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Italian Pages 544/538 [538] Year 2016
Ilarion Alfeev, Enzo Bianchi, Photios Ioannidis, André Louf, Engelina Smirnova, Michel Van Parys, Kallistos Ware e Aa.Vv.
IL CRISTO TRASFIGURATO NELLA TRADIZIONE SPIRITUALE ORTODOSSA
EDIZIONI QIQAJON COMUNITÀ DI BOSE
IL CRISTO TRASFIGURATO NELLA TRADIZIONE SPIRITUALE ORTODOSSA
Nella stessa collana SPIRITUALIT ORIENTALE I. Alfeev, La forza dell’amore. L’universo spirituale di Isacco il Siro V. Lossky, Conoscere Dio G. Florovskij, Cristo, lo Spirito, la chiesa M. Lot-Borodine, Perchß l’uomo diventi Dio Aa.Vv., Simeone il Nuovo Teologo e il monachesimo a Costantinopoli Aa.Vv., Atanasio e il monachesimo al Monte Athos Aa.Vv., Nicola Cabasilas e la divina liturgia Aa.Vv., Nicodemo l’Aghiorita e la Filocalia Aa.Vv., San Sergio e il suo tempo Aa.Vv., Paisij, lo starec Aa.Vv., San Serafim: da Sarov a Diveevo Aa.Vv., Forme della santitÜ russa Aa.Vv., Le missioni della chiesa ortodossa russa
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I. Alfeev, S. Belono°ko, E. Bianchi, E. Cavalcanti, S. S. Choru°ij, R. D’Este, S. Hovorun, Ph. Ioannidis, K. Karaisaridis, A. Louf, I. Marchis¸, I. Polemis, A. Rigo, S. Skliris, E. S. Smirnova, A. V. Sorokin, M. Van Parys, R. Wannous, K. Ware Sabino ChialÜ, Lisa Cremaschi e Adalberto Mainardi Il Cristo trasfigurato nella tradizione spirituale ortodossa SpiritualitÜ orientale 21 cm 537 Enzo Bianchi, priore di Bose Trasfigurazione, icona (secolo xii), Monastero di Santa Caterina, Sinai
Volume pubblicato con il contributo della Regione Piemonte e della Compagnia di San Paolo Prima edizione digitale: 2016 ß 2008, 2016 EDIZIONI QIQAJON COMUNITA` DI BOSE 13887 MAGNANO (BI) Tel. 015.679.264 - Fax 015.679.290
isbn 978-88-8227-729-1
I. ALFEEV, S. BELONOµKO, E. BIANCHI, E. CAVALCANTI, S. S. CHORUµIJ, R. D’ESTE, S. HOVORUN, PH. IOANNIDIS, K. KARAISARIDIS, A. LOUF, I. MARCHIS¸, I. POLEMIS, A. RIGO, S. SKLIRIS, E. S. SMIRNOVA, A. V. SOROKIN, M. VAN PARYS, R. WANNOUS, K. WARE
IL CRISTO TRASFIGURATO nella tradizione spirituale ortodossa Atti del XV Convegno ecumenico internazionale di spiritualitÜ ortodossa Bose, 16-19 settembre 2007 a cura di Sabino ChialÜ, Lisa Cremaschi e Adalberto Mainardi monaci di Bose
EDIZIONI QIQAJON COMUNITA` DI BOSE
PREFAZIONE
L’episodio narrato dagli evangeli sinottici, in cui Gesù di Nazaret è trasfigurato “su un monte alto” davanti a Pietro, Giovanni e Giacomo, è sempre stato considerato dalla teologia cristiana d’oriente e d’occidente un evento rivelativo della Triunità di Dio e della divinità di Cristo; ma la tradizione spirituale dell’oriente cristiano vi ha visto adombrata anche la trasfigurazione dell’uomo, chiamato a “diventare Dio”, primizia della trasfigurazione dell’intera creazione. Al “Cristo trasfigurato nella tradizione spirituale ortodossa”, un tema al cuore di tutta la tradizione cristiana orientale, è stata dedicata la XV edizione del Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, tenutosi dal 16 al 19 settembre 2007 presso il Monastero di Bose con il patrocinio congiunto del patriarcato ecumenico di Costantinopoli e del patriarcato di Mosca. Attorno alla parola di Gesù e alla scuola dei padri, si è così realizzato un convenire di cristiani d’oriente e d’occidente, uomini e donne appartenenti a Chiese e tradizioni spirituali diverse, per ascoltare l’unico evangelo e l’unico Signore, e al tempo stesso studiare e approfondire insieme, in un clima di accoglienza reciproca, il mistero della trasfigurazione contemplato e narrato da monaci, innografi e iconografi in tutto l’oriente cristiano, dal Sinai all’Athos, da Bisanzio alla santa Rus’, fino ai nostri giorni. “Una provvida iniziativa” è stato definito questo incontro da papa Benedetto XVI, che ha auspicato che essa “favorisca una comune riflessione e condivisione della fede, suscitando un rinnovato impegno nella testimonianza evangelica”. La rilevanza della trasfigu5
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razione per la fede cristiana è stata sottolineata con forza anche dal patriarca di Costantinopoli Bartholomeos I, nel messaggio di saluto letto dal suo delegato, il metropolita di Diokleia Kallistos (Ware): “La trasfigurazione occupa una posizione centrale nella vita della nostra Chiesa e la sua esplorazione spirituale può essere decisiva per la comprensione delle verità della nostra fede e per lo stesso cammino spirituale di ciascun fedele verso Dio”. Parole che trovano eco nel messaggio del patriarca di Mosca Aleksij II: “Nell’ortodossia, il tema della trasfigurazione, e l’idea a essa legata della divinizzazione … occupa un posto di particolare rilievo. La trasfigurazione rivela il mistero divino di ciò che sono chiamati a diventare l’uomo e il mondo attorno a lui”. Il cardinale Walter Kasper, poi, ha ricordato come il mistero di Cristo sia “diventato più di una volta, attraverso le epoche, segno di divisione, causa di scontro, motivo di intolleranza, comodo paravento per ignorare gli altri e vivere orgogliosamente della cosa propria”: ma proprio la Trasfigurazione del Signore, festa celebrata da tutte le Chiese cristiane, può diventare occasione di un’epiclesi di santità che conduca le Chiese alla comunione visibile. Per questo è stata particolarmente significativa la partecipazione al Convegno della maggior parte delle Chiese d’oriente e d’occidente, di cristiani provenienti dalle diverse tradizioni, che si sono impegnati in un vero e proprio itinerario per cogliere il mistero della trasfigurazione in tutta la sua profondità, ma anche nel suo significato per gli uomini del nostro tempo. Gli Atti del Convegno, raccolti nel presente volume, documentano gli esiti di questo percorso, che ha preso le mosse da un ascolto attento della parola di Dio contenuta nella Scrittura, per estendersi quindi alla comprensione liturgica della festa della Trasfigurazione (Kostantinos Karaisaridis) e alla sua lettura nella tradizione omiletica sia bizantina (Michel Van Parys), sia russa (Aleksandr Sorokin), senza trascurare il contributo di quella latina (l’intervento di Photios Ioannidis sulla trasfigurazione in Pietro il Venerabile). Il racconto evangelico della trasfigurazione ha anzitutto una valenza cristologica. Nella luce gloriosa di una vera e propria teofa6
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nia, il Figlio “conversa” (Mc 9,4) con Mosè ed Elia, con la Legge e i profeti: la Parola fatta carne (cf. Gv 1,14) dialoga con la parola di Dio divenuta Scrittura, Testamento, alleanza in una storia. L’evento della trasfigurazione non è un’evasione dal tempo e dalla storia, ma deve essere letto e contemplato come un evento storico, accaduto nella vita di Gesù, davanti a testimoni per i quali ha avuto un significato determinante e attraverso i quali è stato raccontato. L’intenzione dei sinottici e degli scritti apostolici è infatti quella di rendere una testimonianza su Gesù per l’itinerario di fede pasquale del lettore (cf. 2Pt 1,16-19): la trasfigurazione è rivelazione su Gesù, affinché il discepolo conosca l’identità più autentica del Signore. Non è un caso che il racconto della trasfigurazione sia collocato dagli evangeli durante l’ascesa di Gesù a Gerusalemme, in un contesto di passione annunciata ai discepoli. Lo ha ben compreso la liturgia della Chiesa d’oriente, che nel kondákion della festa canta: “I discepoli, per quanto ne erano capaci, contemplavano la tua gloria, Signore, affinché nell’ora della croce comprendessero che la tua passione era volontaria”. Gregorio di Nazianzo vide giustamente nella trasfigurazione la sintesi dell’evangelo, l’annuncio dossologico del mistero pasquale: davanti alla Chiesa, raffigurata da Pietro Giacomo e Giovanni, e davanti all’Antico Testamento, la Legge e i profeti, apparsi a condividere la gloria del Figlio. Questa unità delle Scritture che rifulge nell’evento del Tabor, e l’intimo legame che illumina reciprocamente trasfigurazione e croce, sono stati colti molto presto dalla chiesa antica, come mostra l’evoluzione dell’iconografia e la fissazione della liturgia della festa nel primo millennio (nei saggi di Elena Cavalcanti e Raffaela D’Este). La trasfigurazione è dunque un mistero centrale nella fede cristiana, caparra della resurrezione e profezia della trasfigurazione di ogni carne in Dio. Sin dal primo millennio le Chiese hanno sentito il bisogno di celebrarlo, di renderlo eloquente nella dinamica della vita spirituale. Al cammino che uniforma la vita cristiana al mistero contemplato nella trasfigurazione, è stata dedicata la seconda giornata del Convegno che, a partire dalla riflessione dei padri (con le 7
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relazioni di Ramy Wannous su Giovanni di Damasco e Ilarion Alfeev su Simeone il Nuovo Teologo), ha indagato l’evoluzione del tema negli autori ascetici del medioevo bizantino (come Gregorio il Sinaita, studiato da Antonio Rigo) e latino (con la relazione di André Louf su Guigo II il Certosino), fino alle soglie della controversia palamita (grazie al contributo di Ioannis Polemis). La dimensione esperienziale della vita spirituale, che nella trasfigurazione di tutto l’essere dell’uomo trova la sua meta, è anche il tratto distintivo della rinascita della spiritualità monastica nella Russia del XIX secolo (Serafim BelonoΔko), dove l’incontro tra la riscoperta dei padri e la ricerca esistenziale di filosofi, scrittori e artisti, ha offerto gli elementi per una nuova sintesi tra la tradizione cristiana e le sfide contraddittorie della storia contemporanea (Serhij Hovorun). Ma è soprattutto nello splendore del mistero contemplato e celebrato nell’icona che la Chiesa d’oriente non cessa di annunciare agli uomini la bellezza che attende la storia umana e tutto il cosmo trasfigurati, come mostrano l’iconografia bizantina (Stamatis Skliris) e quella russa, con la sua peculiare sottolineatura escatologica (Engelina Smirnova). La giornata conclusiva del Convegno ha offerto una riflessione attualissima su alcuni grandi testimoni della trasfigurazione del XX secolo, che hanno saputo attraversare il buio della persecuzione e del martirio, dell’odio e della violenza che sfigura il volto umano, senza disperare mai della luce dell’amore di Cristo: Silvano del Monte Athos (Sergej ChoruΔij) e il teologo romeno Dumitru St a˘ niloae (Iustin Marchis¸). Come ha ricordato il metropolita di Diokleia Kallistos Ware, nella sua riflessione finale su “La trasfigurazione di Cristo e la sofferenza del mondo”: “La trasfigurazione e la passione sono ciascuna da comprendere in relazione reciproca, e ugualmente in termini di resurrezione”. “Prima che tu salissi sulla croce…”, sono le sorprendenti parole di inizio del grande vespro della Trasfigurazione nella liturgia orientale: “Prima della tua croce, o Signore, prendendo con te i tuoi discepoli, su un alto monte davanti a loro ti sei trasfigurato…”. A questa comprensione si può accostare 8
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quella della liturgia latina, che colloca l’evangelo della trasfigurazione nella seconda settimana di quaresima, e un’iconografia come quella di Sant’Apollinare in Classe, dove la trasfigurazione è rappresentata dalla grande croce del mosaico absidale, con a lato Mosè ed Elia. Oriente e occidente cristiani sono invitati a sedersi insieme ai piedi di Gesù per ascoltare la parola dell’evangelo, e a salire insieme sul monte per contemplare la gloria del Cristo e seguirlo poi nel suo esodo di sofferenza per la salvezza dell’umanità. Su questa “convergenza nella diversità” tra oriente e occidente, e sulla necessità di “intensificare con discernimento la ricezione delle meraviglie di santità e di amore di Cristo Gesù che lo Spirito santo ha operato e ancora oggi opera nelle nostre rispettive tradizioni spirituali”, hanno insistito le Conclusioni, lette da Michel Van Parys a nome del Comitato scientifico. Il cammino della comunione tra i cristiani, tra le Chiese, esige un impegno comune a rimuovere ogni ostacolo affinché il Signore possa agire. L’ecumenismo è certo un’azione che lo Spirito compie, ma ai cristiani è chiesto di predisporre tutto affinché l’azione di Dio sia un’azione efficace in loro, tra di loro e nelle Chiese. Allora scopriremo anche che la trasfigurazione è mistero di trasformazione: certo del nostro corpo di miseria, destinato a diventare un corpo di gloria (cf. Fil 3,21), ma anche del corpo ecclesiale, ancora lacerato dalle divisioni, e tuttavia chiamato a mostrare nell’unità perfetta dell’amore la Triunità del mistero di Dio “amante dell’uomo”. Enzo Bianchi priore di Bose
Bose, 6 agosto 2008 Trasfigurazione del Signore 9
Il Patriarca ecumenico, Bartholomeos I
Costantinopoli, 6 agosto 2007
Al reverendissimo padre Enzo Bianchi, igumeno della Comunità monastica di Bose, grazia, pace e misericordia dal Salvatore nostro Gesù Cristo. Grande è stata la nostra paterna gioia nel ricevere l’annuncio dell’organizzazione del XV Convegno che si terrà a Bose nel prossimo mese di settembre sul tema della trasfigurazione di nostro Signore nella tradizione spirituale ortodossa. Prosegue così la lunga e grande fatica della vostra cara comunità nell’approfondire i vari temi della spiritualità ortodossa e nel valorizzare i tesori di questa tradizione, in vista dell’edificazione e del profitto spirituale di molti. Per questo, anche attraverso il rappresentante della nostra umile persona e della nostra santissima Chiesa di Costantinopoli, il reverendissimo fratello Metropolita di Diokleia, monsignor Kallistos (Ware), salutiamo l’apertura dei lavori del Convegno formulando l’augurio che il Signore trasfigurato li benedica, li conduca a buon fine e conceda a tutti gli esimi partecipanti l’abbondanza della sua luce, senza la quale è impossibile la comprensione dell’evento della divina e venerabile trasfigurazione. La scelta del tema del vostro Convegno di quest’anno appare quanto mai opportuna poiché la trasfigurazione si trova al cuore della vita della nostra Chiesa e la sua contemplazione spirituale può essere decisiva per la comprensione delle verità della nostra fede e per lo stesso cammino di ciascun credente incontro al Signore. Al tempo stesso la nostra umile persona desidera richiamare l’attenzione su due pericoli che minacciano tutti noi quando cerchiamo di avvicinare e toccare il Signore trasfigurato. Il primo pericolo è rappresentato dalla fiducia arrogante e dal temerario desiderio di vedere il Signore trasfigurato e la luce increata rifulsa sul Tabor. È il desiderio di abbracciare il Signore con la nostra mente e di penetrare nelle profondità del mistero della trasfigurazione, come se esso potesse essere oggetto di comprensione scientifica e di conoscenza intellettuale. Non è possibile infatti incontrare il Signore nella luce inaccessibile della sua divinità, poiché questo dono non ci è dato senza la partecipazione alle sue sofferenze. Il beato apostolo Paolo poteva proclamare che “le sofferenze del tempo
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presente non sono paragonabili alla gloria che sarà rivelata in noi” (Rm 8,18), poiché egli consacrò tutta la sua vita al “soffrire per Cristo”. Non c’è per noi altra via, come ripetono i padri della Chiesa, se non quella di rivivere nella nostra vita tutto quello che si è compiuto nella vita del Dio-uomo, fatto simile a noi in tutto tranne che nel peccato (cf. Eb 4,15). Se il Signore è stato perseguitato, anche noi saremo perseguitati; se egli è stato crocifisso, anche noi dobbiamo essere crocifissi per essere glorificati come lui è stato glorificato, per essere trasfigurati come lui è stato trasfigurato, per risorgere come lui è risorto (cf. Rm 8,17). Se vogliamo camminare sulle tracce dei suoi tre discepoli prediletti che salgono sul monte Tabor, dobbiamo seguire anche le tracce dei piedi del Maestro che avanza verso il Golgota. “Coloro che desiderano ardentemente ottenere i divini carismi e hanno sete di prendere parte alla speranza preparata per i santi – scrive Cirillo di Alessandria nell’Omelia per la Trasfigurazione – accettano volentieri le lotte per amore di Cristo” e all’ozio che non riceve ricompensa preferiscono la vita gradita a Dio. “Venite, saliamo anche noi sul monte dove Cristo rifulse, per vedere le cose di lassù”, ordina l’ardente araldo della grazia e della luce, Gregorio Palamas, arcivescovo di Tessalonica, nell’Omelia per la Trasfigurazione. Tuttavia, egli stesso si affretta ad aggiungere: “O piuttosto, se siamo pronti e siamo diventati degni di un tale giorno, lui stesso, il Verbo di Dio, ci farà salire al momento opportuno”. Tutta la potenza del nostro desiderio, come afferma il beatissimo padre Sofronij Sacharov nel Discorso sulla Trasfigurazione deve essere orientata soltanto “a custodire senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento di Dio” (1Tm 6,14). Questa è la via per comprendere l’evento mirabile e soprannaturale della trasfigurazione che è descritto con semplicità negli evangeli. Non siamo noi che con la nostra mente possiamo comprendere il mistero “della trasformazione dei mortali”, ma sarà il Signore a introdurci nei suoi mirabili misteri, se noi rigettiamo le opere delle tenebre. Il secondo pericolo che spesso insorge è che ci lasciamo prendere dalla paura ancor prima di cominciare a percorrere questa via che conduce al monte Tabor. La grandezza del dono del Signore non deve scoraggiarci. La falsa umiltà che ci fa dire “queste cose non sono per noi” è in contrasto con la promessa del Signore che dice: “Colui che viene a me, non lo respingerò” (Gv 6,37). Non dobbiamo dunque considerare la manifestazione del “fulgore” della divinità sul monte Tabor come una sorte riservata esclusivamente agli eletti, ma dobbiamo pensare che tutti, senza eccezione, indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla condizione sociale, dall’eredità ricevuta e dalla provenienza, siamo stati chiamati alla stessa perfezione alla quale il Signore ha chiamato i
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tre apostoli. Tutti siamo stati chiamati a osservare gli stessi comandamenti che hanno osservato gli apostoli e dobbiamo riconoscere che il Signore “fino ai nostri giorni non ha cessato né mai cesserà di riversare quel medesimo dono su quanti lo seguono con tutto il cuore” (padre Sofronij). La trasfigurazione del Signore, dunque, può costituire per tutti un invito a trasfigurare tutta la nostra esistenza in una vita incorruttibile e divina. Finché non siamo resi degni della visione della magnifica gloria della divinità, non cesserà l’ammonimento interiore della nostra coscienza, come assicurano i santi padri della Chiesa. Ma se piangiamo su noi stessi attraverso il pentimento, se riconosciamo la nostra nullità e gridiamo come Gregorio Palamas: “Signore, illumina le mie tenebre!”, siamo certi che saremo esauditi e che la luce inaccessibile “brillerà anche su di noi peccatori”. Perciò, con questi pensieri e sentimenti, congratulandoci con i fratelli e le sorelle della Comunità di Bose, da noi amati, per questa occasione che offrono per l’approfondimento del mirabile evento della trasfigurazione, vi ricolmiamo dei nostri auguri paterni e delle nostre benedizioni patriarcali e inoltre, credendo che l’organizzazione di siffatti convegni contribuisca in modo fruttuoso alla realizzazione dell’unità di tutti i cristiani, vi esprimiamo le dovute lodi e l’augurio che la munifica grazia del Signore nostro Gesù Cristo che sul Tabor ci ha illuminato con la luce inaccessibile della tri-solare divinità, sia con tutti i carissimi partecipanti a questo convegno. Amen. ✠ Bartholomeos I Arcivescovo di Costantinopoli ardente intercessore presso Dio
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Il Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, Aleksij II
Mosca, 12 settembre 2007
Ai partecipanti e agli ospiti del XV Convegno internazionale di spiritualità “La trasfigurazione del Signore nella tradizione spirituale ortodossa” Reverendissimo e stimatissimo padre Enzo Bianchi! Stimati organizzatori, partecipanti e ospiti del simposio! Sono felice di rivolgere il mio saluto a quanti sono riuniti per il tradizionale simposio teologico di spiritualità ortodossa, il cui tema quest’anno è la trasfigurazione, cosa che riveste un particolare significato, in quanto la chiesa della Comunità monastica di Bose è dedicata alla Trasfigurazione del Signore. Nel corso di molti anni nei prestigiosi incontri organizzati dalla Comunità di Bose, teologi dell’occidente cristiano, chierici e laici, hanno potuto conoscere più in profondità la tradizione della Chiesa ortodossa. Nell’ortodossia, il tema della trasfigurazione, e l’idea a essa legata della divinizzazione, vale a dire la trasfigurazione dell’essere umano per la potenza dello Spirito santo attraverso la comunione alle energie di Dio – luce vera, “che illumina ogni uomo che viene nel mondo” (Gv 1,9) –, occupa un posto di particolare rilievo. La trasfigurazione rivela il mistero divino di ciò che sono chiamati a diventare l’uomo e il mondo attorno a lui. Un grande asceta ortodosso, il santo monaco Iustin (Popovic), ´ diceva: “Trasfigurandosi sul Tabor, il Signore ha mostrato che la trasfigurazione dell’essere umano in divino è un’inderogabile condizione dell’opera divinoumana della salvezza del mondo dal peccato, dal male e dalla morte. Infatti la salvezza è impossibile senza la trasfigurazione dell’essere umano da parte di Dio che da peccatore lo rende santo, da malvagio buono, da mortale immortale. La salvezza consiste proprio nella trasfigurazione integrale dell’uomo da parte di Dio”. Il nostro mondo attuale sembra a volte privato della luce di Dio, soffocato dalle passioni e dai vizi. Tuttavia la missione della Chiesa e di ogni credente è proprio quella di testimoniare la luce increata del regno di Dio che, secondo le parole del Salvatore, è dentro di noi (cf. Lc 17,21). Da quanto noi cristiani sapremo degnamente corrispondere alla nostra vocazione ed essere
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veramente partecipi e portatori della grazia di Dio, dipenderà la qualità spirituale del mondo che ci circonda. Spero sinceramente che questo convegno di Bose, in accordo con una buona tradizione pluriennale, possa ancora una volta contribuire a sviluppare la collaborazione dei cristiani d’oriente e d’occidente nella predicazione dei valori tradizionali dell’evangelo, che porta al mondo l’annuncio sempre nuovo della grazia trasfigurante e salvifica della venuta del Salvatore. Auguro agli organizzatori e ai partecipanti del Convegno frutti benedetti nei loro lavori. ✠ Aleksij II Patriarca di Mosca e di tutta la Russia
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Segreteria di stato della Città del Vaticano
Città del Vaticano, 12 settembre 2007
In occasione dell’incontro ecumenico di spiritualità ortodossa, il sommo Pontefice rivolge ai promotori e ai partecipanti un beneaugurante saluto e, mentre auspica che la provvida iniziativa favorisca una comune riflessione e condivisione della fede suscitando un rinnovato impegno di testimonianza evangelica, invoca larga effusione di favori celesti e invia l’implorata benedizione apostolica. ✠ Tarcisio cardinale Bertone Segretario di stato
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Il Santo Sinodo della Chiesa ortodossa serba
Belgrado, 14 settembre 2007
Al venerabile abate del Monastero di Bose, Italia e ai partecipanti al Convegno “La Trasfigurazione del Signore nella tradizione spirituale ortodossa”. Eccellenze vostre, Reverendi padri, esimi professori, stimati signori, in ossequio alle istruzioni del Santo Sinodo della Chiesa ortodossa serba sono devoto latore del presente messaggio di ringraziamento all’ospite di questo incontro venerabile, padre Enzo Bianchi, e alla sua comunità, per l’invito, l’ospitalità, l’attenzione e l’amore che per la quindicesima volta consecutiva ha rivolto a noi e nel contempo sono latore delle preghiere e delle benedizioni di sua santità il Patriarca di Serbia Pavle per un convegno riuscito e proficuo: “Siamo debitori una particolare riconoscenza come popolo serbo al popolo italiano per l’atteggiamento nobile e generoso dell’unità militare del vostro esercito in Kosovo. I vostri soldati sono riusciti a diventare realmente luce in quella regione avvolta dalle tenebre della guerra: unici tra le truppe occidentali della NATO, sono riusciti a essere all’altezza della situazione, salvando i nostri monasteri medievali con affreschi di valore inestimabile, che sono monasteri diventati rifugio della Chiesa vivente. Ciò mostra che il buio dell’inesistenza è una minaccia ovunque, non importa che si tratti dell’Europa e dell’inizio del terzo millennio, questo di per sé non ci salva… Oggi più che mai abbiamo bisogno di trasfigurazione, della vera luce, della luce di letizia, perché la luce è vita e la vita è il Cristo. L’approfondimento di questo tema dà particolare importanza all’impegno di questi giorni e a tutte le iniziative di questa comunità, per cui formuliano i nostri migliori auguri. La luce di Cristo illumina tutti. Con paterna benedizione, ✠ Pavle Patriarca della Chiesa ortodossa serba” Con approvazione del metropolita di Cetinje Amfilochije, il Responsabile dell’Ufficio relazioni interecclesiali padre Gajo Gaijc´.
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Il Patriarca della Chiesa ortodossa romena, Daniel Bucarest, settembre 2007
Eccellenze vostre, carissimi fratelli e sorelle in Cristo! Il tema del XV Convegno internazionale ecumenico dedicato alla “Trasfigurazione di Cristo nella tradizione spirituale ortodossa” è una buona occasione per riflettere sull’importanza della “luce di Cristo che illumina tutti”, un tema molto familiare per noi cristiani ortodossi, e che allo stesso tempo ha guidato la riflessione del III Incontro ecumenico delle Chiese europee, conclusosi qualche giorno fa a Sibiu in Romania. La venuta nel mondo del Signore Gesù Cristo è per noi cristiani la manifestazione della luce. L’apoteosi di questa manifestazione è la trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor davanti ai suoi discepoli. La divina trasfigurazione del Signore sul monte è uno dei maggiori temi mistagogici della tradizione e spiritualità ortodossa. La santa trasfigurazione riveste di fatto un’importanza eccezionale nella vita e nella spiritualità della Chiesa, come è riflesso nell’esegesi patristica, nella liturgia e nella vita spirituale dei fedeli. Anche la parte dell’esegesi moderna più attenta e sensibile giunge a comprendere che la trasfigurazione è connessa da una parte con la passione e la croce, dall’altra con la resurrezione, della quale in qualche modo è la prolessi misteriosa. Tale esegesi conferma la giustezza delle analisi condotte senza pregiudizi (i quali portano a dire che la trasfigurazione sarebbe una narrazione secondaria, di tipo apocalittico, e perciò leggendario). Tanto più che questa nuova e giusta esegesi in genere non conosce affatto la teologia dei padri sulla trasfigurazione, la quale precisamente, seguendo fedelmente la tradizione evangelica, comprende in modo retto e acuto le realtà croce-trasfigurazione-resurrezione, e l’escatologia in qualche modo anticipata. I padri della Chiesa hanno interpretato la divina trasfigurazione prima di tutto come una teofania, in secondo luogo come un evento soteriologico e infine come manifestazione anticipata del regno di Dio. Il primo senso deriva dalla convinzione che l’uomo è incapace di conoscere Dio: la divina trasfigurazione di Gesù nasconde il volto del Padre proprio nel momento in cui egli rivela se stesso. Il secondo senso, su cui si è sof-
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fermato Cirillo di Alessandria, vede nella divina trasfigurazione il preludio della passione di Cristo: dal monte Tabor si guarda verso il Golgota. D’altra parte, la presenza di Mosè ed Elia mette in risalto l’armonia dei due Testamenti, essendo il Tabor un monte alto sul quale la Legge (Mosè) e profeti (Elia) parlano con la Grazia (Cristo). Infine i santi padri della Chiesa vedono nella divina trasfigurazione un’anticipazione del regno di Dio. Il monte sacro avvolto dalla gloria del Figlio di Dio, diventa il seme di una nuova creazione, rinnovata completamente. Ecco il motivo per il quale, secondo il loro insegnamento, la luce taborica è la stessa con la gloria della resurrezione del Signore, e altresì un argomento contro gli scettici per mostrar loro che i corpi di coloro che risorgeranno nell’“ottavo giorno” non saranno apparenti ma concreti. Possiamo aggiungere che la divina trasfigurazione è il modello biblico del progresso spirituale che porta l’uomo alla deificazione e a contemplare la luce e la bellezza immortale. Così come Dio scende fino al livello dell’uomo nella grotta di Betlemme, l’uomo Cristo si innalza fino a Dio sul monte Tabor. Questa è la vera via dell’iniziazione cristiana, cioè di quella crescita interiore grazie alla quale una persona battezzata giunge a contemplare Dio già da questa vita. Congratulandoci con gli organizzatori di questo convegno invochiamo su voi la grazia e l’infinita misericordia del Padre delle luci e delle tenerezze del Signore nostro Gesù Cristo. ✠ Daniel Patriarca eletto della Chiesa ortodossa romena
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L’Arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia, Christodoulos Atene, 12 settembre 2007
Santi e amati collaboratori dell’Altissimo, amici eletti della spiritualità ortodossa. Con gioia sono stato informato della convocazione del XV Convegno ecumenico internazionale, indetto in comune dal Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, dal Patriarcato di Mosca e dall’operoso Monastero di Bose, convegno che ha quale suo tema “La trasfigurazione del Signore nella tradizione spirituale ortodossa”. Com’è naturale, il discorso sulla trasfigurazione prende avvio dal discorso sulla luce increata. La luce della divinità risplende su Mosè al momento del dono dei comandamenti, sui discepoli sul Tabor, sui monaci che vegliano nelle loro celle. La luce increata attraversa tutta la storia sacra e rende tangibile la resurrezione e l’esperienza del regno celeste. Partecipando alla luce increata diventiamo incorruttibili. Il credente diventa partecipe della luce in preparazione alla sua capacità ad accoglierla. Una luce trasfigurante discende da tutti i sacramenti della Chiesa che causano la bella trasformazione. La luce del santissimo sepolcro è presente nel battesimo che trasfigura chi lo riceve. La luce del Tabor è presente nella partecipazione alla divina eucaristia. Per questo la tradizione ortodossa è colma di luce, luce salvifica e pacificante, luce sacramentale ma anche simbolica e liturgica. Attraverso la trasfigurazione di Cristo, i discepoli divennero degni di vedere la gloria e lo splendore di Dio. La trasfigurazione è narrata e analizzata dai padri della Chiesa e in particolare da Gregorio Palamas nel xiv secolo. La stessa luce che risplendette nella trasfigurazione fu vista dai discepoli del Signore, dalla più vasta cerchia dei settanta e dei cinquecento, da Stefano protomartire, eccezionalmente da Paolo prima ancora di diventare cristiano, dai martiri della chiesa, dai beati padri, dagli asceti e da tutti i santi. La visione della luce del Cristo risorto costituisce un elemento fondamentale della nostra tradizione.
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Augurando tale partecipazione alla luce a tutti voi che vi deliziate nei sacri testi concernenti la trasfigurazione, vi abbraccio nel Signore. ✠ Christodoulos Arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia * *
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Il 28 gennaio 2008 abbiamo appreso che l’arcivescovo Christodoulos ha compiuto il suo esodo da questo mondo al Padre. Lo ricordiamo con affetto, grati della sua paterna vicinanza alla nostra comunità e ai Convegni ecumenici da noi organizzati.
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Il Metropolita di Kiev e di tutta l’Ucraina, Volodymyr Kiev, settembre 2007
Di tutto cuore porgo il mio saluto a quanti sono convenuti al tradizionale simposio teologico dedicato alla spiritualità ortodossa, giunto alla sua quindicesima edizione, dedicata al tema della trasfigurazione, come essa è vissuta e compresa nella Chiesa ortodossa. L’idea della trasfigurazione occupa un posto particolare nella tradizione spirituale ortodossa, e le è sempre stata riservata una notevole attenzione da parte dei teologi, intendendo con questo termine non solo gli studiosi, ma innanzitutto gli autentici intercessori, che la Chiesa chiama teologi nel senso pieno della parola (“chi è teologo prega, e chi prega è teologo”). La luce della trasfigurazione del Signore, la luce increata, è l’oggetto della contemplazione spirituale degli asceti cristiani, che si sono purificati al punto di poter contemplare la luce che emana da Dio stesso. Attraverso la nostra comunione con il Creatore, noi abbiamo la possibilità di divenire partecipi di questa luce e di camminare nella luce di Cristo. Molti santi graditi a Dio, secondo la testimonianza di san Macario, hanno raggiunto una tale perfezione, da essere visti raggianti in mezzo al fuoco. Nella nostra tradizione spirituale è questo il caso, in primo luogo, dei santi Antonio e Teodosio di Kiev, di san Sergio di RadoneΔ, Iov di Po™aev, Serafim di Sarov e molti altri. Per nostra natura, noi veniamo dalla luce divina, ne siamo parte. I santi padri sul fondamento della loro personale esperienza, testimoniano che in ogni uomo è presente questa luce, e se noi la custodiamo come bene prezioso, se camminiamo nella luce, se la lasciamo crescere, allora quando ci presenteremo dinanzi a Dio, la luce taborica sarà il nostro abito più bello. La parola di Dio dice: “Allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro” (Mt 13,43). Dimorare in questa luce deve divenire il fine ultimo di ogni uomo, per il quale il Signore è disceso sulla terra, al fine d’innalzare l’uomo e introdurlo nel mondo della Luce divina. “Dio si è fatto uomo, affinché l’uomo possa diventare Dio”, insegna la Chiesa. Nella nona ode del canone della Trasfigurazione leggiamo che Cristo sul Tabor sta “tra gli dèi apostoli”. Ecco quale alta dignità hanno coloro che amano Dio! Non dimentichiamo, cari amici, la nostra alta vocazione, e non lasciamoci turbare dal fatto che il mondo spesso ci propone un’altra “luce” e un’al-
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tra verità. Ricordiamoci che la grazia di Dio è sempre accanto e sempre aiuta coloro che hanno l’audacia e la risolutezza di essere partecipi del regno di Dio e di quella luce, nella quale dimorano tutti i giusti. Chiediamo a Cristo datore di vita il dono della visione di Dio che fu di Mosè, lo zelo del profeta Elia, la fede dell’apostolo Pietro, l’amore dell’apostolo Giovanni, la pazienza dell’apostolo Giacomo, essi che furono testimoni della sua trasfigurazione. Auguro sinceramente a tutti, organizzatori e numerosissimi partecipanti del simposio, l’aiuto di Dio in quel lavoro di grandissima importanza e responsabilità, che è l’annuncio e l’approfondimento del mistero cristiano. Con amore nel Signore ✠ Volodymyr Metropolita di Kiev e di tutta l’Ucraina Primate della Chiesa ortodossa ucraina
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L’Arcivescovo ortodosso d’Italia e di Malta, Ghennadios Venezia, 15 settembre 2007
È con immensa gioia che anche quest’anno possiamo godere del Convegno internazionale di spiritualità ortodossa organizzato con tanta sapienza dalla Comunità monastica di Bose. Ma alla felicità di un tale momento di incontro, sempre così pacato ma allo stesso tempo profondo come è nello stile della Comunità, si aggiungono due ulteriori elementi di grande ricchezza umana e spirituale per tutte le nostre Chiese, e in modo particolare per la Chiesa ortodossa della diaspora e, anzitutto, per la nostra arcidiocesi ortodossa d’Italia e di Malta: il tema del Convegno, con la partecipazione di così tanti rappresentanti delle chiese ortodosse locali e il patrocinio congiunto del Patriarcato ecumenico e del Patriarcato di Mosca. La trasfigurazione di Cristo rappresenta un evento fondamentale per la vita del cristiano di ieri, di oggi e di ogni tempo. La teofania del Signore al battesimo nel Giordano si ripete al momento della trasfigurazione sul monte Tabor. Non si tratta di una rivelazione nascosta di Dio, di un atto esclusivo della sua divina potenza, ma di un dono trinitario rivolto all’uomo, alla creazione. La trasfigurazione apre agli uomini una nuova dimensione, indica il cammino verso la pienezza divina, mostra, come dicono i padri della Chiesa, che Dio si è fatto uomo perché l’uomo divenga Dio. Ma la trasfigurazione non riguarda soltanto l’uomo; tutta la natura, tutto il cosmo è partecipe di questa trasformazione. L’apolytíkion della festa lo riassume in modo mirabile: “Ti sei trasfigurato sul monte, o Cristo Dio, facendo vedere ai tuoi discepoli la tua gloria, per quanto lo potevano. Fa’ risplendere anche su noi peccatori la tua eterna luce, per l’intercessione della Madre di Dio, o datore di luce: gloria a te”. Il secondo elemento di gioia è la partecipazione a questo incontro dell’ortodossia congiunta in un’unica voce di testimonianza e di affetto verso le altre Chiese sorelle. La nostra arcidiocesi ortodossa d’Italia, composta da cristiani provenienti da diverse Chiese ortodosse, vive ogni giorno la necessità del superamento delle barriere etniche che a volte entrano subdolamente nella testimonianza del Cristo trasfigurato. La scelta di non dividere il Convegno in una sessione greca e in una sessione russa – proposta fatta anche da noi alcuni anni or sono – è stata da noi accolta con grande entusiasmo; il patrocinio congiunto del Patriarcato ecumenico e del Patriarcato di Mosca e la partecipazione di rappresentanti di tante Chiese ortodosse sono un segno fon-
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damentale in questa direzione. D’altra parte la nostra sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia che fa capo al Patriarcato ecumenico opera in questa importante nazione per l’unità pan-ortodossa e per la realizzazione della volontà di Dio che “tutti siano uno” (Gv 17,11). Il nostro plauso dunque agli organizzatori e un vivo ringraziamento a tutti i fratelli e le sorelle della Comunità di Bose. A tutti gli eminentissimi vescovi giunga il nostro bacio di pace; con un abbraccio fraterno salutiamo l’amatissimo “ieronda” metropolita di Silyvria, Emilianos, i presbiteri, i monaci, le monache e tutti i partecipanti. A tutti i relatori, che con la loro ricerca contribuiranno alla nostra crescita spirituale e umana, vada il nostro ringraziamento. Non potendo essere presente di persona per altri inderogabili impegni, rappresenteranno la nostra sacra arcidiocesi e la nostra persona il reverendissimo archimandrita Athenagoras, nostro vicario arcivescovile di Toscana e Liguria, e la reverendissima madre Sevastiani, igumena del Monastero della Trasfigurazione e di Santa Barbara. Un caloroso abbraccio in Cristo al padre igumeno Enzo Bianchi e ai suoi valorosi fratelli e sorelle che, con questi preziosissimi incontri di spiritualità e teologia, danno grandissimo coraggio e forza nel ritrovare la nostra unità. ✠ Ghennadios Arcivescovo ortodosso d’Italia e di Malta
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L’Arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams
Lambeth Palace, 13 settembre 2007
Reverendo padre priore e tutti voi del Monastero di Bose, insieme a tutti i vostri ospiti che partecipano al XV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa. Sono molto felice di inviare i miei saluti più cordiali e la mia benedizione per il vostro convegno a Bose sulla trasfigurazione di nostro Signore. Il racconto evangelico descrive la trasfigurazione come la rivelazione della gloria di Cristo, non soltanto come colui che compie la Legge e la profezia, ma anche come colui il cui exodus realizzato durante gli eventi pasquali conduce tutti alla libertà e alla condivisione della natura divina. Questo mistero era particolarmente caro al mio grande predecessore l’Arcivescovo Michael Ramsey, il cui insegnamento ha così profondamente segnato la nostra Chiesa anglicana. Vi auguro ogni gioia, la realizzazione delle vostre preghiere e un felice esito delle vostre discussioni. Possa questo incontro essere un’esperienza della gloriosa autodonazione di Dio per tutti, e un momento di rinnovamento del desiderio di condividere questa gloria con tutto il mondo. ✠ Rowan Williams Arcivescovo di Canterbury
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Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani Città del Vaticano, 15 settembre 2007
A fratel Enzo Bianchi, priore di Bose, e ai partecipanti del XV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa. Sono lieto di mostrare con questo messaggio la mia presenza al XV Convegno della Comunità di Bose, dedicato quest’anno al tema: “Il Cristo trasfigurato nella tradizione spirituale ortodossa”. Sua eminenza monsignor Brian Farrell, il segretario del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, ha accettato di recare a tutti i miei auguri e i sentimenti di simpatia per questa iniziativa, realizzata per la prima volta nel 1993 con il Convegno dedicato a Sergio di RadoneΔ. I Convegni di Bose approdano nel 2007 a un anniversario importante. Da quindici anni, infatti, essi mettono in pratica un importante consiglio del Direttorio per l’applicazione dei principi e delle norme sull’ecumenismo, che suggerisce di “organizzare incontri con cristiani di diverse chiese … per una comprensione più profonda delle tradizioni spirituali cristiane” (nr. 50). Ma non soltanto questo. L’idea sviluppata dai Convegni, di dedicarsi con uguale premura e identico desiderio di conoscere e approfondire la spiritualità e le ragioni della fede delle Chiese ortodosse, sia di tradizione bizantina che di tradizione slava, richiama all’armonia e alla visione, cara al cattolicesimo, della grande famiglia ortodossa alimentata da correnti spirituali che spingono alla sua unità. Il servo di Dio Giovanni Paolo II, nella sua lettera enciclica dedicata all’impegno ecumenico, ha definito la ricerca dell’unità e della comunione un nobilissimo scopo, che i cristiani perseguono insieme. Nello stesso autorevole documento, e concludendo la sua riflessione, egli chiama tutti al sacrificio dell’unità. Dopo una necessaria evoluzione che ci ha portato a ridimensionare i primi entusiasmi e a comprendere la difficoltà della nostra impresa, viviamo oggi una fase ben più complessa, che pone in primo piano gli ostacoli più gravi da superare. Ciò mi ispira due riflessioni: sbaglia chi ritiene inutile l’esperienza più facile che abbiamo già fatto e sbaglia anche chi ritiene invalicabile la porta verso la comunione. Si tratta invece di avere pazienza, di vivere costantemente il sacrificio dell’unità. La Chiesa, nella sua storia, ha fatto non poche esperienze di come sia difficile cogliere a parole il mistero di
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Cristo e il suo insegnamento. Esso è diventato più di una volta, attraverso le epoche, segno di divisione, causa di scontro, motivo di intolleranza, comodo paravento per ignorare gli altri e vivere orgogliosamente della cosa propria. Di fronte a una tale tendenza secolare di cui noi oggi vediamo più chiaramente i disastrosi effetti sulla tunica inconsutile di Cristo, dobbiamo interrogarci con onestà. Dobbiamo sapere se per noi pazienza e mansuetudine sono soltanto parole; dobbiamo decidere se il nostro impegno è valido solo a patto che tutto vada bene e senza scosse; dobbiamo chiederci se il nostro agire è realmente ispirato alla fiducia in colui che può tutto, nei tempi e nei modi che detta il suo Spirito; dobbiamo chiederci se abbiamo effettivamente facoltà di scelta, la scelta di cambiare direzione, e di ritornare allo status quo ante, come se niente fosse avvenuto nel frattempo. La storia della fondazione di Bose è nota a tutti. Mi sia tuttavia permesso di richiamare una descrizione citata sul sito web della Comunità, e che risale al 1970: Su di una collina, nei pressi di Biella, un gruppo di cristiani di diversa confessione ha occupato, da due anni, le poche casupole lasciate vuote … Sono case per modo di dire: il vento fischia tra le fessure e la nebbia che le avvolge sembra quasi dipanarle e portarsele via. Non c’è nemmeno la luce elettrica. C’è la fede paradossale di questi amici che si propongono di preparare, in assoluta povertà, il cristianesimo di domani. Vento, nebbia, mancanza di luce possono prevalere? Bose fino a ora ha dimostrato di no. I buoni esempi vanno seguiti. La questione principale è: vogliamo continuare a rafforzare le fondamenta con un lavoro paziente, spesso oscuro, o vogliamo soffiare anche noi con il vento, e danneggiare di più la casa? Ma un cristiano ha effettivamente la facoltà di scegliere l’una o l’altra posizione? Mi auguro che queste mie riflessioni dirette agli amici di Bose e a quelli che partecipano al XV Convegno di spiritualità ortodossa, siano considerate riflessioni di un amico, di un compagno di cammino. Con viva cordialità nel Signore, ✠ Walter cardinale Kasper Presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani
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Consiglio ecumenico delle Chiese
Ginevra, 13 settembre 2007
Distinto priore del Monastero di Bose, cari fratelli e sorelle, membri della Comunità, distinti partecipanti del XV Convegno ecumenico internazionale. “La trasfigurazione di Cristo nella tradizione spirituale ortodossa” è il tema del Convegno sul quale rifletterete insieme a eminenti rappresentanti della Chiesa ortodossa. Purtroppo non potrò essere materialmente presente in questi giorni, ma sarò con voi con le mie preghiere e i miei pensieri. La trasfigurazione è l’autorivelazione del Dio trino e unico. Il suo scopo è la trasformazione e il rinnovamento dell’umanità e della creazione. La trasfigurazione è il cuore della spiritualità ortodossa; le Chiese ortodosse sottolineano particolarmente la dimensione comunitaria e cosmica della spiritualità, senza ignorare quella personale. La trasfigurazione presenta anche un aspetto missionario: l’invio del Figlio nel mondo da parte del Padre nella potenza dello Spirito santo. Poiché Gesù fu trasfigurato in vista della trasfigurazione del mondo, il movimento ecumenico deve attribuire un’importanza particolare a una spiritualità centrata sulla vita. La festa della Trasfigurazione, insieme a quella dell’Epifania, della Pasqua e della Pentecoste è una memoria costante del significato della vita in Cristo. La trasfigurazione è l’ultimo gradino nella comprensione della nostra vocazione e di noi stessi come creati a immagine di Dio. La vita in Cristo comincia con l’eucaristia, nella quale i credenti rinnovano costantemente la loro appartenenza al corpo di Cristo. Allo stesso tempo, la liturgia e l’eucaristia ci conducono a esaminare la nostra vita spirituale e sociale: l’eucaristia ci aiuta a interpretare i principi fondamentali della fede cristiana che guidano la nostra condotta nella società, essa diventa l’espressione vivente della spiritualità. Nelle Chiese ortodosse, “la liturgia dopo la liturgia”, che comincia con l’eucaristia, è precisamente il vivere l’evento della trasfigurazione come comunità di fede. Il tema della “liturgia dopo la liturgia” ha influenzato nel movimento ecumenico anche Chiese appartenenti ad altre tradizioni. Il programma di questo incontro e le relazioni dei partecipanti aiuteranno il movimento ecumenico ad approfondire la sua comprensione della vi-
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ta in Cristo. Il Cristo trasfigurato è la sorgente della spiritualità. Accogliere Cristo significa partecipare all’evento della trasfigurazione e portare Cristo al mondo. La IX assemblea del Consiglio ecumenico delle Chiese nel 2006 ha identificato la spiritualità come una delle priorità da mettere all’ordine del giorno per i prossimi sette anni. La rinnovata accentuazione della spiritualità apre sfide e suscita domande al Consiglio ecumenico delle Chiese. Una domanda cruciale da essa sollevata concerne il modo in cui la vita in Cristo riconcilia la spiritualità e l’applicazione dei principi etici cristiani con le situazioni umane. Mentre riflette su tale domanda con le Chiese che di esso fanne parte e impara dalle Chiese ortodosse, il Consiglio dovrebbe anche imparare dalle esperienze delle comunità monastiche e dei movimenti laicali. Incoraggiati dalla nostra collaborazione passata con il Monastero di Bose, siamo certi che il vostro lavoro e la vostra esperienza della vita monastica fondata sulla preghiera e sulla contemplazione ci aiuteranno nel nostro sforzo perché la vita del Cristo trasfigurato diventi modello di una nuova vita in questo mondo lacerato. Vostro in Cristo, Reverendo Samuel Kobia Segretario generale
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Saluto del Cardinale Achille Silvestrini
19 settembre 2007
Sono molto onorato, lieto di essere ancora una volta a questo Convegno di Bose. Quest’anno Bose ha pensato di affrontare il tema della trasfigurazione che è lo stesso dell’icona posta al cuore della sua chiesa. Certo, la presenza di tanti vescovi, presbiteri, monaci e monache, laici di tutte le chiese in questo luogo di preghiera è già un segno dei tempi, un segno di speranza per la santa causa dell’unità. Il miracolo di Bose è di radunarci, cercatori del volto di Dio, ai piedi del monte santo della trasfigurazione di Gesù. Siamo convocati per salire insieme, aiutandoci gli uni gli altri, il monte Tabor. Salendo il monte ci avviciniamo al Signore della gloria, ma ci avviciniamo anche tra di noi gli uni agli altri. Il desiderio di contemplare il volto di Gesù trasfigurato abita il cuore del credente da sempre. L’oriente cristiano ci insegna a desiderarlo sempre di più; anche l’occidente latino fin dall’epoca dei padri della Chiesa ha onorato il mistero della trasfigurazione. Penso all’Omelia di papa Leone Magno per la seconda domenica di quaresima, consacrata nella liturgia di Roma almeno dall’inizio del v secolo al mistero della trasfigurazione. Qui vorrei ricordare anche Giovanni Cassiano nella sua Conferenza 10 che collega la trasfigurazione alla preghiera del monaco. Spiega che l’esperienza della trasfigurazione del Signore fu concessa ai tre discepoli sul Tabor come anticipazione dell’incontro con Gesù nella preghiera pura. Anche Benedetto nel Prologo della sua Regola ha posto nel cuore della spiritualità monastica latina il desiderio di contemplare la gloria del Signore che viene e di udire la voce del Padre: “Dopo che i nostri occhi si sono aperti alla luce deificante, lasciamoci cogliere da stupore di fronte alla parola divina che ogni giorno grida a noi esortatrice: ‘Oggi se udite la sua voce non indurite il vostro cuore’ (Sal 94,8); e ancora: ‘Chi ha orecchi capaci di ascolto intenda ciò che lo Spirito dice alle chiese’ (Ap 2,29; 3,6.13.22)” (RB Prologo 9-11). Sono quindi intimamente convinto che lo Spirito santo invita tutte le Chiese di Dio, e anche noi, a volgersi verso il volto del Signore risorto. Questa conversione è allo stesso tempo il cammino della riconciliazione. ✠ Achille cardinale Silvestrini
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Saluto di Monsignor Antonio Mennini
18 settembre 2007
Caro padre Enzo Bianchi, cari fratelli e sorelle, ringrazio molto per l’opportunità che mi viene offerta di partecipare a questo Convegno. Vorrei rivolgermi a voi con un’espressione di saluto riprendendo un versetto dal libro dell’Ecclesiaste, che dice: “Il Signore riconduce tutto ciò che è passato” (Qo 3,15). Vivendo un evento come questo noi, fratelli cattolici, fratelli ortodossi, fratelli di altre espressioni cristiane, possiamo insieme rivivere la memoria di quello che è stato il mistero dell’unità di tutta la Chiesa voluta da sempre dal Padre e affidata al Figlio. Ecco penso però che oltre questa memoria lontana il Signore riconduce alla visione dei nostri occhi interiori anche quei semi e quelle forze che lavorano per la ricostruzione di questa unità. Ebbene tra questi semi io metterei anche il passato di sofferenze e il martirio soprattutto della Chiesa ortodossa russa, che è quella che conosco più da vicino. Auguro a noi latini di poter scoprire le ricchezze delle Chiese orientali, e ai nostri fratelli ortodossi di proseguire nel cammino della ricerca dell’unità, tenendo sempre presente ciò che diceva papa Giovanni XXIII (ora beato): soltanto la via della carità, la via dell’amore, è la via della verità (tolka put’ ljub’vy tolka put’ pravdy). ✠ Antonio Mennini Rappresentante della santa Sede presso la Federazione russa
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L’EVANGELO DELLA TRASFIGURAZIONE: ESEGESI BIBLICO-SPIRITUALE Enzo Bianchi*
Introduzione. Il racconto della trasfigurazione nei sinottici
Il racconto della trasfigurazione di Gesù è situato in ciascuno dei tre evangeli sinottici in una posizione centrale (cf. Mc 9,2-10; Mt 17,1-9; Lc 9,28-36)1, in un punto in cui si registra un tornante decisivo tra il ministero di Gesù in Galilea e la sua salita a Gerusalemme. Per essere ancora più precisi, tale racconto è collocato in una sequenza assolutamente identica nei sinottici: confessione di Pietro (cf. Mc 8,27-30 e par.), primo annuncio della passione e delle condizioni per seguire Gesù (cf.
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Priore del Monastero di Bose. Tra i numerosi studi dedicati ai racconti della trasfigurazione e alla loro interpretazione patristica segnalo: A.-M. Ramsey, La gloire de Dieu et la Transfiguration du Christ, Cerf, Paris 1965; X. Léon-Dufour, “La Trasfigurazione di Gesù”, in Id., Studi sul vangelo, Paoline, Milano 1968, pp. 111-164; M. Coune, Joie de la Transfiguration d’après les Pères d’orient, Bellefontaine, Bégrolles-en-Mauges 1985; Id., Grâce de la Transfiguration d’après les Pères d’occident, Bellefontaine, Bégrolles-en-Mauges 1990; É. Cothenet, “La Transfiguration du Seigneur”, in Liturgie et Cosmos. Conférences de Saint-Serge, XLIVe Semaine d’études liturgiques, Paris, 1er-4 juillet 1997, a cura di A. Pistoia e A. M. Triacca, Clv-Edizioni liturgiche, Roma 1998, pp. 33-48; J. P. Heil, The Transfiguration of Jesus, Pontificio istituto biblico, Roma 2000; P.-Y. Brandt, L’identité de Jésus et l’identité de son disciple: le récit de la Transfiguration comme clef de lecture de l’Évangile de Marc, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2002. 1
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Mc 8,31-38 e par.), trasfigurazione, secondo annuncio della passione (cf. Mc 9,30-32 e par.). Nel quarto evangelo l’evento della trasfigurazione è assente, ma tutto l’evangelo è rivelazione della gloria di Gesù, dalla manifestazione della gloria avvenuta a Cana (cf. Gv 2,1-12) alla glorificazione sulla croce (cf. 12,23-28; 17,1 e passim), sicché l’evangelista può attestare fin dal prologo: “E noi abbiamo visto la sua gloria” (1,14). Non va neppure dimenticato che questo evento è ricordato in modo dettagliato anche dagli scritti apostolici (cosa che avviene, oltre al nostro caso, solo per l’ultima cena), precisamente nella Seconda lettera di Pietro, che invita a discernere nella trasfigurazione un’anticipazione della parusia, della venuta nella gloria del Signore Gesù Cristo (cf. 2Pt 1,16-19). Nell’intenzione dei sinottici e di Pietro l’evento della trasfigurazione deve essere letto e contemplato come un evento storico, cioè accaduto nella storia, nella vita di Gesù, davanti a testimoni per i quali ha avuto un significato determinante e attraverso i quali è stato raccontato: non si tratta dunque di un mito e neppure di un midrash cristiano! Certamente gli esegeti trovano difficoltà a determinarne il genere letterario: visione apocalittica? Teofania divina? Intronizzazione messianica? Rilettura della trasfigurazione di Mosè (cf. Es 34,29-35)? Il racconto in verità non si lascia restringere entro i confini di un genere letterario, ma resta un’interpretazione di un evento realmente accaduto nella vita di Gesù, compreso ed espresso dai singoli evangelisti in modo diverso. E la loro intenzione è quella di dare una testimonianza su Gesù, che aiuti il lettore nel suo itinerario di fede pasquale: per loro la trasfigurazione è rivelazione, è un alzare il velo su Gesù in modo che il discepolo conosca l’identità più autentica del Signore. Io cercherò semplicemente di contemplare questo racconto evangelico, questo roveto ardente in cui Dio rivela il suo volto; cercherò, secondo l’insegnamento di Origene, di contemplare e leggere le vesti di Cristo che sono le parole dell’evangelo, in34
L’evangelo della trasfigurazione …
vocando lo Spirito santo perché faccia risplendere queste vesti, le faccia diventare bianche come la luce2.
La trasfigurazione, rivelazione del Regno
L’evento della trasfigurazione è un evento profetizzato da Gesù, il quale dopo il primo annuncio della sua passione-morte-resurrezione dice ai discepoli: “In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non gusteranno la morte prima di vedere il regno di Dio venire con potenza” (Mc 9,1; cf. Mt 16,28; Lc 9,27). Dunque alcuni dei discepoli saranno destinatari di una visione prima di morire, nella loro stessa vita, e vedranno il regno di Dio veniente (Mc e Lc), vedranno il Figlio dell’uomo veniente (Mt). Come il vecchio Simeone aveva ricevuto dallo Spirito santo la promessa “di non vedere la morte senza prima avere visto il Cristo del Signore” (Lc 2,26), così alcuni ricevono una promessa da Gesù stesso: sarà loro manifestato il regno di Dio, che Matteo identifica con il Figlio dell’uomo, dunque con Gesù stesso. Gesù è il regno di Dio in persona, è l’autobasileía, come ha ben compreso Origene 3. Gesù, che ha annunciato la venuta del Regno, ora lo rivela; o meglio, Gesù è rivelato dal Padre come regno di Dio veniente con potenza, e dunque l’evento della trasfigurazione appare come un’anticipazione. Sei giorni (Mc e Mt) o otto giorni (Lc) dopo queste parole, “Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, e li porta su un’alta montagna, in un luogo in disparte, loro soli” (Mc 9,2). Egli opera una scelta, compie un’elezione, e dei dodici prende
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Cf. Origene, Commento a Matteo XII,38 (su Mt 17,2). Cf. ibid. XIV,7,10.17 (su Mt 18,23).
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con sé solo tre, tra i primi chiamati alla sequela (cf. Mc 1,16-20). Sono i tre discepoli più vicini a Gesù, già scelti come testimoni della resurrezione della figlia di Giairo (cf. Mc 5,37-43), quelli che saranno poi anche i testimoni della sua de-figurazione nell’orto del Getsemani, alla vigilia della passione (cf. Mc 14,32-42). Sono scelti non per particolari virtù o meriti ma, nell’imperscrutabile volontà di Dio, perché possano rendere testimonianza, diventare testimoni di Gesù, anzi i testimoni per eccellenza: Pietro sarà “testimone (mártys) delle sofferenze di Cristo e partecipe (koinonós) della gloria che sarà manifestata” (1Pt 5,1); Giacomo e Giovanni berranno la coppa e subiranno l’immersione, secondo la promessa di Gesù (cf. Mc 10,38-39). Saranno testimoni e dunque martiri! Sono questi che, “presi con sé” da Gesù, salgono con lui l’alta montagna, la montagna della rivelazione di Dio che a partire dal ii secolo è identificata con il monte Tabor4, peraltro già menzionato nel salmo 89,13. C’è in questa salita sul monte l’eco di tutti i racconti di teofania, di rivelazione di Dio dell’Antico Testamento: rivelazione sui monti Sinai e Oreb, che sono un’unica montagna (cf. Es 3,1) salita e discesa da Mosè (cf. Es 19-34 passim) e da Elia (cf. 1Re 19,1-18); rivelazione sulla “montagna della dimora del Signore elevata al di sopra dei monti” (Is 2,2; Mi 4,1)… Dunque questa salita, che Marco e Matteo sottolineano essere diretta verso “un luogo in disparte” (cf. Mc 9,2; Mt 17,1) e Luca specifica avere come fine la preghiera (cf. Lc 9,28), è finalizzata a un evento importante, in cui i discepoli beneficeranno di una rivelazione fatta da Dio, di un’epifania che riguarda il loro maestro, confessato poco prima da Pietro come Messia-Cristo (cf. Mc 8,29 e par.). Ed ecco che, mentre Gesù era in preghiera, “fu trasfigurato” (passivo divino metemorphóthe: Mc 9,2; 4 Si veda, per esempio, il cosiddetto Vangelo degli ebrei, citato da Origene, Omelie su Geremia XV,4,21-26, in Id., Homélies sur Jérémie, a cura di P. Husson e P. Nautin, SC 238, Cerf, Paris 1977, p. 122.
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Mt 17,2), subì un mutamento di forma nei vestiti e nel corpo. Luca, temendo che i lettori dell’evangelo comprendano questo evento come un mito, una metamorfosi alla stregua dei riti pagani greci, preferisce usare un’espressione più neutra: “l’aspetto del suo volto divenne altro” (héteros: Lc 9,29). Qui riscontriamo come l’evento sia in realtà inesprimibile e come il linguaggio degli evangelisti sia inadeguato: Matteo parla di “vestiti bianchi come la luce”, Marco li descrive “splendenti, bianchissimi, quali non li potrebbe rendere nessun lavandaio sulla terra”, Luca li definisce “sfolgoranti”. I tre racconti tentano dunque di descrivere la luce di questi vestiti, certamente non dimenticando che la luce è il mantello di cui si riveste Dio (cf. Sal 104,2); in profondità, però, la sorgente di questa luce è Gesù stesso: ecco perché il corpo di Gesù fu trasfigurato (Mc e Mt), il suo volto brillò come il sole (Mt) e l’aspetto del suo volto divenne altro (Lc). Invece del corpo e del volto umano, quotidiano di Gesù come lo conoscevano i discepoli, il mutamento fornisce la visione di un volto altro, luminoso, un volto trasfigurato da un’azione che poteva essere solo divina. Se Paolo nell’inno della Lettera ai Filippesi confessava: Colui che era nella forma di Dio (en morphê theoû) non ritenne un possesso geloso la sua uguaglianza con Dio. Ma egli svuotò se stesso, prendendo forma di schiavo (morphè doúlou), diventando simile agli uomini, riconosciuto nella forma come uomo (Fil 2,6-7),
ora nella trasfigurazione colui che aveva la forma di schiavo riprende la sua forma di Dio e risplende di luce divina. Già Origene aveva osservato come la trasfigurazione richiami il testo appena citato. Egli scrive: 37
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Tu tenti di sapere se i discepoli, quando Gesù si trasfigurò davanti a quelli che aveva fatto salire sull’alta montagna, videro Gesù sotto la forma di Dio, quella che era la sua prima, avendo egli preso quaggiù la forma di schiavo? Ebbene, ascolta queste parole, se tu sei capace, in un senso spirituale, e nota che non è detto solo “fu trasfigurato”, bensì “fu trasfigurato davanti a loro”, come dicono Matteo e Marco. Tu dunque concluderai che è possibile che Gesù davanti ad alcuni sia trasfigurato e davanti ad altri non lo sia5.
Qualcosa della gloria, della luce di Dio risplende in Gesù, per quanto era possibile vedere ai discepoli: Gesù appare nella forma di uno dei “giusti splendenti come il sole nel regno del Padre loro” (cf. Mt 13,43), come lui stesso aveva rivelato; appare come uno dei santi sapienti “splendenti nel firmamento … come stelle per sempre” della visione di Daniele (Dn 12,3). Ciò che accade è dunque una vera cristofania, anzi una teofania come quelle raccontate nell’Antico Testamento, di cui beneficiarono Mosè (cf. Es 3,1-15; 34,5-28), Elia (cf. 1Re 19,1-18) e gli altri profeti, soprattutto Isaia (cf. Is 6) ed Ezechiele (Ez 1).
Mosè ed Elia, la Legge e i profeti
Quando si è operata la trasfigurazione di Gesù, in qualche modo “si sono aperti cieli” (cf. Mc 1,10 e par.) e sono apparsi Mosè ed Elia che si intrattenevano con Gesù (cf. Mc 9,4 e par.). Mosè il legislatore, dunque la Legge, è nominato più volte negli evangeli sinottici proprio in relazione alla Legge (cf. Mc
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Origene, Commento a Matteo XII,37,1-21 (su Mt 17,2).
L’evangelo della trasfigurazione …
1,44; 7,10 e passim), ma solo qui appare direttamente. Sull’alta montagna del Sinai-Oreb Mosè aveva ricevuto in dono diverse teofanie, e proprio per la sua intimità con Dio aveva ricevuto in dono anche la luminosità del volto, che i figli di Israele non potevano sostenere (cf. Es 34,29-35). Egli era pure il profeta atteso alla fine dei giorni, quando – secondo il Poema delle quattro notti nel Targum a Esodo 12,42 – sarebbe salito dal deserto, mentre il Re Messia sarebbe sceso dall’alto6. Mosè era dunque atteso per i tempi messianici, quando sarebbe sorto il profeta simile a lui, cui doveva andare l’ascolto del popolo santo di Israele: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me: ascoltatelo!” (Dt 18,15). Ma Mosè era anche colui che aveva pregato Dio: “Fammi vedere la tua gloria!” (Es 33,18), sentendosi da lui rispondere: “Non è possibile vedere la mia gloria e restare in vita … Tu vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere” (Es 33,20.23). Nell’evento della trasfigurazione Mosè è presente, vivente nel mondo di Dio, e vede finalmente la gloria di Dio, Gesù Cristo, che in quell’ora appare come “la gloria del Dio invisibile” (cf. Eb 1,3), “il Signore della gloria” (1Cor 2,8), colui sul volto del quale “brilla lo splendore della gloria di Dio” (cf. 2Cor 4,6). Accanto a Mosè appare Elia, il prototipo dei profeti, anche lui salito sulla montagna di Dio per una rivelazione nella “voce di un silenzio sottile” (1Re 19,12), anche lui atteso alla fine dei tempi “prima che venga il giorno grande e terribile del Signore” (Ml 3,23) e che “si levi per quelli che temono il nome di Dio il ‘Sole di giustizia’ nei cui raggi sta la salvezza” (Ml 3,20; cf. anche Sir 48,10-11). Elia rappresenta e sintetizza in sé tutta la profezia dell’Antico Testamento, quella che si era chiusa con Giovanni Battista, visto e identificato come “nuovo Elia”
6
Cf. R. Le Déaut, La nuit pascale, Pontificio istituto biblico, Roma 1963, pp. 263-338.
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Enzo Bianchi
(cf. Mt 11,14; 17,10 ss.), precursore di Gesù nella vita, nella predicazione del Regno veniente, nella testimonianza e nella morte violenta. Mosè ed Elia, la Legge e i profeti che sintetizzano tutte le Scritture di Israele, il Primo Testamento, sono accanto a Gesù come testimoni e interpreti. Anzi, in quel loro “intrattenersi”, in quel loro “parlare insieme” (synlaleîn: cf. Mc 9,4 e par.) a Gesù mostrano un’autentica interpretazione spirituale in atto: Gesù è l’ermeneuta della Legge e dei profeti che sempre, “cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiega in tutte le Scritture ciò che si riferisce a lui” (cf. Lc 24,27); e Mosè ed Elia, definiti da Luca “due uomini”, sono coloro che, presenti accanto alla tomba vuota, interpreteranno le parole dette da Gesù nella sua vita e lo proclameranno crocifisso-risorto (cf. Lc 24,4-7). Proprio in quest’ottica, nel racconto della trasfigurazione Luca specifica che Mosè ed Elia “parlavano con Gesù del suo esodo (élegon tèn éxodon autoû), che stava per compiere a Gerusalemme” (Lc 9,31). Dunque la Legge e i profeti testificano la necessitas passionis di Gesù, lo indicano come il Servo del Signore che deve passare attraverso la kenosi e l’innalzamento, e così mostrano la continuità della fede tra Antica e Nuova Alleanza. Le attese messianiche di Israele sono veramente compiute, e Gesù il Messia appare come l’esegesi vivente e il compimento autentico delle Scritture. Con questa convinzione Origene può commentare: Se si comprende e si contempla il Figlio di Dio trasfigurato al punto che il suo viso sia sole e i suoi vestiti bianchi come la luce, si vedranno, contemplando Gesù in questa forma, Mosè la Legge ed Elia, che non è un profeta solo ma li rappresenta tutti, mentre conversano con Gesù … E se qualcuno ha visto la gloria di Mosè, poiché ha compreso che la Legge spirituale è tutt’una con la parola di Gesù, e ha compreso che nei profeti la sapienza è nascosta nel mistero (1Cor 2,7), allo40
L’evangelo della trasfigurazione …
ra egli ha visto Mosè ed Elia nella gloria, proprio vedendoli con Gesù7.
Come dimenticare il mosaico di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna, dove da una parte e dall’altra della croce gloriosa stanno Mosè ed Elia, mentre sotto di essa stanno tre pecore, che raffigurano i tre testimoni della trasfigurazione? In quest’opera Gesù è rappresentato dalla croce, il soggetto della conversazione tra Mosè ed Elia: si tratta davvero di un’interpretazione figurativa straordinaria e altamente teologica! E proprio perché questa visione diventi pienamente realtà, “Pietro, prendendo la parola, dice a Gesù: ‘Maestro, è buona cosa per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia’” (Mc 9,5 e par.). Egli crede forse che sia giunta la fine dei tempi? Pensa alle tende della festa di Sukkot, festa carica di senso escatologico? Pensa di erigere per Gesù, Mosè ed Elia la tenda dell’incontro fatta da Mosè per incontrare Dio (cf. Es 33,7-11)? In ogni caso Pietro, Giacomo e Giovanni “non sanno rispondere” a quell’evento, come nell’ora del Getsemani – si noti che ricorre la stessa espressione in Marco 9,6 (ou édei tí apokrithê) e 14,40 (ouk édeisan tí apokrithôsin)! –, e sono presi da spavento per la rivelazione di cui sono destinatari, lo stesso spavento provato dalle donne nell’alba di Pasqua (cf. Mc 16,5.8).
La nube dello Spirito e la voce del Padre
Mentre Pietro sta parlando, ecco arrivare “una nube che coprì tutti nella sua ombra, e dalla nube venne una voce: ‘Questi
7
Origene, Commento a Matteo XII,38,29-37.43-49 (su Mt 17,2-3).
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Enzo Bianchi
è il mio Figlio, l’amato (l’eletto, secondo Lc 9,35), ascoltatelo!’” (Mc 9,7; cf. Mt 17,5). Sullo sfondo della pericope vi è sempre il racconto della teofania rivolta sul Sinai a Mosè: sull’alta montagna c’era una nube che la copriva (cf. Es 19,16; 20,21; 24,15 e passim), una nube simbolo della presenza di Dio, segno del Dio che è sceso, si è avvicinato agli uomini, e tuttavia resta nascosto, santo, separato dal mondo. Questa nube che sul monte indicava la dimora di Dio (cf. il verbo shakan, da cui Shekinà) passò sul tabernacolo costruito da Mosè nel deserto (cf. Es 40,34-35) e, nell’ora della dedicazione del Tempio, riempì il Santo (cf. 1Re 8,10-12). Questa nube è dunque la presenza di Dio, letta dalla tradizione rabbinica come presenza attraverso lo Spirito santo, è la gloria stessa di Dio. L’introito della messa latina giustamente dice: “Lo Spirito santo apparve nella nube luminosa e la voce del Padre risuonò…”. Nell’evento della trasfigurazione la Shekinà viene a testimoniare che Dio è presente e adombra, proietta la sua ombra sui personaggi di quell’evento. Siamo di fronte a un ossimoro: è “una nube luminosa”, specifica Matteo, eppure fa ombra (cf. Mt 17,5); la precisazione di Matteo sarà cara alla tradizione cristiana proprio in quanto definizione della conoscenza e della visione di Dio… Questa è dunque la risposta alle parole di Pietro: non tre tende fatte da mano d’uomo, ma una nube, la Shekinà di Dio. Ecco la realtà ultima e definitiva: non più una tenda, non più un Tempio, non più un Santo dei santi, ma la Shekinà, la dimora-presenza di Dio è in Gesù Cristo, lui che è dimora, tempio e presenza! Dirà Gesù secondo il quarto evangelo alla samaritana: “Donna, viene l’ora, anzi è già venuta, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito (cioè nello Spirito santo) e nella Verità (che è Gesù Cristo)” (Gv 4,23). E dalla nube della presenza di Dio ecco venire la voce del Padre, la parola di Dio stesso. Gesù aveva già ascoltato questa parola dal Padre nel battesimo, nell’immersione ricevuta da Giovanni Battista; allora i cieli si erano aperti e la voce aveva di42
L’evangelo della trasfigurazione …
chiarato a Gesù solo: “Tu sei il Figlio mio, l’amato, in te mi sono compiaciuto” (Mc 1,11; Lc 3,22; cf. Mt 3,17). Di fatto la voce del Padre allora aveva ripetuto le parole dette sul Servo del Signore: “Ecco il mio Servo che io sostengo, in cui si compiace la mia anima” (Is 42,1), attestando che il Figlio di Dio è il Servo del Signore. Ora questo viene annunciato ai tre discepoli, tra i quali vi è Pietro che poco prima si era rivolto a Gesù chiamandolo “Rabbi, Maestro” (Mc 9,5). Colui che i discepoli avevano seguito, coinvolti nella sua vita, colui che avevano ascoltato e visto agire come maestro, profeta, Messia, è rivelato dal Padre come “Figlio amato” e “Servo del Signore”. Sì, attraverso la rivelazione del Padre Gesù appare insieme come il Messia intronizzato del salmo 2,7 (“Tu sei mio Figlio, io oggi ti ho generato”) e come il Servo che Dio stesso presenta a Israele tramite il profeta Isaia (cf. Is 42,1-9). Vi è qui l’incrociarsi delle diverse attese messianiche di Israele: quella di un Messia regale, quella di un Messia profetico, quella di un Messia escatologico. Per questo ormai può risuonare l’invito: “Ascoltatelo!”, che è l’eco della parola di Dio riguardo al profeta escatologico (cf. Dt 18,15) ed è anche l’eco dello Shema Jisrael: “Ascolta, Israele…” (Dt 6,4). Ormai l’ascolto di Dio stesso è ascolto di Gesù, del Figlio, della Parola vivente di Dio! Mosè ed Elia, la Legge e i profeti, cedono il posto a Gesù dopo avergli reso testimonianza, perché ormai è lui l’esegesi del Padre (exeghésato: Gv 1,18); è lui, Gesù, che può dire in verità chi è Dio ed evangelizzarlo, renderlo cioè buona notizia per tutti gli uomini; il comando di Dio Padre: “Ascoltatelo!” significa che Gesù è il Logos, la Parola definitiva. Ma la visione svanisce, e Gesù è di nuovo contemplato “solo” nella quotidianità umile della natura umana (cf. Mc 9,8 e par.). Poi, “mentre scendono dall’alta montagna, Gesù ordina ai tre discepoli di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti” (cf. Mc 9,9). La rivelazione è stata straordinaria, ma deve restare 43
Enzo Bianchi
sotto silenzio, perché non sia svelato il segreto messianico prima dell’ora della resurrezione. Ma i discepoli, sempre preda del loro intontimento, della loro mancanza di fede, si chiedono cosa possa significare “rialzarsi dai morti” (cf. Mc 9,10).
Conclusione. La portata cristologica dell’evento della trasfigurazione
Dopo questa lettura puntuale dei racconti sinottici della trasfigurazione, vorrei concludere evidenziandone semplicemente il messaggio. Innanzitutto contemplare la trasfigurazione significa comprendere con una maggior profondità l’evento del battesimo di Gesù. La parola di Dio rivela l’identità di Gesù: egli è il Figlio di Dio che deve fare esodo, cioè patire-morire-risorgere. Nello stesso tempo l’evento della trasfigurazione annuncia ciò che accadrà a Gerusalemme, quando nell’ora della croce il centurione confesserà: “Veramente quest’uomo è il Figlio di Dio!” (Mc 15,39; Mt 27,54). Sì, l’evento della trasfigurazione è memoriale del battesimo e oracolo della croce, e la posizione centrale assegnatogli dagli evangelisti vuole proprio indicare questa sua qualità di memoriale e di profezia, di compimento di ciò che è stato detto nel battesimo e di anticipazione di ciò che avverrà nella resurrezione e nella parusia. Ma la trasfigurazione è anche mistero di luce, che illumina tutto il corpo (Israele e la chiesa; Mosè, Elia e i discepoli) insieme al capo. Infatti il Primo Patto testimonia e Gesù interpreta il Primo Patto; i discepoli, a loro volta, accolgono Gesù, accolgono la testimonianza delle Scritture e accolgono il comando del Padre in vista dell’ascolto del Figlio. Non c’è immagine biblica più efficace per narrare l’unità della fede nei due Testamenti, la centralità di Gesù il Messia, la pienezza della rivela44
L’evangelo della trasfigurazione …
zione in lui, l’essere un solo corpo da parte dei credenti che nell’Antico Testamento attendevano il Messia e nel Nuovo lo confessano e lo annunciano. E infine la trasfigurazione è mistero di trasformazione: il nostro corpo e questa creazione sono chiamati alla trasfigurazione, a diventare “altro”; il nostro corpo di miseria diventerà un corpo di gloria (cf. Fil 3,21), e “la creazione che geme e soffre nelle doglie del parto” (cf. Rm 8,22) conoscerà il mutamento in “cielo nuovo e terra nuova” (Ap 21,1). Ciò che è avvenuto sul monte Tabor in Gesù Cristo avverrà per tutti i credenti e per il cosmo intero alla fine della storia. Nell’attesa di quel giorno a noi non resta che contemplare, per quanto ne siamo capaci, “il volto di Cristo su cui risplende la gloria di Dio” (cf. 2Cor 4,6): così, “riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasfigurati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, attraverso l’azione dello Spirito santo” (cf. 2Cor 3,18). Così nella tua luce vediamo la luce, Signore (cf. Sal 36,10)!
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LA TRASFIGURAZIONE DEL SALVATORE NELLA LITURGIA E NELL’INNOGRAFIA BIZANTINA Konstantinos Karaisaridis*
Introduzione
La Divina liturgia, con tutti i suoi riti, i simboli, l’azione sacra e liturgica, pone davanti ai nostri occhi l’intera vita di Cristo dalla nascita all’ascensione. Per questo anche Teodoro Studita chiama la Divina liturgia “sacramento che è sintesi di tutta l’economia”1. In termini simili si esprime anche Nicola Cabasilas; quando elenca tutte le tappe della vita terrena del Signore, che vengono rappresentate nella Divina liturgia, egli ricorre all’immagine del corpo umano che, composto da molte membra, forma un tutt’uno. Così anche la Divina liturgia, secondo Nicola Cabasilas, pone davanti a noi l’opera del Salvatore; essa mette sotto i nostri occhi le diverse membra di questo corpo, dall’inizio alla fine, secondo il loro ordine e la loro armonia2. * Protopresbitero dell’arcidiocesi ortodossa di Atene, insegna liturgia presso l’Università di Tessalonica. Traduzione dall’originale greco. 1 Teodoro Studita, Antirretico 1,10, PG 99,340C. 2 Nicola Cabasilas, Commento della divina liturgia 1, a cura di A. G. Nocilli, Messaggero, Padova 1984, p. 60.
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Konstantinos Karaisaridis
Uno dei momenti gloriosi della vita del Signore è la sua trasfigurazione. Questo evento, che viene celebrato dalla chiesa il 6 agosto3, verrà trattato in una duplice ottica: presenteremo cioè la trasfigurazione del Signore nella Divina liturgia da una parte, e nell’innologia della festa dall’altra. L’intera Divina liturgia può essere compresa, secondo Alexander Schmemann, come un viaggio o una processione, un trasferimento della chiesa nella dimensione del Regno. Dal momento in cui i fedeli lasciano il loro letto, la loro casa, il mondo presente e concretissimo della corruzione, iniziano un cammino che li porta a formare la chiesa o a essere trasformati in chiesa di Dio. Erano singoli individui, diversi tra loro e ora sono chiamati a diventare una nuova comunità con una nuova vita4. Dall’altro lato l’innologia prevista, che è un commento teologico e spirituale alla festa della Trasfigurazione, oltre a chiarire i diversi aspetti dell’evento celebrato, intende sollecitare i credenti a partecipare all’evento celebrato e a riviverlo in comunione con il Cristo trasfigurato, lasciandosi essi stessi trasfigurare. La festa della Trasfigurazione del Signore, come ricorda il teologo mistico rumeno del secolo scorso Nichifor Crainic, è di importanza capitale: La scienza e la fede, l’obbedienza ai comandamenti e le invenzioni dell’uomo, la preghiera e la contemplazione, l’esistenza del singolo e l’intera vita storica, tutto converge al monte Tabor, dove avvenne la divina trasfigurazione, cioè dove avvenne il prodigio della glorificazione anticipata per mezzo
3 Le prime menzioni della festa le troviamo nella prima metà del v secolo; nella letteratura patristica del tempo (Proclo di Costantinopoli, Cirillo di Alessandria, Leone Magno) vi sono, infatti, discorsi consacrati a essa. La festa della Trasfigurazione del Signore si diffonde in tutto l’oriente nell’viii secolo (cf. E. Braniîte, Liturgica Generalã, Bucure s¸ ti 1985, p. 207). 4 Cf. A. Schmemann, Il mondo come sacramento, Queriniana, Brescia 1969, pp. 25-27.
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La trasfigurazione del Salvatore nella liturgia …
della luce della vita futura. Il principio che si trova alla base di questo orientamento è la fede nella trasformazione della natura creata dalla corruzione all’incorruzione, dalla caducità all’eternità, dal peccato alla santità, dalla condizione umana alla condizione divina. Per l’ortodossia il prodigio della trasfigurazione sul monte Tabor, insieme alla resurrezione del Signore, mostra nella storia la vita futura e la gloria celeste di quella vita5.
La trasfigurazione di Cristo nella liturgia bizantina
La trasfigurazione nella “proskomidí ” La proskomidí (preparazione dei doni) come viene celebrata oggi in conformità alla tradizione liturgica bizantina è una celebrazione completa, autonoma. Certamente il suo elemento principale è dato dalla preparazione dei doni eucaristici, la loro destinazione, la loro dedicazione e la loro preliminare benedizione, affinché diventino degni di essere inseriti nel processo di santificazione. Gli stessi doni eucaristici, mentre si trovano ancora nelle mani dei fedeli, prima della loro offerta nella celebrazione, sono già immessi in un cammino di trasfigurazione. Così il grano e l’uva, attraverso l’intervento umano e la loro dedicazione a Dio, diventano pane e vino e, una volta trasfigurati, rappresentando in questa forma la stessa esistenza umana che viene offerta in sacrificio6, sono consegnati alle mani del celebrante per essere inseriti nel processo di trasfigurazione. Tutto lo svolgi-
5 6
N. Crainic, Sfin¸tenia-Împlinirea Umanului, Ia s¸ i 1993, p. 111. Cf. Nicola Cabasilas, Commento della divina liturgia 1-3.
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Konstantinos Karaisaridis
mento della proskomidí ha quale centro la persona di Cristo. Più concretamente rappresenta tutte le tappe della sua vita terrena, dalla nascita fino alla divina passione e alla resurrezione. L’agnello dell’offerta non è semplicemente un pane benedetto, ma simbolizza Cristo nella sua nascita, nel sacrificio, nella resurrezione; per questo vengono rappresentati accanto a lui la Madre di Dio, nella forma della particella a lei dedicata, e i nove ordini di angeli e di santi. Se poi vengono offerte anche le particelle che rappresentano il vescovo del luogo e quelle dei fedeli viventi e defunti, allora vediamo l’intera chiesa radunata sopra il santo disco. L’immagine completa del Signore, attorniato dalla Madre di Dio e dalla chiesa trionfante e militante, costituisce una pregustazione dell’immagine del regno di Dio con la differenza che ora il Signore, invece di sedere sul trono celeste, siede sul santo disco. Per questo nella tradizione liturgica e nella spiritualità bizantina si dà molta importanza al ricordo dei nomi al momento dell’offerta, poiché i fedeli, nel nome e in virtù del sacrificio di Cristo, ne ricevono un grande aiuto spirituale. Potremmo dire senza esagerazione che anche per questo segno, cioè per l’estrazione delle particelle e il ricordo al momento della proskomidí, i fedeli stessi entrano nel processo della loro trasfigurazione7.
La trasfigurazione nella lettura dei testi biblici Nella seconda parte della Divina liturgia, ove assistiamo alla lettura dei testi biblici, ecco che il Signore insegna alla comunità cristiana, come insegnava un tempo durante la sua vita terrena alle folle di ebrei che avevano fame di ascoltare la parola di Dio. La preghiera che precede la lettura del passo evangeli-
7 Cf. K. Karaisaridis, Αναβαθμο Λειτουργικς Ζως, Thessaloniki 2007, pp. 58 ss., nn. 105 ss.
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La trasfigurazione del Salvatore nella liturgia …
co è quanto mai indicativa dello scopo e del ruolo delle letture bibliche nell’assemblea. Essa inizia con queste parole: “Fa’ risplendere nei nostri cuori, o sovrano amico degli uomini, la pura luce della tua divina conoscenza, e apri gli occhi della nostra mente alla comprensione dei tuoi evangelici annunzi”8. Il presbitero chiede a Cristo di illuminare con la sua luce i cuori e di aprire gli occhi della mente dei credenti affinché penetrino il senso spirituale degli insegnamenti dell’evangelo. La seconda frase della preghiera, poiché presuppone l’illuminazione e la grazia di Cristo, chiede in concreto i frutti che derivano dalla grazia e dalla luce di Cristo. Chiede che venga dato ai fedeli il timore salvifico di Dio che conduce all’osservanza dei divini comandamenti, poiché con la fedele osservanza di questi, l’uomo comincia a calpestare “le concupiscenze carnali”, acquista cioè il dominio sulle sue passioni e partecipa “a un modo di vita spirituale”. In altre parole inizia a pensare e ad agire in accordo con la volontà di Dio e a rendere gloria con tutta la sua vita al santissimo nome di Dio. Che significa questo? È una reale trasfigurazione, una cristificazione dell’essere umano. L’ultima frase della preghiera: “Poiché tu sei la luce delle anime nostre e dei nostri corpi, o Cristo Dio”9 è un’affermazione e una conferma dell’intero contenuto della preghiera10. Ora, dopo aver commentato questa preghiera, comprendiamo perfettamente la lode “Alleluja”, cioè “lodate il Signore”, che si 8 Divina liturgia di Giovanni Crisostomo, in La liturgia eucaristica bizantina, a cura di M. B. Artioli, Gribaudi, Torino 1988, p. 74. 9 Ibid. 10 Metallinos vede un’analogia tra questa preghiera e quella in cui si invoca lo Spirito santo per la trasformazione dei santi doni nell’anafora eucaristica (cf. G. Metallinos, Η θεολογικ μαρτυρα τς κκλησιαστικς λατρεας, Athinai 1995, pp. 134 ss.). A proposito della stessa preghiera riferiamo a titolo di informazione che J. Mateos, dopo un attento studio della tradizione manoscritta, è giunto alla conclusione che essa deve essere apparsa nella tradizione palestinese poiché è presente anche nella liturgia di Giacomo e fu quindi adottata anche dalla tradizione liturgica bizantina. Per maggiori informazioni cf. J. Mateos, La célébration de la Parole dans la liturgie byzantine. É´tude historique, Pontificio istituto orientale, Roma 1971, pp. 139-141.
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Konstantinos Karaisaridis
canta dopo la lettura dell’apostolo per nove volte, cioè tre volte tre. L’inno ci incita, infatti, a rendere gloria al Signore che, per mezzo dei santi apostoli, ci ha donato un insegnamento divino pari a quello degli insegnamenti evangelici. Comprendiamo parimenti anche le parole: “Gloria a te, Signore, gloria a te”11 che innalziamo a Dio in quanto comunità celebrante dopo l’ascolto dell’insegnamento evangelico. Queste parole della comunità che accompagnano le letture bibliche della Divina liturgia riflettono un’esperienza analoga a quella espressa nel grido di meraviglia proferito dagli ascoltatori contemporanei del Signore quando dissero: “Mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo!” (Gv 7,46), e: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!” (Lc 11,27). Sappiamo, inoltre, che la chiesa antica fondava su questa parte della Divina liturgia la catechesi rivolta a quanti aspiravano a diventare suoi membri, cioè i catecumeni. Non considerava dunque la lettura dei testi biblici come un momento di informazione e di aggiornamento sulla legge di Dio e sull’evangelo, ma aveva di mira la crescita spirituale dei catecumeni per mezzo dell’insegnamento evangelico e del mutamento che genera l’ascolto della parola di Dio e la trasformazione dell’uomo in conformità ai comandamenti in essa contenuti12. Per questo anche il diacono invita la comunità dei fedeli a pregare per i catecumeni: Fedeli, pregate per i catecumeni! Affinché il Signore abbia misericordia di loro, li catechizzi con la parola della verità, riveli loro l’evangelo della giustizia, li unisca alla sua santa chiesa cattolica e apostolica13.
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Divina liturgia di Giovanni Crisostomo, p. 75. Del resto, Massimo il Confessore vede emergere il bisogno spirituale solo dalla presenza delle persone nell’assemblea, perché si trovano in un ambito spirituale dove è in azione la grazia di Dio (cf. Massimo il Confessore, Mistagogia, PG 91,701 ss.). 13 Divina liturgia di Giovanni Crisostomo, p. 78. 12
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La trasfigurazione del Salvatore nella liturgia …
Contemporaneamente il presbitero prega sottovoce per i catecumeni: Guarda ai tuoi servi catecumeni che davanti a te hanno chinato il loro capo, e rendili degni, al tempo conveniente, del lavacro della rigenerazione, della remissione dei peccati e della veste dell’incorruttibilità. Uniscili alla tua chiesa santa, cattolica e apostolica e annoverali nel tuo gregge eletto14.
Il presbitero prega, dunque, per la loro reale trasfigurazione che avverrà con il santo battesimo. Se tentiamo un confronto tra la trasfigurazione operata da Cristo nel credente durante la proskomidí, di cui abbiamo parlato, e al momento della lettura dei testi biblici potremmo dire che nel corso dell’azione liturgica della proskomidí Cristo è nascosto nel santo bêma, nella próthesis, e l’azione trasfigurante sui cristiani è personale, mistica, sperimentata individualmente da ciascuno. Ora, con la lettura del santo evangelo, il Signore è presente dinanzi a noi in modo manifesto e al tempo stesso segreto, ci parla in prima persona, e quanti stanno attenti alle sue parole subiscono un mutamento spirituale e si trasformano in conformità ai suoi divini comandamenti. Del resto tutto lo svolgimento del piccolo ingresso, in accordo con l’ordo della liturgia bizantina, tende esattamente a questo, che perveniamo alla coscienza che il Signore si trova in mezzo a noi, ci istruisce con le sue parole divine e salvifiche e attende la nostra piena risposta e la nostra conformazione ai suoi divini comandamenti15.
14
Ibid., pp. 78-79. Secondo la comprensione ortodossa di questa parte della Divina liturgia, della lettura dell’evangelo, della liturgia della Parola, non vi è distinzione tra il Cristo presente attraverso i suoi evangeli e il Cristo che fra poco sarà offerto in sacrificio eucaristico. A questo proposito proponiamo un passo significativo del pensiero di S. Bulgakov: “I nostri uffici divini sono delle cristofanie … Qui non ha luogo soltanto un’edificazione, ma prima di tutto un certo compimento. Qui il santo evangelo non è un libro 15
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Konstantinos Karaisaridis
La trasfigurazione nella consacrazione delle specie eucaristiche Giunti ormai alla parte principale della Divina liturgia, la consacrazione dei santi doni, siamo invitati a partecipare a un processo non solo di mutamento ma di trasformazione di essi. La comunità attraverso il presbitero invoca l’invio dello Spirito santo sui fedeli e sui doni presenti. Per opera della grazia dello Spirito santo i santi doni vengono trasformati nel corpo e nel sangue di Cristo; quanto ai fedeli, si trovano in una posizione privilegiata rispetto ai tre discepoli del Signore che erano presenti alla sua trasfigurazione sul monte Tabor. Là “per quanto ne erano capaci”16, con la grazia di Cristo, i discepoli fecero l’esperienza, per un certo lasso di tempo, della gloria della forma divina. Qui, in ogni eucaristia, i fedeli possono avere dinanzi a sé, nella forma delle specie eucaristiche, lo stesso Signore risorto e asceso al cielo. Non solo, ma il Signore rimane sopra il trono terrestre della sua gloria, sul santo altare perennemente, perché, secondo la tradizione, durante la festa della divina eucaristia, il giovedì santo, vengono consacrati due agnelli; uno di essi viene spezzettato e collocato nel tabernacolo, sopra il santo altare e rimane là fino all’anno seguente in modo che i cristiani possano comunicarsi in ogni momento del giorno e della notte e, soprattutto, in ogni situazione di difficoltà. A questo punto, ritornando al tema della trasfigurazione, abbiamo – mi si consenta l’espressione – una trasfigurazione continua, una manifestazione di Cristo attraverso i membri della co-
sulla vita umana del Salvatore, ma questa vita stessa con i suoi eventi. Per quanto riguarda questo libro di vita, in tal senso, sono inadeguati e inopportuni tutti i tentativi della critica e dello studio scientifico, per quanto possano essere giustificati nel loro ambito particolare. Qui vi è l’immagine di Cristo non fatta da mani d’uomo, vivente e operante. L’evangelo è il Signore stesso in mezzo ai suoi fedeli” (cit. in B. Botte, H. Cazelles, J. Corbon et al., La Parole dans la liturgie, Cerf, Paris 1970, p. 153). 16 Órthros della festa della Trasfigurazione, in Anthologhion di tutto l’anno IV, a cura di M. B. Artioli, Lipa, Roma 2000, p. 868.
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La trasfigurazione del Salvatore nella liturgia …
munità. Vediamo, tuttavia, che nella preghiera di invocazione vi è una duplice richiesta: “Rendici degni di trovare grazia davanti a te, perché il nostro sacrificio ti sia accetto e lo Spirito buono della tua grazia riposi su di noi e sui beni qui presenti”17. Vale a dire, prima o contemporaneamente alla consacrazione dei santi doni, chiediamo al Signore di inviare lo Spirito santo su di noi, sulla comunità eucaristica. Questo significa che anche noi siamo coinvolti nel processo di trasfigurazione. Come Cristo dopo la consacrazione è presente nella forma dell’eucaristia davanti alla comunità, così anche la comunità è presente davanti a Cristo trasformata, santificata. Del resto, nel momento della consacrazione la comunità innalza le seguenti parole di ringraziamento e di lode: “Ti celebriamo, ti benediciamo, ti rendiamo grazie, o Signore, ti preghiamo, o Dio nostro”18. Come al momento della divina trasfigurazione i discepoli non volevano nient’altro se non rimanere in quella condizione deificata nella contemplazione del Cristo trasfigurato davanti a loro, così anche ora nella Divina liturgia, dinanzi alla grandiosa condiscendenza di Dio e all’altissima rivelazione della bontà e della misericordia divina nel salvare il mondo, i fedeli, pieni di stupore, fanno risuonare le parole dell’inno: “Ti celebriamo, ti benediciamo, ti rendiamo grazie, o Signore, ti preghiamo, o Dio nostro”. Con esso, si mostrano in sintonia con i discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni, testimoni della divina trasfigurazione sul monte Tabor (cf. Mc 9,2-8 e par.).
Trasfigurazione e divina comunione Cristo ormai si trova innalzato, sta sopra il santo altare e tra poco sarà offerto ai fedeli. Costoro, quando saranno chiamati a
17 18
Divina liturgia di Giovanni Crisostomo, p. 90. Ibid., p. 98.
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partecipare al corpo e al sangue di Cristo, potranno entrare in comunione con Cristo, diventare con-corporei e con-sanguinei con lui, divenire, secondo le parole dell’apostolo Pietro, “partecipi della natura divina” (2Pt 1,4). Poco prima di uscire dal sacro tempio canteranno con fede: Abbiamo visto la luce vera, abbiamo ricevuto lo Spirito celeste, abbiamo trovato la fede vera, adorando l’indivisibile Trinità, poiché essa ci ha salvati19.
Di che altro si tratta se non di una confessione, una constatazione della trasfigurazione? E affinché questa esperienza sia ancora più comprensibile, rinviamo alla visione e all’esperienza di Dio di Simeone il Nuovo Teologo che si esprime in modo così chiaro sulla trasfigurazione reale ed esistenziale dell’uomo quando entra in comunione con Dio; e anche nella divina comunione confessiamo: “Mi nutre e mi deifica il corpo di Dio: deifica lo spirito, e mirabilmente tutto l’intelletto”20. Vediamo ora il testo di Simeone il Nuovo Teologo: Siamo noi la casa di David, perché apparteniamo alla sua razza, poiché tu stesso, Creatore dell’universo, sei divenuto suo figlio e noi tuoi figli secondo la grazia. Tu sei della nostra razza quanto alla carne, noi della tua [quanto alla divinità, poiché, assumendo la nostra carne, tu ci hai donato il tuo [Spirito divino e, tutti insieme, siamo diventati l’unica casa di David … Di ciascuno tu fai la tua casa e abiti in tutti e diventi una casa per tutti e noi abitiamo in te, ciascuno di noi, o Salvatore, tutto intero con te, tutto intero;
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Ibid., p. 115. Ibid., p. 125.
La trasfigurazione del Salvatore nella liturgia …
con ciascuno di noi tu sei solo con lui solo e, al di sopra di tutti noi, sei solo tutto intero … Diventiamo membra di Cristo e Cristo diventa nostre membra; Cristo diventa la mia mano, Cristo diventa il mio piede, di [me sciagurato e la mano di Cristo, il piede di Cristo sono io, sventurato! Muovo la mano e la mia mano è il Cristo tutto intero, poiché, non dimenticarlo, Dio nella sua divinità è invisibile; muovo il piede ed ecco che risplende come Cristo. Non accusarmi di bestemmiare, ma accogli quanto dico e adora Cristo che ti rende tale, poiché, se lo vuoi, diventerai membro di Cristo e così tutte le membra di ciascuno di noi diventeranno membra di Cristo e il Cristo nostre membra e tutto ciò che in noi è indegno lo renderà degno adornandolo con la sua bellezza e la sua gloria divine e, vivendo con Dio, diventeremo dèi senza più vedere la vergogna del nostro corpo ma resi tutti simili a Cristo in tutto il nostro corpo e ciascun membro del nostro corpo sarà il Cristo tutto intero, perché divenendo molte membra, rimane unico e indivisibile e ogni parte è lui, il Cristo intero21.
La trasfigurazione del Salvatore nell’innografia bizantina
L’innografia del giorno è ricca sia per la struttura sia per il contenuto. Essa comprende il piccolo vespro, il grande vespro con tre letture dell’Antico Testamento, la lití, gli apósticha, l’a-
21 Simeone il Nuovo Teologo, Inni 15,118-123.132-136.141-159, in Id., Hymnes I, a cura di J. Koder, SC 156, Cerf, Paris 1969, pp. 286-290.
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kolouthía completa del mattutino con due canoni di importanti innografi, uno di Cosma e uno di Giovanni di Damasco22, gli stichirá delle lodi e i tropari doxastiká per i vespri e per l’órthros. Tenendo conto del calendario liturgico, se la festa cade in giorno di domenica, vengono tralasciati i tropari della resurrezione, in quanto la festa della Trasfigurazione è anch’essa una solennità festa del Signore. L’intera celebrazione ha un tono festoso e gioioso come è richiesto teologicamente e spiritualmente dall’evento celebrato.
Descrizione del nucleo storico della festa Prima che avesse luogo la trasfigurazione del Signore sul Tabor vi erano elementi che la preannunciavano, manifestazioni di Cristo nella gloria, come Parola incorporea di Dio sul monte Sinai. Le esperienze teofanice del profeta Mosè nel roveto ardente (cf. Es 3,1-6), nella nube del Sinai (cf. Es 24,12-18) e nella colonna di nube alla tenda del convegno (cf. Es 33,8-11), e quella di Elia nella brezza leggera (cf. 1Re 19,12-13), vengono qui richiamate e messe in relazione con la trasfigurazione, poiché è la medesima persona che opera in questi eventi. Così, subito dopo, si precisa che Mosè ed Elia “hanno attestato che
22 I canoni vanno attribuiti, senz’ombra di dubbio, il primo a Cosma, vescovo di Maiuma, e il secondo a Giovanni di Damasco (cf. P. Trempelas, Εκλογ ρθοδ ξου µνογραφας, Athinai 1978, pp. 299, 231). Mpakos sostiene che Cosma di Maiuma volle imitare Giovanni di Damasco (E. Mpakos, Βυζαντιν Ποησις κα Εκονοµαχικα "ριδες, Athinai 1992, p. 196). Trempelas presenta tutte le opinioni degli antichi autori ecclesiastici e dei più recenti teologi contemporanei ed evidenzia le pregevoli caratteristiche di ciascuno dei due innografi (cf. P. Trempelas, Εκλογ, pp. 310 ss.). Anche Vintilescu propone un confronto presentando testimonianze che attestano che Cosma stesso si confrontava con Giovanni di Damasco e lo trovava superiore. Infine, egli trova una sola differenza tra i due innografi; egli sostiene che lo stile di Cosma si accorda meglio con la Quaresima, mentre quello di Giovanni con la Pasqua, come del resto risulta nel paraklitikí o októichos (cf. P. Vintilescu, Poezia Innografica˘, Cluj-Napoca, p. 72).
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La trasfigurazione del Salvatore nella liturgia …
tu sei, o Cristo, l’autore della Legge e dei profeti”23. Cristo è colui “che un tempo aveva parlato mediante la Legge e i profeti”24. La stessa espressione la reincontriamo con un piccolo mutamento: “aveva parlato” (lalésas) diventa “aveva conversato” (sullalésas)25. Chiaramente qui si sottolinea il senso della conversazione, la comunione di Mosè con Dio. Le tre letture dell’Antico Testamento riferiscono l’esperienza della visione di Dio da parte di Mosè sul Sinai (Es 24,12-18; 33,18-23; 34,48) e di Elia sull’Oreb (1Re 19,3-16). Nel secondo tropario degli apo´sticha del grande vespro si pone un legame tra la trasfigurazione e gli annunci del profeta David e, soprattutto, si ricordano il Tabor e l’Ermon26. Soggiacente all’intera akolouthía è il ricordo dell’esperienza della visione di Dio, in particolare quella di Mosè 27 per poi passare da esso all’evento della festa, la trasfigurazione sul monte Tabor. Numerosi inni, nella loro interezza o in parte, fanno riferimento all’evento e alle circostanze della trasfigurazione del Salvatore. Si tratta di una trasposizione in forma di inno dei racconti evangelici (Mt 17,1-8; Mc 9,2-8; Lc 9,28-36), che descrivono la trasfigurazione del Signore. Anche l’Evangelo di Giovanni parla di essa per mezzo dei frequenti riferimenti alla luce in opposizione alla tenebra28. Il sinassario del giorno, in piena sintonia con i racconti evangelici sopra ricordati, descrive la “trama” della festa come segue: 23
Grande vespro della Trasfigurazione, in Anthologhion IV, p. 861. Ibid., p. 857. 25 Ibid., p. 861. 26 Cf. ibid. 27 Si veda tutta la prima ode del secondo canone, il terzo tropario della terza ode del primo canone e il primo della stessa ode del secondo canone, il primo e il quarto tropario della quarta ode del primo canone, eccetera. 28 Per ulteriori informazioni riguardo ai riferimenti indiretti del Nuovo Testamento alla trasfigurazione del Signore, cf. D. Tzerpos, Η ορτ τ ς Μεταµορφσεως το 24
Κυρου. Τ Χριστιανικν ορτολγιον. Πρακτικ" Η’ Πανελληνου Λειτουργικο Συµποσου στελεχ*ν Iερ*ν Μητροπλεων (Βλος), 18-20 Σεπτεµβρου 2006, Athinai
2007, p. 241; si vedano anche le note ove sono segnalati altri studi biblici.
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Poiché Cristo aveva a lungo parlato ai suoi discepoli dei pericoli, della morte, della sua passione e dell’uccisione dei suoi discepoli, e tutto questo sarebbe accaduto nella vita presente e nel volgere di breve tempo, i beni invece erano oggetto di speranza, volendo mostrare e manifestare loro il suo aspetto, quale fosse quella gloria con la quale sarebbe venuto, li condusse in disparte su un alto monte e si trasfigurò davanti a loro e il suo volto risplendette come sole, le sue vesti divennero bianche come la luce e apparvero Mosè ed Elia che conversavano con lui. Prese con sé soltanto tre discepoli che si distinguevano dagli altri: Pietro, per il suo grande amore (cf. Gv 21,15-19); Giovanni perché era molto amato (cf. Gv 13,23); Giacomo perché poteva bere il calice che anche il Signore avrebbe bevuto (cf. Mt 20,22). Il racconto introduce le figure di Mosè e di Elia per correggere le idee distorte che molti avevano del Signore. Poiché infatti alcuni dicevano che lui era Elia, altri Geremia (cf. Mt 16,14), Cristo condusse i due corifei perché vedessero il servo e Signore qui nel mezzo e perché imparassero che egli è colui che ha potere sulla morte e sulla vita29.
È esattamente questo l’evento storico che la festa descrive nei principali tropari della liturgia del giorno, negli stichirà prosómia e negli apo´sticha del vespro, nei tropari delle lodi, i doxastiká dove è descritta quasi tutta la festa, e naturalmente nei molti tropari dei due cantici, dove vi è un’allusione in ogni tropario. A titolo di esempio riportiamo il primo doxastikón degli stichirá del vespro: Prefigurando la tua resurrezione, o Cristo Dio, prendesti con te i tuoi tre discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni per salire sul Tabor. E mentre tu ti trasfiguravi, o Salvatore, il monte Tabor si ricopriva di luce. I tuoi discepoli, o Verbo,
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Sinassario del 6 agosto.
La trasfigurazione del Salvatore nella liturgia …
si gettarono a terra, non sopportando la vista della forma che non è dato contemplare. Gli angeli prestavano il loro servizio con timore e tremore; fremettero i cieli e la terra tremò, perché sulla terra vedevano il Signore della gloria30.
Vediamo che questo tropario comincia con la spiegazione del motivo, del perché della trasfigurazione, che è la prefigurazione della resurrezione e il conforto dei discepoli nell’ora della passione di Cristo. Nel doxastikón successivo, quello degli apo´sticha, questa introduzione alla scena della trasfigurazione è tralasciata, viene invece testimoniata la presenza del Padre, cosa che manca nel primo doxastikón. Si dice: “Udivano infatti una voce che dall’alto attestava: ‘Questi è il mio Figlio diletto, venuto nel mondo per salvare l’uomo’”31.
Analisi teologica dell’evento della trasfigurazione L’innografia della festa non si limita a descrivere l’evento storico della trasfigurazione, ma ne offre anche un’analisi teologica. Così il Padre, mentre annuncia che Cristo è il suo Figlio amato, lo manifesta anche “a lui consustanziale e con lui regnante”32. Nel terzo káthisma dell’órthros mattutino vediamo un riferimento al Figlio come Dio “la cui figliolanza per natura è stata proclamata dal Genitore”33, e i fedeli sono invitati a cantare insieme il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. Nell’exapostilárion del giorno il Figlio è chiamato “luce immutabile”34 ed è confessata la presenza del Padre e dello Spirito che partecipa-
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Grande vespro della Trasfigurazione, p. 857. Ibid., p. 862. 32 Órthros della Trasfigurazione, p. 872. 33 Ibid., p. 863. 34 Ibid., p. 871. 31
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no della stessa luce, luce della Trinità che illumina tutta la creazione. Per questo nel doxastikón della lití nel grande vespro è chiarissimo l’invito a cantare il Dio trinitario. Si dice: Venite, saliamo al monte del Signore, e alla casa del nostro Dio, e contempliamo la gloria della sua trasfigurazione, gloria come di Unigenito dal Padre; con la luce accogliamo la luce, e spiritualmente sollevati in alto, in eterno cantiamo la Trinità consustanziale35.
Dopo i riferimenti alla Trinità nella liturgia del giorno, l’intento primario dell’analisi teologica è quello di approfondire il mistero della persona di Cristo. La liturgia della festa della Trasfigurazione si presta a uno sviluppo di tutti gli aspetti della dottrina cristologica della chiesa. Di Cristo l’innografo dice: “Trasfigurandoti hai reso di nuovo radiosa la natura un tempo oscuratasi in Adamo”36. In un altro tropario troviamo un riferimento ancor più chiaro all’unità in Cristo delle nature umana e divina: “Tu che ti eri unito senza confusione alla natura umana, sul monte Tabor ci hai mostrato il carbone ardente della divinità che brucia i peccati”37. E naturalmente l’unione ipostatica delle due nature in Cristo portava alla divinizzazione dell’umana natura di Cristo; una delle conseguenze di questa unione è il fatto che la luce della natura divina viene impressa sulla persona di Cristo, che resta umana a vedersi, ma è colma di luce divina. Era tale e tanto grande la luce della risplendente natura divina nella persona di Cristo che i discepoli prescelti, testimoni della trasfigurazione, non potevano fissare lo sguardo su di
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Grande vespro della Trasfigurazione, p. 860. Ibid., p. 861. 37 Órthros della Trasfigurazione, p. 867. Nicodemo l’Aghiorita nell’Heortodrómion riporta anche un’altra grafia: migheîsa (oltre a michtheîsa); ma non vi è differenza di significato poiché si tratta di due tipi di aoristo dello stesso verbo (meígnumi). 36
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La trasfigurazione del Salvatore nella liturgia …
lui38. Vedevano “per quanto ne erano capaci”39, per quanto potevano resistere, per quanto era loro consentito dalla loro situazione spirituale. La trasfigurazione del Signore mostra con estrema chiarezza le conseguenze antropologiche e soteriologiche della divina incarnazione, ma di questo si parlerà nel paragrafo successivo. Infine, la trasfigurazione del Signore presenta una dimensione escatologica nel senso che manifesta la bellezza della natura umana come è stata realizzata in Cristo, e contemporaneamente il fine e il compimento di tutto l’impegno spirituale dell’uomo. Così, nel primo káthisma dell’órthros, sul fondamento della trasfigurazione del Signore viene prefigurata la trasfigurazione degli uomini giusti e amici di Dio, che staranno nella gloria davanti al Signore alla sua seconda venuta. Dice il tropario: “Per mostrare la trasformazione dei mortali assunti nella tua gloria, o Salvatore, al momento del tuo secondo avvento, sul monte Tabor ti sei trasfigurato”40.
L’appello alla trasfigurazione dell’uomo Se l’asse teologico fondamentale della festa è quello della trasfigurazione di Cristo, l’altro è quello della trasfigurazione del credente, di ciascuno personalmente. Questo vale certamente per ogni festa e tanto più per le cosiddette feste del Signore, le
38 La trasfigurazione del volto, oltre che in Mosè al momento in cui vede Dio, la troviamo anche in altri santi della chiesa; è il caso, ad esempio, di abba Sisoes (cf. Detti dei padri, Serie alfabetica, Sisoes 14) e di Serafim di Sarov nel famoso colloquio con Motovilov. 39 Órthros della Trasfigurazione, p. 868. 40 Ibid., p. 862. Il testo di 2Pt 1,16-18, secondo Despotis, non ha valore come descrizione dell’evento stesso della trasfigurazione, ma in quanto indicazione dell’evento come “parola profetica” che conferma la seconda venuta e, in generale, la potenza del Signore (cf. S. Despotis, Η Μεταµ ρφωση στ κατ Μρκον Εαγγλιο κα στς πιστολ ς το! Πα#λου, Wiesbaden 2000, p. 51).
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feste che si ricollegano alla persona di Cristo. Ogni festa del Signore possiede un significato teologico, qualcosa che il Signore ha operato a favore degli uomini. Così contemporaneamente emerge dalla festa anche un significato spirituale, l’indicazione, cioè, di quello che ogni uomo dovrebbe fare per avvicinarsi al senso teologico della festa e familiarizzarsi con esso. In tal senso, tutte le fasi della vita di Cristo Salvatore sono contemporanee e rappresentano un appello rivolto a ogni credente a seguire la via, le orme di Cristo (cf. 1Pt 2,21). In quest’ottica teologica e spirituale si muove sicuramente anche la festa della Trasfigurazione del Signore. La liturgia, grazie alla plasticità e all’espressività della lingua poetica, dopo o contemporaneamente alla presentazione della trasfigurazione di Cristo, invita anche alla trasfigurazione del credente. Questo appello risuona chiaramente sia all’inizio dei tropari – e così è mostrato subito, fin dall’inizio lo scopo del contenuto dell’inno –, sia alla fine in forma di conclusione, nell’intento di mostrare che tutto quanto precede ha senso a condizione che ne consegua la trasfigurazione del credente. Al primo tipo appartiene, ad esempio, il seguente inno del piccolo vespro: “Venite, dunque, e mutati del mutamento superno…”41. Nel doxastikón della lití appare l’invito diretto: “Venite, saliamo al monte del Signore, e alla casa del nostro Dio, e contempliamo la gloria della sua trasfigurazione…”42. Nel penultimo tropario del secondo canone della nona ode risuona l’esortazione poetica: Venite, datemi ascolto, o popoli, saliamo al monte santo, al monte celeste, teniamoci immaterialmente nella città del Dio vivente, e con l’intelletto contempliamo l’immateriale divinità del Padre e dello Spirito, sfolgorante nell’Unigenito Figlio”43.
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Vespro della vigilia della Trasfigurazione, in Anthologhion IV, p. 852. Grande vespro della Trasfigurazione, p. 860. 43 Órthros della Trasfigurazione, p. 870. 42
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In quest’ultimo tropario di Giovanni di Damasco vediamo chiaramente che il poeta ci invita ad ascoltare e a salire sul “monte celeste”, cioè sul Tabor spirituale per volgerci verso il cielo, alla condizione celeste. Più concretamente: “Teniamoci immaterialmente nella città del Dio vivente” e con ancora maggior chiarezza: “Contempliamo l’immateriale divinità”. Non si parla cioè di una generica ascesa spirituale, ma molto più chiaramente si fa riferimento al terzo stadio del processo spirituale che segue alla purificazione e all’illuminazione, cioè la divinizzazione. Lo afferma chiaramente la conclusione del tropario che ci invita a contemplare “l’immateriale divinità del Padre e dello Spirito, sfolgorante nell’unigenito Figlio”. Certamente queste parole non sono frutto di una licenza poetica, non si tratta di manifestazioni sentimentali, dal momento che in altri testi viene descritto anche il “come” dell’ascesa spirituale, della visione di Dio. Si parla cioè anche di purificazione e di illuminazione come presupposti indispensabili per questa ascesa. Nel primo stichirón del piccolo vespro la via verso l’ascesa spirituale è identificata con l’acquisto delle virtù: “Risplendenti per il fulgore delle virtù, saliamo al monte santo per vedere la divina trasfigurazione del Signore”44. La lotta per l’acquisto delle virtù, come tutti sappiamo, costituisce una solida e sicura base per la vita spirituale e rappresenta il nucleo centrale nello stadio della purificazione spirituale. Ma non solo, poiché tutto proviene dai pensieri, nel cammino verso la purificazione è necessario che anch’essi siano affrontati con discernimento spirituale. L’íkos della festa afferma: “Destatevi, o ignavi, non continuate a trascinarvi per terra; o pensieri che piegate a terra la mia anima, raddrizzatevi, e innalzatevi sino alla vetta della divina ascesa”45.
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Vespro della vigilia della Trasfigurazione, p. 852. Órthros della Trasfigurazione, p. 868.
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Certamente l’uomo, incostante nella sua fede, ha la mente ottenebrata e ha bisogno della luce di Cristo, della grazia dello Spirito santo non solo nel secondo stadio della vita spirituale, cioè nell’illuminazione, ma anche per decidersi a entrare nello stadio della purificazione e progredire realmente in essa. Per questo la liturgia del giorno, attraverso la ricchezza teologica e spirituale che la contraddistingue, si volge anche a chiedere la luce divina per realizzare il fine della vita spirituale. Nel secondo tropario della lití si rivolge a Cristo questa supplica: “Illumina anche noi con la luce della tua conoscenza, e guidaci sul sentiero dei tuoi comandamenti”46. Qui vediamo che viene chiesta la luce di Cristo non solo per entrare nella via della conoscenza divina ma anche per poterla mostrare nella propria vita, cioè per entrare nella via delle virtù. Nel doxastikón della lití si dice: “Con la luce accogliamo la luce, e spiritualmente sollevati in alto, in eterno cantiamo la Trinità consustanziale”47. Vale a dire che soltanto grazie all’illuminazione di Dio ci accosteremo alla luce increata e così trovandoci in questa altezza spirituale potremo adorare la Trinità divina in eterno.
Conclusione
Da un punto di vista teologico e spirituale la figura centrale della festa della Trasfigurazione del Salvatore è certamente Cristo. È lui che viene trasfigurato davanti ai suoi discepoli e, attraverso di essi, davanti a tutti gli uomini. E ugualmente nella Divina liturgia, che raffigura tutte le tappe della vita terrena del Si-
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Grande vespro della Trasfigurazione, p. 860. Ibid.
La trasfigurazione del Salvatore nella liturgia …
gnore ma contemporaneamente offre la possibilità di pregustare la vita eterna e predispone a essa, di nuovo il Signore è trasfigurato attraverso la sacra liturgia che ha luogo in mezzo all’assemblea sotto la guida del presbitero e giunge al punto di offrirsi alla comunione con i credenti perché anch’essi siano condotti alla trasfigurazione del loro essere. Ancora, l’innografia del giorno, come si è visto, non solo descrive il tempo e il modo della trasfigurazione di Cristo, ma parallelamente, o meglio contemporaneamente, intende guidare alla trasfigurazione di ogni membro dell’assemblea attraverso la preghiera, l’insegnamento, l’esortazione, e pure attraverso un’esperienza interiore. Vediamo così che l’eucaristia e l’innografia si completano vicendevolmente, concorrono al perseguimento di un solo e unico scopo, quello di lodare e adorare il Cristo trasfigurato, e di esortare infondendo speranza, di sostenere e consolidare la trasfigurazione del credente. Attraverso l’eucaristia e l’innografia del giorno la chiesa ci appare come una madre colma di affetto che, come dice l’apostolo Paolo, soffre le doglie del parto affinché Cristo sia formato in noi (cf. Gal 4,19). La trasfigurazione del Signore, mostrando dove può giungere l’uomo spirituale, è fonte di speranza e di forza per la lotta spirituale che ha come suo massimo e definitivo scopo quello di vedere Dio così com’è (cf. 1Gv 3,2). Infine, nelle parole dell’apolytíkion, che come sempre sintetizzano il senso della festa, è presente la descrizione dell’evento e parallelamente viene rivolta anche una preghiera, sempre quanto mai opportuna, che sarà esaudita per l’intercessione della Madre di Dio: Ti sei trasfigurato sul monte, o Cristo Dio, facendo vedere ai tuoi discepoli la tua gloria, per quanto lo potevano. Fa’ risplendere anche su noi peccatori la tua eterna luce, per l’intercessione della Madre di Dio, o datore di luce: gloria a te48.
