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Italian Pages 221 [121] Year 2011
EMANUELA FOGLIADINI
IL VOLTO DI CRISTO Gli Acheropiti del Salvatore nella Tradizione dell)Oriente cristiano
Presentazione di Piergiuseppe Bernardi
di fronte e attraverso
JacaBook
IL VOLTO DI CRISTO Gli Acheropiti del Salvatore nella Tradizione dell'Oriente cristiano Cristo lasciò personalmente e direttamente i tratti del proprio volto impressi su un panno. È questo l'affascinante e misterioso inizio che accomuna le icone Acheropite di Cristo. Immagini «non fatte da mano d'uomo», pressoché sconosciute al mondo occidentale, rappresentano invece il fondamento della ritrattistica dell'Oriente cristiano per quanto riguarda il volto di Gesù. Icone straordinarie che fondano la teologia e la storia dell'arte o piuttosto immagini inventate dalla Chiesa per legittimare il culto delle rappresentazioni sacre in un'epoca di violenti dibattiti come fu quella delle lotte iconoclaste? Il libro di Emanuela Fogliadini indaga intorno a queste fondamentali questioni, con uno studio completo sugli Acheropiti di Cristo, di cui nessuno si era più fatto carico, in modo così sistematico, da oltre un secolo, dopo il monumentale lavoro di Ernst von Dobschiitz. Una rigorosa analisi dei fondamenti teologici, accompagnata da un viaggio entusiasmante tra le awenture e i misteriosi intrecci di cui furono protagortiste queste sorprendenti icone, offre un quadro dettagliato sul tema e restituisce agli Acheropiti di Cristo il fondamento teologico-dogmatico di cui godono nell'ambito del cristianesimo ortodosso. Dalle pagine emerge il confronto tra le prospettive teologiche e artistiche di Oriente ed Occidente sugli Acheropiti di Cristo e, più in generale, sulle icone e la teologia tutta.
EMANUELA FOGLIADINI ha conseguito la Licenza in Teologia presso la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale di Milano, dove è attualmente impegnata in un Dottorato di Ricerca in Storia della Teologia dell'Oriente cristiano. È docente all'Istituto Superiore di Scienze Religiose di Milano, alla Facoltà Teologica dell'Emilia Romagna di Bologna e alla Scuola Iconografica di Seriate.
€ 24,00
Emanuela Fogliadini
IL VOLTO DI CRISTO GLI ACHEROPITI DEL SALVATORE NELLA TRADIZIONE DELL'ORIENTE CRISTIANO
Presentazione di Piergiuseppe Bernardi
Il Jaca Book Il
©2011 Editoriale Jaca Book Spa, Milano tutti i diritti riservati
INDICE
Prima edizione italiana aprile 2011
In copertina Dittico del Sinai: particolare del re Abgar con il Mandylion, X secolo, monastero di Santa Caterina del Sinai, Egitto
Presentazione, di Piergiuseppe Bernardi Introduzione
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Parte prima LE ICONE ACHEROPITE DI CRISTO E LA LORO DIMENSIONE TEOLOGICA
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Capitolo primo IL TRATTO CRISTOLOGICO DELL'ICONA NELLA TRADIZIONE DELL'ORIENTE CRISTIANO
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1. 2. 3. 4.
Redazione e impaginazione Gioanola Elisabetta, San Salvatore Monferrato (Al) Stampa e confezione Grafiche Flaminia, Foligno (Pg) marzo 2011
Il ruolo dell'icona nella Tradizione dell'Oriente cristiano Il concilio Quinisesto e la prima fase iconoclasta La teologia iconoclasta di Costantino v e il concilio di Hieria Il concilio di Nicea II come fondamento del carattere teologico-dogmatico dell'icona 5. Il rapporto immagine-prototipo come nucleo del carattere teologico-dogmatico dell'icona 6. L'implicazione liturgico-rivelativa del tratto teologico-dogmatico dell'icona 7. L'icona di Cristo come prototipo di ogni altra icona Capitolo secondo GLI ACHEROPITI
ISBN 978-88-16-40992-7 Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma ci si può rivolgere a Editoriale Jaca Book SpA - Servizio Lettori via Prua 11, 20146 Milano, tel. 02/48561520-29, fax 02/48193361 e-mail: [email protected]; internet: www.jacabook.it
1. 2. 3. 4. 5.
Gli Acheropiti: definizione preliminare L'antecedente pagano degli Acheropiti Il prendere forma degli Acheropiti nel contesto cristiano primitivo La figura di Cristo come soggetto degli Acheropiti Il carattere plurale degli Acheropiti
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31 37 40 44
47 47 51 56 61 65
Indice
Indice Capitolo terzo LA DECISIVITÀ DEL VOLTO E DELLO SGUARDO NELLA TRADIZIONE ICONOGRAFICA DELL'ORIENTE CRISTIANO 1. Il volto e lo sguardo nella riflessione neotestamentaria
4. L'immagine di Cristo di Edessa tra storia e leggenda: dal periodo edesseno alla scomparsa a Costantinopoli
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5. La venerazione liturgica dell'immagine di Cristo di Edessa 6. Descrizione artistica dell'immagine di Cristo di Edessa
148 152 156
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2. La ripresa teologica del volto e dello sguardo nella Tradizione 3. 4. 5. 6. 7. 8.
dell'Oriente cristiano Volto e sguardo come eiementi centrali dell'arte dell'icona Il volto e lo sguardo di Dio nel volto e nello sguardo di Cristo Il «Santo Volto» come Volto dei volti La replicabilità iconica delle immagini Acheropite Il tratto miracoloso delle immagini Acheropite Il tratto miracoloso delle immagini Acheropite verso l'enfatizzazione
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Parte seconda LE ICONE ACHEROPITE DI CRISTO NELLA TRADIZIONE DELL'ORIENTE CRISTIANO
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Capitolo primo LE ICONE ACHEROPITE DI CRISTO: INQUADRAMENTO COMPLESSIVO
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1. Gli.Acheropiti di Cristo tra attestazione e leggenda 2. L'attestazione patristica di un'esistenza effettiva degli Acheropiti di Cristo nella prima ondata iconoclasta 3. La posizione iconoclasta sugli Acheropiti e gli Acheropiti perduti 4. La replica iconodula sugli Acheropiti 5. La graduale assunzione da parte degli Acheropiti di una valenza liturgica Capitolo secondo LA CAMULIANA 1. Le attestazioni storico-patristiche 2. La riproduzione iconica della Camuliana 3. Vicende storiche di una dissoluzione Capitolo terzo L'IMMAGINE DI CRISTO DI EDESSA 1. La corrispondenza tra Gesù e Abgar come nucleo iniziale del racconto
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Capitolo primo LA VENERAZIONE DEL SANTO VOLTO «DELLA VERONICA» IN OCCIDENTE
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1. La statua di Paneas: il retroterra orientale della leggenda occidentale del Sacro Volto «della Veronica» 2. Il corpo d~lla leggenda: la Cura Sanitatis Tiberii e la Vindicta Salvatoris 3. L'icona romana «della Veronica» 4. La devozione dei Papi verso i «Santi Volti» 5. Le immagini riprodotte del Volto «della Veronica» in Occidente 6. Sguardo sintetico sulla venerazione del Volto di Cristo «della Veronica» Capitolo secondo LA DIFFUSIONE DELLA VENERAZIONE DEI «SANTI VOLTI» IN OCCIDENTE
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Parte terza L'ATTENZIONE DELL'OCCIDENTE ALLE ICONE ACHEROPITE DI CRISTO NELLA VENERAZIONE DEI «SANTI VOLTI»
dall'origine soprannaturale al prodigioso ritrovamento
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1. I Santi Volti come immagini bizantine oggetto di venerazione in Occidente 2. Il Santo Volto di Laon 3. Il Santo Volto di Genova 4. Il Santo Volto di Manoppello
191 194 198 202
RIPRESA TEOLOGICA CONCLUSIVA DEL TEMA TRATTATO
207
125 125 129 131
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Bibliografia
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Indice dei nomi
218
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2. La complessa vicenda dell'immagine di Cristo di Edessa: 3. La comparsa dell'icona di Cristo di Edessa nelle fonti apocrife e patristiche: la Dottrina di Addai e gli Atti di Taddeo
163 167 171 175 183 186
140 144 7
PRESENTAZIONE
La parola eLx.cbv, nella Tradizione dell'Oriente cristiano, identifica un'immagine sacra connotata da una particolarità che la rende irriducibile alle opere d'arte sacra figurativa messa a punto dall'Occidente cristiano: il suo rendere cioè effettivamente presente, seppure in modo misterioso, colui che nell'immagine sacra viene rappresentato. Perché ciò accada tuttavia è necessario che l'iconografo si muova nella prospettiva di un «doppio realismo»: l'immagine che egli creerà infatti per un verso dovrà rappresentare fedelmente la fisionomia storico-concreta del rappresentato e per l'altro evidenziare l'appartenenza di questa stessa figura, sia pure nella specifica forma di volta in volta pertinente ad essa, alla sfera del divino. Solo così infatti l'eLx.cbv, destinandosi ad assumere un ruolo decisivo nella divinizzazione di ogni uomo a partire dall' hic et nunc della sua specifica storia, potrà dawero adempiere al suo compito di fungere da effettivo tramite liturgico fra l'eternità e il tempo. Il primo aspetto di questo «doppio realismo», strutturalmente implicito all'eLx.cbv, ci aiuta a comprendere la ragione profonda della preoccupazione degli iconografi a che non vada mai completamente perduta, nel realizzare un'icona, la somiglianza effettiva tra l'immagine e il prototipo da essa rappresentato: laddove infatti questa somiglianza dovesse dissolversi del tutto si assisterebbe di fatto al venir meno di quel legame ontologico tra prototipo e immagine che dell'icona costituisce la stessa essenza. Solo nel permanere di questa somiglianza, invece, al fedele che venera l'icona è consentito di stabilire un rapporto autentico con colui che vi è rappresentato e di essere investito dall'energia deificante che attraverso l'icona misteriosamente fluisce dall'eternità nel dominio della spazio-temporalità umana. Soltanto tenendo ben presente la decisività, che nell'eLx.cbv viene ad assumere la somiglianza tra il prototipo e l'immagine, diverrà comprensibile la naturalezza con la quale l'Oriente cristiano considera parte della sua Tradizione, 9
Presentazione
Presentazione
ancorandola allo stesso Logos incarnato, l'immagine di Cristo «non fatta da mano d'uomo» (ÙXElQOJtOl~tOç). Nell'orizzonte dell'Ortodossia infatti, che in questo ripercorre il solco tracciato da Giovanni Damasceno nelle sue Orazioni in dz/esa delle immagini sacre, non risulta per nulla strano che il Verbo di Dio, divenuto visibile grazie all'incarnazione, non si limiti ad attestare il suo essersi fatto uomo attraverso la parola testimoniale degli Evangelisti, ma integri invece questa stessa attestazione anche su un piano visivo. Non dovrà dunque stupire il fatto che l'Ortodossia accolga nella sua Tradizione alcune immagini ritenute non «fatte da mano d'uomo», bensì misteriosamente impresse da Cristo stesso, sia prima che dopo la Pasqua, su pezzi di tessuto divenuti occasionali supporti alla sua stessa immagine e trasformatisi da subito negli imprescindibili modelli di un susseguirsi secolare di icone che, pur rispecchiando le diverse epoche che le hanno riprodotte e in assenza degli stessi originali aridati col tempo perduti, ha tuttavia inteso perdurare nella fedeltà a questi ultimi per oltre due millenni. Lo sguardo dell'Occidente su queste immagini Acheropite di Cristo ha trovato la sua espressione più compiuta in E. von Dobschiitz, teologo liberale che, a cavallo tra '800 e '900, ha praticamente dedicato la sua vita a raccogliere e catalogare con attenzione tutti i testi antichi relativi a queste particolarissime immagini, tracciandone in parallelo un disegno complessivo destinato a rappresentare ancora a lungo un punto di riferimento imprescindibile per chi decide di accostare questa tematica. Il limite della sua preziosa opera tuttavia, al di là dell'assenza di alcuni testi ritrovati in seguito e del tutto integrabili nella sua prospettiva, appare quello di guardare a queste immagini in un'ottica tutta «occidentale», peraltro segnata dal forte sospetto che nei confronti dell'immagine il protestantesimo, seppure non in modo del tutto unanime, ha sollevato. in una forma gradualmente tesa a consolidarsi. L'esito della ricerca di E. von Dobschiitz è dunque una riduzione delle immagini Acheropite di Cristo a semplice leggenda insorta nel VI secolo e successivamente venuta ampliandosi con un tale vigore da essere recepita, dopo le lotte iconoclaste, addirittura nell'impianto dogmatico ecclesiale elaborato dal secondo concilio di Nicea. A farne le spese, in questa lettura, sembra dunque essere proprio lo sguardo dell'Oriente cristiano su queste singolari icone: E. von Dobschiitz infatti, se comprensibilmente tende a liquidare le immagini Acheropite di Cristo come frutto di più o meno strategiche leggende, molto meno comprensibilmente sembra invece sottovalutarne la portata effettiva che sul piano dogmatico esse vengono a rivestire nel tessuto ecclesiale dell'Ortodossia. La prospettiva di E. von Dobschiitz tenderà col tempo a trasformarsi in una sorta di koinè su cui si baseranno, assumendola come fondamento indiscusso di ogni possibile riflessione sulle immagini di Cristo «non fatte da mano d'uomo», tutti coloro che in Occìdente si interesseranno ad essa: teologi e storici dell' arte, studiosi di estetica e cultori di iconologia finiranno dunqùe col muoversi
rigorosamente nella scia dell'ermeneutica avanzata dal teologo liberale tedesco, senza mai metterne in discussione il presupposto di fondo e senza mai tentare una riconsiderazione di queste particolarissime icone nella prospettiva assunta a loro riguardo dall'Oriente cristiano. Non sono certo mancate in merito sollecitazioni e stimoli da parte soprattutto di teologi appartenenti ·all'Ortodossia. Tuttavia il carattere episodico dei loro interventi in merito a questa tematica, oltre che la loro stessa collocazione confessionale, ha impedito che l'Occidente prendesse finalmente e adeguatamente sul serio le istanze da loro avanzate. Le immagini Acheropite di Cristo si sono così viste trasformate in Occidente in una sorta di sottoprodotto del cristianesimo precedente alle lotte iconoclaste, senza mai essere invece «pensate» come elementi portanti di quell'iconografia che dall'Oriente cristiano è considerata come parte viva della Tradizione ecclesiale. Restituire le immagini Acheropite di Cristo all'orizzonte teologico-dogmatico che ne ha determinato l'insorgere, e che ne ha sostenuto il progressivo «inculturarsi» nella storia e nella vita di popoli accomunati da una Tradizione mai venuta meno rappresenta il riuscito obiettivo del volume di Emanuela Fogliadini. La vicenda squisitamente «ecclesiale» di queste immagini, pur sviluppata in una prospettiva che non ne perde mai di vista le implicazioni storiche, storico-artistiche ed estetiche, viene presentata in una forma nella quale un rigore che talora rasenta l'acribia riesce a coniugarsi in modo inatteso con una scrittura brillante e coinvolgente. Il volume dunque, dialogando in modo costante con E. von Dobschiitz ed evidenziando in modo costruttivo i pregi e limiti del suo insostituibile contributo, sembra sapersi spingere oltre E. von Dobschiitz stesso: la chiarificazione critica dello sguardo teologico-dogmatico con cui l'Oriente cristiano considera queste immagini prototipiche, pur sviluppata in una prospettiva squisitamente «occidentale», diviene infatti decisiva per la loro comprensione e getta una nuova luce sulla rilevanza che esse da sempre presentano in quello specifico contesto, oltre che sulla seduzione che hanno ~aputo esercitare sullo stesso Occidente. Il profilo del volume, impegnato ad evidenziare la prospettiva teologicodogmatica dell'Oriente come orizzonte di comprensione imprescindibile delle immagini Acheropite di Cristo, non deve tuttavia trarre in inganno. La ricerca della Fogliadini presenta infatti un respiro ampio e articolato che interesserà sicuramente, e non senza guadagno, esperti e cultori di ambiti molto diversificati:' teologia, filosofia dell'immagine, storia dell'arte, storia del cristianesimo, oltre ovviamente all'iconologia, si intersecano in questo studio in una forma che rispetta la peculiarità e specificità di tutte queste discipline, non senza tuttavia rivendicare la necessità di una contestualizzazione originariamente teologica di queste singolari immagini del Verbo incarnato. E tuttavia questo intersecarsi attento e puntuale di discipline non nuocerà affatto alla lettura di chi vorrà
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Presentazione semplicemente approfondire questa intrigante tematica facendo riferimento a un documentato testo che, soprattutto nella parte in cui ricostruisce le vicende delle singole immagini Acheropite di Cristo, sembra addirittura saper creare, nonostante l'argomento trattato, le atmosfere cariche di attesa di un appassionante thriller.
INTRODUZIONE
Piergiuseppe Bernardi
La moda delle icone ha travolto l'Occidente a partire dal secolo scorso, inondandolo di immagini bizantine e di veri e propri tesori d'arte. Questa «passione» per le icone si è trasformata con il passare degli anni in una diffusione di riproduzioni - che ben poco hanno a che fare con l' «aura» unica degli originali - e in un loro frequente utilizzo anche all'interno di chiese e celebrazioni cattoliche. Come spesso capita, la novità si è trasformata in consuetudine, tanto che attualmente l'Occidente annovera queste immagini orientali tra i propri abituali simboli religiosi. Nel riferirsi alle icone però il mondo latino si è raramente interrogato sul fatto che si trattasse di un patrimonio diverso dal proprio: ha valutato queste immagini dal punto di vista artistico, si è lasciato suggestionare dal mistero che emanano, si è accostato ad esse con un vago sentimento religioso ma, fondamentalmente, non ne ha colto il senso. Le icone sono immagini che nascono nel contesto ecclesiale, sono destinate alla vita della comunità cristiana e specialmente hanno una natura squisitamente teologica. Non sono semplicemente opere d 'arte: la loro dimensione estetica è irriducibile, ma la fondazione è teologica. Le icone sfuggono al meccanismo della moda, sono oltre i canoni mutevoli dell'arte: esse veicolano la rivelazione e attestano il dogma dell'incarnazione di Cristo. È eloquente che, per spiegare che cosa sono le icone, si sia costretti prima di tutto a chiarire cosa non sono. Le icone non sono solo reliquie, non sono solo dipinti a soggetto religioso, né solo opere d 'arte. Queste precisazioni non risultano per nulla marginali: l'Occidente infatti, pur avendo contribuito a riscoprire la ricchezza di queste immagini, ne ha radicalmente frainteso il significato. L'essenza dell'icona è dunque stata misconosciuta nel contesto dell'Occidente cristiano, dando vita a utilizzi assolutamente impropri delle icone conseguenti al fraintendimento del senso profondo che l'Ortodossia assegna loro nell'orizzonte della sua teologia e della sua liturgia. Questo equivoco non è però frutto solo di disattenzione o superficialità, ma affonda le sue radici nella storia, ben prima che si consumasse ufficialmente lo scisma del 1054. Fin dai primi secoli della storia 12
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Introduzione
Introduzione
del cristianesimo, infatti, l'Occidente ha attribuito alle immagini un ruolo di primo piano, connotandole tuttavia in senso illustrativo e didascalico: la celebre espressione delle immagini come Biblia pauperum ben sintetizza il compito che la rappresentazione sacra riveste in ambito latino. Le immagini sono funzionali alla Scrittura, sono le didascalie della Parola, che permettono di avvicinare al mistero anche coloro che nella Parola incontrano difficoltà. Profondamente diversa è invece la concezione delle immagini nell'Oriente cristiano: l'Ortodossia riconosce infatti alle icone un carattere teologico, rivelativo e liturgico. Le icone sono opere teologiche, che hanno un ruolo centrale nel trasmettere la rivelazione e nel mettere in contatto il fedele con il soggetto raffigurato. Sintetizzando il concetto con un noto slogan, possiamo dire che l'icona è una «teologia in immagini». Le icone inoltre sono complementari alla Scrittura nell'attestare l'incarnazione di Cristo e nel rivelare la storia della salvezza. Icona e Scrittura sono due modi diversi, ma di pari valore nella rivelazione di Dio e di Cristo. L'immagine, per l'Oriente, non è funzionale alla Scrittura, non è riducibile alla Parola, bensì complementare ad essa. L'equivalenza di ruoli non è arbitraria: l'icona infatti è una forma di arte sacra la cui essenza è teologica. L'icona ha il compito di attestare il dogma dell'incarnazione, è garante della realtà e della verità del farsi carne del Verbo di Dio. In Occidente, in particolare dal Rinascimento in avanti, l'arte è pensata essenzialmente come una libera creazione dell'artista: questa concezione permise di dar vita a una varietà di capolavori artistici che hanno esercitato un forte fascino anche sull'Oriente. La libertà creativa tradisce però per l'Ortodossia il carattere «debole» dell'arte occidentale. Dal punto di vista orientale, l'arte sacra è chiamata a seguire il percorso delineato dalla Tradizione: l'immagine sacra ha un carattere «forte» perché trasmette la rivelazione. L'elemento estetico dunque è funzionale a quello teologico, che è costitutivo dell'icona. Al contrario, all'arte sacra occidentale manca strutturalmente l'idea di essere rivelativa, il suo intento è esplicativo e pedagogico. L'icona invece è tramite tra colui che guarda e Colui che è rappresentato: è irruzione dell'eternità nel tempo. La comprensione, e il relativo riconoscimento della natura teologica e dogmatica delle icone, trova il suo fondamento nell'icona di Cristo e, più specificamente, nella convinzione da parte della tradizione dell'Ortodossia che lo stesso Cristo, sia nel corso della sua vita terrena che del suo apparire postpasquale sulla terra, abbia voluto lasciare ad alcune persone delle particolarissime immagini del suo volto: non immagini frutto di creatività artistica o di emozione spirituale, bensì immagini che egli stesso ha in vario modo miracolosamente impresso. Queste immagini, nel contesto dell'Oriente cristiano considerate le icone per antonomasia, prendono il nome di Acheropiti di Cristo. Il termine stesso che le definisce lascia intendere la realtà della loro natura. Gli Acheropiti sono immagini «non fatte da mano d'uomo» (àxagono(rp;oç) e questo concretamente
significa che ebbero origine per un intervento volontario, diretto o indiretto, di Cristo stesso. Gli Acheropiti sono dunque icone nate sotto il segno di un prodigio destinato a diventare un elemento così intrinseco ad essi da renderli capaci di replicarsi autonomamente in modo portentoso e di compiere essi stessi ogni genere di miracoli. E tuttavia questo clamoroso aspetto miracolistico è solo la conseguenza, nel contesto dell'Oriente cristiano, di ciò che gli Acheropiti del Salvatore in ultimo sono: immagini uniche lasciate da Cristo per attestare l'autenticità della sua incarnazione. Cristo dunque in queste icone non donò semplicemente' il proprio ritratto o la propria immagine, ma consegnò invece alle generazioni di cristiani di ogni epoca una testimonianza reale ed autentica del suo essersi fatto uomo. I tratti fisici del suo volto sono rilevanti prima di tutto in quanto «certificano» il mistero cardine del cristianesimo, legittimando conseguentemente l'esistenza e il culto delle immagini sacre. Per questo gli Acheropiti finirono col giocare un ruolo centrale nel dibattito sviluppatosi in Oriente sulle immagini: la loro esistenza minava infatti alla base le tesi iconoclaste, proprio perché le «protoicone» avevano avuto origine da un intervento libero e volontario di Cristo stesso, intervento che diventava così il fondamento stesso della legittimazione dell'icona. Gli Acheropiti di Cristo, considerati all'interno del panorama teologico dell'Oriente cristiano, rappresentano dunque l'obiettivo ultimo di questa ricerca. Accostarsi alla questione delle immagini «non fatte da mano d'uomo», prendendo sul serio l'istanza avanzata in merito dall'Ortodossia, significa tuttavia andare ben oltre i domi~i della storia e dell'arte per trovarsi invece a fare i conti in profondità con la dimensione del teologico. Lungi dall'affrontare questa tematica in chiave puramente storica, artistica o addirittura devozionale, come potrebbe indurre equivocamente a pensare un approccio all'immagine cristiana sviluppato in una prospettiva superficialmente «occidentale», il metodo dianalisi utilizzato, senza escludere le dimensioni sopra citate, avrà primariamente e costitutivamente un carattere squisitamente teologico-dogmatico: è alla teologia infatti che rimanda l'icona di Cristo, così come le immagini Acheropite che la fondano, laddove essa viene intesa come autonoma «attestazione» dell'incarnazione, pur nella complementarità con la Parola, e come «tramite» capace addirittura di rendere presente e «divinizzante» il prototipo rappresentato. Il lavoro che segue si articola in tre ampie parti. La prima si propone di esaminare la dimensione teologica delle icone, con un evidente riferimento agli Acheropiti di Cristo, considerati nel tratto «fondativo» che essi finiscono col rivestire in ordine all'icona di Cristo e a tutte le altre icone. Lo studio parte analizzando il tratto cristologico dell'icona nella Tradizione dell'Oriente cristiano, orizzonte irriducibile della comprensione degli stessi Acheropiti di Cristo. La loro portata autenticamente teologica, per poter essere evidenziata al di là di ogni equivoco, richiede di vederli ricondotti alla dimensione propria che ca-
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Introduzione
ratterizza l'ermeneutica dell'immagine cristiana nell'Ortodossia. D'altro canto sono gli stessi Acheropiti di Cristo a legittimare sul piano teologico-dogmatico, e in una prospettiva che fa della teologia il fondamento della pur irriducibile dimensione estetica che la caratterizza, l'ermeneutica dell'icona che nell'orizzonte dell'Oriente cristiano è venuta gradualmente imponendosi. Per questa ragione la prima parte della ricerca delineerà le tappe del dibattito sulla legittimità delle icone, mettendo in evidenza i pronunciamenti conciliari che hanno esplicitato la natura teologica dell'icona, autorizzandone l'esistenza e il culto. Pertanto si evidenzierà come, proprio nell'alveo della teologia, vengono a collocarsi i principali snodi che connotano il carattere teologico-dogmatico delle icone, specialmente laddove ad essere precisata è la sua valenza attestativa dell'incarnazione del Logos e la singolarità del rapporto con il prototipo che essa rende efficacemente possibile. A questi due aspetti in particolare viene dedicata un'attenta analisi, poiché è in essi che sf radica il senso autenticamente teologico del culto alle icone nel contesto dell'Oriente cristiano. La ricerca si precisa poi concentrandosi sugli Acheropiti di Cristo. Di essi viene innanzitutto fornita una disamina preliminare che evidenzia come solo una comprensione teologica degli stessi abbia potuto trasformarli in immagini che godevano, in ambito bizantino, di una venerazione tanto rilevante da renderli protagonisti della stessa liturgia. Questo scavo intorno agli Acheropiti di Cristo è fatto precedere da un sintetico studio sui loro antecedenti pagani dal quale si evince come, pur in contesti religiosi diversi, l'immagine possa divenire oggetto di un'attenzione il cui orizzonte più proprio è quello del «manifestarsi» attraverso di esse di una presenza effettiva del divino. A emergere con forza è tuttavia il fatto che fu proprio l'ambiente cristiano dei primi secoli a creare il contesto teologico-dogmatico a partire dal quale, nei confronti di queste specifiche immagini, presero forma una venerazione e un culto che risulterebbero del tutto .implausibili se a fondarli e legittimarli non fosse la teologia. È questa connotazione intrinsecamente teologica degli Acheropiti ad evidenziare l'importanza che, a questo livello, viene attribuita al volto di Cristo: un approfondimento quindi delle radici scritturistiche e della loro recezione da parte della teologia e dell'iconografia ortodosse chiude dunque questa parte, dettando la linea allo sviluppo successivo della ricerca stessa. Con la seconda parte si entra nel vivo della trattazione sugli Acheropiti di Cristo nell'Oriente cristiano. La loro storia fu segnata da un inizio sconvolgente: il gesto di Cristo di dar forma ai propri ritratti in modo miracoloso. Il primo Acheropita, l'icona di Camuliana, e il più celebre Mandylion (Fig. 4) portano in sé i tratti fisici del volto del Salvatore che scelse liberamente e volontariamente di lasciare una prova singolare e straordinaria del suo costituirsi concreto come Logos fatto carne. Certo, di entrambi questi Acheropiti non si dà originale, andato distrutto o forse smarrito. E tuttavia questa «assenza», lungi dal vanificare 16
Introduzione
il senso della ricerca, ne diventa il fondamento. La Tradizione dell'Oriente cristiano infatti, proprio laddove l'Occidente guarda con sufficienza agli Acheropiti impegnandosi addirittura in rigorosi studi volti a liquidarli come mere leggende e invenzioni, ne afferma apoditticamente l'esistenza. Né potrebbe essere diversamente, visto che essi si configurano come l'attestazione squisitamente teologica della visibilità irrinunciabile del Dio con noi. È per questo che la Tradizione ortodossa non ha dubbi a scorgere nelle numerose copie che di questi Acheropiti di Cristo i secoli ci hanno tramandato, a dispetto della «sparizione» dei loro originali, i tratti stessi del Volto effettivo ed autentico del Salvatore. Tra intricate leggende e complesse cronache, viene delineandosi il ruolo chiave che queste immagini di Cristo rivestirono nella dogmatica, nella teologia, nella liturgia, nel culto e nella devozione dell'Oriente cristiano. L'ampio spazio conferito ai documenti relativi alla Camuliana e al Mandylion è voluto: alcuni di essi, raccolti da E. von Dobschiitz, che li ha lasciati tuttavia in lingua originale, trovano in questa ricerca una traduzione in lingua italiana che, pur lasciando il testo originale in nota, li rende più fruibili; altri documenti, in vari studi citati o più semplicisticamente «ventilati», paradossalmente tuttavia senza indicarne gli estremi, sono stati rinvenuti, finalmente citati e infine tradotti del tutto o in parte. La terza e ultima parte riporta il lettore nel mondo occidentale. Il fascino per le icone non è un fenomeno solo recente: la Chiesa latina ha accolto all'interno della propria storia alcuni presunti Acheropiti di Cristo. L'approccio è stato molto entusiasta, ma in generale riduttivo: queste immagini sono state infatti ridotte a «Volti Santi», ossia a preziose reliquie risalenti a Cristo stesso. Questo accadde al più celebre Acheropita occidentale, l'icona di Cristo detta «della Veronica» (Figg. 7 e 8): questa icona fu centrale, per un certo arco di anni, per il culto e la devozione di milioni di fedeli che si recavano a Roma per contemplarla. E tuttavia molte risultano le differenze dell'Occidente nel rapportarsi, in generale, agli Acheropiti di Cristo. In primo luogo essi non vennero mai considerati «attestazioni» dell'incarnazione del Verbo di Dio, bensì semplicemente reliquie, indiscutibilmente uniche e straordinarie, ma pur sempre reliquie; la devozione latina, inoltre, posticipò alla passione di Cristo il momento della nascita degli Acheropiti, evidenziando così la propria attenzione per l'umani ~·"~:~:~'-. . di Cristo, laddove l'Oriente preferiva sottolineare in. essi l'emergere dell'inca "'~:~tjt:~I( ~) narsi del Logos divino. Infine alcuni papi, in particolare nel periodo che va da u,irurs•.~ Innocenzo m (1198-1216) a Giovanni XXII (1316-1334), elessero l'icona di Cristo «della Veronica» a reliquia per eccellenza della cristianità, associando ad essa delle indulgenze e attirando a Roma per contemplarla fiumi di pellegrini provenienti da tutta Europa. Nonostante questo divergere ermeneutico, rimane comunque indubitabile, oltre che interessante, l'attenzione dell'Occidente per i Santi Volti orientali, testimoniata anche dalla diffusione di celebri icone bizantine che tuttora sono oggetto di venerazione e di pellegrinaggio da parte di molti fedeli cattolici.
