Cantico spirituale

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I CLASSICI DELLO SPIRITO

Giovanni della Croce

CANTICO SPIRITUALE a cura diNORBERT

VON PRELLWITZ

FABBRI EDITORI

CANTICO SPIRITUALE Titolo originale cANTICO ESPIRITUAL

e 1991 R.C.S. Rizzoli Libri S.p.A. Milano Sulla collana I CLASSICI DELLO SPIRITO © 1997 R.C.S. Libri S.p.A., Milano Pubblicazione periodica settimanale Registrazione presso il Tribunale di Milano n. 728 del 21.11.1997 Direttore respon::abile

GIANNI VAL!ARDI

Iscrizione al Registro Nazionale della Stampa n. 00262 vol. III, Foglio 48 9 del20.09.1982 In copertina: Jusepe de Ribera detto lo Spagnoleno,

Maria Maddalma penitm� (part.), XVII sec. Museo del Prado, Madrid

INTRODUZIONE

LA VITA Questa ho amato e ricercato fin dalla mia giovi­ nezza, ho cercato di prendermela come sposa, mi sono innamorato della sua bellezza. Scese con lui nella prigione, non lo abbandonò mentre era in catene.

Sapienza 8,

2 e

10, 14

Juan de Yepes nacque nel 1542, nella cittadina castigliana di Fontiveros. Era figlio di due tessitori: Gonzalo de Ye­ pes aveva sposato Catalina Alvarez per amore, indifferente alla differenza di rango, sebbene appartenesse a una ricca famiglia di mercanti di Toledo, probabilmente di origine ebrea. Ripudiato dai suoi, Gonzalo aveva imparato a usare il telaio. Dopo una lunga malattia, Gonzalo mori nel 1545, lascian­ do la giovanissima vedova con tre figli, in condizioni diffici­ li aggravate dalla carestia. Catalina partl con i bambini, per­ corse centinaia di chilometri per cercare aiuto dai parenti di Gonzalo. Trovò porte sprangate, o spiragli aperti a malin­ cuore. In Castiglia i raccolti erano scarsi e l'afflusso dell' ar­ gento americano alimentava l'inflazione. Il salario dei tessi­ tori concedeva una sopravvivenza stentata. Il pane era in­ trovabile, se non à prezzi altissimi. «Nei nostri regni si pati­ sce, da alcuni anni a questa parte, la fame e la necessità» constaterà vari anni più tardi Filippo II in un memoriale. Morto il secondogenito, Luis, la famiglia si trasferl nel 1548 ad Arévalo. Tre anni dopo giunse in uno dei maggiori centri commerciali europei, Medina del Campo. Nella città, le cuffie di seta che Catalina, il primogenito Francisco e la moglie tessevano, non bastavano a mantenere anche Juan. 7

Egli venne accolto in un orfanotrofio, il Collegio della Dot­ trina. In cambio di cibo e di vestiti, raccoglieva elemosine per il Collegio. Qui, oltre alla dottrina, imparò a leggere e a scrivere. Fallito l'apprendistato di varie attività manuali, servì come chierichetto nella sagrestia di un convento di Agostiniane. Queste lo raccomandarono a don Alonso Alvarez de Toledo, patrono dell'Ospedale della Concezio­ ne, più noto come l'ospedale "dei bubboni" venerei, desti­ nato ai poveri affetti da sifilide o da altre malattie contagio­ se. Juan venne assegnato al reparto delle pustole come in­ fermiere; fuori chiedeva l'elemosina per i pazienti. Nelle pause leggeva. Don Alonso se ne accorse, e lo iscrisse in un collegio dei Gesuiti. Juan iniziò cosi gli studi umanistici, quando il lavoro glielo consentiva. A ventun anni, nel 1563, ricevette la qualifica di "buon la­ tino e retorico". Il direttore del collegio, Juan Bonifacio, un latinista entusiasta, aveva stilato un programma che com­ prendeva le letture dei classici: Cicerone, Virgilio, Orazio e Marziale purgati, Cesare, Sallustio, Livio e Curzio Rufo; esercizi di composizione latina in prosa e in verso; traduzio­ ni dal breviario e di inni ecclesiastici. Lo sbocco naturale aperto a un giovane dotato per lo stu-, dio e di condizione povera era la carriera ecclesiastica. Don Alonso Alvarez propose al suo protetto il posto di cappella­ no nell'ospedale. Juan decise invece di entrare, assieme ad altri tre compagni del collegio, in un convento di Carmeli­ tani, e vi assunse il nome di Juan de Santo Matfa. L'ordine lo inviò a perfezionare gli studi all'università di Salamanca, la più prestigiosa della Spagna, centro fiorente dell'umanesimo, benché l'insegnamento ufficiale si dovesse attenere rigidamente ai canoni della scolastica. Iscritto al corso di "arti", Juan studiò astronomia, musica, grammati8

ca, filosofia, etica. Inoltre frequentò le lezioni del collegio carmelitano di S. Andrea in cui risiedeva. Nel 1567 venne nominato prefetto degli studenti nel collegio: L'incarico era un indizio delle sue capacità: dimostrò uno zelo da neofita nel suo desiderio di perfezione, sottoponendosi a una dura disciplina ascetica, e rimproverando severamente agli altri ogni infrazione delle regole. Ordinato sacerdote, Juan tornò a Medina per celebrarvi la sua prima messa. Nello stesso anno arrivò a Medina Teresa d'Avila, per fondare il secondo convento di Carmelitane Scalze. Era l'epoca in cui il generale dell'ordine, il ravenna te Rubeo, vi­ sitò la Castiglia, una provincia restia a ogni innovazione. Egli incoraggiò Teresa a insistere nel progetto di estendere la riforma ai frati: «li nostro desiderio è che siano come specchi, come lampade brillanti, torce ardenti, stelle scintil­ lanti, che illuminino e guidino chiunque vaga per l'oscuro mondo». Teresa aveva cinquantadue anni quando incontrò Juan de Santo Matfa nell'autunno del 1567. Egli le era stato indicato come l'uomo forse più adatto ad assisterla nell'iniziativa di ri­ forma, per il suo carattere austero e rigoroso. Juan le rivelò che, insoddisfatto dell'ambiente carmelitano, aveva deciso di entrare in una Certosa: contava di trovarvi il rigido rispetto di regole molto severe, uno stretto ascetismo personale, la solitudine nella propria cella, rapporti con gli altri limitati al­ la liturgia e ai giorni festivi, libertà nel tipo di preghiera men­ tale e nell'esperienza individuale di Dio. Ll avrebbe potuto praticare una vita di penitenza, di preghiera, di raccoglimen­ to, realizzando il suo ideale contemplativo. Teresa lo rassicurò: le costituzioni stabilite per le mona­ che riformate erano altrettanto esigenti. Prescrivevano la povertà, come liberazione dal giogo dei desideri mondani, 9

l'isolamento in una clausura stretta, il digiuno, il divieto delle carni, la preghiera meditativa. Agli uomini sarebbe stata imposta una regola più severa. Eccettuata la predica­ zione, avrebbero dovuto dedicarsi esclusivamente alla pre­ ghiera solitaria e alla vita contemplativa. Persuaso, Juan tornò a Salamanca nel 1568, per frequen­ tare un anno di teologia; poi tornò a Medina, pronto ad as­ secondare l'idea di Teresa, la quale riassunse la sua opinio­ ne su di lui in una lettera: «Benché sia piccolo, [. . ] è accor­ to, e idoneo al nostro modo, e credo dunque che il Signore lo abbia chiamato per questo. Non c'è frate che non ne dica bene, perché la sua vita è stata di grande penitenza, nono­ stante la giovane età. Mi sembra che il Signore lo tenga con la sua mano. Benché [. . ] io mi sia a tratti adirata con lui, non gli ho mai visto un'imperfezione. Il coraggio ce l'ha; ma siccome è solo, ha bisogno di quanto gliene dà il Signo­ re, per prendersela tanto a cuore>>. Per sottolineare la nuo­ va vocazione e indicare il suo modello di vita -la sofferenza accettata o cercata come fonte di redenzione dello spirito Juan cambiò appellativo: diventò Juan de la Cruz. Teresa scopri presto che l'indole riflessiva di Juan, il suo interesse quasi esclusivo per la contemplazione, la sua indif­ ferenza alla realtà quotidiana, lo rendevano inadatto a diri­ gere con lei l'impresa della riforma carmelitana. Gli manca­ va la componente dinamica della personalità di Teresa, ne­ cessaria per affrontare l'ostilità crescente dei Carmelitani "osservanti" o "calzati", allarmati dalla frattura nella com­ pagine dell'ordine, e i sospetti di eresia che il metodo della preghiera mentale, fulcro della riforma, suscitava in grado crescente nell'istituzione ecclesiastica. Nominata priora del grande convento non riformato del­ l'Incarnazione ad Avila, Teresa vi chiamò Juan come con.

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IO

fesso re. In questo ruolo le si mostrò l'altra faccia della sua indole: egli si rivelò dotato di una grande sensibilità; molto ricettivo, possedeva uno straordinario intuito psicologico, che ne fece un direttore di anime stimatissimo. L'espansione degli Scalzi in Andalusia, favorita dal nun­ zio apostolico Ormaneto contro il parere di Rubeo, portò alla rottura. Gli Scalzi vennero dichiarati ribelli; Teresa fu condannata alla reclusione in un convento di sua scelta. Nel gennaio del 1576 Juan venne imprigionato e successiva­ mente liberato per l'intervento del nunzio. Quando morl Ormaneto, il nuovo nunzio Sega si schierò dalla parte dei Calzati. Nella notte del 2 dicembre 1576 alcuni Calzati, assistiti dal braccio secolare, arrestarono Juan e un suo compagno. Juan fu portato in segreto, con gli occhi bendati, nel carcere conventuale di Toledo. Di fronte al tribunale ecclesiastico, rifiutò di rinunciare alla riforma, e come ribelle fu condan­ nato al carcere, per un tempo lasciato all'arbitrio del ge­ nerale. Dopo due mesi trascorsi in una cella ordinaria, venne portato in una cella ricavata da un ripostiglio, stretta e illu­ minata da poco più di una fessura a mezzogiorno. Tutto cercava di spezzare l'ostinata fermezza del prigioniero: il gelo dell'inverno nella cella fredda; il cibo scarso e la priva­ zione dei sacramenti; la flagellazione metodica unita a ritua­ li umilianti. Infine l'isolamento: le uniche parole gli arriva­ vano da dietro la porta. Lo accusavano di atteggiarsi a san­ to, gli dicevano che la riforma era ormai fallita, insinuavano che non sarebbe mai più uscito di 11, che nessuno si curava più di lui. Teresa era all'oscuro del luogo dove Juan era stato fatto scomparire: «Non so per quale sfortuna nessuno si ricordi II

di questo santo»; e si consolava con il pensiero che proba­ bilmente confortava anche il recluso: «Dio tratta i suoi ami­ ci in modo terribile, ma essi non hanno motivo di lagnanza, poiché ha fatto lo stesso con il proprio Figlio». I nove mesi trascorsi nel "ventre della balena" -così Juan chiamerà quel luogo, identificandosi con Giona, il profeta involontario - furono un periodo di crisi profonda. L'im­ magine ricompare in un brano della Notte oscura: «L'attivi­ tà divina disfa la sostanza spirituale, in modo che l'anima si sente consumare e struggere alla vista delle sue miserie, provocando una crudele morte dello spirito. Le accade co­ me se, inghiottita da una bestia, si sentisse digerire nel ven­ tre tenebroso di essa». Dopo sei mesi, un nuovo custode, meno spietato, alleviò la condizione del prigioniero. Juan poté cambiare la tunica sporca, intrisa di sudore e di sangue, con una pulita. Rice­ vette del materiale per scrivere, nelle ore centrali del gior­ no. Quando arrivò l'estate, i periodi di luce nella cella si al­ lungarono. Juan poté trascrivere cosi "le cose di devozione" che aveva composto nella mente, seòandole nella memo­ ria. La poesia più solare e più ricca di immagini sensitive, Canzoni della sposa, era nata, per contrasto, dalle tenebre. Juan de la Cruz aveva saputo mutare la privazione in una . solitudine feconda. In agosto Juan si credette prossimo a morire. Decise la fuga. Evase di notte, calandosi da una finestra con una cor­ da. Saltò nel vuoto e atterrò sul bordo di una scarpata che scendeva a precipizio verso il fiume Tago. Al mattino chiese asilo nel convento delle Carmelitane. Irriconoscibile, ridot­ to quasi a uno scheletro, come dichiararono le testimoni, ebbe la forza di recitare alcune delle poesie composte nei mesi di prigionia. 12