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Ibid., p. 862.
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Le parole dell’ultimo inno della Divina liturgia, del kinonikón del giorno: “Cammineremo sempre nella luce della gloria del tuo volto, Signore” sono allo stesso tempo un’affermazione – poiché non può essere diversamente – e una nostra promessa davanti al Signore.
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DALL’OREB AL TABOR: IL CRISTO TRASFIGURATO NELLE OMELIE BIZANTINE Michel Van Parys*
Gli Evangeli di Matteo (17,1-9), di Marco (9,2-9) e di Luca (9,28-36) narrano un evento misterioso della vita pubblica di Gesù, la sua trasfigurazione su un’alta montagna in presenza di tre suoi apostoli, Pietro, Giacomo e Giovanni. I tre evangelisti concordano quanto all’essenziale del racconto, ma ricorrono ad accentuazioni diverse quando cercano di farci comprendere qualcosa di questa teofania. Si preoccupano anche di collocare la trasfigurazione in un contesto narrativo più ampio: la prossimità delle sofferenze della croce e della resurrezione del Messia, e la promessa dell’imminente avvento del regno di Dio. “E diceva loro: ‘In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non moriranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza’” (Mc 9,1; cf. Mt 16,28; Lc 9,27). La Seconda lettera di Pietro riporta anch’essa la teofania della trasfigurazione e ne indica gli elementi essenziali: la parusia nella gloria e nella maestà del Signore Gesù sulla santa montagna, la voce del Padre che lo designa come il proprio Figlio amato, le cose viste e ascoltate dai tre apostoli (cf. 2Pt 1,16-19).
* Monaco benedettino, è stato abate del Monastero di Chevetogne (Belgio) e consultore della Congregazione per le chiese orientali. Traduzione dall’originale francese.
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Le circa cinquanta omelie patristiche greche e bizantine1 sulla trasfigurazione giunte fino a noi riflettono, in un modo o nell’altro, l’unità profonda e le differenze di prospettiva della trasfigurazione del Salvatore che troviamo già nel Nuovo Testamento. È lecito considerarle come altrettanti tentativi di far entrare gli uditori cristiani, generazione dopo generazione, nella comprensione del mistero ineffabile e inesauribile di questa teofania. Questo non esclude che vi siano stati dibattiti, eventuali controversie, che ciascuno abbia attinto agli scritti dei predecessori, agli inni e ai testi liturgici, che si sia lasciato ispirare dalle rappresentazioni iconografiche2. È bene, dunque, parlare di una ricezione complessa quando si cerca di presentare le omelie greche sulla trasfigurazione di Cristo3. A motivo dell’influsso da essa esercitato prenderemo in considerazione l’Omelia 56 di Giovanni Crisostomo sull’Evangelo di Matteo, come la più antica testimonianza (verso il 390 ad Antiochia) di questa tradizione. Termineremo la nostra ricerca con il xv secolo bizantino4.
1 La Bibliotheca Hagiographica Graeca di F. Halkin, completata con il Novum Auctarium (Appendix, VII. De transfiguratione, 1974-2000), propone un inventario critico delle edizioni e segnala le omelie inedite. Cf. anche M. Sachot, Les homélies grecques sur la Transfiguration. Tradition manuscrite, Cnrs, Paris 1987, pp. 107-127. 2 Tra gli studi consacrati al nostro tema segnaliamo quello di J. A. McGuckin, The Transfiguration of Christ in Scripture and Tradition, Mellen Press, Lewiston ny-Queenston 1986. L’autore stesso ne ha presentato una sintesi: cf. J. A. McGuckin, “The Patristic Exegesis of the Transfiguration”, in Studia Patristica XVIII/1 (1985), pp. 335-341. Michel Coune ha pubblicato una bella raccolta di testi tradotti in francese: M. Coune, Joie de la Transfiguration d’après les pères d’orient, Bellefontaine, Bégrolles-en-Mauges 1985. 3 Ne è un buon testimone l’eccellente analisi di H.-J. Sieben, s.v. “Transfiguration, II. Les commentaires spirituels”, in DS XV, Beauchesne, Paris 1992, coll. 1151-1160. Di fronte all’abbondanza e alla moltiplicazione delle interpretazioni greche, latine e orientali, egli ha cercato di assegnare ciascun tema a un autore particolare. La loro semplice enumerazione è già evocatrice: Origene, la molteplicità delle forme del Logos; Giovanni Crisostomo, Mosè ed Elia come modelli; Agostino, il primato dell’amore; Leone Magno, la trasfigurazione dell’umanità; Anastasio il Sinaita, la trasfigurazione del cosmo; Giovanni di Damasco, la preghiera come cammino verso la trasfigurazione; Tommaso d’Aquino, la visibilità del corpo di gloria; Gregorio Palamas, la visione della luce increata; Teilhard de Chardin, il più bel mistero. 4 Un terzo delle omelie greche e bizantine conservate è stato pronunciato tra la fine del xiii e l’inizio del xv secolo. Questo fatto riflette l’accresciuto interesse del mon-
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Dall’Oreb al Tabor: il Cristo trasfigurato …
La sovrabbondanza del materiale obbliga a operare delle scelte. Dopo una rapidissima presentazione delle riflessioni sulla trasfigurazione di Gesù prima del secondo concilio ecumenico (381), analizzeremo l’una dopo l’altra l’omelia feriale di Giovanni Crisostomo, l’omelia festale di Anastasio il Sinaita (vii secolo) e la catechesi monastica di Teolepto di Filadelfia (xiv secolo)5. Segnaleremo, nel corso della nostra analisi, alcuni sviluppi paralleli o alcuni dibattiti significativi sulla trasfigurazione, che enuncia il mistero di Gesù di Nazaret, Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, così come il mistero della vocazione dell’essere umano a divenire partecipe della sua gloria di Risorto.
Prime riflessioni
Fin dalle origini del cristianesimo, la trasfigurazione di Cristo ha destato una serie di riflessioni sul mistero teandrico della sua persona. Gli Atti di Pietro al capitolo 20 contengono un’omelia sulla trasfigurazione. La misericordia del Signore lo indusse a manifestar-
do bizantino in questo periodo per la visione del Cristo trasfigurato come modello privilegiato della deificazione dell’uomo, della natura dell’esperienza mistica cristiana, della conoscenza di Dio. Si leggerà con profitto su questo tema l’introduzione, in Gregorio Palamas, Omelie sulla Trasfigurazione, a cura di A. Rigo, Qiqajon, Bose 1993 (Testi dei padri della chiesa 7), pp. 3-9. 5 Il presente convegno ha consacrato diversi contributi ad alcuni padri: Giovanni di Damasco, Gregorio il Sinaita e Gregorio Palamas. Si farà riferimento a essi per completare il nostro abbozzo. La scarsa attenzione prestata a Massimo il Confessore, del quale tuttavia non ci resta alcuna omelia sulla trasfigurazione, rappresenta una lacuna poiché il suo influsso sugli autori monastici dell’ultimo periodo bizantino sembra essere stato notevole. Si leggerà con profitto su questo argomento Y. De Andia, “Transfiguration et théologie négative chez Maxime le Confesseur et Denys l’Aréopagite”, in Ead., Denys l’Aréopagite et sa postérité en Orient et en Occident, Institut d’études augustiniennes, Paris 1997, pp. 293-328.
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si a ciascuno secondo le sue capacità. Pietro dice: “Ognuno di noi vedeva come poteva, secondo quanto era capace di vedere”6. Gli Atti di Giovanni contengono anch’essi un racconto della trasfigurazione di Gesù nei paragrafi 90-927. Esso si colloca al cuore di una serie di esperienze mistiche dell’apostolo. La composizione generale del racconto è tuttavia abbastanza lontana dai racconti evangelici. Clemente di Alessandria presenta una riflessione più sistematica negli Estratti da Teodoto 4-58. Clemente propone molteplici risposte a tre serie di domande (aporie) destate dai racconti evangelici della trasfigurazione di Cristo: egli è Dio come Dio Padre? Di quale genere fu la percezione che i tre apostoli ebbero del Cristo glorioso? Perché l’imposizione del segreto9? Negli Stromati10 Clemente sviluppa un’esegesi più erudita, di tipo aritmetico e geometrico, alla ricerca di un senso più profondo del mistero, in relazione con l’ordine della creazione e della redenzione. La trasfigurazione prova la natura divina di Gesù. Altri scrittori del ii e del iii secolo hanno meditato sulla trasfigurazione di Cristo. Con Origene tuttavia l’esegesi scientifica
6 Atti di Pietro 20,2, in Apocrifi del Nuovo Testamento, II. Atti degli apostoli, a cura di L. Moraldi, Piemme, Casale Monferrato 1994, p. 81. Gli Atti di Pietro risalirebbero al 180 circa e sarebbero stati composti in Siria. Cf. É. Cothenet, “Les Actes de Pierre”, in Esprit et Vie 174 (2007), pp. 14-20. 7 Ne esiste una duplice versione. Cf. Acta Ioannis, a cura di E. Junod e J. D. Kaestli, Brepols, Turnhout 1983, pp. 192-197 (testo e traduzione francese), 482-484 (commento). In italiano cf. Apocrifi del Nuovo Testamento II, pp. 211-302. Questa parte degli Atti di Giovanni risalirebbe intorno al 150 e dovrebbe collocarsi in Asia Minore. Cf. J. Czachesz, “Eroticism and Epistemology in the Apocryphal Acts of John”, in Nederlands Theologisch Tijdschrift 60 (2006), pp. 59-72. Orbe ha consacrato uno studio all’interpretazione della trasfigurazione presso gli gnostici (cf. A. Orbe, Cristologia gnostica, II. Introducción a la soteriologia de los siglos II y III, Bac, Madrid 1976, pp. 96-141). 8 Clément d’Alexandrie, Extraits de Théodote, a cura di F. Sagnard, SC 23, Cerf, Paris 1970, pp. 60-62. 9 Seguo l’interpretazione di C. Scholten, “Ein unerkannter Quaestioneskommentar (Exc. Theod. 4F) und die Deutung der Verklärung Christi in frühchristlichen Texten”, in Vigiliae Christianae 57 (2003), pp. 389-410. 10 Cf. Clemente di Alessandria, Stromati VI,140,3.
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e spirituale compie un passo decisivo. Egli scrive il suo Commento a Matteo tra il 246 e il 248 e commenta a lungo il testo matteano pur tenendo conto anche di Marco e di Luca11. Al centro della spiegazione di Origene si trova la rivelazione dell’essere autentico di Cristo, Figlio di Dio Padre. L’ascensione della montagna santa simbolizza l’ascesa spirituale del cristiano; la gloria di Cristo è percepita in funzione delle tappe del progresso nelle virtù, della purificazione dai vizi e dai peccati, e indica dunque alcune esigenze etiche; egli attribuisce grande importanza alle parole “davanti a loro” (Mt 17,2): la bellezza di Cristo e delle parole della Scrittura cresce con il progresso spirituale del discepolo; Mosè rappresenta la Legge, Elia la profezia; l’intervento di Pietro si spiega con il suo desiderio di rimanere nella contemplazione; la nube e la voce potrebbero indicare la Trinità, ma Gesù stesso potrebbe essere la nube luminosa; Origene dà poi tre motivazioni del silenzio imposto dal Signore agli apostoli. Il commento è molto ricco, regolarmente scandito da esegesi avanzate a titolo di ipotesi12. La grande maggioranza di temi esegetici individuati da Origene si ritroveranno nel corso dei secoli. Saranno precisati dogmaticamente grazie a un’intelligenza più precisa del mistero dell’unica persona di Cristo in due nature, saranno esplicitati nelle catechesi monastiche identificando l’ascesa della montagna delle virtù con il monte Tabor, saranno approfonditi all’epoca del rinnovamento esicasta bizantino in riferimento alla natura della luce taborica e alla percezione sensoriale dei discepoli. Origene è ancora una volta l’esegeta geniale che ha fornito il quadro generale e numerosi dettagli dell’esegesi futura del racconto della trasfigurazione.
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Cf. Origene, Commento a Matteo 12,29-43. Cf. M. Eichinger, Die Verklärung Christi bei Origenes. Die Bedeutung des Menschen Jesus in seiner Christologie, Herder, Wien 1969. 12
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Ricordiamo un solo aspetto della sua esegesi, la cui eco sarà debole nell’omiletica greca e bizantina: Origene suggerisce che le vesti risplendenti di Gesù sulla montagna rappresentano le parole della santa Scrittura. Ai piedi della montagna queste parole non hanno né bellezza né splendore, ma quanto più si sale, in virtù del progresso spirituale, tanto più esse si mostrano trasfigurate nella nostra comprensione. Basilio di Cesarea e Gregorio di Nazianzo ci hanno trasmesso una pagina di Origene sull’argomento nella loro Filocalia: E le sue vesti, quando è in basso, sono diverse: non sono bianche, non sono come la luce. Se sali sull’alta montagna, vedrai luce anche le sue vesti. Le vesti del Verbo sono le parole della Scrittura: l’abito dei pensieri divini sono quelle parole. Come dunque egli stesso appare diverso quando è in basso e, una volta salito, è trasfigurato e, il suo volto diventa come il sole, lo stesso accade ai suoi abiti, lo stesso accade alle sue vesti: quando sei in basso, non sono splendenti, non sono bianche, ma se sali, vedrai la bellezza e la luce degli abiti e ammirerai il volto di Gesù trasfigurato … Secondo un’altra interpretazione del testo, più elevata, quelli che sono stati capaci di seguire le orme di Gesù quando egli sale ed è trasfigurato perdendo la sua forma terrestre, vedranno la trasfigurazione in ogni parte della Scrittura: il testo letterale è, in certo senso, Gesù che appare alle folle; Gesù asceso sull’alta montagna e trasfigurato davanti a un piccolo numero di suoi discepoli, di quelli che sono stati capaci di seguirlo nelle altezze, questo è il senso superiore ed elevato, quello che contiene gli oracoli della sapienza nascosta nel mistero, quella che Dio ha previsto da prima dei secoli per la gloria dei suoi giusti13. 13 Origène, Philocalie 1-20. Sur les Écritures et la lettre à Africanus sur l’histoire de Suzanne, a cura di M. Harl e N. De Lange, SC 302, Cerf, Paris 1983, pp. 436-438. Si tratta di un estratto del capitolo 15: “All’attenzione dei filosofi greci i quali descrivono la povertà di stile delle divine Scritture e affermano che ciò che vi è di bello nel cristianesimo è stato detto in forma migliore dai greci e [dicono] inoltre che il corpo
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È degno di nota il fatto che questo tratto di rara esegesi si ritrovi nella seconda omelia di Gregorio Palamas per la festa. La lettera della Scrittura, come la veste di Gesù trasfigurato, è tessuta di luce agli occhi degli spirituali che la spiegano in modo degno di Dio, ma la sapienza di questo mondo non vede tale bellezza14.
Tentativo di classificazione delle omelie
Ogni tentativo di classificazione delle omelie greche e bizantine sulla trasfigurazione non può che essere lacunoso. È possibile tuttavia riunirle, un po’ artificialmente, in tre gruppi.
Omelie feriali Questo termine designa un insieme di una decina di omelie anteriori all’viii secolo, pronunciate nel quadro di una predicazione cursiva degli evangeli. L’Omelia 56 sull’Evangelo di Matteo, pronunciata verso il 390 da Giovanni Crisostomo, allora presbitero ad Antiochia, è certamente la più importante. Ci sono pervenute inoltre omelie di Cirillo di Alessandria15, di Proclo di Costantinopoli16, di Ba-
del Signore era brutto. Quale sia la ragione delle diverse forme del Verbo” (ibid., p. 427). Cf. anche il commento di Harl, ibid., pp. 434, 440-442. 14 Cf. Gregorio Palamas, Omelie 35,5, PG 151,441A-B. Andrea di Creta vi fa allusione ma afferma che le vesti di Cristo sono le sue parole e le sue azioni durante la sua vita terrena (cf. Andrea di Creta, Discorso sulla trasfigurazione, PG 97,948A-D). Cf. anche Massimo il Confessore, Ambigua, PG 91,1128B e Id., Centurie gnostiche 2,14, PG 90,1132A. 15 Per non appesantire inutilmente l’apparato delle note, rinviamo ai numeri della BHG e della CPG. BHG 1994; CPG 5207/2. 16 BHG a 1980 e BHG n 1980a; CPG 5807.
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silio di Seleucia17, di Pantaleone di Costantinopoli18, di Leonzio di Costantinopoli19, di Timoteo di Gerusalemme20, di Anastasio di Antiochia21, di un autore anonimo22, come anche una bella omelia greca attribuita a Efrem di Nisibe23. Abbiamo ancora un’omelia sulla trasfigurazione pronunciata da Girolamo: si tratta dell’Omelia 6 di una serie sull’Evangelo di Marco24. Essa è stata pronunciata nella chiesa della Natività a Betlemme, una domenica tra il 397 e il 402, nel corso di una liturgia celebrata in greco. Si indirizzava a un uditorio di fedeli, di asceti, di monaci e di monache, di catecumeni e di pellegrini; vari predicatori intervenivano in lingue diverse. L’interesse di questa omelia sta nel fatto che in essa si percepisce chiaramente l’influenza di Origene, ma anche nel fatto, piuttosto raro, che percepiamo qualcosa delle circostanze concrete della sua produzione. Questa predicazione attira parimenti l’attenzione sulla Terrasanta come luogo di scambio tra le diverse tradizioni liturgiche25. Molte di queste omelie ci sono pervenute soltanto perché sono state inserite in omeliari bizantini per la festa ormai fissata al 6 di agosto. È probabile che abbiano subito qualche ritocco allo scopo di adattarle a un nuovo uso liturgico. Del resto l’Omelia 56 sull’evangelo secondo Matteo di Giovanni Crisostomo è servita
17 BHG 1989; CPG 6656/40. Cf. J. M. Tevel, De preken van Basilius van Seleucië. Handschriftelijke overlevering. Editie van vier preken, Utrecht 1990. 18 BHG 1978. 19 BHG 1975; CPG 4724. 20 BHG 434h; CPG 7406 e 7900/9. 21 BHG 1993; CPG 6947. 22 BHG n 2000. 23 BHG a 1982; CPG 3939. Questa bellissima omelia che rispecchia la sensibilità siriaca è stata ritoccata da una mano calcedonese; l’ultima parte sembra interamente calcedonese. Il monte della trasfigurazione non è ancora identificato con il monte Tabor. 24 Girolamo, Omelie su Marco 6, in Id., Tractatus in Marci evangelium, CCSL 78, Brepols, Turnhout 1958, p. 484. 25 Osservazioni utili, ma in parte ipotetiche, sui rapporti tra le celebrazioni liturgiche e le omelie sulla trasfigurazione si trovano in M. Sachot, L’homélie pseudo-chrysostomienne sur la Transfiguration CPG 4724, BHG 1975. Contextes liturgiques, restitution à Léonce, prêtre de Constantinople, Peter Lang, Frankfurt-an-Main-Bern 1981, pp. 435-450.
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come fonte per predicatori poco ispirati26. Essi hanno abbreviato e/o rimaneggiato il testo dell’arcivescovo di Costantinopoli, l’hanno fornito di un nuovo esordio o di una nuova conclusione. La maggior parte di queste omelie, costruite sulla falsariga di altre precedenti, attende ancora un’edizione critica. Una migliore conoscenza di questo fenomeno e delle tradizioni manoscritte soggiacenti ci permetterebbe di cogliere meglio la nascita e l’estensione della festa del 6 agosto, il crescente interesse per questo mistero e, forse, le vie della sua diffusione geografica. Non si dà in prestito se non ai ricchi! A Giovanni Crisostomo sono state attribuite un certo numero di omelie che non ha mai pronunciato27.
Omelie festali Tra la fine del vii secolo e l’inizio dell’viii fanno la loro apparizione le omelie pronunciate in occasione della celebrazione liturgica della festa del 6 agosto. Si tratta delle omelie di Giovanni di Damasco28, di Andrea di Creta29 e di Anastasio il Sinaita30. Questi tre predicatori sono vissuti in Palestina o sul Sinai, o ne sono originari. Fanno dunque pensare che l’istituzione della festa del 6 agosto debba collocarsi in questa regione, per lo meno nelle chiese di cultura greca. Questa festa è stata forse preceduta da una festa a data mobile, la domenica che segue la “quaresima dello Sposo” che ini26 Cf. M. Sachot, “Le réemploi de l’homélie 56 in Matthaeum de Jean Chrysostome (BHG a 1984) dans deux homélies byzantines sur la transfiguration (BHG 1980k e a; 1985)”, in Revue des Sciences Religieuses 57 (1983), pp. 123-146. 27 A titolo di esempio citiamo: M. Sachot, “Édition de l’homélie pseudo-chrysostomienne BHG 1998 (= CPG 5017) sur la Transfiguration”, in Revue des Sciences Religieuses 58 (1984), pp. 91-104. 28 BHG 1979; CPG 8057. 29 BHGa 1996; CPG 8176. 30 BHG 1999; CPG 7753.
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zia dopo l’Ascensione del Signore e dura cinquanta giorni31? Si è forse celebrata una festa della Trasfigurazione nel giorno anniversario della dedicazione delle tre basiliche edificate sul Tabor, che l’anonimo Pellegrino di Piacenza aveva ammirato nel 570? Anche il monaco armeno Eliseo le aveva visitate32 e aveva tessuto le lodi dei monaci che vivevano là. Quali che siano le origini ancora oscure della festa del 6 agosto, le tre omelie menzionate avranno un’influenza seminale sull’omiletica posteriore sia greca sia slava. I testi dell’ufficio bizantino per la festa della Trasfigurazione, inoltre, sono in gran parte composti da Giovanni di Damasco e Cosma di Maiuma (un altro palestinese!). A partire dal x secolo, queste composizioni liturgiche appariranno costantemente nelle predicazioni per la festa. Bisogna dire una parola, in questo contesto, su un kondákion anonimo sulla trasfigurazione di Cristo33. Il proemio e la prima strofa sono ancora in uso nel mattutino bizantino del 6 agosto. Leggiamo l’inizio del kondákion: Ti sei trasfigurato sul monte, e i tuoi discepoli, per quanto ne erano capaci, hanno contemplato la tua gloria, o Cristo Dio, affinché, vedendoti crocifisso, comprendessero che la tua pas-
31 Questo sarebbe attestato da un’omelia greca conservata in georgiano; cf. M. Van Esbroeck, “Une homélie géorgienne anonyme sur la Transfiguration”, in Orientalia Christiana Periodica 46 (1980), pp. 418-445. Si trova qualche indicazione sulla storia della celebrazione liturgica in I.-H. Dalmais, “Retentissements cosmiques de la Transfiguration du Christ dans la tradition hiérosolymite-arménienne de Vardavar”, in Liturgie et Cosmos, a cura di A. M. Triacca e A. Pistoia, Clv-Edizioni liturgiche, Roma 1998, pp. 49-58. 32 Cf. M. Aubineau, “Une homélie grecque inédite sur la Transfiguration”, in Analecta Bollandiana 85 (1967), pp. 401-427, qui pp. 421-426. L’omelia armena di Eliseo Vartapet parla di tre cappelle sul Tabor, dedicate rispettivamente ai nomi del Signore, di Mosè e di Elia, e delle comunità monastiche che vi vivevano: cf. E¬i∫e, ¯ Sul monte Tabor, a cura di L. Leloir e B. L. Zekiyan, Qiqajon, Bose 1996 (Testi dei padri della chiesa 21). R. W. Thomson, A Homily on the passion of Christ Attributed to Elishe, Peeters, Leuven 2000, pp. 1-23, colloca questa omelia verso il 630. Sul monte Tabor, cf. P. Maraval, Lieux saints et pèlerinages d’Orient, Cerf, Paris 1985, pp. 292-293. 33 Edito in C. A. Trypanis, Fourteen Early Byzantine Cantica, H. Böhlaus, Wien 1968, pp. 105-113.
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sione era volontaria, e annunciassero al mondo che tu sei veramente irradiazione del Padre. Destatevi, o ignavi, non continuate a trascinarvi per terra; o pensieri che piegate a terra la mia anima, raddrizzatevi, e innalzatevi sino alla vetta della divina ascesa; accorriamo insieme a Pietro e ai figli di Zebedeo, e insieme a loro raggiungiamo il Tabor per vedere con loro la gloria del nostro Dio: udremo la voce che essi udirono dall’alto per poter poi annunciare l’irradiazione del Padre34.
Il seguito di questo kondákion di diciotto strofe assomiglia molto a un’omelia dialogata che riprende i punti essenziali del racconto evangelico (sinottico). Colpisce l’insistenza di Gesù, che pronuncia un discorso fittizio sul carattere volontario della sua passione. La trasfigurazione mostra il potere sulla morte di colui che è al tempo stesso Dio (e non un “contro-Dio”) e uomo. Mosè ed Elia prendono anch’essi la parola, ma non sono che servi di Cristo. La fine del kondákion giustifica la scelta dei soli Pietro, Giacomo e Giovanni. Questo kondákion ricorda numerosi elementi esegetici della sezione antica dell’omelia greca attribuita a Efrem35. L’editore suggerisce il secondo quarto del vi secolo come data di composizione e lo colloca all’interno dell’impero bizantino. Sarebbe noioso elencare tutte le omelie festali dell’epoca bizantina36. Segnaliamo tuttavia un predicatore piuttosto marginale del xii secolo: Teofane Kerameus o Filagato di Cerami, siciliano, che predica a Palermo e a Rossano Calabro37. Pur attin-
34 Cf. Anthologhion di tutto l’anno IV, a cura di M. B. Artioli, Lipa, Roma 2000, p. 868. 35 Cf. supra, p. 76, n. 23. 36 Si trovano tutti i riferimenti in BHG a e BHG n. Rigo in Gregorio Palamas, Omelie sulla trasfigurazione, p. 6, enumera gli autori dell’ultimo periodo. 37 BHG a e n 1995. Ci restano ottantotto omelie di questo rappresentante della cultura bizantina nell’Italia meridionale. J.-P. Migne ne ha pubblicate sessantasei (PG
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gendo a piene mani nella tradizione anteriore, sembra non mancare di originalità. L’influenza esercitata dai due grandi commentatori bizantini degli evangeli, Teofilatto di Ocrida (1050 ca.-dopo il 1126)38 ed Eutimio Zigabeno (fiorì intorno al 1100)39, si rivela indubbiamente di una certa importanza in una presentazione dell’esegesi tradizionale della trasfigurazione. La stessa cosa vale per le catene esegetiche, che sono ancora da esplorare.
Le catechesi monastiche Teodoro Studita è per noi il primo testimone di un nuovo tipo di omelie, indirizzate a un pubblico unicamente monastico. Possiamo chiamare questi testi “catechesi monastiche”. Teodoro ha pronunciato questa catechesi la vigilia della festa, il 5 agosto, verso l’820. Le altre feste del Signore celebrano i misteri della sua vita terrena, “la festa della Trasfigurazione, invece, descrive la restaurazione di tutte le cose (apokatástasis) nel mondo futuro”40. Il Salvatore ritornerà come giudice in questa medesima gloria. Allora gli eletti gioiranno nel regno dei cieli della manifestazione di Dio e la loro gioia sarà pari a quel-
132,49-1077). Per un’edizione critica parziale, cf. G. Rossi Taibbi, Omelie per i vangeli domenicali e le feste di tutto l’anno, I. Omelie per le feste fisse, Istituto siciliano di studi bizantini e neoellenici, Palermo 1969. 38 Cf. Teofilatto di Ocrida, Commento al Vangelo secondo Matteo 16-17, PG 123, 324C-329B. 39 Cf. Eutimio Zigabeno, Commento a Matteo 33, PG 129,476B-485C. Commentando la luce gloriosa del volto e il biancore delle vesti di Cristo, Eutimio scrive: “Non sarebbe fuori luogo dire che il volto di Gesù è la scienza delle parole e le sue vesti l’esposizione delle sue parole, che ricoprono come una veste la scienza che nascondono” (PG 129,477C). Viene da pensare all’estratto di Origene conservato nella Filocalia. 40 BHG 1998u. Teodoro Studita, Catechesi 20, in Theodori Studitis parva Catechesis, a cura di E. Auvray, Paris 1891. Per una traduzione italiana, cf. Teodoro Studita, Nelle prove la fiducia, a cura di L. d’Ayala Valva, Qiqajon, Bose 2006, p. 117.
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la di Pietro, Giacomo e Giovanni. Lo Studita prosegue esortando i suoi monaci a pentirsi, a purificare il loro cuore, a vivere nelle virtù. Ci sono pervenute altre catechesi monastiche. Neofito il Recluso, vissuto presso Pafo a Cipro, ha lasciato una produzione abbondante. Essa contiene due catechesi sulla trasfigurazione, l’una pubblicata, l’altra inedita41. La catechesi di Gregorio il Sinaita, la più lunga e la più oscura di tutte, è stata pubblicata nel 198142. Esamineremo più avanti la catechesi di Teolepto, metropolita di Filadelfia (1250-1322)43. Ma il mistero della trasfigurazione di Cristo aveva da sempre affascinato i monaci, che nel solco di Origene avevano riconosciuto in essa l’aspirazione profonda della loro vocazione battesimale e monastica: l’ascesa ascetica e contemplativa verso la bellezza della gloria del Signore Gesù che viene e la divinizzazione attuale ed escatologica dell’uomo44. Già in Giovanni Cassiano, che si fa eco di una tradizione più antica, la preghiera pura prepara all’incontro con il Cristo trasfigurato. Dice: Contemplano con occhi purissimi la sua divinità soltanto quelli che si innalzano al di sopra delle opere e dei pensieri terrestri e si ritirano con lui su un’alta montagna solitaria. Questa solitudine, libera da ogni tumulto di pensieri e di turbamenti terrestri, lontano dalla confusione dei vizi, che si innalza grazie a una fede purissima e a sublimi virtù, rivela la gloria
Cf. BHGn 1996e; l’omelia è edita in Θεολογα 44 (1973), pp. 698-701. Cf. BHGn e 1996b. Editio princeps a cura di D. Balfour in Θεολογα 52/4 (1981), pp. 644-680. 43 Cf. BHG 1985n. Edizione critica a cura di R. E. Sinkewicz, in Theoleptos of Philadelphia, The Monastic Discourses, Pontifical Institute of Mediaeval Studies, Toronto 1992, pp. 186-190. 44 Si veda a titolo di esempio: Macario l’Egiziano, Omelie 8,3; 15,38 (Die 50 geistlichen Homilien des Makarios, a cura di H. Dörries, PTS 3, De Gruyter, Berlin 1964, pp. 78-80, 149-150. In italiano: Pseudo-Macario, Spirito e fuoco, a cura di L. Cremaschi, Qiqajon, Bose 1995, pp. 136-137, 206). 41 42
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del suo volto e l’immagine del suo splendore a quelli che sono degni di contemplarlo con gli occhi puri dell’anima45.
Niceta Stethatos (1105 ca.-1090), discepolo e biografo di Simeone il Nuovo Teologo, monaco nel monastero di Studios a Costantinopoli, è uno dei testimoni monastici della meditazione sul mistero della trasfigurazione in epoca bizantina46. A questo evento Niceta consacra tre capitoli della terza centuria. Le tre centurie ricoprono le tre tappe della vita spirituale: la vita attiva o l’ascesi, la contemplazione delle essenze degli esseri creati, la contemplazione o gnosi. Significativamente le brevi considerazioni sulla trasfigurazione sono collocate nell’ultima tappa del progresso spirituale. Esse mostrano come gli spirituali approfondiscono l’esperienza mistica meditando questo mistero. Dice Niceta: Per quelli che sono progrediti nella fede come Pietro, che come Giacomo si sono innalzati nella speranza e come Giovanni sono divenuti perfetti nell’amore, il Signore è trasfigurato dopo essere salito sull’alta montagna della teologia (cf. Mt 17,1). Grazie alla manifestazione e all’impronta della parola pura, risplende davanti a loro come il sole. Grazie ai pensieri della sapienza ineffabile, diventa splendente come la luce. Il Verbo si rivela in loro, stando in mezzo tra la Legge e la profezia, legiferando e insegnando le cose della Legge, svelando le cose della profezia dai profondi e nascosti tesori della sapienza; a volte prevede e predice. Lo Spirito li copre con la sua ombra come nube luminosa e da là giunge a loro la voce della teolo-
45 Giovanni Cassiano, Conferenze 10,6, in Id., Conférences II, a cura di E. Pichery, SC 54, Cerf, Paris 1958, p. 80. 46 Cf. A. Solignac, s.v. “Nicétas Stéthatos”, in DS XI, Beauchesne, Paris 1982, coll. 224-230; A. Golitzin, “Hierarchy versus Anarchy? Dionysius Areopagite, Simeon the New Theologian, Nicetas Stethatos and their Common Roots in Ascetical Tradition”, in St. Vladimir’s Theological Quarterly 38 (1994), pp. 131-179.
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gia mistica, che li inizia al mistero della divinità in tre persone e dice: “Questo è il mio Figlio amato, termine della parola di perfezione nel quale mi sono compiaciuto” (cf. Mt 17,5), affinché diventiate per me dei figli perfetti nello Spirito perfetto.
E il medesimo dice: Ciò che il Verbo chiede ai nazirei non è soltanto di salire sul monte Sinai attraverso la pratica, né di purificarsi prima di salire, di lavare le vesti, di non unirsi a donna (cf. Es 19,15), ma anche di vedere Dio non di spalle (cf. Es 33,23), ma Dio stesso nella sua gloria, che si compiace in essi e dona loro le tavole della conoscenza e li invia a edificare il suo popolo.
E ancora: Quando rivela i suoi misteri nascosti e più grandi, il Verbo non prende con sé tutti i suoi servi e i discepoli, ma ad alcuni ha affinato l’orecchio, aperto l’occhio della visione e donata una lingua nuova (cf. Is 35,6). Li prende e li separa dagli altri, sebbene siano anch’essi suoi discepoli, sale sul monte Tabor della contemplazione ed è trasfigurato dinanzi a loro (cf. Mt 17,2). Non li inizia ancora alle cose del regno dei cieli, ma mostra loro la gloria e lo splendore della divinità. Concede al loro modo di vivere e alla loro parola di risplendere come il sole attraverso di lui in mezzo alla chiesa dei credenti. Trasfigura i loro pensieri in candore e in purezza di luce risplendente. Mette in essi il suo Spirito e li invia a proclamare cose nuove e cose antiche (cf. Mt 13,52) per edificare la sua chiesa47.
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Niceta Stethatos, Capitoli gnostici 52, PG 120,980B-C.997D-1000B.
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Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Queste poche briciole cadute dalla tavola basteranno a mostrare che le catechesi monastiche si inseriscono in correnti spirituali più vaste e secolari.
L’“Omelia” di Giovanni Crisostomo
L’Omelia 56 di Giovanni Crisostomo sull’Evangelo secondo Matteo48 è restata una delle maggiori autorità per la comprensione del mistero della trasfigurazione di Cristo. È utile richiamare a grandi linee l’esegesi dell’arcivescovo di Costantinopoli. Nella sezione che precede la nostra pericope, Cristo aveva parlato ai discepoli delle sue sofferenze e della sua morte, così come delle prove alle quali sarebbero stati esposti. Aveva parlato anche della seconda venuta nella gloria del Padre suo e della loro ricompensa. “Allora, per riguardo verso i discepoli, svelò del suo fulgore solo tanto quanto potevano sostenere; dopo invece verrà nella stessa gloria del Padre”49. Questa gloria del trasfigurato è anche il Regno (cf. Mt 16,28). La spiegazione che offre Giovanni Crisostomo sulla divergenza a proposito del numero dei giorni, sei o otto (cf. Lc 9,28) è semplice: si tratta di un altro modo di contare. Perché Cristo ha scelto Pietro, Giacomo e Giovanni come testimoni della sua trasfigurazione? Il Crisostomo risponde che i tre apostoli eccellevano sugli altri: Pietro per il suo amore ardente di Cristo, Giovanni perché Cristo l’amava ardentemente, Giacomo per il suo martirio (cf. Mt 20,22).
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Cf. BHG 1984; CPG 4424; PG 58,549-558. Giovanni Crisostomo, Omelie sul Vangelo di Matteo 2 56, a cura di S. Zincone, Città Nuova, Roma 2003, p. 446. 49
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Perché Gesù ha aspettato molti giorni per realizzare la sua promessa (cf. Mt 16,28)? Perché voleva che il loro desiderio crescesse, che si preparassero e che tutti gli apostoli desiderassero questa visione. E qual è il motivo della presenza di Mosè e di Elia? Giovanni Crisostomo ne indica diversi. Gesù voleva innanzitutto mostrare che egli non era uno degli antichi profeti come alcuni pensavano (cf. Mt 16,14), ma il loro Signore. Poi la loro presenza confuta l’accusa di bestemmia mossa contro di lui dai giudei, perché Mosè ed Elia testimoniano che egli è il Figlio di Dio. In terzo luogo Mosè rappresenta il mondo dei morti ed Elia quello dei vivi, e i due fanno comprendere che Cristo ha potere sulla morte e sulla vita. Il quinto motivo (sic!): Mosè ed Elia parlano della gloria di Gesù a Gerusalemme (cf. Lc 9,31) e rassicurano così i discepoli dinanzi alla prospettiva della croce. Un ultimo motivo che viene dato (sarebbe il quarto?): mostrare agli apostoli come esempio la virtù di Mosè e di Elia, che avevano già portato la croce dietro a Cristo (cf. Mt 16,24-25). Crisostomo sviluppa ampiamente il parallelo tra i due profeti e gli apostoli, che dovranno tuttavia superarli con le fatiche apostoliche. Qual è il significato delle parole di Pietro: “È bello per noi restare qui” (Mt 17,4)? Pietro, spaventato dinanzi alla prospettiva della croce, esprime di nuovo gli stessi sentimenti manifestati in precedenza: “Dio te ne guardi!” (Mt 16,22). Non può salire a Gerusalemme, ma deve restare qui. Ma Crisostomo giustifica al tempo stesso Pietro: la sua esclamazione testimonia il suo amore per Cristo. Rimprovera invece Pietro di aver voluto innalzare tre tende. “Che dici, Pietro? Non lo avevi poco fa separato dai servi?”50. L’errore di Pietro proviene dal turbamento e dalla confusione che hanno colto i tre apostoli, come dicono gli altri evangelisti.
50
Ibid., p. 442.
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Giovanni Crisostomo commenta poi il sonno che appesantisce gli apostoli (cf. Lc 9,32): “Come gli occhi si ottenebrano per uno splendore eccessivo, così allora capitò anche a essi”51. La voce del Padre si fece udire dalla nube (cf. Mt 17,5). Crisostomo comincia a osservare che la nube accompagna le teofanie. Sul monte della trasfigurazione, tuttavia, la nube non è tenebrosa, come sul Sinai, ma luminosa. Si tratta della tenda non fatta da mani d’uomo (cf. Eb 8,5; Es 25,40), e il Padre insegna. Quando risuona la sua voce, Mosè ed Elia se ne vanno, perché il Padre si rivolge soltanto a Gesù (cf. Mt 17,8). Senza questo si sarebbe potuto credere che fosse stato Gesù a emettere la voce. E che cosa dice questa parola? “Questi è il mio Figlio amato” (Mt 17,5): l’amore del Padre per il Figlio deve bandire il timore dal cuore di Pietro riguardo all’avvenire; “In lui mi sono compiaciuto”, perché unica è la volontà, unico l’onore, unica l’essenza del Padre e del Figlio; “Ascoltatelo”: non opponetevi alla voce di Gesù. La parola del Padre spaventa gli apostoli ed essi cadono faccia a terra (cf. Mt 17,6-8). La voce del Padre si era già fatta sentire al momento del battesimo dato da Giovanni Battista e si farà sentire ancora quando i greci chiedono di vedere Gesù (cf. Gv 12,28), senza provocare lo stesso timore. Qui il luogo deserto, la trasfigurazione, la luce ineffabile, la nube lo provocano. Perché Cristo proibisce agli apostoli di parlare della visione (cf. Mt 17,9)? Perché la sua morte sulla croce non può essere compresa e accettata se non dopo la resurrezione. La discesa dello Spirito santo cambierà tutto. Giovanni Crisostomo conclude allora la sezione esegetica della sua omelia con tre osservazioni. Anche noi vedremo Cristo nella gloria. Mentre gli apostoli questa gloria l’hanno vista sulla montagna nella misura in cui erano capaci di sopportarla, la gloria
51
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Ibid., p. 443.
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della parusia sarà ben più risplendente. I giusti allora risplenderanno anch’essi come il sole (cf. Mt 13,43).
L’eredità di Giovanni Crisostomo Giovanni Crisostomo non è l’unico testimone di una meditazione sulla teofania della trasfigurazione. Raccogliamo solo qualcuno dei tratti più significativi dell’esegesi delle omelie feriali. Proclo di Costantinopoli afferma che la trasfigurazione di Cristo mostra in anticipo la trasfigurazione futura della natura umana e anticipa il ritorno del Messia nella gloria52. Basilio, vescovo di Seleucia, sottolinea che gli evangelisti non hanno trovato un linguaggio adeguato per evocare la luce del Cristo trasfigurato. Egli afferma ancora: “Da una forma umana emanavano raggi inviati da energie divine”53. La dimensione escatologica è molto presente nel suo commento nella sua duplice dimensione di compimento e di giudizio: “Beati gli occhi che contemplano Cristo rivestito della sua veste nuziale! Beati gli occhi che contemplano il temibile giorno del giudizio nel suo aspetto pacifico”54. Uno dei testi più belli è attribuito a Efrem il Siro. Anche se il testo greco giunto fino a noi porta i segni di una riscrittura cristologica calcedonese, questa omelia reca ancora l’impronta del lirismo poetico siriaco. Chi è questo Signore trasfigurato? Efrem risponde: È Gesù, il Figlio di Dio, il Creatore del cielo e della terra, il Signore dei vivi e dei morti … è Gesù, Dio fatto uomo …
52 Cf. Proclo di Costantinopoli, Discorso sulla trasfigurazione del Signore, PG 65,768B. 53 Basilio di Seleucia, Discorsi 40, PG 85,457A-B. 54 Ibid., PG 85,460B.
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È Gesù che appare nella sua gloria divina … È Gesù che prima delle sue sofferenze mostra la sua gloria regale … È Gesù che prima della resurrezione rivela la sua gloria divina55.
La trasfigurazione rivela anche il mistero della chiesa, poiché là Cristo riconcilia nella sua persona l’Antico e il Nuovo Testamento. Si tratta di un tema poco frequente nelle nostre omelie. Egli dice: I profeti guardavano agli apostoli e gli apostoli ai profeti. Là, i principi dell’antica alleanza vedevano i principi della nuova alleanza. Mosè vide Simone il santificato, l’economo del Padre vide l’intendente del Figlio. Il primo aveva diviso il mare perché il popolo potesse passare in mezzo ai flutti, il secondo innalzò una tenda per edificare la chiesa. Il vergine dell’antica alleanza vide il vergine della nuova alleanza: Elia vide Giovanni. Colui che era salito su un carro di fuoco vide colui che aveva riposato sul petto di fuoco. Il monte è divenuto immagine della chiesa e Gesù vi ha unito in lui le due alleanze che la chiesa ha raccolto. Ci ha mostrato che era lui stesso il dispensatore di ambedue: la prima ha ricevuto i suoi misteri, la seconda ha manifestato la gloria delle sue opere56.
55 Utilizziamo il testo greco dell’edizione di K. G. Phrantzolas, Οσου ΕφραDμ το1 ΣAρου EΕργα VII, To Perivoli tis Panaghias, Thessaloniki 1998, pp. 13-30.
56 Ibid., p. 19. Giovanni Odznetsi, catholicos armeno all’inizio dell’viii secolo, stabilisce un legame tra la trasfigurazione e la consacrazione di una chiesa. Cf. F. C. Coneybare, Rituale Armenorum, Clarendon Press, Oxford 1905, p. 11.
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L’“Omelia” di Anastasio il Sinaita Anastasio il Sinaita57 (morto poco dopo il 700) ci ha lasciato un’opera importante e diversificata. La sua omelia festale sulla Trasfigurazione è tra le più belle di quelle in nostro possesso58. Essa ha beneficiato di una diffusione manoscritta sufficientemente ampia in greco59. La sua influenza sull’omiletica slava antica per la festa del 6 agosto è stata importante60. Anastasio era nato a Cipro verso il 620 e possedeva una vasta cultura profana e religiosa. Gli sconvolgimenti provocati dalle invasioni arabe hanno determinato la sua vita e alcuni dei suoi scritti. Lo ritroviamo a Cipro, a Gerusalemme, a Damasco, a Clisma, al Sinai e sul monte Tabor61. In uno stile oratorio ricercato il monaco (e igumeno?) del Sinai sviluppa una meditazione sul mistero della trasfigurazione del 57 Cf. G. Dagron, Storia del cristianesimo dalle origini ai nostri giorni, Borla, Roma 1999; B. Flusin, “Démons et Sarrasins. L’auteur et le propos des ‘Diègèmata stèriktika’ d’Anastase le Sinaïte”, in Travaux et Mémoires 11 (1991), pp. 381-409. 58 Cf. BHG 1999i; CPG 7753. Editio princeps in A. Guillou, “Le monastère de la Théotokos au Sinaï … Homélie inédite d’Anastase le Sinaïte sur la Transfiguration”, in Mélanges d’archéologie et d’histoire 67 (1955), pp. 237-257. 59 Cf. M. Sachot, Les homélies grecques sur la Transfiguration, pp. 123-124. 60 Cf. A. Angusheva-Tihanova, “The Mount Reflecting Heaven: The Sermon on the Transfiguration by Gregory Camblak in the Context of Byzantine and Medieval Slavic Literature”, in Byzantinoslavica 62 (2004), pp. 217-238. 61 Come aveva già notato B. Flusin (“Démons et Sarrasins”, p. 395, n. 68), l’omelia sulla trasfigurazione è stata pronunciata sul Tabor e non sul Sinai. L’apostrofe alle montagne, tra le quali quelle del Sinai, si capisce, infatti, soltanto se l’encomiasta si trova altrove: “Anch’io oggi, con gioia e in spirito di festa, trovandomi su questa divina ed elevata vetta, stendo la mano e con voce forte a partire da queste montagne convoco tutte le montagne per adorare Dio: montagne dell’Ararat, montagne di Gelboe, montagne del Sinai, montagne del Pharan, montagne del nord, montagne dell’ovest, montagne del sud, montagne delle isole e voi tutte altre montagne, piegate le vostre cime e adorate Cristo nostro Dio sul monte Tabor” (A. Guillou, “Le monastère de la Théotokos”, p. 254). Alcuni manoscritti (D ed E) attestano anche nel titolo dell’omelia che essa è stata pronunciata sul Tabor. Questo fatto conferma dunque la celebrazione liturgica di una festa il 6 agosto sul monte Tabor davanti a un’assemblea di pellegrini, almeno a partire dalla seconda metà del vii secolo. Questa predicazione ha buone probabilità di essere anteriore a quelle di Giovanni di Damasco e di Andrea di Creta.
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Cristo. Due elementi colpiscono particolarmente la nostra attenzione: l’interpretazione delle parole dell’apostolo Pietro come espressione di un’esperienza mistica e la dimensione cosmica della trasfigurazione. Percorriamo rapidamente questa omelia62. Il Sinaita comincia con un duplice esordio. Il primo mette in parallelo la montagna del Tabor e il luogo temibile, casa di Dio e porta del cielo (cf. Gen 28,17) della visione del patriarca Giacobbe63. Per una ventina di volte il predicatore ripete la parola “montagna”, accompagnandola con qualificativi ripresi dalla Bibbia. È il luogo delle realtà ineffabili, dove si rivelano i misteri di salvezza: Qui i simboli del Regno sono stati prefigurati; qui il mistero della crocifissione è stato annunciato; qui la bellezza dell’incorruttibilità è stata svelata, qui la discesa della seconda venuta più gloriosa di Cristo è stata manifestata; su questa montagna lo splendore dei giusti è stato indicato (cf. Mt 13,43); su questa montagna i beni futuri sono stati presentati come attuali; questa montagna ha visto i simboli della resurrezione; questa montagna, attraverso la nube che la copre, ha proclamato l’innalzamento futuro dei giusti; questa montagna ha modellato oggi la figura più vera della nostra figura, della nostra trasfigurazione e della nostra configurazione al Cristo64.
La trasfigurazione del Salvatore annuncia la sua croce, la sua resurrezione e la sua parusia, ma annuncia anche la sorte futura dei fedeli, la loro glorificazione in Cristo.
62 In attesa di un’edizione critica basata sull’insieme dei manoscritti dell’omelia, abbiamo generalmente seguito le lezioni dei manoscritti D ed E nell’apparato di A. Guillou. Cf. tr. francese in M. Coune, Joie de la Transfiguration, pp. 153-164. 63 Cf. Anastasio il Sinaita, Omelia sulla Trasfigurazione, in A. Guillou, “Le monastère de la Théotokos”, pp. 237-238. 64 Ibid., p. 638.
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Il secondo esordio, caratterizzato da un “oggi” ripetuto dieci volte, riprende la stessa tematica accostandola al racconto evangelico e si conclude con un paragone tra l’Oreb e il Tabor: Come sul Sinai le figure sono state dipinte figurativamente, così sul monte Tabor la verità; là le tenebre, qui il sole; là la nube oscura, qui la nube luminosa; là la Legge delle dieci parole, qui la Parola pre-eterna alle parole; là gli enigmi carnali, qui le realtà spirituali; là la voce degli angeli, qui la voce del Padre; là sulle montagne le tavole (della Legge) furono spezzate a causa dell’empietà, qui i cuori sono resi saggi per la salvezza … là è germogliata la verga, qui è fiorita la croce; là le quaglie come castigo, qui la colomba dall’alto per la salvezza; là Maria, l’ebrea, ha suonato il tamburello, qui Maria, nostra signora, ha divinamente generato; là Mosè ha slacciato i sandali dei suoi piedi prefigurando l’abolizione del culto secondo la Legge, qui Giovanni non slega i sandali a Gesù, il sandalo, che non può essere slegato, dell’unione tra il Dio Verbo e la nostra natura mortale, rivestita di pelli morte65; là Elia si nasconde lontano dalla faccia di Gezabele, qui Elia contempla Dio faccia a faccia; la montagna del Sinai non ha aperto la terra promessa a Mosè, ma il Tabor ha introdotto Mosè nella terra promessa66.
Anastasio, dopo una così lunga esortazione iniziale, affronta l’esegesi dei racconti evangelici della trasfigurazione. Ma comincia con una presentazione sintetica del senso della festa. La trasfigurazione manifesta la nostra natura purificata dal peccato e restaurata, essa rivela profeticamente la figura del regno
65 Il sandalo di Gesù rappresenta la sua incarnazione, la sua umanità. Anastasio si fa eco, qui come altrove, di tradizioni esegetiche anteriori (cf. G. W. H. Lampe, A Patristic Greek Lexicon, Clarendon Press, Oxford 1995, p. 1147). 66 Anastasio il Sinaita, Omelia sulla Trasfigurazione, pp. 240-241.
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di Dio e del Figlio dell’uomo nella sua gloria divina67. Segue un invito a salire la montagna con Gesù e i tre apostoli scelti, tema tradizionale a partire da Origene e che resterà fino alla fine dell’epoca bizantina68. Ogni fedele è invitato a fare sua l’esclamazione di Pietro: “Signore, è bello per noi restare qui”. Ogni fedele, salito sulla cima del Tabor, può, al pari dei tre apostoli, sperimentare già ora le gioie del cielo. Una parte importante dell’esegesi del racconto della trasfigurazione si fonderà su questa parola, interpretata come espressione di un’alta esperienza mistica69. Certamente, Pietro, è veramente bello che siamo qui con Gesù, che ci restiamo sempre, e che vi rimaniamo per i secoli. Vi è felicità più grande e più gloriosa che quella di essere con Dio, di rimanere in lui, di essere come Dio nell’aspetto e di essere nella luce? Ebbene, ciascuno di noi che ha Dio nel suo cuore e che è trasfigurato in questa figura divina, esulti e dica: “Signore, è bello per noi stare qui! Qui tutto è luce, tutto è gioia, letizia ed esultanza; qui il cuore è completamente rappacificato, tranquillo e unificato; qui Dio si lascia vedere. Nel cuore egli [Gesù] stabilisce una dimora per il Padre stesso (cf. Gv 14,23) e quando egli vi giunge dice: Oggi la salvezza è entrata in questa casa (Lc 19,9) e per quest’anima, nella quale tutti i tesori dei beni eterni giungono insieme a Cristo e
67
Cf. ibid., pp. 241-242. Cf. ibid., pp. 242-243. 69 Le omelie anteriori mostrano spesso un certo imbarazzo quando commentano l’esclamazione di Pietro “poiché non sapeva quello che diceva”. Origene accenna al fatto che Pietro dice queste parole per manifestare il desiderio dei tre apostoli di innalzare in se stessi delle tende perché il Verbo di Dio venga ad abitare in loro. Egli esprime anche il loro desiderio di una vita di contemplazione (Origene, Commento a Matteo 12,41). Dopo di lui Giovanni Cassiano (Conferenze 10,6), Andrea di Creta (Discorso sulla Trasfigurazione) e l’omelia edita da M. Aubineau (“Une homélie grecque inédite sur la Transfiguration”, in Analecta Bollandiana 85 [1967], p. 405 e il commento alle pp. 409-412) sviluppano il tema della vetta del Tabor come luogo propizio alla contemplazione. 68
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vi sono deposti; in quest’anima le primizie e le immagini delle realtà future si riflettono come in uno specchio70.
A nostra conoscenza, Anastasio il Sinaita è il primo autore a cantare con tale lirismo l’esperienza mistica di Pietro e dei suoi due compagni. È significativo che la visione sia al tempo stesso fisica e interiore. Le citazioni di Giovanni 14,23 e di Luca 19,9 lo esplicitano magnificamente. Il cuore (o l’anima) divengono la dimora della santissima Trinità. Pietro “patisce un’impassibile passione, il desiderio del Dio desiderato”71. La visione è parziale, pur offrendo una pregustazione del regno di Dio. Del resto anche Anastasio cita questa promessa del Cristo (cf. Gv 14,23) come la garanzia dell’esperienza mistica autentica72. Egli si inserisce così in una lunga tradizione spirituale. Citiamo, a titolo di esempio, tra tanti altri, un testo di Gregorio di Nissa: Dopo aver detto questo, [la sposa] loda l’arciere per la sua mira, perché in bel modo ha rivolto contro di lei la sua freccia. Sono stata ferita dall’amore (Ct 2,5), essa dice. Con queste parole essa mostra la freccia che si è conficcata profondamente nel suo cuore. Ma noi abbiamo appreso dalla sacra Scrittura che Dio è amore (cf. Is 49,2; 1Gv 4,8), Dio che manda la sua freccia scelta, il Dio Unigenito a coloro che si
70 Anastasio il Sinaita, Omelia sulla Trasfigurazione, pp. 243-244. Giovanni di Damasco, pur senza accentuare l’esperienza mistica dell’apostolo, la valuta positivamente: “Come non sarebbe bello non essere separato dal Bello? Pietro non ha proferito una parola fuori luogo” (Giovanni di Damasco, Omelia sulla Trasfigurazione, in Die Schriften des Johannes von Damaskos, V. Opera homiletica et hagiographica, a cura di B. Kotter, PTS 29, De Gruyter, Berlin 1988, p. 454). Resta tuttavia che la domanda di Pietro è prematura. La stessa reazione si ritrova in Gregorio Palamas, Omelie 35, PG 151,441B-C. 71 Anastasio il Sinaita, Omelia sulla Trasfigurazione, p. 244 secondo il ms. D. 72 La prima delle sue Domande e risposte risponde alla domanda: “Qual è il segno del cristiano vero e perfetto?”, citando Gv 14,21-23. Si veda ancora l’edizione di A. Munitiz, Quaestiones et Responsiones, Brepols, Turnhout 2006, p. 7 (nr. 3); p. 13 (nr. 6); p. 59 (nr. 28).
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salvano, intingendo la triplice punta della canna nello spirito della vita. La canna è la fede, affinché in colui nel quale essa penetra, conficchi, contemporaneamente alla freccia, anche l’arciere, come dice il Signore: Io e il Padre siamo una cosa sola e verremo e prenderemo dimora presso di lui (Gv 14,23)73.
Le due pagine successive dell’omelia di Anastasio procedono con lo stesso slancio oratorio: Da allora Pietro, in possesso delle chiavi di queste realtà, aprì ed entrò negli atri divini del Regno. I suoi occhi spirituali furono illuminati e aperti. Egli vide, per quanto era capace di vedere, le dimore e le tende celesti. Vide le stanze nuziali esenti da tristezza, le promesse spose di Cristo, lo Sposo non sposato74.
Anastasio descrive in seguito l’estasi del principe degli apostoli75. Dopo queste considerazioni, il nostro predicatore commenta la presenza di Mosè alla trasfigurazione e scandisce il testo con il ritornello: “Attraversando vedrò questa grande visione” (Es 3,3 con la variante diabás che evoca il passaggio della pasqua e la traversata del deserto verso la terra promessa), esclamazione pronunciata dal profeta quando vede da lontano il roveto ardente. Mosè entra ora nella terra promessa e sul monte Tabor vede “una potenza divina in forma d’uomo”76. Ripercorre tutte le
73 Gregorio di Nissa, Omelie sul Cantico dei cantici 4, a cura di C. Moreschini, Città Nuova, Roma 1988, p. 120. 74 Anastasio il Sinaita, Omelia sulla Trasfigurazione, pp. 245-246. L’espressione “Sposo non-sposato” ricorda l’acclamazione alla Madre di Dio nell’inno Akáthistos; cf. E. Toniolo, Akathistos. Saggi di critica e teologia, Centro di cultura mariana “Madre della chiesa”, Roma 2000, pp. 230-232. 75 Cf. Anastasio il Sinaita, Omelia sulla Trasfigurazione, pp. 245-246. 76 Ibid., p. 246.
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tappe dell’esodo ed esclama: “Ora ti ho visto, tu che sei veramente, che sei sempre, che sei con il Padre e che sul monte hai detto: Io sono colui che sono (Es 3,14)”. Inizia quindi un confronto tra la teofania sul Sinai e quella del Tabor, che si conclude con le parole: “Sei tu che anticamente eri invisibilmente presente sul monte Sinai e che ora sei trasfigurato manifestamente sul monte Tabor”77. Il predicatore si dilunga nel confronto tra la Legge e il Messia, il Sinai e il Tabor. Di passaggio spiega come il Cristo risorto ricrea la natura umana decaduta, tema che svilupperà nuovamente prima della perorazione78. Anastasio, in seguito, ritorna alla pericope dell’evangelo, pur dando alla teofania della trasfigurazione un’ampiezza cosmica: Sia Mosè che Elia erano convinti, il Maestro insegnava e i discepoli ascoltavano, il Padre parlava dall’alto, la nube creava la sua ombra, il monte risplendeva, la cima fumava, le rocce bruciavano, la vetta era scossa, gli angeli si aggiravano lì intorno: là tutto disegnava e annunciava in figura la sua seconda venuta79.
Con i loro occhi spirituali i discepoli contemplano il regno dei cieli futuro. Sono schiacciati da questa visione, a differenza di Mosè e di Elia già glorificati nei loro corpi80. Il Sinaita ritorna allora alla trasfigurazione di Cristo, promessa di trasfigurazione della natura umana: Che cosa c’è di più grande o di più spaventoso che vedere Dio nella forma di un uomo, che con il volto risplendente e radio-
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Ibid., p. 248. Cf. ibid., pp. 248-251, 253. 79 Ibid., p. 251. 80 Cf. ibid., pp. 251-253. 78
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so come il sole e più del sole, invia i suoi raggi a ogni istante? E posando il suo dito immacolato sul suo volto, lo indicò e disse a quelli che erano là con lui: È così che risplenderanno i giusti (Mt 13,43) alla resurrezione, è così che saranno glorificati. Saranno trasfigurati in questa figura che mi appartiene, saranno trasformati in questa gloria, saranno modellati secondo questo modello, questa immagine, questo profilo, questa luce, questa felicità, poiché saranno conformati a me (cf. Fil 3,21), il Figlio di Dio, e associati al mio trono81.
La perorazione comincia con una lode cosmica, prosegue con una convocazione delle montagne invitate a inchinarsi davanti al monte Tabor. Essa si conclude con una sfilza di “rallegrati” e di “rallegratevi”, rivolti a Cristo, a Maria, al Giordano, al mare di Galilea, ai vescovi successori di Melkisedek82, agli asceti, al popolo, alla chiesa83… Ecco una bellissima omelia festale sulla Trasfigurazione, che meriterebbe un’analisi più approfondita. Essa è pronunciata nel quadro di una celebrazione liturgica sul luogo in cui la tradizione collocava la trasfigurazione. Se Anastasio è un monaco (o l’igumeno) del monastero ai piedi dell’Oreb – ed è molto probabile che lo sia – il suo confronto tra le due montagne acquista ancora maggior rilievo.
81
Ibid., p. 253. La presenza di Melkisedek sul Tabor può stupire. Un testo falsamente attribuito ad Atanasio di Alessandria (Storia di Melchisedek, PG 28,525A-529C; CPG 2252) lo fa vivere per sette anni in una grotta sul fianco del Tabor, allo stato selvaggio (cf. Dn 4,25-33); Abramo lo libera. Cf. G. Bardy, “Melchisédech dans la tradition patristique”, in Revue Biblique 35 (1926), pp. 496-509; 37 (1927), pp. 24-25, in particolare pp. 40-42. La leggenda si incontra anche nel Grande Eucologio del Monastero Bianco. 83 Cf. Anastasio il Sinaita, Omelia sulla Trasfigurazione, pp. 254-255. 82
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La catechesi di Teolepto di Filadelfia Teolepto, metropolita di Filadelfia (1250-1322)84 ha pronunciato un certo numero di istruzioni monastiche per il monastero doppio intitolato al “Philanthropos Soter” a Costantinopoli, dopo il 130785. Tra le ventitré catechesi conservate, la quinta è consacrata al mistero della trasfigurazione86. A partire dal 1307 Teolepto diventa il padre spirituale della principessa Irene, figlia di Niceforo Cumno, giovane vedova del principe erede al trono Giovanni Paleologo. Teolepto, che risiede normalmente nella capitale, le ha conferito la consacrazione monastica con il nome di Eulogia. La principessa è diventata badessa del monastero. Tanto i discorsi monastici quanto le lettere di direzione spirituale ci consentono di conoscere più da vicino la vita monastica a Bisanzio prima che scoppi, un decennio più tardi, la controversia esicasta. Una rapida presentazione della Catechesi per la festa della Trasfigurazione ci permetterà di renderci conto di quali siano gli accenti particolari di una meditazione su questo mistero proposta a una comunità monastica. Teolepto inizia con una breve introduzione. Desidera introdurre i monaci e le monache del monastero al senso del mistero celebrato e li esorta non soltanto a celebrarlo liturgicamente, ma 84 Cf. M.-H. Congourdeau, s.v. “Théolepte de Philadelphie”, in DS XV, Beauchesne, Paris 1992, coll. 446-459, con bibliografia fino al 1990. La stessa autrice ha pubblicato una traduzione francese: Théolepte de Philadelphie, Lettres à une princesse. Discours monastiques, Migne, Paris 2001, preceduta da una nuova introduzione e seguita da una bibliografia. 85 Per l’edizione critica: cf. supra, p. 81, n. 43. 86 Cf. Theoleptos of Philadelphia, The Monastic Discourses, pp. 186-191. Questa edizione era stata preceduta da quella di H.-V. Beyer, “Die Katechese des Theoleptos von Philadelpheia auf die Verklärung Christi”, in Jahrbuch der österreichischen Byzantinistik 34 (1984), pp. 171-198, provvista di un sostanziale commento. Rigo la data al 6 agosto 1318: cf. Teolepto di Filadelfia, Lettere e discorsi, a cura di A. Rigo e A. Stolfi, Qiqajon, Bose 2007, pp. 141-144, 293.
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anche a viverlo progredendo nell’ascesi87. Un paragone chiarisce poi il suo intento. I suoi uditori e le sue uditrici non camminano sul terreno pianeggiante e agevole della vita del mondo, ma si arrampicano con fatica su una ripida montagna88. Il tono generale della catechesi è già annunciato: le austerità e gli esercizi della vita monastica ci fanno arrampicare sul monte Tabor, sulla cui vetta si beneficerà della contemplazione della gloria del Cristo. Teolepto non solleva il problema della differenza tra i sei e gli otto giorni, ma affronta immediatamente quella della scelta dei tre apostoli che accompagnano Gesù: Pietro rappresenta “colui che trascorre la vita nella continenza e procede secondo i comandamenti di Cristo, disdegnando i piaceri del corpo”; Giacomo rappresenta “colui che mette a morte il pensiero del mondo, abolisce i pensieri carnali, si prepara alle sofferenze per l’evangelo, disapprova coloro che vivono in modo malvagio e sopporta le azioni cattive per amor di verità”; Giovanni, infine, rappresenta “colui che ha reso la ragione un luogo dove dimorano le sacre Scritture e si consuma nella meditazione delle realtà divine e riflette sulle ragioni della natura per comprendere la verità”89. Pietro si mostra un discepolo fedele e fervente, Giacomo un discepolo pieno di zelo, Giovanni un discepolo che contempla con amore il Logos nelle Scritture e nella natura. Il metropolita di Filadelfia sovrappone così alla scelta dei tre apostoli la categoria antropologica della “divisione tripartita” dell’uomo in corpo, anima e spirito: il corpo costituisce la dimensione concupiscibile, l’anima la dimensione irascibile e lo spirito la dimensione razionale dell’essere umano. Li dinamizza positivamente attraverso una sequela Christi che integra questa triplice dimensione della nostra natura: “Costui segue il Signore con il corpo, 87
Cf. Teolepto di Filadelfia, Catechesi per la festa della Trasfigurazione 1. Cf. ibid. 2. 89 Ibid. 3, in Id., Lettere e discorsi, p. 142. 88
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con l’anima e con la ragione…”90. Ciascuno, in altre parole, è chiamato a diventare contemporaneamente Pietro, Giacomo e Giovanni. L’integrazione della persona si attua attraverso l’esercizio laborioso delle virtù. Essa è paragonata all’ascensione del monte Tabor: “Praticando sempre il faticoso percorso della virtù, ascende alla montagna, nella mente, per pregare senza distrazione”91. Teolepto passa così al tema lucano della preghiera sull’alta montagna (cf. Lc 9,28). In poche righe evoca l’ideale della preghiera pura, che deve animare monaci e monache: Là infatti, si compie la preghiera pura, che scaccia tutte le considerazioni di questo secolo e rende la mente interamente luminosa, nutrita dall’olio dell’amore divino e illuminata dalle divine effusioni di luce. Quando la mente è illuminata dalla memoria di Dio e, con l’attenta preghiera, è rischiarata dalla conoscenza di Dio92…
Queste considerazioni echeggiano gli insegnamenti sulla preghiera di Evagrio Pontico, le omelie attribuite a Macario l’Egiziano, e inoltre le riflessioni di Dionigi l’Areopagita, Basilio di Cesarea, Massimo il Confessore… Ma al di là delle probabili influenze bisogna notare l’incontro, forse la sintesi, della mistica dell’illuminazione della mente, di quella del cuore (“olio dell’amore di Dio”) e della memoria di Dio. Questa preghiera pura trasforma interamente l’uomo: I movimenti del corpo diventano bianchi e le parole di saggezza erompono dalla bocca, i sensi si ricoprono con l’ornamento della santità e le membra del corpo si affaticano nel
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Ibid. Ibid. 92 Ibid. 3-4, p. 142. 91
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compimento delle buone azioni, e l’uomo intero diventa luce, dal momento che la sua anima diventa una lampada che porta la vera luce – che illumina ogni uomo che viene al mondo (Gv 1,9) – delle virtù93.
Teolepto esorta poi monaci e monache a passare dalla figura effimera di questo mondo (cf. 1Cor 7,31) alle realtà stabili ed eterne. In questo modo il cristiano è senza sosta trasfigurato nella misura in cui ogni giorno ritorna in se stesso e rinnova di ora in ora la sua ragione sia che si allontani dal male, sia che si avvicini al bene progredendo nelle virtù94.
Bisogna dunque salire la montagna, essere ricreati secondo Dio, irradiare come fiamma. Questo è celebrare veramente con il corpo e con lo spirito la festa della Trasfigurazione; se ne penetra il senso e se ne diventa un’interpretazione vivente. Quasi di passaggio Teolepto ricorda che questa festa del Signore annuncia la parusia di Cristo e il glorioso splendore dei giusti nell’eternità95. Il vescovo prepara allora la conclusione della sua catechesi proponendo un paragone: [Cristo trasfigurato] ha insegnato a ogni fedele a prepararsi convenientemente quaggiù per partecipare alla beatitudine
93 Ibid. 4. L’interpretazione di Gv 1,9 sorprende. Teolepto gioca indubbiamente sul duplice senso del termine greco kósmos, che significa “mondo”, ma anche “armonia”, “buon ordine”, “ornamento”. La “lampada” allude forse ad alcune parole di Gesù (cf. Mt 5,15; Mc 4,21; Lc 8,16; 11,33). Ma bisogna notare soprattutto l’irradiamento “apostolico” dell’uomo trasfigurato, che abbiamo già incontrato in Niceta Stethatos. 94 Ibid. 5, p. 143. 95 Cf. ibid. 6.
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che gli è stata riservata, conservando la sua operazione, come una cera adatta a ricevere la luce divina. La cera, fondendosi al calore della fiamma, diventa combustibile per il fuoco grazie alla sua oleosità naturale e illumina coloro che le sono vicini. Allo stesso modo, il fedele che ha raccolto in se stesso le essenze della conoscenza divina estratte dai fiori della virtù, sciolto da tutti i desideri terreni dal calore dell’amore divino, si è preparato fin da quaggiù a essere una lampada. Per mezzo della legge dell’amore divino gli è stato riservato nel giorno della rivelazione del secolo che attendiamo (cf. Rm 8,19) di ricevere la luce divina e ineffabile e di godere dello splendore eterno che da lì emana96.
Il paragone lascia intendere che è al momento del ritorno di Cristo che il cero, che rappresenta il fedele, sarà illuminato dall’amore di Dio. Questo si armonizza difficilmente con quello che il vescovo aveva detto più sopra al paragrafo 4. Ma è necessario aspettarsi da un predicatore una logica assolutamente lineare? Teolepto conclude ritornando sul tema della necessità delle virtù e dell’obbedienza ai precetti97. Lo si sarà notato: Teolepto prende in considerazione soltanto alcuni elementi del racconto della trasfigurazione. Passa sotto silenzio la presenza dei profeti Mosè ed Elia, l’intervento di Pietro, la nube luminosa, la voce del Padre. Si concentra sull’ascesa della montagna, sulla preghiera e sulla luce di gloria. Sottolinea l’importanza dell’acquisizione delle virtù e dell’amore di Dio.
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Ibid. 6-7, pp. 143-144. Cf. ibid. 8-9.
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Conclusione
Abbiamo raccolto alcuni elementi significativi della meditazione millenaria dei predicatori greci sul mistero della trasfigurazione di Cristo. Avremmo potuto procedere in altro modo e radunare le interpretazioni convergenti e divergenti su ogni dettaglio del racconto sinottico. Lavoro appassionante, che avrebbe richiesto però uno o più volumi… Sarebbe stato possibile anche accostare i testi delle nostre omelie e delle nostre catechesi alle rappresentazioni iconografiche della trasfigurazione98. Resta la straordinaria sorpresa del mosaico del monastero di Santa Caterina al Sinai. Esso risale alla metà del vi secolo (tra il 548 e il 565)99. In un paesaggio astratto, gli occhi dei profeti e degli apostoli fissano il Cristo nella gloria. Le teofanie dell’Antico Testamento, di cui hanno goduto Mosè ed Elia all’Oreb, trovano il loro compimento nella trasfigurazione di Gesù Cristo sul Tabor. Dall’Oreb al Tabor, dal luogo stesso in cui secondo la tradizione Dio si è rivelato a Mosè e a Elia, e dal Tabor all’Oreb. È dunque in Palestina e al Sinai che fu celebrata innanzitutto la festa della Trasfigurazione il 6 di agosto? Molti elementi delle omelie festali invitano a pensarlo100. La sovrapposizione del Tabor all’Oreb risale tuttavia a un’epoca anterio-
98 Il lavoro è stato brillantemente abbozzato da S. Dufrenne, “La manifestation divine dans l’iconographie byzantine de la transfiguration”, in F. Boespflug, N. Lossky, Nicée II, 787-1987. Douze siècles d’images religieuses, Cerf, Paris 1987, pp. 185-205. Cf. anche R. de Féraudy, L’icône de la Transfiguration, Bellefontaine, Bégrolles-en-Mauges 1978; A. Andreopoulos, Metamorphosis. The Transfiguration in Byzantine Theology and Iconography, St. Vladimir’s Seminary Press, Crestwood ny 2005. 99 Il mosaico è riprodotto in G. H. Forsyth, K. Weitzmann, The Monastery of Saint Catherine on Mount Sinai. The Church and Fortress of Justinian. Plates, University of Michigan, Ann Arbor mi 1973, tav. 103. 100 Un affresco della trasfigurazione dell’inizio del vi secolo (?) in una chiesa di una città del Negev costituerebbe un indice ulteriore. Cf. P. Figueras, “Remains of a Mural Painting of the Transfiguration in the Southern Church of Sobata (Shivta)”, in ARAM Periodical 18 (2006), pp. 127-151.
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re. Già Gregorio di Nazianzo scrive: “Sì, la mia parola si rivolge a quelli che sono puri o stanno per esserlo, come il Cristo trasfigurato sull’alta montagna ha dato per iscritto la Legge a Mosè su tavole…”101. La trasfigurazione del Signore Gesù è divenuta, sempre di più nel corso dei secoli, il punto di incontro di tre domande essenziali per la teologia e la mistica cristiane. Come comprendere (e vivere) la duplice affermazione che mai nessuno ha visto Dio e che chi ha visto il Figlio fatto carne ha visto il Padre (Gv 1,18 e 14,9)? Che cosa è questa gloria del Cristo trasfigurato, risplendente di una luce sovraterrestre? E infine in che modo lo Spirito santo trasforma gli occhi corporei e spirituali dell’uomo divinizzato per permettergli di contemplare questa gloria? A mo’ di risposta provvisoria lasciamo la parola conclusiva a Cosma di Gerusalemme, contemporaneo di Giovanni di Damasco: Quando incidevi per iscritto la Legge sul Sinai, o Cristo Dio, sei stato visto arrivare nella nube, nel fuoco, nella tenebra e nella tempesta … E per confermare il tuo glorioso disegno di salvezza, o Cristo Dio, sei rifulso gloriosamente sul Tabor così come eri da prima di tutti i secoli e così come ti sei innalzato nella nube102.
101 Gregorio di Nazianzo, Poemata arcana I,10-13, a cura di C. Moreschini e D. A. Sykes, Clarendon Press, Oxford 1997, p. 2. Cf. il commento di P. Molac, “Le premier poème ‘dogmatique’ de Grégoire de Nazianze: traduction et commentaire”, in Bulletin de littérature ecclésiastique 107 (2006), pp. 345-366; Id., Douleur et transfiguration. Une lecture du cheminement spirituel de Saint Grégoire de Nazianze, Cerf, Paris 2006, pp. 258-265. 102 Cosma di Gerusalemme, Inni 10, PG 98,493B-C.
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LA TRASFIGURAZIONE NELLA TRADIZIONE OMILETICA ED ESEGETICA RUSSA Aleksandr V. Sorokin*
La seguente relazione sarà dedicata non solo, e forse non tanto, a una rassegna critica dell’eredità omiletica ed esegetica dei teologi ortodossi russi sul tema della trasfigurazione, quanto a come questo tema si sia rispecchiato nella cultura russa in generale, nei diversi tempi della storia della Russia, e in particolare nel nostro non lontano passato. La storia della cultura ortodossa in Russia mostra chiaramente come il tema della trasfigurazione del Signore occupi al suo interno un posto essenziale e di lunga durata. Nella coscienza dei cristiani ortodossi russi, nel corso dei vari secoli, la festa della Trasfigurazione, assieme al profondo contenuto spirituale a essa collegato, rientrava nel novero di quelle idee e di quei valori teologici, e in senso più ampio anche culturali, considerati cruciali e dotati di un significato che potremmo definire produttore di senso, ovvero in grado di determinare anche molti altri contesti e concetti estetici e morali.
* Biblista, rettore della parrocchia dei “Nuovi martiri e confessori russi” a San Pietroburgo, e capo redattore della rivista Voda Δivaja (Acqua viva), organo ufficiale della diocesi ortodossa russa di San Pietroburgo e Ladoga. Traduzione dall’originale russo di Rossella Zugan.
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Aleksandr V. Sorokin
Sarà sufficiente menzionare le chiese antiche e più recenti, i monasteri e le altre istituzioni ecclesiastiche, come anche sociali e statali, dedicati alla Trasfigurazione. Vengono subito in mente i monasteri della Trasfigurazione del Salvatore (SpasoPreobraΔenskij) di Solovki e di Valaam. A Mosca, nella chiesa di Cristo Salvatore, la principale cattedrale del paese e della chiesa russa ortodossa, la chiesa inferiore è dedicata alla Trasfigurazione. Nella mia città natale, San Pietroburgo, una delle chiese più famose è quella della Trasfigurazione del Salvatore e, tra l’altro, questo nome gli venne attribuito in quanto era la chiesa del reggimento della guardia imperiale PreobraΔenskij, ovvero una sottosezione dell’esercito così chiamata non in onore della festa della Trasfigurazione, ma per il nome del villaggio PreobraΔenskoe (questo reggimento venne costituito da Pietro I nel 1687 presso il villaggio PreobraΔenskoe dal quale ricevette il suo nome). “Nella vecchia Mosca di chiese dedicate alla Trasfigurazione ce n’era una gran quantità e la maggior parte di esse era avvolta nelle leggende. La prima, la chiesa in legno della Trasfigurazione del Salvatore sul Bor, venne fatta costruire al Cremlino già nella seconda metà del xiii secolo dal principe Daniil di Mosca. Questa era la seconda chiesa fondata a Mosca dopo quella della Natività di San Giovanni Battista. A differenza di questa, però, la chiesa del Salvatore non venne distrutta durante la costruzione del Grande Palazzo del Cremlino, rimanendo quindi inclusa al suo interno, per esser poi distrutta solo dai bolscevichi” (Elena Lebedeva). Già questi pochi esempi attestano la grande attenzione che da sempre in Russia è stata data alla festa della Trasfigurazione, distinguendola dalle altre grandi dodici feste, non meno importanti, del calendario liturgico. Posso completare queste osservazioni con alcune impressioni puramente personali e soggettive, ma forse non del tutto peregrine, sulla festa della Trasfigurazione intesa come una giornata con caratteristiche proprie e irri106
La trasfigurazione nella tradizione omiletica …
petibili, a partire dalle letture festive dell’evangelo, l’omelia e i canti liturgici a esse collegati, fino ad arrivare al gusto delle mele e delle prugne benedette, alla sensazione dell’autunno imminente, all’irripetibile combinazione della festa del Signore con il digiuno in preparazione alla Dormizione della Madre di Dio, e a quella sorta di fugacità e brevità della festa che si ricollega direttamente all’evento evangelico: il breve istante della trasfigurazione di Cristo dinnanzi ai discepoli. È chiaro che non bisogna esagerare il ruolo e il significato di questa festa nell’ambito della cultura e della teologia russa. In effetti un ruolo non minore è occupato dal culto delle altre feste del Signore e della Madre di Dio, dalla Pasqua di Cristo, alla Dormizione della santissima Madre di Dio, alla festa della sua Intercessione e altre. A ogni modo, l’interesse per la trasfigurazione è evidente. Come lo si può spiegare? Per buona parte esso è evidente già da uno sguardo superficiale, ma molto si può scoprire, con nostro stupore, da alcune ricerche e riflessioni. Probabilmente, per quanto strano possa sembrare, esiste un legame con la rigidità del clima russo. Ci azzardiamo ad affermare che, a questo proposito, la maggior parte delle chiese e dei monasteri dedicati alla Trasfigurazione si concentrano proprio nelle zone settentrionali della Russia. Dov’è qui il legame? Forse le dure condizioni di vita fanno sì che l’uomo si affidi con maggior vigore all’aiuto onnipotente del Creatore che può trasfigurare, cioè – in un modo a lui solo conosciuto – cambiare la natura sterile, morta e decaduta dell’uomo e di tutto ciò che lo circonda, o meglio lo minaccia, e trasformarli in un giardino fiorito, facendo dell’uomo stesso, furioso e rozzo selvaggio, un cristiano buono, santo e cosciente di sè. In questo senso, nella cultura russa, consciamente o inconsciamente, si contrappongono (da tempo e fino a oggi, sia a livello di coscienza istintiva, sia a livello di riflessione filosofica e teologica) i concetti di trasfigurazione e progresso e persino di 107
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trasfigurazione e riforma. A questo proposito è molto istruttivo per esempio un testo che ho trovato mentre preparavo questo intervento e che si trova nella raccolta dedicata al centenario dell’Accademia teologica di Mosca, celebrato nel 1914. Si tratta di un discorso accademico, vale a dire pronunciato nell’aula magna dell’Accademia teologica russa, il 3 settembre 1914 dall’archimandrita Ilarion (Troickij), uno dei più eminenti teologi russi ortodossi della prima metà del xx secolo. Nella versione stampata, il titolo del discorso recita: “Il progresso e la trasfigurazione”, l’uno contrapposto all’altra. Chiaramente bisogna considerare il contesto storico di allora: era il settembre del 1914 ed era appena iniziata la prima guerra mondiale. L’archimandrita Ilarion scaglia la sua ira patriottica sulla Germania, in guerra contro la Russia, ma per lui non è che un pretesto per la critica che egli muove con passione slavofila, contrapponendo la cultura civilizzata occidentale a quella russa. L’essenza della contraddizione sta secondo Ilarion nel fatto che mentre la civiltà occidentale – dando molta attenzione al progresso terreno, materiale – sacrifica a questo tutti gli altri valori (e per questo motivo deflagrano i conflitti, come ad esempio la prima guerra mondiale), “l’ideale dell’ortodossia invece è la trasfigurazione e non il progresso”. Per il modo in cui vengono realizzati, il progresso e la trasfigurazione sono molto diversi tra loro. La loro differenza, e a volte, la loro totale contrapposizione si manifesta nel culto. Parlo proprio di culto in quanto anche la concezione evolutiva e positivista dei popoli europei cerca a volte di creare un suo proprio culto. L’uomo europeo ha piegato le ginocchia dinnanzi alla dea ragione, poi dinnanzi all’umanità annoverando nel suo martirologio i nomi dei grandi uomini. A Parigi una chiesa un tempo cristiana è stata trasformata nel Pantheon dove ancor’oggi in sotterranei squallidi e abbandonati si conservano le spoglie ormai ridotte in cenere di Rousseau, 108
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Voltaire e diverse altre figure della “grande” rivoluzione francese. In tutte le città tedesche, quasi a tutti gli incroci stanno in piedi o in sella ai loro cavalli le figure dei Federico, dei Guglielmo o di Bismark. Sono gli altezzosissimi faraoni del progresso, i gloriosi combattenti e i creatori dei grandi eventi culturali. Ma guardate le icone dei santi della chiesa ortodossa. Anche lì troverete uomini grandi e glorificati. Ma chi è rappresentato in quelle icone attorno alle quali noi passiamo con l’incenso, innanzi alle quali cantiamo gli inni e che devotamente baciamo inchinandoci fino a terra? Qui sono rappresentati soprattutto eremiti, anacoreti. Costoro non solo non erano esponenti del progresso, ma in linea di massima, quasi sempre lo osteggiavano. Per questo essi, pur vivendo sulla terra, si sono trasfigurati, spesso risplendendo di luce taborica, innalzandosi, in preghiera, da terra fino in aria. La chiesa rimane fedele al suo ideale di trasfigurazione e, nel secolo del vapore, dell’elettricità e dell’aviazione canonizza asceti umili e senza istruzione1.
A questo vorrei aggiungere due cose. In primo luogo, per questa negazione del progresso contrapposta alla trasfigurazione, come ha detto l’archimandrita Ilarion, c’è anche un’altra faccia della medaglia. Gli anacoreti e gli eremiti che lui cita sono effettivamente luminosi, ma sono anche delle eccezioni, benché non siano poche. In pratica, una simile negazione del progresso come risultato di un lavoro minuzioso e costante sul suolo russo si è riversata e si riversa nella manifesta avversione alla fatica, nella pigrizia (il tratto nazionale è stare sulla stufa come Emelja, contando sul fatto che all’improvviso il mondo intorno posa inaspettatamente “trasfigurarsi” per incanto nelle cose desiderate), o nell’aspirazione a prendere o ricevere qualcosa gra1 Ilarion [Troickij], “Progress i PreobraΔenie”, in Bogoslovskij vestnik. K stoletnomy jubileju imperatorsckoj Moskovskoj Duchovnoj Akademii 1814-1914, Sergiev Posad 1914, pp. 224-225.
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tis. Pigro a lavorare, ma ecco che ti “ferra la pulce” (il racconto Lev∫a di Nikolaj Leskov), ovvero con un solo gesto supera in maestria il tedesco e il suo minuzioso lavoro: questo a volte viene considerato eroismo. In effetti nella Russia odierna il desiderio di un miracolo (la trasfigurazione) rapido e facile agita gli animi di molti nostri compatrioti (soprattutto in seguito ai decenni delle “cose gratis” alla sovietica, che han tolto a milioni di persone il desiderio e la capacità di lavorare con decoro e con onore). Un esempio lampante: le miriadi di file alle reliquie di alcuni onorati santi che oggi “errano” in abbondanza da paese a paese, di città in città, di monastero in monastero. Degno di nota, in proposito, è il fatto che l’insegnamento dogmatico ortodosso sul culto delle sante reliquie si costruisce proprio sull’interpretazione della trasfigurazione del Signore come trasfigurazione della carne dell’uomo in generale, manifestazione della nuova creazione, di cui furono partecipi questi o quegli asceti. In secondo luogo, la Russia nel xx secolo ha passato anch’essa la prova del progresso. I comunisti hanno condotto il paese lungo la via di ciò che essi intendevano per progresso: come quest’avventura sia andata a finire lo sappiamo tutti. Ricordiamo ancora un esempio, che sarebbe piuttosto attinente alla letteratura, ma che ha comunque un rapporto diretto con il nostro argomento. Nel famoso racconto fantastico di un grande scrittore russo del Novecento, Michail Bulgakov, Cuore di cane, l’eroe principale, un professore di medicina, decide di trasformare, mediante una serie di determinati esperimenti biologici, un animale – un cane da cortile – in un essere umano. L’esemplare sottoposto all’esperimento in effetti esteriormente si “trasfigura” in un uomo, impara addirittura a parlare e, in un certo senso, trova persino un suo ruolo all’interno della giovane società sovietica (la storia descritta è ambientata durante i primi anni del potere sovietico, precisamente negli anni venti). Ma in realtà, come poi si vide, pur essendo diventato uomo esterior110
La trasfigurazione nella tradizione omiletica …
mente, in questo essere era rimasto “il cuore di cane” assieme ai modi di fare tipicamente animaleschi, cosa che si rivelò molto opportuna nell’incipiente corso sovietico. Come si chiamava il professore? Egli aveva un cognome indubbiamente molto eloquente: PreobraΔenskij (da PreobraΔenie, trasfigurazione). La parodia di Bulgakov consisteva proprio in questo: l’allusione all’impotenza del tentativo umano di trasformare autonomamente, senza Dio, la creatura. Qui bisogna anche considerare che nella Russia antica cognomi come PreobraΔenskij, Uspenskij (da Uspenie, Dormizione), RoΔdestvenskij (da RoΔdestvo, Natale), Pokrovskij (da Pokrov, Intercessione della Madre di Dio), Voskresenskij (da Vozkresenie, Resurrezione), erano piuttosto diffusi, ma provenivano tutti dal ceto clericale. Tra l’altro lo stesso Bulgakov, a proposito del suo eroe dice che era figlio di un arciprete. Diventato professore di medicina, ovvero rinnegando la sua appartenenza ecclesistica, egli con ciò stesso aveva imboccato la via lungo la quale qualsiasi tentativo umano di compiere autonomamente il miracolo della trasfigurazione risultava essere mostruoso, ridicolo e quindi tragico. Ed ecco che, alla fine, dobbiamo ritornare alla nostra eredità esegetica e omiletica, alla sua costante esortazione alla fatica del pentimento. A differenza della gran quantità di tracce architettoniche e, per così dire, culturali relative alla Trasfigurazione (chiese, monasteri, idee sociali, opere letterarie), l’eredità esegetica e omiletica non è così ricca. A ogni modo è possibile evidenziare, con alcuni esempi, quali siano i temi e gli accenti che hanno interessato i predicatori e i teologi russi in relazione all’episodio della trasfigurazione del Signore. Per quanto riguarda l’aspetto esegetico, qui, dobbiamo chiaramente parlare delle interpretazioni del testo evangelico che racconta della trasfigurazione di Gesù sul monte di fronte ai suoi tre discepoli. Il racconto evangelico, com’è noto, si trova in tutti e tre gli evangeli sinottici (secondo Matteo, Marco e Luca) e riferisce una tradizione sinottica comune. L’esegesi nel senso con111
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temporaneo del termine, quale interpretazione-ricostruzione critica del testo biblico, è comparsa in Russia nella seconda meta del xix secolo, per cui non sorprende che per il brano che ci interessa noi possiamo trovare delle interpretazioni nelle opere dei biblisti russi della fine xix-inizio xx secolo, all’interno di commenti estesi su tutto l’evangelo, o su tutto il Nuovo Testamento oppure sull’intera Bibbia. Per esempio l’Evangelo commentato del vescovo Michail (Luzin?)2, l’Interpretazione dell’evangelo di B. I. Gladkov3, La Bibbia commentata curata da A. P. Lopuchin4. Questo tipo di lavori aveva lo scopo di fornire una spiegazione dettagliata, parola per parola, del senso letterale del testo, configurandosi così a volte come una sorta di parafrasi prolissa e psicologizzante. Per esempio, commentando Matteo 17,6 (“all’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore”), La Bibbia commentata afferma: Secondo Marco 9,6 il timore dei discepoli si manifestò quando Pietro parlava delle tende, secondo Luca 9,34 quando i discepoli furono avvolti dalla nube. Il timore era perfettamente naturale per i discepoli che si trovavano in quelle circostanze. La stessa straordinaria bellezza e il fascino di tale fenomeno li potevano intimorire.
Viene dedicata un’enorme attenzione al confronto dei tre racconti sinottici e alle loro differenze sui dettagli del racconto. A quanto pare, un simile commento non aggiunge nulla di nuovo e di essenziale alla percezione e alla comprensione del testo evangelico e oggi una così minuziosa “vivisezione” dei dettagli puramente esteriori del racconto risulta essere superflua, troppo 2
Episkop Michail, Tolkovoe Evangelie, Sankt-Peterburg 1912. B. I. Gladkov, Tolkovanie Evangelija, Sankt-Peterburg 19134. 4 Tolkovaja Biblija, a cura di A. P. Lopuchin, Sankt-Peterburg 1911. 3
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pedante e noiosa, ma forse va tenuto conto che la scienza biblica russa a cavallo dei due secoli (il xix e il xx) spese la più parte del tempo e delle energie a contrastare la critica biblica occidentale che metteva in dubbio la realtà degli eventi evangelici. È chiaro che eventi quali la Trasfigurazione del Signore esigevano in questi contesti una “cura” particolare. Se a noi interessano le conclusioni ermeneutiche e morali che teologi e predicatori russi ortodossi traevano, sulla base di una pagina così straordinaria dell’evangelo, allora possiamo trovare, anche se non numerosi, dei bei modelli di omelie sulla Trasfigurazione. È chiaro che l’esistenza di tali modelli è legata alla festa stessa della Trasfigurazione, una delle solennità liturgiche più importanti. Nessun vescovo o membro del clero poteva evitare tale tema nel suo ministero, in quanto, volente o nolente, ogni anno doveva tenere un’omelia sulla Trasfigurazione. Tra l’altro, qualcosa si trova nei monumenti letterari dell’omiletica russa degli ultimi mille anni: nelle raccolte dei grandi predicatori russi quali il metropolita Dimitrij di Rostov (1651-1709), Platon (Lev∫in, 1737-1812), Filaret (Drozdov, 1782-1867), il giusto Ioann di Kron∫tadt (1829-1908) e anche di figure a noi più vicine come ad esempio il metropolita di SuroΔ Antonij (Blum, 1914-2003). In che cosa si differenzia l’approccio biblico-esegetico, esaminato finora, da quello pastorale-omiletico che ci apprestiamo ad analizzare? Possiamo dire che le omelie, invece che all’interpretazione del testo evangelico in quanto tale, dedicano maggiore attenzione alle conclusioni morali che se ne possono trarre. Il concetto principale alla base delle omelie sulla trasfigurazione si riduce in sostanza nell’esaminare in che misura sia possibile per l’uomo cambiare, trasformarsi e ritrovare la somiglianza con Dio, in che cosa consista questa possibilità e in che modo possa essere raggiunta. Così il metropolita di Mosca Platon (Lev∫in), uno dei più grandi predicatori russi, nella sua omelia sulla Trasfigurazione del Signore, pronunciata presso il monastero Novo-Spasskij nel 1780, dopo essersi limitato in due parole a menzionare 113
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l’evento evangelico, passa quasi subito a esortazioni di carattere morale: Potremo forse così anche noi, quali membra del nostro Capo che oggi si trasfigura, potremo osare sperare che una simile gloria illumini l’oscura immagine della nostra anima, per diventare anche noi partecipi di una tale grande trasfigurazione? Il divino Paolo ci conferma in questa speranza, lui che afferma che per questo Dio ci ha chiamati alla fede, “per renderci conformi all’immagine del Figlio suo” (Rm 8,29). Solo per questo bisogna che noi, imitando il nostro Signore, con l’azione della preghiera raggiungiamo questa gloria, salendo sul monte santo del suo santo tempio5.
Di seguito il metropolita Platon argomenta in dettaglio e diffusamente sulla necessità della preghiera quale mezzo che trasfigura l’uomo: La preghiera trasfigura il peccatore in uomo giusto, quando questi, meditando sulla gravità dei suoi peccati e, di contro, sulla ricchezza delle viscere di misericordia di Dio, sospira dalle profondità del proprio cuore e grida a Dio con le parole del profeta Davide: “Riconosco la mia iniquità e il mio peccato mi è sempre davanti” (Sal 51,5). Prenderà allora una decisione, secondo l’assicurazione dello stesso profeta: “Ho detto: confesserò contro di me la mia iniquità, e tu hai rimesso la malizia del mio cuore” (Sal 32,5). È questa la trasfigurazione che ha sperimentato su di sé il pubblicano, che dopo essere andato al tempio per pregare e aver pronunciato egli stesso, dinanzi al Giudice giusto, sentenza su di sé, è tornato a casa giustificato6.
5 Polnoe Sobranie So™inenij Platona [Lev∫ina], mitropolita Moskovskogo I, s.l. s.d., p. 538. 6 Ibid., p. 539.
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Se la preghiera, come ama ripetere il metropolita Platon, trasfigura il “peccatore in uomo giusto”, “il miscredente in credente”, “lo schiavo in uomo libero”, “l’uomo carnale in uomo spirituale”, “l’uomo triste e afflitto in lieto e gioioso”, allora anche viceversa, l’uomo che non vuole rivolgersi a Dio e a una vita retta, sprofonda nell’oscurità e nelle tenebre e “si trova nello stato proprio degli animali irrazionali”7. La trasfigurazione di Gesù è la testimonianza del fatto che, di per se stessa, tale possibilità è data a ogni fedele, cioè a chiunque abbia intrapreso il cammino della fede cristiana. La preghiera e il pentimento: ecco la fatica per la quale passa la via verso la trasfigurazione di chiunque desideri raggiungere l’unione con il Signore. Anche l’approccio di san Dimitrij di Rostov si distingue per la tendenza a considerare e interpretare la storia evangelica, compreso l’episodio centrale della Trasfigurazione del Signore in tutti i suoi dettagli, al fine di trarne determinate lezioni pratiche. Il santo vescovo risponde così particolareggiatamente alle domande che egli stesso si pone e che costituiscono una sorta di canovaccio delle sue più diffuse argomentazioni: Perché Cristo Salvatore, desiderando, prima della sua volontaria passione e morte, manifestare ai suoi discepoli, per quanto fosse loro possibile, la sua gloria, non prese con sé sul monte Tabor tutti i discepoli? Perché il Signore prese con sé non degli apostoli qualsiasi, ma proprio Pietro, Giacomo e Giovanni? A qual fine il Signore condusse i suoi discepoli a pregare sull’alto monte, e non si appartò con loro in qualche luogo pianeggiante? Perché il Signore portò gli apostoli sul monte non di giorno, ma sul far della notte? 7
Ibid.
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Perché il Signore per manifestare agli apostoli la gloria della sua Trasfigurazione li condusse in alto sul Tabor, e non su qualche altro monte?
Dimitrij s’interroga a lungo sul motivo per cui Cristo prese con sé sul monte proprio tre discepoli e proprio Pietro, Giacomo e Giovanni, e perché con lui apparvero in gloria Mosè ed Elia. In questo mostra una piena conformità all’opinione comune dei padri a riguardo: Tenendo bene a mente tre virtù necessarie alla salvezza, rimarcate con particolare determinatezza dalla Scrittura, e cioè fede, speranza e carità, diremo: “Il Signore prese con sé questi tre apostoli, perché in loro sin dall’inizio aveva scorto le tre virtù menzionate, che in seguito si sarebbero manifestate in modo perspicuo. In Pietro la fede … in Giacomo la speranza … in Giovanni la carità”8.
Oppure perché, si chiede Dimitrij, il Signore condusse con sé sul monte non tutti i Dodici, ma solo tre di loro? La risposta è abbastanza singolare: Perché tra i Dodici c’era Giuda, che era indegno di una simile visione divina … E Giuda non era forse invidioso dei tre apostoli saliti sul monte? No, non lo era: egli sapeva infatti che erano andati a pregare per tutta la notte, come scrive l’evangelista san Luca: “Prese Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare”; Giuda era pigro e preferiva rimanere a dormire tutta la notte ai piedi del monte; chi è pigro e dormiglione non si compiace delle opere ascetiche9.
8 æitija Svjatych, na russkom jazyke izloΔennye po rukovodstvu ™et’ich-minej sv. Dimitrija Rostovskogo XII, Moskva 1911 (rist. 1992), pp. 98-99. 9 Ibid., p. 96.
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La trasfigurazione nella tradizione omiletica …
Il pentimento, come via verso la trasfigurazione di tutti gli esseri umani, è il tema dominante di gran parte della teologia e dell’omiletica russe dei secoli successivi. Nella Colonna e il fondamento della Verità (1914), il grande teologo russo dell’inizio del xx secolo, Pavel Florenskij, prendendo spunto da esempi biblici come il viso illuminato di Mosè al momento della rivelazione al Sinai (cf. Es 34,29-35), riporta molti esempi analoghi tratti dalla vita degli asceti cristiani: Dell’abba Pambo si diceva che come Mosè ricevette l’immagine della gloria di Adamo, quando il suo volto venne glorificato (cf. Es 34,29), così ad abba Pambo il volto risplendeva come da folgore ed egli era come un re, assiso sul suo trono. Tali erano anche abba Silvano e abba Sisoes. Si racconta che ad abba Sisoes, poco prima di morire, quando gli altri padri sedevano attorno a lui, il volto s’illuminò come il sole. Ed egli disse loro: “È venuto abba Antonio”. Poi dopo un po’ disse di nuovo: “Ecco che viene la schiera dei profeti”. E il suo viso divenne ancora più luminoso. Poi disse: “Ecco, vedo la schiera degli apostoli”. La luce del suo volto divenne due volte più intensa e sembrava che parlasse con qualcuno. Allora gli anziani cominciarono a chiedergli: “Padre, con chi stai parlando?”. Egli rispose: “Gli angeli sono venuti a prendermi, ma io ho chiesto loro di lasciarmi qui ancora un po’ perché mi possa pentire”. Gli anziani gli dissero: “Tu, padre, non hai bisogno di pentirti”. Egli rispose: “No, sono convinto di non aver nemmeno cominciato a pentirmi”. Ma tutti sapevano che egli era perfetto. All’improvviso, il suo volto cominciò di nuovo a brillare come il sole. Tutti si spaventarono, ma egli disse loro: “Guardate, ecco il Signore. Egli dice: ‘Portatemi il vaso eletto del deserto’”, e subito esalò l’ultimo respiro e divenne lucente come un fulmine. Tutta la stanza si riempì di profumo10.
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P. Florenskij, Stolp i utverΔdenie Istiny, Moskva 1990, pp. 101-102.
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Aleksandr V. Sorokin
L’esempio più famoso riportato da Florenskij di come l’ascesi (podvig) cristiana possa trasfigurare l’uomo non solo spiritualmente ma anche corporalmente, è l’episodio dell’incontro tra Serafim di Sarov e Motovilov. Questo episodio è entrato a far parte della tradizione spirituale russa in maniera ben radicata. In tutti questi brani eloquenti e luminosi, scritti con entusiasmo e compartecipazione, è sempre espresso l’incontenibile desiderio di essere in comunione con la luce e la gloria divine. Ma il cammino attraverso il quale l’uomo tende alla trasfigurazione, secondo il pensiero di molti teologi e predicatori russi, è quello della preghiera e del pentimento. Su questo aspetto si sofferma san Ioann di Kron∫tadt nelle sue prediche: Anche noi, fratelli e sorelle, non dobbiamo cercare gioia e felicità sulla terra; qui non è il luogo né il tempo per la beatitudine, ma luogo e tempo per lacrime di pentimento e afflizioni purificatrici11.
Con particolare convinzione e forza, quasi testimoniando in prima persona della bellezza e della luce della Trasfigurazione, il metropolita di SuroΔ, Antonij (Blum), che da poco ci ha lasciati, così scriveva in una sua omelia: Ed ecco che, a volte, ci è dato di sperimentare il mondo trasfigurato, di sperimentare qualcosa di mirabile, divino, che è entrato nella vita; avendone fatto esperienza, noi dobbiamo custodirlo, come la cosa più preziosa, e andare nel mondo per poterlo condividere. Ma potremo condividerlo solo se assumeremo la fatica dell’ascesi e della preghiera: non solo l’ascesi materiale, fisica, ma la rinuncia a tutto ciò che mette noi stessi al centro, a ogni amor proprio, ogni egoismo, ogni vo-
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Ioann Kron∫tadtskij, “Pou™enie na PreobraΔenie Gospodne”.
La trasfigurazione nella tradizione omiletica …
racità psichica o spirituale e non solo corporea, a ogni desiderio di possesso … E questo lo potremo realizzare solo con la preghiera; e ancora: non semplicemente pronunciando le formule della preghiera, non solo quasi costringendoci a entrare nel pensiero e nello spirito dei santi, ma cercando con tutte le forze, in un mondo opaco, oscuro e orfano, di rimanere in comunione con il Dio vivente, lui che è luce, e gioia, e vita12…
La preghiera e il pentimento, quali via verso il monte della Trasfigurazione con il Signore, restano anche oggi il tema fondamentale della predicazione ortodossa, che risuona sia sulle labbra dei vescovi, sia nelle omelie dei semplici parroci.
12 Antonij SuroΔskij, Vo imja Otca i Syna i Svjatogo Ducha. Propovedi, Moskva 1993, p. 20.
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L’ICONOGRAFIA ANTICA DELLA TRASFIGURAZIONE Raffaela D’Este*
Descrizione dell’icona della trasfigurazione
Il monte Tabor con tre cime. Sulla cima più alta, al centro dell’icona, sta il Signore: è ritto e in posizione frontale, all’interno di una mandorla luminosa, resa con un cerchio lucente dentro il quale è tracciato un quadrato rosaceo. I suoi vestiti sono bianchi, con sfumature e ombre leggere. Con la destra benedice e con la sinistra stringe un rotolo … Anche in questa icona, come sempre del resto, il Signore viene ritratto con un’espressione umile, sebbene nella trasfigurazione sia manifestata proprio la sua potenza divina. A destra si raffigura il profeta Elia e a sinistra il profeta Mosè, o viceversa: sono in piedi sulle due cime più basse e si inchinano con rispetto; Elia sta conversando con Cristo e Mosè tiene in mano le tavole della Legge. Più sotto, in mezzo alle rocce, giacciono a terra i tre discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni: le loro posizioni tradiscono dei gesti involontari – Pietro nasconde il volto per lo spavento e grida verso il Signore, Giovanni cade bocconi, Giacomo si gira all’indietro – come se fossero stati colpiti da forze di
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Monaca di Bose.
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Raffaela D’Este
immane grandezza. Sui loro volti è impresso tremore e stupore [tav. 1]1.
Questa è la descrizione che Fotis Kontoglou fa dell’icona della Trasfigurazione nella sua E´kfrasis, il manuale che negli ultimi decenni ha segnato la rinascita dell’iconografia greca2. Tale descrizione ci appare quasi ovvia, come se non potesse essere diversamente. Guardando alla storia dell’iconografia di questo episodio evangelico ci si rende tuttavia conto che tanto ovvia non è, e che essa riflette in realtà lo stadio più recente dell’evoluzione di questa immagine e la lettura esegetica da esso presupposta: quello postbizantino, influenzato dall’esicasmo. In particolare, grande attenzione è riservata alla situazione dei discepoli, ai loro gesti e posizioni: è sottolineato il loro spavento, il loro giacere a terra nella zona inferiore dell’immagine, lontani dalla figura luminosa del Signore. Nelle più antiche immagini della trasfigurazione (Santa Sabina a Roma, lipsanoteca di Brescia, evangelario di Rabbula) i discepoli non sono nemmeno rappresentati. Tutta l’attenzione è posta sull’unità delle Scritture e sul destino dei giusti che accompagneranno nella gloria il Signore nella sua seconda venuta. Poi i discepoli entrano nella composizione (Sinai, Sant’Apollinare in Classe), almeno in modo simbolico, in un paesaggio non ancora precisato come un monte e prefigurante la pace paradisiaca. A questo stadio i personaggi si trovano tutti all’interno di un’unica fascia, separati da distanze minime. Più tardi, quando l’immagine si fa più narrativa (a partire dal ix secolo, nella documentazione che possediamo), il luogo della trasfigurazione viene caratterizzato come un’alta montagna – un monte che dal x al xiv secolo diventa sempre più alto –, simbolo di tutte le ascensioni spiritua1 F. Kontouglou, Εκφρασις τ ς ρθοδξου εκονογραφας I, Astir, Athinai 19933, pp. 166-168. 2 La prima edizione di Εκφρασις è del 1960.
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L’iconografia antica della trasfigurazione
li di cui parlano le Scritture e la tradizione ascetica. I discepoli, inizialmente ritratti in piedi nei pressi della cima, o inginocchiati nell’atto di rialzarsi, vengono ora confinati sempre più alle pendici del monte, come se non fossero affatto saliti con il Signore, in posizioni che tradiscono scompiglio e sconvolgimento: caduti a terra, precipitati a capofitto e come trafitti dai raggi che escono dal globo luminoso. Feriti da una luce troppo abbondante e non sostenibile dall’uomo peccatore, si potrebbe dire. Anche l’aspetto della mandorla luminosa conosce una lunga storia. Assente nei primissimi documenti, appare poi sia come un grande cerchio inglobante oltre a Gesù anche Mosè ed Elia, sia come una forma ovale, più o meno stretta, che isola la figura di Gesù e dalla quale emanano raggi luminosi. Più recentemente, sulla scia del movimento esicasta, la mandorla diventa una figura complessa, fatta dalla sovrapposizione di un cerchio, o un’ellisse, con un quadrato e un rombo, che forse rimanda a una interpretazione trinitaria ed escatologica; essa disegna come una “mappa sacra dell’universo”3, il cui asse è Gesù il Signore. Fotis Kontouglou sottolinea come dalla persona di Gesù traspaia l’umiltà. Questo è uno dei punti fondamentali e costanti della tradizione iconografica. Il volto di Cristo ha i colori della terra e del grano; deve essere al contempo austero e misericordioso, autorevole e mite, umile e saldo. Il suo aspetto è conforme al suo insegnamento e alla sua vita4. È questo stesso volto che nella trasfigurazione, misteriosamente, diventa sorgente della luce5.
3 A. Andreopoulos, Methamorphosis. The Transfiguration in Byzantine Theology and Iconography, St. Vladimir’s Seminary Press, Crestwood ny 2005, p. 235. 4 F. Kontouglou, Εκφρασις I, pp. 400-401. 5 Per una prospettiva più ampia riguardante le origini della festa e dell’icona della Trasfigurazione, vedi M. Aubineau, “Une homélie grecque inédite sur la Tranfiguration”, in Analecta Bollandiana 85 (1967), pp. 401-427; K. Rozemond, “Les Origines de la fête de la Tranfiguration”, in Studia Patristica 17 (1982), pp. 591-593; R. de Féraudy, L’icône de la Transfiguration, Bellefontaine, Bégrolles-en-Mauges 1978.
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Raffaela D’Este
L’aspetto del Signore Una tradizione antica allude alla mutabilità dei tratti del volto di Gesù. Ne parlano gli Atti di Giovanni, un apocrifo risalente al 140-1506, e la riferisce anche Origene: Gesù “non appariva allo stesso modo alle folle e a coloro che erano capaci di seguirlo sull’alto monte”, perché la visione della realtà divina abitante in lui era “proporzionata alla capacità di quelli che lo guadavano”7. Questa tradizione si sovrappone a quella che sostiene che l’aspetto di Gesù fosse privo di bellezza e addirittura sfigurato, in adempimento alla profezia di Isaia 53,2. Tale idea si trova in molti padri antichi, fra cui Giustino8, Ireneo di Lione9, Origene10 i quali spesso pongono in parallelo l’aspetto umile della persona di Cristo e il linguaggio disadorno di bellezza con cui si presentano le Scritture. Entrambe queste realtà celano la profondità della presenza divina che le abita. Nel suo Commento a Matteo Origene sottolinea che nella trasfigurazione non soltanto lo splendore del volto di Gesù è simile a quello del sole, ma anche le sue vesti appaiono candide come la luce. Queste vesti sono le parole e la lettera degli evangeli11. Sempre Origene in un testo della Filocalia afferma: “Quelli che sono stati capaci di seguire le orme di Gesù, che sale ed è trasfigurato perdendo la sua immagine terrena, vedranno la trasfigurazione in ogni parte delle Scritture: il testo letterale è come Gesù che si manifesta ai molti, mentre Gesù salito sul monte e trasfigurato davanti a pochissimi discepoli … è il significato più 6 “Spesso mi appariva come un uomo piccolo e brutto e quindi nuovamente come uno che mirasse al cielo” (Atti di Giovanni 89, in Gli apocrifi del Nuovo Testamento, II. Atti e leggende, a cura di M. Erbetta, Marietti, Casale Monferrato 1966, p. 57). 7 Origene, Contro Celso 6,77, a cura di A. Colonna, Utet, Torino 1971, p. 572; cf. anche ibid. 2,66-67. 8 Cf. Giustino, Dialogo con Trifone 14,8; 36,5-6. 9 Cf. Ireneo di Lione, Contro le eresie III,19,2. 10 Cf. Origene, Contro Celso 2,64; 6,75.77. 11 Cf. Id., Commento a Matteo 12,38.
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L’iconografia antica della trasfigurazione
eccelso ed elevato, quello che contiene le parole della sapienza nascosta nel mistero”12. Ho citato gli Atti di Giovanni perché questo apocrifo contiene anche una delle più antiche versioni della trasfigurazione. Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li porta sulla montagna dove era solito pregare (montagna di cui non è specificato il nome). “Lo contemplammo in una luce tale che è impossibile per un uomo munito di una parola caduca descriverla. Nuovamente ci condusse al solito monte, dicendoci: ‘Venite con me’. Ci andammo e lo contemplammo pregare a una certa distanza”13. Giovanni si avvicina, vede che il corpo di Gesù non è più come quello di un uomo, ma luminoso e grande, tanto che “la testa si appoggiava in cielo”. Mosè ed Elia non sono nominati. L’autore pone tutta la sua attenzione sull’eccezionalità della persona di Gesù e sul privilegio di Giovanni nell’avere accesso a questa rivelazione. Testo sospetto per le possibili interpretazioni e interpolazioni di sapore manicheo e docetico di cui è stato oggetto, gli Atti di Giovanni non ebbero influenza nello sviluppo del pensiero teologico. Essi ci testimoniano tuttavia che la trasfigurazione era un evento importante anche per i gruppi e i movimenti ai margini dell’ortodossia. Inoltre fanno risaltare la lettura di quest’evento recepita nella chiesa antica, dove invece non viene isolata la persona di Gesù, ma l’evento della trasfigurazione è visto in relazione all’unità di tutta la Scrittura, all’unità tra l’evento della croce e la resurrezione, al destino dei giusti di Israele, al destino dei martiri e al compimento escatologico della salvezza. Anche le testimonianze iconografiche che ci sono pervenute confermano ciò.
12 Id., Philocalie 1-20. Sur les Écritures 15,19, a cura di M. Harl e N. De Lange, SC 302, Cerf, Paris 1983, pp. 442-444. 13 Atti di Giovanni 90, p. 57.
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I documenti più antichi
Le più antiche rappresentazioni della trasfigurazione sono estremamente semplificate, ma comportano necessariamente la presenza di Mosè e di Elia. Essi testimoniano che quanto era stato detto nella Legge e nei profeti si compie in Gesù non solo in relazione alla sua vicenda terrena, ma soprattutto in riferimento al disegno di salvezza per tutta l’umanità. Mosè ed Elia rimandano al giorno escatologico.
La trasfigurazione nell’“Apocalisse di Pietro” Questo legame con la realtà degli ultimi giorni appare chiaramente in un testo apocrifo importante nella tradizione cristiana: l’Apocalisse di Pietro. Scritto presumibilmente attorno al 135 (durante la seconda rivolta giudaica, nella quale ben si iscrivono le problematiche dei falsi messia e della ricostruzione del tempio), godette di una grande autorità e di un apprezzamento tale, sia in oriente che in occidente, da sconfinare con la canonicità14. Sozomeno ricorda che ancora alla metà del iv secolo questo testo era letto il venerdì santo nelle chiese della provincia di Palestina. Mentre [il Figlio di Dio] era seduto sul Monte degli ulivi, lo accostarono i suoi discepoli. Lo adorammo; ognuno di noi lo supplicò e lo interrogammo così: “Indicaci i segni della tua venuta e della fine del mondo”15.
14 Cf. l’introduzione all’Apocalisse di Pietro, in Gli apocrifi del Nuovo Testamento, III. Lettere e apocalissi, a cura di M. Erbetta, Marietti, Casale Monferrato 1969, p. 209. 15 Apocalisse di Pietro 1 (testo etiopico), pp. 218-219.
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L’iconografia antica della trasfigurazione
L’Apocalisse di Pietro è ambientata sul Monte degli ulivi, monte escatologico per eccellenza su cui nell’ultimo giorno si poseranno i piedi del Signore (cf. Zc 14,4) e dal quale usciranno per la resurrezione tutti i morti di Israele16. Il Signore mostra a Pietro un’immagine di ciò che avverrà nell’ultimo giorno, il castigo dei peccatori e la gloria dei giusti. Poi Gesù invita i discepoli a salire il monte santo. Essi salgono in preghiera e hanno la visione di Mosè ed Elia nella gloria: Poi il mio Signore Gesù Cristo, nostro re, mi disse: “Andiamo al monte santo”. I suoi discepoli camminarono con lui, pregando. Ed ecco che colà c’erano due uomini. Noi non fummo capaci di fissare il volto di nessuno di loro. Una luce vi si sprigionava più fulgida del sole. Anche il loro vestito riluceva. È impossibile descriverlo … Sulle loro spalle e sulle loro fronti c’era una corona di nardo, intrecciata con splendidi fiori17.
Pietro chiede: “Dove sono dunque Abramo, Isacco e Giacobbe e il resto dei padri giusti?”. Traspare qui quella che è stata una delle prime preoccupazioni nella chiesa nascente: la sorte dei giusti di Israele, che avevano atteso il Cristo, ma erano morti prima della sua venuta. È a partire da questo interrogativo che è stata elaborata già in epoca molto antica la fede nella discesa di Gesù agli inferi. Il Signore mostra a Pietro la dimora dei giusti in un giardino splendido e gli concede anche di vedere il tabernacolo unico, non manufatto, “che il Padre mio celeste ha preparato per me e per gli eletti”. Dopo la proclamazione del Padre: “Questi è il mio figlio diletto”, si assiste al rapimento in
16 Targum al Cantico dei cantici 8,5, in Targum Shir ha-shirim, a cura di A. Piattelli, Barulli, Roma 1975, p. 81; cf. anche la raffigurazione nella sinagoga di Dura Europos della visione delle ossa aride di Ezechiele 37. 17 Apocalisse di Pietro 15, p. 225.
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cielo, l’ascensione di Gesù insieme a Mosè ed Elia: una nuvola splendente li avvolge e li fa entrare nel cielo, dove i giusti vengono a salutarli. Il cielo si aprì e vedemmo uomini in carne. Vennero, salutarono nostro Signore, Mosè ed Elia e andarono in un altro cielo. Si adempì così la parola della Scrittura: “Questa generazione lo cerca e cerca il volto del Dio di Giacobbe”. Grande spavento e commozione ci furono in cielo e gli angeli si schierarono compatti, perché si adempisse la parola della Scrittura: “Aprite le porte, o principi”. Quindi fu chiuso il cielo che era stato aperto. Noi pregammo e discendemmo dal monte, glorificando Dio, che aveva scritto il nome dei giusti in cielo, nel libro della vita18.
Un’appendice alla recensione etiopica specifica che “nostro Signore fece vedere nella trasfigurazione a Pietro, Giacomo e Giovanni … le vesti degli ultimi giorni, quando avverrà la resurrezione dell’ultimo dì”19. Altri elementi ancora, come le corone di nardo intrecciate di fiori sul capo di Mosè ed Elia, rimandano all’immaginario della glorificazione dei martiri e degli eletti. Una testimonianza interessante dell’Anonimo di Bordeaux, uno tra i primi pellegrini di Terrasanta (nel 333), riferisce: “[Dalla valle detta di Josafat] si sale al Monte degli ulivi, là dove il Signore ammaestrò gli apostoli prima della passione. Qui Costantino ha fatto costruire una basilica. Non lontano di lì c’è la collinetta su cui il Signore salì per pregare e dove apparvero Mosè ed Elia, quando prese con sé Pietro e Giovanni. A millecinquecento passi da qui, verso oriente, c’è una località chiamata Betania”20.