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Introduzione Sia laddove essa si occupa in specifico dell'approccio sviluppato dalla Tradizione orientale nei confronti degli Acheropiti di Cristo e delle icone da essi derivate, sia invece laddove essa rileva l'attenzione dell'Occidente per i «Volti Santi», questa ricerca tenta di non perdere mai di vista il discrimine che separa a questo riguardo i due contesti cristiani in questione: la considerazione.squisitamente teologica di essi da parte dell'Oriente e la marginalizzazione devozionale da essi subita in Occidente. Una prospettiva quest'ultima che ha avuto in Occidente il suo esponente di punta in E. van Dobschiitz, il cui monumentale lavoro su questo tema inaugura un filone di ricerche che, pur impegnate ad esplorare con attenzione e rigore il mondo degli Acheropiti, trascurano tuttavia quella dimensione teologica che, nel contesto dell'Oriente cristiano, rappresenta la ragione stessa del loro essere pensati come parte della Tradizione ecclesiale e degni di entrare a pieno titolo nella liturgia. È proprio questa «disattenzione» al teologico da parte dell'Occidente, folgorato dallo splendore delle icone senza tuttavia riuscire ad andare oltre la loro superficie, che questa ricerca tenta modestamente di colmare. E questo tentativo non potrà che passare attraverso una riaffermazione della teologia come elemento decisivo per comprendere queste «immagini di Cristo» e per ricollocarle nella luce di quell'Oriente cristiano che, al di là del loro costituirsi di questi «volti di Cristo» come reali o leggendari, li ha comunque venerati come «attestazioni» dell'incarnazione di Cristo e come «tramite» effettivo di un rapporto con Lui nell'hic et nunc della storia. Questo volume è frutto del lavoro di ricerca per la preparazione della tesi di Licenza in Teologia presso la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale di Milano. Tale saggio non avrebbe assunto la forma attuale senza il prezioso aiuto del Prof. Piergiuseppe Bernardi, che mi ha insegnato a condurre una ricerca capace di coniugare il rigore dell'analisi storica con l'attenzione e il rispetto per la Tradizione dell'Oriente cristiano e la teologia che essa ha prodotto. A lui devo anche la mia gratitudine per avermi incoraggiata a perseverare con tenacia in un'indagine dai tratti complessi, per avermi spronata ad usare una scrittura «accattivante» e, specialmente, per avermi trasmesso la sua passione per lo studio della teologia. Il mio grazie va anche al Prof. Antonio Zani, i cui consigli in fase di stesura del lavoro si sono rivelati estremamente preziosi, e ai Proff. Pierangelo Sequeri e Alberto Cozzi, le cui osservazioni in sede di discussione di Tesi mi sono state utilissime nella rielaborazione del testo in vista della pubblicazione. Per la parte più pratica, desidero ringraziare la Prof.ssa Evelina Frisenna che, con accuratezza ed entusiasmo, ha riletto più volte il manoscritto aiutandomi a rend~re il testo maggiormente fruibile al lettore. Infine, il grazie che vale una vita è per miei genitori, che in ogni momento hanno creduto in me, favorendo e sostenendo in ogni modo il mio percorso di studi.
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Parte prima
LE ICONE ACHEROPITE DI CRISTO E LA LORO DIMENSIONE TEOLOGICA
Capitolo primo IL TRATTO CRISTOLOGICO DELL'ICONA NELLA TRADIZIONE DELL'ORIENTE CRISTIANO
1. Il ruolo dell'icona nella Tradizione dell'Oriente cristiano
La presente ricerca, come si è già cercato di chiarire nell'introduzione, si propone di mettere in luce il rilievo teologico-dogmatico, liturgico, oltre che devozionale e artistico, rivestito nell'Oriente cristiano dagli Acheropiti di Cristo e dalle icone da essi derivate. È infatti nell'icona di Cristo, e in special modo nelle icone Acheropite del Salvatore, che la Tradizione ortodossa fonda e legittima la sua rivendicazione del tratto squisitamente teologico che caratterizza l'icona. La comprensione della valenza teologica e rivelativa attribuita dall'Oriente cristiano agli Acheropiti e alle icone che a questo «tipo» rimandano impone dunque preliminarmente di dissipare l'equivoco in cui l'immagine cristiana orientale, venuta a contatto con la sensibilità occidentale, ha finito gradualmente col divenire prigioniera: quello cioè di essere considerata al pari di un dipinto, magari anche particolarmente capace di evocare il sacro, vedendosi tuttavia sottratta qud tratto teologico-dogmatico che invece, nel contesto della Chiesa d'Oriente, ne definisce ontologicamente l'identità. Tratteggiare in modo sintetico la vicenda storico-dogmatica attraverso cui l'Oriente cristiano addivenne nei secoli alla legittimazione dell'immagine cristiana risulta dunque imprescindibile per questa ricerca, cui spetta tuttavia anche il compito, per un verso, di evidenziare senza esitazione alcuna la specificità dell'immagine cristiana orientale rispetto al suo corrispettivo occidentale e, per l'altro, di segnalare il rischio corso dall'Ocèidente nel leggere l'icona semplicemente sulla falsariga del proprio concetto di immagine cristiana. L'Occidente, che subisce chiaramente il fascino dell'icona, recepisce ordinariamente quest'ultima senza registrare il tratto teologico che la fonda, smarrendo così la singolarità che questa particolarissima rappresentazione del divino riveste nell'ambito dell'Oriente cristiano, per il quale «la contemplazione della 21
Le icone Acheropite di Cristo e la loro dimensione teologica
Il tratto cristologico dell'icona nella Tradizione dell'Oriente cristiano
Chiesa si distingue dalla visione profana precisamente perché nel visibile essa contempla l'invisibile, nel temporale l'eterno che essa ci rivela nella sua liturgia di cui l'icona è parte» 1. La mentalità occidentale tende invece a ridurre l'icona ad una semplice immagine religiosa e tale confusione implica la pura negazione della sua specificità. L'uso dell'immagine, del resto, in Occidente è giustificato in ultimo per il suo significato didascalico e illustrativo: i dipinti narrano infatti la storia sacra per coloro che non possono leggere direttamente la Scrittura, facilitando all'uomo semplice la comprensione di una parola per lui inafferrabile. L'appropriarsi occidentale delle icone orientali, a cui abbiamo assistito nel '900, con la relativa commercializzazione che ne è derivata, ha prodotto intorno ad esse un ampio business che ha evidenziato tutta l'incomprensione dell'Occidente nei confronti di una Tradizione ortodossa per cui l'icona rappresenta invece il tramite intrinseco del farsi presente del divino nel tempo. Le radici di questo fraintendimento occidentale non sono però recenti, bensì radicate nelle viscere della storia: «L'Occidente, anche nel periodo in cui non era diviso dall'Oriente, non disponeva di un senso così profondo delle icone. Alla fine del VI secolo Gregorio Magno (590-604) definì le icone Biblia pauperum, riprendendo le parole di Basilio Magno che sottolineava che "le parole della narrativa offrono la possibilità all'orecchio di ascoltare ciò che il dipinto silenzioso mostra attraverso la rappresentazione". Oltre a questo specifico fatto, i Dottori occidentali non misero mai in relazione l'arte religiosa con la teologia e il dogma, relegando le immagini al ruolo di illustrazione del testo». 2 Non stupisce dunque che la questione delle icone sia innanzitutto orientale: è in Oriente che vengono realizzate le prime raffigurazioni di Cristo ed è sempre in Oriente che viene tematizzato il problema dell'origine del volto di Gesù. Se l'Occidente si lascia incantare dalle capacità artistiche dei pittori nel rendere i tratti del Signore, l'Oriente invece si pone esplicitamente la domanda sulla legittimità del rappresentare Cristo e sulla questione - a noi quasi ignota - della fedeltà di tali rappresentazioni al suo volto «vero» e «storico». L'icona del resto non è una semplice illustrazione, non ha solo le funzione didascaliche che l'Occidente attribuisce alle immagini, ma è tramite per giungere a Dio, ha una forza trasformante che permette a chi la contempla di partecipare del Divino, così
come chiaramente decreta il concilio di Nicea II: «L'onore reso all'immagine, in realtà, appartiene a colui che vi è rappresentato e chi venera l'immagine, venera la realtà di chi in essa è raffìgurato»3 • Questo nesso tra immagine e prototipo accompagnato da una chiara distinzione, nell'originale greco, tra venerazione e adorazione - è uno dei punti chiave per comprendere correttamente il rapporto della Tradizione ortodossa con le icone. Ridurre l'icona a un oggetto d'arte significa svuotarla della sua funzione primaria: essa è infatti una «teologia in immagini» che annuncia in modo attualizzante con forme e colori il messaggio proclamato dal Vangelo con la parola. L'icona nell'ambito dell'Oriente cristiano non può quindi essere in alcun modo interpretata in chiave meramente estetica, perché la sua origine e la sua natura sono profondamente teologiche. L'icona, analogamente al Vangelo che attesta l'evento Gesù Cristo mediante la Parola, è considerata dalla Tradizione ecclesiale dell'Oriente cristiano come l' attestazione in forma di immagine del farsi carne del Verbo. I fedeli ortodossi riuniti in una chiesa per la liturgia stabiliscono dunque, per il tramite delle icone e delle preghiere liturgiche, un legame speciale con la Chiesa celeste: «L'icona non mostra un frammento del mondo divino, bensì mostra un'immagine della pienezza dell'essere e una piena visione del mondo»4 • Il credente ortodosso ha una viva coscienza della sua appartenenza alla grande famiglia dei santi: le icone sono presenti in tutte le grandi fasi della sua vita, a partire dal battesimo in cui riceve un'icona del santo di cui porta il nome, al matrimonio dove gli sposi sono benedetti con le icone, fino al funerale in cui l'icona ricevuta nel battesimo e quella della Vergine sono portate in tc:;sta al corteo funebre e, in alcuni casi, messe nella bara. Le icone sono dunque parte integrante della Tradizione ortodossa: è infatti del tutto impossibile immaginare una chiesa ortodossa, la sua liturgia, la sua teologia, la vita dei suoi fedeli senza le icone. La stessa contemplazione delle icone non è un avvenimento che accade al fedele come singolo individuo, ma è evento che coinvolge tutta la comunità: «Si tratta di una contemplazione comunitaria, non individuale. L'icona è una creazione della Chiesa nel suo insieme. Essa è direttamente correlata alla Liturgia, alla Chiesa e ai sacramenti. Fuori dal suo contesto, l'icona non può essere compresa»5 .
L. UsPENSKIJ, La teologia dell'icona, La casa di Matriona, Milano 1995, p . 120. «The West, which had not yet separateci from the East, did not possess such a profound un derstanding of icons. At the end of the sixth century Gregory the Great wrote about icons as "the poor man's Bible", following the words of Basi! the Great who insisted that "words of a narrative offer the ear what silent painting shows through the representation" . Further than this, however, the Western doctors would not go and did not connect church art directly with the theology and dogma, leaving images with only the role of illustrating the text», in I. Y AZYKOVA, H. LUKA (KOLOVKOV) , Th e theological principles o/ icon and iconography, in A History o/ icon painting, Grand-Holding Publishers, Moscow 2005, p. 13.
Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura di G . ALBERIGO, G .L. D osSETII, PERIKLES-P.}OANNOU, C. LEONARDI, P. PRODI, EDB, Bologna 1991 , p . 136. «An icon does not show a fragment of the heavenly world, but reveals an image of the fullness of being, of a full worldview», in I. YAZY KOVA, H. LUKA (KOLOVKOV), Th e theological principles o/ icon and iconography, cit., p . 13 . 5 «This is conciliar, not individua! contemplation. The icon is the creation of the Church as a whole. lt is directly linked with the Liturgy, the Church, and the sacraments. Outside of this context the icon cannot be fully understood», in ivi, cit., p . 25 .
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Le icone Acheropite di Cristo e la loro dimensione teologica
Il tratto cristologico dell'icona nella Tradizione dell'Oriente cristiano
Il ruolo determinante che l'icona svolge nella vita dell'Ortodossia richiede all'Occidente di comprendere integralmente la portata teologica e dogmatica di queste immagini per la Tradizione dell'Oriente cristiano. Quest'ultima le pensa radicalmente in chiave teologica, pur senza eliminare da esse la portata estetica: le icone esprimono dunque le verità dogmatiche e offrono la possibilità unica e singolare di relazionarsi al divino, grazie al fatto che l'onore reso all'immagine passa al prototipo che raffigura. L'icona è tramite della rivelazione.e ne si coglie in toto l'essenza soltanto laddove se ne riconosce iJ carattere teologico-dogmatico. Le icone sono simboli sacri- «germi e figure delle qualità divine e immagini sensibili di visioni arcane e soprannaturali»6 - di cui è necessario cogliere il tratto squisitamente teologico, se non ci si vuol privare della comprensione del suo senso autentico. L'Occidente, abituato a una concezione didascalica dell'immagine, deve cogliere che «l'icona è il contrario di una pittura del Rinascimento; non è una finestra attraverso la quale lo spirito umano deve penetrare nel mondo rappresentato, ma è il luogo di una presenza; in essa il mondo rappresentato si irradia verso colui che si para per riceverlo»7 . Nel panorama iconografico dell'Oriente cristiano, il primato spetta alle icone di Cristo e, in particolare, alle immagini Acheropite. L'origine miracolosa degli Acheropiti, la loro storia che attraversa i secoli interrogando e affascinando, la portata che hanno nella discussione teologica sulla legittimità delle immagini sacre, l'ampio spazio assunto nella liturgia e il profondo successo riscontrato a livello popolare e devozionale, le rendono uniche e di assoluto primo piano nello studio delle icone. Il ruolo che queste icone rivestono nella Tradizione dell'Oriente cristiano richiede uno studio approfondito che sappia correttamente valutare storia, leggende, culto e specialmente la teologia e la dogmatica ad esse sottese. Gli Acheropiti, immagini «non dipinte da mano d'uomo», hanno rappre~entato e continuano infatti a rappresentare per questa Tradizione il cuore stesso di una tradizione iconografica che della stessa Tradizione ecclesiale, globalmente e autorevolmente intesa, sono espressione8. Esse infatti, in questo specifico contesto, sono diventate il criterio canonico imprescindibile della riproduzione iconica del volto di Cristo. Le immagini Acheropite di Cristo giustificano la relativa immutabilità dei tratti del Salvatore nelle successive copie: tale ripetitività può risultare eccessiva, talora addirittura insopportabile, per il pittore occidentale spesso ansioso di rielaborare i tratti di Cristo lascian-
dosi guidare dal principio di «libera creazione». L'arte occidentale, affidandosi a forme e colori di volta in volta sempre nuovi, si è persino spinta a raffigurare Gesù con i tratti somatici delle varie etnie, con il risultato anomalo di un Cristo rappresentato secondo i canoni della bellezza occidentale, che veste di volta in volta gli abiti di un'epoca specifica, perdendo del tutto il riferimento alla «verità» della carne concreta nella quale il Logos si è incarnato. Dietro questa libertà d'azione della pittura occidentale si ha la consapevolezza, in particolare dal Rinascimento in avanti, che seppure l'.ambito del sacro rimanga un profondo pozzo dal quale attingere senza sosta, non è più solo la teologia a dettare le regole a cui l'estetica deve attenersi, al contrario di quanto accadde nella produzione artistica dell'Oriente cristiano. In sintesi si può affermare che «la differente rilevanza dogmatica del tema dell'arte figurativa nel contesto dell'Oriente e dell'Occidente si radica nella diversa funzione che gradualmente finì con l' essere attribuita all'immagine nei due ambiti in questione. [ . .. ] Mentre infatti i difensori dell'immagine in Oriente si impegnarono a difendere la venerazione dell'immagine vedendo nella sua negazione una vera e propria eresia tesa a vanificare dogmaticamente l'incarnazione autentica di Cristo, l'Occidente sostenne invece la legittimità dell'immagine cristiana in un'ottica volta a evidenziarla come una semplice modalità divulgativa dell'essenza stessa del cristianesimo di fatto destinata a coloro che non hanno strumenti per accedervi attraverso la parola»9 . Il legame che il.mondo ortodosso istaura invece con le icone, pur non escludendo né la dimensione estetica né quella devozionale, è'di natura propriamente teologica e rivelativa: «L'immagine costituisce una reale professione della fede cristiana. Questo carattere dogmatico è un tratto essenziale dell'arte sacra ortodossa di ogni epoca» 10 .
DIONIGI AREOPAGITA, Ep. IX, in PSEUDO DIONIGI, Tutte le opere, a cura di P. SCAZZOSO, Rusconi, Milano 1983 , p . 275 . 7 S. BABOLIN, Icona e conoscenza. Preliminari d'una teologia iconica, Gregoriana Libreria Editrice, Roma 1990, p . 28. 8 La legittimazione dell'icona nell'Ortodossia come tradizione, riconducibile alla Tradizione ecclesiale è ben argomentata nel saggio di V. LosSKIJ, La Tradizione e le tradizioni, in L. UsPENSKIJ, V. LOSSKIJ, Il senso delle icone, Jaca Book, Milano 2007 , p . 80.
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2. Il concilio Quinisesto e la prima fa se iconoclasta
L'accettazione da parte della Chiesa di immagini dipinte e scolpite inerenti il mistero cristiano è uno dei fenomeni più rilevanti della storia dell'arte sacra. La legittimazione di esse però non è stata né semplice né indolore: il periodo di transizione del cristianesimo dalla primitiva resistenza all'uso delle immagini alla definitiva accettazione del culto delle icone nella pratica religiosa è ricco di dibattiti e riflessioni teologiche, lotte e conflitti, prese di posizione e pronunciamenti ecclesiali nei quali non mancarono anche di trovarsi implicati numerosi imperatori dell'Impero Romano. L'arco di tempo in questione corre dal 313 , P. BERNARDI, I colori di Dio. I.:immagine cristiana tra Oriente e Occidente, Bruno Mondadori, Milano 2007 , p . 63 . · 10 L. UsPENSKIJ, La teologia dell'icona, cit. , p. 50.
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Le icone Acheropite di Cristo e la loro dimensione teologica
Il tratto cristologico dell'icona nella Tradizione dell'Oriente cristiano
anno in cui fu concessa la libertà di culto ai cristiani da parte dell'imperatore Costantino, fino all'843, quando si conclusero definitivamente le lotte iconoclaste con la Festa del Trionfo dell'Ortodossia. Nel corso di questi secoli ebbero luogo concili e sinodi celebrati sia da coloro che erano favorevoli alle icone sia dai loro detrattori. Da queste assisi e dal dibattito teologico che ruotava attorno al tema dell'immagine emersero sempre più chiaramente i fondamenti teologico-dogmatici delle icone. I pronunciamenti del concilio Quinisesto 11 del 692 gettarono le basi per la futura e piena legittimazione delle immagini sacre. Al Trullano si stabilì, infatti, l'opportunità di una concreta rappresentazione di Gesù Cristo e la conseguente sostituzione di raffigurazioni astratte del Salvatore, come emerge dalle indicazioni del canone 82: «In talune pitture il precursore è raffigurato nell'atto di indicare col dito l'agnello, quello che era stato adottato come un simbolo della grazia, come allusione anticipatrice, secondo la legge, del vero Agnello, Crist.o nostro Dio. Onorando senza riserve le figure e le ombre come simboli della verità e segni dati in vista della Chiesa, noi preferiamo la grazia e la verità, accogliendo questa verità come compimento della legge. Di conseguenza decidiamo che ormai questo compimento sia esposto agli sguardi di tutti nelle pitture, e che Colui che ha tolto i peccati del mondo, Cristo nostro Dio, debba essere rappresentato sulle icone nella sua forma umana invece che in quella dell'antico agnello. Da ciò noi comprendiamo la sublime umiltà di Dio Verbo e siamo stimolati alla memoria della sua abitazione nella carne, della sua passione, della sua morte salvifica e della liberazione che ne è derivata per il mondo» 12 • Il superamento della rappresentazione simbolica, punto cardine del Quinisesto, risultava non solo legittimo, ma necessario, motivato dall'effettiva incarnazione del Cristo, che assunse realmente la carne umana. Il continuare dunque a raffigurarlo simbolicamente avrebbe significato, pur implicitamente, negare la verità dell'incarnazione. Già in queste dichiarazioni è racchiuso in nuce il cuore del problema della liceità delle immagini, filo rosso in tutto il successivo dibattito. La legittimità delle immagini sacre è strettamente connessa al dogma, che deve essere salvaguardato; le immagini non sono accessori alla rivelazione, bensì sono esse stesse rivelative, come verrà fortemente formulato dal concilio di Nicea II . Le dichiarazioni del Trullano rivestono un ruolo di assoluta importanza, dato che «per la prima volta una decisione conciliare for-
mula il nesso tra l'icona e il dogma dell'incarnazione, "la vita di Cristo secondo la carne"»D. Cardine della teologia dell'Oriente cristiano sulle icone è proprio il fondamento cristologico, cuore della discussione durante le lotte iconoclaste. Il concilio Quinisesto, che «sottolinea tutta l'importanza e tutta la portata della realtà storica, riconoscendo l'immagine realistica come l'unica capace di trasmettere la dottrina ortodossa» 14 , pone una pietra miliare nella costruzione di una teologia in grado di dare delle motivazioni inconfutabili a favore della liceità delle immagini sacre. Le affermazioni del concilio del 692 non arginarono però le istanze di contestazione da parte degli iconoclasti che diedero vita, a partire dall'vIII secolo, a cruente persecuzioni, passate alla storia come «lotte iconoclaste». Fu l'imperatore Leone III Isa urico (717 -741) ad inaugurare una stagione di politica religiosa contro il culto delle immagini. Leone III cercò di coinvolgere nella sua folle impresa anche l'Occidente, chiedendo il supporto di papa Gregorio II (715-731) per bandire il culto delle immagini sacre. Poiché la sua richiesta non ottenne i risultati sperati, l'imperatore cercò l'appoggio del patriarca di Costantinopoli Germano (715-730 circa), che, pur con motivazioni teologiche differenti da quelle papali, si rifiutò ricordando al basileùs come la giurisdizione in materia religiosa fosse prerogativa del concilio ecumenico. Germano, a causa delle resistenze mostrate, fu messo alle strette dalla politica iconoclasta imperiale e costretto a ritirarsi «volontariamente» in esilio. Fu sostituito da Anastasio (730-754 circa) , vescovo favorevole all'iconoclasmo, che pubblicò immediatamente un documento contrario alle immagini ed inviò al papa la sinodica, la lettera con cui comunicava la propria elezione. La decisione di Gregorio II, che si rifiutò di riconoscere l'elezione del nuovo patriarca, causò una temporanea rottura delle relazioni tra Roma e Bisanzio. Il contrasto tra iconofìlia e iconoclastia, già latente prima dell'vIII secolo, irruppe nel 726 con la decisione di Leone III di distruggere l'effigie di Cristo - la Chalké, «la raffigurazione religiosa più rappresentativa dell'impero» 15 - collocata sulla porta di bronzo del palazzo imperiale a Costantinopoli e di sostituirla con una croce. Con questo gesto, furono inaugurati una serie di provvedimenti contro le immagini e il loro culto, che diedero vita a un'ondata di violenze contro le icone e contro coloro che le veneravano e difendevano. Il pensiero dell'imperatore, il cui spessore a livello di speculazione teologica è embrionale, affiora dall'iscrizione che fece collocare sotto la croce che sostituì la Chalké. Questa recitava: «Poiché Dio non sopporta che di Cristo venga dato un ritratto
Il concilio Quinisesto fu così definito per indicare la sua natura di completamento, a livello disciplinare, dei precedenti concili, Costantinopoli n e Costantinopoli rn, il v e VI concilio ecumenico. È noto anche come Trullanum perché si svolse nella sala a cupola del palazzo imperiale (trullos) di Costantinopoli. 12 Definizione del Concilio Quinisesto o Trullano Il, in D. MENOZZI, La Chiesa e le immagini. I testi fondamentali sulle arti figurative dalle origini ai nostri giorni, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, p. 84. 11
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L. UsPENSKIJ, La teologia dell'icona, cit., p. 59. Ivi, p. 60. 15 C. SCHONBORN, I.: icona di Cristo. Fondamenti teologici, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, p. 140.
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Le icone Acheropite di Cristo e la loro dimensione teologica
Il tratto cristologico dell'icona nella Tradizione dell'Oriente cristiano
privo di parola e di vita, e fatto di quella materia corruttibile che la Scrittura disprezza, Leone con il figlio, il nuovo Costantino, ha inciso sulle porte del palazzo il segno della croce, gloria dei fedeli» 16 • In questa fase iniziale di dibattito furono elaborate le basi teologiche per la legittimazione del culto delle immagini, in particolare da Germano di Costantinopoli, Giorgio di Cipro (t 750) e Giovanni Damasceno (675-750). Il punto centrale ·delle loro affermazioni era il tema dell'incarnazione di Cristo: rigettare le icone significava infatti negare la realtà del Logos incarnato. L'icona, ben lungi dall'essere paragonabile a un'idolatrica rappresentazione, al contrario, rappresentava e rappresenta una garanzia della realtà non illusoria dell'incarnazione divina: «Nei tempi antichi Dio, incorporeo e senza forma, non poteva essere raffigurato sotto nessun aspetto; ma ora, poiché Dio è stato visto mediante la carne ed è vissuto in comunanza di vita con gli uomini, io raffiguro ciò che di Dio è stato visto. Io non venero la materia, ma il Creatore della materia, che è diventato materi~ a causa mia, nella materia ha accettato di abitare e attraverso la materia ha operato la mia salvezza» 17 • Gli iconoclasti ritenevano infatti che la materialità delle icone fosse incapace di veicolare il contenuto divino: «Il culto delle immagini viene concepito come adorazione di materia morta, inanimata e opposto al vero culto dell'adorazione "in spirito e verità". Questo tratto di disprezzo della materia è uno dei connotati più chiari dell'iconoclastia» 18 . Il nesso tra la materia e Dio doveva essere ben declinato, ma non certamente rigettato a priori, perché Cristo si era fatto uomo nella carne e tramite la carne aveva salvato l'umanità.
raffigurazione di Cristo, senza contraddire il dogma calcedonese della perfetta unione in una sola ipostasi della natura umana e di quella divina, basandosi sul fatto che la vera immagine deve essere consustanziale al suo modello. Il manifesto della teologia iconoclasta è da ricercare soprattutto nella teologia di Costantino v. L'imperatore, che voleva «compromettere il culto delle immagini quale eresia crisiologica» 19 , fondò principalmente il suo rifiuto delle icone sul concetto di immagine consustanziale: «Ogni immagine è una copia del modello ... Per essere veramente immagine, deve essere uguale per essenza (consustanziale) a ciò che è raffigurato ... perché l'intero venga salvaguardato, altrimenti non è un 'immagine»20 • Tale modo di intendere come vera immagine soltanto quella in cui l'oggetto raffigurato è realmente presente limitò all'eucarestia l'unica vera e possibile immagine di Cristo. Il difetto della proposta di Costantino v stava nella sovrapposizione tra immagine e modello che, perdendo la propria specificità, si confondevano l'una nell'altra. Nella concezione di Costantino v si perde inoltre il concetto di «somiglianza»: «L'icona è un'immagine che testimonia una presenza di un ordine ben definito. [ ...] Essa opera un incontro nella preghiera, senza localizzare questa comunione nell'icona in quanto oggetto materiale, ma attraverso e con l'icona come veicolo della presenza. Qui l'Ipostasi "enipostatizza" non una sostanza (il legno, i colori) ma la somiglianza, e soltanto questa, non una tavola, è il luogo della presenza. Questa somiglianza è fondamentale per comprendere la vera natura dell'icona»21 • Gli iconoclasti, fissi in un'interpretazione riduttiva delle immagini, non riuscirono a cogliere il nucleo fondamentale del mistero dell'icona, ossia la rassomiglianza dinamica e allo stesso tempo misteriosa con il prototipo, che già il Damasceno aveva spiegato: «L'immagine è una copia che riproduce il modello originario avendo contemporaneamente anche una qualche differenza rispetto ad esso» 22 • Le possibili derive insite nel pensiero dell'imperatore Costantino v indussero i teologi del concilio di Hieria a spostare l'attenzione dal tema della consustanzialità tra originale e immagine a quello della materialità delle icone. La materia morta delle immagini oltraggiava, infatti, la gloria di Cristo e dei suoi santi, in quanto il «mondo materiale non è capace di riprodurre lo splendore del mondo spirituale»23 • Dalla svalutazione della materia derivò l'anatema verso coloro che si rivolgevano a tale pochezza per rappresentare Cristo: «Se qualcuno pone mano a cercare di cogliere con colori materiali la forma divina del Verbo di Dio incarnato, invece di adorarlo di tutto cuore con gli occhi dello spirito, lui,
3. La teologia iconoclasta di Costantino ve il concilio di Hieria Le posizioni teologiche iconoclaste trovarono nell'imperatore Costantino v (720-775) l'apice della propria elaborazione: l'imperatore, figlio di Leone III, permise infatti all'iconoclastia di vivere la sua fase più decisiva sia a livello teorico, sia a livello pratico, consentendo una campagna di repressione contro i difensori delle icone, in particolare i monaci. Impegnato personalmente sul piano teologico, erede di una tradizione comune agli imperatori d'Oriente, Costantino v compose un'opera dogmatica, le JtE'lJOELç, redatte nello stile delle «domande e risposte», che divenne il manifesto dottrinale iconoclasta, tanto da costituire la base teologica delle successive dichiarazioni del concilio iconoclasta di Hieria del 754. Il basileùs si proponeva di dimostrare l'impossibilità teologica della 16
Ivi, p. 141.
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GIOVANNI DAMASCENO, Discorsi, 1, 16, in Difesa delle immagini sacre, Città Nuova Editrice, Roma 1983 , pp. 45-46. 18 C. SCHONBORN, L'icona di Cristo. Fondamenti teologici, cit., p. 140.
28
19
Ivi, p. 151.
20
PG· 100, 216C , 225A,
21 22 23
228D, in ivi, p. 142 . P. EvDOKIMOV, Teologia della Bellezza. L'arte dell'icona, Edizioni Paoline, Roma 1984, p. 39. GIOVANNI DAMASCENO, Discorsi, I, 9, in Dzfesa delle immagini sacre, cit. , p. 39. C. ScHONBORN, J;icona di Cristo. Fondamenti teologici, cit., p. 146.
