muta­

XXVIII - SPIRITO OBBIETTIVO E INDIVIDUO

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mento: « sua » verità può diventare solo quella alla quale è aperto e per la quale è maturo. Il peso della sua impo­ stazione non è quello di una potenza soltanto passiva, per­ ché lo spirito storico reca già in sé un orientamento proprio.

Capitolo XXIX INDIVIDUALITÀ STORICA DELLO SPIRITO OBBIETTIVO

1. Singolarità

di ogni realtà storica

Lo spirito obbiettivo non si presenta come fattore di potenza soltanto nei confronti dell’individuo — una potenza che lo forma e lo porta, ma anche lo inibisce e lo limita, e può schiacciarlo — ma altresì, all’esterno, nei confronti di uno spirito straniero, contemporaneo e coe­ sistente. In questo senso, e non soltanto nella vita politica, lo spirito nazionale sente la potenza spirituale di un ethnos straniero. In effetti, la situazione di popoli tra loro confinanti comporta anche un costante e reciproco misu­ rarsi, osteggiarsi, completarsi dei rispettivi spiriti nazionali, attrazione e repulsione reciproca, aggressività e difesa. In questa dimensione spirituale, vittoria e sconfitta non hanno lo stesso senso che nella vita politica; anzi, spesso accade che lo spirito di una cultura vinca là, dove il popolo che ne è portatore viene sconfitto. Cosi lo spirito greco conquistò trionfalmente il mondo romano, mentre i Romani sotto­ mettevano politicamente i Greci. Ciò illumina la maniera d’essere dello spirito storico da un altro punto di vista: quello che ne rivela la costante limitatezza, particolarità ed unicità accanto ad altri consimi­ li; che riconosce la varietà delle configurazioni spirituali esi­ stenti, la singolarità e irripetibilità storica di ogni singola figura del vivente spirito comune. Se osserviamo il fenomeno da questo lato, è evi­

370

PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

dente che, in effetti, ogni spirito obbiettivo vivente — ogni spirito che abbia carattere di potenza e di obbiettività sto­ rica — ha sempre, anch’esso, un carattere individuale. Tale individualità, naturalmente, non contraddice al carattere di generalità che gli è proprio rispetto alle singole persone che comprende in sé; e inoltre si tratta di un’individualità di tipo diverso, che non può confondersi con quella della per­ sona. Ogni spirito comune vivente è quindi rigorosamente unico e individuato, ma la sua esistenza storica si sovrappone a quella della persona singola ed appartiene, quindi, a un altro ordine di grandezza, a un’altra maniera d’essere con propri confini e durata propria. La generalità sovraesistente all’esistenza privata che la porta, possiede anch’essa un’e­ sistenza individuale '. Tutto ciò che è reale è individuale — cosi possiamo esprimere la legge ontologica fondamentale dell’individuali­ tà. Essa vale per la realtà spirituale e per la realtà storica, allo stesso titolo che per la realtà cosale. Il vivente spirito obbiettivo è in ogni sua figura storicamente reale, con tutti i caratteri di un’autentica realtà: « è » in un tempo determi­ nato e solo in quello, vive ed esiste in un ambiente reale e storico ben preciso, è organicamente legato alla vita origi­ naria di un dato popolo e decade con lui. È individuale e irripetibile in quanto esiste solo in un dato tempo, è vissuto da un dato popolo e in date circostanze, si forma in un certo stadio dello sviluppo complessivo della storia uni­ versale, dopo di che si dissolve. Può capitare che, in condizioni del tutto diverse, si pre­ sentino spiriti simili ed analoghi. In certe fasi dello svi­ luppo di popoli diversi, in diversi tempi, compare talvolta quello che, in genere, si chiama lo spirito dell’« illu­ minismo »; come pure, correnti analoghe di radicalismo re­ ligioso, di espansione politica, di progresso scientifico. Ma simili ritorni sono sempre soltanto analogie parziali, relati­ ve ad aspetti particolari, che poi vengono spacciati, più 1 Per i concetti di esistenza e di individualità, cfr. cap. VI 2-4.

XXIX. - INDIVIDUALITÀ DELLO SPIRITO OBBIETTIVO

371

o meno arbitrariamente, per gli unici che contino. Tutt’al più, agisce in essi una certa legalità dei processi storici che, con storica necessità, favorisce il ripetersi di certi fenomeni generali. In ogni caso, lo spirito vivente non si ripete mai. Anche gli individui umani possono presentare tratti co­ muni. Ciò non diminuisce l’unicità di ciascuno di essi. Perfino l’elemento comune, nell’altro portatore, diventa un’altra cosa. Questo vale anche per quella che è l’uni­ cità dello spirito comune storico: concordanze parziali non bastano a toglierla. La sofistica greca fu certo un’epoca il­ luministica, ma non si può dire che essa si ripeta nell’Illuminismo francese. I tratti comuni non possono cancellare la diversità della collocazione cronologica, del carattere na­ zionale, dei tipi dominanti. La storia del mondo non si ri­ pete. Uno spirito obbiettivo che sia vissuto una volta col suo particolare destino storico, non può ripetersi più di quanto lo possa l’uomo singolo, col suo destino umano.

2. Misconoscimento

dell’individualità e sue ragioni

L’individualità non è un privilegio della persona. Il pregiudizio che l’individualità sia una caratteristica riserva­ ta all’uomo singolo, è molto diffuso, ma contraddice al senso vero della singolarità, che è anzi la comune maniera d’essere di ogni evento, cosale, vivente o spirituale che sia. Nessuna cosa, anche se qualitativamente uguale e indistinguibile da un’altra, può essere l’altra. Questa illusione è tipicamente umana, perché l’intel­ ligenza dell’uomo tende a semplificare ciò che comprende, a sorvolare sull’eccezione per fissare una regola. Questa gene­ ralizzazione è già presente nell’udire e nel vedere, che pure sono legati al caso singolo; ma è massima nel compren­ dere, perché il pensiero si vale di concetti generali. Si tratta di una semplificazione necessaria, senza la quale

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

ci si smarrirebbe in una varietà incontrollabile. In un certo senso, non possiamo permetterci il lusso di pren­ dere ogni realtà per quello che è: qualcosa di individuale. Possiamo impegnarci in uno sforzo di comprensione indi­ viduale, solo nei confronti di ciò che più ci sta a cuore: il nostro prossimo. Ma anche qui, soltanto di rado. Penetriamo nella singola personalità in alcuni casi particolari, e cioè, quando una data persona « significa » qualcosa di speciale anche « per noi ». In ogni caso, è una scelta del tutto soggettiva, che non ha nulla a che vedere con l’in­ dividualità o non-individualità, sia degli uomini, delle cose o degli eventi, che dei grandi processi storici. Tra le ragioni che impediscono agli uomini di ricono­ scere l’individualità dello spirito obbiettivo cui ap­ partengono, c’è poi il fatto stesso di appartenervi. Per questo, lo spirito obbiettivo appare loro, unilateralmente, come l’elemento che li accomuna ai co-viventi e non come individualità storica rispetto a uno spirito comune straniero. Ed anche quando si imbattono nel diverso spirito di un altro popolo o, in sede di pensiero storico, scoprono in tutta la sua estraneità lo spirito di tempi andati, ne colgono sem­ pre, innanzitutto, i caratteri generali. È tipico dell’uomo il vedere anche le cose estranee o lontane nel tempo, dal punto di vista naturale dell’indi­ viduo, per il quale l’elemento comune spicca soltanto se contrapposto a quello personale, non già a un differente elemento comune. È un modo di vedere comprensibile ma che, a sua volta, non permette di vedere e comprendere adeguatamente il fenomeno dello spirito comune. Ciò nono­ stante, l’uomo può sempre elevarsi a una visione storica di vasta sintesi sul piano e nell’ordine di grandezza dello spi­ rito obbiettivo. Può raggiungere una visione intuitiva e concreta su questo piano, proprio come può adeguare la sua intuizione della natura al coglimento concreto di rapporti cosmici o di strutture microscopiche. A questo scopo, basta cambiare unità di misura (il che è condizionato a una certa maturità e libertà di pensiero). Compiuto questo passo, lo spirito storico di un’epoca,

XXIX. - INDIVIDUALITÀ DELLO SPIRITO OBBIETTIVO

373

di un popolo, o della nostra stessa contemporaneità ci appare senz’altro nel suo carattere di individualità, unicità, singola­ rità e irripetibilità.

3. Individualità

e comunanza dei popoli

Sulla scena della storia si ripete, in grande, ciò che ciascuno sperimenta fin troppo bene nella propria vita privata. Come qui si affrontano persone singole, con reci­ procità di azioni e di sentimenti; là i singoli popoli, con le loro caratteristiche spirituali, con la loro mentalità e la loro sensibilità — perché anch’essi hanno determinate opi­ nioni gli uni degli altri e un certo modo di agire gli uni verso gli altri. Per la verità, a questo proposito, bisogna guardarsi da ogni sostanzializzazione. Se mai, è nell’atteggiamento più ingenuo e comune che l’uomo singolo si presenta al singolo come una totalità sostanziale; e, per quanto da parte sua sia illusorio credere di cogliere effettivamente tale tota­ lità, essa gli è già data in anticipo nella percezione « in carne e ossa ». Quanto all’individualità di un intiero popolo, questa, se non si dà in una altrettale anticipazione per­ cettiva, non può neppure confondersi con un’idea del Volks­ geist, come l’intende Hegel. Le individualità dei popo­ li non sono sostanze, neppure nel senso di chi le conce­ pisce come realizzazioni univoche di « principi » della storia universale, il cui corso, a sua volta, risulterebbe deciso dal contrasto di quelli (cfr. cap. XVIII 3). Con tutto ciò, resta vero: che ogni popolo ha effettiva­ mente un suo spirito particolare il quale, nella vita comples­ siva dei popoli, è una forza dotata di tendenzialità proprie; che, di fatto, ogni spirito popolare possiede una ben precisa individualità storica, la quale spicca nettamente di contro ai caratteri comuni dello spirito dell’epoca; che, infine, uno spirito individuale ha le sue particolari vicende storiche, 26.

374

PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

un suo sviluppo, un sorgimento, una fine. Oltre che politi­ camente e territorialmente, ha dei limiti intrinsechi anche in quanto potenza tra altre potenze. È impregnato e come circondato da quello spirito più universale che accomuna popoli diversi nella contemporaneità ma che, a sua volta, come spirito del tempo ha il carattere di un’individualità storica. La differenza tra spirito personale e spirito obbiettivo resta tuttavia ineliminabile, perché il primo si presenta nella forma rigida dell’individuo umano, non soggetta ad alcuna estensione o restrizione e incatenata all’unità biolo­ gica del corpo; mentre il secondo è lo spirito di ima plu­ ralità di individui, inteso non come totalità collettiva o come astratto tipo spirituale, ma come comunanza spirituale vissu­ ta e vivente in un commercio vivo. Ora, vi sono pluralità di diverso grado e ordine di grandezza. Ogni raggruppamento dovuto a comunanza di luogo o di interessi ha uno speci­ fico spirito comune, come l’hanno intieri gruppi di popoli nell’ambito comune della contemporaneità. I « popo­ li », del resto, non sono le uniche o le privilegiate unità portanti di un determinato spirito comune; né la loro indi­ vidualità spirituale è più compatta della solidità che può tener uniti altri tipi di gruppi umani. Tra popolo vivente e spirito comune non esiste quindi lo stesso rapporto che esiste tra individuo vivente e spirito personale. È anche per questo che l’individualità del­ lo spirito obbiettivo non è necessariamente l’individua­ lità di un popolo. Possiamo dire che, in certe epoche, è quella di un popolo; in altre, è piuttosto l’individualità di una società o di una classe; in altre ancora, si raccoglie in una comunità della fede, o anche in una comunità eco­ nomica; vi sono, infine, momenti nei quali tutti questi con­ fini si dissolvono: è quando, nella civiltà più ampia che acco­ muna un gruppo di popoli, si chiude un’epoca e un’altra se ne apre. Ma, quali che siano i confini e le dimensioni in cui lo spirito obbiettivo si raccoglie o si divide, sotto qualunque

XXIX. - INDIVIDUALITÀ DELLO SPIRITO OBBIETTIVO

375

forma e in qualunque unità storica reale, esso resta sempre storicamente individuale, vive una volta sola, è irreversibile e, nella sua peculiarità, non può essere identificato con nes­ sun altro spirito vivente.

Capitolo XXX LEGALITÀ E VITA PROPRIA DELLO SPIRITO OBBIETTIVO

1. Stratificazione e autonomia della vita spirituale

Se ora consideriamo nel loro complesso i diversi mo­ menti dello spirito obbiettivo, vediamo che esso si presenta sempre come unità e totalità; che è, in tutte le sue forme e gradi, una forza reale documentabile e avvertita come tale sia dallo spirito individuale che dallo spirito co­ mune estraneo; che, in tutte le sue configurazioni è a sua volta individuale, benché non si riduca a una coscienza singola, né a un collettivo di singoli. Nel contesto di queste determinazioni, anche il fatto che lo spirito ob­ biettivo abbia una propria vita in grande, al di sopra della vita delle persone — che anzi, « sia » una tale vita dello spirito — assume una forma molto concreta. È chiaro che questa sua vita propria è temporale, reale e autonoma come quella delle persone singole, e che, sebbene condizionata da infiniti fattori reali di origine esterna o onticamente « inferiore », non ne è affatto impedita nella sua autonomia, come non lo è la persona singola, che pure è soggetta ad analogo condizionamento. Se lo spirito obbiettivo fosse una pura generalità, un astratto tipo degli individui, non si potrebbe parlare di una sua vita propria. Se invece è una potenza presente negli individui e rivela sempre una particolare tendenza e individualità; se la sua unità nasce storicamente e tra­ passa accanto ad altre unità dello stesso ordine, allora è ne-

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

cessano che abbia anche una vita storica propria di cui, se mai, si potrà discutere la particolare legalità. Si potrebbe pensare che i singoli destini degli individui determinino il destino storico complessivo di uno spirito comune; si po­ trebbe sostenere una totale dipendenza da forze materiali e vitali, per cui le correnti spirituali non sarebbero che le risultanti di un intreccio causale ad esse eterogeneo. Contro la prima tesi è quello stesso fattore di potenza che abbiamo ravvisato nello spirito comune e la correlativa impotenza dell’individuo. Contro la seconda basti la considerazione ontologica fondamentale che ci fornisce la regola di ogni formazione complessiva di ordine superiore la dipendenza da condizioni esterne o, nel senso dei gradi dell’essere, inferiori, non esclude l’autonomia della formazione superiore. In campo biologico, ciò si è potuto rigorosamente dimostrare contro l’unilateralità delle teorie meccanicistiche e vitalistiche. Il condizionamento « dal basso » dell’organismo non ne esclude l’autonomia, co­ me questa, a sua volta non esclude il condizionamento. Questo rapporto di dipendenza e di legalità propria è il rapporto ontologico fondamentale degli strati dell’es­ sere. Individuare questo rapporto significa evitare il peri­ colo di sovrapporre immagini unilaterali del mondo ai feno­ meni storici dello spirito. Questo è molto importante per il nostro problema perché qui non si tratta più soltanto del rapporto tra strati eterogenei dell’essere, ma anche di quello esistente tra formazioni di diverso ordine di grandezza entro lo stesso strato. La vita propria dello spirito obbiettivo non dipende sol­ tanto dalla vita organica della specie « uomo », né sol­ tanto dalla vita della razza cui il singolo popolo appartiene, dalle sue condizioni di vita esterne, dal fattore geografico, economico o altri che siano; ma anche dalla vita di quegli individui che, dal canto loro, sono già creature spirituali. 1 Cfr. al proposito Introduzione, 6-10, e capp. IV 2 e V 2. In particolare, rimandiamo alla relazione-base espressa nelle due leggi della « forza » e della « libertà ».

xxx. -

legalità dello spirito obbiettivo

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Tale situazione di dipendenza non va in nessun modo mi­ sconosciuta o sottovalutata. Anzi, senza osare troppo, pos­ siamo benissimo considerare la vita dello spirito obbiettivo come integrazione della molteplice vita spirituale delle persone singole. Ciò è vero in questo campo, come lo è nel regno organico, dove la vita di una specie animale è il pro­ dotto dell’integrazione delle vite individuali. Si tratta solo di vedere se questa integrazione debba intendersi come una pura somma o come una formazione specifica dotata di vitalità propria. In tal caso, non le si potrà negare una pro­ pria legalità.

2.

Vita della specie e vita dello spirito. Sussisten­ za e SOVRAESISTENZA

Nella vita della specie animale, è indubbio che sia pre­ sente una formazione dotata di legalità propria, o meglio, di un proprio tipo totale che sovrasta l’individuo ed è in grado di influire su di esso. La specie continua a vivere in sempre nuovi individui, non è toccata dalla loro mortalità ed, anzi, la loro capacità di riprodursi le dà modo di perma­ nere in vita, di trasformarsi e di progredire lentamente. L’istinto sessuale dell’individuo « serve » palesemente alla vita generale e, in modo mediato, incrementa una ten­ denza generale che, in quanto tale, non è la sua. Con la sua funzione di vita individuale, è inserito in tutto e per tutto nel processo macroscopico della vita; dal quale è portato in quanto, a sua volta, lo fa progredire. Se vogliamo trovare un’espressione ontologicamente con­ veniente per questo rapporto, scopriamo che nessuno dei concetti di relazione correnti vi si attaglia. La categoria di « sostanza », che in questo campo è stata introdotta da molto tempo, ne dà evidentemente un’immagine del tutto errata. La specie non sta certo all’individuo come un sussi­ stente a un inerente, perché non solo non è una sostanza formale di tipo aristotelico, ma neppure è un substrato indi­

380

PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

struttibile (come sarebbe una perenne forza vitale presente negli individui). Non si conserva, come si conserva una so­ stanza, per identità passiva, inerzia, indistruttibilità; ma in quanto, con azione propria ricrea, riproduce, sostituisce ciò che è andato distrutto. Essa si garantisce una conti­ nuità nella riproduzione degli individui e, con la regolarità della forma di vita che rappresenta, costantemente rista­ bilisce l’equilibrio sempre labile di nascita e morte. Questo tipo di conservazione non ha la forma della « sussitenza » ma, al contrario, quella di una « sovraesistenza ». La vita comune della specie non sta a fondamento delle vite individuali, ma poggia su queste, ne è portata e, in tal senso, ne dipende completamente; ciò nonostante, è una vita di ordine superiore che le abbraccia tutte e le sovraforma. Si può dire esattamente la stessa cosa a proposito della maniera d’essere dello spirito obbiettivo. Il suo rapporto al­ l’individuo è bensì completamente diverso, né lo spirito ob­ biettivo è in sé stesso lontanamente paragonabile, per strut­ tura e svolgimento, alla vita della specie. Ma quest’unico tratto caratteristico l’hanno in comune: nessuno dei due è una vita che stia « dietro » gli individui, ambedue vivono e scorrono « in » essi come in una pluralità continuamente ripullulante e mutevole. Inoltre, neppure lo spirito ob­ biettivo ha la forma d’essere della sussistenza, ma anch’esso è sovraesistenza. Anch’esso è portato e condizionato dalla vita delle persone, si che il suo stesso corso storico non procede senza il loro impegno e la loro iniziativa. Esso si so­ vrappone alla vita degli individui, vi poggia sopra, ne dipen­ de e in questo senso, in effetti, la sua vita è pura sovraesisten­ za. Ma appunto in questo suo dipendere da e poggiare sopra gli individui, lo spirito obbiettivo resta quella superiore ed autonoma forma della vita spirituale, quella costruzione spirituale di ordine superiore dotata di totalità e di divenire peculiari, che non può compiersi nell’individuo né comporsi di individui; una costruzione che si conserva e si sviluppa nel mutare degli individui e si rivela chiaramente in quanto se­

XXX. - LEGALITÀ DELLO SPIRITO OBBIETTIVO

381

gue una legge propria e diversa da quella dello spirito per­ sonale. Se aggiungiamo che all’individuo lo spirito obbiettivo si presenta già sempre come una formazione concreta, anzi, una potenza; che tale potenza lo accoglie entro le sue for­ me già fatte e, lasciandolo crescere in esse, fin dall’infanzia lo informa e lo pervade dall’interno; allora diventa chiaro che qui la sovraesistenza, pur restando dipendente, è di un tipo anche più particolare e complesso che non sia nella vita della specie. Nella vita propria dello spirito obbiettivo abbiamo a che fare con un fenomeno di sovraformazione di straordinaria grandezza e forza.

3. Tradizione

e sovraesistenza

Ne troviamo una conferma particolarmente suggestiva quando poniamo mente al modo in cui il quadro d’insieme dello spirito obbiettivo riesce a « conservarsi » nel mutare de­ gli individui. Lo spirito non si eredita come i caratteri di una specie organica, ma si trasmette, viene tramandato e ripreso. I viventi in mezzo ai quali l’individuo nasce, gli trasmettono l’elemento spirituale comune in quella mi­ sura sempre, in cui essi stessi ne sono impregnati, e domi­ nati. Lo spirito obbiettivo, che in quelli vive la sua vita storica, fa partecipi di sé gli individui che via via crescono e maturano. Passa direttamente in essi e diventa il loro. La vita sovraesistente dello spirito comune passa dunque, grazie alla propria espansività, direttamente nei nuovi indi­ vidui e questi soggiacciono automaticamente al suo potere, al suo corso, alla sua tendenza. Le tendenze di quella diven­ tano le loro prima ancora che possano sentirle come vòlte in una determinata direzione. Invece in quei campi nei quali, per diventare partecipi di questo spirito è necessario l’impe­ gno consapevole della persona, l’intiero patrimonio spirituale agisce come un polo d’attrazione il quale attira ir­

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

resistibilmente ogni individuo che abbia saputo coltivarsi ed elevarsi al suo livello. La vera forza che forma e guida, in ogni educazione umana, è quindi lo spirito obbiettivo. Dal punto di vista ontologico, questa situazione non è affatto contraddittoria. Basta tener ben presente la legge dell’autonomia nella dipendenza. La formazione portata e sovraesistente si conserva e si sviluppa in quanto diventa capace di sovraformare e di dominare i propri elementi portanti. Nel raggiungere tale potere su di essi e nel conser­ varlo attraverso ogni successiva trasformazione, consiste ap­ punto la sua autonomia. È solo cosi che può elevarli a un superiore grado d’essere, quello propriamente spirituale; in­ fatti, non si dà spirito personale senza uno spirito comune vivente, che si accumuli nel corso delle generazioni e si tramandi in ogni fase del suo divenite. L’individuo per sé, isolato, nel suo breve tratto di vita, nella limitatezza della sua esperienza e della sua interiore elaborazione di essa, non sarebbe mai in grado di raggiun­ gere il livello vero e proprio di una creatura spirituale. Lo spirito in quanto tale, cresce solo storicamente, come spirito obbiettivo. Il divenir-umano dell’uomo, per quanto s’attiene all’essere spirituale che è in lui — non è nelle sue mani in quanto singolo. Ciò non contraddice al fatto che l’umanità si realizzi di bel nuovo, ogni volta, in ciascuno di noi. Perché in ciascuno si ripete, abbreviato, il processo della formazione storica dell’uomo. L’abbreviazione consi­ ste appunto nella tradizione e nella ripresa, nel crescere dell’individuo dentro lo spirito storicamente divenuto. Qò che si compie nel singolo non è che la partecipazione al con­ tinuo di una vita comune che assurge ad essere spirituale e in quanto tale progredisce.

XXX.

- LEGALITÀ DELLO SPIRITO OBBIETTIVO

4. Sulla dinamica autonoma della vita

383

storico-spi­

rituale

Nell’intimo segreto della vita spirituale è difficile far lu­ ce. Le sue caratteristiche di interno equilibrio, di autore­ golazione di rinnovamento spontaneo non sono riconduci­ bili a fattori esterni, più di quanto lo siano le analoghe carat­ teristiche di una specie vivente. Possiamo coglierle soltanto nel loro contenuto, che costituisce bensì il lato propriamente « obbiettivo » dello spirito obbiettivo — nel quale esso appare oggettualmente — ma non ancora il suo lato dinami­ co. Eppure è chiaro che la vera e propria « vita » dello spi­ rito obbiettivo è appunto il suo lato dinamico; mentre il contenuto ne riguarda solo la particolare configurazione che, nel processo dinamico del suo « vivere », in forme sempre nuove viene all’essere e diviene. In generale, dove non è possibile penetrare nell’intima compagine di un processo, è però sempre possibile descri­ verne il fenomeno. E non è escluso che, per questa via, si riesca a comprendere qualcosa anche della sua peculiare dinamica. Di fatto, tutte le filosofie della storia attente ai contenuti hanno sempre seguito questa strada, e con tanto maggiore successo, quanto più hanno saputo rinunciare a illazioni di carattere speculativo. Che, nel far questo, si in­ sista soprattutto sui fenomeni sociali, o su quelli politici, o su quelli culturali, non è decisivo, salvo il maggiore rilievo che i corrispondenti lati del fenomeno fondamentale vi acquisteranno. Qui non si tratta di sapere attraverso quali periodi passi un popolo che tende alla grandezza storica. Ma possia­ mo certamente assumere come un minimum costante di tipicità della loro successione, la caratteristica possibilità di distinguere, nello sviluppo dei popoli, una fase di ascesa, una di maturità ed una di decadenza. Come nel caso dell’individuo, questi periodi sono sottostrutturati da quel­ li della vita organica, — sia che la vitalità etnica venga a poco a poco estenuata e consumata dallo spirito, sia

384

PARTE Π. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

che essa segua una propria periodicità limitata nel tempo, e lo spirito assuma soltanto le forme corrispondenti a tale sviluppo. Anche qui, una cosa non esclude l’altra, proprio come accade nella vita dell’individuo. Quando poi si ammette che presso ogni popolo ai primor­ di predomini un tipo ben preciso di morale, di diritto, di costituzione politica e di stile di vita; che nel periodo di maturità e di massima ascesa la varietà dei tipi etnicospirituali sia incomparabilmente maggiore; che, infine, nel­ la fase di decadenza essi tendano a tornare simili men­ tre, per converso, gli individui tendono a differenziarsi (dissoluzione dello spirito comune e affermazione del­ l’individualismo) — è facile concludere che qui siamo di fronte a una legge propria e tipica dello sviluppo spirituale. Non è il caso di condurre quest’idea all’estremo, né di esage­ rarne il rigore normativo. Anzi, proprio la norma in quanto tale rimane sconosciuta, mentre il processo fenomenico è patente. E, in quanto tale, anche sufficiente. Un processo che in tutte le diverse forme in cui lo abbiamo considera­ to, sempre è stato desunto da dati di fatto storici. In ogni caso, però, la vita spirituale procede secondo un’interna dinamica: perché tale processo fenomenico non è certo comprensibile in base a una pura varietà di circo­ stanze esterne.

5. Spontaneità e autonomia del movimento storico

Agli effetti delle nostre considerazioni, che si preferisca assumere questa normatività o un’altra consimile, non è decisivo; per lo storico empirico, del resto, questi pochi accenni vanno già troppo oltre. Qui non si tratta né della uniformità, né della ciclicità del processo fenomenico, ma solo dell’autonomia della sua dinamica evolutiva; un’autonomia che può anche avere un carattere individua­ le, come accade nella vita dell’uomo singolo. In sostanza,

XXX. - LEGALITÀ DELLO SPIRITO OBBIETTIVO

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però, ogni evoluzione storico-spirituale è un processo di­ namico di formazione dello spirito obbiettivo, nel quale l’elemento di originale determinazione interiore è in perpetua lotta con una quantità di fattori esterni. Il ri­ sultato, invece, rispecchia sempre, di fase in fase, soltanto il destino complessivo. Parlare, a questo proposito, di interna autonomia, potrebbe sembrare superfluo se si trattasse soltanto delle « forme » o « tipi » dello spirito — se cioè il diritto vigente non fosse altro che un codice di disposizioni; una morale valida fosse solo un sistema di norme; una tendenza politica fosse solo un tipo di azione o reazione popolare; lo stile di vita prevalente fosse solo una mescolanza di convenzioni. Ma, come abbiamo mostrato, non è questo il caso. Il punto decisivo è, invece, che tutte queste cose, in­ sieme, sono la figura vivente e spontaneamente mutevole del­ la vita spirituale stessa. Nella quale, anzi, tutto questo è sol­ tanto manifestazione, quasi l’elemento palpabile e nomina­ bile nell’interna dinamica unitaria del processo stori­ co vivente. Se il diritto fosse soltanto un codice di leggi, non vi sarebbe alcuna differenza tra il diritto vigente presso un dato popolo in un dato tempo e un altro diritto, non valido presso tale popolo. Il carattere di codificazione appartiene anche a un diritto non più valido. Cos’ha, in più, un diritto « vigente »? Evidentemente, il fatto che « vale », e niente di più. Che cosa significhi « valere », in questo contesto, ab­ biamo già tentato di precisare (cap. XXVIII). La validità del diritto si riduce alla sua capacità di esprimere la volontà o il sentimento giuridico dei viventi; o, che è lo stesso, al fatto che esso ha potere sul loro animo, sulla loro intelligenza e sul loro giudizio. Il diritto valido si può intendere come un insieme di prescrizioni poste, solo dal punto di vista del suo contenuto. Altra cosa è la maniera d’essere nella storia, e cioè la validità delle leggi nel comune volere e sentire giu­ ridico degli uomini. La « vita » delle leggi, negli uomini, è

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

quindi identica col loro vivere secondo le leggi; col che non si intende, naturalmente, l’ossequio rigoroso, perché c’è anche la loro violazione. Ma, anche nella violazione, resta sempre il fatto che essi intendono, sentono e giudicano il diritto e il torto nel senso di queste leggi. Che i singoli non lo conoscano nella sua interezza e tanto meno esauriscano il senso delle disposizioni in esso contenute, non danneggia il codice. Dimostra soltanto che lo spirito obbiettivo non si riduce alla coscienza singola. Il singolo può venire passo passo a conoscenza del diritto, crescervi dentro; e sempre nella misura del suo crescervi, sente e intende nello spirito della legge. Ma quando effet­ tivamente gli uomini non sentono più il diritto e il torto nel senso della legge, quest’ultima ha finito di vivere: la sua validità è una pura esteriorità. E questo, a sua volta, ne favorisce il movimento stori­ co, la trasformazione dall’interno. Tale trasformazione però, non è altro che la dinamica secondo cui procede la vita storica della legge. E poiché i mutamenti intervenuti nelle condizioni della vita reale sono soltanto occasioni di quella trasformazione mentre, del resto, il diritto che in essa si crea è sempre nuovo e originale, potremo concludere che la dinamica del suo movimento storico è autonoma, nonostante la differenza.

6. Variazioni

di autonomia a seconda dei campi spi­

rituali

Le stesse considerazioni si possono fare, mutatìs mutandis, in altri campi dello spirito. La differenza tra una lingua viva e una lingua morta è che la prima viene parlata, la se­ conda no. Nella lingua viva, pensa e si comprende un popo­ lo vivo, le sue forme e i suoi modi condizionano l’espressio­ ne, la comunicazione, la poesia e ogni altra obbiettivazione dei viventi. È appunto in quelle forme e in quei

XXX. - LEGALITÀ DELLO SPIRITO OBBIETTIVO

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modi che la lingua vive. La sua « vita » non sta però nel pa­ trimonio lessicale e stilistico — che si conserva anche nei testi di una lingua morta — ma nel continuo « uso » che ne viene fatto con tutte le mutazioni che esso storicamente comporta. Il mutamento, che appartiene essenzialmente al processo vitale della lingua, è sempre intimamente crea­ tore. Benché esso si svolga in modo organico e, in un certo senso, secondo leggi, i suoi movimenti non sono prevedibi­ li. In questo senso, un caso particolarmente istruttivo ci è offerto dalla morale in quanto morale vigente. Qui ra­ ramente troviamo una codificazione esplicita delle princi­ pali norme; le quali, infatti, non sono opinioni in senso proprio, e non ne possiedono la tipica « esistenza » o « va­ lidità », perché non sono altro che i criteri, immanenti al senso vivo che gli uomini hanno del valore morale. La loro vitalità consiste nella loro immediata evidenza, nel fatto che la coscienza morale ne è presa e convinta; e si rivela nell’incapacità, da parte del singolo, di considerare buono altro da ciò che vi corrisponde, di rifiutare come cat­ tivo altro da ciò che vi contraddice. Questo è ciò che man­ ca in una morale morta anche se qualche epigono può ancora comprenderla. Tale comprensione epidermica, in­ fatti, non fa di essa la sua morale, non lo determina e non vive veramente in lui. Invece, se qualcosa muta in una morale vivente, quando valori nuovi emergono ed acquistano valore sugli uomini, ciò accade proprio dall’in­ terno, per un autonomo sviluppo della capacità di vedere e distinguere il valore. Alla stessa stregua uno stile attuale di vita è qualcosa che governa i vivi e li tiene incatenati a sé. Esso si esplica cosi, effettivamente, come autonoma capacità forma­ tiva. Non è una pura tipica delle forme quale si conserva anche in uno stile di vita defunto, che il vivo non può più riprendere perché non è il suo — ma il sentimento del decoro e della forma che vive negli uomini e li deter­ mina nella misura in cui è comune e alla portata di tutti

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

nella convivenza civile. Ogni mutamento storico che esso su­ bisce, è intima automodificazione di questo comune sentimento della forma. La vita pubblica, sociale e politica, si differenzia dalla vita dei suddetti campi spirituali, in ultima analisi, per un più ampio intervento di fattori esterni. Il che tuttavia, non va a detrimento dell’interiorità della sua vita propria, né della sua autonomia. È certo possibile, nella compren­ sione, rivivere lo sviluppo sociale di popoli stranieri e di epoche passate; ma non starvi dentro, venirne coinvolti, esserne chiamati in causa, sentirsene corresponsabili. La vita pubblica del nostro popolo ha questo di particolare: che ne facciamo parte e non possiamo scindere la nostra vita personale dalla sua vita. La quale è ciò che v’è di comune nella vita stessa degli individui; cosi come il loro destino storico-politico è destino comune e come tale viene da essi esperito e portato.

Capitolo XXXI

IL PROCESSO STORICO E LE IDEE

1. Totalità e processi totalizzanti

Se teniamo conto imparzialmente di tutte queste cose, anche con la massima buona volontà non potremo più dire che la vita dello spirito sia alcunché di segreto, di inaffer­ rabile o, magari, di astrattamente costruito. Nei fenomeni afferrati, essa balza all’occhio, invece, molto concretamen­ te e plasticamente, come qualcosa che possiamo in ogni momento esperire e vivere in proprio — e cioè come una dimensione di vita a sé, irriducibile ed autonoma, forni­ ta di una propria interna dinamica. Ciò che resta inaf­ ferrabile, nel processo, è l’interiorità di tale dinamica, mentre sono ben noti numerosi fattori di tipo esterno, che pure vi rientrano. Questo permette costantemente, a una considerazione esterna, di misconoscere l’originale lega­ lità della vita storica dello spirito. Il motivo di questo errore è ineliminabile, ma siamo in grado, quanto meno, di scoprire il difetto di principio che lo rende possibile, e che va imputato a un modo di vedere sociologico-atomistico. Infatti, il processo di cui stiamo parlando non scaturisce da quegli atomi sociali che sono gli individui, ma dalla totalità stessa della vita spirituale comune, alla quale soltanto adegua il suo corso, comunque esso si risolva nella vita dell’individuo. Questo gruppo di problemi non si può assolutamente affrontare partendo dall’individuo. Non si dà esistenza individuale prima dell’esistenza della comunità e dello 27.

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PARTE Π. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

spirito comune. In generale, non c’è mai uno spirito per­ sonale solitario, un Io senza un Tu. Quindi, anche in quanto personale, lo spirito si forma già nella comunanza. Lo spirito comune è sempre già là, e la tradizione è la forma della continuità della sua esistenza storica. Su questo punto, è il caso di abbandonare ogni « tradizionale » pregiudizio ontologico. Capita ancora di sentirsi obbiettare: come potrebbe avere esistenza qualcosa di spiritualmente comune come, per esempio, una forma di comunità, se nulla di simile è stato mai constatato nella sua totalità? Ma resistenza non dipende dall’esser consta­ tata. Alla stessa stregua si dovrebbe negare esistenza al si­ stema solare che, neppure esso, è mai visibile nella sua tota­ lità. Il senso ontico dell’esistenza è appunto questo: di esserci indipendentemente dal suo esser percepita. Essa permette anche una percezione di sé; non la esige. Lo stesso vale per l’esistenza storica, in un certo mo­ mento e presso un certo popolo, di un determinato diritto, di una determinata morale, arte, lingua o modo di vita. Il pregiudizio positivistico per cui solo ciò che è affer­ rabile, sostanziale, elementare ha esistenza, va definitiva­ mente accantonato. L’inafferrabile, il complesso, una totali­ tà di ordine superiore poggiante sugli elementi, esiste al­ lo stesso titolo. In quanto la totalità è portata e sovraesistente — e tutte le autentiche totalità, a cominciare da quelle organiche, lo sono — bisogna aggiungere che la sovraesistenza portata è esistenza, non meno di quanto lo sia la sussistenza. In tutte le dimensioni proprie di una comunità di individui, siano esse vitali o spirituali, la sovraesistenza è fondamentale quanto la sussistenza, perché l’individuo non precede mai l’insieme dei suoi simili, un esemplare animale non precede mai la sua specie, la persona non viene prima della coesistenza delle persone, né lo spirito soggetti­ vo prima dello spirito obbiettivo. Su tutta la linea, noi li vediamo sempre insieme, l’uno dentro l’altro [Ineinander]: ciò che vediamo è la loro compagine.

XXXI. - IL PROCESSO STORICO E LE IDEE

2. La

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vita dello spirito come processo costitutivo

DELLA FORMA

La totalità, nel campo spirituale non è la semplice coesistenza o il processo di una forma omogenea, ma la mobile vita della forma spirituale negli individui coesi­ stenti. Essa non si dà come una figura ferma e stabile, ma soltanto sciolta nel processo di configurazione in corso, che è un processo di continua dissoluzione e costruzione della forma. Ogni vita, anche la vita organica, è un processo di co­ struzione della forma. Né l’individuo, né la specie animale conoscono una forma puramente statica, anche se le loro mutazioni seguono ritmi assai vari. La vita dello spirito, però, possiede una mobilità diversa e più intensa. Essa fluisce con moto pendolare; dissolve le forme già acquisite e le sostituisce con altre nuove; può tornare alle vec­ chie o lasciarle cadere per sempre; talvolta oscilla fra poli estremi, anzi opposti e il suo andamento non è vincolato a una continuità; batte certe vie, le abbandona, ne imbocca di nuove, cerca, fa esperienza, la mette a frutto. Qui l’analo­ gia con la vita organica non funziona piu. Questo tipo di processo vitale è diverso dall’organico ed è formativo in un senso molto più elevato. Il regno dell’organismo è dominato dalla ripetizione di una stessa forma attraverso la riproduzione degli indivi­ dui. Ogni deviazione è soltano variazione, instabilità del­ la forma; ma nella mescolanza del plasma genetico da una generazione all’altra, si ha una compensazione che, nel complesso, riporta alla forma-base. La trasfigurazione delle specie, dal canto suo, avviene solo in archi di tempo di ordine cosmico. Altra cosa è il processo di una totalità spirituale. Qui la forma non è ereditaria, e tuttavia, per il fatto stesso che viene tramandata, è già soggetta al mutamento. La nuova generazione produce qualcosa di nuovo, in quanto riprende il vecchio e vi aggiunge del proprio: il patrimonio della tradizione cade allora su

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

nuovo terreno; che resta comune, ma non è più lo stesso. In questo campo, invece, l’originalità del singolo ha una parte essenziale. La sua iniziativa agisce nel processo come una forza motrice, quantunque la risultante del processo non debba essere, per questo, necessariamente quella voluta da lui. Il processo storico della formazione spirituale comprende in sé la coscienza e la sua attività. Tuttavia, già durante la sua crescita, esige dall’individuo un impegno personale, non gli concede nulla in regalo e lo co­ stringe a dominare e ad elaborare il portato tradizionale. Attraverso il costante intervento di questo fattore, la dinamica formativa del processo storico complessivo trapas­ sa in tutt’altro ordine di grandezza. Un elemento di autono­ mia personale, che si propone un fine, lo vuole e si impegna a raggiungerlo, è sempre presente come una delle forze mo­ trici del processo. Grazie a questo elemento, inoltre, il processo non solo riceve impulso, ma a sua volta lo produce. In ciò consiste appunto l’originalità della sua dinamica vi­ tale, che non ha riscontro nell’essere non-spirituale.

3. Idee

motrici e orientazione cosciente dello spi­

rito

Se, ora, tutto si riducesse all’iniziativa dei singoli, (intesa come l’intiera varietà delle direzioni possibili), in base alle leggi della statistica, esse tornerebbero a compen­ sarsi nel risultato generale, e la forma spirituale del tutto segnerebbe storicamente il passo. Che le cose non stiano co­ si, dipende dall’esistenza di direzioni preferenziali, di cor­ renti o tendenze, come infatti sempre ne esistono in tutti i campi dello spirito. Esse trasportano neH’iniziativa in­ dividuale il fattore obbiettivo-spirituale antagonista; un fattore che, anche se non riconosciuto come tale, in real­ tà vi è già sempre implicito. Là dove tali tendenze diventano consapevoli e vengono

XXXI. - IL PROCESSO STORICO E LE IDEE

393

proclamate esplicitamente, ciò è dovuto ovviamente al singolo. Anche in tal caso, però, le vere origini sono più profonde e risalgono a un processo di trasformazione in atto nello spirito comune; infatti, i proclami trovano riso­ nanza solo se corrispondono a un movimento incipiente del­ lo spirito comune, a una sua intima tendenza. Sono proprio queste correnti a convogliare quasi irresistibil­ mente l’iniziativa e l’impegno dei singoli: è un pro­ cesso che possiamo osservare direttamente in molti campi e che si svolge nella piena luce della coscienza. Infatti, es­ so comporta il concreto modellarsi della tendenza nella forma di fini, norme, valutazioni o « idee ». L’uomo tende sempre a disporre la sua vita sotto idee, alla cui realizzazione possa aspirare. Vuol dare un senso e uno scopo alla sua vita. Perciò si aggrappa alle idee che gli sembrano evidenti; e se non ne trova, se le crea. Nessuno, che sia uomo nel pieno senso della parola, è capace di « vivere una vita senza ideali »; e chi ci riesce ne perde, in qualche modo il lato migliore. Questa tendenza di fondo, che è essenziale all’uomo, coincide col bisogno di dare un senso, un senso pieno, alla propria esistenza. È un biso­ gno che lo rende, non soltanto capace, ma anche sempre pronto a dedicarsi a qualcosa « che valga la pena », sia che glie ne venga un concreto vantaggio personale oppure no. In questo senso, le idee danno una direzione cosciente al­ la dinamica complessiva del processo spirituale. E poiché la coscienza è quella dei singoli, mentre la loro inizia­ tiva è un fattore integrante del movimento complessivo, l’idea come orientamento della coscienza comune degli indi­ vidui, è sopratutto una forza motrice nel processo obbietti­ vo della vita spirituale. È l’indice della sua vitalità e real­ tà nella coscienza dei viventi. Rispetto alla privata iniziativa ed alle finalità particolari, le idee hanno il vantaggio di collegare ed accomunare gli uomini. Ciò non significa che la loro azione sia eguagliatrice e livellatrice; esse conta­ giano gli uomini, polarizzano tutte le loro energie e, nel processo generale, acquistano una forza determinante.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

Dunque, sono forze di un particolare ordine di grandezza, forze storicamente costruttive e creative. E tali restano anche quando le ragioni immediate per le quali si impongono sono dovute a fattori del tutto estranei alla dimensione spi­ rituale. La loro, infatti, non è cieca forza d’urto, ma è forza veg­ gente, provvida, entro certi limiti creativamente predestinan­ te: la stessa che conferisce alla direzione del processo stori­ co una dimensione teleologica. Questa orientazione stori­ ca non ha certo il carattere dell’onnipotenza, visto che si tratta di una potenza tra le altre, che incontra resistenze, può afflosciarsi e sparire, subire deviazioni e inquinamenti. Che essa in effetti sia presente nella storia, non giustifica l’insensatezza consistente nel costruirsi l’immagine teleo­ logica di un processo storico orientato soltanto secondo le idee. La forza delle idee non arriva a tanto. Per contro, non dovrebbe esserci alcun dubbio circa la loro presenza, storicamente e spiritualmente reale, nel processo *. Esse sono una componente essenziale del movimento che lo fa avanzare. La loro vitalità, radicata nelle aspirazioni umane, permette di considerarle come for­ ze reali tra forze reali. Ed altrettanto reale è la lotta spiritua­ le di cui sono storicamente al centro, come lotta delle idee tra loro e come lotta contro forze di altro genere. Anche questa lotta è di volta in volta riconoscibile storicamente, nel suo sorgere, affermarsi e trionfare; oppure nel suo estenuarsi, ripiegare e cedere. La potenza di una data idea non dipende soltanto dalla sua bontà, e non sempre è facile decidere quale sia storicamente il suo peso. 1 La tesi di Nietzsche che l’uomo, alla lunga, diventa sempre ciò che « vuol » essere, potrebbe valere per le grandi idee morali il cui dominio si prolunga per secoli (ma, anche qui, soltanto con qualche limitazione). Che però, in generale, una direzione preferen­ ziale della volontà, resistente per molte generazioni, concretamente afferrabile per mezzo di un’idea e mantenuta fermamente, possa anche produrre mutamenti radicali, è difficile negare, di fronte a fatti notissimi della storia dello spirito.

XXXI. - IL PROCESSO STORICO E LE IDEE

395

Ma che essa si presenti in generale come una forza motrice, sia quando sorge che quando regna, è sempre vero. Nella vita dello spirito obbiettivo, le idee sono quel­ le forze nelle quali si rivela — nonostante la dipendenza — la sua caratterstica autonomia e spontaneità. Esse documenta­ no che lo spirito « in grande » si dà attivamente la propria forma; sono un elemento palpabile del suo autoconfigurarsi e realizzarsi in mezzo alle più varie forze portanti che stanno alla base di ogni formazione e trasformazione storica.

4. Duplice

autonomia della vita spirituale

Riassumendo, si può dire quanto segue: il pro­ cesso complessivo è determinato contemporaneamente dal­ l’alto e dal basso, da forze spirtuali e non. È quindi, ad un tempo, sia autonomo che eteronomo. Quest’ultimo aspetto è un’ovvietà: nessuno, per poco che ne sappia, potrà negare il peso del fattore materiale, vitale o economi­ co; è molto più facile dimenticare l’importanza delle idee. D’altra parte, anche l’entusiasmo per queste ulti­ me può far perdere di vista le forze del profondo. L’idea infatti, una volta intuita, affascina lo sguardo. L’unilateralità è impossibile d’ambo i lati ed è ugualmente nefasta. Le ideo­ logie dell’epoca non sono né indipendenti dalle forme produt­ tive e sociali, né esclusivamente dipendenti da esse. Qui sta il diritto e il torto del marxismo, il diritto e il torto delle teorie idealistiche della società. Va ricordato inoltre che: 1) lo spirito comune formato non è un insieme di spiriti individuali, benché riposi sulla loro comunanza; 2) il movimento dello spirito comune nella storia non è il complesso dei moti spirituali privati, benché li contenga in sé come propri elementi; 3) la dinami­ ca storica della vita spirituale non è un moto impresso dalle sole circostanze, o dal bisogno o dall’iniziativa individuale

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

soltanto, benché ambedue questi fattori siano sempre pre­ senti e determinanti. Per contro: da ciascuno di questi lati, il tutto è sempre, sia prima che dopo le parti, condizionante e condizionato a un tempo, non è mai se non nei, e coi, suoi momenti costi­ tutivi. Cosi, c’è uno spirito comune sempre e solo « con » la persona, un destino storico solo « col » destino personale, una forza storicamente propulsiva solo « con » l’iniziativa in­ dividuale. La persona singola, intesa come parte costitutiva, non è più indipendente di quanto lo sia la totalità dello spi­ rito comune. Quest’ultima determina l’iniziativa del singolo non meno di quanto ne sia determinata a sua volta. Qui si fronteggiano sempre due diverse autonomie del­ lo spirito, quella personale e quella comune. La piena autonomia dello spirito vivente si costituisce soltanto nel loro reciproco interferire. Ambedue determinano solo par­ zialmente. Ma, proprio per questo, l’una lascia gioco all’al­ tra. La reciproca interferenza che viene cosi a crearsi, resta però, in quanto tale, celata alla coscienza del singolo: ambe­ due questi momenti agiscono dentro di lui, senza che possa distinguerli. Solo da una certa distanza storica, e quasi di scorcio, l’intiero nesso può esser còlto obbiettivamente. La tendenza spirituale complessiva, non appena ha acquistato consistenza, è sempre incalcolabilmente superiore, per potenza, a ogni privata istanza. Tuttavia, essa nutre nel proprio seno la dinamica delle tendenze private. Ciò che vi aggiunge da parte sua, come apporto della propria autono­ mia, è l’unificazione di esse nell’unità di una tendenza globale. Un’orientazione concorde, infatti, non è peculia­ re delle tendenze private in quanto tali. È la totalità che attrae potentemente a sé ogni iniziativa individuale e che, una volta costituitasi, opera tra gli individui come il cristallo nella lisciva: la tendenza individuale vi aderisce. Tale è il potere che lo spirito vivente esercita sul­ l’individuo. Questi ne è preso e trascinato: vi si adegua. Non è escluso che egli possa esprimere anche la tendenza opposta. Ma la dinamica del processo è diversa se riferita

XXXI. - IL PROCESSO STORICO E LE IDEE

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alla totalità o a un suo membro. La specificità dello spi­ rito obbiettivo è stata dimostrata in tutti i sensi e per tut­ ti i lati del fenomeno. Sia che Io consideriamo in sezione trasversale, sia che lo disponiamo entro il processo stori­ co, risulta sempre dissimile dallo spirito personale. Dunque, è una struttura che appartiene ad un altro ordine e che ha una propria forma d’esistenza.

Sezione IV INESISTENZA DI UNA COSCIENZA ADEGUATA

Capitolo XXXII

SPIRITO E COSCIENZA IN GENERALE

1. Il

lato inquietante nel fenomeno dello spirito

COMUNE

Lo spirito obbiettivo si è rivelato come qualcosa che esi­ ste realmente, nel pieno senso della parola. Ha in comune con ogni altro reale la temporalità, la distruttibilità, l’in­ dividualità, la causalità attiva e perfino la datità empirica. La sua effettualità non è quella delle essenze e dei valori, ma quella degli eventi, delle cose e dei rapporti cosali, de­ gli esseri animati e delle persone. È storicamente effettuale nello stesso senso in cui le cose sensibili sono naturalmente effettuali. Si è visto, inoltre, in che misura esso sia, a suo modo, una forza e come abbia una propria vita al di là della vita personale, una sua vita specifica e dotata di una dinami­ ca autonoma. In tal senso, potremmo considerare chiarito il fenomeno; se il fenomeno non recasse anche un lato negativo, quasi un proprio modus deficìens. È questo il suo aspetto sconcertan­ te, che continuamente insinua il dubbio circa la sua stessa datità. Dovunque lo incontriamo, lo spirito reale si presen­ ta di solito con la forma della coscienza e della personalità.

400

PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

La forma d’essere umana ci ha reso tanto ovvio questo nes­ so, che non saremmo disposti a considerare spirituale una formazione la quale non fosse né coscienza, né persona. Eppure: lo spirito obbiettivo non è coscienza e non è per­ sona. In quanto spirito, la sua forma d’essere è un’altra. Rispetto all’essenza dell’essere spirituale, questo è il pun­ to che va radicalmente rimeditato, se si vuole arrivare a com­ prendere meglio la serie fenomenica fin qui percorsa. In­ fatti, come si vedrà, tale serie non è comprensibile in base a un concetto di spirito incentrato sulle categorie di coscien­ za e di personalità. In questo senso, a proposito del modus deficiens dello spirito obbiettivo, l’intelligenza filosofica si trova a un bivio: o i fenomeni descritti sono stati visti male, o il concetto tradizionale dello spirito è falso e vanno rivi­ ste le sue categorie. Perché la descrizione ci mostra un es­ sere spirituale privo di coscienza e di personalità proprie. Se si parte dallo spirito umano-soggettivo, ciò sembre­ rà senz’altro impossibile. Sul piano delle persone, infatti, troviamo soltanto lo spirito personale ed è su questo piano che si dispone ogni sviluppo dell’essere spirituale tra la na­ scita e la morte dell’individuo. Ma, per l’appunto, lo spirito obbiettivo non è legato alla vita e alla morte delle singole persone, procede tranquillamente oltre i suoi portatori e la sua vita scorre su un’altra scala temporale. Per la coscienza, è la stessa cosa: anche questa nasce nuova in ciascun individuo e trapassa con lui. Nessuno può trasmettere ad altri la propria coscienza e neppure singoli atti di essa. Nessuno può penetrare, con la propria coscienza nella coscienza stessa dell’altro. La coscienza isola gli uomi­ ni: ciascuno ha la sua e non può cambiarla né trasmetter­ la ad altri. Invece lo spirito è comune agli uomini e, no­ nostante ogni differenza spirituale dei singoli, nessuno ha uno spirito proprio, tutto per sé. L’importo spirituale è in sé obbiettivo, trascende e migra da coscienza a coscienza. Lo spirito collega gli uomini ed è, per essenza, espansivo. Qui è sufficiente richiamare tutto questo alla memoria. Se però osserviamo da questo punto di vista i fenomeni de­

XXXII. - SPIRITO E COSCIENZA

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scritti, dovremo ammettere che lo spirito, in quanto tale, non è affatto coscienza. Può avere una coscienza, ma non necessariamente — come non ha necessariamente una per­ sonalità.

2. Chiarimento ontologico-categoriale

della situa­

zione

Queste proposizioni, facilmente derivabili dal materiale fenomenico proposto, possono valere provvisoriamente sen­ za particolare dimostrazione. Verranno giustificate in seguito. Vogliamo mostrare, intanto, quale sia il loro lato enigmati­ co e sconcertante. Quando una forma d’essere si eleva sopra le forme infe­ riori, in essa ci si aspetta di ritrovare, in funzione di mate­ riali da costruzione, gli elementi categoriali di quelle. E ciò, in base alla legge ontologica della « sovraformazione ». Questa relazione è riconoscibile soprattutto al livello del­ l’organico; che infatti si eleva sopra il fisico-materiale, in quanto pur essendo una formazione materiale, non si riduce a materia, ma sovraforma i rapporti materiali in virtù di una propria struttura di superiore totalità. Cosi dunque, anche nei successivi livelli, ci si aspetta di ritrovare conservate le forme d’essere inferiori e si ac­ coglie come ovvio ciò che a priori ci si attende. Ma dato, appunto, che lo spirito obbiettivo si erige a superiore totali­ tà sulla base della coscienza e dello spirito personale, ci si aspetta con pari ovvietà di ritrovarvi e personalità, e coscien­ za. Si tratta di un semplice ragionamento analogico, che possiamo sempre inavvertitamente compiere ogni volta che ci accostiamo al problema dello spirito. Se poi scopriamo che nessuna di quelle due proprietà conviene allo spirito obbiettivo, urtiamo contro una vera e propria inconseguenza e ci vediamo costretti, o ad ipostatizzare in esso una « co­ scienza generale » e una « personalità complessiva », oppure

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

a lasciarlo cadere del tutto negandogli, nonostante il feno­ meno, ogni effettiva esistenza. Questa alternativa, radicalmente sbagliata, è all’origine di errori molto diffusi. In verità, i fenomeni non si possono cancellare, mentre i ragionamenti analogici — specie se inespressi — sono sempre di per sé sospetti. Su questo punto possiamo orientarci facilmente esami­ nando il rapporto tra gli strati inferiori dell’essere. La rela­ zione esistente tra il materiale e l’organico non si ripete già più a un livello superiore. La coscienza si eleva sopra l’or­ ganismo e poggia su di esso come questo sulla materia, ma non porta in sé, come proprio elemento categoriale, né la forma d’essere organica, né la materialità, né la spazialità. Già qui, dunque, il ritorno di queste categorie si interrompe. La storia delle discussioni sorte su questo punto è ben nota; la concezione materialistica vi ha fatto capolino sempre di nuovo, ogni volta che si è tentato di dominare i fenomeni psichici con le categorie proprie della sfera materiale. Solo lentamente ha potuto prender piede la convinzione che ciò è impossibile, che la spazialità e la materialità esulano ra­ dicalmente da questo campo e che la forma d’essere coscienziale non sovraforma l’organismo, ma lo sovrastruttura come un regno peculiare e da essa dissimile. La maturità che il problema psicologico ha raggiunto soltanto nei tempi mo­ derni, è jgià dovuta a questa convinzione. Un gradino più su, troviamo lo stesso rapporto tra la coscienza e lo spirito obbiettivo. Soltanto che qui, a quan­ to pare, la corrispondente convinzione sembra tardare ad imporsi. La situazione vi è complicata dal semplice fatto che alla coscienza si affianca, ora, la personalità, la quale è già di per sé una forma d’essere spirituale. La struttura strati­ ficata dell’essere spirituale, infatti, è in sé complessa. La co­ scienza è una delle caratteristiche tipiche dello spirito per­ sonale, anche se non l’unica; non è però affatto una carat­ teristica dello spirito obbiettivo. Agli effetti del nostro problema, questo stato di cose esige che si liberi il campo da ogni pregiudizio generico

XXXII. - SPIRITO E COSCIENZA

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per convincersi, una volta per tutte, che lo spirito è qual­ cosa di essenzialmente diverso dalla coscienza e dalla perso­ na, e che non si limita a sovraformarle, ma le sovrastruttura in una sfera di specie e forma d’essere peculiari. In altri termini: in quanto categorie, se le lascia alle spalle. In linea di principio, questa esigenza non è affatto una novità. La situazione è identica a quella già vista a proposito del pro­ blema della coscienza: come là spazialità e materialità si ritraevano per far posto a una sfera ontica a-spaziale e imma­ teriale, cosi qui si ritraggono coscienza e personalità per per­ mettere una sfera spirituale impersonale e sottratta all’an­ gustia dell’essere psichico.

3. Prospettive

metafisiche

Se pretendiamo di saltare questa conseguenza ricadiamo inevitabilmente nell’alternativa menzionata: siamo costretti cioè, o a non riconoscere la serie fenomenica dello spirito obbiettivo o, in conformità alla sua maniera d’essere macro­ cosmica, ad ipostatizzare qualcosa come una coscienza com­ plessiva o una persona totale. Data però l’incontestabilità dei fenomeni, volenti o nolenti dovremmo rassegnarci all’i­ postasi. Cosa significa ciò? Quale persona totale, dovremmo in­ tendere l’unità personale di un popolo, di una stirpe, di una contemporaneità; questa, in quanto totalità, avrebbe a sua volta una propria coscienza maggiorata, una « coscienza gene­ rale » al di sopra della coscienza individuale del singolo. Ed ecco che allora lo spirito obbiettivo sarebbe compren­ sibile in istretta analogia con lo spirito dell’uomo. Sarebbe uno spirito personale cosciente di ordine superiore. Da un punto di vista speculativo-metafisico, una simile ipotesi si può benissimo fare. Ma l’ipotesi resta una costru­ zione che non può essere provata da alcun fenomeno. Per questa ragione, una teoria dello spirito empirico deve pre-

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

scinderne completamente. Non conosciamo alcuna coscienza generale al di sopra della coscienza umana. Né alcuna personalità generale al di sopra della persona umana. Persona uma­ na e coscienza umana sono perciò, esclusivamente, la persona e la coscienza del singolo. In tutte le forme di insiemi e di unità collettive di singoli l’unità superiore ha un tipo d’essere che non è l’unità di una coscienza, né l’unità di una persona. Ma poiché, in base alla serie dei fenomeni indicati, si dimostra che l’unità e la totalità dello spirito si concentrano effettivamente in queste formazioni di grado superiore — ben diverse, per maniera d’essere e forma di vita, da quelle dello spirito individuale — la conseguenza da trarne è che lo spirito obbiet­ tivo sussiste senza una coscienza complessiva o una persona complessiva che la porti. Lo spirito obbiettivo non è af­ fatto coscienza e non è affatto persona. Per questo lato, non c’è dubbio, è profondamente dissimile dallo spirito individuale del singolo. Da un punto di vista sentimentale, due cose ci impe­ discono di accogliere questa conclusione, di per sé tanto semplice e chiara. 1. Che lo spirito possa essere dissimile dallo spirito, sembra sospetto. Non ci si libera tanto facilmente dalla ana­ logia con lo spirito personale: quando riusciamo a farci una idea dello spirito obbiettivo è proprio come uomo in grande che ce lo rappresentiamo. Ossia, antropomorficamente. Do­ mina qui la stessa rappresentazione coatta che caratterizza il concetto di Dio: neppure quest’ultimo si libera dall’an­ tropomorfismo. 2. Si ha l’abitudine di riferire ogni ente reale a una qualche sostanza. È questa una vecchia eredità del pensiero aristotelico: sembra impensabile che qualcosa di processuale possa essere senza un substrato reale. Contro il pensiero che una totalità in isviluppo possa sia sub-esistere che sovraesistere a un altro ente, reagisce la struttura categoriale di ogni modo di pensare tradizionale. E cosi si ritiene che lo spirito obbiettivo debba fondarsi su una sostanza-spirito. A

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XXXII. - SPIRITO E COSCIENZA

405

tale sostanza dovrebbe naturalmente ridursi anche ogni sussi­ stenza a noi nota nello spirito empirico: in primo luogo, la coscienza e la personalità. In questo modo, lo spirito obbiet­ tivo viene considerato come « soggetto », il che lo trasfor­ ma nel contrario di ciò che è: in uno spirito soggettivo po­ tenziato. Nei due motivi indicati si radica l’inestirpabile sedu­ zione dell’ipotesi speculativa relativa a una coscienza e a una personalità di ordine superiore. Ma, dato che proprio questa ipotesi è responsabile dell’oscuramento e, quasi, del discredito che ha investito il grande pensiero dello spirito obbiettivo, prima di procedere nella ricerca è necessario sgombrare il campo da tali pregiudizi.

i

4. Le

teorie idealistiche della coscienza

A questo proposito, non si può prescindere da una sia pur sommaria considerazione storica. I pregiudizi contro il concetto e l’essenza dello spirito obbiettivo precedono la stessa coniazione del suo concetto. Essi dipendono sia dal vecchio concetto di spirito e di ragione, sia dal concetto idealistico di coscienza. Per la verità, Hegel ha saputo preservare il nuovo con­ cetto dello spirito, da lui introdotto, da ogni arrischiata teoria della coscienza e della personalità. Tuttavia, non solo non ha evitato, ma anzi ha teorizzato sistematicamente il ricorso a una sostanza-spirito. Questa vena di aristotelismo, presente nel suo pensiero ha favorito a sua volta il soggetti­ vismo e il personalismo trascendente. Sulla soglia dell’idealismo tedesco sta la dottrina kan­ tiana della « coscienza trascendentale ». Essa è fondata su una teoria della conoscenza ed esprime immediatamente sol­ tanto il fatto che la conoscenza non è una pura faccenda in­ dividuale del singolo; che le forme della conoscenza, le forme dell’intuizione e del pensiero sono comuni: in breve, che la 28.

406

PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

« ragione », intesa come un insieme di condizioni interne, è ima sola per tutti. Però, in quanto Kant ha fatto di questa coscienza trascendentale il fondamento di un idealismo che ha abbassato la realtà empirica ad apparenza, egli ha già involontariamente compiuto il primo passo verso l’ipostatiz­ zazione della coscienza generale. Kant ha seguito, in fondo, un concetto molto antico, quello deWintellectus divinus o archetypus il cui pensiero è, ad un tempo, produzione degli oggetti. Lo ha soltanto spo­ gliato della sua veste teologico-metafisica, mettendone cosi in evidenza il contenuto gnoseologico. Il concetto-base è però quello lasciato in eredità dal Medioevo, che a sua volta lo aveva desunto dalla metafisica di Aristotele. Questi aveva fatto dello « spirito » divino, in quanto pensiero di pensiero, il primo motore di tutti i processi che originano un ente. Attraverso il tardo Neoplatonismo, questo concetto di spi­ rito venne identificandosi col concetto personale dello spi­ rito proprio del Cristianesimo. E questa sintesi storica rima­ se il prototipo di tutte le successive concezioni di una per­ sona-spirito. Ora, non è certo difficile riferire il concetto dello spi­ rito storico, che l’idealismo tedesco andava formulando, a questa generale persona-spirito divina offerta dalla tradizione. Tra l’uno e l’altra non è neppure necessario operare uno speciale passaggio. Le stesse teorie della storia esprimono questa relazione con perfetta naturalezza. Nel suo Sistema del 1800, Schelling ammette tranquillamente che Dio è la guida e il sostegno della storia. Meglio celato sotto le vicende storiche della « Ragione » è il pensiero teleologico di Fichte che ritorna, ancor più nascosto, in Hegel. L’idea di fondo, con le relative categorie tacitamente assunte, resta in tutti la stessa. Non è necessario procedere a una critica di queste co­ struzioni teoriche: il pensiero storico attuale le ha definiti­ vamente superate. Esse interessano la nostra ricerca solo in quanto prove eloquenti di dove si arrivi quando si conce­

XXXII. - SPIRITO E COSCIENZA

407

pisca Io spirito storico in termini di « soggetto », « coscien­ za » o « persona ».

5. Punti 1

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deboli del personalismo

Diversa, e priva di una teoria della storia, sebbene in fondo guidata dalla stessa concezione, è l’impostazione per­ sonalistica, quale si presenta nei recenti interessanti svi­ luppi scheleriani *. Qui, le totalità stesse — un popolo, una civiltà, l’umanità — valgono come persone di ordine supe­ riore. Contrassegni di questa personalità superiore sono le forme specifiche della socialità, la solidarietà e la correspon­ sabilità. La serie è ascendente e arriva fino alla più eccelsa persona complessiva, chiamata Dio. Anche qui la tendenza segreta, ma fondamentale, è quel­ la di sostanzializzare la formazione complessiva. Infatti, die­ tro il concetto di persona si cela l’unità di un tipo che non si risove in totalità, ma pretende di essere un identico sussi­ stente; a parte il fatto che il termine « persona » già tradi­ sce l’analogia con l’individuo umano. Con tutto ciò, biso­ gna dare atto a Scheier di aver pagato la possibilità di una personalità d’ordine superiore a prezzo della soggettività: secondo lui, la persona non è necessariamente soggetto. La coscienza, infatti, è possibile solo in quanto soggetto di oggetti. . Ma tutto questo non è che una costruzione metafisica. Là dove una personalità ci è effettivamente data, come nel­ l’uomo singolo, la troviamo sempre associata a una coscienza. Volontà, azione, proposito, responsabilità sono impossibili senza soggetto cosciente, come lo sarebbero il pensare, il percepire, il conoscere. E nessuno di tali atti può mai essere separato dall’essenza stessa della persona. 1 Max Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die ma­ terielle 'Wertethik, 19283.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

Dunque, a che prò voler assumere « persone totali » di grado superiore, se poi non sono « soggetti totali » e non hanno una coscienza totale! Non saranno che personalità depotenziate, pallide analogie di persone effettive. Ciò che resterà, saranno solo le totalità in quanto tali, come pure, in ciascuna di esse, lo spirito comune che in sé le raccoglie — ambedue le affermazioni si possono provare — ma senza alcun carattere di personalità o di coscienza complessiva. Insomma, cosa potrebbe mai essere una divinità personale priva di coscienza? Qui il controsenso tocca il livello del­ l’assoluto. Con ciò, tutta la metafisica del personalismo rovina su se stessa. Non era che una costruzione, senza aderenza al­ cuna all’originalità dei fenomeni. Ma i fenomeni, in questo caso, parlano molto chiaro: essi ci mostrano le totalità nelle più varie graduazioni e sempre informate e modellate dal­ l’interno da uno spirito comune vivente. Uno spirito che però, è soltanto « oggettivo », non soggettivo; e quindi non è coscienza, né persona. Solo l’uomo è persona. Ma lo spirito obbiettivo non è l’uomo in grande; come, del resto, neppure l’uomo è lo spi­ rito obbiettivo in piccolo. L’uomo è si spirito, ma spirito sog­ gettivo.

Capitolo XXXIII

LA COSCIENZA DEL SINGOLO COME COSCIENZA DELLO SPIRITO OBBIETTIVO

1. Inadeguatezza

della coscienza umana

Il problema del personalismo non dovrà più ripresentar­ si nella nostra ricerca. Lo riteniamo superato: esso soddi­ sfa soltanto un bisogno speculativo e, quindi, non interessa l’indagine propriamente filosofica. Tuttavia, un importante interrogativo attende risposta: quello che riguarda la relazione positiva dello spirito ob­ biettivo con la coscienza. Non basta, infatti, scartare l’ipotesi di una coscienza totale. Inoltre, non si può dire che non vi sia in alcun modo coscienza dello spirito obbiettivo, perché una tale coscienza esiste ed esercita una funzione del tutto essenziale per lo stesso spirito obbiettivo nella sua specifi­ ca forma d’essere e di vivere. Tale coscienza, però, non è la sua, ma quella dell’individuo. La cosa si può chiarire come segue. Lo spirito obbietti­ vo è ben lungi dall’essere « spirito inconscio » — questo è, anzi, un concetto pericoloso che aprirebbe le porte all’abuso speculativo —; già l’espressione ci ricorda la metafisica di Schelling. Di fatto noi uomini, per sapere qualcosa dello spirito obbiettivo, non dobbiamo attendere la riflessione fi­ losofica: l’artista conosce l’arte del suo tempo, il politico le correnti ipolitiche, lo studioso la scienza nella quale egli stesso è operante; e cosi ogni uomo ha un sapere relativo alla sua morale, alla sua rappresentazione del mondo, alla sua lingua. Sono tutti esempi di una autentica coscienza dello

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

spirito obbiettivo. Solo che lo spirito obbiettivo non è sog­ getto, bensì oggetto di questa coscienza. Soggetti ne sono invece gli individui. Orbene, la coscienza individuale non è mai all’altezza dello spirito obbiettivo nella sua totalità, in nessuno dei suoi campi. Non lo abbraccia mai completamente e resta inade­ guata al suo tutto. E, poiché non v’è altra coscienza oltre a questa, bisogna aggiungere che non si dà, in generale, co­ scienza adeguata dello spirito obbiettivo. Riassumendo questi motivi, possiamo puntualizzare la situazione nelle tre seguenti proposizioni fondamentali: 1. C’è una coscienza dello spirito obbiettivo, ma non è una coscienza comune superiore a quella degli individui. 2. La coscienza dello spirito obbiettivo non risiede in es­ so ma in noi, persone singole. Siamo noi i soggetti, gli enti dotati di coscienza. La quale, perciò, non sarà mai sua, ma soltanto nostra. In altre parole: lo spirito obbiettivo non ha la propria autocoscienza (hegelianamente: il suo esserper-sé) in se stesso, ma in noi. 3. Poiché la coscienza individuale gli è materialmente inadeguata, lo spirito obbiettivo non avrà la sua piena auto­ coscienza né in sé, né in noi. Un coscienza adeguata dello spirito obbiettivo non esiste. Il suo interno destino è di non poter avere, né direttamente da sé, né mediatamente in noi, una coscienza sufficiente del proprio contenuto — dunque, di non poter essere pienamente e totalmente per sé, ciò che è in sé. Ciò che queste tre proposizioni esprimono è decisivo per comprendere l’essenza dello spirito obbiettivo. Oggi, come un tempo, l’obbiezione principale contro la sua realtà, è che non si dia una « supercoscienza », oltre quella degli indivi­ dui. L’obbiezione coglie nel segno. Ma non è un’obbiezione perché, proprio a questo punto, bisogna rendersi conto che la peculiarità dell’essere spirituale è quella di non coincidere con la coscienza, anzi, di non essere affatto vincolato alla forma d’essere e ai limiti propri della coscienza. Se lo spirito obbiettivo fosse una sostanza-spirito, gli si

XXXIII. - LA COSCIENZA DEL SINGOLO

411

potrebbe benissimo attribuire una coscienza propria; allora, a seconda della specie e del grado di tale sostanza, sarebbe anche pensabile, « in » essa o « dietro » di essa, una coscien­ za, che potrebbe essere adeguata o inadeguata. Privo di un carattere sostanzialistico, lo spirito obbiettivo deve invece dipendere dalla coscienza degli uomini che accoglie nel pro­ prio seno. Ma questa coscienza, l’unica esistente, è e resta inadeguata.

2. L’essere

della scienza e la coscienza scientifica

Ciò che si è potuto intendere in generale considerando l’essenza dello spirito obbiettivo, si trova confermato anche empiricamente nei suoi diversi campi parziali. Qui però la situazione assume forme molteplici. Il campo che meglio suggerisce e, di fatto, ha spesso suggerito l’ipotesi di una coscienza comune, è quello della conoscenza. La conoscenza, vista in grande, è un pro­ cesso storico che include ogni acquisizione del singolo. La « ragione », si suole affermare, realizza i suoi progressi in tale processo, ed è « una »; non c’è, insomma, una ragione privata per ciascuno. Ma che si intende dire con questo? Forse che una Ra­ gione superiore alla ragione umana sta a fondamento di quel processo? O addirittura che una Coscienza superiore alla coscienza degli uomini si fa portatrice di quella ragione? Tesi di questo genere non sono mancate. È certo, tuttavia, che si tratta di costruzioni sospese in aria. Chi osserva il processo non vede nulla di simile. Un caratteristica tipica del progresso conoscitivo è proprio di non essere mai conclu­ so e compiuto in una coscienza, ma di scorrere parallelamente in molte coscienze, quindi in un modo che non è mai unitario, che anzi, a un certo grado di varietà, può essere divergente; cosicché una data situazione del sapere non

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

si riassume mai tutta in una sola coscienza. Il processo della conoscenza è si un’unità, ma è sempre un’unità che si pro­ duce lentamente, in quanto svariate coscienze singole vi si inseriscono col loro lavoro conoscitivo. Ma questo vuol dire che non c’è affatto un’unità della coscienza, bensì l’obbiettiva unità spirituale di un contenuto comune. Se nella scienza fosse presente qualcosa come una co­ scienza comune, il singolo potrebbe partecipare alla scienza solo nella misura della sua partecipazione alla coscienza comune. Basterebbe allora che sapesse elevarsi intimamente al livello di quella, senza bisogno di fare esperienza delle cose stesse. Le teorie razionalistiche hanno sempre inclinato verso questa concezione. Ma la realtà effettuale dello sforzo conoscitivo offre un quadro ben diverso: il singolo, già nel periodo in cui impara e cresce al livello attuale della scienza, deve sprofondarsi nella cosa stessa e sempre seguendo quella strada per la quale essa gli diventa accessibile. La cosa, quella si, è davvero comune. Ciò che, oltre a questo, lo stato della scienza offre all’individuo, è solo un lavoro preliminare, un sentiero già segnato verso la cosa. Il che non è poco. L’intuizione comprensiva, però, dipende da lui: la via già segnata non gli risparmia questo sforzo. Il quadro complessivo risulta dunque completamente ro­ vesciato: è chiaro che nella scienza non c’è una supercoscienza di cui l’uomo possa eventualmente spiare le car­ te. Sarà la coscienza privata e solo quella a percorrere la via della conoscenza. Ma non ne vedrà la fine, perché ciò che il singolo raccoglie è l’obbiettivo, il patrimonio spirituale acquisito. Ed anche questo soltanto in parte, perché il suo spirito non lo accoglierà mai tutto. C’è bensì, in ogni tem­ po, un’obbiettiva unità del contenuto della scienza; ma in nessun momento una coscienza adeguata di tale unità.

XXXIII. - LA COSCIENZA DEL SINGOLO

3. Coscienza

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giuridica e coscienza morale

Il diritto esistente non è una coscienza giuridica presente nelle leggi vigenti o al di sopra di esse; soprattutto, non al di sopra della coscienza giuridica dei singoli uomini. Esso coincide con la riconosciuta validità delle leggi nella co­ scienza giuridica degli uomini, nella loro volontà e nella loro sensibilità giuridica. Sono gli individui a possedere un coscienza giuridica, che consiste nel loro sapere circa le leggi obbiettivamente valevoli per tutti. Ma questa co­ scienza, da un lato non è di ordine superiore, dall’altro non è adeguata al diritto valido, perché non può abbracciar­ ne tutto lo spirito. Proprio per questo c’è bisogno di una legge scritta che impedisca la contesa circa i principi. L’identità di ciò che vale non è affidata a una coscienza, ma alla obbiettivazione dell’essere non-spirituale, nella « let­ tera ». Solo attraverso la mediazione della lettera, lo spirito della legge ottiene quell’obbiettività e generalità che corrisponde alla sua essenza. L’interpretazione e l’ap­ plicazione restano affidate alla limitata coscienza umana del diritto. E qui il contrasto delle opinioni non manca. Un ulteriore aspetto di questo stato di cose viene in luce a proposito della morale esistente. Non si tratta piu soltanto della coscienza di norme, comandamenti o valori ma, immediatamente, anche di decidere, di volere e di agire in conformità ad essi. Orbene, se ci fosse una coscienza comune dotata di iniziativa e di libertà — e so­ lo una coscienza che ne fosse dotata potrebbe essere una coscienza etica comune — allora il singolo, in quanto tale non porterebbe responsabilità o colpa. Ogni deci­ sione verrebbe presa al piano di sopra ed egli se ne stareb­ be lì, non solo innocente di tutto, ma anche irresponsabile e interdetto. Con ciò, naturalmente, egli non sarebbe più affatto un essere morale e dovrebbe sottostare alla coscienza etica comune come una cosa sottostà alle sue leggi di natura.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

Una simile coscienza comune, quindi, non farebbe che abolire l’eticità. È chiaro allora che neppure la morale esistente è una coscienza comune. A parte il fatto che nessun fenome­ no suggerisce che lo sia, non potrebbe esserlo senza togliere se stessa. Essa è invece soltanto, ciò che v’è di ob­ biettivamente comune nell’ethos degli individui, e cioè il fatto che nella loro viva e comune sensibilità per il valore valgono gli stessi valori e tutti ne sono soggiogati. Cosi è infatti, almeno fintanto che una determinata morale sia effettivamente valida. Né la comunità intesa come un tutto, né la coscienza tutrice, esterna o superiore, intervengono qui a garantire il singolo. Solo due cose sono comuni: 1) ciò che vale, la norma o il valore, e 2) l’apertura degli uo­ mini alla loro validità. La volontà cosciente, l’intenzione o l’azione che prendono posizione pro e contro ciò che vale, non sono comuni. Questo equivale a dire che l’elemento comune della mo­ rale è ciò che in essa è obbiettivo; la sua forma d’essere è solo quella dello spirito comune, non quella di una coscien­ za comune — e meno che mai di una persona complessiva.

4. La coscienza

della lingua, dell’arte e dello stile

DI VITA

Nella lingua, la situazione è la stessa, sebbene non presenti contorni altrettanto netti. Solo il singolo sa parlare. Uno spirito obbiettivo non sa parlare piu di quanto non sappia volere o agire. Non si può nemmeno dire che la lin­ gua vivente parli, perché viene parlata. Il parlare riguar­ da soltanto l’uomo. Anche qui, come in tutta la vita spirituale, l’elemento comune è soltanto lo spirito stesso. È lo spirito della lingua che accomuna gli uomini, non una qualche entità parlante e creatrice di linguaggio, dietro di essi. Una coscienza

XXXIII. - LA COSCIENZA DEL SINGOLO

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adeguata manca nel linguaggio come manca nella morale: il singolo è incapace di accogliere in sé tutto lo spirito della lingua. Quello che chiamiamo dominio di una lingua consiste, piuttosto, nel lasciarsene dominare. Ma anche lasciandose­ ne dominare non si arriva ad averne una visione panora­ mica. Ciò è ancora più evidente nel campo molto vario dello stile di vita, del gusto, del decoro, del costume conven­ zionale, della formazione e del sentimento di sé, della moda. In questo campo, a nessuno capita di pensare che esista una coscienza complessiva nascosta. Eppure, proprio in questo campo si resta colpiti dalla caratteristica uniformi­ tà delle persone, riscontrabile nei particolari più insignifi­ canti; tanto che si potrebbe benissimo sentirsi indotti a cercare, dietro le quinte della scena sociale, una specie di burattinaio che tenga consapevolmente le fila. D’altra parte, anche l’aspetto insensato della cosa è molto evidente: nulla è più caratteristico della profonda irrazionalità con la quale il gusto e lo stile di vita cambiano. Il modo stesso col qua­ le i singoli si lasciano conquistare da forme di questo genere, rivela chiaramente una certa incoscienza. Anche le even­ tuali allusioni a momenti significanti si collocano tuttavia molto al di fuori di questa sfera, o dietro di essa, cosicché quando la portiamo isolatamente al livello della coscienza, ci appare ben presto come qualcosa di gratuito e spoglio di ogni senso. Nell’arte propriamente detta, naturalmente, la si­ tuazione è molto diversa. I momenti significanti stanno in primo piano e non manca certo una coscienza dello stile e del gusto. Una coscienza che è quella dell’uomo, artista o spettatore e che, ancora una volta, non è in lui un dato primario inerente alla cosa, o anche soltanto adeguato ad essa; ma la segue piuttosto, e faticosamente, a una certa distanza, incerta e sempre in ritardo rispetto alla viva sensibilità artistica. Perché questa è una coscienza tutta parti­ colare che non ha per oggetto il gusto e lo stile, e neppure 1’« arte » in quanto tale, ma unicamente l’opera d’arte. « È »

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

già in se stessa, gusto e sensibilità stilistica ed appartiene senz’altro all’essere storico dell’arte. La sua obbiettività è data dall’importo comune dello spirito artistico; che non è affatto una coscienza comune. Questi esempi, facilmente estensibili a tutti i campi, bastano al nostro scopo, ossia ad illustrare un rapporto che in linea di principio è Io stesso in tutti i campi.

Capitolo XXXIV DEFINIZIONI HEGELIANE E LORO IMPLICAZIONI

1. Lo

SPIRITO CHE È SOLO IN SÉ

In questo contesto va notato che, in effetti, Io scopritore dello spirito obbiettivo, Hegel, ha trattato con molta esattezza il tema che qui ci occupa. Ciò è tanto più ammirevole in quanto la sua assunzione di una gene­ rale sostanza-spirito avrebbe potuto facilmente indurlo a propugnare anche una coscienza generale. Su tale base, in­ fatti, poteva apparire naturale attribuire allo spirito obbiet­ tivo un’autocoscienza il cui soggetto non fosse l’uomo. Que­ sto però, avrebbe richiesto anche un’altra « riflessione in sé » e la forma di un immediato « esser-per-sé » dello spirito obbiettivo. Ma Hegel, che qui seguiva fedelmente la via della « fenomenologia » dello spirito, ossia dell’« esperienza » che lo spirito fa di se stesso, non trovò un tale fenomeno, e si guardò bene dall’aggiungervelo con un espediente costruttivo. Vide anzi chiaramente che lo spirito storico, tra le sue fondamentali forme di apparizione, non annovera l’esserper-sé, ma possiede immediatamente soltanto la forma del­ l’« essere-in-sé ». Con questa determinazione, egli non intendeva escludere in generale ogni e qualsiasi coscienza dello spirito obbiet­ tivo. La stessa formulazione da parte sua di una teoria del­ lo spirito obbiettivo vi avrebbe contraddetto. Vide benissi­ mo che nello spirito soggettivo del singolo è sempre presente il germe di tale coscienza. Ma vide anche che tale coscienza

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

non è quella dello spirito obbiettivo ma la nostra, degli indi­ vidui. Lo spirito obbiettivo non è affatto soggetto, ma og­ getto, non coscienza, ma ciò che sta di fronte a una coscien­ za possibile. Mediatamente, c’è bensì anche un esser-per-sé del­ lo spirito obbiettivo; dato però che lo spirito obbiettivo non lo ha in se stesso, ma in noi, esso non coincide col suo esser-in-sé, non ne è parte integrante. Non si può dire, quindi, che lo spirito obbiettivo sia, anche per sé, ciò che è in sé. Nello spirito dell’individuo, esso non si riconosce mai più di quanto non si misconosca; vi si ri­ flette anche, ma solo frammentariamente. La coscienza dell’individuo è inadeguata e incapace a surrogare in lui quella effettiva e originale autocoscienza che gli manca.

2. Spirito obbiettivo come spirito incompleto Mette conto di indugiare su queste determinazioni, pur compromesse da tanta metafisica — non già per confer­ marle quali sono, ma per rendere giustizia alla forza e all’obbiettività che esse, malgrado quella compromissione, mantengono. Se partiamo dalla considerazione che qualunque en­ te a noi noto ci è dato o come oggetto o come sogget­ to — una distinzione che non riguarda l’essere ma sol­ tanto e unicamente il suo modo di datità — la forma di datità dello spirito storico comune è quella di un oggetto. Nel nostro vivere ed esperire, constatiamo che esso non è qualcosa che appartenga alla nostra coscienza, ma qualcosa che gli sta dirimpetto, un reale fuori di noi. Lo esperiamo, nella vita, come una potenza da noi indipendente, con la quale dobbiamo vedercela e fare i conti, che possiamo ri­ conoscere o misconoscere, come accade per ogni altro og­ getto reale. Il fatto che noi siamo attraversati e formati in profondi­

XXXIV. - DEFINIZIONI HEGELIANE

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tà da questo spirito, anche in quello che è il nostro tipo di coscienza, non cambia nulla, anzi, questa è una cosa che dobbiamo sforzarci particolarmente di comprendere. Al singolo, lo spirito è dato dapprima come una struttura prossima del mondo esterno, in quanto mondo umano; come una formazione del mondo comune, del milieu, di tut­ to ciò che in esso permane, vale, vige. Il singolo entra, cioè, in questa formazione spirituale del mondo comune, non altrimenti che nel mondo delle forme naturali. Sia l’uno che l’altro gli si presentano dapprima, allo stesso ti­ tolo, come esteriorità o mondo esterno. Non sono altro che mondi-oggetto, o meglio: essi costituiscono, uniti, quel­ l’unico mondo comune che è l’insieme di tutti gli oggetti possibili. In questo senso, lo spirito obbiettivo sta piuttosto dal­ la parte della natura, che da quella dello spirito soggettivo. Del resto, gli eventi naturali e quelli spirituali si intrec­ ciano inscindibilmente, i fatti storici e quelli naturali si fondono nell’unico processo complessivo del divenire uni­ versale. Visto cosi, lo spirito storico in cui viviamo è dato, in effetti, « obbiettivamente » come il cosmo in cui vivia­ mo — ambedue, si capisce, nei limiti della corrispondente esperienza. Inoltre, come c’è una natura « in noi » — la vita degli istinti, delle inclinazioni, ecc. — cosi c’è anche uno spirito in noi, il quale tuttavia, nella massima parte del suo contenuto, è già spirito comune che viene ripreso. Ma come la natura è da noi percepita in primo luogo in quanto natura fuori di noi, e quindi come natura in noi, cosi anche lo spirito comu­ ne. E poiché questo rapporto tra i modi di datità non si può rovesciare ad arbitrio, cosi non si può rovesciare neppure il carattere dello spirito comune di essere « obbiettivo » per noi. Anche se poi, con riflessione tardiva sulla nostra sogget­ tività, lo ritroviamo effettivamente dentro di noi, per noi es­ so resterà sempre « lo spirito che dà forma a un mondo e nelle sue forme lo mantiene » — un mondo nel quale noi viviamo come nel cosmo.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

Ecco dunque l’altra faccia dello spirito obbiettivo; quel­ la che sta all’origine del concetto coniato da Hegel. In tal senso, si può dire che è stato proprio Hegel a cogliere questo fenomeno fondamentale con la massima lucidità. Soprattutto, Hegel ha visto molto bene che lo spirito « obbiettivo » in quanto tale, ha la caratteristica di restare incompleto. Gli manca qualcosa che è indispensabile alla pienezza essenziale dello spirito: l’esser-per-sé, e non può averlo perché non è coscienza. Può averlo solo in una coscienza, quindi, non in sé. Cosi lo spirito obbiettivo attende sempre la sua integrazione dallo spirito personale.