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Ibid. 17, pp. 225-226. Ibid., “Appendice al testo etiopico”, p. 227. 20 Le Pèlerin de Bordeaux 595, in Récits des premiers pèlerins chrétiens au Proche-Orient, a cura di P. Maraval, Cerf, Paris 1996, p. 33. 19
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Sappiamo che proprio qui, sulla sommità del monte, dal iv al vii secolo era visibile anche da lontano la croce rifulgente (crux rutilans), menzionata da Girolamo e legata al tema del vero tabernacolo-tempio21. Alla luce di tutto ciò, l’identificazione di due scene – un pannello delle porte lignee di Santa Sabina a Roma e un particolare della lipsanoteca di Brescia – come altrettante rappresentazioni della trasfigurazione mi sembra un’operazione semplice e una conferma dei significati evidenziati.
Santa Sabina La chiesa di Santa Sabina sull’Aventino fu portata a termine durante il papato di Sisto III (432-440). Andreas Andreopoulos mette in evidenza la segnalazione fatta da Erich Dinkler 22 che il titulus posto sopra la porta fa una diretta allusione alla trasfigurazione: “[Trasfigurazione del Signore sul monte] / La sapienza rifulge, brillando nella sua gloria / e mostra Dio ai discepoli, nella misura in cui sono in grado di vedere” (vedi schema 1 a p. 151, e tavv. 2-3)23. Nei 18 pannelli rimasti si riconoscono chiaramente le scene relative ai cicli di Mosè e di Elia e i loro paralleli cristologici. Chiara è pure l’identificazione delle immagini di carattere teofanico (le apparizioni del Cristo risorto, la manifestazione ai magi)
21 Girolamo, Commento al Vangelo di Matteo IV,24,3; si veda anche l’articolo di Stefen Heid, “La croce dorata sul monte degli Ulivi dal iv al vii secolo”, in La Croce. Iconografia e interpretazione (secoli I-inizio XVI). Atti del Convegno internazionale di Sturi (Napoli, 6-11 dicembre 1999) II, a cura di B. Ulianich e U. Parente, De Rosa, Napoli 2007, pp. 49-55. 22 E. Dinkler, Das Apsismosaik von S. Apollinare in Classe, Opladen, Köln 1964, pp. 32-34. 23 “[Tranfiguratio Domini in Monte] / Maiestate sua rutilans sapientia vibrat / Discipulisque Deum, si possint cernere, monstrat”.
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o quelle della famosa crocifissione, del sepolcro vuoto, di Pilato che si lava le mani e dell’annuncio del rinnegamento di Pietro. Altre immagini sono più difficili da comprendere. In una è riconoscibile con certezza il riferimento a un testo di Daniele 14,35 (secondo la Vulgata): “Allora l’angelo del Signore, afferratolo per la testa e sollevandolo per un capello del capo, portò [Abacuc] a Babilonia … con il soffio del suo spirito”. Nel suo Commento al Vangelo di Giovanni, Origene riporta un testo “del Vangelo degli ebrei, dove il Salvatore pronuncia queste parole: ‘Poco fa mi prese mia madre, lo Spirito santo, per uno dei miei capelli e mi trasportò nel gran monte Tabor’”24. Anche dal punto di vista lessicale la frase rimanda a Daniele 14. Negli scritti autentici di Origene non si accenna mai a un legame tra Tabor e trasfigurazione. Quasi due secoli dopo la situazione era diversa e il riferimento al Tabor nel Vangelo degli ebrei poteva essere entrato nello sfondo culturale della lettura di Daniele 14 e giustificare il riferimento a questo testo nell’insieme di testimonianze autorizzanti la dedicazione alla Trasfigurazione della chiesa sull’Aventino. In alto a destra, simmetricamente al pannello della crocifissione c’è un’immagine che è stata variamente interpretata come l’apparizione del Risorto ai discepoli di Emmaus (i due personaggi che affiancano Gesù sono tuttavia chiaramente designati come santi dall’aureola del loro capo), o come una traditio legis anomala (Cristo, al centro, non tiene in mano alcun rotolo, ma qualcosa dalla forma sferica, eventualmente interpretabile come una perla), o ancora come una trasfigurazione, come sostiene Andreopoulos sulla scia di Dinkler. Formalmente essa riprende lo schema della crocifissione nella disposizione delle figure, creando una circolazione di significati tra le due immagini. La presenza di due palme, che inquadrano la figura di Cristo, ci riman-
24 Origene, Commento al Vangelo di Giovanni II,12,87, a cura di E. Corsini, Utet, Torino 1968, p. 226.
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da allo spazio paradisiaco e alle attese messianiche. La perla, secondo il linguaggio biblico, è un simbolo del Regno (cf. Mt 13,45). L’immagine rimanda così alla rivelazione del regno escatologico e all’unità della testimonianza delle Scritture. Se è corretta l’identificazione dell’Apocalisse di Pietro quale sfondo culturale della composizione di queste porte, quella che viene indicata come una strana ascensione corrisponde allora all’entrata di Gesù nel tabernacolo celeste, entrata in cui gli angeli hanno una parte attiva, e il cosiddetto “trionfo di Cristo e della chiesa” rimanda alla realtà finale in cui tutti i giusti e i martiri riceveranno le corone della loro testimonianza. I pannelli in cui Pilato chiede: “Sei tu il re dei Giudei?” e si lava le mani sono consistenti con la problematica messianica. Girolamo nel suo soggiorno romano aveva frequentato l’Aventino, dove Marcella abitava e aveva fatto della sua casa un centro di vita ascetica. Proprio Girolamo, in una lettera del 392 o 393, invita Marcella a venire in pellegrinaggio attraverso queste parole messe sulla bocca di Paola e di Eustochio: “Saliremo sul Tabor, e sotto la tenda del Salvatore noi lo contempleremo in compagnia del Padre e dello Spirito santo, e non con Mosè ed Elia, come volle Pietro”25. Nel 404, nell’elogio funebre di Paola, Girolamo racconta così lo slancio della pellegrina sui passi di Gesù: “Si inerpicò poi sul monte Tabor, dove il Signore si era trasfigurato”26. L’ identificazione del Tabor come monte della trasfigurazione è un dato acquisito negli autori ecclesiastici a partire dalla metà del iv secolo e quella di Girolamo è fra le testimonianze più antiche, ma attesta l’importanza che questo luogo aveva assunto nella geografia della Terrasanta. È possibile che tutto ciò non sia estraneo alla dedicazione del Titulus Sabinae sull’Aventino. 25 Girolamo, Lettera 46,13, in Id., Le lettere I, a cura di S. Cola, Città Nuova, Roma 1962, p. 352. 26 Ibid. 108,13, in Id., Le lettere III, p. 296.
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La lipsanoteca di Brescia La cassetta-reliquiario di Brescia, opera risalente alla fine del iv secolo e probabilmente di produzione milanese, presenta sui lati e sul coperchio un ciclo di raffigurazioni estremamente importante. Le scene raffigurate appartengono all’Antico e al Nuovo Testamento (vedi schema 2 a p. 152, e tav. 4). In parte la tematica presente è la stessa delle catacombe e ruota attorno al problema della salvezza: Giona, Daniele nella fossa dei leoni, Susanna, i fanciulli nella fornace, la resurrezione di Lazzaro. Altre immagini ritraggono alcuni miracoli di Gesù (guarigione del cieco nato, resurrezione della figlia di Giairo), altre lo rappresentano come colui che insegna la Legge o come il buon pastore che difende le pecore dal lupo. Vi sono poi quelle relative ai cicli di Giacobbe, di Mosè, e a qualche episodio dei libri dei Re. Sul coperchio vi è un importante ciclo della Passione e sul retro una grande immagine della punizione di Anania e Saffira, uno stretto riquadro con la morte di Giuda e la probabile rappresentazione della trasfigurazione. Andreas Andreopoulos ritiene sicura questa interpretazione e riporta l’analisi di Catherine Brown Tkacz27 che fa la stessa lettura e vede nel reliquiario di Brescia un’omelia visiva dell’unità dei due Testamenti. Credo che il tema possa essere precisato ulteriormente. Tutte le scene rimandano a un contesto giudiziale: la vita dei giusti è minacciata costantemente, ma il Signore li libera dalla condanna a morte decretata per loro. Il pericolo dell’idolatria o del rinnegamento è sempre presente anche per i credenti. Al giudizio degli uomini si contrappone quello di Dio e la sua testimonianza in favore dei giusti. Gesù consegnato alla morte da Pilato, rinnegato da Pietro, riceve nella trasfigurazione la testimonianza del
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Cf. A. Andreopoulos, Metamorphosis, pp. 106-108.
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Padre (la mano di Dio che appare dal cielo e che rappresenta la sua voce: “Ascoltatelo!” è uno degli elementi fondamentali per il riconoscimento di questa scena), e quella di Mosè e di Elia. Ci si può anche soffermare sulla scena della preghiera al Getsemani, sul coperchio: scena anomala (anche se si tratta forse della primissima rappresentazione di questo episodio), perché Gesù è in piedi e non prostrato o caduto a terra come suggeriscono i sinottici. Forse si può vedere qui un riferimento a Giovanni 12,27-36, testo in cui preghiera al Getsemani e trasfigurazione si fondono, in un contesto esplicitamente giudiziale: “Ora è il giudizio di questo mondo, ora il principe di questo mondo sarà cacciato fuori” (Gv 12,31), nel quale si fa allusione alla gloria (cf. Gv 12,41.43). Questo brano giovanneo, che da un punto di vista formale richiama le scene di vocazione, sottolinea la prossimità fra trasfigurazione e croce, fra gloria della trasfigurazione e gloria della croce: “Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). È probabile che l’orizzonte escatologico della salvezza indicato dall’Apocalisse di Pietro sia presente anche qui, tanto più che queste scene decorano una cassetta destinata ad accogliere le reliquie dei martiri.
L’evangelario di Rabbula La pagina 7a dell’evangelario di Rabbula, un codice siriaco miniato che reca la data del 586, accanto a una tavola dei canoni di Eusebio di Cesarea presenta l’immagine marginale di tre personaggi vestiti di bianco, tutti e tre con l’aureola e inglobati in una sfera di colore azzurrato (tav. 5). È stata fatta l’ipotesi che si tratti di un particolare di una Trasfigurazione raffigurante precisamente Pietro, Giacomo e Giovanni (nell’ordine a partire da destra), data una possibile coincidenza delle fisionomie. Andreopoulos vi vede invece in modo sicuro Gesù insie133
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me a Mosè ed Elia. In realtà apparirebbe strano un cerchio di gloria inglobante i discepoli e si potrebbe anche notare che la figura centrale sembra più grande delle altre e dunque più importante. I tratti degli altri due personaggi si adattano bene del resto alle tipologie di Elia (vecchio) e di Mosè (giovane) tradizionali nell’iconografia. Il fatto di ritrovare questi tre soli personaggi può essere compreso alla luce della lettura della trasfigurazione come testimonianza dell’unità delle Scritture. Come nelle rappresentazioni analizzate sopra, anche in questo caso il miniaturista non dà particolare importanza alla montagna.
Sant’Apollinare in Classe Iniziata sotto il vescovo Ursicino (532-539), la basilica di Sant’Apollinare in Classe fu consacrata nel 549 da Massimiano (divenuto vescovo nel 546 per scelta dell’imperatore Giustiniano stesso, e originario di Pola). Nel 540 Ravenna era stata riportata nell’orbita di Costantinopoli e dell’ortodossia, dopo la fase ariana sotto il regno di Teodorico. Credo sia plausibile pensare che nella scelta della decorazione della chiesa si fosse guidati dal desiderio di propagandare la fede ortodossa. Ancora troppo poco si può dire sull’iconografia degli ariani. Jean-Pierre Caillet fa notare che a Sant’Apollinare Nuovo (poco dopo il 500) i mosaici … si distinguono per la inabituale collocazione di Cristo e della Vergine con il Bambino, posti l’uno di fronte all’altro lungo le pareti della navata, nei pressi dell’abside. Il modo di raffigurare Cristo – sebbene riprendesse sostanzialmente lo schema ortodosso e comportasse inizialmente come attributo il libro sul quale campeggiava la scritta Rex gloriae – non doveva turbare veramente un fedele ariano … Il dato 134
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decisivo stava nell’aver sottolineato un’eguale inferiorità della Vergine-Madre e di Cristo nei confronti dell’onnipotenza di Dio stesso28.
Nella preoccupazione di riaffermare l’ortodossia a Ravenna, doveva apparire essenziale porre nuovamente Cristo al centro dell’abside, secondo i grandi modelli della tradizione romana. La particolarità della basilica di Classe è di aver ritrovato questa centralità sovrapponendo l’immagine della croce gloriosa e quella del volto di Cristo, ritratto in un medaglione all’intersezione dei bracci della croce (tav. 6). Questo volto ebbe un impatto impressionante sui fedeli e fu circondato da leggende circa il suo potere miracoloso29, non ancora spente all’inizio del xiv secolo, quando Dante, forse ispirato proprio dal mosaico di Classe, scriveva: Qui vince la memoria mia lo ’ngegno; ché ’n quella croce lampeggiava Cristo, sì ch’io non so trovare essemplo degno; ma chi prende sua croce e segue Cristo, ancor mi scuserà di quel ch’io lasso, vedendo in quell’albor balenar Cristo30.
Il mosaico absidale della basilica di Classe risale al periodo giustinianeo o, al più tardi, a non oltre la fine del vi secolo, come indica la scrittura musiva che corre sotto la Trasfigurazione31.
28 J. P. Caillet, “Représenter la divinité de Jésus”, in Le Monde de la Bible 147 (2002), pp. 47-51. 29 Cf. M. C. Pelà, La decorazione musiva della basilica ravennate di S. Apollinare in Classe, Patron, Bologna 1970, pp. 113-115. 30 Dante Alighieri, Paradiso XIV,103-108. 31 Cf. S. Casartelli Novelli, “La Trasfigurazione alla metà del vi secolo in Sant’Apollinare in Classe e Santa Caterina al Sinai”, in Le vie del medioevo. Atti del convegno internazionale di studi, Parma, 28 settembre-1° ottobre 1998, Electa, Milano 2000, p. 66.
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Nel mezzo della composizione risalta “la grande ‘croce gemmata’32 con il volto clipeato al centro, campita nel cielo blu fra il fulgore aureo delle lettere apocalittiche (Α e Ω, rispettivamente a sinistra e a destra) e delle novantanove stelle”33, recante alla base la scritta in lettere dorate: “Salus mundi” e alla sommità l’acrostico greco IXΘΥC (Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore), dentro un’iride, anch’essa gemmata (tav. 6). Ai lati, a mezz’aria ci sono Mosè ed Elia, identificati dalle scritte, e nella fascia sottostante, nel quadro di un giardino paradisiaco, i tre discepoli testimoni, rappresentati in figura di agnelli. Più sotto ancora, alla base del catino, due teorie di agnelli (sei per lato) convergono verso la figura orante del vescovo Apollinare. A partire dalle sinopie ritrovate nei restauri del 194934, si è ipotizzato che l’immagine del santo vescovo nella funzione di intercessore sia stata introdotta in un secondo momento, al posto di quella dell’agnello mistico (l’agnello che sta ritto su di un monticello – il monte del paradiso – dal quale sgorgano quattro fiumi) attorniato dal collegio apostolico. Ritroveremmo qui un motivo noto all’arte cristiana antica35, familiare a Ravenna perché presente nei sarcofagi di Galla Placidia, e anche lo stesso schema decorativo delle basiliche di Nola e di Fondi, di cui parla Paolino di Nola (355 ca.-431)36. 32 Croce dorata, con gemme incastonate e una caratteristica svasatura verso l’esterno alle estremità dei bracci. 33 S. Casartelli Novelli, “La Trasfigurazione alla metà del vi secolo”, p. 66. Cf. anche M. C. Pelà, La decorazione musiva, pp. 126-128, che segnala la possibile interpretazione del numero 99 come l’acclamazione: Amen. Il valore numerico delle cifre della parola Αμν è infatti 99. 34 Cf. ibid., pp. 158-159. 35 Cf., ad esempio, F. van der Meer, Maiestas Domini. Theophanies de l’Apocalypse dans l’art chretien, Pontificio istituto di archeologia cristiana, Città del Vaticano 1938, pp. 43-63. 36 Paolino di Nola, Le lettere II, a cura di G. Santaniello, Ler, Napoli 1992, pp. 249-250. La Trinità rifulge nella pienezza del mistero: “Cristo ha figura dell’agnello, la voce del Padre tuona dal cielo / e lo Spirito scende sotto forma di colomba. / Una corona cinge la croce con un cerchio luminoso, / a cui fanno da corona gli apostoli / raffigurati in un coro di colombe”.
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I versi di Paolino, talora oscuri e non sempre utili alla restituzione grafica della decorazione, hanno comunque permesso di individuare una composizione assiale, che vede, in alto, la mano di Dio Padre, che esce dalle nubi. Al centro una croce, forse gemmata, campisce un globo stellato, definito da una corona costituita da dodici colombe … Nel settore sottostante, la colomba dello Spirito vola sull’agnus Dei, situato sul monte mistico, da cui sgorgano i quattro fiumi del paradiso. La proposta ricostruttiva del Wickhoff fu sostanzialmente accolta da molti studiosi … con qualche variante … relativamente alla teoria degli agnelli, a cui Paolino non fa cenno [tav. 7]37.
Queste considerazioni permettono di collocare il mosaico di Classe all’interno di un linguaggio figurativo simbolico-apocalittico di cui l’Italia offre molti esempi38. Il tema della croce gloriosa – quella apparsa nel cielo di Gerusalemme nel 351 che tanto impressionò i contemporanei39, quella preziosa e tempestata di gemme che era stata fatta porre sul Golgota da Teodosio II nel 41640 o quello della croce rutilans del Monte degli ulivi – appare nel mosaico di Santa Prudenziana a Roma (primo ventennio del v secolo), sulle monete, sulle ampolle di Terrasanta, nel cielo stellato a Galla Placidia a Ravenna … Il rimando al tema della salvezza escatologica era un dato immediato per i contemporanei, anche a causa del valore simbolico dei luoghi menzionati41.
37 F. Bisconti, “La croce nell’arte paleocristiana in Campania”, in La croce I, pp. 267-268 e n. 16. 38 Cf. S. Casartelli Novelli, “La Trasfigurazione alla metà del vi secolo”. 39 Cf. Cirillo di Gerusalemme, Lettera all’imperatore Costanzo, PG 33,1165-1176. 40 Cf. L. Travaini, “La croce sulle monete”, in La croce II, p. 14 e n. 16. 41 Cf. anche E. Kitzinger, L’arte bizantina, Il Saggiatore, Milano 1977, pp. 112-116.
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Croce e trasfigurazione. Vi è una traccia antica, di tipo liturgico, del legame fra trasfigurazione e croce. Nel Sinassario armeno di Ter Israel, che pretende risalire alla prima generazione anche se è documentato solo tardivamente, si dice che la trasfigurazione ebbe luogo quaranta giorni prima del venerdì santo, ma che i discepoli ne fissarono la celebrazione la domenica seguente la festa di Vardavar (“Festa delle rose”) per sostituire una festa di Afrodite42. La data del 6 agosto riportata da tutte le testimonianze georgiane, siriache e bizantine cade esattamente quaranta giorni prima della festa dell’Esaltazione della croce. Ancora di recente ho sentito ripetere da fedeli bizantini che, cadendo i quaranta giorni prima del venerdì santo sempre in quaresima, la data era stata spostata per poter adeguatamente celebrare la festa. In occidente, già al tempo di Leone Magno (440-461) l’evangelo della trasfigurazione era letto il sabato precedente la seconda domenica di quaresima. Il legame tra passione e trasfigurazione è esplicito negli evangeli e sarà ripreso come riferimento fondamentale nei tropari della festa43. Leone Magno lo sottolinea con accenti simili ed esplicita il legame tra la croce e l’attesa escatologica. Con la trasfigurazione Gesù si prefiggeva innanzitutto di strappare dal cuore dei discepoli lo scandalo della croce, perché l’umiliazione della passione, volontariamente abbracciata, non potesse mettere a repentaglio la fede di coloro ai quali era
42 Cf. M. Aubineau, “Une homélie grecque inédite sur la Transfiguration”, in Analecta Bollandiana 85 (1967), pp. 424-425. 43 Apolytíkion: “Ti sei trasfigurato sul monte, o Cristo Dio, mostrando ai tuoi discepoli la tua gloria, a seconda della loro capacità. Fa’ risplendere anche su di noi la tua luce; per le preghiere della Madre di Dio, o datore di vita, gloria a te”. Kondákion: “Ti sei trasfigurato sul monte e i tuoi discepoli hanno contemplato la tua gloria, nella misura in cui erano pronti ad accoglierla, o Cristo Dio, affinché quando ti avessero visto crocifisso potessero credere volontaria la tua passione e poi predicare al mondo che tu sei veramente lo splendore del Padre”.
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stata rivelata l’eccellenza della dignità nascosta di Cristo. Inoltre, con una provvidenza non inferiore, veniva posto un fondamento certo alla speranza della santa chiesa, di modo che, essendo l’intero corpo di Cristo consapevole di quale trasfigurazione gli era riservata, anche le membra potessero contare fermamente di partecipare a quella stessa gloria che risplendette nel loro capo. Nessuno arrossisca della croce di Cristo, grazie alla quale il mondo è stato redento. Nessuno tema di soffrire per la giustizia o dubiti della ricompensa promessa44.
Credo che questo legame riceva una conferma ulteriore nell’identificazione del Tabor come monte della trasfigurazione. L’altura vicina al Tabor, un po’ più bassa rispetto ai suoi 588 metri, identificata dalla tradizione patristica come Hermon, o come piccolo Hermon, è chiamata nella tradizione giudaica Giv’at haMore (“la collina del maestro”). Giunti qui, al crocicchio delle grandi strade dell’antichità, Giv’at haMore indicava in modo sicuro la direzione di Gerusalemme. Ben si applica allora il versetto: “Mentre si avvicinava il tempo in cui sarebbe stato tolto dal mondo, Gesù si mise risolutamente in cammino [rese duro il suo volto] per andare a Gerusalemme” (Lc 9,51), che segue di poco il racconto della trasfigurazione.
Santa Caterina al Sinai Il mosaico absidale della chiesa del monastero della Theotokos (tav. 8) è più o meno contemporaneo all’edificio della stessa chiesa, ultimata (come testimoniano le iscrizioni sulle travi di
44 Leone Magno, Omelia sul vangelo della trasfigurazione, a cura di R. Dolle, SC 74, Cerf, Paris 1961, pp. 12-21.
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copertura) subito dopo la morte di Teodora e mentre Giustiniano era ancora in vita (tra il 548 e il 565). In ogni caso viene datato non oltre la fine del vi secolo. Del monastero si conosce la dedicazione alla Vergine, al momento della fondazione; si ha testimonianza che nel xiv secolo i pellegrini (quelli occidentali almeno) lo conoscevano come posto sotto la protezione di santa Caterina, e solo alla metà del xvi secolo risale la segnalazione della dedicazione della chiesa alla Trasfigurazione di nostro Signore Gesù Cristo45. All’epoca della redazione del suo articolo, André Guillou concludeva che circa l’autenticità e la datazione del mosaico non c’era che da affidasi alle testimonianze dei pellegrini, i quali comunque potevano aver notato e ammirato ben poco, dato che “la presenza della troppo ricca iconostasi e le innumerevoli lampade che pendevano dal soffitto della navata”46 ne nascondevano la vista. E concludeva: “Credo di poter ritenere come fonte valida solo il tema della trasfigurazione. Per nostra fortuna, uno dei monaci più celebri del monastero della Theotokos ha scritto e pronunciato un’omelia precisamente sulla Trasfigurazione”47. Del resto, questo mosaico non è servito come modello alla tradizione iconografica successiva, né nella sua struttura, né nelle caratterizzazioni iconografiche, e resta un documento unico nella sua composizione. Dopo i restauri del 195848 la sua datazione non fa più problema, ma la complessità della lettura rimane. Il mosaico del Sinai è certamente un’opera inconsueta, con elementi caratteristici, quali la proto-deesis sopra la Trasfigurazione e la mandorla a forma di uovo, che non appaiono in
45 Cf. A. Guillou, “Le monastère de la Theotokos au Sinaï”, in Melanges d’Archéologie et d’Histoire 67 (1955), pp. 217-258, qui pp. 222-224. 46 Ibid., p. 227. 47 Ibid., p. 230. 48 Lavori eseguiti da una campagna dell’Università di Princeton-Michigan, diretti da G. Forsyth e K. Weitzmann.
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nessun’altra icona della trasfigurazione. Basandosi su questi soli dati, si sarebbe tentati di mettere in discussione la datazione del mosaico, ma lo stile protobizantino delle figure e l’evidenza archeologica non ci permettono di farlo. Questa immagine fu certamente una realizzazione artistica innovatrice e costituisce una delle più significative e autorevoli rappresentazioni della trasfigurazione49.
Osservando il mosaico si nota che le grandi figure del catino sono racchiuse da una cornice contenente dei medaglioni: nel bordo inferiore diciassette profeti (i Dodici profeti, con Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele, otto da una parte e otto dall’altra, e al centro un medaglione che porta il nome di David, ma nei cui tratti si riconosce la fisionomia dell’imperatore Giustiniano). Nel bordo superiore, una fascia lungo il raccordo tra il catino e l’arco trionfale, vi sono quindici medaglioni: quello centrale è formato da due cerchi concentrici blu e azzurro sui quali campeggia una croce gloriosa. Da un lato e dall’altro ci sono dodici apostoli-evangelisti (gli undici, eccetto i tre testimoni rappresentati nel catino, a cui si sommano Paolo, Marco, Luca e Mattia). All’incrocio dei due bordi sono ritratti due personaggi viventi, il diacono Giovanni, sul quale non abbiamo altre informazioni, e il presbitero Longino, che era igumeno del monastero quando il mosaico fu realizzato. Sull’arco trionfale ci sono, a sinistra il medaglione di Giovanni Battista (in corrispondenza di Elia), a destra quello della Vergine, in una sorta di composizione che preannuncia la deesis. Nel mezzo infatti sta un medaglione con l’agnello di Dio, su un campo crociato formato da due cerchi concentrici blu e azzurro, posto sullo stesso asse individuato dalla figura di Gesù e dal medaglione con la croce. Due angeli-nike volano verso l’agnello. “Tutto ciò è del tutto inusuale, dato che la deesis, come
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A. Andreopoulos, Methamorphosis, pp. 143-144.
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tipologia definita, in cui Giovanni Battista e la Vergine intercedono presso Cristo per la nostra salvezza e simultaneamente rappresentano la convergenza dell’Antico e del Nuovo Testamento … non appare prima dell’xi secolo50. Già da questa cornice appare centrale il tema dell’unità delle due alleanze e delle Scritture in Cristo: l’uomo Gesù, il Crocifisso-risorto (la croce), l’agnello escatologico che sta ritto sul monte Sion e attorno al quale tutti i santi sono radunati (cf. Ap 14,1). Curiosamente nessuna scritta individua Cristo, diversamente dall’abbondanza di titoli che si trovano a Classe. Qui basta la sua presenza e il nimbo crociato attorno alla testa. Nella composizione all’interno del catino tutti i personaggi della scena evangelica sono presenti a piena figura naturale, che Weitzmann analizza individuando tre livelli di fisicità: il primo è quello della figura diafana e pressoché bidimensionale del Cristo, il secondo quello delle figure laterali di Mosè ed Elia che appaiono più solide, il terzo quello delle masse tridimensionali dei discepoli e la postura fortemente naturalistica di Pietro. La qualità dell’opera indica che le maestranze che l’hanno realizzata dovevano provenire dalla capitale. I tratti delle fisionomie e l’uso delle ombreggiature mostrano affinità con i mosaici di San Vitale a Ravenna, di epoca giustinianea51. Giacomo e Giovanni sono ritratti in preghiera: inginocchiati, con le braccia alzate in segno di intercessione e guardano all’indietro verso Gesù trasfigurato. Pietro è l’unico a terra: la posizione delle sue braccia sembra formare o tenere una piccola tenda52. Il tema della dimora sembra dunque essere esplicito anche nell’immagine.
50 Ibid., p. 129, che cita Studies in the Arts at Sinai. Essays by K. Weitzmann, Princeton University Press, Princeton 1982, p. 222. 51 Cf. E. Kitzinger, L’arte bizantina, pp. 112 ss., tavv. 177-183 e n. 35. 52 Cf. G. Millet, Recherches sur l’iconographie de l’Évangile, Boccard, Paris 19602, p. 220, cit. in A. Andreopoulos, Methamorphosis, p. 130.
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Il Sinai e il Tabor. Ci si può porre la domanda del perché di questa immagine proprio nella chiesa del Sinai. Una risposta sembra ovvia: perché Mosè aveva visto la gloria del Signore dopo essere salito sul monte Sinai (cf. Es 34,4 ss.) e perché Elia sperimentò il passaggio del Signore sull’Oreb (cf. 1Re 19,8 ss.), termine che è semplicemente un altro nome per lo stesso Sinai. Dalla tradizione giudaica traspare una polemica che coinvolge il Sinai, il Tabor e il Carmelo. La si trova, ad esempio, nel Targum Jonathan al salmo 68,16-17, dove si parla del luogo scelto da Dio come dimora: v. 16: Il monte Moria, il luogo in cui i patriarchi resero culto dinanzi al Signore, fu scelto per la costruzione del santuario; il monte Sinai [fu scelto] per il dono della Torà, il monte Mathnan, il monte Tabor e il Carmelo furono squalificati e una gobba53 fu fatta per loro come per il monte Mathnan. Altra interpretazione: Il monte Moria fu scelto, come primo per il culto dei patriarchi dinanzi al Signore, come secondo perché vi fosse costruito il santuario; il monte Sinai fu estratto a questo punto e scelto come terzo per la Torà; il monte Buthnin fu scartato e allontanato; il monte Tabor: qui fu operato un miracolo per Barak e Debora; il monte Carmelo: miracoli furono operati qui per il profeta Elia. Ma essi si misero a gareggiare l’uno con l’altro e a litigare l’uno con l’altro. Uno disse: “Su di me dimorerà la presenza”, e l’altro sostenne: “Su di me dimorerà la presenza”. E il Signore del mondo, che truffa l’orgoglioso e il ribelle a favore dell’umile, li sbatté giù e furono squalificati. v. 17: Dio disse: Perché sussultate o monti? Non sarà mio volere dare la Torà ai monti orgogliosi e altezzosi. Ecco, monte Sinai, tu che sei umile: la parola del Signore desidera porre su
53 Allusione alla forma caratteristica del monte Tabor, che si erge isolato in mezzo alla valle di Yezreel.
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di te la sua presenza; [ma] nel più alto dei cieli il Signore dimorerà per sempre.
Nel Midrash Rabbah-Numeri 13,3 si riprendono le stesse accuse nei confronti del Tabor e del Carmelo commentando Proverbi 29,23. L’orgoglio dell’uomo gli procura umiliazione si applica al Tabor e al Carmelo, che vennero dalle estremità del mondo proclamando con vanto: “Noi siamo alti e il Santo, benedetto-eglisia, darà a noi la Torà”. Invece: L’umile di spirito avrà l’onore si applica al Sinai che umiliò se stesso dicendo: “Io sono basso” e per questo il Santo, benedetto-egli-sia, pose la sua gloria sopra di lui e qui sopra fu consegnata la Torà.
Un’affermazione più positiva nei confronti di Tabor e del Carmelo si trova nel Midrash ai Salmi, a proposito del salmo 87,1: Le sue fondamenta sono sui monti del Santo. Altra interpretazione: le fondamenta del mondo reggono grazie ai due monti della santità, il monte Sinai e il monte Moria. Disse rabbi Pinchas a nome di rabbi Reuven: “Nel tempo futuro il Santo, benedetto-egli-sia, farà avvicinare il Sinai e il Tabor e il Carmelo e porrà Gerusalemme sulle loro cime, come è detto: ‘Il monte della casa del Signore sarà stabile sulla cima ai monti’ (Is 2,2)”.
Yalkut Shimoni, un commento medioevale, riferisce la stessa interpretazione leggendo il testo parallelo di Michea 4,1. Questi documenti suggeriscono l’esistenza di un’aspettativa, non frutto soltanto di polemica, relativa alla dimora della Shekinà sul Tabor. Le testimonianze patristiche associano in modo sicuro il monte Tabor con la trasfigurazione solo a partire dalla metà del iv secolo. Commentando il salmo 88,13 (“il Tabor e 144
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l’Hermon esultano nel tuo Nome”), Eusebio di Cesarea riferisce questo abbinamento come opinione personale. Cirillo di Gerusalemme, parlando dell’incarnazione di Cristo come evento possibile e fondato sulle Scritture, lo dà come un dato conosciuto da tutti. Abbiamo ancora due testimoni, i due che avendo potuto restare alla presenza del Signore sul monte Sinai – Mosè riparandosi nella fenditura di una rupe ed Elia riparandosi all’ingresso di una spelonca – furono presenti alla trasfigurazione sul monte Tabor e poi riferirono ai discepoli quanto avevano sentito circa la sua dipartita a Gerusalemme54.
Epifanio di Salamina e Girolamo considerano questa associazione come cosa nota; Eteria invece, che secondo Pietro Diacono era salita al Tabor, non ne parla (attorno al 385). Alcune tradizioni, proprie ai melkisedekiani ma conosciute anche da Atanasio e dalla tradizione della chiesa copta, ponevano sul Tabor l’incontro tra Abramo e Melkisedek, incontro che le tradizioni giudeo-cristiane situavano invece nella grotta del Golgota. C’è dunque un migrare di tradizioni relative alla dimora-tempio che unisce da un lato il Tabor con il Moria e il Sinai, e dall’altro il Tabor con il Monte degli ulivi, il Golgota ed eventualmente il monte delle tentazioni. Circa le origini della festa della Trasfigurazione55, sappiamo che essa non compare ancora nel lezionario armeno di Gerusalemme del v secolo, ma è presente alla data del 6 agosto nel gran-
54 Cirillo di Gerusalemme, Dodicesima catechesi battesimale. L’incarnazione 16, in Id., Le catechesi, a cura di C. Riggi, Città Nuova, Roma 1993, p. 232. 55 Cf. M. Aubineau, “Une homélie grecque inédite sur la Transfiguration”, pp. 422-426, n. 36; K. Rozemond, “Les Origines de la fête de la Tranfiguration”, in Studia Patristica XVII (1982), pp. 591-593.
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de lezionario georgiano che riflette le consuetudini liturgiche di Gerusalemme tra il v e l’viii secolo. Esso segnala come seconda lettura biblica della festa la pericope di Zaccaria 14,16-21, testo che parla del pellegrinaggio di tutti i popoli verso Gerusalemme per celebrare la festa delle Capanne (Sukkot)56. Ritroviamo dunque la connotazione escatologica propria delle celebrazioni di Sukkot. Anche la prima apocalisse apocrifa di Giovanni, testo databile al v-vi secolo e una delle testimonianze più antiche della localizzazione della trasfigurazione sul Tabor, testimonia il legame con la lettura escatologica. Asceso al cielo il Signore nostro Gesù Cristo, io, Giovanni mi recai solo al monte Tabor, là dove già ci aveva mostrato la sua divinità immacolata. Non potendo reggermi in piedi, caddi a terra e pregai il Signore così: “O Signore Dio mio, che hai voluto che io divenissi tuo servo, ascolta la mia voce e istruiscimi circa la tua venuta, quando cioè verrai di nuovo sulla terra che cosa dovrà succedere e che cosa accadrà del cielo, della terra e del sole e della luna a quell’epoca. Fammi conoscere ogni cosa57.
Si può forse supporre, soprattutto a partire dalle tracce della polemica presente nei testi rabbinici, che il Tabor fosse divenuto un luogo importante per la tradizione giudaico-cristiana. Questo spiegherebbe l’iniziale silenzio delle fonti, cosa comune anche agli altri luoghi cari al culto dei giudeo-cristiani. Parte
56 K. Rozemond segnala che in alcuni menologi siriaci giacobiti quella del 6 agosto è chiamata “festa delle Capanne del monte Tabor” (cf. K. Rozemond, “Les Origines de la fête de la Tranfiguration”, p. 591). La profezia di Zaccaria 14,9 – erroneamente citata come profezia di Malachia – accompagna la miniatura dell’ingresso in Gerusalemme nel Codice di Rossano Calabro. 57 La prima Apocalisse apocrifa di Giovanni 1, in Gli apocrifi del Nuovo Testamento III, p. 410.
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di queste tradizioni passò al patrimonio di tutta la chiesa quando queste comunità, ancora attestate nel v-vi secolo, furono assimilate o si dissolsero o confluirono verso altri orizzonti di appartenenza religiosa. La grande riforma avvenuta attorno al concilio in Trullo, nel 692, e negli anni successivi, che ha fissato l’aspetto della liturgia bizantina58, è stata segnata da personalità legate alla Terrasanta59 e alle sue tradizioni, una delle quali è probabilmente proprio la trasfigurazione. L’omelia di Anastasio il Sinaita (vii secolo), attestazione della festa liturgica della Trasfigurazione, si inserisce a questo punto. Ci si può chiedere se l’investitura delle prerogative del Tabor, monte della trasfigurazione, sul Sinai, suggerita dall’esistenza del mosaico del vi secolo, non avesse una rilevanza polemica proprio di fronte alle posizioni rabbiniche, che avevano concentrato sul Sinai, l’unica montagna che restava loro, tutto il peso della santità. Leggendo l’omelia di Anastasio si può sottolineare l’importanza del tema del compimento dei simboli e delle profezie, e di quello del rapporto tra Antica e Nuova Alleanza, che è visto sempre, almeno così mi sembra, all’interno di un orizzonte escatologico, cosa questa importante come chiave di lettura del “compimento delle Scritture”60: Il Sinai non ha aperto a Mosè la terra della promessa, il Tabor invece fa entrare Mosè nella terra della promessa … Dopo aver annunciato, camminando in mezzo a loro, le parole riguardanti il Regno e la sua seconda venuta nella gloria … volendo anche che [i discepoli] credessero alle cose future a
58 Cf. le considerazioni di A. Kartsonis, Anastasis. The making of an Image, Princeton University Press, Princeton 1986, per il formarsi dell’iconografia dell’anástasis, del seppellimento, della crocifissione, pp. 62-67. 59 Andrea di Creta, Giovanni di Damasco, Cosmas di Maiuma… 60 Cf. M. Coune, La joie de la Transfiguration d’après les Pères d’orient, Bellefontaine, Bégrolles-en-Mauges 1985, p. 155 e A. Guillou, “Le monastère de la Theotokos au Sinaï”, p. 241, n. 39.
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partire da quelle presenti, produsse in modo meraviglioso la teofania sul Tabor, quale forma precorritrice, come in immagine, del regno dei cieli.
Altri documenti
Tracce di un affresco della trasfigurazione sono ancora visibili nella “chiesa sud” di Shivta (la Sobata del periodo bizantino), nel Negev. Già nel 1914 erano stati segnalati i resti di questa raffigurazione, oggetto di un recente studio del professor Pau Figueras dell’università di Beersheva61. Sarebbe questa la prima rappresentazione absidale conosciuta di questo tema, risalente agli inizi del vi secolo. Figueras vede il motivo della scelta di questo tema nel valore simbolico dell’evento in rapporto all’affermazione della divinità di Cristo: Nel v secolo la Palestina era stata teatro dell’acerrimo conflitto, nella chiesa, tra la corrente calcedonese e quella monofisita … È plausibile che il dipinto della Trasfigurazione a Shivta sia in qualche modo legato a questa controversia … Una ragione simile può aver motivato la decorazione, proprio con il mosaico della Trasfigurazione, dell’abside centrale della nuova chiesa che di lì a poco l’imperatore Giustiniano farà erigere al Sinai62.
Probabilmente anche sulla facciata esterna est della basilica eufrasiana di Parenzo (metà del vi secolo) ci doveva essere un 61 P. Figueras, “Remains of a Mural Painting of the Transfiguration in the Southern church of Sobata (Shivta)”, in ARAM Periodical 18 (2006), pp. 127-151. 62 Ibid., p. 135.
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mosaico della trasfigurazione, di cui sfortunatamente non resta quasi nulla. Andreopoulos tratta ampiamente nel suo lavoro63 del mosaico della chiesa dei Santi Apostoli a Costantinopoli. La costruzione della chiesa risale al 560 e il mosaico è andato perduto, ma ne possediamo una descrizione fatta da Nikolaos Mesarites nel xii secolo. In base a tale descrizione, l’immagine doveva essere di tipo narrativo, rimandando perciò a un periodo, almeno nei modelli, precedente l’iconoclasmo. Essa doveva essere molto simile a quella della miniatura del manoscritto delle opere di Gregorio di Nazianzo conservato a Parigi e risalente al ix secolo (tav. 9), in cui Mosè ed Elia entrano nel globo luminoso che circonda Gesù, mentre Pietro, in piedi, sta parlando e, come gli altri discepoli – colti nell’atto di sollevarsi da terra – si trova poco distante dalla cima del monte. La stessa tipologia ritorna altrove sempre nel ix secolo: nella cappella di Zenone nella chiesa di Santa Prassede a Roma (dell’823), accanto alla quale si può ricordare il mosaico dell’arco trionfale della chiesa di Nereo e Achilleo, sempre a Roma e il mosaico dell’arco trionfale della stessa chiesa di Santa Prassede, dove è riprodotta la Gerusalemme celeste (tavv. 10-11). Qui, all’interno delle mura della città due schiere di santi convergono verso Cristo, al centro, guidate quasi nel loro percorso dalle sovrastanti figure di Mosè, con le tavole della Legge, e di Elia. Uguale schema si trova nella croce-reliquiario di Pliska (tav. 12), nella miniatura al salmo 88,12 del Salterio Khludov (tav. 13), datato 857-865; e ancora, nel x secolo nelle chiese della Cappadocia (tav. 14). Le posizioni dei discepoli possono variare, ma le immagini sottendono una visione comune. La chiesa dei Santi Apostoli era una delle più famose di Costantinopoli, il mosaico era ben conosciuto e fu copiato abbon-
63 A. Andreopoulos, Methamorphosis, p. 169 ss. Sull’omelia di Mesarites (Omelia su Matteo 56,4) cf. anche G. Millet, Recherches sur l’iconographie de l’Évangile, pp. 216 ss.
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Raffaela D’Este
dantemente. Si può presumere che abbia influenzato, o almeno espresso, la contemporanea iconografia della trasfigurazione. Dopo l’iconoclasmo assistiamo a un graduale discostarsi delle immagini della trasfigurazione dai modelli narrativi, per sviluppare altri aspetti dell’iconografia del soggetto, più consoni alla ricerca teologica dell’epoca, sui quali l’esicasmo e la teologia della luce divina si sono soffermati64. La montagna diventa sempre più alta e la gloria, luce inaccessibile dove Dio abita e di cui si riveste come di un mantello, è ormai riservata soltanto a Cristo. Gesù appare isolato al centro e al vertice della composizione. Più che l’unità delle Scritture o l’anticipazione della realtà escatologica, l’uomo è portato a misurare tutta la distanza che separa lui, peccatore, dalla luce e dalla santità di Dio (tav. 15). Questo schema sottende tutte le immagini della Trasfigurazione a partire dal xiv secolo ed è sostanzialmente quello che Fotis Kontoglou ha ripreso e al quale ci rifacciamo spontaneamente pensando all’icona della Trasfigurazione.
64 Cf. ibid., pp. 170, 177. Questo mio contributo era stato previsto come una semplice rassegna di documenti riguardanti la storia dell’iconografia della trasfigurazione. Tuttavia durante la raccolta dei dati si accumulavano anche gli interrogativi o emergevano corrispondenze inattese. Importanti sono stati gli stimoli e le conferme venutemi dalla recente pubblicazione di Andreas Andreopoulos. Sono sempre più convinta che lo studio dei documenti iconografici apporti un contributo importante alla storia dell’esegesi dei testi biblici. Certamente su questa strada c’è ancora tanto lavoro da fare.
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intercessione di Mosè le quaglie e la manna, l’acqua dalla roccia
guarigione del cieco, moltiplicazione pani pesci, nozze di Cana
Pilato si lava le mani
missione di Mosè roveto ardente la mano di Dio Mosè sul monte Horeb dedicazione della chiesa di Santa Sabina
apparizione del Risorto apparizione del Risorto a Tommaso alle donne
mirrofore e sepolcro vuoto
crocifissione
l’angelo che guida colonna di fuoco mar Rosso miracoli dell’Esodo
Cristo e il rinnegamento di Pietro
Ascensione: Cristo portato in cielo dagli angeli
magi
Cristo dinanzi a Pilato
ascensione di Elia
Abacuc preso da un angelo per i capelli e portato a Babilonia
trionfo di Cristo e della chiesa
trasfigurazione
L’iconografia antica della trasfigurazione
Schema 1: disposizione attuale dei pannelli delle porte lignee di Santa Sabina.
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Schema 2: distribuzione delle scene sulla lipsanoteca di Brescia.
Susanna I
e II
apparizione alla Gesù Maddalena insegna (emorroissa?)
resurrezione della figlia di Giairo
adorazione del vitello d’oro
Giona I
al pozzo
lotta
ciclo di Giacobbe
ciclo di Mosè, preparazione del vitello d’oro
Anania morte e di Saffira Giuda
Mosè fanciulli preghiera Giona Daniele roveto nella ? di sotto e il drago ardente fornace Susanna il ricino (Dn 14)
Gesù è preso per essere messo a morte
rinnegamento di Pietro gallo
guarigione resurrezione trasfiguragallo del cieco di Lazzaro zione nato
Daniele nella fossa dei leoni
Gesù pastore porta delle pecore e lupo
e II
Pilato si lava le mani
Gesù davanti a Pilato
David Geroboamo e e il profeta Golia (1Re 12-13)
arresto di Gesù Gesù rimane in silenzio
preghiera al Getzemani
Raffaela D’Este
LA LUCE DELLA TRASFIGURAZIONE NELL’ICONOGRAFIA ORTODOSSA Stamatis Skliris*
Introduzione: quale realtà è… reale?
Il mistero della divina trasfigurazione pone il problema delle molteplici interpretazioni della realtà. Nell’umana esistenza di solito vediamo la realtà come il vero ed evidente ambiente dell’uomo, mentre in alcuni momenti la sua stessa evidenza rappresenta il mistero più grande. Si può concludere che tale evidenza non è altro che un risultato della tendenza dell’uomo a formulare teorie? In ogni caso l’esperienza umana mette in discussione l’unidimensionalità della realtà e ci fa intravedere la possibilità di un altro modo di esistenza. Nell’arte contemporanea i surrealisti ci fanno intravedere, seppure per via negativa, le sue molteplici interpretazioni. Per quanto concerne il mistero della divina trasfigurazione accade come se ci trovassimo dinanzi a una duplice realtà. Da un lato quella quotidiana, nella quale Gesù si manifesta “in forma di servo” (Fil 2,7), come semplice uomo sottomesso alle leggi
* Presbitero dell’arcidiocesi ortodossa di Atene, è iconografo e storico dell’arte. Traduzione dall’originale greco.
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Stamatis Skliris
della natura; dall’altro la realtà trasfigurata, nella quale egli è affrancato da esse. Qual’è la vera realtà? Il Gesù del quotidiano, quale si manifestava prima della trasfigurazione, o il Cristo nella gloria, quale è apparso nella trasfigurazione sul Tabor? Quel momento sul Tabor porta in sé qualcosa di enigmatico e desta timore negli apostoli. La soluzione dell’enigma sarebbe stata data più tardi, dopo la resurrezione. La resurrezione di Cristo, le parole di Cristo: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18) dopo la sua ascensione al cielo, e in seguito le esperienze dei santi, spiegano a posteriori la differenza tra la quotidianità e la trasfigurazione. È chiaro che l’esperienza del Tabor era per gli apostoli pregustazione di un altro modo di esistenza che Dio preparava per l’uomo, quello escatologico nel regno di Dio. Di conseguenza il senso della trasfigurazione è eminentemente escatologico. Unisce il concreto momento della vita di Cristo sulla terra con la restaurazione finale di tutti nel regno di Dio. Tutto il resto, trasfigurazione, resurrezione di Cristo, ascensione, esperienze dei santi, rappresentano fasi momentanee o esperienze parziali della duratura e universale esperienza-condizione (e non di una fase passeggera) della seconda parusia. Va qui sottolineato che la trasfigurazione significa principalmente libertà dalle leggi del creato e non cambiamento delle proprietà (teologia del prototipo). Essa manifesta la possibilità che Cristo viva un altro modo di esistenza, libero dalla forza costrittiva delle leggi di natura. Egli, in quel momento, non mutò semplicemente alcune proprietà create, ma cambiò tutto il modo di esistenza: si trovò nel modo di esistenza dell’increato, che superava le leggi del creato, implicanti la necessità e la corruzione; e poi rientrò nel modo di esistenza del creato. La differenza ontologica tra creato e increato sta nella libertà. E la differenza visiva tra il “Gesù quotidiano” e il “Cristo trasfigurato” viene espressa con la luce taborica.
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La luce della trasfigurazione nell’iconografia ortodossa
Luce taborica
Per quanto riguarda la luce taborica occorre fare attenzione ai seguenti elementi. 1. Essa è indescrivibile, oltrepassa i caratteri delle proprietà naturali della luce: rifulse sul volto, fece risplendere le vesti come luce, come neve; genera stupore, timore (per esempio le preghiere dell’órthros della festa della Trasfigurazione: “Adorarti con amore e timore”1), gioia: Pietro voleva costruire tre tende e rimanere sempre là2. La luce è in rapporto anche con la resurrezione di Cristo: le mirrofore videro due uomini “in vesti sfolgoranti” (Lc 24,4). Questo è il fondamento teologico del prototipo, della sola novità sotto il sole, come afferma Giovanni di Damasco. La conoscenza delle cose, secondo Ioannis Zizioulas, si fonda su proprietà opposte, è costrittiva e non possiede unicità, di conseguenza genera saturazione, viene sostituita da qualcos’altro, è impersonale. In opposizione assoluta a essa vi è la conoscenza delle persone nella libertà e nell’amore. 2. L’origine della luce taborica è al di fuori del creato; “una nuvola luminosa li avvolse” (Mt 17,5), dice l’evangelo. Si tratta di un’energia divina che dalla santa Trinità scende su Cristo (anche nella Pentecoste le lingue di fuoco scesero dall’alto e, ugualmente, nel martirio dei quaranta santi il carnefice vide le corone scendere sui martiri). Il principio ontologico della luce è il Padre, che proclama: “Questi è il mio Figlio amato” (Mt 17,5); si tratta di un’energia increata, divina, personale che dallo spazio dell’increato entra nello spazio del creato e viene vista con sensi umani3. 1 Cf. Anthologhion di tutto l’anno IV, a cura di M. B. Artioli, Lipa, Roma 2000, p. 869. 2 Si pensi alla visione di Simeone il Nuovo Teologo, Catechesi 16; 22. 3 Cf. la liturgia bizantina del 6 agosto: “Ti sei trasfigurato sul monte, e i tuoi discepoli, per quanto ne erano capaci, hanno contemplato la tua gloria” (Anthologhion IV, p. 868).
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Stamatis Skliris
Questo è il fondamento dell’insegnamento di Gregorio Palamas riguardo l’esicasmo. Qui si manifesta la differenza tra la concezione greca, cristiana, e buddhista della corona luminosa. 3. Cristo possiede la luce taborica e risplende grazie a essa nella trasfigurazione, e si trasfigura a tal punto da provocare timore nei discepoli saliti con lui sul Tabor e, dopo la resurrezione, è difficile riconoscerlo poiché appare “in altra forma” (Mc 16,12). Potremmo usare queste parole per definire l’icona: un dipinto che rappresenta Cristo e tutta la creazione “in altra forma”. La luce viene ontologicamente dall’alto e dall’esterno ma, attraverso l’ascesi, il santo si familiarizza con essa. Il Regno ontologicamente è increato, ma abita in noi (cf. Lc 17,21); in noi dimora il Paraclito. 4. Anche i santi sperimentano la stessa luce taborica, come accadde a Simeone il Nuovo Teologo4 e a Serafim di Sarov 5. A Simeone, Cristo dice che ha un animo ristretto chi si accontenta di questa esperienza, perché il Regno è qualcosa di molto più alto. La luce taborica ha un carattere essenzialmente escatologico; essa non è fine a se stessa, ma costituisce una pregustazione del Regno. Quando Serafim di Sarov è visto immerso nella luce, il suo volto risplende, ma si conservano le caratteristiche anatomiche – occhi, naso, bocca, tono della voce, eccetera – come nella trasfigurazione del Signore. 5. La luce increata non è semplicemente un’apposizione dell’essere, ma si unisce ipostaticamente al santo e lo libera dalle costrizioni della natura, in modo da fargli pregustare la condizione di Cristo nelle sue apparizioni dopo la resurrezione. Anche i prodigi che il Signore compì prima della resurrezione erano pregustazioni della libertà escatologica dalle leggi naturali del mondo della corruzione. Dopo la resurrezione ciò che era pregustazione ed eccezione diviene realtà. Qui si spiega anche la 4
Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Catechesi 16; 22. Cf. il dialogo di Serafim con Motovilov (I. Gorainoff, Serafino di Sarov, Gribaudi, Torino 1973). 5
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La luce della trasfigurazione nell’iconografia ortodossa
differenza tra la tradizione orientale della corona di luce che circonda il volto e quella posteriore occidentale in cui la corona di luce è posta sul capo come aureola. La tradizione occidentale mostra la dimensione “dall’alto” e “dall’esterno”, ma non mostra la familiarità escatologica con la grazia che viene dal Santo.
Luce iconografica
La luce della trasfigurazione influenzò anche l’arte dell’iconografia. Come Cristo ha detto che il vino nuovo va messo in otri nuovi (cf. Mt 9,17 e par.), così la chiesa espresse la nuova fede anche con una nuova arte pittorica, le sante icone. Sebbene la primitiva iconografia delle catacombe costituisca un ramo della tradizione pittorica greco-romana, vi fu presto uno sviluppo espresso mediante aggiunte, sottrazioni e trasformazioni dei canoni classici. Questo avvenne attraverso l’introduzione di una nuova concezione della luce nella pittura. La luce dell’icona non ha caratteristiche proprie rispetto alla luce naturale, ma è svincolata dalla forza costrittiva dei canoni naturali del chiaroscuro. Così la pittura cristiana, molti secoli prima del modernismo europeo del xix secolo, introduceva nella storia universale dell’arte il primo carattere di modernità.
Sottrazioni La luce iconografica ha ridotto la profondità e la prospettiva della composizione in quanto illumina allo stesso modo ciò che è vicino e ciò che è lontano. Ha eliminato le ombre e ogni eventuale sottrazione della piena luce della figura, perché illumina ogni particolare. Con l’eliminazione delle ombre e della luce 157
Stamatis Skliris
trasversale, ha ridotto la sensazione di pesantezza e di massa. Con l’illuminazione centripeta ha creato forme chiuse, uno stile veramente solenne e una monumentalizzazione del cronotopo.
Aggiunte In quanto energia personale, la luce iconografica è divenuta centripeta e ha respinto le ombre alla periferia. Ha illuminato le parti nascoste (tetti, pesci in mezzo al mare). Ha ingrandito il volto in rapporto alle altre parti anatomiche del corpo e ha accentuato così l’espressione (espressionismo cristiano). Attraverso la luce, ha avvicinato ciò che era lontano. Ha disposto tutto con chiarezza e ha abolito le oscurità dovute alla distanza. Ha rovesciato la proporzione armoniosa tra gli elementi anatomici del volto, ha ingrandito gli occhi, le ciglia, il naso, come avveniva nelle maschere del teatro antico, ribaltando così i canoni dell’armonia, e ha rappresentato il santo dipinto come se vedesse qualcosa che gli veniva rivelato per la prima volta e che nessun altro aveva mai visto fino ad allora. Si tratta di un nuovo stile figurativo, estatico, che si differenzia dalla serenità classica. Ha ipostatizzato gli esseri, o meglio la loro rappresentazione, attraverso la luce e non solo attraverso il contorno e le ombre, come risulta dal fatto che gli esseri privi di luce, i demoni, sono rimpiccioliti come se non esistessero, e i tetti, che sono ingranditi, sono maggiormente illuminati rispetto ai muri. Ha ingrandito il Cristo, o il santo venerato, rispetto alle altre figure, con un utilizzo delle proporzioni irrispettoso delle leggi naturali.
Alterazioni del cronotopo Molti eventi accaduti in tempi diversi vengono dipinti come avvenuti in uno spazio e in un tempo unici. Non ci sono gran158
La luce della trasfigurazione nell’iconografia ortodossa
di distanze rispetto all’orizzonte. Ciò che avviene all’interno delle case è rappresentato come se accadesse davanti alle case (nascosto/manifesto). La posizione centripeta della luce trasforma l’anatomia naturale. Per esempio la gola e le clavicole sono resi attraverso cerchi concentrici attorno a un fulcro. Raramente le figure vengono rappresentate di profilo e mai di spalle. La luce attira tutto a Dio e dispone frontalmente davanti a lui. La luce crea esagerazioni intenzionali (si veda, ad esempio, la mano di Tommaso che tocca il petto di Gesù) e anche deformazioni (ad esempio delle mani e dei piedi). Fin da principio l’iconografia ha creato una nuova concezione del cronotopo; in essa tutte le cose sono giustapposte e ordinate e non si nascondono a vicenda, sono circondate da sagome di case, da frontoni e decorazioni che le mettono in risalto e non danno l’impressione che siano state gettate nello spazio a caso. Questo ci ricorda – ora che abbiamo l’esperienza della modernità occidentale – Picasso e gli altri artisti che hanno creato forme nuove, uno spazio e un’estetica nuova, che hanno ribaltato l’armonia propria della sensibilità classica e hanno spinto questo ribaltamento fino a mutare la sensibilità comune, tanto che ciò che in precedenza era considerato non riuscito ora è accettato e ammirato. L’intenzionale capovolgimento del classico, la stranezza dell’icona, è un inno alla novità, alla meraviglia, alla trepidante attesa delle imprevedibili innovazioni escatologiche a livello ontologico. La luce libera dell’icona ha creato, attraverso i colori, una teologia dell’autenticità, una teologia del prototipo, una teologia della novità – “l’unica novità sotto il sole”, diceva Giovanni di Damasco –, una teologia dello stupore dinanzi alla rivelazione divina. Tutta la struttura dell’icona, tutto il suo stile, sono centrati sulla luce.
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Stamatis Skliris
Prolungamenti antropologici della divina trasfigurazione e della sua iconografia
Quando veneriamo l’icona di un santo e la guardiamo non come il ritratto di un essere corruttibile, rappresentato con luci e ombre, ma come icona della sua condizione nel Regno dove risplende di luce, è come se, attraverso l’icona, acquistassimo altri occhi per vedere l’altro quale sarà quando verrà deificato e avvolto di luce. La luce dell’icona ci libera dalla tentazione di disprezzare il fratello con il pretesto che è caduto. La caduta rappresenta un episodio, un incidente momentaneo lungo la sua storia. L’icona, invece, rivela la sua condizione escatologica permanente. Allora, grazie alla luce dell’icona, capiamo che l’uomo è l’essere più imprevedibile anche quando cade. Venerando l’icona di un santo, esprimiamo la nostra fiducia nel fatto che la stessa santità sia possibile per ogni altro uomo, anche se per il momento lo vediamo cadere. Alla fine dei tempi proveremo un enorme stupore; si pensi ai personaggi di Dostoevskij: ladri, prostitute e santi. Così si spiega che Cristo si trova in ciascuno dei nostri fratelli più piccoli. “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare” (Mt 25,35), dirà il Cristo nel giudizio finale. E si spiega anche il fatto che chi si trova lontano deve diventare nostro prossimo, a noi vicino, e questo può accadere se lo si guarda con occhi nuovi, con uno sguardo escatologico. L’icona, cioè, rivela la sterminata ampiezza dell’antropologia dinamica della chiesa la quale vede possibile che l’uomo, che oggi è un ladrone, diventi santo. Questo fa dell’icona un dipinto eucaristico ed escatologico che esprime, attraverso la sua rappresentazione, la trasfigurazione di tutto il creato in Cristo che avverrà nel regno di Dio.
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La luce della trasfigurazione nell’iconografia ortodossa
Conclusione
Secondo quanto si è detto sopra, la luce iconografica non si identifica assolutamente con la luce taborica, perché quella taborica, in quanto increata, non può essere rappresentata in un dipinto. La luce iconografica è una sorta di raccordo figurativo tra l’iconografo e il fedele che venera l’icona, accordo che rinvia alla trasfigurazione del Signore e alla luce taborica in immagine e, attraverso la trasfigurazione, ci offre la possibilità di essere condotti alle realtà ultime. L’icona, attraverso la sua luce libera dalle leggi naturali, rappresenta una finestra aperta che ci rivela il paradiso. Vogliamo tuttavia sottolineare il carattere di rimando dell’icona e della luce iconografica, per evitare il pericolo dell’idolatria. Per questo motivo il ruolo principale dell’icona è rivelato nella divina eucaristia, in cui l’icona manifesta la presenza vivente di Cristo e dei santi nel Regno, e non è conforme alla tradizione bizantina quella sensibilità estetica che presenta un approccio all’icona al di fuori della divina eucaristia.
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L’ICONOGRAFIA RUSSA DELLA TRASFIGURAZIONE. ALCUNE PARTICOLARITÀ Engelina S. Smirnova*
Nel medioevo l’iconografia russa della trasfigurazione si sviluppa nel quadro della tradizione bizantina, com’è naturale considerando l’origine stessa della cultura cristiana russa. Tuttavia nell’interpretazione del tema della trasfigurazione si notano almeno due tratti peculiari. Il primo riguarda non l’iconografia, cioè non la raffigurazione, ma soltanto la consacrazione delle chiese; il secondo si manifesta nell’iconografia, e propriamente nell’aggiunta allo schema tradizionale di alcuni episodi. Parliamo della prima particolarità. Dopo la conversione al cristianesimo nel 988, nella Rus’ si cominciarono a costruire molte chiese dedicate a Cristo, alla Madre di Dio, alla Sofia Sapienza di Dio, a vari santi. Alla fine dei secoli x-xi le chiese dedicate a Cristo o alla Madre di Dio non avevano di regola dedicazioni più specifiche o concrete, come “Natività di Cristo”, “Annunciazione”, “Dormizione della Madre di Dio” e simili. Ad esempio nel 996 a Kiev fu terminata la costruzione della prima
* Storico dell’arte, autore di fondamentali ricerche sulla storia dell’icona russa antica, insegna all’Università statale di Mosca “Lomonosov”. Il contenuto del presente articolo è stato pubblicato parzialmente altrove: Δελτον τς Χριστιανικς Αρχαιολογικς Εταιρεας 28 (2007), pp. 237-245; Iskusstvo christianskogo mira 10 (2007), in corso di stampa. Traduzione dall’originale russo di Marina Moretti.
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Engelina S. Smirnova
chiesa in muratura nella Rus’, dedicata alla santissima Madre di Dio; nel 1022 il principe Mstislav Vladimirovi™ fondò a T’mutarakan (sul mar Nero) la chiesa della Madre di Dio. Ma già alla fine del x e nella prima metà dell’xi secolo si incontravano dedicazioni più specifiche. Così, quando nel 966 il principe Vladimir vinse i pe™enegi presso la città di Vasilev, fece voto di costruire in quel luogo la chiesa della Trasfigurazione, perché la vittoria aveva avuto luogo proprio nel giorno della Trasfigurazione. La conclusione della costruzione di questa chiesa fu festeggiata dal principe Vladimir alla ricorrenza della Trasfigurazione, per nove giorni, cioè dal 6 al 14 agosto; dopo di che il principe ritornò a Kiev, dove il 15 agosto, in corrispondenza con la data della Dormizione della Madre di Dio, stabilì ancora una festa. Il cronografo aggiunge: “E così fece ogni anno”1. Questa descrizione della Cronaca degli anni passati riflette il processo di consolidamento delle usanze cristiane, della celebrazione delle feste cristiane nel giovane stato appena convertito alla nuova fede. Gradualmente nei secoli xi-xii le chiese russe dedicate alla Madre di Dio acquisiscono nomi più specifici, verosimilmente in corrispondenza delle feste liturgiche che coincidevano con le rispettive feste della dedicazione delle chiese stesse. Si trovano le chiese della Natività della Madre di Dio, dell’Annunciazione 2, della Dormizione. Frattanto la grande maggioranza delle chiese dedicate a Cristo in Russia vengono denominate “del Salvatore”: la cattedrale del Salvatore a Ωernigov dell’xi secolo; la chiesa del Salvatore sulla Berestova dell’inizio del xii secolo a Kiev; la chiesa del Salvatore nel monastero di Evfrosinija a Polock intorno al 1151; la chiesa del Salvatore sulla via Sant’Elia e quel1 Povest’ vremennych let. Tekst i perevod I, a cura di D. S. Licha™ev e V. P. Adrianova-Peretc, Nauka, Moskva-Leningrad 1950, pp. 85-86. 2 La chiesa situata sopra le Porte d’oro di Kiev, che è registrata sotto l’anno 1037 (ibid., p. 102), la chiesa del 1103 a Gorodi∫™e presso Novgorod (Novgorodskaja pervaja letopis’ star∫ego i mlad∫ego izvodov, a cura di A. N. Nasonov, Nauka, Moskva-Leningrad 1950, pp. 19, 203).
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L’iconografia russa della Trasfigurazione …
la sulla Neredica a Novgorod, ambedue del xii secolo; la chiesa del Salvatore nella città di Pereslavl’ Zalesskij, fondata nel 1152 dal famoso principe Jurij Dolgorukij; la chiesa del Salvatore nel monastero MiroΔskij a Pskov, del xii secolo; il monastero del Salvatore a Jaroslavl’ (xiii secolo); la chiesa del Salvatore sul Bor’ nel Cremlino di Mosca (xiv secolo), e un gran numero di chiese e monasteri ampiamente attestati nella storia e nella letteratura russa. Dai nomi di queste chiese ha origine un’enorme quantità di toponimi russi a cominciare dalla Torre Spasskaja (del Salvatore) e dalle Porte Spasskie del Cremlino di Mosca fino alle città con il nome Spassk e ai villaggi con il nome Spasskoe. Nel mondo bizantino si osserva una situazione diversa. Sono noti molte chiese e molti monasteri dedicati non semplicemente a Cristo salvatore (ho Sotêr), ma con un epiteto aggiuntivo nel nome. Sono il monastero di Cristo pantocratore a Costantinopoli, le chiese di Cristo onniveggente (Pantepóptes), di Cristo rispondente (Antiphóntes), filantropo (Philánthropos), misericordioso (Panoiktérmon)3. Simili nomi e dedicazioni non sono affatto abituali nelle chiese russe. Allo stesso modo noi non troviamo sulle icone russe iscrizioni simili a quelle bizantine, quali ad esempio Christós eleémon (Cristo benevolo), Christós Psychosotêr (Cristo salvatore delle anime), Christós sophía (Cristo sapienza). Questo aspetto della poetica bizantina, con la varietà delle sue sfumature e della sua terminologia, rimase estraneo alla cultura russa. Torniamo ai nomi delle chiese russe consacrate al Salvatore. Tra esse gradualmente fanno la loro comparsa le chiese della
3 Cf. R. Janin, La Géographie ecclesiastique de l’empire byzantin, I/3. Les églises et les monastères, Institut français d’études byzantines, Paris 1953, pp. 506-507; Byzantin Monastic Foundation Documents. A complete Translation of the Surviving Founder’s Typika and Testaments, a cura di J. Thomas e A. Constantinides Hero, Harvard University Press, Washington 1998, vol. I, pp. 326-376 (Typikon del monastero Panoiktermon a Costantinopoli); vol. II, pp. 725-781 (Typikon del monastero Pantokrator a Costantinopoli).
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Natività di Cristo, della Teofania (Battesimo), dell’Ingresso a Gerusalemme, della Resurrezione di Lazzaro e altre, dedicate alle dodici feste. Questo fenomeno lo si osserva bene nelle notizie delle cronache del xiv secolo. Un posto speciale occupano le chiese dedicate all’immagine di Cristo, al santo mandØlion, che nella Rus’ compaiono già all’inizio del xii secolo e si chiamano in un modo completamente diverso rispetto ai paesi del mondo bizantino: non del santo drappo o del mandØlion, ma della santa immagine, in conformità alle iscrizioni delle icone russe su questo soggetto: “Immagine non di mano umana del Signore nostro Gesù Cristo” (al posto del greco tò hághion mandØlion)4. In altre parole, si vuole indicare non il fazzoletto, non la tela, ma la santa immagine. Ma le chiese dedicate semplicemente al Salvatore, nonostante parecchie altre dedicazioni, prevalgono. I documenti scritti e la pratica del tempo dimostrano che la festa della dedicazione per queste chiese era la Trasfigurazione. Questo si vede anche dalle icone conservatesi della relativa festa della dedicazione. Inoltre nei casi in cui in queste chiese si sono conservati gli affreschi murali, la scena della trasfigurazione è solitamente evidenziata in modo particolare. Così, ad esempio, nella chiesa del Salvatore del monastero MiroΔskij a Pskov, dove gli affreschi sono stati eseguiti intorno all’anno 1140, la Trasfigurazione è collocata sulla volta del bêma (davanti all’abside, tav. 16)5. Le figure dei tre apostoli caduti, molto piccole, sono raffigurate un po’ più in basso, sull’arco. La mandorla luminosa con la figura di Cristo risalta non soltanto per le sue dimensioni, ma anche per essere collocata sulla linea più importante, dal punto di vista geometrico e simbolico, che discende dalla cupola verso oriente, in direzione dell’abside. Sopra la mandorla noi vedia-
4 Cf. E. S. Smirnova, “Smotrja na obraz drevnich Δivopiscev…”. Tema po™itanija ikon v iskusstve Srednevekovoj Rusi, Severnyj palomnik, Moskva 2007, pp. 62-77. 5 Cf. V. D. Sarab’janov, Spaso-PreobraΔenskij sobor MiroΔskogo monastyrja, Severnyj palomnik, Moskva 2002, pp. 17-20.
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L’iconografia russa della Trasfigurazione …
mo l’immagine di Cristo Emmanuele, sotto la mandorla quella di Cristo in trono nella conca dell’abside e, più in basso, l’altare al centro della composizione dell’eucaristia, e ancora sotto, una finestra da cui entra la luce. In un altro caso, negli affreschi del 1380 nella chiesa del Salvatore sulla Kovaleva vicino a Novgorod, la Trasfigurazione si trovava sulla parete settentrionale, come sappiamo da una vecchia fotografia6, ed era collocata al di fuori della sequenza del ciclo evangelico. La chiesa fu quasi completamente distrutta durante la seconda guerra mondiale; dopo la guerra fu ricostruita sulle rovine, e alcune composizioni degli affreschi, tra cui la Trasfigurazione, furono ricomposte a partire dai frammenti (tav. 17)7. In questo naós male illuminato, con poche finestre, il raggio di luce cadeva dalla finestra meridionale proprio su questa scena. In tal modo, se si tiene conto delle moltissime chiese dedicate al Salvatore, la cui festa era proprio la Trasfigurazione, questo tema si dimostra nella Rus’ straordinariamente significativo e chiaramente prediletto tra i soggetti cristologici. Verosimilmente ha avuto qui la sua importanza la coincidenza del periodo più antico del cristianesimo russo (secoli xi-xii) con l’epoca in cui i teologi bizantini dibattevano il problema dell’unione tra natura umana e divina di Cristo. Il tema della trasfigurazione è strettamente legato a questa problematica. Inizialmente la dedicazione delle chiese russe alla trasfigurazione del Salvatore aveva carattere didascalico, per poi divenire tradizionale con il passare del tempo… Esistono dei fili che legano questo fenomeno anche con la cultura laica della Russia moderna. È il caso di ricordare la straordinaria poesia di Boris Pasternak, Agosto, scritta nel 1953, anno
6 Cf. V. N. Lazarev, Drevnerusskie mozaiki i freski XI-XV vekov, Iskusstvo, Moskva 1973, ill. 367. 7 Cf. A. P. Grekov, Freski cerkvi Spasa PreobraΔenija na Kovaleve, Iskusstvo, Moskva 1987, ill. 23.
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della morte di Stalin, e dedicata alla creatività, alla luce e al colore del precoce autunno russo: Sei di agosto del vecchio calendario Trasfigurazione del Signore…
E più avanti: Addio, azzurro della Trasfigurazione e oro del secondo Salvatore…
Consideriamo ora le particolarità dell’iconografia. Fondamentalmente le composizioni russe della Trasfigurazione si collocano nell’ambito della tradizione bizantina. Se l’opera appartiene alla serie di icone dell’ordine festivo dell’iconostasi, nella zona superiore avrà raffigurato Cristo sul monte Tabor con i profeti Elia e Mosè, e nella zona inferiore i tre apostoli, stupefatti dall’accaduto. Così ci appare, ad esempio, l’icona dell’ordine festivo della cattedrale dell’Annunciazione del Cremlino di Mosca, dell’inizio del xv secolo (tav. 18)8. Abbiamo visto la stessa iconografia nell’affresco della chiesa del Salvatore sulla Kovaleva. Se invece l’icona è fuori dalla serie festiva, e si colloca nell’ordine inferiore dell’iconostasi o in un posto particolare nel naós della chiesa, essa ripete a volte la medesima iconografia “concisa” dell’evento della trasfigurazione, come ad esempio l’icona della fine del xv secolo dalla chiesa del Salvatore sul Bor’ del Cremlino di Mosca9; ma a volte comprende scene supplementari, quali la raffigurazione degli apostoli che salgono e scen-
8 Cf. L. A. \™ennikova, Ikony v Blagove∫™enskom sobore Moskovskogo Kremlja. Dejsusnyj i prazdni™nyj rjady ikonostasa. Katalog, Krasnaja plo∫™ad’, Moskva 2004, cat. 18. 9 Cf. E. S. Smirnova, Moskovskaja ikona XIV-XVII vekov, Avrora, Leningrad 1988, tavv. 121-123.
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dono dal Tabor, come abbiamo visto nell’affresco del monastero MiroΔskij, e come si incontra spesso non sulle icone “festive” ma sulle grandi icone dell’ordine locale dell’iconostasi. Uno di questi esempi è l’icona di Novgorod del xv secolo (con rifacimenti posteriori) della raccolta di A. V. Morozov (Galleria Tret’jakov)10. Nell’iconografia russa della trasfigurazione si osservano molte varianti nella rappresentazione della mandorla intorno alla figura di Cristo, che assume forme diverse, come diverso è il modo di rendere i raggi di luce che ne dipartono. Ma queste varianti hanno paralleli nella tradizione bizantina e non saranno prese qui in considerazione. Per noi è interessante una peculiare varietà delle icone russe della trasfigurazione con scene supplementari nella zona superiore, dove sono rappresentati i profeti Elia e Mosè. Fino a poco tempo fa non si faceva attenzione a questa variante e non la si considerava un tema iconografico a sé. Già alla fine del xix secolo il grande studioso russo Nikolaj Pokrovskij aveva scritto di queste scene supplementari nella Trasfigurazione11, ma le sue opere furono temporaneamente dimenticate, e la celebre icona della Trasfigurazione (1403 circa), proveniente dalla chiesa del Salvatore a Pereslavl’ Zalesskij e ora esposta permanentemente alla Galleria Tret’jakov12 (tav. 19), non è stata commentata in modo soddisfacente. Inoltre le scene con Elia e Mosè nell’icona di Pereslavl’ Zalesskij sono relativamente piccole, eseguite in tono
10 Cf. V. I. Antonova, N. E. Mneva, Katalog drevnerusskoj Δivopisi. Opyt istorikochudoΔestvennoj klassifikacii [Gosudarstvennaja Tret’jakovskaja Galereja] I-II, Iskusstvo, Moskva 1963; Sophia. La Sapienza di Dio, a cura di G. Cardillo Azzaro, P. Azzaro, Roma 1999, cat. 40. 11 Cf. N. V. Pokrovskij, Evangelie v pamjatnikach ikonografii, preimu∫™estvenno vizantijskich i russkich, Sankt-Peterburg 1892, pp. 200-201 (rist.: Progress-Traditsija, Moskva 20012, p. 293). 12 Cf. Gosudarsvtennaja Tre’jakovskaja Galereja. Katalog sobranija, I. Drevnerusskoe iskusstvo X-na™ala XV veka, a cura di J. V. Bruk e L. I. Iovleva, Krasnaja Plo∫™ad’, Moskva 1995, cat. 62.
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monocromo azzurro, con soggetti semplificati: Elia e Mosè sono raffigurati in modo uguale e simmetrico, ambedue volano su una nuvola in compagnia di un angelo (tavv. 20-21). L’attenzione degli storici dell’arte non fu attirata nemmeno dal fatto che frammenti della stessa scena si sono conservati nell’affresco della chiesa del monastero Snetogorskij a Pskov, del 131313, come si può vedere dallo schema utilizzato dai restauratori. Soltanto la scoperta di una nuova icona nella collezione privata di M. E. Elizavetin a Mosca nel 2005 (tav. 22) costrinse a rivolgere l’attenzione sulla rara variante iconografica delle scene russe della trasfigurazione e a ricordare l’esistenza di molte altre opere dello stesso tipo. L’icona, di grandi dimensioni (164 x 119 cm), è stata gravemente danneggiata da ricettatori e mercanti fuorilegge. La tavola fu divisa in sei parti, evidentemente per il trasporto illegale, e le diverse parti furono poi di nuovo unite, con grave danno a molte zone della pittura. Nella fascia superiore i volti di Cristo, e di Elia e Mosè ai suoi lati, sono stati rifatti nel corso di un restauro. Nella fascia mediana sono danneggiati i volti di Cristo in ambedue i gruppi, degli apostoli ascendenti e discendenti. Nella fascia inferiore la figura dell’apostolo Pietro, caduto a terra, è del tutto rifatta. Ciononostante, quasi tutta la rimanente pittura è ben conservata. La struttura chiara, “cesellata” dell’icona, le precise linee geometriche della composizione, i contrasti del rosso e del verde, del lilla e del giallo, tutto indica che l’artista proveniva da Novgorod, e l’eleganza delle figure e la finezza dei volti indica che l’icona fu eseguita nella prima metà del xv secolo. Si tratta verosimilmente dell’icona della dedicazione di una delle chiese del Salvatore costruite a Novgorod o nei suoi sobborghi ai tempi dell’arcivescovo Evfimij (1429-1458);
13 Cf. I. B. Golubeva, V. D. Sarab’janov, Sobor RoΔdestva Bogorodicy Snetogorskogo monastyrja, Moskva 2002, tav. IV, nr. 9 (schema).
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per esempio, nella chiesa del Salvatore a Rusa, a sud di Novgorod, costruita nel 144214. Le due scene che ci interessano si trovano nella fascia superiore dell’icona, negli angoli a sfondo dorato (l’oro è cancellato), dove sono visibili i segni di piccoli chiodi che fissavano la riza d’argento. A sinistra c’è il profeta Elia che vola su una nuvola azzurra. La nuvola ricorda vagamente la forma di una conchiglia, all’interno della quale si trova Elia; nella parte anteriore mostra una testa simile a un delfino, e in quella posteriore due teste, come in certe creature fantastiche. Dietro la nuvola è raffigurato un angelo in un manto rosso (in altre icone è a volte nominato come arcangelo Michele), che la tiene come se la dirigesse in avanti (tav. 23). A destra è rappresentato Mosè, che si leva da un sarcofago. Anche la sua figura è avvolta da una specie di nuvola. Egli è aiutato da un angelo vestito in modo diverso dal precedente, con un manto verde e un tunica rossa. L’angelo alza la mano, indicando a Mosè in atto di sollevarsi il cammino verso il cielo (tav. 24). Simili scene non s’incontrano nei monumenti dell’arte bizantina conservati fino a oggi, non sono fissate nelle descrizioni dei cicli bizantini degli atti degli arcangeli15, e nemmeno negli atti dei profeti Elia e Mosè16, e sono molto rari nelle Trasfigurazioni postbizantine, benché se ne osservino in piccolo numero negli affreschi tardo medioevali in Grecia17. Queste scene si incontra-
14 Cf. Novgorodskaja Ωetvertaja letopis’, in PSRL IV/1, Jazyki russkoj kul’tury, Moskva 2000, p. 238. Testo analogo in Novgorodskaja letopis’ po spisku P. P. Dubrovskogo, in PSRL XLIII, Jazyki russkoj kul’tury, Moskva 2004, p. 179. 15 Cf. S. Gabelic ´ , Vizantijski i postvizantijski ciklusi archan∂ela (XI-XVIII vek). Pregled spomenika, Institut za istoriju umetnosti filozofskog fakulteta, Beograd 2004. 16 Cf. ad esempio: E. Lucchesi Palli, L. Hoffscholte, s.v. “Elias”, in Lexikon der christlichen Ikonographie I, a cura di E. Kirschbaum, Herder, Rome-Freiburg-BaselWien 1968 (rist. 1994), coll. 607-613; H. Schlosser, s.v. “Moses”, in Lexikon der christlichen Ikonographie III, Rome-Freiburg-Basel-Wien 1971, coll. 282-297. 17 Cf. A. Semoglu, “Voskresaju∫™ij Moisej. O redkoj ikonografi™eskoj ocobennosti sceny ‘PreobraΔenija’ v nastennoj monastyrskoj Δivopisi severo-zapadnoj Grecii xvi
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no per la prima volta e hanno una grande diffusione proprio nelle opere russe. Su quali testi si basava l’artista o l’autore del programma iconografico che ha creato queste scene? Si tratta innanzitutto di testi patristici. In una delle Omelie di Giovanni Crisostomo è contenuta l’indicazione che Mosè, presente sul monte Tabor alla trasfigurazione, rappresentava il mondo dei morti, mentre Elia, asceso al cielo ancora vivente in un carro di fuoco, rappresentava il mondo dei vivi18. Questi motivi si incontrano di frequente in Efrem il Siro19. La stessa tematica si trova nel Discorso per la Trasfigurazione composto da Ioann, esarca di Bulgaria. Questo Discorso è incluso nella raccolta composta intorno al 1358-1359 presso la corte dello zar bulgaro Giovanni Alessandro. In esso si dice che Cristo ha dimostrato agli apostoli nella sua trasfigurazione “che egli è il creatore del cielo e della terra, è signore dei vivi e dei morti, poiché egli comandò a Elia asceso al cielo di discendere di là e a Mosè che era morto di risorgere dai morti … E gli apostoli compresero che questo Signore Gesù aveva sepolto Mosè e lui stesso di nuovo lo aveva chiamato, ed egli aveva fatto ascendere Elia nelle altez-
veka. Issledovanie russkogo vlijanija”, in Vizantijskij Vremennik 60 (2001), pp. 174177. Si tratta di scene contenute negli affreschi delle seguenti chiese: il vecchio katholikon nel monastero della Trasfigurazione nelle Meteore, 1483; il monastero Molivdoskepastos in Epiro, secondo quarto del xvi secolo; il katholikon del monastero di San Nikanor a Zavorda a Greven, secondo Semoglu posteriore al 1542; il katholikon del monastero di San Barlaam nelle Meteore, 1548; la cappella di San Nicola nel monastero della Grande Lavra sull’Athos, 1560. I tre ultimi affreschi sono opera del maestro Franco Catellano. Le scene con Elia e Mosè si incontrano in alcune Trasfigurazioni postbizantine e più tarde, ma già chiaramente come reminiscenze delle immagini russe. Si veda per esempio la xilografia greca della fine xviii-inizio xix secolo nel monastero di Santa Caterina del Sinai: D. Papastratos, Paper Icons. Greek Orthodox Religious Engravings, 1665-1889 I, Papastratos S. A. Publications, Athens 1990, nrr. 20-21, p. 55. 18 Cf. Giovanni Crisostomo, Omelie sull’Evangelo di Matteo 56,2, PG 58,550-551. 19 Ad esempio in Efrem il Siro, Commenti sui quattro evangeli 14,8-9, in Id., Commentaire de l’évangile concordant ou Diatessaron, a cura di L. Leloir, SC 121, Cerf, Paris 1966, pp. 246-248. Più specificamente Id. Inni per la natività di Cristo 1,35-36, in Id., Inni sulla natività e sull’epifania, a cura di I. De Francesco, Edizioni Paoline, Milano 2003, pp. 121-122.
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ze. Poiché nessuno al di fuori di lui sapeva dove fosse la tomba di Mosè, e nessuno sapeva dove si trovasse Elia, se non colui che lo aveva preso. Poiché egli solo regna sui vivi e i morti, i cieli e gli inferi…”20. Questa stessa idea si conserva nel testo della funzione liturgica contemporanea: “Presso di te stavano, dalla terra, gli apostoli, Elia il Tisbita, come venendo dal cielo, e Mosè di tra i morti…”21. I testi patristici citati, in particolare quello di Efrem il Siro, possono essere stati all’origine di tradizioni apocrife non sopravvissute fino a noi, ma che nondimeno hanno lasciato traccia nell’arte cristiana. Nella miniatura della Trasfigurazione, in un evangelo armeno del 1038 (al museo di Matenaradan, inv. 6201), il profeta Mosè è raffigurato a figura intera, avvolto in un bianco sudario, in quanto rappresenta il mondo dei morti e si è levato dalla tomba per apparire sul monte Tabor 22. L’inserimento nell’iconografia della trasfigurazione degli episodi della storia di Elia e Mosè, come anche i gruppi degli apostoli che ascendono e discendono, conferiscono maggior rilievo al significato dell’evento del Tabor per tutta l’umanità: per i viventi sulla terra, per chi abita i cieli e per chi si trova nel mondo dei morti. La comparsa degli episodi con Elia e Mosè si spiega in parte con le particolarità della civiltà letteraria antico-russa. Non più tardi del xiv secolo apparve nella Rus’ la traduzione di un testo,
20 E. Mir™eva, Germanov sbornik ot 1358-1359 g. Izsledvanie i izdanie na teksta, Valentin Trajanov, Sofia 2006, pp. 736-737, 739-740. 21 Mattutino della Trasfigurazione, ode 8, irmós, terzo tropario, in Anthologion di tutto l’anno IV, a cura di M. B. Artioli, Lipa, Roma 2000, pp. 869-879. 22 Cf. T. A. Izmajlova, Armjanskaja miniatjura XI veka, Iskusstvo, Moskva 1979, pp. 60-61, tav. 25. Sono noti anche altri esempi analoghi nella miniatura armena coeva: cf. R. Stichel, “Una rappresentazione armena della Trasfigurazione di Cristo”, in Atti del Primo Simposio Internazionale di Arte Armena, Bergamo, 28-30 giugno 1975, a cura di G. Ieni e B. L. Zekiyan, San Lazzaro, Venezia 1978, pp. 669-673 (l’articolo contiene molte osservazioni importanti). Su questa iconografia ha attratto l’attenzione A. Semoglu.
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la cosiddetta Vita del profeta Mosè, poi inserita nella Tolkovaja Paleja (i primi otto libri dell’Antico Testamento commentati), che contiene una serie di allusioni prefiguranti gli avvenimenti del Nuovo Testamento23. Nell’arte russa dei secoli xv-xvii sono note, più che in altre regioni, scene legate alla morte di Mosè: “La disputa dell’angelo con il diavolo per il corpo di Mosè”24 e “L’angelo seppellisce Mosè”25. La composizione con l’angelo che aiuta Mosè ad alzarsi dalla tomba, come nella nuova icona della collezione privata, è la diretta prosecuzione del soggetto delle scene che abbiamo citato. Inoltre, nell’arte russa è largamente diffuso il soggetto dell’“Ascensione fiammeggiante del profeta Elia”, dove il profeta viene portato nei cieli, circondato da uno splendore di fuoco a forma di nube, mentre l’arcangelo Michele sembra proteggere e aiutare il profeta. La scena con Elia nell’icona della collezione privata da noi presa in esame è costruita secondo uno schema simile. La scoperta dell’icona nella collezione privata di Mosca ha reso necessario un più attento esame dell’iconografia russa della trasfigurazione. È emerso che gli episodi con Elia e Mosè si incontrano in molte grandi icone (non dell’ordine festivo), e anche in piccole icone della larghezza di un palmo (pjadnica) e in piccoli medaglioni di icone-miniature, che ripetono queste scene. Nelle composizioni russe della trasfigurazione con gli episodi supplementari che ci interessano si possono distinguere alcuni tipi di23 Cf. I. Ja. Porfir’ev, Apokrifi™eskie skazanija o vetchozavetnych licach i sobytijach po rukopisjam Soloveckoj biblioteki, Sankt-Peterburg 1877 (rist. anastatica 2005), pp. 203-204, 259-260; BLDR 3, Nauka, Sankt-Peterburg 1999, pp. 118-149, commento di M. V. RoΔdestvenskaja alle pp. 376-378. 24 Icona del 1399 circa nella cattedrale dell’Arcangelo del Cremlino di Mosca, icona del 1562-1566 nel museo di Sergiev Posad, icona “Miracolo a Chonech” con 68 riquadri, xvii secolo (riquadro 13), affresco della parete meridionale della cattedrale dell’Arcangelo del Cremlino di Mosca. Cf. S. Gabelic´, Vizantijski i postvizantijski ciklusi, cat. 40, 66, 76, 85. 25 Icona del xvi secolo proveniente da Lal’sk, museo Andrej Rublev (riquadro 6), icona del xvi secolo nello stesso museo (riquadro 8). Cf. S. Gabelic´, Vizantijski i postvizantijski ciklusi, cat. 74, 75.
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versi. Nel primo di essi Elia e Mosè sono raffigurati nello stesso modo, ambedue volano sulle nuvole. Oltre alla famosa icona di Pereslavl’ Zalesskij conservata alla Galleria Tret’jakov (tav. 18), rientra in questo tipo l’icona della chiesa del monastero del Salvatore e di Eutimio a Suzdal’, dove essa era la principale, “l’icona della dedicazione”. L’icona, secondo la leggenda, era stata donata dal principe Dimitrij PoΔarskij e depositata nel monastero prima del 164226. La sua pittura originaria si trova sotto uno strato più tardo, e in parte sotto una copertura (riza) d’argento. A questo stesso gruppo si può attribuire con qualche riserva un’icona della metà del xvii secolo della collezione privata di K. V. Voronin in Russia, in cui si nota una particolarità: sotto Mosè e l’angelo si vede una tomba aperta, nel registro medio gli apostoli sono raffigurati tre volte, mentre in quello inferiore insieme con gli apostoli è raffigurato Cristo27. A differenza dell’opera precedente, con la sua costruzione dinamica e ariosa, l’icona della collezione Voronin mostra una composizione alquanto semplificata. Nel secondo gruppo iconografico, al quale appartiene anche l’icona già presa in esame della collezione Elizavetin, il profeta Elia è raffigurato mentre vola su una nuvola con un angelo, e Mosè mentre si leva dalla tomba con l’aiuto di un angelo e si dirige verso il monte Tabor. È proprio questo gruppo che corrisponde con maggiore esattezza alle indicazioni patristiche sull’apparizione di Mosè dal mondo dei morti. È anche la tipologia più diffusa. Il primo esempio di questa iconografia in ordine di tempo tra le opere conservate è l’icona della collezione privata recentemente scoperta (tav. 22). Non conosciamo altre compo26 N. N. Trofimova, Russkoe prikladnoe iskusstvo XIII-na™ala XX v. Iz sobranija Gosudarstvennogo ob’’edinennogo Vladimiro-Suzdal’skogo muzeja-zapovednika, Sovetskaja Rossija, Moskva 1982, cat. 85 (pp. 188-191). Dimensioni: 128 x 89 cm. 27 Secondo testimonianze orali, proviene da Velikij Ustjug. Cf. Ikony iz ™astnych sobranij. Russkaja ikonopis’ XIV-na™ala XX veka. Katalog vystavki, Moskva 2004, cat. 137. Dimensioni: 114,5 x 85 cm.
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sizioni di questo tipo del xv secolo, ma se ne sono conservate alcune del secolo successivo. Sono le icone della chiesa del Salvatore e della Trasfigurazione sulla Neredica (museo di Novgorod)28, della chiesa principale del monastero MiroΔskij (museo di Pskov)29, e del monastero Soloveckij, prima del 1549 (museo-deposito “Cremlino di Mosca”)30, della chiesa della Trasfigurazione del monastero Kirillo-Belozerskij, 1595 circa (museo KirilloBelozerskij)31. Esattamente la stessa iconografia è presente sulla scena del sudario ricamato del 1565, deposto nel monastero del Salvatore e della Trasfigurazione a Kazan’ dal voevada Grigorij Bulgakov (museo della Repubblica del Tatarstan a Kazan’)32. Questa iconografia già nel xvi secolo si estende anche alle icone
28 Cf. Novgorodskaja ikona XII-XVII vekov a cura di D. S. Licha™ev, V. K. Laurina, V. A. Pu∫karev, Avrora, Leningrad 1980, tav. 177. Dimensioni: 178,8 x 133 cm. L’insolita iconografia anche dell’icona proveniente dalla Neredica fu notata già dall’archimandrita Makarij, Archelogi™eskoe opisanie cerkovnych drevnostej v Novgorode i ego okresnostjach, Moskva 1860, parte 2, pp. 105-106. 29 Inedita. Si trova in restauro a Mosca. Dimensioni: 180,5 x 150 cm. V. D. Sarab’janov suppone che sia stata eseguita negli anni 1580. Le scene con Elia che vola e Mosè che si leva si trovano non nella zona superiore, ma sono molto più in basso, come nell’affresco mal conservato del monastero Snetogorskij. È possibile che questa particolarità compositiva denoti una tradizione di Pskov. 30 Inedita. Inv. 5134 sob. Dimensioni: 158 x 116 cm. La raffigurazione si trova sotto un leggero strato di pittura più tarda. Le figure dei tre apostoli prostrati a terra, di solito raffigurate nella parte inferiore della composizione, qui sono collocate più in alto, nella zona mediana, tra i gruppi degli apostoli ascendenti e discendenti. Nella parte inferiore è illustrata la parabola evangelica del vino nuovo e degli otri vecchi, come ha appurato N. D. Markina (Mt 9,17; Mc 2,22; Lc 5,37-38). Cf. L. A. \™ennikova, “Voprosy isu™enija Soloveckich ikon xvi-xvii vekov”, in Drevnerusskoe iskusstvo. ChudoΔestvennye pamjatniki Russkogo Severa, a cura di G. V. Popov, Nauka, Moskva 1989, p. 267; Opisi Soloveckogo monastyrja XVI veka. Kommentirovannoe izdanie, a cura di M. I. Mil’™ik, Dimitrij Bulanin, Sankt-Peterburg 2003, pp. 39, 53-54, 86, 117, 179-180. 31 Ikony Kirillo-Belozerskogo muzeja-zapovednika, a cura di L. L. Petrova, N. V. Petrova ed E. G. \™urina, Severnyj palomnik, Moskva 2003, tav. 56. Dimensioni: 149 x 122 cm. 32 M. K. Zav’jakova, T. A. Kargalova, “Kratkij obzor pamjatnikov drevnerusskogo licevogo ∫itj’ja xvi-xvii vekov v sobranii Gosudarstvennogo ob’’edinennogo muzeja Respubliki Tatarstan”, in Gosudarstvennyj istoriko-kul’turnyj muzej-zapovednik “Moskovskij Kreml’”. Materialy i issledovanija, X. Drevnerusskoe chudoΔestvennoe ∫it’e, Avangard, Moskva 1995, pp. 72-73; ill. 1 a p. 71. Dimensioni: 51 x 52,5 cm.
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di piccole dimensioni, che ripetono la composizione delle grandi immagini nelle chiese33. Le scene del viaggio di Elia sulla nuvola e della levata di Mosè dalla tomba si ripetono anche in alcune icone del xvii e xviii secolo: nell’icona dell’inizio del xvii secolo nel museo Sol’vi™egodskij (la scena con la levata di Mosè dalla tomba è spostata nella zona inferiore)34; in quella degli anni 1660 dal villaggio Sel’co sulla Dvina settentrionale (museo dell’architettura lignea di Archangel’sk “Malye Karely”)35; in quella del xvii secolo dalla chiesa della Trinità del villaggio Nenoks nel museo delle arti figurative di Archangel’sk36; in quella della seconda metà del xvii secolo dalla chiesa di San Giovanni il Precursore a Ugli™ (Ugli™, cattedrale della Trasfigurazione del Salvatore)37; in quella della fine del xvii secolo nel monastero di Santa Caterina sul Sinai (dono della Russia)38 e in due collezioni all’estero39; nella pjadnica del xvii secolo sotto una pittura del xix secolo (museo nazio-
33 Per esempio l’icona proveniente dalla ex collezione del noto banchiere e collezionista svedese O. Aschberg, attualmente nella collezione S. Morsink, dimensioni: 29,8 x 24,2 cm. Cf. H. Kjellin, Ryska Ikoner i svensk och norsk ägo, Svensk litteratur, Stockholm 1956, p. 188, ill. 87; S. Morsink, The Power of Icons. Russian and Greek Icons 15 th-19th Century. The Morsink Collection, Snoeck, Ghent 2006, cat. 15. 34 Cf. Ikony Stroganovskich vot™in XVI-XVII vekov. Po materialam restavracionnych rabot VChNRC imeni akademika I. E. Grabar’. Katalog-al’bom, a cura di M. S. Truba™eva, SkanRus, Moskva 2003, cat. 49. Dimensioni: 129 x 96 cm. 35 Inedita. Inv. AMDZ 255 drΔ. Dimensioni: 103,5 x 85 cm. 36 Inedita. Inv. 1662 drΔ. Dimensioni: 133,5 x 109. L’icona è sottoposta a registrazione e trattamento profilattico. 37 Cf. A. N. Gorstka, Spaso-PreobraΔenskij sobor v Ugli™e, Severnyi palomnik, Moskva 2002, pp. 30, 32, ill. a p. 31. Non sono indicate le dimensioni. 38 Inedita. Notizie dalla relazione di N. I. Koma∫ko ed E. M. Saenkova sul tema “Le icone russe dei secoli xvi e xvii recentemente scoperte nello skeuophilakion del monastero di Santa Caterina del Sinai”, tenuta alle lezioni “Lazarev” all’Università statale di Mosca il 3 febbraio 2006. 39 La prima icona: New Grecian Gallery. Catalogue. Feast Days Icons 14th-17 th Century. November 1973-January 1974, Lund Humphries, London 1973, ill. 24 (questa icona è stata studiata da A. Semoglu); la seconda icona è locata nella Galleria antiquaria di Carlo Maria Biagiarelli (Roma): cf. G. Passarelli, Icone delle dodici grandi feste bizantine, Jaca Book, Milano 2000, ill. p. 271. Passarelli fa notare le scene con Elia e Mosè e riporta vari riferimenti patristici a commento.
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nale di Stoccolma)40; nella pjadnica del xvii secolo con una raffinata cornice sui lati, che si trova nel monastero Pantokrator sul Monte Athos, probabilmente come dono di un pellegrino russo, corrispondente alla dedicazione del monastero alla Trasfigurazione di Cristo41; sulla lastra d’argento di lavorazione russa, fissata alla copertura posteriore della rilegatura eseguita intorno alla metà del xvii secolo (1637) per il manoscritto greco delle letture evangeliche con integrazioni del xv secolo nel monastero di Santa Caterina sul Sinai, cod. 21642; nella pjadnica del xvii-xviii secolo nel monastero Xenofontos sul Monte Athos43; nell’icona del xviii secolo della collezione Banca Intesa a Vicenza, dove Elia è raffigurato mentre discende dal cielo, e Mosè mentre sale sul monte (tav. 25)44. Anche nelle icone pieghevoli a trittico (skladni) con la raffigurazione della Madre di Dio di Vladimir circondata da scene delle feste evangeliche, eseguite da maestri della scuola di Stroganov dall’inizio del xvii secolo, la scena della trasfigurazione, nonostante le misure da miniatura, comprende gli episodi veterotestamentari45. 40 Cf. U. Abel, V. Moore, Icons, Nationalmuseum, Stockholm 2002, cat. 159. Dimensioni: 31,5 x 27 cm. 41 Cf. I. Tavlakis, “Icons 17th-19th century”, in Icons of the Holy Monastery of Pantokrator, a cura di S. Papadopoulose, Ch. Kapioldassi-Soteropoulou, Mount Athos 1998, p. 286, fig. 155. Dimensioni: 31 x 27 cm. 42 Cf. K. Weitzmann, G. Galavaris, The Monastery of Saint Catherine at Mount Sinai. The Illuminated Greek Manuscripts, I. From the Ninth to the Twelfth Century, Princeton University Press, Princeton 1990, pp. 170-172, ill. 658. 43 Cf. I. Tavlakis, “Icons of the 17th-19th Centuries”, in The Holy Xenophontos Monastery. The Icons, a cura di S. Papadopoulos, The Holy Xenophontos Monastery, Mount Athos 1999, p. 231, fig. 102. Dimensioni: 32 x 27 cm. 44 Cf. Icone russe. Collezione Banca Intesa. Catalogo ragionato I, a cura di C. Piovano, Electa, Milano 2003, cat. 72. Dimensioni: 122,5 x 93 cm. 45 Icona a trittico di Prokopij Ωirin al Museo russo di San Pietroburgo, cf. “Pre™istomu obrazu Tvoemu poklonjaemsja…”. Obraz Bogomateri v proizvedenijach iz sobranija Russkogo muzeja, a cura di E. Petrova, Gosudarstvennyj russkij muzej, Sankt-Peterburg 1995, cat. 90; icona a trittico della collezione Egorov alla Galleria Tret’jakov, cf. Bogomater’ Vladimirskaja. K 600-letiju Sretenija ikony Bogomateri Vladimirskoj. Sbornik materialov. Katalog vystavki, a cura di E. K. Guseva, Avangard, Moskva 1995, cat. 21; icona a trittico del 1603, commissione di Nikita Grigor’evi™ Stroganov, nel museo di Sol’vi™egodsk, cf. Ikony Stroganovskich vot™in, cat. 75.
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Completiamo la nostra enumerazione con due icone notate nel 1892 da N. V. Pokrovskij nel museo dell’Accademia teologica di Kiev, ma andate perdute durante la seconda guerra mondiale. Nella prima icona (sotto il nr. 35) “un angelo porta fuori Mosè dalla tomba, un altro angelo conduce Elia giù dalle nuvole”, e nell’altra (sotto il nr. 122) questi stessi episodi erano accompagnati dalle scritte: “L’angelo del Signore ha condotto Mosè fuori dalla tomba”, “L’angelo del Signore ha portato Elia sulla nuvola”46. Il terzo gruppo è costituito da alcune icone dove i profeti vengono raffigurati nel modo tradizionale, in piedi ai lati della “gloria” di Cristo, ma sono accompagnati da angeli. Non sono raffigurati né il volo di Elia sulla nuvola, né la levata di Mosè dalla tomba. In un’icona della prima metà del xvi secolo, di provenienza sconosciuta (collezione privata di Mosca)47, Elia e il suo angelo stanno sulla nuvola, e Mosè con il suo angelo sulla copertura di una tomba (in ricordo della sua levata dal sepolcro). Ambedue gli angeli hanno nimbi stellati, simboleggianti la loro partecipazione alla divina Sapienza (tav. 26). Pokrovskij nota una composizione molto simile in un’icona del museo della Società degli amatori della letteratura antica: da ambedue i lati di Cristo “ci sono due vecchi, Mosè ed Elia, e accanto a ognuno di loro un angelo; in basso la tomba aperta di Mosè”48. I motivi della stessa composizione di compromesso sono presenti nella già citata icona di Sol’vy™egodsk: la scena con Mosè che si alza è spostata in basso, nel registro superiore è rimasta soltanto la figura dell’angelo49. Nell’icona dell’ordine festivo della chiesa di Nicola dall’Usocha a Pskov, del 1536 circa50, gli angeli sono in piedi
46
N. V. Pokrovskij, Evangelie v pamjatnikach ikonografii, p. 292. Cf. I. Ben™ev, Ikony angelov. Obrazy nebesnych poslannikov, Interbuk-biznes, Moskva 2005, ill. p. 158. Le dimensioni non sono riportate. 48 N. V. Pokrovskij, Evangelie v pamjatnikach ikonografii, p. 292. 49 Cf. supra, p.177, n. 34. 50 Cf. Pskovskaja ikona XIII-XVI vekov, a cura di I. S. Rodnikov, Avrora, Leningrad 1990, tav. 108. Dimensioni: 90 x 68 cm. 47
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alle spalle dei profeti, con la mano posta sulla schiena del profeta in atto di protezione. Esattamente così sono raffigurati i profeti Elia e Mosè nell’icona della prima metà o della metà del xvi secolo proveniente dal villaggio Jarensk della provincia di Ust’-Janskij nella regione di Archangel’sk e ora nel museo delle arti figurative di Archangel’sk51. A una categoria simile appartiene la grande icona proveniente dalla chiesa del Segno costruita nel 1657 sulla Znamenka a Mosca (Galleria Tret’jakov)52. Una simile variante iconografica si incontra, come rilevò Pokrovskij, anche nei vangeli miniati russi del xvii secolo: Sijskij (f. 912, dove vicino a Mosè è raffigurata una tomba, e vicino a Elia il margine del cielo) e Petropavlovskij, dove è raffigurata la tomba di Mosè53. Ancora un particolare riguardante l’iconografia. Quali arcangeli sono raffigurati nelle scene con Elia e Mosè? Tutti i dati indicano che si dovrebbe trattare dell’arcangelo Michele. Nella letteratura antico-russa e nell’iconografia gli episodi riguardanti il corpo di Mosè sono contenuti nei cicli dell’arcangelo Michele, e lo stesso arcangelo accompagna Elia e la sua ascesa al cielo. Le scritte nelle composizioni russe della trasfigurazione di solito o non recano il nome dell’arcangelo o, di rado, nominano Michele. Ma a volte succede che l’artista nella scena con Elia abbia inteso dipingere l’arcangelo Michele, e nella scena con Mosè l’arcangelo Gabriele. Così, sulla cornice argentea del xvii secolo nel monastero di Santa Caterina sul Sinai, vicino alla figura che accompagna Elia sulla nuvola è posta la scritta “Ar[cangelo] Miche[le]”, e vicino a una simile figura presso Mosè che si leva dalla
51 Inv. 1873 drΔ. Dimensioni: 122 x 100 cm. L’icona presenta lievi ritocchi. Sotto il fondo dei campi superiore e inferiore e sotto il nimbo di Elia al posto della tela sono incollati frammenti di un manoscritto su pergamena del xiv secolo. L’icona non è stata pubblicata. 52 Cf. V. I. Antonova, N. E. Mneva, Katalog drevnerusskoj Δivopisi II, cat. 773. Dimensioni: 150 x 93 cm. 53 Cf. N. V. Pokrovskij, Evangelie v pamjatnikach ikonografii, p. 291.
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L’iconografia russa della Trasfigurazione …
tomba è scritto “Ar[cangelo] Gabri[ele]”54. Nell’icona della collezione Elizavetin non vi sono scritte, ma è notevole il fatto che l’arcangelo vicino a Elia (tav. 23) sia vestito come Michele nella Deesis delle iconostasi russe, con un manto rosso e una tunica verde, e l’arcangelo vicino a Mosè (tav. 24) al contrario, come Gabriele, con un manto verde e una tunica rossa. La cosa più probabile è che gli iconografi russi in questi casi non si siano basati su nessun testo relativo agli arcangeli Michele e Gabriele, ma semplicemente abbiano seguito la tradizione figurativa russa, che presuppone la raffigurazione in coppia di questi arcangeli (ad esempio, ai lati della figura di Cristo o della Madre di Dio). Probabilmente le composizioni della trasfigurazione con episodi dell’Antico Testamento, in tutte e tre le varianti iconografiche, sono in numero maggiore di quelle finora enumerate, ma esse rimangono inosservate. Per scoprirle occorrerebbe esplorare tutti i fondi delle icone dei musei russi, includendo le icone mai esposte, cosa che non è stata ancora fatta. Quando è comparsa l’iconografia della trasfigurazione che abbiamo descritto? Avvenne nel xiv secolo, nel cosiddetto periodo paleologo dello sviluppo della cultura bizantina. Come è noto, i monumenti di questo periodo si sono conservati nel modo migliore nei Balcani, soprattutto nei paesi jugoslavi, in particolare in Serbia e nella Macedonia slava. Essi sono stati studiati dai bizantinologi serbi, rappresentanti di una scuola scientifica straordinaria, che non ha perduto la sua validità nonostante la morte di Voislav DΔuric´, che l’aveva diretta negli ultimi decenni. Come ha notato recentemente lo studioso serbo Branislav Todic´, negli affreschi delle chiese ortodosse nei Balcani si nota già dall’inizio del xiv secolo un grande arricchimento dell’iconografia. Nelle composizioni delle grandi feste si cominciarono a introdurre episodi tratti da composizioni apocrife, figure allegoriche e, cosa
54
Cf. supra, p.178, n. 42.
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per noi particolarmente importante, episodi dell’Antico Testamento55. Grazie a queste inserzioni le composizioni evangeliche acquisiscono nuove sfumature di significato, e con l’inclusione degli episodi dell’Antico Testamento viene sottolineato il legame indissolubile tra l’Antico e il Nuovo Testamento e la prefigurazione degli avvenimenti del Nuovo Testamento nell’Antico. Nell’arte russa il processo di arricchimento di dettagli nell’iconografia degli episodi evangelici si nota in modo particolare nella raffigurazione di due soggetti. Uno è la trasfigurazione, dove la prima raffigurazione conservatasi con le innovazioni risale al 1313 (affresco del monastero Snetogorskij). L’altro soggetto è la discesa agli inferi. I primi esempi di iconografia rinnovata si incontrano in due icone: una del secondo quarto del xiv secolo (collezione di V. A. Logvinenko), l’altra della metà del xiv secolo (collezione privata all’estero)56. In queste icone non solo viene raffigurata la lotta degli angeli con le forze infernali, ma viene anche cambiata la composizione dei gruppi dei giusti (tavv. 27 e 29). Di solito tra le progenitrici si raffigura soltanto Eva, in coppia con Adamo. Ma in una delle icone russe ci sono sei progenitrici, tra le quali si possono riconoscere, oltre a Eva, Sara, Rebecca, Rachele, Asenat e forse Rut (tav. 28). In un’altra icona ci sono solo tre figure e accanto a esse la scritta “il popolo”. Una simile tipologia iconografica è largamente diffusa nell’arte russa dalla fine del xiv secolo, e in modo particolare nei secoli xvi e xvii, soprattutto nelle regioni settentrionali. Tra i nuovi tipi di iconografia della trasfigurazione e della discesa agli inferi vi è una parentela interiore. In ambedue i casi
55 Cf. B. Todic´, Srpsko slikarstvo u doba kralja Milutina, Draganic´, Beograd 1998, pp. 124, 126, 128. 56 Cf. E. S. Smirnova, Ikony Severo-Vosto™noj Rusi. Rostov, Vladimir, Kostroma, Murom, Rjazan’, Moskva, Vologodskij kraj, Dvina. Seredina XIII-seredina XIV veka, Severnyj palomnik, Moskva 2004, cat. 26, 27; E. Smirnova, “More about the Rare Iconography of the Descent into Hell”, in Δελτον τς Χριστιανικς Αρχαιολογικς Εταιρεας 26 (2005), pp. 303-310.
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L’iconografia russa della Trasfigurazione …
si sottolinea la “universalità” dell’avvenimento. La trasfigurazione fu proclamata ai vivi, ai morti e agli abitanti dei cieli, mentre con la discesa agli inferi il Salvatore, reso “causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,9), trasse fuori dall’inferno non solo i patriarchi e i profeti, ma anche le molte donne dell’antica alleanza, l’intero genere umano. Un’ultima osservazione sul destino di simili varianti iconografiche, tra cui la trasfigurazione. Quest’iconografia, che nel xiv secolo fa la sua comparsa nel mondo bizantino (non importa se nella pittura bizantina stessa o solo in quella russa), conosce una straordinaria fioritura proprio nell’arte russa del periodo postbizantino, cioè nel periodo del tardo medioevo, dopo la caduta di Costantinopoli, e soprattutto nei secoli xvi e xvii. Il motivo di ciò si trova nella varietà della vita spirituale e culturale di tutto il mondo ortodosso medioevale del periodo postbizantino, e anche nelle larghe possibilità della chiesa russa e dello stato moscovita dell’epoca. Mosca tendeva a porsi come erede di Bisanzio (la teoria di Mosca quale terza Roma) e a utilizzare la ricchezza dell’iconografia del periodo bizantino. La Russia fece ciò con grande inventiva e molteplicità di varianti. Uno dei soggetti in cui questo arricchimento fu più evidente è proprio la trasfigurazione con le scene veterotestamentarie, a sottolineare l’unità della storia della salvezza e il legame tra Antica e Nuova Alleanza.
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IL SERMONE DI LEONE MAGNO SULLA TRASFIGURAZIONE Elena Cavalcanti*
Il Sermone sulla Trasfigurazione1, per la collocazione assegnatagli nella tradizione manoscritta, può ritenersi pronunciato la seconda domenica di quaresima, nella messa che concludeva la veglia notturna nella notte del sabato; ed è datato, con qualche margine di incertezza, all’anno 445, in base al raccordo con alcuni avvenimenti e sermoni degli anni 443-444 e con la Lettera 10,1 del 4452.
* Ci è gradito pubblicare il presente contributo in memoria dell’eminente studiosa Elena Cavalcanti, spentasi di recente. Riprendiamo il testo già apparso nel numero monografico intitolato Kairós. Studi di letteratura cristiana antica per l’anno 2000, della rivista Rudiae 12 (2000). Un estratto di questa ricerca fu presentato alla “XIII Conference on Patristic Studies” (Oxford, agosto 1999). Ringraziamo la casa editrice Congedo per la gentile concessione. 1 S. Leonis Magni Tractatus septem et nonaginta, a cura di A. Chavasse, CCSL 138A, Brepols, Turnhout 1973, pp. 296-303. Quanto agli studi, una rapida presentazione dell’omelia si trova in A. M. Ramsey, The Glory of God and the Transfiguration of Christ, Libra, London 1949, pp. 133 ss. Un buon commento al sermone è ora disponibile nel volume: Leone Magno, I Sermoni quaresimali e sulle collette, a cura di E. Montanari, M. Pratesi e S. Puccini, Edb, Bologna 1999, pp. 347-354. Nel corso del presente lavoro il sermone viene citato secondo la suddivisione adottata in quest’ultima edizione. Il volume di L. Casula, La cristologia di S. Leone Magno. Il fondamento dottrinale e soteriologico, Glossa, Milano 2000, apparso quando questo lavoro era già in stampa, pone in evidenza l’importanza del Sermone 51 nel contesto della cristologia di Leone, alle pp. 225-227. 2 Cf. S. Leonis Magni Tractatus, CCSL 138, pp. clxxxi-clxxxiii, per la datazione; CCSL 138A, p. 295, per la collocazione liturgica.
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Il testo della predicazione si articola secondo la struttura tipica dei sermoni di Leone († 461)3, nella quale si possono distinguere sostanzialmente due parti: la prima di insegnamento dottrinale, in relazione alla lettura liturgica della pagina dell’evangelo4; la seconda di applicazione della dottrina alla vita dei credenti5. La seconda parte, a sua volta, comprende il centro focale del sermone, che consiste nella celebrazione di Cristo e costituisce il momento di maggiore coinvolgimento dell’uditorio, con funzione di perorazione6, a cui fa seguito la parenesi conclusiva7. Scopo del contributo è porre in evidenza alcuni punti nodali caratteristici del sermone, che permettono di considerarlo un’espressione significativa dell’elaborazione dottrinale di Leone e di segnalarne i punti di raccordo con la tradizione precedente. Va osservato innanzitutto che i riferimenti al testo evangelico non si limitano al brano della trasfigurazione in senso stretto (Mt 17,1-8), ma si estendono ai dati della narrazione matteana che precedono la manifestazione del monte Tabor: la professione di fede di Pietro, il primo annuncio della passione, le condizioni per seguire Gesù (cf. Mt 16,13-28). Inoltre, dal momento che i riferimenti ai diversi momenti della sequenza evangelica vengono fatti per allusioni, come a un brano ben presente nel suo insieme all’uditorio, e ciò in linea con la modalità normalmente seguita da Leone nella sua predicazione, si può supporre che la lettura liturgica del giorno comprendesse l’intera ampia sezione dei capitoli 16-17 di Matteo. Ciò significherebbe che la lettura dell’evangelo, nella seconda domenica di quaresima, presentava come unità inscindibile l’annuncio della pas-
3 Cf. E. Cavalcanti, “La predicazione di Leone Magno”, in La comunità cristiana di Roma: la sua vita, la sua cultura, a cura di L. Pani Ermini e P. Siniscalco, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2000, pp. 170-188. 4 Cf. Leone Magno, Omelie 51,1-4. 5 Cf. ibid. 51,5-8. 6 Cf. ibid. 51,5-7. 7 Cf. ibid. 51,8.
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sione e la trasfigurazione, ed entrambe come insegnamento culminante di Gesù, dopo la professione di fede di Pietro. Il sermone si snoda di fatto su queste linee. Il secondo elemento da osservare riguarda la rilevanza della formulazione cristologica, che appare, in conformità alla prassi di Leone, all’inizio del sermone, in stretto collegamento con il breve esordio e con funzione di enunciazione dottrinale, efficacemente incisiva, del contenuto del sermone. Dice Leone: Il salvatore del genere umano, Cristo Dio … istruiva i suoi discepoli con gli insegnamenti della dottrina e con i prodigi delle opere, in modo da essere creduto unigenito di Dio e figlio dell’uomo. Una soltanto di queste verità senza l’altra non giovava infatti alla salvezza, ed era ugualmente pericoloso ritenere il Signore Gesù Cristo o soltanto Dio senza l’uomo o soltanto uomo senza Dio. Bisognava invece confessare l’una e l’altra realtà poiché, come a Dio apparteneva la vera umanità, così all’uomo la vera divinità8.