29
Le icone Acheropite di Cristo e la loro dimensione teologica
Il tratto cristologico dell'icona nella Tradizione dell'Oriente cristiano
che siede sul trono di gloria, alla destra del Padre, più sfolgorante del sole: sia anatema» 24 • Imperatore e concilio concordarono invece - ovviamente con linguaggi differentemente declinati - sull'impossibilità di circoscrivere in un'immagine la natura divina del Logos: sostenevano infatti che ciò che nell'icona «viene disegnato è l'unico "volto personale" (:rtQOOW:rtov) ma ne consegue che colui che circoscrive questo JtQOOWJtOV ha con ciò "circoscritto" anche la natura divina che è invece "incircoscrivibile"»25 . L'errato concetto di unione ipostatica in Cristo da cui muoveva la prospettiva iconoclasta determinò una falsa conclusione attorno al tema delle immagini. Costantino v, e con lui il concilio, riteneva che «Nostro Signore Gesù Cristo è un'unica persona (:rtQ6ow:rcov) a partire da due nature, l'immateriale e la materiale, mediante una unione inconfusa»26 . Ma questa definizione tradiva una posizione vicina al monofisismo, fuorviante rispetto al dettato calcedonese «in due nature, senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili»27 • Appare chiaramente che il problema delle immagini non era legato solo al culto e alla devozione, ma affondava le sue radici nella cristologia e in particolare nel tema dell'incarnazione: «Da parte ortodossa, la vertenza sulle icone fu connessa sin dall'inizio con la dottrina cristologica, prima ancora che i loro avversari ne fornissero l'occasione»28 . Gli iconoduli, che intravide~o il risvolto cristologico della discussione sulle immagini, declinarono la liceità delle immagini con la realtà dell'incarnazione. Il concilio di Hieria, organizzato per iniziativa di Costantino v, si svolse a Costantinopoli nel 754 e vide la partecipazione di 338 vescovi appartenenti solo a questo patriarcato. In questa assise si assegnò un carattere normativo alle accuse degli iconoclasti condannando la creazione di icone e il loro culto: «In nome della santa e consustanziale Trinità, principio di ogni vita, tutti noi, rivestiti della dignità sacerdotale, avendo raggiunto la medesima opinione, all'unanimità dichiariamo che ogni icona, di qualunque materia e colore, fatta con mendace arte dai pittori, sia rifiutata e ritenuta aliena e abominevole dalla Chiesa dei cristiani. Che nessun uomo osi più impegnarsi in un tentativo così scellerato ed empio»29 • Le definizioni conciliari evidenziano l'inconciliabilità tra l'icona, semplice oggetto materiale, e ciò che essa pretendeva di mostrare: «Costui fa un'icona e la chiama "Cristo". Ma "Cristo" indica ad un tempo Dio e uomo. Di conseguenza delle due l'una: o ha circoscritto l'incircoscrivibile carattere della divinità, secondo quel che sembrava buono alla sua fantasia, di-
segnando i contorni della carne creata, oppure ha confuso l'inconfusa unione, cadendo nell'iniquità del confusionismo»30 • Facendo propria la teologia dell'imperatore, secondo la quale una vera icona deve essere della stessa natura di colui che rappresenta, il concilio riaffermò che l'unica vera e possibile immagine di Cristo era l'Eucarestia: «È infatti lo stesso Dio e santissimo sacerdote che, quando assunse da noi tutta la nostra umana composizione, tramandò al momento della sua volontaria passione questa evidentissima icona ai suoi iniziati, affinché fosse una figura e un ricordo di lui. Infatti, mentre stava per offrirsi volontariamente alla sua morte memorabile e vivificante, preso il pane lo benedisse [ ... ]. Questo fece perché non c'era altra forma o figura sotto il cielo da lui voluta che potesse rappresentare la sua incarnazione. Questa è perciò l'icona del suo corpo vivificante che può essere fatta onestamente e correttamente»3 1. Le affermazioni del concilio di Hieria legittimarono dunque ufficialmente le posizioni iconoclaste, generando in negativo l'inasprirsi delle persecuzioni nei confronti di chi aderiva al culto delle immagini sacre, ma sollecitando in positivo la tematizzazione dei teologi iconoduli. Solo con l'ascesa al trono dell'imperatore Leone IV (775-780) ebbe inizio il progressivo allentamento della politica iconoclastica da parte degli imperatori, che si distese totalmente alla sua morte, quando l'impero fu lasciato al figlio Costantino (780-797) di appena dieci anni, la cui reggenza fu affidata alla vedova Irene (797-802), di spiccate simpatie iconodule. In hreve tempo Bisanzio fu soggetta a un~ inversione di rotta in materia religiosa e la crisi iconoclasta conobbe una svolta decisiva a tutti i livelli.
4. Il concilio di Nicea II come fondamento del carattere teologico-dogmatico dell'icona Il concilio di Nicea II o settimo concilio ecumenico, che ebbe luogo nel 787, non fu semplicemente il concilio a cui si deve la riabilitazione e legittimazione ufficiale del culto delle immagini sacre - «si tratta della più solenne e ampia chiarificazione circa la questione delle immagini che mai un concilio abbia dato»32 -, ma fu il concilio cardine per la teologia delle icone. Al concilio parteciparono tutti i rappresentanti delle cinque sedi patriarcali (Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme)3 3 e le dichiarazioni fi-
24
M ANSI 13, 277DE in ivi, p. 146. 100, 236C, in ivi, p . 154. 26 PG 100, 236C, in ivi, p. 151. 27 Simbolo di f ede di Ca/cedonia, in DS 302 , p. 169. 28 L. USPENSKIJ, La teologia dell'icona , cit., p. 78. 29 Definizione del Concilio di Costantinopoli (754), in D . MENOZZI, La Chiesa e le immagini. I testi/ondamentali sulle artifigurative dalle origini ai nostri giorni, cit., p. 101.
Ivi, p. 98. Jvi, p . 100. n C. Sc m'.'.>NBORN, !.:icona di Cristo. Fondamenti teologici, cit., p. 177. H Secondo alcuni studiosi è stata eccessiva l'enfatizzazione della presenza dei rappresentanti della pentarchia, dato che la maggior parte dei vescovi proveniva dall'area bizantino-costantino-
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Il tratto cristologico dell'icona nella Tradizione dell'Oriente cristiano
nali furono accolte, almeno a livello formale, da tutta la Chiesa. L'Oriente cristiano però considera il Niceno II come la radice della sua riflessione teologica e dogmatica sulle icone, il luogo dove furono poste le basi teoriche e pratiche per la legittimità del culto delle immagini sacre, il punto di non ritorno nella trattazione di questo tema, mentre l'Occidente, che ne accolse ufficialmente le decisioni, non le mise concretamente in essere. Tale discrepanza è certamente frutto di un differente approccio nei confronti delle icone - più didascalico ed estetico quello occidentale, più teologico e rivelativo quello orientale - e rispecchia anche il modo in cui la questione iconoclasta era stata vissuta nei due contesti. Le lotte iconoclaste avevano infatti devastato in toto il mondo bizantino, ma al contrario non avevano scalfito il mondo latino, se non a livello di sollecitazioni e risposte papali, e di accoglienza di molti monaci ortodossi che si rifugiarono in particolare nelle regioni meridionali italiane lasciando in eredità a queste terre dei patrimoni artistici di qualità. Al concilio confluirono interrogativi e provocazioni a cui i padri conciliari volevano fornire una risposta chiara e inoppugnabile. Suonava pesante il silenzio della Scrittura a proposito delle immagini e forte era il pericolo di non potersi ancorare a un passato autorevole, rischiando di apparire come inventori di un culto nuovo, che peraltro conteneva i germi di una possibile deriva idolatrica. Le dichiarazioni conciliari - che scegliamo di riportare interamente per permettere al lettore di coglierne appieno la portata - erano chiamate a muoversi nel solco della Tradizione, presentando la legittimità del culto delle icone come coerente e in continuità con la tradizione non scritta, ma altrettanto autorevole, della Chiesa. Tale obiettivo fu perseguito fin dalle prime battute:
Confermò questa promessa dicendo ai suoi discepoli: io sono con voi tutti i giorni, fino alla fin e del mondo. Ma questa promessa egli non la fece solo a loro ma anche a noi, che attraverso loro abbiamo creduto nel suo nome. Ma vi sono alcuni uomini che, incuranti di questo dono, stregati dagli inganni del nemico, hanno deviato dalla retta ragione e nella loro ribellione alla tradizione della Chiesa cattolica non hanno più raggiunto la conoscenza della verità. Come dice il proverbio, sono andati errando per i viottoli del proprio campo e hanno riempito le loro mani di sterilità perché hanno tentato di screditare le sacre immagini convenienti al culto di Dio. Essi pretendono di essere sacerdoti ma non lo sono, come dice il Signore per bocca del profeta: Molti pastori hanno devastato la mia vigna, hanno calpestato il mio campo. Al seguito di uomini che ascoltano solo le proprie passioni, hanno accusato la santa Chiesa, sposa del Cristo nostro Dio, e non hanno distinto tra il sacro e il pro/ano, mettendo sullo stesso piano le immagini di Dio e dei suoi santi e le statue degli idoli diabolici. Per questo il Signore Dio, non potendo più sopportare che i suoi fedeli venissero contagiati da una tale peste, ha convocato da ogni parte secondo la sua divina volontà noi vescovi mediante lo zelo fervente e l'invito di Costantino e di Irene, nostri fedelissimi imperatori, allo scopo di rafforzare con un voto comune la divina tradizione della Chiesa cattolica. Dopo ricerche e discussioni approfondite, con l'unico scopo di seguire la verità, noi né togliamo né aggiungiamo alcunché, ma conserviamo intatto il patrimonio dottrinale della Chiesa cattolica, nel solco dei sei santi concili ecumenici, e specialmente di quello riunito nella splendida sede metropolitana di Nicea e dell'altro celebrato più tardi nella città imperiale, che Dio protegge»34 •
«Il santo e grande concilio ecumenico per grazia di Dio e per decreto dei pii e cristiani nostri imperatori Costantino ed Irene, sua madre, riunito per la seconda volta a Nicea, famosa sede metropolitana della Bitinia, nella chiesa di santa Sofia, seguendo la tradizione della chiesa cattolica, definisce quanto segue. Colui che ci ha fatto dono della luce della sua conoscenza e ci ha liberati dalle tenebre e dalla stoltezza degli idoli, il Cristo nostro Dio, dopo aver fatta sua sposa la sua santa Chiesa cattolica senza macchia né ruga, promise di conservarla così.
Inserendosi nel solco della Tradizione ecclesiale non scritta, il Niceno II approvò l'esposizione delle icone per il culto, sia nelle chiese, sia nelle case, al pari di quanto era abitudine fare con la croce e gli altri oggetti sacri. Fu specificata inoltre la liceità del culto sia per le icone di Cristo, sia per quelle della Madre di Dio e dei santi. Il punto focale della trattazione che segue ruota attorno al peculiare rapporto che intercorre tra le immagini e il loro prototipo: il culto delle icone è legittimo perché la venerazione resa all'immagine passa al prototipo rappresentato. Alle icone dunque viene riconosciuta la straordinaria capacità di essere tramite effettivo del divino:
politana e furono solo due i presbiteri inviati da Roma come legati papali e due i monaci provenienti dagli altri patriarcati orientali, peraltro non autorizzati (cfr. K. S CHATZ, Storia dei Concili. La Chiesa nei suoi punti/ocali, EDB, Bologna 1999, p . 85). Bisogna tenere comunque presente che anche in altre assisi conciliari la rappresentanza dell'Occidente non fu mai pari, in termini numerici, a quella dei vescovi orientali (cfr. il concilio di Nicea del 325 dove i padri che vi parteciparono furon o quasi tutti orientali e l'Occidente fu rappresentato solo da cinque vescovi e d~e legati papali). Ciò che più interessa rispetto al Niceno II è la mancata ricezione pratica delle disposizioni conciliari in Occidente, peraltro accolte e messe in atto anche dalle altre sedi patriarcali orientali, pur non presenti ufficialmente al concilio.
32
«Noi intendiamo custodire gelosamente intatte tutte le tradizioni della Chiesa, sia scritte che orali. Una di queste riguarda la raffigurazione del modello mediante una immagine, in quanto si accordi con la lettera del messaggio evan-
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Conciliorum Oecumenicorum Decreta , cit., pp. 133 -134.
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Il tratto cristologico dell'icona nella Tradizione dell'Oriente cristiano
gelico, in qi.ianto serva a confermare la vera e non fantomatica incarnazione del Verbo di Dio e procuri a noi analogo vantaggio, perché le cose rinviano l'una ali' altra in ciò che raffigurano come in ciò che senza ambiguità esse significano. In tal modo, procedendo sulla via regia, seguendo la dottrina divinamente ispirata dei nostri santi padri e la tradizione della Chiesa cattolica - riconosciamo; infatti, che lo Spirito santo abita in essa - noi definiamo con ogni rigore e cura che, a somiglianza della raffigurazione della croce preziosa e vivificante, così le venerande e sante immagini, sia dipinte che in mosaico o in qualsiasi altro materiale adatto, debbono essere esposte nelle sante Chiese di Dio, sulle sacre suppellettili, sui sacri paramenti, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie; siano esse l'immagine del Signore Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, o quella dell'Immacolata Signora nostra, la santa Madre di Dio, dei santi angeli, di tutti i santi e giusti. Infatti, quanto più frequentemente queste immagini vengono contemplate, tanto più quelli che le contemplano sono portati al ricordo e al desiderio dei modelli originali e a tributare loro, baciandole, rispetto e venerazione. Non si tratta, certo, di una vera adorazione [À.CxtQda], riservata dalla nostra fede solo alla natura divina, ma di un culto simile a quello che si rende all'immagine della croce preziosa e vivificante, ai santi evangeli e agli altri oggetti sacri, onorandoli con l'offerta di incenso e di lumi secondo il pio uso degli antichi. L'onore reso all'immagine, in realtà, appartiene a colui che vi è rappresentato e chi venera l'immagine, venera la realtà di chi in essa è riprodotto. Così si rafforza l'insegnamento dei nostri santi padri, ossia la tradizione della Chiesa universale, che ha ricevuto il Vangelo da un confine all'altro della terra. Così diventiamo seguaci di Paolo, che ha parlato in Cristo, del divino collegio apostolico, e dei santi padri, tenendo fede alle tradizioni che abbiamo ricevuto. Così possiamo cantare alla Chiesa gli inni trionfali alla maniera del profeta: Rallegrati; figlia di Sion, esulta figlia di Gerusalemme; godi e gioisci; con tutto il cuore; il Signore ha tolto di mezzo a te le iniquità dei tuoi avversari; sei stata liberata dalle mani dei tuoi nemici. Dio, il tuo re, è in mezzo a te; non sarai più oppressa dal male, e la pace dimori con te per sempre. Chi oserà pensare o insegnare diversamente, o, seguendo gli eretici empi, violerà le tradizioni della Chiesa o inventerà delle novità o rifiuterà qualche cosa di ciò che è stato affidato alla Chiesa, come il Vangelo, la raffigurazione della croce, immagini dipinte o le sante reliquie dei martiri; chi immaginerà con astuti raggiri di sovvertire qualcuna delle legittime tradizioni della Chiesa universale; o chi userà per scopi profani i vasi sacri o i venerandi monasteri, noi decretiamo che, se vescovo o chierico, sia deposto, se monaco o laico venga escluso dalla comunione»35 •
Le dichiarazioni conciliari valorizzano in primis la Tradizione vivente della Chiesa che, pur non essendo scritta, è generata dallo Spirito Santo ed è in grado di fornire un'adeguata risposta alle accuse iconoclaste che, a partire dal silenzio della Scrittura sul culto delle immagini sacre, ne deducevano la loro illegittimità. La definizione tematizzò anche lo specifico legame che unisce le icone e i Vangeli. Già l'esortazione del Quinisesto a superare una rappresentazione simbolica di Cristo per favorirne una realistica, evidenziava la necessità di trasmettere la verità cristiana non solo tramite la Parola ma anche mediante un'immagine caratterizzata da un tratto non astratto e simbolico, ma concreto e reale. In continuità con il precedente concilio, il Niceno II evidenziò come sacra Scrittura e santa immagine si spiegano a vicenda. Le icone infatti trasmettono la rivelazione al pari dei Vangeli, certamente con la propria specificità, ma in modo complementare alla Scrittura: «Il concilio di Nicea II asserisce che la Scrittura e la santa immagine "si additano" e "si spiegano" reciprocamente. Un'unica testimonianza è espressa in due modi diversi: con la parola e con l'immagine, che comunicano entrambi la medesima Tradizione sacra e vivente della Chiesa»36 • Il nodo centrale del problema, che il concilio chiarisce, è l'intrinseca relazione tra le icone e l'incarnazione di Cristo: «La Chiesa afferma che l'icona è una conseguenza dell'incarnazione divina, si fonda su di essa e quindi appartiene inseparabilmente ali' essenza propria del cristianesimo»37 . Le immagini di Cristo infatti sono testimoni viventi dell'incarnazione del Logos e, dunque, non solo sono assolutamente legittime, ma addirittura necessarie affinché all'umanità giunga la pienezza della rivelazione di Dio. È il dogma fondamentale del cristianesimo che il concilio vuole salvaguardare da qualsiasi possibile negazione, seppur implicita: nel rifiuto delle icone si celava, infatti, la negazione dell'incarnazione di Cristo, che minacciava le fondamenta stesse del cristianesimo. Inoltre, per confutare qualunque dubbio sulla corretta natura delle icone, Nicea II distinse con precisione tra i concetti di venerazione (:rtQOOX'lJV'YJOLç) e adorazione (ÀatQda): le icone si possono venerare, ma la vera adorazione è riservata solo a Dio. Con questo chiarimento si respinsero le accuse iconoclaste di idolatrare le immagini sacre e quindi di cadere nel blasfemo. E ciò era possibile in forza della natura del nesso che lega l'icona al suo prototipo. L'icona infatti non è identica a ciò che raffigura, non coincide con Cristo, ma lo rappresenta nella verità storica della sua incarnazione. L'icona è in rapporto con la persona secondo il nome e non secondo la sostanza, la liceità dell'immagine deriva dal suo essere tramite nei confronti della persona che raffigura, in modo che l'onore
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Ivi, pp . 134-137.
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L. USPENSKIJ, La teologia dell'icona, cit., p. 91. Ivi, p . 6.
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che viene reso all'icona è in realtà offerto a coloro che rappresenta. Nell'icona il credente è chiamato a contemplare il mistero in una forma capace di cogliere la santificazione della materia operata dal mistero stesso, al fine di renderla atta a fare dell'estetica, intrinseca a forme e colori, il tramite efficace della «presenza» di Dio. L'affermazione mutuata dalla dottrina trinitaria di san Basilio - «l'onore reso all'immagine, in realtà, appartiene a colui che vi è rappresentato e chi venera l'immagine, venera la realtà di chi in essa è raffigurato» - permette di andare oltre la semplice legittimazione del culto delle immagini sacre, elevando l'icona a luogo teologico e dogmatico. Le definizioni conciliari, preparate dalla riflessione teologica di grandi Padri tra cui Germano di Costantinopoli, Giorgio di Cipro e Giovanni Damasceno, furono successivamente riprese e approfondite da teologi altrettanto noti quali Niceforo di Costantinopoli (806-815) e Teodoro Studita (758-826), che con i loro scritti produssero «quanto di meglio la Chiesa antica abbia prodotto su questo tema»38 . Nonostante le decisioni del Niceno II, che aveva gettato le basi per la legittimazione teologica del culto delle immagini sacre, l'imperatore Leone v l'Armeno (813 -820) nell'811 convocò un nuovo concilio nella Chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli, riabilitando le decisioni del concilio di Hieria e la dottrina iconoclasta, ma la legittimazione delle icone era ormai un punto di non ritorno per la Chiesa ufficiale. Le lotte iconoclaste si conclusero ufficialmente nell'843 con un concilio in cui furono riconfermate le decisioni e le definizioni del grande concilio del 787 e fu istituita la «Festa dell'ortodossia», a memoria della vittoria delle icone. In quell'anno fu anche ripristinata l'immagine di Cristo della Chalké dagli imperatori Teodora (500-548) e Michele III (842-867). Dall'epigramma scritto da Metodio I (843-847) , patriarca di Costantinopoli, si evince il mutato clima che finalmente permetteva di esprimere senza timori la posizione iconodula: «Essendo il Verbo del Padre, la tua natura è fuori del tempo, ma tu sei stato visto nel tempo, mortale attraverso la Madre. Descrivendoti dunque e rappresentandoti con segni, non descrivo la tua natura immateriale che è, essa, superiore all'immagine e alla sofferenza. Ma descrivendo la tua carne che ha sofferto, o Verbo, io dichiaro la tua natura divina indescrivibile»39 . La legittimazione ufficiale delle immagini sacre aprì la strada alla diffusione delle icone, favorì la riflessione teologica, il culto liturgico e l'opera degli icono- · grafi della Chiesa cristiana d'Oriente e rappresentò un terreno di incontro, più frequentemente di differenza, con la Chiesa latina.
Il tratto cristologico dell'icona nella Tradizione dell'Oriente cristiano
5. Il rapporto immagine-prototipo come nucleo del carattere teologico-dogmatico dell'icona Snodo fondamentale del culto delle icone è, come chiaramente espresso dal Niceno II, il vincolo tra immagine e prototipo. L'icona non è un semplice rimando al divino, piuttosto è essa stessa luogo in cui si rivela il divino. Nella singolare relazione che intercorre tra l'immagine e il prototipo rappresentato, si esprime in pienezza il carattere teologico-dogmatico dell'icona, imperniato in ultimo sul suo tratto «rivelativo»: «Che cosa significhi questo tratto rivelativo dell' arte sacra per l'Oriente emerge innanzitutto, come abbiamo già potuto vedere precedentemente, sia dalle dichiarazioni finali del concilio Quinisesto che da quelle del Settimo concilio: il primo, indicando come compito dell'immagine di Cristo la rappresentazione realistica della sua forma umana in una prospettiva tuttavia mirata a esprimere in pienezza il suo costituirsi come Dio, determina il superamento della rappresentazione simbolica di Cristo in favore di un'immagine capace di mostrare la verità; il secondo dal canto suo, pur distinguendo tra la venerazione da tributarsi all'immagine e l'adorazione da riservarsi a Dio, sottolinea invece come "l'onore reso all'immagine appartiene in realtà a colui che vi è rappresentato" e come "chi venera l'immagine venera la realtà di chi in essa è riprodotto ". Proprio questo tratto rivelativo dell'immagine cristiana, proclamato e difeso con forza dai concili di cui si è detto, finirà col giocare nei secoli successivi un ruolo chiave in merito allo sviluppo dell'arte sacra nello specifico contesto dell'Oriente cristiano»40 • È dunque il tratto rivelativo che consente all'immagine sacra di divenire il tramite, nell' hic et nunc della storia, della «presenza» dell'Eterno, imprimendo alla forma materiale dell'immagine una connotazione capace di esprimere la presenza spirituale di colui che essa rappresenta. L'icona riveste, nel contesto della teologia dell'Oriente cristiano, un carattere «forte»: essa è infatti capace di veicolare il rivelarsi d~ Dio, al pari della Scrittura. Al contrario, in Occidente manca strutturalmente l'idea di un'immagine rivelativa: l'immagine ha un carattere fondamentalmente illustrativo e didascalico, in ultimo «debole». Il risultato è quindi quello di un «dipinto a soggetto religioso»41 sostanzialmente limitato ad evocare in modo estrinseco i grandi misteri della fede cristiana. La definizione conciliare sul rapporto effettivo tra immagine e prototipo fu spiegata dalla teologia con riflessioni proprie da ciascun teologo. Germano di Costantinopoli metteva in evidenza la decisività del soggetto rappresentato nell'immagine: se l'immagine raffigura un falso Dio, essa stessa diventa un ido40
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C.
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G . GHARIB,
P.
L'icona di Cristo. Fondamenti teologici, cit., p. 183 . Le icone di Cristo. Storia e Culto, Città Nuova, Roma 1993, p. 23 .
B ERNARDI, I colori di Dio, cit., p. 66. Cfr. , tra gli altri, gli scritti sull'arte sacra di P. Evdokimov, P. Florenskij , V. Losskij , L.A. Uspenskij.
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Sc HONBORN,
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Il tratto cristologico dell'icona nella Tradizione dell'Oriente cristiano
lo, se invece si tratta di un'icona di Cristo, della Madre di Dio o di un santo, queste icone sono degne di venerazione in forza delle persone ritratte. Giovanni Damasceno introdusse nella spiegazione il concetto di partecipazione: «La somiglianza che, a seconda del suo grado, rende l'immagine più o meno perfetta, Giovanni la vede del tutto nella prospettiva della partecipazione. [. .. ] La partecipazione è realizzata nel modo più perfetto nell'eterno Figlio che è "di un'unica essenza con il Padre"»42 • Il patriarca Niceforo rivolse la sua attenzione alla differenza tra immagine naturale e immagine artificiale, che gli permise di combattere un'errata concezione mitica dell'immagine che rischiava di circoscrivere letteralmente il prototipo. Il patriarca evitò dunque un'idolatrica identificazione tra immagine e prototipo, che aveva peraltro provocato le accuse iconoclaste: «L'icona è chiaramente un'immagine artificiale. Essa somiglia alla natura ma non è della stessa natura del suo modello»43 • La venerazione dell'icona è vènerazione del soggetto che essa raffigura, e questo è realmente possibile perché «il modello archetipo è realmente presente nell'icona, ma si tratta di una presenza puramente personale, relazionale»44 • È il peculiare rapporto che sussiste tra il prototipo e l'immagine che spiega e illumina il carattere rivelativo dell'icona. È tanto intima la connessione tra esse da consentire all'icona di rendere presente colui o colei che raffigura. Questo tratto differenzia radicalmente l'icona dal «dipinto a soggetto religioso» tipico dell'arte occidentale che si impegna a riprodurre l' avvenimento o il personaggio che dipinge, ma senza la pretesa di renderlo presente. Pretesa che nel mondo ortodosso assume invece i tratti di un 'esigenza radicata nel cuore stesso delle icone: «Il tratto specificamente teologico dell'icona emerge così in tutta la sua portata: essa'non è semplicemente un 'immagine finalizzata a richiamare la memoria del credente a un qualche personaggio o evento della storia salvifica, e ancor meno il modo per far comprendere il mistero cristiano anche a coloro che non sono in grado di accedervi attraverso la parola. L'icona è invece l'attestazione sul piano dell'immagine, così come il Vangelo lo è sul piano della parola, dell'effettivo e reale compiersi in Gesù Cristo di quella rivelazione di Dio agli uomini senza la quale la fede cristiana risulterebbe del tutto vana»45 • Nell'icona non è il significante in quanto materia che è venerato, ma il significato rappresentato. Il legame tra l'icona e il suo prototipo non è quindi tributario della loro identità ma deriva piuttosto dalla rappresentazione della persona di cui l'icona porta anche il nome. Il carattere rivelativo dell'icona, la
sua capacità di rendere accessibile il divino sono tratti teologici che permettono alla Tradizione dell'Oriente cristiano di affidare un ruolo dogmatico all'icona: «L'icona è dunque, prima di tutto, realtà trinitaria invisibile, piena della luce dell'amore e della comunione trinitaria che si rivela agli uomini mediante l'incarnazione di Gesù nel suo Corpo che è la Chiesa. Per questo, come scriveJeanLuc Marion, "l'icona non è l'immagine del visibile ma dell'invisibile ". Ciò che si vede non appartiene alla definizione dell'icona ma alla sua economia storica. L'icona è partecipe della logica paradossale e apofatica della rivelazione del Dio trinitario. A differenza d'un quadro o di una foto , l'icona rende visibile l'immagine per il tramite dell'invisibile»46 • L'icona riesce a essere così efficacemente tramite verso il suo prototipo grazie all'incarnazione del Logos: «L'icona di Cristo, così come la conosce la tradizione orientale e tramite essa l'intero mondo cristiano, è tanto nella sua formula dogmatica, quanto nella sua forma artistica, una rappresentazione dell'umanità di Cristo, un'icona della sua incarnazione»47 • L'icona è capace di trasmettere larivelazione - «In principio Dio creò l'uomo a sua immagine: dipingendo un 'icona di Cristo, anche l'iconografo fa un"'immagine di Dio" perché questo è in verità l'umanità deificata di Gesù»48 - «il tratto comune di tutta la pietà delle immagini, propria della Chiesa orientale, è il convincimento che nell'icona Cristo stesso ci incontra»49 • L'icona, la cui natura è rivelativa, evita la deriva sacralizzante, consapevole di ricevere la propria sacralità solo per partecipazione. La teologia dell'icona è attenta a tutelare la distanza tra Dio e l'uomo: l'icona infatti svela qualcosa che continua a velare, la sua è una rivelazione antinomica perché manifesta e, al tempo stesso, nasconde l'identità di Dio. Questa antinomia appare con chiarezza nell'iconostasi, di cui larga parte dell'Occidente, in particolar modo a seguito del rinnovamento liturgico del concilio Vaticano II, stenta a capire il significato profondo, riducendola spesso a elemento architettonico da rimuovere per consentire a ogni fedele di sentirsi maggiormente coinvolto nel mistero che sull'altare si celebra. Al contrario, per l'Ortodossia l'iconostasi è la soglia che, segnalando il farsi prossimo del sacro, ad un tempo separa e unisce, porta attraversabile in entrambe le direzioni, luogo di singolare contatto tra il mondo dell'uomo e quello di Dio. In questa peculiare dinamica che intercorre tra immagine e prototipo, le icone Acheropite rivestono un rilievo assolutamente unico, in primo luogo per
I. IcA, Il cristianesimo orientale e l'icona, in AA.VV. , I.:immagine del divino nelle grandi tradizioni cristiane e nelle grandi religioni, M ondado ri , Milano 2005, p. 88. 47 Ivi, p. 94. 48 J. MEYENDORFF, La teologia bizantina. Sviluppi storici e temi dottrinali, Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 63 . 49 C. Sc Hé'.>NBORN, L'icona di Cristo. Fondamenti teologici, cit., p . 175.
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43 44
45
P. B ERNARDI, I colori di Dio, cit., p . 171. Ivi, p. 187. Ivi, p. 201. Ivi, p. 77 .
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Il tratto cristologico dell'icona nella Tradizione dell'Oriente cristiano
il soggetto che rappresentano, ma specialmente perché create direttamente e volontariamente da Cristo, che dichiara concreto ed eterno, oltre che voluto da Dio stesso, il legame tra la venerazione dell'immagine e la venerazione del soggetto rappresentato: «Colui che è assolutamente inaccessibile alla creatura, che non è descrivibile e rappresentabile in alcuna maniera, diventa descrivibile e rappresentabile assumendo la carne dell'uomo. L'icona di Cristo, del DioUomo, esprime in immagine il dogma di Calcedonia»5°.
di una globale espressione di quest'ultimo, non può assolutamente prescindere dall'immagine. [ ... ] La percezione neotestamentaria della rivelazione divina non può quindi limitarsi, secondo Uspenskij, all'ascolto della parola. Diventa invece di primaria importanza l'immagine che, in quanto novità neotestamentaria, garantisce della completezza e dell'efficacia della contemplazione del mistero divino offerto all'uomo dalla liturgia»52 . È letteralmente impossibile pensare una liturgia senza icone perché a prescindere da essa non si «esprime l'insegnamento, l'esperienza ascetica e la liturgia comune a tutta la fede ortodossa»53 . Certo l'icona non è un sacramento, e tuttavia è ontologico il nesso che l'icona di Cristo stabilisce con il sacramento: entrambi infatti sono una manifestazione del medesimo Corpo di Cristo, misteriosamente «presente» in modo reale nel sacramento e altrettanto misteriosamente «rappresentato» sul piano della «visibilità» nell'icona. Le icone, che nascono nel e dal contesto dogmatico, trovano dunque la loro massima espressione nel contesto liturgico. Le icone, che hanno certamente una dimensione estetica, sono essenzialmente teologia: è «l'ispirazione divina il principio stesso dell'arte liturgica»54. Esse non si limitano a farsi considerare opera d'arte e neppure possono tollerare un approccio puramente devozionale, perché il carattere teologico è connaturale ad esse. La teologia e la dogmatica sono gli autentici ambiti capaci di esprimere in pienezza il senso dell'icona come tramite in grado di «divinizzare» l'uomo attraverso una contemplazione effettiva del divinq già nel qui e ora della storia. La sottolineatura del carattere teologico dell'icona, per l'Oriente cristiano, si radica - come già delineato nello spiegare il dettato del Niceno II - nell'analogia che l'icona stessa presenta con la Scrittura: se quest'ultima infatti costituisce l'attestazione della rivelazione attraverso la parola, la prima costituisce l' attestazione della rivelazione attraverso l'immagine. Per l'Ortodossia la rivelazione risulta attestata compiutamente solo dall'interagire di parola e immagine, in una prospettiva che, se per un verso le pensa come complementari, per l'altro le considera come autonome l'una dall'altra, dato che le modalità espressive di ciascuna di fatto non risultano identiche. La duplice presenza del Vangelo e delle icone sull'altare e nella celebrazione delle funzioni liturgiche ne è una dimostrazione palese: le icone non sono affatto funzionali alla parola, ma attestano e veicolano la rivelazione. Il loro compito infatti è quello di manifestare il mistero del farsi carne del Logos con una specificità propria, capace di eguagliare l'efficacia della parola in una forma tuttavia ad un tempo differente da essa e ad essa complementare.