3. Forma

superiore e forma inferiore dell’essere

SPIRITUALE

Quale e quanto peso possa avere l’incompletezza suddet­ ta, si vedrà appieno in un prossimo capitolo. Si tratta, intan­ to, di una specie di insuperabile indigenza, di un autentico modus deficiens, di una non-indipendenza ontica tutta par­ ticolare, per cui lo spirito obbiettivo non può e non potrà mai fare a meno del singolo spirito personale. Giac­ ché, senza una qualche componente cosciente — nel sapere di sé — lo spirito non può esistere neppure in quanto obbiettivo. Comunque esso si levi al di sopra dei singoli spiriti individuali, e si lasci portare dal vivere di questi come una sua sovrastruttura o sovraesistenza, ad essi deve pur sempre tornare nel corso coerente del proprio sviluppo. In un certo senso, deve chiedere aiuto allo spirito personale, perché solo in quello può trovare il proprio completamento. Deve « togliere in prestito » dallo spirito personale quella coscienza alla quale, in quanto sovraesistente, non può giungere da solo. Dal punto di vista ontologico, questo rapporto è della massima importanza, perché dimostra che lo spirito ob-

XXXIV. - DEFINIZIONI HEGELIANE

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biettivo, preso per sé, non è affatto la forma d’essere più elevata, o non lo è in tutti i sensi. È soltanto una for­ mazione d’essere appartenente ad un superiore ordine di grandezza, e in questo senso la sua superiorità rispetto allo spirito personale è simile a quella della natura. Ma una superiorità di questo genere riguarda soltanto la potenza e non necessariamente anche il livello d’essere. L’individuo rivendica, al confronto, una superiorità d’altro genere: quella di possedere le categorie della soggettività, della consapevolezza e della personalità. È quindi, a modo suo, indiscutibilmente la formazione più elevata, lo spirito più completo: solo l’uomo singolo è un ente responsabile, solo lui ha volontà, iniziativa, capacità di decisione. Tut­ to questo, e ciò che ne dipende, è dovuto alla coscienza. In compenso, tuttavia, nessuna delle due forme d’es­ sere dello spirito vivente compare isolata. Spirito personale e spirito obbiettivo si danno soltanto insieme, l’uno in rapporto all’altro e l’uno in dipendenza dell’altro, come l’uni­ tà di una relazione interna [Ineinandersein], come compa­ gine. Proprio perciò è essenziale che ciascuno abbia la sua prerogativa, il suo vantaggio ontico, una sua caratteristica superiorità. Uno spirito personale senza spirito obbiettivo sarebbe povero, privo di contenuto, vuoto, perché ogni suo contenu­ to è ripresa di un dato tradizionale. E uno spirito obbiettivo senza spirito personale sarebbe incosciente, cieco. In ambe­ due i casi, otterremmo un evidente non-senso. Non è possibile separare due cose tanto rigorosamente incatenate, per essenza, l’una all’altra. Lo spirito personale trova in quello obbiettivo la potenza che lo porta al livello e gli fornisce l’atmosfera stessa in cui vive e respira. Lo spirito obbiettivo però non ha, in quello personale, soltanto un ef­ fimero portatore e un motore, ma anche la consapevolez­ za, l’esser-per-sé, insomma: il proprio coronamento.

29.

Capitolo XXXV

FUNZIONE DIRIGENTE E COSCIENZA RAPPRESENTATIVA

1. L’esigenza

politico-sociale

di

un’iniziativa

co­

sciente

Se è vero, come è vero, che in tutti i campi lo spirito ob­ biettivo risulta privo di coscienza propria; che, se c’è coscien­ za dello spirito obbiettivo, questa non è in lui, ma soltanto in noi, ciò sarà vero anche per quello strato dello spirito che riguarda la formazione, la plasmazione e la -guida della co­ munità, ossia, per la vita pubblica, sociale e politica. Ed è facile indovinare che in tale campo questo stato di cose dovrà avere le conseguenze più gravi ed estreme, se non ad­ dirittura catastrofiche. Si rifletta: un complesso storicamente esistente di rappor­ ti e di istituzioni di vita comune vuol essere « governato », non può tirare avanti passivamente, ha bisogno in ogni mo­ mento di una mano che lo regga, di una direzione. La sua vita consiste in una catena ininterrotta di faccende di ordina­ ria amministrazione, di difficoltà, di contrasti, di necessità, di speciali situazioni politiche, di compiti; e quelle faccende vanno sbrigate, la contesa va risolta, la difficoltà superata, la necessità soddisfatta, la situazione deve essere valutata e i compiti adempiuti. Lo stato deve intervenire, deve decidere, agire; e questo, sia all’interno che all’esterno. Infatti, uno stato non è mai il solo esistente in un da­ to tempo e in una data situazione mondiale, ma uno tra molti stati coesistenti. Le complicazioni politiche della eoe-

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

sistenza sono una costante e sempre nuova fonte di pro­ blemi. Esigono che siano prese particolari misure, e non puramente contingenti, ma in vista dello sviluppo futuro. È chiaro che soltanto una coscienza può svolgere que­ sta funzione. Conoscere lo stato delle cose, prevederne gli sviluppi, valutare l’occasione favorevole, decidere in una situazione che, comunque, è quella che è, assumere l’ini­ ziativa dell’esecuzione — tutto questo spetta esclusivamente ad una coscienza. Lo stato però, in quanto tale, è senza co­ scienza. Come dovrà agire dunque? Come decidere e che iniziativa prendere? Lo spirito comune che vive in un po­ polo, al quale questa funzione spetterebbe di diritto, non è in grado di compierla perché, se non è privo di individualità storica, manca a sua volta di personalità, di soggettività, di co­ scienza. La massa delle persone singole è la meno indicata a svol­ gere questa funzione. In essa, ciascuno ha la propria co­ scienza, ma non è coscienza del tutto in quanto tutto, né è la stessa in tutti. Né le opinioni, né le intenzioni, né i fini coincidono. C’è bensì una maggioranza che, at­ traverso determinate istituzioni pubbliche, può anche espri­ mersi; ma, da un lato, non è sufficientemente mobile da seguire il mutare delle situazioni, dall’altro, non si può certo scambiarla per una effettiva e concreta volonté generale. Quest’ultima, ha un’esistenza puramente ideale e non coinci­ de con l’effettiva volontà di tutti. Di fatto, la massa ha sempre molte teste e nessuna.

2. La

posizione dell’individuo rappresentativo

È a questo punto che dovrebbe sentirsi con maggiore urgenza il bisogno di una coscienza di ordine superiore che diriga e comandi. Ma poiché lo spirito obbiettivo ne è pri­ vo, e lo stato non può resistere un’ora sola senza una viva coscienza che lo presidi, finisce col creare per il proprio mo­

XXXV. - FUNZIONE DIRIGENTE E COSCIENZA

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dus deficiens una specie di sostituto: cerca cioè di procurar­ si una coscienza rappresentativa — e la trova dove c’è, ossia in una singola persona umana. Con questo si ricorre a un sur­ rogato, è vero, ma d’altra parte non c’è scelta: è un’esigenza che può essere soddisfatta solo per mezzo di un surrogato. Cosi lo stato eleva l’individuo rappresentativo al posto, va­ cante, della coscienza-guida. Privo di testa se ne procura una artificiale. Che ciò accada in una forma di governo patriarcale o parlamentare, o in altra ancora è indifferente, in linea di principio. Che chi si assume la guida e la responsabilità sia il « re » o l’uomo di stato, o un « governo » composto di po­ chi individui, non cambia la situazione: ciò che la coscienza rappresentativa porta su di sé, è sempre il peso del potere e della responsabilità. E in ciò appunto consiste la sua fun­ zione: di rappresentare, col pensiero o con l’azione, lo stato stesso. Lo stesso principio si realizza nei deputati, eletti da un popolo a costituire insieme un parlamento: la loro elezione significa appunto che essi devono rappresentare gli altri, che ad essi vengono trasferiti la responsabilità e il po­ tere. La stessa cosa vale, anzi, per ogni funzione parziale, uf­ ficio o carica dello stato. Ogni ufficio ha la sua particolare competenza, la sua specifica responsabilità. E ciascuno ri­ chiede, intiera, una propria coscienza. Questo rapporto è tanto essenziale che, al suo confron­ to, il modo in cui l’individuo raggiunge la posizione rappre­ sentativa perde relativamente d’importanza. Che la raggiunga per eredità, per elezione o per propria personale abilità e su­ periorità, che il metodo seguito sia stato legittimo o violento, il rapporto essenziale, una volta acquisita una certa stabilità, è pur sempre lo stesso. Perfino l’usurpatore acquista di fatto la stessa responsabilità, visto che la posizione da lui usurpata è poi la stessa posizione che spetta alla coscienza rappresentativa. Tant’è vero che riesce a conservarla solo se riesce a farne uso secondo il senso in essa implicito. Infatti, il singolo ha potere solo in quanto rappresentan­ te, non certo in quanto è un singolo: il suo potere è in

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

prestito e ne dispone fin che gli viene conferito. Fonte del potere è e resta il vivente spirito obbiettivo, il potente ne è sempre e soltanto un portato. Egli può discostarsi dalla tendenza complessiva dello spirito obbiettivo solo in qualche particolare, non nell’essenziale e non per lungo tempo; per­ ché ciò che l’individuo rappresentativo conferisce allo spi­ rito obbiettivo, è solo la coscienza, l’iniziativa e la capacità d’azione: quanto ai bisogni reali, alle necessità, alle tenden­ ze, egli non è in grado di cambiarle. II potere stesso, in quan­ to gli viene conferito, lo costringe al proprio servizio; e non si tratta di una costrizione soltanto morale, ma altamente rea­ le eineluttabile. Qui diventa palpabile la differenza esistente tra la vita politico-statuale e ogni altra specie di vita spirituale. In tutti i campi si verifica occasionalmente che la personalità singola assume funzione di guida e, dovunque, le grandi conquiste e i grandi moti dipendono dalla presenza di tali guide. Gli esempi piu noti si hanno nel campo artistico; ma la stessa cosa accade anche nella religione, nella morale, nel diritto e nello stile di vita. La differenza è soltanto questa: che in detti territori della vita spirituale la presenza di una direzione unitaria non è indispensabile. Essi possono conti­ nuare ad esistere anche senza una coscienza o una iniziativa che li regga e li guidi. Qui lo spirito storico non ha bisogno di una iniziativa e di una capacità d’azione. Solo lo stato non può farne a meno. Solo nella vita politica il « tutto » deve essere in ogni momento consapevole di sé, prevedere il futuro, prendere decisioni, agire e di questo agire essere responsabile. Per capirlo, basta pensare a cosa significhi concludere una pace, sottoscrivere un trat­ tato con uno stato straniero o indurre ad un accordo interni gruppi «li potere. Solo un governo realmente stabile, che abbia un effettivo riscontro nella comunità effettiva può con­ cludere un trattato: il senso di un trattato è infatti la capaci­ tà di garantire che gli accordi verranno mantenuti. In nessun altro campo spirituale troviamo alcunché di

XXXV.

- FUNZIONE DIRIGENTE E COSCIENZA

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*. analogo La guida spirituale è dovunque soltanto prov­ visoria. Nello stato invece, la funzione di guida che la co­ scienza rappresentativa svolge, viene istituzionalizzata. Nella scienza, chi al momento, e in un dato campo, è un passo più avanti degli altri, ha funzione di guida; ma decade automati­ camente, non appena risulti superato. Analogamente nella poesia, nella musica, nelle arti plastiche e dovunque appaia­ no figure-guida. Lo spirito obbiettivo si svolge in tutti questi campi secondo una legge autonoma: una direzione autoritaria o costituita da parte del singolo può distoglierlo dalla via diritta, ostacolarne i movimenti spontanei. Nella vi­ ta politica, invece, una coscienza rappresentativa costituita nella quale si concentrino conoscenza, autorità e re­ sponsabilità, è indispensabile. Anzi, in generale si può di­ re che una cattiva direzione è sempre meglio che nessuna, purché sia fondata su un potere effettivo.

3. Il senso

del

« modus deficiens »

Questo rapporto è di per sé trasparente e ben noto. Che le cose stiano cosi non c’é dubbio. Circa il senso di tutto ciò, dal punto di vista della vita storica dello spirito, le opinioni possono essere contrastanti. Perché, se è ve­ ro che la vita dello stato non si risolve in quella dello spiri­ to, essa racchiude tuttavia un problema che è eminentemen­ te spirituale. Nel quadro dei problemi descritti, la situazione è la seguente: per tutti gli altri territori della vita spirituale è 1 Per lo meno su grande scala, dove sia in gioco l’intiero spi­ rito vivente e il suo destino. Su piccola scala, anche le singole per­ sone concludono trattati ma sono, per quanto le riguarda, esseri coscienti e capaci di agire; le associazioni corporative di ogni tipo e dimensione lo fanno soltanto per mezzo di loro rappresentanti, presidenti, segretari, consigli. Il sistema è lo stesso; anche se non interessa la totalità di uno spirito storico vivente.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

sufficiente la forma d’esistenza dello spirito obbiettivo, so­ lo per la vita politica non lo è. Ed è qui che il modus deficiens di tale forma d’esistenza balza in primo piano. Lo stato ha bisogno dello spirito personale in un sen­ so che non è quello dell’arte e della scienza. Per queste ul­ time, la persona singola è sufficiente in quanto momento por­ tante, integrante e motore. Lo stato invece ha bisogno del­ la persona come principio agente e dirigente, quindi, in una misura amplificata, in una elevazione di essa che la renda rappresentativa al di là dell’individualità dell’uomo privato. L’esigenza che lo stato pone all’individuo è tale da renderlo idealmente maggiore di se stesso. Non gli basta dunque il rapporto d’integrazione tra spirito personale e spirito ob­ biettivo, quale si verifica in tutti gli altri campi, ma pre­ tende che il puro e semplice spirito obbiettivo venga in­ tegrato in modo diverso. E poiché può trovare tale integra­ zione solo in quello stesso spirito personale che costantemente presuppone come proprio portatore individuale, è a lui che dovrà chiedere in prestito la coscienza di cui manca. Mancando di personalità propria, deve chiamare in aiuto la persona singola. In altri termini, deve chiamarla ad occupare quel posto vuoto formato-gigante che lo stato, per essenza, non è in grado di coprire ma che, per essenza, non è quello della persona. Da questo punto di vista, che lo spirito obbiettivo non sia né persona, né coscienza è una lacuna che appare mol­ to significativa. Che una coscienza dello spirito obbiettivo ci sia, ma si trovi solo dentro di noi, non vale a compen­ sare quel difetto. La coscienza del singolo uomo, infatti, non gli è adeguata, ma è solo un surrogato della inesisten­ te coscienza comune e non può fare dello stato un’entità capace di agire coscientemente, una persona complessiva nel senso della personalità individuale.

XXXV. - FUNZIONE DIRIGENTE E COSCIENZA

4. Inadeguatezza

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della coscienza rappresentativa

Se la coscienza, cosi elevata a una carica rappresentati­ va, fosse adeguata all’essere dello spirito obbiettivo, la lacu­ na sarebbe colmata. Ciò non accade perché l’uomo singolo non può sosti­ tuire a tutti gli effetti la coscienza comune mancante. L’ordi­ ne di grandezza a cui appartiene è nettamente inferiore. Come la sua persona può solo rappresentare e non compren­ dere in sé lo stato, cosi la sua coscienza non può abbrac­ ciarlo tutto, né penetrarne l’intiera complessione. Non può dunque rendergli giustizia neppure in quanto oggetto: cosa che una coscienza sufficiente dello stato dovrebbe po­ ter fare. La vita politica effettiva resta sempre parzialmente ignota non solo a se stessa — negli individui che compongo­ no la massa — ma alla stessa coscienza dirigente. La coscien­ za data in prestito è necessariamente inadeguata. Né l’esi­ genza di principio, né la pura volontà e neppure l’attuali­ tà storica di una situazione d’emergenza possono farci nul­ la. Ogni politica che non consista in un puro fatalismo e che non sia esecuzione di decisioni attivamente prese, è opera di uomini e reca tutti i caratteri del fare umano: uni­ lateralità, miopia, particolarismo o soggettivismo degli in­ teressi. Lo spirito personale è fondamentalmente non al­ l’altezza delle esigenze che lo spirito obbiettivo gli pone. La sua capacità portante non è sovrumana. La voce popolare dice che chi riceve da Dio una carica, riceve anche la capacità di coprirla ’. Una credenza molto ottimistica, che è difficile riferire alle cariche pubbli­ che di maggior responsabilità. Tuttavia, storicamente, la cosa pubblica non potrebbe esistere affatto, senza questa cre­ denza. Se la massa non mantenesse in qualche modo la fi1 II proverbio tedesco suona: wem Gott ein Amt gibt, dem gibt er auch den Verstand [N. d. T.].

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

ducia profonda che il governante sia dotato di forza e di saggezza corrispondenti alle responsabilità del suo ufficio, non lo seguirebbe, non concederebbe cioè alle sue ini­ ziative quella rispondenza che ne alimenta il potere. Un governo cui manchi questa fiducia da parte dei cittadini è debole e, nel momento decisivo, impotente. Il suo potere è in prestito; ma questo « prestito » non viene concesso una volta tanto, non si esaurisce in un’elezione, nomina, inse­ diamento o in un atto di omaggio, e neppure si identifica con l’innalzamento a una carica: la concessione del pote­ re è continua e non è altro che l’effettiva fiducia che il cit­ tadino ripone nel suo governo. Perciò, anche il potere è effettivo e ben fondato solo fin che dura quella fiducia. Nell’opinione pubblica il potere, cosi conferito, si ri­ flette nel prestigio, nella popolarità, nella creduta superiorità delle personalità di governo. Il prestigio del re, della dina­ stia, dello statista sperimentato, o anche di un gabinetto è la condizione fondamentale della capacità d’azione dello stato stesso. Ogni rafforzamento di quel prestigio è po­ tere per lo stato, ogni suo indebolimento, impotenza dello stato. Di qui il significato storico dell’idea di un diritto divino, fin che questa forma di fiducia corrispondeva alle pie credenze della massa; essa presupponeva infatti che il signore legittimo ricevesse una superiore illuminazione. Anche se elevato al grado più alto e sostenuto dalla più cieca fede popolare, l’uomo è però sempre e soltanto un uomo. Non può andare oltre se stesso, non diventa un su­ peruomo. La fede della folla può soltanto dargli il potere, non l’intelligenza, né la purezza del volere. Non può con­ ferirgli la capacità, superiore alla misura umana, di essere quella coscienza comune di cui lo spirito comune è privo, o la persona di una volontà divenuta generale. Quella fede può soltanto contrapporre, al troppo umano, la forza di un’idea. E può benissimo, entro certi limiti, sollevare chi è sensibile ad essa al di sopra della propria privata uma­ nità. Ma non fino alla realizzazione dell’idea.

XXXV. - FUNZIONE DIRIGENTE E COSCIENZA

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5. L’uomo portato in alto dallo spirito obbiettivo

Per due lati l’uomo non può essere all’altezza dello spi­ rito obbiettivo: dal lato intellettuale e dal lato morale, ri­ spetto alla saggezza e rispetto all’ethos. Non c’è intelletto umano che possa abbracciare la tota­ lità di una situazione politica complessiva con la stessa sicurezza con cui riesce personalmente a dominare la pro­ pria situazione privata. Qualunque situazione è fatta, oltre l’intreccio attuale e i suoi retroscena, anche di una buona porzione di avvenire. E questo avvenire va previsto. Quan­ to più una azione politica è lungimirante, tanto più è signi­ ficativa, incisiva, determinante, e tanto maggiori sono le sue probabilità di successo. Qui però la provvidenza umana s’arresta ai primi passi: l’uomo è provvidente solo « in pic­ colo ». Parimenti, non c’è libertà umana che possa risolversi durevolmente e totalmente in una pura dedizione allo sta­ to, all’ufficio, al dovere. L’uomo resta un uomo e, anche in sede morale, cresce solo limitatamente oltre se stesso. L’in­ teresse privato, la simpatia o l’antipatia personale spuntano dovunque e, naturalmente, soprattutto là dove non sono consapevoli: inavvertitamente, esse passano avanti all’obbiettività coscientemente conquistata. E quando questi motivi tacciono, saranno pur sempre gli interessi particolaristici più tradizionali e radicati a farsi sentire: quelli di un gruppo, di una classe, di un par­ tito. Perché anche il capo politico emerge sempre da qual­ che circolo ristretto. Di regola, è stato il partito stesso a metterlo in un posto di responsabilità allo scopo di meglio realizzare il proprio programma. Se egli risponde a questo scopo, non è l’uomo che ci vuole per lo stato: resta un capo-partito mentre dovrebbe essere un uomo di stato. Se invece lo sacrifica nel superiore interesse dello stato, non è l’uomo che ci vuole per il partito e contraddice a quel­ lo stesso gruppo di potere che lo porta. Cosi, all’interna li­

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PARTE Π. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

mitatezza dell’uomo si aggiungono i vincoli esterni dovuti alla particolarità della sua posizione. Nessuno ha la forza di identificarsi intimamente e sen­ za residui con lo spirito obbiettivo, come l’idea della dire­ zione politica esigerebbe. A questo scopo, bisognerebbe ces­ sare di essere una persona privata, di essere sensibile come uomo e di poter essere ferito. Bisognerebbe fare della propria coscienza il semplice organo di una pubblica istituzione. La legge può bene, entro certi limiti, fornire la condizione esterna di tale trasformazione: il concetto del sacrosanto. Ma la legge non può rendere inattaccabili moralmente i ma­ gistrati (avversari invidiosi e critici presuntuosi potranno sempre valersi della calunnia e trovare udienza) né pro­ teggere dall’interno il detentore del potere dalla propria umana fragilità — sia pure soltanto nei confronti della se­ duzione che proviene dal potere raggiunto e dalla posizio­ ne elevata. Il potere è un sottile tentatore: non è vero che esso si limiti a soddisfare l’ambizione degli spiriti forti. Può an­ che essere quello che la risveglia, e in misura imprevedibile. Vero è che l’accresciuta ambizione del singolo può anche, in senso superiore, essere utile allo stato, e da questo pun­ to di vista può essere considerata una forma in cui l’uomo dello spirito obbiettivo cresce al livello sovrumano dei suoi compiti — quasi un modo, per la persona, di essere sovrapersonale. Ma può anche sconvolgergli ogni misura ed es­ sere fatale sia a lui che allo stato.

6. La

casualità storica in quanto radicata nell’es­ senza DELLO SPIRITO

Nel complesso, il destino politico dei popoli non è di­ retto secondo un fine, non è dominato dalla coscienza, non è controllato e manovrato in vista di compiti consapevolmente perseguiti. Nel complesso, è sia un cogliere nel segno che un

XXXV. - FUNZIONE DIRIGENTE E COSCIENZA

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mancarlo e i suoi processi possono essere ripugnanti al senso, ma anche pieni di senso. La sorte dei popoli è af­ fidata a una serie di forze sconosciute, inesplorate e, per molti lati, del tutto insospettate, soltanto in minima parte di origine « esterna », per lo più dovute all’autonomo svi­ luppo delle relazioni intra-statuali. Di solito queste forze si rivelano soltanto dopo aver agito, e creato una situazio­ ne della cui dinamica l’uomo può allora prender atto, senza più poterla arrestare. Dal punto di vista dell’uomo — anche di quello che si è elevato aU’obbiettività — e della sua coscienza, la sor­ te del popolo e dello stato è allora nelle mani del « caso ». Infatti, ciò che chiamiamo caso è l’insieme dei fat­ tori incogniti nel contesto del divenire universale. Se l’uomo può determinare soltanto in misura molto ridotta il proprio destino privato, tanto meno può determinare quello di una grande istituzione politica. E poiché oltre a lui non c’è nessuno che la guidi, il carattere fondamentale dell’accadere storico è appunto quello di procedere nel comples­ so senza guida e senza finalità sensata, a dispetto di tutti gli sforzi umani. Questa vena di casualità è rintracciabile nell’operare stesso del grande uomo di stato. Ogni politico ha i suoi antagonisti esterni ed interni e la sua riuscita consiste es­ senzialmente nell’imporsi ad essi. Ma in che misura il suc­ cesso sia dovuto alla sua forza e in che misura alla debolez­ za dell’antagonista, non si può giudicare obbiettivamente. Senza l’occasione offerta dalla debolezza altrui, la no­ stra mossa non sembra destinata a riuscire. È chiaro che l’abilità di un capo sta proprio nella sua capacità di coglie­ re l’occasione. Ma neanche lui può crearla: essa deve offrir­ si « da sé » al momento giusto. « Fortuna » bisogna avere — e sono proprio i più grandi tra i grandi a confessarlo. Es­ si hanno sentito il proprio agire come un rischio, come un salto nell’incertezza ed.... hanno avuto fede nella loro buo­ na sorte. Questa fede è la forma del loro sapere circa la ca­ sualità storica con la quale dovevano fare i conti.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

Solo su piccola scala il corso della storia è diretto se­ condo uno scopo. Su grande scala non può esserlo. La fun­ zione di guida, infatti, spetta all’uomo e l’uomo è provviden­ te soltanto « in piccolo ». Questo è il limite di ogni tentati­ vo speculativo di comprendere teleologicamente la storia universale. La ragione di ciò sta nel fatto fondamentale che lo spi­ rito obbiettivo non comporta alcuna coscienza adeguata di se medesimo, ma può contare soltanto su una coscienza rap­ presentativa, la quale resta necessariamente inadeguata. Tale coscienza inoltre, non può mantenersi al comando che per poco, ed ha il tempo misurato; mentre il tempo dei processi storici è scandito secondo ritmi ben più ampi. A questo stato di cose non vale opporre l’ottimismo teleologi­ co di una metafisica idealistica della storia. Se lo spirito obbiettivo fosse una coscienza comune su­ periore alla nostra; capace di sopravvivere ai tempi e alle generazioni; capace di garantire, poste certe finalità e di­ sponendo di scienza e di provvidenza bastanti, la continui­ tà del processo, allora, certo, si potrebbe parlare di una teleologia dell’accadere politico. Perché questo vorrebbe di­ re che lo spirito obbiettivo è capace di adeguare da sé mez­ zi e scopi. Ma proprio questo è falso: lo spirito che agisce in vista di fini — perché un tale spirito esiste — non è quel­ lo obbiettivo, e quello obbiettivo non agisce in vista di fini. Questo stato delle cose va visto spassionatamente e bisogna trarne le debite conclusioni al di là di ogni ottimismo o pessimismo. La storia universale si può concepire come una lotta che lo spirito conduce contro questa sua intima sfortu­ na. Ma la sfortuna è tale solo in linea di principio: non rende l’uomo piccolo e insignificante, non spoglia di ogni senso la sua storia. Perché tutto ciò che di grande accade in essa è grandezza umana. Questo ci illumina anche su un secondo punto, cioè sulla « casualità » storica. Se il caso dipendesse soltanto da quelle forze esterne, elementari e non-spirituali che si

XXXV. - FUNZIONE DIRIGENTE E COSCIENZA

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insinuano in modo condeterminante nell’essere spirituale, lo spirito sarebbe sempre libero di imbrigliare e dominare il caso. Infatti, il senso e lo scopo restano sempre nelle sue ma­ ni. In linea di principio, lo spirito obbiettivo disporrebbe al­ lora della stessa possibilità di autogoverno di cui dispone lo spirito personale. In realtà, l’unico limite effettivo che qui vien posto allo spirito è puramente interiore: ed è, che lo spirito comune non può diventare persona e lo spirito perso­ nale non può diventare spirito comune: o, se si vuole, che lo spirito obbiettivo e lo spirito capace di azione finalizzata possono sempre soltanto completarsi a vicenda, non iden­ tificarsi. La radice della casualità storica non sta in quell’essere non-spirituale nel quale sempre la si è cercata. Su questo punto non c’è che da cambiare idea: la radice è nell’essenza dello spirito stesso.

Capitolo XXXVI IL LIMITE DEL POTERE NELLO SPIRITO OBBIETTIVO

1. Utopia,

teocrazia, stato dottrinario

Qui sembra emergere una certa contraddizione con i caratteri dello spirito obbiettivo precedentemente osservati. Si era visto che esso, una volta costituitosi, esercita una pro­ fonda influenza sull’intima formazione spirituale dell’indivi­ duo; tende cioè ad attrarlo verso di sé e dentro di sé, e, in effetti, lo lascia crescere nel proprio seno. Il contenuto di questo crescere-dentro è il concrescere tendenziale dell’indi­ viduo al suo livello. Questo influsso trova un limite sensibile solo nella pecu­ liarità della persona e dell’individuo. Possiamo chiederci: se lo spirito obbiettivo ha sull’individuo il potere che si è detto e d’altra parte, nella vita politica, ha un bisogno tanto urgen­ te di una coscienza adeguata, perché non solleva davvero almeno una élite di individui fino alla propria altezza? Da­ ta la varietà degli individui di cui in ogni momento dispone, non gli manca certo il materiale per una scelta possibile. E se momentaneamente gli mancasse, non gli mancherà sem­ pre, né presso ogni popolo. Perché dunque la sua potenza fal­ lisce, proprio qui, dove c’è urgente bisogno che l’individuo cresca al suo livello? La domanda è tanto più giustificata in quanto questo pensiero, anche se agli uomini d’oggi può risultare uto­ pistico, non è emerso raramente nella storia, ma è anzi uno di quegli ideali che hanno occupato nelle forme più 30.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

diverse i popoli e i loro pensatori. È un postulato contenuto nella antica concezione di un « dominio dei migliori » il cui senso non corrisponde affatto al confuso concetto di « aristocrazia ». Lo stesso pensiero è alla base dell’idea platonica del­ lo stato, secondo la quale il governo spetta ai saggi. Se te­ niamo presente che la sapienza di questi saggi è fondata sulla visione dell’ «idea del bene », la quale deve garan­ tire una implicita conoscenza a priori di ciò che sia il «giu­ sto » per lo stato, non c’è dubbio che qui si tratta di una specie di superiore illuminazione, la quale solleverebbe il singolo, oltre se stesso, all’altezza dell’istanza obbiettiva. Il diventare sapiente significa quindi, in tutta evidenza, il concrescere oggettivo della coscienza e dei suoi contenuti all’idea del suo compito nello stato. Similmente in numerose altre teorie che a questa han­ no fatto seguito. Lo stesso Platone potè addirittura concepi­ re l’idea che l’uomo, attraverso una sorta di allevamento con­ trollato, fosse in grado di produrre il saggio destinato a fun­ zioni di governo. Questa idea si ripresenta però anche indipendente­ mente da uno specifico presupposto filosofico. La ritro­ viamo, per es., su base religiosa, nelle costituzioni teocratiche. Il governante appare qui immediatamente co­ me portavoce di una sapienza sovrumana. E che questa non venga intesa come sua propria, ma come quella della divini­ tà, dimostra soltanto, in modo ancor più convincente, che in essa si cela l’idea di una coscienza adeguata. Che con ciò il carattere di principio di questa idea non venga ancora riconosciuto, non cambia nulla. Un pallido avanzo di con­ cezione teocratica sopravvive ancora nell’idea del governo « per grazia di Dio ». Anche nell’amplificazione mitica della dinastia, delle insegne (corona, trono, ecc.), o del cerimoniale tradizionale si perpetua questa idea. Non altrimenti, sia pure su base assai diversa, accade in uno stato comunista realizzato con una forma di governo dittatoriale. Qui, l’illuminazione viene da una dottrina re­

XXXVI. - IL LIMITE DEL POTERE

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lativa all’essenza dello stato; e coloro che la possiedono passano per i detentori di una verità assoluta. Ne segue che, se questa verità viene realizzata, lo stato dovrà per forza trovarsi sul binario giusto. Dietro il materialismo economico si cela un idealismo pressoché profetico della dottrina in quanto dottrina. In virtù della dottrina, la coscienza di chi detiene il potere sembra qui elevarsi quanto basta al diso­ pra della misura umana.

2. L’ideologo

e il politico realista.

L’individuo sto­

rico

Tutte le idee di questo tipo, su qualunque base si fondi­ no, sono molto istruttive perché dimostrano quanto sia attua­ le il problema dei limiti del potere nello spirito obbiettivo. Esse hanno tutte in comune la fede in un’elevazione della co­ scienza umana all’adeguatezza. Sono quindi istruttive pro­ prio perché dubbie, astratte o violente, per il loro diverso modo di mascherare la perplessità politica. La perplessità, però storicamente si fa luce. Nella teo­ crazia degli antichi Ebrei, le figure dei profeti indicano che ve n’era coscienza: che Dio parli attraverso i profeti e non at­ traverso coloro che pure se ne considerano gli eletti e gli uo­ mini di fiducia, vuol dire appunto che la vera illuminazione non si trova in questi. Similmente, ogni credenza storica si dissolve storicamente da sé, non appena il mutare del­ la situazione ne smaschera l’astrattezza. Neppure alla dottri­ na, la storia usa la cortesia di svolgersi secondo le sue pre­ scrizioni. In suo nome, lo sviluppo delle cose può venir forzato per un certo tratto, ma nessuno stato imbocca la stra­ da giusta in virtù di un rigido dogmatismo teorico. Sarà spin­ to su un percorso artificioso e uscirà continuamente dai bi­ nari. Nell’eterno contrasto tra l’ideologo e il politico reali­ sta, alla lunga è sempre quest’ultimo ad aver ragione, per­

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

che ha l’enorme vantaggio di tener conto, nei limiti delle possibilità umane, di ciò che è dato e disponibile. L’ideologo, di qualunque tendenza, rischia sempre di di­ ventare un cieco riformatore del mondo. Egli dimenti­ ca che nella vita politica in atto è sempre già presente una struttura molto ben delineata, dotata di un proprio svi­ luppo autonomo e che, in connessione a ciò, c’è sempre qualcosa che diviene, qualcosa che mette conto di cogliere, di assumere coscientemente e di realizzare sistematicamente. Il politico vero, nei limiti umani, è quello che possiede ab­ bastanza fiuto per percepire questo qualcosa e per esprimerlo in una forma che sia comprensibile alle masse. Questo in­ tendeva Hegel quando diceva che l’individuo cosmicostorico è quello che sa rivelare alla folla che cosa essa vera­ mente « voglia ». E se intendiamo ciò che «veramente si vuole » come l’interesse vero e più profondo di tutti, questo è qualcosa che la folla a molte teste naturalmente ignora. Perché è ciò che sta dietro ogni interesse partico­ lare di parte e dietro la contesa e il clamore dei desideri coscienti, ciò in cui, appunto, consiste l’effettiva tendenza dello spirito storico vivente. Il politico realista di gran classe è quello che effet­ tivamente, almeno in uno dei suoi nodi decisivi, sa co­ gliere ciò che nel tempo storico è positivamente in divenire e sa aprirgli la strada — sia nella valutazione della si­ tuazione politica data, sia nell’intelligenza e nella volontà dei contemporanei. L’uomo non arriva alla coscienza politica per mezzo di teorie, utopie o ideologie. Può sempre solo indovinare le possibilità che si offrono, in quanto aderisce alla realtà e, quasi, ne carpisce il segreto, assimilandolo in modo con­ geniale alla propria volontà. Ma proprio questa congenialità ha i suoi limiti. An­ che l’uomo storicamente più sveglio resta un uomo, uno spirito soggettivo, unilaterale, pieno di pregiudizi. Può so­ stituire lo spirito obbiettivo solo approssimativamente e a breve scadenza.

XXXVI. - IL LIMITE DEL POTERE

3. Il

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rapporto di integrazione reciproca come sur­

rogato DELLA SINTESI

Lo spirito obbiettivo, nonostante la sua potenza sui singoli, non solleva mai del tutto la coscienza individuale all’altezza della sua realtà effettiva. Non può rendere tale coscienza adeguata a se stesso. Anche a volergli attribuire la tendenza a produrre una simile coscienza nella figura di un singolo o di un’élite, sta di fatto che non ha forza bastante per riuscirvi. Per fare questo, dovrebbe infrangere la sua stessa legge, la sua caratteristica irriducibilità (per quanto riguarda completezza e pienezza di contenuto) al­ l’individuo che lo rappresenta. È quindi radicalmente sbagliato, a questo proposito, esaltarne la potenza alla maniera dei filosofi della storia. È anche evidentemente errato mettere questa sua potenza in contraddizione col fenomeno di potenza che in esso, vice­ versa, è risultato essenziale. Non c’è alcuna contraddizio­ ne. Lo spirito obbiettivo non è affatto privo di forza, ma non è neppure onnipotente. Non può fare l’impossibile, ec­ co tutto. E in questo somiglia allo spirito personale, la cui potenza è, anch’essa, altrettanto peculiare quanto caratte­ risticamente limitata. La potenza dello spirito obbiettivo ha pure i suoi limiti specifici: in una parola, allo spirito obbiet­ tivo sono possibili molte cose che sono impossibili allo spi­ rito personale. Diverso è il loro ordine di grandezza e di­ versa è la loro capacità di sviluppo. Ma ambedue dispongono di una potenza ben determinata, con una propria e stabile legalità. Lo spirito obbiettivo esistente costringe bensì l’indivi­ duo a crescere al proprio livello, ma sempre solo in quella misura che l’individuo in quanto tale può raggiungere. E que­ sta misura non coincide col tutto dello spirito storico, so­ prattutto non vi coincide per quanto riguarda il sapere circa le interne potenze motrici che, di volta in volta, lo spingono al di là di se stesso. A questo scopo, non c’è selezione di

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

individui che valga, sia condotta dagli uomini stessi, sia ese­ guita automaticamente dallo spirito che si tramanda. Es­ sa non otterrebbe alcun risultato rilevante, neppure se ri­ gorosamente circoscritta e diretta ad un fine preciso. Perché il materiale da selezionare non offre alcuna probabilità di ac­ quisire una coscienza superiore alla misura dell’uomo. Generalizzando le formulazioni che precedono, potremmo esprimere questa conclusione come segue. Né lo spirito umano-personale, né lo spirito storico-obbiettivo possono assumersi la funzione di una guida politica panoramica e globale. L’uno è soltanto coscienza, ma non quella del vi­ vente spirito comune; l’altro è soltanto vita dello spirito comune, ma non è coscienza. La sintesi dei due si può cer­ to costruire, ma solo speculativamente nel pensiero — dicia­ mo, dialetticamente —: non è producibile nella realtà effettuale. La realtà effettuale della vita politica e dello sta­ to conosce soltanto la loro integrazione reciproca. Che non è ciò che si dice una sintesi, un effettivo essere-in-uno \lneinsseifi]. Come lo spirito personale e lo spirito obbiettivo si in­ tegrino, abbiamo già visto in generale. L’integrazione è, inve­ ro, soltanto un compromesso — conforme all’esigenza po­ sta dalla vita politica — ma è anche abbastanza ampia da lasciare un margine sufficiente a una limitata coscienza po­ litica e a un’opera temporanea di direzione. Essa risulterà tuttavia straordinariamente differente se­ condo i popoli e i tempi. Perché i popoli sono molto diver­ si, sia per quanto riguarda il livello medio delle doti poli­ tiche individuali, sia per la capacità di esprimere individua­ lità d’eccezione, sia infine, ma non secondariamente, per la loro disposizione a farsi governare. Di questi tre fattori, soltanto l’ultimo appartiene intieramente allo spirito obbiet­ tivo. Rispetto ai due primi, esso dipende invece da altre potenze, che risalgono fino alle più profonde disposizioni vitali dei popoli. In queste ultime, esso trova il suo limite esterno.

XXXVI. - IL LIMITE DEL POTERE

4. Genialità

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artistica e genialità politica

Questa situazione potrebbe ancora sembrare in contra­ sto con quella di altri campi della vita spirituale, dove l’o­ pera di direzione individuale tiene un posto incomparabil­ mente maggiore, pressoché assoluto e capace di determinare lo sviluppo dello spirito « in grande ». A questo proposito si pensa innanzitutto, e con ragione, alla poesia e alle arti. È proprio qui, infatti, che si offre al singolo la possibilità di emergere in misura tanto straor­ dinaria rispetto alla media. E qui si potrebbe effettivamente dire che l’individuo riesce ad assumere il governo dello spi­ rito obbiettivo. Ma il problema è, appunto, se questo tipo di direzione sia trasferibile in altri campi, anzi, se sia so­ stanzialmente analogo a quello riscontrabile in sede politica. Si può dimostrare che non lo è. E per due ragioni: in primo luogo, la direzione del genio artistico non è una di­ rezione della coscienza; in secondo luogo, essa non si eser­ cita sulla dura materia della realtà effettuale, ma su un ter­ ritorio evanescente di libere formazioni e creazioni proprie, di cui lo spirito è il solo maestro e padrone. L’artista opera secondo la legge della forma, e in ciò consiste la sua arte. Ma di questa legge, egli non sa nulla, perché non è data alla sua coscienza né prima, né dopo l’o­ pera fatta. Essa agisce soltanto nel suo operare. Solo ciò che è concretamente intuito e formato cade nella luce della co­ scienza. Perciò, l’artista non sa dire come faccia ciò che fa e non può insegnarlo. Gli altri possono soltanto imitarlo a proprio rischio e, che ci riescano o meno, resta una que­ stione di congenialità. La congenialità ha tuttavia dei limi­ ti non meno ristretti della genialità. Non sono, comunque, i limiti della coscienza, e neppure qui la coscienza riesce ad abbracciare intieramente lo spirito vivente. Il genio politico, per contro, più è grande più è cosciente. Non basta che sappia aderire intuitivamente e con sicurezza alle correnti segrete, alle tendenze ancora in formazione,

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

che sappia fiutare ciò che sta per accadere e venire alla luce. Deve anche trovare la forma adatta per portare la sua si­ cura percezione delle cose alla coscienza di una folla incapa­ ce di vederle. L’artista può realizzare la propria intuizione senza trovare resistenza, il politico urta invece contro la resistenza di circostanze che sono quelle che sono. Deve vincere la resistenza e far prevalere la propria idea coi mezzi che ha sottomano. Guidare una folla che disordinatamente persegue i più diversi fini immediati, che ha determinate tendenze e propri automatismi, richiede un impegno del tut­ to particolare. L’inerzia che ogni direzione cosciente deve vincere è, qui, gravissima e sempre ricorrente. Quindi, il genio politico esiste bensì ma non è, nel pro­ prio campo, ciò che l’artista è nell’arte. Egli deve smuovere tutto il peso del processo storico reale. Ora, nessun singolo può trarre da sé l’energia sufficiente a tale impresa: un’ener­ gia che affluirà invece nelle sue mani se saprà trascinare a sé le forze già esistenti e se saprà servirsi delle tendenze in atto. Tali tendenze non hanno origini coscienti e scorrono per lo più sotterranee; perciò si lasciano facilmente incana­ lare e possono essere disposte a fini coscienti. È possibile valorizzare queste forze, non altrimenti che le forze eterna­ mente cieche della natura. Del resto, anche il politico più geniale ne è, e ne sarà sempre portato. Dovrà fare i conti con queste forze e sin­ cronizzarvi i propri movimenti. Non potrà evocarle o placar­ le a proprio piacimento. Esse costituiscono il dato materiale del suo lavoro e tutti i suoi propositi dovranno esservi com­ misurati. A queste due differenze possiamo aggiungerne una terza. Raramente — forse mai — una direzione (o « scuo­ la ») artistica assume le proporzioni di una direzione uni­ taria dell’intiero spirito obbiettivo. Tanto più che, in questo campo come anche in campo scientifico, non ce n’è affatto bisogno. Nella scienza e nell’arte vale il principio: più nu­ merose e contrastanti le tendenze, tanto maggiore lo svi­ luppo complessivo. La contesa, la polemica, la lotta accanita producono effetti positivi e sono caratteristiche di tutte le

XXXVI. - IL LIMITE DEL POTERE

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grandi epoche dello spirito. Non impediscono affatto un pro­ gresso unitario, perché qui il progresso si muove su un ampio fronte e lascia cadere tutto ciò che è inautentico e parziale. Si pensi all’intima varietà di tendenze della grecità clas­ sica la quale non offri, in effetti, che un unico quadro di contrasti e di lotte in tutti i campi. Fu grande nell’arte, nella poesia e nella scienza; ma nella sua vita politica, piena di debolezze e di lacerazioni, era il germe della sua decadenza. La funzione direttiva nella vita politico-sociale riguarda necessariamente il tutto. Essa esiste in generale soltanto se unitaria. La compresenza di tendenze particolari tra loro scisse ne è bensì un elemento portante, ma è insieme un ostacolo che essa deve superare, perché solo trionfando della dispersione acquista valore come forza egemone. A questo scopo, non si può attendere che la tendenza particolare decada da sé, ma bisogna agire intervenendo via via in ogni situazione data. Lo spirito obbiettivo darà bene i suoi frut­ ti, ma solo lentamente e a lunga scadenza. Nell’attualità immediata, invece, lascia la coscienza rappresentativa sola con se stessa, scarica su di essa tutto il peso — quello della resistenza da vincere e quello della responsabilità —, un pe­ so che lo spirito personale non è in grado di portare.

Sezione V

AUTENTICITÀ E INAUTENTICITÀ NELLO SPIRITO OBBIETTIVO

Capitolo XXXVII

L’INTERNA MINACCIA D’ERRORE

1. Il

pregiudizio di

Hegel a

favore dello spirito

COMUNE

A questo punto, intesa nel modo che s’è visto l’essenza dello spirito obbiettivo, convinti che il suo interno limite comincia proprio nel punto in cui la parte decisiva passa all’individuo, si è facilmente tentati di credere che lo spi­ rito personale sia inferiore allo spirito obbiettivo e che uni­ camente in quest’ultimo sia contenuta la verità e l’essenza della vita spirituale. Ciò è tanto più pericoloso in quanto a noi manca, a que­ sto proposito, un facile criterio obbiettivo per giudicare del valore e del disvalore. L’indagine storica ce ne offre uno ma, anche questo, è solo approssimativo e non sottratto alle oscillazioni del punto di vista. Nel presente in corso, d’altra parte, non abbiamo neppure questo. Hegel è incorso nella sopravvalutazione accennata. A lui sembrava essenziale ciò che, in una data situazione tem­ porale, mantenesse una validità generale. Si pensi infatti al suo ideale di moralità: la perfetta immersione della volontà

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PAKTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

privata nello spirito comune; non aver altri fini che i suoi fini; essere incapaci di qualsiasi azione che ne violi le leggi e le norme; tutela e sicurezza del singolo in seno allo spi­ rito obbiettivo. Se ciò non si riferisse ad altro che all’insufficienza della personalità singola, sarebbe un’unilateralità riconducibile al­ le basi stesse del pensiero di Hegel. Ma in realtà, qui si na­ sconde qualcos’altro: il pregiudizio che ogni e qualunque spi­ rito obbiettivo sia assolutamente autentico, l’opinione, cioè, che esso abbia sempre e in ogni senso ragione contro l’indi­ viduo. Ciò significherebbe che lo spirito obbiettivo, in fondo, non può mai sbagliare: l’uomo può compiere errori, e li compie sempre contro lo spirito obbiettivo in cui vive; ma quest’ultimo non ne compie. Errore è, allora, ogni eva­ sione da esso, ogni deviazione, ogni costituirsi di una co­ scienza morale autonoma, anzi privata, accanto alla coscienza morale comune. Di qui il caratteristico concetto hegeliano della « cattiva coscienza ». Lo spirito obbiettivo, per contro, è senz’altro infallibile: può seguire vie oblique, non però arbitrarie ma soltanto intimamente, storicamente necessarie. Quella che al giudice umano sembra una falsa strada è sol­ tanto la necessaria accentuazione di una tendenza determina­ ta che, a suo tempo, sarà compensata da una tendenza contra­ ria. Questo appunto esige lo schema dialettico del processo storico. L’apparente deviazione si rivela, in un senso supe­ riore, come l’unica via diritta. Si capisce benissimo che Hegel — data la sua sostanzializzazione metafisica dello spirito obbiettivo — la pensasse a questo modo. Alla base, sta un enorme ottimismo del pensiero storico: lo spirito in grande non è soltanto lo spi­ rito più forte, ma anche il più alto, il più perfetto.

XXXVII. - l’interna minaccia d’errore

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2. Il rovescio della medaglia

In questo contesto di pensieri, la nostra analisi ha già prodotto più di uno strappo. Dapprima ci si è dissolto tra le mani il concetto di sostanza e, al suo posto, è subentrata la categoria della « sovraesistenza portata ». In quanto to­ talità che « poggia sopra » l’individuo e ad esso si « sovra­ struttura », lo spirito obbiettivo appare ora ben diverso dal­ la sua versione hegeliana. Nella quale esso era, piuttosto, ciò che sottostruttura gli individui, ossia appunto, « sostan­ za ». Caduto il concetto di sostanza, si scopre il rovescio della medaglia. Crolla, innanzitutto, l’idea di un autosviluppo dello spi­ rito obbiettivo come monade sottratta a ogni influsso e, con ciò, anche l’idea della sua infallibilità. Si scopre che, nelle sue configurazioni e tendenze storiche, esso è esposto ai più vari influssi « dal basso ». Ciò non rappresenterebbe, di per sé, un pericolo per la purezza delle sue tendenze proprie. Ma la cosa cambia se, nello spirito obbiettivo stesso sco­ priamo certe controtendenze, debolezze o inclinazioni che a tali influssi corrispondono. E vedremo che è proprio cosi. Con la sua tendenza di fondo interferiscono, nell’effettuali­ tà storica, potenze di origine esterna, capaci tuttavia di mi­ nacciarlo daU’interno. All’uomo singolo accade, in sostanza, la stessa cosa: anch’egli è moralmente sempre minacciato dall’interno, in quanto la sua libertà è, per essenza, libertà per il bene e per il male, mentre il subumano che è in lui non permette che lo spirito regni solo. Lo spirito, in grande come in piccolo, reca, anche, in se stesso, le bassure dell’essere non-spirituale sulle quali poggia. Qualunque cosa intenda fare di sé, deve sempre strapparla alle proprie potenze portanti. Le quali si protraggono den­ tro di lui in maniera determinante e nelle forme più diverse. Dal canto suo, lo spirito è in perpetua lotta con queste potenze e cerca sempre il modo di venirne a capo, di creare « sopra » di esse uno sbocco alla propria tendenza originale.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

Ma come può riuscirvi, se gli manca una coscienza adeguata capace di mettersi alla guida di quel movimento che più propriamente è il suo? Come può una corrente spirituale giudicare da sé la giustezza della propria direzione se, da un lato, non riposa su una realtà sostanziale che gliela garantisca, e dall’altro non possiede una coscienza adeguata che, prevedendo e regolando, possa condurla fino alla meta? Ogni obbligazione a un fine è legata a una coscienza. Se però non c’è coscienza che non sia individuale, e quindi inadeguata allo spirito storico, anche ogni obbligazione a un fine sarà inadeguata. Nella massa degli individui, sulla base di una data situazione globale, possono sorgere le piu sva­ riate rappresentazioni di ciò che sarebbe necessario fare. Rappresentazioni che, per quanto cervellotiche, possono col­ pire, trascinare, sedurre la folla. In una massa suggestionata, quello che conta non è l’effettiva convinzione del singolo. Accade proprio il contrario: il singolo viene sospinto avanti dalla suggestione; che non è opera sua, ma della massa. Qui è ben raro che il singolo sappia da dove mai venga quel qualcosa che trascina lui e gli altri. Se di questo stato di cose non si può far colpa allo spi­ rito personale, si può però farne allo spirito obbiettivo. La sua vera tendenza, infatti, non è mai in ciò che suggestiona la folla, in cui, anzi, la sua essenza effettiva può essere misconosciuta e ignorata, se non falsata radicalmente.

3. Suggestione

di massa e spirito obbiettivo

La massa che si lascia suggestionare non è, in quanto tale, spirito obbiettivo. Quella è un collettivo, cosa che que­ sto non è. È vero che la suggestione di massa è uno dei fe­ nomeni che lo riguardano: quando assume grandi proporzio­ ni o abbraccia una totalità, essa si presenta immediatamente come un’escrescenza nella vita storica dello spirito obbietti­ vo. Ma può anche essere un impulso che segue l’ispirazione

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XXXVII. - l’interna minaccia d’errore

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del momento, fondamentalmente estraneo all’effettiva ten­ denza spirituale e capace, anzi, di falsarla; e allora è chiaro che bisogna distinguere tra l’autentico e l’inautentico all’in­ terno dello spirito obbiettivo stesso. Se è lo spirito obbiettivo stesso a produrre simili ma­ nifestazioni, ciò significa che, accanto alla sua interna ten­ sione essenziale, compaiono anche tendenze aberranti, le qua­ li si lasciano attrarre da false apparenze e quindi, in verità, potrebbero essere sia in accordo che in disaccordo con quel­ la. Se però è prodotta da altre forze, l’aberrazione potrà essere considerata, doppiamente a ragione, come l’inautentico e l’improprio in seno allo spirito obbiettivo. Ed allora, an­ che uscirne fuori sarà affar suo: perché, in un modo o nel­ l’altro, dovrà pur difendersi, salvo poi cadérne vittima e giacere sepolto sotto la sua mole. Comunque sia, la manifestazione stessa è, nel senso più ampio della parola, un fatto, e come tale va affron­ tata. Un fatto ha il suo peso. Che se lo spirito comune è suggestionabile e può cadere nell’inautentico, dobbiamo chie­ derci quando e dove abbiamo a che fare, in esso, con ciò che propriamente è autentico. Questa non è soltanto una questione filosofica teorica ma, fin troppo spesso, un inter­ rogativo cosciente da parte di chi vive in mezzo alla sug­ gestione. Il problema è sempre quello, scottante, di come liberarsi dalla falsificazione e attingere il fondo autentico e genuino dello spirito vivente. Se in tal modo diventa molto dubbia l’infallibilità dello spirito obbiettivo, un’ulteriore domanda sembra ine­ ludibile: è proprio vero che, come pensava Hegel, fuori dal­ lo spirito obbiettivo non vi sia salvezza? Non c’è proprio nulla di meglio, per l’individuo, che scomparire in esso? E i valori della totalità e del corso storico sono in ogni senso i più alti? Evidentemente, dobbiamo dire di no. E dovrem­ mo dire di no anche a prescindere dall’ethos individuale, dal valore incalcolabile della peculiarità personale, dalla ric­ chezza e varietà della natura umana. Il singolo ha, infatti, un privilegio di principio, quello della soggettività e della

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

personalità. Anch’egli, a suo modo (un modo diverso da quello dello spirito obbiettivo), è la più alta forma d’essere dello spirito vivente. Per il problema della autenticità e della peculiarità, ciò è decisivo. Anche lo spirito personale, si capisce, può delirare e cadere nell’inautenticità — nell’imitazione, nella posa, nella presunzione, in sentimenti di insufficienza; nella lettera delle leggi, nella schematicità morale, nella virtuosità orgogliosa, nel rigorismo, nel fanatismo di ogni tipo. Ma, e questo non va dimenticato, egli porta in sé il custode della propria essenza: è cosciente [Bewusstsein] e quindi può sempre es­ sere consapevole [Mitwissen] di se stesso. Cioè, coscienzioso [Gewissen].

4. Il singolo come voce della coscienza [Gewissen] DELLO SPIRITO OBBIETTIVO

In questo senso, quindi, lo spirito personale è superio­ re allo spirito obbiettivo. Infatti la folla è « senza coscienza ». E lo spirito comune manca di un’intima consapevolezza che lo accompagni. Non ha in sé una voce che lo sve­ gli e lo ammonisca, che possa ricondurlo a se stesso, alla propria essenza effettiva. E se una ne avesse, non l’a­ vrebbe nella propria essenza, ma nello spirito personale. Il quale, per farsi sentire da quello, deve prima vincerne la resistenza. Può darsi che, nel suo movimento storico, siano presenti tendenze capaci di riportarlo sempre di nuovo al­ l’autenticità della sua essenza, di farlo prorompere in for­ ma sempre rinnovata contro l’ingiustizia, suscitando cosi quella lotta in cui di fatto lo vediamo sempre impegnato. Questo prorompere non ha però la forma di una coscienza morale. E c’è da chiedersi se quella lotta sarebbe comun­ que possibile senza uno spirito personale che l’accendesse. Qui, come già nella vita dello stato, è l’uomo singolo

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XXXVII.

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l’interna minaccia d’errore

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a fornire la coscienza. Lo spirito obbiettivo, ancora una volta, non ha coscienza morale in se stesso, ma in noi, i singoli. Se l’uomo, accanto alla propria coscienziosità per­ sonale (che riguarda soltanto lui stesso e il suo agire privato) non disponesse anche di una coscienza morale pubblica e storica — o almeno della possibilità di formarsela — lo spirito obbiettivo sarebbe privo, oltre che di coscienza e di provvidenza, anche di coscienziosità. La capacità etica dell’uomo consiste nel fatto che egli può sentire e portare responsabilità. Non è essenziale che possa essere responsabile soltanto di se stesso: può assu­ mersi anche la responsabilità di altri uomini, sa essere cor­ responsabile. E ciò che può fare per gli altri uomini può farlo, di principio, anche per il tutto dello spirito comune. Nei limiti e per mezzo di questo suo potenziale di eticità, anche lo spirito obbiettivo diventa capace, mediatamente, di una specie di responsabilità. Lo diventa, là dove la cor­ responsabilità unisce, obbliga e accomuna i singoli. Se in ogni singolo lo spirito personale fosse sempre al­ l’altezza della corresponsabilità, la coscienza morale dello spirito obbiettivo sarebbe sempre assicurata. Ma il singolo per lo più vive coscientemente soltanto la propria vita pri­ vata. Soltanto a fatica può elevarsi alla consapevolezza del­ la vita comune. Tale elevazione, a sua volta, dipende da condizioni che risiedono nello spirito obbiettivo. In pri­ mo luogo, una determinata forma di crescita entro lo spi­ rito obbiettivo e di partecipazione ad esso, la quale si co­ stituisce soltanto in una tradizione ininterrotta e ad un de­ terminato livello del tradere. Cosi, la catena delle condizioni si muove in un circo­ lo e, per questa ragione, è difficile che si stabilisca una co­ scienza morale dello spirito obbiettivo. Non si tratta di una difficoltà esteriore o formale, ma di una difficoltà di principio che si ripresenta palpabilmente e concretamente in ogni corrispondente fenomeno parziale e che, in ogni territorio spirituale, pone precisi limiti al superamento del­ l’inautentico. 31.

Capitolo XXXVIII

MAGGIORANZA E OPINIONE PUBBLICA

1. Iniziativa

del singolo e decisione di massa

Queste considerazioni generali si possono precisare at­ traverso una grande quantità di fatti concreti e specifici. Si tratta di fatti ben noti che nessuno contesta in quanto tali. È il caso di parlarne, soltanto per metterne in evi­ denza la connessione col nostro problema. Significativa, in­ fatti, è tale connessione, e non i particolari in se stessi. A prima vista, il problema della folla e della sua sug­ gestionabilità sembra essere di competenza della psicologia. In questo senso è stato trattato sotto il titolo di « psicolo­ gia della folla » o « psicologia di massa ». Il vero punto in­ terrogativo, a questo proposito, riguarda il modo in cui la suggestione agisce. Accanto a questa sorgono, però, altre domande. Giacché, anche senza suggestione in senso pro­ prio, il buon diritto della folla, nelle sue varie tendenze e istinti, è quanto mai dubbio. I suoi motivi sono tanto soggettivi e particolari, quanto obbiettivi e generali. Tutte le volte che un popolo giunge storicamente al­ l’autodeterminazione, e forme di governo patriarcali, ari­ stocratiche o monarchico-autocratiche tendono a risolversi in un’autentica democrazia, sorge anche inevitabilmente il grave dubbio, se la gran massa sia davvero capace di ini­ ziativa politica e sappia portare la responsabilità del tutto che essa rappresenta. Si direbbe, appunto, che essa ne sia capace. Estensivamente, in base al numero, essa « è » ef-

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

fettivamente il tutto. Finché il potere è nelle mani di sin­ goli, o di gruppi di potenti, un popolo non ha alcuna ga­ ranzia che lo stato faccia l’interesse di tutti. Se invece il popolo si governa da sé, attraverso propri rappresentanti eletti o designati, quella garanzia, formalmente, c’è. Il concetto sembra molto semplice, ma l’insegnamento che la storia ci fornisce è ben diverso. Governare non si­ gnifica avere senz’altro tendenze e interessi comuni. Di per sé, la folla non produce nessuna iniziativa politica reali­ stica, non prospetta piani, non presenta progetti di sorta: può solo approvare o rifiutare ciò che le vien proposto. Ma tutto quanto riguarda l’iniziativa, il progetto, la previ­ sione fa parte di ciò che vien proposto, e non della fun­ zione dell’approvare o del respingere. E parimenti, ciò che vale per la larga massa vale anche, con qualche riserva, per quella potente rappresentanza a più teste che, come corpo parlamentare, consiglia e decide. È regolare che ogni iniziativa concretamente determi­ nata si trovi sempre in un certo contrasto con quella che è la tendenza della folla e quindi non si presenti mai come iniziativa della folla, ma come iniziativa del singolo. Que­ sta regola funziona indipendentemente dalla questione se la folla sappia giudicare o non sappia. Essa dipende sem­ plicemente dalla forma d’essere della folla. In ogni caso, alla folla non resta altro da fare che de­ cidere mediante approvazione o rifiuto. Il che non è poco. Infatti, con la propria decisione, si assume la responsabi­ lità di ciò che approva. Essa decide, idealmente, nell’« in­ teresse di tutti ». Ma qual’è questo interesse? A tutta pri­ ma sembrerebbe evidente. In pratica però è la cosa più ne­ bulosa che ci sia. La folla è fatta di singoli; l’individuo me­ dio vede solo ciò che è comprensibile per lui. Immedia­ tamente comprensibile per lui, infine, è solo ciò che lo toc­ ca praticamente: la sua condizione di vita, la sua posizione sociale. Ossia, qualcosa di molto diverso, appunto, secondo la sua condizione e il suo stato. Se una maggioranza è com­ posta di individui medi, non ha molte probabilità di cor­

XXXVIII. - MAGGIORANZA E OPINIONE PUBBLICA

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rispondere a quello che è effettivamente Γ« interesse di tut­ ti », e neppure a quello che è il suo stesso (della maggio­ ranza) interesse effettivo.

2. La

capacità di giudizio dell’individuo medio

Ora, il principio della maggioranza è un problema a sé. Il suo diritto evidente e ineliminabile dipende dalla legit­ timità della pretesa che ogni cittadino faccia valere nello stato, direttamente o indirettamente, il proprio interesse. La legittimità di tale pretesa non è però una garanzia che egli sappia anche riconoscere il proprio interesse effettivo nell’ambito dello stato. Se il singolo potesse raggiungere il punto di vista ele­ vato, l’intuizione politica complessiva, la pura volontà ci­ vile e politica che si conviene al tutto — potesse cioè elevarsi al di sopra di se stesso e mettersi al posto di quel­ la coscienza totale che non esiste — allora la maggioranza disporrebbe di un certo criterio relativo all’interesse ge­ nerale più profondo e più vero; in tal caso, anzi, non ci sa­ rebbe neppure bisogno del voto e, anche le opinioni più contrastanti su ogni altro punto, dovrebbero trovarsi com­ pletamente d’accordo circa l’interesse comune. Ma se da questo segno è già tanto lontano il politico di professione, lui che pure è padrone di un ben più ricco arsenale tec­ nico-teorico, che dire allora deirindividuo medio, che vive nella folla prigioniero delle proprie preoccupazioni private e solo di lontano guarda alle questioni pubbliche, solo fram­ mentariamente le segue attraverso resoconti ambigui e, in­ fine, non può comprendere che superficialmente ciò che ha visto e seguito! In poche parole: il principio della maggioranza presup­ pone che il singolo sia politicamente capace di giudicare. Ciò richiede, oltre la pura, apartitica dedizione alla « causa comune » (la vera res pubblica), anche un’idea di ciò che

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

si agita dietro le quinte — e non solo l’idea che si po­ trebbe avere se tutti quanti scoprissero le loro carte, ma anche quella che soltanto un’intelligenza politica autonoma può fornirci. Perché i fatti, da soli, non insegnano nulla. Per intendere il loro linguaggio, ci vuole la speciale capa­ cità di guardarli in trasparenza. Questa capacità è sempre stata, tra gli uomini, un dono raro. Anche in tempi di grande partecipazione popolare al­ la vita politica, soltanto pochi — nel caso migliore — hanno questa dote. Si pensi concretamente allo stato attuale delle cose, pressoché identico in tutti i paesi e in tutti gli stati: chi sa guardare attraverso le macchinazioni dei partiti e del­ la stampa da essi controllata? Ciascuno è catturato dalla tendenza cui appartiene; si ritiene al di sopra delle parti ma, a chiunque non sia orientato come lui, appare subito prevenuto e sviato. Non ci si capisce più, non si ha alcuna « causa comune », nessuno vede la res publica e la sua situazione, quali esse sono. È naturale che il singolo veda soltanto ciò che capi­ sce e che capisca solo ciò che, secondo lui, lo riguarda. L’opinione che decide che cosa lo riguardi e che cosa non lo riguardi è però quella della sua più intima comunità di interessi, del ceto, del gruppo, del partito. Il partito ha il suo programma, le sue parole d’ordine, le sue categorie politiche. Entro tali categorie si muove il pensiero dei sin­ goli; ogni loro comprensione ne è colorata, ogni ragiona­ mento preformato, ogni concreto interesse prevenuto. La conseguenza di ciò è molto semplice e seria: dove dominano i partiti, lo spirito di una vera ed autentica vita politica è assopito. O, meglio, è ben vivo, ma non può destarsi alla chiara coscienza. La coscienza è appunto ciò che gli manca. D’altra parte però: proprio quando un po­ polo matura politicamente e la massa prende parte alla vita dello stato, sono i partiti a comandare. Proprio quando un popolo acquista maturità politica è minacciato dal pericolo più interno e più grave, quello di restare del tutto privo di una guida politica cosciente.

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XXXVIII. - MAGGIORANZA E OPINIONE PUBBLICA

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È proprio in questo stadio che emergono con funzione determinante le maggioranze, le quali ne sono infatti un caratteristico specchio. Di regola, non sono neppure delle vere maggioranze d’opinione, ma maggioranze artificiali, co­ struite, procurate attraverso la propaganda, la suggestione, l’inganno. Infatti, è anche troppo facile barare con le mas­ se, cosa che, del resto, sono stati soliti fare i demagoghi di tutti i tempi: si dice alla folla ciò che essa vuol sentire, la si tira dalla propria parte e poi si fanno cose che essa stessa avrebbe respinto.

3. Crescita

organica alla corresponsabilità

In regime di maggioranza, che ne è dell’autenticità del­ lo spirito obbiettivo? Quanto sia difficile rispondere a que­ sta domanda, oggi più che mai noi possiamo dirlo. Qual­ cuno ha già dimostrato, in tutta serietà, che soprattutto le minoranze sanno dove stia di casa la giustizia. Che, insomma, gli uomini capaci di giudicare, appunto perché capaci di giudicare, sono sempre nella minoranza. Con questo rovesciamento, però, non si va molto innan­ zi. E di quale minoranza dovrebbe trattarsi? Certo, non di una qualsiasi. In generale, le minoranze non sono orientate in senso più universale delle maggioranze; sono dei gruppi tenuti insieme da un interesse particolare. E con quale cri­ terio potremmo distinguerne una che non lo sia? Del resto, se cosi non fosse, dove finirebbe il diritto del singolo a fare il proprio interesse? La legittimità di questa esigenza non può essere contestata con nessun argomento. È questa l’esi­ genza che Io collega allo stato; Io stato che, per principio, non vi prestasse ascolto, non potrebbe neppure contare su di lui. Ma lo stato deve poter contare su di lui, perché è proprio la massa dei singoli a portarlo. Comunque sia, a questo proposito non bisogna dimen­ ticare due cose.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

In primo luogo, mai e in nessun caso si tratta di una situazione statica con caratteristiche fisse, ma sempre di sviluppi, di trasformazioni in atto; c’è sempre qualcosa di nuovo che sta accadendo, qualcosa che si potrà giudicare appieno soltanto dopo che sarà accaduta. Anche lo stato fon­ dato su una maggioranza è storicamente in divenire. Ciò che esso pretende dai propri cittadini non è poco. In sostanza, l’ideale è questo: che ognuno possieda discer­ nimento politico, che ognuno, al di là delle parti, abbia il senso dello stato. È un’ideale che non può essere realizzato senz’altro; al quale però ci si può avvicinare educando nel­ l’uomo il cittadino. Come ogni educazione, anche questa è fondamentalmente educazione attraverso lo spirito obbiet­ tivo. Solo la vita nello stato può educare gli uomini all’idea dello stato, a patto che lo stato stesso riconosca loro il di­ ritto alla condeterminazione e, quindi, li lasci crescere alla corresponsabilità. Solo il diritto e l’esercizio della cittadi­ nanza possono educare il cittadino in quanto tale. Anche qui, la via organica è il « crescervi dentro ». Una via che, come s’è visto, coincide, nel modo, con la continuità di vita e il progressivo sviluppo dello spirito obbiettivo. Allora però, neppure le maggioranze potranno attingere di colpo la loro essenza ideale. Per poter assolvere ai loro compiti, avranno bisogno di una maturazione storica, do­ vranno accumulare dell’esperienza, far tesoro dei propri er­ rori, delle proprie vicende, della propria storia. Anche co­ si, naturalmente, non realizzeranno l’idea. Non in questo è il criterio, ma nel grado di approssimazione raggiunto. E qui, chi vorrebbe anticipare un giudizio pessimistico, quando la storia delle maggioranze come forze determinanti nello stato è ancora tanto breve?

XXXVIII. - MAGGIORANZA E OPINIONE PUBBLICA

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fini dell’uomo di stato e la sua morale

In secondo luogo però, una maggioranza non è mai la­ sciata a se stessa, di fatto, ma è sempre accompagnata dal­ l’iniziativa individuale di un capo politico, spesso anzi la reca in sé come una vera e propria norma. Naturalmente, questa iniziativa può anche essere sbagliata, debole, inde­ cisa. In se stessa, non sarà mai un rimedio sufficiente al pubblico sviamento; in quanto personale e cosciente, tut­ tavia, fa pur sempre da naturale contraltare alla folla dei molti. Quella stessa passività, influenzabilità e suggestionabi­ lità delle masse che rappresenta il maggior pericolo per lo stato, offre anche una certa possibilità di sfuggire al vicolo cieco del principio di maggioranza. La superiorità dell’uomo di stato, che in effetti vede piu cose della folla, cercherà e troverà sempre il modo di far accettare alle masse dei fini che esse, per il momento, non vedono e non intendono, ma che tuttavia, in senso profondo, sono i loro stessi fini. E ci riesce nella misura in cui sa prenderle dal lato dei loro interessi coscienti — cioè superficiali o particolari. Fino a che punto, nel far questo, egli faccia l’interesse vero della massa, non è soltanto una questione di coscien­ ziosità politica, ma piuttosto di intelligenza, di esperienza politica, di esatta valutazione della psicologia della massa. La questione di coscienza che qui si pone naturalmente e a cui non ci si può sottrarre, non va però commisurata ai normali criteri di una data morale borghese. Non è affatto vero che la politica « corrompa il carattere ». Piuttosto, es­ sa mette spietatamente a nudo la mancanza di carattere: una natura, che alla luce di rapporti ristretti e personali sem­ bra carattere, è invece ben lungi dal possedere la solidità e la sicurezza che solo la prova del fuoco di un’alta respon­ sabilità può rivelare. Solo chi è interiormente magnanimo resiste a tale prova; agli attacchi scoperti, ma soprattutto

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

al misconoscimento e alla necessità di mettersi apparente­ mente dalla parte del torto. Ci si può chiedere, piuttosto, se non ci sia una ben pre­ cisa e specifica morale dell’uomo di stato, la quale va giu­ dicata con un criterio tutto particolare: perché altri sono in questo campo i valori cui il volere e l’agire individuale si ispirano; come pure l’entità e la qualità della posta in gioco. Nulla garantisce che la seducibilità della massa non se­ duca, a sua volta, il capo politico, salvo il contrappeso con­ tenuto nel suo stesso rapporto con la massa. Perché, alla lunga, la sua preoccupazione costante diventerà quella di farle capire i suoi veri scopi e di far si che essa li faccia propri. In caso contrario, la sua opera mancherebbe di con­ sistenza. È infatti nell’essenza dell’operare politico, che l’o­ pera non sia quella voluta. Ma ciò significa, appunto: il peso stesso e il valore intrinseco del suo agire, finiranno ne­ cessariamente col costringere il politico a scoprire di nuovo le sue carte. E allora le masse gli daranno ragione soltanto se riconosceranno in un senso ormai chiaro e ad esse com­ prensibile, di essere state ben guidate. È anche presente, naturalmente, nello spirito obbietti­ vo la tendenza contraria, quella che riporta i momenti spuri, le inevitabili mistificazioni, nel solco dell’autentico e del genuino. Ciò si può esprimere anche dicendo che lo spirito politico non può, in pratica, allontanarsi a piacere dalle sue vere tendenze interne. Gravita sempre tutto quanto verso di esse. Resta appunto il fatto che non sono né la coscienza, né l’intelligenza delle masse a poter guidare questo processo. Solo il veggente vince la cecità. Ma, anche lui, può inse­ gnare agli altri a vedere solo quando il loro momento è giunto. La nostra epoca crede nella maggioranza. Questa fede non è certo sempre salda, né sempre sincera. In complesso, però, resiste e, del resto, non si conosce di meglio. Essa co­ stituisce, per lo meno, la base di un modus vivendi in po­ litica interna. In una prospettiva storica, è anche qualcosa di piu: la fede nel criterio di maggioranza è una forma dello

XXXVIII. - MAGGIORANZA E OPINIONE PUBBLICA

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spirito obbiettivo stesso — unilaterale e insufficiente come ogni altra, ma pur sempre un tentativo di sopperire con un’istanza decisionale alla mancanza di una coscienza totale. Il surrogato funziona nella misura in cui effettivamente serve a prendere decisioni; non funziona più se si riduce a un cieco meccanismo. Del resto, un surrogato è sempre un surrogato *.

5. L’antinomia

dell’opinione pubblica

Un gruppo affine di fenomeni, pure relativi all’inautenti­ cità nello spirito obbiettivo, è quello dell’« opinione pub­ blica ». Pubblica opinione non è semplicemente l’opinio­ ne dei singoli, non coincide, cioè, con le loro opinioni in­ dividuali. È multiforme nei molti, lascia spazio a congetture e a contrasti, e tuttavia, nel complesso, è qualcosa di iden­ tico in tutti: identica è la sensibilità, il modo di reagire, il giudizio o il pregiudizio. Inoltre non costituisce affatto una maggioranza politica benché, in effetti, sia 1’« opinione dei più ». Essa non riguarda sempre o necessariamente questioni politiche. Si riferisce indifferentemente a qualunque cosa di interesse comune: le condizioni sociali, i casi giudiziari, fatti religiosi, morali, artistici, imprese sportive o tecniche fatti e misfatti di questa o quella personalità, cose importan­ ti e cose da nulla, purché alimentino, in qualche modo, il bisogno di sensazione. In campo politico, l’opinione pubbli­ ca è sempre presente dietro ogni riflessione oggettiva e consa­ pevole e dietro ogni decisione responsabile. Il politico di professione può benissimo porsi in contraddizione con essa, * In questo contesto, è un fatto molto istruttivo che proprio quella forma di governo che più univocamente si fonda sulla mag­ gioranza, e che ha applicato nel modo più rigoroso il sistema dei consigli, sia anche quella che, in pratica, se ne è allontanata più di ogni altra. Al suo posto è subentrata la dittatura.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

in quanto può arrogarsi un piccolo quantum di intelligenza in piu. Nel corpo parlamentare, una maggioranza potrebbe risultare ben diversa da come la richiederebbe l’opinione pubblica. Eppure, non è che l’una serva immediatamente di correttivo all’altra, perché quello che è il punto debole della maggioranza (la mancanza di obbiettività e di auten­ tico discernimento) ritorna, rafforzato e aggravato da una maggiore volubilità e inconsistenza, anche nell’opinione pub­ blica. L’opinione pubblica reagisce a tutto, si mescola a tutto ciò che accade. Essa accampa la pretesa di aver un giudi­ zio da esprimere su ogni proposito. Dato che invece, in­ fluenzabile e suggestionabile com’è, non può averlo, è chia­ ro che nella sua essenza stessa si cela un’antinomia. In essa c’è la verità e c’è l’errore, e tutt’e due in senso forte: la verità, come il sentimento irriducibile di ciò che sia giusto e proprio; l’errore, in quanto possibilità illimita­ ta di mistificazione. Il sentimento delle masse non è spre­ gevole — finché si tratta solo del loro genuino sentimento. Le masse sono il vero e proprio corpo popolare e, in ogni questione pubblica, è sempre di esso che si tratta. In certo modo, nel loro sentimento è sempre contenuto lo spirito storico effettivo. Che tuttavia, in tale sentimento, non sa immediatamente che cosa esso stesso, in verità, sia. Per questo l’opinione pubblica è fluida e reagisce a tutti gli urti. In questo campo, l’ago dello spirito obbiettivo non in­ dica necessariamente la direzione della sua tendenza effettiva. Ammesso che possa indicarla, lo farebbe soltanto nel tut­ to o, per cosi dire, nella risultante delle sue manifestazionioscillazioni, non già nei particolari. Le oscillazioni, però, se ne allontanano e non la lasciano riconoscere. Le masse ne hanno solo un oscuro sentimento e non sanno dire cosa sia: bisogna dirglielo. Ma alle masse si può far credere sia il vero che il falso. Esse si lasciano ingannare dall’appa­ renza — certo non sempre, perché il falso si vendica di lo­ ro — ma intanto si lasciano ingannare. Questa antinomia, che Hegel ha visto e sulla quale

XXXVIII. - MAGGIORANZA E OPINIONE PUBBLICA

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ha tanto insistito, non è frutto di artificio. È fin troppo attuale e presente nella vita effettiva dei popoli. Essa in­ dica che nell’opinione pubblica c’è qualcosa che il singolo — anche il capo — deve necessariamente tenere nel mas­ simo conto, ma insieme qualcosa che egli deve considerare col massimo disprezzo. In essa, c’è sempre sia l’inautenti­ cità che l’autenticità dello spirito obbiettivo, mescolate in modo tale da non permetterci di distinguerle. È una situazione ben nota già dai tempi più antichi. In tutte le grandi culture troviamo il disprezzo per la mas­ sa, per i suoi trasporti emotivi, le sue passioni. Ma troviamo anche l’opposto: dove ogni valutazione umana fallisce, si finisce col fare appello alla vox populi — nella tacita convinzione che in essa parli la vox dei, la voce di una giustizia superiore e superiore alle parti. Ciò implica la convinzione che proprio il senso di giustizia dell’uomo co­ mune sia, in fondo, infallibile. Cosi il fenomeno risulta intimamente scisso secondo ca­ ratteri contraddittori ma essenziali. È quello che si dice un fenomeno dialettico.

6. Nessun

criterio

- nessuna soluzione

Con quale criterio sceverare l’autentico nell’opinione pubblica? Non è autentico semplicemente ciò che in essa presenta un carattere di serietà. Anche una pura suggestione può rivelare un volto molto serio; può assumere proporzioni e scatenare forze e passioni capaci di mettere tutto a soq­ quadro. Come mai in tempo di guerra la diffamazione di un popolo straniero è tanto intensa e priva di scrupoli? Essa può rendere credibili le cose più incredibili — e ciò, si badi, non in età superstiziose, ma nel cuore di una civiltà economico-tecnica fredda e razionale. Qui non vale argomentare sull’opera sistematica di propaganda condotta da un governo interessato solo a se stesso, l’abuso della stampa, ecc.; per­

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PARTE Π. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

che questi sono piuttosto i mezzi o le forze attraverso i quali la suggestione opera. Sconcertante è invece che la massa si lasci influenzare proprio da qualcosa di incredi­ bile. D’altra parte, sarebbe ridicolo credere che simili dif­ famazioni artificialmente alimentate e spinte oltre ogni limite dell’umanamente credibile, siano mai state la vera opinione di un popolo nel suo complesso circa un altro popolo nel suo complesso. La cosa ha questo di veramente strano: che, in fondo, ciascuno sa bene di venire ingannato, eppure soggiace alla suggestione. Vi soggiace, non perché privo in tutto di giudizio, ma perché sta nella massa anche lui, e perché la situazione pubblica è al momento tale da indurre lui e gli altri, quasi privandoli della loro volontà, a quegli atteggiamenti estremi che altrimenti ciascuno di­ sdegnerebbe. L’onda momentanea dello spirito obbiettivo lo afferra e lo porta con sé. L’inautenticità è proprio dentro di essa. Questo fenomeno è generale e non va riservato a casi limite. Si ripresenta regolarmente in tempi politicamente agitati, e sempre con le stesse caratteristiche: la suggestione trascina senza veramente convincere e, nel popolo, resta sem­ pre viva la coscienza fredda e infallibile che, in realtà, « è tutto diverso ». Si sa benissimo che anche i nemici so­ no uomini, che anch’essi vogliono, a modo loro, i loro di­ ritti, che forse sono anch’essi accecati dalla propaganda. Que­ sta diversa coscienza è soltanto soverchiata, sommersa, o non osa manifestarsi. Cosi la massa, nelle mani di un gruppo di potere, è come un giocattolo, viene ingannata in ciò che meglio co­ nosce, lascia che si abusi di lei — per scopi che non sono affatto i suoi. Se sia permesso ingannare un popolo circa se stesso e i propri destini, è quasi una questione oziosa, di fronte a tanta gravità di fatti. C’è forse un gruppo di potere che chieda cosa sia permesso fare? Chi se lo chiede, a ben guardare, non è già più un gruppo di potere: non si preoccupa dei propri fini, ma di quelli del popolo in­

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XXXVIII. - MAGGIORANZA E OPINIONE PUBBLICA

tiero, della effettiva tendenza che lo spirito obbiettivo as­ sume in esso. Ed è appunto cosi facendo che trasforma la propria coscienza morale privata in coscienziosità pubblica. A questo punto, non è facile associarsi all’ottimismo di Hegel, « ...che un popolo non si lasci ingannare circa la propria base sostanziale, l’essenza e il carattere deter­ minato del proprio spirito, ma si inganni facilmente da sé sul modo di prenderne conoscenza e di giudicare, quindi, le proprie azioni, gli avvenimenti che lo riguardano e cosi via » *. Per contro, l’illusione può benissimo toccare il sostanziale, seppure non per sempre; ed essa scaturisce di solito non già dalla massa, ma dall’iniziativa del poli­ tico. Lo spirito obbiettivo, infatti, non è una « sostanza » nel senso di Hegel. È una formazione sovraesistente quanto mai dipendente, le cui tendenze originali emergono in una continua lotta con potenze estranee di ogni sorta. L’opinione pubblica non ha in sé alcun criterio della ve­ rità. È come se aspettasse sempre di riceverlo dal di fuori. L’istanza alternativa che eventualmente glielo potrebbe for­ nire, risiede però nello spirito personale il quale, crescendo, eccede l’opinione pubblica e ne assume la guida. Risiede quindi là, dove è anche la fonte e l’iniziativa della misti­ ficazione. Il capo politico deve quindi — e questa è la prima con­ dizione della sua funzione di guida — rendersi indipenden­ te dall’opinione pubblica. Ma, in questo caso, indipendenza equivale a opposizione, e l’uomo politico, non potendo nella sua opera procedere contro l’opinione pubblica, deve con­ quistarla. Se non riesce a convincerla per mezzo della causa stessa che egli propugna per il bene comune, è costretto a ingannarla. Deve farla lavorare, come una forza elementa­ re della natura, per scopi che essa non può consapevol­ mente far propri. Allora però la giustificazione di tutto il rapporto riposerà sulla purezza e sulla coscienziosità della sua sola persona. Che egli sappia o non sappia essere mo1 Hegel, Werke,

voi. Vili,

Philosophie des Rechts,

ρ. 410.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

Talmente e intellettualmente all’altezza di questa esigenza, dipenderà dalla speciale natura della sua personalità. È dunque nell’essenza della personalità, di essere limi­ tata da due lati, anche se ciò non la priva della sua auto­ nomia.

Capitolo XXXIX

L’INAUTENTICO NELLA PURA VITA DELLO SPIRITO

1. Gusto

artistico e luogo comune

Se lo spirito obbiettivo risultasse falsificabile soltanto nella vita politica, si potrebbe credere che l’inautentico non gli appartenga in proprio e solo vi si infiltri « dal di fuori ». Infatti lo stato, in quanto tale, non è spirito, né la sua vita è vita puramente spirituale. La realtà però è un’altra, e il fenomeno della mistificazione si presenta anche in altri campi, non esclusi quelli della pura vita spirituale. I migliori esempi si trovano nel campo dell’arte, del gusto e dello stile di vita; ma il fenomeno è sensibile anche nella visione del mondo, nella fede e perfino nella valutazione e nella morale. Qui, è ben difficile gettare la colpa su fattori di natura non-spirituale. Qui bisogna per forza ammettere che, nello stesso spirito obbiettivo, abbia­ no origine inautenticità e mistificazione. Varrà quindi, per lo spirito obbiettivo, la stessa cosa che vale per lo spirito personale: anch’esso recherà in sé, in qualche modo, una minaccia contro la sua propria essenza. Ciò non significa che tale minaccia sia proprio racchiusa nella sua essenza. Se lo spirito obbiettivo deve prima farsi ciò che per essenza è, la sua maniera d’essere e di divenire implica che esso possa mancare, ma anche cogliere e realizzare questa sua essenza. E lo può soltanto se, proprio come lo spirito per­ sonale, non soggiace alla legge essenziale dell’autoplasma32.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

zione come a una sorta di necessità naturale, ma resta li­ bero di adempiervi o no. Quando compare una nuova corrente artistica e la gen­ te affolla le esposizioni, la maggior parte del pubblico è dapprima sconcertato dalla novità. Ora, supposto che que­ sta sia davvero originale e decisiva, il vero ed intimo pro­ cesso di trasformazione del gusto consiste nell’abituarvi pian piano l’occhio, nell’esser conquistati dalla forza stessa del­ l’opera, nell’aver cosi cambiata e riplasmata la propria sen­ sibilità. Di fatto, raramente il processo si svolge in questo mo­ do. Molto prima che il singolo venga a contatto diretto e personale con l’opera, è prevenuto da ciò che ne sente dire o dalla presentazione sensazionale fattane dalla pubblica « critica ». Un alone di opinioni già fatte lo circonda e lo cattura: egli guarda attraverso la lente di quelle opinioni, non può sottrarvisi e, di regola, non si rende neppure con­ to di questa sua illibertà. In tal modo, non giunge affatto a ima visione artistica propria che sia adeguata alla situa­ zione, neppure quando ne sarebbe personalmente capace. La cosa è per lui « conclusa » prima ancora che abbia co­ minciato a capirla. È un fenomeno apparentemente ben noto. È pur vero che in noi stessi passa inosservato, ma negli altri salta al­ l’occhio. Come sempre, quando compare qualcosa di nuovo, le parole d’ordine con le quali ci si sbriga della novità si diffondono rapidissime. Sembra incredibile ma, dovunque porgiamo l’orecchio, tutti quanti hanno già un proprio « giu­ dizio » in proposito: se poi chiediamo « come? » e « che cosa? », sentiamo sempre le stesse frasi ad effetto. In certi casi, questo potrebbe anche essere giustificato e necessario: il sentimento dell’arte, per esempio, non si può esprimere in termini adeguati e c’è talvolta quell’espressione indovi­ nata e insostituibile che passa allora, a buon diritto, di bocca in bocca. Ma chi sosterrebbe che questa specie di giudizio, coniato rapidamente, sensazionale, di sospetta uni­ formità, sia illuminante nel senso accennato? Parole d’or­

XXXIX.