La stringata formula cristologica è resa sonante dai parallelismi contrastanti in posizione chiastica (aut Deum sine homine / aut sine Deo hominem; sicut Deo vera humanitas / ita homini vera divinitas), dall’allitterazione dei termini opposti (humanitas / divinitas) e dal ritmo solenne della clausola lenta che scandisce la conclusione del periodo (sicut Deo vera humanitas / ita homini inerat vera divinitas). L’intero periodo ci porta al cuore della cristologia leoniana, con l’affermazione delle due nature in Cristo, in funzione soteriologica; l’importanza del passo inoltre è testimoniata dal fatto che viene ripreso alla lettera nel Tomus ad Flavianum9. Il ser8
Ibid. 51,1, CCSL 138A, pp. 296-297. Tomus ad Flavianum, a cura di C. Silva-Tarouca, Pontificia università gregoriana, Roma 1932, pp. 20-33; cf. vv. 141-142: “Quia unum horum sine alio receptum non 9
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mone pertanto, con il suo carattere di pezzo unico liturgico nel corpus dei sermoni di Leone, si colloca tra i più importanti del periodo pre-calcedoniano di esso. Il terzo elemento da porre in rilievo è di carattere storico-esegetico: il sermone incastona un brano esegeticamente rilevante, che rappresenta anche il punto di raccordo dei tre episodi evangelici a cui il sermone fa riferimento (confessione di Pietro, annuncio della passione, trasfigurazione). Leone svolge il sermone mostrando come la mirabile professione di fede di Pietro si trasformò in rifiuto di fronte all’annuncio della passione: egli era stato illuminato da una particolare rivelazione riguardo alla natura divina di Cristo, ma aveva bisogno di una luce ancor più vigorosa per accettare la realtà della natura umana passibile e quello che ciò significa per tutti i discepoli di Cristo, chiamati a seguire il Maestro rinnegando se stessi e tenendo in pochissimo conto i beni temporali in confronto alla speranza dei beni eterni10. In relazione alla necessità di tale insegnamento, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni (cf. Mt 17,1) e, salito con loro sul monte, si manifestò nello splendore della sua gloria, poiché essi – dice Leone – non conoscevano la potenza di quel corpo dal quale era velata la divinità11. A questo punto vengono riprese le parole di Gesù a conclusione dell’invito a seguirlo prendendo la propria croce e perdendo la propria vita (cf. Mt 16,24-26): “In verità vi dico, vi sono alcuni tra i presenti che non morranno finché non vedranno il Figlio dell’uomo venire nel suo regno” (Mt 16,28), e le spiega con l’evento della trasfigurazione interpretando “il suo regno” come “il regale splendore, che era prerogativa dell’umanità assunta e che volle rendere visibile ai tre apostoli”12.
proderat ad salutem, et aequalis erat periculi Dominum Iesum Christum aut Deum tantummodo sine homine aut sine Deo solum hominem credidisse”. 10 Cf. Leone Magno, Omelie 51,1-2. 11 Cf. ibid. 51,2. 12 Cf. ibid.
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L’intento della trasfigurazione, spiega di seguito Leone, era duplice: rimuovere dal cuore degli apostoli lo scandalo della croce, e dare fondamento alla speranza della chiesa, in modo che “l’intero corpo di Cristo potesse conoscere quale trasformazione gli sarebbe stata donata, e le membra ricevessero la promessa di avere parte alla gloria che era rifulsa nel capo”. La proiezione escatologica viene specificata sulla gamma di altre tre citazioni neotestamentarie: “Allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro” (Mt 13,43); “Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,18); “Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio. Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria” (Col 3,3-4)13. L’insegnamento viene completato più avanti, a proposito dello slancio di Pietro, che chiede di rimanere lì e fare tre tende: Gesù non risponde, per far comprendere da una parte che la salvezza del mondo non poteva realizzarsi se non con la sua morte e, dall’altra, che i credenti sono chiamati a seguire il suo esempio poiché “la felicità del Regno non può precedere il tempo della sofferenza”14.
Regno di Cristo-corpo di Cristo
L’elemento principale, che caratterizza questo ricco intreccio esegetico, è l’identificazione del regno del Figlio dell’uomo con “il regale splendore dell’umanità assunta”15. Tale preroga-
13
Cf. ibid. 51,3. Cf. ibid. 51,5. 15 Cf. ibid. 51,2: “In regno suo, id est in regia claritate quam ad naturam suscepti hominis pertinet”. 14
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tiva si estende, in promessa, a tutto il corpo mistico; la partecipazione alla gloria implica allo stesso modo la partecipazione alla passione e alla morte; la salvezza dell’umanità non si sarebbe realizzata senza l’assunzione piena della natura umana da parte del Figlio di Dio; tale salvezza è il Regno e consiste nella gloria dell’umanità assunta, che – in pienezza – è l’intero corpo di Cristo. Questi aspetti, di natura cristologica e soteriologica, sono peculiari del sermone di Leone. Solo in un’omelia di Agostino di Ippona sulla trasfigurazione si trova la relazione tra lo splendore in cui apparve Cristo e la gloria di cui sarà avvolto il corpo dei risorti “quando sarà giunto il tempo della resurrezione”. In questo testo, Agostino stabilisce altresì la relazione tra il capo e le membra; dice: “Le sue membra risplenderanno come risplendette il capo”, e si fonda sulla Lettera ai Filippesi 3,21: “Trasformerà il nostro misero corpo e lo renderà simile al suo corpo glorioso” e su Matteo 13,43: “Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro”16. Il Regno tuttavia non è identificato con l’umanità gloriosa di Cristo, il cui potere si estende ai salvati: nell’insieme di tre omelie sul tema della trasfigurazione17, Agostino punta sostanzialmente su elementi interpretativi di natura escatologica, spirituale ed ecclesiologica: egli dice che il “suo regno” è il regno dei cieli dove regneranno con lui i santi, gli apostoli e tutti i fedeli predicatori della parola di Dio; lo splendore che avvolge Cristo indica che egli è la luce dei cuori; i suoi vestiti bianchissimi simboleggiano la chiesa, dove è pu16 Agostino di Ippona, Discorsi 79A,1, in Id., Discorsi II/1, a cura di L. Carrozzi, Città Nuova, Roma 1982, pp. 576-578. 17 Cf. ibid. 78; 79; 79A. Il solo Discorso 78 è stato di recente preso in esame da A. Louth, “St Augustine’s Interpretation of the Transfiguration of Christ”, in L’esegesi dei padri latini. Dalle origini a Gregorio Magno. Atti del XXVIII Incontro di studiosi dell’antichità cristiana, Roma, 6-8 maggio 1999, Institutum patristicum augustinianum, Roma 2000, pp. 375-382. In questo lavoro, l’autore pone in evidenza l’originalità degli esiti agostiniani di motivi esegetici, che risalgono in parte a Origene e che si ritrovano, variamente utilizzati, in Ambrogio di Milano e in Girolamo.
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rificata ogni lordura di peccato e che è già anticipazione del regno di Dio18. Nel Sermone 79, accanto ad analoghi elementi ecclesiologici, lo splendore del volto di Gesù è interpretato come indicazione della “luce sfolgorante dell’evangelo” e la nube che avvolge tutti i personaggi della scena mentre Pietro chiede di erigere tre tende (cf. Mt 17,5) significa l’unità dell’Antico e del Nuovo Testamento19. Il nucleo esegetico peculiare del sermone di Leone, secondo cui il regno di Cristo è identificato con “il regale splendore dell’umanità assunta”20 viene illuminato da due indicatori di direzione. Il primo rinvia inequivocabilmente a Ilario di Poitiers, il quale è l’unico in occidente a elaborare, nella medesima linea, una complessa trattazione esegetica i cui elementi essenziali si ritrovano nella sintesi di Leone. Delineato nel Commento al Vangelo di Matteo21, il nucleo di pensiero è ripreso nel trattato La Trinità, dove ne è maggiormente sviluppato lo spessore storico-teologico. Si tratta dell’importantissima sezione che comprende i capitoli 35-44 del libro XI, in cui Ilario elabora il tema della sottomissione finale di Cristo al Padre, una volta sconfitti tutti i nemici, in riferimento al testo della Prima lettera ai Corinti 15,26-28 e alle interpretazioni datene da monarchiani e ariani22. Il nemico sottomesso è la morte; la perfezione di tale sottomissione è la trasfigurazione del nostro corpo mortale in conformità alla gloria del suo corpo (cf. Fil 3,21); ciò significa che Cristo regna e regnerà nella gloria del suo corpo che costituisce il
18
Cf. Agostino di Ippona, Discorsi 78,1-4. Cf. ibid. 79. 20 Leone Magno, Omelie 51,2. 21 Cf. Ilario di Poitiers, Commento al Vangelo di Matteo 16,4-17,4, in Id., Sur Matthieu II, a cura di J. Doignon, SC 258, Cerf, Paris 1979, pp. 50-66. La dipendenza da Ilario è rilevata anche dal più recente commento alle omelie di Leone: cf. M. Pratesi, “Commento al Serm. LI”, in Leone Magno, I Sermoni quaresimali, pp. 348-353. 22 Cf. M. Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo, Institutum patristicum augustinianum, Roma 1975, pp. 71, 230, 232, 259, 384. Per la storia esegetica di 1Cor 15,25-28, cf. E. Schendel, Herrschaft und Unterwerfung Christi, Mohr, Tübingen 1971. 19
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suo regno e comprende coloro che lo seguono e che a lui verranno assimilati23. Dice Ilario: Noi siamo sottomessi alla gloria del suo corpo per essere nello splendore con cui regna nel corpo, poiché saremo resi conformi al suo corpo24.
In questo contesto, Ilario si rifà al brano dell’Evangelo di Matteo relativo alla trasfigurazione mantenendolo unito – allo stesso modo del sermone di Leone – al versetto precedente, in cui Gesù annuncia la venuta del Figlio dell’uomo “nel suo regno”. Il lapidario commento di Ilario è in termini visibilmente presenti a Leone: Viene mostrata agli apostoli la gloria di colui che viene nel regno del corpo. Il Signore infatti si mostrò nell’aspetto della sua gloriosa trasformazione, avendo reso manifesto lo splendore del suo corpo regnante25.
Come in Leone, è operato il richiamo al tempo escatologico26 e l’identità di coloro che saranno consegnati al Padre come regno del Figlio è indicata con testi ripresi da Leone: “I giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro” (Mt 13,43)27; e “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio” (Mt 5,8)28. Inoltre, nel libro XI del trattato La Trinità, il nucleo esegetico riguardante la trasfigurazione è inserito in un più ampio con-
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Cf. Ilario di Poitiers, La Trinità 11,36-38. Ibid. 11,36, in Id., La Trinité III, a cura di G.-M. Durand, G. Pelland e Ch. Morel, SC 462, Cerf, Paris 2001, p. 358. 25 Ibid. 11,37: “Regnantis corporis sui claritate patefacta”, (p. 358); Leone usa l’espressione “in regia claritate” (Omelie 51,2). 26 Cf. Ilario di Poitiers, La Trinità 11,38.39; cf. Leone Magno, Omelie 51,3.4. 27 Cf. Ilario di Poitiers, La Trinità 11,39; Leone Magno, Omelie 51,3.4. 28 Cf. Ilario di Poitiers, La Trinità 11,39; Leone Magno, Omelie 51,2.6. 24
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testo che sviluppa la portata cristologica e salvifica dell’assunzione della natura umana da parte del Figlio di Dio, ordinata alla salvezza integrale di questa natura con la partecipazione definitiva alla gloria di lui29.
Risalendo la tradizione
Il fatto che Ilario accosti al testo matteano della trasfigurazione il capitolo quindicesimo della Prima lettera ai Corinti, e attraverso questo testo paolino sul regno di Cristo delinei lo spessore cristologico e soteriologico della composizione evangelica, permette di seguire il secondo indicatore di direzione, che conduce a Ireneo di Lione, e in particolare al Contro le eresie.
29 Cf. specialmente Ilario di Poitiers, La Trinità 11,8-9; 15-35. Il regno identificato con coloro che seguono Cristo e che costituiscono le membra del corpo di cui egli è capo, secondo l’immagine paolina di 1Cor 12,12-27 (cf. Ef 1,22-23) è tema origeniano, i cui testi di riferimento principale sono Principi III,5,6-8; I,6,1-2, dove è sviluppato a proposito di 1Cor 15,24-28 (la consegna del regno al Padre e la sottomissione di Cristo), testo paolino alla base di tutte le elaborazioni origeniane intorno alle tematiche escatologiche (Origene, I Principi, a cura di M. Simonetti, Utet, Torino 1968, p. 201, n. 7). Il tema viene poi ampiamente e problematicamente usato da Marcello di Ancira, il quale utilizza il testo paolino di 1Cor 15,24-28 nel senso che il regno di Cristo ha fine quando, compiuta l’opera dell’economia della salvezza, il Logos rientra nell’unità divina. Questa problematica, insieme a quella ariana (gli ariani usavano lo stesso testo paolino come testimonianza dell’inferiorità del Figlio) è particolarmente presente a Ilario nelle sezioni citate del libro IX del trattato La Trinità. Il tema della trasfigurazione, in tale contesto, rappresenta uno dei capisaldi della reimpostazione di tutta la problematica da parte di Ilario, il quale – anche mediante tale tema – sposta l’asse della riflessione sul piano cristologico e in particolare sulla natura umana assunta dal Figlio di Dio: nella trasfigurazione essa viene manifestata nella gloria della resurrezione, alla quale tutte le membra del suo corpo avranno parte. Sulla problematica del regno di Cristo, in particolare in Marcello di Ancira, cf. E. Schendel, Herrschaft, pp. 111-157; A. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della chiesa I/1, Paideia, Brescia 1982, pp. 548-557; per Ilario di Poitiers: E. Schendel, Herrschaft, pp. 158-167; L. F. Ladaria, La cristología de Hilario de Poitiers, Pontificia università gregoriana, Roma 1989, pp. 272-289; A. Grillmeier, Gesù il Cristo I/2, pp. 754-758.
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Per questo è morto Cristo, affinché il testamento dell’evangelo, aperto e reso noto a tutto il mondo, innanzitutto desse la libertà a coloro che ne erano schiavi. Li costituì poi eredi dei suoi beni, rendendoli a loro volta eredità dello Spirito. Il vivente riceve in eredità; la carne è posseduta in eredità30.
La carne, infatti, dice Ireneo alludendo alla Prima lettera ai Corinti 15,50, da sola non può possedere in eredità il regno di Dio, ma – egli aggiunge – può essere posseduta in eredità31; chi riceve in eredità un possedimento, ne dispone come di un suo dominio. Le membra dell’uomo che si corrompono nella terra sono possedute in eredità dallo Spirito e trasferite nel regno dei cieli32. Di seguito, Ireneo sviluppa ampiamente il pensiero che conduce a delineare il duplice livello del regno di Dio: il primo livello consiste nel vivere in Cristo secondo lo Spirito e tale novità di vita Ireneo la spiega per mezzo della metafora dell’ulivo selvatico che viene innestato (cf. Rm 11,17.24)33; l’altro livello è quello del possesso definitivo della natura umana, da parte di Cristo, nella trasfigurazione della carne. Per quest’ultimo tema, Ireneo usa il medesimo procedimento che abbiamo rilevato in Ilario, cita la Lettera ai Filippesi 3,20-21: “La nostra cittadinanza è nei cieli; da lì aspettiamo Gesù Salvatore, che trasfigurerà il nostro povero corpo rendendolo conforme al corpo della sua gloria in virtù del suo potere”, e ribadisce che tale trasfigurazione non è una possibilità della carne nella sua specifica sostanza, ma è un’operazione della potenza di Cristo che può “circondare” la morte con l’immortalità, la corruttibilità con l’incorruttibilità34. Per chiarire ulteriormente que30 Ireneo di Lione, Contro le eresie V,9,4, in Id., Contre les hérésies. Livre V/II, a cura di A. Rousseau, L. Doutreleau e Ch. Mercier, SC 153, Cerf, Paris 1969, p. 120. 31 Cf. ibid. 32 Cf. ibid. 33 Cf. ibid. V,10-11. 34 Cf. ibid. V,13,3.
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sto passaggio, Ireneo cita la Seconda lettera ai Corinti 5,4 dove è descritta l’attesa della dimora eterna da parte dei credenti come esperienza della pesantezza del corpo e desiderio di quello celeste, il che significa attendere nel corpo affinché ciò che è mortale venga assorbito (katapothê) dalla vita. È da osservare che quando Ireneo cita il testo paolino usa il verbo all’indicativo (katapínetai)35, dal quale viene accentuato il realismo dell’immagine del bere evocata dal composto di píno. A sua volta tale immagine evoca quella del calice della passione: nella sua morte, Cristo ha assunto fino in fondo l’umanità e questa, nella resurrezione, è stata “assorbita” dalla vita. La portata del tema della trasfigurazione applicato alla resurrezione come dominio definitivo di Dio sulla creatura umana, attraverso l’umanità assunta di Cristo, non sfuggì a Teodoreto di Cirro. Egli, nel 451, alla vigilia del concilio di Calcedonia, nella Lettera 146, ai monaci di Costantinopoli, cita esplicitamente Leone, indicandolo come: “Colui che ai nostri giorni governa la grande Roma e dall’occidente spande dappertutto i raggi della vera fede”36; e lo pone in relazione di continuità rispetto ai grandi della tradizione orientale, in particolare quella asiatica, fino a Ignazio di Antiochia, Policarpo di Smirne, Ireneo di Lione, Giustino, Ippolito di Roma37. Enuncia di seguito, in chiave antimonofisita, la dottrina cristologica delle due nature, che fa culminare nel tema soteriologico della trasfigurazione finale della natura umana assimilata all’umanità gloriosa di Cristo. Il testo di Teodoreto è in perfetta sintonia con il sermone di Leone per quanto riguarda l’interpretazione della trasfigurazione come rivelazione della pienezza dell’assunzione della natura umana da parte di Cristo. Leone e i grandi che lo hanno pre-
35
Cf. ibid. Teodoreto di Cirro, Lettere 146, in Id., Correspondance III, a cura di Y. Azéma, SC 111, Cerf, Paris 1965, p. 190. 37 Cf. ibid. 36
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ceduto, dice Teodoreto, hanno costantemente insegnato che il Figlio di Dio ha assunto la natura umana; che con la sua umanità è risorto rendendo la natura umana partecipe dell’immortalità e impassibilità divine: il suo corpo è stato glorificato dalla gloria divina. Così egli si è manifestato nella trasfigurazione mostrandosi agli apostoli così come apparirà al momento della sua seconda venuta38. Quanto al rapporto con la resurrezione dei credenti, Teodoreto – come Ireneo e come anche Agostino – si basa sulla Lettera ai Filippesi 3,20-21: “Noi aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso”39. D’altra parte, il rapporto di identificazione tra la resurrezione della carne e il Regno è esposto da Teodoreto nel Commento alla Prima lettera ai Corinti, dove sviluppa ampiamente la tematica di 1 Corinti 15,24-28 sul regno di Cristo, che egli, come Ireneo, Ilario e Leone, applica alla resurrezione-trasfigurazione40. La consegna finale del regno al Padre, da parte di Cristo, dice Teodoreto citando il testo paolino, avverrà dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza41, ma ciò non significa che il regno di Cristo abbia una durata temporale; il suo è regno eterno perché egli è coeterno al Padre42. Ma la promessa del Padre di sottomettere tutti i nemici come sgabello sotto i suoi piedi (cf. Sal 109 [110],1), si riferisce alla vittoria sul male e sulla morte: bisogna infatti che egli regni finché non abbia
38
Cf. ibid. 146; Leone Magno, Omelie 51,2. Cf. Teodoreto di Cirro, Lettere 146. 40 Cf. Id., Sulla Prima lettera ai Corinti 15,24-28. 41 Cf. ibid. 15,24. 42 Cf. ibid. 15,25. Qui Teodoreto fa riferimento al fatto che la delimitazione del regno di Cristo entro termini cronologici era argomento maneggiato in ambito ariano ed eunomiano. Tale versante del tema del regno di Cristo è posto in rilievo anche in vari testi di Gregorio di Nissa, in particolare nel Contro Eunomio. Cf. E. Cavalcanti, “I due discorsi ‘De pauperibus amandis’ di Gregorio di Nissa”, in Orientalia Christiana Periodica 44 (1978), pp. 178-179. 39
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Il sermone di Leone Magno …
posto tutti i nemici sotto i suoi piedi e l’ultimo nemico sarà la morte43. “Dopo che avrà relegato nelle tenebre il demonio e i suoi collaboratori – commenta Teodoreto – [Cristo] farà cessare la morte e risusciterà tutti i morti”. Che la sua regalità si manifesti nella sua vittoria definitiva sulla morte, aggiunge Teodoreto, è dimostrato dal testo della Lettera ai Filippesi 3,20-21 in cui l’Apostolo dice che Cristo trasfigurerà il nostro misero corpo rendendolo conforme al suo corpo glorioso, “in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose”44. Il grande tema della teologia asiatica, riguardante la resurrezione-trasfigurazione della carne, attraverso Ilario, raggiunge in occidente l’elaborazione cristologica e soteriologica di Leone Magno. Egli, inoltre, con Ilario, pone in relazione il regno di Cristo con la sua vittoria sulla morte; inoltre prospetta il tema della trasfigurazione del corpo mortale, nella resurrezione, nell’ottica della pienezza del corpo di Cristo, che comprende i salvati. In oriente, il tema della trasfigurazione è assunto da Teodoreto, in sintonia con Leone, come elemento determinante per la cristologia tesa ad affermare, in chiave antimonofisita, la pienezza delle due nature e la portata salvifica dell’affermazione della completa e definitiva assunzione della natura umana da parte di Cristo.
43 44
Cf. Teodoreto di Cirro, Sulla Prima lettera ai Corinti 15,25. Cf. Ibid. 15,26.
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LA TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE GESÙ CRISTO SECONDO GIOVANNI DI DAMASCO Ramy Wannous*
Introduzione
Poiché già vi sono vasti e approfonditi studi su questo tema, è superfluo proporre una nuova biografia di Giovanni di Damasco (ca. 675-749)1. Le pagine che seguono non intendono, dunque, riassumere i risultati di tali studi, ma piuttosto delineare un quadro della vita di Giovanni e abbozzare la sua personalità attraverso alcune delle sue opere. Tale approccio ci permetterà, a mio avviso, di capire meglio il suo insegnamento sulla trasfigurazione di Gesù Cristo.
* Insegna storia della chiesa presso la facoltà di teologia dell’Università di Balamand (Libano), della chiesa greco ortodossa di Antiochia. Traduzione dall’originale inglese. 1 Ci limitiamo a rimandare a Giovanni di Damasco, un padre al sorgere dell’islam. Atti del XIII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (sezione bizantina), Bose, 11-13 settembre 2005, a cura di S. Chialà e L. Cremaschi, Qiqajon, Bose 2006.
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Ramy Wannous
Gli scritti di Giovanni sulla trasfigurazione
O comunità amante di Dio, venite, celebriamo oggi la festa. Venite, celebriamo oggi la festa insieme alle potenze dell’alto, amiche delle feste. Esse infatti sono venute a celebrare con noi. Venite, giubiliamo con le nostre labbra come con cembali sonori (cf. Sal 150,5). Venite, danziamo nello spirito2.
Con queste parole Giovanni di Damasco inizia la sua Omelia sulla Trasfigurazione. Il titolo dell’omelia, che ovviamente non è di Giovanni, è il seguente: Omelia del nostro padre fra i santi, il nostro beato monaco e presbitero Giovanni di Damasco, sulla gloriosissima trasfigurazione del Signore nostro Gesù Cristo3. A Giovanni sono attribuiti due testi su questo tema, ciascuno con un proprio stile e uno scopo differente: il primo, di carattere liturgico, è il Canone sulla Trasfigurazione del Signore4; il secondo è l’Omelia sulla Trasfigurazione. Ma non dobbiamo pensare che Giovanni sviluppi il suo insegnamento sulla trasfigurazione soltanto in queste due opere; troviamo riferimenti diretti o indiretti a tale mistero in tutta la sua eredità letteraria e dogmatica. Per questo motivo il nostro intervento si propone di esaminare i principali insegnamenti di Giovanni sulla trasfigurazione attraverso tutti i suoi scritti, prestando tuttavia maggiore attenzione ai due testi che abbiamo ricordato. La prima domanda che ci possiamo porre è la seguente: perché questo tema riveste per Giovanni un’importanza tale da in2 Giovanni di Damasco, Omelia sulla Trasfigurazione 1, in Die Schriften des Johannes von Damaskos, V. Opera homiletica et hagiographica, a cura di B. Kotter, PTS 29, De Gruyter, Berlin 1988, p. 436. 3 Ibid. 4 Cf. la recente traduzione di A. Louth, St. John Damascene: Tradition and Originality in Byzantine Theology, Oxford University Press, Oxford 2002, pp. 268-274.
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durlo a lasciarci sia un canone che un’omelia su di esso? Per rispondere a tale domanda è necessario ripercorrere la sua opera letteraria e analizzare il suo afflato teologico cercando di collocare il nostro autore nel suo retroterra e nel suo contesto storico-teologico, dal momento che la teologia va sempre constestualizzata. Questa ricerca può consentirci di cogliere l’importanza e il profondo significato che il mistero della trasfigurazione ha nel pensiero di Giovanni di Damasco. Prima di rispondere alla nostra domanda, esporrò dunque in sintesi i caratteri fondamentali dell’opera teologica del nostro autore.
Perché la teologia?
Che cosa spinge una ricca personalità come Man s.ûr ibn Sargˇuˆn (è questo il suo nome in arabo) a decidere di abbandonare il mondo, entrare in un monastero e scrivere libri di teologia, quantunque, in realtà, molte delle sue opere teologiche siano più o meno una compilazione di alcune opere dei padri della chiesa? Perché scelse di scrivere i suoi libri usando parole altrui, pur potendo usare le proprie? È possibile abbandonare tutto, per dedicarsi alla scrittura di libri che sono una sintesi di opere precedenti? Di fatto, Giovanni fece questo. I suoi scritti testimoniano che fin dall’inizio il suo intento fu quello di raccogliere i testi dei padri della chiesa e di ri-scriverli. La semplice, eppure fondamentale, convinzione che dettò questo suo atteggiamento fu la sua concezione circa la fede e l’ortodossia. Dopo l’invasione araba, avvenuta nel corso dei secoli vii e viii, e la caduta di gran parte dell’impero bizantino, i calcedonesi si dovevano confrontare ancora una volta con gli antichi avversa201
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ri: i miafisiti5 e i cosiddetti nestoriani6. Il miafisismo, soppresso nel dominio bizantino, fiorì in Siria e in Palestina e, senza incontrare ostacoli, penetrò in quelli che erano stati territori imperiali. Dopo la caduta dell’impero persiano, i nestoriani si trovarono, per la prima volta nella loro storia, sudditi dello stesso impero insieme ad altri cristiani ed ebbero così l’opportunità di agire fra altri cristiani. Non è dunque sorprendente che Giovanni di Damasco, noto come difensore della fede ortodossa, abbia giudicato necessario levare la propria voce contro i miafisiti e i nestoriani, che, a suo avviso, rappresentavano due eresie cristologiche. Egli intendeva lasciare ai credenti della sua chiesa la pura dottrina ortodossa. A tal fine scelse gli scritti di alcuni padri della chiesa o, in altre parole, scelse la “tradizione” per chiarire quale fosse l’unica e sola retta dottrina della chiesa. È per questo motivo che Giovanni nel suo scritto Sull’inno Trisaghion, in cui difende il suo amico e maestro Giovanni, patriarca di Gerusalemme, dice a Giordano, cui l’opera è indirizzata: 5 Preferisco questo termine a quello di “monofisiti”; cf. W. Hage, s.v. “Jakobitische Kirche”, in Theologische Realenzyklopädie XVI, De Gruyter, Berlin-New York 1987, pp. 474-485; W. De Vries, “Die Patriarchen der nichtkatolischen syrischen Kirchen”, in Ostkirchliche Studien 33 (1984), pp. 5-20; G. Graf, Geschichte der christlichen arabischen Literatur I, pp. 70-72; ibid. III, Città del Vaticano 1949, pp. 52-56; P. Allen, s.v. “Monophysiten”, in Theologische Realenzyklopädie XXIII, Berlin-New York 1994, pp. 219-233. 6 Per nestoriani si intendono i seguaci della chiesa apostolica d’oriente. Su questa chiesa cf. W. Hage, s.v. “Nestorianische Kirche”, in Theologische Realenzyklopädie XXIV, De Gruyter, Berlin-New York 1994, pp. 264-276; H. L. Murre-van den Berg, “The Church of the East in the Sixteenth to the Eighteenth Century, World Church or Ethnic Community?”, in J. J. van Ginkel, H. L. Murre-van den Berg, Redefining Christian Identity: Cultural Interaction in the Middle East since the Rise of Islam, Peeters, Leuven 2005, pp. 301-320; W. Hage, “Apostolische Kirche des Ostens (nestorianer)”, in F. Heyer, Konfessionskunde, De Gruyter, Berlin-New York 1977, pp. 202-214; P. Krüger, “Symbolik der syrischen Kirchen”, in F. Herrmann, Symbolik des orthodoxen und Orientalischen Christentums, Hiersemann, Stuttgart 1962, pp. 125-142, in particolare p. 130, n. 3; Y. Patros, “The Divine Liturgy according to the Rite of the Assyro-Chaldean Church”, in J. Madey, The Eucharistic Liturgy in the Christian East, Prakasam, Kottayam 1982, pp. 173-237; J. M. Fiey, “Résidences et sépultures des patriarches syriaques-orientaux”, in Le Muséon 98 (1985), pp. 149-168.
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Smettano di calunniare il celeberrimo Giovanni, uomo colmo di fervore, che respira il fuoco e il germoglio dell’ortodossia, e che tronca ed elimina ogni nuova voce poiché è in comunione con i santi padri per ciò che riguarda la teologia7.
Di conseguenza, Giovanni di Damasco è convinto che un vero credente ortodosso difende l’ortodossia restando unito agli insegnamenti dei padri della chiesa. Giovanni stesso si considera come un custode di questa preziosa tradizione, anche se talvolta non si ritiene degno di scrivere. Possiamo trovare espressa questa sua autocomprensione nel prologo del libro a lui attribuito Vita bizantina di Barlaam e Ioasaf. Dice Giovanni: Tutti coloro che sono guidati dal santo Spirito, quelli sono figli di Dio (Rm 8,14), ebbe a dire il divino Apostolo. Sommo tra i desideri è l’esser stimati degni del santo Spirito e fatti figlioli di Dio; com’è scritto, “approdarvi è tregua di ogni umana ricerca” (Gregorio di Nazianzo, Discorsi 21,1). Di questa sovrumana beatitudine, altissima tra le aspirazioni, furono stimati degni fin dal principio dei secoli i santi, per avere attivamente praticate le virtù. Nel novero di costoro, alcuni furono atleti di Dio nel martirio e resistettero fino al sangue nella lotta contro il peccato (cf. Eb 12,4); altri affrontarono la lotta dell’autodisciplina, camminarono per la via stretta (cf. Mt 7,13-14) e quindi furono martiri per scelta. Ora, è ammaestramento tradizionale, trasmesso alla chiesa di Cristo dagli ispirati apostoli e dai beati padri per la salvezza della nostra stirpe, che di costoro sia debito affidare alla pagina scritta e trasmettere qual modello di virtù alle generazioni a venire8.
7
Giovanni di Damasco, Sull’inno Trisaghion 26, PG 95,57B. Vita bizantina di Barlaam e Ioasaf Proemio, a cura di S. Ronchey e P. Cesaretti, Rusconi, Milano 1980, p. 27. 8
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Per amore della salvezza delle generazioni future, si deve custodire la retta dottrina che le aiuterà a ottenere ciò che desiderano. Citerò alcuni passi di quest’opera per illustrare che cosa intendo dire. Prima del battesimo di Ioasaf, leggiamo il seguente testo: Sarai battezzato secondo questi dogmi e in questa fede, e sino all’ultimo respiro dovrai serbarla inalterata e monda d’ogni eresia. Aborrisci ogni insegnamento e ogni enunciazione dottrinale che sia in contrasto con questa fede irreprensibile: considerali un estraniarsi da Dio. Dice infatti l’Apostolo: Fosse anche un angelo del cielo a evangelizzarvi diversamente da come noi vi evangelizziamo, sia anatema (Gal 1,8). Non v’è difatti altro evangelo né altra fede all’infuori di quella che è stata predicata dagli apostoli, confermata dagli ispirati padri in svariati concili e tramandata dalla chiesa cattolica9.
La fede di cui Giovanni sta parlando è quella che ci è stata data dagli apostoli stessi, consegnata a tutta la chiesa e da essa accolta. Vale la pena di notare che nel testo originale leggiamo paradotheîsa, termine che presenta la stessa radice di parádosis, che in greco indica la tradizione nella chiesa ortodossa. Giovanni, in un altro passo, aggiunge: In tutte le altre lingue tali dottrine sono cantate e glorificate: secondo retta sentenza da alcuni, da altri in maniera distorta, poiché il Nemico delle anime nostre li ha fatti deviare dalla retta via, e li ha divisi fra divergenti e strane tendenze dottrinali, inducendoli a interpretare alcuni brani delle Scritture in modo differente e non secondo il significato che è loro proprio. Ma una è la verità, quella che fu annunciata dai
9
204
Ibid. 18, p. 151.
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gloriosi apostoli e dai padri ispirati da Dio, ed essa risplende chiara più del sole nella chiesa cattolica, che va da un estremo all’altro del mondo conosciuto: in qualità di suo nunzio e maestro ti sono inviato10.
La fede cristiana, secondo Giovanni di Damasco, non è una pura credenza ma qualcosa che il vero cristiano deve difendere con tutto se stesso e per la quale anche morire. Nella retta fede si può vivere una vita ricolma di virtù. Questo lo si può vedere chiaramente nel discorso che Barlaam rivolge a Ioasaf dopo il suo battesimo, nel quale gli insegna come si deve comportare un cristiano11. Ma ciò che rende questa fede così preziosa è il fatto che essa garantisce ai credenti, a tutti i credenti, la possibilità di contemplare la santa Trinità. E Barlaam disse: “Respingi da te ogni piacere e bramosia passionale, non solo per quanto attiene agli atti, ma anche per quanto attiene ai pensieri della mente così che tu possa mostrare a Dio incontaminata la tua anima. Difatti non solo le azioni, ma anche i nostri pensieri sono catalogati e ci procacciano premi o castighi: ma noi sappiamo che nei cuori puri alberga Cristo insieme al Padre e allo Spirito santo … D’ora
10
Ibid. 16, p. 127. ti resta, dunque, che deporre ogni malvagità (cf. 1Pt 2,1), e prendere in odio tutte le azioni dell’uomo di ieri, poiché erano corrotte da ingannevoli brame. Come un infante da poco nato, chiedi di succhiare il latte spirituale e puro (cf. 1Pt 2,2) delle virtù, così che per via di esso tu cresca, e giunga presto a comprendere i comandamenti del Figlio di Dio, alla compiutezza dell’adulto, a colmare la misura della maturità della pienezza di Cristo: non più, nel sentire, un infante che sia sbattuto qua e là dal turbine della tempesta (cf. Ef 4,13-14) e della terza onda delle passioni, ma semmai infante e inetto alla cattiveria (cf. 1Cor 14,20), mentre per il bene, l’intelletto deve essere gagliardo e sicuro; camminerai a testa alta, degno della designazione cui fosti chiamato (cf. Ef 4,1), nell’osservanza dei comandamenti del Signore, poiché ti sei scrollata di dosso e resa estranea la vanità del vivere di ieri, mentre i gentili camminano nella vanità del loro intelletto, ottenebrati nel pensiero ed estranei alla gloria di Dio (cf. Ef 4,17-18), soggetti ai propri desideri e agli impulsi irrazionali” (ibid. 19, p. 152). 11“Non
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innanzi, liberato dalla malvagità per i sensi di misericordia del nostro Dio, rivestito di Cristo per grazia dello Spirito divino, e poi che hai trasferito tutto te stesso dalla parte del Signore, non devi aprir mai più la porta alle passioni: ma una volta che avrai adornata piuttosto la tua anima coi fragranti effluvi e lo scintillio della virtù, fanne un tempio alla santa Trinità, dedicando alla contemplazione di essa tutte le facoltà del tuo intelletto. Se difatti chi vive e conversa con un re terreno da tutti è segnato a dito e detto beato, di quanto grande beatitudine godrà colui che ha meritato di conversare con Dio ed essere, nell’intelletto, in sua compagnia? Sempre in lui dunque guarda come in uno specchio, e con lui intrattieniti. E come t’intratterrai con Dio? Avvicinandoti a lui con preghiera e supplica. Poiché colui che prega con desiderio fervido e cuore puro, e ha distolto la mente da tutte le cose materiali e abiette, e si pone faccia a faccia con Dio, presentandogli con timore e tremore le proprie suppliche, ebbene, costui gli parla e a tu per tu conversa con lui”12.
È solo attraverso una preghiera continua che si giunge a tale misura. Per questo Giovanni dice: Ovunque è presente il nostro buon Signore, per dare ascolto a quanti si avvicinano a lui con semplicità e schiettezza, come dice il profeta: Gli occhi del Signore sono rivolti ai giusti, le sue orecchie alle loro suppliche (Sal 33 [34],16). Ed è per questo che i padri definiscono la preghiera “unione dell’uomo con Dio”, e la chiamano “impresa angelica” e “preludio alla felicità futura”, poiché in realtà insistono precipuamente sul fatto che il regno dei cieli è vicinanza alla santa Trinità e contemplazione di essa, e dato quindi che l’assiduità nella preghiera conduce per mano la mente a tutto questo, è assai giu-
12
206
Ibid., pp. 153, 155.
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sto che essa sia chiamata preludio e in certo senso prefigurazione di quella beatitudine13.
La contemplazione della santa Trinità è, secondo Giovanni, la preghiera incessante. Pregare significa conversare con Dio o anche contemplarlo. L’anima dell’uomo vive attraverso la preghiera; l’anima sta davanti a Dio e si unisce a lui. Giovanni nella sua Omelia sulla Trasfigurazione dice: “La preghiera è manifestazione della gloria divina”14. Sebbene Giovanni faccia riferimento alla contemplazione della santa Trinità, parla anche della contemplazione di Cristo negli stessi termini. Purtroppo, se leggiamo gli scritti polemici e teologici di Giovanni, constatiamo che egli non riesce a spiegare chiaramente tali insegnamenti al suo lettore. Questo avviene soltanto nelle sue omelie, dove chiarisce la sua comprensione teologica della vocazione umana, anche se non si deve pensare che le sue opere teologiche siano meno importanti. È soltanto in quest’ottica che dobbiamo leggere la sua opera letteraria e teologica: Giovanni ha cercato di porre le corrette basi teologiche per i cristiani e di aiutarli in modo che essi possano raggiungere il loro scopo ultimo, la contemplazione della santa Trinità. È in vista di questo fine che Dio ha creato l’uomo.
La trasfigurazione secondo l’“Omelia” e il “Canone”
Diciamo ora qualcosa sulla teologia di Giovanni, facendo riferimento alla sua Omelia sulla Trasfigurazione e al Canone. Si po-
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Ibid., p. 156. Id., Omelia sulla Trasfigurazione 10, p. 448.
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trebbe dire, in realtà, che il Canone non è altro che l’Omelia trasposta in una forma più liturgica, poiché troviamo in esso l’eco dei principali insegnamenti teologici dalla prima. A proposito dell’Omelia, va notato che in questo genere di componimenti Giovanni espone i suoi insegnamenti in uno stile più semplice e chiaro. Il linguaggio è più facile che negli scritti polemici, ma il contenuto teologico è lo stesso. Giovanni era ben noto non soltanto per i suoi scritti teologici, ma anche per le sue omelie, sebbene non tutte siano giunte fino a noi. Ma vi è anche un altro genere che ha reso popolare Giovanni, intendo dire quello liturgico-poetico. A ricordare la sua popolarità in questo campo basti menzionare il suo meraviglioso Canone pasquale, nel quale egli riversa la sua teologia in un quadro liturgico. Bonifatius Kotter, che ha pubblicato le omelie del Damasceno, afferma che soltanto dieci di esse sono autentiche, mentre altre cinque sono spurie. Andrew Louth, in un importante studio, cerca poi di indagare le ragioni per cui alcuni testi di Giovanni di Damasco siano andati perduti. Secondo Louth15 il responsabile principale di tale marginalizzazione fu lo sviluppo storico delle omelie, cioè il fatto che esse cominciarono a perdere la loro importanza quali mezzi di ricerca teologica per assumere sempre più un aspetto liturgico, vale a dire che cominciarono a essere ripetute ogni anno. Louth, però, offre anche una seconda ragione per questa perdita: Giovanni avrebbe predicato in arabo, mentre le omelie tramandate sono tutte in greco.
15 Cf. A. Louth, St. John Damascene, pp. 223-234; si veda anche l’interpretazione che Louth propone dell’Omelia sulla Trasfigurazione.
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L’“Omelia sulla Trasfigurazione”
In questa omelia Giovanni rimane fedele alla tradizione cristiana. Il racconto biblico che egli cerca di spiegare, era già stato sottoposto a molteplici interpretazioni da parte di molti padri della chiesa prima di lui16. È importante ricordare in proposito che l’episodio narrato dall’evangelo non era mai stato percepito nella chiesa come un puro evento nella vita di Gesù Cristo, ma come un’esperienza. Giovanni condivide tale interpretazione. Attraverso alcuni passi della sua Omelia cercheremo dunque di illustrare i principali insegnamenti che essa offre. Occorre prima di tutto sapere a chi è stata indirizzata, perché il suo esordio non ci permette di concludere chi fossero gli uditori di Giovanni, che inizia la sua omelia dicendo: O comunità amante di Dio, venite, celebriamo oggi la festa. Venite, celebriamo oggi la festa insieme alle potenze dell’alto, amiche delle feste. Esse infatti sono venute a celebrare con noi. Venite, giubiliamo con le nostre labbra come con cembali sonori (cf. Sal 150,5). Venite, danziamo nello spirito17.
Non è affatto evidente che l’espressione “comunità amante di Dio” (philótheon sØstema) indichi esclusivamente una comunità monastica. Se leggiamo l’intero testo, possiamo osservare che i caratteri di questa comunità possono essere quelli di ogni comunità ortodossa. Subito dopo queste parole, Giovanni aggiunge: Per chi questa festa e questa celebrazione, per chi la gioia e l’esultanza se non per quelli che temono il Signore, per quel-
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Cf. ibid. Giovanni di Damasco, Omelia sulla Trasfigurazione 1, p. 436.
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li che adorano la Trinità, per quelli che, con il Padre, onorano il Figlio e lo Spirito coeterno, che con l’anima, la mente e la bocca confessano la divinità conosciuta senza divisione nelle tre ipostasi, per quelli che sanno e confessano che Cristo è il Figlio di Dio e Dio, unica ipostasi in due nature senza divisione e senza confusione e con le loro proprietà naturali18?
Sono invitati alla festa quelli che confessano questa fede. E ciò lo si può riferire a tutti i cristiani e non soltanto ai monaci. Il problema reale è che non sappiamo dove Giovanni abbia pronunciato questa omelia, se nel monastero in cui viveva oppure nella chiesa dell’Anastasis. Stando alla sua biografia si può concludere che il nostro santo si trovava e predicava in monastero; ciò significa che si rivolgeva ai monaci. Comunque, posto che ciò sia vero, non ne deriva che il contenuto fosse riservato soltanto a loro. L’invito è rivolto a tutti quelli che confessano la retta fede. È interessante notare il profondo contenuto teologico dell’inizio dell’Omelia. La prima parte di questo esordio ha un tono più meditativo, ma fin da subito il lettore è colpito dalle affermazioni trinitarie e cristologiche di Giovanni. È come se egli cercasse di dire che una meditazione che non sia basata sulla vera fede non è corretta. Questo intreccio tra meditazione e teologia, a mio avviso, è la lente attraverso cui dobbiamo leggere l’intera eredità letteraria del Damasceno. Per questo motivo, nello stesso paragrafo, egli dice: “Non vi è gioia per gli empi (toîs asebésin)”19. Giovanni poi chiede che i suoi ascoltatori, dopo aver confessato la retta fede, abbandonino ogni realtà terrena perché il nostro regno non è di questo mondo, li invita ad ascendere con le loro menti, a guardare il cielo e a vedere il Signore. Afferma
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Ibid. Ibid.
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che si deve compiere un viaggio verso i cieli, ma che il prezzo di questo viaggio è il rinnegamento di ogni realtà terrena. Nel secondo paragrafo Giovanni spiega il motivo della festa. In questo giorno l’abisso della luce inaccessibile risplende sui discepoli sul monte Tabor. Oggi i discepoli vedono irradiarsi una luce infinita. Giovanni istituisce un confronto tra Antico e Nuovo Testamento, poi passa a parlare del profeta David e invita i suoi ascoltatori a salmodiare: Cantiamo il nostro Dio, è re di tutta la terra, cantiamo con intelligenza (cf. Sal 46 [47],7-8). Cantiamo con labbra d’esultanza, cantiamo con l’intelligenza della mente, gustando le parole, poiché la gola gusta il cibo, ma la mente discerne le parole. Dobbiamo cantare anche lo Spirito che scruta ogni cosa, anche le profondità inaccessibili di Dio (cf. 1Cor 2,10) vedendo nella luce del Padre attraverso lo Spirito che illumina ogni cosa, la luce inaccessibile, il Figlio di Dio (cf. Sal 35 [36],10). Ora è stato visto colui che è invisibile a occhi umani, un corpo terrestre che rifulge di splendore divino, un corpo mortale che trabocca della gloria della divinità20.
Nello stesso paragrafo, Giovanni espone il suo insegnamento ricorrendo a un linguaggio meditativo-teologico; dice a proposito del mistero della trasfigurazione: O meraviglia che supera ogni comprensione! La gloria non è giunta nel corpo dall’esterno ma dall’interno, dalla divinità sovradivina del Verbo di Dio, unita al corpo secondo l’ipostasi, in maniera ineffabile21.
20 21
Ibid. 2, pp. 437-438. Ibid., p. 438.
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In verità i primi due paragrafi sono caratterizzati da un’impronta teologica di rilievo. Giovanni introduce i suoi ascoltatori a una costruzione teologica ricca di insegnamenti cristologici. Anche se non lo dice chiaramente, in realtà il corpo di Cristo, che unisce a sé l’intera natura umana, in forza di questa unione, viene glorificato, poiché questo stesso corpo di Cristo partecipa alla gloria del Logos divino. Perciò l’esperienza vissuta dal corpo umano di Cristo può essere vissuta da ogni corpo umano. Ciò che non può stare insieme, sta insieme senza che nulla muti nella natura del Logos. Questo è il risultato dell’unione ipostatica. Il corpo, o meglio, l’umana natura è glorificata attraverso la sua unione con la divinità. Il quarto paragrafo si fa ancora più teologicamente impegnato. Attraverso l’incarnazione il Figlio non abbandona il Padre, ma si incarna affinché gli uomini possano conoscere Dio che altrimenti è inconoscibile. Giovanni continua la sua Omelia parlando del primo uomo, Adamo, che Dio ha creato a sua immagine e somiglianza. Lo ha posto nel paradiso con gli angeli, ma l’uomo, sprofondato nel fango delle passioni, ha calpestato la santa immagine che Dio gli aveva donato. Dio, tuttavia, si è di nuovo volto verso di lui e ha voluto ristabilire la comunione con lui. Ha assunto la nostra bassezza pur preservando l’altezza della sua divinità e, di conseguenza, ha glorificato la natura umana. Ma come può l’uomo custodire la comunione con Cristo o con Dio? Troviamo la risposta al paragrafo decimo. Secondo Giovanni, il Signore ha condotto i suoi discepoli sulla montagna delle virtù: Dopo aver lasciato ciò che è terrestre alla terra, aver superato il corpo di miseria (cf. Fil 3,21) ed essere stati condotti verso la vetta suprema e divina dell’amore, bisogna contemplare le cose che non si vedono, perché colui che è arrivato alla vetta dell’amore, uscendo in certo modo da se stesso, comprende l’invisibile; superata l’oscurità della nube corporea, giun212
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ge alla quiete dell’anima, fissa lo sguardo con maggior chiarezza sul sole di giustizia (cf. Ml 3,20; Lc 1,78) sebbene non possa saziarsi pienamente di questa visione. [Gesù salì sul monte] in disparte per pregare (Lc 9,28). La quiete è madre della preghiera e la preghiera è manifestazione della gloria divina, perché quando avremo chiuso la porta dei nostri sensi, ci saremo ritrovati con noi stessi e con Dio e, liberati da ciò che accade nel mondo all’esterno, saremo entrati in noi stessi, allora vedremo chiaramente in noi stessi il regno di Dio (cf. Lc 17,21)22.
L’ultima frase rinvia a Ireneo che, parlando della trasfigurazione, dice che “la vera vita dell’uomo è la visione di Dio”23. Giovanni distingue tra la preghiera del Signore e la preghiera dei servi; i servi vanno al Signore con amore e tremore attraverso la preghiera. E questa preghiera e l’unione con Dio soccorrono l’anima, la nutrono e la consolidano. È interessante osservare che Giovanni in questo passo presenta i caratteri di una mistica della tenebra, mentre nella Vita bizantina di Barlaam e Ioasaf troviamo piuttosto una mistica della luce. Questo passo spiega chiaramente quello che Giovanni chiede ai suoi ascoltatori. Soltanto attraverso la vittoria sulle passioni si può pervenire a contemplare Dio. E la preghiera è la chiave che ci apre le porte del cielo e ci permette di conoscere ogni cosa. Ma ancora una volta dobbiamo tener presente che la preghiera, secondo il Damasceno, non indica affatto un’azione ripetitiva, bensì un atto accompagnato da una mente attenta che gusta le parole. E tale mente deve essere in grado di discernere tra parole ortodosse e parole eretiche. In caso contrario, l’intera opera letteraria di Giovanni non avrebbe senso. Sebbene 22
Ibid. 10, p. 448. Ireneo di Lione, Contro le eresie IV,20,7, in Id., Contre les hérésies Livre cura di A. Rousseau, SC 100, Cerf, Paris 1965, p. 648. 23
IV/II,
a
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dobbiamo riconoscere che il nostro autore non analizzi in profondità la relazione tra fede ortodossa e preghiera, tuttavia possiamo notare che tra le due vi è un legame. La fede ortodossa è essenziale per la preparazione della mente alla contemplazione della santa Trinità. Chiunque vuole contemplare Dio, deve conoscere la retta fede, poiché l’ortodossia non è soltanto il fondamento delle buone azioni e delle virtù, ma essa purifica anche la mente dal peso dell’eresia. È l’ortodossia che ci conduce alla vetta dalla quale possiamo vedere Dio. Il pensiero di Giovanni in proposito va compreso nel suo contesto storico. Nel suo scritto Sull’inno Trisaghion, egli dice di scrivere a motivo dell’esistenza di differenti opinioni tra i monaci relativamente a questioni dogmatiche. Si deve difendere l’ortodossia, perché ormai perfino i monasteri sono minacciati dall’eresia. Nei paragrafi undicesimo e dodicesimo, Giovanni spiega cosa accadde a Cristo. Secondo lui, Cristo non cambiò, ma piuttosto si mostrò quale egli era in verità, ed è questo che i discepoli videro per la prima volta. Un’eco di tale interpretazione è riscontrabile nell’ode 7 del Canone, dove si dice: “Ora le realtà invisibili sono state viste dagli apostoli, la divinità che rifulse sul Tabor, ed essi gridavano: ‘Benedetto sei tu, Signore Dio, nei secoli’”24. Il vero Dio è divenuto vero uomo, unendo l’umanità con la divinità nella sua persona, come sta scritto nell’ode 325, e ha mostrato se stesso in verità ai suoi discepoli. Giovanni ricorda che il Signore chiese ai suoi discepoli di non dire niente al loro ritorno; a suo avviso, il Signore conosceva i limiti dei suoi discepoli ed essi non potevano capire che cosa accadeva perché fino ad allora non erano in piena comunione con lo Spirito santo e, infatti, i loro cuori erano colmi di tristezza.
24 25
214
Giovanni di Damasco, Canone sulla Trasfigurazione 7, PG 96,849A. Cf. ibid. 3.
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Alla fine dell’Omelia viene elencato ciò che gli ascoltatori devono fare: amare i loro nemici, riconciliarsi con i fratelli, intercedere per gli altri. L’uomo è chiamato ad adempiere questi comandamenti in modo che gli sia concesso di vedere la bellezza del Signore; così che cominci fin d’ora a gustarla per quanto essa può essere percepita da quanti rivestono un corpo di carne. A prima vista, si potrebbe pensare che questa finale non sia adatta al contesto e al linguaggio dell’Omelia, ma un’attenta lettura ci permette di comprendere meglio le affermazioni del suo autore. Giovanni ha parlato dei dogmi concernenti la Trinità, l’unione ipostatica, eccetera, più avanti parla di come è possibile perseverare in quella preghiera continua che consente di contemplare Gesù Cristo. Ha parlato dell’esperienza della trasfigurazione e ora parla dell’amore per i nemici. Sembra strano, ma in realtà questo è esattamente quello che Giovanni vuole dai suoi ascoltatori o dai suoi lettori. Egli ricorda alla fine che chiunque abbia ricevuto da Dio il dono di vedere la sua luce e di sperimentare il mistero della trasfigurazione, deve poi ritornare indietro e guardare attorno a sé per vedere il fratello, amarlo e riflettere l’esperienza della trasfigurazione nella vita quotidiana; allora la trasfigurazione diventa una pregustazione della bellezza futura.
Conclusione
Giovanni era convinto che il principale compito dei suoi scritti fosse quello di presentare e preservare la fede ortodossa attraverso una sintesi delle opere fondamentali di alcuni padri della chiesa; le sue omelie e le sue composizioni liturgiche rappresentano il quadro entro il quale Giovanni può esporre i suoi insegnamenti in uno stile meditativo. Questo significa che anche 215
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le sue omelie sono una sintesi di insegnamenti patristici. In questo senso la sua Omelia sulla Trasfigurazione non è semplicemente un testo scritto per una data festa, ma piuttosto un testo ricco di contenuto dottrinale e uno strumento volto a incoraggiare gli ascoltatori a un modo di vivere secondo l’evangelo. Possiamo riassumere le principali affermazioni della sua Omelia nei seguenti punti: – La retta fede è il punto di partenza per la vita del cristiano. Di conseguenza non c’è una vita spirituale ortodossa senza conoscenza della retta fede; in caso contrario non è possibile contemplare Dio. – La contemplazione di Dio è lo scopo della vita cristiana. – La preghiera sgorga da un cuore puro che conosce la retta fede. – Un cuore puro deve vincere le passioni e dedicarsi alla preghiera. – L’acquisizione delle virtù è essenziale per il cristiano. – La mente deve comprendere ogni parola di quanto si prega; in altri termini, ogni cosa che si dice è priva di senso se non si comprendono le parole della propria preghiera. – Se le preghiere e le virtù non si irradiano sul fratello, come afferma Giovanni alla fine della sua Omelia, ciò significa che non si è compreso quello che il Signore chiede di fare. – Infine, Giovanni invita i suoi ascoltatori a seguire i discepoli in modo che anch’essi possano vedere il Signore nella sua gloria; questo implica che la trasfigurazione del Signore è un’esperienza offerta a ciascuno. La luce che emanò dal Signore sarà vista allora da quelli che praticano la preghiera continua e trionfano ogni giorno sulle passioni.
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IL TEMA DELLA LUCE DIVINA IN SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO Ilarion Alfeev*
Nell’opera di san Simeone il Nuovo Teologo (949-1022) il tema della luce divina occupa un posto centrale. Intorno a questo tema si sviluppa tutto il suo pensiero teologico e il suo insegnamento morale e ascetico. “Dio è luce e in lui non c’è tenebra” (1Gv 1,5): queste parole dell’apostolo Giovanni hanno ispirato molti padri della chiesa prima di Simeone, in primo luogo Gregorio di Nazianzo, che le cita più di una volta. Nello sviluppo della concezione teologica di Dio come luce è evidente il legame diretto tra i tre autori che la chiesa ha ritenuto degni dell’appellativo di teologi: Giovanni, Gregorio e Simeone. Per Gregorio il tema della luce divina aveva un significato importantissimo: è infatti la stessa natura divina che egli, a preferenza di ogni altro termine, qualifica come luce. Gregorio elaborò una peculiare terminologia della luce, presente nella maggior parte delle sue opere letterarie1. Con maggior completezza e chiarezza * Vescovo di Vienna e Austria del Patriarcato di Mosca, patrologo e teologo, è capo della Rappresentanza della chiesa ortodossa russa presso le istituzioni europee a Bruxelles. Traduzione dall’originale russo. 1 Cf. C. Moreschini, “Introduction”, in Grégoire de Nazianze, Discours 38-41, a cura di C. Moreschini, SC 358, Cerf, Paris 1990, p. 63; Id., “Luce e purificazione nella dottrina di Gregorio Nazianzeno”, in Augustinianum 13 (1973), pp. 535-549.
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la dottrina della luce divina è stata espressa da Gregorio nei Discorsi 38-40, che Simeone il Nuovo Teologo doveva apprezzare in modo particolare, in quanto le cita più di una dozzina di volte2. Ecco un frammento dal Discorso 40, che può costituire un succinto sommario della dottrina di Gregorio su Dio come luce: Dio è luce somma e inaccessibile e inesprimibile, non comprensibile con la mente né manifestabile con la parola, la luce che illumina ogni natura razionale. Tra le sostanze intellettuali Dio è quello che è il sole tra le sostanza sensibili: ci appare in proporzione alla nostra purificazione, e viene da noi amato in proporzione a quanto appare; viene poi intuito con la mente in proporzione a quanto viene amato: egli soltanto si contempla e si intende, mentre il minimo grado si riversa agli esseri che sono all’esterno. Ma quando io parlo di “luce”, io intendo quella che si contempla nel Padre, nel Figlio e nello Spirito santo3.
In seguito Gregorio dice che al secondo posto dopo la luce divina ci sono gli angeli e, al terzo, l’uomo; esiste poi anche la luce del mondo creato. Luce sono il comando di Dio (cf. Gen 2,1617), la Legge del Sinai (cf. Es 34,29-35), il roveto ardente (cf. Es 3,2), la colonna di fuoco per Israele (cf. Es 13,21); la luce ha rapito Elia in un carro di fuoco (cf. 2Re 2,11) e ha illuminato i pastori alla nascita di Cristo (cf. Lc 2,9); la luce è la stella che guida i magi a Betlemme (cf. Mt 2,9); la luce è la divinità che si è rivelata agli apostoli nella trasfigurazione (cf. Mt 17,2); la luce ha illuminato Paolo sulla via di Damasco (cf. At 9,3); la luce è lo splendore del secolo futuro, quando “i giusti risplende-
2 Cf. H. J. M. Turner, St. Symeon the New Theologian and Spiritual Fatherhood, Brill, Leiden-New York-Köln 1990, p. 47. 3 Gregorio di Nazianzo, Discorsi 40,5, in Id., Omelie sulla natività (Discorsi 38-40), a cura di C. Moreschini, Città Nuova, Roma 1983, p. 98.
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Il tema della Luce divina in Simeone …
ranno come il sole (Mt 3,43) e in mezzo a essi sarà Dio, in mezzo a coloro che sono veramente dèi e re”4. Anche il battesimo è luce “che abbraccia il mistero della nostra salvezza”5. È sbalorditiva la somiglianza tra questa dottrina e quello che Simeone dice di Dio come luce. Nel terzo Discorso teologico leggiamo: Dio è luce (1Gv 1,5), una luce infinita e incomprensibile … il Padre è luce, il Figlio è luce, lo Spirito è luce; i tre sono un’unica luce, semplice, senza composizione, al di fuori del tempo, in un’eterna identità di dignità e di gloria. Perciò anche quello che viene da lui è luce ed è effuso come proveniente dalla Luce: luce la vita, luce l’immortalità, luce la fonte della vita, luce l’acqua viva, la carità, la pace, la verità, la porta del Regno dei cieli, luce è il Regno dei cieli stesso; luce la camera nuziale, il talamo, il paradiso, le dolcezze del paradiso, la terra dei miti, le corone di vita, luce le vesti stesse dei santi; luce il Cristo Gesù, salvatore e re dell’universo; luce il pane della sua carne immacolata, luce il calice del suo preziosissimo sangue, luce la sua resurrezione, luce il suo volto; luce la mano, il dito, la bocca, i suoi occhi; luce il Signore, la sua voce come luce da luce; luce il Consolatore, la perla, il grano di senapa, la vigna vera, il lievito, la speranza, la fede: luce! … Poiché uno è Dio Padre, Figlio e Spirito santo, luce inaccessibile e anteriore a tutti i secoli … come me l’hanno insegnato coloro che l’hanno appreso per l’esperienza stessa6.
Simeone ritorna costantemente all’idea che il Dio Trinità è luce inaccessibile: questa idea è la pietra angolare della sua teo-
4
Ibid. 40,6, in Id., p. 100. Ibid. 6 Simeone il Nuovo Teologo, Trattati teologici 3,137-166, in Id., Traités théologiques et éthiques I, a cura di J. Darrouzès, SC 122, Cerf, Paris 1966, pp. 164-167. 5
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logia e del suo misticismo7. Tutti gli attributi di Dio sono analogamente descritti da Simeone in termini di luce: egli parla di luce della gloria divina8, luce della grazia divina9, luce del volto di Cristo10, luce dell’amore divino11, luce della conoscenza12, luce della sacra Scrittura13, luce della vita eterna14, luce dell’immortalità15, dell’impassibilità16, dei comandamenti divini17, eccetera. Simeone paragona spesso Dio al sole, sfruttando l’analogia già tradizionale presso i padri, e ancora prima, nella filosofia greca18. Sviluppando la concezione di Gregorio sui due soli nei due mondi, Simeone scrive: In principio Dio ha creato due mondi, uno visibile e uno invisibile … In corrispondenza di questi due mondi brillano due soli, uno sensibile e uno intelligibile. Ciò che è il sole per il mondo visibile e sensibile lo è Dio per il mondo invisibile e intelligibile … Uno dei due mondi, quello visibile, e le cose che contiene sono illuminati dal sole sensibile e visibile, mentre l’altro mondo, cioè quello intelligibile, e coloro che vi abitano sono illuminati e resi splendenti dal sole intelligibile di giustizia19. 7 Cf. in particolare Simeone il Nuovo Teologo, Inni 33,1-13, oltre a Inni 1,226; 2,91; 12,15-34; 38,24-32; Id., Capitoli teologici, gnostici e pratici 1,2; Id., Trattati etici 10,374-377. 8 Cf. Id., Trattati etici 11,331; Id., Inni 1,210; 7,5; 21,1-2; 31,49; 45,82. 9 Cf. Id., Inni 2,19. 10 Cf. ibid. 9,5; 25,149; 28,187. 11 Cf. ibid. 10,14; 17,326; 18,13. 12 Cf. Id., Catechesi 26,315; Id., Capitoli teologici 1,65; 2,16; Id., Trattati etici 5,248-257; Id., Inni 32,65; 55,186. 13 Cf. Id., Trattati etici 7,29. 14 Cf. Id., Inni 27,147; 52,99. 15 Cf. ibid. 2,89. 16 Cf. ibid. 46,38. 17 Cf. Id., Trattati etici 9,142-144; Id., Inni 47,3. 18 Cf. Id., Capitoli teologici 2,22-25; Id., Inni 1,9-20 e molti altri luoghi (in particolare negli Inni). 19 Id., Capitoli teologici 2,22, in Id., Chapitres théologiques, gnostiques et pratiques, a cura di J. Darrouzès, SC 51bis, Cerf, Paris 1980, pp. 114-117. Cf. Gregorio di Nazianzo, Discorsi XXI,1,13-15 (“il sole per le sostanze sensibili è lo stesso che Dio per
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Il tema della Luce divina in Simeone …
Simeone considera tutta la storia del mondo nel suo complesso come un’unica rivelazione della luce divina. La luce divina ha creato gli angeli20, queste “seconde luci”21. Anche se la luce divina trascende assolutamente il mondo visibile, Dio non ha lasciato questo mondo privo di luce, ma ha creato il sole, la luna e il fuoco22. L’uomo fu fatto a immagine e somiglianza di Dio, come un “secondo mondo” (deúteros kósmos)23, e rivestito delle “vesti lucenti e divine”, di cui sarebbe stato in seguito privato24. Il Figlio di Dio si fece uomo, affinché noi attraverso la nostra conformità e compartecipazione a lui divenissimo “seconde luci”, simili alla prima luce25. Tutte queste idee noi le troviamo già in Gregorio di Nazianzo; osserviamo qui che anche la cosmologia e l’antropologia di Simeone (come anche di Gregorio) sono marcate dalla percezione della luce divina in tutta la creazione e in ogni creatura. Anche l’idea che Dio sia luce per i giusti e fuoco per i peccatori, che ritroviamo in Simeone, risale a Gregorio26. Seguendo quest’ultimo, Simeone stabilisce un legame tra il sacramento del battesimo e la luce divina, insistendo sul fatto che tutti coloro che sono rivestiti di Cristo devono “contemplare la sua luce nella luce dello Spirito santo”27. Simeone, come Gregorio, sviluppa la dottrina per cui la luce divina brilla in coloro che hanno raggiunto la divinizzazione “a misura” (katà analoghían) della loro purificazione e della loro carità:
quelle spirituali; l’uno illumina il mondo visibile, l’altro quello invisibile”): Gregoire de Nazianze, Discours 20-23, a cura di J. Mossay, SC 270, Cerf, Paris 1980, pp. 112-113. 20 Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Inni 38,37-40. 21 Cf. ibid. 50,150-152; Id., Trattati etici I,5,79-83. 22 Cf. Id., Inni 38,66-69. 23 Cf. Id., Trattati etici 4,799-801; Id., Inni 33,18-20. 24 Cf. Id., Inni 45,63. 25 Cf. ibid. 42,189-192. 26 Cf. Id., Trattati etici 3,596-599; Id., Inni 34,59-62. Cf. Gregorio di Nazianzo, Discorsi XL,36,15-24. 27 Simeone il Nuovo Teologo, Trattati etici 13,236-240.
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E la tua grazia, o mio Dio, brillerà come il sole grazia dello Spirito di ogni santità in tutti i santi; e tu brillerai, sole inaccessibile, in mezzo a loro e tutti risplenderanno, a misura della loro fede, ascesi, speranza e carità, della loro purificazione e illuminazione per opera del tuo [Spirito28.
Va infine ricordato che Simeone, benché ricorra spesso alla terminologia apofatica nella descrizione di Dio come luce, non definisca mai la luce divina “tenebra” ( gnóphos). Tra i grandi autori mistici, furono attratti dal simbolismo della tenebra divina Filone e Clemente Alessandrino, Gregorio di Nissa e Dionigi l’Areopagita; a Gregorio di Nazianzo, al contrario, fu più vicino il simbolismo della luce. Dionigi afferma che la “luce inaccessibile” in cui vive Dio (cf. 1Tm 6,16) equivale alla terminologia della “tenebra divina”, poiché Dio è al di là dei limiti di qualsiasi rappresentazione umana della luce29. L’ascesa di Mosè verso Dio si compie con il suo ingresso nella “misteriosa tenebra della non conoscenza”, dove egli si trova in “totale tenebra e non conoscenza, essendo interamente al di là dei limiti del tutto”30. Simeone è tra quei teologi nei quali “la teologia della tenebra … cede il posto a una teologia della luce increata”31: in questo egli è ancora una volta vicino al Nazianzeno. Solo una volta troviamo in Simeone la menzione della “tenebra divina”: nella seconda parte dei Capitoli, uno tra i suoi testi più “areopagiti-
28 Id., Inni 1,141-146, in Id., Hymnes I, a cura di J. Koder e J. Paramelle, SC 156, Cerf, Paris 1969, pp. 168-169. 29 Cf. Dionigi l’Areopagita, Lettere 5, in Id., Gerarchia celeste. Teologia mistica. Lettere, a cura di S. Lilla, Città Nuova, Roma 1986, pp. 123-124. 30 Id., Teologia mistica 1,3, in Id., Gerarchia celeste. Teologia mistica. Lettere, p. 107. 31 V. Lossky, A immagine e somiglianza di Dio, Edb, Bologna 1999, p. 84.
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ci”; ma persino qui la “tenebra” è ricordata accanto alla “luce”, e il tema della luce è assolutamente prevalente: Quando l’intelletto è semplice, o meglio spoglio da qualsiasi pensiero e interamente rivestito della luce divina … rimane nell’abisso della luce divina che non gli consente di scorgere nulla dell’esterno. Ecco che cosa significa: “Dio è luce, e luce suprema”, che “per coloro che l’hanno raggiunta si rivela pace di ogni contemplazione”32. L’intelletto sempre in movimento diviene allora immobile e assolutamente vuoto di pensieri quando è tutt’intero coperto dalla tenebra e dalla luce divina … Tutto ciò che è di quella vita è incomprensibile, inesplicabile e inafferrabile; la mente vi si stabilisce dopo aver superato tutte le cose visibili e concepibili, e si muove volvendosi senza movimento, vivendo in una vita superiore alla vita, divenuta luce nella luce, ma non luce di per se stessa. Infatti essa vede allora non se stessa, ma colui che è al di sopra di lei e, trasformandosi nel pensiero per la gloria che ne emana, s’ignora essa stessa interamente33.
La visione della luce divina è il tratto più caratteristico della mistica di Simeone il Nuovo Teologo, che ne parla in tutte le sue opere: la “terminologia della luce” è in lui di gran lunga più sviluppata che in qualsiasi altro autore ecclesiastico precedente, compreso Gregorio di Nazianzo, dove pure tale terminologia è costantemente presente. Quello della contemplazione della luce divina è in Simeone uno dei temi più personali e autobiografici: tutto ciò che egli scrive a riguardo si fonda sulla sua personale esperienza mistica. Decine di pagine dei suoi scritti sono dedicate alla descrizione delle visioni della luce divina di cui fu reso degno: si tratta di 32 Simeone fonde qui in una frase due passi di Gregorio di Nazianzo contenuti in Discorsi XXXII,15,1 e XXI,1,25-26. 33 Simeone il Nuovo Teologo, Capitoli teologici 2,17-18, pp. 110-113.
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passi assolutamente originali, che non dipendono da nessuna fonte letteraria precedente. Simeone è a tal punto concentrato a descrivere e decifrare la propria esperienza della visione della luce, da dedicare poco spazio persino a quei luoghi biblici che per gli altri padri hanno spesso costituito lo spunto per l’esposizione della propria teologia della luce divina: per esempio, l’episodio della trasfigurazione di Cristo. In questo Simeone si differenzia dagli esicasti posteriori, quali Gregorio il Sinaita e Gregorio Palamas, che esposero il proprio insegnamento sulla luce divina nelle Omelie sulla Trasfigurazione. Benché Simeone sia stato il primo autore bizantino a conferire un tale risalto alla visione della luce, il tema di per sé è presente nella letteratura patristica orientale già molto tempo prima di lui. A partire dal iv secolo le fonti monastiche ci offrono innumerevoli riflessioni a riguardo: la visione della luce divina costituiva l’esperienza comune a molte generazioni di monaci e asceti. Il tema della luce attraversa tutta l’opera di Evagrio, il primo grande autore monastico34. Un frammento autobiografico dell’Antirretico è consacrato alla “santa luce” (nuhr¯a qaddi∫¯a)35, che si può vedere con “gli occhi della mente”: Io e il figlio di Dio Ammone volevamo sapere donde essa [questa luce] fosse; abbiamo quindi interrogato il santo Giovanni, veggente della Tebaide, se davvero la natura dell’intelletto (ky¯an¯a d-re‘y¯an¯a) fosse luminosa e se la luce fluisse da esso, oppure vi fosse qualcos’altro che da fuori splende e lo
34 Cf. A. Guillaumont, “La vision de l’intellect par lui-mème dans la mystique évagrienne”, in Mélanges de l’Université Saint-Joseph 50 (1984), pp. 255-262; Id., Aux origines du monachisme chrétien. Pour une phénomenologie du monachisme, Bellefontaine, Bégrolles-en-Mauges 1979, pp. 145-147; G. Bunge, Das Geistgebet. Studien zum Traktat “De Oratione” des Evagrios Pontikos, Luthe, Köln 1987, pp. 62-73. 35 Qui e in seguito sono riportati alcuni termini siriaci nelle citazioni di quei testi di Evagrio che sono pervenuti solo nella versione siriaca.
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illumina; questi allora ci rispose dicendo: “L’uomo non è in grado di spiegarlo e, inoltre, senza la grazia del Signore, l’intelletto non può essere illuminato nella preghiera”36.
Dal passo appare chiaro che tutti e tre gli asceti nominati condividevano un’analoga esperienza della visione della luce, ma Ammone ed Evagrio cercavano di chiarirne la natura, laddove Giovanni di Tebe si tratteneva dal dare giudizi sulla questione, limitandosi a osservare che l’illuminazione è impossibile senza l’intervento della grazia di Dio. La domanda che Evagrio pone a Giovanni ha un significato decisivo: la luce che vedono gli asceti è una manifestazione della luminosità originaria della mente umana, o è una luce soprannaturale, divina, che scende dall’alto? In altre sue opere, Evagrio fornisce una risposta alla domanda. Ci sono, dice, due luci: anzitutto la “beata luce della santa Trinità” (tò makariòn phôs tês haghías Triádos)37, in quanto “Dio è luce per sua essenza” (b’ituteh nuhr¯a hu)38. Al tempo stesso, esiste anche la luce della mente umana, con la propria luminosità (tò oikeîon phéngos toû noû)39. Tra la luce divina e la luce umana sussiste una “affinità congenere”: in quanto la mente è stata creata a immagine di Dio, la luce della mente “gli è congenere” (autô tò synghenès phôs)40.
36 Evagrio Pontico, Antirrhetikos 6,16, in Id., Contro i pensieri malvagi. Antirrhetikos, a cura di V. Lazzeri, Qiqajon, Bose 2005, pp. 132-133. 37 Id., Sugli otto pensieri malvagi (recensione lunga) 42, in J. Muyldermans, À travers la tradition manuscrite d’Évagre le Pontique, Bureaux de Muséon, Louvain 1932, p. 55. 38 Evagrio Pontico, Capitoli gnostici 1,35, in A. Guillaumont, Les six centuries des “Kephalia gnostica” d’Évagre le Pontique, PO 28, Firmin-Didot, Paris 1958, p. 33. 39 Evagrio Pontico, Trattato gnostico 45, in Id., Per conoscere Lui. Esortazione a una vergine. Ai monaci. Ragioni delle osservanze monastiche. Lettera ad Anatolio. Pratico. Gnostico, a cura di P. Bettiolo, Qiqajon, Bose 1996, p. 251, dove Evagrio rimanda a Basilio di Cesarea; cf. anche Id., Trattato pratico 64, in Id., Trattato pratico. Cento capitoli sulla vita spirituale, a cura di G. Bunge, Qiqajon, Bose 2008, p. 213; Id., Sulla preghiera 74, in Id., La preghiera pura, a cura di G. Bertotti, Il leone verde, Torino 1998, p. 34. 40 Id., Skemmata 2, in J. Muyldermans, Evagriana. Extrait de la revue Le Muséon 44, augmenté de: Nouveaux fragments grecs inédits, Paris 1931, p. 374.
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Durante la preghiera la mente dell’uomo che ha raggiunto l’impassibilità è capace di contemplare il proprio stato originario di luminosità, diventando “simile alla luce” (ayk nuhr¯a)41, “sidereoforme” (asteroeidés)42 e “simile a uno zaffiro e al colore del cielo”43. Quando “l’uomo interiore” diventa “gnostico” (il siriaco yadu‘t¯an¯a equivale al greco gnostikós), egli contempla la luce della sua bellezza (nuhr¯a d-∫upr¯a d-nap∫eh, “la luce della bellezza della sua anima”)44. In altre parole, anche la mente e l’anima si trasfigurano durante a preghiera: la prima acquista di nuovo la luminosità originaria, la seconda la sua bellezza. Evagrio lo spiega ricorrendo all’interpretazione allegorica del salmo 75,3: “Ed era a Salem la sua abitazione, e a Gerusalemme la sua dimora”. L’“anima razionale” (psychè loghiké) dell’uomo diventa l’abitazione, mentre la “mente luminescente” (noûs photieidés) diventa “il luogo della dimora” di Dio45. Ma l’uomo che ha raggiunto l’impassibilità, durante la preghiera non solo contempla la luce della propria mente; egli entra a contatto con la luce triadica di Dio. Nelle opere di Evagrio incontriamo la seguente definizione: Lo stato (katástasis) [originario] della mente è l’altezza raggiungibile dalla mente, simile al colore del cielo. Così anche la luce della santa Trinità si concede alla mente durante la preghiera46. La preghiera è lo stato della mente … che sorge solo allorché [la mente] diventa tutta intera sotto [il potere] della sola luce della santa Trinità47.
41
Evagrio Pontico, Capitoli gnostici 5,15, p. 183. Id., Sugli otto pensieri malvagi (recensione lunga) 43, p. 55. 43 Ibid. 39, p. 55. 44 Id., Pseudo-supplemento ai Capitoli gnostici 50, in W. Frankenberg, Evagrius Ponticus, Weidmannsche Buchhandlung, Berlin 1912, pp. 462-464. 45 Evagrio Pontico, Skemmata 25, p. 377. 46 Ibid. 3, p. 374. 47 Ibid. 17, p. 377. 42
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L’intelletto divino (mad‘¯a al¯ah¯ay¯a) è quello che è libero da qualsiasi turbamento ed è rivestito della luce della visione della Trinità (nuhr¯a da-hzat¯a da-tlit¯ayut¯a)48.
La fidanzata del Cantico dei cantici è immagine della mente che durante la preghiera contempla la luce della santa Trinità – continua Evagrio49 – che descrive l’incontro tra la mente e la luce divina in termini di “mescolamento”: “Come il fuoco nel suo corpo acquista forza, così la mente possiede l’anima con forza, quando è perfettamente mescolata (netmazzag) con la luce della santa Trinità”50. La dottrina di Evagrio sulla luce può essere ricondotta ai seguenti postulati fondamentali: primo, durante la preghiera la mente vede la propria luce; secondo, la mente vede la luce della propria bellezza (la luce della bellezza della propria anima); terzo, la mente vede la luce della santa Trinità; quarto, la mente si mescola alla luce della santa Trinità. Evagrio ritiene che la visione della luce sia il frutto dell’impassibilità, della purezza della mente e della preghiera, ma sottolinea che per acquisirla è necessario il concorso dell’azione di Dio51. Se ci rivolgiamo alle Omelie di Macario l’Egiziano, vi troviamo un gran numero di menzioni della luce divina. Una delle omelie, che interpreta allegoricamente la visione del profeta Ezechiele (cf. Ez 1,1-2,1), parla dello stato dell’anima nel momento in cui è immersa nella luce divina: Il profeta … contemplava il mistero dell’anima che avrebbe accolto il suo Signore e sarebbe diventata per lui trono di gloria. Poiché l’anima resa degna di aver parte allo Spirito, fon-
48
Id., Pseudo-supplemento ai Capitoli gnostici 53, pp. 464-465. Cf. Id., Sugli otto pensieri malvagi (recensione lunga) 42, p. 55. 50 Id., Capitoli gnostici 2,29, p. 73. 51 Cf. Id., Skemmata 2, p. 374: Θεο γρ χρε α συνεργοντος. 49
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te della sua luce, e illuminata dalla bellezza dell’ineffabile gloria del Signore … diventa tutta luce, tutta volto, tutta occhio … È trasformata tutta intera in luce e spirito … E come il sole è identico a se stesso in ogni sua parte … ed è tutto interamente glorificato dalla luce ed è tutto luce … così anche l’anima, che è stata perfettamente illuminata dall’ineffabile bellezza della gloria luminosa del volto di Cristo, che è in piena comunione con lo Spirito santo, … diventa tutta occhio, tutta luce, tutta gloria, tutta spirito52.
Un altro importante passo dalle omelie pseudomacariane è dedicato ai diversi tipi di visione della luce divina: a volte, dice Macario, agli uomini appariva nella luce il segno della santa croce, e in altri momenti “la stessa luce, che appariva nel cuore, schiudeva una luce più interna, profonda e segreta”53. In un altro passo Macario dice come l’Invisibile diventa visibile per le anime degne, che possono “sentirne la grazia e la dolcezza e godere per esperienza della luce di un’indicibile soavità”54. Il tema della dolcezza e della soavità sarà molto importante per altri autori mistici che tratteranno della visione della luce. Evagrio parla di “occhi mentali” come di un organo mistico che permette all’uomo di vedere la luce divina; analogamente Macario parla di “occhi della mente” (noeroì ophthalmoí )55, “occhi del cuore” (ophthalmoì tês kardías)56 e degli “occhi dell’anima” (ophthalmoì tês psychês) interiori57.
52 Pseudo-Macario, Omelie (Coll. II) 1,2, in Id., Spirito e fuoco. Omelie spirituali (Collezione II), a cura di L. Cremaschi, Qiqajon, Bose 1995, pp. 55-56. Cf. anche Omelie (Coll. III) XXII,3,1-2, in Id., Oeuvres spirituelles, I. Homélies propres à la Collection III, a cura di V. Desprez, SC 275, Cerf, Paris 1980, pp. 258-259. 53 Id., Omelie (Coll. II) 8,3, pp. 136-137. 54 Ibid. 4,11, pp. 90-91. 55 Id., Omelie (Coll. III) XXVI,6,36, pp. 308-309. 56 Ibid. XVI,8,14, pp. 206-207. Cf. Clemente di Roma, Lettera ai corinti 36,2 e 59,3, in Id., Lettera ai Corinzi, a cura di E. Peretto, Edb, Bologna 1999, pp. 193 e 273. 57 Pseudo-Macario, Omelie (Coll. III) XV,1,14-15, pp. 172-173.
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Il tema della luce divina svolge un ruolo importante anche in Massimo il Confessore. Egli descrive quello stato dell’anima in cui la mente, ricolmata “dello slancio dell’amore” (éros tês agápes) per Dio, fuoriesce da se stessa e non percepisce più né se stessa, né alcun altro essere: “Illuminata dall’illimitata luce divina, essa cessa di percepire tutto ciò ch’è creato…”58. La mente pura può trovarsi nella luce della santa Trinità, conclude Massimo59. L’illuminazione mistica da parte della luce divina avviene durante la preghiera: in questo Massimo è vicino a Evagrio. Secondo il Confessore, il più alto modello di preghiera è “l’entusiasmo della mente provocato dalla luce divina e illimitata nello slancio stesso della preghiera, quando essa non sente affatto né se stessa, né nient’altro di esistente, ma soltanto colui che con il suo amore la illumina in tal modo”60. Giunta a questo grado di preghiera, la mente si trasfigura: “Grazie alla lunga partecipazione all’illuminazione divina, essa diventa interamente luminosa”, così che la sua parte passionale si trasfigura nell’“infinita passione e nell’incessante amore divini”61. La trasfigurazione della mente è descritta da Massimo in termini di “mescolamento”: “La mente è perfettamente mescolata (enkratheís) con la luce dello Spirito”62. Sulla luce divina ritornò costantemente la riflessione degli scrittori mistici siriaci dei secoli vii-viii, in particolare Isacco di Ninive, Giuseppe Hazzaya e Giovanni di Dalyata. Nell’opera di Isacco di Ninive la parola “luce” si incontra molto spesso, e la sua dottrina della visione della luce è in complesso vicina a quella di Evagrio. In particolare, Isacco distingue due diversi
58 Massimo il Confessore, Capitoli sulla carità 1,10, a cura di A. Ceresa-Gastaldo, Studium, Roma 1963, p. 52. 59 Cf. ibid.1,97, p. 86. 60 Ibid. 2,6, p. 92. 61 Ibid. 2,48, p. 116. 62 Id., Domande e dubbi 80,68-70, in Id., Maximi Confessoris quaestiones et dubia, a cura di J. H. Declerck, CCSG 10, Brepols, Turnhout 1982, p. 62.
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tipi di luce: quella divina della santa Trinità63, e quella dell’anima64 o della mente umana65. Di regola Isacco tratta del secondo tipo di luce, e in questo si differenzia sia da Simeone, sia dagli esponenti posteriori dell’esicasmo bizantino. Per quanto riguarda propriamente la luce divina, il testo più significativo è il Discorso 43 dell’Isacco greco, dovuto in realtà a un contemporaneo più giovane di Isacco, Giovanni di Dalyata66 (nell’opera di quest’ultimo il tema della luce ha un rilievo maggiore che in Isacco). L’autore del Discorso tratta della luce divina, che è la luce della santa Trinità67. Talvolta la luce divina è descritta come luce del Padre68 o luce dello Spirito santo69; in altri casi si parla di Cristo quale “Luce dal Padre-Luce”70. La luce divina illumina lo spazio intelligibile71; quando l’uomo è illuminato da questa luce, è ricolmato di gioia e al tempo stesso contempla la propria bellezza: Il sole che brilla in lui è la luce della santa Trinità … La vita e la gioia e la sua allegria sono Cristo, Luce dal Padre-Luce. Tale [uomo] si rallegra costantemente anche della visione della propria anima, e si meraviglia della propria bellezza, che è realmente cento volte più splendente della luminosità del sole72… Questo spazio è la nube della gloria di Dio, nella qua-
63 Cf. Isacco di Ninive, Prima collezione 68, in Id., De perfectione religiosa, a cura di P. Bedjan, Harrassowitz, Leipzig 1909, p. 474; Id., Prima collezione 22, p. 174. 64 Cf. Id., Prima collezione 53, p. 379; ibid. 80, p. 557. 65 Cf. ibid. 69, p. 482; ibid. 80, p. 560. 66 Nella traduzione greca dei discorsi di Isacco furono inclusi quattro discorsi di Giovanni di Dalyata. 67 Cf. Isacco di Ninive, Prima collezione 43 (greco), in Iσαακ το Σρου, Ερεθντα ασκητικ, a cura di Nikiphoros Theotokis, Spanos, Athinai 1895, p. 177. Cf. anche Id., Prima collezione 22, p. 174. 68 Cf. ibid. 43 (greco), p. 179. 69 Cf. ibid., p. 178. 70 Cf. ibid., p. 177. 71 Cf. ibid. 72 Cf. ibid., pp. 176-177: “L’anima del giusto brilla più luminosa del sole”.
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le entreranno solo i puri di cuore, per contemplare il volto del loro Signore e illuminare le proprie menti con i raggi della luce del Signore73.
Tornando agli autori bizantini che trattano della visione della luce divina, ricordiamo anche Diadoco di Fotica, Esichio il Sinaita e Giovanni Climaco. Quest’ultimo osserva che “chi è veramente obbediente, appena si presenta alla preghiera, diventa tutto radioso e pieno di gioia”74. In un passo Climaco menziona la propria visione della luce, sottolineando, tuttavia, che si trattava della visione di un angelo75. Secondo Esichio, la custodia della mente conduce l’uomo a uno stato tale in cui egli vede la lue della gloria divina; tutti gli asceti, che hanno raggiunto un tale stato, “giungono a questa luce purissima e infinita, e la toccano con indicibili contatti, e abitano e vivono con essa”76. Diadoco, tra l’altro, dice: “L’intelletto, una volta che comincia a divenire l’oggetto persistente dell’illuminazione divina, si fa tutto splendido, sì da vedere abbondantemente in sé la sua luce”77. Accanto alla tradizione patristica in quanto tale, innumerevoli rimandi alla visione o alle manifestazioni della luce divina li possiamo ritrovare nella letteratura agiografica, come anche nei testi liturgici. In particolare, Antonio il Grande vide inizialmente “scendere verso di lui un raggio di luce”, e solo in un se-
73
Ibid., pp. 177-178. Giovanni Climaco, La scala 18,4, a cura di L. d’Ayala Valva, Qiqajon, Bose 2005, p. 292. 75 Cf. ibid. 27,13, p. 423. Questa visione dell’angelo deve essere distinta dalle visioni della luce divina in Evagrio, Macario, Massimo, Isacco e Simeone: in questi autori la luce non è un angelo ma Dio stesso, come sottolinea Simeone. Cf. Gregorio Palamas, Triadi II,3,10, in Id., Atto e luce divina. Scritti filosofici e teologici, a cura di E. Perrella, Bompiani, Milano 2003, p. 635: coloro che praticano l’esichia “non direbbero mai che [questa luce] è un angelo”. 76 Esichio Presbitero, A Teodulo 171, in La filocalia I, a cura di M. B. Artioli e M. F. Lovato, Gribaudi, Torino 1982, p. 264; cf. anche ibid. 175, p. 265. 77 Diadoco di Fotica, Capitoli gnostici 40, in Id., Cento considerazioni sulla fede, a cura di V. Messana, Città Nuova, Roma 1978, p. 51. 74
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condo momento udì la voce di Cristo78. Un altro asceta egiziano, prima di morire confidava a chi gli stava intorno: “Il mio cuore è sempre stato illuminato dalla luce di Dio e, così rischiarato, io non avevo bisogno di sonno: sempre ardeva in me il desiderio di vederlo … E questa luce della mente (lux mentis) brillava inestinguibile nella mia anima”79. Per quanto riguarda la liturgia, il tema della luce divina è costantemente presente nei testi liturgici della chiesa ortodossa: un esempio caratteristico sono i testi dedicati alla Trasfigurazione del Signore. Consideriamo ora le visioni della luce divina in Simeone. La prima, che ebbe quando era ancora giovane, è descritta nella Catechesi 22, dove parla di un certo Giorgio, che rappresenta in realtà lui stesso80: Un giorno dunque, mentre era in piedi e diceva: “O Dio, sii propizio a me peccatore”, parlando piuttosto con la mente che con la bocca, all’improvviso apparve dall’alto una grande illuminazione divina che riempì tutto quel luogo. A quel punto il giovane non seppe più nulla e dimenticò se si trovasse in una casa o sotto un tetto. Vedeva infatti solo luce dovunque … Tutto presente alla luce immateriale e divenuto, gli sembrava, luce egli stesso, dimentico del mondo intero, fu inondato di lacrime, di gioia e di esultanza inesprimibili. Poi volse verso il cielo la sua mente e vide un’altra luce, più chiara ancora di quella che gli era vicino; e gli apparve – cosa straordinaria – quel santo di cui si è detto: l’angelico vegliardo81…
78 Cf. Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio 10,1, a cura di L. Cremaschi, Edizioni Paoline, Milano 2007, p. 97. 79 Rufino di Aquileia, Storia dei monaci in Egitto X,8,11-12, in Id., Storia di monaci, a cura di G. Trettel, Città Nuova, Roma 1991, p. 120. 80 Questo stesso episodio è raccontato da Simeone in Rendimenti di grazie 1,87-110 (in questo caso in prima persona): questo conferma che il racconto di Simeone nella Catechesi 22 è autobiografico. 81 Simeone il Nuovo Teologo, Catechesi 22,88-100, in Id., Catechesi, a cura di U. Neri, Città Nuova, Roma 1995, p. 361. Il riferimento è a Simeone Studita.
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Quando la visione ebbe termine, il giovane ritornò in sé, e ben presto cantò un gallo: la notte era trascorsa senza che se ne accorgesse82. Di un’altra visione, in molti particolari simile alla prima, si parla nella Catechesi 16: l’eroe della narrazione, in piedi per la preghiera, sprofonda in pianto, poi improvvisamente è illuminato da una luce immateriale: egli cessa allora di aver coscienza di sé e si dimentica di ogni cosa al mondo, tutto preso da un’indicibile gioia83. Se nelle Catechesi, che pronunciava dinanzi ai monaci di San Mamas, Simeone era costretto a parlare della propria esperienza in terza persona, i due Rendimenti di grazie rappresentano la sua autobiografia mistica, in cui egli racconta apertamente, in forma di ringraziamento a Dio, delle visioni e delle rivelazioni che gli era accaduto di sperimentare. Nel primo Rendimento di grazie, dopo aver descritto la sua prima visione della luce divina84, Simeone parla della seconda, quando un raggio sorse nella sua mente e una luce discese sulla sua testa in forma di una piccola “nuvola in forma di fiamma”85. Dopo di che Simeone descrive le successive visioni, dandoci a intendere che nel corso della sua vita ce ne furono molte: Sempre più frequentemente vedevo una luce che, sia all’interno [di me] quando la mia anima godeva di calma e di pace, sia lontano al di fuori, mi appariva ovvero si nascondeva completamente, e nascondendosi mi provocava un’afflizione intollerabile, al pensiero che non mi sarebbe più riapparsa. Ma mentre ripiombavo nel lamento e nel pianto, dando pro-
82
Cf. ibid. 22,101-113, p. 362. Cf. ibid. 16,78 ss., pp. 308 ss. 84 Cf. Id., Rendimenti di grazie 1,87-113, in Id., Catéchèses III, a cura di B. Krivochéine e J. Paramelle, SC 113, Cerf, Paris 1965, pp. 310-315. Cf. Id., Catechesi 22,88 ss., pp. 361 ss. 85 Cf. Id., Rendimenti di grazie 1,135-137, pp. 314-315. 83
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va di un totale estraniamento, di obbedienza e di umiltà, essa mi appariva come il sole che lacera lo spessore delle nuvole e si mostra a poco a poco, delicato e sferico86.
Simeone, in tal modo, distingue tra una visione “dall’esterno” e una “all’interno”, la seconda più intensa e deliziosa; tuttavia in entrambi i casi si parla della luce divina e non della luce naturale della mente umana. Come gli autori precedenti, Simeone ricorda la visione del “volto” di Cristo nella luce87: tra l’altro il contesto del racconto mostra che si tratta di un fenomeno luminoso, e non dell’apparizione del volto in una qualche forma visibile. Uno dei tratti caratteristici dell’esperienza della visione della luce in Simeone è che la dinamica di tale esperienza implica, quale elemento necessario anche se doloroso, periodi di assenza di Dio; Simeone menziona tale fatto in molte delle sue descrizioni della visione della luce88. Il tema dell’abbandono di Dio era stato considerato nella letteratura ascetica anche prima di Simeone89, tuttavia Simeone lo affronta con una sfumatura autobiografica assente nei suoi precursori. Nel secondo Rendimento di grazie Simeone mostra che la luce divina, che gli appariva incessantemente, diventa gradualmente sempre più riconoscibile: Da allora sempre più di frequente, quando stavo presso la fonte stessa, tu, il senza orgoglio, lungi dal disdegnarti di discendere fino a me, al contrario ti avvicinavi e mi afferravi prima la testa, la bagnavi nelle acque e mi facevi vedere in modo
86
Ibid. 1,172-180, pp. 320-321. Cf. ibid. 2,141, pp. 340-341 (“per vedere la luce del tuo volto”). 88 Cf. Id., Inni 11,88-94 e altri. 89 Cf. per esempio: Evagrio Pontico, Capitoli gnostici 25, pp. 134-142; Diadoco di Fotica, Capitoli gnostici 87, in Id., Cento considerazioni sulla fede, a cura di V. Messana, Città Nuova, Roma 1978, pp. 97-98; Isacco di Ninive, Prima collezione 46 (greco), p. 287; Massimo il Confessore, Capitoli sulla carità 4,96, p. 237. 87
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più chiaro la luce del tuo volto. Ma subito volavi via, senza permettermi di comprendere che eri tu a fare questo … Così venendo e partendo per un lungo periodo, tu a poco a poco sempre più pienamente mi apparivi e mi lavavi nelle acque e mi concedevi di vedere la luce con sempre maggior chiarezza e pienezza90.
Dopo questa esperienza, Simeone descrive altre sue visioni della luce, facendo capire che con gli anni si facevano sempre più frequenti. Menzioneremo ora alcuni dei tratti più importanti della dottrina di Simeone sulla visione della luce, quali emergono in primo luogo dagli Inni, per vedere in che cosa si avvicina e in che cosa si distingue dagli autori precedenti. In primo luogo, è del tutto evidente che per Simeone la luce divina non è un angelo, né un qualche essere creato o un’apparizione91. Per Simeone la luce divina è Dio stesso nel suo rivelarsi all’uomo: “La tua luce sei tu, mio Dio”92, esclama in uno dei suoi inni. Come anche negli scrittori mistici precedenti, la luce per Simeone è a volte identificata con la santa Trinità93; in altri casi con lo Spirito santo94. Molto spesso Simeone parla anche di visioni di Cristo come luce95. Simeone non parla mai dell’apparizione di Cristo in forma di uomo: Cristo gli appare sempre in forma di luce, solo in qualche caso egli ne sente la voce96. Os90
Simeone il Nuovo Teologo, Rendimenti di grazie 2,137-146, pp. 340-343. Cf. Id., Inni 17,238 ss. 92 Ibid. 45,6, in Id., Hymnes III, a cura di J. Koder, SC 196, Cerf, Paris 1973, pp. 102-103. 93 Cf. Id., Inni 12,19-23: “… una sola luce, Padre, Figlio e Spirito, tre mi sono apparsi …”; Inni 1,226; 2,86-94; 21,147; 24,248 ss.; 25,33-48; 33,1 e altri. 94 Cf. ibid. 44,114: “Lo Spirito, che brillava in un’indicibile luce”; ibid. 17,36; 22,177, e altri. 95 Cf. ibid. 51,15; 25,145-151; Id., Trattati etici 4,263, e altri. 96 In questo senso le visioni di Cristo a Simeone possono essere paragonate all’apparizione di Cristo all’apostolo Paolo (cf. At 9,3-4). A Paolo apparvero contemporaneamente la luce e la voce del Cristo. Simeone invece, descrivendo le prime appari91
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serviamo che Simeone non descrive mai l’apparizione della Madre di Dio97, e solo una volta menziona l’apparizione di un santo, Simeone Studita98. In secondo luogo, la luce descritta da Simeone non è un fenomeno fisico o materiale: Simeone lo descrive come “immateriale” (áülos)99, “semplice e priva di forma, assolutamente elementare, senza corpo, indivisibile”100. Con il ricorso a espressioni apofatiche Simeone sottolinea che la luce divina è al di là di qualsiasi categoria di materia o di forma, come anche oltre i confini del linguaggio e della comprensione umani: è un “tesoro inesprimibile, indicibile, senza qualità né quantità, senza aspetto né forma, immateriale, che si manifesta solo come inesprimibile bellezza, assolutamente semplice come luce al di sopra di ogni luce”101. Quest’ultima espressione ricorda la dottrina dionisiaca della “sovraluce”, che non si può paragonare a nessuna luce materiale. Senza impegnarsi nell’apofatismo sino al punto di caratterizzare la luce divina in termini di “tenebra”, Simeone indica chiaramente che non si deve dare al termine “luce” un senso letterale: questa parola non è che un simbolo per una realtà che eccede di gran lunga qualsiasi parola umana. Essendo immateriale, la luce divina è una luce “concettuale” (mentale)102: si manifesta nella mente, in essa brilla103, la illumina104,
zioni della luce (cf. Rendimenti di grazie 1), sottolinea che non gli fu concesso subito di sentire la voce di Cristo (cf. ibid. 1,159-161); soltanto in seguito Simeone sentì, che Cristo gli rivolgeva la parola (cf. ibid. 2,225 ss.). 97 Tuttavia egli parla della visione della luce, che avviene dopo che aveva venerato l’icona della santissima Madre di Dio: cf. ibid. 1,255 ss. 98 Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Catechesi 22,102-104, p. 361. 99 Id., Inni 38,64, in Id., Hymnes II, a cura di J. Koder, SC 174, Cerf, Paris 1971, pp. 472-473; cf. ibid. 51,141; Id., Trattati etici 11,176 e altri. 100 Id., Inni 13,41-42, pp. 260-261. 101 Id., Trattati etici 11,174-177, in Id., Traités théologiques et éthiques II, a cura di J. Darrouzès, SC 129, Cerf, Paris 1967, pp. 342-343. 102 Cf. Id., Inni 33,64 (φς νοερν); 16,2; 23,222 (φς νοητν). 103 Cf. ibid. 34,79; 40,11. 104 Cf. ibid. 11,42; 17,338; 18,82; 20,236, e altri.
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la purifica105, la compenetra di mistico entusiasmo per Dio106. A differenza di Evagrio, Isacco di Ninive e altri autori precedenti, Simeone di regola non parla della luce naturale della mente ma solo di luce divina, che rischiara la mente dall’esterno o dall’interno. La luce divina, dice Simeone, è invisibile agli occhi del corpo107, ma la si può vedere con la mente o, meglio, con quello che egli chiama “l’occhio della mente” (ophthalmòs toû noós)108, “l’occhio razionale della mente” (noeròs ho toû noòs ophthalmós)109, “gli occhi razionali del cuore” (ophthalmoì noeroì tês kardías)110, “gli occhi dell’anima” (psychês hoi ophthalmoí)111, “gli occhi razionali dell’anima” (noeroì tês psychês ophthalmoí)112, eccetera. A volte Simeone arriva ad affermare persino che la luce divina è “inaccessibile agli occhi razionali del cuore”113; in altri luoghi afferma il contrario, sostenendo che l’Inaccessibile diventa accessibile per gli occhi della sua mente114. Simeone parla analogamente di “labbra” e “mani” spirituali, per mezzo delle quali l’asceta comunica alla luce divina: [Gli impassibili vedono] la stessa luce semplice della divinità: la vedono abbondantemente con gli occhi della mente. Afferrandola con mani immateriali in un’irresistibile attrazione (akataschéto tô éroti) essi gustano l’intangibile con le labbra spirituali della loro anima e della mente. E non pos-
105
Cf. ibid. 30,579, e altri. Cf. ibid. 9,33; 48,23, e altri. 107 Cf. ibid. 38,83. 108 Id., Inni 11,46, pp. 234-235. 109 Ibid. 38,86, pp. 474-475. 110 Ibid. 32,82, pp. 176-177. 111 Ibid. 22,108, pp. 178-179. 112 Id., Trattati etici 10,673-674, pp. 308-309. 113 Id., Inni 38,84, pp. 474-475. 114 Cf. ibid. 15,52-53. 106
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sono mai pienamente saziarsi della contemplazione della sua bellezza e dolcezza115.
Il linguaggio mistico di questo frammento è estremamente vicino a quello dei padri più antichi citati sopra, che parlano della visibilità della luce divina “con gli occhi della mente”, della sua inesprimibile bellezza, degli ineffabili contatti con essa, della dolcezza e della gioia sperimentate durante la visione, dell’attrazione che accompagna la visione. Per il tramite di immagini meno abituali, delle mani che “afferrano” o delle labbra che “gustano” la luce, Simeone indica la piena e stretta unione tra il mistico e la luce nel corso della visione, sottolineando il carattere globale e totalizzante dell’esperienza mistica. In un altro caso, parlando della trasfigurazione dell’anima sotto l’azione della luce, Simeone utilizza la simbolica dell’“abbraccio” e dell’“immersione” nella luce: [Lo Spirito] è come se fosse un fonte divino, luminiforme: abbraccia tutti i santi che trova … Quale luce che non tramonta, rende luce tutti coloro in cui prende dimora, e quale vita, dà la vita116.
L’esperienza di Simeone mostra che tutta la natura umana, inclusa la mente, l’anima e persino il corpo, si trasfigura sotto l’azione della luce divina: si tratta di una delle idee centrali di
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Id., Trattati etici 4,862-867, pp. 70-71. Id., Inni 44,349-377, pp. 94-97.
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Simeone, che vi ritorna insistentemente. Per la contemplazione della luce divina, dice, “il tuo corpo risplende, come anche la tua anima, e l’anima … rifulgerà come Dio”117. Nella Catechesi 22 Simeone riferisce che quando il giovane Giorgio vide la luce divina, “a lui stesso sembrò di diventare luce”118. In un altro passo Simeone descrive come contempla la propria bellezza quando vede la luce divina: [La luce] rifulge nel profondo del mio cuore, illuminandomi tutto d’immortale fulgore e rischiarando di raggi tutte le mie membra … Io comunico alla luce, mi unisco alla gloria; splende il mio volto, come anche il [volto del] mio amato, e tutte mie le membra si fanno portatrici di luce. Allora anch’io divengo più bello dei belli … e più prezioso di qualsiasi cosa visibile119.
È importante notare qui che la concezione di Simeone sulla trasfigurazione dell’uomo nella luce, durante la visione mistica, e sulla contemplazione da parte dell’uomo della propria bellezza, era stata anticipata da alcuni padri più antichi, in particolare Macario e il cosiddetto Isacco greco. Il linguaggio immaginoso utilizzato da Simeone nella descrizione delle visioni della luce è di estremo interesse per la sua varietà e ricchezza. Simeone fa ricorso sia a immagini tradizionali nella letteratura mistica, sia a immagini che si ritrovano solo in lui. Spesso impiega l’immagine tradizionale del sole: parla della visione di Dio come del sole120, del sole che brilla nel suo cuore121, del
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Ibid. 50,238-246, pp. 174-175. Id., Catechesi 22,98, p. 361. 119 Id., Inni 16,24-37, pp. 12-13. 120 Cf. ibid. 42,85. 121 Cf. ibid. 7,4. 118
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sole che riluce nelle sue mani122, del sole della mente123, del sole indicibilmente soave per i sensi124, del sole inattingibile125, del sole che non tramonta126, del sole sfolgorante127, del cerchio del sole128, dei raggi del sole129, della bellezza del sole130, della luce che supera quella del sole131. L’immagine della luna si ritrova solo di rado in Simeone132; più frequente quella delle stelle133. Tra le altre immagini e termini collegati alla mistica della luce, ricordiamo lampás (lucerna, lampada)134, lampedón (lucerna, fanale)135 e lØchnos (lampada, candeliere)136; aígle (irradiamento)137, pháos (irraggiamento, luce)138 e sélas (luce, illuminazione)139; photòs nephéle (nuvola di luce)140 e mazòs photoeidés (capezzolo luciforme)141. Nei Capitoli si incontra l’immagine sorprendente del fulmine che acceca con il suo fulgore142. Notevole anche l’immagine della conchiglia che per l’azione del raggio di luce penetrato tra le sue valve produce la perla143. Talvolta le diverse immagini sono unite in un’unica descrizione della luce divina: “Io ti vedo
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Cf. ibid. 29,225; 49,75. Cf. ibid. 8,54. 125 Cf. ibid. 1,143. 126 Cf. ibid. 15,94; 18,17; 45,38. 127 Cf. ibid. 23,237. 128 Cf. ibid. 1,39; 17,387. 129 Cf. ibid. 12,59; 15,49; 29,225, e altri. 130 Cf. ibid. 49,75. 131 Cf. ibid. 11,41. 132 Cf. ibid. 29,9; Id., Trattati etici 4,769-776. 133 Cf. il termine στρον (stella) negli Inni 18,18; 22,5; 22,14; 42,85; 45,38; il termine φωστρ (stella, astro) negli Inni 17,386; 49,74-77, e altri. 134 Cf. Id., Inni 23,148; 42,87, e altri. 135 Cf. ibid. 2,18; 22,11, e altri. 136 Cf. ibid. 20,205; 29,221, e altri. 137 Cf. ibid. 17,344-354; 22,8, e altri. 138 Cf. ibid. 45,92 e altri. 139 Cf. ibid. 1,15. 140 Cf. ibid. 17,326. 141 Cf. ibid. 28,183. 142 Cf. Id., Capitoli teologici 3,54, pp. 152-153. Cf. anche Id., Rendimenti di grazie 2,150, e altri. 143 Cf. Id., Trattati etici 8,72-84. 124
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come sole, ti contemplo come una stella, ti guardo come la lucerna accesa dentro il vaso, e il carico nel secchio, come la perla”144. In altri casi le diverse immagini corrispondono ai diversi stadi di visione della luce: “Tu sei visibile da lontano, come stella che sorge, a poco a poco ti ingrandisci … e ti fai vedere come il sole”145. Nelle descrizioni della luce in Simeone dominano sempre i toni caldi e vivaci. La luce, di cui parla Simeone, non è la fredda illuminazione della luna, ma l’accecante bagliore del sole o l’ardore della fiamma infuocata. L’immagine del fuoco occupa un posto di rilievo nella mistica del Nuovo Teologo: Dio è fuoco, è venuto come fuoco e ritornerà come fuoco sulla terra (cf. Lc 12,49) … In coloro in cui si accende il fuoco, egli s’innalza con grande fiamma e arriva fino al cielo … E non in maniera incosciente (agnóstos), come pensano alcuni [spiritualmente] morti, egli consuma l’anima infiammata, poiché essa non è di materia insensibile, ma ciò avviene in piena sensazione e conoscenza (en aisthései kaì gnósei) … Dopo averci perfettamente purificati dalla sozzura delle passioni, il fuoco diventa dentro di noi nutrimento e bevanda. Illuminazione e gioia incessante, e rende noi stessi luce per partecipazione … Quando tutto questo si è compiuto e resta solo la sostanza dell’anima, senza passioni, allora il fuoco divino e immateriale le si unisce secondo l’essenza (ousiodôs) … Allora il corpo stesso diventa fuoco, per la partecipazione alla luce divina e ineffabile146.
Una cosa simile – continua Simeone – avvenne con Pietro; Paolo e gli altri apostoli, e anche con i santi padri, che con “la forza di questo fuoco bruciarono tutte le eresie”. Una cosa simi-
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Ibid. 51,35-38, pp. 186-189. Id., Trattati etici 7,509-537, pp. 192-195.
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le avviene con tutti coloro che amano Dio al punto di non risparmiare per causa sua la loro stessa vita147. In tutto questo Simeone si trova molto vicino a Macario l’Egiziano, che a sua volta parla di come l’anima sia incendiata dalla fiamma della divinità148, sia illuminata dalla luce divina e come questo accada “sensibilmente e coscientemente” (en gnósei kaì aisthései)149. Macario descrive l’infiammarsi dell’anima per opera del fuoco divino150 e parla della partecipazione del corpo alla trasfigurazione dell’essere umano151. Egli rimanda anche all’apostolo Paolo e agli altri apostoli come esempio di uomini infiammati dal fuoco divino152. Simeone ricorre spesso alla simbolica del fuoco. Scrive della luce che arde come un fuoco153 e ha l’aspetto di una nuvola infuocata154; del sole che appare in forma sferica come un fuoco luminoso155; della fiamma della divinità di Cristo156; del fuoco dell’amore e del desiderio divini157; della fiamma che scende nel cuore158 e illumina l’anima159. Simeone definisce questo fuoco “divino”160 e “spirituale”161. Secondo lui il fuoco divino è “incontenibile, increato, invisibile, senza principio e immateriale, assolutamente immutabile, e allo stesso modo indescrivibile, inesauribile, immortale, assolutamente inafferrabile”162. Nella de-
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Cf. ibid. 7,548-557. Cf. Pseudo-Macario, Omelie (Coll. II) 11,1, p. 153, e altre. 149 Ibid. 7,5, p. 132. 150 Cf. ibid. 25,9, pp. 270-271. 151 Cf. ibid. 5,7-12, pp. 109-114. 152 Cf. ibid. 25,9-10, pp. 270-272. 153 Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Inni 24,20. 154 Cf. ibid. 55,86 e 17,373; cf. anche Id., Rendimenti di grazie 1,136-137. 155 Cf. Id., Inni 1,39-40. 156 Cf. ibid. 2,8. 157 Cf. ibid. 8,37; 18,84; 20,239; 30,198; 47,52, e altri. 158 Cf. ibid. 30,590. 159 Cf. ibid. 30,81. 160 Cf. ibid. 28,157; 30,1; 30,11, e altri. 161 Cf. ibid. 1,34. 162 Ibid. 30,18-24, pp. 342-343. 148
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Il tema della Luce divina in Simeone …
scrizione del fuoco divino, Simeone fa sovente ricorso a immagini dinamiche, collegate alla simbolica delle lingue o dei cerchi ( peridromoí ) della fiamma: “O gioco della luce! O danza del fuoco! O cerchi della fiamma in me!”163. Concludendo, vorrei enucleare alcuni degli elementi più caratteristici della dottrina di Simeone sulla natura della luce divina e sulla sua azione nell’uomo: primo, questa luce non è la luce creata della mente, ma è la luce increata, divina della santa Trinità; secondo, è una luce immateriale e non si percepisce con gli occhi sensibili, ma con gli occhi spirituali della mente; terzo, questa luce non ha tratti né aspetto, essendo al di fuori delle categorie umane di misura e di forma; quarto, essa trasfigura tutto l’uomo, inclusi la mente, l’anima e il corpo; quinto, in questa luce può apparire il “volto” di Dio, ma in modo spirituale, e non in una forma o in un aspetto visibili agli occhi. Per quanto riguarda il legame tra Simeone e i padri precedenti, si può asserire che la sua dottrina della visione della luce ha una precisa preistoria nella letteratura patristica, in particolare nell’opera di Evagrio, Macario, Massimo e Isacco di Ninive. Tuttavia, ciò che scrive Simeone, è fondato interamente sulla sua personale esperienza. Simeone non fu il primo a parlare di questa esperienza, ma fu senza dubbio il primo e l’unico scrittore bizantino a porre nella visione della luce il fine principale di tutti gli sforzi ascetici e di tutte le virtù, e ad affermare con così gran decisione: È per questo che noi pratichiamo tutta questa ascesi e tutte queste azioni, per aver parte alla luce divina come una lampada, quando l’anima, come interamente di cera, si dà tutta alla luce inaccessibile164.
163 164
Ibid. 25,33-34, pp. 256-257. Ibid. 33,130-133, pp. 422-423.
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LA TRASFIGURAZIONE IN PIETRO IL VENERABILE Photios Ioannidis*
Pietro il Venerabile e l’abbazia di Cluny
Pietro il Venerabile è una delle personalità spirituali più importanti del xii secolo in occidente e uno degli abati più autorevoli nella storia del famoso monastero di Cluny1. Pietro nacque in Alvernia intorno al 1094; discendeva dalla famiglia dei nobili Montboisier. Fin dall’infanzia conobbe la vita monasti* Insegna spiritualità occidentale presso il dipartimento di teologia dell’Università di Tessalonica. Traduzione dall’originale greco. 1 Nel 910 l’abate Bernone ricevette dal conte di Alvernia, Guglielmo il Pio, la proprietà di Cluny nella contea di Mâcon in Burgundia, dove fondò l’omonima abbazia e la mise sotto la protezione degli apostoli Pietro e Paolo. Il monastero, che seguiva la Regola di Benedetto e che fu scelto quale monastero centrale, dipendeva direttamente dal papa e svolse un ruolo determinante nella riforma e nello sviluppo del monachesimo occidentale; diede vita a fondazioni in tutta Europa e sul monte Tabor. L’abbazia conobbe una grande fioritura nel corso dell’xi e del xii secolo. Godette di solide protezioni e di stabilità economica e diede un indiscutibile contributo alla letteratura e alle arti. Per ulteriori informazioni cf. tra gli studi: G. Constable, Cluniac Studies, Variorum, London 1980; G. M. Cantarella, “Cultura ed ecclesiologia a Cluny (sec. xii)”, in Aevum 55 (1981), pp. 272-293; Id., “Cluny tra passato e futuro nelle Vite di sant’Ugo”, in Cluny e il suo abate Ugo. Splendore e crisi di un grande ordine monastico, a cura di G. M. Cantarella e D. Tuniz, Jaca Book, Milano-Novara 1983, pp. 9-43; Id., I monaci di Cluny, Einaudi, Torino 1993; J. Nizet, “Les Ordres religieux du Moyen Âge: des organisations fermées? Le cas de Cluny”, in Archives de sciences sociales des religions 48 (2003), pp. 41-60.
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Photios Ioannidis
ca, perché i suoi genitori l’avevano consacrato al monastero di Sauxillanges2, su suggerimento di Ugo il Grande3. Nel 1109 ricevette la tonsura e per dieci anni visse nel monastero di Vézelay4. Nel 1120 fondò nei pressi di Grenoble il monastero di Domène e, due anni più tardi, il 22 agosto 1122, gli abati benedettini lo elessero abate di Cluny e presidente della loro famiglia religiosa. Morì in pace il giorno di Natale dell’anno 11565. Nel periodo del suo lungo abbaziato, Pietro fu l’incarnazione della regola benedettina6. Cercò di infondere nei suoi monaci il fervore degli apostoli, la loro venerazione nei confronti della
2 Il monastero di Sauxillanges fu fondato nell’ottobre del 927 dal conte di Alvernia, Agfredo. Vi furono inviati dodici monaci di Cluny e da allora passò sotto la giurisdizione cluniacense. 3 Ugo il Grande (1024-1109) fu eletto abate del monastero di Cluny nel 1049 e svolse questo compito per sessant’anni. Dopo la sua morte, l’abbazia conobbe un periodo di decadenza fino al tempo di Pietro il Venerabile. Su questo tema cf. Le gouvernement d’Hugues de Semur à Cluny. Actes du Colloque scientifique international, Cluny, septembre 1988, Musée Ochier, Cluny 1990; A. Kohnle, Abt Hugo von Cluny (1049-1109), Thorbecke, Sigmaringen 1993. 4 Il monastero di Vézelay fu fondato intorno all’861 da monaci benedettini sull’omonima collina della Burgundia. Fu annesso a Cluny, ma nel 1162 uscì dalla sua giurisdizione e fu posto sotto la tutela del re di Gallia. Nel corso dell’xi secolo i monaci affermarono di possedere le ossa di Maria Maddalena e le dedicarono il monastero; cf. V. Saxer, Le dossier vézelien de Marie Madeleine. Invention et translation des reliques en 1265-1267, Société des Bollandistes, Bruxelles 1975. 5 Esistono due Vite di Pietro. La prima fu redatta dal monaco Rodolfo di Cluny, suo contemporaneo (cf. Rodolfo monaco, Vita Petri Venerabilis, PL 189,15-28), la seconda tratta dalla Cronaca cluniacense (cf. De Petro Venerabili I abbate Cluniacense nono, PL 189,27-42). Un’eccellente biografia fu pubblicata da J. Leclercq, Pietro il Venerabile, Jaca Book, Milano 1991. Molto serio è anche lo studio di J.-P. Torrell, D. Bouthillier, Pierre le Vénérable et sa vision du monde. Sa vie, son oeuvre. L’homme et le démon, Spiciliegium Sacrum Lovaniense, Louvain 1986. 6 Un’edizione critica della Regola di Benedetto con traduzione francese e un ricco commento è La Règle de saint Benoît, a cura di A. de Vogüé e J. Neufville, SC 181-186, Cerf, Paris 1971-1972. Per una traduzione in greco moderno della Regola, cf. Αγου
Βενεδκτου, Κανονισµς το Ορθοδξου µοναχικο βου, κατ µετ φρασι "κ το Λατινικο προτοτ%που, &π Πα%λου )εροµον χου Αγιορετου, Aghion Oros 1986; A. Vacondios, Καν*ν το +γου Βενεδκτου, Athinai 1981. Dell’abbondantissima biblio-
grafia segnaliamo a titolo di esempio: A. de Vogüé, La communauté et l’abbé dans la Règle de saint Benoît, Ddb, Paris 1961; Ph. S. Ioannidis, Επδρασεις το µοναχισµο τ-ς Ανατολ-ς στν Καννα το .σου Βενεδκτου, Aristoteleio Panepistimio Thessalonikis, Katerini 1995.