6. /;implicazione liturgico-rivelativa del tratto teologico-dogmatico dell'icona
L'arte ortodossa esiste per la liturgia e vive della liturgia. Ogni elemento della Chiesa cristiana orientale - spazio architettonico, icone, canto liturgico paramenti e vasi sacri - esprime il proprio autentico significato solo nel contesto della celebrazione dei Misteri divini. Le icone sono parte viva della Chiesa ortodossa: basti pensare all'iconostasi che accoglie imponente colui che entra e avvolge il fedele all'interno della storia della salvezza che essa riattualizza. La complessa armonia dell'iconostasi testimonia al fedele il ruolo centrale delle icone nella liturgia, ruolo che è confermato dalla partecipazione delle icone alle solenni processioni, dalla loro presenza sull'altare accanto ai Vangeli e da una serie di liturgie e gesti devozionali che si svolgono di fronte ad esse. Come già accennato, la ricca liturgia ortodossa utilizza ampiamente le icone, non semplicemente in modo accessorio né solo didascalico, come invece avviene nella liturgia cattolica. Il ruolo delle icone nella Tradizione dell'Oriente cristiano è di tale importanza da non poter pensare né tanto meno comprendere la stessa liturgia senza di esse. Nel contesto liturgico l'icona trova l'orizzonte più proprio e specifico sul quale stagliare la propria capacità di mettere in contatto il fedele con il prototipo rappresentato, aprendo l'accesso al soprannaturale in una forma capace di coinvolgere nella rivelazione divina, attraverso il senso della vista, l'intera sensibilità dell'uomo. La maggior parte delle icone ortodosse sono state del resto dipinte per essere collocate all'interno delle chiese: «Le icone ortodosse sono concepite essenzialmente per le chiese, dove vivono in rapporto alla Liturgia»51. Se dunque l'azione liturgica tralasciasse il suo legame con l'icona non riuscirebbe a restituire la pienezza della novità della rivelazione di Cristo: «L'azione liturgica, come anticipazione del Regno e nella prospettiva 50
lvi, p. 102.
«Orthodox icons are intended m ainly for churches, where they exist in the contex t of the Liturgy», in I. Y AZYKOVA, H. L UKA (KOLOVKOV), The theological principles o/ icon and iconography, cit. , p . 26. ll
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P. B ERNARDJ, L'icona. Estetica e teologia, Città Nuova, Roma 1998, p. 56.
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L. U SPENSKJJ, La teologia dell'icona, cit. , p. 131. lvi, p. 15.
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L'icona, elemento dinamico e costitutivo del culto stesso, ha il peculiare compito di manifestare la rivelazione in una forma che rispetti quello che viene definito il «doppio realismo dell'immagine sacra». Questo duplice realismo deve mantenere in equilibrio due aspetti essenziali e imprescindibili: «L'icona, per svolgere adeguatamente il ruolo che la Chiesa d'Oriente le attribuisce, se per un verso non potrà prescindere dalla fedeltà alla realtà visibile e alla storia, per l'altro non potrà mai perdere di vista che proprio in questa realtà visibile e in questa storia si è manifestata quella realtà visibile e quell'eternità che l'icona è chiamata in ultimo a rendere presente»55 . L'icona rende possibile il legame unico tra il credente e Colui che è rappresentato in forza del suo essere fedele interprete del dogma dell'incarnazione, nel quale trascendenza e immanenza misteriosamente convergono. Questo le conferisce uno spazio e un ruolo determinanti nelle celebrazioni liturgiche che la teologia occidentale non concepisce. L'icona concorre così a realizzare lo scopo primario della liturgia: mettere in contatto il fedele con Dio. Essa rende infatti accessibile all'uomo il mistero del farsi uomo di Dio in Cristo, in una forma visiva che ne dice tutta la concretezza. Nella visibilità dell'immagine ad essere reso presente, attraverso il dischiudersi dell'eternità nel tempo, è il Dio invisibile. La venerazione delle icone si fonda sulla fede nella presenza dei soggetti raffigurati, assicurata alle immagini sacre dalla Chiesa in forza del rito di benedizione dell'icona, che crea il presupposto del misterioso incontro tra colui che prega e il soggetto su cui si riversa la venerazione e la preghiera. Altrettanto indicative del carattere liturgico-rivelativo dell'icona risultano essere le fasi iniziali e finali della «scrittura» dell'icona. La fase pittorica iniziale è chiamata infatti «apertura» perché, come la Scrittura deve essere aperta per leggervi la rivelazione di Dio, così anche l'icona si deve aprire per scrivervi la storia della salvezza. L'operazione conclusiva, l' «iscrizione», è il momento in cui l'iconografo scrive il nome del personaggio o della festa rappresentata nell'icona, suggellando così la fedeltà dell'icona al prototipo. La benedizione finale rende infine quel legno dipinto ciò che l'Occidente definirebbe un «sacramentale», cioè un segno vivo della presenza di Dio capace di veicolare la grazia divina. L'immagine costituisce quindi una reale professione di fede grazie al carattere dogmatico dell'arte sacra ortodossa che nelle icone raggiunge il suo culmine e la sua più alta manifestazione. L'estremizzazione del carattere teologico-dogmatico dell'icona fu alla base del gesto assolutamente esecrabile di alcuni sacerdoti che, nell'epoca immediatamente precedente il dilagare delle lotte iconoclaste, grattugiavano il legno dell1icona nel calice del vino durante la celebrazione eucaristica. Pur nella sua ambigua deriva, tale gesto svela la rilevanza che l'icona rivestì nell'Oriente cri-
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P.
B ERNARDI ,
I colori di Dio, cit., pp. 82-83.
Il tratto cristologico dell'icona nella Tradizione dell'Oriente cristiano
stiano, giocando un ruolo tanto significativo sul piano della «presenza» da rischiare addirittura di essere assimilato all'Eucarestia. A prescindere comunque da questi eccessi che anche ai difensori delle icone suonavano come tali, rimane nella Tradizione dell'Oriente cristiano la viva consapevolezza che le icone non siano semplicemente oggetti di devozione o «aiuti» alla preghiera, ma si configurino invece come vero e proprio tramite, luogo, finestra, xmg6ç dell'incontro del fedele con Dio, con la Madre di Dio o con il santo che rappresentano. L'intrinseca funzione rivelativa dell'icona esige, inoltre, che essa si attenga a precisi canoni, che le permettono di preservare il suo carattere attestativo. Questo spiega l'importanza del «canone iconografico», inteso come regola ecclesiale che permette di garantire la fedeltà al messaggio teologico e dogmatico che l'icona deve trasmettere. La Tradizione definisce e tramanda i canoni da cui l'iconografo non può allontanarsi, senza rischiare di cadere in gravi errori, poiché non è la sua personale verità che deve emergere ma la Verità di Dio veicolata dalla Tradizione. Non sarà quindi rilevante la persona che «scrive l'icona» perché questa è come un profeta che annuncia il messaggio di Dio: egli deve annunciare, ma catalizzando tutta l'attenzione sul messaggio che rivela, ponendosi al servizio della comunità cristiana. Questo spiega sia la mancanza di firma dell'artista sulle icone, sia l'obbedienza ai canoni iconografici tanto puntuale da insinuare il dubbio che l'icona finisca con l'essere ripetitiva e poco creativa. L'intento dell'iconografo, caratterizzato da un anonimato impensabile in Occidente, sarà dunque quello di trasmettere la rivelazione in modo conforme alla Tradizione ecclesiale, preoccupandosi di lasciar emergere in forme e colori la forza del mistero che egli si impegna a rappresentare, e non angustiandosi affatto per l'ombra in cui il suo pur decisivo operare permane. Se l'arte occidentale, in particolare durante il Rinascimento, ha guardato con sospetto a queste restrizioni artistiche, esse vanno invece lette all'interno di precisi e attenti meccanismi volti a tutelare l'autenticità e il carattere teologico delle icone. Il loro ruolo di rivelazione del Dio invisibile, la loro capacità di mettere in contatto con coloro che rappresentano, la loro implicazione liturgica, richiedono una viva attenzione a regole ben precise. Simili direttive, accompagnate da un'incessante preghiera, da digiuni, ascesi e continue meditazioni sul mistero divino · non erano sentite dagli iconografi come un ostacolo, bensì come un aiuto nel realizzare un'icona destinata ad essere tramite del divino: «I maestri seguivano la tradizione in modo del tutto naturale, senza neanche esserne consapevoli e senza mai sentire questo fatto come un intralcio al loro potere creativo»56 . La capacità dell'icona di esprimere il mistero fu, infine, rimarcata dal gesto di mostrare le immagini sacre ai pagani che avanzavano il desiderio di conosce-
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P. EvooKIMOV, Teologia della Bellezza, cit. , p. 212.
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Il tratto cristologico dell'icona nella Tradizione dell'Oriente cristiano
re i cardini del cristianesimo. Non li si iniziava con discorsi filosofici bensì li si avvicinava alle icone, efficaci tramiti della rivelazione: «Dimmi o uo~o: se qualcuno dei pagani viene a trovarti e ti dice: "Mostrami la tua fede perché anch'io possa credere" che cosa gli mostrerai? Non lo eleverai forse dal sensibile all'invisibile? .. . Portalo in una chiesa .. . mettilo di fronte alle sante icone»57 •
È il mistero dell'incarnazione che legittima l'esistenza dell'immagine di Cristo e proprio in quest'icona l'Oriente cristiano testimonia e confessa in maniera singolare questo dogma. Solo nel Logos incarnato Dio si mette totalmente a disposizione dell'uomo offrendogli l'occasione di vederlo, di incontrarlo e, parallelamente, solo nel volto di Cristo e nel suo modo di vivere e morire si rivela il vero volto di Dio: «È l'incarnazione del Verbo a rendere possibile la visione e la conseguente rappresentabilità di ciò che prima permaneva radicalmente invisibile. La rivelazione cristiana infatti permette all'uomo di vedere nel Verbo incarnato l'unico volto di Dio[ .. .]. Attraverso l'incarnazione del Verbo dunque la contemplazione del volto di Dio non rimane più una ricerca vana, ma diviene per l'uomo una possibilità reale» 61 . L'icona di Cristo rappresenta il Verbo incarnato nell'effettività del suo essere divenuto uomo tra gli uomini. E questo non nella forma idolatrica di una rappresentazione della divinità di Cristo e neppure in quella riduttiva di una rappresentazione della mera carne da lui assunta con l'incarnazione, ma piuttosto secondo modalità mirate a rappresentare in un'ottica ipostaticamente unitaria la pienezza del suo costituirsi come Verbo incarnato: la pienezza di un manifestarsi di Dio che rende possibile all'uomo, attraverso la carne divinizzata del Verbo, di essere afferrato dallo sguardo divinizzante di Dio. Nell'accentuazione dell'identità personale di Gesù con il Figlio di Dio fatto uomo si dischiude l'inedita possibilità di un'immagine di Cristo stesso: «La persona di Gesù Cristo, in cui umanità e divinità permangono senza confusione o cambiamento, senza divisione né separazione, diventerà così l'unico volto possibile di Dio. Di conseguenza, esclusivamente l'icona di Cristo, nella sua radicale fedeltà al prototipo di cui porta il nome stesso, potrà costituire per l'Ortodossia l'adeguata rappresentazione del volto di Dio»62 . Nel mistero dell'incarnazione, infatti, la Divina Parola - come amano chiamare gli ortodossi Gesù Cristo - si è fatta carne l'Invisibile e l'Inaccessibile è diventato Visibile e Accessibile all'umani' tà: «Il Creatore Onnipotente del cielo e della terra, il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, che parlò con Mosè sul Sinai e convocò i profeti, il divino Logos apparve sulla terra in Gesù Cristo, vero uomo e vero Dio»63. L'attestazione della Scrittura, che narra con stupore e sobrietà il miracolo dell'incarnazione del Verbo, trova così un suo corrispettivo nella testimonianza dell'icona. Scrittura e immagine attestano l'incarnazione: il «canone scritturistico» e il «canone
7. J;icona di Cristo come prototipo di ogni altra icona
Il tratto teologico-dogmatico delle icone si mostra evidente nell'icona di Cristo, archetipo e modello di ogni possibile icona, attestazione imprescindibile dell'effettività della sua incarnazione: «La posta in gioco apparve da subito enorme: quando nella cultura cristiana si pone il problema dell'immagine, in ultimo non si dibatte di rappresentazioni qualsiasi, ma della possibilità di raffigu rare, con mezzi materiali quali le forme e i colori, nientemeno che l'"immagine di Dio ". [ .. .] Il nocciolo duro dello scontro verterà non tanto sul valore narrativo, né sulla funzione estetica di abbellimento delle chiese, quanto sulla pretesa ostensiva e rivelativa che l'immagine viene ad avere quando pretende di essere un canale di comunicazione tra l'umano e il Divino»58 . La rappresentabilità iconica di Cristo, come ben spiega Giovanni Damasceno nei suoi Discorsi sulle immagini sacre, si configura come conseguenza irrinunciabile dell'autenticità della sua incarnazione. Negare dunque la rappresentabilità di Cristo significherebbe negare la sua visibilità e, a seguire, l'effettività e l'autenticità dell'incarnarsi stesso del Verbo di Dio: «Gli apostoli videro corporalmente il Cristo [ ... ]. Ma noi, poiché egli non è presente corporalmente, attraverso i libri udiamo le sue parole [. .. ] così, allo stesso modo, attraverso la pittura delle immagini contempliamo l'effigie della sua immagine corporea[ . ..]. Contemplando la sua figura corporea noi consideriamo per quanto è possibile anche la gloria della 59 sua divinità» . La tenace difesa delle immagini sacre fa dunque leva sul nesso incarnazione-icona: «L'icona è una garanzia della realtà non illusoria dell'incarnazione divina. Ecco perché la Chiesa afferma che la negazione dell'icona di Cristo equivale alla negazione della sua incarnazione, cioè di tutta l'economia della nostra salvezza. Difendendo le immagini sacre, la Chiesa non ne difende soltanto la funzione didattica o il valore estetico; si tratta del fondamento medesimo della fede cristiana. Ciò spiega la fermezza degli ortodossi nella difesa dell'icona, la loro intransigenza e la loro disponibilità a qualsiasi sacrificio»6o.
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P. BERNARDI, I.:icona. Estetica e teologia, cit. , p. 90. Ivi, p . 91. 63 «The Almighty Creator of H eaven and hearth, the God of Abraham, Isaac and Jacob, who spoke with Moses on Mount Sinai and summoned the p rophets, the Divine Logos, appeared on earth as the God-man Jesus Christ», in I. YAZYKOVA, H . LuKA (KOLOVKOV), The theological principles o/ icon and iconography, cit., p . 11 . 62
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Contro Costantino Cabal, in ivi, p. 50. G . LlNGUA, I.:icona, l'zdolo e la guerra delle immagini, Medusa, Milano 2006, p. 10. GIOVANNI DAMASCENO, Dz/esa delle immagini sacre III, 12, cit., p. 122. L. UsPENSKIJ, La teologia dell'icona, cit. , p. 79.
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iconografico» sono rispettivamente la garanzia dell'affidabilità autonoma e complementare della loro attestazione. Come nella Parola, così nell'immagine è presente la dimensione apofatica: anche l'immagine infatti rivela il mistero dell'incarnarsi del Verbo di Dio in una forma che, pur nel palesarsi addirittura visivamente, resta in ultimo inafferrabile nella sua essenza. Emblematico a questo riguardo è il riferirsi decisivo dell'icona all'episodio della Trasfigurazione: in esso infatti il corpo di Cristo, da un lato, è pervaso dalla divinità che illumina e trasfigura l'umanità, dall'altro, in questa umanità, resta irriducibilmente radicato al punto che il suo corpo lascia risplendere la divinità senza tuttavia perdere la propria specificità. L'iconografo quindi, pur attenendosi ai canoni iconografici dettati e custoditi dalla Tradizione, ha la chiara coscienza che l'immagine da lui creata sarà sempre inadeguata rispetto a ciò che rappresenta. Egli crescerà dunque sulla strada della sua arte imparando dalla Trasfigurazione: consapevole di vivere metaforicamente quanto è accaduto in quell' episodi.o , potrà «scrivere» un'icona il cui onore andrà al soggetto da lui rappresentato, senza tuttavia mai cadere nel peccato di credere che le sue forme e i suoi colori possano circoscrivere l'inaccessibile divinità di Dio. · Se l'icona in generale è una finestra sull'eternità, l'icona di Cristo è il prototipo di tutte le altre icone. In questa prospettiva di attestazione dell'incarnarsi autentico del Verbo, le icone Acheropite giocano un ruolo ancora più emblematico e determinante: il loro non essere generate da un 'azione artistica frutto delle mani dell'uomo, ma al contrario il loro scaturire da eventi straordinari, legati all'azione diretta di Cristo, le accredita come segni evidenti e persuasivi della consistenza dell'incarnazione. Fu Cristo stesso a lasciare volontariamente e liberamente i tratti del proprio volto, a conferma dell'opportunità data agli uomini di contemplare, custodire, venerare, riprodurre la sua immagine. Ogni icona dischiude il contatto con il divino: in questo rapporto unico, gli Acheropiti di Cristo giocano un ruolo ancor più rilevante poiché veicolano il divino in una forma peculiare e salvifica. Essi, destinati owiamente a venir meno nell'eternità, ora emanano la presenza dell'eternità nel tempo. L'Acheropita è in sintesi, secondo la Tradizione dell'Oriente cristiano, un tramite privilegiato attraverso cui Dio si manifesta all'uomo, lo santifica e deifica. Tutto ciò giustifica la fedeltà all'originale nella riproduzione dei tratti del volto del Salvatore: «Tutte le icone di Cristo danno l'impressione d'una somiglianza fondamentale, si riconoscono immediatamente, ma questa somiglianza non è ritrattistica» 64 .
Capitolo secondo GLI ACHEROPITI
1. Gli Acheropiti: definizione preliminare Per un'adeguata e approfondita comprensione degli Acheropiti più importanti, cui per un verso rimanda la Tradizione dell'Oriente cristiano e per l'altro quella latina, è opportuno procedere sia sul piano terminologico, sia su quello storico, artistico ed estetico, evidenziando come la corretta comprensione di queste immagini passi tuttavia esclusivamente attraverso una riflessione speculativa che ne metta in luce l'irriducibile fondamento teologico. Risulta chiara la definizione terminologica degli Acheropiti: «Come termine tecnico ÙXHQOJCOLrJt0ç equivale a prodigioso, non fatto da mano d'uomo, e indica immagini di Cristo e di Maria o di Santi non rappresentate con l'opera di mano d 'uomo» 1. L'elemento straordinario è in primo piano: a differenza delle icone nate dalla «scrittura» di un iconografo, le immagini Acheropite sono invece il risultato di un intervento diretto divino che, nel caso degli Acheropiti di Cristo si connota come una sua eccezionale autorivelazione. L' a~gettivo XELQOJCOLrJtOç fu attestato a partire da Erodoto che, con questo termine, mise in risalto il contrasto tra l'opera eseguita dall'uomo e il prodotto della natura. Tale parola fu in seguito ripresa dalla Bibbia dei LXX per tradurre l'ebraico 'elil: «N ell' A. T. il sostantivo 'elfl è usato quasi esclusivamente al plurale ed è tipico del vocabolario polemico con cui l' A.T. esprime il proprio ironico disprezzo per l'idolatria>>2. Il termine, tradotto spesso dai LXX con XELQOJCOLrJtOç, è usato sempre in senso spregiativo, tanto che alcuni studiosi _ritengono addirittura che il termine ebraico fu forgiato appositamente per demgrare Nuovo Dizionario Patristico e di antichità cristiane, vol. A-E, Marietti 1820, Genova-Milano 2006, p. 53 .
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P.
E VDOKIMOV,
Teologia della Bellezza. !.:arte dell'icona , cit., pp. 50-51.
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Grande Lessico dell'Antico testamento, voi. I , Paideia,
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N:J -
l?il, Brescia 1988, p. 609.
Le icone Acheropite di Cristo e la loro dimensione teologica
Gli Acheropiti
l'idolatria dei popoli «altri» rispetto a Israele. Questa unicità spiegherebbe perché «tutti i tentativi di stabilire filologicamente una derivazione linguistica di 'lil dalle lingue degli altri popoli dell'Antico Oriente incontrano una difficoltà fondamentale: questi popoli non conoscono una polemica teologica che, come quella ebraica, ridicolizzi gli altri dei e ne neghi l'esistenza divina»3 . Fu in particolare il profeta Isaia, e coloro che nei testi posteriori si collocarono nell'ambito della tradizione gerosolimitana, ad adoperare il termine 'elfl. Nei passaggi ad essi riferiti si sottolinea una costante caratteristica della storia del popolo ebraico: gli idoli sono indiscutibilmente il frutto delle mani dell'uomo - «Il suo paese è pieno di idoli, adorano l'opera delle mani delle proprie mani, ciò che hanno fatto le loro dita» 4 -; questi non hanno alcun valore e saranno distrutti da Dio stesso: «Gli idoli spariranno del tutto»5 • Il vocabolo ha quindi una duplice valenza: è usato sia per sbeffeggiare gli idoli sia, per contrasto, per far risaltare la grandezza e la potenza di Jahvè. In questo contesto polemico, fu declinato anche il tema del rapporto idolo-immagine. Un passaggio di Levitico identifica la polemica contro gli idoli con quella contro le immagini: «Non vi farete idoli, né vi erigerete immagini scolpite o stele, né permetterete che nel vostro paese vi sia pietra ornata di figure, per prostrarvi davanti ad essa, poiché io sono il Signore vostro Dio»6 . Il termine XELQOJtOLT]toç si incontra anche nel Nuovo Testamento dove «sottolinea sempre il contrasto fra l'opera delle mani dell'uomo e l'opera di Dio»7 . Solo nella Lettera agli Ebrei al cap. 9 nei versetti 11 e 24 viene però utilizzato il termine / . Secondo la versione fornita da Macario di Magnesia nell'Apocritico, apologia della fede scritta intorno al 410, Berenice era invece una principessa di Edessa, probabilmente figlia del re pagano Abgar, che soffrì di emorragia e fu sanata da Gesù8 • A giudizio del retore bizantino Giovanni di Antiochia (vn secolo), Berenice era una donna emorroissa originaria di Paneas. Giovanni, utilizzando uno stratagemma letterario, fece deporre in prima persona Berenice, la quale raccontò commossa la miracolosa guarigione ricevuta. Secondo questa versione, la statua sarebbe nata dalla richiesta che la donna inoltrò al re Erode, di passaggio dalla città di Paneas. Berenice, infatti, avrebbe spiegato al re sia la propria malattia, sia i numerosi tentativi compiuti per essere guarita, esprimendo il desiderio di innalzare una statua in segno di riconoscenza a Cristo, l'unico in grado di sanarla: «A lui [Erode] si avvicinò una donna ricchissima, che abitava nella città di Paneas, di nome Berenice, che, guarita da Gesù, intendeva innalzargli una statua: tuttavia non volendo farlo senza il permesso regale, presentò al re Erode una supplica, chiedendo di innalzare nella città una statua a Cristo salvatore. [. .. ] La stessa Berenice, quella che prima era sofferente di emorragia, nel mezzo della città di Paneas, innalzò al Signore nostro e Dio Gesù Cristo una statua di bronzo, battuto a fuoco, mescolato con una parte di oro e una di argento. Questa statua è rimasta a Paneas fino ai nostri giorni, trasferita da molto tempo dal luogo in cui si trovava, al centro della città, in un sacro luogo di preghiera. Trovarono questo documento sempre a Paneas presso la casa di un certo Basso, che da giudeo si era convertito al cristianesimo»9 . Interessante il rimando finale all'esistenza di un documento scritto che confermerebbé la realtà storica di un avvenimento che fu successivamente ritenuto da molti leggendario 10 . La tesi
Cfr. Parte prima, Capitolo secondo, § 3. La conferma dell'abbattimento della statua da parte dell'imperatore Giuliano fu fornita, in epoca successiva, anche da Giorgio Monaco (sec. IX) che, nella sua opera di cronistoria il Chronicon, raccontò come i cristiani ricomposero la statua distrutta e la collocarono in una chiesa per venerarla. FlLOSTORGIO, Historia ecclesiastica VII, 18, 1-4, in T.M. D E BLASIO, Veronica. Il mistero del Volto, Città Nuova, Roma 2000, p. 25. Matteo 9,20-22; Marco 5 ,2 1-34.
Entrambe le recensioni dell'Anafora di Pilato governatore sul nostro padrone Gesù Cristo mandata a Cesare Augusto in Roma contengono il racconto del miracolo della guarigione dell'emorroissa (cfr. Apocrifi del Nuovo Testamento. Voi. 1. Vangeli, cit., pp. 742-747). 7 Acta Pilati 7, in T.M. DE BLASIO, Veronica. Il mistero del Volto, cit., p. 30. La versione di Macario differisce dalle altre perché ritiene Berenice una regina edessena, spostando così a Edessa anche la statua di Cristo. Tale versione non ebbe però seguito. 9 GIOVANNI MALALAS, Chronographia x, 236, 17-240, 2, in zvi, p. 27. 10 Una prova della reale esistenza della statua si evince anche dalle cronache ufficiali, in cui è riportata l'usanza, diffusa nel VI secolo, di mostrare ai pellegrini la statua di Cristo collocata nella chiesa di Paneas (cfr. V. KuRYLUK, Veronica. Storia e simboli della «vera immagine di Cristo», Donzelli Editore, Roma 1993, p. 67).
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L'attenzione dell'Occidente alle icone Acheropite di Cristo
La venerazione del Santo Volto «della Veronica» in Occidente
dell'identificazione dell'emorroissa con la donna di Paneas è sostenuta anche da una delle due versioni 11 dell'Anafora di Pilato - un'opera frutto di rielaborazioni di testi precedenti databile probabilmente nel VII secolo d.C. - dalla quale si ricava l'indicazione sulla città di provenienza dell'emorroissa: «Una donna perdeva sangue da molto tempo. A motivo di tale perdita, spuntavano le sue ossa e brillavano come vetro, tanto che tutti i medici la dichiaravano disperata e l'avevano abbandonata, non restandole più alcuna possibilità di salute. Un giorno, mentre Gesù passava, lei allungò dietro di lui la sua mano e toccò l'estremità dei suoi abiti: nello stesso istante ritornò il vigore nel suo corpo. Si sentì sana e salva, come se non avesse avuto alcun male, e si mise a correre verso casa sua, nella città di P~nea» 12 • La vicenda della donna di Paneas si diffuse in modo così capillare che fu utilizzata perfino dal patriarca Niceforo di Costantinopoli, durante la seconda ondata iconoclasta. Questi, riprendendo un'omelia di Asterio di Amasea della fine del IV secolo, spiegò come la statua di Gesù, frutto della devozione riconoscente di una miracolata, rappresentasse una prova antica di legittimazione del culto delle immagini sacre: «Asterio è [ .. .] pieno di ammirazione per lo zelo e la determinazione mostrata da questa donna nella sua fede verso il Benefattore, riferisce che, facendo colare una statua di bronzo ali' effigie di Cristo, ella si fece l'avvocata del messaggio evangelico. Tanto e così bene che Giudei ed Elleni, che ridevano e schernivano, si trovarono confusi e persero la partita, grazie a questa donna che manifestava l'insegnamento evangelico in modo evidente» 13 • Le trame legate alla vicenda di Berenice e in seguito della Veronica si arricchirono notevolmente con il passare degli anni e con l'intrecciarsi delle leggende: a favorire il trans/er dalla Berenice bizantina alla Veronica latina contribuirono sia la sovrapposizione delle leggende, sia il prender forma di etimologie suggestive, 'benché errate: «Questo Volto avrebbe lasciato un'impronta su un velo che, per metonimia, avrebbe poi assunto lo stesso nome della donna: secondo un'interpretazione poco probabile, anche se condivisa da diversi studiosi, il nome Veronica deriverebbe da vera eikon, "vera immagine" 14 ». L'etimologia medievale in questione interpretò dunque il nome Veronica come una contrazione di vera eikon: la definizione però in senso letterale è errata, dato che la parola va piuttosto ricondotta al greco «Berenice». Tale trasposizione evidenzia però una dialettica immanente in tutta la storia dell'immagine di Cristo e un'attiva osmosi
tra le leggende bizantine e le rielaborazioni latine. «È possibile concludere che il nome Veronica tragga le sue origine dalla forma primitiva greca BEQEVLXTJ. [ ... ]Tuttavia, se l'ibrido termine "vera eikon" deriva "da un'ingenua etimologia popolare" conosciuta solo a partire dal Medioevo, esso, in virtù del gioco etimologico, s'innesta nella leggenda già accettata dalla Chiesa e si giustifica non come verità, ma come aiuto necessario. Il termine vera icona viene ricordato nell'elaborazione medievale del XII e XIII secolo che ha dato un ruolo preminente al Sudario di Cristo, chiamato a Roma "la Veronica". I passaggi BEQEVLXTJ nome, Veronica nomen-omen, giungeranno fino alla Veronica/reliquia, dove il nome stesso verrà a designare per metonimia l'Immagine-Reliquia» 15 • L'Occidente si appropriò del racconto originale bizantino e lo rielaborò liberamente, trasformando - in modo assolutamente sorprendente e allo stesso tempo vincente per la devozione che suscitò nell'universo latino - la statua di Gesù eretta a Paneas in un panno con impressi i segni del volto di Cristo. A partire dal XII-XIII secolo la leggenda inoltre collegò questo panno al momento della passione: da quel momento ebbe il sopravvento il premuroso gesto di compassione di una donna che offrì a Gesù, sulla via del Calvario, un panno per asciugarsi il volto dal sangue e dal sudore.
2. Il corpo della leggenda: la Cura Sanitatis Tiberii
e la Vindicta Salvatoris
A differenza di quanto accaduto al Mandylion e alla statua di Paneas, che interagirono con la storia terrena di Gesù dando vita a leggende e testimonianze fin dai primi secoli del cristianesimo, del Volto di Cristo «della Veronica» non si ebbero notizie fino al XII secolo: «Prima del XII secolo né il culto dell'immagine della Veronica a Roma, né la sua leggenda sono testimoniate in fonti datate in qualche modo in maniera certa» 16 . Tuttavia, nonostante le difficoltà nell'accertare le origini effettive della leggenda, sarebbe erroneo ritenerla di recente formazione: «bisogna risalire fino al VI secolo» 17 • La forma più antica della leggenda della Veronica in cui avvenne il passaggio dal fondamento della vicenda bizantina, la statua di bronzo, al volto occidentale su panno denominato «della Veronica», fu la Cura Sanitatis Tiberii 18 : «È la leggenda di Paneas che ha presentato questa Berenice-Veronica come detentrice di un'icona di Cristo;
Nella recensione A dell'Anafora di Pilato la donna sarebbe originaria della città di Cafarnao, mentre la recensione B propone Paneas come luogo di origine della donna. 12 Anafora di Ponzio Pilato governatore della Giudea mandata a Tiberio Cesare in Roma (recensione greca B), in Apocrifi del Nuovo Testamento. Val. I. Vangeli, cit., p. 746. 13 NICEFORO, Antirrheticus tertius, Adversus Costantinum Copronynum, in T.M. D E BLASJO, Veronica. Il mistero del Volto , cit., p. 29. 14 Ivi, p. 7.
Ivi, p. 16. E. VON DoBSCHOTZ, Immagini di Cristo, cit., p. 156. 17 Ivi, p. 156. 18 Il luogo di origine di questa rielaborazione occidentale potrebbe essere l'Italia, precisamente la Toscana, tra la fine del v secolo e l'inizio dell'vm secolo (cfr. E. VON DOBSCHOTZ, Immagini di Cristo, cit. , p. 158).