Per allontanarlo dal pericolo, il Capitolo degli Scalzi mandò Juan in Andalusia. Vi rimase una decina di anni, con incarichi via via crescenti e cumulativi. Priore del convento del Calvario, confessore delle monache di Beas, rettore del collegio di Baeza, priore a Granada, vicario provinciale, Juan fu costretto a girovagare da un convento all'altro. Si sentiva a suo agio in quelli immersi nel paesaggio agreste; nelle città invece risentiva degli obblighi del suo ufficio, dei contatti con l'ambiente mondano, e provò un'acuta insoffe­ renza per il temperamento andaluso, che gli appariva super­ ficiale. Più volte chiese di essere richiamato in Castiglia. Si sentiva in esilio in "questo strano posto" dove "quella bale­ na" lo aveva vomitato: era come se dovesse ripatire le tene­ bre, si sfogò in una lettera. Negli anni trascorsi a Granada tra il 1582 e il 1588, duran­ te le pause della sua attività frenetica, Juan de la Cruz scris­ se la parte più cospicua delle sue opere. Terminò le Cancio­ nes e le commentò nella prima redazione del Cantico spiri­ tuale. Nel contempo redasse faticosamente il trattato siste­ matico della Salita al Monte Carmelo: era sempre più lonta­ no dal progetto iniziale di commentare la poesia della Notte oscura scritta nel Calvario. Iniziò un nuovo commento della stessa poesia nel trattato omonimo: anch'esso rimarrà tron­ co. Scrisse invece in quindici giorni la prima versione del commento alla poesia Fiamma viva d'amore. Juan si spostò ancora più lontano, in Castiglia e in Porto­ gallo, per assistere ai Capitoli della congregazione. Dopo la morte di Teresa nel 1582, le divergenze sulle prospettive e sull' assetto dell'ordine sfociarono in scontri aperti nelle as­ semblee. Fedele all'ideale contemplativo e all a regola tere­ siana, Juan si pronunciò contro l'allargamento della regola con la predicazione e le missioni, in favore dell'autonomia 13

dei singoli conventi; e difese la regola come unico principio di autorità. Ammoni contro l'ansia di potere e il pericolo di servilismo che minacciavano l'ordine. Ebbe il sopravvento la fazione del genovese Nicola Doria, grande organizzatore, uomo d'azione e di potere. Doria impose progressivamente il suo modello autocratico, in piena sintonia con la politica della corona spagnola. Eletto membro della Consulta, il nuovo organo di gover­ no, Juan tornò nel 1588 in Castiglia, come priore a Segovia. Il piano di Doria di sottoporre al potere della Consulta an­ che il ramo femminile dell'ordine con la revoca delle costi­ tuzioni teresiane, provocò l'opposizione di Ana de Jesus, considerata l'erede spirituale di Teresa. Ana si appellò di­ rettamente al Papa e propose di designare Juan de la Cruz come superiore delle monache. L'opposizione dello stesso Juan ai progetti di Doria nel Capitolo del 1591 confermò il generale nella decisione di allontanarlo da ogni posto d'in­ fluenza. Juan scrisse ad Ana: «Le cose che non fanno piacere, pur buone e convenienti, sembrano cattive e avverse; questa si vede bene che non lo è, né per me né per nessuno. Per me è anzi molto opportuna, perché con la libertà e con lo sgravio dall' occuparmi delle dolci anime, posso, se voglio, con l'aiuto divino, godere della pace, della solitudine e del deli­ zioso frutto dell'oblio di sé e di tutte le cose. E agli altri pu­ re sta bene tenermi in disparte: cosi saranno liberi dagli er­ rori che farebbero sul conto della mia miseria». Destituito, Juan venne allontanato provvisoriamente in Andalusia. La meta successiva avrebbe dovuto essere il Messico. Arrivò al convento di La Pefiuela nell'agosto del 1591. Nelle lettere celebrava la vastità di quel luogo arido e deso­ lato nella Sierra Morena, un vero deserto che aiuta l'anima

e il corpo: dichiarava di trovarsi meglio tra le pietre che tra gli uomini. Lavorava nell'orto: «è bello manipolare queste creature morte, meglio che essere manipolati da quelle vi­ ve». n resto del tempo lo trascorreva in preghiera; oppure scriveva libri "su delle canzoni", secondo una testimonian­ za. Probabilmente riscrisse il Cantico spirituale e la Fiamma viva d'amore, rivedendo nella quiete dell'isolamento le pri­ me versioni scritte a Granada mentre era incalzato dagli im­ pegni. Venne a sapere di un'inchiesta su di l�i, che voleva spo­ gliarlo anche del prestigio morale di cui ancora godeva, per renderlo definitivamente innocuo. In vista di un futuro pro­ cesso, un seguace di Doria accennò a presunte relazioni amorose di Juan con qualcuna delle sue assistite. Il metodo ricalcava quello usato contro altri oppositori del generale. Juan proclamò ancora una volta la beatitudine dell'ubbi­ dienza, l'estrema mortificazione dell'orgoglio: «L'abito non me lo possono togliere, a meno che mi dimostri incorreggi­ bile o disubbidiente, mentre sono prontissimo a corregger­ mi da ogni mio possibile errore, e a ubbidire a qualunque penitenza vogliano assegnarmi». A settembre patì un'infezione alla gamba destra. Per cu­ rarsi, si trasferì al convento di Ubeda. Qui il priore sfogò un antico risentimento contro di lui: rinfacciò a Juan l'eccessi­ va severità usatagli, assegnò al malato la cella più piccola, proibì le visite. L'infezione ulcerosa si impadronì di tutto il corpo. Sul letto di morte, prima della mezzanotte del 13 di­ cembre, Juan chiese ai confratelli di leggergli dei brani del Cantico dei cantici. 1618 Esce ad Alcala la prima edizione delle opere di Gio­ vanni della Croce. Manca il Cantico spirituale. 15

1622 Gregorio XVI proclama santi tre spagnoli: Teresa d' Avila, Ignazio di Loyola e Francesco Saverio. Viene pub­ blicata in Francia la prima edizione del Cantico con il titolo Cantique d'amour divin. 1675 Giovanni della Croce è proclamato beato da Cle­ mente X. Verrà canonizzato da Benedetto XIII nel 1726, dichiarato dottore della Chiesa da Pio XI nel 1926, eletto a patrono dei poeti spagnoli nel 1952.

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LE VICENDE DEL CANTICO

Le Canzoni della sposa e il Cantico spirituale sono il risultato di un processo creativo e speculativo durato quattordici an­ ni: essi segnano l'inizio e la fine dell'attività letteraria di Juan de la Cruz. La composizione delle Canzoni abbraccia un periodo di sei anni, dalle trenta strofe di T oledo fino alle ultime cinque scritte probabilmente a Granada tra il 1582 e il 1584. Commenti orali, richiesti dagli assistiti spirituali cui Juan proponeva le Canzoni come base di orientamento nella meditazione, danno luogo prima a glosse parziali brevi, e poi al commento completo del I584 (la redazione A del Cantico). Uno dei manoscritti apografi che diffondono l'opera, il codice di Sanlucar, presenta glosse e correzioni stilistiche attribuite all'autore (è la versione nota come A'). Successivamente, forse nel 1586, Juan scrive una seconda re­ dazione, il Cantico B, con un riordinamento delle strofe e l'aggiunta di una nuova canci6n (cfr. l'Appendice). Oltre al­ le modifiche nel commento delle strofe riordinate, muta il significato delle strofe XXXVI-XL, riferite non più alla vita terrena ma alla trascendenza. L'edizione tardiva del Cantico, avvenuta per di più fuori dal territorio spagnolo, ha suscitato diverse ipotesi, collega­ te alla polemica sull'autenticità del Cantico B. Da una parte gli avvicendamenti politici nella direzione dell'ordine car17

melitano avrebbero frenato la pubblicazione delle opere di Juan de la Cruz: la prima edizione del 1618 esce infatti nel­ l'interregno tra il 1607-1613 e il 1619-1625 dominati da Alon­ so Rivera, seguace di Nicola Doria. L'assenza del Cantico da quest'edizione viene attribuita al timore di vederlo coinvol­ to nei processi per eresia contro sette come gli «Alumbra­ dos» andalusi, conclusi nel 1579, 1590 e 1627 in autodafé: nell'ultimo figura tra i principali imputati un ex carmelita­ no, Juan de Villalpando. Inoltre, il teorico del "quietismo", Miguel de Molinos, si rifà palesemente alla dottrina di Te­ resa d'Avila e di Juan de la Cruz. Nel 1922 il domenicano Philippe Chevallier mette in dubbio l'autenticità del Cantico B e scatena una polemica trentennale, rimasta poi allo status quo. Gli argomenti di Chevallier sono la tardiva edizione di B nel 1703, la presen­ za di sue tracce nelle prime edizioni italiana e spagnola, le modifiche radicali tra le due redazioni, la persistenza di tratti della prima nella seconda; tutti elementi che suscitano il sospetto di un falso. Sono soprattutto francesi i sostenito­ ri di queste tesi; vengono fatti i nomi di Tomas Dfaz, incari­ cato dell'edizione delle opere di Juan, ma di idee teologiche diverse, oppure dell'arcivescovo di Granada Agustfn Anto­ linez, già autore di un commento firmato delle Canzoni di Juan. Lo scontro vede sull'altro fronte difensori in preva­ lenza spagnoli del Cantico B. Essi sottolineano le affinità sti­ listiche tra la redazione B e le altre opere dello scrittore. Le incongruenze che legano ancora le due redazioni sono tal­ mente visibili, essi sostengono, che, se B fosse un apocrifo, sarebbe opera di un falsificatore o molto maldestro o abilis­ simo nel lasciare tracce di "pentimenti". Piuttosto, il carat­ tere non definitivo di tutte le opere di Juan de la Cruz fa pensare a un manoscritto ancora aperto a revisioni. !8

Riscoperto come poeta nel secolo scorso, Juan de la Cruz viene incluso nel Parnaso della poesia spagnola grazie so­ prattutto a una lettura romantica filtrata dal simbolismo, che vedeva in lui un precursore della poetica dell'indeter­ minato. Questa prospettiva, congiunta a una distinzione anacronistica tra i concetti di allegoria e di simbolo, ha fa­ vorito fino a tempi recenti la svalutazione letteraria del­ l'opera in prosa, in proporzione inversa all'apprezzamento dottrinale nell'ambito ecclesiastico. Ne risulta l'immagine bifronte di uno scrittore modernissimo nella poesia, ma irri­ mediabilmente succube del suo tempo, se non ancora lega­ to al Medioevo, nella prosa. Sorvolando il prudente consiglio di Juan de la Cruz di non considerare il suo commento un'interpretazione vinco­ lante, si continua tuttora a vedere nella prosa un tradimen­ to riduttivo della pregnanza poetica e di quella complessità che lo stesso Juan riconosceva alla propria poesia. L'accusa tradisce un senso di disagio; nel rifiuto delle equivalenze univoche dell'allegoria si nasconde il sospetto, contro l'evi­ denza cronologica, che il sistema del Cantico indichi una ge­ nesi razionale e artificiosa dell'evento poetico. Contribuisce all'inquietudine il contrasto stilistico fra la poesia e la prosa. Semplicità, immediatezza, purezza - frut­ to di una sapiente elaborazione - sono qualità concorde­ mente riconosciute alla prima; la seconda ha provocato giu­ dizi poco lusinghieri fin dal periodo classico, quando vi si criticavano «frasi trasandate, frequenti ripetizioni, apostrofi molto uniformi, e periodi molto disuguali», e uno scarso ri­ spetto del ritmo oratorio, e talvolta della correttezza gram­ maticale; soltanto in epoca recente la prosa è stata rivaluta­ ta, da studi come quello di Hatzfeld, che individua le preoc­ cupazioni ritmico-musicali della prosa, fino alla convincen19

te descrizione che ne dà Manuel Ballestero: «Questa dizio­ ne ampia, fluida, si offre come una totalità in blocco, oscil­ lante ma priva di fratture. Orbene, in questa omogeneità o continuità sintattica si riversa un pensiero che progredisce in mezzo a tensioni di significato. [ . ] La compattezza del periodo, il suo progredire attraverso anafore, la sua tenden­ za alla circolarità, racchiudono antagonismi che lo dividono e lo scindono». La prosa di Juan de la Cruz è movimentata da continue intrusioni del linguaggio poetico; vi si alternano e mescola­ no più registri, da quello del discorso teologico, ricco di la­ cinismi e tecnicismi, fino al registro quasi colloquiale, che non disdegna il lessico rustico. È una prosa a un tempo raf­ finata e aggrovigliata che segue un andamento tortuoso e anelante, prodotto da un complesso sistema di subordina­ zioni e da incisi esplicativi che talvolta sembrano ripensa­ menti. La pratica reiterativa non deriva da noncuranza o da una scelta antiletteraria, ma mira a un effetto di ridondanza che imita la lingua parlata e serve nello stesso tempo alla ponderazione sui concetti, oltre a corrispondere a un gusto della ripetizione di masse sonore. Non mancano posizioni variamente circospette nei con­ fronti della cultura religiosa che è alla base dell'opera di Juan de la Cruz; si dimentica che essa è parallela e in parte convergente con la metafisica neoplatonica di cui tanta par­ te delle opere letterarie del Rinascimento è impregnata. Sul versante opposto, nell'ambito religioso, sussiste una certa diffidenza verso il Cantico, considerato non sufficientemen­ te dottrinale in confronto agli altri trattati. Eppure il Canti­ co è l'unico libro che contiene per intero il sistema di Juan de la Cruz: la Fiamma viva espande un'immagine delle Can­ zoni, «con fiamma che consuma e non dà pena», e riguarda .