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tradizione patristica e la sollecitudine per il culto divino. Fu un padre spirituale colmo di amore e di attenzione per ciascuno dei monaci cluniacensi, senza dimenticare mai “di aver ricevuto la cura di anime inferme e non la tirannide su anime sane”7. Compì numerosi viaggi in Gallia e all’estero sia per assolvere al suo compito di vigilare su monasteri lontani che appartenevano alla giurisdizione di Cluny, sia per contribuire con la sua presenza all’opera di riforma cui aveva dato inizio8. Evitava gli eccessi e non si impegnò nelle discussioni filosofiche del suo tempo. Lottò per custodire il vincolo dell’amore e dell’unità tra i monasteri dipendenti da Cluny e non mancò di mostrare uno spirito di riconciliazione anche al momento della tensione insorta con il monastero di Cîteaux e Bernardo di Clairvaux († 1153)9. Non mostrò mai inimicizia nei confronti di nessuno. Anche quando dovette trattare con qualcuno sospettato di eterodossia, cercò innanzitutto di conoscere bene le sue affermazioni e di rimproverarlo soltanto a motivo delle sue dottrine e a vantaggio
7 “Noverit enim se infirmarum curam suscepisse animarum, non super sanas tyrannidem” (Regola di Benedetto 27,6, in Regole monastiche d’occidente, a cura di C. Falchini, Einaudi, Torino 2001, pp. 227-228). 8 Cf. D. van den Eynde, “Les principaux voyages de Pierre le Vénérable”, in Benedictina 15 (1968), pp. 58-110. 9 Nel 1098 l’abate Roberto di Molesmes fondò nella regione solitaria di Cistercium (Cîteaux) in Burgundia l’omonimo monastero, che divenne sede dell’ordine cistercense. I cistercensi criticarono i monaci di Cluny per la loro stabilità economica e per questioni riguardanti l’osservanza e l’interpretazione della Regola benedettina. All’inizio del xii secolo nacquero da Cîteaux quattro abbazie figlie: La Ferté (1113), Pontigny (1114), Morimond (1115) e Clairvaux (1115). L’ultimo monastero fu fondato da Bernardo di Clairvaux, che criticò severamente i monaci di Cluny durante l’abbaziato di Pietro il Venerabile. La corrispondenza tra i due è indicativa delle problematiche e dello spirito dominanti. Si vedano: A. H. Bredero, “The controversy between Peter the Venerable and Saint Bernard of Clairvaux”, in Petrus Venerabilis 1156-1956. Studies and Texts Commemorating the Eighth Centenary of his Death, a cura di G. Constable e J. Kritzeck, Herder, Roma 1956, pp. 53-71; Id., “Cluny et Cîteaux au xiie siècle: les origines de la controverse”, in Studi Medievali 12 (1970), pp. 135-175; J. Van Engen, “The ‘Crisis of Cenobitism’ Reconsidered: Benedictine Monasticism in the Years 1050-1150”, in Speculum 61 (1986), pp. 269-304; G. Knight, The Correspondence between Peter the Venerable and Bernard of Clairvaux: A Semantic and Structural Analysis, Ashgate, Aldershot-Brookfield ma-Singapore-Sydney 2002.
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della verità. Così si comportò nel caso degli eretici petrobrusiani10 e anche in quello dei musulmani. Fu soprattutto per sua iniziativa, in seguito a un suo viaggio in Spagna, nel 1143, che il Corano venne tradotto dall’arabo in latino11. Credeva, al pari di altri in occidente, che l’islam fosse un’eresia cristiana; bisognava dunque conoscerlo attraverso le sue fonti e, in seguito, cercare di confutarlo nella prospettiva di far ritornare i suoi membri nella chiesa. Pietro fu amante della vita contemplativa, uomo di conversione, di preghiera e di lavoro. Il suo ideale monastico era fermamente orientato verso la vita cenobitica, sul modello della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme; tuttavia ammirava e amava gli eremiti. Era affascinato dalle loro imprese spirituali, dal dominio di sé e dall’austerità ascetica di cui davano prova. Le vite di Antonio, di Paolo l’Eremita, di Martino (di Tours) e di tutti gli altri solitari non rappresentavano per Pietro soltanto una lettura gradita, ma anche delle guide per il suo cammino spirituale12. Incantato dal pensiero classico, gli era familiare la lettura delle opere di Cicerone, di Seneca, e anche dei grandi poeti Virgilio e Orazio. Era la Scrittura però il fondamento della sua vita. La
10 Si tratta dei seguaci di Pietro di Bruys, che era contemporaneo di Pietro il Venerabile. I petrobrusiani accettavano soltanto l’evangelo e rifiutavano gli altri libri della Bibbia. Contestavano il clero, i sacramenti, il culto e i sacri simboli della chiesa. Le loro opinioni echeggiavano le idee dei catari e dei bogomili. Pietro scrisse contro di loro un voluminoso trattato Contro gli eretici petrobrusiani. Simili erano le idee di Enrico di Losanna. Cf. P. Henriet, “Cluny, système chrétien (xie-xiie siècles). À propos d’un ouvrage récent”, in Le Moyen Âge 108 (2002), pp. 575-592; L. K. Pick, “Peter the Venerable and the New World Order”, in Early Medieval Europe 13 (2005), pp. 405-411. 11 Si tratta della prima traduzione del Corano in latino, che si incaricarono di realizzare l’arcidiacono di Pamplona, Roberto di Ketton, Pietro di Toledo, il dalmata Hermann e Pietro di Poitiers. Cf. J. Kritzeck, “Peter the Venerable and the Toledan Collection”, in Petrus Venerabilis 1156-1956, pp. 176-201. 12 Cf. J. Leclercq, “Pierre le Vénérable et l’érémitisme clunisien”, in Petrus Venerabilis 1156-1956, pp. 99-120; G. Knight, “The Language of Retreat and the Eremitic Ideal in some Letters of Peter the Venerable”, in Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge 63 (1996), pp. 7-43.
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leggeva incessantemente e la interpretava con l’aiuto dei grandi teologi dell’occidente. Nella biblioteca di Cluny si trovavano le opere di Tertulliano, Cipriano di Cartagine, Ilario di Poitiers, Girolamo, Ambrogio di Milano, Leone Magno, Agostino di Ippona, Gregorio Magno e Beda il Venerabile; tutti questi autori erano oggetto di infaticabile studio da parte del sapiente abate. Così testimoniano i suoi scritti13 e le sue innumerevoli lettere14. Pietro concepiva la chiesa come corpo di Cristo, come assemblea del popolo di Dio e come comunità d’amore. La chiesa è l’adunanza di quelli che credono o che crederanno in Cristo in qualunque parte della terra nel corso dei secoli, in continuità con l’opera degli apostoli. Insegnava che in essa e attraverso di essa, con la grazia dello Spirito santo, Cristo rimane presente nel mondo. L’unità dei credenti che ne fanno parte consiste nella comune volontà di fare il bene e di lottare insieme per la loro salvezza grazie al vincolo dell’amore di Cristo e del sacramento della divina eucaristia. Significativamente Pietro ristabilì a Cluny l’antica tradizione della comunione quotidiana, tradizione che si era indebolita15. Egli sosteneva che l’unità della chiesa non è vanificata dalla molteplicità delle tradizioni locali, quando queste sono a servizio della vera fede e non spezzano il vincolo dell’amore16. È im-
13 Gli scritti più importanti di Pietro in edizione critica sono: Contra Petrobrusianos hereticos, a cura di J. V. Fearns, CCCM 10, Brepols, Turnhout 1968; Liber contra sectam Saracenorum e Summa totius haeresis Saracenorum, a cura di J. Kritzeck, in Peter the Venerable and Islam, Princeton University Press, Princeton nj 1964, pp. 204211, 220-291; Adversus Iudeorum inveteratam duritiem, a cura di Y. Friedman, CCCM 58, Brepols, Turnhout 1985; De miraculs libri duo, a cura di D. Bouthillier, CCCM 83, Brepols, Turnhout 1988. L’opera completa è stata pubblicata nel 1890, in PL 189. 14 L’edizione critica delle Lettere è stata curata da G. Constable, The Letters of Peter the Venerable I-II, Harvard University Press, Cambridge ma 1967. 15 Cf. Pietro il Venerabile, I miracoli I,8,26-27. 16 Cf. Id., Contro gli eretici petrobrusiani 25; Id., Lettera 16. Al religioso Ponzio, in G. Constable, The Letters I, p. 24. Cf. inoltre G. M. Cantarella, “Un problema del secolo xii: l’ecclesiologia di Pietro il Venerabile”, in Studi Medievali serie III 19 (1978), pp. 159-209.
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portante sottolineare che, sebbene al suo tempo la cristianità fosse divisa, l’abate di Cluny pensava che l’esistenza di caratteristiche particolari non vanificasse l’unità con la chiesa di Costantinopoli, dal momento che vi era un’unica fede, un solo battesimo e uno stesso amore17.
La trasfigurazione di Cristo secondo Pietro il Venerabile
La festa della Trasfigurazione a Cluny Il pensiero teologico di Pietro è cristocentrico, focalizzato sugli eventi della trasfigurazione e della resurrezione. La grandezza della trasfigurazione, la sua importanza per l’uomo e il suo significato teologico sono spesso oggetto delle sue riflessioni. Egli osservava tuttavia che, sebbene l’evento della trasfigurazione non fosse inferiore quanto a grandezza e a significato teologico a quello della nascita o della resurrezione del Signore, la festa della Trasfigurazione non era presente nel calendario liturgico ufficiale della chiesa d’occidente18. In seguito alle sue visite nei monasteri cluniacensi d’Europa osservò che essa veniva celebrata oc-
17 Cf. Pietro il Venerabile, Lettera 76. Al patriarca di Costantinopoli: “Nonostante la distanza dei luoghi e la divisione delle lingue ci impediscano di vederci e di parlarci, tuttavia l’unico Signore, l’unica fede, l’unico battesimo, l’unica carità devono riunire ciò che è diviso, unire i sentimenti e di tanto in tanto indurre a uno scambio di parole” (G. Constable, The Letters I, p. 210). La lettera riecheggia lo spirito della politica del tempo e il clima di pace instauratosi tra oriente e occidente all’epoca dei Comneni. L’iniziativa di Pietro il Venerabile di cercare la comunione con la chiesa di Costantinopoli in qualità di abate della grande fraternità cluniacense che condivideva le stesse radici con il monachesimo orientale, appare quanto mai indicativa del suo spirito di pace. Cf. J. Gay, “L’abbaye de Cluny et Byzance au début du xiie siècle”, in Échos d’Orient 30 (1931), pp. 84-90. 18 Cf. Pietro il Venerabile, Gli statuti 5, in Consuetudines Benedictinae Variae (saec. XI-saec. XIV), a cura di G. Constable, Schmitt, Siegburg 1975, pp. 45-46.
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casionalmente e solo in determinate regioni della Spagna, dell’Italia, della Gallia, e in alcuni ambienti religiosi19. Le esperienze fatte nel corso di queste visite, la sua corrispondenza con il monastero benedettino sul monte Tabor20 e lo studio della letteratura patristica latina lo spinsero a introdurre, nell’anno 1132, la festa della Trasfigurazione da celebrarsi il 6 agosto, nell’abbazia di Cluny e in tutti i monasteri da esso dipendenti, il cui numero si avvicinava al migliaio21. Nell’ordo della festa Pietro stabilì che dovesse essere celebrata in analogia a quella della Presentazione al tempio, con letture bibliche e antifone. I testi liturgici però dovevano essere diversi da quelli della festa della Teofania e, per questo motivo, compose una liturgia propria per la festa della Trasfigurazione22. La struttura della liturgia si basa su modelli esistenti ed è composta da primi e secondi vespri, mattutino, lodi, ore prima, sesta, nona e infine dall’eucaristia. Pietro compose anche degli inni che 19 In occidente la festa della Trasfigurazione del Signore non conobbe mai una particolare solennità tranne che negli ambienti monastici. Essa entrò ufficialmente nel calendario liturgico romano nel 1457 a opera di papa Callisto III Borgia (1455-1458) in ringraziamento a Dio per la vittoria degli eserciti cristiani contro i turchi a Belgrado nel 1456. Quale data per la festa fu scelto il 6 agosto; cf. Propylaeum ad Acta Sanctorum Decembris, Bruxelles 1940, p. 325; J. Leclercq, Pietro il Venerabile, pp. 279-280. In oriente la festa della Trasfigurazione è attestata ufficialmente a Gerusalemme a partire dal vii secolo, ma probabilmente risale a due secoli prima; cf. K. Rozemond, “Les origines de la fête de la Transfiguration”, in Studia Patristica 17/2 (1982), pp. 591-593; G. Mauromatis, Η Μεταμρφωση το Κυρου3 τ γεγονς κα4 τ νημ του, Katerini 1987, p. 45; P. A. Tsampiras, Η Μεταμρφωσις το Iησο Χριστο, Apostoliki Diakonia tis Ekklisias tis Ellados, Athinai 2004, pp. 93-96; P. I. Scaltsis, “Η ελογα τν σταφυλιν κατ τν ορτ τς Μεταμορφσεως”, in Λειτουργικ6ς Μελ7τες II, Thessaloniki 2006, p. 304. 20 Pietro inviò la lettera ai monaci latini che vivevano sul monte Tabor nel 1122; cf. Pietro il Venerabile, Lettera 80. Ai fratelli che dimorano sul monte Tabor, in G. Constable, The Letters I, pp. 214-217. Il monastero fu fondato dal normanno Tancredi nel 1101. Vi si stabilirono i benedettini che erano giunti al Tabor durante la prima crociata, dopo la conquista di Gerusalemme nel 1099; l’abbazia dipendeva da Cluny. Cf. V. Berry, “Peter the Venerable and the Crusades”, in Petrus Venerabilis 1156-1956, pp. 141-162. 21 Cf. Pietro il Venerabile, Gli statuti 5, pp. 45-46. 22 Cf. Id., Responsori per i vespri della Trasfigurazione del Signore. La liturgia è conservata nel codice nr. 17716 della Biblioteca Nazionale di Parigi, proveniente dall’abbazia parigina di Saint-Martin-des-Champs, la cui datazione è collocata alla fine del xii secolo. L’edizione della liturgia è stata curata da J. Leclercq, Pietro il Venerabile, pp.
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si ispiravano ai racconti biblici del glorioso evento, soprattutto all’Evangelo di Matteo e alla Seconda lettera di Pietro. Alle letture bibliche furono accostati passi del Sermone 51 di Leone Magno23, che commenta l’evento della trasfigurazione, e dell’omelia di Pietro stesso sul medesimo tema. La liturgia per la festa della Trasfigurazione, se da un lato è caratterizzata da un stile di semplicità, non manca però della magnificenza che si addice alla festa; al tempo stesso, essa riecheggia la prassi liturgica in vigore per le grandi feste del xii secolo a Cluny e nei monasteri da esso dipendenti24. Al cuore della liturgia vi è l’annuncio delle due perfette nature del Signore, fondato sugli eventi salvifici della nascita di Cristo dalla vergine Maria e della sua resurrezione. Viene seguito fedelmente il racconto biblico della trasfigurazione ed è sottolineata in particolare la manifestazione della santa Trinità, nella quale la divinità di Cristo è confermata dalla luce della sua gloria, dalla voce del Padre, come avvenne nel battesimo al Giordano, e dalla presenza dello Spirito santo sotto forma di nube luminosa. Pietro osserva che i discepoli videro la luce, cioè videro, secondo le loro capacità, la gloria che il Signore aveva sempre, videro la luce eterna della sua natura divina e non qualcosa di passeggero. La grandiosa rivelazione stupisce i discepoli e dona loro gioia. L’apostolo Pietro dice: “Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia” (Mt 17,4). Il contenuto della liturgia del giorno manifesta la volontà del suo redattore di far emergere l’aspetto salvifico dell’even279-287. Si veda anche D. Iogna-Prat, “Un recueil liturgique et historique du tournant des années 1200 (Paris, BnF, ms. Latin 17716)”, in Bulletin du Centre d’études médiévales d’Auxerre 99 (2005). 23 Cf. Leone Magno, Discorsi 51, e anche E. Cavalcanti, “Il sermone di Leone Magno sulla trasfigurazione (serm. LI Chavasse)”, nel numero monografico intitolato Kairós. Studi di letteratura cristiana antica per l’anno 2000, della rivista Rudiae 12 (2000), pp. 211-219. Quest’ultimo studio è riprodotto supra, pp. 185-197. 24 L’ordo liturgico per i giorni di festa e di domenica nei monasteri è stabilito dalla Regola di Benedetto 11; 12; 14; 15.
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to prodigioso della trasfigurazione collegandolo al tema dell’unità dei due Testamenti. Questo è anche il motivo ripetuto negli inni del mattutino e dei vespri, che fanno riferimento all’apparizione dei due profeti dell’Antico Testamento, Mosè ed Elia, sul Tabor e alla presenza dei tre apostoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, che rappresentano il Nuovo Testamento e anche la chiesa nascente. L’iniziativa da parte di Pietro il Venerabile di introdurre la festa della Trasfigurazione di Cristo a Cluny ebbe grande risonanza e cooperò fattivamente al più vasto programma della sua riforma monastica. Tutto questo assume particolare significato perché cooperò a mantenere i monasteri cluniacensi orientati verso la teologia patristica, che sottolineava il messaggio soteriologico ed escatologico dell’eccezionale evento in un tempo in cui il pensiero teologico si indirizzava verso la scolastica e, per di più, con una forte conflittualità25.
L’Omelia sulla Trasfigurazione Nell’ambito dell’istituzione della festa della Trasfigurazione nei monasteri cluniacensi, Pietro, oltre a comporre la liturgia per la festa, scrisse anche un’omelia dal titolo: La trasfigurazione del Signore, e ne inserì alcuni passi nella liturgia. L’omelia fu edita a Parigi nel 1614 dallo storico André Duchesne (1584-1640) nella serie Bibliotheca Cluniacensis. Il testo dello studioso francese fu ristampato e inserito nel volume 189 della Patrologia latina 26; fino ad oggi non disponiamo di un’edizione critica del testo.
25 Sulle tendenze teologiche del xii secolo in occidente resta classico lo studio di M.-D. Chenu, La teologia nel secolo XII, Jaca Book, Milano 1986. 26 Cf. Pietro il Venerabile, La trasfigurazione del Signore, PL 189,953-972; in italiano cf. Id., La nube luminosa. Omelia sulla Trasfigurazione, a cura di E. Arborio Mella, Qiqajon, Bose 2000 (Testi dei padri della chiesa 43).
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L’omelia è estesa e supera la lunghezza abituale delle omelie per le feste liturgiche. Forse è frutto della rielaborazione di un precedente testo più breve oppure della fusione di diverse omelie sullo stesso tema. Essa commenta l’evento della trasfigurazione parafrasando i racconti degli evangeli sinottici (Mt 17,1-13; Mc 9,2-13; Lc 9,28-36); Pietro adotta essenzialmente il metodo esegetico storico-filologico, senza tuttavia rigettare il simbolismo e l’allegoria. La lingua e lo stile dell’omelia non sono ricercati e se poche sono le elevazioni retoriche, si incontrano invece numerosi elementi lirici. La lode, il rendimento di grazie, la preghiera e la confessione si alternano in questo testo omiletico. Esse arricchiscono il discorso e si accordano perfettamente alla disposizione d’animo del redattore propenso al colloquio con Dio; a volte, invece, è Dio stesso che parla; questi elementi danno al testo un tono mistico. Pietro esamina con cura gli eventi e i racconti degli evangelisti, il loro significato teologico, le persone che presenziano all’evento prodigioso, il loro ruolo nella vicenda e l’etimologia dei loro nomi. E attraverso tutto questo vuole catechizzare, ammonire e soprattutto sollecitare alla conversione i monaci suoi ascoltatori. L’ascesi purifica l’anima e la rende partecipe della passione di Cristo. Le lacrime della conversione, dono dello Spirito santo, lavano dai peccati come un secondo battesimo e l’uomo attende con gioia il ritorno del suo Signore e suo giudice27. Il redattore dell’omelia tiene presenti gli approcci esegetici della tradizione patristica occidentale28 e riecheggia la cristologia del quarto concilio ecumenico.
27
Cf. Id., La trasfigurazione del Signore, PL 189,960D-962B. Nella tradizione ecclesiastica latina il primo che fa riferimento alla trasfigurazione di Cristo è Tertulliano nel suo scritto antieretico Contro Marcione 4,22; l’autore nordafricano difende l’unità dei due Testamenti che era contestata da Marcione. Così, nell’evento della trasfigurazione secondo il racconto dell’evangelista Luca (9,28-36), Tertulliano sottolinea la presenza di Mosè e di Elia, i quali partecipano della gloria della divinità e conversano con Gesù. Gli importa tuttavia evidenziare 28
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Nel prologo dell’omelia prevale il tema dell’incarnazione del Verbo e la teologia giovannea della luce con la sua contrapposizione tra luce e tenebra, tra vita e morte29. Quindi domina il tema della manifestazione divina sul monte Tabor, la manifestazione del regno di Dio. Pietro il Venerabile collega gli eventi salvifici dell’incarnazione e della trasfigurazione sottolineando come, nella trasfigurazione, il Verbo incarnato manifesta la gloria della divinità e divinizza la carne che ha assunto. Nel suo discorso risuona un continuo “oggi” (hodie), che acquista una dimensione salvifica ma in riferimento esclusivo agli ultimi tempi. Il diverso numero di giorni cui fanno riferimento gli evangelisti attira il commento esegetico dell’abate di Cluny. Perché Matteo e Marco riferiscono che l’evento prodigioso avvenne sei giorni dopo le parole di Gesù sulla croce che il vero discepolo deve portare, e Luca, invece, racconta che questo avvenne circa otto giorni dopo? Pietro si rifugia nel significato simbolico dei numeri, spiegando che il numero sei simbolizza le sofferenze della vita presente. Il sesto giorno fu creato l’uomo, che si affatica, e il sesto giorno Cristo subì la morte in croce. Il numero sette simbolizza il riposo dell’anima, poiché il settimo giorno Dio si riposò dalle sue opere e Cristo riposò nel sepolcro, libero da ogni fa-
anche il carattere di “nuova profezia” dei montanisti, e per questo motivo il fatto che sia Pietro a riconoscere i due personaggi è collegato con la guida spirituale della profezia estatica e con l’adombramento dell’uomo ad opera della potenza di Dio perché possa contemplare la sua gloria. Dal iv all’viii secolo, i riferimenti che Ambrogio di Milano, Ilario di Poitiers, Girolamo, Agostino di Ippona, Leone Magno, Gregorio Magno e Beda il Venerabile fanno alla trasfigurazione sono motivati dall’intento di commentare gli evangeli sinottici. Nei loro scritti viene sottolineato il legame tra i due Testamenti, la rivelazione della santa Trinità, la prefigurazione della resurrezione, ma anche la partecipazione dei membri della chiesa alla gloria della divinità nella seconda parusia. Cf. M. Coune, Grâce de la Transfiguration d’après les Pères d’occident, Bellefontaine, Bégrolles-en-Mauges 1990, pp. 36-103; P. A. Tsampiras, Η Μεταμρφωση το Iησο Χριστο, pp. 54-57, 84-91; M. Hubaut, La trasfigurazione, Queriniana, Brescia 2005, pp. 69-76; K. Stevenson, “‘Rooted in Detachment’: Transfiguration as Narrative, Worship and Community of Faith”, in Ecclesiology 1/3 (2005), pp. 13-26. 29 Cf. Pietro il Venerabile, La trasfigurazione del Signore, PL 189,953.
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tica. Il numero otto simbolizza la resurrezione del corpo, poiché il Cristo risorto ci ha portato la speranza della resurrezione e della vita immortale. Luca afferma che erano passati quasi otto giorni – non dice dopo otto giorni, ma quasi dopo otto giorni –; con questo intende dire che l’ottavo giorno non era ancora finito. Dal giorno in cui il Signore aveva detto: “Vi sono alcuni tra i presenti che non morranno finché non vedranno il Figlio dell’uomo venire nel suo regno” (Mt 16,28) fino al giorno della realizzazione della promessa sono passati otto giorni. Se si conta come primo il giorno della promessa e come ultimo quello della realizzazione, restano sei giorni, i sei giorni cui fanno riferimento Matteo e Marco; di conseguenza non vi è nessuna discordanza tra gli evangelisti. Tutto è in armonia, tutto è in accordo sia con la storia sia con il suo senso profondo30. In questa sua analisi, Pietro presenta due approcci ermeneutici, uno simbolico e uno storico-letterario, che già si incontrano nella tradizione. Il significato simbolico attribuito ai giorni si trova per la prima volta in Origene, che assegna loro un carattere escatologico31. L’approccio storico-letterario è familiare a Giovanni Crisosto-
30
Cf. ibid., PL 189,954D-955D. “In realtà, poiché in sei giorni, cifra perfetta, fu creato il mondo intero – questa creazione perfetta – per questo motivo penso che le parole: Sei giorni dopo, Gesù prende con sé (Mt 17,1) alcuni di questi, si riferiscano a colui che oltrepassa tutte le realtà perché ha fissato lo sguardo non più sulle cose visibili – queste infatti sono di un momento –, ma soltanto su quelle invisibili, perché queste sono eterne (cf. 2Cor 4,18). Se dunque uno di noi vuole che Gesù lo prenda con sé, lo porti su un alto monte e lo renda degno di contemplare in disparte la sua trasfigurazione, oltrepassi i sei giorni, non fissi più lo sguardo sulle realtà visibili, non ami più il mondo e ciò che è in esso (cf. 1Gv 2,15), non concepisca più alcuna brama mondana, che è brama dei corpi, della ricchezza e della gloria della carne, abbandoni tutto quello che per natura circuisce e attira l’anima lontano dalle realtà più nobili e divine e che la fa decadere e aderire all’inganno di questo mondo, alla ricchezza, alla gloria e a tutte le altre cose ostili alla verità. Quando uno avrà oltrepassato i sei giorni – nel senso che abbiamo detto – celebrerà il nuovo sabato, esultando di poter contemplare Gesù trasfigurato davanti a sé sull’alto monte. Il Logos ha in realtà diverse forme, e a ciascuno si manifesta in modo proporzionato a chi vede, a nessuno appare al di là delle sue capacità” (Origene, Commento a Matteo 12,36, in Id., Commento al Vangelo di Matteo I, a cura di M. I. Danieli, Città Nuova, Roma 1998, pp. 350-351). 31
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mo, che al pari di Pietro non vede alcun disaccordo tra gli evangelisti32. Secondo l’abate di Cluny, Gesù non scelse a caso i tre discepoli che dovevano accompagnarlo sul monte, poiché tale scelta è collegata con la manifestazione delle tre persone della santa Trinità33. E ugualmente, la testimonianza degli apostoli Giovanni e Pietro (cf. Gv 1,14; 2Pt 1,17-18) acquista un valore particolare poiché essi erano presenti alla trasfigurazione di Cristo. Si tratta di una testimonianza proveniente da un’esperienza sensibile34. I discepoli udirono la voce di Dio Padre, videro il Figlio con la carne glorificata e lo Spirito santo come luce luminosa35. La voce del Padre conferma l’evento, come già aveva fatto al battesimo: “Questi è il mio Figlio amato” (Mt 3,17), figlio per natura e non per grazia36. Il dogma trinitario e quello cristologico vengono illustrati lungo il discorso con chiarezza e semplicità; si vuole sottolineare la consustanzialità della santa Trinità e la diversità delle persone.
32 “Sei giorni dopo [Gesù] prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni (Mt 17,1). Un altro evangelista dice: otto giorni dopo (Lc 9,28), non in contraddizione con questo, ma anzi in grande accordo con lui, perché l’uno ha indicato sia il giorno stesso in cui aveva parlato, sia quello in cui li fece salire sul monte, mentre l’altro soltanto i giorni intermedi” (Giovanni Crisostomo, Sul Vangelo di Matteo 56,1, in Id., Omelie sul Vangelo di Matteo II, a cura di S. Zincone, Città Nuova, Roma 2003, p. 437). 33 Cf. Pietro il Venerabile, La trasfigurazione del Signore, PL 189,954B-C. 34 Cf. ibid., PL 189,953D. 35 L’identificazione della nube con lo Spirito santo si incontra in Origene: “Questa nube luminosa può darsi che sia anche lo Spirito santo: i giusti li copre della sua ombra e parla in profezia” (Origene, Commento a Matteo 12,42, pp. 363-364). Lo stesso approccio ermeneutico si incontra anche in Beda il Venerabile: “Va rilevato il fatto che, allo stesso modo, durante il battesimo del Signore nel Giordano e qui, dov’è glorificato sul monte, viene manifestato il mistero della santa Trinità nelle sue tre persone: è giusto che quella gloria che professiamo nel battesimo con un atto di fede, la magnifichiamo contemplandola nella resurrezione. Non a caso lo Spirito santo, che qui appare nella nube splendente, appariva là, come ricorda un altro evangelista, nella colomba, poiché colui che ora conserva con cuore semplice la fede che riceve, un giorno contemplerà ciò in cui ha creduto nella luce della chiara visione, e sarà protetto in eterno dalla stessa grazia dalla quale è illuminato” (Beda il Venerabile, Commento al Vangelo di Marco 3,9, a cura di S. Aliquò, Città Nuova, Roma 1970, p. 13). 36 Cf. Pietro il Venerabile, La trasfigurazione del Signore, PL 189,953C-D.
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Pietro il Venerabile focalizza il suo interesse anche sul significato e sul simbolismo dell’ascesa del monte. L’ascesa sul Tabor acquista significato spirituale ed escatologico, perché indica il progresso spirituale e l’ascesa dell’uomo verso l’alto, verso l’abitazione celeste dei santi risorti. Quanti cercano di vedere la gloria della divinità, devono salire abbandonando la bassezza terrena, devono purificarsi da tutto quello che li mantiene legati alla terra, devono abbandonare le realtà più basse e salire verso le alte, alla gloria celeste37. L’abate di Cluny si chiede con insistenza perché mai Gesù scelse proprio quei tre discepoli per seguirlo sul monte. Risponde egli stesso spiegando i nomi e le caratteristiche dei tre discepoli: Pietro è colui che riconosce il Signore, che lo confessa; Giacomo è quello che disprezza il mondo, che lo abbandona subito dopo la chiamata del Signore per essere condotto dalle realtà terrestri e materiali a quelle elevate e spirituali, risultando vincitore nella lotta contro le passioni; Giovanni è colui che possiede la grazia, colui che fu reso degno di essere amato dal Signore e, a propria volta, di offrire lo stesso amore per la gloria di lui. Questi due discepoli, “figli del tuono” (Mc 3,17), divengono i testimoni della manifestazione di Dio Padre che, a gran voce, rende testimonianza a suo Figlio. La fede e la confessione dell’apostolo Pietro sono strettamente legate al suo ruolo nella chiesa come pastore e maestro, dopo Cristo, e sono esse che garantiscono il pellegrinaggio della chiesa verso l’alto, verso la visione di Dio38. Ogni credente, ogni monaco di Cluny deve seguire il cammino di Gesù. Il mirabile evento della trasfigurazione ricorda an-
37
Cf. ibid., PL 189,956A-B. Cf. ibid., PL 189,957D-958C. Il ruolo proprio dell’apostolo Pietro nella chiesa è messo in relazione sia con le concezioni del primato di Pietro sia con il compito specifico di Pietro il Venerabile, capo della famiglia cluniacense, direttamente sottoposto al romano pontefice. 38
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cora una volta la necessità di questo cammino a tutti i cristiani. La contemplazione della visione di Dio passa attraverso la fede e la rinascita dell’uomo, donate dalla grazia di Dio insieme al battesimo, alla conversione, alla vittoria sulle passioni e, infine, alla resurrezione. Il corpo corrotto si veste di incorruttibilità e la condizione mortale è vinta dall’immortalità39. Il giusto può risplendere come il Signore, perché il Signore è il sole che ha nascosto il suo splendore sotto la carne. La carne è come una nube che serve a nascondere la divinità40; alla trasfigurazione, tuttavia, il Sole che era nascosto dalla nube rifulse in tutto il suo splendore e la carne divinizzata si manifestò a quanti si trovavano sul monte e, attraverso di loro, a tutto il mondo41. Nulla ormai oscura lo splendore del Sole. Questo Sole non subisce nessuna eclissi poiché emana la luce eterna della divinità; non tramonta mai e offre a tutte le cose il piacere di un assolato mattino. Questa luce risplende personalmente per ciascuno e ciascuno è illuminato dallo splendore del suo volto. In tale splendore nulla intorno a lui rimane nell’oscurità42. Non era soltanto il suo volto a risplendere, ma anche le sue vesti. Le vesti di Cristo, dice l’abate Pietro, sono i fedeli, che irradiano luce con il loro proprio splendore43. Tale splendore del sole l’avrà anche la città santa, la quale scenderà dal cielo come una sposa che attende il suo sposo (cf. Ap 21,2)44. Il pensiero di Pietro il Venerabile segue lo sviluppo del disegno salvifico quale è descritto nella Scrittura. Il legame tra Antico e Nuovo Testamento appare chiaramente alla trasfigurazio39
Cf. ibid., PL 189,959A. Cf. Gregorio di Nazianzo, Lettere 101. Lettera prima a Cledonio presbitero 25-29, PG 37,181. 41 Cf. Pietro il Venerabile, La trasfigurazione del Signore, PL 189,959B. 42 Cf. ibid., PL 189,959C-960B. 43 Cf. ibid., PL 189,960C. Simile è anche la visione di Agostino che adotta il simbolismo delle vesti luminose di Cristo e spiega come esse rivelano la purezza della chiesa; cf. Agostino di Ippona, Discorsi 79. 44 Cf. Pietro il Venerabile, La trasfigurazione del Signore, PL 189,959C. 40
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ne con la presenza dei rappresentanti dei due Testamenti. La Legge e i profeti si uniscono all’evangelo e rinviano agli ultimi tempi. La presenza di Mosè e di Elia insieme a Cristo acquista un particolare significato: il primo rappresenta la mitezza e simbolizza la prima venuta del Signore, mentre il secondo rappresenta l’austerità e indica la seconda venuta del Signore45. L’abate Pietro è molto attento al racconto di Luca che sottolinea la gloriosa apparizione di Mosè e di Elia insieme a Cristo (cf. Lc 9,30). Questi certamente come Dio, gli altri come uomini; Cristo come Signore e Unigenito, gli altri come servi e figli adottivi. Questa manifestazione ha tuttavia anche un altro significato. Di Mosè la Scrittura dice che morì (cf. Dt 34,5-6), mentre Elia fu trasportato vivo nei cieli (cf. 2Re 2,11). La presenza di questi due personaggi accanto al Signore simbolizza, dunque, la resurrezione dei morti e il rapimento dei vivi tra le nubi per andare incontro al Signore al momento della seconda parusia (cf. 1Ts 4,16-17)46. Il legame fra la trasfigurazione e la gloria della resurrezione alla seconda parusia è spiegato nella patristica occidentale da Girolamo47 e da Gregorio Magno48. È molto probabile che i due padri latini attingano alle interpretazioni di Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Giovanni Crisostomo49. I discepoli esultano di gioia di fronte alla visione apocalittica e Pietro esclama: “Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia” (Mt 17,4). L’abate di Cluny commenta l’entusiasmo dell’apostolo attraverso una serie di domande retoriche:
45
Cf. ibid., PL 189,962C-965D. Cf. ibid., PL 189,966A-B. 47 “Certe transformatus est dominus in eam gloriam qua venturus est postea in regno suo” (Girolamo, Commento al Vangelo di Matteo 17,2, PL 26,126). 48 “Nella resurrezione che altro viene annunziato se non la gloria dell’ultima resurrezione?” (Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe 32,6, PL 76,640) 49 Cf. P. A. Tsampiras, Η Μεταμρφωσις το Iησο Χριστο, pp. 76-77. 46
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Di che cosa stai parlando Pietro? Perché cerchi una tenda terrena? … Se è bella una momentanea letizia, molto più bella è la felicità eterna … Ma prima soffrirai per Cristo, come Cristo ha sofferto per te. Bisogna infatti che prima tu diventi partecipe della sofferenza affinché così in seguito possa diventarlo anche della consolazione (cf. 2Cor 1,7). Là sarà lui ad accogliere te e tutti i suoi nelle tende eterne. Là in verità tu preparerai non come qui tre tende, per Cristo, per Mosè e per Elia, ma una sola tenda per il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. E così Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28)50.
L’omelia si conclude con una preghiera alla santa Trinità, in cui le si chiede di aver misericordia dell’uomo, di strapparlo dalla “massa di perdizione” (massa perditionis)51 e di ricondurlo in paradiso. L’amorevole abate invita i monaci a mostrare la loro avversione nei confronti del diavolo e ad aderire a Cristo mediante la conversione52. Chi intenda valutare l’omelia di Pietro il Venerabile dovrà riconoscere la sua importanza e il suo valore simbolico per la patristica occidentale. L’abate Pietro riesce a sintetizzare la precedente letteratura ermeneutica relativa alla trasfigurazione di Cristo ed è significativo che non si concentri esclusivamente sulla tradizione latina, ma tenga conto anche di alcuni scritti dei teologi orientali che gli era possibile conoscere in traduzione latina. L’omelia presenta un diffuso simbolismo dell’evento della trasfigurazione e una forte sottolineatura della sua visione escato-
50 Pietro il Venerabile, La trasfigurazione del Signore, PL 189,966C-967A-B. La preparazione di una sola tenda in luogo di tre si incontra già in Girolamo, Commento al Vangelo di Matteo 16, e in Agostino di Ippona, Discorsi 78,3. 51 La definizione deriva da Agostino e mostra la sua evidente dipendenza dalla soteriologia del padre nordafricano. Cf. Agostino di Ippona, Discorsi 71,1,3; Id., La grazia di Cristo e il peccato originale II,31,36; Id., La correzione e la grazia VII,12,16; IX,25; X,26. 52 Cf. Pietro il Venerabile, La trasfigurazione del Signore, PL 189,970D-972C.
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logica, senza però evidenziarne le conseguenze soteriologiche per l’uomo. Si ha l’impressione che nel pensiero di Pietro l’aspetto antropologico sia carente a motivo di un’esclusiva focalizzazione su un’escatologia apocalittica. La trasfigurazione, tuttavia, è avvenuta in un determinato tempo e spazio e non cessa non solo di appartenere alla storia della salvezza, ma anche di istituire il legame tra realtà terrene e realtà celesti. Secondo la prospettiva dell’abate Pietro, l’evento sembra lontano dalla vita presente, collocato nella sua pienezza nella speranza delle realtà ultime. Mancano, in altre parole, la trasfigurazione dell’uomo nel corso della storia e le conseguenze soteriologiche dell’evento per la vita presente. Per questo, d’altra parte, nel suo pensiero la chiesa trasfigurata è esclusivamente quella che discende dal cielo e non la comunità cultuale terrena che cammina in pellegrinaggio verso il cielo, orientata escatologicamente. In accordo con tale visione della realtà, è naturale che il sapiente abate non si occupi della questione dell’esperienza dei discepoli, se, cioè, essi parteciparono alla gloria della divinità, se furono anch’essi trasfigurati in modo da essere fatti degni di vedere il volto glorioso del Signore, la gloria della santa Trinità53. Queste considerazioni non valgono certamente soltanto per l’omelia di Pietro il Venerabile, ma per tutta la precedente letteratura occidentale concernente la trasfigurazione. Riteniamo tuttavia emblematico il fatto che, all’interno di questo quadro, l’abate di Cluny riuscì a presentare il pieno significato della trasfigurazione e a comporre uno scritto nello spirito patristico e non in quello della scolastica.
53 Nella chiesa ortodossa è fondamentale, per quanto riguarda questo tema, l’approccio della tradizione esicasta e certamente il simbolismo di Gregorio Palamas. Cf. a tale proposito D. Tselenghidis, “Η συµβολ το Αγου Γρηγορου Παλαµ στν Ησυχασµ. Θεολογικ ς προϋποθ%σεις τ&ς 'ν Αγω Πνε)µατι ζω&ς”, in Επιστηµονικ Επετηρδα Θεολογικς Σχολς, Τµµα Θεολογας, Να Σειρ 14 (2004), pp. 255-268.
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LA TRASFIGURAZIONE NELLA “SCALA DEI MONACI” DI GUIGO II IL CERTOSINO André Louf*
Guigo II, come indica il suo secondo nome, è un monaco certosino che visse alla fine del xii secolo1. Era priore di una comunità di solitari che si era stabilita nel massiccio di Cartreusz alcuni decenni prima. Questi solitari, guidati allora da Bruno, antico scholasticus della famosa scuola cattedrale di Reims, avevano trovato in questi luoghi la profonda solitudine che cercavano e che i monasteri cenobitici non avevano potuto offrire loro. La loro scelta si inscrive nelle numerose riforme monastiche che pullulavano a quel tempo in occidente. Il loro concreto progetto di vita monastica presentava un duplice aspetto: si trattava di una vita solitaria trascorsa in cella tutta la settimana, mitigata da una vita comunitaria, aspetto questo riservato alle domeniche e alle feste. La famiglia certosina esiste ancora oggi e ha conservato questo duplice carattere. La vita nella solitudine della cella è equilibrata da alcuni uffici comunitari, * Monaco trappista, è stato a lungo abate dell’abbazia di Mont-des-Cats (Francia) ed è autore di vari contributi sulla spiritualità monastica e i padri della chiesa. Traduzione dall’originale francese. 1 Sulle fonti certosine cf. I Padri certosini, Una parola dal silenzio. Le lettere, a cura di C. Falchini, Qiqajon, Bose 1997; Id., Fratelli nel deserto. Testi normativi, testimonianze letterarie e documentarie, a cura di C. Falchini, Qiqajon, Bose 2000.
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quali la veglia durante la notte e le preghiere comuni della domenica. Resta tuttavia chiaro l’accento posto sulla solitudine, al punto che fino a oggi la cerimonia di insediamento del nuovo solitario nella sua cella adotta la preghiera con la quale il medioevo accompagnava l’eremita nel momento della sua reclusione. “Qui si acquista quell’occhio dal cui sereno sguardo d’amore è colpito lo Sposo e attraverso il quale, se è senza macchia e puro, si vede Dio”2, dice Bruno a un amico che voleva attirare nella Certosa. Il piccolo trattato intitolato La scala dei monaci 3, di cui ci occuperemo, è apparso senza data né autore. Tutti gli esperti ne attribuiscono concordemente la paternità a un certo Guigo, nono priore della Grande certosa, noto anche con il nome di Guigo II per distinguerlo dal suo omonimo, Guigo I, che era stato priore prima di lui nello stesso monastero e aveva composto le Consuetudini della Certosa4 che per secoli preciseranno l’organizzazione concreta di questa vita monastica originale, mescolando in un sottile equilibrio elementi della vita eremitica con altri propri della vita cenobitica. Sono poche le date a noi note che possono aiutarci a tracciare una biografia di Guigo II. Nel 1173 egli appare come testimone con il titolo di “procuratore” – oggi diremmo economo – in un documento che regola gli interessi materiali tra il suo monastero e un’abbazia vicina. All’incirca nella stessa epoca è eletto alla carica di priore, una funzione menzionata sulla pergamena di due bolle pontificie rispettivamente degli anni 1176 e 1177. Nel 1180 si oppone invano al re Enrico II che reclama per la Certosa recentemente aperta in Inghilterra uno dei suoi
2 Bruno il certosino, A Rodolfo il Verde, in I Padri certosini, Una parola dal silenzio, p. 62. 3 Cf. Guigo II il certosino, La scala di Giacobbe, in Id., Tornerò al mio cuore, a cura di E. Arborio Mella, Qiqajon, Bose 1987, pp. 27-41. Tale traduzione è stata ripresa anche in I Padri certosini, Una parola dal silenzio, pp. 121-139. 4 Per una traduzione italiana delle Consuetudini, cf. I Padri certosini, Fratelli nel deserto, pp. 111-186.
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fratelli: si tratta del suo procuratore che diventerà Ugo di Lincoln e sarà il primo certosino canonizzato, prima ancora di Bruno. Nello stesso anno, Guigo è esonerato dall’incarico di priore. La Cronaca della Certosa lo menziona ancora nel 1185 con il titolo di ex priore e riferisce che trascorse in solitudine gli ultimi anni della sua vita. Si pensa che sia morto nel 1188. Una deliziosa leggenda riportata nella stessa Cronaca racconta che il suo successore si vide obbligato a ingiungergli, in nome dell’obbedienza, di interrompere i miracoli sulla sua tomba perché attiravano una folla di pellegrini che turbavano la pace del deserto. È impossibile stabilire la storicità della leggenda, ma essa attesta comunque una solida fama di santità che perdurò dopo la sua morte. Oltre alla Scala, Guigo II scrisse anche una dozzina di meditazioni5, la cui composizione è generalmente ritenuta anteriore alla Scala. A dispetto del suo intenzionale anonimato, quest’ultima conobbe immediatamente un grande successo e quindi diventerà un classico della letteratura spirituale; lo testimonia il gran numero di copie manoscritte giunte fino a noi. La diffusione dell’opera fu probabilmente favorita anche dalle false attribuzioni di cui fu oggetto. Sono attestate cinquantanove attribuzioni a Bernardo di Clairvaux, sedici ad Agostino di Ippona, due a Bonaventura da Bagnoregio; l’opera fu attribuita anche ad Anselmo di Aosta e a qualche altro. Al sorgere della stampa, nel 1475, il testo latino della Scala fu edito a Milano e nel 1488 vide già la luce una traduzione francese a Tolosa. Nel 1827 fu nuovamente pubblicata in versione ridotta a Lione con il titolo Trattato della preghiera mentale ed è sotto questa forma che Jacques-Paul Migne l’inserirà nella sua famosa Patrologia, sotto l’autorità, questa volta, di Agostino di Ippona6. 5 Per una traduzione italiana delle Meditazioni, cf. Guigo II Certosino, Tornerò al mio cuore, pp. 55-90. 6 Cf. Agostino di Ippona, La scala del paradiso, PL 40,997-1004.
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Il tema della scala è già utilizzato da Platone per indicare l’ascesa verso la perfezione. Egli scrive nel Simposio: La giusta maniera di procedere da sé o di essere condotto da un altro nelle cose dell’amore è questa: prendendo le mosse dalle cose belle di quaggiù, al fine di raggiungere quel Bello, salire sempre di più, come procedendo per gradini … fino a che non si pervenga a quella conoscenza che è conoscenza di null’altro se non del Bello stesso, e così, giungendo al termine, conoscere ciò che è il Bello in sé7.
Nella Bibbia si parla di una scala nel libro della Genesi, nel famoso sogno in cui Giacobbe vide degli angeli salire e scendere sopra il luogo ove riposava; da questo fatto egli comprese che vi era una presenza divina particolare in quel luogo (cf. Gen 28,10-19). Gesù riprenderà questo stesso tema per indicare che è ormai lui il luogo della presenza privilegiata di Dio: “Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo” (Gv 1,51). Tuttavia, fino ad allora non si era mai parlato di una ascesa degli uomini lungo questa scala. Sono i padri della chiesa che, seguendo il genio allegorico e teologico di Origene, innalzeranno scale su cui è possibile salire mediante le virtù e su cui accade di scendere in preda ai vizi e al peccato. La via era dunque aperta a innumerevoli applicazioni. Queste, del resto, non sono riservate ai monaci. Tutti i battezzati sono invitati dai padri a frequentare assiduamente la parola di Dio, come dice con finezza Gregorio Magno a uno dei suoi figli spirituali: “Ti prego, medita ogni giorno le parole del tuo Creatore; impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio”8.
7
Platone, Simposio 211B-D, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1995, p. 141. Gregorio Magno, Lettere 5,46, in Id., Lettere V/2, a cura di V. Recchia, Città Nuova, Roma 1996, p. 228. 8
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Il termine “trasfigurazione” di per sé non compare mai nel nostro trattato se non come in filigrana dietro ad alcune descrizioni della meta finalmente raggiunta. Lungo questa scala, l’autore isola quattro gradini, ciascuno dei quali definisce un modo particolare di accostare la parola di Dio. Guigo li chiama, nel loro ordine: lectio cioè lettura; meditatio, meditazione; oratio, preghiera e, alla fine, contemplatio, contemplazione. Ne descrive così la progressione: “La lettura è un accurato esame delle Scritture che muove da un impegno dello spirito”9. Il termine “impegno” cerca di rendere il senso di un termine latino difficile da tradurre: intentio, che nella Regola di Benedetto viene applicato al monaco intentus lectioni, “intento alla lettura”10. Continua Guigo: La meditazione è un’opera della mente che si applica a scavare nella verità più nascosta sotto la guida della propria ragione. L’orazione è un impegno amante del cuore in Dio allo scopo di estirpare il male e conseguire il bene. La contemplazione è come un innalzamento al di sopra di sé da parte dell’anima sospesa in Dio, che gusta le gioie della dolcezza eterna11.
Il commento di Guigo si approfondisce ulteriormente specificando il ruolo particolare che egli attribuisce a ciascun gradino: La lettura indaga sulla dolcezza della vita beata, la meditazione la trova, l’orazione la chiede, la contemplazione la assapora. La lettura si può dire che porti alla bocca cibo solido, la meditazione lo mastica e lo macina, l’orazione ne sente il sapore, la contemplazione è la dolcezza stessa che dona gioia e ricrea
9
Guigo II il certosino, La scala 2, p. 30. Regola di Benedetto 48,18, in Regole monastiche d’occidente, a cura di C. Falchini, Einaudi, Torino 2001, p. 243. 11 Guigo II il certosino, La scala 2, p. 30. 10
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le forze. La lettura rimane sulla scorza, la meditazione penetra nel midollo, l’orazione si spinge alla richiesta suscitata dal desiderio, la contemplazione riposa nel godimento della dolcezza raggiunta12.
Il primo gradino consiste dunque nella semplice lectio, un primo approccio al testo che l’autore precisa attraverso un esempio. Ricorda la beatitudine: “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio” (Mt 5,8) e la paragona a un grappolo d’uva offerto al lettore. Quindi commenta: L’anima comincia a masticare e a macinare questo grappolo, lo mette nel torchio, spinge insomma la ragione a indagare cosa sia e come si possa ottenere questa purezza tanto preziosa13.
Ecco un primo approccio al testo; l’immagine del grappolo esprime l’attrazione misteriosa che esso esercita sul lettore. La ragione non è ancora al lavoro, è stata semplicemente stimolata. Entrerà in scena al gradino seguente, quello della meditazione. Grazie a essa il lettore indagherà tutti i dettagli del testo e con l’aiuto di altre citazioni della Scrittura ne espliciterà il senso. Guigo, al pari di altri, si dilunga sulla visione di Dio che viene qui promessa: Dopo essersi soffermata su queste cose e su altre dello stesso genere a proposito della purezza di cuore, la meditazione comincia a pensare al premio, a quale gloria e quale allegrezza sarebbe la visione del volto desiderato di Dio, il volto più bello di tra i figli dell’uomo (cf. Sal 44 [45],3), non più disprezzato e rifiutato, non nell’aspetto che egli ha ricevuto da sua madre, ma rivestito di una veste di immortalità, con la co-
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Ibid. 3, p. 30. Ibid. 4.
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rona che gli pose suo Padre nel giorno della resurrezione e della gloria, nel giorno fatto dal Signore (cf. Sal 117 [118],24). Vedi quanto mosto è scaturito da un piccolissimo grappolo, quale fuoco si è levato da una scintilla? Un così piccolo impasto, Beati i puri di cuore perché vedranno Dio (Mt 5,8), sull’incudine della meditazione si è esteso davvero molto14!
Segue quindi uno di quei passi più ricorrenti nei mistici occidentali che si lamentano della loro incapacità a raggiungere un godimento che hanno pregustato soltanto da lontano: Sento che il pozzo è profondo (cf. Gv 4,11) e che io, recluta inesperta, ho trovato appena di che attingere poche gocce. L’anima, infiammata da questi bagliori, stimolata da questi desideri, rotto ormai il vasetto d’alabastro (cf. Mc 14,3), comincia a presentire, non ancora con il gusto ma come con l’odorato la soavità dell’unguento (cf. Gv 12,3) e da ciò deduce quanto sarebbe dolce aver esperienza di questa purezza la cui sola meditazione le è fonte, essa lo vede, di così grande gioia. Ma che fare? Essa arde dal desiderio di possedere e tuttavia non trova in se stessa come giungere a possedere; e quanto più ci pensa tanto più ne ha sete … Non appartiene né a chi legge né a chi medita il provare questa dolcezza, se non è stato dato dall’alto (cf. Gv 19,11)15.
Questo passo contiene numerosi termini che sono familiari agli autori spirituali del xii secolo: “esperienza” e, soprattutto, “desiderio” stimolato dalla meditazione. Per poter gustare la dolcezza della meditazione è assolutamente necessaria la grazia. L’autore illustra questa affermazione con un attacco ai filosofi pa-
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Ibid. 5, p. 31. Ibid. pp. 31-32.
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gani che “hanno saputo trovare, sotto la guida della ragione, in che consiste l’essenza del vero bene”, ma che, limitandosi alla sola ragione, non hanno meritato di afferrare ciò che pure erano riusciti a scorgere. Hanno vaneggiato nei loro ragionamenti ed è svanita la loro perizia, acquisita com’era nello studio delle discipline umane invece che nello Spirito di sapienza. Eppure è lui che solo dà la vera sapienza, cioè quella scienza saporosa che rallegra con un nutrimento di inestimabile prelibatezza l’anima in cui penetra … Essa procede unicamente da Dio … La parola è data a tutti, la sapienza interiore a pochi, perché è il Signore che la distribuisce a chi vuole e quando vuole16.
Quest’ultima formula sarà ripresa più tardi da Jan van Ruusbroec, che doveva essere un lettore abituale di questo trattato. È così che l’autore conduce il lettore al terzo gradino della sua scala, quello della preghiera: L’anima vede che non può giungere con le sue forze alla dolcezza della conoscenza e dell’esperienza, oggetto del suo desiderio. Vede anzi che quanto più nel suo cuore si innalza, tanto più Dio si fa distante (cf. Sal 63 [64],7-8). Allora si umilia e si rifugia nell’orazione. Così essa parla: … Ho cercato il tuo volto, Signore, il tuo volto, Signore, ho cercato: ho meditato a lungo nel mio cuore, e nella mia meditazione è divampato un gran fuoco (Sal 26 [27],8; 76 [77],7; 38 [39],4) e un immenso desiderio di conoscerti più a fondo. Tu spezzi per me il pane della sacra Scrittura e nello spezzare del pane ti fai riconoscere a me (cf. Lc 24,35). Avviene allora che quanto più ti conosco, tanto più desidero conoscerti, non soltanto nella scorza della lettera, ma nella percezione sensibile dell’esperienza
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Ibid. p. 32.
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(in sensu experientiae). Non lo chiedo a causa dei miei meriti, Signore, ma per la tua misericordia. Dammi dunque un pegno dell’eredità futura, Signore, dammi almeno una goccia di pioggia celeste che procuri un po’ di refrigerio alla mia sete, perché sono febbricitante d’amore (cf. Ct 2,5)17.
Il senso del termine oratio non ha la stessa ampiezza che quello di preghiera nel senso odierno. Si tratta di una preghiera di intercessione che domanda a Dio di accordargli la pienezza di ciò che ha soltanto presentito nei primi due gradini della lettura e della meditazione. Ed ecco che cosa avviene nella contemplazione: Con queste e altre simili ardenti parole l’anima infiamma il desiderio; mostra così il potere della sua invocazione e con la malia di questi canti attira a sé lo Sposo. Il Signore … sollecito irrompe, sollecito viene incontro all’anima desiderante, tutto cosparso di quella rugiada che è la dolcezza del cielo, profumato di delicatissimi unguenti. Viene a ricreare l’anima affaticata, a rianimare quella affamata, a saziare quella inaridita; viene a farle dimenticare le cose della terra, mirabilmente vivificandola mediante la mortificazione nell’olio di se stessa e rendendola sobria mediante l’ebbrezza (cf. Sal 22 [23],5; Ct 5,1). Avviene che in certi atti carnali l’anima sia vinta dalla brama della carne fino a perdere del tutto l’uso della ragione, per cui l’uomo diviene quasi esclusivamente carnale; nello stesso modo ma in un movimento contrario, in questa altissima contemplazione i moti carnali vengono dall’anima superati e assorbiti al punto che in nulla la carne contraddice più allo spirito, per cui l’uomo diviene quasi esclusivamente spirituale18.
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Ibid. 6, pp. 32-33. Ibid. 7, p. 33.
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Questa spiritualizzazione ricorda la deificazione dei padri greci. Il segno più certo della presenza dello Sposo sono le lacrime che sgorgano spontanee, lacrime talora di pentimento, più spesso di gioia. Dice Guigo: In queste lacrime, o anima, riconosci il tuo Sposo, abbraccia l’oggetto del tuo desiderio, inebriati al torrente delle delizie, succhia miele e latte al seno delle consolazioni (cf. Sal 35 [36],9; Is 66,11)19.
Poi l’autore si chiede perché mai accetta di rivelare in pubblico i segreti di questi incontri intimi: Perché cerchiamo di esprimere con banali parole degli slanci inenarrabili? Sono cose troppo grandi, che non può capire chi non le ha sperimentate: le leggerà più chiaramente nel libro dell’esperienza (in libro experientiae) ove la stessa unzione insegnerà (cf. 1Gv 2,27). Altrimenti la lettera esteriore non è di alcun profitto per chi legge; la lettura della lettera esteriore risulta abbastanza insipida se non interviene una spiegazione a rivelarne il senso interiore a partire dal cuore20.
Si tratta di una riflessione e di un avvertimento di cui si ricorderà Ruusbroec. La gioia dell’incontro con lo Sposo non è tuttavia continua. In certi momenti egli sembra sottrarsi, cosa che Bernardo, contemporaneo di Guigo, chiamerà le vicissitudines Verbi, gli andirivieni del Verbo. Il Verbo non si sottrae per punire l’anima, ma al contrario per educarla. Continua Guigo:
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Ibid. 8, p. 34. Ibid.
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Dice un proverbio che la familiarità induce al disprezzo: così lo Sposo si ritira perché non gli avvenga di essere disprezzato a causa della sua assiduità, perché sia maggiormente desiderato a causa della sua assenza. Egli sa che se sarà desiderato sarà più avidamente cercato, se a lungo cercato sarà finalmente trovato: e più grande ne sarà allora il ringraziamento21.
Accade che la negligenza e la distrazione della sposa siano la causa del ritiro temporaneo dello Sposo. La sposa dunque deve fare attenzione: Ma fa’ attenzione a te stessa, sposa: quando lo Sposo si assenta non va lontano, e anche se tu non lo vedi, egli sempre ti vede. È pieno di occhi davanti e di dietro (cf. Ap 4,6), sì che non puoi nasconderti alla sua vista. Ha anche attorno a te i suoi spiriti come messaggeri, incaricati di scrutare attentamente, di riferire come ti comporti in assenza dello Sposo, di accusarti di fronte a lui se in te riconoscessero qualche segno di rilassamento o di vacuità. Geloso è questo tuo Sposo: se mai tu accogliessi un altro amore, se cercassi di piacere a un altro più che a lui, subito si separerebbe da te e ad altre giovinette si legherebbe … Sii dunque casta, sii pudica e umile: solo in tal modo meriterai di essere visitata frequentemente dal tuo Sposo22.
Verso la fine del suo trattato, l’autore riassume un’ultima volta la progressione dei quattro gradini e precisa in qual modo si legano gli uni agli altri: La lettura viene prima a mo’ di fondamento, ci fornisce l’argomento e ci conduce alla meditazione. La meditazione inda-
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Ibid. 10, p. 35. Ibid. 11, p. 36.
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ga più a fondo che cosa si debba perseguire, e scavando trova il tesoro (cf. Pr 2,4; Mt 13,44) e lo mostra; ma poiché da se stessa non è capace di conservarlo ci conduce all’orazione. L’orazione, elevandosi a Dio con tutte le sue forze, consegue il tesoro desiderato che è la soavità della contemplazione; e questa, con il suo sopravvenire, ci ricompensa di tutta la fatica dei primi tre gradini inebriando l’anima assetata con una rugiada di dolcezza celeste. La lettura è un esercizio che riguarda l’esterno, la meditazione è una comprensione che riguarda l’interno, l’orazione riguarda il desiderio, la contemplazione supera ogni capacità di percezione. Il primo gradino è di quanti intraprendono la strada, il secondo è di quanti sono già un po’ avanti, il terzo è di quanti non si posseggono più, il quarto è di quanti hanno raggiunto la pace23.
Ritorniamo ancora un istante su questo percorso per analizzarne più da vicino alcuni elementi. Innanzitutto il luogo in cui esso si compie: non è la ragione e neppure i sensi, ma il cuore. È verso il cuore che si volge chi intraprende il cammino facendo proprie le parole del figlio prodigo al momento della sua conversione: “Tornerò al mio cuore”24. Così, dopo aver masticato la parola, la si fa penetrare “nel profondo del cuore” (ad cordis intima)25 o nel segreto del cuore, là dove si trova “il talamo segreto dello Spirito santo” (secretum cubile Spiritus sancti)26. Guigo ritorna su questo tema nelle Meditazioni: “Nella fede, Cristo abita in te e la fede tua in Cristo è Cristo stesso nel tuo cuore”27. È qui che si realizza quella meravigliosa esperienza descritta in termini non privi di un certo realismo. Occorre gustarne la dolcezza28. Il libro della parola di Dio, la Bibbia, diventa così, nel più vero senso del ter23
Ibid. 12, pp. 36-37. Ibid. 4, p. 30. 25 Ibid. 13, p. 37. 26 Ibid. 15, p. 40. 27 Id., Meditazioni 10, in Id., Tornerò al mio cuore, p. 82. 28 Cf. Id., La scala 2; 6. 24
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mine, un “libro dell’esperienza” (liber experientiae)29. Questa esperienza è attribuita al senso del gusto: “L’orazione ne sente il sapore” (oratio saporem acquirit), “la contemplazione l’assapora” (contemplatio degustat)30 al di là della lettera della Parola, perché questa lettera è definita “poco saporosa” (modicum sapida)31. Questo sapore è il fondamento di ciò che l’autore chiamerà una “scienza saporosa” (sapida scientia)32. La ragione si trova qui priva di mezzi; è l’amore che può gustare fino in fondo: “Sì, la comprensione precede lo spirito di sapienza, assaggia quasi furtivamente; l’amore invece ha il sapore di un cibo solido” (intellectus quidem quasi in transitu gustat: amor autem solidum sapit)33. Il lettore assiduo della Parola si trova ancora sulla terra? Dimora ancora nel corpo? Se ne potrebbe dubitare quando si legge la descrizione che Guigo offre di questa esperienza: “Un innalzamento al di sopra di sé da parte dell’anima sospesa in Dio” (mentis in Deum suspensae quaedam super se elevatio)34. L’immagine del cielo viene in mente spontaneamente. Guigo non esita a impiegarla di frequente. I suoi lettori sono così “elevati dalla terra al cielo” (de terra in coelum sublevantur); la scala “penetra nelle nubi e sonda i segreti del cielo” (nubes penetrat et coelorum secreta rimatur)35; il lettore attende “una goccia di pioggia celeste” ( gutta coelestis pluviae)36; si fa presente lo Sposo “tutto cosparso di quella rugiada che è la dolcezza del cielo” (coelestis rore dulcedinis perfusus)37, che inebria l’anima assetata “con una rugiada di celeste dolcezza” (coelestis rore dulcedinis inebriat)38.
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Ibid. 8, p. 34. Ibid. 3, p. 30. 31 Ibid. 8, p. 34. 32 Ibid. 5, p. 32. 33 Id., Meditazioni 10, p. 83. 34 Id., La scala 2, p. 30. 35 Ibid., p. 29. 36 Ibid. 6, p. 33. 37 Ibid. 7. 38 Ibid. 12, p. 36. 30
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La lettura della Parola dispone così a ricevere dei pegni di quella che sarà la nostra felicità eterna nei cieli. È ciò che il lettore non esita a chiedere a Dio nella preghiera: “Dammi un pegno dell’eredità futura” (Da mihi arrham hereditatis futurae)39. Come si è visto, per gli antichi la frequentazione assidua della Parola permetteva di percorrere un cammino, di salire una scala che poteva condurre fino alla più alta esperienza mistica. Concludiamo con un’ultima citazione di Guigo in forma di preghiera, un testo che, ancora una volta, ci lascia intravedere il cielo: Preghiamo tutti il Signore perché mitighi fin d’ora gli ostacoli che ci distolgono dal contemplarlo e in futuro ce ne liberi completamente; attraverso questi gradini ci conduca di altezza in altezza fino a vedere il Dio degli dèi in Sion (cf. Sal 83 [84],8). Là gli eletti gusteranno la dolcezza della contemplazione divina non a piccole gocce e con interruzioni; possederanno invece eternamente, in un torrente di delizie, una gioia che nessuno potrà loro togliere e una pace immutabile, la pace in lui (cf. Gv 16,23; Sal 4,9)40.
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Ibid. 6, p. 33. Ibid. 15, pp. 40-41.
LA TRASFIGURAZIONE DI CRISTO SUL MONTE TABOR NELLE OPERE DI GREGORIO IL SINAITA Antonio Rigo*
La nostra mente sia trasfigurata nella luce della tua gloria … risplenda con l’illuminazione delle tue energie … Innalzaci al monte della contemplazione … Unisci a te la nostra mente e la nostra ragione come Mosè ed Elia e colmale di gloria. Fa’ risplendere con i tuoi bagliori le tre potenze della nostra anima come i tuoi tre discepoli1.
Così risuona la preghiera finale di una catechesi sulla trasfigurazione composta da Gregorio il Sinaita (1275-1346) sulla quale ritorneremo di qui a poco. Gli studi di questi ultimi decenni hanno ormai mostrato con chiarezza la rilevanza di questa figura e della sua opera non solo nel panorama della mistica bizantina, ma anche in quello di mondi spirituali contigui, gli slavi meridionali e la Russia. Attorno a Gregorio, prima monaco al Sinai e all’Athos nei primi decenni del Trecento, poi fondato-
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Docente di cristianesimo bizantino presso l’università di Venezia. Gregorio il Sinaita, Catechesi sulla Trasfigurazione 27, in Saint Gregory the Sinaïte: Discourse on the Transfiguration, a cura di D. Balfour, Theologhia, Athinai 1982, pp. 54-56; Gregorios Sinaïtes Werke. Einleitung, kritische Textausgabe und Übersetzung, a cura di H.-V. Beyer, Wien 1985 (Habilitationschrift), p. 99. 1
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re di un monastero in Bulgaria, a Paroria, si formò una vera e propria scuola composta di discepoli greci e slavi. Le opere del Sinaita ebbero poi una influenza profonda nel suo tempo e nei secoli successivi, da Nil Sorskij nel xv secolo a Basilio di Poiana Ma˘rului e Paisij Veli™kovskij nel xviii secolo. Centralità quindi di Gregorio, ma anche centralità di un’epoca che precede di poco le discussioni teologiche sulla luce della trasfigurazione sul Tabor che per oltre un trentennio scossero il mondo bizantino. La nostra attenzione sarà rivolta agli scritti di Gregorio il Sinaita, partendo da quelli del primo periodo, in particolare la sua opera maggiore, i Capitoli con acrostico, per poi passare a quelli più tardi e alla Catechesi sulla Trasfigurazione. Alla fine del nostro intervento faremo alcune considerazioni anche a proposito di altri autori spirituali che, prima e dopo Gregorio, hanno parlato nei loro scritti della trasfigurazione sul monte Tabor. I Capitoli con acrostico sono senz’altro l’opera maggiore di Gregorio. Si tratta di 137 capitoli di diseguale lunghezza che, come dice l’acrostico ripetuto nel titolo, sono dedicati a nove temi principali: esposizione dei dogmi e dei comandamenti, tappe dell’itinerario ascetico-spirituale, lotta contro i pensieri, passioni e virtù, hesychía e preghiera2. In questa serie di capitoli, composta da Gregorio negli anni della sua prima permanenza sul Monte Athos (perciò in un periodo anteriore al 1327)3, sono contenuti, anche se in nuce, i temi che saranno sviluppati negli scritti dei decenni successivi. In molti casi la prosa asciutta ed ellittica di Gregorio fa sì che alcuni passi prendano un pieno significato per il moderno lettore soltanto grazie alle amplificazioni e ai passi paralleli contenuti nelle opere più tarde.
2 Cf. A. Rigo, Gregorio il Sinaita, in La théologie byzantine II, a cura di G. Conticello e V. Conticello, Brepols, Turnhout-Leuven 2002, pp. 84-85. 3 Cf. ibid., p. 90.
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Leggendo questa serie di capitoli di Gregorio ci si accorge con facilità come qui sia illustrata una vera e propria mistica della luce, propria di gran parte del cristianesimo orientale. Alcuni esempi ne possono illustrare le molteplici implicazioni. La luce divina fa vedere ed essere visti4. Con la purificazione della mente il composto umano, che per natura è di fango, diventa un’immagine luminosa e fiammeggiante, divinamente bella5. Al vertice del cammino spirituale, “lo stupore è la pura e integrale elevazione verso la potenza della luce”6. Emerge poi con forza il binomio luce-preghiera: “La preghiera … è per i perfetti come una luce profumata che agisce”7. Dice Simeone: Sapienza mossa dallo Spirito è, secondo i teologi, la potenza della preghiera mentale, pura e angelica, il cui segno nel pregare è che la mente è vista del tutto priva di forma: non vede se stessa né qualcosa d’altro in modo materiale, ma anche i sensi spesso si raccolgono a causa di questa luce. Allora la mente diventa immateriale e luminosa e si unisce ineffabilmente a Dio in un solo Spirito8.
E ancora: Sostanziale contemplazione spirituale della luce, mente priva di fantasie e stabile, operazione della preghiera vera e che sgorga sempre dal centro del cuore9.
4 Cf. Gregorio il Sinaita, Capitoli con acrostico 5, in Φιλοκαλα τ)ν ?ερ)ν νηπτικ)ν IV, Astir, Athinai 19764, p. 31. 5 Cf. ibid. 45, p. 38. 6 Ibid. 58, p. 39. 7 Ibid. 113, p. 51. 8 Ibid. 116, p. 52. 9 Ibid. 118, p. 53.
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La presenza della mistica della luce in Gregorio il Sinaita di per sé (su questo avremo modo di tornare) non dice nulla circa il tema che qui ci interessa, ovvero la luce del Cristo trasfigurato sul monte Tabor. Affrontiamo perciò la questione in un altro modo, considerando cioè come Gregorio delinei in questa sua opera i momenti e gli stadi dell’itinerario spirituale. Egli parla di tre diverse tappe, per le quali utilizza da un lato il vocabolario della tradizione monastica e dall’altro la suddivisione dionisiana (purificazione, illuminazione, perfezione), e di tre diversi momenti della preghiera: operazione-purificazione, illuminazione-contemplazione, estasi-rapimento10. Dice Simeone: Principio della preghiera mentale l’operazione, cioè la potenza purificatrice dello Spirito e la mistica liturgia della mente … mezzo la potenza illuminatrice e la contemplazione, fine l’estasi e il rapimento della mente in Dio11.
La luce e l’illuminazione sembrano perciò propri, secondo Gregorio, di una tappa avanzata del cammino spirituale, ma non dell’ultima, caratterizzata dall’estasi e dal rapimento nell’amore divino. La visione del cammino spirituale di Gregorio è senza dubbio polisprospettica, caratteristica che rende arduo il compito degli studiosi moderni costretti invece ad analizzare, distinguere, separare e ad avere un unico punto di osservazione. Così l’itinerario spirituale è delineato nei Capitoli con acrostico (e anche nei più tardi Capitoli sulle gerarchie)12 come il succedersi delle età di
10 Cf. A. Rigo, Il monaco, la chiesa e la liturgia. I Capitoli sulle gerarchie di Gregorio il Sinaita, Edizioni del Galluzzo, Firenze 2005, pp. lv-lviii, lxxiv-lxxxviii. 11 Gregorio il Sinaita, Capitoli con acrostico 111, p. 51; cf. ibid. 118, p. 53. 12 Cf. Gregorio il Sinaita, Capitoli sulle gerarchie 12; 13, in A. Rigo, Il monaco, pp. 14-18.
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Cristo. “La negligenza o lo zelo per il succedersi delle diverse età di Cristo mostrano se uno è perfetto, imperfetto o bambino”13. “Devi ritenere uomo perfetto chi ha ottenuto, quale caparra, l’assimilazione al succedersi delle età di Cristo”14. In una sorta di “supplemento” ai Capitoli con acrostico composto, con ogni verosimiglianza, sempre durante il suo primo soggiorno sul Monte Athos, Gregorio sviluppava in modo più articolato quanto in precedenza era soltanto evocato: Ogni battezzato in Cristo deve giungere a tutte le successive età della vita di Cristo perché ne ha conosciuto in anticipo la potenza e le può trovare e imparare tramite i comandamenti. Il concepimento di Cristo è la caparra dello Spirito. La nascita è l’operazione dell’esultanza. Il battesimo è la potenza purificatrice del fuoco dello Spirito. La trasfigurazione è la contemplazione della luce divina. La crocifissione è la morte a tutto. La tomba è il prendere possesso dell’amore divino nel cuore. La resurrezione è il risorgere vivificante dell’anima. L’ascensione è l’estasi in Dio e il rapimento della mente. Chi non le ha trovate e non le ha percepite è ancora un bambino nel corpo e nello spirito anche se è considerato da tutti un anziano e un esperto nella pratica15.
In queste righe Gregorio illustra con chiarezza, sulla base delle successive tappe della vita di Cristo, le diverse fasi del cammino spirituale. Con facilità ritroviamo i tre momenti chiave dell’itinerario di preghiera: operazione-purificazione = battesimo; illuminazione-contemplazione = trasfigurazione; estasi-rapimento = ascensione. Possiamo perciò vedere come la dottrina spirituale di Gregorio già nelle opere del primo periodo fosse segnata con forza dalla 13
Gregorio il Sinaita, Capitoli con acrostico 20, p. 34; cf. anche ibid. 21. Ibid. 55, pp. 38-39; cf. anche ibid. 56. 15 Id., Altri capitoli 1, ibid., p. 63. 14
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presenza della mistica della luce. La luce e l’illuminazione caratterizzano ai suoi occhi una certa fase del cammino spirituale. La luce, la luce divina è quella del Tabor e la trasfigurazione è, per Gregorio, la contemplazione (theoría) di questa stessa luce. Il Lógos sulla trasfigurazione di Gregorio16, a differenza di tutte le altre sue opere che sono conservate da decine di manoscritti greci e, in traduzione, da altrettanti slavi, è presente in un unico codice del monastero della Lavra del terzo quarto del xiv secolo17. Il Lógos è preceduto dall’Omelia sulla Trasfigurazione di Giovanni di Damasco ed è seguito da diversi testi agiografici (Vite di Giovanni l’Elemosinario, di Giovanni Crisostomo, di Stefano il Giovane, di Antonio, di Onofrio), tra i quali troviamo la Vita del Sinaita scritta dal patriarca Callisto I. Crediamo che il Lógos sia stato composto da Gregorio attorno alla metà degli anni trenta, con ogni probabilità verso la fine del suo secondo soggiorno sul Monte Athos, quando egli viveva tra Lavra e gli eremitaggi vicini18. Il Lógos di Gregorio è una catechesi monastica, come si evince anche dal tenore didascalico, dalla presenza di note e di digressioni19, sorta di scoli che troviamo anche in altri capitoli del 16 Cf. Id., Λγος ες τ ν γ αν μεταμρφωσιν το Κυρ ου μν Iησο Χριστο, BHG 1996b, M. Sachot, Les homélies grecques sur la Transfiguration. Tradition manuscrite, Cnrs, Paris 1987, p. 120: ed. Balfour, pp. 20-56; ed. H.-V. Beyer, pp. 90-100. 17 Cf. Athos Lavras I 117 (1201), ff. 19r-32r; cf. S. Eustratiadis, Catalogue of the Greek Manuscripts in the Library of the Laura on Mount Athos, Harvard University Press, Cambridge 1925, pp. 200-201; A. Ehrhard, Überlieferung und Bestand der hagiographischen und homiletischen Literatur der griechischen Kirche von den Anfängen bis zum Ende des 16. Jahrhunderts. “Erster Teil” Die Überlieferung III, Hinrich, Leipzig 1939-1952, p. 881, che fanno risalire il manoscritto al xv secolo (così anche D. Balfour e H.-V. Beyer). 18 Questa cronologia approssimativa è ricavabile da diversi elementi: corrispondenze di alcuni passaggi del Lógos con i Capitoli sulla preghiera, composti nella seconda metà degli anni trenta, cf. A. Rigo, Mistici bizantini, Einaudi, Torino 2008, pp. 432; 508, n. 283, e con i Capitoli sulle gerarchie che risalgono al periodo trascorso a Paroria (tra la metà degli anni trenta e il 1346), cf. Id., Il monaco, p. xxxiii; non pensiamo che sia stato scritto in Bulgaria, dal momento che non esiste traccia di una versione slava di questa opera. 19 “Νον δ λ γομεν…”, fine del c. 19: ed. Balfour, p. 40; ed. H.-V. Beyer, p. 96; “Δε δ γινσκειν κριβς τος φιλομαθε ς”, prima parte del c. 21: ed. Balfour, p. 42; ed. H.-V. Beyer, p. 96; c. 13: ed. Balfour, p. 32; ed. H.-V. Beyer, p. 93.
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Sinaita20, pronunciata il giorno della Trasfigurazione (6 agosto)21. È quindi avvicinabile, dal punto di vista formale, ad altre catechesi monastiche sulla trasfigurazione. Pensiamo innanzitutto alla Catechesi sulla Trasfigurazione. Sul dovere di conservare la bellezza dell’anima e il suo immacolato splendore, e sulla penitenza di Teodoro Studita22, alle due catechesi del monaco cipriota Neofito il Recluso (1134-dopo il 1214)23, alla catechesi di Teolepto di Filadelfia24. Sempre a un pubblico monastico era infine indirizzata l’omelia di Macario Choumnos, fondatore della Nea Monì di Tessalonica nella seconda metà del Trecento: Sull’umiltà e che l’ubbidienza e le fatiche da questa derivate purificano l’anima e la rendono pronta alla visione divina e assieme piccola spiegazione delle parole evangeliche sulla divina trasfigurazione 25. Già le caratteristiche formali, di cui parlavamo poc’anzi, rendono ardua la lettura della catechesi di Gregorio, che già di per sé è un testo difficile. Le lunghe digressioni sulla simbolica dei numeri (il tre e il due), sulla Trinità e le due nature di
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Cf. A. Rigo, Il monaco, pp. xxxiv-xxxv. “Σµερον”, c. 9: ed. D. Balfour, p. 28; ed. H.-V. Beyer, p. 92; c. 18: ed. D. Balfour, p. 34, ed. H.-V. Beyer, p. 94; c. 25: ed. D. Balfour, p. 50, ed. H.-V. Beyer, p. 98; c. 27: ed. D. Balfour, p. 54, ed. H.-V. Beyer, p. 99. 22 BHG 1998n; M. Sachot, Les homélies grecques: E. Auvray, S. P. N. Theodori Studitis praepositi Parva Catechesis, Paris 1891, pp. lxii-lxxxiv; tr. it.: Teodoro Studita, Nelle prove, la fiducia. Piccole catechesi, a cura di L. d’Ayala Valva, Qiqajon, Bose 2006, pp. 117-121. 23 BHG 1996e; M. Sachot, Les homélies grecques, p. 120: V. Englezakis, “ Ανκδοτος κατηχσις το σου Νεοφτου το Εγκλεστου ες τ ν !γαν µεταµ"ρφωσιν”, in Θεολογα 44 (1973), pp. 698-701; Λγος ε ς τν θεαν κα νδοξον µεταµρφωσιν το Κυρου κα Θεο κα Σωτ!ρος "µ#ν Iησο Χριστο, BHG 1991p; M. Sachot, Les homélies grecques, p. 117: Lesbos Leimon. 2, ff. 318v-325v. 24 BHG 1985n, M. Sachot, Les homélies grecques, p. 114: Theoleptos of Philadelphia, The Monastic Discourses, a cura di R. E. Sinkewicz, Pontifical Institute of Mediaeval Studies, Toronto 1992, pp. 186-190; tr. it.: Teolepto di Filadelfia, Lettere e discorsi, a cura di A. Rigo e A. Stolfi, Qiqajon, Bose 2007, pp. 141-144. 25 Makarios Choumnos, Περ ταπειν)σεως κα *τι " +πακο κα ο, -ξ α.τ!ς 21
δι’α.τν πνοι καθαρουσι τν ψυχν κα πρ2ς θεοπταν -πιτηδεαν 3περγ4ζονται6 κα τ#ν ε ς τν θεαν µεταµρφωσιν ε.αγγελικ#ν 7ηµ4των µικρ8 3ν4πτυξις, BHG
1995h, M. Sachot, Les homélies grecques, p. 119: Athinai, Met. Pan. Taph. 455, ff. 31v-35v.
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Cristo, sulla mente (noûs), la ragione (lógos), lo spirito ( pneûma) quale immagine della Trinità, gli ampi incisi (8-11; 13; 15; 19-21; 22-24), sembrano interrompere di continuo l’esposizione che segue il racconto degli evangelisti sulla trasfigurazione. Si tratta di un testo non concepito per la lettura, ma per essere pronunziato dalla viva voce del suo autore. Una breve analisi della catechesi non rende certo giustizia della complessità e della ricchezza di queste pagine, che richiederebbero per essere comprese a fondo un commento puntuale parola per parola. Così sarebbe innanzitutto indispensabile considerare la catechesi del Sinaita sulla base della letteratura esegetica e omiletica, soffermandoci sui molti elementi che avevano attirato l’attenzione dei commentatori: il numero dei giorni, il monte, la scelta dei tre apostoli, le vesti di Gesù più candide della neve, Mosè ed Elia, eccetera. Nell’ovvia impossibilità di assolvere qui tale compito, limitiamoci ad alcune approssimazioni, cercando di cogliere i nodi centrali della catechesi. Il prologo della catechesi fornisce già alcune indicazioni di un certo interesse, quando Gregorio esorta ad alta voce i suoi ascoltatori: Voi tutti che rispecchiate a volto scoperto la visione della grandiosa gloria, che siete trasformati nella vostra vera natura di gloria in gloria di contemplazione, come da Cristo in Spirito di divinità, cioè dall’economia in teologia, e che avete trasformato la mente da carne in spirito strappando i nostri sensi dalla bassezza delle cose sensibili e dalla fantasia e dalla manifestazione delle cose disperse, orsù saliamo sul monte intelligibile della contemplazione. Voi tutti dunque che avete raggiunto il monte divino e sublime26.
26 Gregorio il Sinaita, Catechesi sulla Trasfigurazione 1-2: ed. Balfour, p. 20; ed. Beyer, p. 90.
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La catechesi si apre perciò con l’invito ad ascendere al monte, al monte del Signore, il Sinai della teofania, il monte Oreb di Elia, il Tabor della trasfigurazione di Cristo. Il monte è infatti il luogo della teofania e della contemplazione. Già qui emergono tre poli che si richiamano a vicenda: le teofanie dell’antico patto, il Cristo trasfigurato e la trasformazione intima e spirituale del mistico. Una delle chiavi per intendere appieno le parole di Gregorio è fornita da lui stesso, quando nel seguito della catechesi parla del significato e del mistero della trasfigurazione27. La ragione sa che la festa che abbiamo dinanzi è quadruplice (tetradiké) e in un senso più alto una, manifestata secondo le più elevate rivelazioni, compresa e compiuta in quattro modi. È legale e come un’ombra (nomikè kaì skiódes), anche se terribile e insopportabile, alludendo misticamente da lontano alla verità. Quale figura e verità (tØpos kaì alétheia) mostra con segni come caparra la mutazione spirituale e dell’anima. Quale immagine e gloria (eikòn kaì dóxa) del primo e del prototipo e dell’archetipo, essendo carattere naturale e bellezza e formazione dell’immagine e somiglianza di Cristo che ha preso la nostra natura per noi e ha dato forma alla natura con la divinità. Quale illuminazione divina, intelligibile ed eterna (theîa kaì noetè aídios éllampsis) che sarà vista e splenderà come Dio, stando con molti dèi attorno a lui e molti santi re, giudicando e distribuendo i meriti e gli avanzamenti di quella beatitudine28.
27 “Πρς τν τ ς ορτ ς πθεσιν ... ποσαχς τ µυστριον τοτο τ ς ποθσεως τατης µφα!νεται κα# τ# τ$ κε%σε τελοµενα” (Gregorio il Sinaita, Catechesi sulla Tra-
sfigurazione 2: ed. Balfour, p. 22; ed. H.-V. Beyer, p. 90). 28 Massimo il Confessore, Capitoli sulla teologia 2,25, in Φιλοκαλα II, Astir, Athinai 1975, p. 74.
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Quando dunque l’ divino vede tutte queste cose, vedrà senza dubbio il quadruplice splendore di entrambi e in modo passivo sarà iniziato alle cose mistiche che si compiono nei santi29.
Il quadruplice significato della trasfigurazione assume significato alla luce dei quattro livelli del mondo gerarchico di ispirazione dionisiana che Gregorio illustra in un’altra sua opera: il primo, indicato con qualificazioni legate alla dimensione della Legge che, come un’ombra, allude soltanto alla verità (il riferimento immediato è a Mosè sul Sinai e al profeta Elia sul monte Oreb), corrisponde evidentemente alla gerarchia legale; il secondo, caratterizzato dalla dialettica figura-verità e portatore di segni, va identificato con la gerarchia ecclesiastica; la gerarchia monastica invece è indicata con l’immagine e la gloria di Cristo; l’illuminazione divina è infine propria della gerarchia angelica30. Per quanto ci riguarda più direttamente, i quattro significati della trasfigurazione esposti nella catechesi possono essere così sintetizzati: l’asse centrale è Cristo trasfigurato sul Tabor, prefigurato dalle teofanie dell’Antico Testamento. La trasfigurazione mostra la mutazione spirituale del mistico e prefigura la venuta escatologica di Cristo glorioso. Nel seguito della catechesi Gregorio si sofferma a lungo sui tipi e le figure, il Sinai, l’Oreb, Mosè, Elia, Aronne, Or e Giosuè come figure del Tabor, di Mosè ed Elia sul monte Tabor31. Tipi e figure dell’Antico Testamento che prefigurano il Nuovo, ma allo stesso tempo allusioni mistiche alla mutazione interiore dell’anima32. Di qui una serie di coppie che è nel seguito elenca29 Gregorio il Sinaita, Catechesi sulla Trasfigurazione 3-4: ed. Balfour, p. 22; ed. H.-V. Beyer, pp. 90-91. 30 Cf. A. Rigo, Il monaco, p. xlix. 31 Gregorio il Sinaita, Catechesi sulla Trasfigurazione 4-6; 8: ed. Balfour, pp. 22, 24, 26; ed. H.-V. Beyer, pp. 91-92. 32 Cf. ibid. 14: ed. Balfour, p. 32; ed. H.-V. Beyer, p. 93.
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ta (tenebra-luce, nube-Spirito, fuoco-purificazione, tromba-voce del Verbo di Dio, tuoni-annunzio evangelico, lampi-illuminazione divina, Legge-legge evangelica, monte-difficoltà di contemplare il monte, segno di fuoco-teofania)33. La tenebra infatti … era un tipo della trasfigurazione. La trasfigurazione verità della teofania in ciascuno di noi. E questa di nuovo caparra della futura ed eterna beatitudine e della partecipazione all’indicibile effusione di luce quando saremo trasfigurati in un’unica luce e gloria34.
La duplice dialettica dei tipi e delle figure emerge con Mosè ed Elia presenti sul monte assieme a Gesù. La teofania sul Sinai era un’anticipazione di quella del Tabor, ma lo splendore sul volto di Mosè era simbolico e non sostanziale35 a differenza di quello del Cristo trasfigurato. Sull’Oreb Elia vide un grande vento, un terremoto, un fuoco purificatorio e infine una leggera brezza luminosa come accade a quelli che si dedicano alla vita nella hesychía. Idea quest’ultima che è amplificata nei Capitoli sulla preghiera: La dispensazione dello Spirito, dice l’Apostolo, si manifesta e si fa conoscere in diverse maniere, secondo il suo volere (cf. Eb 2,4), e anche in noi si vede secondo il tipo di Elia il Tisbita. In alcuni sopraggiunge uno spirito di timore di Dio che fende i monti delle passioni e spezza le pietre (cf. 1Re 19,11), i cuori duri, in modo che sono inchiodati dal timore e la carne diventa morta. In altri si produce un sussulto (cf. 1Re 19,11) o un’esultanza, che i padri con maggiore chiarezza hanno anche chiamato sobbalzo. In altri si mostra un fuoco dapprima
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Ibid. 6: ed. Balfour, p. 26; ed. H.-V. Beyer, p. 92. Ibid. 17: ed. Balfour, pp. 32-34; ed. H.-V. Beyer, p. 94. 35 Cf. ibid. 5: ed. Balfour, pp. 24-26; ed. H.-V. Beyer, p. 91. 34
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immateriale ed essenziale … In altri infine Dio opera una brezza leggera (cf. 1Re 19,12), pacifica e luminosa: soprattutto in quelli che sono progrediti nella preghiera perché Cristo ha preso dimora nel loro cuore, come dice l’Apostolo (cf. Ef 3,17), e si manifesta misticamente nello Spirito. Per questo Dio ha detto a Elia sul monte Oreb che il Signore non era in questa o in quell’altra cosa, nelle operazioni parziali dei principianti, ma che il Signore è nella brezza leggera luminosa (cf. 1Re 19,12), e così ha indicato la perfezione della preghiera36.
Anche quanto Gregorio scrive sugli apostoli merita di essere segnalato. Sulle ragioni del loro timore si erano interrogati molti esegeti37. Secondo il nostro autore ciò era dovuto in un primo momento al fatto che non avevano conseguito una perfetta purificazione38. In seguito, purificati furono illuminati e riconobbero il Figlio di Dio39. Anche qui per il Sinaita interviene evidentemente una lettura sulla base delle tre tappe del cammino spirituale di cui parlavamo in precedenza: purificazione, illuminazione, perfezione. L’illuminazione provocata dalla luce divina corrisponde a uno stato elevato, ma ancora “enstatico” che deve essere trasceso nell’estasi e nell’amore. Di qui le sue considerazioni sull’estasi (éxtasis) e sullo stato di ebbrezza (méthe) di Pietro, ovvero sul culmine del cammino spirituale. Gregorio scrive quindi delle parole, nelle quali gli echi dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita e di Niceta Stethatos40 sono facilmente riconoscibili:
Gregorio il Sinaita, Capitoli sulla preghiera 7, in Φιλοκαλα IV, p. 87. Cf. M. Aubineau, “Une homélie grecque inédite sur la Transfiguration”, in Analecta Bollandiana 85 (1967), pp. 414-416; Gregorio Palamas, Omelie sulla Trasfigurazione, a cura di A. Rigo, Qiqajon, Bose 1993 (Testi dei padri della chiesa 7), p. 39, n. 13. 38 Cf. Gregorio il Sinaita, Catechesi sulla Trasfigurazione 4, 6: ed. Balfour, pp. 24, 26; ed. H.-V. Beyer, pp. 91, 92. 39 Cf. ibid. 24: ed. Balfour, p. 48; ed. H.-V. Beyer, p. 97; cf. anche la preghiera finale, 27: ed. D. Balfour, p. 56; ed. H.-V. Beyer, p. 99. 40 Cf. Niceta Stethatos, Capitoli 3,18, in Φιλοκαλα III, Astir, Athinai 1976, p. 330. 36 37
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Quando infatti la mente è sopraffatta da quella luce ineffabile e si trova al di fuori degli enti, si priva della sensibilità delle relazioni e oscura i sensi stessi con la luce della potenza. O al contrario separa la mente dai sensi, i sensi dalle relazioni con la luce e fa della mente la preda del divino amore, perché depone ogni suo attaccamento tramite i sensi alle cose sensibili41.
Alcuni termini, primi fra tutti lo stupore e l’ebbrezza della mente in estasi, ritornavano già con una certa frequenza nei Capitoli con acrostico. Stupore è il sollevamento totale delle potenze dell’anima verso le realtà conosciute e unificate della grandiosa gloria. O ancora, stupore è la pura e integrale elevazione verso l’infinita potenza della luce42.
Quanto leggiamo sull’estasi ci mostra che Gregorio si allontana dagli insegnamenti della scuola evagriana che consideravano in modo negativo l’estasi, intesa come uscita di senno, stato di follia della mente, per raggiungere le indicazioni dei rappresentanti della mistica estatica (da Gregorio di Nissa allo Pseudo-Dionigi e anche Massimo il Confessore). Così “estasi è non solo il rapimento delle potenze dell’anima, ma anche estasi totale dalla stessa sensibilità”43. Condizione inebriante, come scrive nell’ultimo dei capitoli sulle gerarchie, quella dell’“ebbrezza estatica dello Spirito nella contemplazione, derivata dal godimento divino” nell’amore44. Amore estatico proprio dei per-
41 Gregorio il Sinaita, Catechesi sulla Trasfigurazione 13: ed. Balfour, p. 32; ed. H.-V. Beyer, p. 93. 42 Id., Capitoli con acrostico 58, p. 39. 43 Ibid. 44 Cf. Id., Capitoli sulle gerarchie 13, p. 18.
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fetti in Cristo, nella “non-conoscenza” che è distinto con chiarezza da quello “enstatico”45. Alcune considerazioni conclusive. La mistica della luce dominante, anche se non esclusiva, nel cristianesimo orientale conosce senz’altro in Gregorio il Sinaita uno dei suoi migliori interpreti. In Gregorio la luce divina che illumina la mente giunta a contemplare se stessa, non è soltanto la luce della teofania sul Sinai, il “luogo” di Dio azzurro come lo zaffiro e il colore del cielo di Evagrio Pontico e dei suoi epigoni, ma è innanzitutto quella del Cristo trasfigurato sul monte Tabor. Questa enfasi di Gregorio sulla luce della trasfigurazione ci sembra significativa dal momento che nella letteratura ascetico-spirituale del millennio precedente i riferimenti alla luce taborica erano stati del tutto occasionali e non certo predominanti: così nello Pseudo-Macario, nella Visione attribuita a Diadoco di Fotica, in Massimo il Confessore, in Simeone il Nuovo Teologo e in Niceta Stethatos. Anche il mondo dal quale il giovane Gregorio aveva preso l’avvio non offriva nuovi spunti al riguardo. Se prendiamo tre opere middlebrow della letteratura spirituale del xiii secolo, Teognosto, Melezio il Galesiota, il corpus di Giovanni Thekaras, vediamo che il tema della luce della trasfigurazione era praticamente assente. E così due opuscoli contemporanei, destinati a suscitare le censure dei critici antichi e moderni, il Metodo della santa preghiera e attenzione e il Trattato sulla custodia del cuore di Niceforo l’Athonita, anche se parlavano a profusione della visione della luce divina, erano totalmente muti al riguardo46. Ma soltanto qualche anno prima, sia pur in un ambiente ben diverso
45 Cf. Id., Capitoli con acrostico 59, p. 39; in merito cf. A. Rigo, Il monaco, pp. lxxxv-lxxxvii. 46 Anche se il secondo dei due scritti inizia con parole (chiaramente riecheggiate nell’inizio della Catechesi sulla Trasfigurazione di Gregorio il Sinaita) che ellitticamente alludono alla trasfigurazione: “Voi che desiderate ardentemente conseguire la grandiosa e divina manifestazione di luce del Salvatore nostro Gesù Cristo”, in Φιλοκαλα IV, p. 18.
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da quello di Gregorio, Teolepto di Filadelfia nella sua Catechesi sulla Trasfigurazione, pronunciata nel monastero del Philanthropos Soter il 6 agosto 1318, aveva parlato del monte (il Tabor) come del luogo della preghiera pura, dove la mente è illuminata dalla vera luce47, amplificando quanto avevano già detto Giovanni di Damasco e Niceta Stethatos. Restando nell’ambito della letteratura ascetico-spirituale vediamo che la posterità di Gregorio il Sinaita è ancora minore: una sezione dei cento Capitoli sulla purezza dell’anima del patriarca Callisto I e, infine, alcuni cenni nel Metodo e canone esatto di Callisto e Ignazio Xanthopouloi. Ma in questi scritti, più dell’insegnamento di Gregorio sono riconoscibili con chiarezza gli echi delle controversie teologiche sulla luce taborica. Se queste considerazioni valgono per l’ambito dei testi ascetico-spirituali, dobbiamo però ricordare che qui come altrove gli antecedenti di Gregorio il Sinaita sembrano essere stati altri: l’omiletica, l’esegesi, l’innografia, la letteratura mistagogica e la stessa liturgia.
47 Cf. Teolepto di Filadelfia, Catechesi sulla Trasfigurazione 2-3, in Theoleptos of Philadelphia, The Monastic Discourses, pp. 186-188, tr. it. in Teolepto di Filadelfia, Lettere e discorsi, p. 142.
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GREGORIO PALAMAS E LA SPIRITUALITÀ ATHONITA DELL’EPOCA: ESPERIENZE SOPRANNATURALI E LORO CONTESTO Ioannis Polemis*
Prima di procedere alla trattazione del nostro tema, dobbiamo chiarire il senso dell’espressione “spiritualità athonita” da noi impiegata in riferimento all’inizio del xiv secolo. Uso il termine “spiritualità” nel senso piuttosto ristretto di comunione con Dio in un modo soprannaturale. Devo avvertire il mio uditorio che l’espressione “spiritualità athonita” può essere fuorviante dal momento che non tutti gli esicasti erano monaci athoniti. Penso, comunque, che l’Athos svolse un ruolo importantissimo nella diffusione della preghiera del cuore e di tutti i fenomeni connessi (visioni soprannaturali, eccetera) nei principali centri di ciò che restava dell’impero bizantino e dunque il termine “athonita” non è così fuorviante come può sembrare a prima vista. Due sono i principali rappresentanti della cosiddetta spiritualità athonita prima di Gregorio Palamas (1296-1359), e ambedue giunsero al Monte Athos da lontano: Niceforo l’Esicasta, la cui terra
* Insegna alla facoltà di filologia del Dipartimento di filologia bizantina di Atene. Traduzione dall’originale inglese.
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d’origine era l’Italia, e Gregorio il Sinaita, che era venuto all’Athos dal monte Sinai circa una generazione dopo la morte di Niceforo. Si è riconosciuto da lungo tempo che ambedue gli autori devono molto alla spiritualità del Sinai1, che se non fu la culla
1 Niceforo imita intenzionalmente lo stile di Giovanni Climaco. Le prime parole del Discorso sulla sobrietà di Niceforo sembrano un’imitazione della Scala 4,6 di Giovanni Climaco. Scrive Niceforo: “Quanti siete protesi amorosamente a ottenere la divina illuminazione del magnifico Salvatore nostro Gesù Cristo; quanti volete ricevere nel cuore sensibilmente il fuoco iperuranio; quanti avete fretta di raggiungere con l’esperienza e la percezione sensibile la riconciliazione con Dio; quanti vi siete spossessati di tutte le cose del mondo per trovare e acquistare il tesoro nascosto nel campo dei vostri cuori (cf. Mt 13,44); quanti volete essere accesi fin d’ora dalle radiose lampade dell’anima e avete rinunciato a tutte le cose presenti; quanti volete conoscere e ricevere con scienza ed esperienza il regno dei cieli che è dentro di voi (cf. Lc 17,21), venite e vi spiegherò la scienza della vita eterna o, piuttosto, celeste, anzi il metodo senza fatica e senza sudore che non fa temere nessun errore o caduta da parte dei demoni” (La filocalia III, a cura di M. B. Artioli e M. F. Lovato, Gribaudi, Torino 1985, p. 515). E Giovanni Climaco scrive: “Voi tutti che avete iniziato a spogliarvi per entrare nello stadio del martirio spirituale; voi che volete prendere sul vostro collo il giogo di Cristo (cf. Mt 11,29); voi che vi sforzate di gettare sulle spalle di un altro il fardello; voi che vi affrettate a firmare volontariamente l’atto della vostra vendita e che in cambio volete che venga firmato l’atto della vostra liberazione; voi che sostenuti dalle mani di altri, traversate a nuoto questo vasto mare, sappiate che avete deciso di percorrere una via corta e difficile e che in essa incontrerete una sola e unica causa di sbandamento, che si chiama idiorritmia” (La scala 4,6, a cura di L. d’Ayala Valva, Qiqajon, Bose 2005, p. 119). Per quanto concerne la frase di Niceforo “venite e vi spiegherò … il metodo”, possiamo richiamare le parole di Giovanni Climaco: “Accorrete, avvicinatevi, venite e ascoltate, tutti voi che avete irritato Dio, e vi racconterò (Sal 65 [66],16)” (La scala 5,3, p. 166). Si tratta di espressioni impiegate anche da autori ascetici con carattere protrettico; cf., ad esempio, Marco il Monaco, A Nicola 12,9. L’enumerazione degli attributi dell’attenzione in Niceforo (“Attenzione è indizio chiaro di conversione; attenzione è invocazione dell’anima, odio del mondo e ascensione a Dio; attenzione è rifiuto del peccato e ricupero della virtù; attenzione è piena, indubitabile certezza del perdono dei peccati; attenzione è principio, o meglio, fondamento di contemplazione”: Niceforo il Monaco, Discorso sulla sobrietà, in La filocalia III, p. 525) ricorda la descrizione delle virtù monastiche in Giovanni Climaco, La scala 5,2, p. 165: “La penitenza è un rinnovamento del battesimo. La penitenza è un patto concluso con Dio per una seconda vita … La penitenza è la rinuncia incessante a sperare nei conforti materiali. La penitenza è un pensiero di autocondanna”; cf. ibid. 24,2, pp. 327-328: “La mitezza è una condizione stabile della mente che rimane uguale a se stessa sia negli onori che nelle umiliazioni. La mitezza significa pregare sinceramente per il prossimo quando si subiscono molestie da parte sua, senza esserne minimamente turbati. La mitezza è una roccia che emerge sul mare della collera, che dissolve tutte le onde che le si abbattono contro, senza mai esserne scossa. La mitezza è sostegno della pazienza, porta, anzi madre della ca-
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della preghiera di Gesù, rappresentò per lo meno una fase della sua trasmissione2. Va ricordato che, secondo il patriarca Callisto I, biografo di Gregorio il Sinaita, prima della venuta di Gregorio, nessuno sul Monte Athos era interessato alla preghiera esicasta nonostante la presenza di Niceforo una generazione prima3. Non sarà eccessivo, dunque, considerare Gregorio, che rese popolare l’insegnamento della preghiera di Gesù, come colui che introdusse sul Monte Athos questo metodo particolare di comunione con il soprannaturale. Non ci proponiamo in questa sede di studiare i principi essenziali della spiritualità di Gregorio il Sinaita. Questo compito è già stato svolto esaurientemente da Antonio Rigo. Vorremmo invece esaminare alcuni aspetti della diffusione della nuova teologia esicasta prima che esplodesse la controversia palamita, anche se non abbiamo la possibilità di studiare la fortuna delle opere di Gregorio il Sinaita, cosa che, come osserva Rigo, è ancora un desideratum4. Come ha giustamente osservato Kallistos Ware trentacinque anni fa, a proposito della preghiera esicasta: “Quello che per milletrecento anni fu un insegnamento segreto, nel 1340 divenne possesso condiviso … dall’insieme della comunità monastica”5. Vorremmo delineare almeno alcuni aspetti di questo processo che fu oltremodo complesso e che non può essere adeguatamente discusso in un breve spazio di tempo. Nello svolgere questo compito cercheremo di esaminare alcuni aspetti dell’influenza di Gregorio il Sinaita sulle rità, presupposto del discernimento”. Un caso analogo negli scritti di Gregorio il Sinaita è discusso da E. Hisamatsu, Gregorios Sinaites als Lehrer des Gebetes, Oros Verlag, Altenberge 1994, pp. 324-325. 2 Cf. K. Ware, “The Origins of the Jesus Prayer: Diadochus, Gaza, Sinai”, in The Study of Spirituality, a cura di C. Jones, G. Wainwright ed E. Yarnold, Spck, London 1986, p. 181. 3 Cf. I. Hausherr, Noms du Christ et voies d’oraison, Pontificio istituto orientale, Roma 1960, p. 276; A. Rigo, “Gregorio il Sinaita”, in La theologie byzantine et sa tradition II, a cura di C. G. Conticello e V. Conticello, Brepols, Turnhout 2002, pp. 48-49. 4 Cf. A. Rigo, “Gregorio il Sinaita”, p. 84. 5 Cf. K. Ware, “The Jesus Prayer in St. Gregory of Sinai”, in Eastern Churches Review 4 (1972), p. 22.
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prime opere di Palamas e, quindi, cercheremo di investigare, sempre da un punto di vista filologico, l’influenza di questa nuova spiritualità su alcuni testi che probabilmente riflettono la situazione nel periodo che precede l’inizio della controversia palamita. I testi in questione sono pochi e la loro originalità piuttosto dubbia nella maggior parte dei casi; motivo fondamentale di questa situazione è il fatto che le esperienze soprannaturali degli asceti athoniti all’inizio del xiv secolo furono rielaborate e adattate alle teorie di Gregorio Palamas dai loro biografi verso la metà dello stesso secolo. Questo era inevitabile. Raccontare la propria esperienza spirituale o quella di un altro è un compito arduo che difficilmente può essere assolto in modo adeguato; chi descrive simile esperienza è obbligato a presentarla in un modo comprensibile ai suoi lettori, adoperando le forme concettuali correnti nel suo tempo, cosa che, in ogni caso, raramente rende giustizia alla profondità dell’esperienza stessa. L’umile e laborioso compito del filologo è cercare di separare l’intelaiatura contemporanea di questa descrizione dagli elementi più originali della visione riferita dal narratore. Questo non è facile, e i risultati della nostra ricerca non sono affatto sicuri. Vorrei cominciare con un caso evidente di dipendenza di Palamas dalla spiritualità athonita. Rigo ha già indicato un caso di dipendenza diretta di Palamas dai trattati sinaitici6. Ne vorrei aggiungere un altro. Nella prima delle sue Triadi, Palamas parla di uno tra i santi più perfetti che era in grado di vedere in una visione il mondo intero in un raggio di sole: “Un altro fra i santi più perfetti vide tutti gli esseri per così dire contenuti da un raggio di questo sole intellettuale”7. Già nella rubrica di alcuni manoscritti che conservano questi trattati, il santo ano-
6 Cf. A. Rigo, “L’epistola a Menas di Gregorio Palamas e gli effetti dell’orazione”, in Cristianesimo nella storia 8/2 (1987), p. 66. 7 Gregorio Palamas, Triadi I,3,22, in Id., Atto e luce divina. Scritti filosofici e teologici, a cura di E. Perrella, Bompiani, Milano 2003, p. 409.
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nimo è correttamente identificato con Benedetto da Norcia. Cito l’importante passo della Vita di Benedetto scritta da Gregorio Magno e tradotta in greco da papa Zaccaria: “Il mondo intero, come raccolto in un unico raggio di sole, fu posto davanti ai suoi occhi”8. Palamas parla di nuovo di quell’esperienza cosmica in un altro passo della seconda Triade: Ma io so, perché sono stato iniziato dai padri e per averne io stesso ascoltati alcuni, credendo in loro, che essi hanno contemplato tali molteplicità e questo mondo totalmente sensibile non con la sensazione o con il ragionamento, ma con la capacità che è propria di un intelletto di specie divina e con la grazia, e che questa capacità mette sotto gli occhi le cose più lontane e rende presenti in modo soprannaturale quelle future9.
È significativo che in questo passaggio Palamas non specifichi chi fosse il destinatario di questa visione soprannaturale del mondo. Parla invece in generale di alcuni padri con i quali entrò in relazione e dunque poté essere informato riguardo a questo particolare insegnamento. Palamas evidenzia sia il carattere orale dell’informazione ricevuta sia, cosa di per sé evidente, quello ascetico. Palamas era un monaco athonita; è dunque ragionevole supporre che si sia imbattuto in questa particolare teoria della visione del mondo sul Monte Athos. Suppongo che Gregorio il Sinaita abbia fatto parte delle conoscenze di Palamas, l’abbia informato di questa esperienza e forse abbia discusso con lui il testo dei Dialoghi di Gregorio Magno (nel com-
8 Gregorio Magno, Dialoghi II,35,3 a cura di B. Calati, Città Nuova, Roma 2000, p. 205. 9 Gregorio Palamas, Triadi II,3,72, p. 755.
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pendio di Paolo Everghetinós10?). Se stiamo alle parole di Callisto, suo biografo, Gregorio ebbe una visione simile a quella descritta da Palamas, e, su insistenza dei suoi discepoli, la rivelò loro. Citiamo l’importante passo della biografia di Gregorio: L’uomo che è asceso spiritualmente a Dio vede l’intera creazione rifulgere come in uno specchio, come dice il grande Apostolo, se nel corpo o fuori dal corpo, non lo so (2Cor 12,2-3), fino a quando qualcuno mi interruppe costringendomi a rientrare in me stesso11.
Più tardi il Sinaita cerca di spiegare la sua visione nel modo seguente: Quando questo avviene per grazia di Cristo e per illuminazione dello Spirito, la mente radiosa si dilata nella contemplazione luminosa e, innalzatasi al di sopra di se stessa, nella misura della grazia ricevuta, vede le nature degli esseri nelle loro proporzioni e nel loro ordine in modo più chiaro e più puro, e non nel modo di coloro che si occupano della vana scienza mondana gracchiando dal ventre e componendo affermazioni false, per deliziare il pubblico, raccontando chiacchiere e ingannando, correndo dietro a ombre e non dedicandosi all’energia essenziale della natura come sarebbe conveniente12.
10 Cf. E. Lanne, “L’interprétation palamite de la vision de saint Benoît”, in Le Millénaire du Mont Athos 963-1963. É´tudes et Melanges. Actes du “Convegno internazionale di Studio” à la “Fondazione Giorgio Cini” (3-6 septembre 1963) à Venise II, Éditions de Chevetogne, Chevetogne 1964, pp. 34-38. 11 Callisto I, patriarca di Costantinopoli, Vita di Gregorio Sinaita, in Leben und Wirken unseres unter den Heiligen weilenden Vaters Gregorios des Sinaiten, a cura di H.V. Beyer, Ekaterinburg 2006, p. 134; A. Delikari, Αγιος Γρηγριος Σινατης. Η δρση
κα συµβολ του στ διδοση το! "σκητισµο! στ# Βαλκνια. Η σλαβικ µετφραση το! Β'ου του κατ# τ( "ρχαιτερο χειργραφο, Thessaloniki 2004, pp. 320-321. 12 Callisto I, patriarca di Costantinopoli, Vita di Gregorio Sinaita, p. 138; A. Delikari, Αγιος Γρηγριος Σινατης, p. 322.
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Ho l’impressione che il racconto di Callisto segua la narrazione della visione di Benedetto così come è riportata nella traduzione greca di papa Zaccaria: Per l’anima che vede il Creatore, la creazione tutta intera è ben poca cosa. E sebbene essa abbia contemplato soltanto una minima parte della luce del Creatore, tuttavia l’intero creato le appare ridotto a una misura assai piccola; è infatti la stessa luce della contemplazione a dilatare la sua interiore capacità di penetrazione, e, nella misura in cui si espande in Dio, essa è sollevata e resa superiore al mondo. C’è di più. L’anima di colui che contempla viene sollevata persino al di sopra di se stessa. Rapita nella luce di Dio e portata al di sopra di sé, essa si dilata interiormente, e guardando dall’alto comprende quanto sia angusto ciò che non avrebbe saputo vedere mentre ancora si trovava nella sua umile possibilità naturale. È quindi certo che soltanto nella luce di Dio l’uomo poté vedere quel globo di fuoco e distinguere in esso gli angeli che ritornavano in cielo. Nessuna meraviglia, dunque, se vide tutto il mondo raccolto davanti a sé, colui che, sollevato nella luce dello spirito, era già oltre il mondo13.
Il passo della Vita di Gregorio il Sinaita citato sopra rappresenta una testimonianza della spiritualità del Monte Athos prima di Palamas, oppure questo passo relativo alla visione di Gregorio rappresenta un tentativo del palamita Callisto di riconciliare la spiritualità del suo antico maestro con le dottrine del nuovo leader degli esicasti, Gregorio Palamas? Propendiamo per accogliere questo testo come insegnamento autentico del Sinaita, dal momento che si possono trovare in esso alcuni punti cruciali della sua teologia. Secondo Gregorio, quelli la 13 Gregorio Magno, Dialoghi II,35,6, p. 207. Il passo è commentato da P. Courcelle, “La vision cosmique de saint Benoît”, in Revue des É´tudes Augustiniennes 13 (1967), pp. 97-117.
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cui mente è illuminata dalla grazia divina, contemplano le nature delle cose sotto un’altra prospettiva attraverso la contemplazione divina, al pari degli studiosi che possiedono un sapere mondano ma non sono in grado di studiare il loro argomento in profondità e si limitano agli aspetti generali, dal momento che non usano come guida la natura sostanziale del loro argomento che è rivelato soltanto dalla grazia del Signore. La stessa idea emerge negli Utilissimi capitoli di Gregorio: È retore, come quelli che sono realmente sapienti nel parlare, colui che abbracciando in visione unitaria gli esseri come un corpo solo mediante la scienza generale … ne tratta non solo con un semplice discorso, come quelli di fuori, facendole vedere agli altri, ma con capacità di illuminare anche altri in base a ciò che gli è stato mostrato in Spirito con gli esseri oggetto di contemplazione14.
Callisto sembra essere stato fedele al suo maestro. Vi è un’altra testimonianza che potrebbe essere utile in vista di un ulteriore chiarimento delle relazioni di Palamas con Gregorio il Sinaita; si tratta di una questione piuttosto spinosa che lascia perplessi la maggior parte degli studiosi, che non sono in grado di decidere se i due personaggi in questione si conobbero, basandosi soltanto sulle scarse testimonianze delle rispettive Vite. Palamas sembra dipendere direttamente da Gregorio il Sinaita nel capitolo 62 della sua famosa lettera Alla venerabilissima monaca Xeni. Secondo Palamas, chi ha purificato la sua anima è in grado di vedere l’intima essenza delle cose create e di scorgere eventi futuri e passati come se scorressero davanti ai suoi occhi:
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Gregorio il Sinaita, Utilissimi capitoli 127, in La filocalia III, p. 566.
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Di qui la Parola che chiarisce le ragioni degli enti e che svela da se stessa, per la sua purezza, i misteri della natura, attraverso i quali, in termini di analogia, da quanti ascoltano fedelmente ciò che è inteso viene tratto alla comprensione delle cose superiori alla natura … E la cosa più grande è che lo scopo di quei beati non verte su nulla di tutto ciò, ma è come se qualcuno guardasse un raggio di sole e percepisse le particelle nell’aria, anche se non era questo lo scopo che si prefiggeva, e così essi si familiarizzano puramente con i raggi divini, presso i quali è per natura la rivelazione di tutte le cose, non solo di quelle che sono o anche sono avvenute, ma pure di quelle che saranno poi, e una meta secondaria della via viene a essere nel modo più vero la conoscenza di queste cose, in analogia alla purezza15.
Gregorio il Sinaita scrive negli Utilissimi capitoli: È retore divino tra realtà divine chi distingue gli esseri che propriamente sono dagli altri esseri o dai non-esseri; colui che mostra le ragioni di quelli in base a questi, e vede in base a questi le ragioni di quelli in modo pienamente ispirato; e vede l’intelligibile e invisibile in base al sensibile e visibile; e confronta il mondo sensibile e visibile in base a quello invisibile e non sensibile, vedendo il visibile come immagine dell’invisibile, e l’invisibile come archetipo del visibile. È stato detto che i tipi sono stati prodotti prima di ciò che non è foggiato su un tipo, e le forme prima di ciò che è informe, cosicché si manifesta spiritualmente attraverso quello questo, e attraverso questo quello, e in entrambi chiaramente si vede l’altro e si manifesta per la parola della verità: non per finge-
15 Gregorio Palamas, Alla venerabilissima monaca Xeni 62, in Id., Che cos’è l’ortodossia. Capitoli, scritti ascetici, lettere, omelie, a cura di E. Perrella, Bompiani, Milano 2006, p. 295; il passo, che si trova anche in Gregorio Palamas, Confutazione di Acindino VII,40, fu inserito da Filoteo Kokkinos, nel suo Discorso encomiastico sulla vita del padre nostro tra i santi Gregorio Palamas.
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re, con discorsi anagogici o allegorici, la conoscenza che risplende come sole di verità, ma chiarendo con scienza e potenza spirituali le ragioni di verità di entrambi e mostrandole in modo pienamente significativo16.
Più avanti egli afferma che vi sono otto contemplazioni raccomandate al monaco, una delle quali si riferisce alle cose future e passate: Delle otto contemplazioni capitali diciamo che la prima è quella relativa a Dio … La terza è la contemplazione della costituzione degli esseri … Quattro di esse appartengono a cose passate e già avvenute; quattro, a cose future e non ancora apparse17.
Vi sono alcune affinità testuali tra il passo di Palamas e quelli di Gregorio il Sinaita; la più importante è data dalla ripetizione del participio diatranoûnta/diatranôn. Naturalmente l’idea che le essenze degli esseri sono rivelate a chi si dedica alla contemplazione è antica18, ma la possibilità che Palamas avesse di16
Gregorio il Sinaita, Utilissimi capitoli 127, pp. 566-567. Ibid. 130, p. 569. 18 Si veda, ad esempio, Evagrio Pontico, Discorso sulla preghiera 80 (sotto il nome di Nilo): “Se preghi veramente, troverai piena certezza e gli angeli ti accompagneranno come Daniele, e ti illumineranno sulle ragioni degli esseri” (La filocalia I, a cura di M. B. Artioli e M. F. Lovato, Gribaudi, Torino 1982, p. 282). Si veda anche Niceta Stethatos, Vita di Simeone il Nuovo Teologo 4,29: “Avendo penetrato con gli occhi della contemplazione la natura degli esseri, conobbe le loro ragioni attraverso le quali ricevevano il movimento dall’alto e lo Spirito sciolse la sua lingua” (Vie de Syméon le Nouveau Théologien par Nicetas Stethatos, a cura di I. Hausherr, Pontificio istituto orientale, Roma 1928, p. 40). Questa idea è ripetuta da Niceta Stethatos nella sua prefazione agli Inni di Simeone: “Chi vuole piegarsi sugli scritti dei teologi … deve dapprima essere purificato e illuminato, deve essere rischiarato dallo Spirito e contemplare tutta la creazione con lo sguardo di una mente pura, imparare ed esplorare in precedenza le sue ragioni e i suoi movimenti, lucidamente … poi, con la bocca aperta deve aspirare con potenza la grazia dello Spirito” (Syméon le Nouveau Théologien, Hymnes I, a cura di J. Koder, SC 156, Cerf, Paris 1969, p. 108). Stethatos si basa qui sulla Catechesi 14 di Simeone: “Di nuovo si purifica … e ormai non guarda più come 17
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nanzi a sé il testo del Sinaita non può essere esclusa, specialmente se teniamo a mente la somiglianza tra il passo delle Triadi e il testo della biografia di Callisto. Occorre osservare, comunque, che l’idea della visione cosmica di cui gode la mente purificata non come risultato di una conoscenza mondana, ma come risultato della sua illuminazione a opera della luce divina, appare nella famosa Catechesi 16 di Simeone il Nuovo Teologo, catechesi che ha un carattere autobiografico. Simeone descrive in questi termini la sua esperienza: La luce mi riveste, mi appare come un astro e nessuno la può contenere; lampeggia come sole e io scorgo in essa racchiusa la creazione; mi mostra tutto ciò che è in essa19.