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come nelle altre, anche qui si tratta di un ritratto di Gesù fatto da mano umana, con l'unica differenza che lì si pensava a una statua di metallo e qui a un dipinto su un panno di lino» 19 • L'incredibile sostituzione fu probabilmente motivata da fattori «pratici» dovuti agli spostamenti a cui fu sottoposta l'immagine di Cristo e alla necessità dell'imperatore Tiberio di vedere qualcosa che assomigliasse a Gesù per poter credere: «La ragione di questa trasformazione non deve essere cercata troppo lontana. Una statua di bronzo si adattava perfettamente al culto del posto, ma era un po' pesante da far trasportare alla donna a Roma al cospetto dell'imperatore» 20 • La Cura Sanitatis Tiberii e la Vindicta Salvatoris sono i documenti base della «preistoria» dell'immagine di Cristo della Veronica. Si tratta di due recensioni con sviluppi diversi di un unico testo, elaborate in luoghi geografici differenti, «con un nucleo primitivo forse antichissimo: c'è chi pensa all'epoca dell'imperatore Claudio»21 • Nella fase originaria la leggenda della Veronica rivestiva solo un valore episodico: tutto mirava infatti alla punizione rispettivamente di Pilato e dei giudei, intesa come segno della giustizia divina per aver autorizzato la morte di Cristo: «La leggenda della Veronica non è sorta per se stessa, l'icona di Cristo non ne costituisce il punto centrale; piuttosto all'inizio bisogna considerarla come un ramo ausiliario della leggenda di Pilato: essa mira ali' accusa a Pilato»22 • La Cura Sanitatis Tiberii narra, infatti, della guarigione dell'imperatore Tiberio che, malato di lebbra, sentì parlare dei miracoli di Gesù in Giudea e decise di chiamarlo a sé. Inviò dunque un alto funzionario dell'impero, Volusiano, che giunto a Gerusalemme espose a Pilato il desiderio dell'imperatore di incmntrare personalmente Gesù. Pilato, terrorizzato per la sorte inflitta al Nazareno, cercò di giustificarne la condanna a morte addossandone la colpa agli Ebrei. Fu imprigionato, dato che era evidente che volontariamente ne aveva autorizzato e decretato la crocifissione23 : «Tu, Pilato, mentre facevi fustigare Gesù, dicevi: "È in mio potere liberarti ed è in mio potere ucciderti", come puoi dunque ora asserirti innocente?»24 • In seguito Volusiano fu messo al corrente, da un uomo
di nome Marcio, della vicenda di una donna chiamata Veronica, che guarita da un'emorragia tre anni prima da Gesù, si era fatta dipingere il suo ritratto mentre era ancora vivo. La donna fu convocata presso Volusiano: «Quando la ebbe davanti, Volusiano le disse: "Mi hanno parlato della tua bontà e della tua prudenza. Ora esaudisci la mia richiesta, manifestandomi l'immagine di quel grand'uomo tuo Dio, che ti ha dato la salute del corpo". Alla domanda la donna rispose di non avere ciò di cui parlava. Volusiano allora, ritenendosi deriso, prese a interrogarla attentamente. E la donna, sebbene malvolentieri e con dispiacere, essendo devota al suo Dio, rivelò il segreto dell'immagine dell'autore della sua salute»25 . Costretta a consegnare la propria reliquia, Volusiano partì alla volta di Roma, accompagnato sia dalla Veronica sia da Pilato in catene. L'imperatore Tiberio, dopo aver incontrato e ascoltato Volusiano, fu profondamente amareggiato per la morte inferta a Gesù, tanto da non voler neppure incontrare Pilato, decretando di mandarlo immediatamente in esilio nell'Ameria tusca26 . A cambiare radicalmente la vita all'imperatore fu l'incontro con Veronica e specialmente con l'icona di Cristo: «Alla vista della donna e dell'immagine che lei aveva, Tiberio Cesare le disse: "Tu hai avuto l'onore di toccare il lembo del vestito di Gesù!", e così dicendo guardò l'immagine di Gesù, fremette, cadde a terra tra le lacrime e adorò l'immagine di Gesù Cristo. E subito guarì dalla sua malattia e dalla ferita purulenta che aveva internamente. Sperimentata la forza della sua divinità con la guarigione del suo corpo alla vista dell'immagine, subito diede ordine che la donna Veronica fosse ricolma di ricchezze, di onore e di averi dal pubblico erario, e che l'immagine fosse circondata di oro e di pietre preziose»27 • Tiberio non solo fu guarito ma, riconoscente per il miracolo del quale aveva beneficiato, chiese e ottenne il battesimo e cercò persino di convincere il senato affinché Gesù fosse adorato come vero Dio. La vendetta sui giudei è, invece, il tema dominante della Vindicta Salvatoris. Facendo propria un'antica concezione cristiana, la Vindicta avallò la tesi per cui i giudei furono molto più colpevoli del procuratore romano per la morte di Cristo. Il campo d'azione fu l'Aquitania28 , dove risiedeva Tito (79-81) che governava come viceré di Tiberio. Entrambi erano affetti da una grave malattia: Tito dal cancro, Tiberio dalla lebbra29 • Straziato dal dolore, Tito era solito
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Ivi, p. 158. Ivi, p. 158. 21 Ciclo di Pilato , in ivi, p. 730. 22 Ivi, p. 155 . 2> L. Moraldi sottolinea che i testi occidentali e orientali, pu~ concordi sul processo a Gesù , divergano poi sulla fine e sulla responsabilità di Pilato. Nei testi latini è evidente un certo accanimento contro il procuratore romano, mentre quelli orientali riflettono maggiormente la versione evangelica: «Per i testi occidentali egli fu debole e ingiusto, per gli orientali fu buono, comprese Gesù e credette in lui, fu un santo», in Guarigione di Tiberio , in Apocrifi del Nuovo Testamento. Vangeli, cit., p. 733 . La valutazione occidentale è dunque più preoccupata di scagionare l'autorità romana centrale attribuendo ogni colpa a Pilato. 24 Guarigione di Tiberio, in ivi, p. 758. 20
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Ivi, p. 758. Nella scelta dell'area dell'esilio di Pilato si può scorgere un'implicita conferma sul luogo di composizione della Cura Sanitatis Tiberii, così come sostenuto da E. von Dobschi.itz. 27 Guarigione di Tiberio, in Apocrifi del Nuovo Testamento. Vol. I. Vangeli, cit., p. 760. 28 E. von Dobschi.itz colloca l'autore della Vindicta Salvatoris in epoca pre-carolingia. La sua patria sarebbe la parte sud-occidentale della Francia, verosimilmente proprio l'Aquitania. 29 Ritorna, sia nelle cronache orientali sia in quelle occidentali, il tema della malattia e della guarigione miracolosa operata dall'immagine di Cristo. 26
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supplicare il proprio assistente cristiano Natan (di origine ismaelita) perché gli trovasse un rimedio atto a guarirlo. Senza timore Natan gli parlò di Gesù e dei molteplici miracoli da lui operati. Nell'ascoltare tali prodigi, Tito lamentava il fatto che proprio sotto il governo di Tiberio si fosse messo a morte un così grande medico e si r:iprometteva di vendicare presso i giudei la morte di Gesù: bastò questa promessa a donargli la guarigione, in seguito alla quale si fece battezzare, inviando poi Vespasiano a vendicare Gesù e punire i giudei, rei di aver messo a morte Gesù: «Tito esclamò: "Guai a te, imperatore Tiberio, pieno di ulcere e ricoperto di lebbra, poiché nel tuo regno fu commesso un simile delitto! Nella Giudea, terra della nascita di nostro Signore Gesù Cristo, hai posto leggi in base alle quali fu arrestato e ucciso il re e governatore dei popoli e non fu fatto venire fino a noi a guarire te dalla lebbra e per purificare me dalla mia infermità. Perciò se li avessi al mio cospetto, con le mie mani ucciderei i corpi di quegli Ebrei e li appenderei a un rozzo legno perché hanno condannato il mio,Signore e i miei occhi non furono degni di vedere la sua faccia" . Quando ebbe finito di dire queste cose, subito scomparì la ferita dal volto di Tito e il suo corpo e il suo volto furono restituiti alla primitiva sanità»30 • Tito e Vespasiano, dopo la prodigiosa guarigione, assediarono Gerusalemme compiendo stragi cruente per vendicarsi dei giudei. In concomitanza, chiesero .a Tiberio di aprire un'inchiesta sulla morte di Cristo: l'imperatore incaricò Volusiano di interrogare Giuseppe d' Arimatea che testimoniò di aver deposto dalla croce Gesù, di averlo collocato in un sepolcro nuovo e di essere stato testimone della sua risurrezione; a questa testimonianza seguì immediata la condanna di Pilato. Volusiano fece poi una breve indagine tra quanti avevano conosciuto il Salvatore per trovare una sua immagine da onorare, e la trovarono ~ustodita presso una donna di nome Veronica, da cui pretesero il ritratto per poterlo trasferire a Roma. La donna, che non se ne voleva affatto distaccare, prima negò di essere in possesso dell'immagine di Cristo, poi messa sotto tortura - elemento cruento che appare come una glossa evidente rispetto al racconto della Cura Sanitatis Tiberii - confessò di possedere l'immagine impressa su un panno di lino che Volusiano cercava. Dopo un anno di navigazione, l'immagine di Cristo fu presentata al cospetto di Tiberio, alla cui vista fu subito guarito dalla lebbra: «Volusiano aprì allora il suo mantello e il panno d'oro ove si trovava il volto del Signore. L'imperatore lo vide, e subito, non appena adorò, con cuore puro, l'immagine del Signore, fu purificato dalla lebbra e la sua carne divenne come la carne di un giovinetto»31. La miracolosa guarigione di Tiberio spinse l'imperatore a chiedere il battesimo e diventare a tutti gli effetti cristiano.
Nelle due cronache riportate la trama è simile e gli elementi comuni sono molteplici: la malattia dell'imperatore Tiberio, la scelta di Volusiano come uomo di fiducia da inviare a Gerusalemme, la figura della Veronica e del suo ritratto di Gesù, l'arrivo a Roma della Veronica, la guarigione di Tiberio, la condanna di Pilato e la sua morte violenta. In entrambi i testi appare ridimensionato anche il ruolo dell'icona di Cristo, ridotta a· «mezzo» funzionale alla guarigione di Tiberio. La Cura Sanitatis Tiberii e la Vindicta Salvatoris, inoltre, pur riportando la notizia dell'arrivo a Roma dell'immagine, tacquero il ruolo di primo piano che l'icona di Cristo rivestì a livello di culto e devozione nella Chiesa latina, accentuato al contrario dalle rielaborazioni successive. Secondo queste versioni della leggenda non vi fu alcun nesso tra l'immagine di Cristo orientale della Veronica e quella divenuta famosa come la Veronica romana: «Nessuno dei due scritti - la Cura Sanitatis Tiberii e la Vindicta Salvatoris - rivela anche solo con una parola di essere a conoscenza dell'esistenza di una reliquia romana. Nati al di fuori di Roma, i due scritti non hanno nulla a che vedere con l'icona romana di Cristo»32 .
3. I.:icona romana «della Veronica» L'origine dell'icona romana del Volto di Cristo appare poco chiara, resa an cora più complessa dal lungo periodo di silenzio su questa immagine, che ha dato spazio a numerose ipotesi, per quanto riguarda sia la sua genesi sia il suo rapporto con l'omonima icona orientale. Nella tradizione occidentale è evidente la lacuna che intercorre tra l'epoca di Tiberio e quella in cui la Veronica ricomparve nella basilica di San Pietro. Silenzi e omissioni non debbono però far frettolosamente concludere che si tratti di un'arbitraria invenzione. Con un alto margine di probabilità a Roma «esisteva già da molto tempo un'icona di Cristo, che solo in seguito fu unita alla leggenda della Veronica»33 . Le leggende orientale e occidentale derivano dunque da due tradizioni diverse che però, nelle successive trasmissioni, furono a tal punto unite da fondersi insieme. L'icona romana, che passò alla storia come icona «della Veronica»34 , inizialmente era chiamata «santo sudario di Cristo». Difficile anche per questo aspetto comprendere come si sia arrivati a questa sovrapposizione di nomi e racconti: «L'origine di questa icona era però così poco chiara e la leggenda della Veronica passava così
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E. VON D OBSCHDTZ, Immagini di Cristo, cit. , p. 161. Ivi, p. 162. 34 Giraldus del Galles, a Roma nel tardo XIII secolo, fu «il primo a riportare l'etimologia di Veronica come "vera icona, id est, imago vera"», in G. W OLF, «Or f u sì fatta sembianza vostra?» . Sguardi alla «vera icona» e alle sue copie artistiche, in Il Volto di Cristo, cit., p. 105. 33
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Vendetta del Salvatore, in A pocrifi del N uovo Testamento. Vol. Ivi, p . 775.
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Vangeli, cit., p. 758.
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tanto in secondo piano, che si pone il problema di come si sia giunti a chiamare quest'icona "Veronica"»35 . Tale passaggio avvenne verosimilmente in ambienti popolari che, al di fuori di Roma, avevano già associato impropriamente icona e leggenda ancora prima che la leggenda stessa venisse accettata ufficialmente dalla Chiesa. Dal nucleo orientale della leggenda, raccolto nella Cura Sanitatis Tiberii e nella Vindicta Salvatoris, ebbero origine numerose rielaborazioni che, sostanzialmente, trasposero l'origine del Volto «della Veronica» nell'ambito della passione (Fig. 7). In questo senso, il racconto Joseph d'Arimathie di Robert de Boron, scritto nel 1183 circa, è uno dei primi celebri esempi di rimaneggiamento dei documenti originali, in cui si fa raccontare a Veronica che «il panno recante l'effigie è quello che Gesù usò per detergersi il viso mentre si dirigeva al luogo della sua crocifissione»36 • All'icona di Cristo, elemento secondario dei documenti originali - in cui dominavano i motivi della punizione di Pilato e della vendetta contro i giudei - fu dato, con il passare del tempo, sempre più risalto: «Mentre nel XII secolo si faceva ancora ritornare la Veronica nella sua patria dopo la guarigione dell'imperatore - naturalmente però con la sua amata icona - i posteri mettono sempre più in risalto il fatto che l'icona si trovasse ancora a Roma, separando in parte la donna dall'immagine»37 • In seguito ulteriori leggende preferirono far rimanere Veronica a Roma dove, poco prima della sua morte, avrebbe donato l'immagine santa a papa Clemente I e a tutti i suoi successori. Negli anni si riconobbe anche, nell'origine miracolosa dell'icona, il suo essere un'immagine Acheropita, distanziandosi dalla forma più antica della leggenda, che invece non accennava ad alcun elemento prodigioso, ma riferiva solamente il gesto di BereniceNeronica che, in segno di gratitudine e devozione verso Cristo che l'aveva guarita dall'emorragia, ne aveva fatto dipingere il ritratto. Le stesse rappresentazioni artistiche del Volto di Cristo «della Veronica» rispecchiavano la trasformazione in atto nelle leggende scritte occidentali. Ognuna a suo modo enfatizzava la tesi dell'impronta miracolosa del suo volto: «Alcune la attribuiscono al sudore, dopo la fatica del cammino, altre ali' acqua. [. . .] Ora è un asciugamano, ora una tela di pittore, oppure addirittura il velo di Veronica a essere usato da Gesù. Ma l'idea è sempre e soltanto che l'immagine è solo un 'impronta del viso»38 . L'origine prodigiosa dell'immagine fu decisiva per la sua storia poiché, da un lato, le permetteva di assimilarsi ai più celebri Acheropiti orientali e, dall'altro, conferiva a questa immagine uno status neces-
sario per diventare una delle reliquie più celebri della cristianità latina, in grado di fare miracoli ed elargire indulgenze. Il passaggio al momento della passione di Cristo, assente nel nucleo iniziale, decretò, a partire dalla fine del XII secolo, l'origine ufficiale dell'icona romana. Le prime tracce di cambiamento sono da ricercare nell'ambito della tradizione francese. Nella Chanson de geste e nelle rielaborazioni romaniche della Prosa del XIII secolo l'origine della leggenda fu trasferita al momento della Passione: «Il più antico tentativo a noi noto di inserire la leggenda della Veronica nella storia della Passione»39 racconta di una «Veronica lebbrosa» 40 che, pur adorando il Signore non osava avvicinarsi a lui e che, anche nel momento della crocifissione pur rimanendogli fedele, lo seguiva da lontano. Solo su invito di Maria, Veronica acquistò il coraggio di avvicinarsi a Gesù, di togliersi il velo dal capo e di consegnarlo alla Madre che, dopo aver sfiorato con il velo il volto del Figlio, lo restituì a Veronica che indossandolo guarì. La forma definitiva del racconto fu raggiunta dal francese Roger de Argenteuil che nel 1300, all'interno di una storia biblica costellata di leggende, ricondusse all'atto di compassione di Veronica la nascita del velo con impressi miracolosamente i lineamenti di Cristo. La donna mentre si recava a vendere il suo velo, cambiò idea quando, incontrando il Signore deriso e sofferente durante il cammino verso il luogo del supplizio, gli porse il suo velo affinché si asciugasse il volto coperto dal sangue e dal sudore. Il gesto di premura e compassione fu ricompensato dall'impronta del Volto di Cristo che rimase impressa sul velo della donna, a cui fu ordinato di conservarla con cura. In ambito italiano giocò un 'influenza determinante la Leggenda aurea di Jacopo da Varagine (1228-1298), apparsa nel 1275 e divenuta ben presto la fonte principale dei rimaneggiamenti del tardo Medioevo. In base alla rappresentazione della storia della passione, l'autore descrisse la vendetta contro il sacrilegio dei tre principali colpevoli: Giuda Iscariota, i giudei e Pilato. Tutti, nonostante fossero mossi da motivazioni differenti, concorsero al raggiungimento del medesimo, tragico risultato: «Cristo fu messo a morte, da Giuda per avarizia, dai giudei per invidia, da Pilato per paura»41 . Proprio a proposito della punizione di quest'ultimo, Jacopo utilizzò e integrò lo schema della Cura Sanitatis Tiberii con una historia apocrypha in cui l'elemento principale era la veste inconsutile di Gesù indossata da Pilato durante il processo di fronte a Tiberio. L'imperatore, aspramente irritato con Pilato, mentre lo aveva di fronte si calmava impr~vvisamente, non riuscendo ad esprimere la propria ira; quando
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E. VON D OBSCHOTZ, Immagini di Cristo, cit., p. 164. G. W oLF, «Or fu sì / atta sembianza vostra?». Sguardi alla «vera icona» e alle sue copie artistiche, in Il Volto di Cristo, cit., p . 105. · 37 E. VON D OBSCHUTZ, Immagini di Cristo, cit., p. 177. 38 Ivi, p . 181. 36
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Ivi, p . 183. Ivi, p. 183 . J ACOPO DA V ARAGINE,
Leggenda A urea, vol.
II,
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Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1923, p .
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al contrario Pilato se ne andava, esprimeva tutta la sua rabbia, stupendosi molto del suo cambio di umore di fronte al governatore. Questo insolito comportamento era causato dalla veste inconsutile di Gesù, indossata da Pilato durante le udienze del processo: «Quando quegli [Pilato] gli si era levato dinanzi, così fortemente s'adirava contro di lui, e quando egli era presente non riusciva a parlare aspramente. [ ... ] E meravigliandosi di ciò Cesare, seppe che era stata la tunica di Gesù Cristo»42 • L'origine della leggenda del Volto «della Veronica», trasposta al momento della passione del Signore, nel 1400, era ampiamente diffusa anche in ambito tedesco. In definitiva si registrò una «deriva» verso il tema della passione di Cristo: non è noto «chi abbia avuto per prima l'idea di inserire la Veronica in tale contesto: è chiaro però che da questo momento essa dovette difendere la sua posizione e nessun clima religioso poteva essere più favorevole di quello di allora» 43 • Contribuirono al consolidarsi di questa versione della leggenda, da un lato, gli spettacoli della passione che si andavano diffondendo e, dall'altro, i viaggi dei pellegrini in Terra Santa. Il pellegrino del xv secolo era disposto e motivato a sopportare notevoli peripezie e indigenze per recarsi nei luoghi della passione di Gesù, pur di ottenere le indulgenze connesse a quel pericoloso viaggio. I fedeli si recavano primariamente al monte Calvario e ripercorrevano in particolare la via dolorosa per rivivere spiritualmente gli stati d'animo, le emozioni, le sofferenze che aveva provato Gesù durante la sua passione. È significativo che accanto ai luoghi legati direttamente a Cristo, ne furono «scoperti» altri correlati a personaggi come Veronica: la maggior parte dei libri dei pellegrini del xv e XVI secolo menzionano infatti una casa, situata proprio sulla via dolorosa, che apparteneva a Veronica44. Le descrizioni riportate nei libri dei pellegrini influenzarono moltissimo la devozione occidentale, contribuendo a diffondere negli ambienti popolari la forma più recente della leggenda della Veronica. Oltre a questi racconti, ampio spazio rivestirono i misteri della passione, tanto che «dalla metà del xv secolo troviamo nella via crucis quasi ininterrottamente la scena della Veronica»45 . Con il passare dei secoli e con le rielaborazioni delle leggende, Veronica, oltre che godere di notevole fama tra la gente comune, fu acclamata anche santa della Chiesa, che alla fine del xv secolo istituì una festa per commemorarla. Fu il triste episodio del «sacco di Roma» a segnare la fine della fama di cui godeva l'icona «della Veronica» e forse anche la fine dell'icona stessa. Le cronache riferiscono di un esercito protestante che, oltre a devastare la città, profanò
in particolare le sue reliquie: «I tedeschi erano così influenzati dalla propaganda luterana che attaccava Roma come la nuova Babilonia, che organizzarono la profanazione delle reliquie come una sorta di iconoclastia»46 • Il Volto di Cristo «della Veronica» fu uno dei principali obiettivi dei saccheggiatori: le fonti diedero comunque versioni contraddittorie circa il destino che subì. Racconti popolari riferirono del furto e dell'ignominia a cui fu sottoposta l'icona, fatta passare «di mano in mano nelle taverne di Roma»; i documenti ufficiali invece oscillarono tra due opposte versioni: l'ammissione del furto e della profanazione e l'assicurazione che la reliquia era stata miracolosamente messa in salvo. In ogni caso, dopo i tristi avvenimenti del 1527, calò il silenzio sull'icona di Cristo «della Veronica». L'Acheropita che aveva diffuso anche in Occidente il culto del Volto di Cristo, pur producendo una recezione tutta devozionale e per nulla teologica come invece era accaduto in Oriente, la reliquia che aveva spostato intere masse di pellegrini, che aveva assunto un ruolo di prim'ordine in molti giubilei, ostensioni pubbliche e indulgenze subì la stessa sorte dei Volti di Camuliana ed Edessa, scomparendo in modo misterioso e lasciando dietro di sé domande senza risposta che diedero vita a ipotesi e ricostruzioni, spesso fantasiose.
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JACOPO DAV ARAGlNE, Leggenda Aurea, voi. Il, cit., p. 461. E. VON DoBSCHilTZ, Immagini di Cristo , cit., p. 184. Cfr. E. VON DoBSCHOTZ, Christusbilder, 1. Halfte, cit., Belege zu Kapitel VI, 84-85-86. E. VON DOBSCHOTZ, Immagini di Cristo, cit., p . 187 .
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4. La devozione dei Papi verso i «Santi Volti»
Nel tardo X secolo, un libro pontificio, redatto dal monaco Benedetto di Sant'Andrea, narra del gesto di papa Giovanni VII (705-707), che dedicò un oratorio a Maria «ubi dicitur a Veronice» nella basilica di San Pietro. Questa cronaca «non accenna all'icona della Veronica» 47 , ma risulta un curioso indizio di un interesse che attraversò il clero romano e si espresse, nei secoli successivi, in forme solenni di devozione da parte di alcuni papi che, nell'arco di tempo corrispondente al loro pontificato, elevarono l'Acheropita romano alla dignità di reliquia per eccellenza dell'Occidente. Le notizie si fecero più frequenti nel XII secolo quando l'icona «della Veronica» acquisì un ruolo importante nel cerimoniale pontificale, divenendo a poco a poco una delle principali reliquie della città, esposta al pubblico con una certa regolarità a partire dal 1200. Nell'Orda romanus del 1143 del canonico Benedetto si descrive la ricca liturgia che veniva dedicata all'icona di Cristo «della Veronica». Alla vigilia della domenica de gaudente, il papa incensava in modo solenne l'immagine: «Sosta davanti a san Pietro. Poi vada verso il sudario di Cristo che viene chiamato Veronica e lo incensi, facendo poi lo stesso all'altare di Maria» 48 • Il rilievo della liturgia citata 46
H. BELTING, La vera immagine di Cristo , cit. , p. 13 8.
47
E. VON DoBSCHOTZ, Immagini di Cristo, cit., p . 162.
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«Statio ad sanctum Petrum. Postea vadit ad sudarium Christi quod vocatur Veronica et
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L'attenzione dell'Occidente alle icone Acheropite di Cristo
La venerazione del Santo Volto «della Veronica» in Occidente
è duplice: si conferma, infatti, sia la presenza del sudario di Cristo a Roma, il cui collegamento con il nome della Veronica è ormai un dato di fatto, sia il rilievo che tale immagine aveva acquisito nella liturgia della Chiesa latina. Alla devozione popolare erano poi dedicati dei giorni fissi nel calendario liturgico, quando l'icona veniva esposta al pubblico: mercoledì, giovedì, venerdì e sabato della Settimana Santa, l'Ascensione e la Festa del Nome di Gesù 49 • Negli anni giubilari l' ostensio veniva allargata a tutti i venerdì e a tutte le feste importanti: «Et per consolatione de' Christiani peregrini ogni Venerdì, o dì solenne di festa , si mostrava in San Pietro la Veronica del Sudario di Christo»50 . Il Volto Santo eta considerato tra le principali reliquie custodite dalla Chiesa romana, tanto che fu solennemente mostrato al re francese Filippo Augusto quando, nel 1191, si fermò a Roma nel viaggio di ritorno dalla Terra Santa. La cronaca riferisce di un «panno di lino che Cristo si premette sul viso e sul quale ancor oggi quell'impronta appare evidentissima [manifeste apparet] come se fosse lì presente il volto di Cristo»51 • Il vero fondatore e promotore del culto del Volto di Cristo «della Veronica» fu papa Innocenzo m, che trasformò questa icona nel simbolo universale della Chiesa d'Occidente. Se precedentemente «nessuna delle fonti parlava esplicitamente di un'imago della Veronica come vera icon, bensì di un sudario»52 , sotto il pontificato di Innocenzo III «le fonti si riferiscono espressi verbis all"'effigie Jesu Christi" a San Pietro»53 • Cardine del culto era la proéessione annuale, istituita nel 1208, con l'Acheropita, che si snodava da San Pietro all'Ospedale di Santo Spirito. Tale cerimonia doveva svolgersi la domenica dopo l'ottava dell'Epifania, quando veniva letto il Vangelo delle nozze di Cana, poiché «le Nozze dovevano compiersi tra l'immagine di Cristo e l'osservatore, come una salvifica anticipazione di quello sposalizio tra l'anima umana e la grazia celeste che avrà luogo alla fine dei tempi»54 • Tra le molteplici processioni annuali compiute da Innocenzo III, le cronache riportano quella del 1216, quando la testa di Cristo dell'icona si capovolse autonomamente. Il papa sgomento lesse in questo avvenimento un cattivo presagio - egli sarebbe poi effettivamente morto lo stesso
anno - e per riconciliarsi con Dio scrisse una preghiera rivolta all'icona e dispose che coloro che avessero recitato con frequenza tale preghiera avrebbero guadagnato dieci giorni di indulgenza. La preghiera evidenzia l'origine prodigiosa dell'immagine, legata alla richiesta della Veronica, nel contesto della passione di Cristo: «Dio, che hai voluto lasciare a noi, che siamo segnati con la luce del tuo volto; sotto preghiera della Veronica come ricordo di Te la Tua immagine impressa in un sudario, noi ti preghiamo, fa ' attraverso la Tua Passione e la croce che noi possiamo adorarla e venerarla oggi in terra nella luce e nelle tenebre; fa' che un giorno, quando verrai a giudicarci, noi ti possiamo contemplare di sicuro viso a viso, tu che vivi e regni con Dio Padre»55 . Determinante dunque l'opera di Innocenzo III che «trasformò la Veronica nella prima immagine dotata di un'indulgenza, istituì una nuova liturgia in cui essa svolgeva la parte principale e ricevette alla fine il placet divino per tale istituzione attraverso un miracolo ben documentato»56 , elevando agli onori del culto e della devozione un'immagine, il cui passato era avvolto da misteriosi silenzi, ma il cui futuro fu segnato da un rapido e duraturo successo. Il concreto impegno che questo pontefice dedicò al Volto di Cristo «della Veronica» non era però motivato da convinzioni teologiche simili a quelle ortodosse: infatti, «Innocenzo presumibilmente non amava tanto le antiche icone romane con la loro realtà quasi corporale e fisica e il culto che ad esse i Romani tributavano sembrava al Pontefice una forma d'idolatria, come criticava anche la devozione esagerata dei Greci per la Madonna Odigitria»57 • Innocenzo III esprimeva dunque posizioni ben lontane dai cardini della teologia ortodossa delle icone, poiché proprio nella concreta venerazione delle icone degli orientali egli scorgeva i segni di una deriva idolatrica. La devozione nei confronti dell'immagine di Cristo «della Veronica» fu potenziata grazie alle celebri invocazioni formulate rispettivamente da Innocenzo IV (1243-1254) e Giovanni XXII, che testimoniano il ruolo di rilievo che la massima gerarchia occidentale tributava a questa icona. Le preci papali incrementarono notevolmente in tutta la cristianità latina la devozione: «Molteplici rielaborazioni di queste preghiere e canti in latino testimoniano tanto la loro traduzione in tutte le lingue occidentali quanto la grande diffusione di questo ufficio»58 . Inoltre, la concessione di un numero più consistente di giorni di indulgenza - rispettivamente quaranta giorni concessi da Innocenzo IV e diecimila da Giovanni XXII - contribuì alla diffusione del culto. Infine, per ottenere l'indulgenza, era richiesta la recita personale delle preghiere davanti all'icona:
incensat, et altare Mariae similiter», in E . VON D OBSCH OTZ, Christusbilder, Untersuchungen zur christlichen Legende, I. Halfte, cit. , ali. 16, p. 283 . 49 Cfr. ivi, ali. 67 , p. 311. 50 Ivi, ali. 62, p . 310. 51 G. W OLF, «Or f u sì fatta sembianza vostra?». Sguardi alla «vera icona» e alle sue copie artistiche, in Il Volto di Cristo, cit. , p. 103. 52 G. W o LF, La Veronica e la tradizione romana di icone, in Il Ritratto e la Memoria. Materiali 2, Bulzoni Editore, Roma 1994 , p. 12 . 5> Ivi, p. 13 . 54 G. W OLF, «Or fu sì fatta sembianza vostra?». Sguardi alla «vera icona» e alle sue copie artistiche, in Il Volto di Cristo , cit., p . 104.
E. VON D OBSCHùTZ, Immagini di Cristo, cit., p . 165; originale latino in E. VON D oBSCHUTZ, Christusbilder, Untersuchungen zur christlichen Legende, I. Halfte, cit. , ali. 34, p. 294. 56 Ivi, p. 13. 57 Ivi, p . 25 . 58 E. VON D OBSCHUTZ, Immagini di Cristo, cit., p. 165.
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la presenza fisica a Roma, di fronte ali' Acheropita, che sola rendeva efficace la supplica, potenziò notevolmente il flusso di pellegrini. Le invocazioni Ave /acies preclara di Innocenzo IV e Salve sancta facies di Giovanni XXII, pur contestualizzando entrambe l'origine del Volto di Cristo «della Veronica» al momento della passione, hanno evidenziato momenti diversi di quel tragico avvenimento: infatti, «la più antica Ave /acies preclara è riferita al volto di Gesù pallido per la morte in croce, mentre la più famosa Salve sancta facies parla del bagliore divino del viso di Gesù»59 , riprova di un approccio latino all'immagine in questione, più che dogmatico, estremamente soggettivo. Riportiamo in nostra traduzione le due invocazioni.
subìte6 1, «alterata» dal sangue sgorgato dalle ferite e, allo stesso tempo, rimasta nel tempo come monito alla compassione nei confronti di Gesù che per la salvezza dell'umanità subì la morte in croce. La nota differenza del momento a cui Oriente e Occidente fanno risalire la nascita degli Acheropiti di Cristo si riflette anche nelle preghiere: mentre quelle orientali - dalle patristiche ai testi liturgici, passando per le grandi preghiere della devozione dei santi - sottolineano il nesso tra gli Acheropiti e l'incarnazione di Cristo, in generale, il cristianesimo latino riduce l'icona «della Veronica» a un'esortazione, «brillante norma di compassione» recita la preghiera di Innocenzo IV, memoria vivente della passione del Salvatore.
Salve sancta facies di Giovanni XXII 62 Ave facies preclara di Innocenzo IV 60 : Salve o santo volto del nostro redentore nel quale rifulge la bellezza del divino splendore impressa sul pezzo di stoffa dal niveo candore e donata alla Veronica come segno di amore.