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soprattutto lo stadio finale dell'esperienza mistica, mentre Notte e Salita, due testi interrotti, non vanno oltre l'avvio di quest'esperienza. Lo stile del Cantico rappresenta inoltre la forma espressiva che lo scrittore considerava più adeguata per conoscere il suo metodo di meditazione: nel Cantico spi­ rituale il poeta e il pensatore mistico hanno raggiunto un perfetto punto di equilibrio.

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LE ISOLE INESPLORATE DI GIOVANNI DELLA CROCE

Leggere il Cantico spirituale è come entrare in una fore­ sta. Per evitare lo smarrimento, senza la pretesa di adden­ trarmi nel giardino né tanto meno nelle caverne della rupe del Cantico, seguirò qui, tra le diverse tracce che il libro propone, una traccia implicita nel testo del commento, ma proclamata dallo scrittore nel prologo: l'itinerario che con­ giunge l'organismo letterario della poesia alla lettura inter­ pretati va. ll Cantico spirituale, in quanto scrittura, è nato dalla fusione e dallo scambio reciproco (dal matrimonio, se vogliamo usare una metafora giovannea) tra queste due istanze. r.

n condurre alla contemplazione delle cose divi­ ne, ed il destare in questa guisa coll'immagini

come fa il Teologo mistico ed il poeta, è molto più nobile operazione che l'ammaestrare sulle dimostrazioni, come è offizio del Teologo scola­ stico; il Teologo mistico adunque, e il poeta so­ no oltre gli altri nobilissimi. T. Tasso, Del poema eroico

2. Se per Jorge Guillén il prologo del Cantico racchiude una riflessione sulla poesia, esso contiene per Manuel Balle ­ stero una poetica della riflessione. Lo specchio rovesciato di 22

queste definizioni riflette il rapporto che intercorre tra co­ noscenza dell'amore e amore della conoscenza: i due modi sono per Giovanni della Croce simultaneamente condizio­ ne e conseguenza del commento che gli viene richiesto da Anna di Gesù. Le Canzoni, egli esordisce, sono manifesta­ zioni dell'amore, perché nate dall'amore e composte in uno spirito d'amore. L'impresa di spiegare, chiarire, definire, comprendere con parole e discorsi ordinati dalla ragione l'abbondanza di senso di un'esperienza soggettiva, è più che ardua. L'universo sconfinato dell'amore trova nella poesia una forma animata: ciò vale sia per le Canzoni sia per il loro modello, i divini cantici di Salomone. Sentimenti, desideri, gemiti, tradotti in immagini, similitudini e analogie, agli oc­ chi della ragione appaiono spropositi. Dall'esterno, l'intel­ letto perplesso vede soltanto segreti e misteri. A meno che guardi e legga «con la stessa semplicità dello spirito d'amo­ re e della concezione che le hanno originate»: se non ven­ gono lette con partecipazione affettiva, queste strane imma­ gini restano impenetrabili. Tra senso comune e senso straordinario c'è un abisso: Giovanni lo ripete nel commento delle insulas estrafias (XIV­ xv), magnifico compendio dell'eccezionale, del singolare, dello stupore di fronte a un'incognita. Le isole inesplorate e lontane sono la sintesi dell'isolamento e dell'insolito. Stu­ pore, meraviglia (quanti "meraviglioso" nelle pagine del Cantico!) seducono l'attenzione verso l'arcano nascosto nel­ le figure. Chiamato a delucidare il proprio testo, Giovanni della Croce preferisce commentare gli enunciati dell'amo­ re nella loro ampia complessità, piuttosto che restringerli in concetti inerti e mancanti dello spirito d'amore. Nel­ l'uso del Cantico lo "spirito d'amore" è la premessa, lo sviluppo e il traguardo di un processo di concordanza. 23

Ne danno una felice rappresentazione le immagini della musica e del canto. In un fitto susseguirsi di "non", confluenti nella rassegna­ zione («non potrò fare a meno», «dovrò toccare alcuni punti della teologia scolastica»), il poeta esprime il ramma­ rico (ripugnanza, nel prologo della Fiamma) di dover defini­ re l'illimitato piegandolo a concetti astratti, esposti soltanto all a vista della ragione. Tramite necessario, ma subordinato alla "conoscenza per via d'amore" della mistica. Questa, sin­ tesi di sapere e di sapore come "scienza saporosa", abilita a penetrare nell'enigma, a interrogare l'oggetto della cono­ scenza per riceverne il dono della sapienza, che appaga l'in­ telletto e il sentimento insieme, soddisfacendo quelle che Pascal chiamerà le "ragioni del cuore".

In questo consiste l'esperienza della conoscenza di se stessi, la prima cosa che l'anima deve fare per avviarsi alla conoscenza di Dio.

Cantico spirituale,

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3· Contrapponendo le due discipline, Giovanni della Croce manifesta il dissidio fra il dogmatismo autoritario e il movi­ mento mistico spagnolo nel Cinquecento. Un conflitto che si palesa clamorosamente nel lungo elenco di opere misti­ che fra i libri proibiti dall'Indice di Fernando de Valdés nel 1559· Nella mistica spagnola la sapida sapientia di san Bonaventura, la sapientia amorosa di san Bernardo, muove verso una spiritualità fortemente soggettiva, dove confluiscono la tra­ dizione mistica anteriore, l' erasmismo, la devozione moder­ na e il neoplatonismo del Rinascimento. n primato del-

l'esperienza individuale genera un sistema espressivo che appare stravagante all'occhio dogmatico. n linguaggio mi­ stico rappresenta infatti e suscita un'emancipazione dalla teologia scolastica, simile a quella delle scienze sperimentali dalla filosofia. È un linguaggio che dà voce allo sguardo orientato verso il centro dell'anima: «Non è possibile senza la conoscenza di noi stessi raggiungere la santità perfetta>>, scrive Bernardino de Laredo (Salita del Monte Sion), come Juan de Avila: «L'ordine è questo: prima guarderete voi stessi, dopo Dio, e dopo il prossimo» (Audi filia). La Controriforma argina il fiume crescente del movimen­ to mistico, poi lo incanala in strettoie via via più anguste, fi­ no a farlo scomparire in rivoli sotterranei. Nel Seicento essi riaffiorano in Borgogna, ramificano in Francia. Anche i mi­ stici francesi susciteranno sdegno con il loro linguaggio, verranno accusati di non parlare «con precisione e sotti­ gliezza scolastica». Essi abusano delle parole, «forzano le allegorie [ ... ] spingendole sino alle più assurde conseguen­ ze» (J.-B. Bossuet, Istruzioni sugli stati d'orazione). La sola idea di congiungere il sapore al sapere nel piacere della co­ noscenza, sviluppata in modo radicale dal pensiero mistico del Rinascimento, rappresenta una sfida intollerabile per una tradizione adusa a scindere i due termini, e per ogni fòrma di razionalismo. 4· Incongruente rispetto al senso religioso della Bibbia, il corpo profano del Cantico dei cantici parla una lingua inve­ rosimile per gli esegeti. La sua differenza sfida il senso co­ mune, la sua stranezza è fonte d'inquietudine, e suscita il desiderio di ritrovarvi il senso nascosto per impossessarsene come di un tesoro. 25

Da Origene che identifica Cristo con l'Eros platonico, passando attraverso san Gregorio, il quale ne fa il testo alle­ gorico per eccellenza, e san Bernardo, che affida alla misti­ ca monacale l'idea di una conoscenza soggetta all'amore, fi­ no alla meditazione sui Cantici di santa Teresa, una tradizio­ ne secolare di lettura del «misterioso libro della Cantica» (cosl dichiara nel titolo la prima edizione italiana del Canti­ co spirituale) confluisce nel commento di Giovanni della Croce quando risponde all'esortazione di comporre in un testo i commenti orali della sua poesia. Le Canzoni della sposa sono fatte a immagine e somiglianza della poesia bibli­ ca; Giovanni a buon diritto può dirle ispirate da un analogo spirito d'amore. Affrontare il linguaggio delle metafore significa per lui rifarsi al principio esegetico di leggere la Scrittura con lo stesso spirito mediante il quale è stata scritta. «Lo spirito che vi è racchiuso è difficile da capire, è mol­ to più abbondante della lettera e assai straordinario e al di fuori dei suoi limiti» dice Giovanni della propria poesia in Salita del Monte Carmelo. Per commentarla riscrive il testo, lo scompone e poi lo ricompone alla ricerca della logica, in­ tuita ma non posseduta mai per intero, del linguaggio, delle immagini. Nei segni manifesti il senso unitario è latente, es­ sendo le forme, figure e immagini solo «la corteccia e l' ap­ parenza della sostanza e dello spirito sottostanti» (Salita). Per Giovanni come per sant'Agostino, i segni sono indizi, barlumi di un significato potenziale ancora assente. La chiave multiforme dell'esegesi è la parola ratio, l'equi­ valente del logos greco. n lettore che esamina il testo parte da un'idea (ratio), si avvicina al testo con rispetto (ratio) e interesse (ratio); per mezzo dell'analogia (ratio), della spie­ gazione (ratio) e della riflessione (ratio), segue una traccia 26

(ratio), trova un ordine (ratio) e una compagine (ratio), che manifesta un principio (ratio). Alla fine del percorso trova una teoria (ratio), una conoscenza (ratio), e un accesso alla ratio, al Verbo divino. La scienza saporosa aggiunge all'intelletto quella compo­ nente affettiva di desiderio e di dedizione appassionata ed esclusiva e di inclinazione profonda, che consente di riceve­ re una risposta illuminante, tale da consentire di immedesi­ marsi nella ratio.

A chi legge i primi due capitoli del Cantico può sembrare che lo scrittore affronti le metafore delle Canzoni come un



archeologo che decifra strani geroglifici. Per prima cosa egli fa uscire dal contesto ciascun segno e, avvalendosi dello strumento analogico dell'allegoria, lo traduce in un altro linguaggio, entro uno schema predisposto. È una traduzio­ ne che non esclude designazioni alternative (i pastori sono desideri oppure angeli?), contraddittorie (le fresche matti­ nate sono la primavera, o forse l'inverno), o diverse da stro­ fa a strofa (i fiori possono mutare da antagonisti a forze amiche). La scissione tra le immagini e il significato, impre­ cisa e sorprendente, crea un vuoto da sanare. Vi si manife­ sta, come nella ferita dell'anima sposa, la mancanza di un ri­ ferimento e il bisogno di inseguirlo per trovarlo.