-

l’inautentico nella vita dello spirito

471

dine di questo genere spariscono per solito come sono com­ parse, per trapassare in altre che liquidano quella stessa opera, la sensazione di ieri, con un semplice gesto. La verità è che dietro il giudizio, subito approntato e apparentemente inappellabile, si nasconde il più profondo disorientamento, se non l’incapacità stessa di capire e di giudicare. Solo che ci si vergogna di confessarlo a se stessi e agli altri. Non si vuole apparire « retrogradi » rispetto al nuovo, si vuol essere al passo col movimento, oscuramente presentito ma affatto incompreso, dello spirito obbiettivo. Ci si illude di essere anche noi « all’altezza » della situa­ zione e non si è. Perciò, ci si getta sulla parola d’ordine e, còltala al volo, ci si fa scudo di essa. Non è tanto facile ammettere che le cose stanno cosi. Ciascuno ne è impedito, non solo dall’orrore di apparire antiquato e sprovveduto, quanto e più dall’ignoranza circa la gravità della propria illusione. Che è autoillusione. La suggestione si è impossessata di lui, la corrente lo trascina. Ed egli manca di un giudizio proprio, capace di opporvi una qualche resistenza; capace cioè di produrre lentamente, dall’interno, una vera trasformazione del gusto artistico. Ancora una volta, è una specie di opinione pubblica a te­ nerlo prigioniero dopo averlo, non si sa come, risucchiato; un’opinione pubblica che si è formata in qualche modo, ma nessuno sa in quale.

2.

Bisogno di sensazione

del pubblico e autonomia

ARTISTICA

Qui la mistificazione colpisce, evidentemente, lo spiri­ to stesso. Si tratta della sua scissione interna, della sua am­ biguità; quella che fa si che in lui — per cosi dire, in pe­ riferia, in superficie e, quindi, provvisoriamente — possa crearsi una corrente « contraria » alla sua stessa genuinità ed autenticità, capace di conquistare gli animi e trascinarli,

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PARTE Π. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

come un nuovo vero, per sacrificarli altrettanto rapidamente a una nuova sensazione. Perché questo fenomeno di mistifi­ cazione del gusto, della sensibilità e del giudizio artistico non può esser ridotto a una faccenda privata del singolo, ma riguarda l’intiera esistenza artistica di una contempo­ raneità. L’iniziativa del singolo vi ha naturalmente, e in modi diversi, la sua parte. Non c’è soltanto la « critica » su ordi­ nazione e a pagamento, c’è anche il vano desiderio di « no­ vità » per amor di novità, c’è anche la brama di sensazione dell’artisticamente inetto che si dà l’aria di interprete e di arbitro della pubblica opinione. Ma un’iniziativa di questo genere è già, in quanto tale, il prodotto di un delirio comu­ ne. E inoltre andrebbe senza effetto se non fosse favorita dalla sconsigliatezza e dal bisogno di sensazione del pub­ blico. Se può attecchire e gonfiarsi è solo perché non cade nel vuoto ma trova, anzi, un terreno assai propizio. Il materiale con cui lavora sono appunto le debolezze dello spirito obbiettivo. È un materiale torbido nel quale ger­ moglia l’inautentico e l’autentico immiserisce e soffoca. I posteri possono riconoscere facilmente l’escrescenza del­ l’inautentico: la sua gloria ha la durata di un solo gior­ no. Perché solo l’autentico si impone con continuità. Chi invece vi è immerso e ne è trascinato non dispone di alcun criterio di giudizio. Può naturalmente recarlo in sé, se la sua sensibilità artistica è autonoma; non per questo è ne­ cessario che egli sia creativo: anche nell’intuizione e nel godimento adeguato è presente uno spirito artisticamente autonomo. Ma con questa sua sensibilità autonoma, finché si opporrà alle sensazioni del suo tempo, sarà sempre solo e isolato e passerà per un fissato e un retrogrado. La storia delle arti, nella sua lenta vicenda di gusti e di stili, è piena di effimere oscillazioni e fluttuazioni del gu­ sto, spesso governato dalla sensazione del momento. Le gran­ di opere che pervengono ai posteri sono già sempre il ri­ sultato di una selezione, sono ciò che con continuità si è imposto. A questo punto le scorie sono già cadute; non pe­

χχχιχ.

-

l’inautentico nella vita dello spirito

473

rò dallo spirito vivente — perché quest’ultimo è diventato un altro ed ha in sé un’altra autenticità e un’altra inauten­ ticità — ma solo dalle sue obbiettivazioni! E queste hanno uno statuto ontologico loro proprio. Dato che l’inautentico scompare e l’autentico resta, nulla ci impedisce di vedere, in questa circostanza, qualcosa come un’interiore giustifica­ zione dello spirito artistico, almeno « in grande ». Con que­ sto, però, il fenomeno della falsificazione non è sbandito dal mondo, ma continua a sussistere e ad accompagnare lo spirito vivente nel suo storico cammino; cosicché, in ogni epoca, il grosso dei contemporanei è sempre esposto a nuove autoillusioni.

3. False strade

della produzione artistica

Ciò che vale per il gusto artistico, inteso come frui­ zione dell’arte, vale anche, ed è caratteristico, per la pro­ duzione artistica. Questa ne è anzi impregnata — con qual­ che eccezione, s’intende, perché c’è sempre anche una crea­ zione effettiva che non va mai disgiunta dall’autentico e dal genuino. Sta di fatto, però, che esiste anche molta attività artistica inautentica. Come vuole la legge dello spirito obbiettivo, la produ­ zione non è mai indipendente dal gusto dell’epoca, neppure dalle sue oscillazioni e manifestazioni estreme. Anche l’ar­ tista è, in tutto e per tutto, un figlio del suo tempo. L’on­ da di ogni nuovo movimento solleva anche lui. Che, d’al­ tra parte, non è senza un proprio pubblico. E il pubblico va preso con ciò che su di esso può far presa. Cosi accade che, insieme con le intenzioni autentiche dello spirito arti­ stico vivente, anche la sua falsificazione si trasmetta dallo spettatore, all’artista e al suo creare. Per qualunque contemporaneo è un fatto ovvio che esi­ stono forme di narrativa, di commedia, di produzione ci­ nematografica che recano ben chiaro in fronte lo stampo del­

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

l’inautenticità artistica. Come nelle arti figurative, anche qui c’è il « Kitsch ». E anche qui, la sua ragion d’essere sta nel bisogno di sensazione, nel facile trattamento dei sen­ timenti o nell’« affare » del produttore-editore che ne ap­ profitta. L’errore non sta nell’imitazione senza talento di grandi modelli — questo è soltanto sintomo di scarsa ori­ ginalità e incisività — ma nel fiorire di interessi del tutto extraestetici nel campo stesso della produzione artistica, mentre in tal modo si dà ad intendere, e tuttavia ci si illude, di perseguire fini d’arte. Strano è che lo spirito vivente possa essere in sede estetica tanto facilmente ingannabile da imboccare e percor­ rere senza neppure accorgersene le strade più assurde. In que­ sti casi, i valori più elementari si fanno regolarmente largo (diciamo: la distrazione, il divertimento, la suspense, l’ec­ citazione sessuale), mentre, dietro di essi, quelli effettiva­ mente estetici colano a picco. Una contemporaneità cosi ir­ retita da quelli, perde la capacità stessa di veder questi. Un giorno o l’altro, però, le bende possono anche cadér­ le dagli occhi, se nel suo seno compaia il genio vero; che la tocchi nei suoi bisogni più profondi e insoddisfatti e la ponga di fronte al miracolo della bellezza. Naturalmente, essa può anche misconoscere l’artista creativo; può avere tal­ mente smarrito ogni senso di autenticità da non riuscir più a vederlo, da non saper più distinguere il maestro dal vol­ gare acciarpone. Allora il creatore è misconosciuto dai con­ temporanei, ma ciò significa che essi non partecipano più di quello che, in base allo spirito obbiettivo, appartiene loro. Altre generazioni lo riconosceranno e la sua opera ap­ parterrà ad un altro spirito. La sua generazione però resterà a mani vuote.

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4. Stile

-

l’inautentico nella vita dello spirito

475

di vita mutuato dall’esterno

Il rapporto assume una configurazione diversa nell’am­ bito dello stile di vita. Anche qui si tratta di gusto, ma non si riferisce a valori tanto elevati ed assoluti, cosicché neppure la sua falsificazione è misurabile con criteri asso­ luti. Tutto ciò che nelle forme del comportamento, nel decoro e nella moda è « sentito » come conveniente, lo « è » senz’altro. A questo proposito, non ci si può rivolgere ad alcuna istanza che sia più obbiettiva del gusto vigente. Eppure, anche qui esiste l’inautentico. La questione, infatti, è proprio questa: se una contemporaneità consideri effettivamente anche conveniente quell’aspetto di sé che ha saputo esprimere. Essa è sempre circondata da modelli for­ mali di altro tipo, che sono anche autorevoli e possono in­ vitare all’imitazione; invito che essa è proclive ad accogliere. Infatti, il desiderio di novità è sempre vivo, e cosi pure l’ostilità per il portato tradizionale; il modello straniero, che viene scambiato per una novità, può invece confondere le idee. Questo è tanto più vero là, dove il modello straniero è effettivamente superiore, cioè là, dove un popolo o anche soltanto uno strato di esso sia superiore agli altri per gusto e modo di vita. Questo livello più elevato e più avanzato può essere sentito come effettivamente preferibile e raffor­ zare notevolmente le tendenze imitative. Che l’imitazione come tale, anche se giustificata dalla sua superiorità, non ab­ bia mai lo stesso valore dell’originale autoctono, è cosa che sfugge all’imitatore, il quale può mimare il gesto senza ap­ propriarsi, senza neppure capire, lo spirito di cui esso è solo la veste. Cosi, lo stile di vita mutuato dall’esterno resta, nel nuo­ vo spirito, come sospeso in aria, un corpo estraneo, un puro innesto, una forma senza contenuto, insomma, qualcosa di inautentico. Penetra si nel gusto vivente, lo trasforma an­ che, ma non dall’interno. Sullo sfondo, qualcosa gli per­ mane ostile. È appunto il sentimento più profondo, più

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

genuino ed autonomo. Può capitare che quest’ultimo venga completamente sommerso e soffocato. Può anche accadere che l’elemento autentico e genuino si opponga validamente, si da esplodere a un certo punto, superare dall’interno l’in­ nesto e spazzarlo via. La storia ci offre esempi notissimi per ambedue i casi. Si pensi alla penetrazione di costumi e maniere francesi nella Germania del sec. XVIII, e al dif­ fondersi di un modo di vivere greco in Siria, in Egitto e a Roma, nell’ultimo secolo a. C. Là lo spirito nazionale riebbe alla fine il sopravvento sullo spirito straniero temporanea­ mente preponderante, qui invece cedette via via sempre più. E quando cede al nuovo venuto, questi gli si impone sempre più profondamente nei più importanti campi dello spirito, nella morale, nella poesia, nel modo di vedere il mondo. L’opposizione del vecchio Catone non era riuscita a ricostrui­ re stabilmente l’antico spirito dei Romani; la grecità poli­ ticamente vinta ne conquistò a sua volta i costumi ester­ ni, il modo di vita, la lingua e quindi la visione del mondo, l’ethos, la sensibilità artistica. Il fenomeno della egemonia culturale di un popolo en­ tro un determinato ambito culturale si ripete in quasi tut­ te le epoche storiche. E di regola non sono i campi di più interiore spiritualità i primi a sentirne l’autorevole influsso, ma quelli esterni dello stile di vita. È un fenomeno che comporta sempre presso i vari popoli la distruzione di mol­ ti caratteri etnici originali. Allo spirito occidentale euro­ peo, che già da tempo, nel costume, nella tecnica, nell’ur­ banistica, ha raggiunto un’esterna uniformità, è toccato ai giorni nostri di agire in senso unificatore sulle culture vec­ chie e nuove di tutti i continenti. Dovunque esso penetri, falsifica tuttavia lo spirito delle tradizioni locali e fa vio­ lenza alla sua libera ed armonica formatività; sembra rias­ sumerne e potenziarne la ricca varietà ma intanto minaccia di livellarla. Anche lo spirito europeo, infatti, tende eviden­ temente a trasferirsi dall’esterno all’interno e a soppiantare radicalmente l’autenticità dello spirito straniero, sia nella filosofia, che nella morale o nell’arte.

XXXIX.

5. Morale

- l’inautentico nella vita

convenzionale.

dello spirito

477

Tolleranza ed eticità ap­

parente

In sede morale, la situazione si presenta molto piu seria che nel campo dell’arte o dello stile di vita. Qui parrebbe che lo spirito storico non possa mai fare a meno di essere autentico — se non nel senso che la morale valida permei totalmente l’agire degli uomini, almeno nel senso che il modo prevalente di giudicare le azioni umane vi corrispon­ da. È invece la stessa realtà effettuale a smentirci. Quella che potremmo chiamare la pubblica moralità di un dato strato sociale, in una data epoca, non ne esaurisce affatto le intime intenzioni etiche; e non coincide neppure con ciò che l’effettivo sentimento dei valori apprezza come buono e doveroso. Di regola, è molto meno di questo: una specie di compromesso tra l’ethos autentico, le debolezze umane e la consapevole immoralità. Questa morale pubblica o « convenzionale » ha la carat­ teristica non solo di permettere, entro certi limiti, ciò che si riconosce riprovevole, ma anche di mascherarlo sotto le convenzioni. Se la cosa non reca pregiudizio al modus viven­ di sociale — essa lascia senz’altro che l’immoralità vesta e ostenti i panni della moralità, anzi, in questo senso la protegge e l’aiuta. Davanti a certe violazioni del costume, chiude gli occhi e lascia aperta, per cosi dire, una valvola, attraverso la quale il « male » in tutte le sue forme ricono­ sciute, possa sfogarsi. I rappresentanti di questo male, non vengono neppure puniti con la « cattiva nomea » che meri­ terebbero. Quanto maggiore è il numero di coloro che l’odio mo­ rale dovrebbe colpire, tanto maggiore diventa la convenzio­ nalità della morale. Nasce cosi il tipo umano del « tartufo », colui che vive nell’apparenza della moralità. Questo mina, evidentemente, la vita stessa dell’ethos. Al posto dell’auten­ tico sentimento morale si stabilisce un ethos apparente e molto elastico. La capacità di cogliere i valori si ottunde e la coscienza morale si addormenta; si bada all’apparenza,

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

alla soggettività dei valori, all’opinione degli uomini, non all’essere e al non-essere morale. Un simile ethos apparente, se si diffonde e £a presa, può distruggere di sana pianta lo spirito obbiettivo; perché lo colpisce al cuore. Un buon esempio ci è offerto oggi dalla morale sessuale dei popoli cristiani; dal modo di vivere, socialmente celato ma ben noto ad ognuno, di coloro che soddisfano senza scrupoli i propri istinti e tuttavia godono e conservano fa­ ma di persone « rispettabili », e dalla corrispondente istitu­ zione della prostituzione, che si respinge, si teme, si com­ batte e tuttavia pubblicamente si tollera. Qui non si tratta di dare un giudizio o una valutazione morale su questo sta­ to di cose, non intendiamo prender posizione al proposito; può ben darsi che rifiutare questo lato della vita sessuale e ricacciarlo nell’oscurità di una vita istintiva nascosta sia un’errore in sede morale. Là dove l’ethos apertamente lo ammette, non c’è una morale apparente accanto a quella vera, né corruzione: l’effettivo sentimento dei valori cor­ risponde a ciò che si vede. Proprio presso i popoli cristiani esso manca invece di ogni autenticità, perché la loro morale vera rifiuta proprio quello che la convenzione tollera. Di qui l’ambiguità e la doppia vita di coloro che approfittano di questa tolleranza. Ciascuno teme che i suoi privati ma­ neggi vengano scoperti e, insieme, si sente relativamente si­ curo che ciò non accadrà, pur sapendo che molti ne sono a parte. Può contare sull’omertà degli altri, sia perché si trovano nella stessa situazione, sia perché si conformeranno semplicemente al costume invalso, che è di lasciare che cia­ scuno lavi in famiglia i panni sporchi. Cosi, colui che in base alla morale effettiva è colpevole, appare « virtuoso » e, agli ignari e innocenti, può presentarsi col lustro del­ l’« onorabilità ». Questa situazione si ripresenta nelle forme più svariate. Ecco, per esempio, la carità del ricco, che si mette in mo­ stra nella pubblica « beneficienza » ed ottiene universale ri­ conoscimento, benché tutti sappiano attraverso quale sfrut­ tamento del lavoro piu umile il benefattore guadagni il superfluo per le sue offerte. Ecco la coscienza specchiata

XXXIX.

-

l’inautentico nella vita dello spirito

479

del « giusto », che non ruba, non imbroglia, non tradisce perché la tentazione non lo assale, ma getta la croce addosso a chi lotta duramente e viene sconfitto. Nelle più diverse forme della morale, il fariseismo è un fenomeno ricorrente, non diversamente da quell’orgoglio della virtù, di tipo sto­ ico o puritano, che quasi non si cura di nascondere il più crudo e trasparente egoismo, mentre la morale convenzio­ nale lo approva e lo onora.

6. L’autoinganno

abituale e la morale della « BUONA

REPUTAZIONE »

In tutti questi casi, relativi non tanto al singolo, quanto a un certo tipo di individuo in una contemporaneità, siamo di fronte alla falsificazione dello spirito obbiettivo. L’appa­ renza dell’autenticità è salva, ma dietro di essa a malapena si nasconde un senso morale ormai decaduto, che gli inte­ ressati non osano professare apertamente. Dato però che que­ sta sensibilità corrotta è la loro effettiva sensibilità, che tuttavia si nasconde dietro la finzione, sarà la morale stessa ad essere divisa in un ethos effettivo e in un ethos appa­ rente; dove il primo corrisponde alla sensibilità corrotta, il secondo alla morale propriamente valida. La radice del disagio che ne consegue non è nel singolo, ma nella convenzione, nel compromesso. E tutto ciò che è convenzione è cosa comune, non certo opera del singolo. Questo è appunto l’elemento inautentico nella morale del tempo, una specie di autoinganno divenuto abituale, nel quale gli uomini si confortano a vicenda perché ci vivono dentro, non ci fanno più caso, e quindi non hanno pesi sul­ la coscienza. Ma proprio in questo sopravvenuto silenzio della co­ scienza nell’uomo vivo, lo spirito obbiettivo perde la sua strada, tradisce e mistifica se stesso. Ancora una volta, esso dà ad intendere di essere quello che non è. Questa è altresì la sua rovina e la sua fine, a meno che un moto di rinno­

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

vamento morale non sopraggiunga a risollevarlo e a ricon­ durlo a se stesso. Forse si può dire che, in ogni spirito storicamente vivo, c’è una parte di inautenticità morale. Evidentemente do­ vrebbe esserci anche la tendenza ad opporvisi. E in ogni vita umana, essi sono compresenti, tanto più che non si cresce soltanto nel proprio e nell’autentico, ma anche nel­ l’inautentico. Crescendo, assumiamo ad occhi chiusi ciò che lo spirito vivente ci offre. Neppure nella vita privata si sco­ prono mai tutte le carte, ciascuno custodisce amorevolmente il proprio segreto — anche se non vuole ammetterlo —, ciascuno salvaguarda gelosamente il « buon nome » di cui gode, anche se sa di non meritarlo. Senza di esso non po­ trebbe vivere, anche se può vivere senza esserne degno. La preoccupazione della reputazione soffoca quella per il bene e il male. E quando di questo non ci si accorge più e, nella propria vita, lo si accetta come ovvio, si finisce col vivere in un autoinganno abituale. Questo vale, con un margine limitato di errore, per la maggior parte degli uomini. E appunto perché vale per la massa e non per i casi isolati, interessa soprattutto la morale effettiva, generale e dominante, e colpisce propria­ mente lo spirito obbiettivo. Qui è lo spirito obbiettivo a spezzarsi, a rilassarsi, a mettere a repentaglio la propria struttura formale. Una volta che il « buon nome » abbia preso il posto dell’essere morale, è nell’essenza della cosa stessa che tenda a soffocarlo intieramente. La reputazione incarna infatti il principio opposto a quello dell’essere mora­ le, è il puro « far mostra di », è l’apparenza. La coesisten­ za di morale autentica e morale apparente non è stabile. Una delle due deve sopraffare l’altra. Un ethos storico si mantiene alla propria altezza solo se mantiene pura la propria intuizione di fondo. Ma se lascia entrare l’inautentico dalla porta di servizio, scenderà ben presto al suo livello.

XXXIX.

7. Tendenze

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l’inautentico nella vita dello spirito

481

spirituali che girano a vuoto

C’è poi un altro tipo di inautenticità, che compare in certe epoche di rivolgimento spirituale. Vi sono rivoluzioni dell’atteggiamento di fondo che cominciano con intuizioni positivamente nuove, con nuove idee, nelle quali lo spirito storico progredisce e si riempie di un contenuto corrispon­ dente alle sue intenzioni autentiche. In questi casi, ciò che viene superato è invecchiato, ormai inadeguato o divenuto senz’altro inautentico. Ma vi sono anche rivoluzioni in cui la positività fa ancora difetto: esse sono dapprima pura­ mente distruttive, estirpano anche ciò che ancora vive, e lo fanno a vantaggio di un nuovo che non c’è ancora e solo illude di sé, nei motti e nelle parole d’ordine. Evidentemente, in ogni rivolgimento, vi è una interna tendenza al proprio e all’autentico, sebbene soltanto oscura­ mente sentita. E questa è anche la tendenza sana, quella che erompe dalla profondità originale dello spirito obbiettivo, quella che veramente vive in esso. Qui bisogna vedere in ge­ nerale l’origine di quegli impulsi che sempre di nuovo indu­ cono all’autenticità, all’interiorizzazione e al rinnovamento. In questa tendenza si cela però un pericolo essenziale. Ogni tendenza è rivolta prospetticamente verso il futuro, il futuro va intuito, e solo la coscienza può farlo; lo spirito obbiettivo però non è coscienza e può solo contare sulla coscienza singola dei suoi portatori. Questa, a sua volta, non è adeguata, almeno per quanto riguarda la previsione. Ora, nella misura in cui la tendenza segue la coscienza del singolo, è soggetta ad illusione. Ciò significa, in questo ca­ so, che essa è indotta a distruggere ciò che esiste, anche là, dove nessuna intuizione positiva del nuovo lo giustifica. Questo fenomeno è tipico delle epoche « illuministiche », specie in materia filosofico-morale. Al posto della fede e della pietà per la tradizione subentra allora la ragione; ma non è che una ragione limitata, la ragione dell’utilità e del « sano buon senso ». Essa vorrebbe lo spirito umano pa­ drone di se stesso, ma, concretamente, non ha ideali eleva­

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PAKTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

ti, capaci di sostituire o superare quelli della fede. Essa non va oltre una visione volgare del mondo (materialismo), e una morale senza idee (utilitarismo). Così Fichte ha caratterizzato l’epoca dell’illuminismo, che volgeva al termine, come una specie di ultimo giro di danza dello spirito — non senza unilateralità ma, dal suo punto di vista, con ragione. Per Fichte era preoccupante che una tendenza autentica, divenuta estrema ed eccessiva, finisse col corrompersi o girare a vuoto quasi per l’inerzia del suo stesso movimento. È significativo che il fenomeno descritto da Fichte sia molto più generale di quanto egli abbia creduto. Lo constatiamo nei più diversi tipi di rivol­ gimenti sociali: rapporti ormai insostenibili vengono sacri­ ficati, ma i nuovi e migliori non vengono approntati tempe­ stivamente; al loro posto abbiamo soltanto un’ideale costru­ zione teorica, un’ideologia. Che non è già una struttura na­ ta e cresciuta organicamente dalla realtà effettuale, nella qua­ le una comunità umana possa anche vivere. Del resto anch’essa, sebbene costruita, pretestuosa e inautentica, con­ tiene tuttavia un’intuizione autentica. Questo stato di cose si rivela anche nel sussistere, pres­ so lo spirito nuovo che avanza, di una specie di cattiva co­ scienza. L’incongruenza si fa sensibile nel suo stesso seno e lo costringe a tornare indietro per raccogliere parti essen­ ziali di ciò che aveva gettato via, o a ricorrere a mezzi non più spirituali per opprimere con esterna violenza la persi­ stente vitalità del vecchio spirito. Solo in quest’ultimo caso la tendenza sarà definitivamente condannata a girare a vuo­ to. Nella vita dello spirito, la violenza è sempre un segno di intima debolezza, da qualunque parte essa venga esercitata. Per suo mezzo, lo spirito in rovina che ancora sopravvive non si conserva meno artificiosamente di quanto si affermi lo spirito nuovo, non sperimentato e ancora incapace di vita autonoma. Era per debolezza che la Chiesa medievale perseguitava con la violenza i dissenzienti nella fede, e non ne è venuta che falsificazione e rovina. È per debolezza che la civilizzazione bolscevica cerca ora di imporsi col sangue

XXXIX.

- l’inautentico nella vita

dello spirito

483

e la minaccia. Lo spirito, la cui essenza è di essere libero sviluppo, di avere il peso che corrisponde alla sua intima consistenza e di dominare grazie alla sua persuasività, si tra­ sforma cosi in un tiranno. Ma in questo modo finisce col falsificare se stesso. Lo spirito genuino, quando la sua ora è venuta, dispone di altri mezzi per farsi valere. Come tale, è inarrestabile. Può solo essere ritardato. Ma l’apparente accelerazione, d’al­ tro canto, non fa che ritardare anch’essa il corso storico del­ lo spirito effettivo. La zavorra che impedisce questo movi­ mento non sta soltanto nell’inerzia del portato tradizionale, ma anche negli elementi di inautenticità e di intima vacui­ tà del nuovo.

8.

La

concezione

heideggeriana

del

« si »,

della

« CHIACCHIERA », ECC.

Heidegger ha descritto un fenomeno affine a quelli di cui ci stiamo occupando ’. Nella sfera della «quoti­ dianità», l’inautentico assume la forma di un neutro senza soggetto, il « si ». Noi giudichiamo come « si » giu­ dica, sentiamo come «si » sente, viviamo come « si » vive. « Quel “ si ” che di preciso non è nessuno e che tutti sono (sebbene non nella loro somma) prescrive alla quoti­ dianità il suo modo d’essere ». In questa « prescrizione » non sarebbe di per sé neces­ sario vedere altro che la vita dell’autentico spirito obbiet­ tivo, in quanto è gusto, stile, modo di vivere. Il « fare co­ me tutti fanno » è la semplice forma del ripetere e del crescer-dentro. Cosi il bambino impara a parlare in quanto parla come « si » parla. Ma appunto questa forma primitiva della ripresa è cieca, acritica; vale anche per l’inautentico. È questo il punto debole nella maniera d’essere dello spirito 1 Cfr. per quanto segue, Martin Heidegger, Essere e Tempo, par. 27, 35-37.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

obbiettivo. Perché i campi particolari dello spirito esigono una ripresa non solo passiva e imitativa, ma comprendente e ricreante. Il « si », privo com’è di soggetto, toglie pe­ so ad ogni comportamento e priva della sua indipendenza l’agire del singolo: non si conosce e non ci si cura di cono­ scere l’origine dell’iniziativa — non è stato nessuno, nessu­ no è responsabile, e nessuno discute effettivamente il va­ lore o il disvalore di ciò che tutti lasciano fare. Il « si » è allora l’irresponsabilità generale. Ma in que­ sto modo, anche la cosa di cui volta a volta si tratta viene « oscurata » e in tale oscuramento passa « per ciò che è noto e accessibile ». Cosi, sotto 1’« ostinata signoria » del «si », ci si illude di aver a che fare con le cose stesse mentre, sia nel giudizio che nella scelta, ci si è già « sbriga­ ti » di esse prima ancora di averle realmente affrontate. Ritroviamo lo stesso fenomeno nella « chiacchiera ». Parlare di una cosa è il modo più semplice per cavarsene d’impaccio senza affrontarla. « La chiacchiera, che ciascuno può captare, non solo dispensa dal compito di una vera comprensione, ma costituisce un’indifferente comprensibili­ tà, cui più nulla è nascosto ». Questa comprensibilità indif­ ferente è comprensione inautentica, è un vivere trascuran­ do la spiritualità effettiva. Il mondo quale è, e quindi anche quale potrebbe essere per noi, ci resta sostanzialmente na­ scosto. Noi non possiamo più incontrarlo, perché esso ci si presenta sempre come ciò di cui soltanto si parla. Ciò non comporta alcun inganno intenzionale, alcuno sco­ po, alcuna negazione. Nessuno governa la chiacchiera. « L’in­ fondato esser-stato-detto e venir-ripetuto riesce soltanto a convertire l’apertura in una chiusura ». Questa caratterizzazione è integrata dall’osservazione di altri fenomeni: ad es. quello della « curiosità » come se­ te di sensazione. Si tratta dell’incapacità di indugiare sul­ l’essenziale, per quanto prossimo; la tendenza, cioè, a get­ tarsi sul nuovo come tale quasi fosse, perché nuovo, anche importante. È mancanza di serietà: lo sbrigarsi di qualcosa a prima vista, senza meraviglia e senza interna passione, sen­

χχχιχ.

-

l’inautentico nella vita dello spirito

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za neppure la coscienza di non capire. Così accade che « la creazione autenticamente nuova giunga al pubblico già invecchiata », e possa recuperare la propria efficacia solo dopo che l’interesse sensazionale che la circondava sia sbol­ lito. Come si vede, questa non è che la generalizzazione di ciò che abbiamo visto in forma estrema nella vita politica a proposito dell’opinione pubblica. La dimensione di « pub­ blicità », caratterizza in generale tutto ciò che, nello spirito obbiettivo, è inautentico. Momenti tipici come quelli del « si », della « chiacchiera » e della « curiosità » ci rive­ lano che non si tratta di influenze che vengono dall’esterno a falsarlo, né di una specifica o occasionale attività dell’indi­ viduo, ma di qualcosa che si ràdica nello spirito comune stes­ so in quanto comune, qualcosa che lo rende intimamente am­ biguo: l’interna minaccia che lo spirito è, nei confronti di se stesso. Infatti, come « si » pensa, « si » agisce, « si » parla, non è affare del singolo, ma è una specifica funzione dell’essere-insieme; caratteristica, sia pure effimera, ne è an­ che la forma del flusso temporale, quella comune struttura­ zione nella quale il singolo cresce senza volerlo, proprio co­ me nell’autentico e nel genuino. L’intiero modo d’essere e la realtà storica di questo feno­ meno caratterizzano anche lo spirito comune come tale. Biso­ gnerà dunque concludere che questo fenomeno gli appar­ tiene. Il che significa appunto che l’inautenticità che in quel fenomeno si esprime è l’inautenticità dello spirito comune, la quale è ripugnante alla sua essenza e tuttavia per essenza gli appartiene.

53.

Capitolo XL LA QUESTIONE CIRCA IL CRITERIO DI AUTENTICITÀ

c’è di autentico nella coscienza dell’inau­ tenticità

1. Cosa

Davanti alla vastità dell’inautentico nello spirito obbiettivo, siamo indotti a chiederci: Che cosa vi fa da contrappeso? Che cosa storicamente riporta sempre di nuo­ vo lo spirito alla sua linea autentica? C’è forse, nonostante ogni falsificazione, un’istanza che se ne faccia garante? E in che cosa consiste? Queste domande equivalgono evidentemente alla ri­ chiesta di un « criterio » di autenticità, composta di due questioni parziali che sono: se ce ne sia uno, e dove lo si debba cercare. Al problema non ci si può sottrarre col dire che è ozioso cercare un criterio, quando la storia dello spirito documenta, nel suo corso, la tenace continuità della falsificazione. Ne se­ guirebbe che non si possa più parlare affatto di autenticità e genuinità dello spirito storico: né essa potrebbe trionfare, né noi sapremmo riconoscerla. L’essenza-base dello spirito ob­ biettivo sarebbe allora la falsificazione stessa, e dietro di es­ sa non vi sarebbe nulla di genuino. È una conseguenza che basta da sola a dimostrare l’insostenibilità di tale scepsi. La comparsa dell’inautenti­ cità suppone di per sé l’esistenza di qualcosa di autentico: al­ trimenti non sarebbe neppure inautenticità. Ci può essere falsificazione solo là dove qualcosa può essere falsificato. È

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

come per la verità e l’errore: dove non c’è nulla di vero — co­ me sostengono le teorie relativistiche — non c’è propria­ mente alcun errore, tutto è indifferentemente vero e non-vero. Nella storia dello spirito, se all’inautentico non si con­ trappone nulla di autentico, vuol dire che l’autentico era quel­ lo. Se invece esiste una coscienza storica dell’inautentico, sia essa contemporanea o retrospettiva, questa è già coscienza dell’autentico e, con ciò stesso, testimone della sua esistenza. Che poi sia anche in grado di cogliere questa autenticità, o non sia, è qui indifferente. Orbene, in ogni epoca è vivo il sentimento che, da qual­ che parte, dietro le quinte dell’opinione pubblica, del sensa­ zionale e della chiacchiera, c’è qualcosa di autentico, che è quello che conta veramente; qualcosa che, nel silenzio e nel segreto, segue tuttavia imperterrito una sua strada, che è poi la vera strada della storia dello spirito. Questo sentimento sarà magari oscuro, ma c’è, ed è una specie di storica voce della coscienza con la quale non si può mercanteggiare. Parimenti, esiste un’oscura coscienza dell’inautenticità e della falsità nel meccanismo stesso della falsificazione. Tal­ volta, può anche essere una coscienza molto chiara e precisa, il che non implica ovviamente che sappia subito liberarsi dalla falsificazione. È comunque nell’essenza del falso di ce­ dere, prima o poi, di fronte alla coscienza della falsificazio­ ne. In questa coscienza, infatti, è già il germe del suo supe­ ramento — come appunto un errore, riconosciuto per tale anche solo nel dubbio, ha già cessato di essere un errore. Co­ me il dubbio contiene già un’intuizione del vero, così la co­ scienza dell’inautentico fa appello all’autentico. È in que­ sta forma che s’annuncia l’autentico.

2. Vitalità e

metamorfismo dell’autentico

Vi sono altri due aspetti di cui bisogna tener conto. In primo luogo, in sede storiografica, noi distinguiamo facilmente, nello spirito di un’epoca, ciò che è autentico da

XL. - CRITERIO DI AUTENTICITÀ

489

ciò che è inautentico. II tempo stesso e gli eventi successivi hanno provveduto a scernere l’uno dall’altro. È facile, ad es., riconoscere come tali le aberrazioni del gusto, di fronte al­ l’effettivo sviluppo della visione e della sensibilità artistica quali emergono chiaramente nelle grandi opere dell’epoca. Queste ultime, infatti, sono sopravvissute alla sensazione su­ scitata e hanno dimostrato, nella vicenda storica, la stabilità del loro valore. Similmente nella morale, nella vita sociale e politica, nella visione del mondo, quello che le epoche illuministiche hanno affermato a gran voce, si rivela esagerato. Dietro l’en­ fasi eccessiva traspaiono le correnti storiche reali; il loro nòcciolo di valore ha dato ormai lunga prova della propria solidità. L’opera secondaria, che l’eccitazione del momen­ to storico potè scambiare per essenziale, è caduta, e docu­ menta soltanto il vaneggiamento, ormai quasi incredibile, della tendenza. In altri termini, la vera tendenza dei tempi non era quel­ la che allora si credeva. Ma anche l’interna relazione tra es­ sa e la pubblica opinione di allora risulta del tutto chiara e, quantunque il modo di sentire possa essere mutato, non è sentita come puramente casuale. Il movimento effettivo dello spirito si rispecchia nella sua stessa aberrazione. Nel­ lo sguardo rivolto al passato, esso è divenuto obbiettivo, sta li di fronte a noi e non è più il nostro. Dietro di ciò tuttavia, e in secondo luogo, è chiaro che c’è dell’altro. Proprio questo venir alla luce è possibile per­ ché, nel suo cammino storico, l’autentico è molto diverso dall’inautentico; o, meglio, perché nel corso storico, al­ la lunga, essi si separano da sé. L’inautentico passa, mentre l’autentico continua a sussistere. Il sussistere non è certo un permanere identico, si bene una lenta e organica trasforma­ zione dello spirito complessivo nel suo corso storico, dove ciò che è stato obbiettivamente elaborato e acquisito si con­ serva nel nuovo come un suo momento. Nella storia, infatti, solo ciò che è autenticamente spiri­ tuale è capace di trasformarsi. L’inautentico è destinato a cadere e non può reggersi, perché è un puro epifenome­

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

no, storicamente effimero. Non dura perché non c’è nulla di spiritualmente effettivo che gli corrisponda o, in ter­ mini positivi, perché c’è un’effettiva realtà spirituale cui esso non corrisponde e alla quale non sa o non saprà rende­ re giustizia. Comunque la dia ad intendere, la realtà effet­ tuale è quella che è. Lo spirito storico effettivo è qualcosa di vivo, ima vera e propria potenza la quale continuamente incalza e viene alla luce, e non si può soffocare confondendo le carte. Questo rapporto si riflette chiaramente nelle oscillazioni della pub­ blica opinione, nella sua suggestionabilità, nella sua incli­ nazione per le posizioni estreme ed unilaterali; e cosi pure nella sete del sensazionale, nella brama di novità, nella ten­ denza a risolvere in « chiacchiera » le cose serie. Sono que­ sti altrettanti simboli di ciò che è storicamente effimero. Le cose che restano sono di ben altra specie e hanno radici più profonde: fanno da supporto al divenire storico nel qua­ le, a loro volta, si trasformano e si rinnovano. Nel diveni­ re, l’essenza stessa dell’inautentico, la sua mancanza di un centro, la sua pura accidentalità ne « fanno giustizia ». In questo senso, esso è l’effimero. Rispetto all’autenticità e all’inautenticità, la storia uni­ versale è davvero — come Hegel pensava, con generalizza­ zione, ovviamente, eccessiva — il « giudizio universale ».

3. Fuga

dallo spirito obbiettivo nello spirito per­ sonale

Il pessimismo storico è, quindi, privo di fondamento. Come e dove sorga una coscienza dell’inautentico, è un’altra questione. È una questione che non trova risposta in rifles­ sioni generali e che presuppone, ancora ima volta, il posses­ so di un criterio. Affidarsi retrospettivamente all’eliminazio­ ne dell’inautentico nel processo storico, qui non serve. Chi è immerso nel proprio presente, non può attendere di poter vedere le cose con l’agio e la chiarezza delle generazioni sue-

XL. - CRITERIO DI AUTENTICITÀ

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cessive. Come uomo d’oggi, è impegnato e deve saper legge­ re i sintomi. Cosi intesa, la questione riesce a quella stessa diffi­ coltà di principio, che costituisce l’aporia fondamentale ed essenziale dello spirito obbiettivo: e cioè nel fatto che dello spirito obbiettivo non si dà coscienza adeguata. Un criterio di giudizio richiederebbe un’attività intel­ ligente, e quindi una coscienza. Ora, il singolo ha si una co­ scienza, che però non gli permette di cogliere, via via, lo spirito vivente nel punto critico del suo essere e non-essere. In ogni tempo e in ogni erramento, egli è prigioniero dell’inautentico come lo è dell’autentico. Lo spirito obbiet­ tivo poi, che nel suo nòcciolo certamente incarna la ten­ denza autentica, è affatto privo di coscienza e, quindi, non è in grado di offrire nella forma di un criterio il correttivo di se stesso. La soluzione è stata cercata in due direzioni: in quella dello spirito personale e in quella dello spirito obbiettivo stesso. La prima, possiamo chiamarla la via individualistica, e ciò, non solo perché è l’individuo che deve operare il ritorno all’autenticità, ma anche perché questa stessa auten­ ticità appare propria dell’individuo. Il singolo ha il compito (cosi si pensa) di contrastare alle aberrazioni dello spiri­ to comune; dopodiché, è difficile sfuggire alla conseguenza che quest’ultimo sia, in generale, privo di un’autentica strut­ tura propria. In morale, questa concezione si affermò nella tarda antichità — nell’ideale del « saggio » che, nella propria li­ bertà e imperturbabilità, basta a se stesso. Nel Cristianesimo è la cura per la propria anima che, sia pure su una base diversa, riporta l’uomo a se stesso. In campo filosofico, questi modelli hanno avuto molto seguito. Anche Heidegger cerca la soluzione in questa direzione, infatti fa cominciare il ritorno del singolo in se stesso dai momenti dell’angoscia, della colpa e della coscienza morale. Un tale raccoglimento implica però un fondamentale allontanarsi da tutto ciò che è spiritualmente comune.

492

PARTE II. -

LO

SPIRITO OBBIETTIVO

Che in questo ci sia del vero, nessuno vorrà negare. Il ritorno del singolo a se stesso è un eterno motivo di inte­ riorizzazione e comporta, come sempre, anche un rinnovamen­ to dall’interno. Senonché, quando si tratta dello spirito storico, questo non basta più. La conversione interiore del singolo non è ancora sufficiente a muovere lo spirito obbiettivo, anzi, in quanto riguarda soltanto l’individuo nella sua proprietà, non lo interessa più che tanto. Là do­ ve invece un’intiera contemporaneità nel suo complesso speri­ menta su di sé la conversione, questa è comune e non è più un’operazione privata del singolo. Si tratta allora, piuttosto, di un movimento di ritorno dello spirito obbiettivo, e sarà appunto il caso di chiedersi che cosa propriamente lo indu­ ca a riprendersi dal suo disorientamento. Il difetto di ogni spiegazione individualistica, a questo proposito, è di richiedere l’abbandono, anzi, in un certo sen­ so il sacrificio dello spirito obbiettivo. Col che, non solo si elude la sostanza del problema, ma si finisce col pretendere qualcosa di storicamente ed onticamente impossibile. Il rap­ porto fondamentale tra spirito comune e individuo è dato appunto dall’assoluta impossibilità per l’individuo di uscir fuori dallo spirito comune vivente. Egli può, certo, in casi particolari, porglisi contro e quindi anche contrastarne le aberrazioni. Ma ciò non signi­ fica che egli possa seguire in tutto una propria via privata e solitaria, poggiante, per di più, su una base spirituale del tutto diversa. Viceversa: ogni volta che l’individuo prende coscienza e si concentra sulla propria autentica verità, è ne­ cessariamente ricondotto alla verità e all’autenticità del­ lo spirito obbiettivo. Quando subentra l’angoscia, come può accadere di fronte a Dio o alle esigenze autentiche della morale, egli avrà coscienza del proprio stato di bisogno come di cosa privata; ma, in base alla realtà effettiva e secondo l’es­ senza, si tratta sempre di qualcosa che tocca tutti gli altri, ciascuno per sé. Ossia, di qualcosa che è comune. Si può dire, anzi, che se è vero che la coscienza è una caratteristica esclusiva del singolo, concretamente essa è ben lungi dall’essere pura coscienza privata. Proprio come la

XL. - CRITERIO DI AUTENTICITÀ

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«ragione » che la illumina è ben lungi dall’essere pura ragio­ ne privata. Proprio nella coscienza individuale parla quel­ l’esigenza etica comune che si rivolge a ciascuno. E se il singolo può ritenersi colpevole soltanto dei suoi propri erro­ ri, il criterio della colpevolezza non è però fatto su misura per lui e non riguarda le sue azioni private soltanto, cosi co­ me il suo agire colpevole non riguarda lui solo. Anzi, pro­ prio questo agire lo colloca immediatamente nel cerchio di una corresponsabilità che egli porta con altri e per altri, e nella quale partecipa sempre alla cosa comune, alla pub­ blica giustizia e ingiustizia dell’essere-insieme. La conversione individuale in quanto tale non risolve, quindi, il problema vero. Né tocca quell’autenticità che, pure, è in questione. A tale scopo, la conversione individua­ le andrebbe intesa come iniziativa entro il movimento storico dello spirito complessivo. È chiaro che, in questo senso, la cosa cambia radicalmente. Ma allora non si tratta piu soltanto del singolo: la sua causa è già la causa comune.

4. Individualismo

e

sentimento

comune.

L’altro

estremo

Si è cosi respinti nella direzione opposta: la salvezza non sta nell’individuo e nel suo ritorno in se stesso, ma nel­ lo spirito obbiettivo, il quale non può mai perdere del tut­ to l’autenticità della propria essenza e vi è ricondotto sem­ pre di nuovo. Ammesso questo, è facile compiere un ultimo passo nella stessa direzione e concludere che ogni falsificazione va ascritta all’individuo. Il quadro risulterà allora il seguente: finché gli individui si mantengono effettivamente all’in­ terno dello spirito comune, e dal sentimento comune trag­ gono vita e sensibilità, non ci sarà inautenticità o falsifica­ zione. Solo quando ciascuno s’affida alla propria coscienza individuale e cerca di imporre il proprio punto di vista con­ tro il sentimento comune, allora se ne allontana e ne deter­

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

mina la falsificazione. In questo modo l’inautenticità spiri­ tuale sarà sempre la conseguenza di un individualismo in­ cipiente. Tale è, essenzialmente, la concezione hegeliana. Una con­ cezione il cui senso pieno implica una metafisica della So­ stanza-Spirito. Se, come è inevitabile, togliamo questa im­ plicazione, anche rinfallibilità dello spirito obbiettivo verrà meno. L’inautenticità gli apparterrà in proprio e non sarà dovuta soltanto all’individuo. Inoltre, bisognerà ammette­ re l’esistenza di una sana riflessione dell’individuo su se stesso: una presa di coscienza di cui, anzi, lo stesso ethos comune non può mai fare a meno. Quanto più profon­ do è il senso di responsabilità morale e civile del singolo, tanto maggiori sono le probabilità, per lo spirito obbiettivo, di svilupparsi secondo le sue effettive intenzioni storiche. In questo senso, l’autocoscienza morale e giuridica dell’in­ dividuo è ben lontana dal confondersi con l’individualismo. Ma, anche senza questo misconoscimento della coscienza personale, la concezione hegeliana resterebbe insostenibile. A suo carico potremmo addirittura citare la stessa dialet­ tica hegeliana dell’« opinione pubblica ». Uno spirito obbiet­ tivo che tanto facilmente soggiace alla seduzione e alla sug­ gestione del momento, è comunque ben lungi dal mantener­ si spontaneamente fedele alla propria essenza. Avrà sempre bisogno del « grande individuo » che gli dica cosa esso ve­ ramente vuole. E se quest’ultimo dev’essere considerato co­ me il rappresentante del vero spirito comune, vuol dire che lo spirito comune non è immediatamente cosciente e padro­ ne di sé ma lo è, in ultima analisi, solo per la mediazione dell’individuo. In conclusione, quand’anche fosse vero che, alla lunga, ogni falsificazione si compensa e lo spirito recupera la propria autenticità, ciò non significa ancora che la relativa tenden­ za aberrante sia tolta. Le situazioni storiche sono una volta per tutte, e ciò che in esse è intrapreso non è reversibile: qui Io spirito vivente non ha il tempo di attendere la compensa­ zione dei propri passi falsi. Ciò che importa è piuttosto se, nel pieno del suo sviamento, qualcosa in esso e da esso e-

XL. - CRITERIO DI AUTENTICITÀ

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merga a testimonianza del suo essere autentico. Tale testi­ monianza potrebbe impedirgli di compiere l’errore. Che questo esista, l’opera di Hegel non dice. E può sem­ brare strano. La verità è forse che Hegel non ha affatto vi­ sto il fenomeno dell’inautenticità nello spirito obbiettivo. Va da sé che, in tal caso, non poteva neppure incontrarlo. Cosi, anche l’altra via si rivela non-percorribile. Un criterio di ciò che sia l’autentico non è dato direttamente, né nell’individuo, né nello spirito obbiettivo, per sé pre­ si. Se l’antiteticità delle teorie estremistiche ha un valore, è solo quello di dimostrare la propria mancanza di oggetto. Se mai un criterio deH’autenticità dello spirito obbiettivo esiste, non sarà comunque agli estremi che dovremo cercar­ lo.

Sezione VI LO SPIRITO DELLA SCIENZA

Capitolo XLI

IL REGNO DELLA PURA AUTENTICITÀ

1. Del

progresso cumulativo

Un capitolo a sé, in questo quadro, va infine riservato al­ la conoscenza, intesa come un particolare dominio dello spirito obbiettivo e al fenomeno, in esso emergente, della scienza. Abbiamo mostrato in altro contesto come la scien­ za abbia tutte le caratteristiche tipiche dello spirito obbiet­ tivo: non è riducibile a un solo intelletto; il suo contenuto, e il relativo stato dei problemi, hanno carattere comune; l’individuo vi « cresce dentro » e conseguentemente può collaborare al suo sviluppo; ma la caratteristica deci­ siva è la storicità del suo progredire. (Cfr. i capp. XXI, XXVI 3). La scienza non è qualcosa di generale in senso atempo­ rale. La scienza effettiva è sempre diversa nel tempo, per quanto cerchi compensazione, accumuli le proprie acquisi­ zioni e progredisca con continuità. Storicamente, essa non è neppure un processo che avanzi in maniera del tutto unitaria; in ogni tempo, molte conoscenze procedono affiancate, spesso in una costante indipendenza reciproca. Per ciascuna di queste linee di sviluppo, la scienza ha le sue grandi epo­

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

che, ricche di scoperte, e le sue depressioni. Vi sono an­ che risultati che vanno persi, quando i successori non siano in grado di apprezzarli. Anche la scienza, come in generale lo spirito obbiettivo, ha un’individualità storica; il suo processo è processo reale, soggetto a tutte le vicende che un processo reale può subire. Con tutto ciò, l’accumulazione delle acquisizioni, quando si abbia l’occhio al processo totale della scienza, resta un fenomeno del tutto caratteristico, ignoto in altri campi dello spirito. Nel divenire della morale, del gusto e della sensibilità artistica, sempre nuove sfere di va­ lori entrano bensì nell’orizzonte visuale dei viventi, ma le vecchie, quelle che un tempo avevano determinato il senso dei valori, ne escono: esse « cedono » il campo al­ le nuove. Lo stile di vita di una volta, la lingua, la fede di una volta non continuano a vivere nello spirito nuo­ vo; questi, nel suo divenire, le lascia cadere, e quando tor­ na a rivolgersi ad esse è ben cosciente di aver a che fare con qualcosa che è passato e defunto. Non così nel caso del­ la conoscenza. Nel suo mutare, le conoscenze di una volta continuano a vivere e su di esse si impiantano i nuovi ap­ porti del progresso. La sua avanzata è evidentemente domi­ nata dal rifiuto di ciò che è erroneo e dalla conservazione di quanto si dimostri sostenibile. Ma sostenibile si dimo­ stra appunto ciò che, nel processo stesso, corrisponde ai fenomeni nuovi che via via si presentano. Ne consegue una caratteristica accumulazione delle conoscenze, sotto costante sceverazione dell’erroneo. E sebbene, per circostanze occasio­ nali sfavorevoli, non tutto il patrimonio di conoscenze rag­ giunto possa sempre essere conservato, il corso della scien­ za attraverso i secoli rappresenta in complesso un enorme incremento del patrimonio spirituale, che le conferisce, tra le sfere di contenuto dello spirito obbiettivo, una posizione particolare. È evidentemente una caratteristica della conoscenza in quanto tale, quella di potersi accumulare, e di procedere so­ lo a condizione di crescere assimilando ogni singolo ele­ mento in un tutto. Un costume rimuove l’altro, un gusto,

XLI. - LA PURA AUTENTICITÀ

499

un costume, una costituzione politica soppiantano gli altri — in questi campi, le possibilità di assimilazione sono estremamente limitate. Nel processo conoscitivo, invece, una cono­ scenza si associa aH’altra senza interni confini, purché sia provata. Già nella vita individuale accade questo: l’esperien­ za, la conoscenza di uomini e cose, la saggezza, sono qualcosa che si accumula. Nel processo storico della scienza è lo stesso, in grande; e quello che noi chiamiamo lo stato del sapere in una data epoca, è il lavoro accumulato e criticamente va­ gliato di più generazioni.

2. Perché non

esiste un sapere inautentico

Dell’inautentico, la scienza ha facilmente ragione. Essa non si muove come l’ethos, la fede, il gusto, nei segreti recessi deH’umanità, ma nella piena luce della coscienza. Sapere è essenzialmente coscienza. E se abbiamo sempre constatato che lo spirito obbiettivo in quanto tale è privo di coscienza, qui potremmo invece chiederci se proprio la scienza, nei limiti variabili della sua incidenza, non sia chiamata ad occupare il posto vacante della coscienza co­ mune. Naturalmente, essa non « è » una tale coscienza. Ma in concreto è comune, pur essendo, per il singolo, oggetto di coscienza. Contemporaneamente, dal suo campo sono bandite le passioni tutte: la scienza si muove su un altro piano, al di sopra e al di là di esse. Perciò non è esposta a gran parte dei fattori falsificanti — almeno, non a quelli della sugge­ stione, degli interessi particolari, dell’opinione pubblica, e neppure dell’iniziativa privata. E se in essa non è già pre­ sente una fonte di inautenticità, non si vede come questa dovrebbe sopravvenirle dall’esterno. Naturalmente, anche qui si fanno sentire, in via me­ diata, i grandi interessi, se non le vere e proprie pas­ sioni, le quali tuttavia non appartengono alla conoscenza

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

come tale, ne sono in ogni momento separabili, anzi, alla lunga se ne staccano da sé. L’esempio più tipico è qui cer­ tamente Tinflusso esercitato da istanze di ordine ideologico o religioso. Ciò che si crede o si accetta in nome di un’auto­ rità può falsare, ostacolare la conoscenza, darle l’illusione di sapere ciò che non sa; può addirittura prescriverle mate­ rialmente che cosa accogliere o respingere. Parimenti, può accadere che una data volontà politica cerchi di impor­ re ad ogni costo una particolare dottrina (per es., dello stato, o del diritto). In ambedue i casi, si può esercitare sulla scienza una violenza tale da « costringerla » a dimostra­ re ciò che la volontà dispotica pretende. In ambedue i casi, però, si può dire che la falsifica­ zione non tocca realmente la scienza in se stessa; questa, anzi, resiste alle imposizioni, e si tratta di una resistenza che ha esempi ben noti. Nella misura in cui, invece, non resiste, non solo accetta la pretesa ma la assume seriamente come vera, se ne convince; i suoi tentativi di dimostrarla anche scientificamente sono allora un autentico sforzo per la conoscenza e la verità. Non si obbietti che questi tentativi sarebbero solo er­ rori capaci di condurre a nuovi errori. In primo luogo, non è affatto detto che debbano proprio essere errori. E poi, nella scienza, un errore è tutt’altro che falsificazione e inau­ tenticità. Sapere inautentico, sarebbe quello che, riconosciuto l’er­ rore, ne fosse tuttavia sedotto e vi perseverasse. Il che acca­ de talvolta, specie nella testa di un singolo che si lasci se­ durre dalle sue idee preferite; ma allora non sfugge certo alla cattiva coscienza. Tutto questo, però, non merita più il nome di scienza. La scienza esige essenzialmente che l’errore, una volta riconosciuto, venga eliminato. Poiché l’errore non è più parte della conoscenza, non è in potere del­ la scienza continuare a ritenerlo tale o no, perché è, in sé, contraddittorio lasciar valere come vero ciò che si è già ri­ conosciuto falso. Al contrario, se un minimo dubbio insor­ ge circa la verità di ciò che è ritenuto valido, il pensiero su­

XLI. - LA PURA AUTENTICITÀ

501

bito si getta alla ricerca di come la cosa stia effettivamente. E nessuna forza al mondo potrebbe arrestare la sua opera. In questo senso, è chiaro che non c’è « sapere inautenti­ co »; c’è, semmai, nel nostro sapere, la non-verità, l’errore, l’illusione, ma non una consapevole perseveranza in essi dovuta all’iniziativa della conoscenza stessa. Quello che chia­ miamo il nostro « sapere » è, certo, in ogni tempo, un mi­ scuglio di conoscenza e di errore. Ma l’errore non è falsifica­ zione: non è un inautentico, ma un autentico prender-pervero. In altri termini, il fenomeno dell’errore, nella scien­ za e nel processo generale della conoscenza, non si può affat­ to considerare come qualcosa di spiritualmente inautentico. Non è un’infedeltà della tendenza conoscitiva verso se stes­ sa, una deviazione dall’ideale della verità. Non lo si può, quindi, paragonare con la morale apparente della « buona re­ putazione », che va di pari passo con la cattiva coscienza; né, parimenti, con l’imitazione di uno stile di vita straniero, che si lascia sempre dietro un senso palese di inadeguatez­ za; e meno che mai con la suggestionabilità di una pubblica opinione che trascolora dall’oggi al domani e, per gli errori di ieri, vuol sempre dare la colpa agli « altri ». Piuttosto, qui come in altri campi, la fede più autentica non va esente dall’errore. Con la sola differenza, che la scienza è sempre sulle sue traccie o, meglio, lo attende al varco e, quando l’ha colto, deve necessariamente sopprimer­ lo. La sua caratteristica, la sua vocazione propria e originale è appunto questa: di non poter sopportare l’inautentico in quanto tale. Un sapere apparente c’è, ed è quello dell’individuo, ma solo al di fuori della scienza, nell’autodidatticismo del­ l’incompetente; e neppure di costui si può dire che manchi di fede e di convinzione. Lo stesso dicasi delle grandi aber­ razioni di intiere epoche, della sofistica, della cavillosità con­ cettuale che ogni tanto ricompaiono, come pure dell’unila­ teralità senza riscatto di certi indirizzi della ricerca scien­ tifica. Sono tutte tendenze che fanno presa intorno a sé e tengono in ceppi i cervelli ma, alla lunga, non possono sot­ trarsi a una reazione storica. Del resto, neppure qui la con­ 34.

502

PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

vinzione è qualcosa di inautentico: si tratta soltanto di er­ rori diffusi, non di falsificazioni vere e proprie.

3. Effetto occultante

della teoria razionalistica

DELLA CONOSCENZA

Tutto questo abbisogna innanzitutto di un’ulteriore di­ mostrazione. Con la quale, però, avremmo fatto un passo avanti davvero notevole. Lo spirito obbiettivo avrebbe al­ lora, nel campo della conoscenza, una sfera non soggetta al­ l’equivoco, inaccessibile all’inautentico, la quale potrebbe costituire un’istanza della critica anche per gli altri campi dello spirito. In questo modo il grande desideratum, il crite­ rio dell’autenticità e dell’inautenticità spirituale, sarebbe pressoché raggiunto. Nella vita spirituale, infatti, conoscen­ za e sapere non sussistono isolatamente. Essi sono, dovun­ que, strettamente connessi con le attualità della vita; proce­ dono da quelle, ne emergono e, nell’emergenza, mantengono tuttavia la connessione. E cosi, tutto ciò che costituisce quelle attualità, resta a sua volta oggetto di conoscenza possibile. Per capire questo stato di cose, bisogna sgombrare il cam­ po da alcuni fraintendimenti divenuti ormai tradizionali. La teoria razionalistica della conoscenza ha avuto, al propo­ sito, un effetto sviante: se ha dei meriti per quanto riguarda l’esigenza di verità, che è propria della conoscenza, non le ha però reso giustizia in quanto sfera di vita spirituale. Il punto di vista razionalistico considera la conoscenza come una sfera a sé, isolata e liberamente fluttuante [freischwebende]. In questo, si appoggia su certi risultati ac­ quisiti della scienza, che sembrano completamente sgancia­ ti dalla vita concreta, in una sfera di trasparente razionalità risolta in un contesto dimostrato di concetti e di giudizi. È cosi che, senza rendersene conto, si fa dell’effettivo pro­ gresso della conoscenza (cioè della lotta costante tra errore e verità) una pura astrazione: qualcosa che, nella storia

XLI. - LA PURA AUTENTICITÀ

503

della scienza, si cercherebbe invano. La scienza effettuale è sempre in divenire, è storicamente viva e impegnata a progredire. In coloro che, di volta in volta, vi lavorano e se ne fanno portatori, la scienza non si concepisce mai come ri­ sultato, ma sempre come lotta per un risultato. Il molto deprecato dogmatismo dei risultati acquisiti è un’invenzione di entusiasti ingenui, mentre anche chi ne fa rimprovero alla scienza si rivela come un adepto, ad essa intimamente estra­ neo. Né la scienza è mai separata dal flusso, sia privato che storico, della vita. Conoscenza ed errore non sono di casa nella scienza soltanto. Tutta la vita quotidiana ne è piena. La nostra esperienza di vita è conoscenza allo stesso titolo della nostra scienza naturale: solo l’oggetto è diverso e, con­ seguentemente, la forma del sapere. Ma in tutt’e due è pre­ sente un identico nesso di esperienza e di ragionamento. Lo stesso vale per la riflessione pratica che precede l’a­ zione: per la scelta dei mezzi atti a un determinato scopo, per il coglimento del momento favorevole, per la valuta­ zione di una data situazione. Chi ha esperienza — chi co­ nosce bene uomini e cose — è sempre in vantaggio, buo­ ne o cattive che siano le carte di cui dispone. Tutta questa sfera di conoscenza pratica costituisce senz’altro la gran mas­ sa del nostro sapere. La scienza propriamente detta, con le sue diramazioni, è al riguardo soltanto un « piano nobile », una sovrastrutturazione della conoscenza. Ciò che qui importa osservare è, tuttavia, che la scienza e questa conoscenza pratica non possiedono una struttura radicalmente eterogenea, non obbediscono a leggi diverse, ma alla stessa identica legge. Una teoria della conoscenza consapevole del suo compito non deve fare distinzioni su questo punto ma deve mettere in luce il fondamento comune. Perché proprio nella parentela tra la conoscenza scientifica e la conoscenza non-scientifica, il sapere è soggetto a muta­ re storicamente. E ogni particolarità di un’epoca in campo scientifico ha la sua base e la sua impostazione già nelle forme del conoscere quotidiano.

504 4. Il

PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

sapere e la sfera emozionale

Ciò significa che, nella funzione svolta dalla conoscenza nello spirito obbiettivo, non c’è alcun « razionalismo ». È completamente errato riferire la conoscenza alla razionalità. L’espressione può andare quando, per razionale, si intenda il conoscibile, perché l’inconoscibile, naturalmente, non è oggetto di conoscenza. Ma per lo più questa accezione viene confusa con tutt’altra: quella che identifica il « razionale » con ciò che ha forma logica e che, quindi, si presta ad esser compreso in concetti e giudizi. « Irrazionale », in questa accezione, è tutto l’alogico. E, una volta escluso questo, la conoscenza vede banditi dal proprio campo la maggior par­ te dei suoi oggetti. Questa è la radice del vero e proprio pre­ giudizio « razionalistico », di cui sono vittima le teorie. Secondo un’opinione diffusa, la conoscenza è legata a una forma logica che ha, per lo più, la struttura del giudizio (« qualcosa in quanto qualcosa »). Ciò implica l’esclusione dalla conoscenza di tutte le intuizioni primarie, come la percezione e ogni esperienza immediata. Con questo con­ cetto della conoscenza — che, del resto, non conviene nep­ pure alle scienze (all’osservazione, all’esperimento, all’intui­ zione matematica) — non si può neppure cominciare ad af­ frontare il concreto problema dello spirito, meno che mai del­ lo spirito obbiettivo. È un concetto che non corrisponde al­ la conoscenza effettuale e che implica una visione e una de­ scrizione falsa del fenomeno fondamentale. Solo lasciando-· lo cadere ci si può avvicinare al fenomeno della conoscenza. Giudizio e concetto sono modi logici di concepire il cono­ sciuto, non sono essi stessi conoscenza. Quest’ultima è in­ tuizione, coglimento, visione. Non ha niente a che vedere col trattamento logico in quanto tale, ma riguarda ugualmen­ te il logico e l’alogico. Questo punto acquista la massima evidenza se prendia­ mo in considerazione gli elementi di conoscenza contenuti nella nostra vita quotidiana: la conoscenza degli uomini e dei loro sentimenti, del loro comportamento, delle loro

XLI. - LA PURA AUTENTICITÀ

505

intenzioni e dei mezzi con cui le realizzano. Questa sfera, in cui il giudizio penetra solo a posteriori, e che per la maggior parte gli resta sempre inafferrabile, è alogica. Se poi cer­ chiamo un’espressione logica di ciò che vi abbiamo letto, ad es., per comunicarlo ad altri, troviamo che essa è sempre inadeguata, mentre l’intuizione, dal canto suo, può essere adeguatissima. In questo senso, vero ed ampio, la conoscenza penetra profondamente nella sfera emozionale, anzi, la pervade tut­ ta. In tutti i nostri sentimenti, scelte, avversioni e simpa­ tie, sono sempre presenti elementi intuitivi di conoscenza. E proprio questi hanno carattere primario. La componente fondamentale della nostra concezione pratica di vita, della nostra esperienza quotidiana, della nostra conoscenza degli uomini è quella di cui siamo coscienti in forma emozionale, quella che si annuncia nella valutazione, nella presa di po­ sizione, nel pro e nel contro dei sentimenti. Che proprio lo sguardo innamorato vada obbiettivamente più a fondo di quello senza amore, è un dato di fatto incontestato. L’ori­ ginalità dell’individuo si apre solo a chi vi attende con de­ dizione. Se il conoscere primario ha le sue radici nella sfera del­ l’interesse, ciò non significa che ne risulti necessariamente falsata l’obbiettività. Falso sarebbe anche concluderne che il puro interesse conoscitivo non abbia, in quanto tale, ca­ rattere primario e non sia dotato di autonomia. Si può mo­ strare, al contrario, che già in questa sfera il conoscere pre­ senta una propria autonomia, e solo nella sua elaborazione cosciente diventa del tutto indipendente da ogni fattore emotivo.

5. Interna

indipendenza dell’atteggiamento teorico

C- -

Questa indipendenza è stata spesso contestata, perfino nel caso della scienza. Ogni concezione pragmatica della conoscenza parte dal presupposto che l’interesse al sapere

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

sia fondamentalmente di carattere pratico e che nessuno si curerebbe dell’essenza delle cose, se non avesse bisogno delle cose. Questo valeva per la filosofia di Bacone e vale an­ cora per James e Dewey. Non diverso è l’atteggiamento della recente « sociologia della conoscenza ». In modo simile, sebbene su basi piu ampie, Max Scheier ha classifi­ cato e cercato di giustificare le « forme del sapere » secondo i loro motivi ateoretici (i fini del «dominio, della forma­ zione educativa e della redenzione »). A ciò si può contrapporre la classica determinazione con cui Aristotele inizia la sua Metafisica, che « tutti gli uomini per natura desiderano sapere »; dove il « per natura » va inteso evidentemente nel senso che l’essere umano ha un autonomo e genuino bisogno di cogliere l’essenza delle cose, un bisogno non dovuto a scopi pratici, sia pure altis­ simi. L’idea della θεωρία e del θεωρητικός è la sempli­ ce conseguenza di quella proposizione. Sullo sfondo di es­ sa, però, sta ancora l’idea socratico-platonica che l’atteg­ giamento conoscitivo cominci col θαυμάζειν, ossia con una originaria e puramente teorica affezione, che è dedizione alla cosa per amor della cosa. Volendo, si possono attenuare tali antiche determina­ zioni col far notare che, in questo, non « tutti gli uomini » sono uguali. Ci sono anche quelli, è indubbio, che non sono in grado di assumere l’atteggiamento teorico: essi guardano con profondo scetticismo a chi ricerchi una cosa per puro interesse alla cosa stessa, non lo credono in buona fede, oppure presentano il suo atteggiamento come un autoingan­ no o, senz’altro, un’ipocrisia. Ma ciò non cambia il fenome­ no. L’atteggiamento teorico esiste certamente, in moltepli­ ci gradazioni, ma non è empiricamente estensibile a tutti gli uomini — proprio come la disposizione per la musica o per la matematica non è un fatto generalmente umano. Il che non pregiudica la genuinità e l’autenticità dell’at­ teggiamento di coloro che la possiedono. Le scheleriane « forme del sapere », ad es., recano in fronte l’impronta di un ben determinato schema, quello dell’atteggiamento dell’uomo rivolto a se stesso come al­

XLI. - LA PURA AUTENTICITÀ

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l’unico autonomo oggetto d’interesse. Il « dominio » (dicia­ mo: quello esercitato sulla natura), vuol elevare l’io pro­ prio dell’uomo; la stessa cosa persegue la « formazione » che, anzi, si sforza senz’altro di « costruire » la persona pro­ pria come essere spirituale; la « redenzione », infine, è la tipica preoccupazione per se stessi, sia pure nel senso subli­ mato di una specifica visione del mondo. Al contrario, bisogna chiedersi se, nell’uomo, un simile interesse per se stesso sia davvero tanto caratteristico; se non sia invece altrettanto essenziale per l’uomo rivolger­ si « verso l’esterno », su l’altro da sé o gli altri in quanto tali; se il mondo in cui vive, in quanto tale, non sia per lui mille volte più interessante che la propria persona. Al­ meno in un punto ne abbiamo la prova evidente: il suo ethos. Perché il suo ethos è proprio un crescere oltre se stesso, un dedicarsi all’altro, un originario interessamento per lui, in quanto è un altro. Con questa vena di altruismo etico ha inizio ogni moralità vera e propria.

6. Le

forme della pura dedizione e la scienza

Questo stesso fenomeno si ripete su una base molto più ampia. C’è, per es., la dedizione dell’uomo all’opera sua, alla sua attività o professione, alle sue intraprese. E non è necessario che si tratti di qualcosa di assolutamente valido, o che sia creduto tale. Può esserci, infatti, una pura dedi­ zione all’opera in quanto tale, solo perché si tratta dell’o­ pera propria. Ed è noto che essa può assumere forme estre­ me di vero fanatismo. L’ethos del lavoro e dell’efficienza, oggi comune come non mai, è di questo tipo. Se sia apprez­ zabile o meno, è un’altra questione, che non riguarda il fe­ nomeno stesso. L’uomo può impegnare il suo cuore in ogni sorta di imprese, qualunque ne sia il livello di validità. Questa disposizione raggiunge un alto grado di stile nel campo della creatività artistica. L’opera diventa qui il polo magico che attira a sé tutta l’energia e l’impegno del

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

creatore, esige da lui i massimi sacrifici e, talvolta, lo pro­ sciuga e consuma completamente. Lo trascina come una forza maggiore di lui, e l’interesse personale si dissolve die­ tro l’elemento di destino che l’opera reca in sé. In questo caso, invano si cercherebbe una spiegazione nell’ambizione o nel desiderio di gloria; proprio per i più grandi tra i crea­ tori, essa è una cosa ridicola. Sullo stesso piano di queste forme di dedizione si trova anche quella che possiamo osservare in campo teoretico. Ovviamente vi si mescolano, qui come dovunque, mille piccoli « motivi » umani. Ma non sono questi a spiegare la meraviglia di fronte all’incomprensibile, né l’impegno di tut­ ta la vita in un campo di problemi di cui il ricercatore sa benissimo che non vedrà mai la fine. Eppure si tratta di un fenomeno sempre ricorrente. Chi seriamente si mette al servizio della conoscenza, deve superare molto presto la prova del fuoco: se sappia o no impegnare la propria persona nella causa della ricerca scientifica pura e semplice. Giacché, non appena ne abbia sentito il sapore, non può sottrarsi all’evidenza schiacciante che il suo impegno personale lo inserisce in una grande ca­ tena nella quale si somma il lavoro comune, e che egli stesso non coglierà i frutti alla cui maturazione tuttavia contri­ buisce. Deve trovare l’ampio respiro, la pazienza, la for­ za necessarie per restare continuamente in uno stato di so­ spensione; insomma, deve realizzare la pura dedizione all’og­ getto della ricerca. Se non ci riesce, fallisce necessariamente e finisce col perseguire altri fini — anche se in apparenza resta al suo posto. Un esempio concreto, se fosse necessario, può essere quello del principiante che, proprio penetrando nel vivo della scienza, fa un’esperienza profondamente insod­ disfacente. Si riprometteva la soluzione degli enigmi, ma fin dai primi passi si trova posto di fronte a problemi sempre più enigmatici. Il sapere di non sapere cresce ad ogni nuovo esame, lo sforzo psichico pesa sempre più dolorosamente. In questa insoddisfazione però bisogna che egli resista e viva sempre, senza scetticismo né pessimismo, in vista di quel frutto che non gusterà. Perché nessuno ha il potere di su­

XLI. - LA PURA AUTENTICITÀ

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perare la legge del progresso scientifico, la lentezza del suo corso storico. A voler contestare tutto ciò, bisognerebbe considerare l’enorme impegno e dedizione che il lavoro scientifico richie­ de, e ottiene, dai maggiori scienziati, come puro autoin­ ganno, ed ogni loro fatica per la causa della scienza, come vanità ingannata. Ma non basta. Perché non è così soltanto nel caso della conoscenza scientifica. Ogni uomo, nella vita di tutti i gior­ ni, è posto di fronte ad infinite cose che possono destare, a loro volta, un ben preciso bisogno di sapere. Prima fra tutte, gli stessi uomini tra i quali vive, che non ha mai finito di conoscere, che sempre gli fanno trattenere il respi­ ro, che non lo lasciano mai, ben oltre il limite che il suo interesse pratico e personale vorrebbe concedersi. Non tutti, ovviamente, raggiungono una pura dedizione all’umano, all’e­ straneo che è, ogni volta, completamente diverso; eppure sono molti, e non già i teoreti soltanto. Una vita per la co­ noscenza è già in se stessa una vita ricca e piena. Chi ne è ca­ pace viene stimolato dalla varietà concreta dell’esistente che l’ambito stesso della sua sfera privata può offrirgli, a un mag­ giore approfondimento, alla dedizione. L’amore della cosa per se stessa è, in fondo, un fenomeno molto comune, pro­ prio nella reciprocità delle relazioni umane. È questo amore che spiana la via alla partecipazione personale, a ogni al­ tra forma di amore e di simpatia.

Capitolo XLII

L’IDEA PLATONICA DELLA SCIENZA

1. La

comunanza nel sapere.

La

ομολογία socratica

Ebbene, è nell’essenza del conoscere, e particolarmente della scienza, di accomunare gli uomini piu fortemente e pro­ fondamente dell’ethos, del gusto, della lingua, della poli­ tica e di ogni altro contenuto spirituale. Essa è radicalmente più obbiettiva e quindi, anche nella coscienza dell’individuo — in quanto conoscenza « sua » — si trova più vicina e, anzi, tende direttamente a risolversi nello spirito obbietti­ vo. Ciò che è stato una volta conosciuto e compreso può, per ciò stesso, essere compreso da altri che lo fanno proprio non appena entri nell’orizzonte della loro comprensione. Fin dall’antichità è stato detto che la « ragione » è co­ mune (cfr. cap. XVI 5). Eraclito derideva la presunzione dei « molti » di possedere ciascuno una « ragione privata » ( ιδία φρόνησις). Vi sono cose sulle quali, chiunque sia cresciuto al livello dei loro contenuti, la pensa allo stesso modo; idee, che non possono essere diverse o discordanti « per ciascuno », se solo sia stata raggiunta una sufficiente maturità spiri­ tuale. A questo proposito, fin dall’Antichità, sono stati por­ tati ad esempio i concetti matematici elementari. Più tardi, questi concetti sono stati chiamati a priori e caratte­ rizzati come necessari ed universalmente validi. A rigore però, questi ultimi attributi non rispondono a verità se non presupponendo la detta condizione di interiore maturità conoscitiva. Essi non hanno un senso di generalità empirica valevole

512

PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

per ogni opinione umana; questa può essere ben lontana dall’intelligenza della cosa, non può coglierla « in un modo o in un altro » ad arbitrio — ciò non è, semplicemente, in suo potere — ma può solo coglierla cosi come l’essenza stessa della cosa richiede. Ma ciò significa che tutti quelli che la colgono devono coglierla nello stesso modo. L’opinione privata del singolo non esercita alcun potere sull’intellezione, quale è già prefigurata nell’essenza della cosa. Ma, al contrario, è l’intellezione che ha potere su di lui e sul suo opinare. Perciò essa è fondamentalmente la ragione « comune a tutti » e per tutti necessaria, anche se di fatto, in un determinato tempo, soltanto pochi la pos­ siedono — o magari nessuno. La concezione-base di Socrate, opposta al relativismo sofistico, era che lo scambio delle opinioni ( διάλογος ) offrisse sempre la possibilità di raggiungere l’accordo (ομο­ λογία ), purché le due parti si occupassero seriamente del­ la cosa stessa senza lasciarsi guidare da una volontà non oggettiva. Allora necessariamente uno dei due, quello la cui concezione era vera, avrebbe convinto l’altro. E doveva es­ sere cosi per la semplice ragione che ambedue si sarebbero accostati insieme alla stessa cosa, la quale è una sola e, in quanto tale, non può sottrarsi alla sforzo di chi vuol pe­ netrarla. Questo pensiero è alla base dell’idea platonica della scienza. Da un punto di vista pratico, si può dire che è una concezione molto ottimistica. Infatti, né la volontà diretta alla cosa stessa è sempre tanto pura, né sempre la cosa è alla portata della maturità conoscitiva di cui le due parti sono di fatto dotate. Nell’essenza però, la scoperta che allo­ ra per la prima volta fu fatta, resta pienamente valida se la riferiamo al processo della conoscenza « in grande » e se mettiamo in conto anche la funzione positiva delle opinioni negative. Nel cammino della scienza si conserva solo ciò che si conferma. Si conferma, però, soltanto ciò la cui verità è provata in base ai dati, o che almeno sia con essi compatibi­ le. Ogni asserzione, per il semplice fatto di essere stata for­

XLII.

-

l’idea platonica della scienza

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mulata, è esposta alla critica; di opinioni divergenti c’è sem­ pre grande abbondanza. Ne segue la necessità di una discus­ sione. Anzi, per la precisione, ogni nuova concezione cade già su un terreno di discussione in atto e vi si inserisce. Con ciò, essa entra direttamente in campo. Il processo della scienza, inteso come una catena progressiva di nuove idee, non è quindi altro che un dialogo su grande scala, nel quale battuta e risposta continuamente si sollecitano, si limi­ tano e si correggono a vicenda. La discussione, come incombenza comune, non dispo­ ne a sua volta di altro criterio, che non sia la ricchezza dei dati, ossia il tener fermo alla cosa cosi come essa è data nei fenomeni. Anche là dove prevale una qualunque prevenzione, alla lunga essa dovrà necessariamente cadere sotto questo criterio. Gò che non gli resiste, deve sparire; chiunque sia dotato di comprendonio dovrà sentirlo per forza come insostenibile.

2.

Il

concetto platonico di problema e il culto del

NEGATIVO

Per quanto riguarda la positività della conoscenza, bi­ sogna ammettere che, per questa via, essa non viene garantita. Infatti, di volta in volta, resta dubbio se sia possibile so­ stituire l’errore, appena scartato, con la verità. In pratica tuttavia, è questo soltanto un caso limite della conoscenza stessa, e di essa soltanto, e non costituisce mai un limite alla sua comprensibilità e validità generale per i soggetti co­ noscenti. Proprio il riconoscimento che una certa cosa « non » è stata conosciuta, e quindi non sappiamo come sia in realtà, ha un significato estremamente preciso e positivo. Di regola, è proprio una conoscenza di questo tipo che permette un ul­ teriore passo avanti. Nel bilancio della scienza, essa ac­ quista allora la forma e la pregnanza di un « problema » ben definito. Storicamente, non è un caso che anche l’elaborazione

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

del concetto scientifico di problema risalga al socratismo. Il « sapere di non sapere » a un dato proposito vi è addirittura riconosciuto come uno stadio necessario nel progresso della conoscenza. Platone chiamava questo stadio απορία cioè coscienza di « non aver più via d’uscita ». In ciò trova espressione quella tendenza all’interiore onestà — al­ l’ammissione del proprio difetto — che è peculiare del­ la conoscenza. La scienza è un progressivo « rendersi conto »; è critica per sua natura. Ha in sé il culto del negativo. Proprio questo culto del negativo, però, dà frutti po­ sitivi. Nel dibattito critico, alla resa dei conti, tutto ciò che non resiste alle obbiezioni deve necessariamente cadere. La conseguenza di questo metodo è esattamente quella stes­ sa che aveva in mente Platone: in una discussione orientata soltanto sulla cosa, la cosa stessa deve necessariamente mo­ strarsi quale è — nella misura, si capisce, in cui sia acces­ sibile in generale a quei dati mezzi conoscitivi. Ai singoli at­ tori del grande dialogo storico, nel λόγος condotto in comune (la ricerca), essa dovrà necessariamente rivelarsi, nella mi­ sura stessa in cui dialogo vi sia. Perché non è nell’essenza della cosa di nascondersi; la cosa non si schermisce di fron­ te alla conoscenza che la penetra. È l’uomo che la nasconde a se stesso — coi suoi pre­ giudizi. Ma se, attraverso la dedizione operosa, egli ne fa getto, ecco la cosa offrirglisi liberamente. Questo giacere-liberamente-davanti-a-lui è il senso di quell’ άλή&εια (il non­ nascondimento) che sta al centro di ogni impegno di co­ noscenza. Il socratismo, nella interpretazione filosofica datane da Platone, si può considerare storicamente come l’atto di nascita dello spirito scientifico. Non che agli antichi predecessori mancasse in tutto l’attitudine di dedizione alla cosa; ciò che ad essi mancava era però la coscienza di cosa essi compissero quando, in quell’atteggiamento, affrontavano puramente e semplicemente i problemi. Sta di fatto, però, che un metodo, il quale vincoli la conoscenza della cosa, accomuni in quel vincolo tutti coloro che seria­

XLII.

-

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mente ricercano e faccia di questo rapporto il principio del­ l’atteggiamento scientifico, non è indipendente da una piena e profonda consapevolezza. Perché sapere è avere coscienza. Se il processo scientifico appartiene allo spirito storico obbiettivo, ecco dunque il punto in cui lo spirito obbiet­ tivo avrebbe la possibilità di prendere coscienza di sé e at­ traverso tale coscienza, farsi infine e pienamente ciò che è. Si può dire anche che questo è il punto nel quale fondamental­ mente gli si offre la prospettiva di farsi libero attraverso la coscienza — libero, s’intende, da tutto ciò che, nella sua vera essenza, esso non è: dall’inautentico e dall’improprio che sono in lui, dai fattori della soggettività e della falsificazio­ ne.

3. Forza

di convinzione e contatto con la cosa

Se poi ci chiediamo cosa sia propriamente ciò che, nel­ la comunanza socratica del conoscere, positivamente ci con­ vince, la risposta è una sola: è la forza di convinzione del­ la cosa stessa fatta oggetto della conoscenza. Ed è appunto ciò che manca al pensiero sofistico, il quale ci conculca a parole, non ci convince. In tutto il mondo, non c’è nulla che sappia convincere quanto il contatto con la cosa. Con­ tatto con la cosa che è, appunto, vedere addentro, conoscere. Dovunque sia perso il contatto con la cosa, il pen­ siero sprofonda nell’infinita relatività del pensabile. Sia che costruisca sistemi e immagini del mondo come castelli di carte; sia che soggiaccia alla suggestione della moltitudine, dell’atmosfera, della moda e non sappia più pensare che co­ me « si » pensa; sia che la passione dello zelatore o il fanatismo di parte lo metta al bando, ciò che viene a manca­ re è sempre il contatto con la cosa. Questo è dunque il punto da cui dipende ogni inautenticità dello spirito obbiet­ tivo. Nell’arte, nella vita politica, nella moralità, dovunque, la falsificazione e l’inautenticità sono dovute al fatto che la

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PAKTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

cosa, di cui ne va, sfugge, e dei puri surrogati ne prendono il posto. Quella sofistica che il platonismo combatteva, era il surrogato retorico dell’adesione alla cosa e della competenza in ogni campo della vita. Lo spirito della scien­ za, invece, in tutti i campi ad esso accessibili è la tendenza consapevole a stabilire il contatto con la cosa. Questo è il segreto della scienza, la pietra angolare del­ la sua forza di convinzione. Per essenza, essa tende puramen­ te e semplicemente alla cosa. La cosa però, qualunque essa sia e comunque costituita, parla da sé. Essa si, se appena si mostra, è sempre convincente. Al suo cospetto, non c’è più contestazione, né opinione. E solo da qui è possibile valutare appieno il pensiero socratico della comu­ nanza: nel pensiero solitario, ciascuno è consegnato alla propria soggettività; nella comunità, in quanto stabilita sul­ l’unità dell’oggetto, il singolo è costretto a cercare appoggio nella cosa. Perciò nel διάλογος le opinioni convergono. L’uo­ mo viene ora a sottostare a una legge dello spirito obbiettivo, che lo costringe a « restare nel tema » [bei der Sache}. È questa la legge della validità oggettiva — una legge del ren­ der conto e dell’autocritica che si ride di ogni arbitrio.

4. La

sovratemporalità dei contenuti di problema

Si può cogliere questa legge anche da un altro lato, più ontologico e insieme più inserito nella prospettiva storica. La si può formulare, cioè, come legge del radicamento ob­ biettivo della conoscenza negli eterni contenuti di proble­ ma. Che cosa significhi ciò, non si può intendere finché nei « problemi » non si vedano che « posizioni » [Stellungen} di questioni da parte del singolo. Naturalmente, il singolo può porre o non porre questioni, a seconda della sua inclinazio­ ne, interesse o occasionale necessità. Altra cosa sono, tutta­ via, le questioni della scienza. Queste non è il singolo a porle; il singolo le riprende, in una data fase di svi­

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- l’idea platonica della scienza

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luppo, da quello che, via via, è lo stato della scienza; egli en­ tra in una già elaborata « situazione del problema » per la­ vorarvi ulteriormente. Lo stato del problema, però, dipende a sua volta da un certo contenuto, ignoto in quanto tale ma, per la sua stretta relazione col noto, capace di tenere in iscacco il pensiero e la ricerca degli uomini. Questo nucleo pro­ fondo è il «contenuto del problema » [Problem geholt]. I contenuti di problema non sono opera umana, non so­ no soggetti ad arbitrio né da parte del singolo, né da parte di una tendenza di interessi dominante. Non nascono in virtù di una posizione del problema, ma questa è un prodotto di quelli che, anzi, storicamente, costringono le varie gene­ razioni a porsi sempre di nuovo certe questioni. I contenu­ ti permanenti di problema hanno radici nella struttura del dato, delle cose, del mondo, in quanto la conoscenza umana, ad onta di ogni sua nuova concezione, non si trova mai ad averli risolti. I contenuti di problema sono « assegna­ ti » all’uomo indipendentemente dalla sua volontà e dal suo intervento, per il fatto stesso che il mondo in cui vive gli presenta questi determinati enigmi. Egli vi si trova esposto e non può evitarli, perché la sua stessa vita continuamente glieli ripropone, ma non è in grado di venirne a capo con nessuna delle soluzioni tentate. Perciò, un problema come quello di corpo ed anima passa immutato attraverso i secoli e gli innumerevoli tentativi di risolverlo, perché l’enigma di un ente corporeo e animato è ancora sotto i suoi occhi senza essere tuttavia esaurito né sciolto. Lo stesso dicasi per il problema della materia, del movimento, della sostan­ za, della forma, della determinazione e di molti altri — diciamo pure, tutti i problemi filosofici fondamentali. Se l’uomo potesse cambiare il mondo, allora certo potreb­ be anche accantonare i grandi contenuti di problema. Ma poiché questo non gli è dato, egli resta, nel suo sforzo di conoscenza, perennemente legato ad essi. Infatti, non può neppure liberarsene per mezzo di soluzioni definitive. In questo modo, però, si produce un’unità della conoscenza che non lega tra loro soltanto gli uomini di un’epoca, ma anche uomini appartenenti ad epoche diversissime. Essa con­ 35.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

nette le fasi dell’intiero processo storico della conoscenza in una naturale unità; collega le figure dello spirito oggettivo al di là della loro separazione storica. Ma anche qui è sempre la fedeltà alla cosa a produrre l’unità. Questa unità — che ha un carattere di pura obbiettivi­ tà spirituale — ha una capacità e una portata eccezionalmen­ te grandi. Essa permette al successore di « discutere » sempre obbiettivamente col pensiero del predecessore. Nella discussione, infatti, sta quella comunanza vivente che, pur essendo temporale va oltre il tempo e, con tutta la sua sto­ ricità, è però fondata nel sovrastorico. Solo così diventa pie­ namente comprensibile come il momento del render conto e della critica diventi un interno criterio dello spirito stori­ co.