Ave immagine luminosa, che sul santo altare della croce sei divenuta così pallida! Resa oscura dal tormento, alterata dai rivoli del sacro sangue te impresse sul fazzoletto nel quale rimase la tua forma, che per tutti è brillante norma di compassione.
Salve onore dei secoli specchio dei santi che desiderano vedere lo spirito dei cieli! Da ogni macchia dei vizi liberaci e congiungici al consorzio dei beati.
Nel mio cuore rimanga impressa attraverso di te, o Gesù, né svanisca questo ardere del tuo amore dall'inesauribile fiamma. Dopo questa vita, insieme ai beati, concedi a noi che il volto della divinità venga contemplato in perenne gloria. In questa invocazione lo sguardo è rivolto alla passione di Cristo che, per il dolore subìto, lasciò di sé un'immagine sofferente: resa «oscura» dalle torture
Salve volto di Dio, immagine beata, mirabilmente decorata
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Ivi, p . 168. Ivi, p . 165; originale latino in E. VON D oBSCHùTZ, Christusbilder, Untersuchungen zur christlichen Legende, r. Hiillte, cit. , ali. 40, p. 298.
H. Belting ritiene che Innocenzo IV abbia interpretato «l'incarnato scuro caratteristico dell'originale, come una stortura derivante dall'angoscia di Gesù sul Monte degli ulivi, cui corrispondeva tuttavia il sudore insanguinato». Cfr. H. BELTING, Il culto delle immagini. Storia dell'icona dall'età imperiale al tardo Medioevo, cit., p. 271. 62 E. VON D OBSCHÙTZ, Immagini di Cristo , cit. , p. 165 ; originale latino in E. VON D o BSCHOTZ, Christusbilder, Untersuchungen zur christlichen Legende, l. Hiilfte, cit., ali. 60, pp. 307 -308.
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L'attenzione dell'Occidente alle icone Acheropite di Cristo dal favore eterno! Dalla forza data a te infondi nei cuori la luce e i nostri sensi libera dagli impedimenti. Salve splendore della gloria, salvezza dei peccatori, che rappresenti davvero il re degli angeli! Restauratrice di grazia, specchio dei santi te cercano coloro che bramano lo spirito dei cieli. Salve forza della nostra fede cristiana capace di distruggere gli eretici la cui vita è vana! Accresci il merito di coloro che ti credono senza dubbio l'effigie di colui che da pane divenne re63 . Salve nostra gloria in questa vita dura fugace e passeggera, velocemente trascorsa! Conduci noi in patria, o felice figura, in cui è visibile il volto puro che appartiene a Cristo. Salve o sudario nobile e capace di donare gioia e nostra consolazione e memoriale di colui che assunse un mero corpo mortale, 63
«Illius effigiem, qui rex fit ex pane», in ivi, p. 307.
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La venerazione del Santo Volto «della Veronica» in Occidente nostro vero gaudio e bene finale. Salve splendore del secolo, stella mattutina! Al cospetto del popolo rifulge la luce divina che è cura e medicina della vita malata. Noi nel mondo caduco salva dalla rovina. Salve gemma nobile, autentica perla perfettamente munita delle virtù celesti. Non dipinta da mani, non scolpita o levigata: ciò sa il sommo artefice che ti fece così. Quel colore celeste che in te splende nello stesso stato permane e non decresce. E anche sui tempi lunghi impallidisce minimamente. Così ti ha fatto il re della gloria, che non può ingannare. Tu che non puoi deteriorarti e permani incorrotto, trasformi in gaudio il gemito e il lutto che dai cristiani è portato davanti a te, dona come frutto un'ottima salute a chi deve guardare a te. Concedi a noi questo aiuto sicuro dolce refrigerio 181
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5. Le immagini riprodotte del Volto «della Veronica» in Occidente
e consolazione affinché l'ostile gravame . . non c1 nuoccia, ma fruiamo della pace. Tutti dicano: Amen! L'invocazione composta da Giovanni XXII si presenta come un inno di esaltazione alla bellezza splendente dell'effigie del volto divino di Cristo. Due i temi fondamentali: l'enfasi nei confronti della divinità di Gesù e la fede in quest'immagine «non fatta da mano d'uomo» donata alla Veronica quale «segno d'amore». Palese la differenza tra l'immagine «resa oscura dal tormento, alterata dai rivoli del sacro sangue» della preghiera di Innocenzo IV e il «niveo candore» dell'attuale orazione. In questo inno, tutto ruota attorno alla divinità di Gesù che traspare chiaramente anche nel momento della passione e tale rilievo apre un interessante confronto con l'Oriente cristiano che, come emerge esplicitamente nelle icone della passione, è sempre stato attento a preservare la natura divina di Cristo riproponendo un contesto quasi immobile, dove il sangue è praticamente assente e la sofferenza è già trasfigurata dalla futura gloria. La certezza che quest'icona sia nata grazie ad un diretto intervento di Cristo, rappresenta un ulteriore elemento di conferma della fede ormai assodata nei confronti di questa immagine miracolosa. Definita mirabilmente «volto di Dio, immagine beata, mirabilmente decorata dal favore eterno», la si prega affinché accresca «il merito di coloro che ti credono senza dubbio l'effigie di colui che da pane divenne re». Dal 1204, anno in cui in occasione della quarta crociata l'Occidente sottrasse a Costantinopoli molte reliquie ed immagini, crebbe l'interesse per il vero aspetto di Cristo «svegliato solo dall'importazione di questi originali greci»64 . In questo contesto l'icona di Cristo «della Veronica» assunse in Occidente il ruolo di immagine salvifica, trionfando su tutte le altre immagini bizantine: «La trasformazione della Veronica dalla reliquia vaticana in un'immagine che non deve temere la concorrenza delle icone più antiche e famose dell'Oriente non si.effettua· in un luogo qualsiasi privo di immagini sacre, ma a Roma, che ha già per se stessa una lunga e ricca tradizione di icone»65 . L'icona di Cristo «della Veronica» riuscì dunque a superare in popolarità sia la fama delle altre reliquie occidentali, sia il prestigio degli Acheropiti orientali e questo giovò alla sede papale conferendo alla basilica di San Pietro ulteriore plauso e autorevolezza.
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H . B ELTING, in G. W oLF, La Veronica e la tradizione romana di icone, cit. , pp. 18-19. G. WoLF, La Veronica e la tradizione romana di icone, cit. , p. 19.
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Le copie dell'icona romana «della Veronica», per origine, storia e caratteristiche, meritano un'attenzione e uno studio particolari. Palese e immediata la dissonanza tra l'originale e le riproduzioni: «Ci aspetteremmo di trovare delle copie dell'originale romano, possibilmente riproduzioni comparse in modo miracoloso, ma quest'idea, così frequente presso i greci, si trova qui solo in una forma del tutto recente [ .. .].Anche le copie ritenute copie sono tutt'altro che esatte riproduzioni dell'originale romano» 66 (cfr. Figg. 7 e 8) . Tale discrepanza risulta ancora più emblematica nel rapporto con l'Oriente cristiano. In quest'ultimo contesto, le prime copie della Camuliana e del Mandylion ebbero origine in modo miracoloso: generate per contatto o tramite un'azione indiretta, derivarono tutte dall'originale, a cui essenzialmente assomigliavano. L'origine miracolosa e la consonanza dei tratti non avevano solo una valenza artistica, anzi queste caratteristiche esprimevano la teologia ortodossa delle icone. Le copie, infatti, generate a partire da un prototipo Acheropita, ne «assorbivano» i tratti miracolosi e la capacità di mettere in contatto con l'immagine rappresentata. Il fissaggio di tratti fisici sostanzialmente identici testimoniava, inoltre, a favore della trasmissione di quell'unico Volto di Cristo, il solo possibile, perché Gesù in persona lo aveva lasciato. In Occidente, la maggior parte delle copie non sono affatto riproduzioni dell'originale: questo fu possibile grazie alla maggior libertà di azione dell'artista latino, che n~n doveva sottostare al rigido «canone iconografico» a cui erano chiamati ad attenersi gli iconografi orientali. Nelle miniature del XIII secolo, la riproduzione esatta dell'icona era già estranea all'idea di ritratto in generale. Tale divergenza non manifesta solo sfumature di metodo nel modo di riprodurre il volto di Cristo: alla base vi è un diverso modo di intendere il rapporto estetica-teologia, che raggiunse il suo apice nel Rinascimento. I pittori rinascimentali, infatti, pur continuando a dipingere soggetti religiosi per ragioni contingenti dovute ai committenti e al contesto sociale, si emanciparono a tal punto che si assistette alla supremazia dell'arte sulla teologia, che provocò un'evidente frattura con l'arte ortodossa, intrinsecamente impegnata, con il suo riprodurre fedelmente i tratti fisici del Volto di Cristo, a mettere in contatto con il divino, testimoniando correttamente il dogma dell'incarnazione del Verbo. L'esempio più celebre di una copia discrepante dall'originale fu quella inviata al monastero cistercense di Monstreuil-en-Thiérache. Le monache avevano chiesto e ottenuto una riproduzione dell'originale romano dall'arcidiacono e cappellano papale Giacomo Troyes Pantaleone, in seguito Urbano IV. Egli stesso, nel 1249, scrisse una lettera con la quale accompagnava la copia dell'icona
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E.
VON D OBSCHOTZ,
Immagini di Cristo, cit., pp. 165-166.
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romana, in cui giustificava la «stranezza» del colore del viso non luminoso, anzi sbiadito, che non doveva scandalizzarle, perché era il semplice risultato delle tribolazioni che Gesù aveva patito sulla terra. La comunità monastica era dunque chiamata a «considerare e venerare la copia come la santa Veronica, ovvero come l'autentica immagine di Gesù» 67 • In questa raccomandazione non riecheggia però l'insegnamento della Tradizione orientale, che accorda uguale dignità alle copie Acheropite riprodottesi in modo miracoloso a partire dall' originale: la raccomandazione papale era volta piuttosto a legittimare una riproduzione così lontana dal Volto romano «della Veronica», che le stesse monache che devotamente l'avevano richiesta ne erano perplesse. La copia inviata alle monache cistercensi non fu un caso unico, anzi riassume in modo emblematico una situazione generalmente diffusa in Occidente: «Anche se la prova può essere raramente presentata con un rigore logico, bisogna tuttavia accettare che le cose stiano così anche per le altre icone della Veronica ritenute copie dirette di quella romana. L'enorme quantità di icone[ ... ] non implica necessariamente la pretesa che esse siano state fatte in base all'originale romano» 68 . La diffusione delle riproduzioni del Santo Volto «della Veronica» trova conferma nelle miniature del XIII secolo, dove la testa di Cristo era raffigurata nel velo tenuto in mano dalla Veronica che lo mostrava come la «vera eikon» (Figg. 7 e 8). La «libertà» che si verificò nella riproduzione dei tratti del Volto «della Veronica» era in parte giustificabile a partire dal progressivo venir meno di una diretta accessibilità dei fedeli all'icona. A Roma, a differenza di quanto si era precedentemente verificato a Costantinopoli con il Mandylion, l'accesso ali' Acheropita aveva goduto di una situazione più agevole, grazie alle frequenti esposizioni legate in particolare all'ottenimento dell'indulgenza. Ma, con il passare degli anni, si iniziò a celare agli occhi dei più il Santo Volto romano e questo ovviamente generò un ricordo sempre più vago dell'originale che permise o, al contrario, condusse inevitabilmente i pittori ad aggiungere particolari che differivano decisamente dal prototipo. Volti di Cristo con gli occhi chiusi, pieghe aggiunte a panni ondeggianti e, in particolare, dal 1400 in poi, particolari che rimandano esplicitamente alla passione - gocce di sangue e la corone di spine - sono i chiari indicatori di una progressiva personalizzazione nella riproduzione delle copie: «Né l'originale, né le libere riproduzioni più antiche sanno qualcosa delle gocce di sangue o della corona di spine. Le prime appaiono sporadicamente a partire dal 1400. La seconda si incontra soprattutto su stampe e xilografie a partire dalla seconda metà del xv secolo»69 . Le differenze più rilevanti nelle copie furono gli occhi chiusi, le sofferenze sul volto che ri-
specchiano pienamente la leggenda secondo la quale Cristo, in cammino verso il Golgota, si premette sul viso il panno che Veronica gli aveva donato: «Solo nelle repliche, il "volto autentico" si riempì di sangue e lacrime che lo facevano apparire più attuale che nell'originale»70 • A Roma inoltre si alternarono due icone, che si contesero il titolo di legittimo Acheropita di Cristo: si trattava della testa di Cristo che attualmente si trova in San Silvestro e dell'odierna icona del Vaticano, che subentrò alla precedente. Nelle due icone si possono scorgere le sfumature delle più celebri preghiere papali: il Volto di Cristo di san Silvestro, con gli occhi ben aperti, si avvicinava maggiormente al bagliore divino sul viso di Gesù dell'invocazione Salve sancta /acies, mentre l'icona vaticana, impronta di un volto morto, rispecchia la preghiera Ave /acies praeclara, riferita al pallore di Gesù condannato al supplizio della croce. Le riproduzioni del Volto «della Veronica» erano a tal punto diffuse che neppure il sacco di Roma del 1527, in cui sparì misteriosamente l'originale, riuscì a distruggere le molteplici copie in circolazione. Da quel momento in poi, si verificò anche un'accelerazione del processo di libera «reinterpretazione» dell'Acheropita perduto: «Ora la moltiplicazione materiale del lenzuolo che si venerava a Roma non era più così importante come la sua riproduzione davanti ali' occhio interiore, per il quale la differenza fra lenzuolo e volto, fra immagine e originale, si fondava in un'unica impressione»71 • Con le riproduzioni ufficiali autorizzate da papa Paolo v72 (1605-1621), in Occidente si impose definitivamente il Volto di Cristo con gli occhi chiusi. Questa scelta celava un'implicita ammissione della perdita dell'originale, presumibilmente avvenuta ìn occasione del sacco di Roma: infatti, «o tutte le repliche prima del 1527 avevano tradotto in modo arbitrario ed efficace una pura e semplice impronta sul panno di un volto "guardante" per simulare un'icona, oppure l'originale era andato perduto ed era stato quindi sostituito da un altro, che proprio nell'impronta con gli occhi chiusi voleva fornire una nuova prova di autenticità»73 . Il volto di Cristo, con gli occhi chiusi, decretava infine che l'origine «ufficiale» dell'Acheropita romano era da collocarsi al momento della passione del Signore e scopo primario dell'immagine era dar «prova della leggenda secondo la quale il Cristo nel cammino vèrso il Golgota si premette sul viso il panno che santa Veronica aveva teso verso di lui»74. Le riproduzioni
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Ivi, p. 166. Ivi, p. 166. lvi, p. 167 .
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H. B ELTING , La vera immagine di Cristo, cit., p. 129. Ivi, p. 132. 72 Paolo v affidò inoltre al notaio pontificio Giacomo Grimaldi il compito di raccogliere informazioni sul passato dell'icona di Cristo «della Veronica» e sulla conservazione che ne era stata fatta nella vecchia basilica di San Pietro, nello sfarzoso tabernacolo fatto costruire appositamente da Giovanni VII. n Ivi,p. l4J. 74 Ivi, p.143. 71
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che circolarono dal 1617, sotto il pontificato di Paolo v - corredate da un certificato papale che ne garantiva l'autenticità - si differenziarono notevolmente dal prototipo: «si voleva, infatti, soffocare ogni dubbio sul fatto che il telo fosse sopravvissuto all'anno infausto 1527, il che riuscì tanto più facilmente quanto più si indeboliva il ricordo del suo antico aspetto»75 . La fama di questa icona si mantenne alta con il passare degli anni, tanto che, quando Urbano VIII (15681644) affidò a Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) l'incarico di rimodellare lo spazio della cupola di San Pietro, quest'ultimo scelse di collocare sopra uno dei quattro pilastri della cupola, una cappella con all'interno il Santo Volto «della Veronica». Al piano terra, una statua di Francesco Mochi (1580-1654) ritrae una Veronica che procede a passi impetuosi e che tiene tra le mani un velo tra le cui pieghe è disegnato schematicamente il volto di Cristo. Il vero panno ormai trattato al pari delle altre reliquie quali la croce, la lancia di Longino e la testa dell'apostolo Andrea - venne, invece, sistemato a un'altezza vertiginosa tanto che i pellegrini non potevano più vederlo: «L'originale romano è diventato un lontano ricordo e un oggetto mitico. [ ... ] Era sufficiente l'esistenza di una reliquia che secondo la leggenda era venuta in contatto con il corpo di Crist0>>76, a tal punto che «la rappresentazione del panno divenne più importante del panno stesso»77 •
perciò inizialmente un elemento del tutto seco~dario. Nell'XI secolo la leggenda viene trasformata, soprattutto grazie all'introduzione dell'idea di un'icona miracolosa. Questa emerge con forza sempre maggiore; con la sua consegna a Roma essa diventa una traslazione ecclesiastica. Continuamente in movimento, la leggenda si trasforma fino al XVI secolo più volte, interviene nei più diversi cicli di leggende e accoglie ogni tipo di nuovi motivi»78 • Il culto legato all'icona «della Veronica» fu notevole, testimoniato sia dalle preghiere di Innocenzo IV e Giovanni XXII, sia dal ruolo che l'icona assunse nel cerimoniale pontificio, in particolare in quello dei giubilei. La devozione verso questa immagine fu fortemente incentivata dalla Chiesa ufficiale, generando un intenso flusso di pellegrini da ogni parte della Chiesa latina, come confermarono illustri scrittori quali Dante (1265-1321) e Petrarca (1304-1374) . Accanto ai viaggi e ai pellegrinaggi per venerare l'icona romana, si incrementò anche la produzione della letteratura religiosa associata alla liturgia e alle indulgenze. Le molteplici pratiche devozionali raggiungevano la massima espressione nella liturgia della Chiesa celebrata a Roma. Dal papato di Celestino III (1191 -1198), la reliquia fu regolarmente esposta, diventando parte del cerimoniale pontificio. Innocenzo III istituì nel 1208 la processione annuale che, secondo quanto dichiarato dallo stesso pontefice nell'apposita bolla, voleva essere una commemorazione liturgica delle nozze di Cana. Proprio nel 1300 l'accorrere dei pellegrini a Roma, per vedere il Volto Santo, diede ulteriore forza al culto per un oggetto già sacro alla chiesa universale, a cui venne attribuito un carattere salvifico in virtù della remissione dei peccati associata ad alcune pratiche devozionali. Da quell'anno in poi si diffuse anche una cospicua varietà di xilografie della Veronica e si moltiplicarono i cosiddetti pictores Veronicarum nell'atrio di San Pietro. I numerosi pellegrini, spesso ostacolati nella visione dell' Acheropita dalla folla, cercavano infatti una vicinanza ali' archetipo acquistandone una copia da portare a casa in ricordo di quel lungo viaggio e a prolungamento della devozione nei confronti dell'immagine romana. Sempre a partire dal 1300, il Santo Volto fu esposto ogni venerdì in ricordo della passione e in occasione delle principali festività per confortare i pellegrini. La frequenza dell'esposizione esplicita sia un legame ormai ben consolidato tra la città e la reliquia, sia una valorizzazione ufficiale della Chiesa romana dell'immagine di Cristo «della Veronica». Interessanti le testimonianze della letteratura sulla devozione e sul culto del Volto di Cristo «della Veronica». Dante, nella Vita nova, documentò il flusso di pellegrini che attraversava il mondo cristiano. Molti, infatti, si recavano in Terrasanta, altri andavano a Santiago de Compostela per venerare il corpo di san
6. Sguardo sintetico sulla venerazione del Volto di Cristo «della Veronica» Le immagini «non fatte da mano d 'uomo», che si diffusero in Occidente, evidenziano un esplicito legame con gli Acheropiti orientali: rimandi continui tra Oriente e Occidente, intrecci complessi e scambi prodigiosi testimoniano un evidente interesse del mondo latino nei confronti dei Sacri Volti bizantini, che comportò tuttavia un inevitabile adattamento dovuto al differente modo di accostarsi alle icone da parte della teologia e della devozione latina. La teologia occidentale valorizzò tali immagini, ma senza riferirsi al loro carattere di «intermediari» con il soggetto rappresentato - come invece insegna il Niceno II - e la devozione le trasformò sostanzialmente in reliquie da utilizzare per le indulgenze. L'antico nucleo bizantino sull'origine dell'icona di Cristo «della Veronica» fu inoltre sostanzialmente modificato nel corso degli anni: «La leggenda della Veronica nasce nel VI secolo grazie all'inserimento della leggenda di Paneas in quella di Pilato. L'immagine di Cristo, dapprima dipinta in modo naturale, è 75 76 77
Ivi, p. 144. Ivi, p. 146. Ivi, p. 146. ·
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D OBSCHUTZ,
Immagini di Cristo, cit., pp . 188- 189.
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La venerazione del Santo Volto «della Veronica» in Occidente
Giacomo il Maggiore e un flusso significativo, quello dei «romei»79 , prendeva sempre più corpo dirigendosi a Roma a contemplare il Santo Volto: «Chiamansi palmieri in quanto vanno oltremare, là onde molte volte recano la palma; chiamansi peregrini in quanto vanno alla Casa di Galitia, però che la sepultura di Sa' Iacopo fue più lontana de la sua patria che e' alcuno altro apostolo; chiamansi romei in quanto vanno a Roma, là ove questi cu'io chiamo peregrini andavano» 80 • Il pellegrinaggio a Roma aveva come scopo quello di «vedere quella immagine "benedetta" la quale lesu Cristo lasciò a noi per esempio de la sua bellissima figura» 81 . Dante ricordò anche, nella Divina Commedia, l'abitudine di esporre in San Pietro, in occasione delle festività e dei giubilei, il Volto di Cristo «della Veronica». Paragonando la tenerezza provata quando gli si manifestò san Bernardo in Paradiso, alla carità ardente dei pellegrini e devoti che contemplano il volto impresso nel sudario, spiega come la «sembianza» di Cristo, che ricordava il suo corpo terreno, prefigurasse la sua apparizione celeste: «Qual è colui che forse di Croazia viene a veder la Veronica nostra, che per l'antica fame non sen sazia, ma dice nel pensier, fin che si mostra: "Signor mio Gesù Cristo, Dio verace, or fu sì fatta la sembianza vostra?"; tal era io mirando la vivace carità di colui che 'n questo mondo, contemplando, gustò di quella pace»82 • Con Dante, anche Petrarca descrisse il flusso dei devoti che si recarono a Roma, in occasione del Giubileo del 1333, per venerare il Volto Santo «della Veronica» e visitare le tombe degli apostoli Pietro e Paolo. Il poeta descrisse una scena suggestiva: un uomo anziano decide di recarsi a Roma, lasciando attonita la famiglia, data l'età e le difficoltà obiettive che il viaggio comportava. Ma nell'uomo era vivo il desiderio di ammirare la «forma vera» 83 di Cristo, i cui tratti avrebbe potuto contemplare pienamente solo in Paradiso:
«Movesi il vecchierel canuto et biancho del dolce loco ov' è sua età fornita et da la famigliuola sbigottita che vede il caro padre venir manco; indi trahendo poi l'antiquo fianco per l' extreme giornate di sua vita, quanto più può, col buon voler s'aita, rotto dagli anni, et dal camino stanco; et viene a Roma, seguendo 'l desio, per mirar la sembianza di Colui eh' ancor lassù nel ciel vedere spera così, lasso, talor vo cerchand'io donna, quanto è possibile, in altrui la disiata vostra forma vera»84 • Il Volto Santo «della Veronica» ebbe dunque un ruolo importante nella storia del culto e della devozione occidentale. Sono tuttavia evidenti le differenze con la Tradizione orientale, dove il rimando dell'immagine al prototipo, in una forma tanto forte da veicolarne la «presenza», apre la strada a una prospettiva in cui l'emergere teologico relativizza l'estetico: «Il ritratto isola il modello al fine di consentirne una ricezione più diretta e più forte. "Sono io", sembra dire la persona rappresentata. "È lui", sembra percepire in una sorta di eco colui che riconosce il modello o apprende la sua identità attraverso un'iscrizione»85 • In Occidente gli Acheropiti di Cristo sono considerati, m':lla migliore delle valutazioni, venerabili reliquie capaci di rendere visibili i tratti autentici ·del volto del Salvatore, in una forma tuttavia nella quale, proprio in quanto l'immagine in questione non gioca né un ruolo dogmatico né un ruolo liturgico, a prevalere non può che essere l'aspetto estetico. Diverrà del tutto comprensibile, in questo senso, l'atteggiamento fortemente emotivo, estetico appunto, che accompagnerà la pur straordinaria devozione che caratterizzerà in Occidente non solo il Volto di Cristo «della Veronica», ma anche quello dei diversi Santi Volti, di origine orientale, che seppero esercitare sul mondo latino una viva attrazione.
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«Dal greco "rhomàioi", che designava dapprima i pellegrini occidentali in Terrasanta, e che passò poi a indicare i pellegrini diretti a Roma» nota, in DANTE ALIGHIERI, Vita Nuova, Giulio Einaudi Editore, Torino 1996, p. 223 80 DANTE ALIGHIERI, Vita Nuova , son. XXIV, in ivi, p. 223. 81 Ivi, p. 219. 82 D ANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia, Paradiso , XXXI, 103-111 , Giulio Einaudi Editore, Torino 1996, pp . 868-869. 8J «È coniato sull'etimologia di Veronica vera icon» nota, in F. PETRARCA, Canzoniere, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1996, p . 71.
F. PETRARCA, Canzoniere, cit. , Parte prima 16, p. 68. «Bref, le portrait isole le modèle pour une réception plus directe et plus forte. "C'est moi ", semble dire la personne représentée. "C'est lui" , semble répondre en e~ho celui qui reconna1t le modèle ou apprend son identité par une iscription», in G . DAGON, Décrire et peindre. Essai sur le portrait iconique, cit., p. 9.
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Capitolo secondo LA DIFFUSIONE DELLA VENERAZIONE DEI «SANTI VOLTI» IN OCCIDENTE
1. I Santi Volti come immagini bizantine oggetto di venerazione in Occidente
L'Occidente ha subìto fin dai tempi antichi il fascino delle icone: ha rivolto spesso il suo sguardo ali' arte ortodossa, di cui ha accolto le immagini, facendone oggetto di viva venerazione. Questo vivace interesse, che ha permesso che fosse proprio l'Occidente a conservare celebri icone bizantine, vide svilupparsi intorno ad esse una devozione e un culto notevoli, trasformatisi nel corso del XIX secolo in una vera e propria infatuazione occidentale per le icone. L'immagine cristiana che però si è sviluppata ed affermata in Occidente, in particolare dal Rinascimento in poi, si caratterizza per i suoi tratti profondamente differenti rispetto a quelli dell'icona, tanto da essere stata polemicamente definita da alcuni teologi russi «dipinto a soggetto religioso». La consapevolezza di questa eterogeneità permette di evitare fraintendimenti rispetto alla specificità dei due approcci. L'Occidente, infatti, si è sempre rivolto alle icone pensandole sotto il profilo didattico, illustrativo, devozionale e miracolistico. Per l'Ortodossia, invece, le icone hanno primariamente una funzione dogmatica e rivelativa, come emerge dal dettato del Niceno II. Il mondo latino valorizzò l'aspetto pedagogico ed esplicativo delle icone bizantine, pensandole come ornamento nelle Chiese per illustrare, a coloro che non erano in grado di accostarsi direttamente alla Scrittura, la storia della salvezza. E anche il significato intrinseco e profondo dei Santi Volti, nella loro comprensione orientale, venne di fatto del tutto travisato nella recezione occidentale degli stessi. Essi vennero accolti come preziose reliquie da venerare, senza riconoscerne però il valore di peculiare testimonianza dell'incarnazione del Logos. E, dato ancora più emblematico al riguardo, è il giudizio che molti moderni studiosi occidentali, storici dell'arte o teologi, danno sull'origine dei 191
L'attenzione dell'Occidente alle icone Acheropite di Cristo
La diffusione della venerazione dei «Santi Volti» in Occidente
Santi Volti: questi ultimi, infatti, altro non sarebbero che immagini inventate dalla Chiesa d'Oriente intorno VI secolo con la funzione di accreditare come risalente agli inizi stessi del cristianesimo, a fronte delle istanze iconoclaste, il culto delle immagini. Lungi da qualsivoglia loro collocazione teologica, la tendenza occidentale è quella di intendere gli Acheropiti come semplici opere d'arte fra le altre. La reazione occidentale ai dettami del Niceno II, cardine della prospettiva ortodossa sulle immagini, la fornirono i Libri Carolini, redatti tra il 791 e il 794. Le argomentazioni raccolte in questo trattato si prefiggono proprio di confutare il cuore delle dichiarazioni conciliari: «Contro coloro che sostengono che l'onore reso all'immagine passa al prototipo. Molto usato e certamente molto familiare a coloro che ardono nell'adorare le immagini è questo argomento: pensano e asseriscono che l'onore reso all'immagine possa passare alla stessa forma che essa rappresenta. Tuttavia non si vede ragione alcuna che spieghi come e se ciò possa avvenire, né ciò è comprovato dalla testimonianza delle Scritture» 1• Il punto di vista occidentale sulle icone - «noi non disapproviamo nulla circa le immagini se non l'adorazione, in effetti permettiamo che nelle basiliche vengano poste immagini dei santi non per adorarle, ma per memoria delle loro vicende e per decoro delle pareti»2 - è certo molto parziale rispetto a quello del cristianesimo orientale. Il testo dei Libri Carolini, oltre a ricordare la significativa assenza di una legittimazione del culto delle immagini nella Bibbia, «procede anche a una demolizione dell'equiparazione tra pittura e Scrittura: sostiene che le esistenti rappresentazioni figurative sono ben lungi dal manifestare quel contenuto di verità che la Bibbia, in quanto rivelazione divina, può fornire. Questa rimane perciò l'unica depositaria della verità cristiana e il solo mezzo che possa condurre all'autentica percezione - quella spirituale - di Dio»3 . In Occidente, la supremazia della Scrittura sulle immagini è assolutamente evidente e coerente con una teologia che alle icone nega il suo carattere rivelativo, evidenziando così il discrimine sostanziale che separa in merito ali' arte sacra figurativa i due mondi cristiani. Per la Tradizione dell'Oriente cristiano, Dio si è rivelato attraverso la Scrittura, l'Eucarestia e le icone: «Dopo l'Ascensione il Cristo che dice: "Io sono con voi fino alla fine del mondo" appare nella sua Parola per l'audizione, nell'eucarestia per la consumazione, nell'icona per l'incontro orante»4 • La caratteristica capacità rivelativa delle icone raggiunge il massimo livello nei Santi Volti bizantini, in particolare nel Mandylion che «posto vicino all'altare
simboleggia la vittima eucaristica»5 . Questo dato emerge con forza in un testo greco anonimo che descrive le solenni cerimonie dedicate all'immagine edessena. L'Acheropita veniva portato in processione per la Chiesa in cui era custodito, il clero poi lo poneva sull'altare, davanti al quale il metropolita si inchinava per la venerazione. Egli apriva poi la teca in cui il Mandylion era conservato, ne contemplava l'immagine e infine l'abbracciava: «il Mandylion restava sull'altare per tutto il tempo della liturgia e l'autore del testo ci dice che ciò simboleggiava il sacrificio non cruento di Gesù, e cioè l'eucarestia»6 . In ambito occidentale è indubitabile che l'attenzione riservata ai Santi Volti bizantini non nasce da un interesse dogmatico, bensì più in generale religioso, e si muove nell'ambito della venerazione e non della teologia vera e propria. Il processo di osmosi tra il mondo orientale e quello occidentale è complesso, con risvolti inediti, non esenti da fraintendimenti 7 • La Chiesa latina, che attinse a piene mani al patrimonio artistico e teologico orientale accogli~ndo i Sacri Volti bizantini, fu mossa dall'intuizione del carattere rivelativo degli Acheropiti ortodossi e, allo stesso tempo, dalla consapevolezza della perdita della forza attestativa delle proprie immagini: «Nel momento in cui la devozione latina iniziò a chiedere di poter contemplare il vero volto di Dio, ci si rivolse alla Tradizione bizantina che avrebbe potuto soddisfare un tale bisogno»8 . Paradossalmente l'esito del rapportarsi occidentale ai Santi Volti fu devozionale: svuotate del loro carattere rivelativo, diventarono delle reliquie, capaci di operare miracoli, di cui si mise in disparte l'intrinseco tratto teologico-rivelativo. Tra i Santi Volti bizantini che più hanno giocato un ruolo di rilievo nella storia della devozione occidentale vi sono il Santo Volto di Laon (Fig. 9), di Genova (Fig. 10) e di Manoppello (Fig. 16), la cui storia si intreccia con quella degli Acheropiti bizantini di Cristo.