n segno

è una piramide dove dimora e alberga un'anima straniera. Hegel, Enzyklopiidie

6. Pur sapendo che «l'anima, in quanto spirito, non ha l'al­ to né il basso né il più profondo né il meno profondo nella 27

sua essenza, come accade nei corpi quantitativi; non essen­ dovi parti [. .. ], è tutta identica [ ... ] come l'aria» (Fiamma), Giovanni della Croce non ignora che «le facoltà dell'anima non possono da sole riflettere e agire se non su qualche for­ ma, figura, immagine» (Salita). Così, dal terzo capitolo egli mette in campo anche delle forme astratte, in una sorpren­ dente sfilata di triangoli rigorosamente paralleli: volontà l memoria l intelletto carità l speranza l fede amore l pensiero l conoscenza pena l sofferenza l dolore demonio l mondo l carne ... l . .. l ... Fondate sul modello teologico della Trinità, queste forme geometriche disegnano una specie di mappa topografica dell'anima. Tuttavia, essa si rivelerà utile non tanto ad aiu­ tare l'archeologo dei primi due capitoli nella sua minuziosa classificazione, quanto a orientare l'avventura dell'anima e l'avventura del commentatore, eroe di un processo di cono­ scenza. Le tre facoltà dell'anima, il cuore, la mente, la ragione, sono dotate di organi sensori; comunicano, percepiscono quel profluvio di soavità, aromi, splendori e immagini tan­ gibili che nel Cantico danno una seducente evidenza ai rap­ porti tra i personaggi. Attraverso le sensazioni e le forme tratte dalla poesia le facoltà possono assumere ruoli, seguire l'impulso dello spirito d'amore, agire. Mentre la volontà e l'intelletto diventano i protagonisti vicari dell'anima, la me­ moria, come soggetto dell'immaginazione e della riflessio­ ne, del ricordo e della speranza, è una vera e propria istanza

narrativa, poiché la sua meta è la consapevolezza. Se i mezzi di cui si avvale l'interprete delle strofe per costruire la sua storia sono presi dalla speculazione sulle persone della dot­ trina trinitaria, egli vi immette il movimento liberandoli dalla stasi del dogma, e li accende con immagini capaci di penetrare nell'animo del lettore. La sua è una concezione animata dell'anima, vista come un campo di forze e di per­ corsi. L'orientamento trimembre del periodare, la suddivisione del Cantico in tre stadi, sono i testimoni esterni di uno sche­ ma mentale determinante nella stessa composizione del li­ bro. n triangolo è uno schema dinamico, perché ogni verti­ ce implica un'eventuale mediazione tra gli altri due. Gio­ vanni attua questa possibilità nella struttura narrativa del Cantico, trasformando il modello topografico in un pro­ getto. n doppio tema del viaggio e della trasformazione traduce in un processo di ritrovamento la mediazione tra due poli inizialmente scissi: l'anima e lo Sposo, l'immagine e il con­ cetto, la poesia e il commento. L'energia mediatrice nasce, come l'eros nel mito platonico, da una disgiunzione. L'inte­ ro Cantico è un approssimarsi a quest'idea in movimento. Nella parola "amore" convergono le immagini e i simboli convenzionali, facendone il simbolo centrale dell'opera, simbolo non statico e predeterminato, ma che cresce attra­ verso il tempo dell'interpretazione. 7· Leggere il Cantico come una parafrasi riduttiva delle me­ tafore in concetti è un punto di vista unilaterale. Al contra­ rio, il commento pretende l'ampiezza della poesia. Le cate­ gorie astratte forniscono uno scheletro alla descrizione, e ri29

cevono in cambio un corpo nel testo poetico dove vengono proiettate dalla fantasia. È l'immissione nel tessuto delle Canzoni a rendere memorabile agli occhi del lettore lo sfor­ zo dell'anima, a darle evidenza e profondità. Nel Cantico la prospettiva dell'interprete non si muove su un binario, ma congiunge continuamente i due piani. li commentatore esa­ mina immagini e concetti, li abbina riordinandoli nella sto­ ria che racconta, torna sulla traccia della poesia cercando di leggervi la prosecuzione del discorso che sta tessendo come una spola, mentre si arricchisce dei riferimenti di entrambi i versanti. In una certa misura la sua mente vaga senza fissa dimora: quando si avventura nel bosco delle immagini, se­ guendo l'itinerario delle Canzoni, egli si trova nella medesi­ ma situazione dell'anima. Percorre un universo la cui strut­ tura non omogenea lo costringe a varcare ostacoli, e viaggia servendosi di un mezzo complesso: l'idea dello spirito d'amore. La sua meta è esplorare, assimilare e possedere il principio di concordanza che intuisce nella forma poetica. Mentre progredisce nella conoscenza della poesia, descrive il viaggio dell'anima: esso traduce in immagini, con le sue peripezie, il viaggio dell'interpretazione. Mentre nella nar­ razione l'anima cerca lo Sposo, sintesi di forma e di spirito, l'interprete cerca dentro una forma espressiva indizi dello spirito da cui è animata. Andiamo con stupore di &onte all'inconsueto, senza cessare di stupirei anche delle nostre già note esperienze. Plotino, Enneadi

8. La filiazione delle Canzoni della sposa dal Cantico dei can­ tici non è diretta, ma mediata dall'esperienza esegetica del30

l'autore, dall a prassi di ricomporre la forma frammentaria del Cantico in un insieme, cercandone la ratio, l'ordine e un senso unitario. Le strofe di Giovanni della Croce sono com­ poste di immagini staccate dal Cantico biblico, unite a im­ magini di altra provenienza in una rete di riferimenti interni ed esterni. La composizione è vincolata dal filo sottile di un itinerario: è un abbozzo di trama, una narrazione instabile poggiata più su accenni di motivi che su vere e proprie suc­ cessioni. Nel primo commento della poesia Giovanni ne rafforza il potenziale narrativo, insistendo sulle forme drammatiche dell'azione: la ricerca, l'inseguimento, il viaggio, la meta­ morfosi. Lo schema progressivo viene accentuato nella se­ conda redazione del Cantico spirituale: Giovanni riorganiz­ za l'intera parte centrale del testo poetico, per adeguarlo al­ la forma narrativa del commento. L'avvio della narrazione conferisce un senso al vuoto aperto tra le metafore e i concetti. La traduzione allegorica consente a Giovanni della Croce di esercitare quel distacco dalla propria poesia, quel "più nulla ormai sapevo" del­ l' anima che nelle Canzoni prende le distanze dalla consuetu­ dine: una premessa socratica, ma anche una rigorosa esigen­ za della meditazione monastica. Distanziatosi attraverso l'iniziale mortificazione delle immagini strappate al loro contesto, svuotata la poesia da qualsiasi significato potesse avere in precedenza, egli può affrontare il testo ogni volta con occhi nuovi. L'interpretazione come esercizio spirituale obbliga a dominare l'orgoglio con lo sforzo, per divenire padroni di ciò che si crede di possedere, e consapevoli di ciò che si crede di sapere. Questo spiega il carattere provvi­ sorio degli scritti di Giovanui della Croce, la loro potenzia­ le apertura alla revisione e al cambiamento, come si rivela 31

anc,he nel finale aperto del Cantico, con il rinvio della per­ fezione, non solo morale ma anche della lettura, a un al­ dilà. 9· Un processo in apparenza contrario alla narrazione si fa via via consistente, per affermarsi nella seconda parte del Cantico, in proporzione alla crescita dell'identità tematica, e assieme all'irrompere nella prosa del linguaggio poetico. Uno dei tratti più caratteristici dello stile prosastico di Gio­ vanni della Croce è la reiterazione di vocaboli e di formule: essa produce un effetto di sovrabbondanza, e viene facil­ mente vista come il risultato di una noncuranza espressiva. La reiterazione ha, invece, un fondamento retorico: serve a dare rilievo drammatico alla stessa idea, e far sembrare ine­ luttabile una progressione. Possiamo ricordare il consiglio, dato da Ugo di San Vittore, di imitare nel genere letterario spirituale la ridondanza della lingua parlata, per ribadire il concetto fino alla sua assimilazione; scopo che nel Cantico si sposa al metodo contemplativo di girare amorevolmente in­ torno alla parola, per lasciarsi invadere dalle associazioni, le quali confermano la via. Ma l'espansione cumulativa è an­ che il sintomo dell'insufficienza della riduzione allegorica e della parola isolata e definita. Nel momento narrativo della stasi e della rigenerazione dell'anima, il linguaggio si racco­ glie e si ricompone. Attorno alla parola lo scrittore annoda, mescola, tesse altre parole e le coinvolge in uno scambio. L'aggregazione restituisce le parole a legami di significa­ to, le reintegra, «nel mentre che di rose intrecciamo una pi­ gna» (xvi), in un insieme compatto e organico. Nel contem­ po l'insieme di varianti, l'intarsio delle citazioni bibliche, moltiplicano le sfumature delle parole in un mosaico, ne 32

smentiscono l'esattezza in un sistema di rifrazioni tale da condensare in un vocabolo un effetto di senso insolito, da farlo diventare un' insula strana. I concetti e le immagini più o meno lontani (la memoria dell'interprete cita continua­ mente il passato e anticipa sviluppi) si combinano e si tra­ sformano in modo quasi impercettibile verso la sinonimia: verso l'idea centrale della convergenza. 10. Il Cantico spirituale è la dimostrazione dello sforzo pro­ fuso da Giovanni della Croce per ricreare nella prosa un linguaggio insieme coerente e suggestivo, in qualche modo analogo a quello della poesia, contro il silenzio di fronte al­ l'ineffabile, o all'oscura balbuzie delle definizioni razionali. La ricerca di una forma adeguata si esprime in immagini do­ ve la scienza saporosa appare intimamente legata alla scien­ za della bellezza. Di fronte alla traccia di «ordine ammire­ vole» (v) dell'atto creativo, l'osservatore (anima e interprete accomunati) si abbandona all'euforia e al desiderio del­ la forma perfetta e stabile, di «ordine e bellezza [. .. ] con la grazia e la finezza dello smalto in un vaso d'oro eccel­ lente» (IV). Dopo la dispersione iniziale e la successiva ricomposizio­ ne dei legami tra immagini e concetti, tra poesia e commen­ to, la ricerca giunge alla sintesi: ritrova la forma animata, il matrimonio del "due in uno" tra la forma e lo spirito, in un coronamento compatto come la pigna di rose, e altrettanto concentrato, ma non statico. Nella ghirlanda di fiori e di smeraldi si congiunge la forma dinamica del cerchio alla sta­ bilità dell'intreccio. «l fiori sono le virtù dell'anima, gli smeraldi sono le doti donate da Dio» spiega il commento (xxx): la ghirlanda rap33

presenta l'incontro tra lo sforzo intuitivo e il dono dell'ispi­ razione, se si associa la frase alla definizione data da Gio­ vanni della propria poesia. A chi lo interrogava sull'origine delle Canzoni, di parole cosi ricche e cosi belle, rispose: «A volte era Dio a darmele e altre ero io a cercarmele». Non è da escludere che, leggendo le Canzoni, egli abbia ricono­ sciuto nella ghirlanda il simbolo adeguato per rappresentar­ le. Nel commento infatti, dopo un primo immediato riferi­ mento alla primavera e alla rigenerazione, lo scrittore ag­ giunge una spiegazione diversa, piuttosto estranea al conte­ sto: «Si intendono anche le opere fatte nell'aridità, nella difficoltà dello spirito, indicate dal fresco delle mattinate dell'inverno». Dell'inverno sofferto nel carcere di Toledo, dove le Canzoni erano nate? n. Raggiunta la perfezione, «per quanto si può in questa vita», come tiene a ribadire Giovanni durante l'intero Can­ tico, la sezione conclusiva aggiunge una prospettiva trascen­ dente al tema e all'interpretazione. Da una parte il discorso si conclude, dall'altra si riapre. Ancora insoddisfatta, l'ani­ ma «muore dal desiderio di introdursi molto addentro [. . ] nella conoscenza» (xxxvi), mentre l'interprete giunge a due trascendenze del linguaggio. Prima al trionfo della sinoni­ mia, l'identità completa analoga alla perfezione della sfera: «Ovvero: io sia talmente trasformata nella tua bellezza, che, essendo una tua simile in bellezza, ci vediamo entrambi nel­ la tua bellezza, avendo già la tua stessa bellezza. In modo che guardandoci l'un l'altro, ciascuno veda nell'altro la pro­ pria bellezza, essendo quella dell'uno e quella dell'altro la tua sola bellezza, assorbita io nella tua bellezza. E cosi ti vedrò io nella tua bellezza, e tu vedrai me nella tua bellez.