Capitolo XLIII LA LEGGE INTERNA DELLA SCIENZA

1. La

direzione univoca verso la verità

Abbiamo mostrato più sopra come vi sia, bensì sempre, nella scienza, mescolanza di errore e di verità, ma non di autentico e di inautentico. Ciò dipende dal fatto che essa ha sempre in sé chiaramente, anche nei suoi errori e nelle sue unilateralità, la « tendenza » verso la verità. Infatti, una parte di essa è sempre critica e la critica è sempre essen­ zialmente diretta contro l’errore e l’apparenza. Questa univo­ ca tendenza alla verità non potrà certo assicurarle la veri­ tà stessa — per lo meno, non in un determinato campo e in un determinato tempo — si bene la direzione verso di essa nel complesso progredire della storia. Garanzia di ciò è che si tenga fermo alla cosa. La scienza non è mai un solido possesso, benché tale pos­ sa sembrare all’uomo radicato nel suo tempo; essa è sempre in divenire ed è sempre, nella sua totalità, un unico grande processo. Quel processo, in quanto è vivo e in corso e non si riduce a un puro sfruttamento di risultati altrui, è neces­ sariamente un processo di adeguazione e di avvicinamento alla verità. Questo resta vero anche là, dove le tendenze uni­ laterali si accentuano. La fedeltà alla cosa non concede de­ viazioni; ciò che non è vero non si può far coincidere col da­ to, e quindi non può corrispondere allo stato del problema. In questo processo gli errori, non solo sono istruttivi, ma sono anzi altrettanto positivi e fecondi delle scoperte; ossia, alla lunga, sono sempre tali da sospingere verso la verità.

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

Sono proprio gli errori che costringono ad un maggiore ap­ profondimento, la loro insostenibilità incita alla correzio­ ne. Nella scienza, gli errori sono esperienze che lo spirito ob­ biettivo fa con se stesso. E i suoi errori gli sono utili. Questo accade già nella vita dell’individuo, dove la co­ noscenza cresce nella misura degli errori fatti e della lo­ ro correzione. L’uomo fa progressi, ma le lezioni sono a paga­ mento. E così accade anche nel processo conoscitivo « in grande » che, in quanto è storico, poggia su quello indivi­ duale e lo comprende nel proprio movimento. L’uno dipende dall’altro: come ogni risultato del sapere muove e sostiene la conoscenza individuale, così quest’ultima, coi suoi risul­ tati dà impulso al progredire complessivo del sapere. Nella scienza dunque il movimento dello spirito ob­ biettivo sottostà a una legge sua propria che non ha pari in nessun altro campo: esso può singolarmente condurre di er­ rore in errore ma, nel risultato complessivo, porta ine­ vitabilmente alla verità — e ciò indipendentemente dal fat­ to che raggiunga o no la verità su una questione determina­ ta. La ragione di ciò è la seguente: l’errore, non potendo reggere al progredire della ricerca e dovendo cadere, provoca un contraccolpo il quale, sia pure errato quanto si vuole (di regola, infatti, cadrà nell’estremo opposto) è già tut­ tavia una correzione del precedente e va quindi al di là di es­ so. Al secondo errore però tocca la stessa sorte del primo. E cosi ininterrottamente, finché l’errore sia compensato e, nell’avvicendarsi stesso degli errori. si delinei la conquista di un nucleo di pura verità. Questa legge, da Hegel in poi, è stata spesso chiamata legge dell’antitesi. La verità è che la polemica degli indivi­ dui, come quella delle correnti scientifiche unilaterali (gli « -ismi ») ha in effetti la tendenza a muoversi tra estremi. Nella lotta delle convinzioni, il contrasto svolge realmente la funzione di un principio motore. La sua esasperazione, quindi, non è affatto superflua, benché vada oltre il se­ gno; ma anzi, guardata da un gradino più elevato, è neces­

XLIII. - LA LEGGE INTERNA DELLA SCIENZA

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saria proprio nel senso della tendenza al vero. Perché proprio l’unilateralità procura avversari a una tesi. Da questo punto di vista si intravede che, quanto più chiare e controllabili sono le datità, quanto più evidente la cosa si offre alla conoscenza, tanto più l’antiteticità stori­ ca del divenire scientifico scomparirà e il suo cammino do­ vrà farsi rettilineo. E viceversa: quanto più spirituale e li­ bera è una scienza, quanto più mediatamente e faticosamen­ te essa tien salda la cosa, tanto più antitetico e ricco di de­ viazioni apparirà il suo movimento. Bisogna però aggiungere: l’immagine progressiva del suo progredire non potrà essere per questo meno stabi­ le. L’antitesi è solo la forma esterna del movimento: dietro di essa sta la tensione incessante verso la cosa. Il procedi­ mento polemico e la linea a zig-zag dei contraccolpi non sono altro che un modo di andare diritti alla cosa stessa, un modo che può essere richiesto dal carattere specifico deU’oggetto. L’andare diritto non è altro che la progres­ siva correzione dell’errore.

2.

Come ogni nuova

acquisizione conoscitiva diventa

COSA COMUNE

A tutto questo va aggiunto che la scienza, in tutti i cam­ pi, tende a raggiungere la trasparenza, la struttura lo­ gica, tende cioè ad elevare il conosciuto alla piena obbietti­ vità. Che non è la stessa cosa della razionalità, più sopra ri­ fiutata. Con questo, non viene assicurato né il pieno raggiun­ gimento di una forma logica, né la totale conoscibilità del­ la cosa. C’è solo la tendenza. Che consiste nel mettere in lu­ ce il contenuto, nel renderlo accessibile, nel farne argomento di discussione. La forma logica, e il rivestimento di concetti, giudizi e ragionamenti sono, rispetto alla conoscenza, delle esteriorità. L’appercezione ha di per sé ben poco a che

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

vedere con questa forma. Vero è che la forma conferisce chiarezza all’appercepito e lo scopre allo sguardo di tutti. In tale forma, non è possibile nascondere a lungo la vanità di una posizione debole: essa dovrà annunciarsi, prima o poi, in una contraddizione. Orbene, questa forma, per sua essenza, fa di ogni nuova appercezione una cosa comune. Con ciò, essa sfida il pensiero altrui a far propria la nuova acquisizione cono­ scitiva e quindi a discuterla. Cosi, appunto, essa suscita la critica e vi espone i risultati del lavoro conoscitivo. La forma logica non è quindi un fattore di addormentamento del progresso ma piuttosto, e soprattutto, la sua molla. Naturalmente questo rapporto non dipende sol­ tanto dalla forma logica. Essa non fa che favorirlo. Piutto­ sto, bisogna vedere il rapporto stesso su una base più am­ pia. Un bene spirituale, per essenza, non può essere che uni­ versale, aperto a tutti, di tutti coloro che lo intendono. Il possesso materiale divide, quello spirituale unisce gli uomi­ ni. Una cosa non può avere due proprietari, un contenuto spirituale, invece, non può limitarsi ad uno solo. È qualco­ sa che si dà via, eppure resta nostro. In nessun campo questa legge ha un compimento più rigoroso che in quello della conoscenza. Ogni nuova co­ noscenza, appena raggiunta, non appartiene già più al suo scopritore soltanto, ma a chiunque la intenda. Lo scopritore può bensì celarla ad arte; ma cosi facendo la destituisce del suo senso, che sta appunto nella sua forza di convinzione, neH’esser di guida e di impulso, nell’essere una forza motri­ ce, qualcosa di comune. Se invece egli ne adempie il senso, la espone, le conferisce cioè la forma logica e obbiettiva del pensiero — né la storia conosce esempio di altri procedi­ menti oltre a questo —, ecco che essa lo ha già superato ed è andata ad accrescere il patrimonio dello spirito ob­ biettivo.

XLIII. - LA LEGGE INTERNA DELLA SCIENZA

3. Esclusività del l’inautentico

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sapere e radicale esclusione del­

Questa legge della scienza ha però il suo rovescio, la sua legge complementare. L’espansività e l’universalità ha un limite nella capacità di ricezione dei co-viventi. Non è che ogni cognizione appartenga in generale, indipendente­ mente da ogni scelta, a chiunque ne senta parlare. Ma ap­ partiene sempre e solo a quelli che hanno davvero la capaci­ tà di farla propria. Il coglimento è legato a condizioni preliminari. Si tratta di un limite che non dipende dall’es­ senza della cognizione, ma dallo stato in cui si trova il sa­ pere degli uomini che compongono una data società. Nessuno può « consegnare » a un altro una determi­ nata acquisizione conoscitiva, se questi non ha la forza di capirla. Nessuno può compiere per un altro l’atto stesso del conoscere. Il ricevente deve possedere le premesse interiori, deve già trovarsi al livello conoscitivo necessario per capi­ re la « cosa ». Se non c’è modo di intendere per altri, c’è però il modo di guidare la coscienza altrui alla soglia del­ l’intendimento; questa guida sarà educazione a qualcosa in quanto l’allievo, di grado in grado sempre comprendendo, dovrà salire con le proprie forze, imparare, crescere in quella cosa, conquistarsi una maturità spirituale. La cre­ scita intellettuale si può solo favorire, non conferire. L’al­ tezza vuol essere conquistata, dal basso e senza lacune; ogni lacuna a un dato livello comporta un’impotenza intel­ lettuale che si perpetua in tutti i livelli superiori. In campo scientifico, nulla ci vien dato in regalo. È vero che il patrimonio delle conquiste scientifiche sta sotto gli occhi di tutti, ma non tutti hanno gli occhi per vederlo. È appunto il vedere che non ci è dato in regalo. Ciascuno deve riuscirci da sé. È questa una dura legge, che rende incomunicabile un bene spirituale a chi non è in grado di possederlo e lo esclu­ de dalla comunanza con quelli che ne partecipano. Non si tratta di invidia, di arbitrio di uomini, di occultamento

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

indebito: nessuno può mutare questa situazione. Tale è, semplicemente, la legge dell’essere scientifico: una legge au­ tenticamente spirituale-obbiettiva. In questo senso, si può parlare di carattere esclusivo della scienza. Questa legge limita di fatto la libertà dell’individuo. Tra l’individuo e la scienza del suo tempo c’è sempre que­ sto rapporto: non è il singolo a scegliersi senz’altro la propria scienza, per inclinazione o interesse, ma anche la scienza si sceglie i propri individui. Essa seleziona gli uomi­ ni in base alla loro disponibilità e sufficienza, secondo la lo­ ro attitudine e le loro doti di serietà e dedizione obbiettiva. Chi non è adatto, impegnato, resta a guardare dal di fuori e può darsi le arie che vuole, mettersi in mente quello che vuo­ le. Vi sono certamente casi di esistenze scientifiche appa­ renti. Ma la scienza effettiva le ignora. E, viceversa, si può dire che, dove c’è dedizione effettiva alla cosa, dove la serietà della conquista induce a cominciare dal basso, l’uo­ mo è già tutto preso dallo spirito della scienza, è l’eletto, il chiamato. Perché dopo averlo preso, essa non lo lascia più andare: appartiene a lei, le è predestinato. Ma la durezza di questa legge è tale solo nei riguardi dell’individuo. Solo cosi lo spirito obbiettivo raggiunge la sua purezza. L’esclusività della scienza nei riguardi dell’in­ sufficienza personale del singolo non è altro che la radicale esclusione dell’inautentico e dell’improprio dalla vita della scienza. È una durezza salutare — l’indispensabile condi­ zione del contatto con la cosa e dell’univoca fedeltà alla cosa.

4. Esclusione

della maggioranza e della pubblica

OPINIONE

Si confronti questo stato di cose con quello della vita politica. Il contrasto salta subito all’occhio. Là, domina la maggioranza, l’orientamento delle masse, la suggestio­

XLIII. - LA LEGGE INTERNA DELLA SCIENZA

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ne, quell’« opinione pubblica » che rende superflua la scelta e la responsabilità del singolo. Nulla di tutto questo nella scienza, dove votare sarebbe un’insensatezza. Il voto, se ad esso si volesse ricorrere, non potrebbe convincere nes­ suno. Solo ciò che sia provato in base ai dati e sia evidente in se stesso possiede forza di convinzione. La verità non di­ pende dal numero dei soggetti. Potrebbe anche darsi che essa sia colta da un solo: ciò non pregiudicherebbe la sua va­ lidità generale di principio. Piuttosto, essa verrebbe colta da quell’uno, come tale da valere per tutti. Un testimone le basta; già Platone (nel Gorgia') intese il rapporto in que­ sto modo. La sua pietra di paragone non sta nell’opinione degli uomini ma nel contatto con la cosa: il suo fondamento è radicalmente obbiettivo. Ed è proprio questa la vera validità generale, che non è somma di tutti gli individui, ma necessità oggettiva e vin­ colante per il soggetto comprendente. Si può chiamare inter­ na questa validità generale, in opposizione a una validità estensiva-numerica, che resta sempre esterna perché non inerisce all’essenza della cosa. Essa è ben compatibile con la disparità empirica delle opinioni: chi comprende e chi non comprende non possono essere della stessa opinio­ ne; tra coloro che seriamente ricercano, però, la divergenza stessa è una forma di ricerca dell’interna validità generale. Orbene, proprio su questo punto, la vita politica è priva di una norma. Qui non c’è alcuna istanza che, da sé e senza intervento umano, sceveri chi comprende da chi non compren­ de. Chi non è in grado di giudicare ha lo stesso diritto di voto di chi lo è. Di qui l’inautenticità delle maggioranze, la falsificabilità e la suggestionabilità della pubblica opinione. Anche riguardo al sapere, si può sempre portare la massa fuo­ ri strada, come accade nelle questioni politiche. L’unica dif­ ferenza è che lo sviamento non ha alcun effetto sullo spirito stesso della scienza e sul suo andamento — gli sviati non giungono affatto fino a lei — mentre nella vita politica, il disorientamento può indurre alle più gravi e irrevocabili deci­ sioni. Qui, infatti, si tratta di azioni, là, del giudizio in quanto tale. L’azione è legata al momento, non può aspettare

526

PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

la comprensione; il giudizio invece è la comprensione stessa, cui non è fissata un’ora: viene alla sua ora e, solo allora, è inarrestabile. Dove è la stessa legge d’essere dello spirito obbiettivo ad escludere come inessenziale l’opinione pubblica, là ne è esclusa anche la falsificazione e l’improprietà. Privilegio specifico delle scienze è di realizzare in sé tale esclusività. Ciò comporta una radicale revisione del rapporto tra massa e individuo; ma insieme anche una specie di coltivazione artificiale del rapporto tra spirito obbiettivo e individuo. Proprio qui si vede che lo spirito comune non è un collet­ tivo di spiriti soggettivi, ma qualcosa che sussiste sempre in una certa indifferenza rispetto all’importo numerico dei pro­ pri portatori. Perché, nella scienza, l’individuo scompare più che in altri campi dello spirito; i suoi beni spirituali sono, per es­ senza, un possesso comune, anche se temporaneamente non può spartirli con nessuno. Ma, insieme, questo scomparire non è un ritrarsi davanti alla folla e alla medietà del suo opi­ nare, ma davanti allo spirito della scienza, come vivente con­ crezione obbiettiva che nei propri portatori ha, via via, sol­ tanto una fase di transizione storica.

5. L’idea

della missione storica nello spirito della

SCIENZA

Davanti a questo stato di cose ci si può chiedere seria­ mente se, nella scienza, non si debba cercare un criterio di autenticità valevole anche per gli altri territori dello spirito. Dopo la grande utopia platonica, a questa domanda si è ri­ sposto spesso, nelle forme più diverse, positivamente; ma di fronte alle esigenze della vita storica effettiva, queste ri­ sposte affermative non hanno mai potuto resistere. Può es­ sere stato un errore dovuto ad eccessiva consequenziarietà; ma può anche essere un errore di fondo e di principio. Nel primo caso si potrebbe benissimo delineare, ad onta di ogni

XLIII. - LA LEGGE INTERNA DELLA SCIENZA

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esperienza contraria, un perenne compito storico, una sorta di missione ideale che spetterebbe alla scienza, in relazione al tutto dello spirito vivente, e che andrebbe valutata nel suo peso storico. Non vogliamo ripetere, a questo proposito, le obbiezioni, oggi divenute popolari, della cosiddetta critica della scienza. Già la loro popolarità testimonia a sufficienza della loro mancanza di scientificità. Esse hanno il medesimo carattere di quell’opinione pubblica che lo stesso cammino del­ la scienza esclude costantemente da sé. È la rivolta di un’e­ poca abituata alle maggioranze e al diritto di giudicare da parte di chiunque, contro l’intimo, ineliminabile esclusi­ vismo della scienza; l’insoddisfazione dei molti che non san­ no parteciparvi e se ne sentono esclusi — insomma, è una sorta di fenomeno di risentimento nello spirito obbiettivo dell’epoca. Ciò che, in questa critica, è invece giusto e fon­ dato non è altro che la lotta contro l’unilateralità scienti­ fica, una lotta che, secondo la legge dell’antitesi storica, deve essere anch’essa necessariamente unilaterale. Cosi intesa, però, la lotta è proprio il momento distinto e pal­ pabile dell’interno progresso e della vitalità della scienza, la forma del suo continuo lavoro tendente univocamente al­ la verità, ossia della sua tendenza progressiva all’adeguazione. Una cosa è soprattutto degna di nota. Per principio, tutto ciò che esiste è oggetto di scienza: ogni ente, a qualunque specie o libello d’essere appartenga. La scienza non è limitata all’essere a-spirituale ed a-storico, alle cose materiali, alla natura e ai suoi processi, agli organismi, ai fenomeni vitali. Scienza è, altresì, la conoscenza dell’es­ sere spirituale e storico e, per quasi tutti gli oggetti di quest’ultimo tipo, essa è scienza dello spirito oggettivo. Dun­ que, nel campo dello spirito non c’è nulla che per princi­ pio le sia sottratto. Per principio, le spetta di comprendere e chiarire tutto ciò che incontra, da qualunque parte si vol­ ga. D’altro lato, se è nella sua essenza di tendere alla verità, di poter separare l’autentico dall’inautentico, non dovremo

528

PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

attenderci che essa sia chiamata, oltre che ad illuminare lo spirito obbiettivo, anche a scoprire via via nella sua vivente attualità l’inautentico e a rilevarne l’autentico in tut­ ta la sua purezza? La missione che in tal caso le tocchereb­ be, sarebbe della massima portata, una specie di compito costante nella storia dell’umanità: quello di essere la pura rivelazione dell’attualità vivente dello spirito obbietti­ vo, anche e proprio là dove esso spazia nella più vasta attua­ lità della vita pubblica e vi si espone alla falsificazione. La scienza potrebbe cosi diventare un’istanza capace di riempi­ re quella coscienza morale dello spirito vivente che sta die­ tro a tutto il movimento oscillante dell’inautenticità, quasi monito costante alla sua propria e vera essenza, che lo di­ stolga dalla falsificazione e lo riporti a se stesso.

6. Tendenza

espansiva ed educazione all’oggettività

Per converso, nonostante tutto il suo esclusivismo, la scienza possiede anche una certa espansività, che non s’arresta neppure di fronte alle più vaste masse. Pur essendo in contrasto con l’opinione pubblica, non schiva affatto la pubblicità. È sempre accessibile, sta senza riserve sotto gli occhi di tutti, trova sempre da sé chi collabora in silenzio all’opera sua. In questo senso, solo l’insufficienza media de­ gli individui costituisce un limite. I suoi risultati pene­ trano in circoli sempre più vasti; non altrettanto i suoi me­ todi, sebbene anche per questi vi sia una larga comprensio­ ne, molto più diffusa che non sia l’ambito di coloro che li adottano nel loro lavoro. Del resto, la stima di cui gode la scienza non è gratuita, ma è dovuta alle molteplici vie che essa lascia sempre aperte a chi la coltiva seriamente. Nei suoi effetti poi, questa sua posizione ha un’incidenza ancora maggiore. Entro certi limiti, infatti, essa co­ stringe letteralmente i co-viventi ad educarsi alla scienza ed a seguirne i continui progressi. Ci sono numerosi aspetti della vita, nei quali essa risulta quasi indispensabile; e non

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sono soltanto i settori tecnico-pratici, sì anche svariate espressioni puramente teoriche ed umanistiche dell’in­ telligenza. Prima fra tutte, l’intelligenza storica, che è sem­ pre anche intelligenza del presente fluente, sia pure fon­ data su una data comprensione del passato. Ma comprende­ re il passato non è possibile senza il lavoro di ricerca della scienza dello spirito. Per questo, l’opera educativa di ogni ordine di scuole fa tanto assegnamento sulla storia — nel­ l’insegnamento della lingua e della letteratura, dell’arte e del pensiero, degli sviluppi politici e sociali. La cultura gene­ rale, proprio quella della media dei viventi, si nutre in tutto e per tutto del lavoro della scienza. La scienza, quindi, con le sue conquiste, non solo pe­ netra continuamente nelle masse, ma lavora anche costan­ temente ad elevare il livello complessivo dell’intelligenza e del discernimento. Nei suoi effetti, come si vede, essa agi­ sce sul punto più debole dello spirito obbiettivo, li contra­ stando metodicamente al cedimento e alla falsificazione. A buon diritto, possiamo indicare questo suo lavoro come un’o­ pera di educazione dell’uomo all’oggettività [Sachlichkeit], Ciò che più importa, non è il campo specifico del sapere in cui quest’opera educativa si afferma. Sarà quello che le esigenze particolari dell’epoca meglio vi predisporranno. Né ogni tipo di atteggiamento oggettivo porta immediatamente sulla vita della comunità. Il senso dell’azione educativa sta piuttosto nella penetrazione popolare dello spirito scien­ tifico stesso, in quanto è dovunque uno spirito di autenti­ cità e di proprietà ed esprime questa sua tendenza nel per­ seguimento dell’oggettività e della positività. Chi in un da­ to campo ha sperimentato la grande superiorità di un orientamento obbiettivo e positivo, ed ha piegato il proprio giudizio al dovere della cognizione di causa, nella vita non si permetterà troppo facilmente di giudicare quando la cosa stessa gli sfugge. Proprio qui sta la radice di un intimo processo di ri­ sanamento che, solo, è in grado di ovviare ai danni dell’i­ nautenticità nella vita dello spirito obbiettivo. A questo è dovuto, in sostanza, l’enorme valore dell’educazione seien-

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

tifica, come pure dell’ingente dispendio di forze e di cure, che ad essa dedicano instancabilmente docenti e discenti. Ciò spiega, ad un tempo, perché questo straordinario valore educativo non sia immediatamente evidente e alla portata di tutti. Chi impara, non ha la possibilità di sco­ prirlo nel singolo oggetto di studio in quanto tale. Perché, ovviamente, non è li che esso si trova. Allo stesso insegnante, nel suo scrupoloso lavoro quotidiano, può accadere di veder­ selo sfuggire, e allora la sua opera, che a questo fine è orien­ tata, può apparirgli priva di senso. Ciò che il suo lavoro esige da lui è, appunto, la devozione a un fine ideale che solo a lun­ ga scadenza promette di realizzarsi. Il valore educativo della scienza, per definizione, può realizzarsi in uno spirito comune e vivente soltanto se sorretto dalla fede profonda e inconcussa dei suoi pionieri.

7. La

hegeliana

« nottola

di

Minerva »

Esiste, per contro, un momento limitante che ripor­ ta ogni eccessiva speranza a proporzioni molto modeste. Il processo della scienza è lento. Non sta al passo con l’at­ tualità dei grandi problemi storici della vita, relativi al po­ polo e allo stato, al diritto e all’etica. Le sue acquisizioni possono bensì rischiarare il passato, ma non gettano luce sul futuro. A questo scopo, la scienza è sempre in ritardo. È, in generale, un tardo prodotto della civiltà, e comincia a svi­ lupparsi presso quei popoli il cui corso storico è sostanzial­ mente compiuto. Questo vuol dire Hegel con la sua frase circa la « nottola di Minerva », che solo al crepuscolo pren­ de il volo. È un dato di fatto storicamente ben noto. La vita di tutti i popoli comincia sempre dapprima con le istituzioni giuridico-politiche, economico-sociali e statuali: in esse è il presupposto di tutto il resto. Che contemporanea­ mente si sviluppi anche la vita spirituale, l’ethos, lo stile di

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vita, le arti, non cambia quella priorità. Infatti, è proprio la scienza l’ultima a comparire. Essa fiori in Grecia allorché l’indipendenza politica e la libertà erano in declino, e le teo­ rie dello stato e del diritto che allora furono formulate non trovarono più una vita pubblica in evoluzione alla quale applicarsi. Non essenzialmente diverso fu il destino dei Romani, quantunque potessero far tesoro dell’eredità spi­ rituale dei Greci. Che, in tutto questo, si celi una legge generale, non vor­ remmo certo inferire da tale considerazione. Potrebbe an­ che darsi che, vista in grande, l’umanità sia ancora storica­ mente giovane, e poiché le nozioni scientifiche sono meglio tramandabili di altri beni spirituali, il rapporto potrebbe un giorno capovolgersi. In tal caso, sarebbe pensabile che la scienza finisca per assumere una funzione di guida an­ che nel campo politico-sociale. Questa possibilità è un’idea ben nota alle riflessioni fi­ losofiche sullo stato, dalla Repubblica di Platone, ai teo­ rici del diritto naturale, allo stesso Kant che ne tiene conto nelle sue considerazioni sulla pace perpetua. Anche il marxismo ne è un esempio, e dei più grandi perché, pro­ prio come teoria scientifica, ha esercitato un’influenza essen­ ziale sullo sviluppo della politica europea. L’esperimento storico di tradurre in pratica questa teoria si svolge oggi, nell’Est europeo, sotto gli occhi di tutti. Se tale esperimento sia incoraggiante, se dia dimostrazione della capacità o inca­ pacità di una dottrina a plasmare concretamente la vita di uno stato, noi, uomini d’oggi, non possiamo ancora dire. Quando i frutti saranno maturi, si vedrà. Circa il « troppo tardi » hegeliano, gli esempi ci inse­ gnano inoltre, almeno questo: che le teorie dello stato fi­ nora prodotte dalla scienza hanno un evidente carattere ini­ ziale — insufficiente a risolvere il carico di problemi con­ creti che grava sulla vita delle comunità umane; che si tratta di teorie unilaterali, speculative o ideologiche e ci si può chiedere, se non altro, in che misura meritino il nome di scienza. Si dovrebbe pensare, insomma, che la scienza non soltanto arrivi troppo tardi, ma neppure sia all’altezza

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PARTE II. - LO SPIRITO OBBIETTIVO

di cogliere i problemi correnti di una determinata situazione. C’è in essa bensì un corso costante di certezze conoscitive, ma questo si limita per lo più a campi di problemi molto più semplici, a strati inferiori dell’essere. Abbiamo, per es., una scienza esatta della natura, ma non abbiamo una scienza ri­ gorosa della vita politico-sociale. Per converso, bisogna riflettere che la scienza dello spi­ rito, propriamente intesa, è ancora giovane e la scienza so­ ciale è addirittura ai primi passi. La scienza dello stato, che risale molto più addietro, si è ispirata per lo più alle forme statuali che di volta in volta aveva sott’occhio. Ciò le toglieva, come è ovvio, ogni possibilità di prospettiva. Con ciò, non è ancora detto che negli sviluppi futuri anche questo rapporto non debba modificarsi. Non si può negare che, ad onta di ogni costruzione di pensiero e di ogni ideologia, proprio nel nostro tempo si fanno tentativi quanto mai spassionati per creare una scienza dello stato e della società che sia neutrale e al di sopra delle tendenze. Se non altro, non è il caso di rinunciare alla speranza che questa, col tempo, possa evolvere verso un effettivo padroneggiamento delle cose e delle situazioni. Tutte le auten­ tiche scienze sono, all’origine, poco appariscenti, e proprio per via della loro sobrietà. Se questa speranza trovasse conferma, non è affatto escluso che un giorno la scienza possa tenere il passo con il corso della vita politica, e per suo mezzo l’uomo possa ren­ dersi capace di dirigere prospetticamente il processo stori­ co, su scala ben più ampia di quanto sia possibile nella si­ tuazione odierna.

Parte III LO SPIRITO OBBIETTIVATO

36.

Sezione I

IL FENOMENO DELL’OBBIETTIVAZIONE E LE SUE FORME

Capitolo XLIV

OPERA FATTA E BENE SPIRITUALE

1. Obbiettivazione come

fissazione, esteriorizzazio

NE, SVINCOLO E CONSEGNA

Il problema dello spirito storico acquista un’ulteriore dimensione non appena si considerino separatamente i diver­ si gruppi fenomenici di obbiettivazioni. Che le obbiettivazioni dello spirito vivente costituiscano una nuova serie di problemi, e meritino quindi una considerazione specifica, abbiamo già mostrato nell’introduzione. Si tratta, infatti, di formazioni la cui maniera d’essere storica è diversa da quella dello spirito vivo e che, una volta prodotte, gli stan­ no di fronte in una relativa indipendenza senza condividerne le sorti alterne e il trapassare. Lo spirito si presenta in una terza figura fondamentale — accanto a quella personale e a quella obbiettiva. Il nuo­ vo problema si può caratterizzare provvisoriamente cosi: lo spirito storico vivente, non soltanto è di per sé « obbiettivo », ma produce altresì costantemente formazioni di una specie particolare, nelle quali si dà una più palpabile e da sé distin­ ta « obbiettività », ossia: «si obbiettiva ». Esso non coinci­

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

de con tali formazioni, né queste gli ineriscono come al proprio portatore. Sono qualcosa che esso ha tratto fuori da sé e, per cosi dire, « dispensato » dal partecipare alla sua vicenda. Esteriorizzandole e cosi liberandole, tuttavia, lo spirito le « fissa » in opposizione a se stesso in quanto non mai fissabile. Conferisce loro consistenza rispetto a sé, in quanto le svincola da sé e le rende indipendenti. Cosi facendo divide dal produttore e creatore il suo prodotto e lo consegna alla storia, cioè allo spirito che verrà dopo di lui e che ne as­ sumerà le consegne come spirito vivo. Nella formazione cosi prodotta, intanto, esso continua ad esistere in quanto contenuto. Vi si è fissato, infatti, e vi re­ sta riconoscibile in epoche successive, quando ormai non è più spirito vivo ed appartiene irreversibilmente al passato storico. Di che formazione si tratti, si vede già da quanto si è detto. Il pensiero corre immediatamente alle testimonianze della scrittura e delle arti. Questo ben noto gruppo di prodot­ ti dello spirito è molto rappresentativo e per ora ci basta: in effetti, vi sono comprese le forme principali e più perfette di obbiettivazione. Ciò detto, non vi sarà alcun dubbio circa il senso che ha qui il termine « obbiettivazione ». Non andrà confuso con 1’« obbiettazione ». L’obbiettazione è un caratteristico fe­ nomeno gnoseologico: la cosa preesistente vien fatta og­ getto da parte di un soggetto ma, in essa, nulla è mutato. Nell’obbiettivazione, per contro, qualcosa che prima non c’era — almeno in quanto formazione oggettuale e determi­ nata —, viene prodotto. Nell’obbiettazione lo spirito viven­ te è soltanto ricettivo, neH’obbiettivazione è creativo. In senso lato, si può dire che l’individuo si obbiettiva già nelle sue parole, nelle sue imprese, nell’azione, nel lavo­ ro, nell’opera. Realizzandosi nell’opera, ciò che era solo nel suo pensiero si trasferisce nell’oggettualità. E dovunque si diano cose determinatamente formate, da lui ideate e pro­ dotte, in quelle egli dà ad un tempo un’immagine riconosci­ bile di sé. Perché questo è spirito del suo spirito che diventa

XLIV. - OPERA PATTA E BENE SPIRITUALE

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oggetto di conoscenza possibile — per chiunque sappia guar­ darci dentro.

2. L’assolutezza [Abgelöstheit] l’obbiettivazione

e il perdurare del­

Qui, evidentemente, stanno anche i limiti di questo si­ gnificato del termine. Lo spirito può « diventar-oggetto » ben oltre l’ambito dei fenomeni menzionati. « Obbiettivo » in questo senso è anche lo spirito personale, per quanto resti incatenato al suo soggetto; lo stesso vale per lo spirito comu­ ne vivente, per quanto esso dipenda dalla vita dei soggetti individuali e non abbia esistenza alcuna se non nella loro molteplicità. Perciò appunto è « spirito obbiettivo ». Lo « spirito obbiettivato », invece, come terza figura fondamentale, è svincolato (assoluto) sia dallo spirito per­ sonale che dallo spirito obbiettivo. Si è staccato dalla vita dei soggetti e, con ciò, anche dalla vita dello spirito comune che lo ha prodotto. È qualcosa che esiste ancora «soltanto » co­ me obbiettivazione, in sé senza più vita né sviluppo, quindi privo altresì di realtà storica, ma divenuto stabile soltanto in quanto ha ricevuto una forma. La caratteristica di un bene spirituale è di potersi svinco­ lare dallo spirito vivente di cui è espressione per conservarsi, in opposizione ad esso, come una struttura dotata di figura e contenuto determinati. Anzi, esso tende sempre essenzial­ mente a calarsi in formazioni di quel tipo ed a stabilizzarvisi. In esse, lo spirito obbiettivato sussiste, acquista una propria maniera d’essere secondo la quale perdura, mentre lo spi­ rito vivo sotto di lui viene mutando. Se aderisse ancora allo spirito vivente, sia obbiettivo che personale, dovrebbe seguirne i mutamenti e condividerne le sorti e la fine. Svincolato da lui, gli sopravvive. O meglio — giacché non gli si può attribuire una vita in senso proprio —, « perdura oltre » la vita di quello e, in tale perdurare, con­

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

serva in sé qualcosa di ciò che lo spirito vivente era. Di quello spirito che, in lui, si è obbiettivato. Solo che non si conserva come qualcosa che veramente continui a vivere, e neppure come un ente storicamente reale. A che titolo, propriamente, esso si conservi — ecco un’al­ tra questione sul tappeto. È una questione ontologica, e ri­ guarda la maniera d’essere dello spirito obbiettivato. Spirito reale resta sempre solo lo spirito vivente. Ma come esiste questo spirito elevato per obbiettivazione in una struttura non-vivente e posto fuori dallo spirito vivo?

3.

Irrealtà

come sospensione della vita.

Spirito

crea­

tore E SPIRITO CREATO

Ogni spirito vivente si obbiettiva, quello personale come quello comune, e ciò avviene in ogni campo. La sensibilità giuridica di un’epoca si obbiettiva nella « legge posta », nel diritto positivo, fissato, depositato; il sapere teorico, in un sistema scientifico, consegnato nella parola e nello scritto. Obbiettivazioni di questo genere ineriscono dapprima total­ mente allo spirito vivo, non ne sono svincolate in quanto so­ no soltanto espressione di un sentimento giuridico ancora vivo, di un conoscere effettivo dei viventi. In questo conosce­ re e sentire, che sono comuni, vive lo spirito obbiettivo. L’obbiettivazione, in quanto tale, non lo defrauda della sua vita. Senonché, la sua vita non s’arresta ma prosegue. Col sen­ timento del diritto, muta anche la sua validità; col progres­ so della conoscenza, il sapere positivo. In tale mutamento, cosa resta della scienza e del diritto di un tempo? Ciò che di essi si è calato nella forma stabile della parola e, attraverso la fissazione scritta, si è reso conoscibile alle generazioni suc­ cessive — appunto, come il diritto o il sapere di un tempo. Nell’obbiettivazione essi perdurano oltre quello spirito vi­ vente che li aveva creati e al quale appartenevano. La creatura dura più a lungo del suo creatore: questa

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regola domina la storia dell’essere spirituale. Lo spirito viven­ te, sia esso personale o comune, sottostà alla legge di ogni essere vivente: morire. Anche in una vicenda ininterrotta, senza trapasso visibile di popoli e di civiltà, un dato spirito storico cede all’altro. Questo invece sottostà a una legge di­ versa: non vivendo, non muore col vivente. Non essendo nulla di reale, neppure conosce la durezza del reale, né sperimenta la distruzione che colpisce il suo autore. Ne risulta un caratteristico quadro d’insieme: nel costante venir meno e sprofondare dello spirito vivente, un bene spi­ rituale, una volta costituito si conserva ed è come se si arre­ stasse. Grazie alla propria irrealtà, lo spirito creato è sottrat­ to al destino dello spirito creatore. È sollevato in una sfera che non è toccata da tutto il movimento della storia. Perciò esso resiste, mentre lo spirito creatore rovina. Ma la creatura testimonia del creatore e quindi rappresenta sempre anche lo spirito vivente — qualunque ne possa essere il particola­ re contenuto; perciò, ricevuta la forma di un oggetto, essa è di fatto l’obbiettivazione duratura di una vita spirituale, sia pure trascorsa. Mostreremo poi in che senso la sfera nella quale un pro­ dotto spirituale viene sollevato, non sia affatto sovratempo­ rale. Anche l’obbiettivazione, infatti, può essere distrutta, uno scritto può andare irreparabilmente perduto, un’opera d’arte può essere danneggiata. Un condizionamento reale e temporale non manca certo. Si tratta però di un condiziona­ mento diverso da quello dello spirito vivente che, come un tutto, è già di per sé qualcosa di storicamente reale ed ha un tempo di vita segnato. All’obbiettivazione, in quanto tale, non è segnato un termine di vita, perché non è un essere vivente. Questo è il fenomeno che per ora ci inte­ ressa, ed è abbastanza degno di nota pur nei suoi limiti evidenti. La legge dello spirito obbiettivato è quindi la seguente: assunta la forma di un prodotto finito, esso diventa indipen­ dente dallo spirito che l’ha fatto. In tale indipendenza, esso conduce nella storia un’esistenza specifica ed ha una specifica maniera d’essere accanto allo spirito obbiettivo che continua

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

a vivere. Da un lato, resta legato allo spirito vivente, an­ che se non sempre a quello stesso spirito che l’ha prodotto; dall’altro, è una cosa ben diversa dallo spirito vivente. Non partecipa alle sue evoluzioni, non ne condivide necessaria­ mente gli esiti. Entro il destino di quello, ha un suo desti­ no proprio — che nessuno spirito vivente può condividere con lui.

4. Obbiettivazione

dipendente e obbiettivazione resa

INDIPENDENTE

Se teniamo presente che ogni spirito vivo, in ciascuna delle forme che produce, obbiettiva, vivendo, se stesso ma, in genere, e con altrettanta facilità, sacrifica e distrugge le pro­ prie obbiettivazioni, diventa difficile tirare una linea oltre la quale si possa parlare dello « spirito obbiettivato », nel senso di una formazione resa strutturalmente indipendente. Cosi, ad es., ogni discorso, per quanto effimero, è già in senso lato un’obbiettivazione. Infatti, è formulazione che trasferisce un pensiero dall’interiorità nell’obbiettività. An­ che una lingua viva e parlata, presa come un tutto, è una ben determinata obbiettivazione ed è sentita come tale: il suo vocabolario è possesso comune, e allo straniero che le si accosta per « apprenderla », si presenta chiaramente come qualcosa di obbiettivamente formato. Questo qualcosa di formato sussiste tuttavia ancora indistinto dalla parlata viva, cioè, ancora connesso allo spirito comune vivente; e chi dav­ vero vuole apprendere la lingua, deve andare tra i vivi che la parlano, deve « crescere » in quanto parlante « dentro » lo spirito vivo di quella lingua — come in generale il vivente cresce dentro il vivente spirito obbiettivo. Un’obbiettivazione di questo genere non si è ancora resa indipendente. È ancora allo stato fluido, aderente a tutte le oscillazioni del momento e deH’individualità, una formazione portata in tutto dallo spirito vivo e da lui non indipendente.

XLIV. - OPERA FATTA E BENE SPIRITUALE

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È anch’essa un’obbiettivazione e, in determinate occasioni, si presenta chiaramente come tale; ma funziona soltanto come un momento vivo dello spirito vivo, in un certo senso, come moneta spicciola nel commercio tra gli individui. Perché la parola parlata è « fuggevole » e, appena uscita e colta, viene come tale dimenticata. Essa scompare dietro ciò che comuni­ ca: il pensiero ancor vivo e fluente. Stando cosi le cose, nasce il problema: qual è il limite oltre il quale l’obbiettivazione acquista una maniera d’essere autonoma rendendosi indipendente dallo spirito storico che la porta e continuamente la produce? Cos’è che la rende stabi­ le? Finché a portarla è solo lo spirito vivente essa non può acquistare, nei suoi riguardi, alcuna autonomia. Senza un por­ tatore, tuttavia, non può stare. Dunque, chi subentra come portatore, al posto dello spirito vivente? Non si dimentichi che uno spirito fluttuante, senza alcun portatore, è semplicemente impossibile. Il problema diventa anche più grave, quando ci si renda conto che essa penetra intimamente nella vita dello spirito personale. Ogni espressione, ogni parola, ogni gesto, ogni com­ portamento dell’individuo è già obbiettivazione. Infatti, un uomo si rende oggettualmente afferrabile attraverso tutto ciò che proviene da lui. Questo qualcosa di afferrabile, a sua volta, può sempre rendersi autonomo, acquisire una configu­ razione stabile ed essere conservato. Il significato storico delle sentenze, degli aneddoti tra­ mandati o piu noti, è un esempio di ciò che stiamo dicendo. L’immagine di Alessandro Magno ci è conservata in una se­ rie di detti, di per sé insignificanti, e di storielle caratteristi­ che. In esse, lo spirito personale di quell’unico e determina­ to uomo che egli era, diventa un oggetto intuibile ben oltre la sua contemporaneità. La stessa aura di leggenda che cir­ cola in tali aneddoti non vi pone ostacolo. Ed anche l’aned­ doto inventato ne mostra l’immagine, con molta vivacità, co­ si come la vedevano i suoi contemporanei e i loro figli. Ciò che vi è conservato e trasmesso ai posteri è Γ « impressione » obbiettiva che egli lasciò di sé. Oggi, accanto all’aneddoto, possiamo mettere la foto­

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

grafia, e forse meglio ancora, la ripresa cinematografica. Non c’è dubbio che, in questo modo, personalità importanti del nostro tempo potranno conservarsi per un’età futura nei lo­ ro tratti piu individuali e intimamente umani — un’età fu­ tura che, forse, li conoscerà soltanto attraverso obbiettivazioni di questo genere.

5. Fluidità

e fissazione.

Forma d’essere

indipendente

Esempi tipici, come quelli riferiti, danno un’idea della straordinaria ampiezza di campo dello spirito obbiettivato. Contemporaneamente, ci si rende conto di quali siano i li­ miti della sua autonomia. La vita spirituale stessa è infat­ ti sempre piena di obbiettivazioni, volute o involontarie; il commercio umano, lo scambio delle opinioni, l’esser-l’unoper-l’altro e il vivere-insieme comportano sempre la presenza di obbiettivazioni. Si può dire, anzi, che senza di esse lo spirito soggettivo singolo sarebbe chiuso in se stesso; ogni comunicazione ha già la forma di un’obbiettivazione an­ che se, come tale, non viene trattenuta. Del resto, grazie a quella forma, è sempre possibile trat­ tenerla, conservarla. Per principio, si « può » svincolarla dal­ lo spirito vivente, dallo scopo privato della comunicazione, dalla particolare situazione di vita nella quale si trova inse­ rita. Non è svincolata, può però sempre esserlo. Perché dunque alcune obbiettivazioni vengono trattenute, acquistano un essere indipendente e permangono svincolate mentre altre risprofondano subito nel flusso della vita spiri­ tuale? Per due ragioni, di natura assai dissimile e reciproca­ mente indipendenti nelle loro variazioni, benché strettamente connesse fra loro. La prima ragione è interna e dipende dal­ le grandi variazioni emotive connesse all’importanza attribui­ ta al contenuto; riguarda, quindi, il peso spirituale di ciò che si obbiettiva. L’altra ragione sta nelle differenze tra i ma­ teriali « nei quali » il contenuto si obbiettiva. Perché il ma­

XLIV. - OPERA FATTA E BENE SPIRITUALE

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teriale può essere fluido o stabile, può lasciare che l’im­ pronta ricevuta si corrompa, oppure trattenerla oltre il tem­ po e il mutamento. È poi immediatamente evidente che solo le obbiettivazioni realizzate entro un materiale stabile posso­ no raggiungere una maniera d’essere assoluta e indipenden­ te; ed è altrettanto evidente che solo i contenuti spirituali che appaiono importanti allo spirito vivente vengono obbiettivati. La parola parlata è di solito fluida. Nella vita vissuta, tutto il peso non cade sulla parola in quanto tale ma sulla si­ tuazione nella quale è pronunciata e alla quale contribuisce a dar forma. Per chi la raccoglie, la sua funzione è compiuta non appena abbia avuto il suo effetto nella situazione stes­ sa. Ciò è tanto più evidente nel caso del gesto, dell’espres­ sione mimica, del comportamento. Tutto tende a risolver­ si nel vivo flusso della vita, cui del resto sempre ci si riferi­ sce con la parola, col gesto e in altri modi. La cosa cam­ bia soltanto quando si attribuisce alla parola detta o al comportamento di una persona un significato eminente. Il peso spirituale di un atteggiamento personale di per sé fluido, si trasferisce nello stampo di un’obbiettivazione: la parola si carica di senso, viene percepita come rappresen­ tativa e, quindi, trattenuta. Ma a questo scopo è necessario un altro veicolo: la parola viene notata e trapassa nella scrit­ tura. Ciò significa: viene trasposta in un’altra materia, più durevole. Un esempio classico di questo stato di cose è la sopravvi­ venza del patrimonio di pensiero socratico nell’ambito delle scuole omonime. I « discorsi socratici » (dialoghi) veniva­ no ripetuti continuamente; nonostante la loro ampiezza, sembravano tanto importanti da non dover essere dimentica­ ti. Nella trasmissione orale, tuttavia, erano esposti al muta­ mento: il singolo vi si adattava e tuttavia li contami­ nava sviluppandoli secondo il proprio sentimento. Una vera e propria obbiettivazione, capace di sottrarli ad ogni muta­ mento, richiedeva una stesura scritta. E poiché una tale ste­ sura non si ebbe per i « discorsi socratici », ma solo per una sovraformazione successiva di essi da parte di un pensiero

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

non-socratico, cosi l’immagine umana e filosofica di Socrate ci si è conservata solo nello specchio di quella.

6. Limite dell’indipendenza [Verselbständigung] Fino a che punto un’obbiettivazione possa svincolarsi dal­ lo spirito vivente ed acquisire una maniera d’essere indipen­ dente, si vede chiaramente attraverso la fissazione per mezzo della scrittura. Per contro, non fa differenza che si tratti di una semplice notazione della parola effettivamente pronun­ ciata, della conservazione aneddotica di tutta la scena, o di una tarda sovraformazione di cose udite o vissute. Ed è quin­ di facile vedere che la stessa cosa avviene in altri campi, pur­ ché al posto della scrittura subentri un altro materiale stabi­ le. Tuttavia, ciò non accade mai senza una certa coscienza del­ la gravità del significato. Per convincersene, basta ricordare che, fra tutti gli scritti che lo spirito dà fuori mentre è in vi­ ta, una gran parte di « carta scritta » non raggiunge mai un’esistenza indipendente ma, come la parola parlata, scom­ pare di nuovo nella vita che fluisce, non appena abbia adem­ piuto al suo particolare compito nella situazione del momen­ to. Cosi per tutte le missive: una volta lette, hanno realiz­ zato il loro senso in quanto comunicazioni e l’uomo vivo non sa piu che farsene. Manca infatti una gravità di signifi­ cato che superi il momento presente e la sfera privata. Può darsi benissimo che anche scritti di questo genere si conservi­ no « per caso » come, nelle sabbie del deserto, certi bran­ delli di papiro che, dopo molti secoli, sono diventati impor­ tanti per la ricostruzione di un’età trascorsa. La fissità e la durata, in quanto tali, sono infatti nell’essenza della scrit­ tura come materia di obbiettivazioni. Di solito però le cose importanti emergono da questa massa in ragione della loro stessa importanza. Le poche lettere di Platone sono state copiate, mentre innumerevoli lettere di quel tempo sono andate perdute. Chi vorrebbe lamentarsene? E tut­ tavia il sentimento e la valutazione della loro importanza,

XLIV. - OPERA FATTA E BENE SPIRITUALE

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che ne decisero il destino, possono anche essere stati del tutto soggettivi. La straordinaria capacità della « scrittura » di porta­ re obbiettivazioni, renderle stabili ed elevarle sopra la vicen­ da temporale, è ben nota. Chi intende fissare qualcosa di importante, ne fa il massimo uso. Il documento, il codice di leggi, la formulazione scientifica ne forniscono soltanto alcuni esempi. Qui si tratta, in genere, di una situa­ zione speciale: non è un’espressione occasionale, rivelatasi inaspettatamente importante, a venir fissata, ma il sentimen­ to dell’importanza della cosa stessa induce, fin dal principio ad esprimersi in una forma fissabile. Come caso limite, si po­ trebbe indicare la situazione in cui viene a trovarsi un inven tore che voglia assicurarsi la priorità della propria scoperta, rispetto agli altri, senza per il momento renderla pubbli­ ca: egli può chiudere a chiave la formulazione della sua sco­ perta e tenere la chiave per sé, per darla fuori soltanto dopo averne ottenuto sufficiente conferma. La scrittura trattiene anche ciò che è chiuso e non decifrabile *. Quindi, riassumendo, si può dire che: di obbiettiva­ zioni ce n’è in tutti i campi, nello stesso spirito vivente; ma spirito obbiettivato in forma indipendente è solo l’obbiettivazione fissata in un materiale durevole. Applicando questa riserva, mettiamo in rilievo una serie di tipiche forma­ zioni dello spirito obbiettivato che, in quanto fenomeni di fondo, devono servirci di guida. Ne fanno parte tutte le spe­ ci di creazioni spirituali durevoli. La « durata » stessa non va però intesa come una persistenza illimitata e neppure come una permanenza quantitativamente misurabile, bensì, in modo del tutto specifico, come un perdurare oltre Io spi­ rito vivente autore di tali creazioni. 1 Huygens, nel 1656, ebbe l’idea di interpretare come un anello le « anse » di Saturno, ma non era ancora sicuro dell’inter­ pretazione e riassunse la sua intuizione nella frase: « Anulo cingitur tenui, plano, nusquam cohaerente, ad eclipticam inclinato »; ma non scrisse queste parole, bensì soltanto le lettere in ordine alfabetico (aaaa aàa ccccc d eeeee, ecc.). Lo scopritore si tenne in tasca la chiave dell’anagramma. Quando, dopo anni, la rivelò, lo scritto fu prova indubbia della sua scoperta.

Capitolo XLV IL PROTRARSI E IL CONSERVARSI DELL’OBBIETTIVAZIONE

1. L’opera umana

e la sua persistenza

Le concrezioni più pure e rappresentative dello spirito obbiettivato sono quindi, senza dubbio, le creazioni della letteratura, della poesia, delle arti plastiche e figurative, del­ la musica. Accanto a queste tuttavia, monumenti di varia natura, edifici, realizzazioni tecniche, entro certi limiti anche attrezzi, armi, utensili e apparati, prodotti artigianali e in­ dustriali. Lo spirito inventivo dell’uomo è presente in ogni opera umana. In un senso leggermente più ampio appartengono a que­ sto gruppo tutte le creazioni di pensiero che abbiano forma e siano scritte, anche se non sono racchiuse in un’opera lette­ raria completa e unitaria. Di questo genere sono le immagi­ ni scientifiche e filosofiche del mondo (i sistemi), le intui­ zioni mitiche e religiose; inoltre, le specifiche formulazioni concettuali, in quanto rivelano ancora un determinato modo di vedere e di pensare, come pure il gruppo ad esse affine dei dogmi e dei simboli; le universalizzazioni simboliche di fi­ gure d’eroi, dei, personificazioni del destino. Tutte queste formazioni hanno la peculiarità di recare in sé le strutture fondamentali di quel determinato spirito storico che le ha prodotte — il' suo sistema di coordinate spirituali, per cosi dire —, e di poterle sempre trasmettere a qualunque

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PARTE ΠΙ. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

altro spirito vivente, che assuma nei loro riguardi un atteg­ giamento comprensivo. Tutte le informazioni di questo genere si « conservano » nel mutare dello spirito vivente. O, per lo meno, possono conservarsi. La loro conservazione come tale, non ha nul­ la a che fare col persistere dello spirito vivente che le ha prodotte. È una conservazione di specie diversa. È vero che la poesia, l’arte, il sapere continuano a vivere anche in senso immediato; ma questa continuità di vita è rivivere, svilupparsi, mutare insieme con lo spirito vivente. Nella vita, infatti, il gusto, lo stile, il modo di vedere, il sapere, cambiano incessantemente. Le produzioni dello spirito vivente sono sempre nuove e diverse. La sua vitalità sta es­ senzialmente nel cambiare idea e nel riformare le cose, nell’abbattere il vecchio e nel creare novità, nel rifiutare e nel sostituire. Un’opera d’arte, invece, una poesia o un sistema di pensiero persistono in quanto fissati, senza esser legati alla continuità di uno spirito vivente. Possono di tempo in tempo sottrarsi alla vita spirituale, ma possono anche dopo secoli, tornare ad offrirsi alla vita e diventare di nuovo un suo possesso spirituale. CosiTopera dell’uomo ha un tipo di persistenza suo par­ ticolare. E siccome lo spirito che vi si obbiettiva è quello vivo degli uomini, vuol dire che questo spirito si protrae al di là dei tempi, da un lontano irrecuperabile passato, fin dentro il presente vivente [lebendige Gegenwart']. In quan­ to però, storicità significa appunto che il passato non è mor­ to e perduto, ma ancora si protrae ed è presente nello spiri­ to stesso attualmente vivo, bisogna dire che lo spirito ob­ biettivato ha un tipo di esistenza storica diverso da quello dello spirito vivente. Infatti, radicalmente diverso è il suo modo specifico di protrarsi nel presente, di essere ancora presente in quanto spirito passato.

XLV. - PROTRARSI E conservarsi dell’obbiettivazione

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2. Le specie del protrarsi e la loro interna relazione

A questo punto deve essere ben chiaro che lo spirito pas­ sato può protrarsi nel presente secondo due forme radical­ mente distinte le quali, nel processo storico, concordano bensì variamente e si riferiscono allo stesso contenuto spi­ rituale, ma mantengono anche un’ampia indipendenza reci­ proca. Coincidono e si superano a vicenda, si negano e si legano, si integrano e si ostacolano, si condizionano e si li­ mitano a vicenda La lingua viva, per es., è in continuo sviluppo, e dopo secoli, contiene ancora, sia pure modificati, gli elementi, la struttura, gli stampi concettuali, il vocabolario stesso di un tempo. Il mutamento, per quanto rilevante, non spezza mai una continuità che convoglia una grande quantità di contenuti spirituali. E tuttavia, la lingua di un tempo viene incontro al vivente come una lingua straniera che dev’essere appresa. Negli scritti del passato, invece, essa gli si presenta in uno stato di perfetta conservazione: cosi incapsulata, si è sottratta a tutti i mutamenti della lingua viva. Ma questo tipo di conservazione è ben diverso da quello che si realizza nella continuità del vivere linguistico. La diffe­ renza diventa palpabile nel risultato. Tuttavia, il rapporto di coincidenza può essere molto evidente, il patrimonio spiri­ tuale della lingua del tutto riconoscibile. Un altro esempio. Un dato stadio della scienza si fissa in certi risultati di ricerca, in certe teorie, in una data immagine del mondo. Obbiettivato in certe formulazioni scritte, si conserverà per secoli. Intanto la ricerca ha compiu­ to progressi radicali, le teorie di un tempo sono sorpassate, 1 La differenza che rileviamo qui non coincide, come si vedrà, con quella esistente tra il protrarsi « tacito » e il protrarsi « percet­ tivo », illustrata più sopra (cfr. Introduzione, 16). Quest’ultima, in­ fatti, è già presente all’interno dello spirito vivente, indipendente­ mente dall’obbiettivazione. Qui invece si tratta della differenza tra spirito vivente e spirito obbiettivato. 37.

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

abbandonate, sostituite più volte con nuove teorie. Ma le nuove hanno mantenuto numerosi elementi delle vecchie, sia pure variandoli e trasfigurandoli. Il vecchio sistema è an­ cora comprensibile, ma non è più quello della scienza viva. In essa, però, si protrae in due sensi: da un lato, attraverso gli elementi ripresi e trasformati, dall’altro, come un tutto estraneo, di cui si sa che è passato. In certi rami del sapere, questa doppia linea del pro­ trarsi ha un grande significato. È il caso della filosofia, dove lo spirito vivente deve costantemente vedersela col patri­ monio di pensiero del passato, e può farlo perché lo trova obbiettivato in testi scritti. Là dove l’obbiettivazione è andata perduta, gli scritti non ci sono pervenuti, e mancano an­ che testimonianze indirette diventa impossibile ogni critica o approfondimento fecondo. Perché nel divenire dello spiri­ to vivente e delle sue intuizioni teoriche, gli elementi della ripresa storica sono presenti solo in virtù di una sele­ zione e non sono neppure riconoscibili come tali. Anche maggiore è l’importanza dell’obbiettivazione nella vita della fede, particolarmente nel caso di una re­ ligione storica. Qui, il sentimento religioso si aggrappa con­ sapevolmente a ciò che una volta è stato intuito, come a una rivelazione; lo fissa nel « libro sacro » o lo formula in un dogma, e continua a vivere nutrendosi di quel patrimo­ nio. Ma poiché anch’esso, come ogni spirito vivente, è sog­ getto a un intimo mutamento, si ha sempre, in certi periodi, un moto di ritorno all’obbiettivazione originaria o creduta tale. La fonte più antica è considerata quella decisi­ va. Lo stesso progredire dell’interpretazione ne risulta limi­ tato. Cosi si ha una lotta fra la tradizione vivente e il con­ tenuto depositato nel documento. E se l’autorità del do­ cumento cade, anche la vita religiosa si dissolve.

XLV. - PROTRARSI E CONSERVARSI DELL’OBBIETTIVAZIONE

3. La forza

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motrice dell’obbiettivazione nelle arti

Nelle arti, l’incontro e lo scontro delle due speci del protrarsi assume un aspetto diverso. L’arte di un’epoca non si esaurisce nella serie delle opere d’arte che produce, ma consiste principalmente nella specifica modulazione arti­ stica che conferisce allo spirito vivente, alla sua sensibi­ lità, al gusto, al suo modo di vedere, di udire, di intendere. È proprio questo modulo spirituale quello che si obbiettiverà in parte nelle opere compiute e vi si manterrà al di là del proprio storico mutare. È caratteristico che, in forza dell’obbiettivazione, esso possa cogliere nuovamente lo spirito vivo di un’epoca trascorsa e rivelarne aspetti che quello, per la sua stessa posizione storica, non avrebbe po­ tuto vedere. Non si può guardare un’opera d’arte da un punto di vi­ sta arbitrario, se la si vuole effettivamente vedere « come opera d’arte », ma bisogna guardarla in un certo modo. Seb­ bene un margine di libertà sussista sempre, si tratta di un margine esiguo. In questo senso, si può dire che l’opera pre­ scriva il modo di vedere nel quale soltanto essa può esser vista, e necessiti chi intenda artisticamente vederla e guardar­ la in una maniera determinata. Questa necessitazione non eguaglia la necessità delle leggi naturali e neppure quella di un comandamento; nessuno è costretto, in generale, a vedere artisticamente, né si può pretendere categoricamente che lo faccia. Eppure, questa è una legge invalicabile. Chi non guarda nel modo richiesto, resta senz’altro escluso dal­ la partecipazione all’opera. Cosi l’obbiettivazione di un determinato contenuto nel­ l’opera d’arte è sempre, a un tempo, obbiettivazione dell’at­ teggiamento spirituale stesso e del corrispondente modo di sentire. Perciò essa può provocarlo sempre di nuovo, in tem­ pi più tardi, in chiunque sappia adattarvi il proprio animo. Ma ciò significa che l’opera d’arte è più efficace di altre speci di spirito obbiettivato. Il pensatore che si immerge in una , concrezione storica di pensiero non coglie che questa, e inol-

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

tre non può fare a pieno di una quantità di nozioni tecniche e storiche ausiliarie circa il passato. Chi guarda un’opera d’arte del passato con l’occhio dell’arte, non solo ne apprende immediatamente il contenuto spirituale ma, anzi, ne è preso egli stesso e indotto a mutare il suo modo di vedere. Guardan­ dola, assume in parte lo stesso atteggiamento spirituale di quello spirito che l’ha prodotta. Vede come l’artista vedeva, qualcosa cancellando e mettendoci del proprio ma, in sostan­ za, col modo di vedere e di intendere di quello. Altrimenti non è l’opera d’arte in quanto opera d’arte, ciò che egli vede. Sotto le obbiettivazioni, il continuum storico dello spirito vivente è sempre in moto; la sensibilità artistica che si tramanda muta continuamente, il modo di vedere si svilup­ pa, e ogni nuovo modo che emerge produce opere nuove. Producendole, però, le pone fuori di sé e le rende indi­ pendenti. Le opere restano e si offrono storicamente a uno spirito vivente sempre nuovo e diverso, a un sempre diverso modo di vedere. E, ogni volta, da esse si leva una specie di richiesta allo spirito vivente, perché le guardi in un determi­ nato modo. Ma non ogni spirito vivente è in grado di sod­ disfarla. Cosi, un’opera può vivere in sordina per lunghi periodi storici finché, un giorno, uno spirito vivente trova l’atteg­ giamento che gli permette di vederla con l’occhio dell’arte. C’è allora un risveglio, una rinascita, una reinserzione del­ l’opera nella circolazione vitale dello spirito. Cosi reinserita, essa può allora spingere avanti lo spirito vivente, fecondarlo, rinnovarlo. L’obbiettivazione si rivela come una forza che, una volta tornata attuale, dà nuovo impulso allo spirito viven­ te. Il grande rinascimento dell’arte e della poesia greca è solo un esempio fra i tanti. Per molti contemporanei, la riscoperta dell’arte plastica egizia è ancora un ricordo personale, e cosi pure la recente acquisizione dell’arte dell’estremo Oriente alla coscienza artistica europea. Vi sono epoche che svolgono con rigore esclusivo una loro intima intenzionalità, ed è come se portassero i paraocchi nei riguardi di ogni forma di vita spirituale essenzialmente diversa dalla loro; e vi sono

XLV. - PROTRARSI E CONSERVARSI DEI.L’OBBIETTIVAZIONE

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epoche nelle quali l’organo dell’arte si apre, si sviluppa, cer­ ca e trova la posizione adatta per ascoltare lo spirito stranie­ ro, dovunque esso parli. La nostra epoca appartiene forse a queste ultime. Che però, di solito, non sono le grandi epoche creative.

Capitolo XLVI

DUPLICE STRATIFICAZIONE E FUNZIONE DELLA MATERIA

1. Enigmatica

maniera d’essere dell’obbiettivazione

È chiaro che qui nasce una serie di problemi relativi tutti alla maniera d’essere dello spirito obbiettivato. È il caso di chiedersi: che cosa si conserva infine nelle obbiettivazioni? Che cosa perdura in esse? È lo spirito stesso, come contenuto, ad acquistarvi una forma, o si tratta solo della sua formazione entro un dato materiale? In altri ter­ mini, bisognerà dire che un’ «opera » dello spirito non è di per sé spirito, ma soltanto espressione spirituale, manife­ stazione, rivelazione dello spirito? Oppure si tratta dello spirito stesso che è diventato opera per conservarsi poi, gra­ zie ad essa, come materia formata? Né l’uno, né l’altro. Una poesia, intesa come opera, è in tutto e per tutto spirito, e non soltanto una sua espres­ sione. D’altro canto, però, la conservazione della scrittura non coincide con la conservazione del contenuto spiritua­ le; quella è pura resistenza materiale, questa è, eviden­ temente, ben altra cosa. Cosi espressa, l’alternativa oscilla ancora tra estremi grossolani che palesemente non rendono giustizia al fenomeno. La relazione vera è rivelabile solo nel fenomeno stesso. Lo spirito che creò l’opera, che, dunque, in qualche modo vi si obbiettivo, è morto; esso appartiene irreversibilmente al passato. Tuttavia, esso ci « parla » attraverso l’opera,

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

come spirito vivo. Questo è il miracolo della scrittura, del­ l’arte, del contenuto formato. Quindi, si dice sempre trop­ po poco, quando si dice che soltanto la sua manifestazione si conserva. D’altra parte, è esagerato dire che nell’opera lo spirito stesso si conservi vivo. Quest’ultima tesi è errata anche per un’altra ragione. Figurazioni create da un poeta non sono mai esistite come esistono uomini vivi. Ma nelle poesie esse continuano a vive­ re, esistono per noi oggi, come una volta per i loro contempo­ ranei. Cosi è per l’eterna giovinezza degli eroi omerici, co­ si per Edipo e Antigone, cosi per Amleto o per Falstaff. Tra queste figure e la parola scritta non si interpone alcuna ri­ flessione: esse sgorgano immediatamente e sotto i nostri oc­ chi, dalla poesia. Questo vale anche per le arti figurative. Pos­ siamo vedere ancora oggi ciò che Rembrandt vide; meglio ancora, possiamo vedere « come » Rembrandt vedeva. Basta guardare l’opera con intenzione comprensiva. Ma questo non vale soltanto per le arti. Anche nei pensieri possiamo vedere il mondo come lo vedeva Plato­ ne, se solo sappiamo immergerci nei suoi dialoghi. Possiamo sentire, se sappiamo comprendere, come sentiva Meister Ekkehard, tutte le volte che ci accostiamo alle sue im­ magini e alle sue similitudini. Possiamo intuire, con l’oc­ chio interiore, l’immagine del mondo corrispondente a un determinato stato della scienza che siamo ben lontani, ormai, dal poter accettare. Quello di Archita ed Ecfanto, di Ipparco, di Tolomeo. Nella parola c’è più che la parola, nell’immagine più dell’immagine. In esse, parla un importo spirituale che, in quanto tale, non si identifica, né mai si è identificato con la forma che ha assunto, nella qua­ le, tuttavia, è sempre riconoscibile.

XLVI. - STRATIFICAZIONE E FUNZIONE DELLA MATERIA

2. L’aporia zione »

contenuta nel modo della

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« conserva­

È considerato del tutto ovvio che sistemi di pensiero, opere d’arte, poesie, perfino figure e personaggi sbalzati dalla fantasia dei poeti, si conservino storicamente: è un fatto ben noto e ci si è fatta l’abitudine. Non per questo la cosa diventa meno enigmatica. Infatti, l’apparenza dell’ovvietà resiste solo finché non si rifletta circa il modo di tale conservazione. Nel modo è racchiusa l’aporia. L’ovvio è enig­ matico. Si conservano forse soltanto i segni della scrittura, i rotoli di papiro, i pezzi di marmo? O si conserva il mondo poetico, la visione e i suoi fantasmi, l’intuita mobilità dei corpi, che il marmo « indica »? Se diciamo che VAlmagesto, o la Repubblica platonica si sono conservati, non intendiamo, evidentemente, soltanto i testi, ma soprattutto l’immagine cosmica del mondo e l’idea dello stato che vi sono contenute. Non c’è dubbio che qui si conserva storicamente molto di più che il solo marmo o la sola scrittura. Nessuno si cure­ rebbe tanto dei segni scritti, se non ci fosse qualcosa che essi rivelano e in essi è riconoscibile, qualcosa di più e di di­ verso da essi. Ogni « lettura » intelligente è propriamente un « riconoscere », e cosi la chiamavano i Greci (άναγιγνώσκειν). In questa espressione si fa palpabile tutto l’enigma racchiuso nella maniera d’essere dello spirito obbiettivato. È evidente che il contenuto spirituale persiste come importo dell’obbiettivazione e che la scrittura e il marmo sono soltan­ to i mezzi di tale persistere. Ma questi mezzi non sarebbero sufficienti se non vi si aggiungesse il riconoscimento da par­ te di uno spirito vivente. Ciò significa che il persistere dello spirito obbiettivato dipende di volta in volta da una ben precisa operazione dello spirito vivente capace di corrispondervi. Questa opera­ zione di corrispondenza è il riconoscimento. Le figure, la loro vitalità, il contenuto spirituale — sono tutte cose che vanno ritrovate nelle loro forme di coagulazione esteriori

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

e devono essere intuite di nuovo. Perché lo spirito obbietti­ vato non continua ad esistere come spirito reale. Storicamen­ te reale è solo lo spirito vivente. E se non interviene lo spi­ rito vivente, con la vitalità che gli è propria, con dedizione e comprensione, a riscoprirlo, anche l’importo spirituale dell’obbiettivazione rimane nella sua prostrazione, non si risveglia alla vita, non acquista alcuna esistenza storica. Questa dipendenza dallo spirito vivente è essenziale al­ lo spirito obbiettivato. Si pensi: un manoscritto giace per secoli sepolto nella biblioteca di un chiostro, un antico idoletto si conserva sotto un mucchio di macerie; ambedue, co­ me formazioni reali, si conservano nella realtà storica, e per­ ciò è possibile riportarli entrambi alla luce. L’opera si con­ serva, cosi, come pergamena scritta, come marmo scolpito. Ma si può seriamente sostenere che si conservi anche come bene spirituale, come poesia di un destino umano, come raffigurazione di una divinità? Il paradosso si può formula­ re anche più efficacemente se pensiamo che, in tal caso, anche quel destino umano, con le sue passioni e il suo eroismo, si sarebbe riempito di polvere in quella biblioteca, la divinità sarebbe stata sepolta tra le rovine. Il che, evidente­ mente, non è. Ma come stanno le cose in realtà? Bisogna dire che un’opera d’arte, nei periodi in cui è sepolta o messa in soffit­ ta, non esiste affatto? In tal caso, la sua ricomparsa vorreb­ be dire che essa viene creata un’altra volta. E se il suo destino è di essere compresa e apprezzata per lunghi periodi, per poi restare a lungo nell’ombra, bisognerebbe concludere che la sua esistenza storica è discontinua. Evidentemente, neanche questo è vero; troppo stretto è, al riguardo, il legame tra l’importo spirituale e la struttura reale-cosale dello scritto o della pietra. Neppure su questa base il problema sembra risolvibile; bisogna cercarne un’altra. A questo scopo, possiamo sol­ tanto cercare di accostarci nuovamente, e da un lato diver­ so, al fenomeno. L’altro lato si rivela subito, non appena nell’essenza

XLVI. - STRATIFICAZIONE E FUNZIONE DELLA MATERIA

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dell’obbiettivazione si prescinda per un momento dalla storicità — e da ogni temporalità —, e si considerino in se stessi, nella loro purezza, i tipi fondamentali caratteri­ stici dello spirito obbiettivato. Allora dovrà emergere in essi una particolare struttura, quale non si ritrova in altri fenomeni. E solo in base alla specificità di tale strut­ tura sarà possibile comprendere la maniera d’essere — ap­ parentemente duplice — dello spirito obbiettivato. La sua maniera d’essere generale ci aprirà altresì l’ac­ cesso alla sua enigmatica esistenza storica.

3.

La « FORMAZIONE REALE-SENSIBILE » COME STRATO D’eSSERE PORTANTE

Ancora una volta, bisogna qui richiamarsi a quella pro­ prietà fondamentale di ogni contenuto, o « bene » spiritua­ le, che già era emersa durante la discussione dello spirito personale: la possibilità di svincolarsi dal soggetto. Tale proprietà fondamentale si presentò allora come il rovescio immediato della distanza che il soggetto può prendere ri­ spetto al suo oggetto, ossia, come 1’« obbiettività » con cui il mondo gli appare. A questa obbiettività era connessa l’espansività del bene spirituale, la sua tendenza a diventare un possesso comune (cfr. capp. IX 1, X 1, XVI 2). In proposito, le formazioni caratteristiche risultarono essere, innanzitutto, il concetto e il giudizio; il loro svinco­ larsi appariva, immediatamente, soltanto come un passaggio allo spirito comune vivente. Di per sé, invece, il processo va ancora piu in là: infatti, le formazioni menzionate si svincolano anche dallo spirito comune, la loro espansi­ vità non si arresta qui. Supponendo che lo stesso valga anche per tutte le altre configurazioni che un bene spirituale può assumere — e quindi anche per le artistico-intuitive —, sembrerebbe chiaro che questo deve essere il punto di par­ tenza per l’analisi strutturale dello spirito obbiettivato.

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

Una volta còlto e modellato obbiettivamente, ogni im­ porto spirituale ha il senso di una elevazione nel sovratem­ porale. Il pensiero non è il pensare, l’intuito non è l’in­ tuire. Il contenuto è eterogeneo all’atto in quanto atto. È vero che esiste solo « per » l’atto ma, appunto per questo, non è l’atto. La comunicazione può trasmettere solo il con­ tenuto, l’atto invece è sempre diverso in ogni soggetto. Senonché, cos’è che permette la comunicazione? L’obbiettivazione, appunto. Già la parola è obbiettivazione, la lingua è un sistema articolato di elementi dispo­ nibili per una obbiettivazione possibile. La singola proposi­ zione, il giudizio formulato, il concetto definito e consegna­ to in un termine, sono già esse delle speciali obbiettivazio­ ni sovraformate. Ogni scienza, in un determinato stadio di sviluppo, è un solo grande contesto di obbiettivazioni del genere e solo come tale può essere un possesso comune. Qui però è chiaro che l’obbiettivazione è sempre legata a una formazione concreta che, di per sé, non è un importo spirituale, e tanto meno vita spirituale, ma qualcosa di per­ cepibile ai sensi, e cioè una formazione reale-cosale. È chia­ ro, anzi, che l’obbiettivazione consiste essenzialmente nel nesso che vincola un importo spirituale a una simile forma­ zione reale. D’ora innanzi chiameremo tale formazione, brevemente, « formazione reale ». Naturalmente non va dimenticato che, nello spirito vivente, anche l’importo spirituale è in se stesso reale. La differenza è questa: che la formazione reale perce­ pibile (la parola, il termine) è quella che si lascia fissare in una sfera di cosalità percepibile (la scrittura) indipenden­ temente dallo spirito vivente e solo cosi acquista realtà in­ dipendente, mentre l’importo spirituale (il significato, il concepito) è realizzabile sempre e soltanto in uno spirito vi­ vente capace di riconoscerlo.

XLVI. - STRATIFICAZIONE E FUNZIONE DELLA MATERIA

4. Il

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rapporto di primo piano e sfondo

La tesi da svolgere è quindi la seguente: che non solo nell’obbiettivazione linguistica, ma in ogni obbiettivazione c’è, alla base, una formazione reale accessibile ai sensi distinta dal contenuto spirituale che in essa si obbiettiva. Si può considerarla anche come una legge generale dell’obbiettivazione e formularla cosi: ogni spirito obbietti­ vato, inteso come formazione totale, ha per essenza una duplice stratificazione, e i due strati possiedono una maniera d’essere eterogenea. Lo strato reale-sensibile esiste indipen­ dentemente dallo spirito che lo coglie; l’importo spirituale in esso fissato (lo strato che sta nello sfondo della formazio­ ne complessiva), esiste invece solo « per » uno spirito che lo colga. Per ogni obbiettivazione si può, quindi, parlare di un « primo piano » e di uno « sfondo ». In ogni caso, allo­ ra, lo strato immediatamente sensibile sarà in primo piano, come formazione reale indipendente che esiste onticamente in sé, ma non è in sé spirituale; lo sfondo, invece, è il vero e proprio contenuto spirituale, quello di cui propriamente ne va nell’obbiettivazione, privo per altro di una ma­ niera d’essere indipendente, esistente sempre e soltanto « per » uno spirito che lo riconosca. Lo sfondo quindi, per sé preso, è e resta del tutto irreale. Il primo piano è in sé; lo sfondo, al contrario, è soltanto nella maniera condizionata dell’« esser-per-noi ». Quale sia poi lo spirito vivente che lo riconosce — chi siano i « noi » dell’esser-per-noi, non importa. L’essenziale è soltanto che si instauri un rapporto di riconoscimento. Alla funzione della materia, in cui un bene spirituale si obbiettiva, si aggiunge dunque, necessariamente, quella dello spirito vivente che lo riscopre. E con ciò, anche quella che è la maggiore difficoltà implicita nell’essenza dell’obbiettivazione comincia a chiarirsi. In essa infatti il vero mistero è, come mai un materiale reale-sensibile che ha acquisito uno stampo cosale-sensibile possa essere il portatore

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

di un contenuto spirituale. Sta di fatto che il contenuto presente in esso può essere intuito e recuperato. Perché ciò sia possibile, sembrerebbe che esso dovesse in qualche modo « trovarsi li dentro ». Ma come può esserci dentro un importo spirituale se noi constatiamo sempre che solo uno spi­ rito vivo può cogliere e possedere un importo spirituale? Tornando alla relazione or ora discussa, ne risulta che: senza l’intervento di uno spirito vivo, neppure l’importo spirituale è mai nella materia. Non si trova li dentro « in sé » ma solo « per noi ». In ogni obbiettivazione, lo strato di sfondo sussiste soltanto sulla base di una relazione intrinseca con lo spirito vivo. Un’obbiettivazione non è in sé, ma solo per lui.

5. Parola e scritto. Udire e comprendere

L’essenza di questa situazione si può cogliere esemplar­ mente nel rapporto tra parola parlata e parola scritta. La parola ha, evidentemente, una doppia stratificazione: il suo­ no senza significato non è affatto parola; e neppure il signi­ ficato senza un suono che si possa sentire (o un carattere leg­ gibile) è una parola. Suono e significato sono però pro­ fondamente eterogenei. Non solo sono dissimili, ma hanno una maniera d’essere radicalmente diversa, e sono ampiamen­ te indipendenti tra loro. Ce lo dicono già la pluralità delle lingue, la traducibilità del pensiero dall’una all’altra, la va­ rietà delle possibili espressioni verbali di uno stesso pensiero in una stessa lingua. L’eterogeneità degli strati evidentemente non ostacola affatto la connessione: basta osservare gli atti corrisponden­ ti. Suono e significato sono connessi tra loro come il sentire e il comprendere (rispettivamente: il leggere e il compren­ dere). Neppure gli atti, tuttavia, sono inscindibili l’uno dal­ l’altro: si può sentire senza comprendere — per esempio, quando si ascolta una parlata straniera — e si può capire

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XLVI. - STRATIFICAZIONE E FUNZIONE DELLA MATERIA

563

senza udire; infatti, c’è anche un mezzo indovinare, e inol­ tre si danno molti altri simboli sensibili di un contenuto spi­ rituale: quello della mimica, del gesto e del comporta­ mento globale. Questa relazione ci fa capire immediatamente, che cosa vuol dire che un bene spirituale si « conservi » nello scrit­ to. Si consideri il caso sopra citato, di un’opera poetica dimen­ ticata in una polverosa biblioteca. Ciò che qui si « conser­ va », in senso proprio e reale, è soltanto lo scritto in quan­ to tale. Il contenuto spirituale in esso obbiettivato non si conserva affatto con la stessa indipendenza reale dallo spi­ rito vivente. Ma riemerge soltanto quando interviene la com­ prensione, guidata dalla lettura fisica dello scritto, da par­ te di uno spirito vivente, una comprensione che si traduca in un riconoscimento dell’importo spirituale. Solo allora tale importo — lo sfondo dell’obbiettivazione — viene richiamato in vita e riassorbito nella realtà dello spirito vivente. Non esamineremo qui come propriamente funzioni il rapporto tra il primo piano e lo sfondo. Al proposito si possono prospettare ipotesi interessanti, che però si allon­ tanano tutte considerevolmente dal fenomeno. La filosofia del linguaggio e dell’arte non può esimersi dal prenderle in esame. Ai fini di un’analisi dell’essere spirituale, basta che sia chiaro il fenomeno in quanto tale. Aggiungeremo soltanto questo: non c’è alcun bisogno che il rapporto stesso sia in qualche modo essenziale o inter­ no. Nella parola, nel linguaggio e più ancora nella scrittu­ ra, esso è quasi sempre puramente convenzionale. Essen­ ziale, per il nesso tra immagine sonora e significato (rispet­ tivamente immagine scritta e significato), è sempre e soltan­ to la salda determinazione della loro coordinazione [Zu­ ordnung]. Ma appunto tale coordinazione è esteriore sia al suono che al significato. Data una determinata immagine sonora, non si vede perché essa debba avere proprio questo preciso significato; parimenti, perché un dato significato debba esprimersi proprio in questa determinata formazione sonora. Solo il passato storico di quella data lingua li vincola

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

l’uno all’altra; in compenso, li vincola in tutta evidenza per chiunque sappia quella lingua. Perciò la condizione di ogni comprensione, sia nell’udire che nel leggere, è la co­ noscenza o il padroneggiamento della lingua. E padroneggiamento vuol dire appunto che il significato delle parole si presenta immediatamente — non previa riflessione —, a chi legge a ascolta.

Capitolo XLVII CONNESSIONE DEGLI STRATI NELL’OPERA D’ARTE

1. L’oggetto

estetico e i suoi valori

Il fenomeno della duplice stratificazione non è limitato alla parola e allo scritto, ma comprende ogni sorta di obbiettivazioni. Tutte le sue varietà si possono però ritrovare nel dominio dell’arte, a patto che non lo consideriamo dalla par­ te dell’atto — né dell’atto intuitivo, né dell’atto creativo — ma dalla parte dell’oggetto. L’estetica dei nostri giorni si concentra ancora prevalentemente sull’analisi dell’atto, ec­ co perché il rapporto di stratificazione, benché sia stato spesso notato, non le è ancora divenuto famigliare. In effetti, l’atteggiamento naturale, nel dominio dei problemi estetici, è sempre quello rivolto all’oggetto. Tut­ ti i valori estetici, infatti, sono connessi all’oggetto, non al­ l’atto. Non l’arte in quanto tale è « bella », e neppure il godimento dell’arte, ma unicamente l’opera d’arte. Questa però, non importa a quale genere o dimensione artistica ap­ partenga, reca evidente il carattere dello spirito obbietti­ vato. È sempre una vita spirituale quella che vi assume for­ ma obbiettiva; e la formazione in cui essa si è calata perdura sempre oltre l’esistenza storica di quella. Essa possiede, in­ somma, la maniera d’essere caratteristica dell’obbiettivazione. Per l’obbiettivazione artistica, si può ripetere quan­ to si è detto circa la parola e lo scritto: anch’essa è fissazione di un contenuto spirituale in una materia che, dal canto suo, resta sempre in qualche modo eterogenea al conte­ 38.

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

nuto. Nella propria configurazione, essa costituisce sempre una specie di primo piano dell’immagine complessiva, che spicca rispetto a un secondo strato di sfondo. Ed anche qui abbiamo un’analoga differenza delle maniere d’essere: il primo piano è reale, lo sfondo del tutto irreale. Questa volta, però, il rapporto è più intimo e profondo; inoltre, per molti aspetti, più enigmatico e solo sommariamente ac­ cessibile all’analisi. Non consiste più in una pura coordina­ zione e non dipende da una convenzione. Qui, la formazione sensibile non è affatto traducibile in altra formazione né, d’altra parte, si può dire che si tratti della semplice espres­ sione di un contenuto: al contrario, fa parte anch’essa del contenuto e il valore artistico del tutto dipende da essa non meno che dallo sfondo. Tuttavia, in linea di principio, vi si può riconoscere lo stesso rapporto essenziale già osservato nella parola, un rap­ porto determinato da una identica eterogeneità nella manie­ ra di essere. Che è poi la condizione fondamentale della comparsa del valore artistico. Perciò non corrisponde affatto a un principio esteriore di partizione delle arti, il distinguerle secondo il tipo di materiale di cui fanno uso. Ogni genere di materiale permette solo un certo tipo di formazione di primo piano; e ogni genere di formazione di primo piano impone, a sua volta, una certa selettività prescrivendo un certo tipo di configurazione dello sfondo. Ambedue determinano in maniera essenziale la particolare qualità del valore artistico di un’opera. Le arti plastiche fanno uso di un materiale fisico (pietra, metallo), la pittura si serve dei colori e della loro distribuzione superficiale, la musica delle note, la poesia della parola. La drammaturgia ha in più la recitazione sul palcoscenico, la musica l’esecuzione udibile di un inter­ prete, che fanno parte entrambe di quello che abbiamo chia­ mato il primo piano. Tutto ciò implica una differenziazione dei tipi di obbiettivazioni e quindi anche delle opere d’arte e del loro valore.

XLVII. - GLI STRATI NELL’OPERA D’ARTE

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2. Le arti plastiche. Forma statica e intuizione di MOVIMENTO

Chi si attenga scrupolosamente ai fenomeni, può scorge­ re senza difficoltà quanto la legge della doppia stratificazione si adatti alle varie arti. Ciò non nega la profonda disparità delle arti, anzi, le forme assunte dal rapporto di stratificazio­ ne ne riflettono palesemente le particolarità. Lo si vede benissimo nella scultura, solo che si consideri­ no opere raffiguranti corpi in movimento: il satiro danzan­ te, il lottatore, il discobolo, il cavaliere a cavallo; o anche sculture nelle quali il movimento non è rappresentato diret­ tamente ma solo si annuncia nell’atteggiamento: il David di Michelangelo prima del lancio. Nessuno contesta che la pietra scolpita sia immobile. Nella forma spaziale è fissato solo un momento, eppure il movimento si vede. Cioè, noi vediamo più di quanto non ci sia realmente. Si vede la scena della lotta, l’impennarsi del cavallo, il lancio nella palestra. In effetti, il cavallo sul suo stretto piedistallo non può certo trottare: cadrebbe nel vuoto; il disco­ bolo tra le pareti del museo non ha lo spazio per lanciare il suo disco: il lancio avviene in un altro spazio che però, nella finzione artistica, noi vediamo benissimo. Il movimen­ to dunque è irreale, e irreale è anche il suo spazio. La stessa vivacità ed umanità delle figure è completamente irreale. Non esiste in sé, ma solo « per » chi guarda, se guarda con l’occhio dell’arte. È una vita che si intuisce nel rigore inerte della pietra scolpita — e sempre nel contrasto con quel rigo­ re; una vita che « appare » in forma plastica senza pretendere d’essere reale. È una vita soltanto apparente. Eppure, proprio questa vita apparente è il nucleo essenziale dell’opera plastica; che si può chiamare opera d’arte solo in quanto « appare » in quella forma in sé rigida. Ciò che appare nel primo piano reale come vero contenuto dell’opera, è lo strato di sfondo. La formazione ha due strati. La forma reale del marmo ha un’esistenza indipendente dallo spettatore; il suo movimento e la sua vita possono esistere

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

solo « per » uno spirito capace di comprensione artistica. Non possiedono alcun esser-per-sé ma solo un esser-per-lui. Se consideriamo l’opera plastica come un’obbiettivazione, ci accorgiamo naturalmente che il contenuto che appare come sfondo è ben lontano dal contenere soltanto un importo spirituale. La vita e il movimento in se stessi non sono spirito. In molte opere di scultura appare bensì anche una vita spirituale, come nei ritratti della tarda antichità o in figurazioni simboliche. Ma questo non è sempre il caso, né è necessario che lo sia. La cosa cambia radicalmente se teniamo presente quan­ to già detto: che non viene obbiettivato solo un determina­ to contenuto, ma anche il modo di vederlo e di comprender­ lo. Nel doriforo di Policleto non vediamo solo ciò che l’autore vedeva, ma anche « come » lo vedeva. Se si considera poi che il modo di vedere, e di sentire ciò che si vede, costituisce la sostanza della vita artistica di un’epoca, il contenuto di sfondo rivela anche qui il carattere eminentemente spirituale. In esso, lo spirito artistico di una grande epoca creativa si conserva e appare ai posteri come se fosse presente.