È ragionevole supporre che gli asceti interessati a visioni spirituali e a esperienze soprannaturali, e tra questi Gregorio, trovassero nelle opere di Simeone un ampio repertorio di espressioni mistiche e di immagini che potevano essere usate per descrivere le loro esperienze. Non so se Gregorio il Sinaita conoscesse le opere di Simeone il Nuovo Teologo, come le conosceva Palamas, benché si astenesse dal citarle direttamente20. È possibile, in ogni caso, che la visione cosmica del Sinaita, descritta dal suo disce-
un semplice uomo il sensibile sensibilmente ma, divenuto più che uomo, considera le cose sensibili spiritualmente e come icone delle cose invisibili … Così dunque un tale uomo è anche istruito da Dio, che abita in lui, riguardo alle cose future e a quelle presenti, non con parole, ma in opera, esperienza e realtà” (Simeone il Nuovo Teologo, Catechesi 14, in Id., Le catechesi, a cura di U. Neri, Città Nuova, Roma 1995, pp. 293-295). L’affinità con Gregorio Palamas e Gregorio il Sinaita è indubbia. 19 Simeone il Nuovo Teologo, Catechesi 16, p. 310. Cf. inoltre B. Krivochéine, Dans la lumière du Christ. Saint Syméon le Nouveau Théologien. Vie, spiritualité, doctrine, Éditions de Chevetogne, Chevetogne 1980, pp. 229-255. La visione degli esseri ha un carattere completamente spirituale secondo Simeone; cf. W. Völker, Praxis und Theoria bei Symeon dem Neuen Theologen. Ein Beitrag zur byzantinischen Mystik, Steiner, Wiesbaden 1974, p. 313. 20 Cf. I. Alfeyev, Symeon the New Theologian and Orthodox Tradition, Oxford University Press, Oxford 2000, p. 277.
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polo Callisto, fosse il risultato di molteplici influenze che confluirono nel suo pensiero. Va anche notato che Clemente, un discepolo di Gregorio il Sinaita, quando era ancora laico, ebbe un’inattesa visione della luce divina che presenta evidenti somiglianze con le visioni di Simeone. La luce vista da Clemente, dopo averlo colmato di gioia, scompare a poco a poco risalendo in cielo21. Nella Catechesi 16, Simeone descrive la scomparsa della luce come una graduale e dolce contrazione: essa “cominciava dolcemente a scemare e come a contrarsi”22. Anche se la teoria di Palamas concernente la visione del passato e la predizione del futuro durante la contemplazione mistica non è dovuta a una diretta influenza di Gregorio il Sinaita, possiamo supporre, in ogni caso, che fosse una teoria diffusa sul Monte Athos tra quei monaci semplici che praticavano la preghiera di Gesù all’inizio del xiv secolo. Nel trattato antipalamita inedito di Giorgio di Pelagonia, che registra le discussioni di Barlaam con quei monaci e non è privo di un certo interesse, come vedremo, i monaci spiegano a Barlaam che, dopo che la mente è ritornata nel cuore, il mistico può vedere realtà passate e future: “Chiunque, quando sente che la mente ha ripreso la primitiva condizione, sarà colmo dello spirito divino, vedrà sia le realtà presenti sia le passate e nulla delle cose future resterà per lui imprevedibile”23. Possiamo trovare un’eco diretta delle opere di Simeone il Nuovo Teologo nei trattati di Palamas? Quest’ultimo è riluttante a parlare delle proprie esperienze soprannaturali. Anche se descrive le esperienze spirituali dei monaci suoi compagni, penso che non nasconda mai se stesso dietro tali esperienze. Vi è però una vivace descrizione della visione della luce divina in un 21 “Egli vide quella luce che dolcemente, a poco a poco, si ritirava nel cielo; ormai di nuovo dominava la notte” (Callisto I, patriarca di Costantinopoli, Vita di Gregorio Sinaita, p. 172; A. Delikari, JΑγιος Γρηγριος . ΣιναLτης, p. 332). 22 Simeone il Nuovo Teologo, Catechesi 16, p. 309. Cf. anche B. Krivochéine, Dans la lumière, p. 223. 23 Manoscritto Ambrosianus gr. 223, f. 113.
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passaggio misterioso di Palamas, scritto probabilmente sotto l’influenza di Simeone il Nuovo Teologo, come vedremo. Mi riferisco a un testo curioso citato dalla maggior parte degli oppositori di Palamas; gran parte di esso non è reperibile in alcuna delle sue opere pubblicate24. Cito il testo come è riportato dall’autore antipalamita Teodoro Dexios, dove è narrato un dialogo tra la luce divina e il monaco che l’ha ricevuta: A volte la luce si riversa attorno alle realtà per natura intelligibili come un raggio, rendendole visibili a chi è giudicato degno di vederle, senza proferire suono alcuno; altre volte parla chiaramente a chi la vede con parole indicibili e inizia apertamente a dire: “Io sono, non temere! Io sono. La divinità, per la quale i deificati sono in comunione con Dio, non è separata da me, ma sono io a essere presente e a compiere la deificazione. Non vedi che ogni cosa è in me e che io sono prima di tutto? Ma attraverso tutto vengo in te, per te divento anche visibile”25.
Questo testo può essere confrontato con un passo dei Trattati etici di Simeone il Nuovo Teologo. Il passo in questione proviene da un lungo testo in cui sono descritte le caratteristiche della mente unita a Dio: Questo buon amante dell’esichia sia come quelli che restavano all’interno, con le porte chiuse per timore dei giudei (cf. Gv 20,19) e che vedendo entrare Gesù, o piuttosto, vedendolo presente in se stesso come è presente dappertutto … lo ac-
24 Cf. Nikephoros Gregoras, Antirrhetica, a cura di H.-V. Beyer, Österreichische Akademie der Wissenschaften, Wien 1976, p. 242, n. 2; A. Rigo, Monaci esicasti e monaci bogomili. Le accuse di messalianesimo e bogomilismo rivolte agli esicasti e il problema dei rapporti tra esicasmo e bogomilismo, Olschki, Firenze 1989, pp. 96-97. 25 Teodoro Dexios, Appello 38,67-76, in Id., Opera omnia, a cura di I. Polemis, CCSG 55, Brepols, Turnhout 2003, pp. 96-97.
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colga con timore e tremore … perché non si indignerà di essere così ricercato, ma, gradendo questo lodevole timore, dirà press’a poco queste parole: “Perché sei turbato e perché dei pensieri salgono al tuo cuore? Pace a te. Io sono, non temere (Mt 14,27). Vedi la gloria della divinità, tocca e riconosci che sono io (cf. Lc 24,39). Gusta e vedi come colui che è tenebra e che si presenta all’immaginazione e, non in verità, sotto forma di angelo di luce (cf. 2Cor 11,14), non può avere né produrre in te bontà, dolcezza, gioia, libertà, stato di pace, percezione intelligibile, illuminazione dell’anima come vedi me intento a compiere in te tali cose”26 .
L’antica formula apocalittica “Io sono”27 è comune a entrambi i testi, combinata naturalmente con il noto passo scritturistico di Matteo. Anche se Palamas non dipende direttamente da Simeone il Nuovo Teologo, è certo che il passo in questione testimonia una spiritualità monastica simile alla sua. Palamas dedica molte pagine delle sue Triadi alla discussione della preghiera interiore, difendendo la tecnica psicosomatica raccomandata da Niceforo l’Athonita dalle accuse di Barlaam il Calabro. Alcuni argomenti impiegati da Palamas o dai suoi oppositori sono sparsi in diversi testi di questo periodo, come ha mostrato Antonio Rigo28. Alcuni di essi non si trovano in nessun altro testo contemporaneo. È ragionevole supporre che in 26 Simeone il Nuovo Teologo, Trattati teologici ed etici 15,74-93, in Id., Traités théologiques et éthiques II, a cura di J. Darrouzès, SC 129, Cerf, Paris 1967, p. 450. Il motivo del dialogo con la luce, che è Cristo stesso, è discusso, per quanto riguarda Simeone, da W. Völker, Praxis, pp. 325; 328, n. 4; B. Krivochéine, Dans la lumière, pp. 229-256. K. Holl, Enthusiasmus und Bussgewalt beim griechischen Mönchtum. Eine Studie zu Symeon dem Neuen Theologen, Hinrichs, Hildesheim 1969, pp. 42-43, che è probabilmente il primo a evidenziare questo tema in Simeone. Vi sono antichi esempi di simile dialogo (cf. W. Völker, Praxis, p. 356), ma negli scritti di Simeone esso acquista un carattere più distintivo. 27 Cf. E. Norden, Agnostos Theos. Untersuchungen zur Formengeschichte religioser Rede, Teubner, Stuttgart-Leipzig 1996, p. 186. 28 Cf. A. Rigo, Monaci esicasti, pp. 39-103.
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questi casi Palamas dipenda dal vasto repertorio della tradizione orale del Monte Athos, in cui era discusso il problema dei fondamenti biblici e patristici delle teorie di Niceforo l’Athonita. Vediamone un esempio. All’inizio della prima delle Triadi, Palamas tenta di dimostrare che la preghiera del cuore era raccomandata già dai profeti dell’Antico Testamento. Noi pensiamo che un intelletto cattivo stia nei pensieri sul corpo, ma che nel corpo non vi sia niente di male, perché il corpo non è affatto malvagio. Perciò in David ciascuno di coloro che per tutta la vita si sono dedicati a Dio grida a Dio: La mia anima ha sete di te ogni volta che la mia carne anela a te (Sal 62 [63],1), il mio cuore e la mia carne hanno goduto del Dio vivente (Sal 83 [84],3), e in Isaia: Il mio ventre risuonerà come una cetra e le mie viscere come mura di bronzo che tu hai rinnovato (Is 16,11), e per la paura di te, Signore, abbiamo preso nel ventre lo Spirito di te che dai salvezza (Is 26,18), confidando nel quale non cadremo, mentre invece cadranno quelli che parlano dalla terra e che mentono dicendo che le parole e le vite sovracelesti sono come quelle terrene29.
I passi biblici citati da Palamas a sostegno della tecnica psicosomatica della preghiera interiore non si trovano né in Niceforo l’Athonita né nel Metodo dello Pseudo-Simeone. Uno di essi è però citato da Giorgio di Pelagonia, l’autore ignoto probabilmente della seconda metà del xiv secolo che abbiamo già ricordato, nel suo inedito trattato antipalamita dove viene riportato un dialogo di Barlaam il Calabro con alcuni monaci che praticavano la preghiera del cuore. Citiamo qui un passo di questo trattato che potrebbe risultare di qualche interesse nel chiarire la prima fase delle controversie palamite:
29
Gregorio Palamas, Triadi I,2, pp. 333-335.
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Questa è la lotta più grande: non appena cominci a lottare, quando la mente, fortificata dalla preghiera, cerca di entrare nel cuore, i demoni si oppongono e la respingono violentemente al suo primo tentativo di entrare e di invaderlo. Lottando in tal modo, se resisterai saldamente e sarai perseverante nella lotta, subito sperimenterai la grazia divina che si potrebbe dire è intelligibile più che sensibile. Dapprima la tua lingua gusterà un’indicibile dolcezza, più dolce del miele, subito dopo insieme a essa la tua gola; quindi, se non ti inorgoglirai, dice, del godimento di questo dono intelligibile – quelli che non capiscono niente se non ciò che è sensibile chiamano infatti intelligibili queste cose –, una goccia più dolce del miele si riverserà dal tuo capo sul tuo cuore; essa scaccerà lo sciame dei demoni e ristabilirà la mente nel suo luogo e ti avvolgerà di luce purissima cosicché non avrai più bisogno della luce di quest’astro che è presso di noi il più splendente di tutti – voglio dire il sole – e ancor meno avrai bisogno del fuoco che la maggior parte degli uomini usano durante la notte. È difficile esprimere a parole di quale gioia sarai colmo, ma conoscerai per esperienza un’immensa gioia se sconfiggerai i demoni malvagi. Inoltre, esaminando e scrutando il tuo cuore, troverai che è gravido di Spirito santo. A quelli che ignorano il significato della Scrittura, questo non apparirà degno di fede, ma tu non mancherai di fede perché hai compreso la parola profetica che dice: Per il tuo timore, Signore, abbiamo concepito, abbiamo provato le doglie e abbiamo partorito uno spirito di salvezza (Is 26,18). “Ma – dicono – sussultando sentirai lo Spirito nel tuo cuore e potrai avere una testimonianza anche di questo, prima di averlo sperimentato, se ascolti quello che è detto nei canti sacri: ‘Ogni abitante della terra esulti nello spirito’”30.
30 Manoscritto Ambrosianus gr. 223, f. 111r-v. La stessa informazione è ripetuta più avanti (f. 113): “Dopo questo dall’alto, come abbiamo detto, una qualche goccia riversandosi nel tuo cuore, scaccerà la fitta schiera malvagia dei demoni al modo di acqua fredda versata su pece ardente”. Sull’autore cf. PLP II, pp. 201-202, nr. 4117.
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Sarebbe facile rigettare l’esortazione su menzionata, rivolta dagli esicasti a Barlaam, come il frutto dell’immaginazione dell’autore che l’avrebbe creata sulla base di alcuni testi famosi di quest’epoca31. Tuttavia, noi non la respingiamo completamente come un commento tardo e privo di valore sulla prima fase della controversia relativa alla preghiera del cuore. Va notato che Giorgio di Pelagonia conserva alcune informazioni che non si trovano in altri testi32. Il passo di Isaia citato dagli esicasti nella loro discussione con Barlaam, secondo Giorgio, si trova solo nel testo sopra menzionato e in una delle lettere perdute di Palamas33, mentre, a mia conoscenza, l’irmós della nona ode del canone della Dormizione della Vergine Maria, composto da Giovanni di Damasco34, non è citato da nessun altro autore coinvolto nella controversia palamita. È degno di nota che l’immagine della dolcezza che discende nel cuore dell’esicasta attraverso la sua gola è presa dal Metodo dello Pseudo-Simeone:
31 Si confronti, per esempio, il passo della lettera di Barlaam a Ignazio, analizzato da J. Meyendorff, “Le thème du ‘retour en soi’ dans la doctrine palamite du xive siècle”, in Revue d’Histoire des Religions 145 (1954), pp. 193-195. La lettera è ora pubblicata da A. Fyrigos, Dalla controversia palamitica alla polemica esicastica, Antonianum, Roma 2005, pp. 386-388, che raccoglie numerose testimonianze rilevanti nel suo apparatus fontium. Si veda anche la ricerca fondamentale di A. Rigo, “Le tecniche d’orazione esicastica e le potenze dell’anima in alcuni testi ascetici bizantini”, in Rivista di Studi Bizantini e Slavi 4 (1984), pp. 75-115. 32 Cf. Teodoro Dexios, Opera omnia, p. xxxi, n. 65, dove si trovano riferimenti all’intercessione a favore di Palamas di un certo Vounitis, parente di Kalekas e amico di Acindino (non menzionata in nessun’altra fonte), l’appello di Barlaam all’imperatore (f. 120v: “Invoco Cesare”), fatto ricordato in termini identici da Giuseppe Kalothetos (cf. Giuseppe Kalothetos, Συγγρμματα, a cura di D. G. Tsamis, Thessaloniki 1980, p. 239: “Ma quello rifiuta; appellatosi all’imperatore, va dall’imperatore”), e Barlaam corre a Didymoteichon, dove soggiornava l’imperatore al ritorno da Akarnania, cosa che non è ricordata da nessun altro autore. 33 La lettera a Menas è citata da numerosi autori antipalamiti; si veda, ad esempio, la citazione dell’importante passo nel trattato di Nifone, Contro Palamas, PG 154,840D. Si veda anche supra, p. 296, n. 6. 34 Cf. Anthologhion di tutto l’anno IV, a cura di M. B. Artioli, Lipa, Roma 2000, p. 922.
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A quelli di voi che ignorano tale pratica, essa può sembrare molto aspra e difficoltosa ed è veramente laboriosa, soffocante e penosa, non solo per i principianti ma anche per quelli che, pur avendone una solida esperienza, non hanno ancora ricevuto la gioia e non l’hanno inviata nel profondo del cuore; quelli invece che hanno provato tale gioia e tale dolcezza, che attraverso la gola passa nel cuore, possono anch’essi gridare con Paolo: Chi ci separerà (Rm 8,35)35…
La teoria che i demoni dimorano nel cuore dell’uomo e possono essere espulsi solo dopo una preghiera intensa, compare in un testo di Palamas che probabilmente riprende un passo di un trattato perduto di Barlaam, come sostiene Rigo36, mentre appare in una forma meno aggressiva nel Metodo dello Pseudo-Simeone37 e in Gregorio il Sinaita38. Si tratta di una prova importante che, a torto o a ragione, collega gli esicasti dell’inizio del xiv secolo con i messaliani e/o con i bogomili39. La possibilità che Giorgio di Pelagonia avesse davanti a sé uno o più trattati perduti di Barlaam non può essere completamente scartata. Se la nostra ipotesi è vera, Giorgio ci fornisce un’informazione preziosa, collegando Palamas con la spiritualità dei monaci dell’Athos, prima che scoppiasse la controversia con Barlaam. Va notato che la perdita dei primi trattati di Barlaam relativi alla preghiera del cuore è grave; sebbene ostile ai monaci, egli avrebbe potuto offrirci una visione della loro spiritualità migliore di quella di Palamas, che è sempre preoccupato di difenderli. 35 I. Hausherr, La méthode d’oraison hésychaste, Pontificio istituto orientale, Roma 1927, p. 160. 36 Cf. A. Rigo, Monaci esicasti, p. 58. 37 Cf. I. Hausherr, La méthode, pp. 165, 169; cf. anche A. Rigo, “Gregorio il Sinaita”, pp. 98-99. 38 Cf. Gregorio il Sinaita, L’esichia e i due modi della preghiera in quindici capitoli, in La filocalia III, p. 590: “Perché gli spiriti impuri nel cuore sono scossi dal nome tremendo e digrignano i denti volendo distruggere chi li flagella”. 39 Cf. A. Rigo, Monaci esicasti, pp. 58-64.
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Le prove concernenti l’influenza di Simeone il Nuovo Teologo, sia diretta che indiretta, sui monaci del Monte Athos all’inizio del xiv secolo, cui abbiamo fatto riferimento, sono scarse. C’è però un testo che, sebbene scritto verso la metà del secolo, probabilmente riflette con precisione le primitive condizioni del monachesimo athonita e della sua spiritualità. Mi riferisco alla Vita di Saba (monaco di Vatopedi) a cura di Filoteo Kokkinos, nella quale si possono facilmente reperire alcuni collegamenti, non necessariamente diretti, con le opere di Simeone il Nuovo Teologo. Saba era un asceta della generazione di Palamas che svolse un ruolo modesto nelle controversie palamite; preferì indubbiamente la solitudine del suo eremo al rumore delle dispute dottrinali. Al pari di Gregorio il Sinaita era un monaco-viaggiatore, che aveva visitato anche la Palestina. La sua Vita è un documento interessante, che ci offre una vivace raffigurazione del monachesimo bizantino dell’inizio del xiv secolo. Filoteo descrive una visione di Saba in Palestina, raccontandola in parte in prima persona, presumibilmente riproducendo le discussioni di Saba con alcuni suoi amici o con l’autore stesso40. Ne proporrò una breve sintesi fermandomi a commentare alcuni aspetti cruciali di questa particolare esperienza spirituale. Mentre era in Palestina, Saba fu gettato dai demoni in un profondo burrone,
40 Filoteo Kokkinos, Vita di Saba 47: “Come disse egli stesso ad alcuni dei suoi discepoli e amici”, in Id., Αγιολογικ Aργα, a cura di D. G. Tsamis, Thessaloniki 1985, p. 249. Cf. anche ibid. 46, p. 247: “Le cose che era necessario dire della rivelazione di questi santi misteri e soprattutto della loro descrizione e per qual fine lo Spirito di Dio mosse sia quello a manifestarle, ed egli in seguito mosse noi a tempo opportuno, mi sembra di averle dette a sufficienza, senza distanziarmi dal suo pensiero, ma dicendo le medesime cose sia delle leggi riguardo a esse sia delle regole dello spirito”. La possibilità che Saba abbia composto un testo riguardante la propria esperienza personale non può non essere preso in considerazione, specialmente per il fatto che il genitivo syngraphês non sembra indicare il testo di Filoteo Kokkinos. Ciò è però contraddetto dal seguente passo: “A tempo opportuno egli fu mosso dalla grazia a dichiarare … Era necessario infatti che vi fosse solo la tua voce per questo racconto” (ibid. 45, p. 247).
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ma fu salvato miracolosamente dagli angeli e rimase là per quaranta giorni41, senza ricevere cibo, volgendo la sua mente a Dio: Poggiava i piedi a terra, le mani e gli occhi li volgeva al cielo … Stette là per quaranta giorni senza toccare affatto cibo né bevanda, ritto, immobile, senza dormire, come una statua fatta di materia insensibile o, come potrebbe dire qualcuno, come un essere di natura immateriale42.
Più avanti Filoteo annota: Era in estasi; le mani e gli occhi erano incessantemente rivolti al cielo, tanto che non sembrava un uomo, ma una statua di un uomo, fatta di materia priva di vita43.
È interessante che la stessa immagine dell’uomo in preghiera come una statua vivente appaia in un passo autobiografico della Catechesi 22 di Simeone il Nuovo Teologo: E siccome la sua preghiera si allungava ogni giorno, egli resisteva fino a mezzanotte senza mai rilassarsi durante la preghiera o impigrirsi o muovere qualche membro del suo corpo, fino neppure a voltare o sollevare un occhio: se ne stava immobile come una colonna o come un essere incorporeo44.
41 Non mancano i precedenti; cf. I. Alfeyev, Symeon, p. 242; A. Guillaumont, “Les visions mystiques dans le monachisme oriéntal chrétien”, in Aux origines du monachisme chrétien. Pour une phénoménologie du monachisme, Abbaye de Bellefontaine, Bégrolles-en-Mauges 1979, pp. 138-139. 42 Filoteo Kokkinos, Vita di Saba 43, p. 239. 43 Ibid. 46, p. 247. Cf. anche il seguente passo di Giovanni Climaco: “Chi pensa, con profondo sentimento del cuore, di trovarsi alla presenza di Dio, mentre è in preghiera, resterà immobile come una colonna” (Giovanni Climaco, La scala 18,4, p. 292). 44 Simeone il Nuovo Teologo, Catechesi 22, p. 361.
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Dopo tre giorni, Saba ebbe un’esperienza soprannaturale. Ebbe l’impressione di essere trasportato sopra i cieli, dove fu circondato da un mare di luce: Mi parve di essere rapito indicibilmente sopra i cieli. E mi sembrava che la luce fosse riversata come un oceano sconfinato stendendosi su tutta la vastità del cielo e che tutto fosse sommerso e risplendesse per la grandezza di questo fulgore soprannaturale45.
Il motivo del rapimento, assolutamente comune nella mistica cristiana a partire da Paolo, appare anche in Simeone il Nuovo Teologo, che distingue tra la visione interiore all’anima e quella esteriore46. In Inni 51 scrive: “Mi hai strappato al mondo e, misteriosamente divenuto uno con me, mi hai subito stabilito nel cielo”47. La stessa idea appare nella Catechesi 16: “Ed ecco brillare in maniera intelligibile una grande luce su di me, che attrasse a sé interamente la mia mente … fui come in estasi”48. Il paragone con il mare lo si trova anche in Capitoli 2,11, di Simeone: “Colui che è stato giudicato degno di fissare il suo sguardo, attraverso la contemplazione, sull’oceano infinito della gloria di Dio e di vederlo in maniera intelligibile…”49. Simeone nei passi 45 Filoteo Kokkinos, Vita di Saba 44, p. 240. Si veda un passo simile nella coeva Vita di Macario Makris 43,1-22. 46 Cf. B. Krivochéine, Dans la lumière, p. 228. Vi è un’osservazione molto interessante in Palamas: “La maggior parte delle sante visioni e rivelazioni che si verificano misticamente nei detti sacri avvengono e si manifestano nella luce e attraverso la luce” (Gregorio Palamas, Triadi II,3,12, p. 639) 47 Simeone il Nuovo Teologo, Inni 51,56-57, in Id., Hymnes III, a cura di J. Koder, SC 196, Cerf, Paris 1973, p. 188. 48 Id., Catechesi 16, p. 308. 49 Id., Capitoli teologici, gnostici e pratici 2,11, in Id., Chapitres théologiques, gnostiques, pratiques, a cura di J. Darrouzès, SC 51 bis, Cerf, Paris 1980, p. 108. Cf. anche I. Alfeyev, Symeon, p. 232, che commenta una visione simile di Esichio il Sinaita. Lo stesso motivo appare in Gregorio Palamas, Triadi III,1,33, p. 831: “Alcuni santi … videro quella luce come un mare sconfinato”. Potrebbe riferirsi non solo alle esperienze dei santi dei tempi passati, ma anche a quelle “esicaste” dei suoi tempi.
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autobiografici dei suoi scritti impiega il motivo del trasporto del mistico al di sopra dei cieli: “Quando lo vogliamo, saliamo al di sopra dei cieli”50. In Inni 13 nota ancora una volta che, unito a Cristo, fu trasportato al di sopra dei cieli: “E formando una sola cosa con lui, scavalco i cieli”51. La stessa esperienza è descritta in Inni 40: “La luce si avvicina a me e mi trasporta al di sopra di tutto”52. Naturalmente il tema del rapimento per mezzo della luce divina lo troviamo nei testi più antichi53. Gioia e dolcezza salgono nell’intimo di Saba: “Era tutto dolcezza, come si è detto, tutto desiderio e anelito, bellezza indicibile, immortalità, gioia, esultanza indicibile”54. Questa descrizione, naturalmente, è comune a molte esperienze estatiche e non necessiterebbe di un commento particolare, se non fosse stata ampiamente dibattuta nella prima fase delle controversie palamite, quale risultato delle affermazioni di alcuni esicasti influenzati da Niceforo l’Athonita, dal Metodo dello Pseudo-Simeone, di cui abbiamo citato più sopra un passo, e da Gregorio il Sinaita55. Anche Simeone il Nuovo Teologo insisteva su questo punto56. Saba dimentica ogni cosa, non è nemmeno cosciente del trascorrere del tempo. Successivamente una colonna di luce scende su di lui e quindi è riportato sulla terra:
50
Simeone il Nuovo Teologo, Capitoli 3,33, p. 138. Id., Inni 13,68, in Id., Hymnes I, p. 262. Si tratta di un antico motivo apocalittico; cf. A.-J. Festugière, La Révélation d’Hermès Trismégiste, I. L’astrologie et les sciences occultes, Les Belles Lettres, Paris 1950, pp. 313-314. 52 Simeone il Nuovo Teologo, Inni 40,13-14, in Id., Hymnes II, a cura di J. Koder, SC 174, Cerf, Paris 1971, p. 486. Lo stesso motivo appare in Gregorio Palamas, Triadi II,3,9, p. 633: “La luce di cui parliamo … talvolta fa levare al di sopra del corpo o, non senza il corpo, porta anche a un’altezza indicibile”. 53 Cf. infra, n. 56. 54 Filoteo Kokkinos, Vita di Saba 44, p. 241. 55 Cf. A. Rigo, Monaci esicasti, pp. 54-55, nn. 78-79; K. Ware, “The Jesus Prayer”, p. 19; E. Hisamatsu, Gregorios Sinaites, pp. 412-418. 56 Alfeev osserva che c’è un punto di contatto tra Simeone il Nuovo Teologo, lo Pseudo-Macario ed Efrem greco (cf. Symeon, pp. 229, 236). Cf. anche W. Völker, Praxis, p. 356, n. 2. 51
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Nel frattempo si vide realmente una colonna di luce – infatti pensava ancora di essere sulla terra con il corpo – , una specie di flusso e di raggio di quella luce divina che scendeva su di lui e insieme a questa luce scendeva anche un angelo che faceva comprendere la visione, come sappiamo del divino Gabriele nel libro di Daniele (cf. Dn 8,16; 9,21-22)57.
Il motivo della colonna appare anche negli scritti di Simeone il Nuovo Teologo. In Inni 25 leggiamo: “E in mezzo una colonna di luce fendette tutta l’aria e dai cieli passò fino a me, misero”58, mentre la visione dell’angelo interprete, che viene visto in mezzo alla luce che scendeva su Saba, chiaro motivo apocalittico59, presenta somiglianze con la visione del suo padre spirituale descritto da Simeone in una sua catechesi: Poi volse verso il cielo la sua mente e vide un’altra luce, più chiara ancora di quella che gli era vicino; e gli apparve – cosa straordinaria – in piedi vicino a quella luce, quel santo di cui si è detto: il vegliardo uguale a un angelo, che gli aveva consegnato il comando e il libro60.
Poi Filoteo continua descrivendo il dialogo di Saba con l’angelo. Il testo di Palamas che abbiamo riportato e discusso sopra, concernente un dialogo con la luce divina, e questa parte della descrizione della visione di Saba a opera di Filoteo Kokkinos, condividono un retroterra comune, che sembra essere quello delle espe-
57
Filoteo Kokkinos, Vita di Saba 44, p. 241. Simeone il Nuovo Teologo, Inni 25,13-14, in Id. Hymnes II, p. 256. 59 Cf. A. Golitzin, “‘Earthly Angels and Heavenly Men’: The Old Testament Pseudepigrapha, Niketas Stethatos, and the Tradition of the ‘Interiorized Apocalyptic’ in Eastern Christian Ascetical and Mystical Literature”, in Dumbarton Oaks Papers 55 (2001), p. 138. Per esempi più antichi cf. A.-J. Festugière, La Révélation I, p. 318. 60 Simeone il Nuovo Teologo, Catechesi 22, p. 361; cf. anche I. Alfeyev, Symeon, pp. 234-235. 58
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rienze estatiche di Simeone il quale offrì a entrambi gli scrittori non soltanto l’impianto generale delle loro descrizioni, ma anche una serie di espressioni adatte ai loro intenti. Questo diventerà più chiaro se proseguiamo nella lettura della visione di Saba, che ci rivelerà altri punti di contatto con le esperienze di Simeone il Nuovo Teologo. Saba dimentica completamente il proprio corpo: Provai una gioia ininterrotta per questa luce … Tutto illuminato dalla luce discesa su di me insieme all’angelo divino che mi faceva da guida mi parve di non essere avvolto dal corpo oppure di essere sì avvolto ma da un corpo lievissimo, aereo e luminoso, così che niente poteva impedire la naturale purezza della mente61.
La stessa mancanza di corporeità, comune alla maggior parte delle esperienze estatiche, è descritta da Simeone nei Trattati etici: “Mi apparve quella luce, padre … sul momento non sapevo di portare il peso di un corpo e di esserne rivestito”62. Ritroviamo questo tema nella Vita di Simeone scritta da Niceta Stethatos: Divenni tutto come privo di corpo. Mi sembrava che il corpo che mi avvolgeva fosse come spirituale e non provavo né stanchezza né torpore a causa della libertà e della leggerezza che erano venute dentro di me63.
E ancora: “Sapeva di avere un corpo, ma in certo modo incorporeo e spirituale”64. Al pari di Saba, Simeone afferma che
61
Filoteo Kokkinos, Vita di Saba 44, p. 243. Simeone il Nuovo Teologo, Trattati 5, in Id., Traités II, p. 102. Secondo I. Alfeyev, Symeon, pp. 237-238, la nozione di trasfigurazione del corpo umano rappresenta l’elemento più originale nei testi di Simeone. Sulla mancanza di corporeità, cf. W. Völker, Praxis, p. 371, n. 1 e B. Krivochéine, Dans la lumière, pp. 339-340. 63 Niceta Stethatos, Vita di Simeone 133, p. 194. 64 Ibid. 70, p. 96. 62
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quanti godono di questa visione della luce divina non possono mai essere saziati: “Non possono mai essere completamente sazi della visione della bellezza e della dolcezza”65. Filoteo afferma che a Saba fu restituita la bellezza originaria del corpo di Adamo: “Ero in grado di contemplare perfettamente me stesso, non so come, voglio dire la stessa bellezza naturale tanto della mente che del corpo”66. Una simile visione è esposta nella Vita di Gregorio il Sinaita redatta da Callisto: Per mezzo di questa mirabile e nuova trasformazione non ha più percezione di questo corpo umile e materiale. L’anima infatti, senza più ostacolo e inclinazione materiale, lascia trasparire una natura spirituale. Questa era la condizione di Adamo, nostro progenitore, prima della trasgressione; ricoperto dell’energia e della grazia di quella luce sconfinata, fu poi spogliato, ahimè, di quella gloria luminosa e da quello splendore in seguito all’amara trasgressione67.
La visione di Saba quale è descritta da Kokkinos non mostra alcun segno di rielaborazione palamita. Sebbene Kokkinos non si astenga dall’identificare la luce vista da Saba con la luce del Tabor68, le espressioni impiegate per descrivere la luce sono piuttosto convenzionali69. La luce non è esplicitamente detta increata né viene identificata con l’energia increata della Divinità. Non vorrei spingermi ad affermare che Kokkinos racconta
65
Simeone il Nuovo Teologo, Trattati 4, in Id., Traités II, p. 70. Filoteo Kokkinos, Vita di Saba 44, pp. 243-244. 67 Callisto I, patriarca di Costantinopoli, Vita di Gregorio Sinaita 14, p. 140; A. Delikari, JΑγιος Γρηγριος . ΣιναLτης, pp. 322-323. 68 Filoteo Kokkinos, Vita di Saba 44, p. 243. 69 “Versamento di luce”, “splendore indicibile”, “fulgore e teofania” (ibid., pp. 240-242) sono tutte espressioni che si incontrano in alcuni testi retorici concernenti la Trasfigurazione, come pure negli inni della festa. Erano usati da Palamas nei suoi testi, ma non portano l’impronta della teologia palamita. 66
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fedelmente “l’apocalisse”70 di Saba, ma le linee principali del racconto di Saba ai suoi discepoli sembrano riportate con cura. Ho l’impressione che l’uso costante di immagini che troviamo negli scritti di Simeone il Nuovo Teologo non sia dovuto a Filoteo Kokkinos, che, in quanto palamita, sarebbe stato piuttosto incline a riproporre l’immaginario di Gregorio Palamas o di Niceforo l’Athonita, accentuando l’importanza della preghiera interiore e dei suoi effetti, tema per lo più assente nel racconto di Saba, a eccezione di un riferimento casuale ad esso all’inizio del racconto71. È possibile che Saba si lasciasse ispirare dall’esempio di Simeone il Nuovo Teologo, dando alla descrizione delle sue visioni una struttura che deve molto a quel famoso mistico dell’inizio dell’xi secolo. Un risultato fino a questo punto provvisorio della nostra analisi è che Simeone il Nuovo Teologo costituì una fonte di ispirazione per i monaci athoniti dell’inizio del xiv secolo, come è testimoniato sia dal passo di Palamas che abbiamo discusso più sopra sia dalla Vita di Saba. Non si tratta naturalmente di qualcosa di sorprendente. Si deve essere comunque prudenti e non esagerare l’influenza di Simeone il Nuovo Teologo su Saba di Vatopedi, poiché gli esempi discussi sopra possono essere spiegati anche come un adattamento dei tradizionali punti del misticismo, che non hanno relazione diretta con gli scritti di Simeone. L’esperienza di Saba sarebbe stata comunque criticata da alcuni dei suoi discepoli che insistevano sulla necessità della preghiera pura e priva di immagini, disapprovando qualsiasi visione di personaggi (angeli, santi, eccetera) o di luci. Gregorio il Sinaita è estremamente esplicito su questo punto,
70 Ibid., p. 241. Questo spiega la comparsa di alcuni motivi apocalittici nel testo. Kokkinos in un altro passo è sorpreso del fatto che questa esperienza possa essere descritta: “Il soprannaturale rapimento dell’uomo, la visione o la migrazione nella carne non saprei come dirla” (ibid. 43, pp. 239-240). 71 Vi è soltanto un riferimento casuale alla preghiera di Saba all’inizio della sua visione (cf. ibid. 44, p. 240). Sicuramente questa preghiera non ha molte cose in comune con quella raccomandata da Niceforo e dallo Pseudo-Simeone nel suo Metodo.
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mentre Palamas descrive una falsa visione del suo avversario, Gregorio Acindino, come segue: Mi raccontò che, ogni qualvolta era lasciato solo, contemplava una certa luce e cercava di rivolgere la mente verso se stesso; questa luce squarciandosi spesso, faceva apparire al suo interno come un viso umano. Io però gli avevo mostrato che questo era un grande errore, una derisione e un gioco di Satana72.
In questo caso particolare, Palamas parla negli stessi termini di Evagrio Pontico che nel suo famoso Discorso sulla preghiera ci dice che all’uomo in preghiera può apparire uno strano volto: “Guardati dai lacci degli avversari, perché avviene che mentre tu preghi con purezza e senza turbamenti, improvvisamente ti si presenta una forma sconosciuta ed estranea”73. Non può essere tracciata una chiara linea di divisione tra le visioni pure e quelle provenienti dal demonio. Palamas è particolarmente interessato a difendere le strane visioni dei monaci athoniti, ma è inesorabile nei confronti del suo nemico Acindino. Acindino stesso, più tardi, condanna simili visioni come quella che probabilmente aveva avuto secondo la testimonianza del suo nemico Palamas, adottando la posizione di Evagrio: solo la luce della mente può essere vista durante la preghiera74. In ogni caso le cose non sono così semplici. Esaminiamo brevemente le visioni di un altro famoso asceta del xiv secolo, Massimo il Kausokalyba. Nel suo famoso dialogo con Gregorio il Sinaita, conservato nella sua biografia scritta da Teofane di Peritheorion, Massimo descrive i caratteri propri delle visioni dei santi in questo modo: 72 Gregorio Palamas, Confutazioni di Acindino VII,16,59, in Id., Dal sovraessenziale all’essenza, a cura di E. Perrella, Bompiani, Milano 2005, p. 879. 73 Evagrio Pontico, Discorso sulla preghiera 68 (sotto il nome di Nilo), in La filocalia I, p. 280. 74 Secondo il passo citato da Palamas nelle sue Confutazioni di Acindino VII,14,51.
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Questi sono i segni della grazia. Quando lo Spirito santo si avvicina, raccoglie la mente, la rende meditativa, umile e assennata, introduce nell’anima la memoria della morte, del giudizio, delle colpe, ma anche del castigo di fuoco; fa sì che il cuore provi compunzione, si affligga e pianga. Quando si avvicina, rende gli occhi miti e pieni di lacrime, rende mite l’anima e la richiama con la preziosa passione di Cristo e il suo sconfinato amore per l’uomo; ispira alla mente contemplazioni elevatissime e infallibili: l’incomprensibile prima potenza creatrice che ha fatto il tutto dal nulla, l’essenziale, l’onnisciente, l’inafferrabile, il non-circoscrivibile, l’incomprensibile, l’imperscrutabile mare della divinità in tre ipostasi che è al di là di tutte le cose che sono. La mente è illuminata con la luce della divina conoscenza. La mente è rapita in spirito dall’inaccessibile luce divina ed è rischiarata da questa brillantissima luce divina e rende il cuore oltremodo splendente e pacifico e dona a chi ha ricevuto tali cose gioia indicibile ed esultanza nella mente, nella ragione e nello spirito75.
Vi sono alcuni elementi tradizionali in questa descrizione. L’enumerazione di theoríai ricorda un passo di Pietro di Damasco, che discute gli otto gradi della contemplazione, la quale include la conoscenza delle proprie colpe76, la conoscenza delle cose terribili che ci attendono prima e dopo la morte, la comprensione della vita condotta da Gesù in questo mondo77 e la conoscenza di Dio che comprende la comprensione dei suoi at-
75 F. Halkin, “Deux Vies de saint Maxime le Kausokalybe, ermite au Mont Athos (xive siècle)”, in Analecta Bollandiana 54 (1936), pp. 87-88. 76 Cf. Pietro di Damasco, Argomento del libro, in La filocalia III, pp. 91-93. Per un tema simile in Evagrio, cf. L. Dysinger, Psalmody and Prayer in the Writings of Evagrius Ponticus, Oxford University Press, Oxford 2005, pp. 171-173. 77 Per il retroterra patristico di tale insegnamento, cf. The Philokalia. The Complete Text compiled by St. Nikodimos of the Holy Mountain and St. Makarius of Corinth III, a cura di G. E. H. Palmer, P. Sherrard e K. Ware, Faber and Faber, London 1984, p. 108, n. 2. Cf. anche il passo di Gregorio il Sinaita già citato supra, p. 299, n. 13 e infra, p. 322, n. 86.
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tributi78. Teofane, nel passo da noi citato, non identifica esplicitamente la potenza di Dio con la sua energia, come fa Palamas, ma è possibile che la intendesse così. In ogni caso, secondo Pietro di Damasco, quelli che sono impegnati nella pratica ascetica purificheranno se stessi con le lacrime durante il primo stadio delle loro theoríai per procedere poi a una più profonda conoscenza di Dio79. Anche il tema del rapimento da parte della luce divina è un elemento tradizionale che si trova, ad esempio, nelle Centurie sulla carità di Massimo il Confessore80, ma ci siamo imbattuti in esso anche quando si è discussa la visione di Saba di Vatopedi. Il dilettarsi nei doni della grazia e la concentrazione della mente, sebbene siano sicuramente motivi tradizionali, si possono trovare in testi contemporanei per indicare lo stadio perfetto della vita ascetica quale è raccomandata da Niceforo l’Athonita e in quanti sono da lui influenzati. Vi è anche un’altra corrispondenza tra l’insegnamento di Massimo e le teorie di Gregorio il Sinaita, osservata tempo fa da Kallistos Ware. Secondo Massimo, la mente è interamente assorbita dalla luce divina, come la candela consumata dal fuoco: Padre, quando lo Spirito santo scende sull’uomo, allora la preghiera cessa, perché la mente è assorbita dalla venuta dello Spirito santo e non può dispiegare le sue potenze … come la cera … quando è posta sul fuoco si contrae, si scioglie e brucia insieme al fuoco … così penso che la potenza della mente sia come la cera … essa brucia al fuoco della divinità, scioglie i pensieri, è assorbita dalla luce divina e diventa interamente luce divina massimamente splendente81.
78
Cf. Pietro di Damasco, Argomento del libro, p. 126. Ibid., p. 90: “Affinché, con molte e amare lacrime, possa purificare la sua anima”. 80 Cf. Massimo il Confessore, Centurie sulla carità 2,14: “La mente è rapita dalla divina luce infinita” (La filocalia II, a cura di M. B. Artioli e M. F. Lovato, Gribaudi, Torino 1983, p. 64). 81 F. Halkin, “Deux Vies”, pp. 86-87. 79
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Il verbo katapíno (inghiottire, assorbire) è impiegato da Gregorio il Sinaita nei suoi scritti82. Beyer ha osservato che il motivo della candela appare nella Catechesi sulla Trasfigurazione scritta da Teolepto di Filadelfia83. È curioso che anche Niceforo Callisto Xanthopoulos lo impieghi nella sua Spiegazione della ‘Scala spirituale’ di Giovanni il Sinaita84. La rielaborazione di Teofane è evidente anche qui. L’insegnamento secondo cui la mente smette di pregare quando è unita a Dio era discusso durante la controversia palamita sulla base di alcuni testi di Gregorio di Nazianzo e di Isacco di Ninive85. Massimo non si astiene dal far notare a Gregorio il Sinaita i segni di perversione: Quando il Maligno si avvicina, scompiglia la mente e la rende selvaggia. Indurisce il cuore, introduce nell’animo la viltà, la disperazione e l’oscurità. Rende gli occhi selvaggi. Sconvolge il cervello e fa rabbrividire il corpo, e inoltre fa apparire davanti agli occhi un’ingannevole luce infuocata86.
82 Cf. K. Ware, “St Maximos of Kapsokalyvia and Fourteenth-Century Athonite Hesychasm”, in ΚΑΘΗΓΗΤΡIΑ. Essays presented to J. Hussey, a cura di J. Chrysostomides, Porphyrogenitus, London 1988, p. 426. Cf. inoltre un esempio citato da H.-V. Beyer, “Die Lichtlehre der Mönche des vierzehnten und des vierten Jahrhundert, erörtert am Beispiel des Gregorios Sinaites, des Evagrios Pontikos und des Ps.-Makarios/Symeon”, in Jahrbuch der österreichischen Byzantinistik 31/2 (1981), p. 475. Cf. anche A. Rigo, “Gregorio il Sinaita”, p. 114; E. Hisamatsu, Gregorios Sinaites, pp. 399-400. 83 Cf. H.-V. Beyer, “Die Katechese des Theoleptos von Philadelphia auf die Verklärung Christi”, in Jahrbuch der österreichischen Byzantinistik 34 (1984), p. 194. 84 Cf. Niceforo Callisto Xanthopoulols, ΕξNγησις σ$ντομος ε(ς τ9ν Κλμακα το Iωννου, a cura di Melezio di Nicopoli, S. Dimitreas e B. Lampropoulos, Preveza 2002, p. 512: “L’anima amante di Dio si ammorbidisce come cera e, accogliendo le impronte e i caratteri divini, diventa dimora di Dio nello spirito”. 85 Cf., ad esempio, Gregorio Palamas, Triadi I,3,21. 86 F. Halkin, “Deux Vies”, p. 87. Un’ampia discussione dell’intero passo si trova in A. Rigo, “Massimo il Kausokalyba e la rinascita eremitica sul Monte Athos nel xiv secolo”, in Atanasio e il monachesimo del Monte Athos. Atti del XII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (sezione bizantina), Bose, 12-14 settembre 2004, a cura di S. Chialà e L. Cremaschi, Qiqajon, Bose 2005, pp. 211-212, dove si confronta il passo della Vita di Massimo con i Capitoli di Gregorio il Sinaita.
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L’avvicinarsi del demonio è seguito da alcuni segni esterni come il tremore della testa. Va notato che Gregorio il Sinaita sembra accettare una specie di tremore divino nel cuore colmo di fede87, mentre rigetta chiaramente il tremore esterno, che è effetto di un’influenza demoniaca. Comunque un discepolo famoso di Gregorio il Sinaita, Atanasio, il fondatore della Grande Meteora in Tessaglia, scuoteva la testa mentre pregava e alcuni lo consideravano pazzo, come ci informa il suo biografo: Quanto alla preghiera e alla trasfigurazione spirituale, quanti vegliavano con lui, conoscevano quel che gli accadeva e dicono come si trasfigurava e la sua testa si agitava continuamente, tanto che lo credevano pazzo88.
È possibile che la pratica della preghiera entusiasta dei circoli monastici bogomili del Monte Athos abbia influenzato, in certa misura, i discepoli di Gregorio. Il racconto delle visioni di Massimo porta, a dir poco, chiare tracce di una rielaborazione da parte di Teofane di Peritheorion. Gli esempi che Massimo utilizza nel suo dialogo con Gregorio il Sinaita sono piuttosto eruditi, cosa che difficilmente ci si aspetterebbe da un monaco che non ha avuto una formazione letteraria. Anche il dialogo con il Sinaita mi sembra un’invenzione di Teofane, che voleva presentare lo strano comportamento del suo santo in accordo con l’insegnamento della chiesa. Chi potrebbe ratificare gli abiti inusuali del Kausokalyba meglio del famoso e dotto Gregorio il Sinaita? Si possono comunque scoprire alcune corrispondenze tra la pratica di Massimo e quella di un’intera generazione monastica attaccata da Barlaam. 87
Cf. A. Rigo, “Gregorio il Sinaita”, pp. 112-113. Cf. D. Z. Sophianos, Ο Cσιος Αθανσιος . Μετεωρτης. Βος-ΑκολουθαΣυναξρια, Meteora 1990, p. 153. 88
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La spiritualità athonita all’inizio del xiv secolo non era circoscritta al Monte Athos. Recentemente Joan Nadal Cañellas ha identificato con Gregorio Acindino il padre spirituale di Irene-Eulogia Cumnena, una famosa monaca di Costantinopoli della prima metà del xiv secolo89. L’identificazione, se corretta, può aiutarci a vedere l’influenza della spiritualità athonita a Costantinopoli prima dello scoppio delle controversie palamite. Acindi-
89 Cf. J. Nadal Cañellas, La résistance d’Akindynos à Grégoire Palamas. Enquête historique, avec traduction et commentaire de quatre traités édités récemment, II. Commentaire historique, Peeters, Leuven 2006, pp. 28-83. Accetto con qualche riserva questa identificazione. Ho controllato le lettere di Acindino, ma non sono stato in grado di trovare alcun parallelo sostanziale con le lettere del padre spirituale della Cumnena. Questo non costituisce un argomento contro l’identificazione proposta da Nadal, poiché gli autori bizantini tendevano a variare il loro stile tenendo conto del livello culturale dei loro uditori (cf. su questo argomento il fecondo studio di I. \ev™enko, “Levels of Style in Byzantine Prose”, in Jahrbuch der österreichischen Byzantinistik 31 [1981], pp. 289-312). In ogni caso cito le espressioni parallele tra le lettere di Acindino e quelle del padre spirituale della Cumnena, che, sebbene non siano sostanziali, potrebbero offrire un’indicazione dell’identità dei due autori, se accostati ad altre somiglianze: Lettere 60,92-94 di Acindino, dove a proposito della Cumnena si dice: “La sposa dell’imperatore … donna in quanto a natura, ma in quanto a modo di vita, rivale delle più valorose imprese degli uomini” (The Letters of Gregory Akyndinos, a cura di A. Hero Constantinides, Washington dc 1983, p. 246); Lettere 2,3-5 della guida spirituale della Cumnena sulle qualità della sua figlia spirituale: “Abbiamo inteso un fatto straordinario: una voce confacente a un uomo sapiente e valoroso dalla bocca di una donna e un frutto conveniente a un’anima di innata saggezza” (A Woman’s Quest for Spiritual Guidance. The Correspondence of Princess Irene Eulogia Choumnaina Palaiologina, a cura di A. Hero Constantinides, Hellenic College Press, Brookline ma 1986, p. 28). Un’altra strana coincidenza (?): nella sua Lettera 47,18-21 (The Letters of Gregory Akyndinos, p. 200) Acindino si lamenta di essere costretto a inviare un abbozzo provvisorio del suo discorso contro Palamas a Lapithes: “E per questo ho trattato così questa cosa; vi sono inoltre anche i nostri commenti che abbozzano una confutazione di queste cose, infatti non era facile inviare dei discorsi, ma in questi abbozzi vi è il nostro perfetto pensiero”; in termini simili si esprime il padre spirituale della Cumnena: “Ma, come ho anticipato, non sono pronti da pubblicare nei primi fogli ancora abbozzati” (Lettere 2,14-16). Scrivendo a un suo amico, Acindino loda “il vigore dei discorsi, la grazia della lingua, l’opportunità dei modi, la grandezza della natura”. Il padre spirituale della Cumnena, lodando suo padre Niceforo, scrive: “Ammiriamo molto la sapienza del padre, osservando la straordinaria scienza dei suoi discorsi, la grazia della sua lingua, il modo opportuno e grandioso” (Lettere 8,23-26, in A Woman’s Quest, p. 44). Si sarebbe tentati di correggere “scienza” ( gnómen) con “vigore” (rhómen). Acindino scrive: “Correggiti e noi accoglieremo volentieri” (Lettere 66,87-88, in The Letters of Gregory Akyndinos, p. 278), mentre il monaco scrive: “Accoglie volentieri la correzione” (Lettere 10,26-27, in A Woman’s Quest, p. 56).
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no, che era stato monaco sul Monte Athos e amico di Palamas, era certamente influenzato dalle tendenze contemporanee della spiritualità monastica. John Meyendorff è dell’opinione che il padre spirituale di Eulogia, sebbene impieghi occasionalmente una terminologia esicasta, non menzioni mai la preghiera mentale e i frutti spirituali di vita ascetica90. Penso che queste osservazioni affrettate debbano essere riviste. Cerchiamo di delineare il profilo spirituale di questa figura affidandoci a quello che egli stesso scrive91. Nella Lettera 21, Acindino, o chi per lui, esorta la sua figlia spirituale a cercare Dio con tutto il suo cuore dicendole di essere certo che Dio la trasformerà nel suo tempio. La esorta a tenere bene a mente che per raggiungere il regno di Dio occorrono grandi sforzi: Cercalo con fatica e desiderio, con opere sempre buone, con pensieri puri, e farai di te un tempio indistruttibile. Augura la stessa cosa anche a me. Anch’io so che la salvezza, che è il regno dei cieli, è oggetto di violenza (cf. Mt 11,12) e richiede molti sforzi e un modo di vivere diverso da quello che la maggior parte di noi sono soliti condurre92.
È vero che qui la preghiera mentale non è esplicitamente menzionata, ma se ci volgiamo ai capitoli di Gregorio il Sinaita scopriremo un pensiero simile. Gregorio precisa che la fatica è un preliminare necessario per la rivelazione della grazia dello Spirito santo: La fatica del cuore, infatti, e quella del corpo sono in grado di compiere un’opera di verità. In forza di esse si manifesta
90
The Letters of Gregory Akyndinos, pp. 16-17. Le osservazioni di J. Nadal Cañellas, La résistance, pp. 89-103, sebbene estremamente preziose, sono di carattere più generale. 92 Gregorio Acindino, Lettere 21,17-22, in The Letters of Gregory Akyndinos, p. 98. 91
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l’operazione dello Spirito santo … Infatti ogni attività del corpo e dello spirito compiuta senza travaglio e fatica non porterà mai frutto a chi la persegue. Poiché il regno dei cieli è oggetto di violenza, dice il Signore, e i violenti lo rapiscono (Mt 11,12)93.
Naturalmente questa particolare applicazione di Matteo 11,12-13 all’esigenza di austerità nella vita monastica è più antica94, e antichissima è la combinazione di preghiera e sofferenza95. Come Hero suggerisce nel suo apparatus fontium, questo passo è citato nei detti di Macario e nei Capitoli pratici di Simeone il Nuovo Teologo96. Simeone comunque spiega questo detto di Gesù come un’esortazione indirizzata ai monaci perché obbediscano ai loro
93 Gregorio il Sinaita, L’esichia e i due modi della preghiera in quindici capitoli, in La filocalia III, p. 594. 94 Cf. E. Hisamatsu, Gregorios Sinaites, p. 188. Cf. anche Esichio Presbitero, A Teodulo 66, in La filocalia I, pp. 243-244; Macario l’Egiziano, Parafrasi di Simeone Metafraste 134, in La filocalia III, pp. 336-337; Discorso utilissimo sull’Abate Filemone: “Abbiamo bisogno, dunque, di molta custodia e di fatiche del corpo e purificazione dell’anima, per far abitare Dio nei nostri cuori, così che poi compiamo senza errore i suoi divini comandamenti. È egli stesso pertanto che ci insegna a osservare con sicurezza le sue leggi, inviando le sue energie come raggi del sole, mediante la grazia dello Spirito che contengono” (La filocalia II, p. 363). 95 Cf., ad esempio, I. Hausherr, Noms du Christ, p. 242. Sull’uso di questo topos ascetico in Gregorio il Sinaita, cf. E. Hisamatsu, Gregorios Sinaites, p. 368. 96 Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Capitoli pratici e teologici 138, in La filocalia IV, a cura di M. B. Artioli e M. F. Lovato, Gribaudi, Torino 1985, p. 379. Uno stretto parallelo del nostro testo si trova al c. 152. Questi due testi in realtà sono stati scritti da Simeone il Pio (cf. Syméon le Studite, Discours ascétique 18; 32, a cura di I. Alfeyev, SC 460, Cerf, Paris 2001, pp. 88, 110). Simeone il Nuovo Teologo adopera lo stesso motivo; cf. Simeone il Nuovo Teologo, Inni 30,550-556: “Nelle sue mani prende la tua anima come ferro, la attira e la spinge verso queste azioni con violenza. Il regno dei cieli infatti è soggetto a violenza (Mt 11,12)” (Hymnes II, p. 378). Cf. anche Id., Catechesi 6, pp. 207-208: “Poiché, sia prima di ricevere la grazia dello Spirito, sia dopo averla ricevuta, certo mai nessuno ha potuto superare l’ottenebramento dell’anima e contemplare la luce dello Spirito santissimo senza fatiche e molte pene e sudori, violenza, angustia e tribolazione. Il regno dei cieli, infatti, è soggetto a violenza e i violenti lo rapiscono (Mt 11,12)”. Teolepto di Filadelfia, Discorsi 23,41: “Infatti, il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono (Mt 11,12). Anche questo hanno mostrato i discepoli, costringendo il Signore a restare con loro” (Id., Lettere e discorsi, a cura di A. Rigo e A. Stolfi, Qiqajon, Bose 2007, pp. 264-265). Va
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superiori. È perciò ragionevole supporre che la guida spirituale di Eulogia Cumnena sia uno di quegli asceti che, sia sul Monte Athos sia nelle grandi città quali Bisanzio, si impegnavano a diffondere il nuovo insegnamento sulla preghiera esicasta. La presenza nel passo citato sopra del comunissimo termine “regno dei cieli” potrebbe anche essere interpretata come un’eco della sensibilità contemporanea. Non dovremmo dimenticare che Niceforo inizia il suo Discorso indirizzandosi a tutti quelli che si augurano di godere dei doni del regno interiore: “Quanti volete conoscere e ricevere con scienza ed esperienza il regno dei cieli che è dentro di voi (Lc 17,21)”97. Andrebbe notato anche che l’espressione tradizionale “divenire tempio di Dio”, che risale al Nuovo Testamento, è frequentemente impiegata nei testi ascetici dell’inizio del xiv secolo. È utilizzata sia da Palamas che da Acindino98. Vi sono anche altri punti di contatto tra le lettere del padre spirituale di Irene e la spiritualità ascetica contemporanea. All’inizio della Lettera 14 questi impiega la famosa formula dell’esicasmo: sedere solo nella propria cella per rientrare in se stesso e avvicinarsi a Dio. Dice: Mi sono seduto nella mia cella e mi sono raccolto davanti all’unico Dio che tutto vede e conosce, ho esaminato la mia conoscenza … e ho trovato che, se desidero essere padrone di me stesso e avvicinarmi a Dio, non devo percorrere altra via nella vita, ma rimanere tutto il tempo nella mia cella senza al-
notato che il padre spirituale di Irene-Eulogia non era a conoscenza delle opere spirituali di Teolepto, come egli afferma esplicitamente nelle sue lettere (cf. A Woman’s Quest, p. 116) e le sue fonti di ispirazione vanno dunque cercate altrove. 97 Niceforo il Monaco, Discorso sulla sobrietà, in La filocalia III, p. 515. 98 Cf. Gregorio Palamas, Triadi I,2,1; Id., Confutazioni di Acindino VII,7,16, dove è citato un passo di Acindino: “La raccomandazioni dei santi … mostrano che l’anima deve rendere un tempio di Dio solo la memoria di Dio fondata nell’anima” (Dal sovraessenziale all’essenza, p. 819).
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cuna relazione con ciò che cade sotto i sensi … ma forse non mi sarebbe possibile concentrarmi tutto il tempo su di me99.
Nella Lettera 16 il padre spirituale dà lo stesso consiglio a Irene: Durante il tempo di raccoglimento che hai iniziato rimani seduta nella tua cella con timore e amore per la santa Trinità, vedendo sempre il Signore davanti a te (Sal 15 [16],8) come dice il salmista; santifica e illumina costantemente la tua mente con il pensiero puro e ininterrotto del suo santo Nome che purifica quelli che lo custodiscono nella loro mente facendo del tuo meglio per compiere i suoi comandamenti e così resta sempre con lui, per quanto è possibile nel corpo, e se talvolta vieni meno al tuo scopo ritorna com’eri solita … e ritorna a Cristo con più devozione100.
Non nego che si tratta di motivi comuni nella letteratura patristica101. Hero cita nel suo commento102 un passo molto simile di Teolepto di Filadelfia, il primo maestro spirituale di Irene: “Quando la mente fugge le cose esteriori e si congiunge alle interiori, si ritira in se stessa”103. Anche in questo passo si cita il salmo 15 (16),8, che del resto è citato in molti testi ascetici più
99
Gregorio Acindino, Lettere 14,1-22, in A Womans’s Quest, p. 68. Ibid. 16,43-57, p. 80. 101 Si veda la discussione e la bibliografia segnalata da A. Rigo, “Gregorio il Sinaita”, pp. 107-108 e anche il passo citato da E. Hisamatsu, Gregorios Sinaites, pp. 119121. Cf. anche Evagrio il Monaco, Sommario della vita monastica: “Seduto nella tua cella, raccogli la tua mente” (in La filocalia I, p. 104); Teodoro di Edessa, Cento capitoli 57: “Quando siedi nella tua cella … raccogli la mente” (in La filocalia I, p. 449); Teolepto di Filadelfia: “Se il tuo corpo indugia nella cella e la mente rimane nel cuore … allora anche Cristo dimorerà in te” (Lettere e discorsi, pp. 41-42). Più tardi Acindino sembra condannare questa pratica; cf. Id., Lettere 50, in The Letters of Gregory Akyndinos, p. 208: “Che cosa dicono? Non dicono forse che quando stanno seduti vedono una luce quando vogliono?”. 102 Cf. A Woman’s Quest, pp. 138-139. 103 Teolepto di Filadelfia, Discorsi 23,7, p. 255. 100
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antichi104. La purificazione della mente è un tema comunemente trattato da Teolepto105. Alla fine del xiii e all’inizio del xiv secolo questi motivi acquistano un senso nuovo, essendo incorporati nel nuovo insegnamento sulla preghiera del cuore106. Possiamo citare diversi passi simili appartenenti ad altri autori spirituali di quel periodo. Nel Discorso sulla sobrietà, Niceforo il Monaco scrive: “Tu, dunque, siediti nella tua cella, raccogli la mente”107. Il rientrare in se stessi è un motivo centrale in questo trattato: “Dunque, ritiratevi, o per parlare con maggiore verità, ritorniamo in noi stessi, fratelli”108. Va notato che, nel passaggio sopra citato della guida spirituale della Cumnena, il nome di Gesù è chiaramente menzionato ed è possibile per noi riconoscere un riferimento alla cosiddetta preghiera di Gesù109. Laurent l’ha già fatto notare110. Io sono incline a interpretarlo come un riferimento alla cosiddetta preghiera di Gesù. Gregorio il Sinaita, nella Rigorosa notizia sull’esichia e sulla preghiera, al pari del104 Cf., ad esempio, Teodoro di Edessa, Cento capitoli 90; Giovanni Climaco, La scala 27,42; Simeone Studita, Discorsi 20,3-4. 105 Teolepto di Filadelfia, Discorsi 2, p. 91: “Non sono capaci di levare lo sguardo verso la luce della divinità che brilla nelle ragioni pure”. È curioso poter trovare qui una reminiscenza di Platone (La Repubblica 515c). È possibile che lo stesso testo platonico costituisca il retroterra di Simeone il Nuovo Teologo, Trattati etici 1,339-369. 106 Si veda su questo tema J. Meyendorff, “Le thème du ‘retour en soi’”, pp. 188-206. 107 Niceforo il Monaco, Discorso sulla sobrietà e la custodia del cuore, in La filocalia III, p. 525. Va notato che in una vita del patriarca Arsenio Autoreiano, scritta dopo il 1310, appare lo stesso motivo (P. G. Nikolopoulos, “Αν,κδοτος Λ&γος ε=ς :Αρσ,νιον Ατωρειαν&ν, πατριBρχην Κωνσταντινουπ&λεως”, in Επετηρ4ς Εταιρεας Βυζαντιν)ν Σπουδ)ν 45 [1981-1982], p. 455: “E raccogliendo le facoltà spirituali e trattenendo saldamente l’operare dello Spirito”). Per l’espressione enérgheia toû pneúmatos, cf. Gregorio il Sinaita, Rigorosa notizia sull’esichia e sulla preghiera 3 (cf. anche E. Hisamatsu, Gregorios Sinaites, pp. 332-335). La possibilità che la Vita di Arsenio sia stata composta da una persona influenzata dall’insegnamento di Niceforo o Gregorio il Sinaita non può essere esclusa. 108 Niceforo il Monaco, Discorso sulla sobrietà 2, p. 525. 109 Si deve però essere prudenti poiché un riferimento al nome di Cristo non può sempre essere interpretato come un riferimento alla preghiera di Gesù; cf. K. Ware, “The Origins of the Jesus Prayer”, p. 12, n. 44. 110 Cf. V. Laurent, “La direction spirituelle à Bysance. La correspondance d’Irène-Eulogia Choumnaina Paleologine avec son second directeur”, in Revue des É´tudes Byzantines 14 (1956), pp. 84-85.
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la guida spirituale di Irene e di altri antichi scrittori ascetici111, considera la pratica dei comandamenti, combinata con l’invocazione del nome di Gesù, come un prerequisito indispensabile per la manifestazione dello Spirito santo: In due modi si trova l’operazione dello Spirito santo … Primo: generalmente parlando, tramite l’adempimento dei comandamenti … Secondo: mediante la frequente invocazione, fatta con scienza, del Signore Gesù, cioè mediante la memoria di Dio, il dono si manifesta nell’obbedienza112.
La guida spirituale della Cumnena mostra che l’invocazione del nome di Gesù e la pratica dei comandamenti portano come frutto una vita accanto a Cristo (pántote syn autô oûsa). Neppure Laurent, che fu il primo ad attirare l’attenzione degli studiosi su questo passo113, né Hero, notarono che vi è qui un riferimento alla Prima lettera ai Tessalonicesi 4,17 (“saremo sempre con il Signore”). Questo passo ha una lunga storia. È stato comunemente interpretato come un riferimento all’unione mistica del credente con Dio. Lo Pseudo-Dionigi l’Areopagita lo commenta trovando una connessione nascosta con la visione degli apostoli durante la trasfigurazione: Allora, quando diventeremo incorruttibili e immortali e raggiungeremo la quiete cristiforme e beatissima, secondo il sacro detto saremo sempre con il Signore (1Ts 4,17), riempiti della sua divina presenza, visibile in santissime contemplazioni, che illumina di luci splendidissime, come i discepoli in quel-
111 Cf., ad esempio, Evagrio Pontico, Discorso sulla preghiera 2, in La filocalia I, p. 274: “L’anima purificata dall’adempimento dei comandamenti rende la condizione della mente salda e capace di ricevere lo stato ricercato”. 112 Gregorio il Sinaita, Rigorosa notizia sull’esichia e sulla preghiera 3, in La filocalia III, p. 580. 113 Cf. V. Laurent, “La direction spirituelle”, p. 85.
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Gregorio Palamas e la spiritualità athonita dell’epoca …
la divinissima trasfigurazione, partecipando della sua luce intelligibile a noi elargita, con un’intelligenza imperturbabile e distaccata dalla materia, e dall’unione che supera l’intelligenza nelle effusioni inconoscibili e beate di raggi fulgidissimi114.
Naturalmente questo testo fu discusso durante le controversie relative alla luce della trasfigurazione nel xiv secolo. È citato in numerosi passi degli scritti di Palamas, ma anche da Acindino115 e questo fatto non è privo di interesse, se l’identificazione della guida spirituale di Irene con Acindino è corretta, come io credo. In ogni caso è chiaro che il maestro della Cumnena si aspettava che ella avesse una visione della luce divina e possiamo anche supporre che non avrebbe fatto difficoltà, almeno in questa fase, se qualcuno avesse identificato questa luce con la luce del Tabor. Il mio intervento non ha portato grandi contributi al tema della trasfigurazione, oggetto del nostro convegno. Ma penso che gli asceti dell’inizio del xiv secolo non si sarebbero lamentati se qualcuno, come Palamas, avesse identificato la luce che essi vedevano nelle loro visioni con la luce del Tabor. Non è una semplice supposizione. Gregorio il Sinaita all’inizio della sua Omelia sulla Trasfigurazione scrive: Quanti di voi riflettono a viso scoperto la visione della magnificente gloria e sono trasformati nell’immagine naturale, dalla gloria alla gloria della contemplazione, passando da Cristo (cf. 2Cor 3,18) allo Spirito della divinità, cioè dall’economia di salvezza alla teologia, e che hanno trasfigurato la mente facendola passare dalla carne allo spirito, innalzando la loro per114 Dionigi l’Areopagita, Nomi divini 1,4, in Id., Tutte le opere, a cura di E. Bellini, Rusconi, Milano 1981, p. 257 . 115 Gregorio Acindino, Refutationes duae operis Gregorii Palamae cui titulus Dialogus inter Orthodoxorum et Barlamitam III,10, a cura di J. Nadal Cañellas, CSCG 31, Brepols, Turnhout 1955, pp. 98-99.
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Ioannis Polemis
cezione dalla bassezza delle realtà sensibili e dall’illusoria apparenza delle realtà disperse, venite, saliamo al monte spirituale della contemplazione e contempliamo immaterialmente e attentamente la sua cima, vediamo e ascoltiamo. Non basandoci sulla magnificenza e sull’analogia degli esseri, ma usando l’occhio della mente, senza che nulla si interponga, contempliamo da vicino Gesù risplendente sul monte Tabor116.
Il testo è interessante sotto variaspetti. Il Sinaita condanna la conoscenza di Dio basata su uno studio “scientifico” delle creature, a cui invitavano molti intellettuali dell’inizio del xiv secolo117; egli si attiene alla teoria presentata nel passo del suo trattato da noi esaminato più sopra. Vi sono alcune immagini tradizionali in questo passo – per esempio la montagna spirituale della contemplazione che si trova anche in Palamas118 – ma la cosa più importante è che Gregorio si basa evidentemente sull’inizio del Discorso sulla sobrietà di Niceforo119: Quanti siete protesi amorosamente a ottenere la divina illuminazione del magnifico Salvatore nostro Gesù Cristo; quanti volete ricevere nel cuore, sensibilmente, il fuoco iperura-
116 Gregorio il Sinaita, Omelia sulla Trasfigurazione, in Id., Discourse on the Transfiguration, a cura di D. Balfour, estratto da Θεολογα 52/4-54/1 (1981-1983), p. 20. È un peccato che il ricco apparatus fontium dell’edizione di H.-V. Beyer (cf. E. Hisamatsu, Gregorios Sinaites, pp. 71-73; 316, n. 577) non sia stato per lungo tempo disponibile. 117 Cf., ad esempio, Teodoro Metochita, Ηθικς P Περ4 Παιδεας, a cura di I. Polemis, Athinai 2002, pp. 84-88. 118 Cf. Gregorio Palamas, Alla venerabilissima monaca Xeni 59. 119 Rigo respinge la possibilità che Gregorio conoscesse il trattato di Niceforo, sebbene avesse in precedenza notato la somiglianza dei due testi (cf. A. Rigo, “Gregorio il Sinaita”, p. 106); cf. anche Id., “La vita e le opere di Gregorio il Sinaita. In margine a una recente pubblicazione”, in Cristianesimo nella storia 10 (1989), p. 580, che cita però solo le prime cinque parole del testo del Sinaita, mentre omette il seguito che prova senz’ombra di dubbio la dipendenza del Sinaita da Niceforo. Anche E. Hisamatsu è riluttante ad accettare un collegamento diretto tra queste due personalità (cf. E. Hisamatsu, Gregorios Sinaites, pp. 362, 372).
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Gregorio Palamas e la spiritualità athonita dell’epoca …
nio; quanti avete fretta di raggiungere con l’esperienza e la percezione sensibile la riconciliazione con Dio; quanti vi siete spossessati di tutte le cose del mondo per trovare e acquistare il tesoro nascosto nel campo dei vostri cuori (cf. Mt 13,44); quanti volete essere accesi fin d’ora dalle radiose lampade dell’anima e avete rinunciato a tutte le cose presenti; quanti volete conoscere e ricevere con scienza ed esperienza il regno dei cieli che è dentro di voi (cf. Lc 17,21), venite e vi spiegherò la scienza della vita eterna o, piuttosto, celeste, anzi il metodo senza fatica … che conduce colui che lo pratica al porto dell’impassibilità120.
Si potrebbe notare nel passo di Gregorio il Sinaita citato più sopra l’uso dell’avverbio prosechôs (“attentamente”) che richiama esso pure l’attenzione, termine centrale nel Discorso di Niceforo. L’identificazione della luce della trasfigurazione con la luce della visione esicasta già stabilita dallo Pseudo-Macario121 trova qui la sua solenne conferma122.
120
Niceforo il Monaco, Discorso sulla sobrietà, p. 515; cf. supra, p. 294, n. 1. Cf. H.-V. Beyer, “Die Lichtlehre”, pp. 504-505. 122 Cf. E. Hisamatsu, Gregorios Sinaites, p. 312. 121
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SERAFIM DI SAROV E ANTONIO IL GRANDE. TRASFIGURAZIONE DI EPOCHE, CULTURE, ANIME Serhij Hovorun*
Nel mio intervento vorrei toccare non solo il problema dell’esperienza dell’azione di grazia dello Spirito santo in un uomo, così come quest’esperienza ci è stata consegnata da san Serafim di Sarov (1759-1833), ma anche tracciare un parallelo tra Serafim e un asceta vissuto in un’epoca del tutto diversa, in condizioni storiche completamente diverse: sant’Antonio il Grande († 356). Dal punto di vista di uno studio rigorosamente scientifico, il legame tra questi due santi è del tutto convenzionale. Vissero in tempi diversissimi, e li separano quindici secoli di storia che hanno cambiato sostanzialmente le condizioni di vita del cristianesimo. Antonio visse nel tempo in cui la chiesa usciva dall’epoca delle persecuzioni e diventava un’istituzione ufficiale dell’impero. La vita di Serafim, al contrario, si svolse nel momento del trionfo della chiesa quale istituzione statale, quando nulla sembrava minacciarne la fioritura, mentre solo le persone spiritualmente più chiaroveggenti avrebbero potuto prevedere le perse* Docente presso l’Accademia teologica di Kiev, attualmente è presidente del Dipartimento per le relazioni esterne della Chiesa ortodossa ucraina (patriarcato di Mosca). Traduzione dall’originale russo.
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Serhij Hovorun
cuzioni future. Le comunità cristiane dell’epoca di Antonio erano ancora esigue di numero, circondate da una popolazione pagana molto più numerosa. Non solo, ma anche dall’interno erano continuamente minacciate da eresie e scismi. Antonio fu più volte costretto ad abbandonare il deserto, per difendere di persona l’ortodossia dall’arianesimo ad Alessandria. Completamente diversa era la situazione in Russia tra la fine del xviii e l’inizio del xix secolo. Il cristianesimo ortodosso era la religione dominante nell’impero russo. Nello stato russo restavano solo delle isole di eterodossia, circoscritta in ghetti di vario tipo. Serafim non aveva bisogno di abbandonare il proprio monastero, per ergersi a baluardo dell’ortodossia: era questo un ruolo che in gran parte si assumeva lo stato, nel cui sistema si collocava anche la chiesa. Abitualmente, paragonando due figure, gli studiosi si preoccupano di stabilire le reciproche influenze, il comune ambito di letture, di indagarne la catena dei predecessori e così via. Non troveremmo nulla di simile, paragonando le figure di Antonio e di Serafim. Il loro comune ambito di letture è, s’intende, unicamente la sacra Scrittura. Ma anche qui, poiché Antonio era analfabeta, egli poté accogliere la Scrittura solo dall’ascolto e nella sua versione copta. Non sapendo leggere, e conoscendo solo il copto, Antonio non poté attingere nemmeno alla letteratura cristiana antica accessibile alla sua cerchia all’inizio del iv secolo. Per quanto riguarda Serafim, avrebbe sicuramente potuto conoscere gli insegnamenti di Antonio raccolti nella Filocalia, il libro che l’eremita di Sarov teneva sempre con sé e rileggeva costantemente. Ma, come ha mostrato Irénée Hausherr, e con lui concordano la maggioranza degli studiosi, i testi inclusi nella Filocalia sotto il nome di Antonio non risalgono a lui, e non hanno nemmeno un’origine cristiana, ma stoico-platonica1. L’esiguo nu1 Cf. I. Hausherr, “Un écrit stoïcien sous le nom de Saint Antoine Ermite”, in Id., De doctrina spirituali christianorum orientalium, Pontificio istituto orientale, Roma 1933, pp. 212-216.
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Serafim di Sarov e Antonio il Grande …
mero di testi che sono giunti fino a noi e che si possono con maggiore o minore sicurezza ricondurre ad Antonio, si sono conservati di regola in frammenti e traduzioni: latine, copte, siriache, arabe, georgiane. In ogni caso questi testi erano di fatto inaccessibili al lettore russo nell’epoca in cui viveva Serafim. Quest’ultimo poteva verosimilmente conoscere la Vita di Antonio il Grande scritta da Atanasio di Alessandria, che era stata tradotta in slavone ancora in epoca premongolica ed era facilmente accessibile al lettore russo del xix secolo. In tal modo, non c’è motivo di parlare di qualche legame diretto o di prestiti tra i due santi. E nondimeno, lo sguardo attento scorgerà tra di loro una sorprendente somiglianza, tanto che se volessimo cercare nella tradizione monastica antica una figura che si avvicinasse di più alla personalità di Serafim, la figura di Antonio il Grande sarebbe la prima a presentarsi alla mente. La somiglianza tra i due si riferisce soprattutto alla loro parabola esistenziale2. Entrambi nacquero in una famiglia di provincia, non ricca ma nemmeno in miseria. Entrambi lasciarono i propri beni trascurando la posizione sociale, e si ritirarono in luoghi solitari, dedicandosi a una rigorosissima ascesi: Antonio visse rinchiuso per dieci anni in un sepolcro abbandonato, mentre Serafim pregò per mille notti sopra una pietra nella foresta. Acquisita la grazia dello Spirito santo attraverso l’ascesi, entrambi cominciarono ad attrarre a sé una moltitudine di persone, anche se in fondo continuavano a preferire la vita solitaria. Antonio abbandonò la comunità di Pispir, che si era formata dal gruppo dei suoi disce-
2 Per Antonio il Grande, cf. Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio/Antonio Abate, Detti-Lettere, a cura di L. Cremaschi, Edizioni Paoline, Milano 1995; su Serafim di Sarov, cf. I. Gorainoff, Serafino di Sarov. Vita. Colloquio con Motovilov. Insegnamenti spirituali, Gribaudi, Torino 1981; P. Evdokimov, Serafim, uomo dello spirito. Con il testo integrale del “Colloquio con Motovilov”, Qiqajon, Bose 1996; San Serafim. Da Sarov a Diveevo. Atti del IV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa, Bose, 18-21 settembre 1996, a cura di A. Mainardi, Qiqajon, Bose 1998.
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poli vicino al fiume Nilo, e si ritirò nel deserto orientale al di là del monte Kuzlum, non lontano dal mar Rosso. Tuttavia non si estraniò completamente dalla comunione con il proprio monastero, ma visitava regolarmente i fratelli. Al tempo stesso accoglieva un gran numero di visitatori da tutto l’Egitto, compiendo un ministero che oggi definiremmo di paternità spirituale. Analogamente, Serafim si trasferì dal monastero di Sarov nel suo “piccolo deserto”, dove trascorse gran parte della vita. Ciononostante, lo starec non abbandonò il proprio monastero e riservò una particolare cura per la vicina comunità femminile di Diveevo, così come accolse innumerevoli visitatori da tutta la Russia. Entrambi gli asceti, nonostante potessero vivere liberi da ogni preoccupazione materiale, circondati com’erano dall’amore e dalla cura di innumerevoli discepoli e benefattori, nondimeno continuarono a mantenersi con il proprio lavoro. Oltre ai molti tratti comuni della biografia e della vita ascetica dei due santi monaci, la vicinanza principale si osserva nel loro insegnamento. Inoltre, nessuno dei due espose la propria dottrina per iscritto con ricercate formulazioni, ma la trasmisero entrambi attraverso la relazione personale con i discepoli e con le parole più semplici. Penso si possano tranquillamente riferire anche a Serafim le parole che Atanasio di Alessandria aveva detto a proposito di Antonio: “Antonio divenne famoso non per i suoi scritti, non per la sapienza mondana, non per qualche arte particolare, ma solo per il suo servizio a Dio”3. Tutti e due i nostri monaci trasmisero la propria esperienza ad altri, che l’avrebbero messa per iscritto: testimone dell’esperienza spirituale di Antonio fu il grande teologo della chiesa antica Atanasio di Alessandria; Serafim invece confidò la parte più segreta del proprio insegnamento e della propria esperienza di unione con Dio a uno sconosciuto possidente, Nikolaj Motovilov. Ovvia-
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Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio 93,4, p. 218.
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mente, non è possibile porre sullo stesso piano queste due figure, così diverse per formazione teologica, per posizione gerarchica e, infine, anche per la profondità della loro vita spirituale: tuttavia la loro testimonianza ha la stessa eccezionale rilevanza per la comprensione delle figure dei due abba. Al centro della loro testimonianza si colloca l’azione della grazia di Dio nell’uomo con le sue manifestazioni estreme della trasfigurazione e della deificazione. Riguardo all’insegnamento di Antonio, un particolare interesse rivestono le sue sette lettere, indirizzate a diverse comunità monastiche dell’Egitto4. Queste lettere non si sono conservate né nell’originale copto né nella traduzione greca, ma ci sono giunte solo nelle versioni latine, eseguite a partire dal greco e dall’arabo, e anche nella versione georgiana, rinvenuta recentemente da Gérard Garitte5. In queste lettere, in particolare, si dice che il primo dovere del monaco è la conoscenza di se stesso, che conduce alla conoscenza di Dio. Tutte e due i tipi di conoscenza sono possibili attraverso l’acquisizione della grazia divina. È proprio la grazia dello Spirito santo che rende possibile il cammino monastico. Il monaco deve costantemente condurre una lotta interiore ed esteriore: in questo agone lo aiuta lo Spirito santo. Accogliendo lo Spirito santo, il monaco è reso capace di santificare l’anima e il corpo, che è il fine della sua ascesi. Una teologia della deificazione la troviamo anche nel grande discepolo di Antonio, Atanasio di Alessandria. Si può fondatamente ipotizzare che proprio da Antonio e dai suoi compagni nel deserto egiziano il vescovo di Alessandria abbia ricevuto l’insegnamento sulla deificazione. In particolare, egli lo utilizzò nella polemica contro Ario. È nota la sua celebre frase: il Verbo di Dio “divenne uomo affinché noi fossimo deificati” (autòs gàr enenth4
Cf. Antonio il Grande, Detti-Lettere, pp. 238-285. Cf. Lettres de S. Antoine. Version georgienne et fragments coptes, a cura di G. Garitte, Institut orientaliste, Louvain 1955. 5
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rópesen, hina hemeîs theopoethômen)6. Spesso, quando si riporta questa formula, si ritiene che Atanasio deduca dal fatto dell’incarnazione di Dio la deificazione dell’umanità di Cristo; in altre parole, in tale frase l’incarnazione di Dio sarebbe la premessa, mentre la deificazione la sua conseguenza logica. Tuttavia questa non è un’interpretazione del tutto corretta delle parole di Atanasio. Atanasio polemizzava con gli ariani, e per lui era importante che proprio Dio si fosse incarnato, non una qualche creatura, come sosteneva Ario. L’incarnazione di Dio era cioè per Atanasio la conclusione che doveva essere dimostrata. Ed ecco che il presupposto logico per quest’inferenza gli è fornito dal fatto della deificazione. In altre parole, la deificazione dell’umanità di Cristo per Atanasio era un dato, un fatto indiscutibile, dal quale deduceva che Cristo è precisamente il Dio incarnato, poiché la deificazione sarebbe impossibile se non fosse stato Dio a incarnarsi, ma una creatura. A questo riguardo sorge una legittima domanda: da dove Atanasio avrebbe mutuato l’insegnamento sulla deificazione. Da un lato, lo si incontra frammentariamente nella letteratura cristiana precedente, da Ignazio di Antiochia a, soprattutto, Ireneo di Lione. Tuttavia, a mio avviso, Atanasio ebbe anche un’altra fonte: il deserto egiziano. Non è un caso perciò, che proprio questo teologo, così strettamente legato agli asceti egiziani e soprattutto ad Antonio, abbia utilizzato l’argomento della deificazione nella polemica antiariana. Questa ipotesi presenta però una difficoltà: quando Atanasio parla di deificazione, ha in mente l’umanità di Cristo e passa sotto silenzio la deificazione di ciascun uomo preso separatamente. È significativo che la tradizione teologica non calcedonese, che risale alla tradizione alessandrina, parli analogamente di deificazione limitatamente al-
6 Atanasio di Alessandria, L’incarnazione del Verbo 54, a cura di E. Bellini, Città Nuova, Roma 19872, p. 129.
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Serafim di Sarov e Antonio il Grande …
l’umanità di Cristo, senza però prestare attenzione al problema della deificazione personale del singolo asceta. Per spiegare questo paradosso, si può osservare che le opere dei padri alessandrini, soprattutto Atanasio e Cirillo, non trattano direttamente della deificazione del singolo asceta; tra l’altro, non ne avevano nemmeno motivo, nella misura in cui erano impegnati a difendere il dogma cristologico. È più semplice spiegare tale paradosso con le particolarità della dottrina del principale ideologo del movimento anticalcedonese, Severo di Antiochia († 538), il quale, secondo alcuni interpreti, avrebbe dato un carattere eccessivamente individuale all’umanità di Cristo. Comunque sia, se si accoglie l’ipotesi che il deserto egiziano sia stato per Atanasio la fonte della dottrina della deificazione, allora egli avrebbe dovuto dedurne che non solo l’umanità di Cristo, ma anche il singolo uomo è capace di deificazione, e che la deificazione personale dell’uomo è una conseguenza della deificazione dell’essenza umana di Cristo, unita ipostaticamente alla natura divina del Logos. Quando consideriamo la deificazione in Serafim di Sarov, non troviamo il quadro cristologico in cui Atanasio sviluppa la sua teologia. Il corso generale delle riflessioni di Serafim, come abbiamo ora ricordato, è pneumatologico e antropologico. Serafim interpreta tutta la storia dell’umanità, a partire dalla creazione del mondo, dal punto di vista dell’azione dello Spirito santo. Nello stesso senso egli spiega le parabole evangeliche e gli avvenimenti della storia neotestamentaria. Egli è un testimone della deificazione, e per esperienza mostra l’azione dello Spirito santo nel singolo uomo. Con questo, certamente, egli non separa la vita dell’asceta da Cristo e, in particolare, dice quanto segue: “Soltanto le buone azioni compiute unicamente per amore di Cristo ci recano i frutti dello Spirito santo. Qualsiasi azione compiuta, invece, non per amore di Cristo, per quanto buona essa sia, non solo non ci verrà ricompensata nella vita del secolo venturo, ma nemmeno in questa vita può farci godere della 341
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grazia divina”7. Ciò che Serafim fa sperimentare a Motovilov diventa oggetto di riflessione teologica e filosofica all’interno della filosofia religiosa russa, che non a caso è caratterizzata da un approccio pneumatologico e antropologico. Antonio il Grande fu uno dei primi nella tradizione cristiana a porre l’accento sull’azione della grazia di Dio nell’uomo purificato dalle passioni. Oggi ci sembra una sorta di truismo, mentre per l’epoca di Antonio doveva costituire una novità. Indubbiamente nella Scrittura troviamo una gran quantità di riferimenti a ciò, e tuttavia per la letteratura cristiana dei primi tre secoli questo non costituiva un tema centrale. Gli autori cristiani antichi erano più preoccupati dell’apologia della chiesa dagli attacchi dei pagani, della formulazione dei fondamenti della fede, che dello stato interiore di grazia del cristiano. Solo in seguito, a partire dall’esperienza della vita ascetica sistematizzata in oriente da Evagrio Pontico, e dalle Confessioni di Agostino in occidente, l’attenzione degli scrittori cristiani si diresse in particolare sull’interiorità dell’uomo che viveva della fede in Cristo. Paradossalmente, anche ciò che Serafim di Sarov diceva a Motovilov divenne per la sua epoca un’autentica scoperta. Anche se a quel tempo la tradizione monastica russa contava già diversi secoli e aveva nutrito una moltitudine di asceti, anche se moltissimi testi ascetici antichi erano già stati tradotti in slavo ecclesiastico, le parole di Serafim suonavano ai suoi contemporanei assolutamente nuove. Il monachesimo all’epoca, nonostante il gran numero di monasteri, di monaci e monache, si trovava allora in crisi. Era infatti concentrato sulle ascesi esteriori, e non dava sufficiente attenzione all’attività interiore. Non solo, ma in generale la vita religiosa dell’uomo dell’epoca si limitava in misura significativa 7 Colloquio con Motovilov, in P. Evdokimov, Serafim, uomo dello spirito, pp. 69-70. Sul problema dell’autenticità del Colloquio, cf. M. Hagemeister, “Il problema della genesi del ‘Colloquio con Motovilov’”, in San Serafim, pp. 157-174.
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all’esecuzione di prescrizioni esteriori. Lo stesso Serafim ne parla all’inizio del celebre Colloquio con Motovilov: Vi hanno detto: Va’ in chiesa, prega Dio, osserva i comandamenti di Dio, opera il bene: ecco quale dev’essere per te il fine della vita cristiana. E alcuni persino si indignavano con voi per il fatto che in voi albergasse una curiosità non gradita a Dio e vi dicevano: Non andate in cerca di cose più grandi di voi. Ma essi non parlavano come da loro ci si sarebbe aspettati8.
Le sue parole richiamano l’attenzione di tutti coloro che desiderano una vita spirituale profonda sull’attività interiore. Secondo queste parole, la stessa fatica ascetica non è fine a se stessa, ma è solo un mezzo per acquisire un particolare stato di grazia, che deriva dal fatto che Dio dona all’uomo il suo Spirito. E nell’accogliere questo Spirito consiste anche il fine della vita cristiana: La preghiera, il digiuno, le veglie e tutti quanti gli altri precetti cristiani, per quanto di per se stessi possano essere buoni, tuttavia non nel loro semplice adempimento consiste per noi il fine della vita cristiana, anche se essi servono quali mezzi indispensabili per raggiungere tale fine. Il fine autentico della nostra vita cristiana consiste, invece, nel conseguimento dello Spirito santo di Dio. Indubbiamente, anche il digiuno e le veglie e la preghiera e l’elemosina, così come qualsiasi altra buona azione compiuta per amore di Cristo, sono strumenti per il conseguimento dello Spirito santo di Dio9.
La figura di Antonio è un archetipo universale dell’asceta cristiano. L’eremitismo cristiano esisteva anche prima di Antonio,
8 9
Colloquio con Motovilov, p. 68. Ibid., p. 69.
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ma proprio lui divenne l’incarnazione del modello della vita monastica. La figura del santo divenne esemplare per l’imitazione delle successive generazioni di monaci, almeno in oriente. Serafim incarnò quest’immagine per la Russia: in lui il monachesimo antico ritornò a vivere nella Russia del xix secolo, in un’epoca a noi vicina sia sul piano storico, sia su quello geografico e culturale. Qualcuno ha fatto giustamente osservare che Serafim era un contemporaneo di Pu∫kin: ci sono solo quattro anni di differenza tra la morte dell’uno e dell’altro10. Ne risulta che, parallelamente alla vivace vita culturale e intellettuale che animava la Russia all’inizio del secolo decimonono, esisteva anche un’altra vita: segreta, nascosta nei boschi e negli skity ma non per questo meno intensa, e altrettanto capace di lasciare un segno nella sua epoca. A quel tempo queste due vite praticamente non si intersecarono, restando come due rette parallele. Tuttavia questa separatezza non durò a lungo, e già a metà del xix secolo possiamo costatarne l’intersezione, quando gli esponenti d’avanguardia della cultura russa cominciano ad avere contatti con gli starcy di Optina, continuatori della via ascetica di Serafim, e nelle loro opere fanno riferimento a temi di fede e spiritualità. In seguito, all’inizio del xx secolo, possiamo ormai parlare non più soltanto di un’intersecarsi delle due tradizioni, spirituale e intellettuale-artistica, ma di una loro sintesi. È quello che in particolare avviene nel pensiero dei filosofi religiosi russi. In questo c’è ancora un parallelo tra Serafim e Antonio. Nella teologia patristica si è soliti parlare della sintesi alessandrino-cappadoce, grazie alla quale la rivelazione cristiana poté esprimersi nella lingua della cultura greca classica. Questa sintesi fu realizzata da chi conobbe sulla propria riflessione teologica un’influenza, diretta o indiretta, di Antonio: intendiamo innanzitutto Ata10 Cf. I. L. Bagration-Muchraneli, “La poesia religiosa dell’ultimo Pu∫kin”, in San Serafim, pp. 243-260.
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Serafim di Sarov e Antonio il Grande …
nasio il Grande, ma anche Evagrio Pontico e, in una prospettiva più remota, i padri cappadoci. In entrambe le sintesi – quella alessandrina del quarto secolo e quella russa del diciannovesimo – si può scorgere la prosecuzione di quell’esperienza di trasfigurazione che provarono tutti coloro che entrarono in relazione con Antonio o con Serafim. La stessa sintesi in entrambi i casi può considerarsi un’esperienza di trasfigurazione: una trasfigurazione della cultura e dell’arte. La cultura greca, una cultura essenzialmente intellettuale e inizialmente ostile al cristianesimo, fu in ultima istanza, per gran parte grazie all’esperienza del deserto, assimilata dal cristianesimo, cui arrecò non poco vantaggio, fornendo il linguaggio e lo strumentario concettuali per l’espressione dei fondamenti della fede cristiana. La cultura russa era una cultura più artistica che intellettuale. All’inizio del xix secolo essa si era in misura significativa già secolarizzata, e aveva un analogo bisogno di essere di nuovo “cristianizzata” ed entrare in una dimensione ecclesiale, come a suo tempo la cultura antica. Proprio grazie al contatto con la tradizione spirituale, legata ai nomi di Serafim e degli starcy di Optina, la cultura russa, in parte preponderante, ritornò alle sue fonti cristiane, mostrando quella sintesi filosofico-religiosa cui abbiamo prima accennato. Con questo vorrei concludere l’analisi di solo alcuni dei molti paralleli che si potrebbero tracciare tra le personalità dei due santi, tra i quali, pur non essendoci quasi nulla in comune sul piano evenemenziale, sussistono nondimeno un legame e un’affinità interiori profondi, ma che hanno anche entrambi la forza di cambiare i tempi, di lasciare un’impronta sulle rispettive epoche, di trasfigurare le anime umane e intere culture, restando attuali per ogni tempo e luogo, e perciò anche per noi, raccolti qui, nell’ospitale monastero di Bose.
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TRASFIGURAZIONE E MONACHESIMO NELL’INSEGNAMENTO DI IGNATIJ BRJANΩANINOV Serafim BelonoΔko*
La trasfigurazione dell’anima del cristiano è la conseguenza della sua vita secondo gli insegnamenti dell’evangelo. L’aspirazione a vivere secondo l’evangelo mette l’uomo dinanzi alla necessità dell’ascesi (podvig), che consiste nel superamento del proprio egocentrismo. Il cammino verso il Tabor si realizza attraverso il Golgota: per questo la nostra trasfigurazione interiore si accompagna con la crocifissione di noi stessi. La crocifissione dell’“uomo vecchio con la condotta di prima”, secondo l’espressione di san Paolo, “l’uomo che si corrompe dietro le passioni” (Ef 4,22), si realizza con drammatica radicalità nel monachesimo. Giovanni Climaco scrive che al monaco la via stretta sarà indicata da: la mortificazione del ventre, il restare in piedi tutta la notte, la misura nel bere acqua e la scarsità di pane; il calice purificatore delle umiliazioni, le derisioni, gli scherni, le beffe, la recisione delle volontà proprie, la sopportazione delle per-
* Nato nel 1973, ha compito gli studi teologici a Minsk, Salonicco, Tubinga e Birmingham. Dal 2007 è vescovo di Bobrujsk e Vychov (Bielorussia) e prorettore della facoltà teologica dell’Università statale bielorussa. La traduzione dal russo è di Rossella Zugan.
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Serafim BelonoΔko
cosse; accettare il disprezzo senza mormorazione; farsi violenza nel tollerare gli insulti1…
Il monachesimo è la sete di assomigliare sempre di più al Signore, l’ardente aspirazione a incarnare nella propria vita il comandamento del Salvatore: “Siate voi dunque perfetti, com’è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). Ignatij Brjan™aninov (1807-1867), vescovo di Stavropol’, che per tutta la vita percorse lo stretto cammino verso la perfezione della “suprema vocazione” del cristiano, ci ha lasciato le sue opere divinamente ispirate come esempio di ascesi in nome della trasfigurazione di tutto il nostro essere. Essendo egli stesso un monaco modello, sant’Ignatij fece “un’offerta al monachesimo contemporaneo” di cui è difficile esagerare il valore. Molti asceti del xx secolo (quali Varsonofij e Nikon di Optina, l’igumeno Nikon Vorob’ev) affermavano che egli aveva dischiuso all’uomo contemporaneo l’accesso alle opere dei santi padri2. Proprio per questo per noi è molto importante conoscerne l’insegnamento su quello che è il più breve e difficile cammino di trasfigurazione interiore: il monachesimo. Ignatij sin dall’infanzia era attratto dal monachesimo. L’adolescente Dmitrij (questo era il suo nome di battesimo), quando assieme ai genitori andava in pellegrinaggio in molti monasteri, si ritirava spesso in solitudine per pregare o immergesi in letture spirituali. Il sigillo elettivo delle afflizioni, tipico dell’autentico monaco, era presente in lui sin dall’infanzia. I genitori non erano in grado di comprendere il ragazzo; erano infatti gente di mondo, e la sorte di Dmitrij, come degli altri figli,
1 Giovanni Climaco, La scala 2,13, a cura di L. d’Ayala Valva, Qiqajon, Bose 2005, p. 104. 2 Vedi per esempio Nikon (Vorob’ev), Pis’ma duchovnym detjam, Izd. Sviato-Uspenskogo æirovickogo monastyrja 2003, p. 237.
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era per loro già decisa: la carriera militare attendeva i figli maschi, il matrimonio le figlie. Nel 1822 Dmitrij superò brillantemente l’esame presso la Scuola imperiale del genio a Pietroburgo, attirando l’attenzione del futuro imperatore Nicola Pavlovi™. Nella capitale per il giovane erano aperte le case dei salotti più aristocratici, anche se “né i superiori né i compagni dello junker Dmitrij Brjan™aninov sospettavano nulla di quanto avveniva nell’anima di questo studente esemplare, dall’aspetto sempre distinto e sempre discreto nei rapporti con gli altri”3. Egli trovava consolazione solo nella lettura dei santi padri. Ben presto, insieme all’amico Michail Ωicha™ev, Dmitrij inizia a visitare di nascosto la procura (podvor’e) del monastero di Valaam e in seguito la lavra di Sant’Alessandro Nevskij. In questo modo, per il futuro santo iniziò l’effettivo studio della vita monastica. Dopo aver terminato l’istituto, l’ufficiale Dmitrij, superate enormi difficoltà, si allontanò dal mondo – dovette persino dare spiegazioni all’imperatore in persona, che non voleva “perdere” il suo prediletto –. Alla fine Dmitirij si trasferì presso lo starec Leonid (canonizzato recentemente come san Lev di Optina). Così, dal 1827, quando entrò come novizio nel monastero Aleksandr-Svirskij, e fino alla fine dei suoi giorni Ignatij frequentò la scuola dell’ardua ascesi monastica. In questo periodo il santo visitò più di trenta monasteri e in nove di essi visse per un periodo più o meno lungo. Egli diresse il monastero Lopotov, la pustyn’ di San Sergio e il monastero Nikolo-Babaevskij. L’archimandrita Ignatij fu anche vicario dei monasteri dell’eparchia di San Pietroburgo, tra i quali la lavra di Sant’Alessandro Nevskij, i monasteri di Valaam e Konevec e altri. In questo modo, Ignatij conobbe la vita monastica dal vero e non per sentito dire. Egli vide anche il rovescio, per così dire,
3 V. Afanas’ev, Zlatokrylyj Feniks: Mona∫esckij podvig svjatitelja Ignatija (Brjan™aninova), Svjato-Vvedenskaja Optina Pustyn’ 2000, p. 11.
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della vita monastica: tutto quanto c’era di positivo e spesso anche di negativo nei monasteri dell’epoca. Proprio per questo motivo, le sue parole sul monachesimo sono per noi autorevoli e degne di una particolare e costante attenzione. Gli scritti di Brjan™aninov sul monachesimo sono piuttosto numerosi. Di particolare interesse per noi, nel contesto dell’argomento di cui stiamo parlando, è l’Offerta al monachesimo contemporaneo, uscita nel quinto volume dell’opera omnia di Ignatij di Stavropol’ e dedicata esclusivamente al monachesimo. Sono anche piuttosto interessanti alcuni articoli sul monachesimo nel primo e nel secondo volume di Saggi ascetici. E inoltre, nelle sue innumerevoli lettere alle più svariate persone, Ignatij in un modo o nell’altro parla del monachesimo. Brjan™aninov era profondamente convinto che il monachesimo fosse “un’istituzione divina, e nient’affatto umana”4, e riportava a conferma i seguenti passi evangelici, in cui ravvisava “i voti sostanziali del monachesimo”5: Allora Gesù disse ai suoi discepoli: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24). “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21). Allora Gesù fissatolo, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo” (Mc 10,21). “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo … Così
4 Ignatij (Brjan™aninov), Asketi™eskie opyty: v 2-ch tomach I, Izd. Donskogo monastyrja-Pravilo very, Moskva 1993, p. 454. 5 Ibid., p. 465.
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chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26-27.33).
La fondazione del monachesimo risale ai tempi dei santi apostoli: “I cristiani della popolosa e ricca Alessandria si ritirarono alla periferia della città seguendo gli insegnamenti del santo evangelista Marco”6. Brjan™aninov parla poi dell’esistenza del monachesimo in Siria, durante il secolo apostolico7. La principale causa della nascita del monachesimo, come si è detto, è individuata nella rivelazione e nei comandamenti diretti da parte di Dio: Così Antonio il Grande venne chiamato dal Signore alla vita eremitica; l’angelo ordinò a Macario il Grande di insediarsi nel deserto del Sinai; per ordine di un angelo, Pacomio il Grande fondò nel deserto un convento di monaci e ne ricevette le regole scritte per l’organizzazione della vita monastica8.
Brjan™aninov condivide l’opinione della tradizione patristica, secondo cui il trasferimento dei cristiani più sensibili alle esigenze radicali dell’evangelo dalle città verso luoghi deserti ebbe luogo a causa dell’indebolimento dello spirito cristiano. Il cristianesimo si diffondeva ovunque: esso però non manteneva la sua originaria abnegazione. I cristiani delle città e dei villaggi iniziarono ad abbandonarsi ad abitudini mondane, a concedersi lussi e piaceri della carne, prendendo parte a divertimenti popolari e lasciandosi andare ad altre debolezze, che
6
Ibid., p. 466. Ibid., p. 458. 8 Mark (Lozinskij), Duchovnaja Δizn’ mirjanina i monacha po tvorenijam i pis’mam svjatitelja Ignatija (Brjan™aninova), Blago, Moskva 2003, p. 120. 7
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i primi confessori della fede rifuggivano come abiura di Cristo nello spirito. Il deserto rappresentava un rifugio naturale e un nascondiglio inattaccabile dalle tentazioni per quei cristiani che desideravano custodire e sviluppare in se stessi il cristianesimo in tutta la sua potenza9.
Occorre notare che Brjan™aninov paragonava la sfera della vita monastica con la testimonianza eroica (podvig) dei martiri: Si tratta dello stesso identico tipo di ascesi (podvig), ma in forme diverse. Sia il martirio sia il monachesimo sono fondati sulle medesime espressioni dell’evangelo: né uno né l’altro sono inventati dall’uomo, ma sono donati all’umanità dal Signore; né l’uno né l’altro possono essere compiuti se non grazie all’onnipotente aiuto di Dio, all’azione della grazia di Dio10.
Sant’Ignatij sottolineava costantemente il carattere sovrannaturale dell’ascesi monastica: Dopo aver contrastato il peccato fino alla morte, dopo aver acquistato la vittoria su di esso al prezzo di un’impietosa mortificazione del corpo in ascesi al limite della sopportazione, molti monaci con grande naturalezza sono passati dalla testimonianza ( podvig) del monachesimo a quella del martirio, a motivo della natura comune di queste due vie (dvuch podvigov), che consiste nella rinuncia al mondo e a se stessi11.
Egli afferma audacemente che “il podvig di alcuni santi monaci, per il suo carattere sovrannaturale, appare più irraggiun-
9
Ignatij (Brjan™aninov), Asketi™eskie opyty I, p. 459. Ibid., p. 469. 11 Ibid. II, p. 346. 10
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gibile ancora del podvig dei martiri”12. I veri monaci e i martiri ottengono doni di grazia in abbondanza in virtù del corretto adempimento della loro vocazione13. La visione che Ignatij Brjan™aninov aveva del monachesimo del suo tempo non era molto consolante. Sebbene verso la metà del xix secolo i monasteri attraversassero un’evidente fioritura, la loro vita interiore, secondo lui, era piuttosto in decadimento. Così scriveva all’igumeno Antonij che la condizione dei monasteri contemporanei era simile alla neve primaverile, tra gli ultimi giorni di marzo e l’inizio di aprile: esteriormente la neve è neve, ma subito sotto non c’è altro che acqua primaverile: quest’acqua si divora la neve al primo minimo cambiamento atmosferico. La causa più importante della fine del monachesimo è ormai dappertutto l’abbandono dell’attività interiore per accontentarsi della messa in mostra dell’esteriorità. Troppo spesso un’esteriorità da attore maschera una terribile immoralità. Per i monaci autentici è impossibile vivere nei monasteri a causa dei monaci-attori14.
Con “attività interiore” Brjan™aninov intendeva un’attenta vita di preghiera, la sobrietà del monaco, nel senso più ampio della parola; in senso stretto indicava della preghiera di Gesù la pratica da parte dei monaci. “In merito ai monasteri, credo che il loro tempo sia finito, che si siano corrotti moralmente e ormai pressoché autodistrutti”15, scriveva in un’altra lettera.
12
Ibid. Ibid. 14 Sobranie pisem svjatitelja Ignatija (Brjan™aninova), episkopa Kavkazskogo i Ωernomorskogo, a cura di Mark (Lozinskij), Izd. Centra izu™enija, ochrani i restavracii svja∫™ennika Pavla Florenskogo, Moskva-Sankt-Peterburg 1995, p. 113. 15 Ibid., p. 114. 13
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Il motivo di questa situazione disgraziata secondo lui era la mancanza di starcy pneumatofori e anche il basso livello morale nel mondo cristiano: La vita monastica si è indebolita, come anche la vita cristiana in generale; la vita monastica si è indebolita perché è indissolubilmente legata con il mondo cristiano, che dopo aver mandato deboli cristiani in monastero, non può pretendere monaci forti dai monasteri16.
Nonostante quanto detto finora, Ignatij Brjan™aninov continuava a sperare nella rinascita della vita monastica all’interno della chiesa russa. Lo testimonia il suo libro, Offerta al monachesimo contemporaneo. Basandoci proprio su questo testo ci soffermeremo ora in dettaglio sul suo insegnamento relativo al monachesimo. La prima cosa sulla quale il santo attira l’attenzione del lettore nelle “Regole del comportamento esteriore per i novizi” è il fatto che “il monastero è una clinica morale”17. Per ottenere dei risultati – la guarigione spirituale – il cristiano che entra in monastero deve osservare determinate condizioni, come avviene per i malati comuni che si affidano alle cure del medico. Innanzi tutto, il novizio deve allenarsi a una corretta pratica dell’ascesi corporale. Per “ascesi corporale” si intendono sia i diversi lavori in monastero (obbedienze), sia i vari esercizi ascetici che coinvolgono anche il corpo: il digiuno, gli inchini, eccetera. In relazione ai primi (i lavori) Brjan™aninov scrive: “Le occupazioni all’interno del monastero si chiamano obbedienze perché implicano il rinnegamento della volontà propria e del proprio modo di giudicare”18. Un lavoro ordinario nel monastero, svolto in ma16
Ignatij (Brjan™aninov), Asketi™eskie opyty I, p. 562. Id., Tvorenija. Prino∫enie sovremennomu mona∫estvu, Lepta, Moskva 2002, p. 10. 18 Ibid., p. 12. 17
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niera corretta (cioè rinnegando la volontà propria), diventa uno dei più importanti metodi di educazione ascetica del monaco. Allo stesso modo, qualsiasi cosa fatta in autonomia, una qualche ascesi volontaria, la manifestazione di un’iniziativa superflua all’interno del monastero, frena la crescita spirituale dei monaci. Questo genere di azioni, per quanto grandi siano, non solo non portano alcun frutto spirituale, ma al contrario, essendo conseguenze di autostima e di orgoglio, non fanno che rinforzare all’estremo queste passioni nel monaco19.
Ignatij descrive dettagliatamente il comportamento del monaco in chiesa, nel presbiterio, come e quando debba fare gli inchini, togliersi il copricapo e così via. Tutte queste azioni esteriori sono molto importanti per il miglioramento spirituale dei monaci, poiché non bisogna permettersi la benché minima infrazione delle regole dell’ordine e di una corretta disposizione nella preghiera. Se si trascurano le cose minime e da nulla, ben presto si trascureranno le cose più importanti e quindi tutto20.
Per il monaco è molto importante l’esercizio del digiuno. Brjan™aninov sottolinea la necessità per i fratelli di mangiare tutti assieme, nella mensa comune. “Lo stare alla mensa per fortificarsi mediante il cibo deve essere come un proseguimento del servizio liturgico”21. Il cibo va assunto in quantità ragionevole: “I novizi devono nutrirsi fin quasi a sazietà, ma senza abbuffarsi” 22. No-
19
Ibid. Ibid., p. 13. 21 Ibid., p. 26. 22 Ibid., p. 27. 20
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nostante la regola permettesse che di tanto in tanto “i fratelli trovassero gioia” nel vino, Ignatij consigliava ai novizi di astenersene totalmente. Nelle celle non bisogna tenere nulla di superfluo (che induce all’invidia). “Il miglior ornamento della cella del monaco è dato da una biblioteca di testi scelti, a partire dalla sacra Scrittura fino agli scritti patristici sulla vita monastica”23. Ai novizi è categoricamente vietato accogliere nella propria cella persone di sesso femminile (incluse le parenti strette). Sarebbe opportuno anzi astenersi dall’accogliere nella propria cella visitatori laici: anche le visite tra fratelli la maggior parte delle volte risultano controproducenti. Per i novizi le visite reciproche premature sono un pretesto per parlare a vanvera, per le risate, per l’insolenza, tutte cose che danneggiano nel cuore del novizio il timore di Dio e la buona disposizione verso la vita ascetica, risvegliando una più forte azione delle passioni, soprattutto della tristezza, dell’ira e della concupiscenza24.
Ignatij Brjan™aninov mette in guardia i novizi dal prediligere in maniera particolare qualcuno dei fratelli. Bisogna avere lo stesso atteggiamento con tutti, amare tutti ed essere umili di fronte a tutti. Oltre le porte del monastero non si può uscire senza aver ottenuto la benedizione. Meglio rinunciare del tutto a far visita ai villaggi. Come possono non arrecare danno all’anima del giovane monaco, o del novizio che desidera prendere i voti, la vista frequente delle tentazioni e la commistione con le tentazioni, nei
23 24
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Ibid., pp. 28-29. Ibid., p. 29.
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cui confronti il cuore è ancora sensibile e nelle quali ancora si compiace e si appassiona25?
La nostra sapiente guida dei monaci sostiene che il monaco è simile a un fiore di serra, mentre il laico è un fiore di campo. Per questo motivo l’anima del monaco è una delicata piantina che ha bisogno di cure particolari. Da una circostanza apparentemente insignificante può scaturire per il monaco la più grande tentazione e persino la caduta. Un contatto incauto, uno sguardo da nulla, come dimostrato da innumerevoli esperienze, possono cambiare all’improvviso tutte le disposizioni d’animo del monaco26.
Il nostro autore invita, sin dal momento in cui si entra in monastero, a sforzarsi di acquisire buone abitudini. Una buona abitudine, acquisita con fatica in giovinezza, si trasforma in una caratteristica naturale e accompagna ovunque chi l’ha ottenuta27.
Allo stesso tempo, Ignatij metteva in guardia che “le passioni dell’anima crescono e si rafforzano molto velocemente sotto la copertura di una pia esteriorità priva di autentico zelo interiore”28. L’anima dell’uomo non può esistere senza pensieri e sentimenti. Questi ultimi le sono connaturati come il respiro per un essere vivente. Perciò, dopo le regole sul comportamento esteriore, Brjan™aninov dispensa ai giovani monaci i suoi consigli sull’attività interiore. “Il monaco, sin da quando entra in
25
Ibid., p. 35. Ibid., p. 45. 27 Ibid. 28 Ibid., p. 48. 26
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monastero, – scrive – deve applicarsi con la massima cura e attenzione nella lettura del santo evangelo”29. La sacra Scrittura deve testimoniare della bontà di ogni azione e persino di ogni pensiero. “Gli uomini saranno giudicati nel giudizio di Dio sui comandamenti dell’evangelo”30. E ancora: “La vita monastica è vita secondo i comandamenti dell’evangelo”31. Non c’è dolore né tentazione che possa far vacillare il monaco se questi ha fondato la sua vita sui comandamenti evangelici32. In generale, l’attività principale che il monaco svolge nella sua cella dovrebbe essere la lettura e lo studio del Nuovo Testamento. Ignatij sottolinea: “I canoni della chiesa esigono che la Scrittura sia compresa secondo l’interpretazione dei santi padri, e non assolutamente a proprio arbitrio”33. Oltre alla lettura della sacra Scrittura, Brjan™aninov indicava anche la necessità di studiare le opere patristiche, anche se avvertiva che “nella lettura degli scritti dei padri bisogna procedere gradualmente e mai in maniera affrettata”34. Per il novizio è sufficiente conoscere quei padri che hanno scritto per i cenobiti (Brjan™aninov ne fornisce anche una lista), in quanto “la lettura delle altre opere dei santi padri conduce alla meditazione e alla contemplazione, cosa che, per un monaco che non sia ancora sufficientemente purificato dalle passioni, è prematura”35. C’è anche il pericolo di ricevere danno dalla lettura di quei libri patristici che descrivono gli stati più elevati di preghiera e simili. L’angelo caduto cerca di ingannare i monaci e trarli in rovina, non solo allentandoli con il peccato in tutte le sue forme,
29
Ibid., p. 50. Ibid., p. 54. 31 Ibid., p. 56. 32 Cf. Mt 7,24-25. 33 Ignatij (Brjan™aninov), Tvorenija. Prino∫enie, p. 75. 34 Ibid., p. 76. 35 Ibid., p. 77. 30
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ma anche offrendo virtù sublimi del tutto al di sopra delle loro forze36.
Brjan™aninov richiama l’attenzione dei principianti anche sull’importanza della scelta del monastero in cui vivere. Rifacendosi all’esperienza dei santi padri, raccomanda di non entrare in quei monasteri che sono famosi e rinomati nel mondo. L’esperienza mostra che tutta la comunità può venir contagiata dallo spirito di vanagloria non solo a causa dei beni materiali posseduti dal monastero, ma anche per l’alta opinione dei laici sulla particolare religiosità della loro regola37.
Allo stesso tempo Ignatij è convinto che “per vivere secondo i comandamenti evangelici non esistono ostacoli in nessun monastero, quale che ne sia la regola, e anche indipendentemente dalla sua buona organizzazione”38. Naturalmente, la nostra esperta guida dei monaci infondeva coraggio in coloro che avevano già scelto il monastero in cui vivere: Qualsiasi monaco dovrebbe cercare piuttosto in se stesso la causa della sua insoddisfazione e non nel posto in cui si trova. L’esame e il giudizio di se stessi porta sempre a una rappacificazione del cuore39.
È estremamente importante all’interno del monastero custodire se stessi da tutte le tentazioni. Non si può essere negligenti in questo campo.
36
Ibid., Ibid., 38 Ibid., 39 Ibid., 37
p. p. p. p.
79. 37. 75. 76.
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La tentazione, trovandosi di fronte o vicino a noi, necessariamente trova una certa complicità nel nostro comportamento peccaminoso e lascia un’impressione su di noi. Inizialmente l’impressione può essere impercettibile; ma quando si sviluppa e si rafforza nell’uomo, allora lo domina e può condurlo sull’orlo della rovina40.
È in questo senso che Ignatij Brjan™aninov metteva in guardia i monaci perché evitassero i contatti con il sesso opposto. Al contrario, i monaci convinti di non subire alcun danno dall’incontro con le donne, secondo l’opinione del santo, o mentono, nascondendo il turbamento dell’anima, oppure conducono la loro vita in modo disattento e negligente e quindi non vedono la propria condizione, oppure ancora il diavolo li deruba, privandoli della capacità di comprendere e percepire il pericolo, rendendo la loro vita monastica sterile e preparandoli a una sicura rovina41.
Tra il sesso maschile e quello femminile è naturalmente insita un’attrazione reciproca, perciò è del tutto irragionevole ignorare questo fatto. Quanto più spesso si verificano degli incontri – volontari o involontari – con il sesso opposto, tanto più forte è la loro influenza sul monaco. Nel momento in cui ci rivolgiamo a una donna e anche quando se ne resta impressionati, noi questo non lo percepiamo; ma quando ci allontaniamo in solitudine, allora l’impressione, appropriatasi dell’anima, insorge in essa con una forza inconsueta e provoca una terribile lotta contro la lussuria42.
40
Ibid., p. 61. Ibid., p. 480. 42 Ibid., p. 482. 41
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A causa di tutto questo, il monaco deve comportarsi con le donne in maniera “estremamente attenta, non concedendosi neanche una breve conoscenza, guardandosi dal rivolger loro liberamente la parola e prestando molta attenzione soprattutto alla vista e al tatto”43. Per compiere i comandamenti evangelici è necessario affidarsi all’aiuto di Dio poiché con le sole sue forze l’uomo non può fare nulla. “Al povero è proprio chiedere, mentre all’uomo impoverito dalla caduta nel peccato è proprio pregare”44. Ignatij riporta anche l’opinione comune dei santi padri, secondo la quale “la preghiera, essendo figlia dell’adempimento dei comandamenti evangelici, è allo stesso tempo madre di tutte le virtù”45. Proprio per questo egli scrive della straordinaria importanza della preghiera: “La preghiera deve essere l’ascesi più importante per il monaco”46. Sin dall’entrata in monastero bisogna imparare a pregare correttamente. Qui tutto è importante: la preparazione alla preghiera, il procedimento stesso della preghiera, lo stato d’animo nel momento della preghiera, il contenuto della preghiera (la cosiddetta “regola”), e molto altro. Un’attenzione del tutto particolare è riservata alla preghiera di Gesù. Innanzi tutto bisogna predisporsi correttamente alla preghiera. “La prima preparazione consiste nel rigettare il ricordo del male subito e il giudizio del prossimo”47. Quindi bisogna cacciare dalla mente tutte le preoccupazioni mondane e tener presente solo il nostro essere peccatori. “Poniti dinnanzi al Dio invisibile, come un prigioniero condannato, colpevole di innumerevoli crimini, pronto al castigo sta di fronte al suo giudice terribile e imparziale”48. 43
Ibid., p. 488. Id., Asketi™eskie opyty I, p. 138. 45 Id., Tvorenija. Prino∫enie, p. 137. 46 Ibid., p. 139. 47 Ibid., p. 140. 48 Ibid., p. 141. 44
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Una condizione straordinariamente importante per la preghiera risulta essere l’attenzione. Una preghiera attenta “porta innumerevoli frutti: senza attenzione, la preghiera porta rovi e spine”49. Brjan™aninov distingue un’attenzione dono della grazia da un’attenzione frutto dell’applicazione. Ed è proprio quest’ultima a essere facilmente raggiungibile dal principiante: essa consiste nel racchiudere la mente nelle parole della preghiera (secondo le parole di san Giovanni Climaco). Ignatij mette in guardia dall’odio dei demoni per l’ascesi della preghiera del monaco: Conoscendo la forza della preghiera e la sua azione benefica, essi cercano sempre di distrarne l’asceta, insinuandogli di impiegare il tempo che spetta alla preghiera per altre cose; oppure cercano di annientarla o profanarla con distrazioni frivole e peccaminose, insinuando durante l’orazione innumerevoli pensieri e sogni, mondani e peccaminosi50.