Libri Carolini, in D. MENOZZI, La Chiesa e le immagini. I testi/ondamentali sulle artifigurative dalle origini ai nostri giorni, cit., p . 109. 2 Ivi, p. 109. Ivi, p. 25. P. EVDOKJMOV, Teologia della Bellezza. I.:arte dell'icona, cit., p. 207.
«Rapproché de l'autel il figure la victime eucharistique», in A. GRABAR, La Sainte Pace de Laon. Le Mandylion dans l'art orthodoxe, cit., p. 29. 6 «Le Mandylion restait sur l'autel devant lequel officie le Christ», in ivi, p. 29. Il vivace commento di Michelangelo a proposito della riproduzione ufficiale del Volto «della Veronica» realizzato da Ugo da Carpi (Fig. 8) è emblematico della considerazione che gli artisti occidentali avevano per le immagini dipinte «alla greca». La testimonianza, raccolta direttamente da Vasari, riporta quanto avvenne una mattina, verosimilmente dopo il 1527, in cui si trovò a Messa con il celebre artista. Vasari mostrò scherzosamente a Michelangelo l'iscrizione allegata all'icona romana, su cui era scritto che «l'aveva fatta Ugo da Carpi senza pennello», davanti alla quale Michelangelo rispose ridendo: «sarebbe meglio che avesse adoperato il pennello e l'avesse fatta di miglior maniera», in G. VASARI, Vite, in H. BELTING, La vera immagine di Cristo, cit., p. 141. «As European devotion began to demand to see the very face of God, it was the Byzantine tradition that could satisfy that need», in Byzantium. Faith and power (1261-1557), Edited by H.C. EvANS, The Metropolitan Museum of Art, New York, 23 marzo-4 luglio 2004, Yale University Press, New York-New Haven and London 2004, p. 174.
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La diffusione della venerazione dei «Santi Volti» in Occidente
2. Il Santo Volto di Laon «Poche opere sono così esemplificative della storia delle immagini sacre bizantine come questa» 9 . Eppure della storia del Santo Volto di Laon (Fig. 9) si conosce ben poco 10 , nonostante quest'opera slava abbia riscosso un profondo interesse e un notevole successo in Occidente. Si tratta di un'immagine chiaramente dipinta, i cui «tratti morbidi e pieni del volto, con la loro libertà pittorica, la farebbero risalire al XIII secolo» 11 • La relazione di questa immagine con gli Acheropiti di Cristo rimane però significativa sia sul piano della storia, sia su quello iconografico. Secondo le cronache, l'icona fu inviata nel 1249 dall'arcidiacono Giacomo Troyes Pantaleone, futuro Urbano IV, a sua sorella Sybille, abbadessa del monastero circestense di Monstreuil-en-Thiérache, dove il dipinto rimase fino al 1262. L'immagine fu poi trasferita nel XVII secolo, all'incirca nel 1658, al convento di Monstreuil-les-Dames a La Neuville, vicino a Laon, dove fu collocata in una reliquiario d'argento. Nel 1792 fu consegnata alla parrocchia, dove l'amministratore Lobjoy custodì segretamente l'icona nel periodo del Terrore, durante la Rivoluzione francese. Nel 1795 fu infine donata alla cattedrale di Laon e collocata ufficialmente nel tesoro della cattedrale nel 1807. Qui si trova tuttora sotto l'altare di una cappella laterale, nella sala del Tesoro. Giacomo Pantaleone accompagnò la spedizione con una lettera scritta personalmente, il cui testo ci è tramandato solo tramite varie trascrizioni: «Da quanto emerge dalla presunta lettera di Jacques de Troyes scritta nel 1249 alla sorella, badessa di Monstreuil-en-Thiérache, questo dipinto fu offerto come una copia del Volto della Veronica, non come una riproduzione del Mandylion. E facilmente assunse l'autorevole ruolo dell'immagine del Volto di Cristo. [ ... ] La sua autorità le derivava dalla sua autenticità, conferitale dalle sue profonde radici nella Tradizione bizantina» 12 . Lo scritto riportato, e le successive leggende che attorno a questa immagine furono plasmate, alimentarono l'idea che il Volto di Laon fosse una copia di quello romano «della Veronica», se non addirittura
l'originale, convergenza impossibile dato che l'icona è opera del mondo slavo. A livello estetico, si tratta di un volto di Cristo con gli occhi aperti (Fig. 9). La testa è senza collo, tipica dei Volti Acheropiti, di colore scuro e con un nimbo a forma di croce. L'icona vera e propria misura 44 centimetri di altezza e 40 centimetri di larghezza; ritoccata una prima volta nel momento in cui le si cambiò il rivestimento metallico, all'incirca tra il XVII e il XVIII secolo, fu restaurata totalmente tra il 1988 e il 1991 per proteggerla dai danni causati dall'umidità. Il Santo Volto che attualmente è possibile vedere nella cattedrale di Laon è conservato sostanzialmente nel suo stato primitivo. Sull'opera è presente una scritta in paleoslavo, sovrapposta ad una precedente in greco, che indica la provenienza dell'icona. Sull'iscrizione, contemporanea alla pittura, gli studiosi discussero a lungo, poiché non si trattava né di una scritta ebraica né greca. Il padre Honoré de Sainte Catherine sostenne che si trattava della lingua slava: la sua tesi trovò conferma nella dichiarazione di Pietro il Grande (1672-1725) quando visitò Laon. Il monogramma di Cristo (re xc) occupa gli angoli superiori dell'immagine, mentre lungo il bordo inferiore vi è una frase che, pur interpretata in modo simile, è espressa con sfumature diverse a seconda degli autori. Il più celebre studioso del Volto di Laon si «limita» a tradurre la scritta: «Immagine del Signore sul fazzoletto» 13 , seguito da H. Belting: «Volto del Signore su un panno» 14 • Altri invece reinterpretano ideologicamente l'iscrizione: in G. Gharib essa diventa il «Ritratto del Salvatore stampato sul Mandylion» 15 o addirittura il «Ritratto del Salvatore stampato sul fazzoletto della Veronica» 16 . Da queste ultime traduzioni appare evidente il tentativo di far coincidere l'immagine di Laon con due diversi celebri Acheropiti. L'iscrizione è tracciata rapidamente con un vermiglio assai diluito; la grafia dei caratteri, la loro grandezza diseguale e l'irregolarità della linea mostrano un lavoro frettoloso e approssimativo e tuttavia «la calligrafia pensa ali' effetto decorativo: la parola centrale dell'iscrizione è leggermente sollevata, mentre alcuni tratti di parole sono collegati ad altri per circondare la parola centrale, come le due ali di un trittico» 17 •
«Few works so fully exemplify the history of Byzantine holy images as this one», in Byzantium. Faith and power (1261-1557), cit. , p. 174. 10 Nell'analisi di questo Santo Volto faremo riferimento allo studio completo e particolareggiato di A. GRABAR, La Sainte Face de Laon. Le Mandylion dans l'art orthodoxe, cit., in particolare alle pp. 6-22. 11 H. BELTING , Il culto delle immagini. Storia dell'icona dall'età imperiale al tardo Medioevo, cit., p. 269. 12 «It was as a Veronica, not a Mandylion, that this panel was offered in the presumed letter of Jacques de Troyes to his sister, abbess of Monstreuil-en-Thiérache, in 1249. lt stepped easily into this role, assuming compelling authority as the image of Jesus's face. [ ... ] lts authority derived from its authenticity, and this it acquired from its deep roots in Byzantine tradition», in Byzantium. Faith and power (1261-1557), cit., p. 174.
13 «lmage du Seigneur sur le mouchoir», in A. GRABAR, La Sainte Face de Laon. Le Mandylion dans l'art orthodoxe, cit., p. 6. 14 H. BELTING, Il culto delle immagini. Storia dell'icona dall'età imperiale al tardo Medioevo , cit., p. 269. 15 G. GHARIB, Le icone di Cristo. Storia e culto, cit., p. 181. 16 J.A.S. COLLIN DE PLANCY, Dictionnaire critique des reliques set des images miraculeuses, Parigi 1821 , trad . ital di A.M. DI NOLA, Roma 1982 , p. 218. 17 «La graphie des caractères, leur grandeur.inégale, l'irrégularité de la ligne montrent un travail hatif et négligé. Néanmoins, le calligraphe pense à l'effet décoratif: le mot forme le centre de l'inscription, il est légèrement soulevé; réuni pour contrebalancer le premier mot de la phrase, dont le début et la fin entourent le mot central, comme deux ailes d'un triptyque», in A. GRABAR, La Sainte Face de Laon. Le Mandylion dans l'art orthodoxe, cit., p. 6.
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Nello specifico l'icona è dipinta su due sottili tavole di cedro giustapposte, una delle quali ha una finitura nel senso della lunghezza. Due strisce di tela incollate a rovescio proteggono questa finitura, così come la congiunzione tra le due tavole. Il rovescio è liscio, senza iscrizioni nei disegni. L'interno è scavato in centro a forma concava, circondato da bordi sopraelevati. La superficie dell'icona è ricoperta da un sottilissimo strato di gesso che porta l'impronta dei contorni sommari dell'immagine, tracciati con l'aiuto di un punteruolo. All'interno di questi contorni e specialmente sotto i capelli di Cristo si distinguono delle chiazze gialle del primo strato di colori: si tratta probabilmente del «tono» locale che, trasparendo attraverso il colore bianco del fondo attorno alla testa del Cristo, forma una sorta di aureola, d'un giallo sgradevole e dalla forma irregolare. Il restauro che si osserva è di fattura moderna. Il Santo Volto di Laon (Fig. 9), essendo un'opera bizantina, ne riflette anche la rigidità stilistica: è infatti raffigurato solo il capo di Cristo, senza collo, ed è evidente una rigorosa simmetria tra le due metà del volto, comprese le ciocche dei capelli e della barba. La testa del Cristo si staglia su una superficie monocroma bianca, con una sfumatura giallastra, color avorio, che comprende il nimbo e la cornice. Questo pallido fondo fa risaltare i colori scuri della testa del Cristo, dove dominano il bruno e il verde oliva. Il verde delle ombre trapassa impercettibilmente nel bruno delle semiombre poste sopra ad esse che, a loro volta, penetrano nel rosso delle guance con il bianco delle luci. In particolare le ombre verdi si trovano sul lato sinistro dello spettatore, tra l'occhio e i capelli, sulla guancia di Gesù. Il verde appare inoltre sotto gli occhi, sotto il naso e infine a destra lungo il naso. Fatta eccezione per questa ultima macchia d'ombra verde all'altezza del naso, sono le semiombre brune che dominano il lato destro del viso; alcune macchie dello stesso colore riempiono gli affossamenti tra gli occhi e le sopracciglia. Le luci sono più intense sulle palpebre inferiori e sugli occhi vicino al naso. Sulle guance il bianco è posato in una serie di sottilissime linee raggianti, rapportate le une alle altre. La cornea di forma ovale è bruna, così come il suo contorno, l'intera pupilla e il bordo della palpebra superiore, così come le ciglia, sono dipinte in nero. Le sopracciglia sono brune, le labbra rosso carminio; il labbro inferiore sembra essere stato ritoccato e forse anche allargato. Le orecchie, disegnate in modo convenzionale, sono visibili solamente nella parte inferiore e sono illuminate dal colore giallo. La massa di capelli è unica: solcata da linee ondulate quasi parallele, ora nere e ora bruno cupo, quasi a formare ciocche singole di capelli che pendono dai due lati della testa del Cristo. Questi tratti però non seguono un rigido schematismo e infatti alcuni riccioli si staccano dalla massa dei capelli per ricadere disordinatamente sulla fronte. In generale i peli della barba e dei baffi appaiono più scuri di quelli della capigliatura, grazie ai numerosi tratti neri o aggiunte di nero che fanno praticamente sparire il tono locale giallo, più visibile nella capigliatura. Un doppio
contorno rosso segna la croce all'interno del nimbo con un disegno piuttosto approssimativo il cui risultato è un ritratto di spessore ineguale, che spesso si arresta senza seguire il contorno del nimbo. Le estremità della croce si allargano bruscamente, formando da ciascuna delle due parti un angolo. Ogni braccio della croce porta una chiazza rossa arrotondata che sembra un grande rubino e tutt'intorno vi sono delle serie di piccole chiazze rotonde e blu che imitano le perle. La rappresentazione del tessuto, attorno alla figura del Cristo, riempie tutta l'icona ad eccezione della cornice. Il tessuto sembra steso su una ~uperficie liscia e infatti non vi è alcuna piega. Dall'insieme dell'immagine appare chiaro che si tratta di un dipinto: «La fattura dell'immagine è piuttosto "pitturale": la testa del Cristo è modellata con l'aiuto di processi coloristi; i contorni sono rari, le luci non assumono mai l'aspetto di macchie di forma geometrica, come in molti affreschi e icone ortodosse» 18 . Per quanto riguarda la cornice, essa conserva le tracce di una bordura color vermiglio e contorni di un ornamento molto semplice, formato da schematiche foglie di acanto. La presenza di un ornamento su questa parte dell'icona prova che in origine, come oggi, essa fu interamente scoperta ed esposta allo sguardo dello spettatore, sebbene per un certo periodo l'icona, ad eccezione della testa di Cristo, fosse completamente rivestita da una guaina metallica. A riprova di questa copertura, realizzata secondo le cronache durante il soggiorno del Santo Volto nel convento di Monstre\lil-les-Dames, rimangono numerosi minuscoli chiodi piantati nel legno dell'icona, particolarmente fitti attorno alla testa di Cristo e lungo la cornice. Il Santo Volto di Laon, pur non essendo una delle prodigiose riproduzioni di un originale Acheropita, ha catalizzato l'attenzione e in particolare la devozione di migliaia di fedeli che hanno gremito e tuttora si recano in pellegrinaggio a Laon. Questa immagine, proprio per il suo non essere un'icona «non fatta da mano d'uomo», può essere assunta a emblema dell'uso che l'Occidente fece dei Santi Volti bizantini, a cui si chiedeva di mostrare autorevolmente i tratti umani del Volto di Cristo. Al cristianesimo latino non interessava il modo in cui tali immagini si erano formate, perché la loro origine non condizionava né la riflessione dogmatica né il successivo culto ad essi correlato. I Volti Santi suggerivano qualcosa del volto effettivo del Signore, in una prospettiva tuttavia la cui finalità non superava il mero orizzonte del devozionale.
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18 «Dans son ensemble, la facture de l'image est plutòt "picturale": la tete du Christ est modelée à l'aide de procédés coloristes; les contours sont rares, les lumières ne reçoinvent jamais l'aspect de taches de forme géometrique, comme dans tant de fresques et d'icones orthodoxes», in ivi, p . 6.
L'attenzione dell'Occidente alle icone Acheropite di Cristo
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3. Il Santo Volto di Genova
Volto emergono immediati il fascino della preziosa cornice e l'austera autorevolezza del Volto di Cristo. La cornice è un capolavoro dell'oreficeria di corte bizantina risalente al XIV secolo, sicuramente prima del 1388, forse nel 1362. Si tratta di un prezioso lavoro in filigrana; applicato su un'armatura di supporto di legno che riquadra il Sacro Volto, ai cui lati sono inserite dieci formelle a sbalzo: «la rappresentazione che è di gran lunga la più ampia della leggenda del Mandylion» 22 • Queste formelle sono il simbolo del legame tra il Santo Volto di Genova e la Tradizione bizantina, riconosciuta come la fonte autorevole su cui fondare la propria narrazione. L'icona di Genova si dissocia dal filone maggioritario occidentale, che vede prevalere il contesto della passione di Cristo come luogo d'origine degli Acheropiti di Cristo e delle successive copie. Benché si tratti di un'icona bizantina, la cui storia rimanda alla versione «canonica» della Tradizione ortodossa sugli Acheropiti, la teologia e la devozione occidentali le attribuiscono il ruolo di una reliquia, nel solco di quella comprensione «debole» delle immagini che ha caratterizzato la riflessione e il culto dell'Occidente. Le due serie di formelle che risaltano sulla cornice (Fig. 10) si riferiscono rispettivamente alla storia del Mandylion nel suo periodo iniziale legato al re Abgar e alle vicende successive fino alla traslazione a Costantinopoli23 :
Il Santo Volto di Genova è un'icona assolutamente unica e particolare, sia per fattura che per storia 19 . Si tratta di un'icona di origine bizantina, la cui datazione è ascrivibile al periodo dei Paleologi (sec. XIII-XIV). Sotto la formula «Santo Volto» si è soliti raccogliere ben tre elementi: la tavola di legno dipinta, la cornice paleologa e la cassa comprendente la cornice esterna (Fig. 10). Questa icona bizantina del volto di Cristo deve la sua presenza a Genova al doge Leonardo Montaldo (1319-1384), una delle personalità genovesi più ascoltate alla corte bizantina nella seconda metà delxrv secolo. Fu in quel periodo che l'avanzata turca costrinse l'imperatore Giovanni v Paleologo (1341-1391) a chiedere l'intervento militare della Repubblica di Genova, che inviò un contingente al comando del capitano Montaldo. Non è chiaro se quest'ult~mo ottenne il Santo Volto in dono dal monarca bizantino o se lo pretese come compenso per l'aiuto prestato: in ogni caso nel 1362 la reliquia fu trasportata a Genova. Qui l'illustre capitano la conservò nel proprio castello per ventidue anni, stabilendo però di lasciarla in eredità alla città. All'indomani della sua morte, la preziosa reliquia fu effettivamente consegnata al Monastero di S. Bartolomeo degli Armeni, dove fu custodita dai monaci Basiliani in una cassaforte chiusa da sette chiavi. L'icona passò successivamente in custodia ai Barnabiti verso la metà del XVIII secolo, quando questi subentrarono ai"Basiliani nella gestione della chiesa. Nel 1507 fu però trafugata e trasferita in Francia e solo l'interessamento di ambasciatori e banchieri genovesi presso la corte di Luigi XII ne consentì il recupero il 22 aprile 1509, quando una solenne processione la ripose nella chiesa di San Bartolomeo a Genova. A seguito di un assedio spagnolo alla città, l'icona fu interrata ·nel 1522 e dissotterrata qualche anno dopo. A Genova il Volto di Cristo fu venerato a tal punto da essere consideratao una sorta di «Palladio di città»20 . In particolare dopo il furto del 1507, l'immagine acquisì in città una visibilità tale da essere collocata a protezione di un valico cittadino, richiamandosi così chiaramente al ruolo apotropaico svolto dal Mandylion a Edessa. Il Santo Volto di Genova non è una copia miracolosa di un più celebre originale bizantino, bensì uno degli «esemplari "privilegiati" che riproducevano fedelmente l'originale nelle misure e in altre caratteristiche e che venivano usate èome doni diplomatici in casi particolari»21 • Nell'accostarsi a questo Santo Nell'analisi di questo Santo Volto faremo riferimento agli autorevoli studi presenti nel catalogo Mandylion. Intorno al Sacro Volto, da Bisanzio a Genova (a cura di G. WoLF, C.D. Bozzo, A.R. CALDERONI MAsErn), Skira Editore, Milano 2004, raccolti in occasione della mostra che ha avuto luogo a Palazzo Ducale a Genova dal 18 aprile al 18 luglio 2004. 20 C.D. Bozzo, Trent'anni dopo: misteri svelati, misteri da svelare, in Mandylion. Intorno al Sacro Volto, da Bisanzio a Genova, cit. ; p. 26. 21 G. WOLF, Il Volto che viaggia: premessa a un incontro, in ivi, p. 21.
1) Disteso a letto a causa della lebbra e troppo ammalato per affrontare il viaggio verso la Terra Santa e alla fine curato da Cristo in persona, Abgar consegna al proprio messaggero Anania, che è anche pittore, una lettera indirizzata al Salvatore (Fig. llA). 2) Seduto a terra, Anania cerca di fare uno schizzo del volto di Cristo, ma i suoi sforzi sono frustrati dal fatto che le sembianze di Cristo cambiano di continuo. Il disegno mostra la capigliatura ma non le fattezze del Volto del Signore (Fig. 11B). 3) Avendo comprensione per la frustrazione di Anania, Cristo manda a chiamare un servo che gli versa acqua sulle mani (il gesto di Gesù che si asciuga, lasciando miracolosamente i tratti del proprio volto sul panno, non viene concretamente rappresentato, benché si tratti del climax della storia, ma implicitamente supposto) (Fig. 12A). 4) Fornendo ad Anania il panno e una risposta scritta, Cristo gli chiede di portarli al suo padrone (Fig. 12B). 5) Mentre Anania gli porge la lettera, Abgar, stringendo il Mandylion tra le braccia, lo bacia e viene così curato dal suo male (Fig. 13A) .
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Ivi, p. 12. Per la descrizione delle formelle seguiamo l'esposizione di H.L. KEsSLER, Le /unzioni della cornice, in Mandylion. Intorno al Sacro Volto, da Bisanzio a Genova, cit., pp. 62-63, basata sul racconto dello storico del XII secolo Giorgio Cedreno.
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L'attenzione dell'Occidente alle icone Acheropite di Cristo 6) Convertito al cristianesimo, Abgar espone il Mandylion fuori dalla porta della città alla presenza del vescovo. Al posto degli idoli pagani viene collocata l'icona, in modo che chiunque entrando in Edessa possa renderle onore; il M andylion provoca anche la caduta di una statua pagana dal piedistallo (Fig. 13B). 7) La riconversione al paganesimo del nipote di Abgar spinge il nuovo vescovo di Edessa a proteggere il Sacro Volto coprendo la nicchia in cui è esposto mediante una tegola, davanti alla quale viene accesa una lampada a olio. Il vescovo è mostrato mentre sale su una scala a pioli con la tegola, sulla quale in seguito si imprimeranno i tratti del Volto di Cristo (Fig. 14A). 8) Durante l'assalto persiano alla città avvenuto qualche secolo dopo, un vescovo di nome Eulalio scopre l'immagine a lungo dimenticata e la lampada che ancora arde dinanzi a essa nella nicchia; quando rimuove la tegola, si rende conto che il Mandylion aveva lasciato la sua impronta sulla tegola che lo proteggeva, poi denominata Santo Keramion. Il miracolo avviene alla presenza di un uomo in piedi davanti alla città (Fig. 14B). 9) Al di sotto del Mandylion , che viene nuovamente esposto sulle mura di Edessa, Eulalio versa olio bollente, a cui da fuoco, sui soldati persiani, uccidendoli tutti (Fig. 15A). 10) Qualche secolo più tardi, durante il viaggio per nave dei vescovi di Edessa e di Samosata per la traslazione del Mandylion a Costantinopoli, l'immagine-reliquia guarisce un uomo posseduto da uno spirito maligno, che . profetizza il ritorno al governo del regno di Costantino VII (Fig. 15B). Le formelle permettono dunque una visualizzazione, passo dopo passo, dell'origine e della potenza del Mandylion, pur omettendo il passaggio chiave: la raffigurazione di Cristo coperto da qualcosa era probabilmente ritenuta inaccettabile e «la stessa immagine-reliquia di Genova deve essere intesa facente le veci di tale episodio»24. Alcune scene sulle formelle hanno una forte connotazione ecclesiale: nella settima e ottava formella il vescovo gioca infatti un ruolo di primo piano; fu infatti un vescovo a nascondere il Mandylion per evitarne la distruzione e fu un altro vescovo a riportarlo alla luce. Presenti anche nell'ultima formella, i vescovi sulla barca rappresentano, in senso allegorico, la «navicella» della Chiesa. I.: episodio finale di guarigione attesta non solo il potere del Mandylion in generale, ma anche il suo ruolo effettivo nella politica bizantina, espresso nell'annuncio dell'imminente ascesa al trono di Costantino VII Porfirogenito. Questi indizi appaiono come un'implicita indicazione del luogo di fabbricazione della cornice, ossia Costantinopoli, dove nel tardo pe2 •
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riodo bizantino i vescovi diventarono figure sempre più eminenti. La cornice è dunque espressione della visione bizantina delle icone che, pur create da un singolo iconografo, sono opere realizzate a nome e a favore della comunità: «Essa non suggerisce tanto la contemplazione individuale del Sacro Panno, ma svolge un programma imperiale-ecclesiastico a fini diplomatici, invitando a una riflessione sulla natura dell' achiropiita»25 . Sulla cornice sono presenti anche il monogramma di Cristo «IC xc» e l'iscrizione «AflON MANt.HAION». Queste scritte che assicurano il legame tra Cristo e il suo miracoloso ritratto, servono come autenticazione e sigillo dell'icona. La cornice paleologa rappresenta «il punto focale della genesi del Sacro Volto di Genova: nel suo significato, perché ne riassume e ne suggella il valore di Mandylion sacro e venerato; nella sua tettonica di oggetto, perché ne conclude materialmente la fase strutturale antica, quella orientale»26 . È inoltre l'iscrizione sulla cornice che attesta chiaramente che non si tratta di un'icona qualunque, bensì dell' «AflON MANt.HAION». Per quanto riguarda l'immagine vera e propria del volto, il Santo Volto di Genova è un ritratto dipinto con tempera «a uovo» su un'assicella di pioppa27. I tratti di Cristo sono quelli canonici, il volto senza il collo. La fronte è alta, gli occhi sono aperti, il naso medio, la bocca minuta quasi in procinto di parlare. La capigliatura incornicia il volto con due ciocche di capelli e una di barba, tanto da essere definito volto «a tre punte». Il colore di volto, capelli e barba è un rosso-vino che si infittisce e diventa scuro nei capelli lunghi e nella barba, stagliandosi però su uno sfondo color oro. Ci fu inoltre un tempo in cui il volto era contornato da centosettanta perline e pietre preziose, sostituite in seguito da una lamina di argento dorato. Il retro del volto è una croce fiorita dipinta, apposta a mo' di sigillo, visibile probabilmente nella precedente cornice perlinata e successivamente nascosta: «tali rivestimenti assimilano le icone a reliquie»28 . Anche all'icona di Genova l'Occidente si accosta come a una reliquia, da cui impara quali erano i tratti del viso del Gesù terreno, tramandati alla storia dall'autorevole Tradizione bizantina, e scopre persino la vicenda, tutta orientale, del re Abgar e la relativa origine dell'Acheropita più celebre di cui contempla la riproduzione. Non riesce però a cogliere - a causa della propria formazione culturale, teologica e dottrinale - che l'onore reso all'icona possa passare a Cristo stesso e non concepisce come l'immagine possa rivelare il divino, se non in senso allusivo. In quest'ottica si spiega il ruolo rivestito dalle cornici che «istituiscono lo status spirituale dei dipinti che contengono, al pari
G. WoLF, Il Volto che viaggia: premessa a un incontro , in ivi, p. 15 . C.D. Bozzo, Trent'anni dopo: misteri svelati; misteri da svelare, in ivi, p. 29. 27 Sulla base di un esame endocrinologico, si è accertato che l'assicella su cui è ritratto il volto vero e proprio non è di cedro, a differenza di quanto si riteneva in passato, bensì di pioppo. 28 H .L. K ESSLER, Le /u nzioni della cornice, in ivi, p. 61 . 25
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dei reliquiari che valorizzano il loro contenuto e lo rendono idoneo all' ostensione sull'altare»29 . E anche l'operazione di rivestimento, volta a elevare il dipinto alla dignità di reliquia, è lontana dalla concezione ortodossa che, pur avendo in un certo lasso di tempo rivestito le proprie icone, non ritiene necessario alcun supporto per far emergere il carattere attestativo e dogmatico delle icone.
vedere, né ritovare. Ondetutti giudicarono quell'huomo in forma di peregrino esser stato un'Angelo dal Cielo, o altro santo dal Paradiso»33 . Il 1506 è ritenuto dunque l'anno in cui il velo giunse a Manoppello; l'attendibilità di questa data è indirettamente confermata dalla menzione di numerosi personaggi storici a partire dal papa: «nel tempo di Giulio secondo Pontefice Romano circa gli anni del Signore 1506»34 . Nella copia destinata al Ministro generale è inoltre contenuta una nota in cui si registrava l'appropriazione del velo da parte del soldato Pancratio Petrucci nel 1608. La moglie di questo, Marzia Leonelli, fu costretta a vendere la santa immagine, nel 1618, per quattro scudi a Donato Antonio de Fabritiis per poter riscattare il marito in prigione: «Andò dunque la buona, et semplice donna al Dottor Donato Antonio de Fabritiis della medesima Terra di Manoppello [ ... ] et portandogli la santissima Immagine, lo pregò da parte di suo marito, che se la comprasse ò se la pigliasse in pegno, sin che suo marito ritornaua [ ... ] diede alla donna quattro scudi correndo gli anni del Signore 1618»35 . Secondo un'ipotesi suggestiva, ma difficilmente verificabile, tale data corrisponderebbe alla demolizione della cappella della Veronica a Roma: questa coincidenza cronologica porterebbe quindi a concludere che «il Velo con l'immagine di Cristo, la Veronica, è stato sottratto con la violenza»36 . L'icona romana, secondo la tesi di E. Pfeiffer, non sarebbe però andata distrutta: «la stoffa con l'immagine miracolosa non è stata tolta con violenza da una casa a Manoppello, ma dalla stessa Basilica di San Pietro o dal vicino archivio»37 . Se la coincidenza tra le due immagini fosse dimostrabile si riuscirebbe a spiegare la «fine» dell'icona «della Veronica» e, allo stesso tempo, si potrebbero fornire dei natali illustri all'immagine di Manoppello. E. Pfeiffer supporta la propria tesi interpretando alcune decisioni papali, a partire da quella di Paolo v di limitare al minimo le copie del Volto della Veronica, fino al pontificato di Gregorio xv (1621-1623), sotto il quale furono realizzate solo due riproduzioni del Sacro Volto, successivamente distrutte sotto Urbano VIII (1623-1644), probabilmente perché non concordi con le copie autentiche. Fu proprio l'opposizione delle autorità ufficiali ad aver convinto i Cappuccini ad attendere a chiedere la convalida ufficiale del velo in loro possesso. Infatti, solo due anni dopo la morte di Urbano VIII, nel 1646, essi fecero autenticare con un atto notarile sia la donazione sia la Relatione Historica. Secondo questa teoria vi sarebbe dunque un alto margine di probabilità nella coincidenza del Volto di Manoppello con quello «della Veronica»: «Abbiamo
4. Il Santo Volto di Manoppello Il Volto di Cristo custodito a Manoppello (Fig. 16) ha una lunga tradizione di studi a suo carico, in cui teologia, storia e scienza sono state fatte profondamente interagire, producendo ipotesi allo stesso tempo interessanti e discutibili30. Il documento di riferimento, la Relatione historica31, fu redatto tra il 1640 e il 1646. Per quanto concerne l'esemplare dell'Aquila, destinato al Ministro generale Innocentio di Caltagirone, si tratta di un «libro contenuto, insieme all'atto notarile del 1646, in un contenitore metallico di colore violetto di 21xl5.5 cm. Il libro misura 18.8x13.5 cm. Contiene 54 pp. Numerate ed impaginate ed altri 7 fol. Scritti da P. Donato Cappuccino»32. La cronaca narra che il velo con i tratti del volto di Cristo fu consegnato, nel 1506, da uno sconosciuto al fisico Giacomo Antonio Leonelli di Manoppello, antenato di Marzia Leonelli, a cui il velo fu successivamente assegnato come dote matrimoniale. Alla consegna di un oggetto tanto prezioso si oppose il fratello di Marzia, che però innescò nel cognato, Pancratio Petrucci, una dura reazione e la successiva sottrazione del velo con violenza. La Relatione identifica lo sconosciuto che portò la sacra immagine a Manoppello con una creatura angelica, che consegnò il velo a Giacomo Antonio. Quando quest'ultimo lo ebbe tra le mani e lo aprì, scoprì con grande stupore e gioia la bellezza e il valore dell'immagine di Cristo. Colmo di gratitudine il fisico provò a cercare colui che gli aveva fatto un così grande dono, ma senza ottenere alcun risultato: «Né dimandò quasi balbettando gli amici Cittadini li quali tutti affìmorno hauerlo veduto con esso lui entrar in Chiesa, ma quella non uscire. Onde pieno di meraviglia, con grandissima diligenza, lo dimandò, et fede cercare dentro, et fuori di Manoppello, anco per le Campagne, mandando per diverse strade, et sentieri varie persone, et non fu possibile poterlo più 29
Ivi, p. 61. Di particolare rilievo sono gli studi condotti da E . PFEIFFER, Il Volto Santo di Manoppello, Carsa Edi~ioni, Pescara 2000 e B. PASCHALIS ScHLòMER (a cura di A. REscH) , Il Volto Santo e la Sindone, Santuario del Volto Santo, Pescara 2000. 31 Due le copie esistenti della R elatione historica: la prima si trova nell'archivio provinciale dei Cappuccini a L'Aquila, la seconda nel convento dei cappuccini di Manoppello (in questa copia l'indicazione della data è il 1620). 32 E . PFEIFFER, Il Volto Santo di Manopp ello , cit., p . 75. 30
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Relatione Historica , in E. PFEIFFER, Il Volto Santo di Manoppello , cit., p. 76. Ivi, p. 76. Ivi, p. 77. Ivi, p. 25 . Ivi, p. 26.