3. La

pittura.

Spazio apparente

e luce apparente

Trasportato nella pittura, il rapporto resta lo stes­ so; qui però la differenza tra l’essere degli strati è ancora piu rilevante. Anche qui — nell’eterogenea materialità dei colori sulla tela — è la vita e la varietà dei moti umani che « appare » come qualcosa di irreale e tuttavia concreto e palpabile. Ma la situazione è più complessa. La disposizione rea­ le dei colori sulla tela è superficiale, bidimensionale. Ciò che in essa appare è però la profondità spaziale, la piena tridi­ mensionalità. È caratteristico, dell’« immagine » di render vi­ sibile, di suscitare come per incanto quest’altra piena spazia­

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XLVII. - GLI STRATI nell’opera d’arte

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lità. Cosi pure la luce reale, che cade sull’immagine, non è la luce nell’immagine, benché sia la condizione del suo appa­ rire. La luce dipinta è solo luce apparente; ma proprio in quanto apparente, essa è quella in cui appare la plasticità e la varietà formale di tutto ciò che si trova rappresentato nello spazio apparente dell’immagine. Quello che si verifica, qui, è un vedere di tipo particola­ re. Chi guarda con l’occhio dell’arte, vede ciò che in realtà non esiste affatto e neppure viene simulato esistente. Sche­ maticamente parlando, si deve dire che il « paesaggio » dipinto che pende nella sua cornice alla parete, non è af­ fatto un paesaggio; il ritratto non è affatto l’uomo che rappresenta. Il paesaggio sussiste solo per lo sguardo dell’uomo, è solo un paesaggio apparente. A nessuno spet­ tatore verrebbe in mente di prenderlo per vero. D’altra par­ te, nemmeno l’artista che lo ha dipinto si sogna di renderlo reale. Ciò che egli fa è tutt’altro: lo rappresenta e rende vi­ sibile a un determinato modo di guardare, lo fa apparire dentro la formazione reale da lui costruita. Ma l’apparire implica il soggetto cui qualcosa appare: non c’è un apparire in sé. L’artista può plasmare direttamente soltanto il primo piano, la formazione reale. Ma può plasmarla in modo che, in essa, lo spettatore possa vedere la profondità spaziale, la luce, il paesaggio o anche l’uomo coi suoi tratti caratteristici. In un certo senso, nel modo stesso di plasmarlo, egli conferisce al reale che plasma una trasparenza per qualcos’altro che in esso deve apparire. E ciò in base a una coordinazione tale che quel qualcosa vi appaia di ne­ cessità, per chiunque lo comprenda artisticamente. Egli costringe lo sguardo a guardare, attraverso la formazione rea­ le, ciò che in essa è rappresentato. In tal modo l’artista guida il vedere. Fa vedere allo spet­ tatore ciò che questi, da sé, non saprebbe vedere. La sua arte sta proprio in questa capacità di far vedere qualcosa — qualcosa di irreale, dentro la pienezza e varietà della realtà effettuale. In termini obbiettivi, il valore artistico di un’ope­ ra consiste proprio nella trasparenza della formazione

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

reale per l’intuizione comprensiva di uno sfondo non reaimente esistente. Ancora una volta è essenziale, non soltanto che una formazione concreta e oggettuale appaia, ma che essa sia configurazione di un primo piano in cui sia prescritto un modo di vedere e di sentire. Solo in questo senso si può sostenere — nonostante i molti e svariati rimproveri rivolti alla pittura per il suo contenuto tematico — che essa è in generale obbiettivazione in un importo spirituale.

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La musica. Suono e sequenza sonora, audizione acu­ stica E MUSICALE

Si potrebbe pensare che, nella musica, le cose stiano altrimenti. La musica pura non ha temi oggettuali presi in prestito da altri domini, sia cosali che umani. È vero che tali temi le si possono imporre, e ne abbiamo molti esempi nei titoli delle opere musicali. Si va dalla semplice messa in musica "di un testo poetico, all’opera lirica o all’oratorio. Per contro, ci si può sempre chiedere se un contenuto tematico di questo tipo possa ancora valere come un contenuto propriamente musicale. Del resto, comunque la si pensi circa la musica a programma, è certo che essa non può fornirci un punto di vista valevole per ogni tipo di musica. C’è infatti anche l’al­ tra musica, quella « pura », libera da temi extramusicali. E se è vero che in essa si esterna sempre un’atmosfera psicolo­ gica, è anche dubbio che si possa considerare tale tonalità sentimentale come obbiettivazione di un contenuto spirituale, tanto piu che, in ogni caso, la costruzione puramente musicale è già di per sé una formazione stratificata. Essenziale per ogni e qualsiasi tipo di musica è piut­ tosto, ancora una volta, che la « sensazione puramente acu­ stica » di una formazione sonora (e quindi reale) spiechi con chiarezza sopra 1’« audizione musicale » di uno

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XLVII. - GLI STRATI NELL’OPERA D’ARTE

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sfondo. In senso acustico, è forse possibile udire la totalità unitaria di un « movimento » quale, ad es., il primo dell’Eroica? È forse possibile cogliere, in senso puramente acustico, almeno l’unità di una sequenza melodica di note, di un co­ siddetto « tema », o la sequenza di accordi di una modula­ zione? Le note non risuonano simultaneamente ma in suc­ cessione; gli accordi che si succedono, uditi acusticamente nella simultaneità, darebbero la più caotica disarmonia. Si possono percepire acusticamente, appunto, solo nella suc­ cessione. L’unità musicale dell’opera, o di una sua parte, è però l’unità di una composizione in cui la nota pas­ sata, che comunque in quest’attimo non si ode più sensibil­ mente, è ancora presente ed è essenziale in quanto è presente. La peculiarità dell’audizione musicale, rispetto a quella puramente acustica, sta proprio nel fatto che, nella succes­ sione di momenti tonici e armonici distinti, si « ode » l’uni­ tà musicale di una costruzione che, in quanto tale, non si può udire in alcun momento, pur costituendo essa la compo­ sizione vera e propria ed integrando il singolo « movimento » nel tutto. Ma non basta; noi udiamo anticipando musi­ calmente, aspettandoci il seguito, la soluzione, prevedendo l’esecuzione; nell’attimo in cui abbiamo la sensazione acustica di un dato accordo, aderiamo ancora intimamente a ciò che è passato e non risuona più, e intanto siamo già protesi verso ciò che verrà. Ogni fase musicale rimanda insomma oltre se stessa. Se un pezzo musicale è costruito rigorosamente, nel de­ corso temporale del « pezzo » si costruisce piano piano una totalità che si compie in tutte le sue parti, si consolida e non è perfetta finché la serie acustica degli accordi non sia pas­ sata e risuonata. Nell’audizione musicale si rivela dunque un udire sintetico di ordine superiore che permette un’audi­ zione simultanea dell’unità e della totalità, quale non sareb­ be mai possibile nell’udire puramente artistico. Musi­ calmente, si ode più di quanto non sia dato alla sensazione. Soprattutto, si ode qualcosa d’altro e di molto più importan­ te. Questo altro è propriamente il pezzo musicale, la roman­ za, la fuga, la sinfonia.

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PARTE III, - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

Nella sua struttura complessiva, questo qualcosa d’altro è una tipica formazione di sfondo. È qualcosa di acusticamen­ te irreale e non realizzabile come insieme di note. Lo si sen­ te « attraverso » la serie degli accordi e in opposizione ad es­ si, e in contrasto col loro disporsi nelle fasi temporali. Né si può dubitare che il valore artistico dell’opera musicale con­ sista proprio nella capacità della sequenza sensibile dei suoni di far apparire questa unità e totalità della costruzione — la sua interiore configurazione. Ne sono esempio probante quelle composizioni musica­ li che agiscono sull’ascoltatore quasi come una serie di effet­ ti singoli e separati. In esse manca, appunto, un’unità di con­ figurazione interna. La piacevolezza dei particolari non può compensare tale mancanza. Il nesso totale riguarda uni­ camente lo sfondo, ma questa totalità può apparire unica­ mente nella separazione e successione temporale della serie acusticamente sensibile degli accordi. Anche nella musica abbiamo dunque fondamentalmen­ te la stessa duplicità di strati, la stessa eterogeneità delle maniere d’essere, lo stesso « apparire » del contenuto entro una « materia » sensibile, ed anche la stessa trasparenza del primo piano. Naturalmente, in questo caso, l’intimo nesso reciproco degli strati è tutto particolare e non trasfe­ ribile ad altre arti. Anche il carattere della formazione di sfondo è qui peculiare; è facile vedere, anzi, che lo sfondo deve valere come formazione di contenuto spirituale in un senso tutto nuovo e diverso; cosi pure, il modo di udire, cogliere e sentire contribuisce in senso eminente a deter­ minare il contenuto mentre, a sua volta, è nettamente condizionato e predeterminato dalla totalità della configura­ zione interna. Tutte queste però sono differenze relative al carattere proprio della musica e non intaccano il rapporto generale di sfondo.

XLVII. - GLI STRATI NELL’OPERA D’ARTE

5. La

poesia.

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Parola formata e figurazione poetica

Nel vasto dominio della poesia, la stratificazione pre­ sente in ogni arte diventa particolarmente semplice e chiara. Ciò dipende dalla materia con cui lavora: la parola e lo scritto. In questo senso, essa è più vicina di altre arti all’obbiettivazione extra-artistica; le opere di poesia sono scritte come è scritta qualsiasi altra nota di qualche impor­ tanza culturale. Se quella stessa parola che serve agli usi più modestamente pratici può ricevere anche una formazio­ ne di ordine superiore, attraverso la quale diventa trasparen­ te per qualcosa che la vita quotidiana non sa dire, questo è dovuto al tocco della poesia. Oggetto di poesia è tutta la varietà dei possibili vissuti dell’esistenza umana. Le più delicate sfumature del senti­ mento, i destini e le passioni degli uomini, le figure, le per­ sonalità, i caratteri della vita e dell’azione — tutto questo « appare » ed è intuibile nella parola formata. La parola si può udire, leggere ed è, nella sua stessa forma poetica, una formazione reale; ma le cose umane, che in essa appaiono, so­ no formazioni di tutt’altro genere, che nessuno confonderà con la parola scritta e neppure con la parola parlata. Nes­ suno le prenderà per vicende, passioni e caratteri reali solo perché appaiono intuibili in figure concrete. Si sa che sono irreali, e che lo sono anche quando la materia della poesia è tratta dalla realtà effettuale. Si può dire, quindi, che nel campo della poesia la differen­ za degli strati, come pure l’eterogeneità della loro maniera d’essere, è cosa del tutto corrente; parimenti, è ben noto il rapporto di apparizione e la trasparenza della parola nei confronti dell’importo poetico. Il poeta fa apparire davanti a noi tutto un mondo, i suoi personaggi vivono sotto i nostri occhi e noi possiamo immedesimarci nella loro vita. Ma è un mondo astratto dal contesto dei rapporti reali nei quali si muove la nostra vita, un mondo che sta li, chiu­ so in sé, con confini ben precisi, dotato di una propria unità e totalità. Nella parola formata, la poesia ha la forza di far

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

apparire un simile mondo di poesia, coi suoi personaggi poetici. Fin qui, il rapporto è facilmente comprensibile. Si complica, però, nell’arte drammatica, dove l’operazione raffiguratrice dell’artista e dell’attore assume una forma ambigua — tra la parola formata e scritta, da un lato, e il contenuto umano-psicologico dei personaggi e del loro destino, dall’altro. Se oltre al testo scritto e letto, consideriamo anche il testo recitato e « guardato » sulla scena, l’ambito della formazione reale si allarga, nel caso dell’opera dramma­ tica, in misura straordinaria. Infatti, la recitazione sul palco­ scenico è un evento del tutto reale e, in quanto tale, è vis­ suto sensibilmente. È facile obbiettare, allora, che in questo caso tutta 1’ « azione » viene trasportata sul piano della realtà; e sa­ rebbe come dire che non resterebbe alcun margine per l’ap­ parire di uno sfondo irreale dentro la formazione reale.

6. Arte drammatica. Realtà dell’azione

della scena e irrealtà

Invece si può dimostrare che l’obbiezione non regge. Il rapporto fondamentale è lo stesso, ciò che cambia è sol­ tanto il suo contenuto. Una parte di ciò che negli altri gene­ ri di poesia resta irreale ed appartiene allo sfondo, qui vie­ ne effettivamente trasportato in primo piano, e, quindi, ri­ succhiato nella dimensione reale. Ma ciò non riguarda affat­ to la totalità della formazione di sfondo. La scenografia, l’azione visibile, la mimica, il dialogo entrano ovviamente nel campo della realtà, e vi acquistano un carattere di fluidità perché il gioco dei mimi è instabile, non è fissabile né, da parte sua, è in grado di fissare alcun­ ché; infatti ogni « messa in scena » dell’opera ne è anche una riproduzione sempre nuova e diversa, con nuovi e diversi particolari. Stabile è solo lo scritto in quanto tale e ciò che in

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XLVII. - GLI

STRATI

NELL’OPERA D’ARTE

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esso si trova immediatamente fissato; esso solo custodisce l’unità dell’« opera » autentica nella pluralità delle interpre­ tazioni. A guardar bene questo vale, entro certi limiti, anche per i « personaggi » dell’opera. Anch’essi, sulla scena, assumono la forma della realtà; anche l’interpretazione di un perso­ naggio da parte di un attore è un conferimento di forma di natura effimera. L’esteriorizzazione sensibile, cosi raggiunta, il realismo dell’interpretazione, hanno un prezzo: un’esisten­ za effimera, legata al momento. A questo punto emerge, altresì, il limite del realismo scenico. Se i personaggi assumono sulla scena la forma della realtà, non per questo diventano reali. Solo l’aspetto visibile del loro comportamento viene realizzato; il loro odiare ed amare, le loro passioni e il loro destino non si svolgono nella realtà, né lo pretendono. L’estetica dramma­ tica si è lungamente ingannata su questo punto, con la teoria dell’illusione: allo spettatore si sarebbe data l’illusione di assistere a un’azione reale. Il che è sbagliato. Offrendo la riproduzione di un’azione reale, si sarebbe preteso dallo spettatore qualcosa di impossibile: egli avrebbe dovuto restare in un atteggiamento contemplativo, mantenere la distanza di un apprezzamento puramente artistico, mentre era testimone del dolore umano e del conflitto, della mal­ vagità e del tradimento, della distruzione, dell’ingiustizia, dell’assassinio. Il senso della tragedia sarebbe stato capovol­ to. È dunque vero il contrario. Proprio l’ovvia consapevo­ lezza dell’irrealtà degli eventi, della pura recitazione, per­ mette allo spettatore un atteggiamento contemplativo. Pro­ prio perché non confonde l’attore con l’eroe, il suo destino di uomo col destino dell’eroe, Γ «azione » che si svolge sul palcoscenico acquista trasparenza ai suoi occhi. L’azione vera è per lui proprio quella recitata; solo la recitazione è reale, ma in essa gli « appare » qualcos’altro: la serietà del destino e delle passioni. L’arte del mimo è appunto in questo lasciare apparire. Prova esemplare dell’esistenza di questo rapporto, è il

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

bisogno estetico di limitare il realismo della recitazione. Lo si nota nell’effetto del verso nel dialogo, nella moderazione decente della violenza e della crudeltà sulla scena. Il vedere e l’udire artistico, infatti, vengono turbati da un eccesso di realismo. E poiché lo sfondo, coi suoi personaggi e i suoi destini, appare in generale soltanto « per » un guardare e un udire artistici, anche l’oggetto estetico ne risulterebbe di­ strutto. Forse, più che nella repressione del realismo, ciò risulta evidente in certi casi-limite nei quali, dal gioco, si passa nella vita, e il destino dell’eroe diventa quello del suo interprete. Non si può fare a meno di pensare, a questo pro­ posito, al tema dei Pagliacci dove, dietro la gelosia finta, si cela quella vera, che alla fine rompe gli argini; ed è questa irruzione, con la scena stessa in cui si svolge, ciò che vien messo in scena. Cosi però, la commedia recitata si trasforma in realtà recitata, e il divertimento recitato del pubblico in scena, nello sconcerto dell’esser coinvolti in una realtà effettiva. Giusta la frase: « La commedia è finita ». Cosi, nella rappresentazione scenica, si può coglie­ re chiaramente la stessa duplicità di strati che è sempre presente in ogni genere di poesia e in tutte le arti. Cambia solo il contenuto. Nello stato reale dell’azione dramma­ tica appare qualcosa che è e resta irreale; una pura apparen­ za che, se intuita con l’occhio dell’arte, non viene con­ siderata reale. L’essenza della rappresentazione drammatica non è suggerimento di una realtà effettuale, come non lo è la rappresentazione plastica o pittorica. Ma è solo obbiettivazione in quanto oggettuazione intuitiva di un’apparenza.

7. L’architettura

in quanto obbiettivazione

Infine, il punto di vista della stratificazione può essere applicato a quelle arti nelle quali non viene rappresenta­ to nulla direttamente, che quindi non pretendono immedia­ tamente di essere obbiettivazioni di un contenuto identifica­ bile. Che questa relazione sia applicabile alla musica, è già

XLVII. - GLI STRATI NELL’OPERA D’ARTE

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una dimostrazione della sua validità illimitata. Bisogna ri­ conoscere tuttavia che non dappertutto lo strato irreale di sfondo è tanto chiaramente e oggettualmente rilevabile. Questo è soprattutto il caso dell’architettura, dove la forma spaziale, la statica delle masse, la concezione e la tec­ nica costruttiva appartengono tutte alla formazione reale nella quale, dunque, non sembrerebbe apparire nulla di ul­ teriore. E tuttavia non c’è dubbio che nell’impressione che lo spettatore artisticamente atteggiato ne riceve è dato qualcosa di più. D’altronde, come si spiegherebbe che certi tipi di costruzioni architettoniche producano un « effetto di grandiosità » senza essere particolarmente grandi, o che un determinato stile architettonico popolare sia immediata­ mente e intuitivamente sentito nella sua specificità anche dopo molti secoli? La « grandiosità » dell’effetto è una gran­ dezza puramente apparente, non reale; l’originalità, cosi sentita, del gruppo etnico vi appare soltanto. Ci si può chiedere, ancora, come mai, passeggiando per le stanze interne di un edificio, la totalità di questo si rac­ colga intuitivamente nell’unità di un’espressione comples­ siva, che non possiamo affatto ricavare da una semplice vi­ sione diretta. Qui, evidentemente, dietro la visione ottica c’è un’altra visione sintetica che vede più di quella. Quest’altra visione è la visione artistica, e ciò che essa vede è l’interna configurazione della composizione e quindi, bi­ sogna aggiungere, se è vero che quest’altra visione vede più a fondo, ciò che essa vede dovrà pure in qualche modo esi­ stere « per » lei. Ma, appunto, questa esistenza non dovrà essere intesa come un’esistenza reale. In ogni opera umana si rivela lo spirito creatore del­ l’uomo, che si obbiettiva in opere architettoniche non meno che in opere plastiche, figurative o letterarie. Se guardia­ mo alle costruzioni monumentali di epoche trascorse, o anche soltanto alle loro rovine, ce ne rendiamo conto al di là di ogni dubbio. In esse parla la grandezza umana, lo stile di una spiri­ tualità umana, habitus interiore di epoche intiere. L’unica differenza sta nel linguaggio con cui parla, che è diverso da

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

quello della pittura e delle lettere, come del resto radical­ mente diverso e originale è ogni volta il materiale dell’obbiettivazione. Perciò i diversi materiali non ci rivelano lo stesso aspetto, ma aspetti diversi dello stesso spirito.

Capitolo XLVIII

CONSEGUENZE PER L’ESTETICA

1. Varietà degli

strati e del rapporto di apparizione

L’analisi dell’oggetto artistico, da noi condotta, ap­ partiene in primo luogo all’estetica, che è in grado di trarne a proprio vantaggio una serie di conseguenze. Solo in secondo luogo essa riguarda il problema più generale dello spirito ob­ biettivato. Non potremo quindi esimerci dal trarne anche qui le dovute conseguenze — sia pure col pericolo di uscire in parte dal nostro tema o di accostarlo per una via più lun­ ga. Sta di fatto che, per quanto riguarda la stratificazione e le maniere d’essere, le due serie di problemi sono strettamente connesse e interdipendenti. Si è visto che tutti gli oggetti estetici sono stratifica­ ti sia nella struttura che nella maniera d’essere. In primo pia­ no sta sempre uno strato reale, dato sensibilmente, attraverso il quale appare uno sfondo irreale che è il vero e proprio con­ tenuto dell’opera. Riguardo alla maniera d’essere, questa di­ stinzione è sufficiente. Se invece consideriamo quanto sia mol­ teplice, fecondo, inesauribile il contenuto che appare nelle opere d’arte di maggior stile, uno schema di stratifica­ zione cosi semplice potrebbe non essere più sufficiente. In effetti, la serie degli strati è qui molto più ampia. Nell’immagine dipinta, per es., la prima ad apparire è la spazialità, la cosalità tridimensionale immersa nella sua luce propria; subito dopo però, nella cosalità apparente ap­ pare qualcos’altro: l’atmosfera del paesaggio, il busto o il ritratto con le sue peculiarità psichiche e umane, o anche

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

la rappresentazione di una situazione con un determinato contenuto spirituale. Questo strato non è più spaziale e neppure cosale; l’artista non può ritrarne la ricchezza di contenuti in modo direttamente oggettuale, come può fare per le cose visibili, può solo farlo apparire in ciò che rappresenta oggettualmente. Con questo, tuttavia, la strati­ ficazione non è ancora esaurita. Nella scena, nel ritratto, può apparire dell’altro, un senso umano generale, un simbolo capace di conferire il giusto accento all’individua­ lità del personaggio o alla specificità della situazione. Que­ sta terza cosa non si può mai considerare direttamente tema­ tica, ed è anche difficile tradurla in un linguaggio che non sia il linguaggio stesso dell’arte. Ci si aiuta con espressioni come « senso riposto », « significatività », « idea », ma la ve­ rità è che non possiamo fare appello ad altro che all’occhio stesso dell’arte, dal quale soltanto dipende la superiore trasparenza della rappresentazione oggettuale e oggettualmen­ te coglibile. Nessuno però contesterà che le opere d’arte di alto livello raggiungono proprio in questo strato del loro contenuto la loro grandezza e il loro significato permanente. Per l’estetica, questo risolversi dello sfondo in una plu­ ralità di strati è decisivo. Perché è a questo punto che comincia a illuminarsi la misteriosa pregnanza del contenuto artistico. Ed è facile vedere che, in una simile serie di strati, è sempre l’ultimo e più profondo a conferire peso e significato a quello di primo piano. Forse si può dire, in generale: quanto maggiore è l’opera d’arte, tanto più il suo contenuto vero giace remoto sullo sfondo. Questa affer­ mazione potrà valere ovviamente soltanto a partire da un certo livello di maestria tecnica; perché c’è anche un’arte gravida di idee, che però fallisce nei mezzi, ed allora ottiene soltanto un effetto limitato e grossolano. Se l’essen­ za di una data arte consiste nel lasciar-apparire, la sua legge più intima è indubbiamente questa: che ogni ul­ teriore stratificazione dell’apparire si costruisce dal basso e non può mai apparire in modo effettivamente e concretamen­ te intuitivo se non sulla base di una certa perfezione artisti­ ca dello strato più basso del contenuto. Il compito di

XLVIII. - CONSEGUENZE PER L’ESTETICA

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sorreggere tutta la pregnanza degli strati superiori è affidato, in ultima analisi al primo piano; che è anche l’unico che si offra direttamente a un coglimento sensibile. Ma tale capa­ cità portante si riproduce di strato in strato, e solo là do­ ve essa si compie in una costruzione non lacunosa di strati, i grandi contenuti ideali che nessuna espressione potreb­ be altrimenti circoscrivere, diventano afferrabili.

2. Varietà

della stratificazione nelle arti

Quanto si è detto per la pittura si può ripetere, mutatis tnutandis, per tutte le arti. Per quanto riguarda l’arte plastica, è ben noto che essa, fin dall’antichità, è sempre sta­ ta straordinariamente ricca di personaggi altamente simboli­ ci. Se si guarda alle rappresentazioni antiche di eroi e di dei, pervenute fino a noi, si crederebbe che, fin dagli inizi, esse siano state determinate dall’impegno più alto e più spiri­ tuale, e che proprio nello sforzo di corrispondere a un simile impegno stia la ragione dell’eccezionale impulso che indusse quegli uomini a perfezionarle anche dal punto di vista tecnico. La radice culturale-religiosa di queste tradizioni toglie ogni dubbio in proposito. Che qualcosa di simile valga anche per la musica, è incon­ testabile. Ne è già indizio una analoga radice, sia nei tempi antichi che nei tempi moderni. Che la costruzione musica­ le emergente al di là della sensazione acustica non sia l’ulti­ mo o l’unico strato dello sfondo; che in questa costruzione compositiva appaia invece tutto quello che costituisce l’inaf­ ferrabile pienezza psicologica delle grandi opere musicali — inafferrabile, eppure profondamente convincente, prepo­ tente, trascinatrice — sarà ovvio per chiunque sia appena in grado di ascoltare musicalmente e di partecipare. Non sarebbe neppure esatto affermare che questo strato più profondo non diventi oggettuale; lo diventa si, ma non per la conoscenza; perciò non c’è modo di esprimerlo con parole. Né si può mostrarlo a qualcuno, se questi non è in grado 39.

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

di sentirlo da sé. Ma che la musica sia, in senso eminente, un bene umano-spirituale resta certo a prescindere da ogni comprensione intellettuale quando, ascoltando una musica antica, lo spirito di un tempo irrimediabilmente passato riappare vivo e presente davanti a noi. La maggiore varietà di stratificazione si trova forse nel· la poesia. Già la parola in se stessa, come abbiamo mostrato, ha una duplice stratificazione. Qui, a rigore, lo sfondo co­ mincia già col semplice significato delle parole. Il poeta però non adopera le parole in modo convenzionale, ma in un suo modo personale, e le fa funzionare come immagini nelle quali appare un significato nuovo e originale. Raggiunge co­ si un livello di concretezza in cui trova espressione ciò che altrimenti resta sempre inafferrabile. Ammesso inoltre, come schematicamente si è detto, che ciò che appare nel­ l’opera letteraria siano i moti dell’anima umana (destini, passioni, odio, amore), bisogna anche aggiungere che proprio la vera poesia di rado parla direttamente di simili cose. Essa preferisce « mettere innanzi » le sue figurazioni umane, conferir loro per mezzo della parola una udibilità e visibilità, anch’essa apparente, lasciarle parlare, agire, muoversi, e solo nel loro dire, fare e comportarsi, lasciarne trasparire l’anima. Non che ne faccia un’analisi psicologica ma, nell’appatire esteriore, fa si che ne appaiano i caratteri, i conflitti, i destini. Rivela l’imponderabile psichico attraverso un sensibile non meno imponderabile. Cosi essa mette da un lato il rozzo espediente concettuale ed esprime ciò che quel­ lo non può afferrare facendolo immediatamente apparire. Infine, dato che proprio la poesia è in grado di elevate dac­ capo dall’individualità all’idealità le sue figurazioni, ecco apparire uno strato ulteriore sul quale, specie nelle grandi opere, cade l’accento. In questo strato profondo va cercata la potenza e la pregnanza di un contenuto spirituale perma­ nente che costituisce il significato culturale della poesia e la eleva a fattore storico della vita spirituale dei popoli.

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XLVIII. - CONSEGUENZE PER L’ESTETICA

3. Dualità

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delle maniere d’essere nella pluralità

STRUTTURALE DEGLI STRATI

In che misura sia possibile generalizzare ulteriormente questa stratificazione plurima, può restare in sospeso per ora. Basta sapere che essa è rilevabile nelle arti fin qui esaminate, e che determina in modo decisivo la struttura dell’opera d’arte. Parrebbe tuttavia in contraddizione con la duplicità degli strati di cui si era parlato precedentemente. Questo salta all’occhio specialmente se consideriamo che la serie strutturale degli strati è essenzialmente diversa nelle singole arti, e che perfino il numero degli strati varia in misura non irrilevante, mentre tra essi continua a sussistere lo stesso rapporto di apparizione, un rapporto la cui direzione di senso, evidentemente, non subisce inversione. Ma l’aporia è facilmente risolvibile. L’oggetto estetico possiede bensì parecchi strati, per quanto riguarda la struttu­ ra; per quanto riguarda la sua maniera d’essere, invece, ne ha solo due. Reale ed in sé, è sempre soltanto il « primo » strato, che si offre direttamente ai sensi, possiede, esso so­ lo, un essere indipendente ed è, quindi, in primo piano in senso stretto. Tutti gli strati ulteriori, per quanto si spingano addentro nella dimensione spirituale, o per quanto gli ultimi lembi della loro sequenza siano prossimi al sensibile, non possiedono un essere indipendente, ma solo un essere-per-noi. Otticamente, sono e restano dipen­ denti dalla contro-prestazione del soggetto che sappia in­ tenderli artisticamente. In altri termini, essi appartengono ad un unico sfondo. Si può dire quindi: se distinguiamo primo piano e sfondo in base alla pura maniera d’essere, il primo sarà sempre in sé semplice e palese, il secondo invece rivela in se stesso una struttura ulteriormente stratificata. Lo sfondo con la sua interna sequenza di strati non è in sé, né realmente né idealmente, ma è solo per lo spetta­ tore. Tuttavia, contenendo esso il vero e proprio importo e il senso essenziale dell’opera d’arte — e ciò tanto più,

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

quanto più elevata ne è la stratificazione —, dobbiamo con­ cluderne che le opere d’arte in quanto tali non possiedono alcun esser-in-sé, ma soltanto un esser « per » lo spetta­ tore. Non sarebbe cosi se esse si riducessero unicamente al­ la loro formazione reale-sensibile. Chi però non percepisce altro che la formazione reale, non intende affatto l’opera d’arte. Le formazioni reali non sono che cose tra cose — un libro, una pietra scolpita, una superficie dipinta, — mentre l’opera d’arte evade dalla serie delle cose unicamente per­ ché in essa possiamo vedere più che la cosa. In conclusione, le opere d’arte non hanno la stessa manie­ ra d’essere degli oggetti di conoscenza. Questi, infatti, non si riducono al loro esser-oggetti — cioè al loro star-difronte-al-soggetto; sono qualcosa « in sé », che sussiste anche indipendentemente dal suo esser-conosciuto. La conoscenza è « obbiettazione » di un in-sé, il creare e il vedere artistico sono, invece, « obbiettivazione » di qual­ cosa che in sé non è. L’oggetto estetico si esaurisce tutto quanto nel suo essere oggetto per lo spettatore: non possiede oltre a ciò alcun essere sovraoggettuale. In altre parole: se l’oggetto è ciò che sta-di-fronte, l’oggetto estetico consiste in un puro star-di-fronte e niente di più, è l’og­ getto per l’oggetto. O anche: è l’apparizione per l’appari­ zione; la sua maniera d’essere si riduce al modo in cui appare allo spettatore in una cosa reale sensibile.

4.

Peculiarità dei valori estetici. L’essenza del « BELLO »

Da quanto si è detto, risulta che il valore estetico — di qualunque genere esso sia —, non è comunque il valore di un in-sé, ma solo di un essere-per-noi. Infatti, solo la formazione reale è in sé, ma non c’è dubbio che il valore artistico non riguarda lei sola. Non si può certo affermare che il lavoro dell’artista « realizzi » valori esteti­

XLVIII. - CONSEGUENZE PER L’ESTETICA

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ci — nel senso in cui un comportamento o un’azione umana realizzerebbe valori morali —, ma solo che li trasferisce in una oggettualità concreta-intuitiva. Li obbiettiva, li fa apparire e, anche questo, in una formazione oggettuale solo apparente. I valori estetici sono i valori dell’apparizione in quanto apparizione, dove la veicolazione dei valori coinvolge oggettualmente l’intiero rapporto di apparizione. I valori este­ tici non vengono in alcun modo realizzati; di qui l’enorme libertà di movimento dell’arte, il margine di possibilità quasi illimitato che essa offre al suo cultore. Se fosse obbliga­ ta a realizzarsi, dovrebbe stare nei limiti della possibilità reale che le si presenta. Ma non lo è, e sorvola come per gioco quella pesante realtà effettuale con la quale la volontà e la realizzazione devono perpetuamente misurarsi. Infatti i limiti del possibile sussistono solo nella sfera del reale. Ciò non vuol significare che nella sfera dell’arte non vigano leggi. Le sue sono leggi tutte peculiari e, poiché ciò che determinano non pretende di esser reale, esse non trovano alcun ostacolo da superare nella loro sfera propria. Le leggi artistiche, benché sconosciute e non formulabili in quanto tali, non sono soltanto autonome nella loro sfera, ma vi do­ minano incontrastate. D’altro lato va tenuto presente che il valore estetico non inerisce esclusivamente allo sfondo irreale dell’oggetto. In tal caso dovrebbe essere possibile farlo apparire anche sen­ za una formazione reale di primo piano *. Che ciò non 1 Una concezione del genere è presente nella vecchia estetica, e risale alla tesi di Platone, secondo la quale il bello in senso proprio sarebbe 1’« Idea » che, nella formazione effimera della cosa visibile, apparirebbe come ottenebrata — mentre un’intuizione di grado supe­ riore sarebbe in grado di coglierla anche senza bisogno di appog­ giarsi alla cosa. Plotino è ancora completamente dominato da questa concezione; per lui il massimo livello è quello del νοητόν καλόν. Il senso del bello artistico come valore di apparizione vi è radical­ mente misconosciuto; l’intuizione sensibile — dell’« estetico », nel senso proprio della parola —, vi è abbassata a una funzione ausiliaria. Averla riportata in onore è il merito di un pensiero molto più tardo; il Romanticismo vi ha gran parte; la formulazione definitiva si trova nell’estetica di Hegel. Secondo questo pensiero, il bello non

586

PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

sia possibile, è dimostrato invece dall’intraducibilità del « bello » in una forma diversa da quella assegnatagli dal­ l’artista. La stessa formazione reale con la sua forma per­ cepibile ai sensi, vi ha dunque un’importanza essenziale. Per quanto la stratificazione strutturale dello sfondo possa penetrare in profondità, ogni apparire di tali strati riguarda pur sempre il primo piano, e dipende soprattutto dalla tra­ sparenza di questo. Il bello come tale non sta né nello sfondo né in primo piano in senso esclusivo, ma sta in ambedue, e cioè nel loro rapporto prospettico rispetto allo spettatore. Il rapporto che intercorre tra di loro, il legame peculiare che li connette, pur nell’eterogeneità della loro maniera d’essere, l’apparire sensibile di un importo del tutto irreale in una cosa reale — o, che è lo stesso, la trasparenza di una formazione reale per un tale importo —, è il bello artistico, l’oggetto esteticamente valido. Se poi consideriamo la successione interna degli strati di sfondo, il rapporto si arricchisce di momenti intermedi. Tra strato e strato esiste infatti la stessa legge di apparizio­ ne, e l’apparizione dello strato più interno e nascosto — os­ sia, del contenuto più profondo — , è sempre portata dal­ l’apparizione dello strato più prossimo e immediato. La per­ spicuità della formazione reale è la base di ogni ul­ teriore perspicuità. Di li, si spalanca all’intelligenza un’intie­ ra serie di apparizioni successive, nella quale ogni termine medio è essenziale ed ha una sua funzione necessaria, anche se lo spettatore artisticamente atteggiato non ne è affatto consapevole. La sua intuizione infatti non procede successi­ vamente da strato a strato, ma afferra il tutto in una volta sola. Solo cosi si comprende che il tutto gli si presenti e quasi gli si offra come un’unità completa e perfetta, non ap­ pena egli abbia trovato, nel suo atteggiamento intuitivo, l’impostazione appropriata all’interna prospettiva degli strati. è 1’« Idea » stessa, ma solo 1’« apparire sensibile dell’idea ». Questa è una fondamentale rivalutazione del sensibile. L’« apparire » vi è es­ senziale. Nel visibile è la chiave dell’invisibile.

XLVIII. - CONSEGUENZE PER L’ESTETICA

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Ma, appunto perché c’è « trasparenza », solo « per » lo sguardo intuente, l’essere del bello è un puro esser-oggetto, e non un esser-in-sé. Per lo sguardo che non intuisca arti­ sticamente, l’opera d’arte in quanto opera d’arte non esiste affatto.

Capitolo XLIX CONSEGUENZE RELATIVE ALLA MANIERA D’ESSERE DELLO SPIRITO OBBIETTIVATO

1.

Parallelismo

di tutte le obbiettivazioni artisti­ che ED EXTRA ARTISTICHE

Qui non stiamo facendo una filosofia dell’arte. Le pro­ spettive che, in questo senso, si possono ricavare dalla nostra ricerca, ne costituiscono soltanto un risultato marginale, e del resto, qui si fa menzione solo di quelle che interessano immediatamente il problema. Sono quelle relative al carat­ tere che l’obbiettivazione ha nell’opera d’arte; tale carat­ tere infatti è comune all’opera d’arte e ad altre opere umane, specialmente all’opera letteraria extra artistica. Si trat­ ta dunque di implicazioni di teoria dello spirito e di filosofia della storia. È il caso di ricordare, anzitutto, in che senso si può di­ re che nell’opera d’arte in genere un importo spirituale si trovi obbiettivato e, attraverso essa, parli ad uno spirito vivente. Come abbiamo mostrato, si tratta di un importo spirituale anche nel caso che il contenuto tematico non sia un essere spirituale ma, per esempio, il movimento di due lottatori, i monti o gli alberi di un paesaggio. Il conte­ nuto che importa non è, infatti, soltanto quello strettamen­ te tematico, ma anche il modo di vivere in cui questo è compreso, l’immagine complessiva e, in ultima analisi, la visione del mondo che lo avvolge e lo toglie dall’indifferenza e dalla casualità. Se ora teniamo presente il profondo parai-

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PARTE ΙΠ. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

lelismo in cui stanno, rispetto a questo fenomeno, l’opera d’arte e gli altri tipi di obbiettivazione (il concetto, la lingua e lo scritto, fino al più umile utensile) possiamo disporre la nostra trattazione secondo tre punti generalis­ simi. Ci si prenderà cura più avanti, e in altro contesto, di non smarrire la altrettanto profonda divergenza che separa le diverse obbiettivazioni. Per ora si tratta di sottolineare soltanto i fondamentali tratti comuni.

2. La formazione

reale sottrae l’obbiettivazione al

MUTAMENTO

Come si è visto, lo spirito obbiettivato è legato sempre, in tutte le sue specificazioni a una formazione reale, la quale è poi sempre cosa sensibile e non già, a sua volta, spirito rea­ le. È una formazione, in sé nient’affatto spirituale. Quali che siano le differenze, questo è un tratto fon­ damentale e costante dell’obbiettivazione. Se la formazione reale fosse spirito reale, sarebbe anche spirito vivente, perche solo lo spirito vivente è reale. Dovrebbe essere, allora, spirito personale o obbiettivo, soggetti però, ambedue, alla legge del mutamento e della transitorietà. La vita dello spirito vivente, infatti, sta essenzialmente nel suo mutare. Lo spirito obbiettivato, incatenato a tale mutamento, non potrebbe conservarsi oltre la vita mortale di quello spirito che lo ha prodotto. Dovrebbe trapassare con quello o tra­ sformarsi in qualcos’altro. Ma il fenomeno fondamentale e caratteristico che contraddistingue lo spirito obbiettivato, rispetto allo spirito vivente, è proprio la sua capacità di con­ servazione. Proprio in quanto è cosa non-spirituale, la formazione reale lo sottrae al mutamento dello spirito viven­ te. D’altronde, è proprio a causa di questo tipo di conser­ vazione che lo spirito obbiettivato non viene sollevato im­ mediatamente nel sovratemporale e nel sovrastorico. Dato

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XLIX. - MANIERA D’ESSERE DELLO SPIRITO OBBIETTIVATO

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che la sua conservazione è legata alla formazione reale sen­ sibile, la quale però, come ogni cosa, è distruttibile, lo spi­ rito obbiettivato, proprio in quanto obbiettivato, sarà an­ ch’esso caduco. Non è sottratto né al tempo né alla storici­ tà, ma ha anch’esso i suoi tempi, le sue fortune, la sua storia. Solo che si tratta di una storia diversa da quella dello spirito vivente che vi si è obbiettivato. Un edificio o una scultura sono distruttibili, una poesia può andare perduta per sempre. Ma possono anche conservarsi e durare stori­ camente più del loro autore, più del suo popolo e più dei suoi tempi. Tale persistenza è dovuta soltanto alla formazione rea­ le della cosa. Perciò ogni arte ed ogni spirito produttivo in generale, se produce cose importanti, non sceglie un materia­ le casuale o effimero, ma un materiale durevole. Il fatto che la parola scritta sia, anche in questo senso, aere perennius è assai importante dal punto di vista della cultura.

3. Senso ontico

della duplice stratificazione

In secondo luogo, la duplice stratificazione si presenta però sotto una nuova luce. L’esser sottratto alla vicenda del­ lo spirito vivente, caratterizza Io spirito obbiettivato solo in rapporto allo spirito vivente stesso. Ma poiché la sua per­ sistenza è soltanto relativa e non ne elimina la transitorietà, la differenza veramente decisiva andrà cercata altrove. La dualità delle maniere d’essere presenta infatti un altro aspetto. Si ricordi la legge, esaminata all’inizio, per cui lo spirito non compare mai, in alcuna delle sue forme d’essere, come « fluttuante » o ab-soluto, ma può sussistere sempre e solo in quanto spirito « poggiante » o portato (cfr. capp. Ili 1, 2; V 2). Questa è una legge generale dell’essere spiri­ tuale e riguarda, senza alcuna limitazione, anche lo spirito ob­ biettivato. Orbene, l’obbiettivazione consiste appunto nel fatto che

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PARTE ΙΠ. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

un contenuto spirituale sia svincolato e posto fuori dallo spirito vivente. Quest’ultimo, nella sua esistenza storica, è portato dalla vita organica di un popolo. Finché il popolo, nel riprodursi delle generazioni, conserva i propri contenu­ ti acquisiti (il patrimonio spirituale), sarà la stessa base vitale a portarli; ma essi saranno anche soggetti a mutare. Se invece un bene spirituale viene obbiettivato e, nell’obbiettivazione, avulso dallo spirito vivente e consegnato in una formazione indipendente, esso perderà quella base. Se non trovasse un’altra base reale su cui « poggiare » e fondar­ si, tale soluzione equivarrebbe a una distruzione. Il fenomeno rivela, al contrario, che esso non solo non incorre in una distruzione, ma viene addirittura sottratto a quella che lo spirito reale deve subire. Un importo spirituale non può evidentemente svincolar­ si dallo spirito vivente ed esteriorizzarsi in altra maniera d’essere, senza affidarsi ad altro portatore reale. Può ren­ dersi indipendente nei suoi confronti solo se, per così dire, trova accoglienza in un’altra formazione effettivamente esi­ stente. Non può « fluttuare » più di quanto non lo possa lo spirito vivente. Qui dunque abbiamo un rapporto di fonda­ zione ed un « poggiare » di nuovo tipo. In ogni caso, però, si tratta sempre di un rapporto di fondazione del tutto reale. La sola differenza è che questo è il supporto reale di un con­ tenuto spirituale irreale. L’essere cosale-sensibile, come essere portante, prende il posto dello spirito vivente e della sua base d’essere organica. Come ciò sia possibile è il vero segreto dell’obbiettivazione, l’importo metafisico del problema. In fondo, non è forse più enigmatico del fatto che lo spirito vivente sia portato dalla vita organica, tuttavia, è un altro modo di esser-portato. Là è osservata l’intiera gerarchia degli stra­ ti dell’essere (dall’essere cosale-materiale si passa allo spi­ rituale attraverso l’organismo e la psiche), è rispettato, in­ somma, l’ordine naturale degli strati. Nell’obbiettivazione tale successione è spezzata. L’essere spirituale poggia diret­ tamente sullo strato cosale nel quale è obbiettivato. Lo « spirito » è per cosi dire imprigionato e trattenuto nella

XLIX. - MANIERA D’ESSERE DELLO SPIRITO OBBIETTIVATO

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formazione reale materiale. La quale viene predisposta, dal suo autore vivente, in modo che un determinato contenuto spirituale possa immediatamente apparirvi. Tale contenuto è lo spirito che le è stato « conferito » ed è perciò in essa riconoscibile. È stato conferito da uno spirito vivente per uno spirito vivente, ma non dato a quest’ultimo direttamen­ te, come nella semplice ed effimera comunicazione verbale, bensì « affidato » senz’altro a un’impronta dentro una mate­ ria stabile, in vista della possibilità che qualche spirito vivo possa un giorno riconoscervelo. Come nella semplice plasmazione della materia cosale si possa operare quel conferimento, resta il problema meta­ fisico, non risolvibile con la sola analisi del fenomeno. Che tutto il rapporto sia solo un rapporto di apparizione, non semplifica il problema. Apparire è, sì, tutt’altro che esserreale; ma se è incomprensibile che lo spirito apparente sia portato, non è meno incomprensibile che lo sia lo spirito vivo e reale. Ciò che si può capire è soltanto che qui sta la radice della peculiare maniera d’essere dello spirito obbietti­ vato: il suo perdurare, la diversità della sua esistenza e del suo destino storico rispetto allo spirito comune vivente, la sua disponibilità invariata in epoche sempre diverse e per i più diversi spiriti viventi. Il senso ontico della duplice stratificazione e dell’eterogeneità delle maniere d’essere è di costituire il peculiare rapporto di fondazione nel quale soltanto, lo spirito assoluto e posto fuori dallo spirito viven­ te, acquista un essere storico, un’indipendenza e una dura­ ta.

4. Il

terzo fattore. porto

Triplice

articolazione del rap­

C’è una terza implicazione da esaminare e riguarda la modalità dell’essere indipendente dello spirito obbiettivato. Questo essere è indipendente solo nel senso che è svincolato

594

PARTE HI. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

e posto fuori, non già nel senso di una totale indipendenza dallo spirito vivente. Il rapporto tra il primo piano e lo sfondo dell’obbiettivazione si è rivelato, in tutto e per tutto, come un rapporto di apparizione: nella formazione reale accessibile ai sensi « appare » un’altra cosa, lo « spirito conferito ». Ma, dato che si tratta di un rapporto di apparizione, esso può funzio­ nare solo in presenza di un terzo momento, quello « a cui » lo spirito conferito appare e « per cui » c’è. Quest’ultimo può essere soltanto uno spirito vivente: il solo che possa capire e riconoscere (a patto, tuttavia, che sappia assumere un certo atteggiamento ed elevarsi a un certo tipo di com­ prensione). L’essere dello spirito obbiettivato dipende sem­ pre da questo terzo fattore, senza il quale non sussiste affat­ to. La circostanza osservata a proposito dell’opera d’arte, che esiste come tale solo per chi la osserva in un modo spe­ cifico, e non esiste in sé nella materia formata, vale in gene­ rale per ogni spirito obbiettivato. Un concetto, un codice scritto delle leggi che, in una data epoca della storia di un popolo, erano in vigore, un sistema filosofico che si è conser­ vato solo in frammenti non esistono nei segni scritti sul­ la pergamena ma solo, « mediati » da questi, « per » imo spirito vivo che sappia leggerli e riconoscerli. Dire che lo spirito obbiettivato ha sempre bisogno di una formazione reale, in sé non-spirituale, che lo porti e lo conservi ol­ tre il mutare dei tempi, è dunque troppo poco. I due strati fondamentali, data l’eterogeneità delle loro maniere d’essere, non sono sufficienti a completare il rapporto. Ci vuole sempre anche quello spirito vivente specificamente at­ teggiato cui lo spirito « conferito » e trattenuto nella pa­ rola, nello scritto o nella pietra, può apparire. Dunque l’intero rapporto costitutivo della complessa maniera d’essere dello spirito obbiettivato, ha una triplice articolazione: oltre al portatore reale-cosale e al contenuto spirituale che esso trattiene, interviene necessariamente, come terzo fattore, lo spirito vivente — in ambedue le sue forme, come personale e come obbiettivo. Perché il singolo

XLIX. - MANIERA D’ESSERE DELLO SPIRITO OBBIETTIVATO

595

riesce a trovare l’atteggiamento richiesto per la comprensione solo se la base spirituale comune nella quale è radicato, glielo permette; per converso, lo spirito comune ha una coscien­ za comprendente solo negli individui nei quali è vivo. Del resto lo spirito vivente, nella sua realtà storica, compare soltanto nella reciproca interiorità [Ineinandersein'] di spi­ rito personale e spirito obbiettivo. E solo « per » lui — solo in quanto la sua intuizione lo comporta riproducendolo in­ teriormente e riconoscendolo —, c’è l’essere dello spirito ob­ biettivato, sia quando perdura ininterrotto, sia quando risor­ ge dall’oblio o dal più remoto abbandono. In senso profon­ do, in ogni individuo che si eleva alla comprensione, è come se esso risorgesse a nuova attualità. Il che non si dà mai senza l’impegno e la spontaneità dello spirito vivente. Questo è il rovescio dell’affermazione che l’essere dello spirito obbiettivato non sia essere-in-sé, ma solo « esser-per-noi ». Che in tale proposizione sia espressa una ben precisa dipendenza dello spirito obbiettivato (il suo bi­ sogno di spirito vivo), non deve indurre a sottovalutare il suo « peso d’essere » nella vita complessiva dello spi­ rito. Si vedrà in seguito, che lo stesso spirito vivente, sia pu­ re in un altro senso, ha bisogno dello spirito obbiettivato, e che si tratta piuttosto di un peculiare condizionamento re­ ciproco ugualmente decisivo, d’ambo i lati, per la vita stori­ ca dello spirito.

5. Enigmaticità dell’« esser-dentro »

e apparenza

IMMEDIATA DEL « POGGIAR-SOPRA »

Il problema metafisico di come sia possibile che l’impor­ to spirituale « poggi » immediatamente « sopra » la mate­ ria formata, o come possa « trovarsi dentro » una formazione reale sensibile, si presenta qui, una volta di più, sotto una luce nuova. Abbiamo risposto più sopra: lo spirito non è « li dentro » in sé, ma solo « per noi ». Non che questa sia

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

una soluzione del problema, però ci aiuta ad intenderlo in un modo piu esatto. Per un’impostazione più esatta, bisognerà mettere espli­ citamente in campo il terzo fattore essenziale del rapporto complessivo. Allora il problema si modifica radical­ mente. Non si tratterà più di capire come lo spirito conferìto possa poggiare direttamente sopra una materia formata, ma come possa poggiarvi « per » uno spirito vivente in quanto comprende e riconosce. Cosi, l’iniziativa spontanea dello spirito comprendente si interpone nel rapporto e stabilisce, per cosi dire, il circuito tra la formazione reale portante e lo spirito portato. Perché l’importo spirituale dell’obbiettivazione appare solo « a lui ». La misura e l’intensità di questa funzione spontanea, e se essa vada intesa come un’intima ricreazione comprensiva, è cosa che richiede una ricerca specifica da condursi caso per caso secondo il tipo di obbiettivazione; cosa che non possia­ mo fare in questa sede. L’essenziale va però fissato subito: ed è che l’enigmatica elusione (o salto) dell’ordine ontico degli strati osservata, nell’obbiettivazione, tra materia cosale e spirito, è solo apparente. Se lo spirito conferito fosse « in sé » contenuto nella formazione reale cosale, si potrebbe benissimo parlare di elusione. Ma se il rapporto di inclusione dello spirito nella cosa è solo apparente, e sussi­ ste solo « per » un coglimento adeguato, non solo lo spiri­ to vi è riammesso nella sua funzione di collegamento ma, con lui, vi rientra anche il contesto degli strati inferiori del­ l’essere reale che lo sorreggono. Questi ultimi, infatti, portano e reggono costantemente lo spirito vivo in tutte le sue funzioni: anche in quella del riconoscere comprensivo, come si può facilmente di­ mostrare. Il leggere l’udire il vedere, infatti, non sono fun­ zioni solo spirituali, ma anche psicocorporali (psicovitali) e, se si risale più in là fino alle onde luminose o acustiche, funzioni puramente fisiche. In questa stratificazione delle funzioni, del resto, ritorna ben riconoscibile quella degli strati ontici portanti. Sta di fatto che noi siamo tanto abi­

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XLIX. - MANIERA D’ESSERE DELLO SPIRITO OBBIETTIVATO

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tuati a presupporre tali ovvietà, che neppure più le notiamo o, se le notiamo, le consideriamo inessenziali, come se non riguardassero più l’obbiettivazione. Invece proprio qui si chiude il circuito del rapporto complessivo. Tanto maggiore è quindi il peso di questo « terzo fattore ». Si scopre che esso coinvolge non solo lo spirito vivente in quanto tale, ma anche tutto il suo rapporto di fondazione ontica. La differenza tra la maniera d’essere dello spirito obbiettivato e quella dello spirito vivente si presenta quindi come segue: in quest’ultimo, i livelli ontici intermedi sono supporti immediati della sua esistenza reale, e come tali sono direttamente verificabili qualora esso sia fatto oggetto di considerazione specifica. Nello spi­ rito obbiettivato, viceversa, che sussiste solo in quanto è oggetto di considerazione, essi sono contenuti nella specie della considerazione e, in un certo senso, con la specie stessa di tale considerazione si identificano. Perciò non diventano in essa momenti oggettuali e nello spirito obbiettivato non appaiono. Ciò produce l’illusione che lo spirito apparente poggi direttamente sulla materia formata.

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6.

L’antinomia per cui lo spirito obbiettivato, « sot­ tratto » ALLO SPIRITO VIVENTE, È « NELLE SUE MANI »

Le determinazioni uscite dalla precedente analisi sem­ brano contenere un’antinomia. Da un lato, il fenomeno essenziale dello spirito obbiettivato lo dava come « svinco­ lato » dallo spirito vivente. Dall’altro si è visto che esso è, anzi, sempre nelle mani dello spirito vivente; che quindi, in ogni caso, non può esistere « senza » di esso. Tale antinomia è solo esteriore ed è prodotta da una considerazione superficiale delle due componenti del feno­ meno. È evidente che, nella tesi, si parla di uno spirito vi­ vente che non è quello di cui si parla nell’antitesi. In effetti, il rapporto complessivo potrebbe esser presentato come se­ gue: lo spirito obbiettivo sussiste, si, svincolato dallo spiri­ 40.

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PAKTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

to vivente che lo ha concepito e prodotto nella forma di una formazione reale cosale, ma non svincolato dallo spi­ rito vivente in generale. Lo spirito storico determinato è ca­ duco come quello personale dell’artista, del pensatore, del­ l’architetto; la sua opera però, portata dalla formazione rea­ le, resta disponibile « per » uno spirito storicamente vivente sempre nuovo e diverso. A questa necessità, per l’appunto, e cioè che il suo permanere è tale solo « per » uno spirito (non è inclusione reale nello scritto o nel marmo), l’essere dell’opera, in quanto contenuto spirituale, non può mai sot­ trarsi. Di qui la peculiarità della sua fortuna storica, che dipende dal se e quando vi sia uno spirito vivente capa­ ce di riconoscerlo. Dell’essere di un contenuto spirituale, nel senso di una sua esistenza storica, si può parlare in gene­ rale soltanto in epoche nelle quali vi sia una spirito capace di riconoscerlo, di corrispondervi, e per il quale esso costi­ tuisca di nuovo un bene spirituale da far proprio. Da due lati, dunque, lo spirito obbiettivato si riferisce allo spirito vivente e ne dipende. Originariamente esso è legato allo spirito che lo crea, poi allo spirito che lo ri­ trova; si può dire anche, allo spirito che lo trasmette e a quello che lo riprende: all’uno nel suo nascere, all’al­ tro nel suo persistere o rinascere. Quel primo vincolo si scio­ glie nella vicenda dello spirito vivente, ed è allora reciso una volta per tutte. Il secondo accompagna quella vicenda passo passo o viene ripristinato sempre di nuovo. Se anche quest’ultimo andasse perso, allora la perdita coinvolgerebbe lo spirito obbiettivato. Si può dire che lo spirito obbiettivato, non solo dipende sempre dal vivente, ma che la sua stessa fortuna storica è tutta quanta « nelle mani » di quest’ultimo. Esso non porta in sé Π proprio destino, ma fuori di sé, in quello che, di vol­ ta in volta, è lo spirito vivente; il che, ovviamente, non esclu­ de che lo stesso spirito vivente possa essergli fatale. Come è soggetto ad ogni fraintedimento e deformazione, cosi an­ che all’oblio, al disconoscimento, alla totale distruzione. So­ lo lo spirito vivente è attivo, creatore; sua è l’iniziativa e la sensibilità per quanto riguarda i tesori sepolti dello spirito

xlix.

- maniera

d’essere dello spirito obbiettivato

599

passato, e alla sua spontaneità è lasciata la loro « riscoper­ ta ». Sua è però, talvolta, la volontà distruttrice: la sua empie­ tà può infrangere idoli, abbattere città e templi, dare alle fiamme manoscritti. Per cecità o superstizione, può distruggere ciò che non potrà essere recuperato, ma può anche apprezzarlo e conser­ varlo religiosamente; e ciò perfino quando il contenuto spi­ rituale obbiettivato nel documento non gli sia minimamente comprensibile o accessibile. C’è, infatti, anche una co­ scienza oscura e presaga di tesori spirituali incompresi e per il momento incomprensibili. C’è, anzi, la cieca vene­ razione dell’incompreso come tale, (cosi come c’è una di­ struzione cieca). Ed è proprio quella ad avere, nel destino storico dello spirito obbiettivato, una parte determinante. Perché lo spirito vivente, nell’intensità del suo impegno, comporta anche una specie di coscienza istintiva della grandezza passata; dalle rovine di culture remote è percosso come da un mistero e le iscrizioni indecifrabili hanno per lui l’incanto di un enigma. Esso è già preso da ciò che non comprende e, da tale fascinazione, sorge la tendenza a conservare e a capire, una tendenza che, in prosieguo di tempo, può tramutarsi in un effettivo ritrovare e riconoscere. Di contro a questa coscienza crepuscolare di venerazio­ ne e di presagio, stanno epoche di distruzione barbarica, peraltro non troppo infrequenti nella storia.

Sezione II

L’ESSERE STORICO DELLO SPIRITO OBBIETTIVATO

Capitolo L

L’« ISTANZA » CONTENUTA NELL’OBBIETTIVAZIONE

1. Conservazione

e discontinuità temporale

Abbiamo delineato cosi il fenomeno dello spirito ob­ biettivato nei suoi tratti fondamentali. È emersa, da un lato la sua profonda diversità rispetto allo spirito obbiettivo e alla sua maniera d’essere, dall’altro, il rapporto che ad esso lo lega. Se ora teniamo presente che ogni spirito obbiet­ tivato 1) presuppone uno spirito vivente e 2) se ne svin­ cola in quanto si connette ad una formazione reale sensibi­ le, ma 3) nella separazione resta sempre dipendente dallo spirito vivo « per » il quale è, ciò che è, il nostro fenome­ no risulta chiarito quanto basta perché possiamo riprendere il problema proposto all’inizio: « che cosa » propriamente es­ so conservi nel corso del tempo. La difficoltà della questione era dovuta al fatto che in tempi di oblio non si può parlare di un vero e proprio essere del contenuto spirituale. La poesia che giace mano­ scritta in biblioteca, o la statua sepolta tra le rovine, in « questo » modo almeno, non ci sono per nessuno. E poiché

602

PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

esse non hanno altro essere che l’essere « per » qualcuno, è chiaro che in tal caso non c’è nulla. Non si può neppure af­ fermare che le figurazioni della poesia « dormano nella polvere di una biblioteca », come non si può affermare che dei ed eroi giacciano sepolti tra le macerie. Solo una realtà cosale può riempirsi di polvere ed esser sepolta, mentre quelle figurazioni sono prive di realtà. La sorte di una per­ gamena, di uno scritto ingiallito, sbiadito e ricoperto di nuova scrittura o di un marmo roso dalle intemperie, non è il destino delle figurazioni che in essi appaiono a chi li guar­ da. Eppure questo è legato a quella e ne dipende inne­ gabilmente. Ecco dunque il punto oscuro del problema: bisogna dire che nella cosa scritta non si conserva altro che la scrittura? Si tratta allora bensì di una conservazione inin­ terrotta, ma è solo quella della cosa, non quella dello spirito. O bisogna dire che si conservano le figurazioni della poesia? Allora è si lo spirito a conservarsi, ma la conservazione è discontinua e quindi non è propriamente conservazione. Cosi si arriverebbe a un’esistenza in determinati tempi, a una inesistenza in determinati altri. Con questo ci si rende ragione del fatto che un bene spirituale sia « nelle mani » dello spirito vivo e mutevole, ma non del potere stimolante che ne emana e che si con­ serva anche là dove esso dorme misconosciuto e incompreso. È vero: un bene spirituale esiste solo per uno spirito che trova l’angolo visuale appropriato. Spetta allo spirito viven­ te trovarlo. D’altra parte deve pur esserci una ragione, per­ ché tale angolo visuale sia trovato sempre di nuovo. Ci sono infatti opere letterarie ed artistiche che nel corso dei tempi risorgono più volte ed ogni volta rientrano, col loro contenu­ to spirituale, nello spirito vivente, ne diventano patrimo­ nio ed. insieme continuano ad agire in lui, a dargli forma e impulso.

L.

-

l’« istanza

» dell’obbiettivazione

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2. Selezione delle epoche. Falsa equiparazione con l’essere ideale

Dunque, bisogna dire che esse emanano pur sempre una strana forza, a meno che siano proprio sepolte e dimenticate, anche se restano incomprese. Le formazioni reali sono vi­ sibili, sono percepibili anche da chi non le capisce. In un certo senso, non lasciano tranquillo lo spirito vivente, lo ten­ gono in iscacco, lo costringono a ripetuti tentativi per pene­ trare in un’« opera » del cui contenuto è presago. Se conside­ riamo la fortuna complessiva di una grande poesia su un arco storico molto ampio, salta all’occhio che, rispetto ad essa, la storia si divide in epoche che la comprendono ed epoche che non la comprendono: le individualità storiche dello spi­ rito vivente si dividono in due campi, quelle per le quali le figurazioni della poesia hanno un essere, e quelle per le quali non l’hanno. Ciò che cambia in questi casi, non sono le figurazioni della poesia, ma lo spirito vivente. Ovviamente anch’esse appaiono mutate secondo il modo d’intenderle di quest’ul­ timo o la sua preferenza per certi loro aspetti. Ma tale muta­ mento avviene entro i limiti tracciati dal carattere stesso di tali figurazioni: non ha la stessa mobilità di cui gode lo spirito vivo nelle sue creazioni, e i tratti essenziali del fenomeno-base restano costanti. Tutto questo, per quanto incontestabili siano i fenome­ ni, sembra intanto aggravare l’aporia della conservazione. Ma, se è vero che dall’obbiettivazione non-compresa emana sempre una specie di « forza », si sarebbe indotti ad at­ tribuire al contenuto spirituale un essere indipendente, del genere, diciamo, di quell’« essere ideale » che, nella storia della metafisica, è stato spesso attribuito all’ideale, al generale, aìl’essentia. Una simile metafisica dell’essere spirituale ci allontanerebbe però in modo preoccupante dal fenomeno effettivo. Determinanti sono i seguenti punti: 1) Un essere ideale dovrebbe possedere un’assoluta so­ vratemporalità e sovrastoricità. La sua conservazione sareb­

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

be perfetta e sarebbe, anzi, una pura identità senza tempo. Un bene spirituale, invece, è qualcosa che è nato e trapassa, si conserva solo in senso relativo ed è esposto, non solo al­ la distruzione, ma anche ad un certo mutamento nello spirito vivo che lo coglie. 2) L’essere ideale è caratterizzato dal fatto di esiste­ re puramente per sé, senza legame con alcunché di reale, e di poter-essere còlto per se stesso, senza ricorso — anzi, addirittura con una certa opposizione — al reale. Questo vale per le pure animalità, per le leggi matematiche, per i tipi fondamentali presenti nella dimensione dei valori. Se le figurazioni della poesia, i modelli e le immagini del mondo scientifiche e filosofiche, le rappresentazioni miti­ che, appartenessero al dominio dell’essere ideale, la loro conservazione storica non richiederebbe affatto una forma­ zione reale (lo scritto, il marmo, ecc.); esse sarebbero sem­ pre intuibili autonomamente e senza la guida offerta dal­ l’opera di uno spirito passato; dovrebbero sempre di nuovo presentarsi, in visione spontanea, ad ogni spirito che abbia gli occhi per vederle. Ma è proprio ciò che, nel lo­ ro caso, non accade: poeti nuovi, in epoche nuove, fog­ giano nuovi fantasmi, nuovi pensatori delineano immagi­ ni nuove del mondo. Neppure il ritorno di certi motivi di fondo può illuderci in proposito. Un bene spirituale c’è perché è stato fatto e, in quanto è lo stesso, non può essere fatto due volte. 3) L’essere ideale non esiste «per » qualcuno soltanto, ma in sé. Non dipende affatto da una contro-prestazione dello spirito vivente, e questo spiega sia la sua sovratem­ poralità, che la sua indipendenza da ogni e qualsiasi forma­ zione reale. Caratteristica di un essente-in-sé è però l’indiffe­ renza rispetto ad ogni esser-còlto, dunque rispetto al suo pro­ prio esser-oggetto. Un bene spirituale, invece, non pos­ siede altro essere che il suo esser-oggetto per uno spirito vi­ vente e, senza questo fattore reciproco, non c’è affatto.

L. - l’« istanza » dell’obbiettivazione

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3. Il

richiamo rivolto dall’obbiettivazione allo spi­ rito VIVENTE

In base alla sua maniera d’essere, lo spirito obbiettivato si dispone secondo il triplice rapporto indicato. Con­ nesso da un lato alla formazione reale e, dall’altro, allo spi­ rito vivente, è portato da ambedue. Ciò Io distingue radi­ calmente dall’essere ideale, cosi come la sua natura di sem­ plice apparizione lo stacca dall’essere reale. Questo è, evidentemente, il punto da tener saldo quando ci si chiede che cosa in esso si « conservi » storicamente. Non si potrà dare altra risposta che quella accennata: si con­ serva immediatamente solo la formazione reale sensibile, non lo spirito « conferito ». Ciò che giace in biblioteca è solo la pergamena scritta; ciò che è sepolto tra le macerie è solo il marmo scolpito, non la divinità. Quindi la conservazio­ ne dell’importo spirituale è legata alla casualità della conserva­ zione materiale della pergamena e del marmo. Ma con questo, è anche chiaro che abbiamo toccato solo metà della questione. Perché la caratteristica di questa conservazione, è, appunto, di conservare mediatamen­ te qualcosa di più e d’altro. Si badi soltanto a non cercare questo qualcos’altro nell’importo spirituale stesso: non so­ no le figurazioni stesse della poesia, le immagini del mondo, le divinità a conservarsi nella formazione reale. In tal modo si disconoscerebbe la funzione corrispondente dello spirito vivo, che costituisce l’elemento non conservabile nella maniera d’essere dell’importo spirituale. Senza di lui, quelle fantasie e quelle immagini del mondo non possono conservarsi, benché proprio lui sia il fattore mutevole. Si tratta soltanto di questo: con la formazione reale ed oltre ad essa, c’è, nell’obbiettivazione, qualcosa che si con­ servi indipendentemente dal mutare dello spirito vivente? Ebbene questo qualcosa non potrebbe identificarsi né con la formazione reale stessa, né col contenuto spirituale portato, e neppure con la comprensione dello spirito vivo. Abbiamo già detto come l’opera plasmata dalla mano del­

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

l’uomo, anche se incompresa, sia riconoscibile come ta­ le ed eserciti un suo fascino peculiare: essa tradisce infatti lo spirito umano che l’ha prodotta e vi si è obbiettiva­ to, molto prima che esso stesso vi diventi riconoscibile nel­ la sua conformazione specifica. Lo scritto e la pietra scolpi­ ta hanno già, nel tipo stesso della loro formazione reale, qualcosa che invita sempre lo spirito vivo che le vede, a guardarle meglio. Dalla formazione reale dell’obbiettivazione, si rivolge a lui un’istanza, un richiamo che egli sente effettivamente come tale. Anche questo richiamo non è nulla di reale — solo uno spirito vivente può avanzare una pretesa effettiva —, ma è solo apparente, cosi come apparente è l’importo spirituale. Dal quale ultimo si distingue solo quantitativa­ mente, per la profondità della comprensione che ri­ chiede. Basta infatti un minimo di sensibilità e di adesione, quale lo spirito vivente, anche al più basso livello, sempre comporta, per sentire in generale quel richiamo. Del resto, lo spirito che si è fatto autore della formazione obbiettiva, ve lo ha posto effettivamente, ha disposto i segni scritti ed ha formato il materiale, proprio in modo da renderlo per­ cepibile. Lo spirito può non-comprendere a molti livelli diversi. In tutti possiede però un caratteristico sapere anticipativo di ciò che non è in grado di cogliere nel suo contenuto pro­ prio. Chi non comprende una lingua sa tuttavia, quando la sente parlare, che si tratta di comunicazione e scambio di pensieri. Chi non sa leggere, vede però che la scrittura signi­ fica qualcosa. Chi sa leggere ma non riesce a capire il senso, si rende pur sempre conto che si tratta di un determinato contenuto di pensiero: di qui lo stimolo a impadronirsi di tale contenuto. Anche il barbaro può, quindi, presagire nel­ la scrittura qualcosa che per lui è un segreto. Che ci sia dentro un senso e un significato, egli lo sa prima ancora di saper leggere: che interpreti poi il senso dei caratteri runi­ ci, in modo primitivo, come una magia, è del tutto seconda­ rio. La provocazione che emana dalla materia formata può assumere molte forme: ciò che in essa si sente, è sempre

L.

-

l’« istanza

»

dell’obbiettivazione

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almeno un richiamo. Il quale, pur essendo apparente, si conserva con la materia formata: finché c’è una storia umana, c’è sempre uno spirito vivo e, per lo spirito vivo, il contat­ to con l’opera dell’uomo ha sempre lo stesso effetto stimolan­ te.

4. Porre

un’istanza e rivolger la parola

Tutto questo si può esprimere anche cosi: dato che lo spirito vivente rappresenta, in quella necessaria relazione in cui l’importo spirituale obbiettivato può apparire, il momento opposto e corrispondente della formazione reale, finché tale corrispondenza sussisterà e la formazione reale si conservi accessibile ai sensi, sarà garantita in ge­ nerale la possibilità dell’apparizione. Tutto il resto dipende dalla conformazione specifica dello spirito vivente. Se que­ sti, nella formazione reale, sente solo l’istanza generica, ha si un oscuro sentimento del restante contenuto, ma non se ne impadronisce; se invece riesce anche a trovare l’atteg­ giamento giusto per poterlo comprendere, allora lo fa ap­ parire. Naturalmente i concetti di istanza, di provocazione o di richiamo sono, qui, soltanto delle metafore, non del tutto sufficienti. Non si tratta di un’istanza che qualcuno volutamente ci ponga. Neppure il riferimento allo spirito dell’autore, che effettivamente poneva tale istanza nel­ la sua opera, cade a proposito: egli infatti non è più qui a farla valere. I posteri hanno a che fare solo con l’opera stes­ sa, e ciò che vi sentono sussiste solo « per » la loro sensibili­ tà. Le nostre metafore, in realtà, esprimono soltanto l’ef­ fetto che la formazione reale fa sullo spirito vivente. Per quest’ultimo, infatti, la stessa presenza incompresa di un’im­ pronta umana ha già il valore di un’istanza. Egli si sente preso dall’opera ancor prima di comprenderla a sua volta: non

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

se ne libera più, è stimolato a penetrarla. Ed è noto quali enormi forze questo stimolo possa scatenare: in epoche di grande sviluppo della ricerca, si possono ricostruire di sana pianta lingue e letterature ormai morte e disperse. Per lo piu, naturalmente, la peripezia non è tanto labo­ riosa, l’enigma è di facile soluzione: ma per lo più ci si occupa di culture storicamente vicine, ancora accessibili attraverso la tradizione viva. Anche nelle lingue tutto­ ra comprensibili, o che si possono imparare, c’è il feno­ meno della sopravvivenza scritta. Infine, le arti plasti­ che e figurative parlano senz’altro un linguaggio sempre comprensibile, almeno nell’essenziale. Si può dire allora che la formazione reale ci rivolge ancora immediatamente la parola, e che basterà guardare o leggere attentamente, con dedizione profonda. Ma questa « parola » che ci viene rivol­ ta è ancora quella « richiesta » che ci è stata fatta e alla quale siamo stati sensibili. In questo senso, si tratta sempre della stessa istanza, che promana dalla formazione reale. E proprio nel fatto — possiamo ora aggiungere —, che l’istanza si rivolge sempre ad ogni spirito vivo che incon­ tri l’opera fatta, consiste quel « più » di conservazione, quel qualcos’altro che si conserva insieme con la formazione reale.

Capitolo LI

STORICITÀ E SOVRATEMPORALITÀ

1. L’obbiettivazione

e lo spirito ad essa adeguato

All’inizio della nostra ricerca sullo spirito obbietti­ vato, abbiamo dovuto provvisoriamente prescindere dalla sua storicità. Nel corso della ricerca però, il problema della sua storicità è tornato a galla. La stessa questione parziale che ci aveva costretto a prescinderne e cioè quella relativa al modo di conservazione, ci ha ricondotti alla prospettiva della temporalità. Le ultime considerazioni però, hanno mostrato che la maniera d’essere dello spirito obbiettivato Coincide quasi intieramente con la sua storicità. E poiché quest’ultima è risultata diversa da quella dello spirito viven­ te, anche l’ulteriore serie di problemi relativi alla maniera d’essere andrà studiata nel particolare tipo della sua sto­ ricità. La triplice articolazione del rapporto ha mostrato che l’essere storico dello spirito obbiettivato è portato da due lati. Non solo dalla formazione reale — come potè sembrare dapprincipio —, ma anche lo spirito vivente. Questi due fattori, pur profondamente eterogenei, vi intervengono sempre. Solo la presenza della loro correlazione fa si che un bene spirituale « ci sia ». La correlazione non è permanen­ te né indissolubile e, del resto, neppure Tesserci di un bene spirituale è qualcosa di indistruttibile. Vero è, che non si dissolve tanto facilmente; anche quando non presenta un carattere di totale perfezione, per lo più lo suggerisce — a chi ne sente il « richiamo » —, e questo basta a non lasciar

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PARTE ΙΠ. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

svanire completamente il bene spirituale. Ma la correlazio­ ne può anche sciogliersi del tutto e allora lo spirito obbiet­ tivato cessa storicamente di « essere ». Se ora designamo quello spirito vivo che è sufficien­ te come termine relativo della correlazione e che basta, perciò, a una comprensione del bene spirituale, come lo spi­ rito « ad esso adeguato », allora potremo dire anche, inversamente, che ogni contenuto spirituale obbiettivato ed accessibile in una formazione reale, « c’è » sempre per ogni spirito che gli sia adeguato. Finché sussiste uno spirito ade­ guato ad una determinata obbiettivazione, anche il contenu­ to spirituale di questa continua a sussistere ininterrotta­ mente nella storia; trova cioè, nel divenire dello spirito con­ tinuamente vivente, una continuità ininterrotta di atteggia­ mento sufficiente. Cosi nello sviluppo ininterrotto di una medesima cultura — in una nazione o in uno spazio cultura­ le più ampio —, anche certe figurazioni poetiche continua­ no a vivere. Allora l’atteggiamento adeguato non fa che tra­ mandarsi via via e, nello spirito vivo, tiene in vita con un certo margine di variabilità sempre gli stessi elementi fon­ damentali. Viceversa, se rivolgimenti storici intervengono nella vita dello spirito ed antiche culture periscono, ne nascono di nuove su basi modificate. Allora l’importo spirituale temporaneamente scompare per ridiventare accessibile al nuovo spirito vivente soltanto a un certo momento della sua maturazione e del suo sviluppo. Perché, finché restano le formazioni reali che esso ha lasciato, la disponibilità del­ l’antico contenuto obbiettivato non viene meno e dipende, dunque, dall’altro fattore della correlazione. Il quale rivive tutte le volte che lo spirito vivente si sforza di adeguarvisi.

2. Adeguatezza

e coscienza storica

Questo aspetto reciproco del rapporto è particolarmen­ te interessante, perché mette in evidenza, nella storia, l’in­

LI. - STORICITÀ E SOVRATEMPORALITÀ

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dipendenza dello spirito obbiettivato dalla coscienza storica dello spirito vivente. La cosa non è affatto ovvia. Data la dipendenza dello spirito obbiettivato dalla comprensione dello spirito viven­ te, ci si dovrebbe propriamente attendere l’opposto. A nes­ suno sfugge che la comprensione dell’opera dello spirito passato è una semplice funzione del sapere storico circa ta­ le spirito passato. È del resto opinione assai diffusa — e particolarmente cara allo storicismo contemporaneo —, che non sia possi­ bile comprendere l’arte, la poesia, l’ideologia di un’epoca trascorsa, se non in base a un sapere storico circa lo spirito complessivo di quell’epoca (ossia, com’era la « vita » in ogni suo aspetto). Questo punto di vista ha scatenato una vera caccia all’erudizione enciclopedica e al particolare biogra­ fico ritenuti necessari alla comprensione del poeta, del pen­ satore, dell’artista. In verità, essa nasconde tutt’altro: in parte un interesse erudito fine a se stesso, in parte una cu­ riosità meschina per le debolezze umane da cui neppure i grandi vanno esenti. Cosi, a momenti si dimenticava che l’artista in quanto artista va compreso nelle sue opere, il poeta nella sua poesia, il pensatore nei suoi pensieri. In quella impostazione, naturalmente, c’è anche del vero: il sapere storico su una data epoca offre la chiave per comprendere molti particolari, specie per quanto riguar­ da il contenuto tematico delle arti, le loro occasioni, moti­ vazioni, presupposti ideologici. Il radicamento mitico, re­ ligioso, culturale delle arti, sta a confermarlo. Se però quell’impostazione diventa generale ed esclu­ siva, si cade in un evidente controsenso. A quali fonti farà appello Io storico che, prima di ogni comprensione delle opere, volesse istruirci sulla vita e lo spirito di un’epoca? In sostanza, tutto il nostro sapere e la nostra intelligenza storiografica non può percorrere che un’unica strada: quella che passa attraverso le reliquie dello spirito obbiettiva­ to. Non si tratterà, ovviamente, di opere d’arte e di poe­ sie soltanto: a queste vanno aggiunti tutti i documenti scritti e ogni genere di obbiettivazione. Tutto ciò che

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

lo storico designa come « fonte » è appunto obbiettivazione — che si tratti di testimonianze autentiche del­ l’epoca, o di testimonianze posteriori. In ogni caso, la base del riconoscimento è proprio l’obbiettivazione. Ma que­ sto è poi lo stesso riconoscimento che si voleva fon­ dare per mezzo della ricerca storico-erudita. Si tratta di un circolo in cui la possibilità che si intende fondare viene già presupposta. A ben guardare invece, nelle arti il rapporto è piuttosto l’inverso. Proprio l’opera d’arte o di poesia che proviene da una cultura straniera e ci investe col soffio di uno spi­ rito straniero, può darci l’occasione più concreta di pene­ trare con lo sguardo in questo spirito e in questa cultura. Essa può riuscire proprio là dove ogni altro e più vasto sape­ re storico fallisce. Che cosa sapremmo dello spirito greco, del­ la vita effettiva e delle passioni di quegli uomini, se almeno una parte della loro poesia, della loro scultura e delle loro opere architettoniche non ci fosse pervenuta? Le testimo­ nianze delle epoche successive non sarebbero bastate a dar­ cene un’immagine intuitiva. Ma non basta. Non si tratta, da parte nostra, del solo sapere. L’opera d’arte vuol essere riconquistata in una intui­ zione artistica. Si tratta cioè di ritrovare in tale intuizione l’atteggiamento adeguato. Nessun grande rinascimento sto­ rico e nessuna riviviscenza dell’arte e della poesia del pas­ sato ha mai avuto inizio dal sapere storico; ma sempre lo hanno portato con sé ricevendone, naturalmente, a loro vol­ ta impulso e conforto. L’impulso originario tuttavia sta nell’insorgere autonomo di un gusto artistico e di un senso della forma che si rivela adeguato ai grandi capolavori del passato. Donde abbia origine questa sensibilità formale, non è dato giudicare. Non è certo il caso di cercarne le ragioni nelle circostanze esteriori — come spesso si fa — perché tali ragioni sono interne al peculiare sviluppo dello spirito obbiettivo vivente che, come quello individuale, può solo venir descritto, non spiegato.

LI. - STORICITÀ E SOVRATEMPORALITÀ

3. Adeguatezza

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e continuità nello spirito vivente

Su questa via si può incorrere in un altro equivoco. Si potrebbe credere che uno spirito obbiettivato possa conosce­ re una rinascita solo a patto che qualcosa ancora sopravviva di quello spirito vivo che lo ha prodotto e fissato. Tale sopravvivenza non consiste in un sapere storiogra­ fico, non ha con quest’ultimo nulla a che fare, ma è quel pro­ trarsi « tacito » del passato dentro il presente, che permette di dire che lo spirito di un tempo non è ancor morto, che continua a vivere sotto altra forma e che cova sotto le ceneri. Per esempio, si potrebbe ricondurre il rinascimento dell’arte greca a una certa continuità e sopravvivenza diret­ ta di una sensibilità artistica, che era quella dei Greci, nella tradizione artistica dei popoli europei — attraverso la tarda romanità e le scuole latine del Medioevo. In questo caso, evidentemente, non si può escludere una sopravvivenza di­ retta, benché le sue fila siano estremamente sottili rispetto alla ricchezza dei motivi nuovi e originali. Tuttavia, anche se essi fossero più forti, non possiamo concluderne che, in gene­ rale, una continuità di tradizione artistica, sia pure latente e ormai ignara della sua origine, sia il presupposto neces­ sario della rinascita storica di un’arte passata. Contro questa tesi, infatti, si possono addurre esempi per i quali non è il caso di parlare di una continuità. Si pensi sol­ tanto al destarsi di un interesse vivo per l’arte cinese e giap­ ponese in Occidente. Qui, in ogni caso, non è rilevabile alcun influsso, degno di questo nome, dall’Estremo Orien­ te, sulla storia dell’arte e del gusto europei. Questa si è mos­ sa per secoli su una linea completamente diversa, e la com­ prensione per l’arte orientale ha dovuto superare l’ostacolo di una profonda estraneità. In verità, all’interno della pro­ pria autonoma linea di sviluppo essa entra, ad un certo pun­ to, in una fase che, da sé, trova la prospettiva giusta, dal­ la quale quelle opere d’arte diventano in quanto tali « visi­ bili » per lei. Lo stesso vale per la scoperta dell’arte egizia, babilonese, indiana e per culture ancor più remote, quelle 41.

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

dei primitivi, dei cavernicoli delle origini, ed altre ancora. La comparsa, in una data epoca storica, di una compren­ sione di questo genere, può sempre sembrare casuale. In ge­ nerale, nella considerazione della fortuna storica di un’obbiettivazione spirituale, bisognerà riservare una parte più o meno importante al « caso ». Ma se tale comprensione cade proprio in un’epoca che, in ogni campo, si rivolge con particolare interesse a ciò che è straniero ed esotico, anche la casualità finisce coll’apparire assai dubbia. E dovremo ve­ dervi piuttosto una specie di legalità interna allo svilup­ po dello spirito vivente. Come minimo, si potrà sostenere che la tendenza spon­ tanea di tale orientamento e di tale interesse abbia le sue particolari ragioni nell’interno sviluppo di una data sensi­ bilità artistica. Ne è forse una conferma la nota osservazio­ ne, secondo cui le epoche caratterizzate da tale interesse — da una specie di espansione del gusto e dell’intelligenza —, non sono poi quelle che approfondiscono in modo nuovo e originale la propria linea.

4.

Temporalità dell’essere storico e atemporalità DEL CONTENUTO

Oltre a questo genere di questioni, un problema a sé è costituito dalla temporalità dell’essere storico — riconosci­ bile, da un lato nella sua dipendenza dal perdurare della formazione reale, dall’altro, nella presenza di uno spirito adeguato. A tale temporalità si contrappone, infatti, la fa­ mosa sovratemporalità attribuita all’opera d’arte e ad ogni bene spirituale in genere. Qui non si tratta più del­ l’opinione, già da noi respinta, per cui lo spirito obbiettiva­ to possiederebbe un in-sé ideale. Tale opinione fu esami­ nata in ordine ad un altro gruppo di problemi — quello relativo al modo della conservazione —, e non fu difficile di­ mostrarne l’erroneità. Con questo, però, la pretesa atempo­ ralità non è ancora liquidata.

LI. - STORICITÀ E SOVRATEMPORALITÀ

615

Che le figurazioni della poesia non entrino nella realtà, né soggiacciano al nascere e al perire che vi domina, che anzi si sottraggano del tutto alla sequela degli eventi reali, allo stato delle cose, alla situazione, all’attualità, nessuno vorrà contestare. E non c’è dubbio che si presentino costan­ temente uguali a se stesse, mai coinvolte nel flusso degli eventi e mai mutate, ogni volta che torniamo a prenderle in considerazione. Dobbiamo credere che tale sovratem­ poralità sia frutto di una pura illusione? O il pregiudizio na­ sce dallo scambiare avventatamente la relativa conservazio­ ne storica dell’opera oltre la vita e l’epoca del suo autore, con una specie di eternità dello spirito? Sarebbe un errore grossolano e neppure degno di confutazione: a fugarlo basta l’evidente fragilità della formazione reale. Eppure, la cosa non è tanto semplice. La confusione tra conservazione storica ed autentica atemporalità è ov­ viamente possibile, ma solo in teoria. Tuttavia, non di que­ sto si tratta, perché nella vita stessa e nella dedizione al­ l’opera, nessuno identificherà la sospensione dei fantasmi poetici con la durata dello scritto. L’essenziale è qui, piut­ tosto, che un determinato senso della sovratemporalità conviene effettivamente a certi tipi di contenuto spi­ rituale, che non sono quelli delle creazioni artistiche e poe­ tiche. Evidentemente, per chiarire la situazione importa deter­ minare con esattezza il carattere di questa sovratemporalità. Solo allora se ne potrà discutere la compatibilità con la leg­ ge della limitata conservazione storica. Limitiamoci innanzitutto all’opera d’arte. Che dire della sua sovratemporalità? Essa non riguarda evidentemen­ te né la formazione reale né la trasparenza del contenuto spirituale di sfondo; e meno che mai l’apparire di tale con­ tenuto allo spettatore. Anzi, questo apparire è connesso se mai all’esistenza e all’atteggiamento dell’osservatore in una data epoca. La sovratemporalità riguarda invero esclusi­ vamente il contenuto di sfondo in quanto tale, e di esso, in­ teso nella sua purezza in sé — ossia, a prescindere dal suo

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

tipico « essere per lo spettatore » —, si rivela sempre come un carattere essenziale. Del resto, non c’è bisogno di un’operazione particola­ re per prescindere dallo spettatore: ciò è sempre implici­ to nel guardare artistico e nella « dedizione ». Chi guarda, non ha per oggetto anche il suo stesso guardare: le figura­ zioni dell’arte gli appaiono, ma lo sguardo non appare ac­ canto a loro. Egli non ne sa nulla e non ha bisogno di sa­ perne nulla: si sprofonda nella cosa vista e questo significa senz’altro che prescinde completamente da sé, dimentica se stesso e il mondo reale. Quindi, egli esclude sempre dal suo sguardo 1’« esser-per-lui » di ciò che osserva, o meglio, non ha alcun bisogno di escluderlo perché, nel suo guardare, non vi ha ancora riflettuto sopra. E qualora, da filosofo, vi avesse riflettuto, guardando poi con l’occhio dell’arte non vi tro­ verebbe tuttavia oggettualmente il modo dell’esser-per-lui. Continuerebbe, cioè, a guardare prescindendo da esso.