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za, e io mi vedrò in te nella tua bellezza, e tu ti vedrai in me nella tua bellezza. E cosi, possa io sembrare te nella tua bel­ lezza, e tu sembrare me nella tua bellezza, e la mia bellezza sia la tua bellezza; e cosi io sarò te nella tua bellezza, e tu sa­ rai me nella tua bellezza, perché la tua stessa bellezza sarà la mia bellezza. E cosi ci vedremo l'un l'altro nella tua bellez­ za» (xxxvr). È l'iperbole della reiterazione, il limite estremo del linguaggio della prosa. Oltre la sintesi raggiunta in una sola parola, "bellez­ za", non restano parole piene né immagini, ma "quello" (XXXVIII): il pronome vuoto senza un riferimento immedia­ to, che costringe a cercarne la ragione. Privo della funzione dimostrativa, il pronome non ha un nome ma un contenuto virtuale infinito. li commento raggiunge qui il momento critico; "quello" è l'enigma assoluto che sfida l'esegeta. "Quello" non può essere compreso in un vocabolo né chia­ rito in una sola volta. La prima soluzione è il ricorso ad altri enigmi, le frasi dell'Apocalisse. È una scelta paradossale, «poiché nemmeno questa espressione basta per dirlo, ne ag­ giunge un'altra più oscura e che lo fa intendere meglio». All ontanandosi ancora dal polo del silenzio, l'interprete ricorre poi alle immagini poetiche dei Salmi. In seguito vi aggiunge le metafore della strofa XXXIX delle Canzoni: il no­ me migliore di "quello" sono ancora immagini. Cosi facen­ do egli ribadisce la superiorità della parola poetica, come via di accesso alla comprensione intuitiva, sulla conoscenza mediata dal discorso esclusivamente razionale. Nel linguag­ gio della poesia, nel «canto della dolce filomena», l'esegeta ha riconosciuto il senso della sua ricerca. Mentre un movimento giunge alla quiete, ne comincia un altro. Non volendo astenersi dal "dire un poco" di "quello", il commentatore accetta infine di spiegare con maggiore 35

chiarezza le immagini della strofa, per una minima informa­ zione sull'enigma. L'epilogo si raccorda così al prologo: vi si rappresenta la conferma di un ruolo che Giovanni della Croce si assume pur dibattendosi nella difficoltà di definire la complessa ampiezza degli enunciati dell'amore. In questo cerchio aperto dell'interpretazione che ricomincia sempre di nuovo, si spiega l'origine della prosa del Cantico: chi scri­ ve è la guida spirituale che rende accessibile alle «compa­ gne del mio viaggio per isole lontane» (xrx) una poesia in cui vede il compendio della propria esperienza, il memoria­ le con il quale dialoga ancora, interpretandolo, negli ultimi mesi di vita. Con l'esempio della sua lettura egli intende orientare le altre anime sulla traccia della scienza saporosa, indirizzarle verso una comprensione intima della parola, centro della vita monastica nella preghiera, nella meditazio­ ne, nella lettura. n metodo e l'obiettivo restano identici. Giovanni della Croce era convinto che leggere con parteci­ pazione e interesse profondo un'opera animata da una forza interna portasse, attraverso il piacere della conoscenza, a un rinnovamento spirituale del lettore.

LETTERE

Alla madre Catalina de Jesus. Baeza, 6 luglio 1581. Gesù sia nella sua anima, figlia mia Catalina. Benché io non sappia dove lei si trovi, le voglio scrivere queste righe, nella fiducia che gliele invierà la nostra Madre [Teresa] , se non si trova insieme a lei; e se così non è, si consoli con me, per­ ché più esiliato sono io, e solo, da queste parti. Dopo che mi ha ingoiato quella balena e vomitato in questo strano posto, non ho meritato mai più di vedere la Madre, né le sante persone di quelle parti. Dio ha fatto bene, poiché, alla fine, l'abbandono è lima che corregge e purifica, ed è di grande luce patire le tenebre. Piaccia a Dio che non dobbia­ mo stare in esse. Oh, quante cose le vorrei dire!, ma scrivo con molta incertezza, pensando che non riceverà questa let­ tera; perciò smetto, senza finirla. Mi raccomandi a Dio. E non voglio dirle altro di qui, perché non ne ho voglia.

[Questa e le due successive lettere di Giovanni della Cro­ ce sono tratte dall ' Episto lario , in Vida y obras completas de San Juan de la Cruz, Madrid, 1946 e rist.] 37

Ad Ana de Jesus e alle altre sorelle Carmelitane scalze del convento di Beas. Granada, 22 novembre 1587. Gesù [e] Maria siano nelle vostre anime, figlie mie in Cri­ sto. Mi sono molto consolato con la vostra lettera; vi ricom­ pensi Nostro Signore. Il non avere scritto non è stata man­ canza di volontà, perché davvero desidero il vostro bene, ma il sembrarmi che sia già stato detto e scritto parecchio per fare ciò che importa; e che quanto manca (se qualcosa manca) non è lo scrivere o il parlare (questo di solito avan­ za), ma il tacere e operare. Poiché, inoltre, il parlare distrae, e il tacere e operare raccoglie e dà forza allo spirito. E così, una volta che la persona sa ciò che le hanno detto per pro­ gredire, non ha più bisogno di udire altro, ma di mettere ciò in pratica davvero, con silenzio e cura, in umiltà e carità e disprezzo di sé; e non di andare poi a cercare nuove cose, che non servono se non a soddisfare l'appetito in ciò che è fuori (e anche senza poterlo soddisfare) e a lasciare lo spiri­ to debole e vuoto, senza virtù interiore. Ne consegue che né la prima cosa né l'ultima siano utili; come chi mangia senza aver digerito, e poiché il calore naturale si divide fra l'una e l'altra cosa, non ha la forza per trasformare tutto in sostanza, e così si genera la malattia. È molto necessario, figlie mie, saper sottrarre il corpo che è dello spirito al demonio e alla sensualità, perché altri­ menti, senza avvedercene, rimarremo molto indietro e mol­ to lontani dalle virtù di Cristo, e dopo ci sveglieremo con il nostro lavoro e opera fatto al rovescio, e mentre pensavamo di portare la lampada accesa, apparirà spenta; perché i soffi che a parer nostro davamo per accenderla, forse erano piut­ tosto per spegnerla. Dico, quindi, che, perché questo av-

venga, e per custodire lo spirito, come ho detto, non c'è mi­ glior rimedio che patire, e fare, e tacere, e chiudere i sensi con l'uso e l'inclinazione alla solitudine e all'oblio di ogni creatura e di ogni avvenimento, dovesse sprofondare il mondo; e non si tralasci mai, nel bene e nel male, di quieta­ re il proprio cuore con amore sviscerato, per patire in tutte le cose che si presentino. Perché la perfezione è di cosi alto momento e il piacere dello spirito di cosi alto prezzo, che voglia Iddio possa bastare; perché è impossibile progredire se non agendo e soffrendo virtuosamente, tutto avvolto nel silenzio. Questo ho capito, figlie: l'anima pronta a parlare e a discutere, è assai poco attenta a Dio; perché quando lo è, di solito viene tirata da dentro a tacere e a fuggire da ogni conversazione, perché Dio preferisce che l'anima goda con lui che con altri, per esperti e appropriati che siano. Alle preghiere della vostra carità mi affido, e abbiate per certo che, sebbene la mia carità sia cosi poca, e cosi raccolta verso là, non mi dimentico di coloro ai quali devo tanto nel Signore, il quale sia con tutti noi. Amen. Alla madre Ana de Jestis, a Segovia. Madrid, 6 luglio 1591. Gesù sia nella sua anima. La ringrazio molto di avermi scrit­ to, e mi sento più obbligato di quanto fossi già. Del fatto che le cose non siano avvenute come lei desiderava, deve piuttosto consolarsi e dare molte grazie a Dio, perché aven­ dolo ordinato cosi la Sua Maestà, è ciò che a tutti conviene di più; resta soltanto da applicarvi la volontà, perché come è vero, cosi ci appaia. Poiché le cose che non fanno piacere, pur buone e convenienti, sembrano cattive e avverse; que39

sta si vede bene che non lo è, né per me né per nessuno. Per me è anzi molto opportuna, perché con la libertà e con lo sgravio dall' occuparmi delle dolci anime, posso, se voglio, con l'aiuto divino, godere della pace, della solitudine e del delizioso frutto dell'oblio di sé e di tutte le cose. E agli altri pure sta bene tenermi in disparte: così saranno liberi dagli errori che farebbero sul conto della mia miseria. Ciò di cui la prego, figlia, è di pregare il Signore che in ogni modo continui a concedermi questo favore, perché te­ mo ancora che mi facciano andare a Segovia, e così non mi lascino del tutto libero, benché io farò il possibile per libe­ rarmi anche da questo; ma se ciò non potesse essere, non si sarà liberata nemmeno la madre Ana de Jesus dalle mie ma­ ni, come lei pensa, e così non morirà col dispiacere che sia finita l'occasione, a suo parere, di essere molto santa. Ma, sia partendo, sia restando, dovunque e comunque sia, non la dimenticherò né la toglierò da quel conto che dice, per­ ché desidero davvero il suo bene per sempre. Ora, finché Dio ci dia questo bene nel cielo, la prego di intrattenersi esercitando le virtù della mortificazione e della pazienza, e di desiderare nel patire farsi un poco simile a questo gran Dio nostro, umiliato e crocefisso; poiché questa vita, se non è per imitarlo, non è buona. Sua Maestà le conservi e aumenti il suo amore, amen, come a santa sua amata. Alla madre Maria de San José, Siviglia. [ ... ] Sappia, reverenda madre, che le monache dell'Incarna­ zione sono state assolte, dopo essere rimaste scomunicate per quasi due mesi [. . . ] . Il Re ha ordinato al Nunzio di farle

assolvere. Il Tostado e gli altri suoi consiglieri hanno invia­ to a questo scopo un priore di T oledo; questi le ha assolte con tali molestie che sarebbe lungo raccontarle, !asciandole più afflitte di prima, e più sconsolate. Tutto questo perché le monache non vogliono la priora che si vuole imporre lo­ ro, bensl me. Hanno tolto loro i due Scalzi assegnati dal commissario apostolico e dal nunzio precedente, e li hanno portati via prigionieri come malfattori; mi tengono in gran­ de ansia, finché non li vedrò liberi dal potere di questa gen­ te; preferirei vederli in terra di Mori. Si dice che il giorno dell'arresto li abbiano frustati due volte, e che infliggano lo­ ro il peggiore trattamento possibile. Maldonado, il priore di Toledo, ha portato padre Giovanni della Croce alla presen­ za del Tostado. [da S. Teresa de Jesus, Epistolario, Madrid, 1962, p. 435· Lettera del 10 dicembre 1577; Giovanni della Croce era sta­ to arrestato una settimana prima.]

TESTIMONIANZE

E mentre era in quel carcere [. . ] compose un libro, con delle strofe sui Cantici di Salomone, che inizia Dove ti sei nascosto Amato, abbandonando me gemente? Vi si vede quan­ to fosse pacifica la sua anima in queste sofferenze e tribola­ zioni, che furono grandi. Inocencio de San Andrés .

ll santo padre portò fuori dal carcere quando ne usci un quaderno che aveva scritto mentre era 11, con delle romanze [. ] e le canzoni o "lire" che dicono Dove ti sei nascosto Amato, fino a quella che dice Voi ninfe di Giudea. [. .. ] mi ..

disse che con queste canzoni si intratteneva, e le conservava nella memoria per scriverle. Ana de San Alberto Poiché mi meravigliarono la vivacità delle parole e la loro sottile bellezza, gli chiesi un giorno se era Dio a dargli quel­ le parole cosi ricche e belle, e mi rispose: Figlia, a volte era Dio a darmele e altre ero io a cercarmele. Magdalena del Espiritu Santo

Durante una Quaresima &a Giovanni della Croce soggior­ nava in questo convento [di Beas] [. .. ] . Egli chiese un gior­ no alla testimone di cosa si stesse occupando nella sua pre­ ghiera; di guardare la bellezza di Dio e di rallegrarsi perché Dio l'aveva, gli rispose. E tale fu la gioia del santo, che per alcuni giorni diceva cose molto elevate, meravigliose, sulla bellezza di Dio. E cosi, trascinato da questo amore, su que­ sto fece cinque canzoni a quel tempo; quelle che iniziano Godiamoci mio Amato, e a rispecchiarci nella tua bellezza, ecc.; e in ogni cosa dimostrava di avere nel petto un grande amore di Dio. Francisca de la Madre de Dios Era molto amico di leggere nella Sacra Scrittura, e cosi non l'ho mai visto leggere un altro libro se non la Bibbia, che conosceva quasi tutta a memoria. ]uan Evangelista

Prendeva spunto dagli alberi, dalle piante, dai fiumi, e da qualunque altra cosa gli si offrisse alla vista, per trarne con­ siderazioni spirituali. Francisco de Santa Maria [l brani precedenti sono estratti da dichiarazioni di testi­ moni diretti raccolte nelle inchieste per l'edizione delle opere e per la causa di beatificazione; vengono citati, per es., da Cris6gono de Jesus Sacramentado, Vida y obras com· pletas de San Juan de la Cruz, Madrid, 1946 e rist.] 43