Un valido sostegno per l’apprendimento della corretta preghiera è per il monaco la regola di cella. Essa consiste in un numero preciso di preghiere, inchini e letture della sacra Scrittura. In quanto le forze spirituali e fisiche sono diverse in ciascuno, in tanto differiscono i contenuti della regola di cella. In ogni caso, essa deve essere commisurata alle forze e compiuta con la benedizione del padre spirituale. Nel capitolo 22 dell’Offerta al monachesimo contemporaneo, Ignatij Brjan™aninov spiega in che rapporto stia la regola di preghiera personale con le regole comuni a tutto il monastero. Buona parte dell’attenzione del nostro autore è riservata a quell’importantissima attività dei monaci che va sotto il nome di preghiera di Gesù: “La preghiera di Gesù è un’istituzione divina”51, 49
Ibid., p. 143. Ibid., pp. 145-146. 51 Id., Asketi™eskie opyty II, p. 235. 50
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afferma. A sostegno delle sue parole Ignatij riporta le seguenti affermazioni di nostro Signore Gesù Cristo: “In verità, in verità vi dico: qualunque cosa chiederete nel nome mio la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio” (Gv 14,13); “In verità, in verità vi dico: Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena” (Gv 16,23-24). La preghiera di Gesù recita così: Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore. Ignatij Brjan™aninov nel secondo volume dei suoi Saggi ascetici analizza in dettaglio lo sviluppo della preghiera di Gesù in prospettiva storica. Il monaco deve necessariamente compiere l’ascesi di questa preghiera anche perché, al momento della tonsura, questa diventa un vero e proprio comandamento. La preghiera di Gesù si divide in orale, mentale e del cuore. “L’asceta passa dalla preghiera delle labbra a quella della mente in modo del tutto naturale, a condizione che la preghiera orale sia attenta”52. Ignatij sottolinea di continuo che “durante la preghiera di Gesù la mente si concentra su un unico pensiero: il pensiero della misericordia di Gesù nei confronti del peccatore”53. Questa preghiera rientra nella regola di cella del monaco. Tuttavia è necessario praticarla con la mente anche durante il resto del giorno, affinché con il tempo essa diventi ininterrotta: “La preghiera incessante non può essere un’acquisizione del principiante; ma affinché a suo tempo ne diventi capace, egli deve esercitarsi alla preghiera frequente”54. Brjan™aninov parla spesso di quell’importante opera ascetica del monaco che consiste nel ricordo della morte: “Il monaco deve ricordarsi ogni giorno, e diverse volte nel corso della giornata, della morte inevitabile che gli sta dinnanzi, e con il tempo per52
Id., Tvorenija. Prino∫enie, pp. 156-157. Ibid. 54 Ibid., p 163. 53
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venire alla memoria incessante della morte”55. Il ricordo della morte è importante anche perché in questo modo il cuore non si attacca a nulla di ciò che è terreno, ricordando che noi non siamo che ospiti su questa terra. Il monaco che pensa all’ora della sua morte non giudica nessuno … perdona tutto a tutti affinché anch’egli possa essere perdonato. A tutti accondiscende, con tutti è misericordioso, affinché anche a lui siano usate condiscendenza e misericordia. Egli accoglie con gioia qualsiasi dolore sopraggiunga, considerandolo come salario per i suoi peccati nel tempo, che lo libera dal castigo nell’eternità56.
A conclusione del nostro breve discorso sul monachesimo secondo gli insegnamenti di Ignatij di Stavropol’ è necessario sottolineare ancora una volta il significato delle afflizioni nell’opera della trasfigurazione spirituale del monaco. Il Signore Gesù Cristo per tutta la vita si è sottomesso alle offese, alle calunnie, alle ingiurie… Egli ha compiuto il suo cammino terrestre sulla croce insieme a dei criminali condannati, “fuori dalla città”. Per questo motivo, coloro che seguono il Signore in questa vita, devono preparare se stessi a camminare lungo la “strada stretta”57: “Le sofferenze in Cristo sono un suo grandissimo dono (cf. Fil 1,29), riservato a coloro che con tutta l’anima si sono dati al servizio di Cristo”58. I monaci degli ultimi tempi, tra i quali sant’Ignatij annoverava evidentemente anche la sua generazione, si salveranno soltanto con le sofferenze: “Qual è oggi – si chiede – il cammino più sicuro verso la salvezza per un monaco?”, e risponde con queste parole:
55
Ibid., p. 174. Ibid, p. 175. 57 Cf. Mt 7,13-14. 58 Ignatij (Brjan™aninov), Tvorenija. Prino∫enie, pp. 190-191. 56
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Quel cammino che è in grado di custodirlo dall’influsso delle tentazioni interne ed esterne, e che consiste nella rinuncia alle conoscenze e alle libere relazioni sia all’interno sia all’esterno del monastero; nel rimanere il più possibile in monastero e in cella e, per lo spirito, nello studio e nell’adempimento dei comandamenti evangelici ovvero, che è la stessa cosa, nello studio e nel compimento della volontà di Dio, e nella paziente sopportazione, in silenzio e con animo ben disposto, di tutte le afflizioni che la provvidenza di Dio permette che lo tocchino, riconoscendosi dal profondo del cuore degno di tali patimenti. I comandamenti evangelici insegnano al monaco l’umiltà, mentre la croce lo perfeziona nell’umiltà. L’umiltà strappa dall’anima e dal corpo tutte le passioni peccaminose e vi attira la grazia di Dio. In questo consiste la salvezza59.
59
Ibid., pp. 209-210.
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L’ESPERIENZA DELLA TRASFIGURAZIONE IN SILVANO DEL MONTE ATHOS Sergej S. ChoruΔij*
Introduzione. “La variante di san Silvano” dell’esperienza esicasta
La trasfigurazione, com’è noto, non rientra nell’ambito di quei concetti fondamentali della teologia cristiana creati dalla patristica classica e rafforzati poi dalla coscienza liturgica nel periodo dei concili ecumenici. La sua storia teologica inizia ben più tardi. Pur avendo natura cristologica, non ha tuttavia origine all’interno di elaborazioni concettuali legate ai concili cristologici, in particolare alla grande sintesi teologica di san Massimo il Confessore. Anche se in seguito l’idea della trasfigurazione sarà intimamente legata al concetto di divinizzazione, nel corso del primo millennio la teologia della divinizzazione si sviluppa già in maniera attiva, mentre la trasfigurazione solo lentamente si stabilisce come festa del calendario liturgico e comincia ad avere qualche rimando, non molto evidente, nell’omiletica e nella li-
* Filosofo, fisico e matematico, teologo, è autore di importanti studi sulla filosofia religiosa russa del xx secolo e sulla tradizione esicasta. Nel 2005 ha fondato l’Istituto di antropologia sinergetica di Mosca. Traduzione dall’originale russo di Rossella Zugan.
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turgia1. L’eloquente discorso sulla mistica della luce divina e la beata divinizzazione di Simeone il Nuovo Teologo risulta essere in gran parte anche un discorso sulla trasfigurazione; in effetti però, pur parlando di questo argomento, Simeone non usa questo stesso termine2. Molto probabilmente la causa della formazione rallentata di questo concetto si può ravvisare nell’evidente complessità della sua struttura semantica, all’interno della quale si confondono il piano cristologico e quello antropologico, “la trasfigurazione di Cristo” e “la trasfigurazione dell’uomo”. Sin dall’inizio, la trasfigurazione è stata recepita dalla coscienza cristiana nel contesto del racconto evangelico, come un’azione conseguente del Salvatore e un evento che si compie in lui (“Gesù si trasfigurò … dinnanzi a loro”); come altri suoi gesti, esso è diventato una pietra miliare nella storia della nostra salvezza e di conseguenza una festa della chiesa. Per molto tempo, la comprensione dell’evento si limitava a questo suo contenuto immediato. In questo modo buona parte delle coscienze erano soddisfatte e persino ai nostri giorni si può vedere come a questo si limiti anche il Dizionario teologico, pubblicato in Russia poco prima della rivoluzione: La trasfigurazione del Signore … è un importante evento nella vita di G[esù] Cristo, quando egli … dopo avere abbondantemente dimostrato la sua divinità con insegnamenti e mira-
1 Dell’epoca della chiesa primitiva si conoscono le omelie e gli insegnamenti sulla trasfigurazione del Signore di Giovanni Crisostomo, Efrem il Siro, Anastasio il Sinaita e altri; i canoni sulla trasfigurazione vennero composti da Giovanni di Damasco e Cosma di Maiuma nell’viii secolo. 2 “La radicale e improvvisa trasformazione dell’uomo, interiore e spirituale, per le sue caratteristiche, ma che pur investe l’uomo nella sua totalità è chiamata da san Simeone con diversi nomi: nascita spirituale, resurrezione mistica, battesimo nello Spirito, divinizzazione …” (Vasilij [Krivo∫ein], Prepodobnyj Simeon Novyj Bogoslov [949-1022], Paris 1980, p. 348). È chiaro che la “trasformazione” di cui si parla risponde al concetto di trasfigurazione, a ogni modo in questo contesto il “nome” di trasfigurazione non appare.
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coli straordinari, decise in un modo ancor più insolito di mostrare ai suoi discepoli la gloria della sua divinità3.
Eppure sempre, sin dagli inizi, anche se in maniera impercettibile, si riconobbe che in quell’evento qualcosa era accaduto anche ai tre discepoli: essi videro Cristo nella sua gloria, come mai prima l’avevano visto; e questa capacità a loro concessa dalla grazia implicava un cambiamento radicale dei loro vecchi sentimenti, “della modalità della percezione” nella loro stessa natura. Gradualmente quindi, nella misura in cui la loro riflessione ed esperienza spirituali si approfondivano, maturò la concezione che il senso di quell’evento, il suo contenuto interiore, si riferiva proprio ai discepoli, era accaduto proprio a loro come un loro radicale cambiamento, mentre il Salvatore, avendo già una natura divina, era rimasto chiaramente estraneo a qualsiasi cambiamento. Così scrive Vladimir Lossky: “Nessun cambiamento era sopravvenuto in Cristo in quel momento, neppure nella sua natura umana, ma il cambiamento si produsse nella coscienza degli apostoli, che ricevettero per qualche tempo la facoltà di vedere il loro maestro come egli era, risplendente della luce eterna della sua divinità”4. Questo cambiamento, o trasformazione, avvenuto nei discepoli a opera delle energie divine, costituisce il piano antropologico della trasfigurazione. In quell’evento sacro entrambi i piani, quello cristologico e quello antropologico, sono legati indissolubilmente: la contemplazione da parte dell’uomo della Luce increata “della trasfigurazione di Cristo” è la “trasfigurazione dell’uomo”. La distinzione perspicua dei due piani dell’evento, l’acquisizione di una nuova, ricca esperienza sul piano antropologico, la
3 Polnyj Pravoslavnyj Bogoslovskij Encikloped™iesckij Slovar’ II, Sankt-Peterburg s.d., col. 1898. 4 V. Lossky, La teologia mistica della Chiesa d’Oriente. La visione di Dio, Il Mulino, Bologna 1967, p. 216.
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profonda penetrazione di questa esperienza e, su tale fondamento, lo sviluppo di una teologia integrale della trasfigurazione, tutti questi sono i risultati dell’esicasmo maturo tardo bizantino: più specificamente, in linea di massima, dell’esicasmo athonita; e ancora più specificamente – in gran parte già in una solida sistemazione teologica definitiva – delle opere di Gregorio Palamas. Nelle sue due Omelie sulla Trasfigurazione (la 34 e la 35), in parte nell’Omelia sulla Presentazione della Madre di Dio al tempio e in altre, Palamas espone in maniera chiara e netta tutti i fondamenti della teologia della trasfigurazione, a cominciare dal rapporto chiave tra i piani cristologico e antropologico, includendo anche l’indicazione della differenza tra la trasfigurazione di Cristo e la trasfigurazione dell’uomo, per concludere poi con la determinazione di un legame tra l’esperienza della trasfigurazione e la pratica esicasta della preghiera nota come preghiera mentale. Quando Cristo fu trasfigurato … non si appropriò di quello che non era, né si trasformò in ciò che non era, ma quello che era si svelò ai suoi discepoli, prendo i loro occhi: da ciechi li rese vedenti5. “Che cosa significa ‘fu trasfigurato’?”6 … Mentre pregava egli risplendeva e ineffabilmente rivelava a discepoli eletti quella luce ineffabile … per mostrare che è la preghiera a procurare quella beata visione, e perché noi impariamo che, mediante la vicinanza con Dio, raggiungibile con la preghiera e l’unione spirituale con lui, si produce e si manifesta quello splendore, che a tutti è donato ed è visto da tutti coloro che senza interruzione tendono a Dio … “Colui che con mente purificata fissa lo sguardo nei bagliori e nelle grazie [della
5 Gregorio Palamas, Omelia sulla Trasfigurazione 34 (che cita Giovanni di Damasco, Omelia sulla trasfigurazione del Signore 12). Tr. it. in Gregorio Palamas, “Abbassò i cieli e discese”. Omelie, a cura di B. M. Mariano, Qiqajon, Bose 1999, pp. 234-235. 6 Giovanni Crisostomo, Ecloghe 21, PG 63,700.
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bellezza della indicibile luce] ne partecipa in certa misura, come se una fioritura di luce avesse dato nuovo colore al suo sguardo. Per questo anche il volto di Mosè, mentre conversava con Dio, fu glorificato”7. Vedete come anche Mosè fu trasfigurato quando salì sul monte, e così poté vedere la gloria di Dio? Ma egli subì la trasfigurazione, non la operò con la propria energia, secondo quanto è stato detto: “A questo mi conduce la luce, quaggiù limitata, della verità, cioè a vedere e a subire lo splendore di Dio”8. Il nostro Signore Gesù Cristo traeva quello splendore dalla propria natura; perciò non aveva bisogno di preghiera … ma indicava la fonte da dove sarebbe pervenuto ai santi lo splendore di Dio e come l’avrebbero visto. “Anche i giusti”, infatti, “risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro”9 … diventati tutta luce divina, germogli della luce divina10.
La teologia della trasfigurazione, sviluppata dall’esicasmo athonita del xiv secolo, viene custodita ai nostri giorni dal monachesimo della Santa montagna e costituisce la base del concetto ortodosso di questo sacro evento. San Silvano (1866-1938) fu per tutta la vita, sin dalla giovinezza, un monaco athonita, ed è quindi naturale aspettarsi che la sua personale esperienza della trasfigurazione (per quanto gli sia stato concesso dalla grazia) si trovi pienamente nell’alveo della tradizione athonito-palamita che abbiamo brevemente delineato sopra. Però, le prime impressioni che si hanno dagli scritti dello starec sono inaspettatamente del tutto diverse. Sembra di aver di fronte qualcosa di completamente diverso dal discorso ascetico del xiv secolo, e che tuttavia non appartenga a un’epoca posteriore, né sia a noi contemporaneo,
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Basilio di Cesarea, Omelia sul salmo 29,5, PG 29,317B. Gregorio di Nazianzo, Discorso 38,11, a cura di C. Moreschini, SC 358, Cerf, Paris 1990, pp. 124-126. 9 Mt 13,43. 10 Gregorio Palamas, Omelia sulla Trasfigurazione 34, pp. 232-233. 8
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ma risalga a un tempo più antico, ci riporti ai primi secoli della tradizione: se non alla comparsa degli Apoftegmi, almeno all’epoca di Isacco di Ninive e di Giovanni Climaco. Il linguaggio teologico dell’esicasmo bizantino del xiv secolo è in genere raffinatissimo e denso, anche se rimanda all’esperienza ascetica come al fondamento ultimo, ma su questo fondamento costruisce giudizi sottili e una complessa polemica; ma la cosa più importante, al centro di questa polemica, è l’alto grado dell’estasi spirituale e in primo luogo l’esperienza della trasfigurazione, che viene discussa direttamente e con ampiezza. Al contrario, la scrittura dello starec Silvano è estremamente ingenua e disarmata11, totalmente estranea ai ragionamenti e alle polemiche. Essa sembra limitarsi esclusivamente alla trasmissione diretta delle sue personalissime esperienze e meditazioni spirituali. Queste inoltre, a un primo sguardo, non sono per nulla concentrate sui livelli sublimi dell’esperienza spirituale, ma piuttosto esclusivamente sui temi più bassi e consueti quali il pentimento, la contrizione, il dolore, il pianto, riconducibili nell’ascetica classica alle prime tappe del cammino ascetico: le “Porte spirituali”, il “Combattimento invisibile”. Nelle pagine scritte dallo starec regna l’elemento dell’umiltà: una fervente umiltà pervade ogni cosa, l’intonazione del discorso, l’atmosfera, un’umiltà senza fine si afferma come il primo dovere e il bene più grande per l’anima… Per quanto riguarda la trasfigurazione, questo termine non si trova affatto negli scritti dello starec, non fa parte del suo vocabolario. Dalle prime impressioni, sembrerebbe facile concludere di trovarsi davanti a ciò che in occidente viene definita la “fede del minatore”, un fenomeno del ricco mondo della santi-
11 Il suo stile letterario è al limite della sgrammaticatura, infantile: egli in effetti aveva a mala pena imparato a scrivere, come dimostrano i testi precisi dei suoi appunti riportati da A. L. Gurevi™, “BlaΔennyj starec archimandrit Sofronij (Sacharov) i ego rabota nad knigoj ‘Starec Siluan’”, in Prepodobnyj Siluan i ego u™enik archimandrit Sofronij. Po materialam “Siluanovskich ætenij”, Christianskaja Δizn’, Klin 2001, pp. 131-132.
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tà popolare, dove si custodisce la fede pura e semplice, senza sofisticazioni e senza pretese di sublimi contemplazioni spirituali. Come è stato fatto notare12, questa era per esempio l’impressione dell’eminente teologo Vladimir Lossky, che abbiamo citato sopra, e al quale si deve un contributo decisivo alla riscoperta della contemplazione esicasta nella coscienza contemporanea. E tuttavia questa prima impressione non è esatta. Non si deve, né c’è alcun motivo per negare alla figura di san Silvano (e al suo “tipo spirituale”) l’appartenenza all’ortodossia popolare russa, alla religiosità popolare e, se vogliamo, anche a quella del popolino. Qui va però ricordato uno dei vecchi motivi della letteratura spirituale: lungo le vie dell’ascesa spirituale, l’istruzione e l’erudizione non sono affatto la cosa più importante, lo spirito ha i suoi mezzi per ovviare a queste carenze; perciò non di rado accadde che persone semplici, pur non avendo la scienza, furono oggetto della grazia fino a raggiungere le vette più elevate dell’esperienza spirituale. San Silvano fa parte di questa gente semplice. Iniziamo a leggerlo con più attenzione, più approfonditamente e nei suoi appunti semplici e piani troveremo un’esperienza ricca e singolarissima, che racchiude in sé tutti gli elementi classici dell’ascesi esicasta, e ai suoi livelli più elevati. Per di più scopriremo che, alla resa dei conti, gli stati spirituali più elevati, le visite della grazia divina, occupano lo spazio maggiore nell’esperienza di Silvano! E di queste visite, dell’esperienza che ne ha fatto, del loro significato, egli parla spesso, ampiamente e in modo sostanziale. Assieme ad altre manifestazioni della grazia noi scopriremo anche l’esperienza della trasfigurazione, di cui si parla in maniera alquanto diffusa anche se, come abbiamo ricordato, il termine preciso non viene mai utilizzato.
12 Cf. K. Ware, “Kenosi e umiltà ‘a somiglianza di Cristo’ in san Silvano”, in Silvano dell’Athos. Atti del Colloquio internazionale “Tieni il tuo spirito agli inferi e non disperare!”. Silvano dell’Athos: vita e spiritualità, Bose, 3-4 ottobre 1998, a cura di A. Mainardi, Qiqajon, Bose 1999, p. 63.
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Tuttavia sono molto chiare ed evidenti le differenze dallo stile consueto dell’esicasmo bizantino. Innanzi tutto lo starec evita sempre di parlare dell’ascesi come di una disciplina metodica, di una pratica sistematica, del processo del graduale innalzamento lungo i gradini della scala spirituale. Al posto di tutto questo, in Silvano domina il discorso della comunione personale, alla quale partecipano il Signore che ama, la purissima Vergine, l’uomo che si pente con umiltà, e nella quale “lo Spirito santo, buono e dolce, porta l’anima ad amare il Signore e, in forza della dolcezza dello Spirito santo, l’anima non teme le sofferenze”13. Un simile discorso ci ricorda forse un certo tipo di mistica individuale caratteristica dell’occidente, e può persino far sorgere la domanda: la spiritualità di san Silvano è conforme alla tradizione esicasta? Ma la risposta a questa domanda non può che essere positiva. Come abbiamo già detto, l’esperienza dello starec include “tutti gli elementi classici” dell’esperienza esicasta, e questo viene totalmente confermato dalla descrizione di questa esperienza da parte dell’archimandrita Sofronio, secondo il quale l’insegnamento e l’esperienza dello starec corrispondono rigorosamente alla disciplina della quiete (esichía) mentale, che si basa sui corrispondenti elementi canonici: il pentimento; la lotta contro le passioni; la cacciata dei pensieri e delle rappresentazioni immaginarie; la preghiera incessante; la preghiera pura, suprema. Non solo, ma la preghiera incessante, elemento chiave della pratica esicasta, in Silvano non soltanto conserva il suo ruolo cruciale, ma assume una dimensione peculiare ed esclusiva: “Sin dal giorno in cui, per grazia della Madre di Dio, nel suo cuore ha iniziato a operare la preghiera di Gesù, e fino alla fine della sua esistenza, la preghiera in lui non è mai cessata”14. 13 Sofronij (Sacharov), Starec Siluan. æizn’ i pou™enija, Pravoslavnaja ob∫™ina, Moskva 1991, p. 322. 14 Ibid., p. 36.
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Abbiamo qui un tratto molto caratteristico della fisionomia spirituale e dello stile dello starec. Possedendo alla perfezione il metodo esicasta e disponendo del dono della preghiera mentale in una forma e a un livello unici e straordinari, Silvano nondimeno quasi nascondeva questi suoi doni e non rivelava il suo “laboratorio interiore”, le sue (indubbiamente ricche e raffinate) attitudini nella pratica dell’“attività della mente”. Non bisogna però dedurne che egli desse poca importanza a questi aspetti dell’ascesi; sarebbe più giusto pensare che egli li considerasse necessari e irrinunciabili, e quindi impliciti per un monaco: ciò che si deve saper fare, lo si deve fare, senza dilungarvisi troppo, e soprattutto senza mettere in mostra la propria perfezione in questo. Dilungarsi su queste cose lo riteneva inutile, in quanto l’autentico contenuto dell’“attività della mente” (umnoe delanie ovvero noerà ergasía, la preghiera della mente nel cuore) per lui non consisteva affatto nella tecnica o nella metodica, ma piuttosto in ciò che ai suoi occhi aveva un valore molto più elevato: nell’attività della mente, come era convinto per esperienza, si attingeva l’adempimento di entrambi i comandamenti di Cristo: la pienezza dell’amore verso Dio e verso il prossimo15. Proprio questo è quanto egli descrive – in maniera del tutto appropriata – in quel discorso di cui si è già parlato, il discorso dell’amore e della comunione per grazia con Dio nello Spirito santo. In questo modo, vediamo come ci si rivela la particolare posizione dell’esperienza dello starec Silvano all’interno della tradizione esicasta. Pur nelle differenze più marcate, in questa esperienza, rispetto ai modelli classici dell’esicasmo postbizantino, non ci sono, è evidente, delle devianze sostanziali dalla tradizione. Tuttavia, anche se è palese l’incondizionata fedeltà alle basi della tradizione, in virtù della particolarità dei doni spirituali dello sta15 “Anche lo starec Silvano … divideva la vita [esicasta] in attiva e contemplativa, ma considerava l’una e l’altra precisamente come custodia dei comandamenti” (Sofronij [Sacharov], Starec Siluan, p. 125).
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rec, su queste basi si innalza un’esperienza profondamente individuale, irripetibile, si erge – diciamolo pure – una variante personale e originale della spiritualità esicasta. Toutes proportions gardées, qui si può ricordare Simeone il Nuovo Teologo, la cui esperienza si distingue proprio per questi due tratti: la fedeltà alle basi della tradizione e, allo stesso tempo, una lampante originalità, la creazione di una variante propria e unica della tradizione. Le particolarità della “variante di Silvano” si evidenziano in maniera più netta quando si parla dei gradini più elevati dell’ascesi: l’assenza delle passioni, la preghiera pura, la sinergia, la contemplazione della Luce increata, la trasfigurazione e la divinizzazione. Innanzitutto, quanto Silvano rifugge dai discorsi sul metodo, sull’ascesi come processo a tappe, altrettanto evita di rivelare la genesi di questi stati spirituali, del modo in cui l’asceta si innalza fino a essi e li raggiunge. Al posto di tutto questo, egli di norma, “semplicemente” li descrive come doni della grazia. Ecco un esempio tipico: “Pregare è facile, perché ci aiuta la grazia di Dio. Il Signore misericordioso, ci ama e per mezzo della preghiera ci permette di conversare con lui”16. Con ciò stesso viene in luce un’altra caratteristica dello starec, che costituisce già una particolarità della sua “variante”: a tutti i livelli più elevati si conservano, quale elemento universale e costante dell’ascesi, le condizioni di partenza della vita esicasta: il pentimento e l’umiltà, la contrizione e l’afflizione. Ci teniamo a precisare che questa non è affatto una novità introdotta dallo starec: egli più di una volta fa riferimento ai classici della tradizione, da Isacco di Ninive fino a Teofane il Recluso (di regola proprio sul pentimento); noi stessi ne abbiamo a suo tempo proposto un’interpretazione filosofica, basandoci sulla natura “energetica” e non “essenzialistica” dei gradi dell’ascesa spirituale: in forza di tale natura, è possibile mantenere i frutti di qualsiasi grado
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Ibid., p. 273.
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soltanto proseguendo l’operazione a esso corrispondente, vale a dire custodendola in una certa forma contratta, “avvolta” all’interno di tutti i gradini successivi17. In san Silvano, a ogni modo, questo tema si presenta in modo del tutto originale. In primo luogo, tra tutte le “imprescindibili” condizioni della tradizione esicasta, egli al primo posto mette decisamente l’umiltà. È davvero difficile sopravvalutare nell’insegnamento dello starec il ruolo dell’umiltà, in tutta la sua valenza spirituale. Avremo occasione di ritornarci, ma per il momento basti sottolineare che, accanto ai principi esicasti classici della “custodia del cuore” e della “custodia della mente”, Silvano distingue anche un principio specifico di “custodia dell’umiltà”, considerato come condizione indispensabile per la comunione con Dio e l’acquisizione della grazia (e quindi, di tutti i più alti gradini dell’esperienza): “L’anima, perdendo l’umiltà, perde anche la grazia e l’amore verso Dio”18. Come Teofane il Recluso distingue “il pentimento ottenuto solo con le proprie forze” e “il pentimento ottenuto dalla grazia”, così in Silvano troviamo “l’umiltà del principiante” e “l’umiltà di Cristo” per mezzo della grazia, “un’umiltà del tutto particolare” direttamente collegata all’umiltà di Cristo stesso (cf. Mt 11,29), alla divinizzazione e alla trasfigurazione: La grazia dello Spirito santo rende ogni uomo simile al Signore Gesù Cristo già sulla terra. Chi dimora nello Spirito santo, costui è simile al Signore già qui … ed ecco il Signore è così mite ed umile e se tu lo vedessi, allora dalla gioia vorresti dire: “Signore, mi sciolgo per la tua grazia”, ma non riesci a dire nulla a Dio in quel momento perché la tua anima si è completamente trasformata a causa dello Spirito santo19.
17 Cf. S. S. ChoruΔij, K fenomnologii askezy, Gumanitarnoj liberatury, Moskva 1998, pp. 71-72. 18 Sofronij (Sacharov), Starec Siluan, p. 274. 19 Ibid., p. 261
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Trasformato in tutta l’anima, “diventi simile al Signore”: questa, ex definitione, è l’esperienza della trasfigurazione; secondo Silvano, questa è anche l’esperienza dell’umiltà in quanto il Signore, al quale l’uomo diventa simile, è “mite ed umile”. In un altro punto la trasfigurazione viene messa in relazione con l’umiltà in maniera ancor più diretta: “L’umiltà è la luce nella quale noi possiamo contemplare la Luce di Dio”20. Le “imprescindibili” condizioni dell’ascesi custodite dalla tradizione non assumono assolutamente in san Silvano una sorta di forma compendiosa, passando in secondo piano. Al contrario, persino quando si parla dei gradi più elevati dell’esperienza ascetica esse rimangono in primo piano, e non di rado accade che non si percepisca immediatamente che il discorso non verte sugli stadi iniziali, ma su quelli più elevati della comunione con Dio nella grazia. Questo è un tratto consapevole, un segno di profondissima umiltà: lo starec non voleva mettere in evidenza e rimarcare l’altezza alla quale si trovava la sua esperienza e per questo affermava di non essere in nulla superiore a chi iniziava il cammino spirituale: “Io non sono degno di essere chiamato monaco. Ho vissuto più di quarant’anni in monastero e mi considero un novizio alle prime armi”21. Proprio per questo gli stati spirituali più elevati dell’esperienza esicasta vengono tratteggiati negli scritti dello starec in maniera estremamente singolare: avvolti in un’umiltà, un pentimento, una contrizione rigorosamente custoditi, questi stati elevati, in primo luogo, si presentano come parzialmente coperti, nascosti, e in secondo luogo sono penetrati e si tingono di questo medesimo spirito, diventano anch’essi stati di pentimento, di umile sottomissione… Questo è il tipo di spiritualità di san Silvano: la sublime esperienza spirituale nell’umile veste dell’esperienza ingenua di un novizio. 20 21
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Ibid., p. 276. Ibid., p. 368.
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L’esperienza della trasfigurazione: la grazia trovata
San Silvano non fa praticamente uso del termine “trasfigurazione” nemmeno quando parla del santo evento sul Tabor. Tuttavia, il tema della “totale trasformazione” che si compie nell’uomo che acquisisce lo Spirito santo, corre come un filo rosso in tutti i suoi scritti. È evidente che la trasfigurazione appartiene a quegli eventi legati ai cambiamenti operati dalla grazia; è altrettanto evidente, però, che non si debbano considerare, negli insegnamenti dello starec e nella sua esperienza personale, tutti i cambiamenti operati dalla grazia proprio come esempi di trasfigurazione. Per il suo stesso significato, l’esperienza della trasfigurazione si riferisce al modello evangelico e deve, in qualche modo, essere ricollegata all’evento del Tabor, alla trasfigurazione di Cristo: la nostra attenzione dovrà quindi rivolgersi a quei cambiamenti operati dalla grazia nell’uomo, che trovano un nesso preciso con il racconto evangelico. Come mostra la storia della spiritualità ortodossa, questo legame può essere diretto, quando l’asceta è reso degno della visione del Cristo trasfigurato, ma può anche essere meno diretto, quando si limita a fenomeni della grazia e alla contemplazione della luce divina increata. Nell’esperienza della tradizione esicasta si trovano non pochi esempi di episodi di entrambi i tipi: anche nella vita di Silvano dell’Athos possiamo trovare entrambi i momenti. In essi, come vedremo, si racchiude l’esperienza della trasfigurazione così come è stata donata allo starec. Nella semplicità esteriore dei discorsi dello starec, troviamo sempre delle sottili distinzioni: anche nelle acquisizioni della grazia egli distingue diversi gradi e diverse forme. Il santo ricollega le principali differenze nell’acquisizione della grazia da parte dell’asceta a una determinata struttura del cammino ascetico. Accanto alle separazioni e alle suddivisioni già note e acquisite relative a questo cammino (i diversi gradini della scala spirituale, 379
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práxis e theoría), egli distingue ancora un elemento sul quale insiste in modo particolare: Lo starec … indicava tre tappe sostanziali del cammino spirituale: la prima, il ricevimento della grazia; la seconda, la sua perdita; la terza, il ritorno della grazia ovvero una sua nuova acquisizione per mezzo dell’ascesi ( podvig) dell’umiltà. Molti hanno ricevuto la grazia … ma nessuno ha conservato la prima grazia e solo pochissimi l’hanno ricevuta di nuovo22.
Il discepolo spiega questa suddivisione introducendo a sua volta una “classificazione” degli asceti cristiani in tre specie. La prima (dove troviamo “la maggior parte” degli asceti) è costituita da coloro che “aderiscono alla fede con poca grazia e trascorrono la loro vita in un’ascesi moderata… e solo verso la fine dei loro giorni, in virtù delle sofferenze provate, conoscono la grazia in misura un po’ maggiore”. La seconda specie è anch’essa mossa “da una grazia relativamente piccola” ma si distingue per una zelante operosità spirituale in forza della quale, a metà del cammino, riceve una grazia maggiore e verso la fine raggiunge “un alto grado di perfezione”. Infine, “la terza specie, quella più rara, sono coloro che all’inizio del loro cammino spirituale ricevono una grande grazia, la grazia dei perfetti. Quest’ultima specie” richiede la fatica “più ardua perché nessuno, per quanto si possa giudicare, può mantenere in pienezza il dono ricevuto … e in seguito, nel corso degli anni, sperimenta la privazione della grazia e l’abbandono da parte di Dio”23. In tal modo, secondo Sofronio, la struttura del cammino spirituale indicata dallo starec non è affatto universale, anzi a essa appartiene “la specie più rara” degli asceti. È tuttavia indiscu-
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Ibid., pp. 158-159. Ibid., p. 27.
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tibile che lo stesso starec Silvano appartenesse proprio a questa specie, e che il suo cammino personale si fosse strutturato proprio secondo la scansione ternaria da lui descritta. Per di più, nei suoi scritti, si dipanano come un filo rosso le asserzioni che, nel suo caso personale, il dono iniziale della grazia ebbe un significato enorme, incomparabile, e fu l’evento che segnò per sempre il suo stesso destino spirituale. Questo evento iniziale si ricollega direttamente al nostro argomento: in esso lo starec, l’allora ancor giovane Simeone, ricevette il dono incontestabile della trasfigurazione. Questo evento fu la manifestazione di Cristo. Evocata costantemente dallo stesso Silvano e da Sofronio, tale manifestazione in un caso è descritta in prima persona dal suo protagonista: Entrai nella chiesa, all’ora del vespro e, guardando l’icona del Salvatore, dissi: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me peccatore”. A queste parole io vidi al posto dell’icona il Signore vivente, e la grazia dello Spirito santo ricolmò la mia anima e tutto il mio corpo… e la mia anima per mezzo dello Spirito santo conobbe il nostro Signore Gesù Cristo24.
A complemento di questa descrizione abbiamo una testimonianza dello starec sulla grandezza estrema, incontenibile del dono di tale grazia, una grandezza che gli fa paragonare questa manifestazione alla trasfigurazione di Cristo: Conosco un uomo, che il Signore misericordioso ha visitato con la sua grazia: e se il Signore gli avesse chiesto: “Vuoi che te ne dia ancora?” per la debolezza della carne, l’anima avrebbe risposto: “Vedi, Signore, se me ne dai ancora io morirò”, l’uomo infatti è limitato e non può sopportare la pienezza del-
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Ibid., pp. 407-409.
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la grazia. Perciò sul Tabor i discepoli di Cristo caddero a terra a causa della gloria del Signore25.
Occorre qui menzionare ancora un’altra valutazione dell’evento, anche se indiretta, che si trova all’interno della gerarchia dei doni della grazia descritta dallo starec o, per usare le sue parole, la scala della “misura dell’amore di Dio”: Quando un uomo teme di offendere Dio con un qualsiasi peccato, è il primo gradino dell’amore. Chi ha una mente pura dai pensieri, questo è il secondo amore, superiore al primo. Il terzo, più grande di tutti, è quando qualcuno ha sensibilmente la grazia nell’anima. E chi ha la grazia dello Spirito santo nell’anima e nel corpo ha l’amore perfetto26.
Dalla descrizione che abbiamo riportato, è proprio questa la grazia da lui ricevuta nella manifestazione di Cristo. Ecco che cosa dice di questa grazia, che egli chiama anche “quarto amore perfetto verso Dio”: Chi custodisce questa grazia, i suoi resti saranno santificati come le reliquie dei santi martiri, o dei profeti o dei santi monaci … Il suo corpo stesso viene santificato … Chi ha la grazia di Dio in pienezza [in lui] la dolcezza dello Spirito santo fa rinascere tutto l’uomo27.
Quindi la pienezza della grazia gustata nella manifestazione di Cristo a Silvano ha portato con sé il principio della santificazione del corpo e della “rinascita di tutto l’uomo”, ed è stata perciò una grazia trasfiguratrice. Nella descrizione del discepolo 25
Ibid., p. 328. Ibid., p. 334. 27 Ibid., pp. 334, 313. 26
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dello starec tale manifestazione assomiglia ancor di più all’evento della trasfigurazione di Cristo: “Sappiamo dalle labbra e dagli scritti del beato starec che egli fu allora illuminato dalla grande Luce divina, che fu tratto da questo mondo e, in spirito, condotto in cielo, dove udì delle parole impronunciabili”28. Di conseguenza, da quanto detto con tutta chiarezza si evince che l’esperienza di tale manifestazione rappresentò esattamente un’esperienza della trasfigurazione. “La manifestazione di Cristo a fratel Simeone fu indubbiamente l’evento più importante della sua vita”29, l’evento che segnò una svolta radicale nella sua esistenza: Fino a ventisette anni io credevo semplicemente che Dio esistesse, ma non lo conoscevo; ma quando la mia anima lo conobbe ha iniziato ardentemente ad anelare a lui e ora lo cerco notte e giorno con fervore30.
Coltivando per tutta la vita i frutti di questo evento, Silvano vi trovò molti significati profondi, e importanti sfaccettature. È questo avvenimento che ha permesso che si stabilisse una sorta di misteriosa somiglianza e affinità tra il campo d’azione spirituale di Silvano e quello di Serafim di Sarov, una delle colonne della mistica cristiana della trasfigurazione (che tra l’altro operò negli stessi luoghi natali di Silvano, nella regione di Tambov). Silvano non ha la minima inclinazione per i calcoli e i numeri, quindi l’attenzione viene subito attratta da due episodi nei quali, parlando di quell’evento spirituale, egli determina con precisione l’età della persona che lo aveva vissuto. Uno di questi episodi è la manifestazione di Cristo a lui stesso, a Silvano, l’altra è la manifestazione di Cristo a Serafim di Sarov: “San Serafim 28
Ibid., p. 25. Ibid., p. 33. 30 Ibid., p. 312. 29
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aveva ventisette anni quando vide il Signore e la sua anima se ne innamorò talmente che, per la dolcezza dello Spirito santo egli cambio radicalmente”31. In questo modo, lo starec attesta che entrambi gli asceti vennero resi degni della manifestazione alla stessa età; in un altro punto egli definisce quell’anno “l’età perfetta”. Ora, in retrospettiva, possiamo andare anche oltre, in quanto la corrispondenza tra i due eventi, che lo starec mostra con prudenza e in modo appena percettibile, in effetti è evidente e profonda. Anche la visione di san Serafim, concessagli durante la liturgia del giovedì santo, ci è giunta nel racconto in prima persona del suo protagonista: Io, misero, avevo appena detto: “Ascoltaci, Signore!”, e, volgendo la stola verso la folla, conclusi: “Nei secoli dei secoli”; all’improvviso un raggio mi accecò, era come la luce del sole; guardando questa luce, io vidi nostro Signore e Dio, Gesù Cristo in forma di Figlio dell’uomo, nella gloria, brillare in una luce indicibile, circondato dalle forze celesti … librarsi nell’aria dalle porte occidentali della chiesa… Io, polvere e cenere, andando incontro allora al Signore Gesù nell’aria, fui reso degno della sua particolare benedizione: il mio cuore si rallegrò in purezza, illuminato dalla dolcezza dell’amore per il Signore32!
Questo episodio avvenne agli inizi del ministero di Serafim, quando egli era ancora un giovane ierodiacono nell’eremo di Sarov; esso restò una delle pietre miliari fondamentali della sua biografia spirituale ed è rispecchiato nell’akáthistos al santo: “Ti sei illuminato, beato Serafim, nuovo Mosè che hai visto Dio: mentre puro servivi all’altare del Signore, sei stato reso degno 31
Ibid., p. 302. Serafim (Ωi™agov), Letopis’ Serafimo-Diveevskogo monastyrja I, Sankt-Peterburg 1903, pp. 56-57. 32
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di vedere Cristo nel tempio…”33. La profonda affinità tra i due eventi è del tutto palese e anche nelle descrizioni che abbiamo riportato trapela la vicinanza spirituale di coloro che li hanno vissuti. Lo starec Silvano prosegue persino oltre il parallelo, già meno evidente, con san Serafim, dicendo che anche l’asceta di Sarov, a seguito della conoscenza della grande grazia, patì l’abbandono da parte di Dio: “San Serafim si ritirò nella solitudine e avendo capito che in lui non c’era quella grazia, rimase per tre anni su una pietra invocando: ‘Dio sii, misericordioso con me, peccatore!’”34. Sebbene lo starec non faccia mai da nessuna parte una precisa dichiarazione sulla somiglianza e la prossimità della propria esperienza, del proprio cammino spirituale con quello di Serafim, non ci sono dubbi sul fatto che egli ne tenesse conto e che essa avesse per lui un valore notevole. Noi, da parte nostra, possiamo solo riconoscere l’incontestabile presenza di questa prossimità, accanto alla sua sostanziale profondità.
L’esperienza della trasfigurazione: la grazia ri-trovata, che la rivela nelle sue dimensioni “conciliare” e kenotica
Come testimonia san Silvano, l’uomo non è in grado di custodire la grazia ricevuta inizialmente nella pienezza della sua azione trasfigurante. Lungo il suo cammino spirituale, l’asceta deve passare la tappa della “perdita della grazia”: come osserva Sofronio, per coloro che hanno ricevuto “la grande grazia, la grazia dei perfetti”, questa tappa è molto più dura che non per gli
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Íkos 6. Sofronij (Sacharov), Starec Siluan, p. 302 (sottolineatura nell’originale).
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altri, poiché, “dopo aver contemplato la Luce divina”, essi avvertono “le tenebre dell’assenza di Dio e dell’assalto delle passioni, per contrasto, in maniera incomparabilmente più profonda e acuta: essi sanno perfettamente che cosa hanno perduto”35. Negli scritti di Silvano questa tappa è descritta con chiarezza e dovizia di particolari. A differenza di quando scrive delle condizioni spirituali superiori, qui l’umiltà non lo spinge a una particolare moderazione e discrezione nelle espressioni, e lo stile dello starec si fa ricco di toni emozionali, diventa figurato e metaforico, avvicinandosi alla poesia popolare. Egli descrive chiaramente e con forza “la nostalgia di Dio”, la dolorosa ricerca della grazia perduta, del Dio che ha nascosto il suo volto, quando l’anima “con le lacrime lo cerca … e piange e singhiozza e grida al Signore: ‘Dio misericordioso, tu vedi com’è triste la mia anima e come ho nostalgia di te’”36. Questa condizione è paragonata al dolore e all’afflizione di Adamo dopo la cacciata dal paradiso; è così che nasce il poema spirituale del “Lamento di Adamo”, dove il tema dell’assenza di Dio acquista una risonanza universale e cosmica. Il periodo delle ricerche dolorose e delle invocazioni durò a lungo, ma a suo modo fu anche proficuo, in quanto condusse a nuovi approfondimenti dell’esperienza spirituale. Innanzi tutto, sia lo starec sia il discepolo mettono in risalto in questo periodo un punto cruciale: l’acquisizione da parte di Silvano del suo motto spirituale, ormai diventato famoso. Sofronio nota che questo episodio si verifica quindici anni dopo la “manifestazione” di Cristo al giovane Simeone. Ecco il racconto dello stesso Silvano in prima persona: Una volta, di notte, sedevo nella mia cella e demoni mi presero d’assalto … mi alzai per inchinarmi dinnanzi alle icone,
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Ibid., p. 27. Ibid., p. 334.
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ma i demoni mi circondavano, e uno di loro mi si mise davanti, così che mi sarei inchinato a lui. Allora mi sedetti di nuovo e dissi: “Signore, vedi che ti voglio pregare con mente pura, ma i demoni non me lo permettono. Dimmi, che cosa devo fare perché mi lascino in pace?” e nella mia anima udii la risposta del Signore: “Gli orgogliosi soffrono sempre così a causa dei demoni”. Io risposi: “Signore, dimmi che cosa devo fare perché la mia anima si umilii?”. E il Signore mi rispose nell’anima: “Tieni la tua mente agli inferi e non disperare” … Da quel momento io tengo la mia mente agli inferi … e da questo pensiero ho tratto dei grandi benefici: la mia mente si è purificata e la mia anima ha trovato la pace37.
Molto è stato detto in questi ultimi anni sul significato di questa regola spirituale. Per noi però, è ora importante il fatto che da quando Silvano l’ha ricevuta “l’anima ha goduto della pace in Dio”. Egli ne dà questa spiegazione: “Colui che nel suo cuore si ritiene degno del fuoco eterno, costui non può essere attaccato da nessun nemico … ma rimane in Dio con tutta la sua mente e con tutto il suo cuore”38. Questo significa che nell’esicasta è ritornata a dimorare l’esichia e con essa si è manifestata anche la possibilità di nuovi progressi spirituali. La scienza della preghiera mentale mostra con tutta precisione quali sono i progressi e quali sono le tappe che devono essere ulteriormente percorsi lungo l’ascesa spirituale. Certamente il cammino spirituale dello starec seguiva questa disciplina; ma la sua ascesi includeva ora un’operazione precisa, affidatagli dal Signore: tenere la propria mente agli inferi e non disperare (per brevità la chiameremo la Regola di Silvano). E in forza di questo, la tarda, matura esperienza spirituale dello starec, che è espe-
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Ibid., p. 386. Ibid., p. 369.
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rienza dei più alti gradi dell’ascesi esicasta – come l’assenza di passioni, la trasfigurazione e simili – riceve un suo peculiare carattere, conferitole da tale Regola. Come confermano sia lo starec sia il suo discepolo, il significato della Regola sta anzitutto nell’umiltà. Scrive Sofronio: L’essenza della rivelazione fatta da Dio a padre Silvano … sta nel fatto che da quel momento in poi la sua anima ha scoperto … che Dio è umiltà e perciò chi desidera raggiungere Dio deve raggiungere l’umiltà … tutta l’ascesi deve essere orientata verso il raggiungimento dell’umiltà39.
Ma a questo punto l’esperienza dell’umiltà si arricchisce enormemente, si amplia, vi si scoprono nuovi aspetti e nuovi rapporti. La regola di “tenere la mente agli inferi” significava avere la mente sempre e costantemente rivolta alla sorte dei morti, dei peccatori; significava cogliere con la mente e sperimentare con il cuore la propria solidarietà e il proprio legame con loro: con tutti e con ciascuno, con la loro sorte dolorosa. E noi leggiamo nello starec: “L’anima che ha gustato la dolcezza dell’amore di Dio … fino a un certo momento rimane quieta in Dio poi inizia a soffrire per il popolo”40. La Regola conduce a meditare sulla sorte di tutti, a preoccuparsi del destino di tutti: Chi porta in sé lo Spirito santo, anche se in minima parte, costui soffre per tutto il popolo giorno e notte e il suo cuore ha compassione di tutto ciò che Dio ha creato, soprattutto degli uomini che non conoscono Dio e anzi gli sono ribelli … Egli prega per loro giorno e notte anche più che per se stesso41.
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Ibid., pp. 41-42. Ibid., p. 382. 41 Ibid., p. 319. 40
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Si delineano così, nella solidarietà dell’asceta con i defunti, i peccatori e tutti i morti, dimensioni nuove nell’esperienza spirituale: dimensioni universali, conciliari (sobornye). Opera dell’asceta è la preghiera, e la sua vita, anche in queste nuove dimensioni, si esprime innanzi tutto nella preghiera. Gli ultimi anni di vita dello starec sono caratterizzati, nella sua esperienza, da uno sviluppo particolare della “preghiera per l’altro”: per i vicini e i lontani, per i “popoli”, per tutto il creato e soprattutto per color che da soli non vogliono o non possono pregare. Dopo aver ricevuto il comando divino: “Tieni la tua mente agli inferi”, lo starec Silvano fece propria la preghiera per i morti, per coloro che soffrono all’inferno; ma egli pregava anche per i vivi e per i futuri nati … egli pregava effettivamente per tutti: pregare solo per se stesso gli divenne del tutto innaturale42.
Sofronio, che in quegli anni era particolarmente vicino allo starec, afferma che questa “preghiera per il mondo” era stata sviluppata dallo starec in una particolare forma di preghiera, che descrive così: Le parole di queste preghiere vengono pronunciate molto lentamente, una dopo l’altra. Ogni parola, con forza, afferra in profondità tutto l’essere umano. Tutto l’uomo si raccoglie in unità, anche fisicamente. Il respiro cambia, è costretto, o per meglio dire si trattiene … tutta la mente, tutto il cuore, tutto il corpo, fino alle ossa tutto si raccoglie in unità. La mente invisibilmente pensa al mondo; il cuore invisibilmente patisce le sofferenze del mondo. E in esso la sofferenza stessa tocca il limite ultimo. Il cuore, o meglio tutto l’essere, sono avvolti dal pianto, sono profondamente immersi nel pianto. Le 42
Ibid., p. 46.
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preghiere dello starec non avevano molte parole, ma duravano molto a lungo43.
Come possiamo notare da quanto detto sinora, questa preghiera dello starec era insolita anche perché, racchiudendo tutta la tensione spirituale, tutta la forza dell’amore orante, allargava infinitamente i suoi confini, si rivolgeva dalla sorte dei singoli individui alla “preghiera per tutti”, includendo nei “tutti” anche i morti e i non ancora nati, “tutto l’Adamo”; e da lì si allargava anche oltre, abbracciando non solo il genere umano, ma anche gli animali, tutte le creature di Dio e tutto l’universo. Nell’approfondimento e maturazione progressivi dell’esperienza spirituale di preghiera, le sue dimensioni conciliari si arricchiscono, superano incessantemente i propri limiti, sino a crescere a dimensioni cosmiche. La necessità organica di queste dimensioni cosmiche dell’esperienza esicasta e ortodossa sono sottolineate più volte dallo starec. Egli era certo che “l’anima nello Spirito santo ‘vede’ tutto il mondo e lo abbraccia nel suo amore”44, perciò, per ottenere la grazia dello Spirito, “bisogna avere un cuore compassionevole, e non solo amare l’uomo, ma avere compassione di ogni creatura, di tutto ciò che Dio ha creato”45. Questa estensione cosmica dell’amore cristiano venne da lui definita una volta “la malattia del cuore per tutto l’universo”. Com’è noto, questa estensione dell’ascesi e della spiritualità cristiana alle dimensioni conciliare e cosmica è da tempo considerata un tratto caratteristico della tradizione spirituale russa. Sia il tema della “conciliarità”, sia quello della dimensione cosmica del cristianesimo e di Cristo, la trasfigurazione dell’essere creato da parte dell’amore di Cristo, rientrano nell’ambito dei grandi temi della rinascita del pensiero filosofico-religioso in 43
Ibid., p. 47. Ibid., p. 93. 45 Ibid., p. 334. 44
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Russia tra la fine xix e l’inizio del xx secolo. San Silvano era contemporaneo a questo movimento, pur non avendo alcun legame con esso e probabilmente senza nemmeno sapere nulla della sua esistenza. Tanto più sorprendente è perciò che su tali tematiche le parole dello starec siano in totale sintonia con quanto si può leggere nei più grandi filosofi russi del suo tempo: Nikolaj A. Berdjaev, Sergej N. Bulgakov, Pavel A. Florenskij. Ancor più stretto è il legame con Fedor M. Dostoevskij, la cui opera ha ispirato la cultura del Secolo d’argento. Si può esser quasi del tutto certi che lo starec Silvano non lesse I fratelli Karamazov, tuttavia il tema dell’universale forza trasfigurante che l’amore di Cristo racchiude in sé, trova un’espressione pressoché identica negli scritti dello starec e nei discorsi del giovane Markel, fratello del futuro starec Zosima. “Umiliarsi e rallegrarsi, sopportare tutto con amore” così diceva Markel: “La vita è un paradiso, e tutti siamo in un paradiso, ma non vogliamo riconoscerlo: ché, se avessimo volontà di riconoscerlo, s’instaurerebbe domani stesso in tutto il mondo il paradiso”46. Lo starec scrive: “Se le persone conoscessero il Signore… in una sola ora il mondo cambierebbe completamente faccia e tutti proverebbero una grande gioia e un grande amore”47. Nel tema del “cuore compassionevole”, dell’amore per tutte le creature, della lode alla bellezza del mondo di Dio, noi troviamo pressoché la stessa corrispondenza con Dostoevskij – e attraverso di lui anche con il pensiero della rinascita filosofico-religiosa in una delle sue idee fondamentali: “la trasfigurazione del mondo e della vita” per mezzo della Luce che illumina ogni uomo –. Quindi, sebbene lo starec non conoscesse la cultura russa a lui contemporanea, la sua spiritualità e la sua esperienza della trasfigurazione, attraverso fili invisibili, si rivelano prossime alle ricerche del pensiero cristiano
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F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino 1993, p. 384. Sofronij (Sacharov), Starec Siluan, p. 382 (maiuscolo nell’originale).
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russo della sua epoca. Ed è difficile dubitare del fatto che questo ci porta a parlare di una reale esistenza di una sorta di unità conciliare che si può chiamare “coscienza russa”, “anima russa” o in qualsiasi altro modo48… Con lo sviluppo delle dimensioni conciliari nell’esperienza di san Silvano, nel suo mondo interiore non poteva non sorgere il problema classico della vita mistica: il problema del rapporto tra le due situazioni, le due tensioni spirituali espresse dai due comandamenti di Cristo: l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo. Com’è noto, queste relazioni non di rado assumono forma conflittuale, soprattutto quando le due tendenze si presentano all’uomo come irrealizzabili, se non in linea di principio almeno in pratica, nella vita. A questo proposito, Sofronio parla in questi termini dell’esperienza dello starec: Nell’anima di un uomo che non conosce l’amore perfetto, i due comandamenti di Cristo spesso si trovano in una stridente contraddizione reciproca. Colui che ama Dio si allontana dal mondo e si immerge in una sorta di egoismo spirituale … Chi ama appassionatamente il mondo umano vive le sue passioni. Portando in sé l’afflizione per il mondo, insorge contro Dio … ma nel beato starec si potevano vedere, a immagine di Cristo, l’uno e l’altro amore nella loro organica unità49.
Si tratta, a ogni modo, di una formula troppo concisa. In relazione alle due situazioni spirituali, “ai due amori” nell’esperien-
48 Indubbiamente, una concreta fonte di questa corrispondenza è l’inizio del Discorso 48 di Isacco di Ninive (testo slavo), in cui egli parla con trasporto del “cuore che arde nell’uomo per tutta la creazione, per gli uomini, per gli uccelli, per i demoni e per ogni creatura”. Proprio nella traduzione russa, uscita nel 1854, compare l’espressione “un cuore compassionevole” (serdce miluju∫™ee). Questo passo di sant’Isacco un tempo era noto e particolarmente amato in tutta la Russia ortodossa, e l’intera tematica che abbiamo discusso vi era strettamente associata. 49 Sofronij (Sacharov), Starec Siluan, p. 215.
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za dello starec, bisogna guardare con maggiore attenzione, tanto più che a essa sono collegati anche i tratti essenziali dell’esperienza della trasfigurazione. Indubbiamente Silvano si sofferma con uguale intensità e insiste sull’indiscussa necessità di custodire sia il primo sia il secondo comandamento di Cristo: non solo, ma come si è già detto, citando Sofronio, tutto il contenuto dell’ascesi esicasta, inclusa la práxis e la theoría, consiste per lui nel custodire questi comandamenti. Del comandamento dell’amore di Dio (l’amore verso Dio) egli parla incessantemente per tutta la sua vita; del comandamento dell’amore verso il prossimo, verso il “fratello”, egli parla in particolar modo negli ultimi tempi, quando l’aspetto conciliare della sua esperienza spirituale si è perfettamente sviluppato. Il tema dei comandamenti è caratteristico in Silvano: in esso appaiono di nuovo quei tratti, così tipici per lo starec, di composizione ovvero intreccio di elementi “iniziali” e “sublimi” del cammino ascetico. Di solito il tema dei comandamenti si inserisce nell’ascesi assieme ai temi propri degli elementi iniziali: l’osservanza dei comandamenti viene vista come una specie di pragmatica della vita religiosa, il compimento di semplici regole obbligatorie. A ogni modo per lo starec, come si può notare, i due comandamenti, appaiono in una luce totalmente diversa! L’uno e l’altro sono comandamenti dell’amore spirituale, e con ciò stesso a ognuno di essi sono connessi i corrispondenti elementi specifici dell’esperienza spirituale. Per un’imprescindibile caratteristica di questa esperienza, in essa si può e si deve crescere, vi sono gradini di innalzamento e, in forza di ciò, sia l’adempimento del primo comandamento, cioè l’amore verso Dio, sia l’adempimento del secondo, ovvero l’amore verso il fratello, possono raggiungere la propria pienezza, la vetta in cui tale pratica diventa un’autentica esperienza mistica: l’esperienza dalla grazia sensibilmente acquisita, l’esperienza della trasfigurazione. Su queste vette della “mistica dell’amore verso Dio” e della “mistica dell’amore verso l’uomo” sta anche l’esperienza dello starec. 393
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Il discorso di Silvano sui comandamenti di Cristo è quindi il discorso sui più elevati stati spirituali, sull’esperienza della grazia e della trasfigurazione. Gli scritti dello starec lo confermano pienamente. È chiaro che non c’è bisogno di dimostrare la partecipazione dell’amore di Dio a tale esperienza; per quanto riguarda invece l’amore verso il fratello, la cosa non è poi così evidente, perciò Silvano afferma con forza e nettezza: “Dall’amore verso il fratello ci viene la grazia, e dall’amore al fratello essa è custodita”50. I suoi detti non si limitano mai a tesi generali e questa sua “affermazione dogmatica” viene riccamente concretizzata: vengono citati vividi esempi, casi dalla vita personale, semplicissimi e indiscutibilmente convincenti. Il criterio di autenticità dell’“amore verso il fratello” è dato dall’amore per i nemici: proprio il suo raggiungimento è il risultato dell’effettiva acquisizione della grazia poiché “non possiamo amare i nemici senza la grazia”51. Ai più alti livelli di questo amore fraterno si raggiunge l’esperienza della trasfigurazione, della visione trasfigurata della realtà: Ai suoi eletti il Signore concede una grazia così grande che essi con l’amore abbracciano tutta la terra, tutto il mondo, e la loro anima arde dal desiderio che tutti gli uomini siano salvati e vedano la gloria del Signore52.
Ma questa definitiva affermazione della “mistica del secondo comandamento” come sfera dell’esperienza di grazia pone daccapo di fronte all’interrogativo sulla relazione tra “i due amori”. Ciascuno, nella sua perfezione, offre un’esperienza di grazia e trasfigurazione, ma questa esperienza differisce nei due casi, è di genere diverso, e l’uomo non può sperimentarle entrambe simul50
Ibid., p. 336. Ibid., p. 212. 52 Ibid., p. 332. 51
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taneamente. Se torniamo al giudizio di Sofronio riportato sopra, allora possiamo affermare di essere giunti a una conclusione un po’ diversa: il problema del rapporto tra l’esperienza del primo e del secondo comandamento, il problema della composizione e della concordanza di questi aspetti dell’esperienza rimangono tali anche per chi ha “conosciuto l’amore perfetto”. Si può anche dire di più: proprio in quest’ultimo caso, ai più alti livelli dell’esperienza spirituale, il problema rivela tutta la sua profondità, la sua natura quale una delle aporie fondamentali dell’esperienza religiosa. Gli scritti degli ultimi anni dello starec indicano chiaramente che egli si trovava sulle vette dello spirito, che la sua era un’esperienza dell’amore di grazia e che questa era comunque un’esperienza duplice, che racchiudeva in sé due tipi diversi di esperienza che non si fondevano l’uno nell’altro. L’anima è attratta da lui in maniera insaziabile … straripa per l’amore di Dio ed è tutta immersa in Dio … e il mondo a quel punto è totalmente dimenticato. Ma il Signore misericordioso non fa sempre questi doni all’anima. A volte egli dona l’amore per tutto il mondo, e l’anima piange per il mondo intero e prega il Signore affinché riversi la sua grazia su ogni anima e ne abbia pietà53.
E ancora: Quando l’anima è in Dio, allora il mondo è completamente dimenticato e l’anima contempla Dio. In un altro momento il Signore muove l’anima con la sua grazia affinché preghi per tutto il mondo54.
53 54
Ibid., p. 343. Ibid., p. 438.
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In definitiva, questa irriducibile duplicità delle tensioni dell’amore, questa esperienza duale è raffigurata con potenza artistica nel poema “Il lamento di Adamo”. Ed è importante che lo starec non fornisca mai una qualche soluzione razionale o logica a tale aporia. Senza contrapposizione, ma anche senza fusione né subordinazione, nella più elevata esperienza dell’asceta sussistono due poli: quello del totale oblio del mondo e della creatura nella perfetta immersione nell’amore di Dio, e quello del dolore e della compassione per tutte le creature, abbracciando ogni uomo e ogni creatura nel proprio amore.
Conclusioni
È tempo di trarre le conclusioni. Abbiamo osservato che il cammino dello starec corrisponde pienamente alla successione delle tre tappe da lui stesso indicate. Secondo la sua stessa testimonianza, lungo questo cammino si compie totalmente il ritorno o il ri-trovamento dell’esperienza della grazia dello Spirito santo: “Beato colui che non perde la grazia di Dio, ma s’innalza di forza in forza. Io perdetti la grazia, ma il Signore ebbe molta compassione di me e me ne ha fatta gustare una più grande”55. Le tappe dell’itinerario spirituale sono state accompagnate anche dall’esperienza della trasfigurazione, che ha avuto anch’essa una sua evoluzione. Alla prima tappa, l’ottenimento della grazia iniziale, “di viatico”, da parte del novizio ventisettenne Simeone, ha preso la forma di un evento spirituale, sperimentato come una vera e propria esperienza di trasfigurazione, e lo starec stesso paragonò in
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Ibid., p. 302.
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seguito questo evento, nella sua natura spirituale, nella sua azione, con il santo evento sul Tabor. Nella tappa conclusiva, con il ri-trovamento della grazia avviene anche il ri-trovamento dell’esperienza della trasfigurazione. Come ha osservato lo starec, la grazia ri-trovata era ancora maggiore della grazia iniziale; e noi possiamo vedere che questo si rifletteva anche sull’esperienza della trasfigurazione. La ri-trovata esperienza della trasfigurazione si arricchisce grazie a un nuovo genere di esperienza analoga: l’esperienza di una visione trasfigurata della realtà, che si raggiunge nell’alveo della mistica della conciliarità, della “mistica dell’amore verso il fratello”, sulle via della preghiera nell’afflizione e del pianto per “tutto l’Adamo”, per il mondo intero. Accanto a essa è presente, come ri-trovato, anche un altro, più tradizionale tipo di esperienza di trasfigurazione, che si manifesta come coronamento del perfetto amore per Dio e che porta con sé il “perfetto oblio di tutto il mondo”. Affiancandosi, essi sono presenti l’uno accanto all’altro nel periodo della tarda maturità ascetica di san Silvano, mostrando con questa vicinanza una sorta di misteriosa soluzione della cruciale aporia della vita mistica. Ma c’è un tratto comune importante che unifica tutta l’esperienza ascetica matura di Silvano e le conferisce il sigillo dell’unicità. Tutta l’ascesi dello starec in questo periodo si compie sotto il segno dell’indefesso adempimento della Regola ricevuta: “Tieni la tua mente agli inferi e non disperare!”. Come già abbiamo notato, nel suo contenuto cristologico questa Regola è profondamente kenotica. La mente dell’asceta non può non esser protesa verso Cristo; di conseguenza, l’esperienza del rimanere all’inferno diviene in qualche modo per la mente un’esperienza di desiderio di Cristo e di unione con lui. Essa cerca l’incontro con Cristo pur rimanendo all’inferno e questo incontro è reso possibile solo ed esclusivamente dalla kenosi di Cristo: la discesa agli inferi del Salvatore, testimoniata non tanto nelle Scritture, quanto nei testi liturgici, secondo i quali Cristo scese “agli in397
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feri con l’anima quale Dio”56 e “distrusse gli inferi … con lo splendore della divinità”57. L’incontro con il Salvatore è sempre un’esperienza di trasfigurazione: e quindi “la variante di Silvano” della spiritualità esicasta ci rivela una nuova “variante”, un nuovo volto anche di questa esperienza: nell’esperienza ascetica dello starec abbiamo dinnanzi a noi l’esperienza di una “trasfigurazione kenotica” sui generis. A questa conclusione giunge anche il metropolita Ioannis Zizioulas, quando osserva che “nel caso di Silvano il tema della trasfigurazione, tema centrale nella tradizione athonita” si riveste di una “cristologia kenotica”58. Non possiamo perciò che far nostra anche la conclusione tratta dallo stesso Zizioulas: Per questo l’athonita è più contemporaneo a noi di quanto lo siano gli esicasti del xiv secolo: rispetto ai bizantini, oggi abbiamo una maggiore consapevolezza della tragedia del vuoto e del nulla59.
La crescente devozione del santo nel mondo cristiano dimostra che la coscienza cristiana lo ha annoverato tra coloro la cui esperienza è particolarmente necessaria e preziosa affinché possiamo resistere a questa tragedia.
56
Tropario dell’ufficio pasquale, in Anthologhion III, p. 144. Tropario del grande sabato, in Anthologhion II, p. 1108. 58 I. Zizioulas, “La teologia di San Silvano dell’Athos”, in Silvano dell’Athos, p. 124. 59 Ibid. 57
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LA TRASFIGURAZIONE NELL’ORTODOSSIA ROMENA TRA MISTICA E STORIA Iustin Marchis¸*
Al cuore degli evangeli sinottici, l’episodio misterioso della trasfigurazione di Gesù ha ricevuto un’attenzione particolare nel cristianesimo d’oriente, dove ha suscitato molteplici interpretazioni: esegetiche, omiletiche, liturgiche, mistiche e, non ultime per importanza, iconografiche.
La trasfigurazione in oriente: monachesimo, storia ed escatologia
Il fatto che la rappresentazione più antica di questo episodio evangelico sia il celebre mosaico che dal 566 abbellisce l’abside sopra il santuario della basilica giustinianea ai piedi del monte Sinai, attesta chiaramente l’interesse verso il mistero della trasfigurazione da parte del monachesimo, di cui la codificazione di una delle maggiori “correnti” spirituali è proprio la celebre Scala * Ieromonaco, stimato teologo e pubblicista, è rettore della chiesa Stavropoleos a Bucarest, dove svolge il suo ministero di padre spirituale e dove attualmente si sta formando una comunità monastica. Traduzione dall’originale romeno.
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di Giovanni Climaco († 670). In effetti, nella spiritualità orientale classica i molteplici significati – soteriologici ed escatologici – della teofania evangelica della trasfigurazione spettano ai principali rappresentanti della tradizione monastica di due regioni ed epoche storiche distinte, collocate alle estremità geografiche e cronologiche del mondo bizantino: da una parte la Palestina dei secoli vii e viii, con l’esegesi spirituale di Massimo il Confessore († 662) e l’omiletica di Andrea di Creta († 740) e Giovanni di Damasco († 749); dall’altra l’esicasmo athonita del secolo xiv, con le omelie e l’esegesi spirituale di Teolepto di Filadelfia († 1322), Gregorio il Sinaita († 1347) e Gregorio Palamas († 1359). A una considerazione più attenta, si può notare che l’insistenza sul mistero della trasfigurazione da parte dei padri e degli autori spirituali orientali, ha non solo un significato puramente teoretico, ma anche uno profondamente esistenziale, amplificato dal contesto storico. Sia il secolo vii, sia il secolo xiv, furono epoche drammatiche per la vita delle comunità cristiane dell’impero romano d’oriente, la cui stessa sopravvivenza fu messa in forse dall’irresistibile avanzata dell’islam arabo, nei secoli vii-viii e, seicento anni dopo, ottomano. Il trionfo del monoteismo islamico, razionalista e con una formidabile organizzazione militare, fu vissuto come una sorta di crisi apocalittica della figura storica dell’impero e della società cristiani, come un giudizio sull’inconsistenza delle strutture e delle realizzazioni storiche, e come un appello alla conversione spirituale e alla dimensione mistica, interiore, della prospettiva escatologica del cristianesimo evangelico delle origini. Questa prospettiva, al tempo stesso escatologica, mistica e teofanica, sembra agli ortodossi quella che meglio si adatta all’episodio evangelico centrale della trasfigurazione. Qui Gesù, trasfigurato, affiancato da Mosè ed Elia dinanzi ai tre discepoli eletti, attesta – attraverso la luce e la nube divina che lo hanno avvolto e attraverso la voce che si ode dal cielo – di non essere un 400
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semplice profeta, ma il Figlio unico del Padre celeste. Questo a sua volta conferma non solo la sua figliolanza divina (“Questi è il mio Figlio, l’amato”), ma anche il paradosso della sua economia salvifica, che richiede che nella gloria si entri solo attraverso la sofferenza e l’umiliazione, poiché alla vita eterna si giunge attraverso la morte di croce: “Ascoltate lui!” (Mc 9,7). Più precisamente, occorre ascoltare colui che sei giorni prima aveva detto “in faccia” agli apostoli e affrontando la resistenza di Pietro/Satana, che “è necessario che il Figlio dell’uomo soffra molto e sia riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare” (Mc 8,31). E aveva poi fatto l’enigmatica promessa: “In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti che non morranno senza avere visto il regno di Dio venire con potenza (en dynámei)” (Mc 9,1). Questa promessa precede immediatamente il misterioso episodio che segue: “Dopo sei giorni, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li portò sopra un monte alto, in un luogo appartato, loro soli, e si trasfigurò davanti a loro … E mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti” (Mc 9,1-2.9). Autentica teofania, superiore a quella del Sinai, la trasfigurazione di Gesù è al tempo stesso una resurrezione anticipata e una parusia prefigurata. Episodio centrale negli evangeli sinottici, essa ha una funzione ermeneutica chiave, descrivendo il modo in cui Gesù Cristo oltrepassa tanto gli schemi del profetismo veterotestamentario, quanto quelli di un messianismo apocalittico di tipo giudaico. Gesù è il Figlio unico del Padre, nel quale la gloria sussiste eternamente, e il profeta escatologico della gloria del regno di Dio, rivelata agli uomini con la predicazione, i miracoli e soprattutto la sua passione e resurrezione. L’escatologia del regno è strettamente subordinata a una cristologia trinitaria e a un’economia kenotica. Il regno di Dio che Gesù porta con la sua passione è in senso stretto, la sua gloria di Fi401
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glio eterno dell’amore del Padre nella luce dello Spirito santo. La gloria escatologica non è un regno apocalittico mondano, ma il regno che viene è la luce teofanica della gloria dell’amore trinitario eterno tra il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. Segnando la distanza tra il regno dell’amore di Dio e la sua luce, da un lato, e i regni della forza e della violenza di questo mondo dall’altro, la parusia anticipata del monte della trasfigurazione fu avvertita dai monaci d’oriente – accanto alla celebrazione liturgica della festa – come un’escatologia realizzata, autentica, spirituale, al tempo stesso certezza, speranza e incoraggiamento per i cristiani perseguitati ed emarginati dall’avanzata trionfale dell’islam. Per cristiani autentici, saldi nella loro fede, forti nella loro speranza e ardenti nella loro carità, il regno di Dio che viene “con potenza” è immediatamente accessibile nella liturgia della chiesa e nella liturgia interiorizzata della preghiera del cuore, come incontro con Cristo nella luce della sua gloria eterna. Questa è l’escatologia mistica che il monachesimo esicasta orientale ha sempre opposto alle ricorrenti crisi di una storia apocalittica.
La vocazione taborica e filocalica dell’esicasmo romeno
Il monachesimo orientale ha quindi una vocazione e un destino non solo filocalico, come si è detto, ma anche una vocazione e un destino taborico. Così come scriveva nel 1994 l’attuale patriarca della chiesa ortodossa romena, l’allora metropolita di Moldavia Daniel, “ogniqualvolta si sia presentata nella storia una crisi spirituale, il monachesimo è sempre stato quello che ha portato la luce del Tabor … Era necessario che il creato non si legasse ai regni transitori, ma mantenesse il cuore nella luce non transeunte del Tabor, del regno di Dio, luce che i santi esicasti sperimentarono già in questo mondo come primizia del regno dei 402
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cieli”1. Se possiamo considerare l’esicasmo palestinese-sinaita del secolo vii come la risposta alla crisi storica innescata dall’invasione araba del Medio oriente, l’esicasmo palamita del xiv secolo può essere visto sia come la replica anticipata alle sfide del razionalismo e della secolarizzazione provenienti dalla cultura occidentale moderna, sia come una preparazione spirituale alla grande prova storica dell’asservimento dei popoli ortodossi dei Balcani da parte ottomana. Tanto nel xiv secolo quanto nel xviii gli esicasti avvertirono acutamente la tensione tra violenza e amore nel conflitto tra islam ottomano e Bisanzio cristiana, ma anche la tensione interna (il “combattimento invisibile”) che incominciava a manifestarsi in Europa occidentale tra i “lumi” aridi e astratti dell’intelligenza razionalista separata da Dio e la luce trasfigurante dell’intelligenza unita a Dio nella preghiera e nella santità di vita. Prima del crollo dell’impero bizantino, diceva l’allora metropolita e attuale patriarca di Romania Daniel, attraverso l’esicasmo palamita “Dio preparò gli ortodossi mostrando loro le altezze spirituali del suo regno. Per questo, quando Bisanzio cadde sul piano politico e militare, rimase tuttavia nella spiritualità dei suoi monaci e teologi … Quando tuttavia all’inizio del xx secolo si avvicinò la caduta di un altro impero cristiano, l’impero russo, con la rivoluzione del 1917, ci fu anche allora bisogno di una preparazione dei cristiani ortodossi. E questa preparazione, che era in gestazione per tutto il xix secolo, è iniziata a Neamt¸ nella seconda metà del secolo xviii”2, quando con san Paisij Veli™kovskij (1722-1794) fu tradotta la Filocalia 1 Daniel (Ciobotea), “Alocut iune la Simpozionul bicentenarului Sfântului Paisie , Velicikovski de la Neamt,, 15 noiembrie 1994”, in Românii în reînnoirea isihasta˘, Trinitas, Ias¸i 1997, pp. 13-14. 2 Ibid., pp. 14-15. “A Neamt san Paisij ha preparato per il suo popolo e per la chie, sa russa un grande rinnovamento spirituale. Vediamo in questo quale sia l’operare di Dio: i romeni hanno donato agli ucraini Pietro Moghila, ma dall’Ucraina è giunto un giovane che si è adattato, si è formato nella spiritualità romena, ha raccolto dal santo Monte Athos i santi testi della Filocalia, ne ha organizzato la traduzione e ha arricchito spiritualmente sia i romeni sia gli slavi” (ibid., p. 13).
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slava, pubblicata nel 1793 a Mosca, per tutta l’ortodossia slava. Il fenomeno filocalico moderno, che se nel xviii secolo era collegato al nome di Paisij, nel secolo xx è legato a quello di padre Dumitru Sta˘niloae (1903-1993), non è tuttavia l’unico argomento che permette di parlare di “un destino filocalico e di una vocazione filocalica presso i romeni”3.
Gregorio il Sinaita, l’esicasmo e la “T¸ara Româneasca˘” medievale
Di ancora maggior rilievo è il fatto che i principati medievali di T¸ara Româneasca˘ (Valacchia) e Moldavia si sono costituiti come stati indipendenti in piena atmosfera esicasta. Qualche mese prima della morte di Gregorio Palamas (14 novembre 1359), il patriarca esicasta Kallisto I (1350-1363), discepolo e biografo di Gregorio il Sinaita, su richiesta del principe Nicolae Alexandru (1332-1364) – successore di Basarab I il Fondatore –, trasferiva nel maggio 1359 il metropolita Iachint da Vicina a Arges¸, nella sede metropolitana della nuova metropolia dell’Ungro-Valacchia, esortando non solo il clero e i laici ma anche tutti i monaci a obbedire al metropolita. Bisogna dire, come sottolinea Dumitru Sta˘niloae, che c’erano dei monaci, e dunque anche dei monasteri, ancor prima della fondazione di Vodit¸a e Tismana, forse non così ben organizzati e dotati dai principi come quelli posteriori, ma eremi o piccoli monasteri, nati grazie allo zelo del popolo. I monasteri romeni, messi sotto la protezione di un metropolita in
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Ibid., p. 15.
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carica nello stato romeno indipendente, sono fondati nell’atmosfera ardente di fede creata dal movimento esicasta. Questo spiega perché quasi tutti gli eremi, situati in cima a una collina vicina, sono dedicati alla trasfigurazione, poiché gli eremiti che risiedono lì o nelle vicinanze – secondo il metodo esicasta –, aspirano a gustare la luce taborica con la loro ascesi e preghiera continua. D’altronde, quasi tutti i monasteri fondati lungo secoli in Valacchia e in Moldavia derivano da eremi di questo tipo o da celle di eremiti solitari situate in cima a una montagna o una collina dei dintorni. Bisogna anche sottolineare il carattere familiare e popolare attribuito al nome di eremita dal popolo romeno e la sua risonanza molto antica. Questa atmosfera creata dall’esicasmo fu un fattore importante nel sostenere la difesa del popolo romeno contro gli attacchi incessanti dei popoli dell’islam. I paesi romeni rimasero l’ultimo rifugio dell’intero movimento monastico esicasta e della fede ardente che custodiva nel mondo ortodosso. Gli eremiti furono vicini non solo al popolo, ma anche ai principi, sostenendoli nella loro lotta in difesa dei paesi romeni come ultimo rifugio della vita di preghiera e di fede ortodossa. Questo mostra che gli eremiti non erano presi unicamente dalla preghiera continua disinteressandosi totalmente della vita del popolo cristiano, ma sostennero e ispirarono i principi e i cristiani ortodossi romeni nella lotta in difesa del loro paese cristiano per potervi glorificare in libertà il Cristo Dio; sostennero anche i monaci e gli intellettuali degli altri popoli ortodossi, che avevano trovato rifugio in questa terra dopo l’occupazione dei loro rispettivi paesi da parte dei turchi. In nessun altro luogo se non nei paesi romeni l’esicasmo, il mondo degli eremiti, delle persone che vivevano negli eremi (“luoghi di silenzio”, siha˘strie < isihastiria < hesychastéria), ebbero un ruolo così determinante nel sostenere la lotta in difesa del territorio nazionale4.
4 Filocalia româneasc˘a VII, a cura di D. Staniloae, ˘ Ed. Institutului Biblic s¸i de Misiune al Bisericii Ortodoxe Române, Bucures¸ti 1977, pp. 83-84. Cf. anche lo studio
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In un importante studio del 19625, il metropolita Tit Simedrea (1886-1971) attirava l’attenzione su un brano della Vita del grande esicasta del xiv secolo, Massimo il Kausokalyba (il “Bruciacapanne”) (ca. 1280-1375), scritta durante la seconda metà del xiv secolo da Teofane6, vescovo di Perithorion in Turchia, ex igumeno di Vatopedi: Arrivando a Paroria, Gregorio il Sinaita apparve come un sole splendente per chi si trovava nelle tenebre e distribuì a tutti gli affamati il pane salvifico di vita. Mi è impossibile narrare gli eventi mirabili di quest’uomo che fu una fonte inesauribile con la parola, l’azione e il comportamento. Non solo lo conosceva la Grande Città [Costantinopoli] e tutta la Tracia e la Macedonia, ma anche tutta la terra abitata dai bulgari e nelle terre al di là dell’Istros [Danubio] e in Serbia. Correvano a lui folle interminabili di eletti, cercavano di dissetarsi alla fonte dei suoi insegnamenti sempre vivi, e trovavano di che placare la loro sete. Così rese abitate le montagne deserte e la Paroria, riempiendole di greggi di monaci, che fecero la professione monastica con lui. Riempì di zelo con le sue meravigliose lettere d’insegnamento gli imperatori della terra: Andronico [III Paleologo, 1325-1341], e [Giovanni] Alessandro [di Bulgaria, 1331-1371], Stefano [Duchan di Serbia, 1321-1355]
di padre D. Staniloae, ˘ “Din istoria isihasmului în Ortodoxia româna”, ˘ in Filocalia româneasc˘a VIII, Bucures¸ti 1978, pp. 556-576, con rimandi alle ricerche, a quel tempo ancora a livello di manoscritto, di I. Balan, ˘ Patericul românesc, Bucures¸ti 1980 e Vetre de sih˘astrie româneasc˘a, Bucures¸ti 1981. 5 Cf. T. Simedrea, “Viata mân˘ astireasc˘a în Tara Româneasc˘a înainte de anul 1370”, , , in Biserica Ortodox˘a Român˘a 80 (1962), fascicolo 7-8, pp. 673-687, soprattutto pp. 678-680. 6 Cf. F. Halkin, “Deux Vies de S. Maxime le Kausokalbe ermite au Mont Athos (xiv siècle)”, in Analecta Bollandiana 54 (1936), pp. 65-109; tr. romena, a cura di Ioan I. Ica˘ jr., in Sfântul Maxim Arz˘atorul de colibe, isihast ¸si v˘az˘ator cu Duhul din Sfântul Munte (cca 1280-1375), Deisis, Sibiu 2004, pp. 11-78. Il § 15 della Vita riporta un importante dialogo spirituale tra Gregorio il Sinaita e Massimo il Kausokalyba sull’esicasmo e i suoi segreti mistici, posto in appendice alla Filocalia, Venezia 1782, pp. 1198-1201, in una traduzione in neoellenico (tr. romena in Filocalia româneasc˘a VIII, pp. 541-545; tr. it. in La filocalia IV, a cura di M. B. Artioli e M. F. Lovato, Gribaudi, Milano 1987, pp. 517-520).
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e Alessandro [I di Valacchia, 1338-1364]. Per questo, per la virtù e gli insegnamenti di Gregorio il Sinaita, l’abito monastico si moltiplica nei paesi e nelle città di questi imperatori. Fondò anche dei monasteri in Paroria, dove possiamo vedere un’altra Santa Montagna, gioia salvifica dalle radici profonde. Con la vita di questo santo pastore, la terra abitata dai bulgari divenne una città di monaci. Dopo la sua dormizione e ascensione a Dio, molti dei suoi discepoli apparvero come stelle splendenti e hanno abbellito i confini della terra. Ricordo solo in parte gli eventi di Gregorio il Sinaita, per non prolungare troppo la parola7.
Traiamo da tutto questo due conclusioni: La prima, il monachesimo romeno si manifesta nella storia come esicasta per eccellenza, centrato sul mistero della trasfigurazione di Cristo; la seconda, l’esistenza di un legame profondo con l’apostolato esicasta di Gregorio il Sinaita e dei suoi discepoli8.
La trasfigurazione del monastero di Bistrit¸a
Una bella illustrazione di queste conclusioni si trova nella piccola chiesa-infermeria del monastero di Bistrit¸a (dipartimento di Vâlcea). Fondato dall’importante famiglia nobile dei Craioves¸ti, il monastero di Bistrit¸a venne edificato nel 1494 e ricostruito successivamente nel 1512, a causa delle gravi distruzioni compiute nel 1509 dal principe Mihnea il Cattivo (1508-1509) 7
Vita di Massimo Kausokalyba 18. I. I. Ica˘ jr., “Teologia taborica˘ a Cuviosului Grigorie Sinaitul s¸i probabila ei iradiere în spat,iul românesc”, in Tabor 1 (2007), fascicolo 1, pp. 11-26, qui p. 13. 8
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in conflitto con i nobili Craioves¸ti. Il ruolo decisivo nella restaurazione spettò a Barbu Craiovescu, il rappresentante più importante della famiglia, che per due decenni occupò la seconda carica di stato ed ebbe un’enorme influenza durante il regno culturale del principe esicasta Neagoe Basarab (1512-1521), con cui era imparentato. Nel 1497 Barbu portò a Bistrit¸a le reliquie del santo monaco esicasta e confessore iconodulo Gregorio il Decapolita (780-842), che si trovano ancora nella grande chiesa del monastero (disgraziatamente rifatta in stile neoclassico intorno alla metà del xix secolo). Ritiratosi dalla vita pubblica, il nobile Barbu Craiovescu divenne monaco nel suo monastero, fu tonsurato nel grande abito con il nome di Pacomio. Nel 1521-1522 fece costruire al di fuori del muro di cinta del monastero, sul lato ovest, la piccola chiesa-infermeria dedicata alla trasfigurazione che si conserva ancora oggi. La chiesa è un piccolo edificio destinato ai monaci malati e per gli uffici in memoria dei defunti. La pianta estremamente semplice è costituita da un santuario a semicerchio con due nicchie e un naos-pronaos rettangolare con volta a botte (l’entrata attuale in mattoni costruita nel 1710 sostituisce quella in legno che si può vedere nel modellino della tabula votiva). Il programma iconografico9, anch’esso di formato ridotto ma di una bellezza artistica eccezionale, include nella conca del santuario la Madre di Dio “Platytera” affiancata da due arcangeli, due re (David e Salomone) e due profeti (Zaccaria e Geremia), e nel registro inferiore sei vescovi officianti (Basilio, Atanasio, Spiridone, Crisostomo, Gregorio il Teologo e Cirillo d’Alessandria). Sprovvista di campanile, la navata unita al pronaos ha l’immagine del Pan-
9 Cf. gli studi della compianta Carmen-Laura Dumitrescu, “Pictura bolnitei Bi, strit,a-Vâlcea”, in SCIA 19 (1972), fascicolo 2, pp. 179-214; Ead., “Programul iconografic al pronaosului bisericilor de mîn˘astire din Tara Româneasc˘a în secolul al xvi-lea”, , in SCIA 20 (1973), fascicolo 2, pp. 257-272; Ead., Pictura mural˘a în Tara Româneasc˘a , în veacul al XVI-lea, Meridiane, Bucures¸ti 1978.
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tocrator, con i simboli degli evangelisti e degli angeli nella volta a botte, e sulle sue pareti c’è il ciclo della vita di Giovanni Battista con sedici episodi, dall’annuncio dell’angelo a Zaccaria sino alla scoperta della testa. Il registro inferiore ha un affresco con i fondatori della vita monastica (Sava il Santificato, Antonio il Grande, Pacomio il Grande, Massimo il Confessore e Gregorio il Decapolita). Sopra la tabula votiva del fondatore domina, ampia ed elegante, maestosa e austera, la trasfigurazione in stile paleologo tardo.
Il movimento paisiano: grandezza e decadenza
Presente nella cultura medievale romena soprattutto in forma iconografica, la trasfigurazione e il tema della trasfigurazione spirituale dell’umano per mezzo dell’ascesi e la preghiera nella luce di Cristo, si sono conservati con l’esicasmo e la spiritualità filocalica e sono rimasti una realtà ininterrotta … Nel xviii secolo il monaco Paisij, arrivato da Poltava, trovò così in Moldavia un monachesimo che, con i suoi numerosi rappresentanti, nella continuità di questa tradizione, praticava una vita esicasta (eremitica), ispirata dalla preghiera di Gesù … Niente di straordinario che la Filocalia o gli scritti filocalici iniziarono il loro processo di diffusione in Russia proprio dalla Moldavia10.
Il “paisianesimo” fu un fenomeno spirituale unico, una riforma comunitario-contemplativa del monachesimo ortodosso, una
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“scuola ascetico-filosofica” dagli ampi riverberi sia in Russia che nei paesi romeni. Le storie delle due posterità, russa e romena, del paisianesimo nel xix secolo sono state tuttavia estremamente differenti11. Nella Russia degli zar, dove l’ortodossia subì l’impatto della secolarizzazione nel xviii secolo, il paisianesimo conobbe un’ampia curva ascendente, prolungandosi naturalmente grazie agli starec di Optina e influenzando profondamente la letteratura e la filosofia religiosa russa al di là della catastrofe del 1917. Nei principati romeni, tuttavia, la traiettoria del paisianesimo entrò, dopo un promettente percorso ascendente con i metropoliti paisiani Veniamin Costachi (1803-1843) in Moldavia e Grigorie Dasca˘lul (1822-1834), in un rapido declino. Proprio in coincidenza della sua fioritura in Russia, il paisianesimo spirava in Romania. Le cause di questa involuzione si trovavano sia nella crisi interna della comunità multinazionale dei discepoli di Paisij a Neamt¸ sia nelle profonde trasformazioni politiche e sociali dei paesi romeni entrati in un processo ascendente di modernizzazione e di affermazione nazionale (unificazione nazionale nel 1859 e indipendenza nel 1878 in un regno con una monarchia di origine germanica), sostenuto da un’ideologia patriottica ispirata ai lumi. Questo mise inevitabilmente in rotta e in crisi interna il monachesimo e la chiesa, che subirono i duri colpi delle leggi di secolarizzazione pressoché totale delle proprietà negli anni 1859-1863. I lumi della modernità militante riuscirono a ottenere l’eclissi della luce spirituale del Tabor e così i monaci romeni desiderosi di una vita più elevata – come Antipa di Valaam (1816-1882), Irinarh Roset del Tabor (1771-1859) o Nifon Ionescu del monastero di Prodromou al-
11 Cf. I. I. Ica˘ jr., “La posterità romena dello starec Paisij”, in Paisij, lo starec. Atti del III Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa “Paisij Veli™kovskij e il suo movimento spirituale”, Bose, 20-23 settembre 1995, a cura di A. Mainardi, Qiqajon, Bose 1997, pp. 245-266.
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l’Athos (1807-1901)12 – se ne andarono in Russia, al Monte Athos o nei luoghi santi. Una possibile spiegazione della mancanza di impatto culturale del paisianesimo nei principati romeni può trovarsi nel fatto che, fedeli alla raccomandazione esplicita dello stesso Paisij13, i suoi discepoli non pubblicarono nella tipografia di Neamt¸ nessun testo della Filocalia romena prodotta dalla scuola dei traduttori paisiani. Tutto questo lavoro rimase allo stato di manoscritti la cui circolazione era limitata agli ambienti monastici, afferrati anch’essi dalla crisi. Così, in un momento cruciale per la nuova cultura nazionale romena, la Filocalia e l’esicasmo rimasero assenti dall’orizzonte intellettuale e spirituale. Questo vale anche per le facoltà di teologia ortodossa di recente creazione (quella di Cerna˘ut¸i nel 1875 e quella di Bucarest nel 1884) dove l’insegnamento era dominato dall’esoterismo o dalla scolastica e dal moralismo nel più completo oblio della dimensione spirituale.
Nichifor Crainic e il ritorno della mistica nella teologia romena
Un rinascimento filocalico nella teologia romena si è verificato tuttavia negli anni trenta del xx secolo, e alla sua origine ci fu il contributo di un teologo laico, al tempo stesso poeta, saggista
12 Le loro Vite sono state di recente pubblicate da I. I. Ica˘ jr., M˘arturii de sfintenie , româneasc˘a. Monahi îmbun˘at˘a,t it,i din secolele trecute, Deisis, Sibiu 2002. 13 A differenza di Macario di Corinto († 1805) e Nicodemo l’Aghiorita († 1809) che pubblicarono a Venezia nel 1782 la Filocalia, lo starec Paisij era reticente a pubblicare e diffondere dei testi esicasti fuori dal monastero, per paura che la loro lettura da parte di laici in privato senza la guida di un padre spirituale portasse a errori di comprensione e di applicazione. Cf. l’eccellente presentazione comparativa di E. Citterio, “La scuola filocalica di Paisij Velichkovskij e la Filocalia di Nicodimo Aghiorita. Un confronto”, in Amore del bello. Studi sulla Filocalia. Atti del simposio internazionale sulla Filocalia, Pontificio collegio greco, Roma novembre 1989, Qiqajon, Bose 1991, pp. 181-207.
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e memorialista, una delle figure che hanno segnato la cultura e il dibattito culturale nel periodo interbellico: Nichifor Crainic. Nato il 24 settembre 1889 in un povero villaggio della campagna valacca, seguì i corsi del Seminario teologico centrale (tra il 1904 e il 1912) e della facoltà di teologia di Bucarest (1912-1916). Nell’atmosfera di euforia nazionale che seguì la fine della prima guerra mondiale, che invece di portare all’annientamento della Romania invasa dalle potenze centrali, si chiuse con la realizzazione, il 1° dicembre 1918, della grande Romania unificata, la nuova generazione di intellettuali sentì acutamente il problema di edificare una società e una cultura nazionali all’altezza del momento storico. Si confrontavano due correnti: quella dei modernisti occidentalizzanti e quella dei tradizionalisti etnici e rurali. Su questa scena percorsa da tensioni, due intellettuali laici ortodossi militarono per un tradizionalismo ortodosso ed etnico di espressione moderna e, sul piano politico, per un conservatorismo monarchico14: sono il logico e filosofo ortodosso Nae Ionescu (1890-1940), direttore del giornale Cuvântul (1926-1933), mentore spirituale della generazioni di Mircea Eliade (1907-1987); Constantin Noica (1907-1986) ed Emil Cioran (1911-1995); e, appunto, Nichifor Crainic, direttore della rivista Gândirea (1926-1944), alla quale collaborarono continuativamente pensatori e scrittori romeni del calibro di Lucian Blaga (1895-1961), Ion Pillat (1891-1945), Dan Botta (1907-1958) e altri. Nel 1927 Nichifor Crainic divenne professore della facoltà di teologia di Chis¸ina˘u, di recente creazione, titolare della cattedra di letteratura religiosa moderna. Il suo primo corso fu su Dostoevskij e il cristianesimo russo15, seguito da altri sulla letteratu-
14 Cf. N. Ionescu, Roza vânturilor. 1926-1933, Cultura nationala, Bucures¸ti 1937; N. Crainic, Puncte cardinale în haos, Cugetarea, Bucures¸ti 1936 e Id., Ortodoxie s¸i etnocrat,ie, Cugetarea, Bucures¸ti 1938. 15 Lezioni tenute a Bucarest nel 1932 e pubblicate in N. Crainic, Dostoievski s¸i cres¸tinismul rus, Anastasia, Cluj-Bucures¸ti 1998.
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ra religiosa tedesca e spagnola. La frequentazione dell’opera di Dostoevskij convinse il giovane teologo e poeta della necessità d’approfondire la mistica ortodossa (che aveva incominciato a conoscere per un tramite letterario, Hugo Ball, durante i suoi studi post-universitari a Vienna nel 1920-1922). Così Crainic, trasferitosi dal dicembre 1932 alla facoltà di teologia dell’Università di Bucarest, ove insegnò sino al maggio 194416, modificò lui stesso la sua specialità con la trasformazione del suo corso di letteratura religiosa moderna in corso di teologia ascetica e mistica, divenendo così il primo e unico titolare di una tale disciplina nelle scuole teologiche superiori di tutta l’ortodossia. L’interesse per la mistica cristiana, ma anche per le tradizioni mistiche orientali, era già un fenomeno importante in Europa occidentale17. Nel 1919 era stata creata a Roma la prima cattedra di ascetica e mistica all’università Gregoriana, di cui titolare era il gesuita Joseph de Guibert († 1942), e nel 1923 una cattedra simile era stata creata al Pontificio istituto orientale. Sino al 1927 sarà tenuta da un gesuita, Marcel Viller († 1952), che nel 1928
16 Sino al 1938 la cattedra era intitolata “cattedra di storia della letteratura ecclesiale e religiosa moderna”. Soppressa nel 1938 per ragioni politiche, Crainic divenne supplente della cattedra di apologetica e dogmatica, rimasta vacante per l’elezione del suo titolare, il professore Ioan Mihalcescu, ˘ alla carica di metropolita di Moldavia. Tra il 1941 e 1944 Crainic riprese i suoi corsi alla cattedra di ascetica e mistica. 17 Ricordiamo l’eco dei libri di E. Underhill, Mysticism. A study in the nature and development of man’s spiritual consciousness, Methuen & C., London 1911 (tr. it.: L’educazione dello spirito. Saggi mistici con uno schizzo storico del misticismo europeo, Fratelli Bocca, Torino 1926); R. Otto, Das Heilige, Gotha, München 1917 (tr. it.: Il sacro, Feltrinelli, Milano 1976); F. Heiler, Das Gebet, Reinhardt, München 1918; H. Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion, Alcan, Paris 1932 (tr. it. Le due fonti della morale e della religione, Laterza, Roma 19982); J. Maritain, Distinguer pour unir, Desclée de Brouwer, Paris 1932 (tr. it.: Distinguere per unire: i gradi del sapere, Morcelliana, Brescia 1976) e della famosa sintesi di H. Bremond, Histoire littéraire du sentiment religieux en France I-X, Bloud et Gay, Paris 1916-1933; J. Maréchal, É´tudes sur la psychologie des mystiques, Bayoert-Alcan, Bruges-Paris 1924; i manuali cattolici di spiritualità o di ascetica e mistica di A. Saudreau, Manuel de spiritualité, Brunet, Arras 1917 e A. Tanquerey, Precis de théologie ascetique et mystique, Desclée, Paris 1923 (tr. it.: Compendio di teologia ascetica e mistica, Desclée, Roma 1960) o la sintesi di P. Pourat, La spiritualité chrétienne I-IV, Lecoffre-Gabalda, Paris 1918-1928.
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divenne il direttore del progetto del monumentale Dictionnaire de théologie ascétique et mystique (il cui primo fascicolo apparve nel 1932 e l’ultimo nel 1995), lasciando la cattedra a un altro gesuita, Irénee Hausherr (1881-1978), che insegnò spiritualità orientale al Pontificio istituto orientale tra il 1928 e 1975, sostituito dal cardinale Tomá∫ \pidlík sino al 1990. Già agli inizi della sua attività, Hausherr pubblicò a Roma due testi capitali della mistica bizantina: il Metodo della preghiera esicasta attribuito a Simeone il Nuovo Teologo (1927) e la sua Vita scritta dal suo discepolo Niceta Stehatos (1928)18, e la recensione alla traduzione in tedesco (1925), prima traduzione in una lingua europea, dei celebri Racconti di un pellegrino russo. Nel 1932 l’igumeno del monastero di Neamt¸, il vescovo in pensione Nicodim Munteanu (futuro patriarca di Romania tra il 1939 e il 1948), pubblicava in traduzione romena il testo integrale della prima monografia dedicata allo starec Paisij Veli™kovskij scritta nell’emigrazione dall’arciprete russo Sergij Ωetverikov († 1947)19. Sulla base di questa letteratura, Nichifor Crainic elaborò un rimarchevole corso di ascetica e mistica ortodossa che tenne dal 1935-1936 (seguito nel 1936-1937 da un corso di mistica tedesca)20.
18 Cf. I. Hausherr, La méthode d’oraison hésychaste, Pontificio istituto orientale, Roma 1927; Id., Un grand mystique byzantin. Vie de Syméon le Nouveau Théologien, Pontificio istituto orientale, Roma 1928. 19 Cf. S. Cetfericov, Paisie, staretul Mân˘ astirii Neamt,ului din Moldova. Viat,a, înv˘a,ta˘ tu, ra ¸si influent,a lui asupra Bisericii Ortodoxe, Ed. Manastririi, Neamt, 1933 (1940-19432). L’originale russo sarà pubblicato integralmente solo nel 1976 a Parigi: Moldavskij starec Paisij Veli™kovskij. Ego Δizn’ ucenie i vlijanie na pravoslavnoe mona∫estvo, Ymca Press, Paris 1976; tr. fr.: Le starets moldave Païssij Velitchkovskij (1722-1794): sa vie, son enseignement et son influence sur le monachisme orthodoxe, Bellefontaine, Bégrolles-en-Mauges 1997. 20 Il corso di ascetica e mistica come quello di mistica tedesca circolò solamente nelle versioni dattiloscritte dagli studenti. Il corso di ascetica e mistica ortodossa fu pubblicato, ma in modo incompleto, dallo ierodiacono Teodosie Paraschiv: N. Crainic, Sfint,enia – împlinirea umanului (Curs de teologie mistic˘a, 1935-1936), Trinitas, Ias¸i 1993. Un’edizione completa insieme al corso di mistica tedesca è in corso di pubblicazione presso le edizioni Deisis.
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La trasfigurazione al cuore della mistica ortodossa
Il corso di ascetica e mistica ortodossa di Nichifor Crainic si presenta sotto forma di ventitre conferenze organizzate secondo il seguente piano: conferenze 1-4, prolegomeni (che cosa è la mistica? giustificazione della definizione ortodossa; la teologia spirituale e il metodo; le fonti della mistica ortodossa); conferenze 5-7, presentazione dettagliata del sistema dioniasiano; conferenze 8-23, le tre tappe della vita spirituale (conferenza 8, presentazione generale; conferenze 9-10, la purificazione; conferenze 11-20, l’illuminazione e la contemplazione; conferenze 21-23, la teologia o la via unitiva). L’ascetica e la mistica ricevono una definizione cristocentrica: l’ascesi è il morire, la mistica il risorgere con Cristo, essendo queste due “la scienza della divinizzazione dell’uomo” (“l’inverso dell’incarnazione”), “il compimento vivo e il coronamento della dogmatica e della morale”, la conoscenza di Dio per la partecipazione alla somiglianza con lui e alla luce divina. Uno sviluppo particolare è riservato, nel quadro della contemplazione e dell’illuminazione, al tema della preghiera di Gesù, cui sono dedicate quattro conferenze: la conferenza 17, “Il metodo esicasta”; la conferenza 18, “Considerazioni storiche e fisio-psicologiche”; la conferenza 19, “La preghiera di Gesù essenza del paisianesimo”; la conferenza 20, “La popolarizzazione e il suo senso cosmico” (nei Racconti di un pellegrino russo). Al cuore del corso, la conferenza 18 è intitolata “La trasfigurazione”21 e presenta, a partire dalla Vita di Simeone il Nuovo Teologo22 e dai suoi testi editi dal padre Hausherr, gli effetti della preghiera di Gesù alla sua terza tappa, “spirituale o della grazia”. Dopo aver percorso la fase “salmodica o recitativa” e 21
Cf. N. Crainic, Sfint,enia, pp. 167-175. “Simeone il Nuovo Teologo è divenuto il modello tipico del contemplativo. Il concetto teologico di trasfigurazione è nato grazie a lui” (ibid., p. 180). 22
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“mentale o meditativa”, la preghiera intensa del monaco raggiunge un momento in cui “la preghiera si illumina da sé, illuminando l’intero essere e assorbendolo nella sua forza”; essa produce “ardore, lacrime, gioia e fa risplendere il viso del contemplativo, e tutta la sua vita diventa aerea e trasparente”23: Questo fulgore interiore non va tuttavia compreso come il riflesso di una luce che colpisce il viso dall’esterno, come l’incontro dei raggi del sole con i corpi fisici, ma è solo l’effetto esteriore e visibile, l’irradiamento esteriore di una esplosione di luce interiore, non fisica o soprannaturale … identificata dagli esicasti con il fulgore del volto di Cristo salvatore sul monte Tabor24.
Inondato da questa luce spirituale, il contemplativo “non solo vede questa luce accecante dall’alto, ma vede se stesso inondato, attraversato e reso trasparente dalla forza di questa luce”, “egli vive una sensazione interiore di immaterialità della propria materialità”25. “Disincarnato in qualche modo della propria materialità”, il mistico contemplativo “appare come incorporato spiritualmente nella luce divina che lo attraversa. Vede la luce e si vede reso immateriale in Dio. Questo fenomeno – conclude Crainic – è proprio tipico della nostra mistica ortodossa e, soprattutto, della preghiera di Gesù. Può costituire un capitolo a parte, che non si trova nei trattati di mistica occidentale e che potrebbe intitolarsi la trasfigurazione”. Si tratta “di una delle questioni più seducenti ma anche meno chiare nella dottrina cristiana in generale”, di una “trasformazione del corpo da materiale a immateriale, da pesante a leggero, da denso in trasparente, da opaco in luminoso, da un corpo dotato di forma a un corpo che 23
Ibid., p. 170. Ibid., p. 171. 25 Ibid., p. 172. 24
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ne è privo”26. Questo “processo di ‘transfisicità’, di passaggio da una coscienza materiale a una spirituale, glorificata” non è uno stato eccezionale, un fenomeno mistico straordinario ma il cuore stesso del cristianesimo: Il cristianesimo non sarebbe un vero cristianesimo, cioè una religione radicata nel soprannaturale, se non aspirasse alla trasfigurazione come lo scopo supremo che la giustifica. Noi, proprio noi, siamo delle idee eterne in Dio e delle apparizioni effimere nello spazio di questo mondo, di conseguenza il nostro scopo, o il nostro vero destino, è di assorbire la nostra finitudine nell’eternità, arrivando alla conoscenza dell’identità tra questa finitudine e l’idea divina alla quale noi siamo sospesi già da ora nel tempo e nello spazio. Questo è possibile solo per la somiglianza con Gesù Cristo che, persona trascendente della santa Trinità, ha assorbito il corpo reso immateriale, spirituale e trasfigurato nell’eternità. Con questa trasfigurazione che sarà l’ultimo miracolo di questo mondo, l’uomo diverrà un sovra-uomo, cioè un uomo spirituale, e il cosmo diverrà un sovra-cosmo, cioè un cielo e una terra nuovi. Infatti, non solo l’uomo, ma il mondo intero riassunto in lui, è incorporato in questo destino della suprema trasfigurazione27.
La visione mistica dei santi orientali Simeone il Nuovo Teologo e Serafim di Sarov è “un vissuto della luce divina e una pregustazione del regno dei cieli, una trasfigurazione anticipata”28. “Ma che cos’è, in verità, questa luce accecante secondo Dionigi, folgorante secondo Simeone?”, si chiede Crainic nella conferenza successiva, la 19, “Contemplazione e grazia”:
26
Ibid., p. 173. Ibid., p. 174. 28 Ibid., p. 175. 27
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La risposta che è risuonata con forza nella teologia ortodossa del xiv secolo e dei secoli successivi, è stata data da Gregorio Palamas … Questa luce è la luce che ha avvolto il Signore trasfigurato sul monte Tabor e che fu vista dai tre discepoli. Gli esicasti perfetti vedono non una luce simile, ma la stessa luce del Tabor. È il fulgore della divinità. Questa luce è increata e la luce del Tabor è increata29.
Come sottolineato da Gregorio Palamas contro gli avversari dell’esperienza mistica esicasta: Nella luce che ha brillato sul monte Tabor e che si manifesta anche nella contemplazione degli esicasti non appare l’essere stesso di Dio, ma solamente l’azione o l’energia divina. Per mezzo di queste energie, Dio si comunica alla creature, diviene comunicabile, le assimila e le divinizza. È estremamente interessante sottolineare che anche l’effetto dell’energia increata o della grazia nell’anima umana è secondo Palamas un effetto increato. In altri termini, sotto l’azione della grazia, un essere creato si trasforma in essere increato … Questo cambiamento da creato a increato sotto l’azione della grazia divina è la spiegazione teologica più ingegnosa della trasfigurazione o della divinizzazione. Questa elevazione a un essere deiforme è, di conseguenza, un processo di passaggio dal corporale allo spirituale, dal creato all’increato, dal perituro all’imperituro30.
La conclusione della conferenza, formulata da Crainic, è che nella mistica ortodossa “il fondamento teologico della divinizzazione” suppone inevitabilmente che “la grazia che ci viene data nella contemplazione e che si manifesta in essa come luce taborica è un’energia increata che ha anche degli effetti increati”31. 29
Ibid., p. 183. Ibid., pp. 183-184. 31 Ibid., p. 185. 30
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Nel maggio 1940 la rivista Gândirea dedicava un numero in onore a Nichifor Crainic per i suoi cinquant’anni, e un anno dopo, proprio nel maggio 1941, Crainic era solennemente accolto come membro dell’Accademia romena. Le evocazioni e gli studi pubblicati per questa occasione rendevano un omaggio unanime alla sua opera di pensatore e di “apologeta cristiano” (E. Vasilescu), sottolineandone “l’attività appassionata” d’animatore culturale ortodosso, “l’apostolato intellettuale” profetico dell’“unico teologo aperto”, capace di tradurre la teologia ortodossa extra cathedram “nei concetti e negli atteggiamenti filosofici, culturali, artistici e nazionali” e che “ha messo così la teologia, isolata e ridotta a un atteggiamento difensivo, in contatto con il pensiero e la vita” (T. M. Popescu). La forza intellettuale di questo “messaggero dell’ortodossia” per eccellenza deriva tuttavia dal contatto vivo con le fonti viventi della fede, con i tesori dimenticati dell’ortodossia da lui riscoperti: Il professore di mistica, l’unico di tutta la teologia ortodossa attuale, ha guardato – come diceva lo stesso Teodor M. Popescu – verso le cime più alte della teologia e ha riscoperto la mistica ortodossa, il fiore della spiritualità cristiana, l’Olimpo del pensiero teologico, il giardino, edenico del sentimento religioso, che giaceva in libri dimenticati o incompresi, abbandonato alla periferia degli interessi scientifici della teologia32.
Nella stessa occasione, dal più giovane professore di teologia a Sibiu e collaboratore della rivista Gândirea dal 1935, Dumitru Sta˘niloae, veniva dedicato un solido studio su “L’opera teologica di Nichifor Crainic”33. L’apparizione di Nichifor Crainic, il nazionalista, il poeta e teologo, nel campo della teologia orto-
32 33
Gândirea 19 (1940), fascicolo 4, p. 279. Ibid., pp. 264-276.
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dossa romena, ha – come scriveva padre Sta˘niloae – “un significato decisivo”. È il primo teologo romeno “che ha fatto uscire la teologia dal cerchio stretto e confinato degli specialisti, presentandola in una forma capace di imporsi all’attenzione generale del mondo intellettuale … Ma facendo uscire la teologia nella vasta arena della vita intellettuale, non l’ha affatto diluita”. Al contrario, “in questo senso, è importante notare che ha introdotto per la prima volta presso di noi le preoccupazioni per la teologia mistica, ponendo anche le basi di una disciplina di questo nome”; “ha ampliato il cerchio delle preoccupazioni teologiche, ha aperto nuovi orizzonti, demolendo le dighe che trattenevano la nostra teologia dal fiume ricco e vivo della tradizione”, e così “con Nichifor Crainic si è operata una vera e propria restaurazione della teologia romena nello spirito ortodosso”, mistico, pancosmico e rigorosamente cristocentrico.
La riscoperta della teologia palamita da parte di un giovane teologo, Dumitru Sta˘niloae
Mentre faceva l’elogio del suo precursore e mentore letterario valacco, il più giovane teologo transilvano era già implicato in modo indipendente e con un minor eco pubblico, ma più rigoroso e preciso, in quanto ellenista e teologo compiuto, in un cammino parallelo di restituzione delle luci Tabor sia alla teologia che alla cultura romena moderna. Nato il 17 novembre 1903 nel villaggio di Vla˘deni vicino a Bras¸ov, dove frequentò il liceo dal 1917 al 1922 grazie a una borsa di studio della metropolia, poiché era di famiglia povera, il giovane Dumitru Sta˘niloae si iscrisse, sempre grazie a questa borsa di studio, alla facoltà di teologia di Cerna˘ut¸i. Scontento della maniera arida e scolastica, tipicamente tedesca, dell’insegnamento degli eruditi professo420
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ri di questa facoltà, abbandonò per un anno la teologia, seguendo nel 1923 i corsi della facoltà di lettere a Bucarest. L’incontro provvidenziale con il metropolita di Transilvania, Nicolae Ba˘lan (1920-1955), che finanziava i suoi studi, lo fece ritornare agli studi di teologia a Cerna˘ut¸i, che terminò nel 1927. Grazie a una borsa di studio dalla durata di un anno, ad Atene nel 1927-1928, stese la sua tesi di dottorato in teologia storica che sostenne nel maggio del 1928 alla facoltà di teologia di Cerna˘ut¸i e pubblicò un anno dopo34. Nel 1928-1929 ricevette un’altra borsa di studio della metropolia per studiare a Monaco e Berlino, con viaggi di studio e di documentazione a Parigi e a Belgrado. Di ritorno nel paese, ad appena ventisei anni, fu nominato dal metropolita Nicolae Ba˘lan professore di dogmatica (nel 1929 come supplente, nel 1932 a titolo provvisorio, nel 1935 come titolare) all’Accademia teologica andreiana di Sibiu, dove insegnò sino al 1946; dal 1936 al 1946 fu anche rettore di questa importante scuola superiore romena di teologia ortodossa. Nominato nel maggio 1934 anche redattore del giornale della metropolia, Telegraful Român, Dumitru Sta˘niloae (ordinato presbitero nel 1932) svolse ugualmente sino al maggio 1945 un’importante attività giornalistica, con gli articoli apparsi sul Telegraful, ai quali si aggiungono i saggi pubblicati tra il 1935 e il 1944 sulle pagine dell’elegante rivista culturale Gândirea35. Tuttavia l’attività giornalistica per il giovane teologo non fu che un hobby. A lui interessava più di tutto la teologia, con un interesse estremamente straordinario e precoce. Nel 1929, il giovane dottore Dumitru Sta˘niloae, borsista in Germania, fece un viaggio di studi a Parigi con uno scopo pre34 Cf. D. Staniloae, ˘ Viat,a s¸i activitatea patriarhului Dosofteiu al Ierusalimului s¸i leg˘aturile lui cu T ˘ , i 1929. , a˘ rile Românes¸ti, Cernaut 35 La pubblicistica e le polemiche del periodo interbellico su temi teologici, nazionali, ecclesiali e filosofici, sono raccolte in D. St˘aniloae, Catolicismul de dup˘a r˘azboi, Sibiu 1933; Id., Ortodoxie s¸i Românism, Ed. Consiliului archiepiscopiei, Sibiu 1939; Id., Pozit,ia d-lui Lucian Blaga fat,a˘ de Cres¸tinism ¸si Ortodoxie, Tip. archidiocezana, Sibiu 1942.
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ciso. Facendo delle ricerche sull’attività del patriarca Dositeo II di Gerusalemme (1699-1707) aveva scoperto che questi avrebbe voluto pubblicare le opere di Gregorio Palamas († 1359) rimaste inedite senza riuscirci, e l’attenzione del giovane storico della chiesa era stata attratta dall’appassionante polemica esicasta, presentata in maniera estremamente negativa nella storiografia occidentale dell’epoca. Da Parigi, il dottore Dumitru Sta˘niloae, ad appena ventisei anni, tornò a Sibiu portando con sé le foto di tutto il corpus delle opere di Gregorio Palamas contenuto nel codice della collezione Coislin 98, 99 e 100. Un anno più tardi, divenuto professore supplente di dogmatica, pubblicò a Sibiu – come supporto del corso dietro espressa richiesta del metropolita Nicolae Ba˘lan – la traduzione romena della scolastica Dogmatica ortodossa (1907) dell’ateniese Christos Androutsos (1867-1935)36. Lo stesso anno (1930), nell’annuario scientifico dell’Accademia andreiana apparve un primo studio-programmatico sulla spiritualità di Gregorio Palamas, intitolato “La via verso la luce divina in Gregorio Palamas”37. Per il giovane studioso di Sibiu la critica rivolta alla teologia bizantina che aveva seguito Giovanni di Damasco († 749), di essere esclusivamente “tradizionalista” e puramente ripetitiva è un “giudizio esagerato”, che dipende da una “conoscenza incompleta della teologia di quell’epoca”, dimenticata nei manoscritti38. L’esempio più eloquente era “il numero incalcolabile di scritti sulla appassionante polemica esicasta che riposano ancora oggi in manoscritti nelle biblioteche”39. “Recando il sigillo dello spirito monastico”, la teologia bizantina non fu tanto una teologia metafisica, quanto mistica, preoccupata non
36
Cf. H. Andrutsos, Dogmatica Bisericii Ortodoxe r˘as˘aritene, Sibiu 1930. D. Staniloae, ˘ “Calea spre lumina dumnezeiasca˘ la Sfântul Grigorie Palama”, in Anuarul Academiei Teologice Andreiane 6 (1929-1930), pp. 55-72. 38 Ibid., p. 55. 39 Ibid., p. 57. 37
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di “concepire Dio”, ma di “possederlo”, più esattamente di “descrivere il contatto del cuore puro con Dio”40. Il movimento esicasta fu “una reazione della teologia ortodossa contro il razionalismo scolastico” e “in generale l’esplosione potente degli impulsi religiosi dell’anima contro le tendenze ad addormentarla per i succedanei razionalisti, per la metafisica extrasoggettiva, delle combinazioni fredde di idee-forme”41. Lo studio, accompagnato da una breve analisi del trattato sulla luce divina di Gregorio Palamas, è l’ultimo della prima Triade contro Barlaam (Triade 1,3), che “possiedo sotto forma di foto del codice Coislianianus gr. 10. Quando tempi e mezzi me lo permetteranno, condurrò in porto il mio progetto di rivelare questi scritti di Palamas in un’edizione critica”42. L’interesse principale è motivato dal fatto che “Gregorio Palamas fu un grande teologo e un teologo dell’esperienza spirituale e della meditazione personale”, “inquadrata tuttavia in modo perfetto nelle formule dell’insegnamento della chiesa, alle quali però diede un senso nuovo e personale”43. L’accento è messo sull’esperienza apofatica della luce taborica per mezzo della purificazione e della preghiera, superiore alla luce intellettuale alla quale la riduceva Varlaam e il cui effetto è l’anticipazione della trasfigurazione escatologica: Nella preghiera intensa, il fuoco interiore si rivela e la luce interiore brilla, lo spirito si eleva con leggerezza, alleggerendo, riscaldando e attirando a sé il corpo. Chi guarda un tale santo vede uscire da lui delle fiamme come da una fornace. Così, non solo l’anima ma anche il corpo a essa unito riceve una pregustazione dei beni futuri. Chi non riconosce questo giunge con naturalezza a negare anche la luce nella quale ve-
40
Ibid., Ibid., 42 Ibid., 43 Ibid., 41
p. p. p. p.
56. 58. 66. 72.
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de brillare i giusti nell’aldilà con il loro corpo. Con questo fenomeno è così anticipato il rapporto che lo spirito e il corpo avranno nel mondo futuro. Se oggi l’anima conosce e opera attraverso il corpo, nel mondo futuro il corpo sarà inondato dall’anima44.