5. Apparente atemporalità

e apparente idealità

Ma il fatto più straordinario è proprio questo: benché lo spettatore prescinda da se stesso e dall’« esser-per-lui » di ciò che gli appare, ciò che cosi gli appare non decade a parvenza di realtà. L’effetto non è quello di una realtà finta o illusoria. Proprio il prescindere dall’esser-per-lui comporta un sapere circa l’irrealtà di ciò che gli appare e il suo esserepura-apparenza. E tuttavia, ciò che gli appare assurge a un’obbiettività che, nel suo sentire, lo fa apparire indipen­ dente dal suo sentire stesso. Ma si tratta di un’« altra obbiet­ tività », che non è quella del mondo reale in cui lo spettatore vive. Il veduto gli sta dinanzi, appunto, come qualcosa che si sottrae a quel mondo reale — e ciò nella misura in cui gli appare sottratto alla soggettività del suo proprio opinare. Ecco perché le figurazioni della poesia, la vita e il mo­ vimento nelle sculture, la profondità spaziale in un paesag­

LI. - STORICITÀ E SOVRATEMPORALITÀ

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gio dipinto, il volto e l’espressione in un ritratto appaiono allo spettatore sospesi in una sfera atemporale. Se l’intenzione fosse quella di dargli l’illusione della real­ tà, essi dovrebbero apparirgli inseriti nel contesto della real­ tà e nella temporalità che le è propria. Invece gli appaiono disinseriti e sospesi: nel loro puro contenuto sono svinco­ lati sia dal tempo che dallo spazio, e quindi dal contesto reale. Che il movimento e la vita stessa, in quanto intuiti in quelle opere, contengano a loro volta la forma di una spa­ zio-temporalità, non cambia nulla: come l’ambientazione storico-cronologica di un dramma, con i suoi personaggi e le sue vicende, non ne elimina il carattere di sublimazione. Che il 'Wallenstein « si svolga » durante la guerra dei Trent’anni riguarda solo il tempo che appare nel dramma. Il « tempo nel dramma » non è il tempo in cui il dramma viene rappresentato sulla scena e vissuto dallo spettatore. Solo que­ st’ultimo merita il nome di tempo reale; ma non è questo che appare allo spettatore, bensì l’altro, il tempo sublima­ to nell’atemporale. Analogamente, la luce e la spazialità apparenti in una pittura non sono lo spazio in cui è appeso il quadro né la luce che lo rischiara. Dal punto di vista del­ la spazialità reale, lo spazio che appare è dovunque e in nes­ sun luogo, ossia, è realmente non-spaziale (non ha alcun luo­ go nello spazio effettivo). Lo stesso dicasi per la sospensio­ ne del « tempo dell’azione » drammatica dal tempo reale in cui lo spettatore vive e guarda e, inoltre, per l’identi­ tà di tale tempo apparente in ogni replica dello spettacolo (cioè, nella non-identità del tempo reale). Il contesto reale che nel dramma appare, il terreno storico e la colloca­ zione cronologica dell’azione, sono trasportati anch’essi in una sfera atemporale. L’indipendenza dell’« azione » e della sua comprensibilità dalle cognizioni storiche dello spet­ tatore sta a dimostrarlo. Emerge qui un particolare senso di sovratemporalità che, di fatto, si addice al contenuto delle opere d’arte e di poesia, e non contraddice alla storicità della loro maniera d’esse­ re. I personaggi della poesia, con le loro imprese, passioni e

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

destini, « appaiono » allo spettatore sospesi in una sfera senza tempo — l’eroe in un’eterna giovinezza, l’intrigante in un’eterna invidia, il loro destino in un’eterna tragicità. Tutti i caratteri, i rapporti, le situazioni « appaiono » collocati nella dimensione dell’essere ideale. Lo stesso vale per il movimento dei lottatori, per l’espres­ sione di un volto ritratto. Il sorridere di Monna Lisa, un che di effimero, la cosa piu fuggevole che si possa concepire, è « catturato » nell’immagine, sottratto al flusso. Questo ac­ cade a tutto ciò che l’arte riesce ad esprimere. Si tratta di formazioni che, in effetti, ci stanno davanti come « immorta­ late ». Torniamo a guardarle negli intervalli delle nostre occupazioni e le ritroviamo identiche a se stesse — il grande nella sua eterna grandezza, l’allegro nella sua eterna allegria, l’effimero nella sua eterna fugacità. L’arte non li ha soltanto fissati ma, a suo modo, li ha effettivamente sottratti al tem­ po, resi eterni. Ma, appunto, tale eternità è apparente e non sussiste in sé, come del resto non sussistono i personaggi e le situazio­ ni. Essa partecipa della maniera d’essere dello « sfondo », la quale consiste appunto nell’esser vita soltanto apparente. Quella sovratemporalità che inerisce inscindibilmente al carattere dell’opera d’arte, qualora non la sostituiamo ar­ bitrariamente con un’altra (fìnta o costruita), non è altro che l’atemporalità apparente sul suo sfondo. Per questo i caratteri, le figure, le azioni, la vita e il mo­ vimento appaiono sublimati nella sfera ideale. Ciò che è sen­ za tempo ha infatti le caratteristiche dell’idealità. La relazione esistente tra l’idealità e l’esser-per-noi, del resto, non è di tipo concessivo: non « benché » abbia un puro essere apparente, ma proprio « perché » non ne ha al­ tro, lo sfondo appare sospeso nell’idealità. Cosa che non gli sarebbe stata possibile né come reale, né come storicamente condizionato. Ciò non significa, ovviamente, che quelle figurazioni possiedano un autentico essere ideale — come quello delle essenze —, anche se mantengono la stessa atem­ poralità ed eternità. Essendo figurazioni solo apparenti, la mantengono solo in quanto appaiono, non in quanto sono.

LI. - STORICITÀ E SOVRATEMPORALITÀ

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In questo senso, non partecipano affatto di tale essere ideale. Più semplicemente, possiamo dire che la loro stessa idealità è solo idealità apparente — proprio come la lo­ ro atemporalità è atemporalità solo apparente. Non, dunque, idealità in sé, come quella delle essenze. Se fosse idealità au­ tentica, in sé, le figurazioni della poesia dovrebbero sussiste­ re in una libera sospensione, sottratte alla deperibilità dell’opera e indipendenti da uno spirito che le comprenda. Ma non è questo il caso: esse compaiono solo in un rapporto di apparizione e dipendono dalle condizioni reali di questo; in tale rapporto, appunto, esse « appaiono » collocate in una sfera ideale. Verifichiamo cosi, ancora una volta, la norma fonda­ mentale dello spirito obbiettivato: che è lo spirito sollevato sopra e al di là del proprio tempo, non realmente « viven­ te », ma neppure estenuato in una pura essenzialità — ridot­ to a vuota generalità —, bensì trattenuto e fissato nella for­ mazione reale in tutta la sua pregnanza di vita. Ciò che così viene trattenuto, appare quindi al vivente che lo ritrova, co­ me atemporale.

6. Temporalità dell’apparizione e

apparizione della

ATEMPORALITÀ

Questo risultato ci permette di sciogliere senza difficol­ tà l’aporia sviluppata più sopra. Il problema era il seguen­ te: come si accorda la sovratemporalità dell’opera d’arte con la sua durata limitata e il suo duplice condizionamento alla realtà temporale della storia — ossia, alla caducità della formazione reale cosale e al va-e-vieni di uno spirito vivente adeguato? L’opera d’arte ha un’esistenza storica solo se quel­ la formazione c’è e se uno spirito vivente la guarda e la comprende artisticamente. Invece, ciò che vien còlto nella visione stessa, appare come qualcosa fuori del tempo e ideal­ mente sempre esistente.

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

Cosi presentato il rapporto già rivela la soluzione del problema. Evidentemente, un conto è che qualcosa appaia come atemporale ed eterno, un altro conto che la sua stessa apparizione sia un’apparizione eterna. Solo il primo caso conviene al contenuto dell’opera d’arte, il secondo no: le figurazioni, con tutta la loro varia ricchezza di vita, appaio­ no eterne, ma il loro apparire non è come tale un eterno ap­ parire. E non lo si può neppure rendere storicamente eterno, giacché resta condizionato sempre di nuovo all’iniziativa dello sguardo. In tutto questo, non c’è alcuna contraddizione. Al con­ trario, quella sovratemporalità e questo condizionamento temporale si accordano perfettamente l’uno all’altra. Corri­ spondono rigorosamente alla stratificazione d’essere del­ l’opera d’arte, in quanto solo il primo piano è in sé, mentre solo lo sfondo ha carattere di apparizione. Quindi, se qualcosa nell’apparizione si presenta come eterno, non è però neces­ sario che l’apparizione stessa sia eterna. In breve: un’appa­ rente eternità, per il fatto che sia tale, non deve neces­ sariamente apparire in eterno. L’apparire è pieno d’imprevi­ sti: è soggetto ai giuochi del caso, al mutare della compren­ sione da parte dello spirito vivente, a una distruzione della formazione reale. Ma dovunque e comunque esso si verifi­ chi, ciò che ogni volta appare sono sempre gli stessi fanta­ smi sospesi in un’aura senza tempo.

Capitolo LII

IL CONTENUTO SPIRITUALE DELL’ARTE E DEL PENSIERO

1. La

sovratemporalità nelle opere di pensiero

Dall’analisi che abbiamo condotto emerge una legalità dello spirito obbiettivato, che ha valore di generalità: non è limitata all’opera d’arte, ma ritorna, con accento mutato, in ogni specie di obbiettivazione. Qualunque contenuto spirituale consegnato in un do­ cumento scritto — registrazione di avvenimenti, esposi­ zione di risultati di ricerca, senso complessivo di una con­ cezione della vita, sistema scientifico o concetto singolo, opi­ nione particolare o convinzione formulata in un giudizio (proposizione) —, tutto sottostà a un’unica legge: consi­ derato nel suo puro contenuto, è qualcosa di atemporale e tale appare allo spirito che lo riconosce; ma non appare in ogni tempo, bensì soltanto in determinate circostanze. Le condizioni del suo apparire sono sempre quelle: la con­ servazione dello scritto e la presenza storica di uno spirito che lo comprenda. Di prim’acchito, qualcosa sembra non quadrare: la atem­ poralità delle concezioni del mondo, dei sistemi e delle ipotesi scientifiche, dei concetti e dei giudizi che ne so­ no il veicolo, non è certo la stessa delle figurazioni poetiche. Gli uni hanno « validità » nel loro tempo relativamente a quello stato del sapere, o a quella forma di vita e di orga­ nizzazione sociale. La loro « verità » è quindi legata a un da­

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

to tempo, relativa. E tale resta di fatto, sia in senso puramente storico, sia in senso pragmatico. Quando Anassagora stupiva gli Ateniesi affermando che il sole fosse « più grande del Peloponneso », esprimeva un determinato concetto circa il sole o, meglio, una concreta intuizione della natura di esso, che corrispondeva a un deter­ minato stato della conoscenza. La significazione storica di que­ sto concetto sta nella sua evidente superiorità rispetto a concetti più antichi e molto più primitivi circa lo stesso sog­ getto. Nel progresso della conoscenza, esso rappresenta un particolare grado di approssimazione alla verità e, in questo senso, ebbe a suo tempo una certa importanza e un determi­ nato valore di verità. Ma quando lo ritroviamo in un passo di Ippolito, esso conserva per noi, oggi, soltanto un interes­ se storico; il suo importo di verità ci appare di gran lunga superato. Questo si può dire, evidentemente, di ogni specie di intuizione ormai sorpassata, scientifica, filosofica o religio­ sa che sia. Eppure, abbiamo anche qui una certa sovratemporali­ tà. Soltanto non bisogna cercarla dove non è, in ogni caso, non nella pretesa di verità e meno che mai in una « validi­ tà assoluta » che sia frutto di costruzione. A questo pro­ posito, ciò che produce oscurità è in primo luogo la confusione tra verità e validità; in secondo luogo, la confu­ sione di ambedue con quello che è il senso o l’importo (il contenuto di una proposizione, intuizione o concetto) della cui atemporalità si fa questione. A rigore, « verità » è soltanto il convenire dell’opinione alla cosa stessa. Tale corrispondenza, anche nel più fuggevo­ le atto d’intelligenza, è atemporale. Ma non di questa atem­ poralità si tratta qui. Infatti, essa è comune sia alla verità che alla falsità, e possiamo dire che, se l’affermazione di Anas­ sagora era falsa a suo tempo, lo è anche oggi e lo sarà sem­ pre; se era vera, lo è in tutti i tempi. La « validità » è tutt’altra cosa e riguarda il riconosci­ mento di cui gode un’opinione in una data cerchia di vi­ venti, la sua forza di convincimento nei loro riguardi. Es­ sa ha qualcosa a che vedere con la verità solo in quanto

LU. - IL CONTENUTO DELL’ARTE E DEL PENSIERO

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il riconoscimento dipende da un atto di intelligenza; ma a questo proposito non c’è mai un criterio assoluto di giudizio. Verità e validità, dunque, variano storicamente con larga indipendenza reciproca, benché la validità pre­ supponga continuamente la pretesa alla verità. Un modello sbagliato e arbitrario della realtà può mantenere in un dato tempo una generale validità e forza di convinci­ mento; viceversa, una verità misconosciuta non è meno vera di una verità riconosciuta valida. Ma l’atemporalità della verità e quella della validità non sono l’atemporalità propria di un’intuizione del mon­ do, di un giudizio, di un concetto. Un modello cosmologico come quello di Anassagora, inteso come una pura formazione di senso, possiede una sovratemporalità sui generis — che l’uomo d’oggi è ancora in grado di cogliere come tale, benché per lui quel modello del mondo non sia più né vero né valido. Possiede insomma, nonostante tutto, un’oggettualità che possiamo cogliere senz’altro e ricostruire sempre di nuovo nel pensiero e nella concreta intuizione, pur senza attribuirle alcun essere in sé o scambiarla con quella che noi riteniamo la vera struttura del mondo effettivo.

2. Apparente oggettualità del contenuto spirituale

Questo tipo di oggettualità è identico a quell’« altra obbiettività » nella quale ci siamo già imbattuti parlando dell’obbiettivazione artistica (cap. LI 5). Essa è inscindibi­ le da un qualsivoglia concetto superato del mondo, comunque arrischiato e insostenibile possa sembrare ai posteri. Artificiosità, incongruenza con la realtà effettiva, gravame di pregiudizi ormai inconcepibili, nulla può recarle danno: essa non ha nulla a che fare con la realtà dell’opinato, con la sua verità o falsità, con la sua validità o non-validità in un dato tempo storico. Sussiste, anzi, indipendentemente dal suo esser mai stata convincente o meno per un qualunque spirito storicamente vivente.

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

L’oggettualità di cui parliamo non è quindi l’oggettualità della conoscenza. Non fa differenza tra cognizione e fanta­ sia e consiste soltanto nei pensieri, nella sfera del concet­ to, nell’immagine del mondo in quanto tale, còlta per mezzo di un’intuizione interiore. In una parola, è propriamen­ te un’oggettualità apparente. Ma in quanto tale è un bene spirituale, un contenuto di pensiero con una conformazione sua propria. Contenuto e forma saranno dunque sottratti, nel loro stesso apparire, a quella temporalità in cui l’appari­ re ha luogo. Perciò il contenuto formato può sempre apparire a chiun­ que ne abbia sott’occhi la testimonianza negli scritti de­ gli antichi. Anzi deve apparire a chiunque, leggendoli, sia in grado di riconoscerli e comprenderli. Da questo punto di vista, la situazione non è affatto diversa da quella della poesia e di qualunque tipo di opera d’arte. Attraver­ so la formazione reale che si conserva è visibile, in immuta­ ta oggettualità, un’immagine del mondo; un’immagine nel­ la quale possiamo ritrovarci anche nella nostra qualità di po­ steri — proprio come se fosse quella che riteniamo effetti­ va —, nella quale possiamo penetrare e immedesimarci col pensiero. Quindi, di fatto, qualcosa ha vinto il tempo e, proprio nel mutare delle concezioni e ad onta di esso, si è posto al di sopra del tempo. Ma non bisognerà cercare il sovratem­ porale nella verità di quell’immagine del mondo, e tantome­ no nella sua validità. Sovratemporale è, se mai, la sua og­ gettualità pura e semplice. E poiché si tratta di un’oggettuali­ tà solo apparente, la sovratemporalità sarà anche qui, come nell’opera d’arte, sovratemporalità apparente. Ed anche qui, essa non contraddice al condizionamento temporale e alla discontinuità storica del suo apparire. Che le cose stiano cosi, è della massima importanza per la nostra coscienza storica. In caso contrario, ogni sguardo nel passato dello spirito umano ci sarebbe precluso; lo sto­ rico non avrebbe modo di far apparire di nuovo ai propri occhi la vita spirituale del passato, non potrebbe presentificarla. Il passato infatti non è ripetibile; soltanto nel­

LIL - IL CONTENUTO DELL’ARTE E DEL PENSIERO

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la visione possiamo farlo risorgere — ma solo in quanto, è per mezzo dell’obbiettivazione, esso sia stato sublimato in un’apparente oggettualità atemporale. La forza peculiare della scrittura è appunto di realizzare, anche senza plasma­ zione artistica, tale sublimazione -— e cioè per mezzo di una generale trasparenza dello scritto corrispondente alla parola parlata, per lo spirito disposto al riconoscimento. Ciò che appare nelle opere di pensiero, non appare certo con la stessa intuitività delle figurazioni poetiche, si con la stessa identità. Nella misura in cui la parola scritta rice­ ve lo spirito, ne riceve anche la vivacità che non svani­ sce, né per il passare del tempo, né per l’accumularsi della polvere sulla pergamena. La polvere non cade sullo spirito che appare, né il tempo lo consuma: esso non in­ vecchia ma permane sempre in una stessa irreale atempora­ lità come i personaggi eternamente giovani di Omero. E solo il suo apparire in quanto tale resta legato al tempo, storicamente condizionato, soggetto al caso e alla vicenda dello spirito vivo.

3. Diversità

dell’istanza e della comprensione

Se questa serie di fenomeni appartiene allo stesso gene­ re, non possiamo tuttavia trascurare le differenze, senza fare ingiustizia alla varietà dello spirito obbiettivato e in­ trodurre inoltre, nella nostra considerazione, una fonte perenne di errore. La differenza tra gli scritti di cultura e di pensiero e le creazioni dell’arte non è solo di contenuto, ma si riflette altresì nel tipo stesso dell’obbiettivazione e della maniera d’essere storica. Su quest’ultima verte ora il problema. Alla concezione comune, le opere del pensiero riflesso riescono detestabili: esse comportano l’idea dell’astrattez­ za, del pensiero vuoto, del « grigiore » teorico, e sono asso­ ciate in generale all’erudizione stantia e lontana dalla realtà effettuale. A chi non li padroneggia, i concetti e i rappor­

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

ti concettuali appaiono necessariamente schematici e senza vita. Non è soltanto nei confronti di una legge scritta che si ha la sensazione di quel rigore pedante, che fa dire: « la lettera uccide ». Per quanto riguarda le opere del pensiero riflesso, sembra che non sia solo la carta su cui sono scrit­ te a ingiallire e a coprirsi di polvere, come fossero salme nel­ le quali neppure un nuovo sforzo d’intelligenza saprebbe ri­ trovare lo spirito che vivifica. Ma queste sono soltanto esagerazioni: e noi non voglia­ mo occuparcene. Che la « teoria » non sia necessariamen­ te grigia; che il suo senso originario sia proprio la « visio­ ne » in grande (la θεωρία aristotelica); che un modello del mondo e ogni concezione oggettiva — anche se specializzata e circoscritta —, sia sempre una varietà della visione, che so­ lo un’intelligenza ottusa riduce a smorta sapienza libresca; tutto questo dovrebbe esser ben noto e non dovrebbe richie­ dere molte parole. Noi comunque, lo diamo per scontato. Il che ci permette di affrontare il problema vero. La situazione reale è che, nonostante quello che si è detto, la differenza resta profonda. L’immagine aristotelica del mondo, per esempio, non mantiene evidentemente quella stessa « eterna giovinezza » che mantengono i per­ sonaggi di Omero. E ciò, non solo perché nei secoli, che pu­ re se ne sono filosoficamente nutriti, sia venuta meno la capacità di un’intuizione concreta di essa — del resto, non sempre si è stati all’altezza della poesia omerica —, ma soprattutto perché si tratta di una specie di accessibili­ tà e di riconoscibilità del contenuto di pensiero, fondamen­ talmente diversa. L’intelligenza scientifica dipende ovviamente da con­ dizioni, che non sono quelle del gusto artistico; in generale, il suo oggetto appare in una specie diversa di intuizione, che non è facile ridurre senz’altro a una pura forma di co­ noscenza. Vi si mescolano altri elementi spirituali, tenden­ ze particolari, maniere di intendere e di interpretare proprie dello spirito vivente. Certo, anche un’opera d’arte incon­ tra tendenze particolari di questo genere. Ma insieme le li­ mita e le contiene in virtù del suo tipo di accessibilità.

LU. - IL CONTENUTO DELL’ARTE E DEL PENSIERO

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L’immagine del mondo tramandata in uno scritto non è accessibile soltanto allo sguardo di chi vi si accosta in modo adeguato. Ha molto da dire anche a chi la guarda con un in­ teresse diverso; e tuttavia, anche a lui può servire da model­ lo per vedere il mondo, sia pure nell’unilateralità e nel­ l’equivoco. I concetti, le proposizioni, le tesi, le argomenta­ zioni stesse sono interpretabili, — purché non avulse dal quadro totale della visione dell’universo cui appartengo­ no —, perché già ambigue in se stesse. La mutata situa­ zione storica del problema nella cultura di un’altra epoca, comporta che esse siano viste in modo distorto, parziale o superficiale. In altri termini: è vero che dagli scritti conservati emana sempre un’istanza di comprensione indirizzata allo spirito vivente, che in essi si olire sempre un contenuto spirituale — e, fin qui, la situazione è identica a quella delle arti —, ma l’istanza non ha sempre la stessa capacità di costringere lo spi­ rito vivente, che la accoglie, entro una determinata ed uni­ voca forma di intuizione. Essa è affidata ora, in misura mol­ to maggiore, al tipo di accostamento, ed è molto più grave­ mente soggetta all’arbitrio e all’ostinazione dello spirito vivente. Non è affidata soltanto all’iniziativa di una com­ prensione spontanea e congeniale, ma all’accostamento cosciente, alla cura particolare e all’impegno di lavoro dei vivi. Nella passione di un singolo, però, questa è una cura e un lavoro che facilmente si tramuta nell’opera di tutta una vita.

4. Comprensione

riflessa e irriflessa

La ragione di ciò andrà cercata nel tipo stesso dell’obbiettivazione. Bisognerà dire, insomma, che l’opera d’arte possiede la massima determinatezza interna, si che lo sguar­ do intuitivo, qualora effettivamente riesca a penetrarne lo sfondo, viene guidato con la massima univocità verso il contenuto da intuire. Data però la caratteristica stratifi­

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

cazione delle maniere d’essere, ciò può significare soltan­ to che le figurazioni che appaiono nell’opera d’arte devono essere vincolate in modo incomparabilmente più rigi­ do alla formazione reale. Lo stesso rapporto di apparizione, che nella specifica impronta reale del primo piano lascia ap­ parire una specifica formazione di sfondo ben determinata in ogni particolare, dovrà essere molto più intimo ed univo­ co. A paragone con altri tipi di obbiettività, dovrà essere il rapporto di apparizione più efficace e funzionale. Sarebbe tuttavia un equivoco credere che qui l’apparire sia meno dipendente dall’iniziativa dello spirito vivo, o che nell’opera d’arte vi sia una maggiore omogeneità tra gli strati. Nella poesia, come nella filosofia, la lettera non è lo spirito. Inoltre, non è che la comprensione estetica richieda minore sforzo che la comprensione ideologica o scientifica: talvolta, anzi, lo sforzo richiesto è maggiore. L’essenziale è, invece, che qui l’istanza è diversa e diversa è la stessa comprensione. La differenza si rivela già nel fatto che la comprensione estetica ha l’andamento di un’illuminazione fulminea·, non passa attraverso la riflessione e non si conquista con la meditazione. Ciò contribuisce a sottrarla maggiormente all’arbitrio; non è facile mantenersi in una posizione di ambi­ guità e di compromesso: o ci si sente attratti e presi, coin­ volti, elevati, oppure nulla affatto di tutto questo. La diffe­ renza non è nell’intensità più o meno violenta della sensa­ zione; quello che conta è che si entri in contatto con lo spi­ rito dell’opera d’arte o no. Se il contatto è stabilito, tutto il resto è di secondaria importanza. Questo comporta che un’opera d’arte, con l’istanza che rivolge ai viventi, eserciti altresì un’azione molto più effica­ ce di selezione. Rispetto ad essa, gli uomini e le epoche si dividono molto più radicalmente in quelli che compren­ dono e quelli che non comprendono (escludendo, natu­ ralmente, il caso di una comprensione inautentica; cfr. cap. XXXIX 1,2); gli uni se ne sentono attratti e non possono sottrarsi al suo fascino, gli altri restano insensibili. Nella com­ prensione artistica, non c’è gradualità in senso proprio; c’è

LU. - IL CONTENUTO DELL’ARTE E DEL PENSIERO

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se mai, e qualora comprensione vi sia, un suo successivo approfondimento. Nella comprensione di un contenuto di pensiero, in­ vece, ci può essere una infinita gradualità. La sua superfi­ ciale cognizione, per « sentito dire », dà già una certa rap­ presentazione della cosa (della nozione, del punto di vista); mentre anche il più penetrante studio delle fonti spes­ so non garantisce la certezza circa l’essenziale. La compren­ sione segue qui, in tutto e per tutto, la via della rifles­ sione, vuol essere conquistata e dipende dalla capacità di giudizio, dalla ampiezza delle cognizioni, per lo più an­ che dalla conoscenza del corso storico e della situazione spi­ rituale complessiva dell’epoca in cui l’opera fu scritta. An­ che qui, naturalmente, la cosa si rivela talvolta in modo intuitivo e fulmineo. Ma ciò non dipende allora dalla sola trasparenza della formazione reale ed è condizionato a qual­ che sapere specifico, particolarmente a quello relativo al periodo storico in cui si colloca. Lo scritto, di per sé, non basta a guidare e a determinare la comprensione. Il riconoscimento ha bisogno di altre pezze d’appoggio. Questo appunto ci fa capire che, in obbiettivazioni come quelle del pensiero riflesso, la connessione interna degli strati non è equivalente a quella dell’opera d’arte. Il rappor­ to di apparizione non è univoco. La singola formazione rea­ le non basta da sola a reggere l’importo spirituale. Perciò il « riconoscimento » deve ricorrere a fonti ausiliarie che rendono necessaria la mediazione della ri­ flessione e la conquista progressiva dell’importo.

5. Provocazione

dello spirito vivo alla discussione

Se cerchiamo la « ragione » di ciò nella maggiore « de­ terminatezza » dell’opera d’arte, ossia nella più stretta connessione che essa presenta tra la formazione reale e lo sfondo, rispetto a quella riscontrabile negli scritti del pen­ siero riflesso, dev’essere chiaro tuttavia che tale « ragione », 42.

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

a sua volta, è per noi tutt’altro che trasparente. Essa risiede nella struttura stessa del rapporto di apparizione, ma pro­ prio questa è per noi profondamente misteriosa, e lo è tan­ to più, quanto maggiore è la rigidezza della connessione in­ terna. Non si può far altro che descriverla e accontentarsi di ciò che risulta dalla descrizione. Ma la descrizione si muo­ ve in superficie, cioè, per l’appunto, nei risultati visibili, nel « che cosa » che appare, non penetra invece nell’intimo nesso del rapporto di apparizione. Tutti i concetti che ce ne facciamo, sono solo immagi­ ni. L’arte non scopre la sua legge interna, non la porta alla coscienza in nessun modo, né alla coscienza di chi intuisce, né a quella di chi opera. E meno ancora, forse, alla coscienza di chi riflette, perché la riflessione le è essenzialmente estranea. Forse proprio per questo, sia la visione che l’opera sono qui sottoposte a una legalità e a una necessità cosi stretta. E poiché chi intuisce non ne sa nulla, il suo sguardo è senza riflessione, dedito esclusivamente al correlato og­ gettivo della visione. In altre parole: l’intuizione, se intui­ zione c’è, non ha la libertà di intuire in un modo o in un altro: ciò che in una determinata opera d’arte è visibile, è vi­ sibile in « un » modo e solo in quello. Qui sta la differenza rispetto al contenuto di pensiero dove, chi guarda, ha mol­ te possibilità, punti d’appoggio, vie d’accesso, nessuna delle quali tuttavia è tale da guidarlo in modo univoco e sicu­ ro all’essenza della cosa. Un secondo punto è poi questo: la formazione reale « provoca » costantemente lo spirito vivente. Ma la pro­ vocazione che emana dagli scritti di Aristotele è fonda­ mentalmente diversa da quella che emana dalla poesia omerica. Una costruzione di pensiero mira a convincere, vuol avere valore di verità e penetrare nella vita o, quanto me­ no, nella visione del mondo del vivente. Cerca l’assenso. E non si dica che ciò non accade più quando un con­ tenuto di pensiero risale a tempi assai remoti, perché noi avremmo allora sufficiente senso storico per degnare, di­ ciamo, Aristotele, di un interesse puramente storico! È vero piuttosto, che l’atteggiamento naturale è e resta

LIL - IL CONTENUTO DELL’ARTE E DEL PENSIERO

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sempre diretto al contenuto oggettivo di pensiero in quanto esso comporta una pretesa di verità; anzi, è proprio una perfetta educazione del senso storico, quella che permet­ te di recuperare in tutta la sua efficacia la forza di convin­ cimento di un pensiero filosofico. Non è vero che tutto ciò che risulta estraneo a una mentalità recente e, per molti aspetti effettivamente progredita, sia proprio «invecchia­ to ». C’è sempre un patrimonio di pensiero che resta, non valutato, in disparte, e che per nostra esperienza ci conver­ rebbe invece recuperare. Perciò un patrimonio di pensiero filosofico può sempre essere via via per i posteri oggetto controverso di differenti opinioni — e non solo per quanto attiene a una sua inter­ pretazione adeguata, ma anche rispetto all’evolversi dei lo­ ro interessi vitali e della loro concezione del mondo. Il pen­ siero dei vivi, infatti, non può esimersi dal discutere una dot­ trina, finché in essa sussista uno sfondo irrisolto. La dot­ trina stessa lo provoca a far questo. L’intelligenza dei vivi è sempre in lotta con la cosa stessa: essi devono penetra­ re col proprio pensiero nella dimensione problematica di ciò, cui vogliono rendere teoricamente giustizia. Altrimenti, dovrebbero sempre fermarsi alle risultanze esteriori e alle loro formulazioni, trascurando lo spirito autentico della cosa. Lo spirito della cosa, infatti, è che il pensatore af­ fronti il problema. Cosi lo spirito è qui richiesto di un riconoscimento, che non è quello a cui lo invita l’opera d’arte. Esso è indotto, cioè, a fare i conti con lo spirito vivo di un tempo, circa la cosa stessa. Con ciò, il suo stesso riconoscimento è posto su altra base: nello sforzo di comprensione, è la cosa a inve­ stire direttamente il suo interesse e ad apparirgli necessa­ riamente nella luce, alla quale egli stesso affronta attual­ mente il problema. Ben diverso è il suo atteggiamento davanti alle figu­ razioni della poesia. Queste vogliono soltanto essere intuite ed essere concretamente presenti, nella visione, a chi le guarda. Esse si trovano al di là dell’attualità e dei problemi. Possono bensì insegnare qualcosa agli uomini,

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

ma non pretendono di farlo, non intervengono nel loro modo di concepire il mondo. In quanto però, indiret­ tamente, fanno anche questo — e cioè puramente e sem­ plicemente in virtù della gravità del loro contenuto uma­ no —, e in effetti inducono chi le comprende alla discus­ sione, tale discussione non è tuttavia implicita nella com­ prensione propria dell’intuizione artistica, ma piutto­ sto ne consegue. Del resto, la meditazione su ciò che si è visto e la riflessione, presuppongono sempre la visione e pos­ sono cominciare soltanto sulla base di questa. La visione stessa e l’apparire del suo oggetto non vi sono impliciti in quanto tali. Qui c’è, in effetti, una differenza di fondo tra due tipi di obbiettivazione. Una differenza che si dispiega per vari gradi e che non è mai tanto netta da distruggere gli elemen­ ti comuni. Il fenomeno-base resta uno solo, anche agli opposti estremi. E proprio il fatto che offra spazio ad un contrasto tanto considerevole ci permette di misurare nel modo migliore l’ampiezza e il carattere basilare della sua struttura ontica.

Capitolo LUI ASPETTO FILOSOFICO-STORICO

1. Autonomia «

portata

» dello spirito

obbiettivato

A questo punto, possiamo affrontare meglio anche il problema della storicità dello spirito obbiettivato. Que­ st’ultima si è rivelata sempre piu come un epifenomeno del­ la storicità dello spirito vivente. Lo spirito obbiettivato è « sottratto » al flusso solo nel senso della oggettualità che in esso appare; all’apparizione di questa oggettualità « appartiene anche » l’apparizione della sua idealità e sovratemporalità. Al contrario, per quanto riguarda il suo stesso apparire e scomparire, esso è legato alla vicenda dello spirito vivente. E, come si è visto nelle nostre ultime con­ siderazioni, tale vicenda interviene anche, con effetto de­ formante, nel tessuto stesso del dato spirituale, in quan­ to ciò che appare subisce l’impronta del coglimento, della comprensione selettiva, dell’interpretazione cosciente. Nonostante la sua apparente idealità il destino storico dello spirito obbiettivato dipende in modo duplice dal­ la vicenda dello spirito vivente. Se esso vivesse di vita pro­ pria accanto a quest’ultimo, dovrebbe anche avere una vi­ cenda autonoma, nascere e perire per conto proprio. Co­ si, invece, la sua comparsa storica è condizionata dall’ester­ no, ed ha il carattere di esterno destino. La sua maniera d’essere, ad onta di ogni assolutezza e sublimazione di con­ tenuto è anche molto più condizionata e « portata » di quel­ la dello spirito obbiettivo-vivente; portata da più par­ ti, lo è anche da parte di quest’ultimo. Ciò nonostante,

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

essa mantiene anche nei confronti di quest’ultimo una certa capacità di stimolazione, in quanto l’importo obbietti­ vato reagisce a sua volta sullo spirito obbiettivato vivente. Trova cosi conferma il principio ontologico per cui la dipendenza in quanto tale non ostacola l’autonomia. L’indi­ pendenza dello spirito obbiettivato è quella di un’autonomia portata. Allo scopo di illuminare l’intiero rapporto, vogliamo qui riassumere i momenti essenziali, nei quali si esprime l’in­ treccio dello spirito obbiettivato e dello spirito obbiet­ tivo nell’unità di un’unica storia dello spirito. Si tratterà innanzitutto di un riassunto della precedente esposi­ zione, destinato però a condurci al di là di essa e ad aprir­ ci la strada sulla quale la ricerca dovrà proseguire. Il pro­ blema circa la struttura dell’obbiettivazione passerà a poco a poco in secondo piano per lasciare il posto al problema del­ la storicità. Perché i momenti strutturali della conservazio­ ne e della maniera d’essere non esauriscono l’aspetto stori­ co.

2. Integrazione

storica delle diverse

forme del

PROTRARSI

1. - Abbiamo illustrato la caratteristica maniera in cui un contenuto spirituale obbiettivato è via via presente nello spirito vivo. Ora, poiché lo spirito obbiettivato, che uno spirito vivente incontra, risale sempre a un tempo precedente, si può dire che in ogni storia spirituale si intrec­ ciano due principali e diverse forme secondo cui il passato si protrae dentro il presente. L’una consiste nella diretta sopravvivenza del mutevole spirito obbiettivo secondo le strutture a suo tempo acquisite; l’altra, nella permanenza del patrimonio spirituale da lui espresso e quindi conserva­ to nell’obbiettivazione. 2. - La prima ha l’aspetto di un avanzare continuo, e si può considerare equivalente alla capacità di conserva-

LUI. - ASPETTO FILOSOFICO-STORICO

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zione dello spirito vivente. Qui la conservazione e il mu­ tamento riguardano il configurarsi autonomo della vita spirituale — del linguaggio, della cultura, del gusto, dello stile di vita. In questo mutare, con la forma si « traman­ da » direttamente anche il contenuto spirituale. La ripresa dei risultati acquisiti si compie, senza salti, di generazione in generazione attraverso il « crescere » degli individui « dentro » lo spirito comune. Diciamo dunque, il pro­ trarsi di un contenuto spirituale dentro le epoche più tarde si fonda, qui, sugli individui che in esse crescono, nella misura in cui sappiano mantenere una continuità del­ la ripresa. Si fonda cioè sul fatto che l’importo spirituale non esuli dallo spirito vivente ed esso continui a tenerlo fermo. 3. - La seconda forma del protrarsi ha un carattere nettamente opposto, perché si fonda sullo svincolamento del contenuto spirituale dallo spirito vivente. Tale svincolo è opera dell’obbiettivazione — il segreto per cui si lega alla cosa materiale e può essere ritrovato in essa. Questo modo indiretto del protrarsi elude la continuità della tradizione. Dal punto di vista dello spirito vivente, il contenuto spiri­ tuale ha qui un’esistenza storica discontinua; perché solo la formazione reale, di per sé non-spirituale, perdura inin­ terrotta, mentre 1’« istanza » che ne emana sussiste solo « per » uno spirito vivo. La discontinuità, tuttavia, proprio come forma del protrarsi, ha una sua precisa superiorità; perché svincolatosi dallo spirito vivo, l’importo spirituale si è altresì sottratto al mutamento. E ciò che cosi ridiventa presente a un’epoca più tarda, ritornerà ogni volta invariato. 4. - Dal punto di vista del contenuto, il rapporto tra le due forme del protrarsi è tale che esse possono abbraccia­ re sia uno stesso importo spirituale, sia importi diversi. Negli scritti dell’illuminismo tedesco, ad esempio, noi di­ sponiamo di un patrimonio spirituale che, in buona parte, è sopravvissuto anche in forma diretta e si è conservato in modi di pensare e di sentire, in strutture concettuali e, perfi­ no, nei modi sintattici del discorso. Non cosi per le opere degli scrittori greci, la cui comprensione noi dobbiamo ri­

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

conquistare sempre di nuovo. Nel primo caso, ciò che da una stessa epoca si protrae fino a noi per due vie diverse, si corrisponde nelle due versioni e si integra ancora otti­ mamente; nel secondo caso, la continuità è da gran tempo spezzata e davanti a noi sta solo l’importo obbiettivato. La tensione che si crea tra il contenuto che riappare e lo spi­ rito vivente, può portare al compromesso o anche alla sintesi — all’assimilazione dell’importo spirituale con­ servato nell’obbiettivazione, alla sua deformazione da parte delle forme d’intuizione dello spirito vivo, o ad una riplasmazione creativa sulla base dello stimolo ricevuto.

3. Il fattore statico e quello dinamico. Rinascita DEL PASSATO

5. - Abbiamo visto, inoltre, che tutto questo ripo­ sa già su un altro e piu fondamentale rapporto. Lo spirito obbiettivato si è reso indipendente, in senso proprio, solo nei confronti di quel determinato spirito storico che lo ha elaborato e obbiettivato; nel suo perdurare, invece, la sua assolutezza combacia col bisogno che esso ha di uno spirito vivente che di volta in volta lo comprenda. L’essere di un importo spirituale obbiettivato sussiste nella storia sol­ tanto là dove uno spirito vivo gli si fa incontro e gli si « adegua ». Adeguazione può aversi però in due modi. In quanto fon­ data sull’immediata sopravvivenza storica del contenuto spirituale stesso nella tradizione; nel quale caso, tale conte­ nuto è un elemento di cultura già da tempo tacitamente assimilato. Ma anche come un allargamento spontaneo del­ l’orizzonte di comprensione vólto al recupero di una tradi­ zione ormai completamente estinta. In ambedue i casi tut­ tavia, l’attualizzazione dell’importo spirituale obbiettivato riposa sull’incontro tra l’istanza e l’atteggiamento: la prima, proveniente dalla formazione reale, il secondo dallo spirito

LUI. - ASPETTO FILOSOFICO-STORICO

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vivente. In questa relazione, la formazione reale è sempre il fattore statico, lo spirito vivente quello dinamico. Da quello dipende la costanza potenziale, da questo il ri­ torno all’attualità, di un patrimonio spirituale. La curva storica del suo scomparire e riemergere è dunque essen­ zialmente una funzione di quello stesso spirito vivente nel cui mutamento sono anche le condizioni del protrarsi diret­ to. 6. - Il primo tipo di incontro può essere considerato quello piu comune. Ogni civiltà di un certo livello fruisce stabilmente di un molteplice patrimonio spirituale obbiet­ tivato che, una volta costituito, resta sempre a di­ sposizione; gli scritti del passato più recente continuano ad esser Ietti, sono sentiti come attuali e fanno ancora parte della vita presente. I canti omerici continuano a vivere nel­ l’età attica, e cosi i classici tedeschi nel nostro tempo. Rispetto al singolo lettore o studente, si tratta pur sem­ pre di un risorgere di quelle fantasie, ma di un risorgere che ancora equivale a quella « ripresa » immediata, che è la forma del suo crescere dentro lo spirito vivo cui appartie­ ne. Quest’ultimo infatti, nel suo atteggiamento essenziale, non si è ancora scostato dall’istanza che da tali scritti pro­ viene e può ancora corrispondervi con relativa facilità. 7. - Nel secondo caso, invece, quando la tradizione, e quindi l’atteggiamento adeguato, siano ormai spenti, l’incon­ tro assume l’aspetto di un vero e proprio ritorno. Cosi lo spirito vivente percepisce il protrarsi di un passato che è tale e che, per la lacuna creatasi nella tradizione, gli è divenuto estraneo. Il ritorno fa l’effetto di un miracolo, di una resurrezione o « rinascita » di uno spirito passato. Il vi­ vo si accosta con profonda venerazione allo spirito ri­ sorto: da un’opera umana rimasta muta per lungo trat­ to di tempi, uno spirito gli parla, e non è il suo. Uno spirito storicamente morto si offre concreto, palpabile, pieno di vita e di fresco vigore al suo sguardo.

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

4. Reinserzione nello spirito vivo. Potere stimolan­ te E MOBILITAZIONE DELLObBIETTIVAZIONE

8. - Alla fine però, lo spirito del passato ritornato attuale agisce a sua volta sullo spirito vivente. La potenza che ne emana non si esaurisce nell’« istanza » rivolta allo sguardo intuente e alla comprensione. Al di là dello sforzo iniziale richiesto, essa si rivela come uno stimolo fecondo dentro il movimento stesso dello spirito viven­ te. Lo spirito svincolatosi a suo tempo nell’obbiettivazione « ritorna », per cosi dire, a inserirsi nello spirito vivo. Ri­ torna in uno spirito che, certo, non è più quello dal quale era stato « espresso » ma che, almeno, gli si accosta con una certa capacità di adesione intellettuale. Perciò si può dire che, in questo ritorno, anche qualcosa dell’antica vita spiri­ tuale trapassa sempre nella vita presente dello spirito e, in tal modo, vi si protrae e lo incrementa. Dal punto di vista di tale ritorno, l’incapsulamento del­ l’importo spirituale nell’obbiettivazione, appare come un puro stato di transizione che gli ha permesso di conser­ varsi nel tempo, per poi rientrare nello spirito vivente e svegliarsi a nuova vita. Ed è lo spirito vivo che ne avverte lo stimolo, a sentire tale rientro come un « rinascimento ». 9. - In questo senso, il fenomeno riguarda esclusivamente lo spirito vivo. Ma qui si ràdica altresì un fenomeno complementare, che riguarda invece lo spirito obbiettiva­ to in quanto tale. Con la rinascita e la reinserzione nello spi­ rito vivente, anche la fissità dell’obbiettivazione viene meno; la determinatezza e l’univocità del rapporto di apparizio­ ne si rilassa; col suo modo di vedere, con la sua particola­ re tendenza e la sua impostazione critica e valutativa, lo spirito vivente mette del proprio nell’obbiettivazione, e ciò ha su di essa un effetto solvente e fluidificante. Lo spiri­ to vivente non è puramente ricettivo: la sua capacità di ri­ cezione si intreccia intimamente coll’impegno spirituale, perché la sua vita consiste nell’operare e nel valutare ri­

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spetto a tutto ciò che gli compete. Cosi esso va modificando, a sua volta, tutto ciò che lo modifica. Il ritorno del contenuto spirituale all’immediatezza della vita storica è a un tempo il suo ritorno alla mobi­ lità e al mutamento. Come, prima di venir fissato nello scrit­ to, il pensiero era la vivente formatività di uno spirito vivo, cosi ora lo ridiventa e, ubbidendo alla legge di quest’ultimo, si espone a un’ulteriore metamorfosi. Quanto sopra si riferisce soprattutto alle opere del pen­ siero riflesso. In che misura riguardi anche le arti, sarà oggetto di successiva indagine. 10. - Accanto al fenomeno del ritorno e della fluidi­ ficazione, tuttavia, le obbiettivazioni stesse, legate alle loro formazioni reali — purché queste non vadano distrutte —, continuano a sussistere come un patrimonio spiritua­ le consolidato. La reazione dello spirito vivente non colpi­ sce le formazioni concrete in se stesse, ma soltanto ciò che in esse via via appare. Le opere dello spirito, una volta riassorbite nello spiri­ to vivo, possono quindi sfuggirgli di nuovo e di nuovo risorgere più tardi per un altro spirito vivo, cosi come erano risorte per il precedente. In ciascuna di tali rinascite, gli sti­ moli che esse sapranno dare potranno essere diversi, se­ condo la natura e le inclinazioni peculiari dello spirito vivo; perché esse sprigionano suggestioni sempre nuove, in­ crementano sempre nuovi sviluppi. Cosi infatti grandi capolavori della poesia e dell’arte, grandi sistemi filosofici e grandi ideologie rifioriscono più volte nel corso dei secoli. E ogni volta in maniera del tutto diversa. Diversa come le vie che, partendo da quelli, il nuo­ vo spirito vivente imbocca di volta in volta.

Capitolo LIV

L’EFFETTO DI RITORNO NELLE ARTI

1. Ritorno ed

effetto di ritorno

I tre ultimi punti sopra elencati ci permettono di ri­ prendere e portare avanti la questione affrontata al cap. LII relativa alla differenza tra l’opera d’arte e l’opera del pen­ siero riflesso. Si era visto che 1’« istanza » che scaturisce da una costruzione di pensiero è diversa da quella di un’o­ pera d’arte. Il pensiero provoca a discussione, coinvolge dun­ que l’impegno proprio dello spirito vivente e, di con­ seguenza, ne subisce la reazione modificante o « effetto di ritorno ». L’« effettuare » è, qui, ovviamente solo un’immagi­ ne, che non va presa alla lettera. È una formula di como­ do. Si tratta solo di una specie di trasformazione del pensiero, che è data immediatamente col suo ritorno nello spirito vivo. In quanto lo spirito obbiettivato, con la forza della propria istanza, attira verso di sé lo spirito vivente e ritorna cosi nella sua sfera, buona parte di questa sua stessa forza va perduta. È come se si consumasse andando ad effetto. Essa lo muove a sé solo parzialmente, lo induce solo ap­ prossimativamente ad assumere la forma d’intuizione ade­ guata; dal canto suo, anche lo spirito vivente « mobilita » l’importo intuito in base al proprio modo di intuirlo sic­ ché, fin dal principio, questo gli appare spostato. La discus­ sione che cosi si stabilisce con l’antico patrimonio spiritua­ le, è certamente feconda, ma compromette la purezza di

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PAKTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

quest’ultimo, cosi come era stato fissato ed assunto nell’obbiettivazione. Il problema che ne sorge è poi il seguente: se questo valga davvero soltanto per le opere del pensiero riflesso — intuizioni scientifiche, ideologie, sistemi filosofici, formu­ lazioni concettuali —, o se le stesse creazioni artistiche non subiscano una certa trasformazione nello spirito vivo che le osserva e le apprezza. Si noti: se non la subissero, non potrebbero nemmeno subire il ciclo dell’importo spirituale, non potrebbero cioè, una volta esteriorizzate, ritornare mai più ad eser­ citare la loro efficacia sullo spirito vivo; e quest’ultimo, ammesso che le colga, lo farebbe in una visione priva di partecipazione e vivrebbe accanto ad esse senza riceverne impressione o stimolo alcuno. Giacché, quando esse rientra­ no in circolo e gli danno impulso, ne ricevono il contrac­ colpo nel peculiare modo di accoglierle dello spirito vivo.

2.

Effetto

delle figurazioni poetiche ed effetto di

RITORNO SU DI ESSE DA PARTE DELLO SPIRITO VIVENTE

Ora, è incontestabile che le creazioni dell’arte, della poe­ sia soprattutto, hanno un’efficacia formativa sullo spirito vivo che vi accede. Il valore formativo della poesia non è quasi mai stato contestato. Anche là dove lo si considera un male come nella Repubblica di Platone, si presuppone per l’appunto che la poesia possieda un grande potere di formazione spirituale. In certe epoche le fu, anzi, attribuita la massima effi­ cacia educativa; e vi sono poeti di grande levatura che, con la loro opera, si proposero appunto di educare. Si può certo respingere l’esagerazione contenuta in questa concezione, tanto più che la poesia programmaticamente peda­ gogica o pedagogicamente orientata può essere consi­ derata un caso limite quanto mai ambiguo; nella storia del­

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lo spirito, tuttavia, e proprio nel caso dei grandi poeti, la sua sconfinata efficacia è un dato di fatto indiscusso. La storia ci mostra dovunque con grande chiarezza come i popoli — specie quelli in ascesa —, abbiano sempre nei loro poeti i propri educatori e le proprie guide. Le figura­ zioni dei poeti, obbiettivate nella parola, diventano model­ li di vita vissuta; e il singolo matura orientandosi su di es­ si. Ciò non riguarda soltanto la poesia epica degli eroi ma, mutatis mutandis, ogni poesia e tutte le arti in generale. E se è vero che, anche dopo lunghi periodi di oblio, la poesia ritorna a commuovere lo spirito vivo, sarebbe difficile svalutarne la forza rispetto a quella delle opere di pensiero. Se le cose stanno cosi, come evitare di estendere anche alle arti la legge dell’effetto di ritorno, con tutte le conse­ guenze che essa implica? Visto, anzi, che il loro potere stimolante è tanto grande, bisognerà aspettarsi addirittura a priori che il contraccolpo lasci dei segni sul contenuto dell’opera d’arte. Qualora nella fortuna storica dell’opera d’arte tale fenomeno non fosse rilevabile, bisognerebbe rivedere la legge, o spiegare l’eccezione. Ma i fatti storici parlano chiaro e l’effetto di ritorno è ben visibile. Solo, non va cercato dove non c’è. Per­ ché in questo caso è di tipo diverso e si muove entro limiti diversi da quelli che lo stesso fenomeno presenta nel caso di un patrimonio di pensiero.

3. Trasformazione

storica di personaggi drammatici

Un chiaro esempio ci è offerto, al proposito, da certi personaggi della poesia drammatica. La figura di Amleto non ebbe, nell’interpretazione di Goethe, o anche dei Romantici, lo stesso significato che aveva avuto per i contem­ poranei di Shakespeare; ai nostri tempi, il suo significato è ancora una volta mutato. La vediamo con occhi diversi,

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

la comprendiamo e la valutiamo altrimenti, e la differenza si rispecchia ogni volta decisamente nella messa in scena. Analoga trasformazione hanno subito personaggi come Faust e Margherita, Wallenstein e cosi via. Uno stesso per­ sonaggio passa attraverso una serie di interpretazioni e ne risulta sovraformato; del resto, ogni nuova rappresentazione vi apporta nuovi elementi di sovraformazione, attraverso la regia e il contributo originale del singolo attore. In ogni rappresentazione, un nuovo spirito vivo entra umanamente in discussione col personaggio, vi aggiunge del suo e lo restituisce col segno della propria personalità. Il personaggio, d’altra parte, presenta aspetti sempre nuovi e le sue possibilità umane non sono facilmente esau­ ribili. Una questione insolubile, a questo proposito, sarà in che misura esso venga deformato, frainteso, falsificato e, in generale, in che misura non sia fondamentalmente frain­ tendibile. È ovvio che ogni particolare interpretazione debba sempre apparire equivoca a chi è orientato altri­ menti. Ma c’è anche la possibilità che una data interpreta­ zione migliori o incrementi le qualità poetiche del perso­ naggio, rispetto al testo originario. E qui, la questione che può sorgere, è in quale misura sia possibile migliorarlo. Non è però questo genere di controversie che qui ci sta a cuore. Ciò che importa soprattutto è che, in generale, nell’intuizione e nell’intelligenza dei posteri, le figura­ zioni della poesia si modificano in una misura che non è inessenziale. E se si pensa che, in quanto tali, esse sono formazioni del tutto irreali, la cui esistenza storica è affida­ ta in esclusiva all’intuizione e all’intelligenza di uno spirito vivente, la modificazione che questi vi apporta si rivela sto­ ricamente determinante per la loro stessa esistenza. Un’esi­ stenza che, in conclusione, è soggetta al mutamento. Come un patrimonio di pensiero, seppure con altri limiti ed altro condizionamento, anche le figurazioni della poesia dipendono dallo spirito vivo, sia nel loro scomparire e ricomparire, sia nel loro esser-cosi e nel loro contenu­ to. Sono esposte alle sue reazioni, devono seguirlo nei suoi mutamenti. Se danno ispirazione allo spirito artistico di

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una data epoca diventano, ai suoi occhi, ciò che esso vi vede. Se nel caso del personaggio drammatico il fenomeno assume una forma esemplare, è solo perché qui, tra l’arte del poeta e la sua ricezione da parte dello spettatore, si inseri­ sce un’operazione artistica secondaria: quella dell’attore. Quest’ultimo, in un certo senso, obbiettiva ogni singola variazione o movenza del personaggio in un gioco visibile. La recitazione mimata è già realizzazione oggettuale di una determinata interpretazione; ciò spiega l’elevato grado di individualizzazione che la recitazione conferisce al personaggio, molto superiore a quella di cui dispone la parola scritta del poeta. Individualizzazione che è poi il rovescio di quella limitazione e unilateralità che l’interpre­ tazione scenica comporta.

4. Carattere generale delle variazioni di contenuto nell’opera d’arte in relazione all’osservatore

In se stesso, il fenomeno della modificazione che inter­ viene in un contenuto artistico è molto più generale e non dipende né dall’arte degli interpreti, né dai personaggi del dramma, ma è riscontrabile in ogni genere di poesia e in tut­ te le creazioni artistiche in generale. Gli umanisti non leggevano le poesie degli antichi co­ me le leggevano gli antichi, e noi oggi le leggiamo con una sensibilità che non è più quella degli umanisti. È vero che gli stessi versi suscitano sempre di nuovo le stes­ se immagini, ma queste appaiono mutate ad ogni nuovo modo di vedere. Gli stessi affreschi di Michelangelo, gli stessi ritratti di Rembrandt — chi mai sosterrebbe che essi appaiono ai nostri occhi come apparvero agli autori o ai loro contemporanei? E che dire delle opere plastiche egizie, il cui sfondo ideale noi avvertiamo oscuramente senza riuscire a renderlo attuale per noi? Dovunque, quando 43.

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

un’arte si regge su idee religiose, la tarda posterità può bensì avvertire qualcosa del suo contenuto ideale, senza però cogliervi alcun significato preciso. Come potrebbero tali opere d’arte restare, per essa, ciò che erano per chi professa­ va quella religione? Altrettanto per la musica. Noi udiamo il contrappunto bachiano altrimenti da come lo udivano i suoi contempora­ nei, non fosse che perché lo eseguiamo diversamente (addirit­ tura con altri strumenti). Ogni epoca ha un suo modo di udire, cosi come ha un suo modo di leggere. Noi udiamo in modo diverso perché ascoltiamo in modo diverso. La composizione musicale, la poesia, la scultura si imprimo­ no nella nostra sensibilità, ma è anche la nostra sensibilità ad aggredire i loro contenuti; in quanto ce ne appropriamo, essi sono per noi diversi da ciò che erano per l’autore e i suoi contemporanei; se ci insegnano a vedere, udire, sentire in un modo diverso, d’altra parte noi li vediamo e sentiamo in modo diverso da come essi erano. L’opera fatta, nel suo pieno contenuto di senso, subisce cosi un effetto di ritorno da parte dello spirito vivente, e non solo nella riflessione o nella discussione concettuale, ma già nel suo essere udita e vista. In ogni comprensione artistica, lo spirito lotta con lo spirito, e ciò che non riesce a carpirgli, glielo impone a forza. In fondo, ogni visione estetica non implica solo un ri­ creare, come spesso è stato detto, ma anche un trasformare. Si tratta, naturalmente, di una trasformazione che lo spettatore compie soltanto per sé. Ciò che in sé sussiste nel­ l’opera d’arte, la formazione reale con la sua impronta sensi­ bile, resta intatto e si offre sempre uguale insieme con l’istanza che pone. Si noti però che lo sfondo non ha alcun es­ sere in sé, perché sussiste solo nel suo apparire all’osserva­ tore; e che tutto ciò che è contenuto spirituale obbiettivato nell’opera, appartiene soltanto allo sfondo: ciò significa che il variare dell’importo intuito è incontestabilmente il variare dello spirito obbiettivato e, in questo senso, una specie di destino che accompagna l’opera d’arte stessa.

LIV. - L’EFFETTO DI RITORNO NELLE ARTI

5. Sovra temporalità

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del contenuto e suo mutamento

storico

La legge dell’« effetto di ritorno » trova, quindi, nel campo delle arti, una piena conferma. L’affermazione per cui solo un patrimonio di pensiero, rientrando nel circolo del­ lo spirito vivo si modificherebbe, va corretta. Anche nel­ l’opera d’arte lo spirito obbiettivato subisce una modifica­ zione storica che interessa il suo contenuto; ed anche qui, il mutamento non è spontaneo ma è determinato da quello dello spirito vivente. Lo spirito vivente prepara cosi, all’opera d’arte, un de­ stino che il suo contenuto, considerato come atemporale, non potrebbe subire affatto. Col mutare della sua compren­ sione, esso conferisce al contenuto una storicità che, in fon­ do, non gli è propria, ma che tuttavia lo costituisce e che è anche molto diversa da quella dello spirito vivente. È una storicità storicamente condizionata, una storicità di second’ordine. La quale non coincide con la storicità primaria che la porta, ma segue in essa una propria curva. C’è da chiedersi come questa storicità si concili con la sovratemporalità dell’opera d’arte. Non si può risponde­ re, a questa domanda, come si risponde a quella relativa al temporaneo scomparire e ricomparire dell’opera d’arte. Là si trattava dell’esistenza e non-esistenza di uno stes­ so contenuto in tempi diversi, qui si tratta invece del mutare del contenuto stesso attraverso il tempo. D’altra parte nell’intuizione di questo contenuto, noi ne intuiamo anche la sovratemporalità. La soluzione del problema, nonostante tutto, va cerca­ ta nello stesso punto di prima: e cioè nel fatto che si tratta solo di sovratemporalità apparente. Dire che l’ap­ parire può ben svolgersi nel tempo, mentre ciò che appare, appare come atemporale, non è più pertinente, perché qui è proprio ciò che appare che muta, e non l’apparire. Si può dire invece che l’apparente sovratemporalità e idealità non

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

è toccata neppure da questo mutamento. Il divenire della concezione non la riguarda, nonostante che tale divenire consista proprio nel fatto che appare qualcosa di continuamente diverso. Ciò può suonare paradossale, ma perde tutta la sua enig­ maticità non appena ci si renda conto che la sovratempora­ lità che appare, sussiste del tutto indipendentemente dal fatto che alla conoscenza appaia la stessa cosa, o una cosa diversa. Se appare una cosa sempre diversa, ciò che di vol­ ta in volta effettivamente appare può, tuttavia, apparire ogni volta come sovratemporale. Perché è chiaro che proprio l’apparente atemporalità di un contenuto è del tut­ to indifferente al ripetersi dell’apparizione. Di fatto: in ogni varietà di comprensione, di intuizio­ ne profonda o di interpretazione forzata, lo spirito vivente intende l’importo ideale di sfondo come qualcosa di intem­ porale. Lo vive come sospeso nella sfera dell’idealità senza chiedersi se sarà ancora vissuto come lo stesso importo, una seconda volta. Non sa di modificarlo col suo stesso sguardo e, mentre lo guarda, non ha neppure bisogno di saperlo. Ciò non ha nulla a che vedere con la possibilità che ad altri uomini, in altre epoche, attraverso la stessa formazione di primo piano, appaia qualcosa di diverso. Ciò che, in effetti, viene parzialmente dissolto, è soltan­ to l’identità di contenuto delle figurazioni create dall’arti­ sta. Tale identità, rispetto alla pluralità dei modi possibili di afferrarlo, si rivela limitata e solo in parte esistente. Ma è una dissoluzione che non impedisce a quelle figurazioni — comunque deformate, sovraformate o esagerate possano ap­ parire, nel caso specifico, al singolo (o a intiere epoche) ■—, di apparire però, ogni volta e in ogni loro variazione, elevate in una sfera di sovratemporalità e di idealità.

LIV. - L’EFFETTO DI RITORNO NELLE ARTI

6. Univocità

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e polivalenza dell’opera d’arte

Un’altra questione è come questo mutamento e questa storicità siano compatibili con la caratteristica « determi­ natezza » che è privilegio dell’opera d’arte rispetto alle obbiettivazioni di un contenuto di pensiero. Qui entra in campo, come abbiamo rilevato, la precisione intuitiva con cui lo sfondo « appare » nella forma­ zione reale percepita coi sensi. Dato che tale determinatezza riguarda il rapporto di apparizione, non sarà semplicemen­ te la determinatezza dei particolari costruttivi della for­ mazione reale, ma dipenderà anche e soprattutto dal­ l’univocità dell’interdipendenza tra i particolari di que­ st’ultima e quelli dello sfondo. È la determinatezza con la quale la formazione reale costringe lo sguardo intelligen­ te a vedere lo sfondo, quale era stato concepito in origine e in essa fissato per ogni sguardo futuro. Di fronte alle mutazioni storiche che questo contenuto fissato sperimenta, bisognerà concludere che la fissazione stessa, anche nel caso dell’opera d’arte, è soltanto relativa. Ciò significa però che, anche qui, l’obbiettivazione non possiede una determinatezza assoluta, che quindi, anche in un rapporto d’apparizione puramente intuitivo e concre­ to, al di qua di ogni riflessione, l’univocità dell’interdipen­ denza è sempre limitata, e lascia fin dal principio un certo margine di libertà all’intuizione artistica. La determina­ tezza e l’univocità restano sempre molto maggiori nel­ l’opera d’arte che non nelle opere del pensiero riflesso, pur senza escludere una certa indeterminatezza e una certa ambiguità residua. Tale ambiguità polisensa è ben nota all’estetica. Le varie figurazioni dotate di vitalità, movimento, passionalità, drammaticità, appaiono allo spettatore con una univocità e determinatezza che non è completa in tutti i dettagli e in ogni suo aspetto, ma è sempre intenzionalmente limitata ad alcuni di essi, scelti tra gli infiniti possibili e posti

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

in evidenza da una speciale intuizione artistica. I movimen­ ti da eseguire sulla scena, la mimica, il gestire non sono generalmente indicati nel copione; vanno dedotti dallo spirito dell’intiero dramma e integrati in modo sensato e coerente. Una poesia può solo offrire una selezione ri­ stretta della concreta varietà di cui sono intessuti i rappor­ ti, le situazioni, i destini umani. In caso contrario, andrebbe a perdersi nell’illimitato. L’arte non consiste proprio nella capacità di far apparire intuitivamente, nella limitatezza degli elementi scelti, l’unità di un’azione molto più complessa? L’azione scor­ re davanti al lettore in un numero ristretto di scene ma, intanto, alla sua intuizione appare la totalità di un contesto di eventi, compreso tutto ciò che non è detto. Ma c’è di più. Il narratore si guarda bene dal descri­ vere direttamente il lato propriamente interiore, o anche solo dal chiamare col loro nome le situazioni psicologiche: ha buone ragioni per diffidare dei concetti psicologici e dispone di mezzi ben diversi per far apparire l’interiorità. Egli preferisce rendere il lato esterno, la scena visibile e, in questa, lasciar trasparire il lato nascosto dell’anima uma­ na in modo molto più vivo ed efficace di quanto non gli permetterebbe una scoperta intromissione o un’esposi­ zione diretta. Egli fa si che il lato nascosto appaia proprio come appare nella vita stessa. La situazione è sostanzialmente identica in tutte le arti. Tutte offrono soltanto un piccolo ritaglio, nei modi impo­ sti dal materiale col quale lavorano (dalla pietra, dal colo­ re, dal suono): ma l’intuizione artistica è capace di integrar­ lo nella piena e viva concretezza del contenuto intuito, an­ dando molto al di là del dato immediato.

LIV. - L’EFFETTO DI RITORNO NELLE ARTI

7. Il

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margine dell’integrazione nell’intuizione ar­

tistica

All’essenza della visione estetica appartiene, evidente­ mente e necessariamente, il momento dell’integrazione. L’integrazione, tuttavia, è e rimane sempre un’operazione sintetica del soggetto intuente, che può integrare lo sfondo apparente, entro certi limiti, in un modo o in un altro. Se lo sfondo avesse un in sé, sia pure ideale, ogni inte­ grazione si ridurrebbe a un fraintendimento. Ma siccome possiede soltanto un essere apparente e un’apparente idea­ lità, l’apporto integrativo della visione viene a far parte dell’importo costitutivo dello sfondo. Questo infatti, esi­ ste solo « per la visione ». Possiamo chiamare questa libertà dell’intuizione rispet­ to alla formazione reale data, il suo margine di dispo­ nibilità sul contenuto. Tale libertà è strettamente affine alla libertà creativa dell’artista e, del resto, mira costantemente a ricalcarne le tracce. Il margine, tuttavia, ha un’ampiezza molto diversa nelle diverse arti. Esso, anzi, varia già moltissimo all’interno di una stessa arte e, ancora, da artista a artista, da opera ad opera. Però un margine c’è sempre. Ad esso è strettamente connessa sia la possibili­ tà che all’osservatore un’opera d’arte appaia in modo diver­ so sia, quindi, la ragione della varia fortuna che essa può incontrare nel corso dei tempi. Questo margine di gioco e questa variabilità restano tuttavia ben compatibili con un grado relativamente elevato di determinatezza. Ciò non toglie che l’univocità dell’opera d’arte sia molto più considerevole di quella di un patrimonio obbiettivato di pensieri. Tale superiorità si rivela, tra l’altro, nel momento pre ed extra-riflessivo sopra indicato. Si può sempre riflettere su un’opera d’arte, dopo averla intuita ma, per l’appunto, la riflessione sarà sempre preceduta da un coglimento intuitivo delle determinazioni essenzia­ li di essa. In un’opera di pensiero, invece, il coglimento presuppo­

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

ne la riflessione. A chi pensa, il pensato appare dapprima, attraverso lo scritto, piuttosto enigmatico, e solo una medi­ tazione approfondita gli dirà come vada inteso. È quindi facile capire come alla variabilità della comprensione sia qui offerto un margine di gioco ben altrimenti ampio — anche a prescindere dall’attualità di quel pensiero per chi lo ripensa, e dalla discussione a cui lo sottopone. Qui l’inter­ pretazione diventa un compito specifico da affrontare, e che si può sempre risolvere in molti modi diversi. Le figurazioni della poesia, invece, si presentano all’in­ tuizione interiore direttamente nella loro totalità. Questa integrazione, oltre a riuscire ben diversa rispetto a quella intellettuale, non dipende dalla riflessione, ma avviene senz’altro nell’atto del nostro intuire ed è, quindi, già com­ piuta quando cominciamo a riflettere. È molto meno sog­ getta all’arbitrio, e non è un cercare a tentoni sceverando il dato da ciò che noi stessi vi mettiamo, perché il soggetto intuente non sa nulla della propria attività di integrazione. Il grado relativamente elevato di determinatezza del­ l’opera d’arte consiste appunto in questo: che è la struttura stessa della formazione reale a offrirci il filo conduttore dell’integrazione. Quanto ciò sia vero è dimostrato so­ prattutto dal fatto che al soggetto intuente appare come un dato anche ciò che è frutto della sua integrazione soggettiva.

Capitolo LV

LO SCADIMENTO DEI CONCETTI

1. Il

contesto di pensiero e i concetti astratti

La differenza tra l’obbiettivazione artistica e l’obbiettivazione del pensiero riflesso è cosi, grosso modo, fissata. Ed è risultata essenzialmente diversa da come appariva all’inizio. In altri termini, essa non è tanto grande da rendere impara­ gonabili i due generi di obbiettivazione e da negare la loro appartenenza ad un tipo comune di storicità. Ma è sempre una differenza considerevole, non solo per quanto riguarda la struttura della stratificazione e del rapporto di apparizio­ ne, ma anche rispetto alla forma specifica di destino sto­ rico che le due obbiettivazioni incontrano. Per rendersene conto, basta confrontare i due estremi: diciamo, dunque, il « concetto » come forma di obbietti­ vazione, da un lato, e le creazioni dell’arte dall’altro. II confronto è pertinente perché i concetti sono l’immediato veicolo del pensiero ed ogni contenuto di pensiero assume forma concettuale. Inoltre sappiamo benissimo che i concet­ ti, una volta posti e « coniati » vivono, per cosi di­ re, di vita propria nella storia dello spirito, al punto che, accanto alla fortuna delle concezioni generali e dei sistemi di pensiero, essi hanno ancora un loro destino particolare e una loro particolare storia. Basta ricordare che certi concetti fondamentali della filosofia aristotelica — come quelli di sostanza, forma, mate­ ria, potenza, energia —, sono diventati patrimonio comune della cultura occidentale, mentre la stessa cosa non si può di-

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

re di quella concezione della natura e del mondo. Una volta coniati, i concetti si sottraggono ben presto al contesto di pensiero in cui sono nati, si presentano come pezzi staccati e indipendenti, benché lo spirito vivente, che li riprende e li valorizza come monete in corso, non li senta affatto come elementi a se stanti. Essi hanno tuttavia la loro storia e, pur nella costanza del termine, si trasformano sempre di nuovo. Il processo può andare tanto oltre che, dopo secoli, chi li adopera e li considera come suoi non è in grado di riconoscerne il senso originario; e quando un nuovo approfondimento critico dei testi aristotelici lo riporta alla superficie, ne è colpito come da cosa strana e inusitata. Quando lo spirito vivente non è più a conoscenza dell’universo di pensiero che sta alla base dei suoi concetti, i concetti nei quali si muove sono spezzoni di questo genere. E, come non ne conosce l’origine, cosi non ne conosce le trasformazioni semantiche. Perciò le considera, piuttosto, come delle strutture di senso fissate e stabili, e nulla è più diffuso della credenza nella stabilità dei concetti. Lo stesso pensiero scientifico non è, in questo, meno ingenuo del pensiero volgare. E la logica formale, tacitamente fonda­ ta sul principio d’identità, favorisce un punto di vista che va molto al di là delle sue competenze. Su questo pun­ to, bisogna cambiare radicalmente le proprie idee. L’iden­ tità logica dei concetti è un ideale che, all’interno di un pen­ siero sistematico, può sempre trovare una certa soddisfa­ zione, ma fuori di quei confini non ha mai trovato conferma. I concetti astratti e a sé stanti hanno, appunto, superato quei confini. Ecco perché, in grandi contesti storici, poche cose sono più instabili del concetto. Rispetto al suo contenuto, il concetto non è mai nulla di più e nulla di meno di ciò che, per suo mezzo, viene effettivamente « concepito ». Questo « concepito », però, non è in funzione del contesto dal qua­ le viene estrapolato, ma del contesto nel quale viene inseri­ to.

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LV. - LO SCADIMENTO DEI CONCETTI

2. Astrazione

progressiva e

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scadimento

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storico

In questo processo, dunque, i concetti perdono buona parte del loro contenuto di senso e, spesso, proprio la parte essenziale. Una volta avulsi dal loro contesto, non possono mantenersi al loro livello originario. Non essendo altro che abbreviazioni di essenzialità e rapporti d’essenza concre­ tamente intuiti, una volta divenuti di uso corrente perdono questo importo intuitivo e precipitano sempre più al livello di astrazioni. Il termine, che qui costituisce la formazione reale, fini­ sce col non essere più sentito come 1’« immagine » di un rapporto còlto intuitivamente, ancorché il significato im­ mediato della parola tradisca sempre, a chi abbia orecchio, l’immagine originaria (per lo più visuale-spaziale). Il concetto è ormai consunto, impallidito, non è più che uno schema di pensiero. Ma, proprio come schema consunto, di­ venta tanto comodo e di uso corrente, che lo spirito vivo lo conserva con straordinaria perseveranza. Ciò che viene conservato nello schema non è più il con­ cetto vero e proprio intuitivamente fondato e trasparente alla visione spirituale (che è il vero e proprio « concepire »). In esso, il pensiero non ha più davanti agli occhi quella determinata conquista della conoscenza che dovrebbe essere custodita. Si conserva qualcosa di esteriore, il puro e sempli­ ce schema, mentre l’importo originario viene in realtà ab­ bandonato. Recuperarlo successivamente è assai difficile. Questo fenomeno, per cui un concetto apparentemente posseduto impallidisce e va alla deriva, dipende o da una progressiva astrazione o dal venir meno dell’autentico con­ cepire. Possiamo indicarlo, in generale, come il fenomeno dello « scadimento » \_Absìnken\ storico dei concetti. Tutti i concetti avulsi dal loro contesto finiscono necessariamente col precipitare. La maggior parte dei concetti filosofici tradi­ zionali, e moltissimi delle scienze positive, sono concetti declassati. Perciò è tanto difficile adoperarli e far affidamen­

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

to su di essi. Sono straordinariamente comodi per un pen­ siero pigro, perché in essi la ricchezza non facilmente domi­ nabile del sapere raggiunto è ridotta un minimo assai maneg­ gevole, mentre per l’ignorante mantengono la vernice appa­ rente di quel sapere. Per questa loro comodità e suggestivi­ tà sono ingannevoli: grazie ad essi, si « liquidano » con ec­ cezionale facilità le questioni più difficili ed enigmatiche. Chi desidera soltanto arrivare comunque a una decisione, chi schiva l’inquietudine dei problemi irrisolti, tende sempre a cedere a questa illusione. Concetti illanguiditi di questo ge­ nere si offrono in grande quantità e non c’è bisogno di an­ darli a cercare. Chi indulge ad essi perde il sen­ so della realtà effettuale. Anche a questo proposito si può dire : « la lettera uccide ». Nelle epoche nelle quali il pensiero è dominato da concetti scaduti, lo spirito della scienza è morto, il pensie­ ro degenera in gioco del pensiero e si perde in sottigliezze infeconde. Quando la scienza riprende slancio, comin­ cia sempre o con lo scrollarsi di dosso questi precipitati schematici dei concetti rimettendo in libertà lo sguardo in­ tuitivo — ovvero col recuperarne il contenuto originario.

3. Restituzione del

contenuto scaduto.

Non-indipen-

DENZA DEL CONCETTO

Come è possibile recuperare il contenuto dei concetti una volta che sia andato perduto? A questo scopo c’è solo una via: rifarsi al contesto di pensiero originario, nel qua­ le i concetti sono stati forgiati. Solo la viva ripetizione del­ l’intuizione, la restituzione di quella stessa θεωρία di cui lessi erano momenti strumentali e aspetti parziali, può toglierli dal loro irrigidimento e svegliarli a nuova vita. In altri termini: i pezzi staccati vanno ricollocati esattamente al loro posto in quel tutto da cui si sono stacca­ ti. Allora riacquistano automaticamente la loro trasparenza.

LV. - LO SCADIMENTO DEI CONCETTI

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Questa relazione è ben nota ai filosofi. Chi oggi intenda riconquistare il senso originario dei concetti aristotelici scaduti, deve ricorrere ai testi di Aristotele. Non deve sol­ tanto riconoscere ma, nei limiti del possibile, imparare egli stesso in base al contesto totale dei problemi offerti, quale fosse il modo caratteristico in cui Aristotele studiava la co­ sa, prospettava le difficoltà e racchiudeva i risultati raggiun­ ti in accurate coniazioni d’immagini. Deve imparare a « vede­ re » come Aristotele vedeva. E solo dopo aver riconquista­ to l’unità della sua visione (θεωρία) e imparato, anzi, a ri­ peterla, sarà in grado di ricostruire il contenuto dei suoi concetti. La conseguenza da trarre è dunque questa: che di per sé i concetti non sono affatto delle formazioni indipendenti. Non stanno in piedi da soli, come le opere d’arte. Sono sempre radicati in un contesto visivo-intuitivo molto più ampio, ma non sono in grado, da soli, di comunicarcelo nella sua totalità. Perciò, in quanto a se stanti, sono sradica­ ti ed esposti all’indiscriminato arbitrio dello spirito vi­ vente; per la stessa ragione, essi subiscono altresì uno scadimento storico e solo una reinserzione nel loro contesto originario può restituircene il contenuto. I concetti, intesi come frammenti isolati di uno spirito oggettivo, sono formazioni estremamente fragili e labili; solo la costanza del termine può, a questo proposito, trarre in inganno. Si può dire anzi, che, di per sé, essi non sono nulla, e che tutto ciò che sono, lo sono soltanto nel tutto di una visione complessiva tuttora vivente o attualmente ri­ conquistata. A questo punto, il contrasto rispetto all’opera d’arte si può toccare con mano. L’opera d’arte, attraverso la pro­ pria formazione reale, trasmette all’osservatore tutta la ric­ chezza del contenuto intuitivo-spirituale in essa obbietti­ vato. Questa ricchezza, essa la contiene in sé, cioè nella molteplicità determinata che offre alla visione sensibile. Invece il concetto ha questa ricchezza fuori di sé — nella totalità di una visione complessiva della quale esso stesso è solo un frammento. Il termine non tradisce nulla di

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PARTE ΠΙ. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

questa ricchezza, se non a colui che è già senz’altro in con­ dizione di vedere la totalità. Il concetto, singolarmente e per sé preso, è sempre povero quanto a determinatezza. Perfino la definizione, che ha lo scopo di renderne esplicito l’importo, qui non serve a molto. Una breve formula, anche nel caso di una defi­ nizione non puramente nominale, non può surrogare l’assen­ za di una palpabile molteplicità determinata. Una determi­ nazione effettivamente esaustiva del concetto è possibile unicamente in un più ampio contesto di contenuti. La con­ quistiamo solo nel tutto di un pensiero operante ancora in prossimità dell’intuizione, là dove viene forgiato il concet­ to. Il quale, appunto, ha la propria determinatezza fuori di sé.

4. Scadimento delle

teorie e dei sistemi

Il fenomeno dello scadere non è tuttavia limitato ai con­ cetti singoli, ossia, non dipende unicamente dal loro isola­ mento. Questo è soltanto il caso in cui esso risulta più evidente. Ma c’è anche uno scadimento di intieri contesti concettuali e addirittura di intiere teorie e sistemi. Anche qui, esso consiste in un’estenuazione del contenu­ to intuitivo. Ed è quindi già in atto dovunque un sistema di pensiero non venga più còlto nella sua tensione coi problemi dai quali ha origine, ma solo nei risultati di quel­ la tensione, come sistema « già fatto ». L’estenuazione si ag­ grava ulteriormente quando il sistema di pensiero in questio­ ne non sia conosciuto nella sua redazione originale {in un testo fondamentale) ma solo attraverso riassunti, citazio­ ni, esposizioni di seconda mano. Il contenuto intellettuale vi appare, allora, scorciato, trivializzato, defraudato della suà vera essenza. La teoria, a questo punto, non è più « visione » e neppure avviamento a un vedere effettivo, ma è già quasi ridotta a una sostanziale rinuncia a vedere. È diventata il

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contrario di se stessa, « teoria » nel senso cattivo della pa­ rola. Che tutti i sistemi di pensiero, col loro particolare linguaggio concettuale, siano esposti a un tale decadimento, è dimostrato ampiamente dalla storia della filosofia. Ed è un processo che non comincia soltanto a distanza di secoli, quando i modi di vita siano mutati ed abbiano generato nuo­ vi problemi. Di regola comincia subito, non appena una nuo­ va produzione intellettuale abbia cominciato a prender piede. Dovunque un sistema « faccia scuola », si declassa ben presto nei suoi stessi seguaci; a questo destino sembra non potersi sottrarre alcun « sistema », ed è difficile tro­ vare eccezioni a tale regola. C’è bensì tutto un fecondo la­ vorio, dentro e fuori della « scuola » propriamente detta, sulla scia dei problemi che essa ha suscitato. Ma questo lavoro progressivo non è dovuto al sistema in quanto tale (se mai, trasforma il sistema) né appartiene allo spirito obbiettivato: è, piuttosto, lo spirito vivo della ricerca, le cui realizzazioni sono una nuova visione e una nuova obbiettivazione del veduto. Quando però si tratta di riconquistare lo spirito origi­ nario di un « sistema » deperito, il problema è ancora quel­ lo che abbiamo esaminato a proposito del concetto, ma di maggiori proporzioni. In questo caso, generalmente, non ba­ sta rifarsi agli scritti del singolo pensatore, bisogna conosce­ re altresì l’intiero stato dei problemi nel suo tempo e, ancora, il precedente svolgimento storico di tali problemi. Questa è anche, di fatto, la strada seguita da ogni serio storico del­ la filosofia, che, del resto, non dispone al proposito di alcuna scelta alternativa. Ciò significa che l’importo genuino di una teoria è recu­ perabile solo in base al contesto più ampio in cui s’è formata. Neppure una teoria ha in sé tutta la ricca varietà delle pro­ prie determinazioni ma, anch’essa, le ha soltanto fuori di sé — sebbene non nella stessa misura del concetto. Comun­ que, neppure una teoria può essere avulsa dallo spirito viven­ te e ricercante o dalle molteplici implicazioni del tempo, senza grave rischio. Meno grave, rispetto al concetto

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

isolato, soltanto nella misura in cui le teorie o i sistemi sono già di per sé molteplicità più ampie e complesse, nelle quali molte determinazioni singole si fondano e si integrano vi­ cendevolmente. È chiaro che, rispetto all’univocità e alla determinatez­ za le teorie assumono una posizione media tra il concetto e l’opera d’arte. Questo è importante perché dimostra come la serie delle obbiettivazioni comporti un’ampia successione di gradi; e possiamo supporre che tale scala ammetta tutte le forme di transizione pensabili — che sia cioè, essenzial­ mente, un’unica serie continua. Con ciò, non intendiamo cancellare il confine tra le creazioni del pensiero e quelle dell’arte. Tale confine non è soltanto nella struttura e nella storicità delle formazioni, ma altresì nel loro carattere di valore. La continuità si riferisce solo alle gradazioni dell’interna determinatezza ed autosufficienza del­ lo spirito obbiettivato in quanto tale. E poiché la lettera­ tura universale ci offre una grande quantità di forme di transizione tra la poesia e le opere del pensiero riflesso — forme in cui il carattere di valore non è tuttavia meno oscil­ lante e discusso, non si vede perché debba esserci qui una soluzione di continuità.

5. Ascesa

dei concetti nello spirito vivente

Il fenomeno dello scadimento non è irrelazionato. Nella storia dei concetti e delle teorie c’è anche il fenomeno dell’ascesa [Aufstieg] che, però, non appartiene allo spirito obbiettivato ma allo spirito vivente, e si realizza nel progres­ so della ricerca. Si può dire che esso è in corso dovunque, nella misura in cui la sensibilità si mantenga viva a diretto contatto coi problemi e la conoscenza progredisca. Chi partecipa o contribuisce al lavoro delle scienze po­ sitive, può sperimentare in modo immediato cosa sia questo progresso. Esso acquista maggiore intensità in epoche di grandi scoperte scientifiche; nelle scienze naturali, ad esem­

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pio, il periodo che va da Galileo a Newton vide l’immagine complessiva dell’universo e i singoli concetti fisici riempirsi di un contenuto sempre più ricco, intensificarsi. Nelle scienze storiche, i tempi recenti hanno dato inizio a una consimile ascesa. Qualcosa di analogo ritroviamo, nella storia della filosofia, da Talete ad Aristotele, da Cusano a Leibniz, da Kant a Hegel. Come s’accorda tutto questo col fenomeno dello scadimento dei concetti? S’accorda benissimo, perché i livelli di storicità dei due fenomeni non sono gli stessi: lo scadimento non colpi­ sce l’avanzare della viva ricerca, ma avviene fuori di essa, là dove essa è venuta meno o ha evitato di cimentarsi sui punti decisivi dei problemi. Dal punto di vista del proces­ so storico della conoscenza, lo scadimento è solo un fenome­ no limite. Infatti, almeno nei singoli domini della conoscen­ za, esso non è affatto ininterrotto. Una certa connes­ sione tra i due movimenti è, anzi, sempre riscontrabile in una stessa teoria, in uno stesso concetto. Ogni risultato di ricerca, una volta acquisito e formulato concettualmente, è già esposto allo scadimento non appena diventa bene co­ mune di molti. I più infatti non badano all’intuizione, ma al risultato formulato, all’obbiettivazione, ai concetti. L’intuizione, del resto, non è effettivamente data a tutti, ma si può con­ quistare solo a prezzo di un lavoro e di un impegno perso­ nale. La massa dei contemporanei coglie solo il dato formu­ lato e circoscritto, « va pescando concetti » anziché entra­ re in contatto con le cose stesse. Fin troppo spesso, intervie­ ne anche il gusto del sensazionale, e allora la cosa viene defi­ nitivamente sacrificata al concetto. Ai nostri giorni, il concetto einsteiniano della relatività è un esempio cospicuo di questo genere: nella coscienza del­ la massa, che lo conosce solo in base ad esposizioni superficia­ li e, per di più, sempre mal comprese, esso è già da tempo un concetto declassato che va scadendo sempre più; per molti, non è mai stato altro che un eccitante luogo comune, circondato da un insieme confuso di rappresentazioni fanta­ stiche. In sede scientifica, viceversa, — e cioè per un numero 44.