BIBLIOGRAFIA SOMMARIA

Edizioni antiche Non si conoscono manoscritti autografi. Tra i ventun apo­ grafi del Cantico, suddivisi secondo le redazioni A , A ', B, i più autorevoli sono il codice di Sanlucar de Barrameda, che contiene glosse e correzioni considerate autografe, per la versione A ' , e il codice di Jaén per la redazione B. Nel 1601 il capitolo dei Carmelitani Scalzi diede disposi­ zioni per la pubblicazione delle opere di Giovanni della Croce. Tre decenni dopo la morte dell'autore, le prime edi­ zioni (Alcala, 1618 e Barcelona, 1619, a c. di Diego de Jesus Salablanca) non contengono il Cantico. Esso viene pubbli­ cato per la prima volta in francese: Cantique d'amour divin, a c. di René Gaultier, Paris, 1622. Il traduttore ed editore si vanta di aver pubblicato un inedito. Il testo spagnolo è incluso a fronte nell'edizione italiana delle Opere spiri­ tuali, a c. di Alessandro di San Francesco Ubaldini, Roma, r627, rist. Roma, 1634 e Venezia, 1671. L'editio princeps in spagnolo esce nello stesso anno a Bruxelles: Declaraci6n de las canciones que tratan del exercicio de amor entre el alma y el Esposo, per iniziativa di Maria de la Encarnaci6n Salazar, compagna di Ana de Jesus nei tempi più agitati. Nelle Obras, a c. di Geronimo de San José, Madrid, 1630, 45

viene usato per la prima volta il titolo Cantico espiritual. L'edizione francese aveva riportato la redazione A; le al­ tre edizioni il testo A ' : quelle di Roma e di Madrid con l'ag­ giunta della strofa XI della redazione B; questa viene pubbli­ cata nelle Obras, a c. di Andrés de Jesus Maria, Sevilla, 1703, e diventa il testo canonico fino alla polemica iniziata nel 1922: cfr. qui Le vicende del "Cantico". Edizioni moderne Nelle Obras, a c. di Gerardo de San Juan de la Cruz, Tole­ do, 1912-1914, vengono pubblicate insieme le redazioni A e B. L'edizione critica di Philippe Chevallier, Le "Cantique spirituel", Bruges, 1930, si basa su A : diventa la più accettata nell'ambito francofono. Successivamente Chevallier preferi­ sce la redazione A ' (Solesmes, 1951). L'edizione critica di Crist6bal Cuevas, Cantico espiritual. Poesias, Madrid, 1979, è basata su B. Entrambe le redazioni sono previste nell' edi­ zione critica di Eulogio de la Virgen del Carmen Pacho ini­ ziata a Madrid, 1981. Una delle edizioni più divulgate è quella di Vida y obras completas de San Juan de la Cruz, a c. di Licinio Ruano, Madrid, 1946, che contiene, a partire dal­ la settima edizione (1973), le due redazioni. Una recente edizione in formato tascabile è in Poesia completa y comenta­ rios en prosa, a c. di Raquel Asun, Barcelona, 1986. Edizioni italiane Edizioni italiane recenti del Cantico sono incluse in Opere, a c. di Nazareno dell'Addolorata, Roma, 1940 e 1955, e in

Opere, a c. di Ferdinando di S. Maria, Roma, 1975: quest'ul­ tima riporta i diversi testi del Cantico. Edizioni separate del Cantico sono la ristampa della trad. di Nazareno dell'Addo­ lorata, Torino, 1946, e Cantico spirituale, a c. di Gabriele di S. M. Maddalena, Firenze, 1948.

La questione testuale In una bibliografia abbondante, c&. soprattutto P. Cheval­ lier, Le "Cantique spirituel", Bruges, 1930, e Id., Le texte dé-· finiti/ du "Cantique spirituel", in «Quaderni Ibero­ americani», II (1953), pp. 249-253, più J. Krynen, Le "Canti­ que spirituel", Salamanca, 1948, e P. Elia, Le redazioni del "Cantico espiritual" di ]uan de la Cruz in «Quaderni di filo­ logia e lingue romanze», 6 (1984), pp. 51-69, da un lato; dal­ l'altro, la storia ragionata del conflitto in Eulogio de la Virgen del Carmen Pacho, San ]uan de la Cruz y sus escri­ tos, Madrid, 1969, pp. 275-408; inoltre le introduzioni del­ lo stesso E. Pacho e di C. Cuevas nelle loro edizioni del testo. Biografia

È utile passare attraverso la biografia antica di }osé de Jesus

Maria Quiroga, Historia de la vida y virtudes del V. P. Fr. fuan de la Cruz, Bruxelles, 1628, rist. Burgos, 1927 (trad. it. Brescia, 1638).; ricca di documenti è la «Biografia de San Juan de la Cruz» di Cris6gono de Jesus Sacramentado, in Vida y obras, cit., Madrid 1946 e rist. Si vedano anche Bru­ no de Jésus-Marie, Saint Jean de la Croix, Paris, 1929 47

(trad. it. Milano, 1938), e l'agile narrazione di G. Brenan, St. fohn of the Cross, Cambridge, 1973 (trad. spagnola Barcelo­ . na, 1983). Per una revisione critica, si veda R. Rossi, Consideraciones sobre la biografia de fuan de la Cruz, in «mientras tanto», 23 (1985), pp. 109-126; sui rapporti con la fondatrice dell'Ordine: R. Rossi, Teresa d'A vila. Biografia di una scrit­ trice, Roma, 1983Studi critici I testi classici sono Cris6gono de Jesus Sacramentado, San fuan de la Cruz: su obra cientifica y su obra literaria, Madrid, 1929 e J. Baruzi, Saint fean de la Croix et le problème de l'expérience mystique, Paris, 1931, ancora importante per il tema del simbolismo, benché consideri le Canciones una poesia allegorica. Lo specialista più autorevole sulla storia degli scritti di Giovanni della Croce è Eulogio Pacho; cfr. in particolare San fuan de la Cruz y sus escritos, cit. Per un inquadramento letterario, si vedano G. M. Bertini, Profilo estetico di San Giovanni della Croce, Venezia, 1944; E. Cal­ dera, El manierismo en San fuan de la Cruz, in «Prohemio», I, 3, 1970, pp. 333-355; C. Cuevas, La literatura como signa, Madrid, 1981; H. Hatzfeld, Estudios literarios sobre mistica espafiola, Madrid, 1955 . I rapporti con il platonismo vengo­ no sottolineati da E. A. Maio, St. fohn of the Cross: the ima­ gery of Eros, Madrid, 1973. Per le Canzoni sono tuttora validi i saggi di D. Alonso, La poesia de S. fuan de la Cruz, Madrid, 1942, preferibile alla nuova redazione del 1958, più abbandonata all'"ineffabile"; Id., «El misterio técnico en la poesia de S. Jgan de la Cruz», in Poesia espafiola, Madrid, 1950; G. Diego, Musica y

ritmo en la poesia de S. ]uan de la Cruz, in «Escorial», IX (1942), pp. 163-186; Jorge Guillé n, «S. Juan de la Cruz o lo inefable mistico», in Lenguaje y poesia, Madrid, 1962. L'am­ pia introduzione di D. Ynduniin in S. Juan de la Cruz, Poe­ sia, Madrid, 1987, dedicata in particolare alle Canzoni, è ric­ ca di riferimenti alla tradizione poetica profana. Un buon quadro d'ambiente è fornito da E. Orozco, Poesia y mistica, Madrid, 1959. La crescita del testo viene esaminata nel do­ cumentato studio di R. Duvivier, La genèse du "Cantique spi­ rituel", Paris, 1971. Sulle fonti si vedano anche M. Bataillon, Varia lecci6n de clasicos espafioles, Madrid, 1964; M. R. Lida, La tradici6n clasica en Espafia, Barcelona, 1975; ]. L. Mora­ les, El "Cantico espiritual" de S. Juan, Madrid, 1971. Sia per il testo poetico che per i vari aspetti del Cantico è essenziale C. P. Thompson, The poet and the mystic, Oxford, 1977. Sul rapporto tra le Canzoni e il commento, si veda M. R. Icaza, The stylistic relationship between poetry and prose in the "Cantico espiritual", Washington, 1957. E importante l'insieme dei saggi sul Cantico di E. Pacho: El prologo y la hermenéutica; La clave exegética; Estructura lite­ raria: rispettivamente in «Monte Carmelo», 66 (1958), pp. 3-1o8; in «Ephemerides Carmeliticae», 9 (1958), pp. 307-337; XI (1960), p p . 312-351; e in «Monte Carmelo», 69 (1961), pp. 383-414. E significativo il difficile saggio di M. Ballestero, «La bUsqueda y lo escondido», in Poesia y refle­ xi6n, Madrid, 1980. Una suggestiva interpretazione del rap­ porto tra poesia e trattato, nel caso della Fiamma viva d1amore, è proposta da A. Ruffinatto, «l codici dell'eros e della paura in san Juan de la Cruz», in Semiotica ispanica, Alessandria, 1985. Poco studiati gli aspetti stilistici del Cantico: oltre all'in­ troduzione di Cuevas, cit., e al libro di Thompson, valgono 49

per analogia le osservazioni di Caldera e di Hatzfeld, cit., nonché di V. Garda de la Concha, Conciencia estética y vo­ luntad de estilo en San ]uan de la Cruz, in «Boletin de la Bi­ blioteca Menéndez Pelayo», XLVI (1970), pp. 371-408. Più specifici sono i saggi di H. Chandebois, Lexique, grammaire et style chez St. ]ean de la Croix, in «Ephemerides Carmeliti­ cae», m (1949), pp. 543-547; IV (1950), pp. 361-368; e G. Di Gennaro, Testo l Riforma. "Exercicios espirituales" e "Cinti­ co espiritual": metonimia e metafora nel sec. XVI, Napoli, 1979. Fondamentale per la conoscenza del linguaggio misti­ co del secolo XVI è M. De Certeau, Fabula mistica, Bologna, 1987; si vedano in particolare le pp. 188 sgg.

AVVERTENZA La traduzione è stata fatta sul testo della redazione B sta­ bilito da Cristobal Cuevas in base al manoscritto di Jaén, pubblicato in San Juan de la Cruz, Cantico espiritual. Poesias, Madrid, Alhambra, I979· Ho mantenuto per quanto possibile gli stilemi peculiari dell'originale: la com­ pattezza del periodo, il fitto tessuto di proposizioni relative, le diverse figu­ re della ripetizione, il rapporto semantico proposto dalle endiadi.

CANTICO SPIRITUALE

COMMENTO DELLE CANZONI SULL'ESPERIENZA D'AMORE TRA L'ANIMA E LO SPOSO CRISTO

Vi si toccano e si spiegano alcuni punti ed effetti della pre­ ghiera, a richiesta della Madre Anna di Gesù, 1 Priora delle Carmelitane Scalze di San Giuseppe a Granada, nell'anno 158 4 .2

1 Ana de Jesus Lobera, nata a Medina del Campo nel 1543, fu una delle prota­ goniste della riforma carmelitana. Giovanni della Croce ne diventò il direttore spiriruale a Beas, e assieme a lei fondò il convento di Granada nel 15 �2. Fu Ana de Jesus ad affidare a Luis de Le6n l'edizione delle Opere di Teresa d'Avila. Esauto­ rata dal generai� Doria, si trasferì in Francia e in Belgio, dove continuò le fonda­ zioni. Morì a Bruxelles nel 1631. 2 L a data è u n o dei residui della redazione A del Cantico. Simili anacronismi e altre incongruenze hanno fatto pensare a una redazione ancora non definitiva del

Cantico B.

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PROLOGO

Queste Canzoni, religiosa madre, appaiono scritte con un certo ardore nato dall'amore di Dio, la cui sapienza e il cui amore sono così infiniti che si estendono dall'uno all'altro confine, come afferma il libro della Sapienza;1 e l'anima, for­ mata e mossa da lui, porta in qualche modo nel proprio dire la stessa abbondanza e lo stesso impeto. Perciò adesso io non intendo spiegare tutta l'ampiezza e la ricchezza che lo spirito fecondo dell'amore ha riversato in queste Canzoni; sarebbe anzi un segno di ignoranza pensare che le espressio­ ni amorose della concezione mistica - come quelle delle presenti strofe - possano essere chiarite bene attraverso qualche modalità delle parole; poiché lo Spirito del Signore viene in aiuto alla nostra debolezza, come dice san Paolo,2 e, dimorando in noi, chiede attraverso di noi con gemiti ineffabili quello che noi non possiamo né comprendere né definire, per renderlo manifesto. Chi saprà scrivere ciò che egli fa comprendere alle anime innamorate in cui abita? Chi potrà manifestare con parole i sentimenti che ispira? E chi, infine, i desideri che suscita? Certo, nessuno lo può; certa· mente neppure le stesse anime dove egli passa ne sono ca1

Sapienza 8,

r.