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visto che esistono moltissime ragioni che ci danno la certezza storica che il Volto di Manoppello non è altro che la Veronica romana: è un Velo trasparente e il vecchio reliquiario ha due cristalli, cioè esso fu fatto per una stoffa trasparente, questi cristalli sono documentati come rotti fin dal 1618; sul Volto Santo, venduto nel 1618, si trova ancora un pezzo di cristallo del reliquiario anteriore, le copie della Veronica romana che furono fatte prima del 1616 mostrano sempre un volto con gli occhi aperti come il Volto Santo di Manoppello»38 • Benché del volto di Cristo «della Veronica» non possediamo più l'originale, ne furono realizzate talmente tante riproduzioni che è possibile risalire all'immagine del velo perduto. Il Volto che si diffuse era indubitabilmente legato al contesto della passione: le molteplici opere tuttora esistenti - tra tutte, la Piccola passione di A. Diirer (1471-1528) , la Veronica col sudario di El Greco (1541-1614) (Fig. 7) e la Santa Faz di F. de Zurbaran (1598-1664) - ritraggono, infatti, il Volto di Gesù con la corona di spine al centro di un telo sorretto dalla Veronica. Paradigmatico poi il dipinto di Ugo da Carpi (1480-1532): «l'impronta sul telo [ ... ] si presenta come esatta riproduzione dell'originale. Di questo sono propri sia la rigida fromalità e lo scurimento dovuto al tempo, sia il forte taglio attorno alla barba e ai capelli che ricorda l'incastonatura metallica di una volta»39 (Fig. 8) . In questa pala Cristo ha gli occhi aperti, ma originariamente il Volto «della Veronica» aveva gli occhi chiusi e di questo è testimone proprio una delle riproduzioni autorizzate da Paolo v, fatta realizzare dal canonico Pietro Strozza. La copia mostra «il volto con il occhi chiusi - dunque in uno stato mai visto prima; e che tuttavia ha un senso, se l'impronta che voleva rappresentare l'" originale", viene qui per una volta presa sul serio»40 . La versione autorizzata dal papa si differenzia quindi dal Volto di Manoppello: l'ipotesi proposta da E. Pfeiffer incontra, in definitiva, delle difficoltà, peraltro non risolvibili in modo incontrovertibile, né a favore dell'identificazione con il Santo Volto «della Veronica», né a favore dell'esistenza di due immagini, anche se quest'ultima possibilità è, a nostro giudizio, la più plausibile. In dettaglio, il Volto di Manoppello è composto da tre elementi: la stoffa, tracce simili a sangue e il volto vero e proprio. La stoffa su cui è impresso il volto è lino finissimo, «piegata più volte e senza particolare cura, tanto da lasciare tracce in forma di linee che risultano dal distanziarsi dei fili lungo le pieghe. Così il telo fu ridotto in modo da formare un piccolissimo fazzoletto ripiegato più di otto volte»41 • Le macchie potrebbero essere sangue molto vecchio e, ad eccezione di quella alla tempia, le altre non seguono la forma del volto. Il viso
vero e proprio è quello di un uomo «con la barba strappata, con gli occhi aperti che guardano leggermente in alto e con la bocca aperta in modo da far vedere le labbra rosee e i denti» 42 (Fig. 16). Ciò che lascia immediatamente stupefatti gli osservatori è che l'immagine sembra non essere stata dipinta. Tale singolarità fu notata da più osservatori, tra cui padre Filippo da Tussio (1821-1896) che nella sua opera Del Volto Santo rileva che «è facile osservare come nel nostro Dipinto niente affatto si trovi di quello che i Pittori sogliono ordinariamente usare, con materie coloranti, non aparecchio, non imprintura alcuna» 43 • Più recentemente, è stato sostenuto che «l'immagine ha le caratteristiche di una diapositiva. L'intensità dei colori è la stessa vista da dietro e da davanti. Nonostante ciò non si trova traccia di coloranti, neanche con una lente. [ ... ] Se si pone il velo contro luce, quando essa passa direttamente da dietro attraverso il tessuto, l'immagine sparisce come se i fili l'avessero assorbita»44• Non è compito di questa ricerca esprimere un giudizio a tal proposito; ci «limitiamo» a registrare le testimonianze pervenute, che si collocano in un quadro di riferimento tutto occidentale. Pur considerando questo Santo Volto come un'immagine non dipinta e addirittura proponendo una sua coincidenza con alcune celebri icone «non fatte da mano d'uomo», gli studiosi trattano l'immagine di Manoppello come una reliquia che, pur eccezionale, non ha lo spessore teologico e dogmatico che l'Oriente cristiano attribuisce alle icone,,in particolare agli Acheropiti di Cristo. Tra le ipotesi elaborate sul velo di Manoppello, quella che ha interrogato più a lungo la critica è l'identificazione con il telo che fu posto «dall'esterno sopra la parte della testa della Sindone che ha avvolto la salma»45 di Gesù. La tesi sostenuta da E. Pfeiffer implica svariate sovrapposizioni: «Se dell'identificazione tra la Veronica e il Velo di Manoppello non si può dubitare, la situazione prima dell'apparire della Veronica, prima del XII secolo, non ci permette di trarre una conclusione storicamente accertata, in quanto non possiamo identificare né il Volto Santo della Cappella Sancta Sanctorum, né l'immagine di Camulia con la reliquia di Manoppello con una certezza che superi quella di un'ipotesi. Questa identificazione resta però molto probabile perché le descrizioni dell'immagine di Camulia concordano bene con il telo finissimo della città abruzzese, e in
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Ivi, p. 26. H . B ELTING, La vera immagine di Cristo, cit. , p. 140. Ivi, p. 143 . E. P FEIFFER, Il Volto Santo di Manoppello, cit. , p. 30. 204
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Ivi, p. 31.
F 1LrPPO DA Tuss10 , Del Volto Santo. M emorie storiche raccolte intorno alla prodigiosa Immagine del passionato Volto di Gesù Cristo Signor nostro che si venera nella chiesa de' pp. Cappuccini di Manoppello negli Abruzzi in diocesi di Chieti, Tipografia Vescovile, Aquila 1875, p. 284, in E . PFEIFFER, Il Volto Santo di Manopp ello, cit., p . 28. 44 B. PASCHALI S ScHLOMER, Der Schleier van Manopp ello und das Grabtuch van Turin , Innsbruck 1999, p. 17 , in E. PFEIFFER, Il Volto Santo di Ma noppello, cit. , p. 29. 45 B. P ASCHALIS Sc HLOMER, Il Volto Santo e la Sindone, in E. P FEIFFER, Il Volto Santo di Manoppello, cit. , pp . 56-57.
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L'attenzione dell'Occidente alle icone Acheropite di Cristo
quanto il titolo "Acheropita" dell'icona lateranense è un indizio che ci permette di individuare uno strettissimo contatto di questa icona con l'immagine di Camulia. Finalmente, retrocedendo nella storia fino alle origini, e a causa di una perfetta sovrapponibilità del Velo con la Sindone, il Volto Santo deve essersi formato nella tomba di Gesù a Gerusalemme in strettissimo contatto con la reliquia torinese» 46• Una valutazione complessiva della credibilità dell'identificazione del Volto di Manoppello con l'immagine di Camuliana - e anche con quella della Veronica, formatosi addirittura nel sepolcro di Cristo, a contatto con il telo sindonico - non potrà che essere accolta con evidente riserbo dalla ricerca storico-eristica, anche per le insufficienti motivazioni prodotte nel delineare i passaggi eventualmente avvenuti. A conclusione, è opportuno rilevare che anche il Volto di Manoppello è percepito come una reliquia e, nonostante i noti tentativi di farla risalire o addirittura coincidere con gli Acheropiti bizantini, non emerge alcun punto di contatto con la teologia e la devozione delle icone che ha sviluppato la Tradizione dell'Oriente cristiano attorno alle immagini «non fatte da mano d'uomo». E questo atteggiamento è un'ulteriore riprova - qualora ce ne fosse bisogno che l'Occidente, anche laddove si rivolge all'Oriente per cercare delle radici che accreditino le immagini in suo possesso, travisa l'autentico significato degli Acheropiti e delle icone in generale.
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E. P FEIFFER, Il Volto Santo di Manoppello, cit., p. 31
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RIPRESA TEOLOGICA CONCLUSIVA DEL TEMA TRATTATO
Questa ricerca, incentrata sul tema degli Acheropiti di Cristo, ha cercato di fornirne un'esplorazione documentata, guardando tuttavia ad essi da una prospettiva che, pur non rinunciando ali' approccio critico dell'Occidente, ha tuttavia scelto consapevolmente di non perdere mai di vista la prospettiva attraverso cui ad essi guarda l'Oriente cristiano. Ad occuparsi per la prima volta in Occidente di questa tematica è stato lo storico e teologo liberale E. von Dobschiitz, il cui monumentale lavoro, sia per quanto riguarda l'abbozzo complessivo del tema in questione, sia per quanto concerne soprattutto il materiale raccolto in merito, ha costituito dal momento della sua pubblicazione un solido punto di riferimento per gli studiosi, dai teologi agli storici dell'arte, che agli Acheropiti hanno rivolto, nello specifico o marginalmente, la loro attenzione. Il limite, se così si può dire, del puntuale studio messo a punto da E. von Dobschiitz, pur impareggiabile nella raccolta delle principali fonti, cronache e leggende relative alle immagini «non fatte da mano d 'uomo», sembra essere tuttavia quello di fornire una lettura di queste immagini in ultimo' liquidatoria. Essa infatti risulta esclusivamente mirata a rilevarne il tratto leggendario e a sottolinearne il carattere di «invenzione» ideologica, volta a legittimare l'inedita circolazione di immagini in un ambito cristiano che in precedenza ne aveva diffidato e le aveva combattute. A determinare questa prospettiva di E. von Dobschiitz sembra essere l' adozione da parte sua di una posizione sull'immagine cristiana fortemente segnata, in generale; dalla concezione «debole» di questa immagine sviluppatasi in Occidente fin dagli albori del cristianesimo e, in particolare, dall'avversione per l'immagine diffusasi invece più di recente nei paesi a forte presenza protestante. Nulla di strano dunque nel fatto che lo studioso tedesco sviluppi nei confronti degli Acheropiti di Cristo un interesse destinato, da un lato, a evidenziare un fenomeno storico, artistico e teologico che all'Occidente rischiava di sfuggire e, 207
L'attenzione dell'Occidente alle icone Acheropite di Cristo
Ripresa teologica conclusiva del tema trattato
dall'altro, a dissolvere il suo stesso senso attraverso un approccio che di fatto lo strappa del tutto all'humus nel quale esso è nato. Lo sradicamento degli Acheopiti dal loro humus specifico, sradicamento inaugurato da E. von Dobschiitz e di fatto proseguito dalla successiva ricerca occidentale, è stato fatto oggetto di forti riserve da parte della teologia dell'Oriente cristiano. Essa tuttavia si è limitata esclusivamente a segnalare la problematicità dell'approccio sviluppato dall'Occidente nei confronti degli Acheropiti, non addivenendo mai invece a una trattazione che tentasse un'organica rilettura di questa tematica in chiave ortodossa. La ricerca presentata nelle pagine precedenti, pur senza voler colmare la lacuna appena segnalata e in una prospettiva che non intende affatto prescindere dal metodo critico che guida l'approccio occidentale allo studio di una tematica specifica, ha inteso tuttavia mettere in luce come proprio l'ottica assunta dall'Occidente nei confronti degli Acheropiti abbia finito col non considerare adeguatamente, a tutto vantaggio di un taglio storico e artistico, la peculiarità teologica che queste immagini hanno rivestito e rivestono nell'Oriente cristiano. Una comprensione effettiva degli Acheropiti, lungi da ogni marginalizzazione del loro carattere teologico, passa invece attraverso la messa in luce della centralità di quest'ultimo. Prendendo provvisoriamente le distanze dalla prospettiva occidentale sull'immagine cristiana, nella quale a prevalere è una funzione «illustrativa» la cui conseguenza è un divampare dell'estetico che depotenzia radicalmente il teologico, occorre dunque considerare in tutta la sua portata la prospettiva orientale sulla stessa immagine cristiana. Ad emergere dunque nell'immagine sarà una funzione «rivelativa», nella quale la dimensione teologico-dogmatica assumerà un ruolo tanto rilevante da subordinare completamente a sé la pur irriducibile dimensione estetico-artistica. È dunque nell'orizzonte di un 'immagine cristiana così compresa, e conseguentemente ricondotta a come essa è effettivamente intesa dall'Oriente cristiano, che questa ricerca ha cercato di ricollocare gli Acheropiti, rivendicando per loro la decisività di una comprensione che, lungi dal ridimensionare il teologico a una sorta di ideologia che si sarebbe «inventata» per fini strategici le «immagini non fatte da mano d'uomo», tenti invece di rilevarne tutta la portata in ordine proprio all'insorgere e al perdurare di questo fenomeno nel contesto della Chiesa d'Oriente. Parlare dell'immagine cristiana orientale come immagine «rivelativa» significa innanzitutto evidenziare il costituirsi di essa come autentica «attestazione» dell'effettività dell'incarnazione del Logos divino. E la rilevanza dell'immagine come «attestazione» dell'incarnazione risulta in Oriente tanto significativa da essere ritenuta necessariamente complementare, sia sul piano dogmatico sia sul piano liturgico, all'attestazione messa in atto dalla parola nei Vangeli.
E tuttavia, nonostante il già straordinario ruolo attribuito così all'immagine, parlare di quest'ultima come connotata da un tratto «rivelativo» significa andare oltre anche al suo tratto «attestativo» della rivelazione cristologica. L'immagine cristiana, infatti, nello specifico contesto dell'Oriente cristiano, viene pensata come «rivelativa» anche in quanto capace di veicolare attraverso di essa la «presenza», nel qui e ora della storia, del prototipo che essa stessa rappresenta e a cui è legata da un'identità ipostatica e dal nome che, inscritto sull'icona, afferma proprio questa identità. Gli Acheropiti di Cristo, la comprensione della cui essenza profonda non può in alcun modo prescindere dalla prospettiva sull'immagine sviluppata dal cristianesimo orientale, rappresentano d'altro canto la pietra angolare di questa stessa prospettiva. Di quest'ultima, essi si evidenziano come il solido fondamento e come l'irrinunciabile riferimento. Senza gli Acheropiti, infatti, come prova il rimando ad essi fatto nel corso del concilio di Nicea II, la teologia dell'icona avrebbe finito col risultare depotenziata e non avrebbe forse potuto assumere quella connotazione dogmatica che, da on lato, la caratterizza e, dall'altro, la diversifica nell'approccio all'immagine dall'Occidente. Il tratto fondativo degli Acheropiti di Cristo in ordine alla teologia dell'icona appare visibile in primo luogo nel particolarissimo ruolo attestativo dell'incarnarsi del Logos che essi svolgono. La loro peculiarità sta infatti nell'attestare l'incarnazione non in una forma indiretta, bensì diretta: protagonista di questa attestazione dell'incarnazione sul piano dell'immagine è infatti lo stesso Verbo di Dio incarnato. Ad emergere è dunque una sorta di «autoattestazione» dell'incarnazione di Cristo che, lasciando volontariamente nella storia un'immagine di sé, diviene il fondamento stesso di tutte le successive «attestazioni» della sua incarnazione realizzate proprio mediante l'utilizzo dell'immagine. Il carattere fondante degli Acheropiti di Cristo in ordine alla teologia dell'icona tuttavia non si ferma qui. Gli Acheropiti risultano infatti decisivi anche in ordine al legame strutturale che nell'icona unisce colui che è rappresentato con il suo prototipo. Quella che diventerà la condizione essenziale perché l'icona sia in grado di costituirsi come il tramite della «presenza» di colui che essa rappresenta, trova infatti proprio nell'immagine che Cristo ha voluto lasciare agli uomini il proprio fondamento ultimo. Quest'immagine, attraverso il suo formarsi a seguito di un contatto reale con Cristo, prefigura quel rimando ipostatico tra rappresentante e rappresentato che della teologia dell'icona diventerà il cuore stesso. È questo intrinseco rimando ipostatico, determinato nell'insorgere degli Acheropiti di Cristo da un contatto effettivo con il loro prototipo e nelle icone dal loro essere autenticamente unite sulla falsariga degli Acheropiti a colui che esse rappresentano, ad aver consentito al concilio di Nicea II di proclamare il carattere dogmatico delle icone stesse e di rimarcare come l'onore reso alle ico-
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L'attenzione dell'Occidente alle icone Acheropite di Cristo
Ripresa teologica conclusiva del tema trattato
ne misteriosamente raggiunga il prototipo rappresentato. Ed è indubitabile che a muovere i padri del Niceno II - e l'utilizzo nel dibattito conciliare dell' Acheropita edesseno come argomento capace di fondare la legittimità dell'immagine ne rappresenta la prova provata - sia stata la certezza che questo legame inscindibile che unisce l'icona al suo prototipo abbia il suo fondamento proprio nella volontà di Cristo di lasciare a chi dopo di Lui avrebbe creduto in Lui un'immagine capace di dire, tramite i tratti autentici del suo volto, l'effettività del suo essersi incarnato. La decisività assunta dagli Acheropiti nella vita della Chiesa d'Oriente ha dato vita ali' esigenza di celebrare i due Acheropiti più conosciuti, la Camuliana e il Mandylion, attraverso specifiche feste liturgiche. Ed è ancorandosi alla liturgia, lex orandi nella quale l'Ortodossia esprime in pienezza la propria lex credendi, che emerge con forza come gli Acheropiti di Cristo in Oriente non vengano affatto considerati come semplici «reliquie», ma assurgano invece ad attestazioni visive dell'incarnazione di Cristo volute da Cristo stesso e a tramiti specialissimi di una «presenza» che consente all'uomo di ogni epoca di «vedere» il volto autentico di Colui che, per amore dell'uomo, ha voluto diventare uomo. Queste stesse liturgie, insieme a quella della Festa del Trionfo dell'Ortodossia chiamata a celebrare la conclusione delle lotte iconoclaste significativamente lette non come un conflitto contro l'immagine cristiana, ma piuttosto come il tentativo di negare proprio attraverso il ripudio dell'immagine l'autenticità stessa dell'incarnarsi del Logos, indicano gli Acheropiti di Cristo come particolarissime immagini prototipiche, il cui essere volute da Gesù stesso legittima la venerazione dell'immagine così come essa è vissuta nell'Oriente cristiano. È dunque radicandosi negli Achernpiti di Cristo che le immagini di Cristo, quelle della Madre di Dio e quelle dei Santi, laàdove esse vedano riconosciuta dalla Chiesa la loro corrispondenza al prototipo, possono trasformarsi in immagini autenticamente «rivelative». Proprio questo tratto «rivelativo» delle immagini, radicato come si è visto nella peculiarità stessa degli Acheropiti di Cristo, giustifica l'attenzione con cui la Chiesa d'Oriente circonda l'immagine stessa, legittimamente e a pieno titolo inserita nella Tradizione ecclesiale. Sarà dunque in questa prospettiva che la «scrittura» delle icone non potrà prescindere dal «canone iconografico», la cui evidente assonanza col «canone scritturistico» dice bene Ù ruolo che l'immagine gioca in Oriente. Sarà ancora in questa prospettiva che l'icona, con un atto inteso a garantirne la conformità alla fede della Chiesa, verrà «benedetta» con una specifica celebrazione. Sarà infine in questa stessa prospettiva che l'icona verrà posta sull'altare insieme al Vangelo e impedirà che qualsiasi liturgia, anche la meno significativa, possa essere celebrata in sua assenza. L'attenzione con cui la Chiesa d'Oriente ha circondato gli Acheropiti ne ha
determinato in quel contesto una venerazione così intensa da coinvolgere anche l'Occidente. Alcune di queste presunte immagini di Cristo, o loro particolari copie, hanno cominciato così col tempo a circolare in Occidente divenendo ben presto oggetto di rilevante devozione. I Volti Santi «della Veronica», di Laon, di Genova e di Manoppello sono solo alcuni esempi di immagini di indiscutibile provenienza orientale che hanno saputo sedurre l'Occidente. E tuttavia il mutamento di contesto non poteva che tradursi in un mutamento di atteggiamento: queste immagini infatti in Occidente, lungi dall'essere considerate come «attestazioni» dell'incarnazione del Verbo e tramiti efficaci della sua «presenza», hanno assunto i tratti della reliquia, generandq una devozione del tutto priva di implicazioni autenticamente teologiche e dogmatiche. Proprio in questo diverso atteggiamento nei confronti degli Acheropiti di Cristo, oggetto in Oriente di una venerazione fondata in una teologia dell'immagine ecclesialmente normata e, in Occidente, di una devozione dal carattere in ultimo esclusivamente soggettivo anche laddove a incoraggiarla era la Chiesa stessa, appare dunque chiara tutta la distanza tra questi due contesti nel rapportarsi all'immagine cristiana: considerata come «rivelativa» in Oriente, e dunque come capace di «attestare» la rivelazione e di «rendere presente» il prototipo rappresentato; ritenuta come semplicemente «illustrativa» in Occidente, e dunque come capace esclusivamente di fungere da «evocazione emotiva» di una trasmissione della rivelazione la cui unica e vera protagonista è e resta la Parola.
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Indice dei nomi
INDICE DEI NOMI
Abgar v, re 54 , 60, 88, 94, 96-97, 100, 110-112, 118, 120, 122, 135-142, 144148, 150-151, 157, 164-165, 199-201 Abramio di Samosata 98 Addai 60, 110, 144, 146, 148 Adriano, imperatore 53 Agostino, santo 145 Alessio III, imperatore 152 Alessio IV, imperatore 152 Anania 50, 96-98, 122,137, 141, 144-147 , 199 Anastasio, patriarca di Costantinopoli 27 Anchise52 Argenteuil, R. de 173 Artemide (Efeso) 51-53 Artemide (Tauropolos) 51 Asterio di Amasea 166 Atena (Palladio) 51-52 Babolin, S. 24 Basilio di Gerusalemme 22, 81 Basilio Magno, santo 36 Bassa (Aquilina) 126 Belting, H. 59 , 77-78, 88, 94, 101 , 106107, 175, 179, 182, 185, 193-195, 204 Benedetto di sant' Andrea, monaco 175 Bernardi, P. 18, 25 , 37-38, 41-42, 45 , 57 , 61,67, 76-77 , 85,88, 107, 116 Berenice 164-167, 172 Bernardo, santo 188
Bernini, Gian Lorenzo 186 Boron, R. de 172 Bozzo, C.D. 198, 201 Brambilla, F.G. 71 , 75, 79 Cameron, A. 142 Caroli, F. 78-80 Carpocrate 56 Celestino III, papa 187 Cennini, Cennino 80 Claudio, imperatore 146 Clement, O. 79 Clemente Alessandrino 57 Clemente I, papa 172 Cleofa 63 Collin de Plancy, J.A.S. 195 Cortese, P. 67 Cosma, vescovo 111 , 132 Cosroe II, re 92-93 , 137, 141 Costante I, imperatore 77 Costantino I, imperatore 26, 52 , 77, 109, 146 Costantino II, imperatore 77 Costantino v, imperatore 28-30, 117 Costantino VI, imperatore 31 Costantino VII Porfirogenito, imperatore 108,151,153,157,200 Costanza, imperatrice 77 , 89, 109 Costanzo II, imperatore 77 Cozzi, A. 18
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Cristoforo di Alessandria 81 Dante Alighieri 187-188 De Blasio, T.M. 164-166 De Fabritiis, Donato Antonio 203 Demetrio, diacono 131 Desreumaux, A. 138, 144-145, 158 Diocleziano, imperatore 126, 143 Diomede 52 Diomede, santo 156 Dionigi Aeropagita (Pseudo Dionigi) 24 Dioniso di Furnà 81 Dobschi.itz, E. von 10-11, 17-18, 59, 63, 105-108, 117, 126-128, 132, 136, 139, 141-143 , 146, 149, 151-152, 163, 167, 169, 171-172, 173-179, 183 , 187, 207208 Durbarle, A. 152 Di.irer, A. 204 Efrem il Siro, santo 57 Egeria 64, 136-137, 139 Elena, imperatrice 146 Eleno, figlio di Priamo 52 Epifanio di Salamina, santo 83 -84, 113114 Eraclio II, imperatore 93 , 101, 127, 129, 133 Eulalio, vescovo 92, 97 , 139, 142-143, 200 Euriale 54 Eusebio di Cesarea 57-58, 77 , 89, 109, 113-114, 122, 135-137, 139, 144-145, 164 Evagrio Scolastico 60, 108, 110, 141-142 Evdokimov, P. 29, 37, 43 , 46, 50, 67 , 7677 , 81, 192 Fausta 77 Filippo Augusto, re 17 6 Filippo da Tussio, padre 205 Filostorgio 164 Florenskij, P. 37, 71, 75 Florovskij, G. 112-114 Germano, patriarca di Costantinopoli 27 -
28, 36-37, 83 -84, 99, 110-111, 117, 132 Gervasio di Tilbury 149 Gharib, G. 36, 81-82, 93, 97, 121-122, 138, 141, 151-152, 154-155, 157-158, 195 Giobbe di Antiochia 81 Giorgio, santo 69-70 Giorgio Cedreno 127, 199 Giorgio di Cipro 28, 36, 111, 117 Giorgio Monaco 133, 164 Giorgio di Pisidia 127, 133 Giotto 80 Giovanni, vescovo di Gerusalemme 114 Giovanni di Antiochia 165 Giovanni Crisostomo 57 Giovanni Damasceno, santo 10, 28-29, 36,38,44,88, 111, 117-118 Giovanni Kurkuas 120, 149 Giovanni Malalas 165 Giovanni v Paleologo, imperatore 198 Giovanni VII , papa 175, 185 Giovanni XXII, papa 17, 177-179, 182, 187 Giraldus del Galles 171 Girolamo, santo 57 Giuliano, imperatore 164 Giuseppe d' Arimatea 170 Giustiniano, imperatore 106, 126, 143 Giustino, martire, santo 57 Giustino I, imperatore 143 Giustino II, imperatore 127 Gorgoni (le) 53-55 Grabar, A. 53 -57, 95, 193-195 Gregorio Magno, papa, santo 22, 115 Gregorio di Nissa, santo 57, 126 Gregorio Palamas 77 Gregorio il Referendario 66, 120 Gregorio II, papa 27, 99, 132 Gregorio xv, papa 203 Grimaldi, Giacomo, notaio pontificio 185 Guscin, M. 108 Holl, K. 114 Honoré de Sainte Catherine, padre 195
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Indice dei nomi
Indice dei nomi Id, I. 39, 62 Innocentio di Caltagirone 202 Innocenzo III, papa 17, 63, 176-177, 187 Innocenzo IV, papa 177-179, 182, 187 Ipazia 92, 96, 125-126, 129-130 Irene, imperatrice 31-33, 117 Ireneo di Lione, santo 56-57, 100 Ivan il Terribile 101
Michele m, imperatore 36 Mochi, Francesco 186 Moraldi, L. 62, 82, 168 Al-Muttaqi, califfo di Bagdad 120, 122, 149 Natan 170 Niceforo, patriarca di Costantinopoli 36, 38,100,112,114,166 Niceforo Callisto Xantopulo 82-84
Jacopo da Varagine 173-174
Onorio, imperatore 143 Ostrogorsky, G. 114
Kauser, Th. 114 Kessler, H.L. 89, 92, 157, 160,199, 201 Kontoglou, F. 159 Kiìne, vescovo di Edessa 148 Kuryluk, V. 165 Lentulo 82-84 Leonardo Montaldo, doge 198 Leone Anagaste 117 -118 Leone III Isa urico, imperatore 27 -28, 99, 113 Leone IV l'Armeno, imperatore 31, 122 Leone v l'Armeno, imperatore 36 Leonelli, Giacomo Antonio 202 Leonelli, Marzia 202-203 Leonzio 131 Lingua, G. 44, 60, 87, 107 Lobjoy, amministratore 194 Losskij, V. 24, 37, 76, 85, 90 Luka (Kolovkov), H. 22-23, 40, 45, 67, 79 Macario di Magnesia 165 Manu VI, re 141 Marcio 169 Maria, donna pagana 129-130, 152 Mathews, T.F. 56, 78, 96, 105 Maurizio II, imperatore 127 Medusa 54-55 . Metafrasto 95 Menozzi, D. 26, 30, 114-115, 192 Metodio I, santo 36 Meyendorff, J. 39, 114, 130 Michelangelo 193
Panofsky, E. 80 Paolo il giovane, santo 152 Paolo v, papa 185-186, 203-204 Paschalis Schlomer, B. 202-205 Pellegrino di Piacenza 62 , 81 , 83-84 Petrarca, Francesco 187 -189 Petrucci, Pancratio 202-203 Pfeiffer, E. 203-205 Pietro il Grande 195 Pilato 57, 82, 168-174 Popova, O. 67 Priamo 52 Prisco, generale bizantino 101, 133 Procopio 136-137, 139, 141-143
Skhirtladze, Z. 138 Smirnova, E. 67 Stefano II, papa 63 Steno 54 Strozza, Pietro 204 Sybille, abbadessa 194 Taddeo 98, 122,140, 147 -148, 157 Taziano 139 Teodora, im'p eratrice 36 Teodoreto di Ciro 57 Teodoro Abu Qurrah 118-119 Teodoro Studita, santo 36, 112, 154 Teodosio I, imperatore 126 Teodosio II, imperatore 143 Teofilo, imperatore 68, 81 Tertulliano 57 Tiberio Cesare, imperatore 168-171, 173 Tiberio II, imperatore 127, 129 Tito, viceré di Tiberio Cesare 169 Tolomeo I 53
Ulisse 52 Urbano IV (Giacomo Troyes Pantaleone), papa 183,186, 194 Urbano VIII, papa 203 Uspenskij, L. 22, 24-25, 27, 30, 35, 37, 41 , 44, 60,68,85-87,90, 110, 113 -114, 116,121,124,153,155 Vasari, G. 193 Veronica 164, 166-167, 169-174, 176, 185 Vespasiano, imperatore 170 Virgilio 52 Volusiano 168-171 Wolf, G. 73, 95, 171 -172, 176, 182, 198, 201 Yazykova, I. 22-23, 40, 45, 67, 79 Zani, A. 18 Zaninotto, G . 100, 120 Zurbaran, F. de 204
Ugo da Carpi 193,204
Rabbula, vescovo 146 Re, M. 115 Roberto di Clari 152 Romano I Lecapeno, imperatore 120, 122, 149, 151 Sabinio 144 Schatz, K. 32 Schonborn, C. 111 , 113 -114 Seleuco I, re 140 Sendler, E. 80 Sequeri, P. 18 Serapide (Alessandria) 51, 53 Sereno, vescovo di Marsiglia 115 Sergio, patriarca 129 Simeone Metafraste 121
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