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

assai ristretto di ricercatori di diverse nazioni —, questo concetto sembra essere ancora all’inizio della sua ascesa. Ma questa ascesa, che possiamo seguire di anno in anno e che coinvolge sfere di problemi sempre più ampie, si svolge nel vivo processo dell’intuizione scientifica stessa e trapassa nella corrispondente obbiettivazione concettuale solo nella misura in cui questa viene continuamente trasformata da quella.

6. Generalità

del rapporto tra scadimento e ascesa

L’interdipendenza tra ascesa e scadimento è, dunque, questa: che, nel divenire di un concetto vivente in ascesa (in quanto è quel determinato concetto, anche terminologicamente fissato) ogni stadio subisce a sua volta immediata­ mente un processo di estrapolazione e di scadimento. Infatti, c’è sempre una cerchia ulteriore di contemporanei che non è in grado di riprodurre la visione complessiva, e tuttavia è anch’essa partecipe della formulazione finale. Per costoro, il concetto è sempre là in un relativo isolamento. Ma, in tale isolamento, esso non può in nessun modo mante­ nersi al proprio livello. Nella ricerca viva, vi è un processo ininterrotto di co­ struzione di concetti. Ogni nuova acquisizione conoscitiva elevata a forma logica, assume la figura di un giudizio; ogni giudizio aggiunge al concetto un nuovo attributo, e que­ sto « aggiungere » è il carattere « sintetico » dell’asser­ zione. Il concetto, inteso come l’insieme dei contrassegni è, quindi, la sintesi progressiva dei predicati che si accumula­ no. Tale progredire della sintesi è la vita del concetto, il suo concreto emergere nel divenire della conoscenza. Lo scadimento è un processo dovuto alla dissoluzione della sintesi, e dovrà intervenire di necessità, dovunque il concetto venga separato dal vivo lavorio dell’intuizione e del giudi­ zio.

LV. - LO SCADIMENTO DEI CONCETTI

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Ora, di fatto, una considerazione che non sappia ripro­ durre, a sua volta, per filo e per segno l’intiera serie delle sintesi giudicative in esso accumulate, strappa il concetto da quella che è la sua sfera di vita. E poiché una considera­ zione del genere è sempre possibile in ogni stadio dello sviluppo di un concetto, il quadro complessivo di questa re­ lazione è il seguente: da una singola e coerente linea di viva emergenza possono storicamente dipartirsi innumere­ voli linee di precipitazione progressiva relativamente indi­ pendenti tra loro. Ogni fase di svolgimento, nella vita ascen­ dente di un concetto, diventa cosi punto di partenza di una progressiva trivializzazione storica. Per la molteplicità sterminata delle sue direzioni di ri­ cerca, la scienza rischia continuamente di perdere di vista l’importo intuitivo dei propri concetti. Essa vive in una lotta costante per i propri contenuti e, in questo senso, le definizioni di cui si serve volta a volta, sono sempre sol­ tanto un espediente necessario. Le obbiettivazioni che essa costituisce per i propri bisogni nella forma di coniazioni concettuali, le sono d’impedimento almeno nella stessa misura in cui sono indispensabili alla sua vita. Nel caso dei concetti filosofici, infine, questo pericolo assume proporzioni incalcolabili. Qui, infatti, la ricchezza dei contenuti intuitivi non proviene soltanto dal contatto con una materia fattuale. Dovendo comprendere nella speci­ fica ricerca oggettiva anche la dimensione storica, essa pre­ suppone altresì il recupero di un’immagine del mondo divenuta estranea ai posteri, l’apprendimento di un modo di vedere estraneo. L’impegno che l’effettiva comprensione concettuale richiede è, in questo senso, maggiore. Ogni vol­ ta, come diceva Hegel, bisogna davvero « prendere su di sé la fatica del concetto ». In questa fatica, però, è già pre­ supposta l’orientazione storica sul passato.

Capitolo LVI

LA SINGOLARE POSIZIONE DELL’OPERA D’ARTE NELLA STORIA

1. Scadimento innocuo

e scadimento nocivo

La fatale estenuazione che tocca a teorie e a sistemi non esaurisce, intanto, il fenomeno dello scadimento e neppure quello della sua relazione con l’ascesa entro lo spirito viven­ te. Sia l’imo che l’altro, infatti, non si riferiscono soltanto a contenuti di pensiero. Troviamo qualcosa di analogo nel campo dell’ethos, delle forme di vita e dei costumi in atto, del diritto e della sua tu­ tela, della stessa vita religiosa. Tutti questi domini di vita spirituale ricorrono in svariati modi all’obbiettivazione come mezzo per fissare i propri contenuti: in ogni settore sorgono simboli, formule, parole d’ordine, modi di dire ca­ ratteristici, riti e cerimonie che hanno un ambito di signifi­ cato che va al di là di essi e che può facilmente sfuggire al­ la coscienza dei vivi, anche quando ne conservino tenacemen­ te la forma esteriore. Il senso originario di un’usanza può es­ sere caduto da gran tempo nell’oblio, mentre formalmente essa perdura. Cosi per il senso dei proverbi più popolari, dei modi di dire, delle metafore; ed è ben nota la spiccata ten­ denza a scadere che hanno tutti i cerimoniali, i rituali, gli atti e i comportamenti convenzionali. Sollecitando esclu­ sivamente l’occhio e l’orecchio e mancando, nel contempo, di una determinatezza che renda trasparente il loro peculia­ re contenuto, essi si presentano all’arbitrio o all’accetta­ zione automatica e inconsapevole. Un’indagine culturale

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

di tipo scientifico può disseppellire il senso di simili forme ma, anche in tal caso, l’unico a saperne qualcosa è il dotto: il senso originario non rientra tanto facilmente nel ciclo del­ lo spirito vivo. Fin qui, lo scadimento è piuttosto innocuo. Piu grave — e talvolta addirittura tragico —, esso diventa là, dove un di­ ritto scritto, superato dai fatti, perdura; là, dove singole pre­ scrizioni, il cui spirito dipendeva da condizioni di vita ormai inesistenti, vengono applicate alla lettera e servono di pre­ testo alla pubblica prepotenza. In modo ancora diverso, ma non meno degno di meditazione, lo scadimento si presenta nel campo della fede. Intuizioni religiose riguardanti ciò che l’uomo coglie, o crede di cogliere, di più elevato e pro­ fondo, si traducono nella forma di « dogmi ». Ma il dogma, avulso da quel sentimento vivo che è il suo elemento portan­ te (dal rapporto, sentito e vissuto con convinzione, con una Potenza superiore) patisce la stessa sorte del concetto. Perde cioè il suo contenuto — tanto più gravemente in quanto esso è meno afferrabile oggettualmente col pensiero —, im­ pallidisce per irrigidirsi, alfine, in una formula. Lo scadimento dei dogmi religiosi forma un grande capitolo a sé. E meriterebbe a buon diritto una speciale trattazione in sede di filosofia della religione, sulla base delle leggi dell’obbiettivazione già rilevate in altri contesti fenomenici. I dogmi, infatti, sono obbiettivazioni sui generis caratterizzate dall’enorme autorità che pretendono di pos­ sedere, cui peraltro non corrisponde affatto un’eguale for­ za e trasparenza nei riguardi dello spirito vivente. Qui si può solo accennare in generale al fatto, ben noto, che in ogni religiosità storica si ha un rapprendersi dogmatico del contenuto di intuizione e di fede — sia che si trasponga nelle forme della dotta ortodossia, o in quelle di un più pratico fariseismo, puritanismo, ecc. Anche la vita religiosa rischia sempre di cadere nelle strette di ob­ biettivazioni costituite. Anch’essa, come la scienza, vive in una costante interna lotta con le proprie obbiettivazioni. Qui il pericolo è tanto maggiore, in quanto la religione, in generale, consiste soltanto nel puro atteggiarsi della vita

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- l’opera

d’arte nella storia

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interiore dell’uomo e rifiuta ogni obbiettivazione in quanto tale, sia in dogmi, che in simboli o concetti. Le manca, in­ fatti, il naturale esclusivismo della scienza, la quale automa­ ticamente scevera tutto ciò che è inautentico dal corso più proprio della ricerca.

2. « Sublimazione »

storica delle creazioni artistiche

Tanto più sorprendente è il vedere, quando ci si volga alle arti, che in esse c’è anche il fenomeno contrario: una crescita dei grandi capolavori nella stima e nella comprensio­ ne dello spirito vivente — che raggiunge la forza e la gran­ dezza di un dominio vero e proprio. La sublimazione [Aufrücken] di cui parliamo non ha nulla in comune con l’ascesa dei concetti nella viva ricerca. Quest’ultima, in fondo, non è altro che il progresso stesso della conoscenza, nella misura in cui essa si va via via obbiettivando; appartiene allo spirito obbiettivo vivente, nel quale l’obbiettivazione non è compiuta, ma è ancora fluida e ancora allo stato nascente. Qui si può parlare di conserva­ zione del concetto solo in quanto la nozione acquisita e in­ clusa in esso come attributo, viene ulteriormente valoriz­ zata. La sublimazione dell’opera d’arte, invece, è un proces­ so che, come quello dello scadimento, riguarda il contenu­ to obbiettivato stesso, soltanto, in direzione opposta. Non se ne può parlare in generale per tutte le opere d’arte, perché ci sono anche opere che ricadono ben presto nel nulla: apparizioni fugaci, mosche effimere dell’arte, affascinato per un giorno il loro pubblico, sono già esauri­ te e spente. Tutta l’arte concepita per dimostrare una tesi, o mirante al sensazionale, è di questo genere. Nella gerarchla di valore dell’operare artistico — e questo vale per tutte le arti — c’è però un limite, al di sopra del quale questo crite­ rio non vale più. Tutta l’arte storicamente notevole si colloca al di sopra

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

di questo limite. Del resto, questa affermazione è quasi una tautologia: è proprio perché tale arte supera quel limite, che si protrae oltre il proprio tempo e trova crescente fortu­ na storica nelle epoche successive. L’importo dei grandi ca­ polavori non viene esaurito dai loro contemporanei: non solo rivela continuamente aspetti nuovi, ma (ciò che più importa) nell’avvicendarsi degli spiriti vivi, a quello che più profondamente lo comprende esso dà qualcosa di più profondo; al più grande, qualcosa di più grande; al più storicamente maturo, qualcosa di obbiettivamente più matu­ ro e perfetto. Ancora una volta, l’esempio più lampante ci è offerto da certi personaggi poetici — Achille e Ulisse, Sigfrido e Hagen, Egil, Parsifal, Don Chisciotte, Amleto, Faust. Figure come queste non invecchiano, non si estenuano per la crescente distanza storica, anzi, diventano sempre più vive nell’intuizione dello spirito vivente; e ciascuna di esse acquista le proporzioni di un mito. Al loro contatto, e met­ tendoci del proprio, matura lo spirito vivo. In quanto egli vi si specchia e, in un certo senso vi si commisura, quelle figure diventano per lui simboliche. Anche questa crescita o sublimazione dei personaggi comporta una certa semplificazione. Ma si tratta di una sem­ plificazione diversa da quella del deperimento dei concetti. Là, sprofonda via l’essenziale e resta solo una astratta for­ ma. Perciò, scadimento. Qui, invece, cadono gli aspetti la­ terali, i particolari più restrittivi, e ciò che resta è il puro nocciolo essenziale, i tratti ormai lapidari, la figura ele­ vata a simbolo — assurta, cioè, alla caratteristica idealità ed atemporalità del simbolo. Anche qui, beninteso, l’ideali­ tà è solo apparente ma, nell’apparenza, dominante. Perciò questo genere non si può dire scadimento ma sublimazione in senso eminente, non deperimento, ma piuttosto reperi­ mento della figura originaria. Questa sublimazione non è limitata ai soli personaggi anche se è prevalente nel campo della poesia e della scultura. Già nella pittura però intervengono contenuti nuovi, e anco­ ra diverso è l’importo di apparizione della musica. Eppure,

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l’opera d’arte nella storia

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proprio ai capolavori musicali non si può negare sublimazio­ ne storica; ne facciamo puntuale esperienza nella musica bachiana che attualmente, a una comprensione nuova e più profonda, sta rivelando un nuovo e più profondo contenuto.

3.

della gran massa della produzione ar­ tistica E PERMANENZA degli autentici monumenti

Caducità

Lo studio dei fattori storico-spirituali di questo proces­ so potrebbe rivelarsi un’impresa temeraria — non meno te­ meraria, forse, della pretesa di analizzare il processo stesso della creazione artistica. Eppure è qualcosa di intimamente affine a questo creare e si presenta come una diretta prosecu­ zione di esso nella vita spirituale della posterità. Se e in che misura lo sia effettivamente, è un problema che possiamo lasciare indeciso. Particolarmente oziosa sem­ bra la questione se la figura che a una data posterità appare straordinariamente sublimata sia stata effettivamente « co­ si » intesa dal poeta. La metamorfosi storica delle figurazioni poetiche riguarda esclusivamente la comprensione che se ne ha, è insomma il mutamento di ciò che i posteri riescono a scorgere nell’opera fatta. Ed è solo questo che conta: la grandezza di un’opera grande consiste appunto nella sua ca­ pacità di far apparire, a una visione approfondita, qualcosa di più profondo. Questo è un fenomeno storico-obbiettivo: riguarda lo spirito obbiettivato come tale, non lo spirito personale dell’artista creatore. Perché l’artista, quando pro­ duce qualcosa di grande, opera come un visionario o un sonnambulo. Egli produce la sua figura, con tutta la ric­ chezza delle possibilità che essa contiene. Ma, proprio rispet­ to a queste possibilità, si può affermare che egli non sa quel­ lo che fa. Né del resto, ha bisogno di saperlo. È questo un compito che può lasciare ai posteri. Il suo fare scaturisce dalla spinta interiore della visione e possiede una connota­ zione di fatalità.

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

È un fatto sempre ricorrente, che grandi capolavori quasi non si notino nel loro tempo, sommersi come sono dalla gran massa della produzione. Presso i posteri, però, quando la maggior parte di questa produzione è andata a fondo ed è quasi sconosciuta ormai agli stessi specialisti, essi restano come monumenti della loro epoca. Solo allora, si può dire, essi ottengono il posto che meritano. È come se solo allora si creasse la distanza prospettica necessaria per vederli; e, nell’implicito confronto con la massa delle opere andate a picco, eccoli apparire in un’aura di monumentalità. Il caso più tipico è quello di un capolavoro totalmente ignorato nella sua epoca e « scoperto » solo dalla posterità ormai cresciuta fino al livello del suo contenuto. Casi di questo genere sono molto frequenti, perché è nell’essenza stessa della grande arte, che l’autore precorra i tempi con un nuovo modo di vedere. La grandezza della sua opera sarà pienamente sentita, solo quando il modo di vedere dello spirito vivente si sarà evoluto in quella direzione ed avrà raggiunto un livello di sensibilità corrispondente all’istanza che emana dall’opera. Se poi ci chiediamo quale sia, nella struttura di un’opera, la ragione del fenomeno di sublimazione o di intensificazio­ ne, quale sia cioè, la vera differenza tra opere esauribili ed effimere, e opere inesauribili che permettono ulteriori sviluppi della comprensione, siamo inevitabilmente rimandati agli strati più profondi dello sfondo apparente. Si è visto infatti che, nelle arti, la struttura dello sfondo è a sua volta pluristratificata e che ad essa corrisponde una stratificazione del rapporto d’apparenza (cfr. cap. XLVIII 1, 2). Di strato in strato, l’elemento più prossimo al primo piano ha in generale una funzione portante rispetto all’apparire di quello più prossimo allo sfondo, mentre viceversa, è sem­ pre quest’ultimo a riempire il primo di contenuto. Per la visione intelligente, quindi, la situazione è la seguen­ te: essa è costretta a cominciare dallo strato più su­ perficiale, e solo insistendo e maturando a sua volta, giunge in vista della profondità.

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l’opera d’arte nella storia

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A questo processo corrisponde l’elevazione del grande capolavoro nella comprensione che se ne ha. Il suo baricen­ tro va cercato nella sua stessa profondità, nel suo estremo elemento di sfondo, quello più prossimo alla natura dell’i­ dea. Ma, allo spirito vivente, esso scopre la sua profondità soltanto a poco a poco. La sublimazione è lo sbocciar fuori del più intimo contenuto ideale nella visione artistica dello spirito vivo che cresce al suo livello. Perciò le opere pas­ sibili di sublimazione storica si distinguono tanto radi­ calmente da quelle che brillano una volta sola per soddisfa­ re un bisogno di sensazione del loro tempo e poi scomparire per sempre. Queste ultime, infatti, non hanno profondità, non hanno un livello al quale una situazione artistica più profonda e penetrante possa elevarsi. Lo spirito più avanza­ to le ha superate ed esse non hanno più nulla da offrirgli.

4. Forza esaltante dell’arte e impotenza dell’ astra­ zione

Il grande capolavoro d’arte costituisce quindi la più radicale antitesi rispetto a tutto ciò che storicamente « scade »: rispetto al concetto, alla teoria, al dogma, alla let­ tera della legge, al formalismo delle usanze e dei costumi. Dato però che l’importo spirituale di tutte queste obbietti­ vazioni può benissimo possedere profondità e idealità, la dif­ ferenza rispetto all’opera d’arte non consisterà, questa vol­ ta, in un difetto di profondità (come per le opere scadenti dell’arte stessa), ma andrà cercato altrove. Se analizziamo la questione, siamo ricondotti infallibil­ mente alla profonda differenza relativa alla determinatezza della formazione reale. Il contenuto religioso di un dogma non è necessariamente meno consistente del contenuto di una figurazione poetica, e altrettanto dicasi per il contenuto ideo­ logico di un importante concetto filosofico. Ma la capacità del dogma, o del concetto, di trattenere il contenuto,

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

ossia di lasciarlo apparire nello stampo formale della paro­ la, è incomparabilmente minore. Ambedue, come s’è visto, hanno la propria determinatezza essenziale fuori di sé — in una visione intellettuale complessiva, in un attegiamento mentale che trascende ogni formalità — mentre l’opera d’ar­ te l’ha dentro di sé. In quanto l’opera d’arte si rivolge all’intuizione sensi­ bile, si rivolge mediatamente — ma inscindibilmente — an­ che all’intuizione spirituale: la provoca e, entro certi limi­ ti la guida e la costringe senz’altro verso di sé. Nella misura in cui lo spirito « conferito » ( obbiettivato ) prevale sullo spirito vivo, trae quest’ultimo potentemente a sé. Tale esal­ tazione non avviene d’un sol colpo: bisogna almeno che lo spirito vivente adatti la sua intuizione all’oggetto arti­ stico. Ma questo adattamento, disponendosi entro un pro­ cesso storicamente osservabile, assume agli occhi delle generazioni che si susseguono, l’aspetto di un’evoluzio­ ne e sublimazione dello spirito obbiettivato. Concetto, proposizione, dogma, hanno il carattere di formule, di abbreviazioni; sono una specie di moneta di scambio dello spirito vivente, che serve agli individui per comprendersi. Tale moneta di scambio è decisiva per resisten­ za storica di uno spirito vivente. Ma in strutture obbiettive di questo genere, la formazione reale è ristretta, indifferen­ ziata, e non mette in evidenza l’essenziale che, infatti, riesce comprensibile solo a coloro, ai quali è senz’altro famigliare. Né la forma fonica del termine, né la formulazione propo­ sizionale possono di per sé comunicarlo o farlo apparire in modo determinato e intuitivo. Perciò, non appena il con­ tenuto che portano non sia più presente in carne ed ossa allo spirito vivo, esse devono necessariamente scadere. L’opera d’arte invece, con la sua piena determinatezza intuitiva-sensibile, può rivelare allo spirito vivente ciò che egli stesso non possiede. In essa, non v’è sproporzione alcuna tra formazione reale e contenuto spirituale. La deter­ minatezza della formazione reale è adeguata a quella dello spirito che le è stato conferito. Di qui la sua capacità di tra­ scinare lo spirito vivente, di renderlo adeguato a sé. E nel­

LVI.

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l’opera d’arte nella storia

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la misura in cui lo rende adeguato a se stessa, cresce e si su­ blima ai suoi occhi, per forma e grandezza. Perché solo nel­ la comprensione dello spirito vivente essa ottiene un pro­ prio essere storico.

5. Valore artistico e potere stimolante A questo punto diventa chiaro ciò che, più sopra, abbiamo soltanto genericamente accennato, e cioè quale sia il vero senso di questa differenza. La forza di un’obbiettivazione non sta soltanto nella grandezza e importanza del suo conte­ nuto e neppure nella sola modulazione sensibile della forma­ zione reale — di quella sono ricchi anche i concetti, di questa anche le opere d’arte di second’ordine —, si nel rapporto tra la determinatezza impressa alla formazione reale e la deter­ minatezza impressa al contenuto spirituale. Tale rapporto è decisivo per quanto riguarda la forza e il destino storico dello spirito obbiettivato. In esso ha la sua radice l’estrema opposizione esistente tra concetto e creazione artistica. Se il rapporto è adeguato, lo spirito obbiettivato può conservarsi in quanto tale nello spirito vivo e per lo spirito vivo, pur nello storico mutare di questo; può, anzi, elevar­ ne la sensibilità e, per questa via, raggiungere a sua volta la propria piena idealità. Se il rapporto è inadeguato e alla for­ mazione reale è conferito più spirito di quanto la sua strut­ tura sia in grado di portare, allora lo spirito obbiettiva­ to, nell’awicendarsi dello spirito vivente, dovrà necessa­ riamente scadere — a meno che quest’ultimo non intervenga di propria iniziativa, non lo ritrovi (ad es., ricostruendo­ lo nell’indagine storica) e non lo obbiettivi nuovamente. Infatti, è nella formazione reale che sta l’inadeguatezza. Lo scadimento è dovuto quindi alla debolezza dell’obbiettivazione, non a quella dello spirito obbiettivato. Se guardiamo meglio, la legge storico-spirituale alla quale la nostra ricerca ci ha condotti, in fondo non è altro

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

che il rovescio e la generalizzazione di quella legge che già era emersa dall’analisi dell’oggetto estetico. Il vero e pro­ prio valore artistico — quel che si dice la « bellezza » del­ l’opera compiuta —, non risulta dipendere in modo esclu­ sivo, né dal primo piano reale-sensibile, né dallo sfondo irreale-spirituale, ma solo dalla loro relazione d’interio­ rità reciproca [Ineinander}: ossia dall’« apparire » dello sfondo nel primo piano, rispettivamente dalla trasparen­ za di questo per quello. Anche per quanto riguarda il valore, tutto dipende dunque dall’adeguatezza dell’uno al­ l’altro. Solo se è data una sufficiente capacità portante della formazione sensibile, abbiamo quel miracolo dell’apparire per cui l’importo, una volta intuito, può essere intuito sempre di nuovo. Nei due casi, il rapporto è sempre lo stesso. Decisiva, per il destino storico dello spirito obbiettivato in generale, è sempre l’adeguatezza tra due strati eterogenei. E non è un caso che ciò che possiede un elevato valore estetico abbia anche un’elevata capacità di conservarsi, anzi di stimolare lo spirito vivo nel suo divenire. La voce più potente che dal passato si rivolge a noi, è sempre quella dell’arte. La bellez­ za è certo altra cosa che la presenza duratura di un bene spirituale; ma è innegabile che la presenza storica più dura­ tura è quella di un bene spirituale la cui concretizzazione sensibile nell’opera abbia quella singolare perfezione, che noi chiamiamo bellezza. L’obbiettivazione più adeguata è anche la più forte.

Sezione III SPIRITO OBBIETTIVATO E SPIRITO VIVENTE

Capitolo LVII POTERE STIMOLANTE E POTERE INIBENTE

1. Affezione

e funzione portante dello spirito vivo

La principale forma categoriale dell’essere spirituale, nella storia, è quella dello spirito obbiettivo vivente. Le ri­ cerche degli ultimi capitoli ce ne hanno mostrato alcuni aspet­ ti. Lo spirito obbiettivato è soltanto un bene spirituale, non è la vita stessa dello spirito. Ma, proprio come un bene, esso è dapprima elaborato e costituito dallo spirito vivente che, quindi, lo pone fuori di sé; in seguito, esso continua a dipenderne in quanto « è per lui » soltanto, da lui subisce trasformazioni e in lui può infine « ritornare » intieramen­ te, perdendovisi come un fattore tra gli altri. Se consideriamo questi cinque momenti nel loro com­ plesso, vediamo chiaramente come lo spirito vivo sia in ogni senso il presupposto dello spirito obbiettivato, ne determi­ ni il contenuto e sia portatore della sua maniera d’essere sto­ rica. Tale dipendenza dello spìrito obbiettivato, tuttavia, non ne compromette affatto l’originalità categoriale. Qui, come in tutti gli altri rapporti ontici di condizionamento, l’essere portato non è l’essere portante e quindi, pur nella dipendenza d’essere, mantiene intatta la propria autonomia

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

strutturale. È categorialmente indipendente « nella » dipen­ denza e autonomo « al di sopra » della eteronomia delle sue condizioni. Chi, osservando i corrispondenti fenomeni, si è reso famigliare questo stato di cose e riesce a vederlo nel suo com­ plesso, capirà immediatamente che esso ci pone un compi­ to ulteriore, per adempiere al quale è necessario raccoglie­ re in unità le molteplici fila della ricerca. Questo compito riguarda il rapporto tra spirito vivente e spirito obbietti­ vato nell’unità del processo storico. Non che di questo rapporto non si sia mai parlato fino ad ora; del resto non sarebbe stato assolutamente possibile esaminare i fenomeni di obbiettivazione prescindendo dallo spirito vivente, anzi, si trattò sempre di vedere come si di­ sponessero al suo interno e ne subissero l’effetto di ritorno. Ma, con tutto ciò, il rapporto non è esaurito. Noi l’abbiamo osservato prevalentemente a partire dal problema dello spiri­ to obbiettivato, l’abbiamo analizzato in relazione alle sue conseguenze per quest’ultimo — il nostro tema era, infatti, la maniera d’essere del patrimonio intellettuale, del concet­ to, della teoria, del dogma, della creazione artistica e del­ la poesia. Una volta però che questa vasta tematica sia stata in qualche modo circoscritta e resa dominabile, ecco emer­ gere il lato opposto: questo rapporto ha infatti qualche con­ seguenza anche sullo spirito vivente. Perché, in questa relazione, lo spirito vivo non ha soltanto una funzione por­ tante ma è altresì affetto [betroffen] da ciò che porta. Queste conseguenze non sono esaurite con un sommario rimando al «potere stimolante » dello spirito obbiettivato nel suo « ritorno » dentro la sfera dello spirito vivente. Ma la questione è appunto se tale « potere » — se vogliamo indi­ carlo con questo nome (che per ora è soltanto una metafo­ ra) —, sia senz’altro ed effettivamente « stimolante ». Di per sé potrebbe benissimo essere inibente. Se poi si considera che l’obbiettivazione in quanto tale ha sempre un carattere di fissazione, di immobilizzazio ­ ne e di arresto, e che proprio cosi realizza il suo modo sto­ ricamente peculiare e caratteristico di durare e di permane­

LVII. - POTERE STIMOLANTE E INIBENTE

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re, ci si dovrebbe anzi attendere a priori che il tratto più tipico della sua azione sullo spirito vivente debba consiste­ re proprio in una sorta di inibizione di questa vita.

2. Il

ricadere dell’obbiettivazione sullo spirito vi­ vente

Questo è dunque il rovescio della medaglia. Un bene spirituale, in quanto è convincente, esercita sempre il suo potere sullo spirito vivo. Nella misura in cui esso si conser­ va storicamente, è però uno spirito passato quello che, in tale forma, si protrae dentro la vita presente dello spirito, a deter­ minarla. E la questione è sempre di sapere quale sia, allora, la sua funzione; in che modo esso tenga questa vita anco­ rata al passato e in quali forme lo spirito vivente faccia i conti con lui. È facile capire che tale questione non può essere affronta­ ta e risolta dal punto di vista dello spirito obbiettivato — perché non lo riguarda —, ma solo dal punto di vista del vivente spirito obbiettivo. Il problema riguarda lui. La sua storicità rivela qui un lato nuovo ed è di questo che dobbiamo occuparci. Dopo aver analizzato lo spirito obbiettivato, torniamo dunque allo spirito obbiettivo. Rispetto a questo problema, l’analisi compiuta è solo una necessaria deviazione: nello sfondo di essa, infatti, quel pro­ blema come vero problema-base è rimasto intatto. Non bisogna concepire il processo storico dello spirito come se fosse composto di due spiriti diversi con due diverse storicità. È vero che un bene spirituale ha il suo proprio destino storico, diverso da quello dello spirito vivente che lo costituisce e lo accoglie. Ma ciò non introduce una scis­ sura nel processo complessivo, che può contenere, l’una ac­ canto all’altra, molte forme di destino nell’unità di una serie temporale. La stessa eterogeneità sussiste anche tra il destino del­ 45.

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PARTE IH. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

lo spirito personale e quello dello spirito obbiettivo. Eppu­ re essi sono talmente intrecciati che ciascuno si muove nel­ l’ambito dell’altro. Il processo storico dello spirito è uno solo e, considerato come un tutto, è in primo luogo il pro­ cesso vitale dello spirito obbiettivo, che abbraccia e inclu­ de la limitata storicità degli individui e si fa portatore della produzione, conservazione, fortuna e ritorno dello spirito obbiettivato. Se teniamo presente tutto ciò e vi aggiungiamo i risul­ tati raggiunti a proposito dei fenomeni di obbiettivazio­ ne, possiamo riassumere la situazione nei seguenti quattro punti: 1. - Nell’obbiettivazione, lo spirito vivente pone fuo­ ri di sé il bene spirituale che ha elaborato, lo dispone, per cosi dire, accanto a sé, lo toglie dal proprio processo vitale e, quindi, lo sottrae altresì alla propria vicenda e alla pro­ pria fine. 2. - Ma può sottrarlo soltanto a quella che è la sua stes­ sa configurazione presente, non al processo ulteriore della vita spirituale in generale — nelle altre figure che essa po­ trà assumere: qui il limite è posto dalla peculiare maniera d’essere dell’obbiettivazione. 3. - La sua vita prosegue modificata e il bene spiritua­ le obbiettivato ricade su di essa. È come se fosse stato so­ spinto in alto ma, non potendo restare sospeso in aria, rica­ desse sul terreno dello spirito reale che tutto porta. È una similitudine che non va presa troppo alla lettera, ma ren­ de l’idea. Un bene spirituale, insomma, non ha essere alcuno senza lo spirito vivo; la sua idealità è infatti solo apparente. Se è stato imprigionato nell’essere non-spirituale della formazione reale — nella lettera o nel marmo —, non per questo si è reso indipendente. Se è stato posto fuori, non si trova però in una condizione di stabilità per cui si possa di­ re che sussiste « per sé »; sussiste, se mai, ancora e soltanto per lui, per lo spirito vivo. Quindi, lo spirito espulso dal­ la « vita » spirituale tende a ricadérvi sempre di nuovo. 4. - Ma poiché lo spirito vivo nel quale ricade è or­ mai mutato, esso vi agisce come un fattore specifico accan­

LVII. - POTERE STIMOLANTE E INIBENTE

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to al fluire continuo della sua vita. Anzi, spesso vi ha l’aria di un corpo estraneo che può anche esserle di peso, un peso che bisogna sopportare o scrollarsi di dosso. Allora lo spirito vivo entra in conflitto con lo spirito obbiettivato e mi­ ra a liberarsene.

3. Lo

SPIRITO IN QUANTO SI SA NELLE PROPRIE OBBIETTI-

VAZIONI

Nel processo unitario della vita dello spirito, lo spi­ rito obbiettivato è solo un fattore tra molti altri. Ma è un fattore alquanto singolare e spesso molto più potente di quanto non pensi la coscienza che pure concretamente lo conosce. Alla duplice funzione di inibizione e di stimolo si aggiunge infatti la mediazione del sapere di sé. Ogni spirito vivo coglie se stesso, o uno spirito estraneo, in primo luogo nelle sue obbiettivazioni. Obbiettivare signi­ fica infatti render oggettuale, e cioè, rendere afferrabile. In tale coglimento c’è sempre anche un misconoscimento, per­ ché ciò che ogni obbiettivazione contiene si compensa con ciò che non contiene. Lo spirito vivo ha già in se stesso la propria obbiettività; è infatti « spirito obbiettivo » e per vivere non gli serve altra obbiettività oltre alla propria. Tuttavia, si obbiettiva altresì in una struttura con la quale non coincide. E in quella ha allora la propria obbiettività « fuori di sé ». Ma questa non è più la stessa obbiettività che aveva in sé. La vita spirituale non consiste nel suo esser còlta, ma nel suo esser vissuta. Lo spirito vivente può esser còlto — da se stesso o dai posteri —, soltanto nella sua obbiettivazione. In altri termini: può essere còlto soltanto in ciò che esso stesso non è. In ciò che, ovviamente, gli appartiene, è suo e si annuncia sempre come tale ma che, insomma, resta sempre un’altra cosa rispetto a lui, qualcosa che è stato esterio­ rizzato e posto fuori.

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

Questa circostanza ha un peso decisivo e determina in profondità la comprensione e il sapere storico. Abbiamo detto che ogni storia dello spirito è sempre scienza di uno spi­ rito obbiettivo. Questa affermazione è esatta in opposizione alla scienza dello spirito personale, che non ha una configu­ razione analoga. Ma, rispetto allo spirito obbiettivato, deve essere corretta. Infatti il sapere storico-spirituale non coglie direttamente lo spirito vivo, il quale è, in sé, tanto poco af­ ferrabile quanto può esserlo la vita vissuta. Solo nelle sue ob­ biettivazioni gli diventa afferrabile, ossia, in ciò che lui stesso non è più. Storia dello spirito è dunque soprattutto scienza dello spirito obbiettivato; ed è tale per il materiale col quale ha a che fare, un materiale che è fatto di obbiet­ tivazioni, di opere d’arte, di scritti, di architettura, insom­ ma di quanto è « rimasto » di ciò che lo spirito era. Questo non le impedisce di essere, immediatamente, un coglimento dello spirito vivente. Le obbiettivazioni, infat­ ti, sono trasparenti ed hanno la capacità di lasciar appari­ re una vita spirituale. La scienza mira appunto a veder chia­ ro nelle obbiettivazioni della vita trascorsa. Il segreto del suo procedere, che la avvicina all’obbiettivazione artistica, è proprio di battere questa via traversa e di giungere, tut­ tavia, ad un’intuizione concreta. Ma questa è anche la ragio­ ne per cui tale procedere non può essere facilmente tramu­ tato in un metodo che si possa trasmettere e imparare ‘.

1 Ne abbiamo un esempio lampante nell’arte intuitiva ed espo­ sitiva di Wilhelm Dilthey. Il caratteristico fallimento della metodologia non fa che rendere più brillante il risultato raggiunto. La forza della scienza dello spirito non risiede, evidentemente, nel sapere circa il procedimento, ma esclusivamente nella maestria con cui si procede.

Capitolo LVIII L’OBBIETTIVAZIONE COME PASTOIA DELLO SPIRITO

1. Lo

SPIRITO VIVO SOTTO IL PESO DELLE PROPRIE OB­

BIETTIVAZIONI

Circa la questione, da noi sollevata, di come lo spirito obbiettivato agisca quale fattore condeterminante nello spirito vivente di una data epoca, non basta osservare che i beni spirituali, una volta esposti, « ritornano » dentro di lui. Non tutte le obbiettivazioni, infatti, se ne svincolano per poi ritornarvi dopo che lo spirito sia mutato. È ne­ cessario, piuttosto, risalire fino all’origine di questo rappor­ to. All’origine, come abbiamo indicato, sta il fatto che ogni spirito vivente, in tutte le configurazioni che si dà, produ­ ce insieme anche obbiettivazioni di quelle stesse configura­ zioni e le esprime in una forma accessibile ai sensi. Fa questo sia in piccolo che in grande, nella parola e nello scritto, nella legislazione come nell’arte. Ha bisogno egli stesso di tutte queste obbiettivazioni — non solo allo scopo di agire oltre la propria sfera, ma già per suo proprio uso e consu­ mo, nella sua vita di tutti i giorni e in base alla sua stessa forma di vita. La sua forma di vita riposa sulla spiritualità comune de­ gli individui; la quale però non può esistere senza intesa re­ ciproca e tradizione comune. Gesto, parola, scritto, concet­ to, dogma, sentenza, e tutto quanto è loro affine, costitui­ sce la moneta spicciola di questa comunanza. Linguaggio,

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

mimica, formazione di concetti appartengono certamente, per loro essenza, allo spirito vivo. Ma, proprio come ele­ menti dello spirito vivo, esse non sono che una costante e indefinitamente molteplice produzione di obbiettivazioni. Se tutte queste obbiettivazioni rimanessero nella sfe­ ra dello spirito vivente, finirebbero col gravare su di lui ben oltre la sua capacità portante. Ma ciò non è neppure im­ maginabile: lo spirito vivente tien fermo solo quello che gli serve e rigetta ogni inutile peso. Vengono conservate le obbiettivazioni sufficientemente importanti per il loro contenuto, e quelle la cui formazione reale possiede una sufficiente adeguatezza. Perché poi si conservino oltre lo spirito vivente, bisogna inoltre che siano state modellate in un materiale stabile. Ma lo spirito vivente è sensibile solo a ciò che gli sembra valido, importante, di un certo « peso »; e che, appunto per questo, imprime in una ma­ teria stabile. Anche cosi selezionato, lo spirito obbiettivato costitui­ sce una massa che supera, alla lunga, la sua capacità por­ tante. Cosi nasce un conflitto che, se non trova un suc­ cessivo alleggerimento, ostacola la vita dello spirito.

conflitto tra spirito vivo e spirito obbietti­ vato

2. Il

La caratteristica relazione di interiorità reciproca tra spirito vivente e spirito obbiettivato, nella misura in cui è anche produzione e selezione costante di quest’ultimo, è osservabile in tutti i campi. Il diritto positivo, per esempio, non appartiene allo spirito vivente in quanto formulazione di statuti, ma in quanto è la forma interiore deH’effettivo sentimento giuri­ dico comune. Ed è questo sentimento giuridico ad obbiettivarsi nella legge scritta. Nella legge scritta, lo spirito vi­ vente l’ha già esteriorizzato, e gli ha già attribuito autorità

lviii.

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l’obbiettivazione come pastoia dello spirito

683

sopra di sé. In questa forma di obbiettivazione, la legge ha una certa energia propria, che non si identifica col vivo senti­ mento del diritto. Quest’ultimo è soggetto a metamorfosi e continua a muoversi sotto la legge fissata. Ecco perché, a un certo punto, finisce col sentirsi in contrasto con quella. Una volta che tale contrasto si è determinato, lo spirito vivo ha la legge (in quanto formazione obbiettiva avente potere su di lui), « contro di sé ». È caduto nella trappola della propria obbiettivazione. Allora, o vi si conforma — cioè accetta un’inibizione al proprio progresso —, o spezza le catene. Questo rapporto è forse piu noto nella sua versione reli­ giosa. Qui, esso si presenta come conflitto tra il sentimen­ to religioso e il dogma. E tuttavia, originariamente, il dog­ ma non è altro che l’obbiettivazione del contenuto religioso sentito e vissuto. Il sentimento religioso richiede una formu­ lazione dogmatica, senza la quale non può perdurare come dogma di una intiera comunità umana. Il puro contenuto religioso non può essere conservato senza un dogma; come fatto sentimentale è troppo fluido e impalpabile, troppo legato all’eccezionaiità degli stati di estasi o di illumina­ zione, mentre per tutto il resto è soggetto all’arbitrio sog­ gettivo degli uomini. La vita religiosa, in quanto è comu­ ne, si forgia secondo determinate forme, che deve anche porre fuori di sé: ma cosi facendo, si imprigiona in esse, vi si mantiene e, dato il suo progredire sotterraneo, se le trova « contro ». La vita storica della conoscenza e della scienza mostra una situazione diversa ma simile. Questa vita non consiste in concetti, sistemi e dottrine, ma nel progresso della ricerca. Ma poiché questo ricercare è comune e si svolge su un ampio fronte problematico, deve anche obbiettivare di volta in volta i propri risultati in concetti e in sistemi dottrinali. Cosi esso esprime un’immagine del mondo, la quale però, coi suoi concetti e le sue proposizioni, lo imprigiona, lo trat­ tiene, lo mette in ceppi. In quanto si sforza di penetrare ulte­ riormente la cosa stessa, la conoscenza se la troverà

PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

684

« contro ». Dovrà dare battaglia: acquietarsi o rompere i ceppi. Che questa situazione conflittuale debba essere notevol­ mente aggravata dallo « scadimento » storico dello statu­ to, del concetto o del dogma, è più che ovvio. Ma tutto questo non va inteso come semplice conseguenza dello scadi­ mento. Perché anche l’obbiettivazione non « scaduta » è già di per sé un irrigidimento e necessariamente preme sullo spirito vivo come una catena, anche quando il suo contenuto è ancora pienamente sentito (o intuito). È infatti nell’essenza stessa dell’obbiettivazione, che lo spiri­ to in divenire proceda sotterraneamente e infine la superi, fino ad averla « contro di sé ».

3. Libertà ed

autoimprigionamento dello spirito vi­

vente

A questo punto, l’intiero rapporto può essere espresso come segue: La vita dello spirito consiste nella sua autotrasforma­ zione. Nel suo sentire, credere, sapere, si dà sempre nuove forme che sono, immediatamente, le forme dello spirito vivente. Ma nel suo saperle, esso deve altresì porle fuori di sé, in quanto le obbiettiva. Con ciò, lo spirito vivente ele­ va di volta in volta la sua figura in una idealità e sovratem­ poralità apparenti. La figura cosi elevata, fissata nella forma­ zione reale e capace di durare oltre la sua vita, si volge ora « contro di lui », che continua a trasfigurarsi. E così diventa la sua prigione. Lo spirito è libero di plasmarsi da sé. Ma se, con la forma che si dà, si crea anche un legame e una catena capaci di limi­ tarne il potere, la sua libertà è contemporaneamente autrice di una volontaria prigionia. Essa produce da sé quella illi­ bertà che poi le sarà di ostacolo. Questa è una legge fondamentale dello spirito storico

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l’obbiettivazione come pastoia dello spirito

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e riguarda il punto saliente del rapporto tra spirito vivo e spirito obbiettivato: l’insuperabile opposizione che li divide pur nella loro interdipendenza reciproca. Il contrasto non sta tanto nel contenuto, quanto nelle rispettive maniere di essere. Spirito, in senso proprio, è solo il vivente; un bene spirituale svincolato da quello, non solo è senza vita ma non è affatto, perché il suo tipo d’esse­ re è l’esser-per-lui. L’esser-per-lui, d’altra parte, non solo è da lui portato, ma è anche importuno: non potendo­ si staccare da lui, gli si aggrappa. In quanto però è anche la perpetuazione di ciò che lo spirito era (lo spirito, che solo trasformandosi può sopravvivere), ecco che l’obbiettivazione tende ad arrestare il processo di configurazione e quindi la vita dello spirito. Il quale non può vivere con essa, ma neppure senza di essa: perciò, infatti, la produce sempre di nuovo. Lo spirito vivente, dunque, si crea un « legame » nelle proprie obbiettivazioni; un legame che finisce coll’ostacolarne la vitalità. Deve legarsi perché, oltre a rendere la pro­ pria forma comune agli individui, deve altresì renderla af­ ferrabile. E tale essa diventa soltanto nelle sue esterioriz­ zazioni obbiettive. Di se stesso, in quanto vivente, non tro­ va negli individui coscienza adeguata; fuori di essi, d’altra parte, non c’è coscienza alcuna (cap. XXX 1). Così, deve darsi le proprie catene, deve portare il peso delle proprie ob­ biettivazioni. Ma, con ciò, ostacola il flusso di vita nel quale consiste. Se dunque consideriamo il suo fare come la sua libertà, e il suo autoimprigionarsi nell’opera, come la sua illiber­ tà, dobbiamo concludere che la sua libertà è quella di come rendersi non-libero, ma non quella di rendersi o non ren­ dersi non-libero. Rispetto a quella sua illibertà, non gli resta che assumere tuttavia su di sé il conflitto, per liberarsi successivamente spezzando l’illibertà da lui stesso procu­ rata \ 1 L’analogia con la libertà propria dello spirito personale, che è libero di decidere in un modo o in un altro, ma non di decidere

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

Un’altra conseguenza da trarre sarà questa: quanto mag­ giore è la libertà nel fare, tanto maggiore sarà la illibertà fatta; tanto più difficile sarà, quindi, la successiva libera­ zione. Quanto più vitale e produttivo è lo spirito vivente, tanto più intensa e robusta sarà la sua obbiettivazione; tan­ to maggiore sarà il peso che esso dovrà portare. Quanto più intensa la vita spirituale, tanto più forti le catene in cui si pone. Con l’importanza del bene spirituale, cresce an­ che il peso del quale si grava. Il « bene » spirituale man­ tiene sempre, nell’obbiettivazione, un’ambiguità per cui può diventare un « male » per lo spirito vivo. Il peso del con­ tenuto al quale ha conferito una propria consistenza, si trasforma per lui in una palla al piede.

4. Vitalità dell’ethos e «

morale

» obbiettivata

Il carico che lo spirito vivente si assume non dice, evi­ dentemente, l’ultima parola in questa relazione. La vita è superiore a ciò che è senza vita ed ha sempre qualcosa da contrapporgli. Se la nostra ricerca relativa al fenomeno dell’imprigionamento è stata indotta in qualche unilaterali­ tà, non è quindi il caso di allarmarsi. Piuttosto, è il fenome­ no stesso a richiedere qualche integrazione. Perché, in domi­ ni diversi da quelli, sovramenzionati, del diritto, della reli­ gione e della scienza, esso assume altre forme. Assai caratteristica, al proposito, è la dimensione del­ l’ethos. Che ogni popolo, in un determinato periodo stori­ co, abbia una determinata morale, non significa soltanto che un certo comportamento vi abbia valore di buono e un altro di cattivo (intendendosi per valore l’esser-sentito come buono e come cattivo). Perché allora l’ethos consiste­ rebbe soltanto in una particolare scelta di valori, nella paro non decidere in generale (cfr. cap. XIV 7), è qui facilmente ri­ conoscibile.

lviii.

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l’obbiettivazione come pastoia dello spirito

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ticolare scala assiologica dello spirito vivente. L’ethos, in­ vece, assume anche la forma oggettuale della « morale obbiettivata ». Con ciò, accanto al valore che è soltanto sen­ tito come tale, compare un secondo momento, quasi un secondo valore, questa volta, esterno. La morale è infatti qualcosa di più dell’ethos vivente. È una specifica espressione concettuale di certi tipi di com­ portamento valido, nella quale questa o quella sfumatura di valore è racchiusa e obbiettivata in modo da essere com­ prensibile per chiunque. Concetti di questo genere sono le ben note « virtù », i loro opposti, altrettanto stabilmente fissati, sono i concetti delle « non-virtù » o « vizi ». Ogni « morale » in posizione di predominio si muove entro concetti di questo genere. Non meno noto di questi concetti è l’odio che sempre li accompagna. Nulla è più sterile, nello spirito vivo, nulla ha tanta tendenza a « scadere », nulla inibisce più grave­ mente il progredire dell’ethos stesso, quanto i concetti di virtù e di vizio. Nulla, più di questi concetti, degrada tan­ to la morale rispetto al suo autentico contenuto di valore e di idealità. Sono essi che, prima o poi, sostituiscono alla morale autentica una « morale », nel senso cattivo della parola, grazie ai cui schemi stereotipati diventa natural­ mente molto comodo « fare il moralista ». L’educatore che si avvale di tali concetti, si inimica immediatamente il sen­ timento morale dell’educando. Urta contro la resistenza dell’ethos vivente che sta sbocciando. L’effettiva moralità, quando c’è, si lascia alle spalle la morale obbiettivata, la sente come un codice di formalità, senza vita, incapace di corrispondere ai suoi moti. Si rende conto che questa morale è « contro di lei » e che le ren­ de la vita impossibile. Ma ciò non accade soltanto do­ po che l’ethos vivente l’abbia superata col proprio sviluppo e si sia completamente trasformato. Il dissidio si fa già sen­ tire quando ancora la morale dominante, nelle sue parti es­ senziali, corrisponde alla sua sensibilità. La sensibilità mo­ rale è infatti straordinariamente fine d’orecchio, e registra

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

anche le più tenui sfumature della divergenza. Le bastano queste sfumature per avvertire il pericolo dell’irrigidimen­ to.

5. Precoce insorgere del

conflitto.

Opposizione e

rottura

Il dominio dell’ethos è particolarmente illuminante cir­ ca il fenomeno dell’auto-incatenamento, perché qui l’obbiettivazione non giunge a potersi servire dei più forti mez­ zi di consolidamento. Concetti morali sono si presenti do­ vunque, negli scritti, ma non hanno bisogno di tale fissazio­ ne, né la « morale » lo richiede. Per quanto la riguarda, essa è già consolidata nella vita quotidiana — in quanto i suoi concetti diventano corrente moneta di scambio, nel­ l’accordo, nella valutazione, nell’imputazione, nell’approvazione. Il processo di incatenamento è qui molto più breve che nel diritto e nella scienza, dove l’irrigidimento avviene soltanto al livello della legge scritta o, rispettivamente, di una precisa esposizione di pensieri. Qui il conflitto si può seguire fino in fondo nelle origini stesse dell’obbiettivazio­ ne: perché è al suo seguito che esso immediatamente emerge. La viva moralità, infatti, non ha un attimo di sosta. Lo stesso quadro si presenta però anche in altri cam­ pi dello spirito, specie in quelli che si muovono in una di­ mensione impalpabile e che si sottraggono a un’obbiettiva­ zione cosciente in concetti fissi. Ciò riguarda quasi tutto quello che è stile di vita esteriore, buon gusto, buone manie­ re, costumatezza, ed ogni altro modo che l’uomo ha di esprimere il proprio sentimento di sé e la formazione che si è data. Il concetto di sé non è però meno mobile dell’ethos: solo che si trasforma tanto più liberamente, quanto meno direttamente riguarda l’interiorità umana che in quella for­ mazione si rispecchia.

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LVIII.

-

l’obbiettivazione come pastoia dello spirito

689

Tanto più vivace è, qui, l’opposizione contro l’irrigidi­ mento delle forme. Ad ogni nuova generazione che sorge, la vecchia sperimenta tale opposizione come una specie di ta­ cita lotta contro tutto ciò che è tradizionale. Lo spirito nuovo tende sempre a farsi luce contro il vecchio ormai arroccato nelle sue obbiettivazioni. E, sempre, la rottura si presenta come un tentativo di scuotersi di dosso quel giogo. In questo campo, il giogo non è particolarmente oppressivo ma, allora, risulta tanto più inutile e, nel complesso, co­ stituisce tuttavia un peso sensibile. Quello che, compiuta la rottura, è chiamato con indulgenza conciliante il « buon tempo antico », corrisponde in sede morale all’obbiettivazione concettuale delle « virtù » e dei « vizi ». È un analogo molto più innocuo, e l’odio per le forme rigettate dura sol­ tanto fin che dura la lotta dello spirito vivo contro di esse.

6. La

scomparsa delle pastoie nelle arti

Sotto questo aspetto, la poesia e le arti si presen­ tano altrimenti — almeno nella loro vita genuina, che è con­ tinua creatività. Dietro la loro enorme libertà creativa, il fe­ nomeno dell’imprigionamento sembra quasi scomparire. Questo può sorprendere, a prima vista, dato che sono proprio le produzioni dell’arte a mostrare la massima stabi­ lità, permanenza e capacità di conservazione (oltre alla massima capacità di attrarre e di richiamare su di sé lo sguardo dello spirito vivo). Il fenomeno dell’imprigionamento, però, non riguarda soltanto la capacità di attrazione delle obbiettivazioni, ma soprattutto la direzione nella quale essa si esercita. Nello spirito vivo, le creazioni del­ l’arte hanno una posizione tutta particolare, perché non lo riguardano direttamente nei suoi contenuti, non sono fis­ sazioni del suo vivo configurarsi, ma se ne stanno in tutto e per tutto al di sopra della sua attualità e del suo impegno. In altri termini, non pretendono affatto di fissare quella che

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

è via via la sua configurazione attuale; sono sollevate in tutt’altra dimensione, sono obbiettivazioni di un genere diver­ so. Perciò, al suo vivo progredire non capita propriamente mai di trovarsele « contro », di sentirle come delle catene. Esiste anche un tipo di poesia a tesi che non si mantie­ ne nella posizione elevata che abbiamo detto: nei suoi ri­ guardi abbiamo il fenomeno dell’imprigionamento. Un fenomeno che si rivolge contro di lei e la priva della sua du­ rata storica. Non si tratta, infatti, di autentica poesia. L’artista in quanto tale non è il portatore di tendenze mo­ rali o sociali, che può occasionalmente rappresentare ed obbiettivare, ma che non costituiscono il valore artistico della sua attività, né quello dell’opera prodotta e offerta al gu­ sto e all’intuizione. L’artista puro presenta la sua opera al pubblico senza la pretesa di influenzarlo. Pretende solo che la si guardi e, guardandola, la si apprezzi. Che poi, cosi fa­ cendo, egli possa anche esercitare una potentissima influen­ za, è dovuto esclusivamente alla forza e alla novità della sua concezione, ed è, nel processo dello spirito vivo, un ele­ mento molto più stimolante che inibente. Né l’opera ha lo scopo di esercitare una simile azione, né l’artista ha bisogno di esserne consapevole. L’osservatore che la subisce, infine, se ne rende conto ancora meno. Nella sfera dell’intuizione in quanto tale, per contro, nel modo di vedere, udire, percepire, la particolare formatività artistica può benissimo stabilizzarsi in moduli fissi. Può suscitare una schiera di imitatori, far scuola, dettare legge al gusto e al sentimento dello stile. Con ciò, il meccanismo dell’imprigionamento acquista una certa validità anche in questo campo. Non vi ha però una parte altrettanto im­ portante, perché l’opera d’arte non pretende mai, neppure nelle sue forme più alte, di possedere un’oggettiva generali­ tà. Un’opera può ben indurre chi soggiace alla sua seduzio­ ne a una generalizzazione erronea. Ma il sedotto è appunto soltanto un imitatore ed è riconoscibile come tale. La sua opera non è in verità una generalizzazione ma un peggiora­ mento del modello; non, quindi, istituzionalizzazione del­

Lvm. - l’obbiettivazione

come pastoia delio spirito

691

l’obbiettivazione, ma suo dissolvimento nello spirito vivo. E cosi, quando una nuova spontaneità artistica si fa strada lasciandosi alle spalle il già fatto, non ha bisogno di comin­ ciare scuotendoselo di dosso come un carico opprimente. Lo lascia stare per ciò che vale e non se ne sente affatto osta­ colata.

Capitolo LIX LO SPIRITO VIVENTE IN LOTTA CON LO SPIRITO OBBIETTIVATO

e controtendenza rivoluzionaria dello spi­ rito NASCENTE

1. Legami

Esaminato, cosi, il fenomeno dell’imprigionamento, pos­ siamo trarne tre conseguenze che l’analisi lasciava trasparire dovunque, ma che ora sono proprio a portata di mano. 1. - Lo spirito vivente imprigiona nelle sue obbiettiva­ zioni non soltanto la propria attualità, ma anche il proprio futuro. Tramanda un bene spirituale, o lo produce da sé, in modo che esso tocchi allo spirito venturo; con ciò, impone anche a quest’ultimo il legame che ha procurato a se stesso, ossia, lo tiene presuntivamente legato a sé. In quanto pone oggettualmente fuori di sé la propria configurazione, anticipa sempre se stesso. Con le sue opere, lo spirito vivo è sempre in sé e per sé anche un agire oltre di sé — su uno spirito che non è ancora. Non può produrre alcuna formazione che non abbia anche un’efficacia di antici­ pazione e di determinazione storica, che lo sappia o no. Grazie alla sua peculiare maniera d’essere, l’obbiettivazione è già di per sé la forma della determinazione. 2. - Ma lo spirito vivo cointeressato in ciò che lo spi­ rito precedente ha compiuto, non è tuttavia senza difesa nei confronti della determinazione che ne riceve. Senza difesa è piuttosto — nonostante il suo potere di determinazione — l’obbiettivazione che, infatti, è affidata alla sua comprensio­ ne mutevole. Lo spirito vivo, come tale, non è mai senza 46.

694

PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

risorse. Perché, in quanto « vive », è attività formativa autonoma. Il suo fare urta nella cosa fatta. Non vive solo nel godimento e nella valorizzazione dei contenuti tradi­ zionali, ma anche in continua lotta con essi. Lotta incessan­ temente contro la catena che gli è imposta. Appena la sen­ te, cerca di liberarsene; e la sente ogni volta che, mutato nei suoi contenuti, è intento a costruire qualcosa di nuovo. 3. - Nello spirito vivo, quindi, è sempre presente la ten­ denza rivoluzionaria contro ciò che lo determina e gli è di peso, nella misura in cui non è più quello che egli stesso ha fatto e voluto. È una tendenza presente in tutti i campi, nelle più varie gradazioni di urgenza e di consapevolezza. Ed è importante osservare che, proprio l’imprigionamento, che ne è l’antagonista, ne è anche l’occasione e l’esca. L’interna dialettica di questo rapporto è la seguente: lo spirito obbiettivato, imprigionando lo spirito vivente, lo eccita nel contempo, contro di sé; determinandolo e limi­ tandone la libertà, non fa che destarlo alla libertà. Dal con­ flitto tra una forza viva ed una senza vita, è sempre la prima che riesce, alla lunga, vincitrice. La vita, infatti, è spontanea­ mente attiva, non reagisce passivamente come una massa inerte all’urto; ha energie proprie che, nell’urto, si liberano e danno inizio a sviluppi originali. Anche questo ha il suo fondamento nella maniera d’essere dello spirito obbiettivato. Senza lo spirito vivente, esso non vive, non è nulla. Solo in lui e « per lui », è qual­ cosa. La vita alla quale si desta, nel suo ritorno, è presa a prestito, cioè, da quello spirito nel quale ritorna, che poi imprigiona e infine suscita contro di sé. Questo rapporto di dipendenza non è reversibile. Perciò, alla lunga, è lo spirito vivente che deve avere storicamente la meglio sullo spirito obbiettivato — con lui o contro di lui, accogliendolo e trasformandolo o, altrimen­ ti, scrollandoselo di dosso.

LIX. - SPIRITO VIVENTE E SPIRITO OBBIETTIVATO

2. Principio

695

conservativo e principio rivoluzionario

DELLO SPIRITO

Non ci riferiamo qui propriamente alle rivoluzioni più grandi e storicamente rilevabili dello spirito. Queste infatti, sono casi eccezionali ed insorgono là, dove l’accumularsi di fenomeni di consolidamento si traduce in un’oppressio­ ne insopportabile, se non in una specie di paralisi della vita; si che soltanto una forte scossa li può spezzare. In verità, qualcosa come una rivoluzione silenziosa è sempre in atto in tutti i campi dello spirito — nell’ethos, nel gusto, nel sapere, nella fede, nelle forme imponderabili dello stile di vita. Dovunque può stabilirsi una specie di « signoria » dello spirito obbiettivato; e più l’obbiettivazione è solida, tanto più quella signoria fa l’effetto di una tirannia, tanto più forte è l’opposizione che risveglia in uno spirito ancora forte e vitale. Naturalmente, lo spirito di un popolo può anche invecchiare e non essere più in grado di scuotere il peso di cui si è caricato. È allora uno spiri­ to che va storicamente estinguendosi, perché è spirito prigioniero e non reca più in sé la tendenza alla rottura. In tal caso, un altro spirito, storicamente più giovane, pren­ de il suo posto, e in lui si continuano la vita e la lotta. La vita dello spirito storico in generale è essenzial­ mente lotta con lo spirito obbiettivato — non meno es­ senzialmente, cioè, di quanto non sia anche creazione di obbiettivazioni. Perché vita vuol dire progresso, meta­ morfosi sempre rinnovata, mentre obbiettivazione vuol dire fissazione di risultati e consolidamento. Lo spiri­ to vivente è essenzialmente rivoluzionario e lo è appunto perché lo spirito obbiettivato è per essenza tirannico. Quel­ lo è l’eterno novatore, perché la sua forma di vita e di esistenza è un perpetuo rinnovarsi; questo è l’eterno princi­ pio della conservazione nella storia dello spirito vivo, per­ ché non ha una sua « vita » propria accanto a quella dello spirito vivo e non sa rinnovarsi da sé.

696

PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

Da queste affermazioni, non si deve trarre prematura­ mente un giudizio di valore; del resto, questo tipo di descrizioni non ha nulla a che vedere con valutazioni di sorta. L’obbiettivazione in quanto tale è, si, un elemento conservativo nella vita dello spirito, ma lo spirito vivo non ne ottiene soltanto inibizione e tirannia ma anche e soprat­ tutto godimento di risultati. Ciò non va mai dimenticato e non contrasta affatto coll’incipiente processo di imprigio­ namento.

3. Oscura

consapevolezza dei fattori di inibizione e

di liberazione nello spirito vivente

Le massime creazioni dell’arte, della poesia, del mito o del pensiero, sono beni spirituali che, per la loro gran­ dezza e ricchezza, eccedono di gran lunga quello che può essere il contenuto medio di un dato spirito vivente. Nei riguardi di questi, il carattere conservativo dell’obbiettivazione ha una profonda giustificazione storica, e ciò, pro­ prio in vista del progresso dello spirito vivo: è un bene che essi lo tengano legato a sé. Perché, finché non è in gra­ do di superarli, non può neppure farne a meno, può solo ele­ varsi culturalmente fino a comprenderli, e ogni rifiuto danneggerebbe lui solo. In effetti, storicamente, lo spirito vivente non prende alcun provvedimento contro simili obbiettivazioni, non le avverte come una catena, quantunque l’azione determinan­ te che esercitano su di lui sia straordinariamente potente. In un certo senso oscuramente sa se qualcosa, nella sua direzione di sviluppo, stia davanti a lui o dietro di lui, se gli sia favorevole o sfavorevole, se lo liberi o lo imprigio­ ni. In questo, possiamo forse vedere qualcosa come una giustizia della storia rispetto alle creazioni dello spirito, in quanto lo spirito vivente rifiuta come inutile sopravviven­ za tutto ciò che in lui è piccolo e meschino; mentre ciò che

LIX, - SPIRITO VIVENTE E SPIRITO OBBIETTIVATO

697

è grande ed eccellente — una volta giunto a comprensio­ ne —, può dominare e perdurare oltre le generazioni e le epoche, senza mai esercitare tirannia alcuna. Quest’ultimo fenomeno non è certo osservabile in tut­ ti i campi. È piuttosto difficile trovarlo in quello della vi­ ta politica e sociale, dove le obbiettivazioni sono sem­ pre in ritirata di fronte all’attualità in corso; difficile, anche nel campo dello stile di vita e in quello dell’ethos. Tanto più facile, per contro, nella poesia, nelle arti, nella scienza e nella filosofia, nel mito e nella religione. La ragio­ ne di ciò andrà cercata nella peculiarità di ciascuno di que­ sti domini.

4. Perpetuazione

a doppio taglio.

Νον-serietà

contro

NON-SERIETÀ

In ogni caso, però, l’eccellenza delle grandi opere dello spirito ha, nel fenomeno dell’imprigionamento, soltanto un significato restrittivo. Siamo sempre portati a discono­ scere ciò se, nello spirito obbiettivato, consideriamo soltan­ to ciò che è grande; il che, del resto, è assai naturale per­ ché, nella storia dello spirito, sono proprio le grandi ob­ biettivazioni a spiccare maggiormente. Non sono esse, tuttavia, a costituire la gran massa delle obbiettivazioni spirituali. Questa invece si trova senz’altro concentrata al livello della medietà quotidiana. Ed è nell’essenza dell’obbiettivazione, che la sua maniera d’essere, nel caso della medietà, diventi ambigua. L’obbiettivazione infatti è ele­ vazione nell’atemporale, perpetuazione. Qui, appunto, tale perpetuazione si rivela a doppio taglio. L’assunzione nell’apparente idealità conferisce bensì la forma adeguata di apparizione a ciò che è grande, non pe­ rò a ciò che è piccolo e futile. Quest’ultimo, meriterebbe piuttosto di scomparire dalla storia. Una volta soppianta­

698

PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

to dal nuovo, la sua funzione nello spirito vivente è assolta. La sua perpetuazione è un insulto al senso del­ l’essere spirituale. E tuttavia, ogni spirito vivente eleva in idealità apparente una gran quantità di cose futili ed effi­ mere. Accanto alla grande arte, c’è tutto un pullulare di produzioni occasionali e a buon mercato, c’è l’arte a tesi o ad effetto; accanto alla serietà della ricerca, scorre a fiumi il sapere apparente della mezza cultura, e il docile strumento della scrittura presta a ogni cosa senza distinzio­ ne la sua veste durevole. Cosi in tutti i campi. In questi casi, la perpetuazione è decisamente fuori luogo, tutto ciò che, nello spirito vivo, vi fa contrasto, è sana reazione. Tale reazione sussiste, del resto, in ogni spirito viven­ te nella forma che, appunto, solo la perpetuazione mal po­ sta merita: quella di un corrispondente prendere alla leg­ gera, toglier di mezzo, lasciar perdere. Questa forma di rea­ zione appartiene al fenomeno generale della tendenza rivo­ luzionaria, ma, al riguardo, la parola è troppo impegnati­ va. Qui non si può certo parlare di una lotta vera e propria: lasciar perdere significa piuttosto spinger da parte, trascu­ rare, passare oltre. Di questo passar oltre [Hinweggehen} abbiamo già parlato in altro contesto come di un sintomo molto preoc­ cupante, di un tipico segno di non serietà e di inautentici­ tà nello spirito vivente. Ora lo vediamo da un altro lato. Alla mancanza di serietà nello sviluppo vivo, corrisponde in­ fatti una mancanza di serietà nello spirito obbiettivato. E ciò è anche più preoccupante, perché quest’ultimo, in quanto obbiettivato e perpetuato, tende a imprigionare lo spirito vivente. Il quale, in qualche modo, si salva dalla mas­ sa compatta dei beni spirituali di dubbia qualità, grazie a una certa dose di leggerezza. La condanna pregiudiziale, lo sbrigarsi senza aver ap­ profondito, il giudizio irresponsabile cosi come « si » giudi­ ca, non sono soltanto e sotto tutti i rispetti falsificazioni deplorevoli, ma contengono anche il sano rifiuto di un carico superfluo, un atto di distensione e di liberazione dello

LIX. - SPIRITO VIVENTE E SPIRITO OBBIETTIVATO

699

spirito vivo. Nessuno spirito vivo può ricevere e valutare tutto ciò che, in forma di obbiettivazione, in lui si protrae; e nessuno può esaminare tutto con cura, tutto valutare con artistica dedizione, giudicare e selezionare ogni cosa con rigore scientifico, prima di osare di muovere un passo. Per­ ciò deve sempre gettare molta zavorra fuori bordo alla cieca. In ciò, anche quello sbrigarsi con leggerezza e senza serietà ha un suo aspetto storicamente sensato. È una spe­ cie di valvola di sicurezza dello spirito vivente. Perché anche lo spirito vivente ha bisogno di una valvola di sicurezza, se è vero che è solo uno spirito limitato, con una limitata capacità portante.

5. Rifiuto

e creatività

«

scadimento

». Rapporto con la viva

Si può certamente supporre che qui, insieme con gli scar­ ti, venga gettato via anche molto oro vero. Dal punto di vista qualitativo, è forse una discriminante essenziale la capacità di uno spirito vivente di riconoscere d’istinto il valore e il disvalore, nei beni obbiettivati pervenutigli. Ovviamente, non può essere questo l’unico criterio. Spesso, proprio il rifiuto più sprezzante e radicale condiziona le più potenti affermazioni della propria capacità creativa; o, meglio, è questa capacità che si manifesta nel rifiuto stesso. Il quale ne è soltanto un annuncio. D’altra parte, non si deve dimenticare che, nello spirito vivente, c’è anche una specie di coscienziosità, sia pure infinitamente graduata, nei confronti del bene ob­ biettivato, la quale, attraverso periodi di autodifesa e di tempestoso impulso all’indipendenza, lo riconduce però sempre di nuovo alle opere realmente eccelse dello spirito. Rifiutate e misconosciute, infatti, le grandi obbiettivazioni continuano a sussistere ed esercitano costantemente il loro richiamo sullo spirito vivo. Racchiuse nell’in­

700

PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

volucro neutrale della formazione reale, esse superano le epoche dell’oblio e, grazie al loro richiamo costante, il lo­ ro contenuto può sempre rientrare nella coscienza dei vivi. Infine, da questo punto di vista, lo stesso fenomeno del­ lo « scadimento », che in altro contesto ci si presentò come una specie di debolezza dell’obbiettivazione, può essere in­ teso in un senso diverso. Si è visto che lo scadimento colpi­ sce in primo luogo il bene intellettuale, specialmente se formulato in concetti. Nel caso del concetto, la formazio­ ne reale isolata è povera e solo ricorrendo a contesti più am­ pi può lasciar apparire il suo importo spirituale; il suo sca­ dimento è dovuto appunto alla perdita di questi contesti. Ebbene, la conoscenza intuitiva vive e progredisce e, secondo il suo nuovo modo di vedere, dovrà anche coniare concetti nuovi; i vecchi, anche se perfettamente inseriti nei loro contesti, non sono più i suoi; né potranno tornare ad esserlo mai più. Essi devono necessariamente cadere. Ma il cadere si compie nello scadimento; e in fase di sca­ dimento, il concetto ha già una minore capacità di resisten­ za, almeno rispetto al vivo progredire della conoscenza. Solo il pensiero non indipendente, quello che si aggrappa ai « risultati », resta sensibile alla sua magia. La stessa spontaneità di una visione nuova può dunque favorire lo scadimento e, in tal caso, esso sarà maggiore là, dove ogni volontà di contenerlo e di ricostruire il pre­ cedente universo di pensiero è ormai scomparsa, e tutta l’energia intellettuale dello spirito vivo è concentrata sui propri problemi. In questo modo, anche lo scadimento dei concetti diventa un’affermazione e un’autoliberazione dello spirito vivo dalla signoria dell’obbiettivato. È un al­ tro modo per disfarsi di una sopravvivenza paralizzante. Come per il concetto, cosi, ovviamente per la teoria, il sistema, il dogma e simili. L’interno avvizzire di tali obbiettivazioni e il loro scadere nel nulla della pura formali­ tà, non è soltanto e in ogni senso una perdita di beni e con­ tenuti per lo spirito vivo; è anche, e a pari titolo, guarigio­ ne e irrobustimento, segno di risveglio, di iniziativa, del

LIX. - SPIRITO VIVENTE E SPIRITO OBBIETTIVATO

701

vivo modellarsi della sua peculiarità dinamica, che urge verso nuove e più originarie obbiettivazioni. È nell’essenza stessa della cosa che, fra tutti i contenu­ ti obbiettivati, quelli in scadimento siano le concretizzazioni e le assolutizzazioni in senso deteriore, quelle che si sono tra­ sformate in catene. E il loro stesso scadimento va inteso al­ lora come doppia conseguenza, del loro irrigidimento, da un lato, e della viva pressione del nuovo, dall’altro.

6. Deperimento

storico di tutte le opere umane

Lo spirito obbiettivato è destinato ad avere, nella sto­ ria, un diritto d’esistenza limitato nel tempo. Davanti al fatto della sua evidente persistenza, in contrasto col mutare e lo scomparire dello spirito vivo da cui è scaturito, si è facilmente portati a scordarsene. Ma tutto ciò che è stato fatto e plasmato, un giorno dovrà anche perire. Nel suo stesso ritorno, resta sempre li­ mitato, perché anche il tempo di ciò che risorge è determi­ nato. Non vogliamo chiederci, ora, se le più grandi creazioni dello spirito facciano eccezione o no. La nostra esperienza storica — che abbraccia solo pochi millenni — non ci permet­ te, evidentemente, di giudicarne con sicurezza. Del resto, certe particolari eccezioni non basterebbero a invalidare la regola. È chiaro però che questa limitatezza temporale contrasta violentemente col senso di eternità che, in quanto ideali­ tà apparente, inerisce al bene spirituale obbiettivato. Come si è mostrato, questa discrepanza non è certo una contraddi­ zione reale; tuttavia, è sempre sentita come tale e inganna facilmente l’osservatore circa la parte riservata, nella storia, allo spirito obbiettivato. Viceversa, non bisogna mai di­ menticare che in ogni storia, la forma d’essere fondamen­ tale è costituita dallo spirito obbiettivo vivente, men­ tre l’obbiettivato non ha che un esser-per-lui e sussiste storicamente solo in quanto portato da quello.

702

PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

Se lo spirito obbiettivato fosse solo un bene neutrale, e lo si potesse semplicemente possedere e godere, non vi sa­ rebbe, per uno spirito vivente, alcuna necessità di limitarne l’esistenza. Perché, in esso, nulla costituirebbe un peso per lui. Ma, visto che è nella sua essenza di catturare lo spirito vivente, di determinarlo e di contribuire a formarlo, esso dovrà altresì diventare la sua catena. Ed allora costituirà un limite all’esserci storico dello spirito vivo. Perciò, i torti che lo spirito vivo gli fa (rifiutar­ lo, passare oltre, liquidarlo), hanno una giustificazione storica essenziale nel suo stesso essere storicamente vi­ vo. Questo, naturalmente, può avere soltanto un valore generale, non estensibile a tutti i casi particolari. Ma già questa validità limitata ci permette di comprendere i feno­ meni ambigui della mancanza di serietà e della superficiali­ tà dello spirito vivente come, in qualche misura, necessari. Perché là, dove spirito si oppone a spirito, alla lunga, è sempre quello vivo ad aver ragione.

Capitolo LX

ROTTURA DELLE CATENE ED AUTOLIBERAZIONE

1. Prova di forza

dello spirito vivente.

Naturale

SCIOGLIMENTO DELLE CATENE

Il rapporto tra spirito vivente e spirito obbiettivato non si esaurisce nel fenomeno dell’incatenamento e nella tendenza rivoluzionaria che ne risulta. Il fenomeno di fondo, di cui il suddetto è soltanto un momento, è sempre quel­ lo: il bene spirituale, una volta acquisito, resta a disposi­ zione dello spirito vivente grazie alla mediazione dell’obbiet­ tivazione, si che, qualora lo perdesse, potrebbe sempre ritrovarlo. Col far proprio un bene obbiettivato, lo spirito vivente si assume il rischio di una catena. Ma deve assumerlo di buon grado, perché questo è un carico che le sue stesse obbiettivazioni non gli risparmiano. Storicamente è, anzi, pro­ prio questo il suo banco di prova: se sappia sopportare quel carico; come, sotto di esso, sappia tuttavia conservare la propria mobilità e, in generale, cosa possa pretendere dalle proprie forze. Di vero e proprio incatenamento si può parlare solo se la sua mobilità viene meno. Ora, noi abbiamo mostrato che c’è un ritorno dello spirito obbiettivato nello spirito vivo e abbiamo visto che esso consiste in una specie di scioglimento e trasfigura­ zione dell’obbiettivazione. Non si dà ritorno alla vita di un bene spirituale obbiettivato, senza che questo sperimenti un’effetto di ritorno da parte dello spirito vivo che Io acco­

704

PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

glie. È un processo che possiamo chiamare rifluidificazione del consolidato e dell’irrigidito. Questo processo, tuttavia, non è altro che il feno­ meno complementare dell’incatenamento. È il naturale scio­ glimento delle catene; nel quale lo spirito vivo dimostra la sua vitalità e, quindi, la sua superiorità rispetto allo spirito irrigidito. Ciò che era stato eternato ritorna nel tempo e nel flusso della storia; ciò che era stato elevato all’idealità rien­ tra nella realtà. Il che significa che ritorna ad essere storica­ mente fecondo. Allo spirito vivente, non sempre riesce di operare tale rifluidificazione. E quando non vi riesce, o soggiace, appunto, all’incatenamento, o si scrolla di dosso il proble­ ma irrisolto. Nei casi fortunati in cui gli riesce, egli supera la prova che gli è imposta. Cosi vanno interpretate le epoche di rinascenza, nelle quali tesori della poesia, delle arti e del­ la scienza ritornano a vivere. Anche le riforme religiose, che si rifanno consapevolmente a qualcosa di « originario » che è stato conservato (al senso rigoroso delle Sacre Scritture), rientrano in questo genere di rinascimenti. Caratteristica precipua di fenomeni storici di questo tipo è che, in essi, lo spirito obbiettivato non si presenta come una catena, ma come una soluzione feconda di libertà. La forza che ne promana e che investe lo spirito vivo è qui una vera e propria forza motrice. In quanto però ogni vera capacità di iniziativa appartiene soltanto allo spirito vivo, l’efficacia mobilitante dello spirito obbiettivato non è al­ tro che il liberarsi o lo scatenarsi delle forze genuine dello spirito vivente.

2. Efficacia liberatrice delle

grandi opere

Lo scatenarsi delle forze vive sta in evidente contrasto coi fenomeni d’incatenamento che abbiamo descritto. Ma sarebbe errato vedere in questo contrasto una contraddizio-

LX. - ROTTURA DELLE CATENE ED AUTOLIBERAZIONE

705

ne. Perché proprio tali rinascimenti sono, in senso eminen­ te, epoche di rivoluzione spirituale in cui forme irrigidite ven­ gono scartate, pesi molesti respinti, catene spezzate. Ma ciò significa che, proprio là dove grandi obbiettivazioni ritorna­ no a vivere nello spirito vivo e a renderlo fecondo, altre ob­ biettivazioni, divenute tiranniche, vengono spezzate. In questo senso, i rinascimenti si somigliano in tutti i campi, comunque diverso possa esserne il decorso e differente il bene spirituale irrigidito contro il quale si vol­ ge l’impegno novatore. Ciò che stimola e libera forze as­ sopite eguaglia sempre, nella sua specie, ciò che rimuove: valori insorgono contro valori, diritto contro diritto, fede contro fede, immagine del mondo contro immagine del mon­ do, visione nuova contro visione vecchia. È sempre qualcosa di formato e di fissato nelle sue forme, ad essere rimosso da una formatività più potente che si impone con la propria mo­ bilità. Ne risulta che, anche in queste rivoluzioni, si tratta sem­ pre della stessa lotta con lo spirito obbiettivato. Nella fat­ tispecie, però, determinate obbiettivazioni — le opere spi­ rituali di alto livello —, ritornate nello spirito vivo, combat­ tono al suo fianco contro le pastoie impostegli dalla massa delle obbiettivazioni più povere. Questo particolare fenomeno consiste dunque in una lot­ ta di obbiettivazioni, che si svolge dentro lo spirito vivente. In tale lotta, ciò che è grande e liberatore fa giustizia di ciò che è angusto e limitante. La differenza tra le obbietti­ vazioni sta nel fatto che l’una possiede un peso o un conte­ nuto intrinseco, tale da renderla dominante entro Io spirito vivo, e l’altra non lo possiede. Quella lo vivifica e lo fa avan­ zare, e il suo contenuto si lascia fluidificare; questa invece lo fa arretrare ed è irrigidita nella sua forma. In quella, la per­ petuazione in una forma determinata è solo una specie di incrisalidamento che ha il suo senso in una resurrezione stori­ ca; in questa è atrofia senza ritorno. I grandi rinascimenti storici sono epoche di felice e se­ lettiva ricettività dello spirito vivo rispetto a ciò che ha for­ za di stimolo e di liberazione. L’istanza selettiva è però

706

PARTE ΠΙ. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

sempre, in questi casi, il movimento autonomo che già lo anima. Nello spirito vivente, dunque, ciò che può rina­ scere si divide da ciò che è morto e avvizzito. Ed è capace di rinascere perché, per sua natura e contenuto, si presta an­ cora ad essere trasfigurato dallo spirito vivo, perché, in­ somma, non è ancora esaurito. Lo spirito vivo, infatti, non torna mai indietro verso lo spirito morto del passato. La storia non retrocede, non si ripete. Lo spirito vivo può solo andare avanti — per stra­ de che corrispondono alla sua essenza e, in questo senso, so­ no le sue. Lo spirito obbiettivato può indicargli la via solo in quanto contiene qualcosa di inesausto che a quell’essenza corrisponde.

3.

Vischiosità della forma ed autoliberazione dello spirito vivo

Nello spirito obbiettivato c’è poi un secondo momento che ristabilisce l’equilibrio col fenomeno dell’imprigiona­ mento. L’obbiettivazione è infatti, di per sé, anche la li­ berazione dello spirito vivo. E tale essa è non soltanto nei suoi effetti storici, come bene spirituale consolidato, ma fin dal principio nel processo di obbiettivazione. Questo suo aspetto, naturalmente, non è rilevabile a partire dalla forma­ zione formata, ma solo a partire dallo spirito vivènte; e, an­ cora, non da quello spirito vivente che riceve il bene spiritua­ le ma da quello che, producendolo e formandolo, obbiettiva qualcosa che gli appartiene intimamente. In questo modo, esso esprime una parte di sé e se la lascia alle spalle. Se ne libera. Lo spirito vivente ha un bisogno costante di liberazio­ ne. Ne ha bisogno perché « vive », si trasforma, va oltre se stesso. Deve gettar via forme che egli stesso si è dato; nel processo di autoconfigurazione non può trasformare ogni cosa sempre di nuovo, c’è sempre qualcosa che deve staccare

LX. - ROTTURA DELLE CATENE ED AUTOLIBERAZIONE

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da sé e gettarsi alle spalle. Non ogni forma che esso si dà, è ulteriormente trasformabile. Ma è caratteristico di ogni autoformazione di aderire, una volta attuata, al suo autore, che in essa vive e si muove senza averla oggettualmente davanti agli occhi e senza po­ terla distinguere da sé. Egli ne è affetto. Se vuole respin­ gerla, ma la aggredisce muovendosi tuttavia in essa, non rie­ sce a nulla. L’aggressione è sempre rivolta anche contro di lui. È infierire su di sé. Se non vuole consumarsi in questa lotta, deve porre fuori di sé la forma costituita [Geformtheit] che reca in sé, deve renderla indipendente. Deve depositarla in una forma oggettuale altra da sé. Questo esporre e render indi­ pendente non è altro che il render-oggetto, l’obbiettivazione. Nell’obbiettivazione, egli può finalmente osservare la formazione costituita che recava in sé, come si osserva un oggetto. L’ha allontanata da sé, se ne è liberato e può, quin­ di, abbandonarla, metterla da parte, darsi una forma nuova. L’immagine alla quale involontariamente siamo ricon­ dotti è quella dell’espellere, o spinger in alto, che sottolinea ancora meglio il carattere del disimpegno. Ciò che abbiamo spinto in alto, ricade bensì sullo spirito vivente, ma su uno spirito vivente al quale non aveva in precedenza aderito né appartenuto. L’autoliberazione che un determinato spirito vivo raggiunge per mezzo dell’obbiettivazione, è sempre sol­ tanto la sua propria, non quella di ogni spirito venturo. Per lui, in ogni caso, tale liberazione relativa è sufficiente. Metafore a parte, l’aspetto saliente di questo proces­ so è di render coscienti. Di ciò che a noi inerisce, e da cui siamo affetti e determinati, non abbiamo espressamente co­ scienza. La coscienza è oggettuale e l’oggettualità presup­ pone la distanza rispetto alla cosa. Render cosciente, signi­ fica già scostare da noi stessi ciò che a noi « ineriva »; e non è essenziale che la forma sia quella del comprendere o capire: renderlo intuibile (farsene un’« idea ») è già oggettuarlo. Ed è quanto basta per prenderne distanza e porlo fuori di noi.

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

Per sua essenza, lo spirito obbiettivo vivente, non solo non ha coscienza adeguata di sé, ma è affatto privo di coscien­ za e ne ottiene una soltanto negli individui. Se intende an­ dar oltre le proprie formazioni costituite, deve ricorrere al­ la coscienza che gli individui ne hanno. Deve darsi una co­ scienza negli individui attraverso l’obbiettivazione. Nell’obbiettivazione, esso pone le sue forme tangibilmente fuori di sé. Ciò che può esser còlto col pensiero viene ob­ biettivato nel concetto e nella teoria; l’imponderabile, nel­ le figurazioni del mito, della poesia, delle arti. Nel lavorio che gli individui conducono intorno allo spirito obbiettivo, si compie l’opera di liberazione. Ma in questo operare, l’azio­ ne del pensatore, come quella dell’artista, va molto al di là della sua persona; la sua opera, infatti, è obbiettiva, tan­ gibile e sta sotto gli occhi di tutti. Ciò che nella sua opera si afferma è rautoliberazione dello spirito obbiettivo.

4. Comunicazione, conferimento di forma e crea­ zione ARTISTICA COME AUTOLIBERAZIONE

Il fenomeno qui descritto non è nulla di nascosto o di misterioso. Ci è già sufficientemente noto in base allo spi­ rito soggettivo. Anch’esso, non diversamente dall’obbiettivo, è spirito vivente; solo l’obbiettivato non è vivente. Di pro­ posito abbiamo detto che « ogni » spirito vivente ha un bisogno costante di liberazione. Questo vale in primo luo­ go per lo spirito personale. È appunto il singolo a liberarsi di tutto ciò che lo opprime e gli pesa, obbiettivandolo. Il poeta scrive e lo scultore modella seguendo la propria ispirazione; e anche il comune mortale discorre, racconta, fantastica seguendo i det­ tami del cuore. La semplice comunicazione solleva l’animo, si tratti di dolore, fatalità, insuccesso, paura, colpa o im­ barazzo. La forza del comunicare non dipende dalla ef­

IX.

- ROTTURA DELLE CATENE ED AUTOLIBERAZIONE

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fettiva partecipazione dell’altro o dal suo contributo concreto. Il suo potere di liberazione è intrinseco e sta nel dar forma verbale al sentimento che, una volta espresso, è già staccato dal proprio « sé » e fatto oggetto. Ciò che pri­ ma aderiva alla persona propria, ha ottenuto cosi un essere apparente accanto ad essa. E questo è penetrato nella co­ scienza dell’altra persona come un oggetto del quale sono coscienti ambedue, in comune. La sua aderenza è quindi già spezzata. Non è più qualcosa di impalpabile. D’altra parte, nei confronti di tutto ciò che è diventato tangibile, l’uomo è libero. Le forme di tale autoliberazione sono svariate quanto le possibilità di obbiettivazione. Già la fantasia primitiva, nel­ la pura interiorità, prima di ogni comunicazione, opera per immagini intuitive. Quando la pressione dell’elemento op­ primente e vischioso si fa più forte, si è costretti a ricor­ rere alla plasmazione delle immagini in formazioni sensi­ bili. Anche la persona incolta o senza talento, diventa in tali casi creatore di immagini, disegnatore, pittore o poeta. Crea forme simboliche, senza preoccuparsi del valore artistico; e, in tale sfogo liberatorio, l’obbiettivazione ha raggiunto il suo scopo. Ma può anche accadere che qualcuno diventi, oltre a ciò, effettivamente un poeta, un artista, riveli e sviluppi un vero talento. Grandi artisti di ogni tempo hanno comin­ ciato spontaneamente cosi, prima di rendersi conto della lo­ ro vocazione artistica. Un’oppressione dell’animo, una crisi religiosa o un amore deluso, stanno dietro i primi tentati­ vi di più d’un grande maestro; e, forse, nella storia delle arti, molte potenti creazioni non si sarebbero mai realiz­ zate, se l’arte non fosse anche una forma eminente di autoli­ berazione. A ciò corrisponde un effetto liberatorio di queste stesse creazioni sullo spettatore che sappia comprenderle e ricrearle. Il destino umano obbiettivato nel personaggio d’invenzione lo commuove profondamente, perché in esso anche il suo proprio destino viene sollevato nell’obbietti47.