2 Romani 8, 26. 55

paci. Questa è la causa per la quale con immagini, similitu­ dini e analogie esse preferiscono far traboccare qualcosa dei loro sentimenti, e versano segreti e misteri dall'abbondanza dello Spirito, piuttosto che darne una spiegazione raziona­ le. Se tali analogie non si leggono con la stessa semplicità dello spirito d'amore e della concezione che le hanno origi­ nate, sembrano piuttosto spropositi che discorsi ordinati dalla ragione; come si può vedere nei divini Cantici di Salo­ mone3 e in altri libri della Scrittura divina, dove lo Spirito Santo, non riuscendo a rendere comprensibile la sua abbon­ danza di senso per mezzo di espressioni comuni e consunte, enuncia misteri in strane immagini e somiglianze. Ne conse­ gue che i santi Dottori, per quanto dicano e ancora dicano, non possono mai riuscire a chiarirne per intero il senso con le parole, così come non è stato possibile esprimerlo con le parole; e così di solito ciò che se ne spiega è la minima parte del suo contenuto. E poiché queste Canzoni sono state composte in uno spi­ rito d'amore, abbondante di senso mistico, non si potranno spiegare adeguatamente, né questa sarà la mia intenzione, ma solo quella di dare qualche chiarimento generale, secon­ do la Vostra volontà, reverenda madre. E ritengo che sia meglio così, perché gli enunciati dell'amore è meglio com­ mentarli nella loro ampiezza, in modo che ognuno se ne giovi secondo le caratteristiche e le risorse del proprio spiri­ to, piuttosto che restringerli a un senso al quale non si pos­ sa adattare ogni palato. Quindi, se vengono interpretati in un modo, non c'è ragione di sentirsi legati dall'interpreta­ zione, perché la sapienza mistica, che si manifesta attraver' Poiché per tradizione Salomone aveva composto dei cantici (I Re 5, u), il pri­ mo versetto del Cantico dei cantici gli attribuisce il poema biblico; egli era considera­ to anche l'autore dei libri sapienziali, i Proverbi, l'Ecclesiaste e la SapienZP.

so l'amore, di cui trattano le presenti strofe, non ha bisogno di essere intesa distintamente per suscitare amore e senti­ mento nell'anima. Essa agisce infatti come la fede, in cui amiamo Dio senza comprenderlo. Quindi sarò molto breve, anche se non potrò fare a meno di dilungarmi in alcune parti dove la materia lo richiederà, e quando si offrirà l'occasione di esaminare e di chiarire cer­ ti punti ed effetti della preghiera. Poiché nelle strofe se ne toccano molti, non potrò far a meno di esaminarne alcuni. Tuttavia, lasciando da parte i più comuni, esporrò breve­ mente i punti più straordinari attraversati da coloro che hanno oltrepassato, con il favore di Dio, lo stato di princi­ pianti. E questo per due ragioni: l'una, perché è già stato scritto molto per i principianti; l'altra, perché qui eseguo il Vostro mandato e mi rivolgo a Voi, reverenda madre, cui Nostro Signore ha fatto grazia di sollevarla fuori da quegli inizi, e di portarla più addentro nel seno del suo amore divi­ no. E se anche dovrò toccare alcuni aspetti della teologia scolastica sul rapporto interiore dell'anima con il suo Dio, spero non risulti inutile averne parlato in tale purezza di spirito: sebbene a Voi, reverenda madre, manchi l'esercizio della teologia scolastica con cui si comprendono le verità divine,4 non Vi manca quello della mistica, che si conosce per via di amore, e in cui non solamente si vengono a cono­ scere tali verità, ma nello stesso tempo si assaporano.' • Nel Cantico lo scrittore non si rivolge ai principianti, cui dedica i due trattati sistematici Notte oscura e Salita del Monte Carmelo. In essi il metodo scolastico è applicato con più rigore, tenendo conto della precisa destinazione introduttiva a una fase ulteriore, che tuttavia manca in questi testi rimasti tronchi. ' Juan de la Cruz impiega il termine "mistico" quasi esclusivamente in sen· so teologico, mentre usa il termine "spirituale" o "contemplativo" per designa­ re aspetti dell'esistenza religiosa chiamati "mistici" solo a partire dal Seicento; così, per esempio, la metafora del matrimonio spirituale diventerà "matrimonio mistico" .

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E perché le mie parole - siccome io voglio assoggettarle totalmente al giudizio migliore, quello della Santa Madre Chiesa - trovino maggior credito, non intendo affermare nulla di mio; non mi affiderò alla mia esperienza interiore né a quella conosciuta o udita da altre persone spirituali6 pur giovandomi di questa e di quella -, senza la conferma e il chiarimento di testimonianze della Sacra Scrittura, alme­ no per ciò che sembrerà più difficile da capire. Nelle cita­ zioni scritturati riporterò prima le frasi in latino, e ne spie­ gherò subito il senso secondo il contesto.7 Premetterò l'in­ tero testo delle Canzoni, e poi nell'ordine le commenterò una per volta, premettendo la strofe e ogni verso alla sua spiegazione. 8

6 È possibile che questo periodo eriga barriere contro eventuali accuse: sia per le traduzioni in volgare dei testi biblici, sia per I' appello alla propria esperienza, mascherato attraverso una serie di negazioni. 7 In realtà nel Cantico le citazioni in latino, già soppresse nei primi capitoli del­ la versione A', subiscono una progressiva rarefazione. 8 E un'avvenenza che Giovanni premette a tutti i suoi libri: segno eviden­ te dell'imponanza attribuita alla comprensione previa dell'intero testo della poesia.

CANZONI TRA L'ANIMA E LO SPOSO

Dove ti sei nascosto, Amato, abbandonando me gemente? Come il cervo fuggisti, dopo avermi ferita; uscii invocandoti e te n'eri andato. II

Pastori, voi che andrete lassù fino agli addiacci dell'altura, se colui che io ho scelto vedeste per ventura, ditegli che languisco e peno e muoio. III

Cercando i miei amori andrò sui monti e lungo le riviere; né coglierò mai fiori, né temerò le fiere, e passerò oltre i forti e le frontiere. 59

IV

O boschi e folte selve, piantati dalla mano dell'Amato, o prato che smaltato sei di fiori e di verde, svelatemi se qui egli è passato. v

Mille grazie spargeva varcando le boscaglie con premura, e mentre le guardava, la sua sola figura vestite di bellezza le lasciava. VI

Ahi, chi potrà sanarmi? Concediti ora intero e per davvero. Oggi non mi mandare ancora un messaggero, perché non sanno dirmi ciò che anelo. VII

E chiunque a te abbia atteso mille grazie di te va riferendo, e più la piaga sento e resto moribonda di un non so che che vanno balbettando. 6o

Vili

Ma come sopravvivi, o vita, se non vivi dove vivi, se ti fanno morire le frecce che ricevi da quel che dell'Amato concepisci? IX

Perché, se l'hai piagato, non hai sanato pure questo cuore? E se me l'hai sottratto, perché tu l'abbandoni, e non cogli la preda che hai rubato? x

Estingui le mie smanie, giacché nessuno basta per disfarle; ti vedano i miei occhi perché ne sei la luce, e soltanto per te io voglio averli. XI

Svela la tua presenza, mi uccida la tua vista di bellezza; guarda che la tristezza d'amore non si cura se non con la presenza e la figura. 61

XII

O fonte cristallina, se in quelle tue sembianze inargentate formassi all'improvviso gli occhi desiderati che porto nel mio intimo abbozzati! XIII

Distoglili, mio Amato, io spicco il volo! [Sposo:] Torna giù, colomba, ché il tuo cervo ferito si affaccia dall'altura all'aria del tuo volo, e si ristora. XIV

L'Amato, le montagne, le boschive convalli solitarie, le isole inesplorate, i fiumi risonanti, il sibilo dei venti innamorati,

la quiete della notte vicina allo spuntare dell'aurora, la musica silente, la solitudine sonora, la cena che ricrea ed innamora. 62

XVI

Prendeteci le volpi, perché è fiorente ormai la nostra vigna, nel mentre che di rose intrecciamo una pigna; nessuno appaia dentro la boscaglia. XVII

Cessa, aquilone morto; vieni, austro che risusciti gli amori, spira per il mio orto, si effondano gli aromi, e pascerà l'Amato in mezzo ai fiori. XVIII

Voi ninfe di Giudea, fintanto che nei fiori e nei rosai emana aromi l'ambra, restate nei sobborghi e non toccate più la nostra soglia. XIX

Nasconditi, mio caro, e guarda con il volto le montagne, e non lo rivelare; ma guarda le compagne del mio viaggio per isole lontane.

xx

Voi uccelli veloci, voi leoni, cervi, daini che saltate, voi monti, rive, valli, voi acque, venti, ardori, e timori notturni che vegliate: XXI

per l'amabile lira e il canto di sirene vi scongiuro: cessi la vostra ira, e non toccate il muro, perché la sposa dorma più sicura. XXII

Si è addentrata la sposa nell'ameno giardino che anelava; appagata riposa, il collo reclinato sopra le dolci braccia dell'Amato. XXIII

All'ombra di quel melo con me tu celebrasti gli sponsali, là ti porsi la mano, e fosti riscattata nel luogo in cui tua madre fu violata.

XXIV

Fiorito è il nostro letto, con gli antri dei leoni recintato, nella porpora steso, di pace edificato, di mille scudi d'oro incoronato.

Seguendo la tua traccia scorrazzano le giovani per strada, a un tocco di favilla, per il vino aromatico, emissioni di balsamo divino.

XXVI

Nell'intima cantina dell'Amato ho bevuto; e fuori uscita per tutti questi campi più nulla ormai sapevo, e ho perso il gregge cui badavo prima.

XXVII

Là mi ha dato il suo petto, mostrandomi la scienza saporosa; io gli ho dato di fatto me stessa per intero; là gli ho promesso di essere sua sposa.

XXVIII

L'anima ho dedicato con ogni mia risorsa al suo servizio; al gregge ormai non bado, né mantengo altro ufficio; ormai è amore il solo mio esercizio. XXIX

Se da oggi in poi al pascolo . non fossi più veduta né trovata, direte che smarrita, poiché ero innamorata, mi sono persa apposta, e guadagnata. xxx Di fiori e di smeraldi, prescelti nelle fresche mattinate, faremo le ghirlande, nel tuo amore fiorite, e intrecciate nel nodo di un capello. XXXI

In quel capello solo che hai visto svolazzare sul mio collo, ne hai osservato il volo, vi sei rimasto avvinto, e in uno dei miei occhi ti ho ferito. 66

XXXII

Quando tu mi guardavi, i tuoi occhi la grazia in me stampavano; perciò tu mi adoravi, perciò io meritavo di adorarti con gli occhi miei guardandoti. XXXI II

Non disprezzarmi adesso se in me il colore bruno tu hai trovato; ormai puoi ben guardarmi, avendomi guardato, ché grazia in me e bellezza tu hai lasciato. XXXIV

La bianca colombella all'arca con il ramo è ritornata, e già la tortorella il consorte anelato sulle verdi riviere ha ritrovato. xxxv

Viveva in solitudine, e ha fatto in solitudine il suo nido; la guida in solitudine da solo il suo Amato, d'amore in solitudine ferito.

XXXVI

Godiamoci, mio Amato, e a rispecchiarci nella tua. bellezza andiamo al monte, al colle, dove esce l'acqua pura; entriamo ancora più nel bosco folto. XXXVII

E poi alle elevate caverne della rupe ce ne andremo, che sono ben celate, e là ci addentreremo e il succo di granate gusteremo. XXXVII I

Là tu mi mostrerai quanto l'anima mia desiderava, e poi mi donerai là quello, vita mia, che l'altro giorno tu mi hai già donato. XXXIX

L'alitare dell'aria, il canto della dolce filomena, il bosco e la sua grazia, nella notte serena, con fiamma che consuma e non dà pena. 68

XL

Nessuno lo guardava, neppure Aminadab si presentava, l'assedio si assopiva, e la cavall eria alla vista delle acque discendeva.

ARGOMENTO

Queste strofe si susseguono in un ordine che va dal tempo in cui un'anima comincia a servire Dio, fino a quando rag­ giunge l'ultimo stato della perfezione: il matrimonio spiri­ tuale; e toccano cosi i tre stati o vie di esperienza spirituale, la purgativa, l'illuminativa e l'unitiva, percorsi dall'anima fi­ no ad arrivare all'ultimo stato, e di ciascuna via si spiegano alcune proprietà ed effetti. L'inizio delle strofe tratta della via purgativa dei principianti; quelle successive riguardano coloro che progrediscono verso il luogo degli sponsali spiri­ tuali, e questa è la via illuminativa. Seguono poi quelle che trattano della via unitiva che è quella della perfezione, dove avviene il matrimonio spirituale, la quale via consegue al progresso sulla via illuminativ a . Le ultime strofe infine trat­ tano dello stato beatifico, il solo che l'anima in stato di per­ fezione ormai desidera.

7!