Due anni più tardi, nel 1933, nello stesso annuario, Dumitru Sta˘niloae, che non aveva ancora trent’anni, pubblicò seguendo il manoscritto la traduzione romena (la prima in una lingua moderna) dei due ultimi trattati, sulla preghiera e sulla luce, della prima Triade contro Barlaam45. Saranno ripresi, con la traduzione di due altri scritti – Apologia mai extrinsa˘ e Antireticul V împotriva lui Akindynos – nell’appendice dell’ampia monografia storica dedicata a Gregorio Palamas, che il giovane professore di teologia a trentacinque anni pubblicò nel 193846. Era la prima monografia scientifica di valore su Gregorio Palamas, ma, scritta in romeno e alla vigilia dell’inizio della seconda guerra mondiale, disgraziatamente non ebbe l’eco e l’impatto che avrebbe dovuto avere in condizioni normali. Comunque, precedeva di due decenni la monografia standard su Gregorio Palamas e le traduzioni simili di un altro teologo russo della emigrazione parigina, John Meyendorff (1926-1992), pubblicate nel 1959 in occasione dei seicento anni della morte del grande teologo e vescovo bizantino47.
44
Ibid., p. 71. Cf. D. Staniloae, ˘ “Doua˘ tratate ale Sf. Grigorie Palama”, in Anuarul Academiei Teologice Andreiane 9 (1932-1933), pp. 5-70. 46 Cf. D. Staniloae, ˘ Viat,a s¸i înv˘a,ta˘ tura Sfântului Grigorie Palama, cu trei tratate traduse, Tip. archidiocezana, Sibiu 1938. 47 Cf. J. Meyendorff, Introduction à l’étude de Grégoire Palamas, Seuil, Paris 1959; Id., St. Grégoire Palamas et la mystique orthodoxe, Seuil, Paris 1959; Grégoire Palamas, Défense des saints hésychastes I-II, a cura di J. Meyendorff, Spicilegium sacrum louvaniense, Louvain 1959. 45
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Dal palamismo al comunismo
Al di fuori dell’attività giornalistica sostenuta e di una polemica celebre all’epoca (nel 1940 e nel 1942) con il filosofo Lucian Blaga, la cui metafisica gnostica e filosofia della religione di tipo estetico-agnostico condusse alla scissione il gruppo della rivista Gândirea, durante i primi anni di guerra Sta˘niloae consacrò i suoi sforzi principali alla redazione di una cristologia ortodossa moderna. Concepita come un ampio dialogo con la tradizione patristica, con la filosofia esistenzialista-personalista, la teologia dialettica protestante e la sofiologia di Bulgakov, l’opera monumentale apparve a Sibiu nella primavera del 194348, al culmine della conflagrazione scatenata dal nazismo hitleriano, che mise l’Europa a ferro e fuoco. Per recuperare la parte nord della Transilvania ceduta all’Ungheria di Horty il 30 agosto 1940 dal diktat di Vienna, il che fece sì per esempio che tra il 1940 e il 1945 l’università di Cluj funzionasse a Sibiu, e la Bessarabia invasa nel giugno 1940 dall’Unione Sovietica in seguito al patto Ribbentrop-Molotov, la Romania, sotto la presidenza del generale Ion Antonescu, entrava come alleata della Germani hitleriana nell’atroce guerra contro l’Unione sovietica. Nel febbraio 1943, ci fu la capitolazione delle armate tedesca e romena, accerchiate a Stalingrado, e iniziò la controffensiva irresistibile delle forze sovietiche verso l’ovest, che le condurrà al trionfo a Berlino, nella primavera del 1945. Il 23 agosto 1944 il giovane re Michel I fece arrestare il maresciallo Antonescu e rivolse le armi contro la Germania nazista, facendo combattere l’esercito romeno con le truppe sovietiche nella liberazione dell’Ungheria e della Cecoslovacchia. Venne reso alla Romania il nord della Transilvania, ma le venne imposto nel marzo 1945 un go-
48
Cf. D. Staniloae, ˘ Iisus Hristos sau restaurarea omului, Sibiu 1943.
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verno controllato dai sovietici, tramite i comunisti. Questo governo scatenò sino al 30 dicembre 1947, data di abdicazione del re Michel, la sovietizzazione della Romania divenuta repubblica popolare staliniana, con il terrore e la dura repressione della borghesia e degli intellettuali liberali e nazionalisti. La sorte di numerosi uomini politici e di personalità culturali, così come dei membri del clero e dei monaci, fu fosca; a decine di migliaia furono gettati in prigione e inviati nei campi di lavoro forzato, da cui molti non sarebbero più tornati. Accusato di nazionalismo e di antisovietismo come traditore e criminale di guerra e condannato in contumacia alla prigione a vita, il professore Nichifor Crainic, escluso dall’Accademia e dalla Società degli scrittori, fu costretto a darsi alla macchia dall’agosto 1944 sino al maggio 1947, nascondendosi in diversi villaggi della Transilvania. Nel frattempo, nel maggio 1946, sua moglie Aglae Crainic morì senza rivederlo. Il 24 maggio 1947 Crainic si consegnò alle autorità e fu gettato per quindici anni nella tremenda prigione di Aiud, dove fu detenuto in condizioni drammatiche, per venir liberato solo nell’aprile 1962. In seguito si guadagnò da vivere lavorando come umile redattore per diverse pubblicazioni ad uso dell’esilio romeno, nella vana speranza di poter ancora pubblicare, speranza che rimase vana anche dopo il 1965, durante i primi anni di relativa liberalizzazione del regime di Nicolae Ceaus¸escu. Nichifor Crainic morì il 20 agosto 1972, censurato e represso, dimenticato da tutti tranne che dalla cerchia degli ex-detenuti politici49. Il regime “popolare” del dottor Petru Groza, l’uomo di paglia dei sovietici, non risparmiò più a lungo Sta˘niloae. Nel maggio 1945 venne sostituito come redattore del Telegraful Român, e nel gennaio 1946 il dottor Petru Groza richiese espressamen49 I materiali recuperati dagli archivi della Securitate sono stati pubblicati sulla rivista Manuscriptum 26 (1995), fascicolo 100, un numero speciale dedicato integralmente a Nichifor Crainic con il titolo “Manoscritti incarcerati”.
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te che venisse anche sostituito come rettore della facoltà di teologia di Sibiu. Il 7 febbraio 1946, Dumitru Sta˘niloae presentò al metropolita Nicolae Ba˘lan la sua lettera di dimissioni. Occupò la cattedra di dogmatica sino al settembre 1946, quando nel clima ostile creato intorno a lui da due suoi colleghi, si trasferì alla facoltà di teologia di Bucarest. Il corso di ascetica e mistica di questa facoltà, rimasto vacante per l’assenza del professore titolare Nichifor Crainic, era stato assicurato nel 1945-1946 dal professore di apologetica Ioan Gh. Savin (1885-1973). Costui redasse ad uso degli studenti due corsi, uno di mistica ortodossa (prolegomeni e autori principali da Clemente a Gregorio Palamas) e l’altro di mistica occidentale (Scoto Eriugena, Francesco d’Assisi, Meister Eckhart), pubblicati solo nel 199650. Il taglio resta tuttavia storicistico e intellettualistico, in quanto la mistica viene vista come un problema di natura epistemologica: una deformazione professionale dell’apologeta filosofo.
Filocalia e mistica sotto il comunismo
Dal primo gennaio 1947 il corso di ascetica e mistica cristiana alla facoltà di teologia di Bucarest venne insegnato per un solo anno accademico, perché il nuovo regime comunista, per il quale “mistico” era sinonimo di “oscurantista “ e “reazionario”, lo soppresse alla fine dello stesso anno, quando la facoltà di teologia venne anche scorporata dall’università nel nuovo Istituto teologico di Bucarest, organizzato separatamente a partire dal 1948, dove Dumitru Sta˘niloae insegnerà di nuovo la dogmati50 Cf. I. Gh. Savin, Mistica s¸i ascetica ortodox˘a, con un’introduzione del metropolita di Transilvania Antonie Plam ˘ adeal ˘ a, ˘ Ed. Archiepiscopia Sibiului, Sibiu 1996; Id., Mistica apusean˘a, Ed. Archiepiscopia Sibiului, Sibiu 1996.
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ca, ma solo all’interno dei corsi superiori riservati ai candidati al dottorato. Sta˘niloae era in certo modo il più qualificato per assicurare i corsi di ascetica e mistica, non solo in virtù dei suoi studi e delle sue traduzioni palamite degli anni trenta, ma anche per un’altra ragione. Durante gli anni della marginalizzazione a Sibiu (1945-1946), su consiglio del padre Arsenie Boca (1910-1989), celebre padre spirituale del monastero Sâmba˘ta di Sus, aperto di nuovo dal metropolita Nicolae Ba˘lan, Dumitru Sta˘niloae aveva iniziato la traduzione della Filocalia greca. Tra il 1946 e il 1948 riuscì a pubblicare presso la casa editrice dell’arcivescovado ortodosso di Sibiu, con il titolo Filocalia sfintelor nevoint¸e ale desa˘vârs¸irii, i primi quattro volumi, che comprendevano gli scritti di Antonio il Grande, Evagrio, Giovanni Cassiano, Marco l’Asceta e Diadoco (primo volume, 1946); Massimo il Confessore: Libro ascetico, Centurie sulla carità e Centurie sulla teologia e sull’economia divina, Sul Padre nostro (secondo volume, 1947) e le Risposte a Talassio (terzo volume, 1948); Talassio, Esichio, Filoteo, Teodoro, Teognosto, Elia Ecdico e Teofane (quarto volume, 1948). I volumi pubblicati coprono la metà del contenuto della Filocalia del 1782, ma a partire dal 1948 nelle condizioni di sovietizzazione intensa del paese la pubblicazione del seguito divenne impossibile51. Su tale base estesa, Dumitru Sta˘niloae redasse e sostenne alla facoltà di teologia di Bucarest, nel 1947 – l’ultimo anno di relativa libertà in Romania, prima della sua trasformazione in repubblica popolare di tipo sovietico il 30 dicembre 1947 –, un’eccezionale sintesi della spiritualità ortodossa filocalica. Le conferenze sono state dattiloscritte e mol-
51 Approfittando dell’allentamento della censura del partito comunista, Dumitru Staniloae ˘ riuscì a pubblicare il resto della traduzione della sua Filocalia commentata a Bucarest presso l’Ed. Institutului Biblic s¸i de Misiune al Bisericii Ortodoxe Române tra il 1976 e 1981, quando apparvero i volumi V-VIII, che coprono l’altra metà della Filocalia greca (da Pietro di Damasco e Simeone il Nuovo Teologo a Callisto Catafugiota), ai quali si aggiungono il IX con la traduzione della Scala e il X con la traduzione dei Discorsi di Isacco di Ninive.
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tiplicate dall’Associazione degli studenti di teologia con il titolo di Corso di ascetica e mistica cristiana (Bucarest 1947). Il corso venne pubblicato in questa versione solo nel 199352, dopo aver circolato durante i decenni del regime comunista sotto forma di numerose copie dattiloscritte, confezionate e distribuite in modo clandestino. Approfittando della relativa liberalizzazione degli anni settanta, che gli permise di far pubblicare alla casa editrice del patriarcato di Romania, diretta allora dallo scrittore e archimandrita Bartolomeu Anania (oggi metropolita di Cluj), i rimanenti volumi della Filocalia romena e, nel 1978, i tre volumi di un monumentale trattato di dogmatica53, Dumitru Sta˘niloae riuscì a ingannare la vigilanza della censura e a pubblicare nel 1981 una versione leggermente riveduta e completata del corso di ascetica e mistica del 1947 come terzo volume di un manuale collettivo di morale ortodossa54. Le due versioni coincidono per una proporzione del novantacinque per cento. Le modifiche introdotte nel 1981 da padre Sta˘niloae consistono nell’omissione, per motivi di prudenza, dei rinvii a Crainic, Savin o a Berdjaev, teologi ostili al comunismo, e nella sostituzione del termine “mistico” con quello di “spiritualità” o nell’omissione della discussione sull’“omfalopsichia” esicasta. La parte modificata e considerevolmente amplificata è l’introduzione, in cui sono in52 Cf. D. Staniloae, ˘ Ascetic˘a s¸i Mistic˘a cres¸tin˘a sau Teologia viet,ii spirituale, a cura di S. Frunza, ˘ Casa Cart ˘ , ii de S¸tiint,a, ˘ Cluj 1993. 53 Cf. D. Staniloae, ˘ Teologia Dogmatic˘a Ortodox˘a I-III, Ed. Institutului Biblic s¸i de Misiune, Bucures¸ti 1978. Ne esiste una traduzione tedesca (Orthodoxe Dogmatik I-III, Benzinger, Zurich 1985-1995) e una americana (The Experience of God I-II, Holy Cross Orthodox Press, Brookline ma 1994-2000). 54 Cf. D. Staniloae, ˘ Teologia Moral˘a ortodox˘a pentru institutele teologice, III. Spiritualitatea ortodox˘a, Ed. Institutului Biblic s¸i de Misiune, Bucures¸ti 1981 (ne esiste una traduzione americana: Orthodox Spirituality, St. Tikhon’s Seminary Press, South Canaan pa 2002). Un confronto tra le due versioni, il corso del 1947 e il trattato del 1981, si può vedere in J. Henkel, Îndumnezeire s¸i etic˘a a iubirii în Spiritualitatea ortodoxa. ˘ Ascetica s¸i Mistica p˘arintelui Dumitru St˘aniloae, Deisis, Sibiu 2003, pp. 66-77. La discussione più profonda del trattato di spiritualità si trova in C. Berger, Towards a Theological Gnoseology: the Synthesis of Fr. Dumitru St˘aniloae (dissertazione), Catholic University of America 2003.
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seriti degli ampi sviluppi che riguardano il fondamento trinitario e il carattere cristologico-pneumatologico ed ecclesiale cella spiritualità ortodossa; a ciò si aggiunge qualche pagina della terza parte sulla “visione della luce divina come stato di suprema spiritualità” sulla base di Simeone il Nuovo Teologo, e una conclusione modificata, come vedremo subito, in modo significativo.
La mistica di Dumitru Sta˘niloae e l’interpretazione della luce taborica Dopo un’ampia introduzione (nella versione rivista)55, il corsotrattato segue la struttura tripartita classica della spiritualità orientale: la purificazione56, l’illuminazione57 e la perfezione o l’unione a Dio per la divinizzazione58. La novità, però, rispetto ai corsi di Crainic e Savin non sta tanto nella struttura, quanto nel contenuto. A differenza dei suoi due predecessori, Dumitru Sta˘niloae, ora a quarantaquattro anni, era un ellenista compiuto e un teologo che rivelava non solo un’incomparabile erudizione patristica, ma anche un ampio interesse e una profonda conoscenza dell’orizzonte teologico e filosofico contemporaneo. Così accanto agli autori spirituali bizantini classici citati secondo l’originale greco (Marco, Diadoco, Massimo, Giovanni Climaco, Gregorio Palamas secondo i manoscritti, non bisogna scordarlo!), Sta˘niloae cita ampiamente e discute, in stretta sincronia, le opere fondamentali dei filosofi più importanti della prima metà del xx secolo, come Heidegger, Binswanger, Hartmann, Berd-
55
Cf. Cf. 57 Cf. 58 Cf. 56
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D. Staniloae, ˘ Spiritualitatea ortodox˘a, pp. 5-54. ibid., pp. 55-156. ibid., pp. 157-253. ibid., pp. 253-319.
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jaev o Blondel, ma anche la recente e già famosa Teologia mistica della chiesa d’oriente pubblicata a Parigi nel 1944 dal suo stretto contemporaneo Vladimir Lossky (1903-1958)59. Le interpretazioni ricche di sfumature sia dei testi patristici che di quelli filosofici contemporanei sfidano ogni presentazione riassuntiva. Le considerazioni più profonde si trovano però quando discute le implicazioni tra l’illuminazione/conoscenza e l’unione mistica con Dio per la divinizzazione. Ci limitiamo qui a segnalare le principali novità interpretative. In primo luogo, un sottile sviluppo del tema della conoscenza di Dio in dialogo critico con Berdjaev (menzionato nel 1981 solo come B.) e Lossky60. Sta˘niloae rifiutava un rapporto dialettico, d’opposizione, tra la teologia negativa e quella positiva; nella sua visione queste non si escludono, sono entrambi ugualmente legittime e necessarie, trattandosi in ogni tappa di un’alleanza inestricabile dell’apofatico con il catafatico61. L’apofatismo, a sua volta, è una realtà complessa e graduale, distinguendo Sta˘niloae sulle orme di Gregorio Palamas tre gradi di apofatismo62: il primo, la teologia negativa intellettuale, inferiore; il secondo, il silenzio e la fine di ogni pensiero al vertice della preghiera pura (dove il mondo non viene più negato, ma dimenticato) e il cuore sente nell’oscurità riflettersi nella sua profondità indefinita l’infinito del soggetto divino; il terzo, la visione della luce divina irradiante dalla tenebra iperluminosa del mistero della persona di Dio. “Dalla tenebra apofatica del soggetto divino trascendente sgorgano continuamente le luci delle sue energie increate, che lo rendono presente e lo manifestano come amore strutturato, delimitato”. L’energia increata prin-
59 Una prima discussione delle tradizioni teologiche, filosofiche e psicologiche recepite nel trattato di Dumitru Staniloae ˘ è in J. Henkel, Îndumnezeire, pp. 185-288. 60 Cf. D. Staniloae, ˘ Spiritualitatea ortodox˘a, pp. 189-195. 61 Cf. ibid., pp. 202-211. 62 Cf. ibid., pp. 195-202.
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cipale, quella che crea l’unione tra Dio e l’uomo, è la forza estatica dell’amore della grazia dello Spirito santo; l’amore spirituale fa sì che Dio e il mistico escano da se stessi e si gettano l’uno incontro all’altro in un’unione paradossale, che realizza tra Dio e l’uomo e gli uomini una sostituzione degli “io”, senza annientarli come soggetti liberi, in un “noi” comune63. A questo punto, padre Sta˘niloae propone, alla luce di un testo di Giovanni Climaco64, un’interpretazione di tipo personalista dell’esperienza mistica della visione di Dio nell’ortodossia: il fatto che qui “l’amore di Dio, la conoscenza e la luce divina ci sono presentati sempre in stretto legame” suggerisce che “la luce divina è l’irradiazione sorridente dell’amore divino”65, “è un riflesso del volto amante di Dio o dei volti che si amano e che ci amano della santa Trinità”66. La luce sul volto è un segno di apertura e di amore estatico, mentre l’assenza della luce sul volto è un segno di chiusura e di egoismo. Come nell’esperienza dell’amore umano “la luce sul volto dell’amato si estende sul volto di colui che ama, riempiendoli e avvolgendoli entrambi con una gioia e una luce comuni che, a mano a mano, imprimendosi nello sguardo e nei tratti, li rende simili”67, così nell’estasi sovraconcettuale dell’unione mistica “il sorriso di Dio e dell’uomo riuni-
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Cf. ibid., pp. 251-277. Giovanni Climaco, La scala 30,10-11, (cf. Filocalia româneasc˘a IX, Bucures¸ti 1980, p. 427): “Se il volto della persona amata è in grado di produrre un cambiamento evidente in tutto il nostro essere e di renderci radiosi e pieni di gioia allontanando la tristezza, che cosa non farà il volto del Signore, quando verrà a visitare invisibilmente un’anima pura? Il timore, quando penetra nell’intimo senso dell’anima, è capace di dissolvere e di consumare le impurità della carne. Dice infatti il salmista: Trafiggi con timore la mia carne (Sal 118,120). La santa carità, invece, talvolta può divorare alcuni, secondo la parola di colui che dice: Mi hai rapito il cuore, mi hai rapito il cuore (Ct 5,9); altre volte può riempire di gioia e di luce, come dice: Il mio cuore ha sperato in lui ed è stato aiutato, e la mia carne è rifiorita (Sal 2,7); e ancora: Quando il cuore si rallegra, il volto fiorisce (Pr 15,13)” (Id., La scala, a cura di L. d’Ayala Valva, Qiqajon, Bose 2005, p. 456). 65 D. Staniloae, ˘ Spiritualitatea ortodox˘a, p. 280. 66 Ibid., p. 282. 67 Ibid., p. 285. 64
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ti nell’estasi dell’amore riempie tutto di luce. Per questo motivo l’incontro con Dio è sperimentato come luce”68. Qui Sta˘niloae sviluppa una terza interpretazione, profondamente originale, dell’esperienza mistica ortodossa, spiegando la Vita di Mosè di Gregorio di Nissa con la fenomenologia dell’amore sviluppata da Ludwig Binswanger: la luce accecante che sgorga dalla tenebra divina “è sperimentata non come uniformità piatta o come caos luminoso”69. Nella tenebra iperluminosa sulla cima del monte Sinai Mosè ha visto la tenda/il tempio immateriale, il prototipo della tenda/del tempio terreno. Nella luce accecante, il mistico distingue dunque le “strutture” ideali della creazione; di più, l’esperienza della luce e dell’amore divino stesso ha una “struttura” (Gestalt), “non è il sentimento di un vuoto o di un’onda informe”70. La luce dell’amore divino è sperimentato “come un vasto, infinito e santo rifugio dell’amore, che lo copre e lo accoglie al suo interno, comprendendo ogni cosa nello stesso tempo nel suo amore”. La luce è questo “noi” comune, un “tempio”, una “casa” comune a Dio e all’uomo71. Con il nostro ingresso nella luce si compie l’opera incominciata con la creazione, fatto che comincia con la discesa della Luce nel mondo, dove essa illumina come in una tenebra chi non la comprende ancora. Lo scopo della Luce, della tenda dall’alto, è di attraversare e di radunare di nuovo in essa coloro che l’hanno lasciata. Tale opera comincia con la discesa della Luce sulla terra, con l’incarnazione, continua con la resurrezione e si compie per ciascuno al momento in cui si innalza alla sua visione, dove entra nella tenda dall’alto, alla fine della purificazione72.
68
Ibid., Ibid., 70 Ibid., 71 Ibid., 72 Ibid., 69
p. 294. p. 297. p. 304. p. 298. pp. 300-301.
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Si tratta di un’esperienza trasfiguratrice di tutto l’essere di colui che vede così la luce divina e nella luce entra in uno “stato di suprema spiritualizzazione” e “trasparenza reciproca”: “Corpo e mondo non sono annientati, ma divengono l’ambiente attraverso il quale si manifesta la luce interiore”. È “lo stato della divinizzazione, della somiglianza con lo Spirito divino”73, nella quale le energie umane non sono annientate, ma riempite di energie divine, il che esclude ogni identificazione panteista. Alla fine del corso del 1947, Dumitru Sta˘niloae pensava: Forse il termine “sofianizzazione” – preso a prestito da Bulgakov o da Blaga – renderebbe in modo più preciso del termine divinizzazione il passaggio dell’uomo dall’opera creata all’opera increata, cioè specificherebbe meglio il senso della divinizzazione. Infatti Sofia esprime il mondo delle energie divine. E l’uomo partecipa a esse, non all’essere divino … L’uomo si sofianizza eternamente assimilando sempre di più le energie divine, senza che questa assimilazione finisca mai … La Sofia è il regno dei cieli, è l’ambiente divino che ci unisce, ma nello stesso tempo ci distingue anche da Dio. È un mondo infinito di tappe infinite e di rilievi, di vita spirituale infinita … Così saremo tutti in Dio e vedremo Dio o Dio sarà in tutto e noi lo vedremo in tutto … È la prospettiva eterna della divinizzazione. Ma il problema è troppo importante per non essere tentati di ritornarci sopra più ampiamente in un’altra occasione74.
Nell’edizione rivista del 1981 egli eliminò tuttavia da questo passaggio ogni allusione alla Sofia come ente intermedio, ricentrando in modo rigorosamente trinitario e cristocentrico la prospettiva escatologica della divinizzazione infinita per l’assi-
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Ibid., p. 308. Id., Ascetic˘a s¸i Mistic˘a, pp. 345-347.
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milazione delle energie increate; la prospettiva eterna della divinizzazione si trasforma in un’esperienza del mistero della trasfigurazione resa permanente dal punto di vista escatologico: Le energie divine non sono che i raggi dell’essere divino che brilla nelle tre persone divine. E da quando la parola di Dio si è fatta carne, questi raggi si irradiano dal suo volto umano … L’incarnazione della Parola ha permesso all’uomo di veder concentrati di nuovo, nel volto umano del Logos, tutte le ragioni e le energie divine. Così la divinizzazione finale consisterà nel guardare e vivere tutti i valori e le energie divine che splendono nel volto di Cristo alla misura suprema dell’uomo. Ma per ciò nel volto di ciascun uomo si rifletteranno in luce, per le ragioni e le energie accumulate in lui, le ragioni e le energie del Logos. Perciò la felicità eterna consisterà nel contemplare il volto di Cristo75.
La “Filocalia” e la mistica sotto e dopo il comunismo: repressione e resurrezione
Il contrasto tra questa visione di un’escatologia mistica e l’utopia o l’escatologia secolarizzata marxista-leninista, la cui esperienza di ingegneria sociale cominciava a essere applicata dal terrore nella Romania staliniana (proprio negli anni in cui Sta˘niloae riusciva a pubblicare le sue prime Filocalie e a tenere il suo ultimo corso di mistica ortodossa del xx secolo) era troppo grande per non creare un conflitto. Nel 1948 la mistica fu radiata dai programmi di studio dei nuovi istituti teologici della chiesa ortodossa, tollerati solo come istituti di formazione professio-
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Id., Spiritualitatea ortodox˘a, p. 319.
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nale per la preparazione sotto controllo del personale di culto, e Sta˘niloae fu obbligato a tornare alla dogmatica; di più, dieci anni dopo, il regime comunista cercò addirittura di eliminarlo fisicamente. Arrestato il 5 settembre 1958, fu processato l’8 e il 9 novembre con un gruppo di sedici intellettuali e membri del clero per la partecipazione al circolo esicasta-culturale “Il roveto ardente” del monastero di Antim di Bucarest, animato dal padre Daniil Sandu Tudor (1896-1960)76. Condannato a venticinque anni di prigione, padre Daniil morì nel 1960 nella prigione di Aiud; condannato a cinque anni padre Sta˘niloae entrò anche lui nelle segrete di Aiud, da dove fu liberato nel gennaio 1963. Per lunghi anni, nella Romania comunista, la luce taborica si era nascosta nel cuore degli uomini, essendo spazzato lo spazio esterno dalle luci fredde e impersonali delle camere di interrogatorio e di una società dalla sorveglianza totale, divenuta un immenso campo di concentramento. Ma l’oscura luce dell’utopia comunista non riuscì a spegnere i raggi iperluminosi dell’amore irradiantisi dal volto di Cristo. Uscita dalle catene e dalle prigioni, la luce taborica fece di nuovo irruzione nella teologia ortodossa romena degli anni settanta e ottanta. Sta˘niloae mantenne la promessa fatta alla fine del corso di mistica del 1947, non solo con la pubblicazione dei restanti volumi della Filocalia romena, ma anche con una formidabile sintesi dogmatica. Apparsa nel 1978, questa riscrive tutta la teologia ortodossa alla luce della trasfigurazione. Ma ora, l’ispirazione fondamentale degli sviluppi affascinanti e delle interpretazioni non è tanto quella della Filocalia e di Gregorio Palamas, ma la visione vertiginosa di Massimo il Confessore, dei suoi celebri Ambigua
76 Cf. I. I. Ica˘ jr., “‘Il Roveto Ardente’: una fioritura dell’ideale esicasta all’alba del comunismo in Romania”, in Il monachesimo tra eredità e aperture. Atti del simposio “Testi e temi nella tradizione monastica per il 50° anniversario dell’Istituto monastico di Sant’Anselmo”, Roma, 28 maggio-1° giugno 2002, a cura di M. Bielawski e D. Hombergen, Centro studi S. Anselmo, Roma 2004, pp. 459-470.
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(pubblicati in traduzione con un ampio commento nel 1983)77. Non sarà però la dogmatica il punto di arrivo per Sta˘niloae. Nei suoi ultimi anni di vita, nell’atmosfera di euforia per la libertà ritrovata dopo la caduta del comunismo nel dicembre 1989, guidato questa volta dagli Inni di Simeone il Nuovo Teologo (pubblicati con commento nel 1991)78, Dumitru Sta˘niloae riprese ancor di più in stile meditativo tutti i temi della teologia ortodossa sotto l’arco della luce di Cristo. L’ultimo libro pubblicato dal teologo nonagenario, la voce più profonda della teologia romena, qualche mese prima di morire, il 5 ottobre 1993, si intitola Gesù Cristo, luce del mondo e divinizzatore dell’uomo79 e rappresenta una serie di meditazioni ispirate e di inni alla gloria della luce-amore e all’amore-luce concentrato sul volto trasfigurato di Gesù Cristo. Ma la discussione di queste ultime interpretazioni richiede uno sviluppo indipendente.
77 Cf. Massimo il Confessore, Schieri. Partea I: Ambigua, Ed. Institutului Biblic s¸i de Misiune, Bucures¸ti 1983. 78 Cf. Simeone il Nuovo Teologo, “Imnele iubirii dumnezeies ¸ti”, in D. St˘aniloae, Studii de teologie dogmatic˘a ortodox˘a, Ed. Mitropoliei Olteniei, Craiova 1991, pp. 322-705. 79 Cf. D. Staniloae, ˘ Iisus Hristos Lumina lumii s¸i îndumnezeitorul omului, Anastasia, Bucures¸ti 1993.
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LA TRASFIGURAZIONE DI CRISTO E LA SOFFERENZA DEL MONDO Kallistos Ware*
La sfida di Ivan Karamazov
Iniziamo con la domanda che Ivan Karamazov pone a suo fratello Ale∫a nel capolavoro di Fedor Dostoevskij, I fratelli Karamazov: Immagina di essere tu a edificare il destino umano con lo scopo di rendere felici gli uomini, di concedere loro, alla fine, pace e serenità, e che per far questo sia necessario e inevitabile far soffrire anche una sola creaturina … e sulle sue lacrime erigere quell’edificio. Ebbene, acconsentiresti a esserne l’artefice a queste condizioni1?
A ciò Ale∫a risponde: “No, non acconsentirei”. Dal momento che noi non acconsentiremmo a ciò, allora perché Dio sembra averlo fatto? Come possiamo riconciliare il tra-
* Metropolita di Diokleia del patriarcato ecumenico di Costantinopoli, ha insegnato presso l’Università di Oxford ed è autore di numerosi studi sulla patrologia orientale e la storia della chiesa. Traduzione dall’originale inglese. 1 F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Mondadori, Milano 1994, p. 342.
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gico mistero della sofferenza innocente, presente dappertutto nel nostro mondo, con la nostra fede in un Dio di amore? Quale può essere, infine, la nostra risposta a Ivan Karamazov? Avrete notato che, tenendo a mente la distinzione fatta da Gabriel Marcel, tra gli altri, ho parlato di “mistero” piuttosto che di “problema” del male e della sofferenza innocente. Un problema è un rompicapo intellettuale, un enigma, che può essere decifrato attraverso un pensiero chiaro e un acume logico. Ma il male e la sofferenza innocente, in quanto mistero, non possono essere spiegati semplicemente attraverso l’argomentazione razionale. Un mistero è qualcosa che deve essere trasformato dall’azione, al fine di divenire trasparente al pensiero; è qualcosa che può essere risolto, per quanto possibile, soltanto attraverso la propria esperienza, la partecipazione personale e la compassione. Non possiamo iniziare a capire la sofferenza a meno di esservi direttamente coinvolti. Tale è precisamente il significato della crocifissione: Dio in Cristo è vittorioso sul male perché nella sua propria persona ne soffre fino in fondo tutte le conseguenze, senza riserve. Vincit qui patitur. Il nostro Dio è un Dio coinvolto: “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino all’estremo” (Gv 13,1). Accostandoci a questo mistero della sofferenza e del male, cercando di aggiungere qualcosa alla breve ed enigmatica risposta di Ale∫a, ricordiamo le parole che si trovano in un altro dei romanzi di Dostoevskij, L’idiota: “Il mondo sarà salvato dalla bellezza”2. Non possiamo iniziare a comprendere la sofferenza senza esservi coinvolti; ma non dobbiamo permettere che questo coinvolgimento ci faccia dimenticare la presenza, in questo mondo decaduto, della bellezza divina e salvifica. Ma che cosa ci dice la bellezza riguardo alla salvezza del mondo? Le parole di Dostoevskij sono soltanto parole evasive? Di fronte a un bambino che
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Id., L’idiota, Mursia, Milano 1961, p. 489.
La trasfigurazione di Cristo e la sofferenza del mondo
muore di fame in Africa, o di fronte a un ostaggio torturato e ucciso in Iraq, che senso ha parlare di “bellezza”? O piuttosto, Dostoevskij ci ha fornito un suggerimento di vitale importanza? L’occasione suprema in cui la divina bellezza è stata rivelata all’umanità è la trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor, come la chiesa ortodossa afferma in uno degli inni per i vespri di questa festa: “Trasfigurato oggi sul monte Tabor alla presenza dei discepoli, ha mostrato come in lui la natura umana riacquistasse la bellezza archetipa dell’immagine”3. Quale percezione del mistero della sofferenza ci offre la bellezza divina del Cristo trasfigurato? Quale relazione c’è tra la gloria del monte Tabor e l’angoscia e la disperazione del mondo?
“Una gloria più splendente della luce”
Iniziamo con il considerare la natura di questa gloria dischiusa sul Tabor, per poi esplorare la relazione tra le due montagne, il Tabor e il Calvario. In primo luogo, qual è la natura della radiosità che risplendette come folgore dal volto e dalle vesti del Salvatore al momento della sua trasfigurazione? E, in secondo luogo, qual è la relazione – se ve n’è una – tra la gloria della trasfigurazione e la kenosi di Cristo al Getsemani e sul Golgota? Riguardo alla luce della trasfigurazione, nel racconto evangelico è detto che il volto di Cristo risplendette “come il sole” (Mt 17,2). Qui i padri greci e i libri liturgici ortodossi sono più espliciti ed enfatici. Il volto del Signore, dice Giovanni Crisostomo, risplendette non soltanto come ma più del sole4. La gloria del
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Anthologhion di tutto l’anno IV, a cura di M. B. Artioli, Lipa, Roma 2000, p. 861. Cf. Giovanni Crisostomo, Omelia dopo la cattura di Eutropio.
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Tabor, così insegnano i padri con sorprendente unanimità, non è soltanto una luce naturale, bensì soprannaturale; non soltanto una luminosità materiale, creata, bensì lo splendore spirituale e increato della divinità. È una luce divina. Già nel tardo ii secolo, Clemente di Alessandria spiega che gli apostoli non videro la luce grazie alla normale capacità della percezione sensoriale, dal momento che gli occhi fisici non possono vedere la luce della divinità senza essere trasformati dalla grazia divina; la luce è “spirituale” ed è rivelata ai discepoli non nella sua interezza, ma soltanto nella misura in cui essi erano in grado di percepirla5. Esattamente lo stesso è detto nel tropario (apolytíkion) della festa: “Ti sei trasfigurato sul monte, o Cristo Dio, facendo vedere ai tuoi discepoli la tua gloria, per quanto potevano”6. Si tratta di una luce, dice Gregorio il Teologo, “troppo forte per gli occhi umani”7, una luce, secondo Massimo il Confessore, che “trascende il funzionamento dei sensi”8. Affermazioni simili ricorrono nei testi liturgici della festa. La luce del Tabor, viene detto, è “immateriale, eterna, infinita, inaccessibile, una gloria più splendente della luce”. In breve, non è nient’altro che “la gloria della divinità”; “è uno splendore radioso e divino”9. Come afferma Dionigi l’Areopagita, la luce è “sovraessenziale” o “soprasostanziale” (hyperoûsios)10. Quando nel xiv secolo Gregorio Palamas insisteva dicendo che la luce del Tabor è identica alle energie increate di Dio, non faceva altro che riassumere la tradizione patristica, che si estendeva fino a più di mille anni prima di lui. Riguardo a questa luce increata e immateriale che risplende dal Salvatore trasfigurato, si possono affermare almeno quattro 5
Cf. Clemente di Alessandria, Estratti da Teodoto 5,3. Anthologhion IV, p. 862. 7 Gregorio di Nazianzo, Discorsi 40,6, PG 36,365A. 8 Massimo il Confessore, Problemi, PG 91,1160C. 9 Queste espressioni si ritrovano nella liturgia bizantina del 6 agosto. 10 Dionigi l’Areopagita, I nomi divini 1,4, PG 3,592C-D. 6
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cose: ci rivela la gloria della Trinità, la gloria di Cristo come Dio incarnato, la gloria della persona umana, la gloria dell’intero cosmo creato. Innanzitutto, la luce del Tabor è una luce della santa Trinità, come la chiesa canta ai vespri della festa: “Il Cristo, splendore anteriore al sole, oggi sul monte Tabor misticamente mostra l’immagine della Trinità”11. Vista come celebrazione trinitaria, la festa della Trasfigurazione è molto simile alla festa che ricorre esattamente otto mesi prima, la Teofania o Epifania (6 gennaio), la celebrazione del battesimo di Cristo. Entrambe sono feste della luce: infatti la Teofania è comunemente chiamata Tà phôta, “Le luci”12. Ma il parallelo si estende più in là di questo: entrambe sono occasioni in cui è chiaramente manifestata l’azione congiunta delle tre persone della divinità. Al battesimo di Gesù la voce del Padre parla dal cielo, rendendo testimonianza al Figlio, mentre lo Spirito in forma di colomba discende dal Padre e riposa sul Cristo (cf. Mc 1,9-11). Esattamente la stessa configurazione triadica è evidente sul monte Tabor: il Padre parla dal cielo, rendendo testimonianza al Figlio amato, mentre lo Spirito è presente, in questo evento, non in forma di colomba bensì come nube luminosa13. Leggendo la trasfigurazione in questa prospettiva trinitaria, dunque, noi proclamiamo all’órthros nell’exapostilárion: “O Verbo, luce immutabile della luce del Padre ingenito, nella tua lu-
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Anthologhion IV, p. 860. In alcuni evangeli apocrifi che circolavano tra i primi cristiani si dice che, quando Cristo fu battezzato nel Giordano, fu avvolto “da una grande luce” (Vangelo degli ebioniti 4, in Apocrifi del nuovo Testamento I, a cura di L. Moraldi, Utet, Torino 1971, p. 372). 13 L’identificazione della nube luminosa con lo Spirito santo si trova già in Origene, Commento a Matteo 12,42. Questa interpretazione si trova regolarmente nei padri più recenti; cf., ad esempio, Andrea di Creta, Discorso sulla Trasfigurazione; Giovanni di Damasco, Omelia sulla Trasfigurazione 4; Germano di Costantinopoli, La Divina liturgia 31. Cf. Anthologhion IV, p. 867: “La nube chiaramente mostrava la grazia dello Spirito santo”. 12
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ce che oggi appare sul Tabor, noi vediamo come luce il Padre, e come luce lo Spirito, luce che illumina tutto il creato”14. Oltre a essere trinitaria, la gloria della trasfigurazione è, in secondo luogo, più specificamente una gloria cristologica. La luce increata che risplende dal Signore Gesù lo rivela come “vero Dio da vero Dio … consustanziale al Padre”, secondo le parole del Credo. Ma allo stesso tempo sul Tabor il corpo umano del Signore, sebbene radioso di gloria immateriale, resta ancora pienamente materiale e umano; la sua carne creata è resa traslucida, così che la gloria divina risplende attraverso di essa, ma non è abolita né ingoiata. Come si esprime l’innografia di questa festa, utilizzando il linguaggio della definizione calcedonese e quello del quinto concilio ecumenico, Cristo è rivelato sulla montagna come “una persona in due nature, completa in entrambe”15. Interpretando le implicazioni cristologiche della trasfigurazione, noi possiamo dire: nulla è tolto e nulla è aggiunto. Nulla è tolto: trasfigurato, Cristo resta pienamente umano. Nulla è aggiunto: la gloria eterna rivelata sul Tabor è qualcosa che il Cristo incarnato possiede da sempre, fin dal suo concepimento nel grembo della Vergine. Questa gloria è con lui lungo tutta la sua vita terrena: perfino durante i momenti della sua più profonda umiliazione, come quello dell’agonia nel giardino del Getsemani o quello del suo grido di abbandono sulla croce, in lui “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). La differenza sta in questo: in altri momenti della sua vita sulla terra la gloria, sebbene realmente presente, è nascosta sotto il velo della carne; sul Tabor, per un breve istante, il velo diviene trasparente e la gloria è resa parzialmente manifesta. Alla trasfigurazione, comunque, nessun cambiamento avvenne in Cristo stesso; il cambiamento avvenne piuttosto negli apo-
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Anthologhion IV, p. 871. Ibid., p. 865.
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stoli. Secondo Giovanni di Damasco, “egli fu trasfigurato non assumendo o essendo mutato in ciò che non era, ma manifestando ai suoi discepoli ciò che egli era, aprendo così i loro occhi”16. “Egli non divenne in quel momento più radioso o più esaltato”, dice Andrea di Creta, “lungi da ciò: egli rimase come era prima”17. Come afferma Paul Evdokimov, “la storia evangelica non parla della trasfigurazione del Signore, ma di quella degli apostoli”18. E così la festa della Trasfigurazione ci pone di fronte il paradosso salvifico della nostra fede cristiana: Gesù è interamente Dio e allo stesso tempo interamente uomo, essendo tuttavia una sola persona e non due. Ogni anno, il 6 agosto, facciamo bene a riflettere con la massima chiarezza e umiltà su questa doppia pienezza presente nel Salvatore incarnato: la perfezione della sua divinità e l’integrità intatta della sua umanità. In terzo luogo, la trasfigurazione ci rivela non soltanto la gloria della Trinità, non soltanto la gloria di Cristo, una persona in due nature, ma anche la gloria della nostra persona umana. La trasfigurazione è una rivelazione non soltanto di ciò che Dio è, ma parimenti di ciò che noi siamo. Guardando a Cristo trasfigurato sul monte, noi vediamo la natura umana – la nostra persona creata – assunta in Dio, riempita interamente della vita e della gloria increate, permeata dalle energie divine, pur continuando a essere totalmente umana. Noi vediamo la natura umana come era al principio, in paradiso, prima della caduta; vediamo la natura umana come sarà alla fine, nel tempo che verrà dopo la resurrezione finale, e questo ultimo stato della natura umana è incomparabilmente più elevato del primo. In questo senso la trasfigurazione sul monte Tabor ha un carattere escatologico; per 16 Giovanni di Damasco, Omelia sulla Trasfigurazione 12, in Die Schriften des Johannes von Damaskos, V. Opera homiletica et hagiographica, a cura di B. Kotter, PTS 29, De Gruyter, Berlin 1988, p. 450. 17 Andrea di Creta, Discorso sulla Trasfigurazione, PG 97,948A-B. 18 P. Evdokimov, “Saint Seraphim of Sarov. An icon of Orthodox Spirituality”, in Sobornost 4/9 (1963), p. 510.
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utilizzare le parole di Basilio il Grande, essa è “l’inaugurazione della parusia gloriosa di Cristo”19. La trasfigurazione di Cristo ci mostra dunque, secondo Andrea di Creta, “la deificazione della natura umana”20. Se vogliamo comprendere il vero significato della dottrina della théosis, dobbiamo partecipare a una liturgia vigiliare della festa della Trasfigurazione e ascoltare attentamente ciò che è detto e cantato. Cristo, trasfigurato sul monte, ci rivela la pienezza delle nostre potenzialità umane, la capacità ultima della nostra natura umana in ciò che essa ha di più vero ed elevato. Dice il kondákion della vigilia: “Oggi, per la divina trasfigurazione, tutta la natura mortale già divinamente risplende e con gioia acclama”21. Ma non è tutto. In quarto luogo – e ciò ha un particolare significato per il mondo contemporaneo –, il Cristo trasfigurato ci rivela la gloria non soltanto della persona umana ma ugualmente dell’intera creazione materiale. “Tu che con la tua luce hai santificato tutta la terra”, cantiamo ai vespri della festa22. La trasfigurazione ha una portata cosmica, poiché l’umanità deve essere salvata non dal mondo ma con il mondo. Il monte Tabor anticipa lo stato finale predetto dall’apostolo Paolo, quando la creazione nella sua interezza “sarà liberata dalla schiavitù della corruzione”, ed entrerà nella “libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,21). È l’inaugurazione della “nuova terra”, di cui parla l’Apocalisse (Ap 21,1). Sulla montagna, cioè, vediamo non soltanto un volto umano trasfigurato nella gloria; la radiosità risplende allo stesso modo anche dalle vesti di Cristo (cf. Mt 17,2). La luce del Tabor trasforma non soltanto il corpo del Salvatore in modo isolato, ma anche gli altri oggetti materiali associati a lui, le vesti fatte da
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Basilio di Cesarea, Sul salmo 44,5, PG 29,400D. Andrea di Creta, Discorso sulla Trasfigurazione, PG 97,933A. 21 Anthologhion IV, p. 859. 22 Ibid. 20
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mano d’uomo che egli indossa; e così, per estensione, essa abbraccia potenzialmente tutte le cose materiali. Non soltanto ciascun volto umano, ma anche ciascun oggetto fisico è capace di trasfigurazione. Alla luce di quell’unico volto che fu mutato, di quelle particolari vesti che furono rese bianche e rilucenti, tutti i volti umani hanno acquisito una nuova radiosità, a tutti gli oggetti comuni è stata data una nuova profondità. Agli occhi di coloro che credono veramente nel Cristo trasfigurato nulla è misero o disprezzabile; tutte le cose create possono diventare un veicolo delle energie increate di Dio. La gloria del roveto ardente è tutt’intorno a noi, desiderosa di essere disvelata. La festa della Trasfigurazione è, per eccellenza, una celebrazione ecologica.
I due monti: il Tabor e il Calvario
È ora di ritornare alla nostra domanda iniziale. In che modo la gloria del Cristo trasfigurato sulla montagna – gloria della Trinità, gloria del Logos incarnato, gloria della persona umana, gloria dell’intera creazione – ci rende possibile comprendere il mistero della sofferenza? Come ci aiuta a rispondere all’angoscia, alla rabbia e alla disperazione che provano le nostre sorelle e i nostri fratelli in Iraq o nel Darfur, o qui a Milano e a Torino, oppure nella mia città di Oxford? È cosa buona, potreste dire, parlare della gloria del roveto ardente che è tutt’intorno a noi; ma come possiamo far diventare queste parole una realtà viva? Una risposta, o per lo meno l’inizio di una risposta, emerge se consideriamo il contesto in cui avviene la trasfigurazione di Cristo. Questa ha luogo appena prima che Gesù lasci la Galilea (cf. Mt 19,1) per salire per l’ultima volta a Gerusalemme. Quindi i principali eventi che seguono la trasfigurazione sono l’incon447
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tro con Zaccheo a Gerico (cf. Lc 19,1-10), la resurrezione di Lazzaro a Betania (cf. Gv 11,1-44), e l’ingresso nella città santa, seguito quasi immediatamente dalla crocifissione. Cronologicamente, dunque, vi è una stretta prossimità fra la trasfigurazione e la passione. Ciò viene facilmente trascurato, perché nel calendario ecclesiastico la settimana santa e la festa della Trasfigurazione (6 agosto) sono celebrate in momenti dell’anno completamente distinti. Ma se la nostra prassi liturgica volesse aderire più strettamente alla reale sequenza degli eventi, allora dovremmo fare memoria della trasfigurazione in un qualche momento della quaresima; e di fatto, secondo il rito latino, l’evangelo della seconda domenica di quaresima è esattamente il racconto matteano della trasfigurazione (cf. Mt 17,1-9). Tentiamo ora di esplorare ulteriormente la possibile relazione tra i due monti: il Tabor e il Calvario. Questo è possibile se ci chiediamo che cosa, nel racconto evangelico, viene immediatamente prima della descrizione della trasfigurazione di Cristo e che cosa viene immediatamente dopo. In tutti e tre gli evangeli sinottici c’è un’identica sequenza di eventi. Dapprima, sulla strada per Cesarea di Filippo, Pietro fa la sua risoluta confessione di fede: “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). Gesù prosegue predicendo la sua passione ormai prossima, la sua morte e la sua resurrezione (cf. Mt 16,21). Pietro è scandalizzato, ma Cristo lo rimprovera e insiste nel ricordare che non solo lui, ma tutti coloro che desiderano essere suoi discepoli sono chiamati a seguirlo sul sentiero della sofferenza volontaria: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24). Essere discepoli significa portare la croce. Cristo poi predice la sua futura venuta nella gloria (cf. Mt 16,28), e a questa predizione segue immediatamente il racconto della trasfigurazione: “Dopo sei giorni Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse su un alta montagna, loro soli” (Mt 17,1). 448
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Questa sequenza nella narrazione evangelica non è semplicemente una giustapposizione casuale, ma esprime un’interdipendenza spirituale importante e vitale. Innanzitutto e ovviamente, la trasfigurazione avalla la confessione di fede di Pietro: Gesù è infatti non soltanto figlio dell’uomo, ma anche “figlio del Dio vivente”. Il Tabor conferma la proclamazione della divinità di Cristo da parte di Pietro. Ma la trasfigurazione deve anche essere compresa alla luce del resto del dialogo sulla strada per Cesarea di Filippo. Non è una coincidenza che nostro Signore parli della sua passione e dell’universale vocazione a portare la croce immediatamente prima della rivelazione della sua gloria divina sul Tabor. Al contrario, è preoccupato di enfatizzare la relazione essenziale nella sua economia di salvezza tra gloria e sofferenza. In questo modo il contesto della trasfigurazione ci suggerisce un possibile modo di avvicinarci al mistero della sofferenza innocente. Gloria e sofferenza vanno insieme nell’opera salvifica di Cristo. I due monti, il Tabor e il Calvario, sono così di fatto significativamente legati. La trasfigurazione non può essere compresa se non alla luce della croce, né la croce può essere compresa se non alla luce della trasfigurazione e, ugualmente, della resurrezione. Ciò diventa più chiaro se guardiamo più da vicino la narrazione evangelica. Possiamo chiederci: chi sono i tre discepoli che accompagnano Gesù sulla cima della montagna? Sono Pietro, Giacomo e Giovanni. E chi sono i tre discepoli presenti con Gesù al Getsemani? Proprio i medesimi tre (cf. Mt 26,37). Si può naturalmente supporre che questi tre fossero presenti in entrambe le occasioni perché erano i discepoli più intimamente associati a Gesù, un circolo più ristretto all’interno dei dodici. Ma certamente si deve trovare un significato più profondo. Proprio come non è una coincidenza che Cristo parli del portare la croce immediatamente prima della sua trasfigurazione, così non è una coincidenza che gli stessi tre discepoli siano presenti sia sulla cima della montagna sia all’agonia nel giardino del 449
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Getsemani23. Testimoni della sua gloria increata, essi sono testimoni anche di ciò che Enzo Bianchi ha chiamato, nella sua introduzione, lo “sfiguramento”. Qual è, possiamo ulteriormente chiederci, l’argomento di cui Mosè ed Elia parlano con Cristo mentre stanno con lui nella luce radiosa del Tabor? È, secondo Luca, nient’altro che il suo prossimo éxodos a Gerusalemme, la sua imminente morte in croce (cf. Lc 9,31). Non è sorprendente? Avvolti nella luce dell’eternità, essi parlano non delle gioie trascendenti del cielo, ma della kenosi sacrificale della crocifissione. Questo indica esattamente come la trasfigurazione debba essere compresa alla luce della crocifissione, e la crocifissione alla luce della trasfigurazione. Alla sommità del Tabor è piantata la croce; e, in parallelo, dietro al velo della carne crocifissa e sanguinante di Cristo sul Golgota dobbiamo discernere la presenza della luce increata della trasfigurazione. Gloria e sofferenza sono due aspetti di un unico, indiviso mistero. Hanno “crocifisso il Signore della gloria”, afferma Paolo (1Cor 2,8): Cristo è sia il Signore della gloria quando muore sulla croce sia quando è trasfigurato sul Tabor. Gloria e sofferenza sono parimenti strettamente legate nel quarto evangelo. Esso non contiene una descrizione esplicita della trasfigurazione; ciò che nei sinottici è un evento specifico, nel quarto evangelo è diventato un tema dominante e onnipresente. Fin dal prologo Giovanni parla in termini di luce e di gloria: “La luce splende nelle tenebre … noi abbiamo visto la sua gloria” (Gv 1,5.14). Tutto ciò che segue nel quarto evangelo è uno sviluppo di questi temi. Di particolare importanza per il nostro intento sono i capitoli 12-13, perché qui il tema della gloria è direttamente connesso a quello della sofferenza e, più in particolare, al Getsemani anche se, come già accade per la trasfigurazione, Giovan-
23 Il parallelo tra Tabor e Getsemani è ancor più chiaro se, come alcuni hanno suggerito, la trasfigurazione ebbe luogo di notte.
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ni non riporta una descrizione esplicita dell’agonia nel giardino. “È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo”, dice Gesù (Gv 12,23). Si tratta di un chiaro riferimento alla passione: l’ora della gloria non è altro che l’ora della sofferenza. Questo è confermato dalle parole che seguono, nelle quali Cristo parla di sacrificio e di morte, parla del chicco di grano che cade in terra e muore (cf. Gv 12,24) e del perdere la vita per salvarla (cf. Gv 12,25). Tutto questo ha stretti paralleli con la conversazione sulla strada per Cesarea di Filippo poco prima della trasfigurazione (si confronti, in particolare, Gv 12,25 con Mt 16,25). Nell’Evangelo di Giovanni segue poi un’indubbia allusione al Getsemani: “Ora l’anima mia è turbata” (Gv 12,27), che è seguita da un ulteriore riferimento alla gloria divina: “‘Padre, glorifica il tuo nome’ … ‘L’ho glorificato e ancora lo glorificherò’” (Gv 12,28). La sofferenza del Getsemani è così direttamente collegata con la manifestazione della gloria divina: Dio non è mai così potente come quando è debole (cf. 2Cor 12,9), non è mai così esaltato come quando è vulnerabile. Il tema della gloria ricompare nell’Evangelo di Giovanni 13,31: “Ora il Figlio dell’uomo è glorificato…”. Questo viene detto significativamente proprio nel momento in cui Giuda è uscito nelle tenebre per consegnare Cristo, quando è ormai in moto il corso degli eventi che condurranno alla lotta sul Golgota. La gloria non è solo attraverso, ma nella passione. In questo modo caratteristico il quarto evangelo ha “interiorizzato” la trasfigurazione e il Getsemani. Lo fa in modo tale da indicare senza possibili ambiguità che il mysterium gloriae è una cosa sola con il mysterium crucis, che trasfigurazione e passione sono essenzialmente un’unica realtà. Cristo è re della gloria non malgrado la croce, ma a causa della croce. Questa “syndromé Tabor-Calvario”, come potrebbe essere appropriatamente definita, è ripetutamente sottolineata nei testi liturgici del 6 agosto. Prima di tutto, è degno di nota che la festa della Trasfigurazione ricorra quaranta giorni prima dell’Esaltazione della croce, il 14 settembre. Il numero quaranta ha ovvia451
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mente un significato speciale nella storia sacra: Israele stette quarant’anni nel deserto (cf. Nm 14,33), David e Salomone regnarono entrambi per quarant’anni (cf. 1Re 2,11 e 11,42), Elia camminò per quaranta giorni verso il monte Oreb prima di fare esperienza della teofania nella grotta (cf. 1Re 19,8), Gesù fu tentato per quaranta giorni nel deserto (cf. Mc 1,13 e par.), e ascese al cielo quaranta giorni dopo la sua resurrezione (cf. At 1,3). Il fatto che la festa della Trasfigurazione sia esattamente quaranta giorni prima dell’Esaltazione della croce è enfatizzato dal canto delle katavasíe della croce nel canone del mattutino del 6 agosto. Gli eventi futuri allungano le loro ombre dietro di sé. Questo non è affatto l’unico luogo nella prassi liturgica della trasfigurazione dove il Tabor e il Calvario sono giustapposti. I primi due stichirá dei grandi vespri, che descrivono entrambi il momento della trasfigurazione, iniziano sorprendentemente con le parole: “Prima che tu salissi sulla croce, o Signore”24. Sulla stessa linea, il primo stichirón delle lodi all’órthros comincia con le parole “Prima della tua croce preziosa, prima della tua passione”25. Il legame tra la trasfigurazione e la crocifissione è sottolineato allo stesso modo nel kondákion della festa: Ti sei trasfigurato sul monte e i tuoi discepoli, per quanto ne erano capaci, hanno contemplato la tua gloria, o Cristo Dio, affinché, vedendoti crocifisso, comprendessero che la tua passione era volontaria, e annunciassero al mondo che tu sei veramente irradiazione del Padre26.
Al momento della crocifissione, poi, i discepoli devono ricordare la teofania sul Tabor, e devono comprendere che anche il Golgota è una teofania. La trasfigurazione e la passione sono 24
Anthologhion IV, p. 856. Ibid., p. 871. 26 Ibid., p. 868. 25
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da comprendere ciascuna in relazione con l’altra, e ugualmente in termini di resurrezione. Il legame tra il Tabor e il Calvario è evidente non soltanto nella Scrittura e nei testi liturgici ma anche nell’iconografia. Come Enzo Bianchi ci ha ricordato, in quella che è la più antica rappresentazione della trasfigurazione giunta fino a noi (insieme al mosaico nell’abside della chiesa di Santa Caterina al Sinai) – vale a dire il mosaico nell’abside di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna – il Cristo trasfigurato è mostrato proprio nella forma di una crux gemmata, una grande croce decorata con gemme preziose, che stende le sue braccia nel firmamento del cielo. L’interconnessione fra la trasfigurazione e la passione è qui proclamata in una maniera particolarmente singolare e memorabile. Abbiamo fin qui considerato cosa accadde immediatamente prima della trasfigurazione. Guardiamo ora a ciò che viene direttamente dopo. In tutti e tre gli evangeli sinottici c’è ancora una volta un’identica sequenza di eventi. I tre discepoli, scendendo con Cristo dalla montagna, sono messi di fronte a una scena di confusione e tristezza allo stesso tempo: un bambino malato, afflitto da crisi epilettiche; un padre che grida nell’angoscia: “Credo, aiuta la mia incredulità!” (Mc 9,24); gli altri discepoli sono perplessi e incapaci di assisterlo (cf. Mt 17,14-18; Mc 9,14-27). Ancora una volta non si tratta di una giustapposizione casuale. Pietro voleva rimanere sulla cima della montagna, innalzare tre tende, e così prolungare la visione (cf. Mt 17,4). Ma Gesù non lo permette: insiste che essi scendano nuovamente nella pianura. Noi partecipiamo alla grazia della trasfigurazione non isolandoci dalla sofferenza del mondo ma coinvolgendo noi stessi in essa. La nostra esistenza quotidiana è trasfigurata esattamente nella misura in cui noi, ciascuno nella propria situazione, condividiamo la sofferenza, la solitudine e lo scoraggiamento di coloro che sono attorno a noi. Tale è dunque la relazione portatrice di vita tra la gloria del monte Tabor e l’angoscia e la disperazione del mondo; tale è il 453
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messaggio del Salvatore trasfigurato all’umanità sofferente; tale è il significato della trasfigurazione per il mondo contemporaneo. Tutte le cose sono capaci di trasfigurazione, ma tale trasfigurazione è possibile soltanto attraverso il portare la croce, come la chiesa ortodossa afferma ogni domenica al mattutino: “Contempla come, attraverso la croce, la gioia è giunta a tutto il mondo”. Attraverso la croce: non c’è altra via. Per Cristo stesso e per tutti noi che cerchiamo di essere membra del suo corpo, gloria e sofferenza vanno insieme. Nella nostra vita come nella sua i due monti, Tabor e Calvario, formano un unico mistero. Essere cristiani significa condividere allo stesso tempo l’autosvuotamento e il sacrificio di sé sulla croce, e la grande gioia della trasfigurazione e della resurrezione. Presenti con Cristo nella gloria sulla cima della montagna, siamo anche presenti con lui al Getsemani e sul Golgota. “Il paradosso della sofferenza e del male – dice Nikolaj Berdjaev – è risolto nell’esperienza della compassione e dell’amore”27. Ciò è vero non soltanto per noi stessi ma anche per il Dio incarnato. Il nostro Dio è un Dio che entra nella storia degli uomini. Alla domanda di Ivan Karamazov egli non offre una risposta fatta di parole; la sua risposta è una risposta espressa con la vita, attraverso la sua compassione, la sua partecipazione al nostro dolore, attraverso il suo amore che soffre con noi. La sua trasfigurazione ci dona la guarigione proprio perché significa non una fuga dal male e un’alienazione dalla creazione decaduta, ma un coinvolgimento incondizionato e senza limiti in essa. La trasfigurazione conduce alla croce e la croce alla resurrezione: qui sta la nostra speranza certa. Il titolo del mio contributo era: “La trasfigurazione di Cristo e la sofferenza del mondo”, ma avrei potuto ugualmente scegliere come titolo “La sofferenza di Cristo e la trasfigurazione
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N. Berdjaev, Spirit and Reality, Geoffrey Bles, London 1939, p. 124.
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del mondo”. “La bellezza salverà il mondo”: sì, certamente Dostoevskij aveva ragione. Ma anche Isaia aveva ragione nel dire che “egli ha portato le nostre sofferenze e si è caricato dei nostri dolori” (Is 53,4). La bellezza che è la salvezza del mondo è infatti sì la bellezza increata che risplende sul Tabor, ma questa stessa bellezza increata è manifestata nondimeno nel sacrificio della croce. La trasfigurazione di Cristo non ci permette di evadere da alcuna sofferenza, ma rende la nostra sofferenza creatrice e portatrice di vita, secondo le parole di Paolo: “Morenti, eppure viviamo … afflitti, ma sempre lieti” (2Cor 6,9-10).
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CONCLUSIONI Michel Van Parys*
Il XV Convegno internazionale di spiritualità ortodossa, organizzato congiuntamente dalla comunità monastica di Bose e dai Patriarcati di Costantinopoli e di Mosca, ha avuto per argomento Il Cristo trasfigurato nella tradizione spirituale ortodossa. Come nei colloqui precedenti, c’è stata una bella varietà di partecipanti laici, uomini e donne, religiosi, religiose, monaci, monache, vescovi e metropoliti. Ma questo XV Convegno ha comportato una novità: fin qui i convegni di Bose si svolgevano in due tempi poiché includevano una sezione greca e una russa, ciascuna dedicata ad argomenti diversi. Quest’anno abbiamo fatto convergere le due sezioni su un unico tema, la trasfigurazione del Signore Gesù Cristo, che è al cuore di ogni tradizione spirituale ortodossa, sia essa greca, russa, romena o serba. Abbiamo potuto assistere in tal modo a una bella sinfonia ortodossa una e unica nella sua ispirazione e diversa in funzione delle epoche storiche e dei contesti culturali. Due testimonianze giunte dal monachesimo latino, quelle di Guigo II il certosino e quella di Pietro il Venerabile, hanno con-
* Le conclusioni sono state lette da Michel Van Parys a nome del comitato scientifico del Convegno, composto da: Enzo Bianchi, Lino Breda, Sabino Chialà, Giorgio Cracco, Nina Kauchtschischwili, Hervé Legrand, Adalberto Mainardi, Antonio Rigo, Roberto Salizzoni, Michel Van Parys.
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Conclusioni
ferito maggior ampiezza a questa sinfonia, sottolineando in tal modo che oriente e occidente cristiani sono invitati a sedersi assieme ai piedi di Gesù per ascoltare la parola dell’Evangelo, come Enzo Bianchi ci ha aiutato a fare, e a salire assieme sul monte per contemplare la gloria del Cristo e seguirlo nel suo esodo di sofferenza per la salvezza dell’umanità. Gesù Cristo è l’esegesi vivente del mistero di Dio e dell’economia della salvezza. La parola italiana “convegno” (dal latino con-venire, venire assieme) che in francese ha dato couvent esprime felicemente cosa sono i convegni di Bose: degli incontri. L’amicizia tra discepoli del Cristo è ciò che li contraddistingue. Noi ci addomestichiamo, ci ascoltiamo tra noi con simpatia e questa simpatia così necessaria anche oggi per far cadere le paure e far sparire i pregiudizi deve andare di pari passo con il rigore. La qualità scientifica delle presentazioni tese all’oggettività storica e attente ai dati della filologia e alle evoluzioni delle tradizioni liturgiche, dottrinali, iconografiche eccetera, è ciò che deve sostenere lo slancio della reciproca simpatia. Le chiese d’occidente si mettono alla scuola del Cristo il Maestro ben amato della spiritualità ortodossa e le chiese ortodosse si mettono all’ascolto del Cristo il Maestro ben amato della spiritualità dell’occidente. In termini più teologici noi dobbiamo intensificare con discernimento la ricezione delle meraviglie di santità e di amore di Cristo Gesù che lo Spirito santo ha operato e ancora oggi opera nelle nostre rispettive tradizioni spirituali. Vorrei ora soffermarmi rapidamente su degli elementi che durante il convegno mi sono parsi particolarmente fecondi o capaci di far nascere ulteriori riflessioni. Un tale sommario sarà inevitabilmente soggettivo e incompleto e ce ne scusiamo. Innanzitutto il mistero della trasfigurazione: come il battesimo di Gesù nel Giordano essa ci rivela il mistero della santa Trinità. L’amore di Dio Padre per il Figlio unico unigenito suggellato dall’amore Dio cioè dallo Spirito santo. 458
Conclusioni
La rivelazione della santa Trinità mostra che il Cristo Gesù è il centro o il cuore della storia della salvezza, della nostra salvezza. La Legge e i profeti rendono testimonianza al fatto che Gesù è il Messia del popolo ebreo eletto e il salvatore delle nazioni pagane. È il servitore sofferente, è il Signore resuscitato che tornerà nella gloria di Dio Padre. La presenza simultanea di Gesù, dei profeti e dei tre apostoli prescelti la voce del Padre, l’ombra dello Spirito santo ci rivelano il mistero della chiesa e del regno di Dio. Ogni battezzato è poi invitato a comunicare alla gloria di Dio trasfigurato. In questa vita ci disponiamo a questa comunione nella gloria attraverso l’ascesi e la preghiera, portando la croce e pentendoci dei nostri peccati. Nella vita eterna noi comunicheremo alla gloria di Cristo conformandoci a lui. L’ortodossia bizantina si è impegnata, in particolare a partire dai nuovi esicasti del Trecento, a contemplare la luce increata del Cristo trasfigurato; il monachesimo latino è stato più sensibile all’ingiunzione della voce del Padre “Ascoltatelo!”, come detto nelle Scritture. L’una e l’altro spingono il monaco e il cristiano a entrare nell’esperienza dell’incontro personale con il Cristo (Guigo II il certosino, Gregorio il Sinaita, Silvano del Monte Athos). Tutti i grandi spirituali d’oriente e d’occidente si ritrovano nel considerare la trasfigurazione di Gesù e la nostra comunione per grazia a questa esperienza, nella misura in cui ciò è possibile in questa vita, quale anticipazione della gloria futura ed escatologica. “Noi sappiamo che al momento di quella manifestazione noi saremo simili a lui perché lo vedremo quale egli è” (1Gv 3,2). Simeone il Nuovo Teologo si è fatto cantore di questa certezza mistica: del fatto che l’amore divino diventa anche luce di Dio. In un approccio più storico diverse questioni potrebbero ancora essere approfondite. Quali sono le fonti patristiche di questa mistica della luce? Si è addotta giustamente l’influenza di Gregorio di Nazianzo. Come si è diffusa nell’oriente bizantino la festa della Trasfigurazione del Cristo alla data del 6 agosto e in che fase si è tra459
Conclusioni
smessa poi in Palestina e da là all’impero bizantino? Perché infine l’oriente bizantino ortodosso ha privilegiato la visione della gloria luminosa del Cristo sul Tabor quale paradigma privilegiato dell’esperienza mistica cristiana? Qualche elemento di risposta ci è stato suggerito quando si è tentato un parallelo tra Antonio il Grande e Serafim di Sarov o quando si è ricordato il legame stabilito da Giovanni di Damasco tra preghiera e ortodossia della fede. Tutti abbiamo altresì notato come la spiritualità esicasta a partire dall’inizio del Trecento e fino a oggi abbia fecondato le culture dei popoli nella Slavia orthodoxa, in Grecia e in Romania. Ci sembra che siamo qui davanti a un fatto molto importante per la chiesa di oggi: una spiritualità forte, autentica, ispirata dall’evangelo e dalla tradizione che agisce come un lievito nella pasta della società. È stato il ruolo svolto da Gregorio il Sinaita e la sua influenza in Grecia, Bulgaria e Romania. Più volte abbiamo sentito parlare di Paisij Veli™kovskij e del monastero di Optina. Abbiamo udito parlare del rinnovamento esicastico in Romania che ha promosso un rinascimento teologico con il nome di padre Sta˘niloae e altri, e che è divenuto l’anima della resistenza all’ideologia totalitaria comunista. Riprendo anche la questione posta cent’anni fa dall’archimandrita Ilarion Trojckij: “progresso o trasfigurazione?”. Mi sembra che questo interrogativo illustri bene l’alternativa tra due modelli di civiltà, quale che sia il valore dell’identificazione fatta dall’archimandrita Ilarion tra progresso dell’occidente europeo e trasfigurazione dell’oriente ortodosso. Già il messaggio del patriarca ecumenico ci aveva avvertiti che non bisogna separare la gloria della trasfigurazione dalla croce, come abbiamo anche ascoltato nella relazione del metropolita Kallistos. L’insegnamento spirituale di Ignatij Brjan™aninov ce lo ha ricordato. Silvano dell’Athos, infine, ci propone come schema che porta alla gloria del Cristo trasfigurato la sua “beata umiltà” kenotica.
460
ILLUSTRAZIONI
Tav. 1. Trasfigurazione, affresco, Grande Meteora, fine xx secolo. 463
Tav. 2. Pannelli delle porte lignee, Santa Sabina, Roma, prima metà del v secolo. 465
Tav. 3. Particolare del pannello con la Trasfigurazione, Santa Sabina. 467
Tav. 4. Lipsanoteca di Brescia, fine del iv secolo, lato posteriore. 469
Tav. 5. Evangelario di Rabbula, particolare della pagina 7a, 586. 471
Tav. 6. Mosaico absidale, Sant’Apollinare in Classe, Ravenna, prima metà del vi secolo.
Tav. 7. Ricostruzione dello schema decorativo della basilica di Nola (Wickhoff). 473
Tav. 8. Mosaico absidale, Monastero di Santa Caterina al Sinai, vi secolo. 475
Tav. 9. Miniatura del ix secolo, Parigi, Bibliothèque nationale, cod. gr. 510, f. 75. 477
Tav. 10. Mosaico della cappella di San Zenone, Santa Prassede, Roma, ca. 823.
Tav. 11. Mosaico dell’arco trionfale, Santa Prassede, Roma. 479
Tav. 12. Croce-reliquiario, Pliska, ix secolo. 481
Tav. 13. Miniatura del salmo 88,12, Salterio Khludov, Mosca, Museo Storico Statale, cod. 129D, f. 88v. 483
Tav. 14. Trasfigurazione, affresco, chiesa di Greme Karanlik, Turchia, x secolo. 485
Tav. 15. Miniatura dal manoscritto di G. Cantacuzeno, Parigi, Bibliothèque nationale, 1370-1375. 487
Tav. 16. Affresco, chiesa del Salvatore, Monastero MiroΔskij, Pskov, 1140 ca. 489
Tav. 17. Affresco (ricomposizione), chiesa del Salvatore sulla Kovaleva, Novgorod, 1380. 491
Tav. 18. Andrej Rublev (?), Trasfigurazione, chiesa dell’Annunciazione, Mosca, inizio del xv secolo. 493
Tav. 19. Trasfigurazione, icona dalla chiesa del Salvatore a Pereslavl’ Zalesskij, Galleria Tret’jakov, Mosca, 1403 ca. 495
Tav. 20. Trasfigurazione, particolare di Elia.
Tav. 21. Trasfigurazione, particolare di Mosè. 497
Tav. 22. Trasfigurazione, icona, collezione privata Elizavetin, Mosca. 499
Tav. 23. Trasfigurazione, particolare di Elia.
Tav. 24. Trasfigurazione, particolare di Mosè. 501
Tav. 25. Trasfigurazione, icona, collezione Banca Intesa, Vicenza, xviii secolo. 503
Tav. 26. Trasfigurazione, icona, provenienza sconosciuta (collezione privata, Mosca), prima metà del xvi secolo. 505
Tav. 27. Discesa agli inferi, icona, collezione di V. A. Logvinenko, secondo quarto del xiv secolo. 507
Tav. 28. Discesa agli inferi, particolare. 509
Tav. 29. Discesa agli inferi, icona, collezione privata, metà del xiv secolo. 511
SIGLE
BLDR
Biblioteka literatury Drevnej Rusi, Nauka, Sankt-Peterburg 1997 ss.
BHG
Bibliotheca Hagiographica Graeca I-III, a cura di F. Halkin, Bruxelles 19573 (Subsidia Hagiographica 8a); Novum Auctarium Bibliothecae Hagiographicae Graecae, a cura di F. Halkin, Bruxelles 1984 (Subsidia Hagiographica 65).
CCCM
Corpus Christianorum Continuatio Mediaevalis, Brepols, Turnhout 1971 ss.
CCSG
Corpus Christianorum. Series Graeca, Brepols, Turnhout 1977 ss.
CCSL
Corpus Christianorum. Series Latina, Brepols, Turnhout 1954 ss.
CPG
Clavis Patrum Graecorum, Brepols, Turnhout 1974-1987.
DS
Dictionnaire de spiritualité, ascétique et mystique, Beauchesne, Paris 1931-1995.
PG
Patrologiae cursus completus. Series graeca, a cura di J.-P. Migne, Paris-Turnhout 1857-1866.
PL
Patrologiae cursus completus. Series latina, a cura di J.-P. Migne, Paris-Turnhout 1844-1864.
PSRL
Polnoe sobranie russkich letopisej.
PLP
Prosopographisches Lexikon der Palaiologenzeit, a cura di E. Trapp,Österreichische Akademie der Wissenschaften, Wien 1976-1994.
513
Sigle PO
Patrologia orientalis, Paris-Turnhout 1904 ss.
PTS
Patristische Texte und Studien, Berlin 1964 ss.
SC
Sources Chrétiennes, Cerf, Paris 1942 ss.
514
INDICE DEI NOMI Non sono segnalati i nomi dei santi dedicatari di chiese e di monasteri. In corsivo i numeri di pagina dove il nome ricorre solo in nota.
Abel U. 178 Abramo, personaggio biblico 145 Adamo, personaggio biblico 62, 117, 212 Adrianova-Peretc V. P. 164 Afanas’ev V. 349 Agfredo, conte di Alvernia 246
Andreopoulos A. 102, 123, 129, 132-133, 141, 142, 149, 150 Andronico III Paleologo 406 Androutsos Ch. 422 Angusheva-Tihanova A. 89 Anonimo piacentino 78 Anselmo di Aosta 265
Agostino di Ippona 70, 190, 196, 249, 255, 259, 261, 265, 342
Antipa di Valaam 410
Aleksij II, patriarca di Mosca 6
Antonescu I. V. 425
Alessandro I, re di Valacchia 407
Antonij, igumeno 353
Alfeev I., v. Ilarion Alfeev
Antonij Blum 113, 118, 119
Alighieri D. 135
Antonio di Kiev 22
Aliquò S. 257
Antonio il Grande 117, 231, 248, 282, 335-345, 351, 409, 428
Allen P. 202
Antonova V. I. 169, 180
Ambrogio di Milano 190, 249, 255
Arborio Mella E. 253, 264
Amfilochije, metropolita di Cetinje 17
Aronne, personaggio biblico 286
Ammone, abba 224-225
Artioli M. B. 52, 54, 79, 155, 173, 231, 294, 302, 309, 321, 326, 406, 441
Anastasio di Antiochia 76 Anastasio il Sinaita 70, 71, 77, 89-96, 147, 368, 400 Andrea di Creta 75, 77, 89, 147, 400, 443, 445-446
Aschberg O. 177 Asenat, personaggio biblico 182 Atanasio, fondatore della Grande Meteora 323
515
Indice dei nomi Atanasio di Alessandria 96, 232, 337, 338, 340-341, 344, 408 Athenagoras, archimandrita 25 Aubineau M. 78, 92, 123, 138, 145, 288 Auvray E. 80 Azéma Y. 195 Bagration-Muchraneli I. L. 344 Balan ˘ I. 406, 421-422
Berger C. 429 Bergson H. 413 Bernardo di Clairvaux 247, 265 Bernone, abate di Cluny 245 Berry V. 251 Bertotti G. 225 Bettiolo P. 225
Balan ˘ N. 428
Beyer H.-V. 97, 277-289, 298, 305, 322, 332, 333
Balfour D. 81, 277-289, 332
Biagiarelli C. M. 177
Ball H. 413
Bianchi E. 9, 14, 17, 25, 27, 32, 450, 458
Barak, personaggio biblico 143
Bielawski M. 436
Bardy G. 96
Binswanger L. 430
Barlaam 205
Bisconti F. 137
Barlaam il Calabro 304, 306-310, 323, 423-424
Blaga L. 412, 425
Bartholomeos I, patriarca di Costantinopoli 6
Blondel M. 431 Boca A. 428
Bartolomeu Anania, metropolita di Cluj 429
Boespflug F. 102
Basilio di Cesarea 74, 99, 225, 260, 371, 408, 446
Botta D. 412
Basilio di Poiana Marului ˘ 278 Basilio di Seleucia 75, 87 Beda il Venerabile 249, 255, 257 Bedjan P. 230 Bellini E. 331, 340 BelonoΔko S. 8 Ben™ev I. 179 Benedetto XVI, papa 5 Benedetto da Norcia 31, 252, 267, 297, 299 Berdjaev N. 391, 429-430, 454
516
Bonaventura da Bagnoregio 265
Botte B. 54 Bouthillier D. 246, 249 Brandt P.-Y. 33 Braniîte E. 48 Bredero A. H. 247 Bremond H. 413 Brjan™aninov I. 348-365, 460 Brown Tkacz C. 132 Bruk J. V. 169 Bruno il certosino 264 Bulgakov G. 176
Indice dei nomi Bulgakov M. 110, 111
Cirillo di Alessandria 19, 48, 75, 341, 408
Bulgakov S. N. 53, 391
Cirillo di Gerusalemme 137, 145
Bunge G. 224, 225
Citterio E. 411
Caillet J.-P. 134, 135
Clemente, discepolo di Gregorio il Sinaita 304
Calati B. 297 Callisto I, patriarca di Costantinopoli 282, 291, 295, 298, 303-304, 317, 404
Clemente di Alessandria 72, 222, 427, 442 Clemente di Roma 228
Callisto III, papa 251
Cola S. 131
Callisto Catafugiota 428
Colonna A. 124
Callisto II Xanthopoulos 291
Coneybare F. C. 88
Cantarella G. M. 245, 249
Congourdeau M.-H. 97
Cardillo Azzaro G. 169
Constable G. 245, 247, 249, 250, 251
Carrozzi L. 190
Constantinides Hero A. 165, 324, 326, 328, 330
Casartelli Novelli S. 135, 136, 137 Casula L. 185 Cavalcanti E. 7, 186, 196, 252 Cazelles H. 54 Ceaus¸escu N. 426 Ceresa-Gastaldo A. 229 Cesaretti P. 203 Ωetverikov S. 414 Chavasse A. 185 Chenu M.-D. 253 Chialà S. 199, 322 ChoruΔij S. S. 8, 377
Conticello G. 278, 295 Conticello V. 278, 295 Corbon J. 54 Corsini E. 130 Cosma di Gerusalemme 103 Cosma di Maiuma 58, 78, 368 Costantino I, imperatore 128 Cothenet É. 33, 72 Coune M. 33, 70, 90, 147, 255 Courcelle P. 299 Crainic A. 426
Christodoulos, arcivescovo di Atene 21
Crainic N. 48, 49, 411-424, 426-427, 429-430
Chrysostomides J. 322
Craiovescu B. 408
Cicerone 248
Cremaschi L. 81, 199, 228, 232, 322, 337
Ωicha™ev M. 349
Czachesz J. 72
Cioran E. 412
D’Ayala Valva L. 80, 231, 294, 432
Cipriano di Cartagine 249
D’Este R. 7
517
Indice dei nomi Dagron G. 89
Doutreleau L. 194
Dalmais I.-H. 78
Duchesne A. 253
Daniel, patriarca di Romania 402, 403
Dufrenne S. 102
Daniele, profeta 38, 141, 302, 315
Dumitrescu C.-L. 408
Danieli M. I. 256
Durand G.-M. 192
Daniil, padre, v. Tudor S.
Dysinger L. 320
Daniil, principe di Mosca 106
DΔuri™ V. 181
Darrouzès J. 219, 220, 236, 306, 313
Eckhart (Meister) 427
David, personaggio biblico 56, 141, 211, 307, 408, 452
Efrem il Siro 76, 79, 87, 172, 314, 368
De Andia Y. 71 De Francesco I. 172
Ehrhard A. 282 Eichinger M. 73
Delikari A. 298, 304, 317
Elia, profeta 7, 9, 19-20, 29, 36, 38-39, 41-44, 58-60, 70, 73, 78, 79, 85-88, 91, 95, 101-102, 116, 121-123, 125-129, 131-134, 136, 141-145, 149-150, 168-181, 218, 253-254, 260-261, 275, 284, 286-287, 400, 450, 452
Despotis S. 63
Elia Presbitero (Ecdico) 428
Desprez V. 228
Eliade M. 412
Diadoco di Fotica 231, 234, 290, 428, 430
Eliseo Vartapet 78
Dimitreas S. 322
Emilianos di Silyvria 25
Dimitrij di Rostov 113, 115
Englezakis V. 283
Dinkler E. 129, 130
Enrico di Losanna 248
Dionigi l’Areopagita (Pseudo) 99, 222, 288-289, 330, 331, 417, 442
Enrico II, re d’Inghilterra 264
De Lange N. 74, 125 Debora, personaggio biblico 143 Declerck J. H. 229
Doignon J. 191 Dolgorukij J. 165 Dolle R. 139 Dörries H. 81 Dositeo II, patriarca di Gerusalemme 422 Dostoevskij F. M. 160, 391, 412-413, 439-441
518
Epifanio di Salamina 145 Erbetta M. 124, 126 Esichio il Sinaita 231, 313, 326, 428 Esichio Presbitero, v. Esichio il Sinaita Eteria 145 Eusebio di Cesarea 133, 145 Eustochio, monaca 131
Indice dei nomi Eustratiadis S. 282
Gaijc´ G. 17
Eutimio Zigabeno 80
Galavaris G. 178
Eva, personaggio biblico 182
Galla Placidia 136
Evagrio Pontico 99, 225-227, 229, 231, 234, 237, 243, 302, 319-320, 328, 330, 342, 345, 428
Garitte G. 339
Evdokimov P. 337, 342, 445 Everghetinós P. 298 Ezechiele, profeta 38, 141, 227 Falchini C. 263, 267 Farrell B. 27
Gay J. 250 Geremia, profeta 60, 141, 408 Germano di Costantinopoli 443 Gezabele, personaggio biblico 91 Giacobbe, personaggio biblico 90, 132, 266, 452
Féraudy R. de 102, 123
Giacomo, apostolo 5, 7, 23, 35-36, 41, 51, 55-60, 69, 79, 81-82, 84, 98-99, 115-116, 121, 125, 128, 133, 142, 188, 253, 257, 258, 401, 448-449
Festugière A.-J. 314, 315
Giairo, personaggio biblico 36
Fiey J. M. 202
Ginkel J. J. van 202
Figueras P. 102, 148
Giordano, corrispondente di Giovanni di Damasco 202
Filagato di Cerami 79
Giorgio di Pelagonia 304, 307-310
Filaret Drozdov, metropolita di Mosca 113
Giosuè, personaggio biblico 286
Fearns J. V. 249
Filoteo Kokkinos 301, 311-318
Giovanni, apostolo 5, 7, 8, 23, 35-36, 41, 55, 58, 59-60, 69, 72, 79, 81-82, 84, 88, 93, 98-99, 115-116, 121, 124-125, 128, 130, 133, 142, 146, 188, 217, 253, 257-258, 448-451
Florenskij P. 117, 118, 391
Giovanni, diacono 141
Flusin B. 89
Giovanni XXIII, papa 32
Forsyth G. H. 102, 140
Giovanni Alessandro, zar bulgaro 172, 406
Francesco d’Assisi 427
Giovanni Battista 39, 42, 86, 141-142, 409
Filone di Alessandria 222 Filoteo 428
Frankenberg W. 226 Friedman Y. 249 Fyrigos A. 309 Gabelic´ S. 171, 174 Gabriele, arcangelo 180-181
Giovanni Cassiano 31, 82, 92, 428 Giovanni Climaco 231, 294, 312, 347, 362, 372, 400, 430, 432 Giovanni Crisostomo 70-71, 75, 77, 84-87, 172, 256, 257, 260, 282, 368, 370, 408, 441
519
Indice dei nomi Giovanni di Dalyata 229, 230 Giovanni di Damasco 8, 58, 70, 71, 77-78, 89, 93, 103, 155, 159, 199-216, 282, 309, 368, 370, 400, 422, 443, 445 Giovanni di Tebe 225 Giovanni XIV Kalekas, patriarca di Costantinopoli 309 Giovanni l’Elemosinario 282 Giovanni Odznetsi 88 Giovanni Paleologo, marito di Irene Cumnena 97 Giovanni Paolo II, papa 27 Giovanni Thekaras 290 Girolamo 76, 129, 131, 145, 190, 249, 255, 260, 261
Gregorio il Sinaita 8, 71, 81, 224, 277-291, 294-295, 300-304, 310-311, 314, 318-326, 329-333, 404, 406-407, 459, 460 Gregorio il Teologo, v. Gregorio di Nazianzo Gregorio Magno 249, 255, 260, 266, 297, 299 Gregorio Palamas 12, 20, 70, 71, 75, 79, 93, 156, 224, 262, 288, 293-333, 370, 371, 400, 404, 418, 422-424, 427, 430, 431, 436, 442 Grekov A. P. 167 Grigorie Dascalul ˘ 410 Grillmeier A. 193 Groza P. 426 Guglielmo il Pio 245
Giuda Iscariota 116
Guibert J. de 413
Giuseppe Hazzaya 229
Guigo I il certosino 264
Giuseppe Kalothetos 309
Guigo II il certosino 8, 263-276, 457, 459
Giustiniano, imperatore bizantino 134, 140-141
Guillaumont A. 224, 225
Giustino 124, 195
Guillou A. 89, 90, 140, 147
Gladkov B. I. 112
Gurevi™ A. L. 372
Golitzin A. 82, 315
Guseva E. K. 178
Golubeva I. B. 170
Hage W. 202
Gorainoff I. 156, 337
Hagemeister M. 342
Gorstka A. N. 177
Halkin F. 70, 320, 321, 322, 406
Gregorio Acindino 309, 319, 324-325, 327, 328, 331
Harl M. 74, 75, 125
Gregorio di Nazianzo 7, 74, 103, 149, 203, 217-218, 220-223, 259, 260, 322, 371, 408, 442, 459
Hartmann H. 430 Hausherr I. 295, 302, 310, 326, 336, 414 Heid S. 129
Gregorio di Nissa 93, 94, 196, 222, 289
Heidegger M. 430
Gregorio il Decapolita 408, 409
Heil J. P. 33
520
Indice dei nomi Heiler F. 413
Iov di Po™aev 22
Henkel J. 429, 431
Iovleva L. I. 169
Henriet P. 248
Ippolito di Roma 195
Hermann 248
Irene-Eulogia Cumnena 324, 327-331
Herrmann F. 202
Ireneo di Lione 124, 193, 194-196, 213
Heyer F. 202
Irinarh Roset, monaco 410
Hinrichs J. C. 306
Isacco di Ninive 229-231, 234, 237, 239, 243, 322, 372, 376, 392, 428
Hisamatsu E. 295, 314, 322, 326, 328, 332, 333
Isaia, profeta 38, 43, 141
Hoffscholte L. 171
Iustin (Popovi™), monaco 14
Holl K. 306
Izmajlova T. A. 173
Hombergen D. 436
Janin R. 165
Horty M. 425
Jones C. 295
Hovorun S. 8
Junod E. 72
Hubaut M. 255
Kaestli J. D. 72
Husson P. 36 Ica˘ I. I. jr. 406, 407, 410, 411, 436
Kallistos Ware 6, 8, 11, 295, 314, 320, 321, 322, 329, 373, 460
Ieni G. 173
Kapioldassi-Soteropoulou Ch. 178
Ignazio di Antiochia 195
Karaisaridis K. 6, 50
Ignazio Xanthopoulos 291, 309
Kargalova T. A. 176
Ilario di Poitiers 191, 192-193, 197, 249, 255
Kartsonis A. 147
Ilarion Alfeev 8, 303, 312, 313, 315, 316, 326
Kirschbaum E. 171
Ilarion Troickij 108, 109, 460 Ioann di Kronstadt 113, 118 Ioannidis Ph. 6, 246 Ioannis Zizioulas, metropolita di Pergamo 155, 398
Kasper W. 6
Kitzinger E. 137, 142 Kjellin H. 177 Knight G. 247, 248 Koder J. 222, 235, 236, 302, 313, 314 Kohnle A. 246
Ioasaf 204-205
Koma∫ko N. I. 177
Iogna-Prat D. 252
Kontouglou F. 122-123
Ionescu N. 410, 412
Kotter B. 93, 200, 208, 445
521
Indice dei nomi Kritzeck J. 247, 248, 249
Louth A. 190, 200, 208
Krivochéine B. 233, 303, 304, 306, 313, 316
Lovato M. F. 231, 294, 302, 321, 326, 406
Krüger P. 202
Lozinskij M. 351, 353
Ladaria L. F. 193
Luca, evangelista 36, 37, 73, 111, 141, 254, 255, 256, 450
Lampe G. W. H. 91 Lampropoulos B. 322 Lanne E. 298 Laurent V. 329-330 Laurina V. K. 176
Lucchesi Palli E. 171 Macario di Corinto 411 Macario Choumnos 283 Macario l’Egiziano 22, 81, 326, 351
Lazzaro, personaggio biblico 448
Macario l’Egiziano (Pseudo) 81, 99, 227-228, 231, 239, 242-243, 290, 314, 333
Lazzeri V. 225
Madey J. 202
Lebedeva E. 106
Makarij, archimandrita 176
Leclercq J. 246, 248, 251
Mainardi A. 337, 373, 410
Le Déaut R. 39
Malachia, profeta 146
Leloir L. 78, 172
Maraval P. 78, 128
Léon-Dufour X. 33
Marcel G. 440
Leone Magno 31, 48, 70, 138, 139, 185, 186-197, 249, 252, 255
Marcella, monaca 131
Lazarev V. N. 167
Leonid di Optina 349 Leonzio di Costantinopoli 76 Leskov N. 110
Marcello di Ancira 193 Marchis¸ I. 8 Marcione 254
Licha™ev D. S. 164, 176
Marco, evangelista 36-38, 41, 73, 111, 141, 255-256
Lilla S. 222
Marco l’Asceta 294, 428, 430
Logvinenko V. A. 182
Maréchal J. 413
Longino, monaco 141
Maria Maddalena, personaggio biblico 246
Lopuchin A. P. 112
Mariano B. M. 370
Lossky N. 102
Maritain J. 413
Lossky V. 222, 369, 373, 431
Markina N. D. 176
Louf A. 8
Martino di Tours 248
522
Indice dei nomi Massimiano, vescovo di Ravenna 134
Molac P. 103
Massimo il Confessore 52, 71, 75, 99, 229, 231, 234, 243, 285, 289-290, 321, 367, 400, 409, 428, 430, 436, 437, 442
Molotov V. M. 425
Massimo il Kausokalyba 319, 323, 406
Moraldi L. 72, 443
Mateos J. 52
Morel Ch. 192
Matteo, apostolo 35-38, 42, 111, 255, 256, 306
Moreschini C. 94, 103, 217, 218, 371
Mattia, apostolo 141
Montanari E. 185 Moore V. 178
Morsink S. 177
Melezio, metropolita di Nicopoli 322
Mosè 7, 9, 19-20, 29, 34, 36, 39, 40-44, 58-63, 70, 73, 78, 79, 85-88, 91, 94-95, 101-103, 116-117, 121-122, 126-128, 131-134, 136, 142-146, 149, 150-151, 168-180, 222, 252-253, 260-262, 277, 284-287, 371, 384, 400, 432-433, 450
Melezio il Galesiota 290
Mossay J. 221
Menas, corrispondente di Palamas 231, 309
Motovilov N. 63, 118, 156, 342
Mercier Ch. 194
Munitiz J. A. 93
Mesarites 149
Murre-van den Berg H. L. 202
Messana V. 231, 234
Muyldermans J. 225
Metallinos G. 52
Nadal Cañellas J. 324, 325, 331
Meyendorff J. 309, 325, 329, 424
Nasonov A. N. 164
Michail Luzin 112
Nautin P. 36
Michel I, re di Romania 425-426
Neagoe Basarab 404, 408
Michele, arcangelo 174, 180-181
Neofito il Recluso 81, 283
Migne J.-P. 79, 265
Neri U. 232, 303
Mihalcescu ˘ I. 413
Neufville J. 246
Mihnea il Cattivo 407
Niceforo Callisto Xanthopoulos 322
Mil’™ik M. I. 176
Niceforo Cumno 97
Millet G. 142, 149
Niceforo Gregoras 305
Mir™eva E. 173
Niceforo l’Athonita 290, 293-294, 306-307, 314-318, 321, 327, 329, 332-333
Mauromatis G. 251 McGuckin J. A. 70 Melkisedek, personaggio biblico 96, 145
Mneva N. E. 169, 180
Mpakos E. 58
523
Indice dei nomi Niceta Stethatos 82, 83, 100, 288, 290, 302, 316, 414 Nicodemo l’Aghiorita 62, 411 Nicodim Munteanu, patriarca di Romania 414 Nicola I, imperatore di Russia 349 Nicola Cabasilas 47, 49 Nicolae Alexandru, principe di Valacchia 404 Nifone, ieromonaco antipalamita 309 Nikiphoros (Theotokis) 230 Nikolopoulos P. G. 329 Nikon di Optina 348 Nil Sorskij 278 Nizet J. 245 Nocilli A. G. 47 Noica C. 412 Norden E. 306 Onofrio 282 Orazio 248 Orbe A. 72 Origene 34-37, 41, 70, 72-74, 80, 92, 124, 130, 190, 193, 256, 257, 443
Paolino di Nola 136 Paolo, apostolo 20, 37, 67, 141, 218, 235, 287, 288, 313 Paolo l’Eremita 248 Papadopoulos S. 178 Papastratos D. 172 Paramelle J. 222, 233 Paraschiv T. 414 Parente U. 129 Passarelli G. 177 Pasternak B. 167 Patros Y. 202 Pavle, patriarca di Serbia 17 Pelà M. C. 135, 136 Pelland G. 192 Peretto E. 228 Perrella E. 231, 296, 301, 319 Petrova E. 178 Petrova L. L. 176 Petrova N. V. 176 Phrantzolas K. G. 88 Piattelli A. 127
Otto R. 413
Pichery E. 82
Pacomio il Grande 409
Pick L. K. 248
Paisij Veli™kovskij 278, 403, 409-411, 414, 460
Pani Ermini L. 186
Pietro, apostolo 5, 7, 23, 34-36, 41-43, 55-56, 60, 69, 71-73, 79, 82, 84-86, 90, 92-94, 98-99, 101, 112, 115-116, 121, 126, 128, 130-133, 142, 145, 149, 150-151, 155, 180, 186-189, 191, 242, 252-253, 257, 258, 260-261, 288, 401, 448-451
Pantaleone di Costantinopoli 76
Pietro Diacono 145
Paola, monaca 131
Pietro di Bruys 248
Palmer G. E. H. 320 Pambo, abba 117
524
Indice dei nomi
Pietro di Toledo 248
Rigo A. 8, 71, 79, 97, 278, 280, 282, 283, 286, 288, 290, 295-296, 305, 306, 309, 310, 314, 322, 323, 326, 328, 332
Pietro il Venerabile 6, 245-262, 457
Roberto di Ketton 248
Pietro Moghila, metropolita di Kiev 403
Roberto di Molesmes 247
Pillat I. 412
Rodnikov I. S. 179
Piovano C. 178
Rodolfo di Cluny 246
Pistoia A. 33, 78
Ronchey S. 203
Platon Lev∫in, metropolita di Mosca 113-114
Rossi Taibbi G. 80
Platone 266, 329
Rousseau J.-J. 108
Pokrovskij N. V. 169, 179, 180
RoΔdestvenskaja M. V. 174
Polemis I. 8, 305, 332
Rozemond K. 123, 145, 146, 251
Policarpo di Smirne 195
Rufino di Aquileia 232
Pietro di Damasco 320-321, 428 Pietro di Poitiers 248
Ponzio Pilato 132 Popescu T. M. 419 Popov G. V. 176
Rousseau A. 194, 213
Rut, personaggio biblico 182 Ruusbroec J. van 270
Porfir’ev I. Ja. 174
Saba di Vatopedi 311, 313, 314, 315, 316, 317, 318
Pourat P. 413
Sachot M. 70, 76, 77, 89, 282, 283
Pratesi M. 185
Saenkova E. M. 177
Proclo di Costantinopoli 48, 75, 87
Sagnard F. 72
Puccini S. 185
Salomone, personaggio biblico 408, 452
Pu∫karev V. A. 176
Santaniello G. 136
Pu∫kin A. S. 344
Sara, personaggio biblico 182
Rachele, personaggio biblico 182
Sarab’janov V. D. 166, 170
Ramsey A. M. 26, 33, 185
Saudreau A. 413
Reale G. 266
Savin I. Gh. 427, 429, 430
Rebecca, personaggio biblico 182
Saxer V. 246
Recchia V. 266
Scaltsis P. I. 251
Ribbentrop J. von 425
êennikova L. A. 168, 176
Riggi C. 145
Schendel E. 191, 193
525
Indice dei nomi Schlosser H. 171
Skliris S. 8
Schmemann A. 48
Smirnova E. S. 8, 166, 168, 182
Scholten C. 72
Sofronij (Sacharov) 12, 374, 377, 380, 385, 386, 388, 391, 392-393, 395
Scoto Eriugena 427 êurina E. G. 176 Semoglu A. 171, 173, 177 Seneca 248 Serafim di Sarov 22, 63, 118, 156, 335-345, 383-385, 417
Solignac A. 82 Sophianos D. Z. 323 Sorokin A. V. 6 Sozomeno 126 √pidlík T. 414
Sergio di RadoneΔ 22, 27
Spiridone 408
Sevastiani, igumena 25
Stalin I. 168
√ev™enko I. 324
Staniloae ˘ D. 8, 404, 405, 406, 420-437
Severo di Antiochia 341
Stefano, personaggio biblico 20
Sherrard P. 320
Stefano Duchan, re di Serbia 406
Sieben H.-J. 70
Stefano il Giovane 282
Silvano del Monte Athos 8, 367-398, 459
Stevenson K. 255
Silvano, abba 117
Stichel R. 173
Silva-Tarouca C. 187
Stolfi A. 97, 283, 326
Simedrea T. 406
Stroganov N. G. 178
Simeone il Nuovo Teologo 8, 56, 57, 82, 155, 156, 217-243, 290, 302-307, 311-318, 326, 368, 376, 414, 415, 417, 428, 430, 437
Sykes D. A. 103
Simeone il Nuovo Teologo (Pseudo) 310, 314, 318
Tanquerey A. 413
Simeone Studita 233, 236, 329 Simonetti M. 191, 193 Siniscalco P. 186 Sinkewicz R. E. 81, 283
Talassio 428 Tancredi, principe normanno 251
Tavlakis I. 178 Teilhard de Chardin P. 70 Teodora, moglie di Giustiniano 140 Teodoreto di Cirro 195-197
√irin P. 178
Teodoro Dexios, monaco antipalamita 305, 309
Sisoes, abba 63, 117
Teodoro di Edessa 328, 329, 428
Sisto III, papa 129
Teodoro Metochita 332
526
Indice dei nomi Teodoro Studita 47, 80, 283
Tselenghidis D. 262
Teodosio II, imperatore bizantino 137
Tudor S. 436
Teodosio di Kiev 22
Tuniz D. 245
Teofane, monaco 428
Turner H. J. M. 218
Teofane di Peritheorion 319, 322-323, 406
Tzerpos D. 59
Teofane Kerameus, v. Filagato di Cerami
Ulianich B. 129
Teofane il Recluso 376, 377
Underhill E. 413
Teofilatto di Ocrida 80
Ursicino, vescovo di Ravenna 134
Teognosto 290, 428
Vacondios A. 246
Teolepto di Filadelfia 71, 81, 97-98, 100-101, 283, 291, 322, 326, 328-329, 400
Van den Eynde D.
Tertulliano 249, 254
Van Engen J. 247
Tevel J. M. 76
Van Esbroeck M. 78
Thomas J. 165
Van Parys M. 6, 9
Thomson R. W. 78
Varsonofij di Optina 348
Timoteo di Gerusalemme 76
Vasilescu E. 419
Todic´ B. 181, 182 Tommaso d’Aquino 70 Toniolo E. 94 Torrell J.-P. 246 Travaini L. 137 Trempelas P. 58 Trettel G. 232 Triacca A. M. 33, 78 Trofimova N. N. 175 Truba™eva M. S. 177 Trypanis C. A. 78 Tsamis D. G. 309, 311 Tsampiras P. A. 251, 255, 260
Ugo di Lincoln 246, 265
Van der Meer F. 136
Vasilij Krivo∫ein 368 Veniamin Costachi 410 Viller M. 413 Vintilescu P. 58 Virgilio 248 Vladimir, gran principe di Kiev 164 Vladimirovi™ M. 164 Vogüé A. de 246 Völker W. 303, 306, 314, 316 Voltaire 109 Vorob’ev N. 348 Voronin K. V. 175 Vounitis, parente di Giovanni Kalekas 309
527
Indice dei nomi Vries W. de 202
Zaccaria, padre di Giovanni Battista 409
Wainwright G. 295
Zaccaria, profeta 146, 408
Wannous R. 8
Zaccheo, personaggio biblico 448
Ware K., v. Kallistos Ware
Zav’jakova M. K. 176
Weitzmann K. 102, 140, 142, 178
Zebedeo, personaggio biblico 79
Wickhoff F. 137
Zekiyan B. L. 78, 173
Yarnold E. 295
Zincone S. 84, 257
Zaccaria, papa 297, 299
Zizioulas I., v. Ioannis Zizioulas
528
PARTECIPANTI AL CONVEGNO
✠ Emilianos di Silyvria, Patriarcato di Costantinopoli (Bose – Italia) ✠ Aristarch di Kemerovo, Patriarcato di Mosca (Kemerovo – Russia) ✠ Georges del Monte Libano, Patriarcato di Antiochia (Broummana – Libano) ✠ Kallistos di Diokleia, Patriarcato di Costantinopoli (Oxford – Regno Unito) ✠ Ilarion di Vienna, Patriarcato di Mosca (Wien – Austria) ✠ Timotheos di Vostra, Patriarcato di Gerusalemme (Nicosia – Cipro) ✠ Antony di Boryspil, Chiesa ortodossa ucraina (Kiev – Ucraina) ✠ Serafim di Germania, Chiesa ortodossa romena (Nürnberg – Germania) ✠ Serafim di Bobrujsk, Patriarcato di Mosca (Minsk – Bielorussia) ✠ Achille Silvestrini (Città del Vaticano) ✠ Brian Farrell, segretario del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani (Città del Vaticano) ✠ Gabriele Mana, vescovo di Biella (Biella – Italia) ✠ Arrigo Miglio, vescovo di Ivrea (Ivrea – Italia) ✠ Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea (Albiano d’Ivrea – Italia) ✠ Antonio Mennini, nunzio apostolico presso la Fed. russa (Mosca – Fed. russa) ✠ Massimo Giustetti, vescovo emerito di Biella (Muzzano, Biella – Italia) Milan æust, Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani (Città del Vaticano) Teny Pirri-Simonian, Consiglio ecumenico delle chiese (Ginevra – Svizzera) Gajo Gaijc´, Chiesa ortodossa serba (Belgrado – Serbia) Constantin Preda, Chiesa ortodossa romena (Bucarest – Romania) Vladimir Kirillin, Patriarcato di Mosca (Mosca – Fed. russa) Michail V. Pervushin, Patriarcato di Mosca (Mosca – Fed. russa) Aleksej V. Dolgov, Patriarcato di Mosca (Mosca – Fed. russa) Andrej Romanov, Chiesa ortodossa ucraina (Kiev – Ucraina) Lukas Zakaryan, Chiesa apostolica armena (Etchmiadzin – Armenia)
529
Elenco dei partecipanti Hugh Wybrew, Chiesa d’Inghilterra (Oxford – Regno Unito) Jonathan Goodall, Chiesa d’Inghilterra (Londra – Regno Unito) Settimo Ribotto, sindaco di Magnano (Magnano – Italia) Adalberto Piovano, Monastero SS. Trinità (Dumenza – Italia) Amédée Emaulaz, Monastère Notre-Dame de Tamié (Albertville – Francia) Amvrosios (Sioros), Iera Moni Prophitis Ilias (Preveza – Grecia) Ana (Zbarcea), Martirii Neamului Muncel (Romania)-Monastero di San Cipriano (Trieste – Italia) André Louf, Monastère de Sainte Lioba (Simiane Collongue – Francia) Antoine Lambrechts, Monastère de l’Exaltation de la Sainte Croix (Chevetogne – Belgio) Antonio Ava Shenuti, Monastero Amba Shenuda (Lacchiarella, Milano – Italia) Arsenij (Sokolov), Patriarcato di Mosca (Lisbona – Portogallo) Atanasia (Olinici), Mânâstirea Copou (Ias¸i – Romania) Athenagoras Fasiolo, Arcidiocesi ortodossa d’Italia e Malta (Udine – Italia) Cesare Falletti, Monastero Dominus Tecum (Pra’d Mill – Italia) Christonimfi (Manolaki), Iera Moni ton Apostolon (Karditsa – Grecia) Chrysanthos Papapostolou, Iera Moni Asomaton Petraki (Atene – Grecia) Claude Defosse, Monastère Saint Remacle (Wavreumont, Stavelot – Belgio) Daniela Magnan, Monastero S. Maria (Poffabro, Pordenone – Italia) Dimitra (Waechter), Iera Moni ton Apostolon (Karditsa – Grecia) Ekaterina (Sokolova), Iera Moni ton Apostolon (Karditsa – Grecia) Enzo Bianchi, Monastero di Bose (Bose – Italia) Evfimij (Moiseev), Accademia della Lavra della Trinità di San Sergio (Sergiev Posad – Fed. russa) Fevronia (Petan™i™), Iera Moni ton Apostolon (Karditsa – Grecia) François Dehotte, Monastère St. Remacle (Wavreumont – Belgio) Gigliola Zaghetto, Monastero S. Maria (Poffabro, Pordenone – Italia) Grégoire Maertens, Monastère St. André de Clerlande (Ottignies – Belgio) Grigorios, Monastero di Santa Caterina (Il Cairo – Egitto) Hervé Legrand, Padri domenicani (Parigi – Francia) Iakovos (Bizaourtis), Iera Moni Asomaton Petraki (Atene – Grecia) Ignatia (Leru), Mânâstirea Copou (Ias¸i – Romania) Kleopas (Petritis), Monastero di Petras (Karditsa – Grecia) Luc Bourgoin, Communauté de Taizé (Taizé – Francia) Maria Pizzol, Monastero della Trasfigurazione e di S. Barbara (Montaner di Sarmede, Treviso – Italia) Maristella Marchesin, Monastero S. Maria (Poffabro, Pordenone – Italia)
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Elenco dei partecipanti Marita Mantovani, Monastero di Nostra Signora Fonte della pace (Aleppo – Siria) Marja Magdalena (Vrânceanu), Mânâstirea Copou (Ias¸i – Romania) Melchisedek (Pleska), Monastero di Petras (Karditsa – Grecia) Melchisedek (Törönen), Monastero Stavropegico di San Giovanni Battista (Maldon – Regno Unito) Michel Van Parys, Monastère de l’Exaltation de la Sainte Croix (Chevetogne, Namur – Belgio) Minke de Vries, Communauté de Grandchamp (Areuse – Svizzera) Mitrofan (Badanin), Varzuga (Murmansk – Fed. russa) Mykola (Makar), Chiesa ortodossa ucraina (Milano – Italia) Nicolas Molinier, Monastère St. Antoine - Font de Laval (St. Laurent-en-Royans – Francia) Nikon (Koutsidis), Iera Moni Prophitis Ilias (Preveza – Grecia) Petruta (Banciu), Monastero di San Cipriano (Trieste – Italia) Roberto Loi, Monastero SS. Trinità (Dumenza, Varese – Italia) Sevastiani (Apostolaki), Monastero della Trasfigurazione e di S. Barbara (Montaner di Sarmede, Treviso – Italia) Simeon Durasov (Mosca – Fed. russa) Vasilije (Grolimund), Serbisch-Orth. Skite S. Spyridon (Geilnau – Germania) Vera (Klun), Monastero di San Cipriano (Trieste – Italia) Yvan de Carheil, Abbaye de la Pierre-qui-vire (St. Leger-Vauban – Francia) Adami Luigi (Colognola ai Colli, Verona – Italia) Agosta Cesare (Bisegna, L’Aquila – Italia) Amista Liliana (Mantova – Italia) Andritsaki Aikaterini (Dhaka – Bangladesh) Bagration-Muchraneli Irina (Mosca – Fed. russa) Bartholdi Irene (Nyon – Svizzera) Bartholdi Paul (Nyon – Svizzera) Bertash Alexander (San Pietroburgo – Fed. russa) Bielikov Vitalij (Poltava – Ucraina) Bogatyrev Alexander (San Pietroburgo – Fed. russa) Bolshakova Natalia (Riga – Lettonia) Brusegan Giovanni (Padova – Italia) Bugada Martina (Mantova – Italia) Callegati Maria Maddalena (Crevalcore, Bologna – Italia) Callot Antoine (St. Didier-au-Mont d’Or – Francia) Casarotti Tassan Anna Maria (Mantova – Italia) Caspani Luigi (Costa Masnaga, Lecco – Italia)
531
Elenco dei partecipanti Ωesnokov Aleksej (San Rogue Cadiz – Spagna) Charalampidis Konstantinos (Tessalonica – Grecia) Charalampidis Zoé (Tessalonica – Grecia) ChoruΔij Sergej S. (Mosca – Fed. russa) Cini Umberto (Roma – Italia) Colonna Jacques (Biguglia – Francia) Conti Valentina (Muzzano, Biella – Italia) Courban Antoine (Beyrut – Libano) Dagnino Angelo (Genova – Italia) Damayanova Ekaterina (Sofia – Bulgaria) De Lajarte Nathalie (Paris – Francia) Dibo Amal (Beyrut – Libano) Dimitrov Dimitar (Sofia – Bulgaria) Faltas Joseph (Il Cairo – Egitto) Fanelli Marco (Torino – Italia) Farinella Tiziana (Lessolo, Torino – Italia) Fast Gennadij (Krasnojarskij krai – Fed. russa) Folias Nikolaos (Nikaia – Grecia) Gabutti Paola (Piacenza – Italia) Gagna Gian Maria (Brusnengo, Biella – Italia) Gambardella Bruna (Saviano, Napoli – Italia) Gasak Dmitry (Mosca – Fed. russa) Genoni Gianfranco (Milano – Italia) Gilardino Lia (Milano – Italia) Gottardi Giovanni (Verona – Italia) Grappoli Graziana (Muzzano, Biella – Italia) Gueit Anne Marie (Bouc Bel Air – Francia) Gueit Jean (Bouc Bel Air – Francia) Hämmerli Pascal (St.-Blaise – Svizzera) Hovorun Serhij (Kiev – Ucraina) Ioannidis Photios (Tessalonica – Grecia) Ivanov Emil Andreev (Sofia – Bulgaria) Jazykova Irina (Mosca – Fed. russa) Jung André (Ginevra – Svizzera) Kalaitzidis Pantelis (Volos – Grecia) Karaisaridis Konstantinos (Atene – Grecia) Kasimova-Zouchra Aikaterini (Atene – Grecia) Kirillin Vladimir (Mosca – Fed. russa)
532
Elenco dei partecipanti Kiselev Gennadij (Mosca – Fed. russa) Kontoyannis Spyridon (Atene – Grecia) Korotkoff Elie (Caen – Francia) Korotkoff Nathalie (Caen – Francia) Kraichev Todor (Sofia – Bulgaria) Krasikov Anatolij (Mosca – Fed. russa) Kuczynska Marzanna (Szczecin – Polonia) Lavoyer Matthieu (Peseux – Svizzera) Malavolti Gianni (Modena – Italia) Malescu Coulpas Nicolette (Torino – Italia) Martinelli Alessandro (Trento – Italia) Massa Cesare (Vercelli – Italia) Merlo Simona (Genova – Italia) Mihaylov Vihren (Sofia – Bulgaria) Min™enko Vasilijs (Riga – Lettonia) Minor Roland (Orleans, ma – Stati Uniti) Misser Françoise (Bailleul – Francia) Misser Joan (Bailleul – Francia) Misurev Nikolaj (Sergiev Posad – Fed. russa) Moore Chrales Edward (Orleans, ma – Stati Uniti) Morbioli Piergiorgio (Custoza, Verona – Italia) Moretti Marina (Sanremo, Imperia – Italia) Naumow Aleksander (Venezia – Italia) Nseir Najwa (Beirut – Libano) Pandele Gabriel (Galati – Romania) Papagheorghiou Photios (Atene – Grecia) Peng-Keller Simon (Zurigo – Svizzera) Pentzikis Gavriil (Tessalonica – Grecia) Polemis Ioannis (Atene – Grecia) Prochorov Gelian (San Pietroburgo – Fed. russa) Ratner Liliya (Mosca – Fed. russa) Ribolov Svetoslav (Sofia – Bulgaria) Rigo Antonio (Venezia – Italia) Roccucci Adriano (Roma – Italia) Rossi Mariella (Somma Lombardo, Varese – Italia) Rosso Stefano (Torino – Italia) Sacchelli Sergio (Cutigliano, Potenza – Italia) Sangiorgi M. Cecilia (Milano – Italia)
533
Elenco dei partecipanti Santomiero Chiara (Roma – Italia) Saveljev Vladimir (Kiev – Ucraina) Scaglioni Vittoria (Novara – Italia) Scarpa Marco (Venezia – Italia) Senyk Sofia (Roma – Italia) Sheko Ekaterina (Mosca – Fed. russa) Sigov Konstantin (Kiev – Ucraina) Skliris Marina (Atene – Grecia) Skliris Stamatis (Atene – Grecia) Smirnova Engelina S. (Mosca – Fed. russa) Smytsunyuk Pavlo (Aghia Varvara – Grecia) Sorokin Aleksandr V. (San Pietroburgo – Fed. russa) Stanimirova Rossitza (Sofia – Bulgaria) Strazzabosco Marco (Selvazzano, Padova – Italia) Toucas-Bouteau Michèle (St. Jean d’Angely – Francia) Tsimouris Spiridon (Holargos – Grecia) Turner John (Frinton-on-Sea – Regno Unito) Valzania Sergio (Roma – Italia) Van Ael Joris (Gent – Belgio) Vasilescu Gheorghe (Torino – Italia) Vassilopoulos Anastasios (Koridallos – Grecia) Velikanov Pavel (Sergiev Posad – Fed. russa) Von Allmen Marc-André (Uster – Svizzera) Wannous Ramy (Balamand – Libano) Worontzoff Anne (Firenze – Italia) Yaremtso Sergij (Atene – Grecia) Zanatta Alfonsina (Vercelli – Italia) Zivny Petr (Milano – Italia) Zuddas Paola (Selvazzano, Padova – Italia)
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INDICE
5 11 14 16 17 18 20 22 24 26 27
29 31 32
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PREFAZIONE Messaggio del Patriarca ecumenico, Bartholomeos I Messaggio del Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, Aleksij II Messaggio del Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di stato Messaggio del Patriarca della Chiesa serba, Pavle Messaggio del Patriarca della Chiesa ortodossa romena, Daniel Messaggio dell’Arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia, Christodoulos Messaggio del Metropolita di Kiev e di tutta l’Ucraina, Volodymyr Messaggio dell’Arcivescovo ortodosso d’Italia e di Malta, Ghennadios Messaggio dell’Arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams Messaggio del Cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani Messaggio del reverendo Samuel Kobia, Segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese Saluto del Cardinale Achille Silvestrini Saluto di monsignor Antonio Mennini, rappresentante della santa Sede presso la Federazione russa
L’EVANGELO DELLA TRASFIGURAZIONE: ESEGESI BIBLICO-SPIRITUALE Enzo Bianchi
535
47
LA TRASFIGURAZIONE DEL SALVATORE NELLA LITURGIA E NELL’INNOGRAFIA BIZANTINA Konstantinos Karaisaridis
69
DALL’OREB AL TABOR: IL CRISTO TRASFIGURATO NELLE OMELIE BIZANTINE Michel Van Parys
105
LA TRASFIGURAZIONE NELLA TRADIZIONE OMILETICA ED ESEGETICA RUSSA Aleksandr V. Sorokin
121
L’ICONOGRAFIA ANTICA DELLA TRASFIGURAZIONE Raffaela D’Este
153
LA LUCE DELLA TRASFIGURAZIONE NELL’ICONOGRAFIA ORTODOSSA Stamatis Skliris
163
L’ICONOGRAFIA RUSSA DELLA TRASFIGURAZIONE. ALCUNE PARTICOLARITÀ Engelina S. Smirnova
185
IL SERMONE DI LEONE MAGNO SULLA TRASFIGURAZIONE Elena Cavalcanti
199
LA TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE GESÙ CRISTO SECONDO GIOVANNI DI DAMASCO Ramy Wannous
217
IL TEMA DELLA LUCE DIVINA IN SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO Ilarion Alfeev
245
LA TRASFIGURAZIONE IN PIETRO IL VENERABILE Photios Ioannidis
263
LA TRASFIGURAZIONE NELLA “SCALA DEI MONACI” DI GUIGO II IL CERTOSINO André Louf
536
277
LA TRASFIGURAZIONE DI CRISTO SUL MONTE TABOR NELLE OPERE DI GREGORIO IL SINAITA Antonio Rigo
293
GREGORIO PALAMAS E LA SPIRITUALITÀ ATHONITA DELL’EPOCA: ESPERIENZE SOPRANNATURALI E LORO CONTESTO Ioannis Polemis
335
SERAFIM DI SAROV E ANTONIO IL GRANDE. TRASFIGURAZIONE DI EPOCHE, CULTURE, ANIME Serhij Hovorun
347
TRASFIGURAZIONE E MONACHESIMO NELL’INSEGNAMENTO DI IGNATIJ BRIANΩANINOV Serafim BelonoΔko
367
L’ESPERIENZA DELLA TRASFIGURAZIONE IN SILVANO DEL MONTE ATHOS Sergej S. ChoruΔij
399
LA TRASFIGURAZIONE NELL’ORTODOSSIA ROMENA TRA MISTICA E STORIA Iustin Marchis¸
439
LA TRASFIGURAZIONE DI CRISTO E LA SOFFERENZA DEL MONDO Kallistos Ware
457
CONCLUSIONI
461
ILLUSTRAZIONI
513
SIGLE
515
INDICE DEI NOMI
529
PARTECIPANTI AL CONVEGNO
537