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

vita e reso palpabile. Ed anche a lui permette di prender distanza e libertà nei confronti di ciò che lo opprime.

5. Immagini del mondo

e sistemi.

Razionalismo e

SEMPLIFICAZIONE

Non diversamente procede lo spirito obbiettivo dei popo­ li. Per mezzo dell’obbiettivazione, esso pone fuori di sé ciò che non è in grado di portare avanti o trasformare. Questo non riguarda soltanto le arti — in primo luogo la poesia —, ma anche il lavoro intellettuale di tipo ideologico e rela­ tivo alla pratica plasmazione della vita. Tale lavoro ha in comune con le arti il fatto che la creazione del singolo di­ venta possesso comune, e che l’elemento formato oggettualmente e distanziato dallo spirito vivo, può essere evidente per chiunque lo sappia cogliere in modo comprensivo. I sistemi filosofici, proprio nella misura in cui non sono pura ricerca, ma costruzioni di pensiero, e le teorie, col loro peculiare linguaggio concettuale, si possono am­ piamente considerare come esteriorizzazioni simboliche intese a « liquidare » tensioni e bisogni non risolti nello spi­ rito vivo. Questa tendenza è stata espressa più d’una volta da capiscuola della filosofia; l’esempio più noto è forse quello di Epicuro che esplicitamente insegnò, il compito della filosofia essere quello di liberare l’uomo da false paure. Importante, a questo proposito, non è tanto la plausibilità intrinseca delle spiegazioni — il conoscere per amore del conoscere —, ma soltanto il principio di mostrare come ogni apparente enigma del mondo, causa di paura e di turbamento, si possa sempre chiarire per vie naturali e non sia altro che illusione. In pratica, ciò può sfociare in un piatto razionalismo; ma la tendenza è comun­ que innegabile e non si può fare a meno di riconoscerle un certo peso, quando si pensi alla massa delle minacce supersti­

LX. - ROTTURA DELLE CATENE ED AUTOLIBERAZIONE

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ziose, delle incomprensibili fatalità e delle conseguenti perplessità umane che gravano penosamente su un modo di vivere e di stare al mondo affidato a un pensiero immaturo. Si può dire, in generale, che l’elemento razionalisti­ co, che ha lasciato larga traccia nella storia dello spirito e spesso ha dovuto piegarsi davanti ai più profondi problemi, con la sua costante inclinazione ad eliminare l’incomprensibile appare, da questo punto di vista, come una vera e pro­ pria necessità storica. Quest’ultima, naturalmente, va intesa qui come una necessità abbastanza antirazionalistica. La razionalizzazione, infatti, proprio perché è un’enorme semplificazione è anche, in grado eminente, oggettuazione. Con l’artificio di un raddrizzamento del mondo assai arbi­ trario dal punto di vista dei contenuti, essa giunge a porre l’incomprensibile fuori dal flusso della vita spirituale. Essa ottiene, a prezzo della profondità e della pienezza di contenuto, una presa di coscienza abbreviata, una siste­ mazione accelerata delle tensioni non risolte e di tutto ciò che è minacciosa fatalità e urgenza di bisogni.

6. Le figurazioni mitiche. Liberazione e vincolo

Se ci volgiamo indietro alle origini più profonde della vita spirituale, molto prima di ogni razionalizzazione, troviamo altre forme di obbiettivazione, non meno potenti di questa, anche se meno radicali. La forma più imponente, la più umana e accomunante, è forse quella del mito. Anch’essa è un modo di render cosciente, un modo di liberarsi, e anch’essa opera una certa semplificazione, sebbene con ca­ tegorie completamente diverse. Non nega l’incomprensibile, ma preferisce configurarlo in immagini, nelle quali riesce a prendere ugualmente distanza dalla vita propria. Nelle figurazioni mitiche, l’uomo esteriorizza in modo palpabile il suo sentimento del destino, la sua lotta, la sua

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

impotenza e il suo timore. Obbiettiva l’una cosa e l’altra e, cosi facendo, obbiettiva insieme le potenze oscure del mon­ do in cui vive e quelle del mondo interiore. Se le rende in­ tuibili e cosi se ne libera. Spesso la loro oggettuazione comprende addirittura la relativa liberazione — come nei miti in cui compare il liberatore nella persona del­ l’eroe che affronta mostri e spiriti maligni e li vince. È vero altresì che bisogna guardarsi dal generaliz­ zare eccessivamente il principio dell’obbiettivazione come autoliberazione. Non fosse altro che perché esso coe­ siste storicamente col momento dell’imprigionamento. È chiaro che i due momenti non si contraddicono, neppure quando compaiono in una stessa obbiettivazione, perché ciò da cui l’obbiettivazione libera, non è ciò in cui essa impri­ giona lo spirito vivo. Forse si può dire che essa, fondamen­ talmente, mentre libera da una parte, lega dall’altra. A ciò corrisponderebbe la legge, altrimenti ben nota, secondo la quale una libertà puramente negativa non esiste, e ogni soluzione è sempre ottenuta a prezzo di un nuovo legame. Questo pensiero trova in un certo senso conferma nel fatto, sopra menzionato, che ogni spirito vivo non può vivere, né sussistere storicamente, senza una certa mole di obbiettivazioni. Nella misura in cui è spirito comune, deve produrre una comunanza degli individui dentro forme costituite. Ha bisogno di coniare moneta spicciola per la reciproca comprensione. Al centro di questo fabbisogno vi­ tale di obbiettivazioni, sta il linguaggio: e proprio in quanto esso è sempre anche qualcosa di più di un mero mezzo di scambio, e cioè, appunto, formazione oggettuale del vissuto, del desiderio, dell’intuizione, della comprensione. Caratteristico è che, già a questo livello volgare delle ob­ biettivazioni più caduche, lo spirito vivente si libera e si im­ prigiona sempre di nuovo: si libera in quanto, nella sua co­ municazione, produce forme, si imprigiona a causa del po­ tere che la formazione acquista sul modo della rappresen­ tazione. È vero che, nella vita quotidiana, non sappiamo nulla

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né dell’una né dell’altra cosa. Ma ambedue sono pur sempre presenti e intrecciate fra loro insolubilmente. Anche da que­ st’ultimo imprigionamento bisogna via via liberarsi attra­ verso un’obbiettivazione nuova e più potente.

Capitolo LXI IL PROTRARSI NEL PRESENTE E IL PROTENDERSI VERSO IL FUTURO

1. Lo

SPIRITO VIVENTE IN RAPPORTO ALLA SUA STORIA

Le ultime considerazioni servono in parte a gettar nuova luce sul rapporto che lo spirito vivente, attraverso quella che è via via la sua configurazione attuale, intrattiene col corso storico. Poiché del divenire storico è altrettanto pecu­ liare il protrarsi del passato nel presente, che il protender­ si di questo nel futuro, ma ambedue sono essenzialmen­ te determinati dalla conservazione e rifluidificazione delle obbiettivazioni, siamo rimandati, nella sostanza, a un rapporto che è ancora quello che abbiamo appena considera­ to tra spirito vivo e spirito obbiettivato. Ora, poiché ogni spirito vivente sta sempre nel mezzo tra un passato e un futuro i quali, nonostante si richiamino e si intreccino, sono e restano divisi tra loro, la considera­ zione della sua storicità si scinderà in due aspetti opposti, corrispondenti a un diverso rapportarsi dello spirito vivente. Diverso è infatti — a seconda dei territori del suo vivere e del suo fare —, il suo rapporto sia con lo spirito passato che con quello futuro. Cominciamo dal rapporto con lo spirito passato. Que­ sto è identico al rapporto, inteso in senso stretto, dello spi­ rito vivente con la sua storia. Ora, due sono le maniere nelle quali il passato si protrae dentro il presente: come conser­ vazione diretta della conformazione interna dello spirito vivente stesso, e come bene spirituale posto fuori per via

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

di obbiettivazione. Ciò che si conserva direttamente nella vita, lo spirito presente l’ha ancora in sé: al riguardo, non ha bisogno di alcun rapporto speciale, di alcuna presa di posizione, perché è sempre di lui che si tratta. Ben diverso è il caso delle obbiettivazioni. Queste entrano nella sua co­ scienza oggettualmente, sono altre da lui, gli stanno di fron­ te. E, in esse, anche il passato gli parla e gli sta di fronte. Non le ha in se stesso, ma fuori di sé: può averle, addirittu­ ra, « contro di sé ». Esse provocano, in tal modo, la sua presa di posizione, la quale, riguardando l’obbiettivazione del passato, è insieme una presa di posizione nei confronti della propria storia. Le epoche storiche hanno tutte in comune questa du­ plice forma del protrarsi. Diverso è solo ciò che si protrae e come viene accolto: due aspetti ugualmente determinan­ ti per la valutazione che se ne dà. Come vi sono epoche tradizionaliste ed epoche antitradizionaliste rispetto a ciò che, ancor vivo, si protrae, cosi rispetto al patrimonio spirituale obbiettivato vi sono epoche pietose ed epoche empie. Al monumento del passato può essere attribuita un’intangibile validità, ma esso può anche apparire come un ostacolo al nuovo che sta nascendo. Emerge qui una seconda fondamentale differenza, che non riguarda il protrarsi-dentro e la continuità del vi­ vere, ma la relazione dello spirito vivente stesso allo spiri­ to nel passato e al protrarsi del suo influsso. Non è diffici­ le riscoprire, a questo proposito, il doppio volto dello spi­ rito obbiettivato; al quale, in primo luogo, si riferisce la differenza. Spirito obbiettivato è, da una parte, il bene spi­ rituale di cui lo spirito vivente fruisce a proprio vantaggio ed edificazione; d’altra parte, e a un tempo, la catena che stringe lo spirito vivente e lo induce a lottare per andare avanti. Di qui la doppia valutazione dell’ « antico »; che appare, ora come confermato e venerabile, ora come sopravvissuto e venuto a noia — secondo le tendenze che incontra nello spirito vivente (cfr. Introduzione, 17). Il passato si pro­ trae, cosi, dentro le proprie obbiettivazioni, da un lato come

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elemento portante e fecondo di nuova vita, dall’altro come un peso e un ostacolo per la vita. Nel primo caso, ha lo spiri­ to vivo dalla sua, nel secondo l’ha contro di sé. Ed è carat­ teristico notare come, in una stessa epoca, il portato del­ la tradizione possa essere sentito, messo in causa e discusso sia come valore che come disvalore. Tendenze nuove si richia­ mano senz’altro, per giustificarsi, all’autorità dell’antico·, e tendenze altrettanto nuove, alla sua decadenza, anch’esse per giustificarsi. Le une lo utilizzano positivamente in funzione della propria causa, le altre negativamente in fun­ zione di una causa opposta. Nel patrimonio spirituale obbiettivato appare, quindi, a un tempo lo spirito buono della conservazione che regge e incrementa il progresso, e il tiranno che lo inibisce.

2. Differenziazione

del rapporto

Ciò non significa affatto che ogni determinato spirito vivente debba assumere un atteggiamento univocamente affermativo o negativo nei riguardi del passato che, per mez­ zo delle obbiettivazioni, tangibilmente in lui si protrae. Non si trova in alcun modo di fronte ad una alternativa radi­ cale. Si dà bensì il caso che un’intiera epoca assuma un at­ teggiamento prevalentemente conservatore o prevalentemen­ te rivoluzionario, ma non mai che si fissi assolutamente su uno dei due estremi. I due atteggiamenti si trovano anzi, per lo più, unificati secondo gradazioni diverse. Ciò è reso possibile, senza con­ traddizione, dalla grande varietà intrinseca della vita spi­ rituale, o meglio, è reso pressoché necessario dalla pro­ fonda differenziazione dei suoi domini. Quello stesso spi­ rito obbiettivo che, in sede religiosa, è profondamente con­ servatore, può essere rivoluzionario in sede artistica. In que­ sto non c’è alcuna incoerenza. L’ampio fronte della vita spi­ rituale e dei suoi contenuti ammette molte divergenze nel­

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

l’atteggiamento, e perfino una certa indipendenza reciproca di tendenze coesistenti. Come si vede, i territori spirituali sono del tutto etero­ genei, non solo per contenuto, ma anche per la tendenza prevalente e per l’atteggiamento che implicano rispetto alla propria storia. In essi è addirittura riconoscibile (cfr. In­ troduzione, 16-18) una specie di graduazione che copre quasi tutto lo spazio tra un estremo e l’altro. I territori del­ lo spirito non vivono soltanto rivolti « con la fronte » o « con le spalle » alla loro storia ma, all’interno di questi due atteggiamenti, la posizione può differenziarli ulterior­ mente. Volger la fronte, può significare raccolta e conser­ vazione del patrimonio spirituale, può essere fruizione di­ retta di tale patrimonio, ma può anche risolversi in un rapporto di lotta. Parimenti, volger le spalle può voler dire semplicemente mancanza di interesse, ma può essere anche trascuratezza consapevole o rifiuto. Infine, può significare un effettivo stato di superamento, qualora lo spirito vivente abbia già raccolto la parte vitale di un dato patrimonio storico ed abbia risolto il problema facendo si che essa con­ tinui a vivere in lui. Non è il caso di ripetere in che modo questa graduazio­ ne si distribuisca secondo il differenziarsi della vita spiri­ tuale nella scienza, nella filosofia, nell’ethos, nella reli­ gione, nell’economia, nella tecnica ecc. Una maggiore preci­ sione è compito di ricerche speciali di storia dello spirito. Per il nostro problema importa soltanto che, in quella gra­ duazione, si rivela la doppia natura del bene spirituale in quanto obbiettivazione. Se nella tecnica abbiamo un caso estremo di rifiuto del passato, ciò dipende dal fatto che essa segue soltanto i suoi scopi presenti e non può aver bisogno delle obbiettivazioni in quanto tali. Siccome prende sempre la via più breve, l’an­ tico e il tradizionale le sono soltanto d’impaccio. Se li getta via è perché la costringono a fermarsi. Essa guar­ da solo in avanti; lo spirito obbiettivato non le serve a nul­ la ed essa non ne vede l’altra faccia, neppure quando ripren­ de per conto proprio e valorizza acquisizioni del pas-

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sato. Tutto ciò fa parte della sua essenza: per la tecnica, lo spirito vivo del momento è tutto. Se nella vita religiosa troviamo l’altro estremo, per cui non abbiamo soltanto la conservazione del passato, ma un vero e proprio nutrirsi di esso; se qui la rivelazione obbietti­ vata, il « libro sacro », costituisce l’unico autentico punto d’orientamento e fonte perpetua d’ispirazione, ciò è dovuto all’intima forma della vita della fede. In questi casi, l’obbiettivazione mostra soltanto l’altra faccia e vale come la formulazione definitiva e insuperabile di un bene spirituale d’eccezione, cui lo spirito vivente non ha nulla da aggiungere. Perciò, non soltanto essa si protrae dentro il suo presente, ma lo sorpassa e lo determina d’autorità. Il sentimento religioso, dal canto suo, non vede in tale au­ torità le pastoie che forse vi sono. Continua a vivere legan­ dosi ad essa in modi sempre nuovi; vi si rifà, anzi, esplicita­ mente anche quando intraprende la lotta contro il proprio irrigidimento dogmatico — cioè, contro obbiettivazioni di rango inferiore. Se invece si scioglie da questa autorità, vota anche se stesso alla dissoluzione. Se la scienza esatta volta le spalle alla propria storia e prosegue per la propria strada indifferente alle teorie del passato, non vuol dire che ne ignori o rifiuti le conquiste. Essa ha già raccolto, nel proprio progredire, la parte duratura del proprio passato. Ciò che si scrolla di dosso, sono solo i concetti e i sistemi di una volta, che non sono più i suoi; in altri termini, le obbiettivazioni super­ stiti in quanto tali, sono per lei inutile zavorra che, se conser­ vata, potrebbe trasformarsi in una prigione. Fa parte della sua essenza lasciarsele alle spalle, perché è sua caratteristi­ ca peculiare quella di recare in sé la somma delle conquiste già fatte. E se in questo la filosofia si comporta diversamente, se noi vediamo che essa procede in costante discussione con le dottrine del passato, la ragione ne è, appunto, che il suo progredire non le consente di raccogliere e valorizza­ re tutte le conquiste già fatte. Essa non finisce mai di veder­ sela col patrimonio obbiettivato del passato, deve procedere

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

spezzandolo e lasciandosi quindi alle spalle qualche incertezza. Questo patrimonio le mostra veramente il suo doppio voito: la imprigiona e, insieme, la rende feconda; è qualcosa di cui non può fare a meno, ma che neppure può accettare ingenuamente e col quale si trova a dover sempre combattere. In conclusione, non può né nutrirsene, né conservarlo con cura, né rifiutarlo perché l’ha, a un tempo, dalla sua parte e contro di sé. Perciò, ambedue i modi di valutare l’antico le sono ugualmente pecualiari. Di qui il suo particolarissimo rapporto con la propria storia. Essa vive rivolta al passato, senza tuttavia potersi legare ad esso. Approfondendo i propri problemi, approfondisce a un tempo la comprensione della propria storia.

3. Influsso

conscio e inconscio sul futuro

Non meno differenziata è la relazione dello spirito vivente al proprio futuro. Pensare esclusivamente alla sfera dell’attualità — per esempio, della vita politica e sociale —, dove tutta l’attività e la cura sono rivolte al futuro storico più prossimo, già quasi sentito come presente, sarebbe re­ stringere eccessivamente il senso del rapporto. L’azione ad ampio raggio è affidata, se mai, principalmente alle obbiet­ tivazioni che uno spirito vivo produce da sé. Nei loro con­ fronti, infatti, vale la legge per cui un bene spirituale, a tempo debito, ritorna, si fluidifica e produce i suoi effetti. Ciò che è stato spinto in alto ricade sullo spirito vivo, anche se non più sullo stesso. Obbiettivandosi, uno spirito vivo agisce al di là di se stesso, non importa se consapevolmente o no. Esso dà im­ pulso allo spirito venturo, gli destina ciò che possiede ma, cosi facendo, anche lo incatena. E quanto più stabile è la materia nella quale si obbiettiva, tanto più ampio è il raggio della sua azione. Tuttavia, il fatto che esso sia consapevole o no dell’azio­ ne che esercita, comporta una grande differenza; cosi pure,

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I | 1 | | ’ | j |

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che sia o no consapevole di volere un dato effetto e di mira­ re proprio a quello. Possiamo anzi fare un passo indietro, al di qua della consapevolezza dell’effetto, perché anche della obbiettivazione stessa lo spirito vivo può essere consa­ pevole o non consapevole; e quando lo è, può volerla in quanto tale e per se stessa oppure no. In quest’ultimo caso, sarà per lui solo un mezzo per scopi d’altro genere, re­ lativi alla sua vita corrente. L’obbiettivazione può però giun­ gere involontariamente ad esercitare un’efficacia storica. Nel quadro di queste alternative, che già rivelano una interna graduazione, la posizione di ciascuno spirito vivente rispetto al proprio futuro può essere diversa. E, anche in questo, una parte importante spetta alle differenze struttu­ rali dei diversi campi dello spirito. In certi campi, l’influsso volutamente esercitato sul futuro è, per lui, essenziale; come quando si dà istituzioni che servano alla sua vita e al suo sviluppo (non solo, quindi, nella vita politica, ma anche in quella del diritto, dell’educazione e della scuola). In al­ tri suoi domini, lo spirito vivo non mira consapevol­ mente ad ottenere un dato effetto nel futuro; e questo vale, forse, per l’ethos, lo stile di vita, il gusto, in parte anche per le arti e il sapere. Non è detto, peraltro, che, quando se lo propone esplici­ tamente, lo spirito vivo incida davvero con maggior forza nel futuro. Un’obbiettivazione rinchiusa nel proprio pre­ sente può benissimo rivelarsi più forte nel determinare il futuro. L’influsso esercitato involontariamente, non di rado è quello storicamente più duraturo. Da questo punto di vista, anzi, neppure il sapere circa l’obbiettivazione stes­ sa è decisivo. L’obbiettivazione ingenua può essere gravida di conseguenze: può diventare una prigione e può servire di stimolo tutte le volte che uno spirito vivo le si accosti in seguito con animo comprensivo. L’obbiettivazione voluta e realizzata a tutti i costi, può invece scomparire senza lasciar traccia.

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

4. Il volgersi verso il futuro. Il richiamo lanciato NELLA STORIA

La gran massa delle obbiettivazioni che, dal presen­ te fluente, si protraggono nel futuro e lo preparano, è in­ dubbiamente chiusa nel presente, anche se non si tratta sempre di obbiettivazioni inconsapevoli. Questo fenome­ no è già rilevabile nella parola gettata li a caso, o nel ge­ sto individuale; ciò che vi si esprime, è dapprima soltanto lo spirito personale, ma poi anche, attraverso i suoi rappresen­ tanti, lo spirito comune. Obbiettivazioni di questo tipo sono inconsapevoli, ma anche caduche. Ed effimero è il loro ma­ teriale: la parola non risuona più, il gesto è difficile da ricor­ dare. Solo se vi si sovrappone una seconda obbiettivazione in una materia stabile, se la parola e il gesto vengono fermati in uno scritto, fissati in una sentenza o in un aneddoto, possono agire oltre la loro esistenza del momento. La se­ conda obbiettivazione, però, non è più inconsapevole e, di regola, dovrebbe anche presupporre la precisa volontà di conservare e trasmettere. A proposito della scrittura, si può sempre parlare di un’obbiettivazione voluta; e similmente ogni volta che ci si trovi davanti a una formazione cosale visibile. Ogni at­ tività artistica è di questo tipo. Altra cosa è, invece, la co­ scienza degli effetti futuri della propria azione. Il privato corrispondente le cui lettere, « scoperte » molto tempo dopo la sua morte e pubblicate quale preziosa testimonianza della sua epoca, esercitino poi qualche influenza sui posteri, certo non sospettava nulla del loro effetto storico. Anche l’artista opera riferendosi dapprima soltanto al pubblico contemporaneo. Tuttavia, è nell’essenza del­ l’opera fatta, di non esser limitata da quell’intento, di du­ rare oltre il presente e rivolgersi allo spirito venturo anche senza la precisa volontà dell’artista. Non altrimenti accade al ricercatore, al pensatore e allo stesso difensore o promo­ tore di indirizzi pratici, etici, ideologici. In tutti costoro c’è però anche, in certi casi, l’in-

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tenzione cosciente di incidere al di là del momento storico, un vero e proprio rivolgersi allo spirito venturo — che stia formandosi e lo si presagisca oscuramente, o che, di là da venire, sia però atteso o ancora storicamente possibile. L’obbiettivazione assume allora un carattere di anticipazio­ ne profetica ed è come un appello o un richiamo lanciato nella storia. Naturalmente, l’appello può dileguarsi, la profezia può essere sbagliata e il destino storico dell’epoca risultare puramente negativo. A sua volta, la fonte dell’errore può essere di due tipi: può risalire a un’errata presunzione dell’autore, a un credere di potere; ma può anche dipendere dal successivo corso storico delle cose umane. Può capitare, infatti, che per tutta la durata della formazione reale, nessuno spirito vivente si dimostri all’altezza del­ l’opera fatta. Nell’uno e nell’altro caso, però, l’anticipazio­ ne consapevole, in quanto tale, resta la stessa, e cosi pure il richiamo storico rivolto al futuro.

5. Importanza dell’opera e missione

storica univer­

sale

Anche a questo proposito vi sono, come si sa, esempi notevoli e assai caratteristici. L’artista, il poeta o il compo­ sitore che si sente in anticipo sul proprio tempo, è spinto dal carattere stesso e dall’importanza della propria opera, a trascendere il presente. Non ha scelta: l’opera possiede una sua autonomia e, nelle cose artistiche, lo spazio lasciato al compromesso è assai limitato. E forse, quanto più un gran­ de uomo è isolato nel suo tempo, tanto più cosciente sarà il richiamo che, con la sua opera, eserciterà sulle future gene­ razioni. Questo è tanto più vero, se possibile, nel caso del ri­ cercatore. Qui, infatti, non è soltanto il grande ad aver l’occhio rivolto al futuro. Il lavoro, nel quale è immerso il

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ricercatore, segue sempre il solco di problemi che non sono soltanto suoi e che non saranno definitivamente risolti da lui stesso, né dalla sua epoca. Chi penetra tanto a fondo da giungere a riconoscere questa situazione generale della ricerca — e, tra i ricercatori produttivi non mancano, in nessuna epoca, uomini di tale levatura —, sa anche che il suo contributo alla soluzione dei problemi è solo un anello di quella catena che è, storicamente, il processo della conoscenza. Sa che il suo lavoro può far progredire il problema soltanto di un passo, e che il risultato raggiunto è consegnato alla ricerca futura come arricchimento dello stato del problema. Può, anzi, dare consapevolmente a que­ sta consegna la forma d’una diversa posizione del problema. In tal modo, rivolge anche un consapevole appello al futuro della sua scienza, chiamandola a continuare il lavoro. È chiaro che tutto questo si basa su una relazione ob­ biettiva che rende necessario guardare al futuro. Non è la stima che l’autore fa della propria opera a richiederlo, ma l’importo dell’opera stessa. Ecco perché questo richiamo, quando è giustificato, non proviene in verità dall’autore, ma piuttosto dall’opera fatta. Con ciò, esso non soltanto è sottratto alla valutazione soggettiva dell’uomo, ma è anche, in un certo senso, indipendente dalla coscienza storica del­ l’autore. Ciò che importa non è che egli faccia appello alla storia, ma che lo faccia attraverso la sua opera. Un clas­ sico esempio di quanto diciamo è costituito, nel campo del­ la ricerca, dal lavoro aporetico che Aristotele svolse in tutta la sua vita, col quale elaborò molti più problemi di quanti non abbia egli stesso risolti, o anche solo tentato di risolvere. Per molti secoli, da quelle aporie si è levato sem­ pre di nuovo il richiamo a proseguire il lavoro; ma è diffici­ le pensare che Aristotele le abbia scritte a quello scopo. Questo appello alla storia assume forme diverse quan­ do, ad es., in personalità di rilievo, lo spirito vivente si carica di idee che comportano una specie di missione storica universale. Che tale missione venga sopravvalutata o sotto­ valutata, che sia anche soltanto consaputa e intesa come ta­ le dai suoi promotori, è relativamente indifferente. Si ri­

LXI. - PRESENTE E FUTURO

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presenta, ancora una volta e in una dimensione più ampia, quella che chiamiamo obbiettività dell’intiero rapporto, con la sua indifferenza rispetto ad ogni opinione che se ne possa avere. Nell’antica Grecia, la figura di Socrate incarnò una simile missione. Oggi è difficile decidere in che misura apparte­ nesse al vero e proprio Socrate storico. Ma appartiene incon­ testabilmente alla figura obbiettivata di Socrate, che Platone ha creato plasticamente nei suoi dialoghi e trasmesso ai po­ steri. È questa figura che, al di là della vicenda del popolo greco, ha chiamato sempre di nuovo lo spirito umano al­ l’interiorità, alla giustificazione razionale, alla responsabi­ lità. Essa rivela da sola, anche ai posteri e con penetrante limpidezza, i tratti, divenuti profetici, del portatore d’una idea; da essa spira ancora un monito e un richiamo al genere umano. E in quello spirito lo stesso Platone creò un’ideale politico e umano che, benché utopistico, ha giu­ stificato ampiamente la sua pretesa di essere ascoltato dal­ le successive generazioni — anche se forse non lo è stato come era nelle intenzioni del filosofo-poeta.

6. Il rischio

storico e la sua giustificazione

È necessario limitare la grande pretesa contenuta in un appello al futuro, essenzialmente ai casi di straordinaria intensità e portata. Perché, nello spirito zelante dell’astrat­ to riformatore del mondo, tale appello non verrà preso sul serio; mentre, nel campo della ricerca scientifica, esso avrà piuttosto il carattere di una decisione personale rispetto alla lontananza delle mete comuni, che non di una pretesa. Purché non si dimentichi che il contemporaneo non possiede alcun criterio sicuro per stabilire quando la pretesa sia giustificata e quando sia dovuta invece a presun­ zione o arroganza. Per i posteri è facile distinguere: per loro ha già deciso la storia. Davvero si può dire che colui, il qua­ 48.

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

le con la sua opera si rivolge allo spirito che verrà, compie storicamente un atto d’audacia — un rischio che, per un uo­ mo cauto, certo non è facile assumersi. Solo se un’intuizione strapotente lo spinge dall’intimo, egli oserà lanciare un simi­ le appello. Che, se l’appello si rivela frutto di vanità, atti­ ra su chi l’ha lanciato la maledizione del ridicolo. Se in­ vece si giustifica, eleva l’individuo a portatore di un’idea, lo consegna a un destino che non è più quello di una perso­ na singola e di fronte al quale i particolari della sua vita privata scompaiono. Inoltre, i campi in cui l’appello ottiene risposta sono sol­ tanto quelli del puro creare, ricercare ed operare spirituale. Le attività che interessano direttamente la vita pratica e la dura realtà dei fatti sono, in questo, molto più inibite: e non solo perché la realtà effettuale restringe il margine di libertà dello spirito, ma anche perché in essa solo l’azione immediata e che incida sugli eventi in atto ha anche afficacia, mentre l’obbiettivazione nasce proprio ed essenzialmente dall’esigenza opposta. Tipico il caso della vita politica, dove il passato si protrae nel presente, da un lato, come fattore di una situazione già data, dall’altro, come tendenza in atto, senza passare, in nessuno dei due casi, per l’obbiettivazione. Quando un’epoca riesce effettivamente ad obbiettivare i propri ideali politici, tende a far loro assumere la for­ ma dell’utopia. Anche per il platonismo, dunque, questi sono i limiti di campo della sua efficacia storica. Quando un’obbiettivazione di grande portata rag­ giunge storicamente una potenza determinante, rivela sem­ pre chiaramente la sua essenziale ambiguità: da un lato incatena lo spirito vivente, dall’altro lo stimola dall’inter­ no. Questo è importante proprio in connessione col richia­ mo lanciato a uno spirito futuro; che è, quindi, insieme una sfida a cimentarsi con l’opera. E lo è anche contro l’intenzione dell’autore. Infatti, è umano vedere nella propria intuizione qualcosa di assoluto e di definitivo: non c’è spirito vivo che possa aggredire il dato e anticipare, in­ sieme, la critica del suo modo di aggredirlo. Cosi, è nel­ l’essenza della situazione che esso tenda, con ciò che

LXI. - PRESENTE E FUTURO

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esteriorizza e trasmette allo spirito venturo, a incate­ nare tale spirito, anche se a lui quella catena può apparire come una liberazione. Ma poiché lo spirito che deve venire è uno spirito vivo, dovrà altresì, e proprio perché risponde all’appello, affron­ tare e discutere l’opera per proprio conto. Accettare lo spirito obbiettivato significa cimentarsi con esso. Que­ sta lotta porta però ad un punto decisivo, che è il seguente: che le obbiettivazioni si fluidifichino, che lo spirito in esse trattenuto ridiventi libero e possa ritornare nello spirito vivente. Tale cimento, infatti, è vita in senso eminente e, in esso, solo ciò che è vivo ha ragion d’essere. Se poi ci chiediamo che cosa, di tutto lo spirito obbiettivato, possa ridestarsi alla vita, e che cosa sia destinato a morire, siamo indotti a far nostra, una volta di più, la risposta contenuta nei grandi rinascimenti che la storia ci mostra: solo ciò che ha profonde le radici e che ri­ manda lo spirito vivo alla propria interiorità più originaria, ha il potere di liberarlo e di metterlo in movimento; ma i tentativi di imprimergli una forma dall’esterno saranno superati nella lotta e quella forma sarà respinta. A meno che non lo schiacci col suo peso.

Capitolo LXII

LA COSCIENZA STORICA DELLO SPIRITO VIVO

1. Differenza tra

ciò che è vivo, ciò che viene ri­ morchiato E CIÒ CHE È STATO LIQUIDATO

Un’ultima questione, circa il rapporto tra spirito vivente e spirito obbiettivato, riguarda inoltre la coscienza storica relativa a quest’ultimo. Non si tratta, in questo caso, della coscienza del passato più recente, che accompagna ogni vita storica; giacché questa riposa prevalentemente sul protrarsi « tacito » nel presente da parte di un passato an­ cora immediatamente vivo. Un protrarsi che non passa attraverso le obbiettivazioni e, per lo più, non comporta un’esplicita coscienza oggettuale del passato. Si tratta, piut­ tosto, della coscienza storica propriamente detta, quel­ la che trae alimento dalle traccie obbiettive dello spiri­ to passato. Da questa coscienza storica secondaria sca­ turisce la scienza storica, per la quale la differenza tra passato recente o remoto non è più rilevante. Il problema della coscienza storica secondaria è quello su cui, oggi, fa centro la maggior parte delle teorie di filosofia della storia; nonché quello che, se insufficiente­ mente fondato in sede ontologica, le relega a sua volta sul piano errato della pura considerazione metodologica. La questione, che qui non verrà affrontata direttamente, impli­ ca tutta la serie dei problemi metodologici che abbiamo già posto fuori causa all’inizio. Pertanto, ciò che rientra nel qua­ dro della nostra ricerca sarà solo una questione preliminare — benché s’intende, fondamentale per comprendere la situazio­

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PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

ne problematica in cui lo storico si trova. Nel contesto dei problemi, molto più fondamentali, di cui ci siamo finora oc­ cupati, ciò che qui è problema preliminare risulta invece un momento marginale, una questione residua. Ciò non impedi­ sce, ancora una volta, che essa getti nuova luce sull’essere dello spirito obbiettivato. Come si è visto nel capitolo precedente, il rapporto dello spirito vivo con la propria storia è parte integrante della sua stessa vitalità e, nella misura del suo vivo confron­ tarsi col passato che in lui si protrae, il rapporto rientra intieramente nell’attualità storica. D’altra parte, non tut­ to il passato si protrae nel presente, né il confronto si esten­ de a tutto ciò che in esso si protrae. Per uno spirito vivo, il passato si distingue, dunque, in ciò che è ancora vivo, o che almeno può ancora vivere e trasformarsi, e in ciò che è morto. Quest’ultimo, però, si può ancora distinguere in ciò che viene rimorchiato (zavor­ ra o catena) e ciò che è stato effettivamente superato e « liquidato ». Perché qualcosa sia liquidato, non è neces­ sario che se ne sia perso il ricordo: basta che lo spirito vivente se lo sia lasciato alle spalle; l’oblio non può aggiun­ gere nulla all’avvenuto superamento: ne è soltanto una con­ seguenza. Nello spirito vivente, tutti e tre i gradi — l’ancor vi­ vo, il rimorchiato e il superato —, possono essere rappre­ sentati da obbiettivazioni. E allora, il valore e l’importanza di tali obbiettivazioni avrà nel presente una corrispondente graduazione: le prime sono forze motrici all’interno dello spirito vivo, le altre sono ormai degli ostacoli, le ultime giacciono neutralizzate alle sue spalle.

2.

Importanza di ciò che è stato superato, per la pu­ ra COSCIENZA STORICA

Questa relazione assume un aspetto completamente diverso nella coscienza storica puramente oggettuale. Qui

LXII. - COSCIENZA STORICA DELLO SPIRITO VIVO

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è il passato in quanto tale che diventa oggetto di considera­ zione. Dal punto di vista di questa considerazione, l’intiera scala delle obbiettivazioni, che si riferisce allo spirito viven­ te e solo per lui è valida, diventa del tutto indifferente. Ciò che, per la coscienza attuale del presente, è morto, non è morto per l’interesse dello storico. E ciò che, rispetto al processo storico, è ormai liquidato, non lo è per la coscien­ za storica. La differenza tra lo spirito vivente, le obbiettiva­ zioni rimorchiate e quelle superate, sussiste solo, di volta in volta, per la viva attualità del presente. Ma il pensiero storico si pone fuori di tale attualità e non fa quella diffe­ renza. Il suo interesse è rivolto, anzi, in special modo alla gran massa delle obbiettivazioni superate — e particolarmente a quelle ormai sprofondate e sfuggite alla coscienza del pre­ sente. L’interesse è rivolto insomma a ciò che non è più in alcun modo presente e che il presente non colora più di sé, a ciò che non è più che passato e in cui il passato appare in quanto tale nella sua massima purezza. S’instaura cosi un nuovo rapporto dello spirito vivente col proprio passato; un rapporto che non consiste più in un ritorno del passato, né in un reingresso dello spirito ob­ biettivato nel vivente. Qui, insomma, non torna a valere ciò che fu valido in passato. Perciò, rispetto a questa rela­ zione, è indifferente che le obbiettivazioni del passato alle quali si riferisce possano essere ancora una volta riattivate o rese feconde. Questa volta, esse non si presentano né come forze motrici, né come forze inibenti, ma semplicemente come testimonianze del passato in quanto tale. Ogni incidenza del presente, sia essa positiva o negati­ va, è neutralizzata. Ed è solo grazie a questa neutralità che diventa possibile all’intenzione storica l’accesso indiscrimi­ nato ad ogni e qualsiasi testimonianza conservatasi nelle ob­ biettivazioni di uno spirito passato. Tale è, quanto meno idealmente, l’atteggiamento storico. Che poi sia anche realiz­ zabile nella sua purezza, è naturalmente un’altra questio­ ne. Una valutazione differenziata di ciò che è morto e di ciò

732

PARTE III. - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

che è superato, dipende appunto dall’atteggiamento di prin­ cipio. Questo nuovo rapporto sembra a prima vista contrad­ dire alla legge d’essere dell’obbiettivazione, la quale affer­ mava che le obbiettivazioni sono soltanto « per » uno spiri­ to vivo. Se dunque, per lo spirito vivente, esse sono ormai liquidate, si dovrebbe anche ritenere che esse siano, per ciò stesso, completamente annientate. Per contro, vediamo che nello stesso spirito vivente esiste una dimensione, per la quale esse non sono, neppure allora, annientate del tutto. Ma questo significa soltanto che ciò che è liquidato, in quanto tale, non è liquidato in tutti i sensi. Questa dimensione dello spirito vivente è la coscienza storica puramente conoscitiva o scientifica, per la quale, di fatto, nulla è mai liquidato. È come dire che tutto ciò che è stato liquidato lo è stato soltanto relativamente. Re­ lativamente al rapporto che uno spirito vivo intrat­ tiene col passato. Quanto più tale rapporto si risolve nell’attualità, tanto maggiore è la parte di passato che ri­ sulta superata per lo spirito vivente; quanto più indietro esso si rifà oltre l’attualità della storia in corso, e quanto più si avvicina a una dedizione puramente comprensiva, tanto maggiore è il numero delle obbiettivazioni superate che, nella considerazione storica, ritornano a vivere. Si rifletta: se per lo spirito vivo ciò che è superato non esistesse più affatto, sarebbe impossibile allo storico trovare accesso a un passato che non fosse più né vivente, né a rimorchio del vivente. A ben guardare, lo storico non di­ spone di altra testimonianza del passato, che non siano le sue obbiettivazioni; perché proprio quelle che vivono ancora, e perfino quelle che sono prese a rimorchio non sono, in quanto tali, testimonianze pure e semplici: hanno in sé il mutamento e la presa di posizione sempre attuale dello spi­ rito vivo. Proprio in quanto superate, le obbiettivazioni acqui­ stano ai suoi occhi tutto il loro valore; ossia, quanto più sono lontane dalla vita presente e quanto più sono superate, tanto meno sono superate per lui. Ciò riguarda le cosiddette

LXII. - COSCIENZA STORICA DELLO SPIRITO VIVO

733

« fonti » dello storico e cioè, in primo luogo, quegli scritti del passato che, al presente, nessuno legge più.

sapere storico come autocoscienza dello spi­ rito VIVENTE

3. Il

Con questo, però, nasce un problema relativo alla forma d’essere della ricerca e del sapere storico. La coscienza storica e il senso storico, non soltanto sono portati dallo spi­ rito vivente, ma sono senz’altro parte di esso e parte es­ senziale. Non ogni spirito vivente ha senso storico, non in ogni tempo esso esprime intelletti che si rivolgano al passato per amore del passato. La forza motrice che produce una co­ scienza storica capace di estendersi oltre l’attualità non sta evidentemente nelle obbiettivazioni del passato; ci sono fonti e documenti che giacciono per secoli come tesori non utiliz­ zati, benché offrano sempre gli stessi titoli per una possi­ bile valorizzazione. Il motivo vero va dunque cercato nel­ lo spirito vivente stesso. È il suo spontaneo volgersi al pas­ sato, che gli permette di scovare ciò che è superato e gli in­ segna a non considerarlo liquidato in tutti i sensi. Da questo punto di vista, anche il ritrarsi dello storico dal fluire attuale della storia presente ha i suoi interni limiti. La spontanea dedizione al passato, che in lui si manifesta, ha le sue motivazioni, in ultima analisi e non diversamente da ogni tendenza emergente, nel presente e nell’attuale. Il che, evidentemente, non impedisce di volgersi indietro. Giacché quei motivi non possono far si che ogni successivo approfondimento non dipenda da ciò che è lontano, ormai estraneo e non più attuale. Il lato opposto di questo stesso rapporto contribuisce a chiarire la questione. Ogni coscienza storica, sia essa dedi­ ta alla considerazione pura e alla pura ricerca, o no, ha la forma di un’autocoscienza dello spirito obbiettivo storica­

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PARTE III - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

mente vivente e diveniente. Produrre una qualche coscienza in qualcuno dei propri rappresentanti, è tendenza insoppri­ mibile dello spirito vivente in generale. Giacché, s’è visto, lo spirito obbiettivo non possiede di per sé un’autocoscien­ za adeguata. D’altra parte, proprio gli aspetti più attuali del­ la sua vita, quello politico, statuale, sociale, ne hanno un bisogno imperioso. Ogni surrogato che esso se ne procura nella coscienza individuale, resta inadeguato; mentre lo spi­ rito della scienza, che sembra destinato a costituire una simile coscienza, arriva troppo tardi per i bisogni del pre­ sente. Questo stato di cose si riflette chiaramente nella posi­ zione della scienza storica. In quanto scienza, anch’essa giunge troppo tardi per il presente. E tuttavia, grazie anche ad essa, il presente in corso ha un’autocoscienza che si fa strada attraverso la conoscenza del passato. È un’autocoscien­ za che procede restando, per cosi dire, costantemente in­ dietro d’un passo rispetto al corso effettivo della storia. In linea di principio, però, è sempre in grado di recuperare il terreno perduto, e tutto ciò che riesce a conoscere del passato resta naturalmente orientato verso una coscienza storica del presente. Con questa riserva si può accettare la proposizione, spesso ripetuta, che lo spirito vivente impara a conoscere se stesso in base alla propria storia. Né la lentezza del recupe­ ro conoscitivo, né la necessaria divisione del lavoro tra lo storico e il politico — giacché solo quest’ultimo è in grado di applicare le conoscenze acquisite —, debbono illuderci a questo proposito. Tutto questo ha solo il significato di un giro vizioso; del resto, la via che giunge al presente attraver­ so il passato ha già, di per sé, la forma di un giro vizioso. Per l’autocoscienza, tuttavia, questo giro vizioso è la via diritta. Per lo spirito vivo non ce n’è una più breve per giungere a se stesso. La scienza storica, come tale, non è altro che un’autoco­ scienza ritardata dello spirito obbiettivo. Ma, per mezzo di quella, l’autocoscienza può risalire fino al presente ed, entro certi limiti, entrare a costituirlo come uno dei suoi

LXII. - COSCIENZA STORICA DELLO SPIRITO VIVO

735

fattori determinanti. La capacità dello spirito vivo di im­ parare dalla propria storia non è esclusa dal cerchio delle forze che lo muovono dall’interno, benché lo scompenso esistente tra la comprensione di sé, che insegue, e la deter­ minazione e formazione di sé, che continuano a fluire, non sembri destinato a colmarsi mai. A questo proposito, non si deve commettere l’errore di considerare questo « imparare » come una sorta di gene­ ralizzazione dell’irripetibile storico. Sarebbe uno schema semplicistico. Un’esperienza determinata si lascia genera­ lizzare solo quando sia retta da una rigorosa legalità e l’es­ senza dell’evento consista in una perpetua omogeneità. L’ac­ cadere storico non è di questo genere. La storia non si ripete: perché non si ripetono i popoli, né le loro situazioni. Solo nelle grandi linee emergono tratti costanti, la fattispecie è sempre profondamente individuale. In questo senso, accostarsi al corso storico per stringerlo nella forma di certe estensioni analogiche è sempre un gioco pericoloso. Naturalmente, non si tratta di un limite assoluto. C’è un modo molto più concreto e vivace di imparare dalla storia, ed è estremamente affine a quello dell’individuo che impara alla scuola della vita. Anche nella vita privata dell’individuo le situazioni, a rigore, non si ripetono, ma ciascuna è unica ed esige da lui una decisione senza ap­ pello. Eppure, in pratica, l’uomo accumula la propria espe­ rienza di vita e cresce spiritualmente in proporzione a ciò che ha vissuto e provato. L’esperienza lo rende esperto... anche senza una rigorosa analogia dell’esperienza. Cosi ogni spirito storico vivente ha nella propria storia, e possibilmente anche in quella degli altri spiriti vivi, la propria scuola. In essa fa esperienza e impara a sue spese, non diversamente dall’uomo singolo. Un popolo può ben crescere spiritualmente attraverso le proprie peripezie. E, in questo crescere, la comprensione storica è un fattore che diventa sempre più potente a misura della sua autonomia scientifica.

736

PARTE III - LO SPIRITO OBBIETTIVATO

4. Trasposizione del

passato nella forma spirituale

DEL PRESENTE

Anche la storiografia scientifica è chiaramente radi­ cata nel presente. In tutte le sue forme e sottoforme, sia nel­ l’elaborazione che nella scelta stessa dei fatti, essa mostra chiaramente la tendenza ad interpretazioni legate al bisogno e aH’interesse presente. Ciò non contraddice alla sua ricerca di distanza e di obbiettività, giacché è proprio opponendosi a tali tendenze che tale obbiettività deve affermarsi. Forse si può perfino aggiungere che un po’ di filosofia della storia è sempre presente in ogni ricerca storiografica. E la ragione di ciò va cercata soltanto nel fatto che la ricerca storica è ideo­ logicamente fondata nel presente. Come ogni altro, il lavoro del ricercatore appartiene sempre allo spirito vivente. In esso hanno radice i suoi inizi come pure i suoi fini non confessati. Nella ricerca, lo storico mantiene il carattere di figlio del proprio tempo, e lo proietta anche nell’oggetto. I concetti che co­ struisce sono concetti del pensiero contemporaneo, anche se, rispetto al loro oggetto, sono concetti del passato. La sua intuizione e la sua comprensione del passato, sono e restano intuizione e comprensione presenti. Neppure la più com­ pleta dedizione e immedesimazione può ingannare, a questo proposito. E le obbiettivazioni nelle quali si esprime la sua immagine della storia — la rappresentazione che egli ne dà — non sono più le obbiettivazioni dello spirito passato, dalle quali quello spirito gli parla. La sua opera consiste nel tra­ sporre il passato nella forma spirituale del presente. In questo modo, la sua esposizione-plasmazione della materia è necessariamente trasfigurazione di ciò che si pro­ trae dentro il presente. Ma proprio cosi accade una cosa sorprendente: che un passato superato e liquidato abbia an­ cora qualcosa di essenziale da dire allo spirito presente. E, cosa ancor più significativa, in questo modo lo storico ne annulla e riscatta il carattere di liquidazione. Ciò che era dimenticato e perduto ritorna nella coscienza

LXII. - COSCIENZA STORICA DELLO SPIRITO VIVO

737

del presente e vi trova il proprio posto. Perché lo spirito vivente non può dirsi assolto del tutto da nessun passato che, per quanto alla lontana, sia ancora il suo. Impara media­ tamente a conoscersi in ciò che è stato, e perfino in ciò che un altro spirito storico è stato. Impara a vedere se stesso come un anello nella catena delle figure storiche dello spirito vi­ vente in generale. È appunto di questo che ha bisogno. Che ciò sia possibile solo nei limiti di una comprensione presente, non mina né distrugge tale opera — ma è solo una limitazione attraverso la quale la comprensione viene impli­ cata in quello stesso divenire delle forme che costituisce Tinesauribilità del suo oggetto. Il fondamento ontologico della coscienza storica è appunto la storicità propria dello spirito vivente. In fondo, non è altro che la sua stessa ne­ cessità vitale di rivolgersi indietro ad essa.

GLOSSARIO

Questo glossario è un repertoro parziale di formule e di coniazioni caratteristiche di Hartmann. Vi abbiamo incluso però anche termini tipici di altri filosofi, che Hartmann usa correntemente (per esempio, verstehen e erklären sono diltheyani; Ineinandersein, laufende o lebendige Gegenwart sono husserliani). Si noterà che lo « stile » prevalente delle coniazioni o scelte tipicamente hartmanniane è ispirato a una descrittiva fisica o cosale (Schicht, Schwere, Schnitt, Härte, Rückwirkung, Drang, Spannung, Stärke, Verflüssigung, aufruhen, drinstehen, absinken, bewegen·, inoltre quasi tutte le composizioni con tragen e -bau, con rück-, unter-, über- ecc.). Come abbiamo osservato nella no­ stra Presentazione ciò corrisponde assai bene aR’intentio recta dell’ontologia hartmanniana. Una cosa che, invece, non risulta da questo glossario, ma che risulterebbe certamente da una tabella statistica delle frequenze terminologiche, è che il concetto di gran lunga dominante, no­ nostante che gli strati siano quattro, è quello di « vita »: il filosofo più citato in questo libro è Hegel, ma un Hegel fil­ trato attraverso la poco citata « filosofia della vita » (Simmel, Dilthey, Bergson), della quale si potrebbe dire che, tacitamente, diede davvero il tono a tutta la discussione filosofica mitteleu­ ropea di questo secolo [N. d. C.J.

abbau: consumo ABGELÖSTHEIT (ABSOLUTHEIT): assenza di vincoli, svincola­ mento, assolutezza ABHÄNGIGKEIT (DEPENDENZ): dipendenza ABLÖSUNG AUS DER SPANNUNG (aus dem drang): sciogli­ mento dalla tensione (istin­ tiva)

ab sinken der begriffe: sca­

dere dei concetti (nello spi­ rito obbiettivo) ANFORDERUNG (DES VERSTEH­ ENS): istanza, richiesta (di comprensione) ANHAFTEN DER FORM: VÌSchiosità, aderenza della forma Anruf der Zukunft: appello al futuro

740

GLOSSARIO

ANSINNEN DER OBJEKTIVATION: richiamo dell’obbiettivazio­ ne aufbau: incremento AUFRÜCKEN DES KUNSTWER­ KES : sublimazione storica dell’opera d’arte aufruhen: poggiare sopra AUFSTIEG DER BEGRIFFE: asce­ sa dei concetti (nello spirito obbiettivo) AUSARBEITUNG (DER PROBLEMgehalte): elaborazione (dei contenuti di problema) ausgeformtheit: conformazione) (cfr. geprägtheit) betroffen sein: affezione, l’es-

ser chiamato in causa bewegende kraft: forza mo­

EMOTIONAL - TRANSZENDENTE Akte: atti emozionali-tra­ scendenti enthobensein: l’esser-sospeso (dalla vita) entspanntsein: stato di di­ stensione, distacco (della coscienza) Erhaltung: conservazione erhobensein: l’esser-sollevato, elevato (detto dell’obbiettivazione rispetto alla vita) erklären: spiegare EXPANSIVITÄT DES GEISTES : espansività dello spirito exzentrische Position: posi­ zione d’eccentricità (della coscienza) innere Exzentrizität: inte­ riore eccentricità

trice

Bewusstsein: coscienza

DARINSEIN, DRINSTEHEN, ENT­ HALTENSEIN: l’esser-dentro, inclusione dependenzgesetz : legge del­ la dipendenza Distanz zu den dingen: di­ stanza dalle cose im drang stehen: stare nella tensione dell’impulso

SELBSTGESCHAFFENE FESSE­ LUNG: autoimprigionamento (dello spirito vivo nelle pro­ prie obbiettivazioni) Fixierung: fissazione, conso­ lidamento (delle obbiettiva­ zioni) Flüchtigkeit: fluidità, fug­ gevolezza (delle obbiettiva­ zioni) frei schwebend: liberamente fluttuante FÜR SICH (GEGEN SICH)... HA­ BEN: aver « dalla propria » (aver « contro »)

(reales) sich)

geformtheit:

ENTSPANNTES BEWUSSTSEIN: coscienza distaccata geistloses Bewusstsein: co­ scienza non-spirituale

drinstehen, (an innewohnen: inclu­

sione reale

Echtheit, Unechtheit:

au­ tenticità, inautenticità (del­ lo spirito vivente) eingespanntsein: tesa ade­ renza (della coscienza alla sua UMWELT)

plasmazione, impronta, configurazione, forma costituita (cfr. ge­ prägtheit)

DINGLICH-REALE ( SINNLICH­ DINGLICHE) GEFORMTHEIT: struttura, stampo reale-cosa­ le (cosale-sensibile) LAUFENDE, LEBENDIGE GEGEN-

741

GLOSSARIO

WART: il presente fluente, vivente gehalt: contenuto, importo aufruhender Geist: spirito poggiante GEFANGENER GEIST: Spirito prigioniero GETRAGENER GEIST: Spirito portato (fondato) künftiger GEIST: spirito ven­ turo MITGEGEBENER GEIST: Spirito conferito objektiver Geist: spirito ob­ biettivo OBJEKTIVIERTER GEIST: Spirito obbiettivato PERSONALER GEIST: Spirito personale SCHWEBENDER GEIST: Spirito fluttuante Geist-Gebilde: costruzione spirituale GEIST IM GROSSEN (iM KLEI­ NEN): spirito in grande (in piccolo) innere Gelöstheit: interno allentamento (dell’identità della persona) Geltung: validità LEBENDER GEMEINGEIST: Spiri­ to comune vivente gemeingut: patrimonio co­ mune Gemeinschaft: comunità Gemeinwesen: istituzione co­ munitaria geprägtheit: conformazione, configurazione gerecht werden: render giu­ stizia geschichtetes Gebilde: for­ mazione stratificata GESETZ DER FREIHEIT: legge della libertà

Gesetz der

stärke: legge del­

la forza getragensein: l’esser-portato,

rapporto di fondazione, fon­ datezza getriebensein: l’esser-sospinto GEWACHSENE EINHEIT: Unità concresciuta gewissen: coscienziosità, vo­ ce della coscienza GRUNDSCHICHT: strato fondan­ te (fondamentale) geistiges gut: importo, con­ tenuto (patrimonio, bene spirituale) härte des realen:

durezza del reale HERAUSFORDERUNG (ANREIZ): provocazione, sfida (stimolo) (che dallo spirito obbietti­ vato si rivolge allo spirito vivo) HERAUSGEHOBENSEIN AUS: lo esser-sottratto a (alla vita) Herausstellen: esteriorizza­ re aus sich hinausleben: vive­ re diretti all’esterno hinausragen: protendesi ver­ so

(mit-)

hineingerissensein:

l’esser-coinvolto, scinato

l’esser-tra-

stillschweigendes (ver­ nehmliches) HINEINRAGEN:

il protrarsi tacito (percetti­ vo) dentro hineinwachsen: crescere (den­ tro), processo di crescita al­ l’interno (dello spirito ob­ biettivo) hingegebensein: dedizione IRREALE HINTERGRUNDSCHICHT strato irreale di sfondo

742

GLOSSARIO

hinweggehen:

passar oltre (cfr. VORBEILEBEN, UNERST)

INADÄQUATHEIT DES BEWUSST­ SEINS: inadeguatezza della coscienza (allo spirito obbiet­ tivo) ineinandersein: interiorità re­ ciproca

LEBEN DES GEMEINWESENS : Vi­ ta politico-sociale LEBENDIGES, MITGESCHLEPP­ TES, ABGETANES: ciò che è vivo, ciò che è rimorchiato, ciò che è morto (nel passa­ to dello spirito obbiettivo) machtträger:

portatore, de­ tentore di potere GEFORMTE MATERIE (INHALT): materia (contenuto) formata Menschwerdung: il diventar uomo, la formazione umana Miteinandersein: l’esser-insieme Mitteilbarkeit: trasmissibi­ lità (cfr. tradierbarkeit) der mitlebende: il co-vivente mitwissen: consapevolezza

Objektbewusstsein: coscien­ za d’oggetto objektion: obbiettazione

OBJEKTIVATION: ne

obbiettivazio­

Ohnmacht

der werte: impo­ tenza dei valori ORIENTIERUNG AUF DIE WELT: orientazione verso il mondo (cfr. aus sich hinausle­ ben, DISTANZ ZU DEN DIN­ GEN, INNERE EXZENTRIZITÄT, ABLÖSUNG AUS DER SPAN­ NUNG)

EWIGE problemgehalte: eterni contenuti di problema

PROBLEMSTAND (-LAGE): Stato del problema Problemstellung: posizione del problema

Raubbau: supersftuttamente REALBEWEGLICHKEIT: mobili­ tà reale, libertà (della per­ sona nel mondo) dingliches Realgebilde: for­ mazione reale-cosale sinnliches Realgebilde: for­ mazione reale-sensibile realgeschehen: l’accadere reale Realität: realtà Realzeit: tempo reale REFLEXIVITÄT (o: MITWISSEN um sich): consapevolezza di sé (un sentirsi non-oggettuale) Rückkehr: reinserzione, ritor­ no Rückwirkung: effetto di ri­ torno schicht,

Schichtung: strato, stratificazione SINNLICH - REALE SCHICHT: strato reale-sensibile schnitt: taglio (tra lo strato organico e quello psichico) seiendes : ente seins Abhängigkeit: dipenden­ za d’essere seinsform: forma d’essere seinsmodus: modo d’essere tragende seinsschicht: stra­ to d’essere portante seins schwere: peso d’essere seinsweise: maniera d’essere Selbstbefreiung: autoliberazione (dello spirito vivo dal­ le proprie obbiettivazioni) SELBSTERFASSUNG: aUtOCOglimento

743

GLOSSARIO

SELBSTGEGEBENHEIT: autodatità SELBSTGESTALTUNG: autOCOnfigurazione SELBSTVERNICHTUNG: autodistruzione ström des lebens: flusso del­ la vita Strukturanalyse: analisi strutturale subsistenz: sussistenza (GETRAGENE) SUPEREXISTENZ: sovraesistenza (portata) SUPER-EXISTIERENDES GEBIL­ DE: formazione sovraesistente

Teilhabe: partecipazione Tradierbarkeit: trasmissibili­ tà tragen: portare tragende MACHT:

potenza

portante TRAGKRAFT

(DES SINNLICH capacità por­ tante (della formazione sen­ sibile)

geformten):

überbau: sovrastrutturazione Überformung: sovraforina­

zione ÜBERGEGENSTÄNDLICH: SOVtaoggettuale ÜBERGESCHICHTLICHKEIT: SOvrastoricità übernehmen: ripresa (del por­ tato tradizionale) Überzeitlichkeit: sovratemporalità Umwelt: mondo circostante (ambiente) unernst: il non prender sul serio (cfr. hinweggehen) unterbauung: sottostrutturazione 49'

Verflüssigung:

fluidificazio-

ne

Verirrung:

sviamento, erra-

mento verstehen, auffassen, er­ fassen: comprendere, co­

gliere, capire vorbeileben: è il contrario di

GERECHT WERDEN, quod Vide

Vorbestimmung: predetermi­ nazione REALE VORDERGRUNDSCHICHT: strato reale di primo piano Vorsehung: provvidenza GESCHICHTLICHES WAGNIS: ri­ schio storico Wertbewusstsein: coscienza di valore wertbezogenheit: relazione al valore wertgefühl: capacità di sen­ tire i valori wertsichtigkeit: capacità di vedere i valori wesen: essenza (o creatura, ente) WIEDERKEHR DER KATEGORIEN: ritorno categoriale (nei di­ versi strati) WIEDERVERFLÜSSIGUNG: rifluidificazione (dell’irrigidito) Wirklichkeit: effettualità, realtà effettuale geschichtliche Wirkung: ef­ ficacia storica zeitanschauung:

intuizione

del tempo

Zeitkindschaft: l’esser figli del proprio tempo

Zentralstellung:

posizione centrale (della coscienza non spirituale)

zurückgeworfensein auf sich: l’esser rimandato a se

stesso

744

GLOSSARIO

ZURÜCKFALLEN DER OBJEKTIVATION: il ricadere dell’obbiettivazione

(sullo

spirito

vivo)

ZUSAMMENSCHLUSS MIT SICH:

identificazione (della perso­ na) con se stessa

Zwecktätigkeit: vista di fini

attività

in

INDICE

Presentazione (Alfredo Marini)

ρ.

V

Prefazione

3

Introduzione filosofico-storica

7

1. I tre compiti della filosofia della storia, p. 7. 2. La metafisica della storia, p. 10. 3. La filosofia della storia di Hegel, p. 13. 4. Filosofia materialistica della storia, p. 17. 5. Fondamentale situazione equivoca nella filosofia della storia, p. 20. 6. Stato del pro­ blema dal punto di vista metafisico generale, p. 22. 7. Chiarimento ontologico della questione, pp. 24. 8. Molteplicità categoriale e legge di dipendenza, p. 25. 9. Applicazione al problema filosofico-storico, p. 28. 10. Conseguenze per una possibile com­ prensione del processo storico, p. 30. 11. Loro riflesso sui problemi metafisico-storici, pp. 32. 12. Logica e concettualizzazione della storia, p. 35. 13. Il problema del valore nella ricerca storica, p. 38. 14. Generalità sul problema metodologico, p. 40. 15. Lo storicismo in quanto prigioniero del problema filosofico-storico, p. 43. 16. L’esser-presente di ciò che è passato, nella storia, p. 45. 17. Momenti selettivi nella conservazione del passato, p. 48. 18. Distin­ zione delle diverse sfere di vita storica, p. 51. 19. L’essere spirituale nella storia, p. 54.

PARTE I - LO SPIRITO PERSONALE Sezione I - Delimitazione del problema

Capitolo I - Definizioni errate

1. Del cominciare senza aver definito i concetti, p. 59. 2. Insufficienza del concetto di « vita », p. 61. 3. Spi­ rito e coscienza, p. 62. 4. Lo spirito in rapporto all’essere psichico subconscio, p. 64.

59

746

INDICE

Capitolo II - Teorie filosofiche unilaterali

67

1. La teoria dell’autocoscienza, p. 67. 2. L’equipara­ zione dello spirito con la ragione, p. 70. 3. Il concetto antropologico dello spirito, p. 72. 4. La vita spirituale come compimento d’atto, p. 73. Capitolo III - Risultati provvisori

77

1. Spirito fluttuante e spirito poggiante, p. 77. 2. L’autonomia dello spirito fondato, p. 79. 3. Supera­ mento dell’alternativa metafisica, p. 82. 4. Radicali­ smo antitetico della mentalità popolare e suo supera­ mento nel pensiero ontologico, p. 84.

Sezione II - Determinazioni ontologiche fondamentali Capitolo IV - Posizione dello spirito nella struttura stratificata del mondo

87

;

1. Il rapporto ontico di sovrastrutturazione, p. 87. 2. Il regno dello spirito come mondo a sé, al di sopra della vita psichica, p. 90. 3. Le tre forme basilari dell’essere spirituale, p. 93. Capitolo V - L’essere spirituale come unità concreta

1 | 97

1. Generalità circa il rapporto fra le tre forme d’essere, p. 97. 2. Comune fondamento delle forme d’essere spirituali in uno stesso strato portante, p. 99. 3. Con­ seguenze in rapporto alla presente ricerca, p. 101. Capitolo VI - Determinazioni fondamentali dello spirito vivente

105

1. Vita spirituale e realtà, p. 105. 2. Realtà e indi­ vidualità, p. 109. 3. Individualità ed esistenza, p. 111. 4. Esistenza e temporalità, p. 112. 5. Unità ontica del tempo in tutti gli strati del reale, p. 114. Capitolo VII - Particolarità categoriali

1. Temporalità e processualità, p. 117. 2. Processualità e identità, p. 119. 3. Identità e fralezza, p. 121. 4. Lo spirito in rapporto alla spazialità, p. 123. 5. Spazio e tempo intuitivo, p. 125. 6. Aspazialità e acosalità, p. 127. 7. Inclusione reale dello spirito reale, dello spirito nel mondo reale, p. 129. 8. Di­ pendenza e signoria dello spirito nel mondo, p. 131.

117

747

INDICE

Sezione III - L’individuo spirituale Capitolo Vili - Spontaneità di incremento e consumo

133

1. Autodatità ed autocoglimento, p. 133. 2. Auto­ formazione ed autorealizzazione, p. 135. 3. Supersfruttamento della vita ed autodistruzione, p. 137. 4. Un pericoloso ideale culturale. Prospettiva storica, p. 140. Capitolo IX - Coscienza spirituale e coscienza non spirituale

143

1. Scioglimento dalla tensione istintiva, p. 143. 2. Ec­ centricità interiore e orientazione verso il mondo, p. 145. 3. La mutata orientazione come discrimi­ nante delle visioni del mondo, p. 147. 4. Legame e libertà, p. 149. Capitolo X - L’obbiettività

153

1. Oggettualità del mondo. L’obbiettazione, p. 153. 2. Conoscenza e oggetto di conoscenza, p. 154. 3. Lo spirito conoscente e l’esser-per-lui del mondo, p. 156. 4. Soggetto ed « io » nel rapporto conoscitivo, p. 159. 5. L’esser-per-sé dello spirito e l’esser-per-lui del mondo, p. 161. Sezione IV - La personalità Capitolo XI - Fenomeno e problema della persona

165

1. Il polo interno della soggettività, p. 165. 2. Sog­ getto e persona, p. 167. 3. La persona e 1’« io », p. 169. 4. Datità, inconoscibilità e conoscibilità necessaria, p. 170. Capitolo XII - La personalità come categoria reale

173

1. Identità e totalità nel mutare della persona, p. 173. 2. Persona e situazione, p. 175. 3. L’esser-coinvolto nel flusso deU’accadere, p. 178. 4. Gli atti emozionalitrascendenti, p. 180. 5. Il connesso degli atti e l’unità della persona, p. 183. 6. Espansività e sfera della vita personale, p. 184. Capitolo XIII - Personalità ed autocoscienza

1. Riflessività ed autoconoscenza, p. 189. 2. Consa­ pevolezza ed esperienza di sé, p. 191. 3. Distan­ ziamento interiore e identificazione, p. 193.

189

748

INDICE

Capitolo XIV - La persona come creatura morale

197

1. Interiore libertà di movimento e provvidenze, p. 197. 2. Predeterminazione e attività in vista di fini, p. 200. 3. Potenza dello spirituale sul non­ spirituale. L’« astuzia della ragione », p. 202. 2. Atti­ vità e coscienza di valore, p. 204. 5. Il regno dei valori e i fini umani, p. 207. 6. L’essere che coglie il valore e la sua eccezionale posizione nel mondo, p. 209. 7. Ethos e libertà di decisione, p. 211. Capitolo XV - Per la metafisica della persona

215

1. I predicati della divinità e loro ridimensionamento, p. 215. 2. L’essere che è un pericolo a se stesso, p. 217. 3. Apertura ai valori, nel mondo, e valo­ rizzazione della vita, p. 219. 4. Proprietà spirituale. Casualità ontica del conferimento di senso, p. 222. 5. L’istanza che lo spirito pone allo spirito. L’ethos della partecipazione, p. 225.

PARTE II - LO SPIRITO OBBIETTIVO

Sezione I - Il fenomento fondamentale e le teorie

Capitolo XVI - Aspetti sovraindividuali dello spirito personale 231

1. Riepilogo e conseguenze, p. 231. 2. Assolubilità dei contenuti spirituali, p. 234. 3. Forma logica e conformazione alogica. Comunicazione e tradizione, p. 236. 4. Intersoggettività dell’esperienza e dell’im­ magine del mondo, p. 239. 5. Unità della ragione e illibertà del pensiero, p. 242. Capitolo XVII - Chiarimento del concetto

245

1. Il tema delle scienze dello spirito, p. 245. 2. Spi­ rito del tempo e spirito di popolo, p. 248. 3. Comu­ nità, collettività e spirito comune, p. 250. 4. Spirito comune vivente e tipo astratto, p. 254. 5. Spirito obbiettivo e spirito obbiettivato, p. 256. Capitolo XVIII - Discussione delle tesi hegeliane

1. La scoperta di Hegel e l’errore dello scopritore, p. 259. 2. Individuo, spirito, libertà, scopo finale, p. 261. 3. Processo e risultato, principio ed effettivazione, p. 263. 4. Sviluppo, individuo storico, conservatore e decadenza, p. 265.

259

749

INDICE

Sezione II - Spirito obbiettivo e individuo Capitolo XIX - Lo spirito in quanto spirito infor­ matore della comunità 269

1. Base vitale dello spirito comune, p. 269. 2. Co­ munità naturale della specie e comunità sovraformata dello spirito, p. 271. 3. Forma di vita collettiva e istituzione comunitaria, p. 273. 4. Istituzione comu­ nitaria e spirito comune, p. 275. Capitolo XX - Vita e spirito della lingua

227

1. Le sfere peculiari dello spirito obbiettivo, p. 277. 2. Ricevere la lingua, crescervi e apprenderla, p. 278. 3. La legge della tradizione, p. 280. 4. L’im­ porto spirituale della lingua, p. 283. 5. Ruolo at­ tivo dell’individuo nella vita della lingua, p. 285. Capitolo XXI - Conoscenza e scienza

289

1. Lo « stato della scienza » e l’individuo che impara, p. 289. 2. L’educazione scientifica e il diventar uomo, p. 292. 3. La parte riservata all’individuo nel movimento del sapere, p. 293. Capitolo XXII Morale valida e moralità indi­ viduale 297

1. Peculiarità della ripresa in sede etica, p. 297. 2. La via della esperienza etica, p. 299. 3. Lo spirito obbiettivo come maestro di etica, p. 300. 4. Corre­ sponsabilità della persona come forza motrice nella vita della morale, p. 303. Capitolo XXIII - La sfera dell’arte e dello stile di vita

307

1. Gusto artistico e sentimento dello stile, p. 307. 2. Stile di vita e « buon gusto », p. 309. 3. La « vita » dello stile, p. 312. 4. La forma della crescita entro il gusto del tempo, p. 314. 5. Suggestione ed educazione artistica, p. 316. Capitolo XXIV - Altre sfere di vita spirituale

1. Religione e mito, p. 319. 2. La vita della fede come vita prototipica dello spirito obbiettivo, p. 321. 3. Spirito rivoluzionario della tecnica, p. 323. 4. Lo spirito obbiettivo nella vita delle istituzioni politico­ sociali, p. 324. 5. Dinamica della tendenza politica e crescita individuale in essa, p. 327.

319

750

INDICE

Capitolo XXV - Funzione dell’educazione nello spirito obbiettivo

329

1. La via per cui l’individuo diventa uomo, p. 329. 2. Lo spirito obbiettivo come maestro d’ogni dottrina, p. 330. 3. L’ambito della personalità, p. 333. 4. Svi­ luppo individuale e generale del singolo, p. 334. Sezione III - Vita, potenza e realtà dello spirito obbiettivo Capitolo XXVI - Lo spirito in grande e la sua unità

337

1. Unità concresciuta e totalità, p. 337. 2. Unità obbiettiva nella molteplicità soggettiva, p. 339. 3. L’unità della scienza e la sua maniera d’essere, p. 342. 4. L’unità di lingua, gusto, arte, morale, p. 345. 5. Unità spirituale della vita sociale, p. 346. Capitolo XXVII - Muovere e venir mosso

349

1. Fare, agire ed esser-sospinto, p. 349. 2. Il movi­ mento spirituale nella vicenda delle generazioni, p. 351. 3. Il motore inconscio e il suo fattore antagonista, nello spirito del tempo, p. 352. 4. L’arti­ sta e il suo pubblico, p. 353. 5. Spontaneità personale e situazione generale dello spirito, p. 355. Capitolo XXVIII - La potenza dello spirito obbiet­ tivo nella vita dell’individuo 357

1. Resistenza dello spirito del tempo e impotenza del singolo, p. 357. 2. Delitto e castigo. Diritto e potere, p. 359. 3. Delega del potere. Ordinamenti e interiore validità, p. 360. 4. Tendenza comune e volontà indi­ viduale, p. 362. 5. Paradossalità del diritto rivolu­ zionario, p. 363. 6. Fenomeni di potenza in altri campi dello spirito, p. 365. Capitolo XXIX - Individualità storica dello spirito obbiettivo

369

1. Singolarità di ogni realtà storica, p. 369. 2. Misco­ noscimento dell’individualità e sue ragioni, p. 371. 3. Individualità e comunanza dei popoli, p. 373. Capitolo XXX - Legalità e vita propria dello spirito obbiettivo

1. Stratificazione e autonomia della vita spirituale, p. 377. 2. Vita della specie e vita dello spirito. Sussistenza e sovraesistenza, p. 379. 3. Tradizione e sovraesistenza, p. 381. 4. Sulla dinamica autonoma della vita storico-spirituale, p. 383. 5. Spontaneità e

377

751

INDICE

autonomia del movimento storico, p. 384. 6. Varia­ zioni di autonomia a seconda dei campi spirituali, p. 386. Capitolo XXXI - Il processo storico e le idee

389

1. Totalità e processi totalizzanti, p. 389. 2. La vita dello spirito come processo costitutivo della forma, p. 391. 3. Idee motrici e orientazione cosciente dello spirito, p. 392. 4. Duplice autonomia della vita spirituale, p. 395. Sezione IV - Inesistenza di una coscienza adeguata Capitolo XXXII - Spirito e coscienza in generale

399

1. Il lato inquietante del fenomeno dello spirito comune, p. 399. 2. Chiarimento ontologico-categoriale della situazione, p. 401. 3. Prospettive metafisiche, p. 403. 4. Le teorie idealistiche della coscienza, p. 405. 5. Punti deboli del personalismo, p. 407. Capitolo XXXIII - La coscienza del singolo come coscienza dello spirito obbiettivo 409

1. Inadeguatezza della coscienza umana, p. 409. 2. L’essere della scienza e la coscienza scientifica, p. 411. 3. Coscienza giuridica e coscienza morale, p. 413. 4. La coscienza della lingua, dell’arte e dello stile di vita, p. 414. Capitolo XXXIV - Definizioni hegeliane e loro implicazioni

417

1. Lo spirito che è solo in sé, p. 417. 2. Spirito obbiettivo come spirito incompleto, p. 418. 3. Forma superiore e forma inferiore dell’essere spirituale, p. 420. Capitolo XXXV - Funzione dirigente e coscienza rappresentativa

423

1. L’esigenza politico-sociale di un’iniziativa cosciente, p. 423. 2. La posizione dell’individuo rappresentati­ vo, p. 424. 3. Il senso del « modus deficiens », p. 427. 4. Inadeguatezza della coscienza rappresenta­ tiva, p. 429. 5. L’uomo portato in alto dallo spirito obbiettivo, p. 431. 6. La casualità storica in quanto radicata nell’essenza dello spirito, p. 432. Capitolo XXXVI - Il limite del potere nello spirito obbiettivo 437

1. Utopia, teocrazia, stato dottrinario, p. 437.

2.

752

INDICE

L’ideologo e il politico realista. L’individuo storico, p. 439. 3. Il rapporto di integrazione reciproca come surrogato della sintesi, p. 441. 4. Genialità artistica e genialità politica, p. 443. Sezione V - Autenticità e inautenticità nello spirito obbiettivo Capitolo XXXVII - L’interna minaccia di errore

447

1. Il pregiudizio di Hegel a favore dello spirito comune, p. 447. 2. Il rovescio della medaglia, p. 449. 3. Suggestione di massa e spirito obbietti­ vo, p. 450. 4. Il singolo come voce della coscienza (Gewissen) dello spirito obbiettivo, p. 452. Capitolo XXXVIII - Maggioranza e opinione pubblica

455

1. Iniziativa del singolo e decisione di massa, p. 455. 2. La capacità di giudizio dell’individuo medio, p. 457. 3. Crescita organica alla corresponsabilità, p. 459. 4. I fini dell’uomo di stato e la sua mo­ rale, p. 461. 5. L’antinomia dell’opinione pubblica, p. 463. 6. Nessun criterio - nessuna soluzione, p. 465. Capitolo XXXIX - L’inautentico nella pura vita dello spirito 469

1. Gusto artistico e luogo comune, p. 469. 2. Bisogno di sensazione del pubblico e autonomia artistica, p. 471. 3. False strade della produzione artistica, p. 473. 4. Stile di vita mutuato dall’esterno, p. 475. 5. Morale convenzionale. Tolleranza ed eticità appa­ rente, p. 477. 6. L’autoinganno abituale e la morale della « buona reputazione », p. 479. 7. Tendenze spirituali che girano a vuoto, p. 481. 8. La concezione heideggeriana del « si », della « chiacchiera », ecc., p. 483. Capitolo XL - La questione circa il criterio di autenticità 487

1. Cosa c’è di autentico nella coscienza dell’inautenti­ cità, p. 487. 2. Vitalità e metamorfismo dell’autentico, p. 488. 3. Fuga dallo spirito obbiettivo nello spirito personale, p. 490. 4. Individualismo e sentimento co­ mune. L’altro estremo, p. 493. Sezione VI - Lo spirito della scienza

Capitolo XLI - Il regno della pura autenticità

1. Del progresso cumulativo, p. 497. 2. Perché non

497

INDICE

753

esiste un sapere inautentico, p. 499. 3. Effetto occul­ tante della teoria razionalistica della conoscenza, p. 502. 4. Il sapere e la sfera emozionale, p. 504. 5. Interna indipendenza dell’atteggiamento teorico, p. 505. 6. Le forme della pura dedizione e la scienza, p. 507. Capitolo XLII - L’idea platonica della scienza

511

1. La comunanza nel sapere. La όμολογία socratica, p. 511. 2. Il concetto platonico di problema e il culto del negativo, p. 513. 3. Forza di convinzione e contatto con la cosa, p. 515. 4. La sovratemporalità dei contenuti di problema, p. 516. Capitolo XLIII - La legge interna della scienza

519

1. La direzione univoca verso la verità, p. 519. 2. Co­ me ogni nuova acquisizione conoscitiva diventa cosa comune, p. 521. 3. Esclusività del sapere e radicale esclusione dell’inautentico, p. 523. 4. Esclusione della maggioranza e della pubblica opinione, p. 524. 5. L’idea della missione storica nello spirito della scien­ za, p. 526. 6. Tendenza espansiva ed educazione all’oggettività, p. 528. 7. L’hegeliana « nottola di Mi­ nerva », p. 530. PARTE III - LO SPIRITO OBBIETTIVATO Sezione I - Il fenomeno dell’obbiettivazione e le sue forme Capitolo XLIV - Opera fatta e bene spirituale

1. Obbiettivazione come fissazione, esteriorizzazione, svincolo e consegna, p. 535. 2. L’assolutezza (Abge­ löstheit) e il perdurare dell’obbiettivazione, p. 537. 3. Irrealtà come sospensione della vita. Spirito crea­ tore e spirito creato, p. 538. 4. Obbiettivazione di­ pendente e obbiettivazione resa indipendente, p. 540. 5. Fluidità e fissazione. Forma d’essere indipendente, p. 542. 6. Limite dell’indipendenza (Verselbstän­ digung), p. 544. Capitolo XLV - Il protrarsi e il conservarsi della obbiettivazione 547

1. L’opera umana e la sua persistenza, p. 547. 2. Le specie del protrarsi e la loro interna relazione, p. 549. 3. La forza motrice dell’obbiettivazione nelle arti, p. 551. Capitolo XLVI - Duplice stratificazione e funzione della materia 555

1. Enigmatica maniera d’essere dell’obbiettivazione,

535

754

INDICE

p. 555. 2. L’aporia contenuta nel modo della « con­ servazione », p. 557. 3. La « formazione reale-sensi­ bile » come strato d’essere portante, p. 559. 4. Il rapporto di primo piano e sfondo, p. 561. 5. Parola e scritto. Udire e comprendere, p. 562. Capitolo XLVII - Connessione degli strati nell’ope­ ra d’arte 565

1. L’oggetto estetico e i suoi valori, p. 565. 2. Le arti plastiche. Forma statica e intuizione di movi­ mento, p. 567. 3. La pittura. Spazio apparente e luce apparente, p. 568. 4. La musica. Suono e sequenza sonora, audizione acustica e musicale, p. 570. 5. La poesia. Parola formata e figurazione poetica, p. 573 . 6. Arte drammatica. Realtà della scena e irrealtà dell’azione, p. 574. 7. L’architettura in quan­ to obbiettivazione, p. 576. Capitolo XLVIII - Conseguenze per l’estetica

579

1. Varietà degli strati e del rapporto di apparizione, p. 579. 2. Varietà della statificazione nelle arti, p. 581. 3. Dualità delle maniere d’essere nella plu­ ralità strutturale degli strati, p. 583. 4. Peculiarità dei valori estetici. L’essenza del « bello », p. 584. Capitolo XLIX - Conseguenze relative alla maniera d’essere dello spirito obbiettivo

589

1. Parallelismo di tutte le obbiettivazioni artistiche ed extra artistiche, p. 589. 2. La formazione reale sottrae l’obbiettivazione al mutamento, p. 590. 3. Sen­ so ontico della duplice stratificazione, p. 591. 4. Il terzo fattore. Triplice articolazione del rapporto, p. 593. 5. Enigmaticità dell’« esser-dentro » e appa­ renza immediata del « poggiar-sopra », p. 595. 6. L’antinomia per cui lo spirito obbiettivato, « sottrat­ to » allo spirito vivente, è « nelle sue mani », p. 597. Sezione II - L’essere storico dello spirito obbiettivato Capitolo L - L’« istanza » contenuta nell’obbiettivazione

601

1. Conservazione e discontinuità temporale, p. 601. 2. Selezione delle epoche. Falsa equiparazione con l’essere ideale, p. 603. 3. Il richiamo rivolto dall’obbiettazione allo spirito vivente, p. 605. 4. Porre un’istanza e rivolger la parola, p. 607. Capitolo LI - Storicità e sovratemporalità

609

1. L’obbiettivazione e lo spirito ad essa adeguato,

i

INDICE

755

ρ. 609. 2. Adeguatezza e coscienza storica, p. 613. 4. Temporalità dell’essere storico e atemporalità del contenuto, p. 614. 5. Apparente atemporalità e appa­ rente idealità, p. 616. 6. Temporalità dell’apparizione e apparizione della atemporalità, p. 619. Capitolo LII - Il contenuto spirituale dell’arte e del pensiero 621

1. La sovratemporalità nelle opere di pensiero, p. 621. 2. Apparente oggettualità del contenuto spirituale, p. 623. 3. Diversità dell’istanza e della compren­ sione, p. 625. 4. Comprensione riflessa e irriflessa, p. 627. 5. Provocazione dello spirito vivo alla di­ scussione, p. 629. Capitolo LUI - Aspetto filosofico-storico

633

1. Autonomia « portata » dello spirito obbiettivato, p. 633. 2. Integrazione storica delle diverse forme del protrarsi, p. 634. 3. Il fattore statico e quello dinamico. Rinascita del passato, p. 636. 4. Reinser­ zione nello spirito vivo. Potere stimolante e mobilizione dell’obbiettivazione, p. 638. Capitolo LIV - L’effetto di ritorno nelle arti

641

1. Ritorno ed effetto di ritorno, p. 641. 2. Effetto delle figurazioni poetiche ed effetto di ritorno su di esse da parte dello spirito vivente, p. 642. 3. Tra­ sformazione storica di personaggi drammatici, p. 643. 4. Carattere generale delle variazioni di contenuto nel­ l’opera d’arte in relazione all’osservatore, p. 645. 5. Univocità e polivalenza dell’opera d’arte, p. 649. 7. Il margine dell’integrazione nell’intuizione artistica, p. 651. Capitolo LV - Lo scadimento dei concetti

1. Il contesto di pensiero e i concetti astratti, p. 653. 2. Astrazione progressiva e « scadimento » storico, p. 655. 3. Restituzione del contenuto scaduto. Non­ indipendenza del concetto, p. 656. 4. Scadimento delle teorie e dei sistemi, p. 658. 5. Ascesa dei con­ cetti nello spirito vivente, p. 660. 6. Generalità del rapporto tra scadimento e ascesa, p. 662. Capitolo LVI - La singolare posizione dell’opera d’arte nella storia 665

1. Scadimento innocuo e scadimento nocivo, p. 665. 2. « Sublimazione » storica delle creazioni artistiche, p. 667. 3. Caducità della gran massa della produzione artistica e permanenza degli autentici monumenti,

653

756

INDICE

3

p. 669. 4. Forza esaltante dell’arte e impotenza della astrazione, p. 671. 5. Valore artistico e potere stimolante, p. 673..

·

Sezione III - Spirito obbiettivato e spirito vivente Capitolo LVII - Potere stimolante e potere ini­ bente 675

1. Affezione e funzione portante dello spirito vivo, p. 675. 2. Il ricadere dell’obbiettivazione sullo spirito vivente, p. 677 . 3. Lo spirito in quanto si sa nelle proprie obbiettivazioni, p. 679. Capitolo LVIII - L’obbiettivazione come pastoia dello spirito 681

1. Lo spirito vivo sotto il peso delle proprie ob­ biettivazioni, p. 681. 2. Il conflitto tra spirito vivo e spirito obbiettivato, p. 682. 3. Libertà ed auto­ imprigionamento dello spirito vivente, p. 684. 4. Vi­ talità dell’ethos e « morale » obbiettivata, p. 686. 5. Precoce insorgere del conflitto. Opposizione e rot­ tura, p. 688. 6. La scomparsa delle pastoie nelle arti, p. 689. Capitolo LIX - Lo spirito vivente in lotta con lo spirito obbiettivato

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1. Legami e controtendenza rivoluzionaria dello spi­ rito nascente, p. 693. 2. Principio conservativo e principio rivoluzionario dello spirito, p. 695. 3. Oscu­ ra consapevolezza dei fattori di inibizione e di libe­ razione nello spirito vivente, p. 696. 4. Perpetuazione a doppio taglio. Non-serietà contro non-serietà, p. 697. 5. Rifiuto e « scadimento ». Rapporto con la viva creatività, p. 699. 6. Deperimento storico di tutte le opere umane, p. 701. Capitolo LX - Rottura delle catene ed autolibe­ razione

1. Prova di forza dello spirito vivente. Naturale scioglimento delle catene, p. 703. 2. Efficacia libera­ trice dello spirito vivo, p. 706. 4. Comunicazione conferita di forma e creazione artistica come autolibe­ razione, p. 708. 5. Immagini del mondo e sistemi. Razionalismo e semplificazione, p. 710. 6. Le figu­ razioni mitiche. Liberazione e vincolo, p. 711.

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INDICE

Capitolo LXI - Il protrarsi nel presente e il pro­ tendersi verso il futuro 715

1. Lo spirito vivente in rapporto alla sua storia, p. 715. 2. Differenziazione del rapporto, p. 717. 3. Influsso conscio e inconscio sul futuro, p. 720. 4. Il volgersi verso il futuro. Il richiamo lanciato nella storia, p. 722. 5. Importanza dell’opera e missione storica e la sua giustificazione, p. 725. Capitolo LXII - La coscienza storica dello spirito vivo

1. Differenza tra ciò che è vivo, ciò che viene rimor­ chiato e ciò che è stato liquidato, p. 729. 2. Impor­ tanza di ciò che è stato superato, per la pura coscienza storica, p. 730. 3. Il sapere storico come autocoscien­ za dello spirito vivente, p. 733. 4. Trasposizione del passato nella forma spirituale del presente, p. 736. Glossario

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