HA INIZIO IL COMMENTO

DELLE CANZONI D'AMORE TRA LA SPOSA E LO SPOSO CRISTO

PREMESSA

Quando l'anima si accorge di ciò che è tenuta a fare, veden­ do come è breve la vita, 1 quanto è stretto il sentiero della vi­ ta eterna,2 che il giusto si salva a stento,3 quanto sono vane e ingannevoli le cose del mondo, 4 che tutto ha fine e viene a mancare come l'acqua fluente,' com� sia incerto il tempo, risicato il possesso, molto facile la perdizione e molto diffi. cile la salvezza; se d'altra parte l'anima riconosce il grande debito contratto con Dio: egli l'ha creata solamente per sé, lei gli deve perciò il servizio dell'intera sua vita; egli l'ha re­ denta solamente con se stesso, lei gli deve perciò tutto il re­ sto per corrispondere all'amore della sua volontà; se l'ani­ ma riconosce altri mille benefici per cui si sente obbligata a Dio fin da prima della nascita; se vede inoltre che, svanita gran parte della propria vita nell'aria, di tutto dovrà rende­ re conto e ragione, dall 'inizio alla fine, fino all'ultimo spie-

1 Giobbe 14, 5·

2 Matteo 7, 14. l

1 Pietro 4, 18. Ecclesiaste 1, 2. ' 2 Re 14, 14.



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ciolo,6 quando Dio perlustrerà Gerusalemme con candele accese;7 quando l'anima comprende che ormai è tardi, e for­ se è giunta la fine del giorno, 8 per rimediare a tanti mali e danni; soprattutto quando sente che Dio è molto in collera, e si è nascosto perché ella ha voluto scordarlo fino a tale punto in mezzo alle creature; - allora, presa da sgomento e dal dolor del cuore davanti a un pericolo tanto grande di perdizione, rinunciando a ogni cosa, trascurando ogni im­ pegno, senza rimandare né di un giorno né di un'ora, con ansia e con gemiti usciti dal cuore ormai ferito dall'amore di Dio, comincia a invocare il suo Amato e dice:

6 Matteo 5, 26. 7 Sofonia r , 12. 8 Matteo 20, 6.

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STROFE I

Dove ti sei nascosto, Amato, abbandonando me gemente? Come il cervo fuggisti, dopo avermi ferita; uscii invocandoti e te n'eri andato.

COMMENTO

In questa prima strofe l'anima, innamorata del Verbo, Figlio di Dio e suo Sposo, desiderosa di unirsi a lui con una visione. chiara ed essenziale, presenta le sue ansie d'amore, e gli esprime il rammarico per la sua assenza. Tanto più che, seb­ bene egli l'abbia ferita con il suo amore e resa estranea a ogni cosa creata e a se stessa, ella deve tuttavia patire l'assenza del suo Amato, che non la svincola ancora dalla carne mortale per poterlo godere nella gloria dell'eternità. E cosi dice:

Dove ti sei nascosto,

È come se dicesse: Verbo, Sposo mio, mostrami il luogo do­

ve sei nascosto. Gli chiede cosl la manifestazione della sua 75

divina essenza, perché il luogo dove è nascosto il Figlio del Padre è, come dice san Giovanni, il seno del Padre, 1 che è l'essenza divina, estranea a ogni occhio mortale e nascosta a ogni comprensione umana, e Isaia, parlando con Dio, disse: «Veramente tu sei un Dio che ti nascondi».2 Quindi, biso­ gna notare che, per quanto grandi siano le comunicazioni e le presenze, e alte e sublimi le nozioni di Dio che un'anima può avere in questa vita, questo non è l'essenza di Dio, né ha a che farvi; in verità egli rimane ancora nascosto all ' ani­ ma, e perciò le conviene sempre, al di là di ogni magnificen­ za, ritenerlo nascosto e cercarlo come uno nascosto, dicen­ do: Dove ti sei nascosto? Né l'alta comunicazione né la presenza sensibile di Dio sono infatti prove certe della sua benigna presenza; vicever­ sa, né l'aridità né la privazione sentite dall'anima sono pro­ ve dell'assenza di Dio in lei; perciò il profeta Giobbe affer­ ma: «Se venisse da me, non lo vedrò; e se se ne andasse non me ne accorgerò».3 Qui si dà a intendere che se l'anima pro­ vasse grandi comunicazioni o sensazioni o percezioni spiri­ tuali, non per questo dovrà essere persuasa che quello che sente sia possedere o vedere chiaramente ed essenzialmente Dio; per quanto sia forte tutto ciò, non è un avere di più Dio, o un esservi più dentro. E se tali comunicazioni senso­ riali e spirituali mancassero, e l'anima restasse esposta alla siccità, all e tenebre, all'abbandono, non per questo dovrà pensare che Dio le manchi più in questo modo che in un al­ tro, poiché, in realtà, il primo stato non le assicura di essere nella sua grazia, né l'altro di esserne fuori. «Nessuno sa» di-

I

Giovanni I, 18.

2 Isaia 45, 15. ' Giobbe 9,

y6

n.

ce il Sapiente «Se è degno di amore o di aborrimento davan­ ti a Dio. »4 In questo verso, dunque, l'intenzione principale dell'ani­ ma non è quella di chiedere soltanto la devozione affettiva e sensibile, non essendovi certezza né chiarezza di possede­ re lo Sposo in questa vita, ma soprattutto la chiara presenza e visione della sua essenza, in cui desidera essere sicura e soddisfatta nell'altra. Questo intendeva appunto la sposa nei Cantici divini, quando, desiderosa di unirsi con la divini­ tà del Verbo, suo Sposo, la chiese al Padre: «Mostrami do­ ve pascoli e dove ti posi al mezzogiorno»;' chiedendogli di mostrarle dove pascolasse, domandava di mostrarle l'essen­ za del Verbo divino, suo Figlio, perché il Padre pascola in null' altro se non nel suo unico Figlio, gloria del Padre. E chiedendogli di mostrarle dove si posasse, domandava la stessa cosa: solo il Figlio è il diletto del Padre, il quale non posa in altro luogo né si adagia in altra cosa se non nel­ l'amato Figlio. In lui si posa completo, e gli comunica l'in­ tera sua essenza al mezzogiorno che è l'eternità dove lo ha sempre generato e lo genera. Questo pascolo del Verbo Sposo, dove il Padre si pasce in gloria infinita, e questo pet­ to fiorito, dove con infinito godimento d'amore si adagia, profondamente nascosto a ogni occhio mortale e a ogni creatura, è ciò che l'anima sposa chiede qui quando dice:

Dove ti sei nascosto? E perché alla fine quest'anima assetata trovi lo Sposo e gli si unisca con unione amorosa, come può in questa vita, e mitighi la propria sete con quella goccia che di lui si può gustare qui, sarà bene - poiché lo chiede al suo Sposo - che Ecclesiaste 9, ) Cantico 1, 6. �

1.

77

le rispondiamo prendendola per mano e indicandole il luo­ go più certo dove egli è nascosto, perché ve lo trovi sicura­ mente, con la perfezione e col sapore concessi in questa vi­ ta, e non cominci a vagare invano sulle orme delle sue com­ pagne. li Verbo Figlio di Dio, insieme con il Padre e con lo Spirito Santo, è nascosto e presente in modo essenziale nel­ l'intimo essere dell'anima; quindi all'anima che debba tra­ vario conviene venir fuori da tutte le cose governate dalla passione e dalla volontà, ed entrare con sommo raccogli­ mento dentro se stessa, come se tutto il resto non esistesse. Per questo sant'Agostino diceva a Dio nei Soliloqui: «Non ti trovavo, Signore, di fuori, perché sbagliavo a cercarti di fuori, quando eri dentro».6 Dio sta dunque nascosto nel­ l'anima, e là lo deve cercare con amore il buon contemplati­ vo, dicendo: Dove ti sei nascosto? Allo ra, o anima bellissima fra tutte le creature, tu che tan­ to desideri sapere dov'è il tuo Amato per cercarlo e per unirti con lui, ormai ti si dice che tu stessa sei l'alloggio in cui egli dimora, la stanza riservata, e il nascondiglio dove si nasconde; ed è motivo di grande contentezza e allegria per te vedere che tutto il bene e la tua speranza ti è cosl vicino da essere in te, o, per meglio dire, che tu non puoi restare priva di lui. «Guardate» dice lo Sposo «che il regno di Dio è dentro di voi.»7 E il suo servo, l'ap ostolo san Paolo: «Voi» dice «siete il tempio di Dio».8 E una grande gioia per l'anima comprendere che Dio non manca mai dall'ani­ ma, nemmeno quando è in peccato mortale, e tanto meno 6 Pseudo-Agostino, Soliloqui XXXI . Bataillon individua in questo testo la fonte diretta di varie espressioni del Cantico; ma si tratta di concetti già presenti nelle Confessioni di Agostino. 7

s

Luca 17, 21. 2 Corinzi 6, 16.

da quella in stato di grazia. Che vuoi di più, o anima, e co­ s' altro cerchi fuori di te, se dentro di te possiedi le tue ric­ chezze, i tuoi piaceri, la tua soddisfazione, la tua sazietà e il tuo regno, se tu sei l'Amato, colui che la tua anima desidera e cerca? Esulta e rallegrati nel tuo intimo raccoglimento con lui, giacché lo hai cosi vicino. Desideralo li, adoralo li, e non andare a cercarlo fuori di te, perché ti distrarrai, ti stancherai e non lo troverai, né potrai goderne con maggio­ re certezza o più presto, né più vicino che dentro di te. Di una sola cosa tieni conto: sebbene stia dentro di te, egli re­ sta nascosto. Ma è già molto sapere dove si nasconde, per cercarlo con certezza. È quanto tu domandi, anima, quando con amorosa passione dici: Dove ti sei nascosto? Ma tu insisti: se colui che la mia anima ama è in me, come mai non lo trovo né lo sento? La causa è che egli sta nasco­ sto, e tu non ti nascondi come lui per trovarlo e per sentir­ lo. Chi deve trovare una cosa nascosta, deve entrare altret· tanto nascostamente fino al nascondiglio dove essa sta; quando la trova, anche lui è nascosto nello stesso modo. Il tuo Sposo amato è «il tesoro nascosto nel campo» della tua anima, «per il quale l'accorto mercante vendette tutti i suoi beni»:9 ti converrà, per trovarlo, dimenticare tutti i tuoi be­ ni e, allontanandoti da tutte le creature, nasconderti nella più ritirata e intima stanza del tuo spirito, e chiudendo la porta dietro di te, chiusa la tua volontà a ogni cosa, «prega il Padre tuo nel segreto».10 Restando nascosta con lui cosi, lo sentirai di nascosto, l'amerai e godrai di nascosto, e ti de­ lizierai di nascosto con lui, cioè al di sopra di ogni capacità della lingua e del pensiero. 9

Matteo 13, 44-45.

10 Matteo 6, 6.

79

Suvvia, dunque, anima bella! Se adesso tu sai che nel tuo seno dimora nascosto l'Amato che desideri, cerca di essere ben nascosta con lui, e nel tuo seno l'abbraccerai e lo senti­ rai con amoroso sentimento. E guarda che a questo nascon­ diglio egli ti chiama per bocca di Isaia, dicendo: «Va', entra nel tuo ritiro, chiudi le tue porte dietro di te» - cioè le tue facoltà a qualsiasi creatura - «nasconditi un po' per un mo­ mento»11 - cioè per questo momento della vita terrena -; perché «se in questo breve tempo della vita», o anima, «tu veglierai con ogni cura sul tuo cuore», come dice il Sapien­ te, 12 senza dubbio Dio ti concederà ciò che promette per mezzo del medesimo Isaia: «Ti consegnerò i tesori nascosti, e ti svelerò la sostanza e il mistero dei segreti».13 La sostan­ za dei segreti è Dio stesso, perché Dio è la sostanza della fe­ de e ne è la quintessenza, mentre la fede è il segreto e il mi­ stero; e quando poi sarà svelato e manifesto ciò che ora la fede ci tiene segreto e velato, «Dio nella sua perfezione» come dice san Paolo, 14 allora verranno rivelati all'anima la sostanza e i misteri dei segreti. Ma, sebbene l'anima non possa giungere a conoscerli in questa vita mortale con la medesima chiarezza dell'altra vita per quanto si nasconda, se tuttavia si nasconderà come Mosè «nella cavità della ru­ pe», che è la vera imitazione della vita perfetta del Figlio di Dio, Sposo dell'anima, se Dio «la coprirà con la mano», meriterà che «le vengano mostrate le spalle di Dio»,u cioè giungerà a tale perfezione in questa vita, da unirsi e da tra­ sformarsi per opera dell'amore nel Figlio di Dio, suo Sposo. 11

Isaia 26, 20.

B

Isaia 45, 3-

12 Proverbi 4, 23. 14 I Corinzi I3, IO.

1' Esodo 33, 22-23.

So

Si sentirà cosl unita con lui e cosl introdotta alla conoscenza dei misteri, da non aver più bisogno di dire, per quanto ri­ guarda il conoscerlo in questa vita: Dove ti sei nascosto? Ti è stato indicato, o anima, il modo che ti conviene se­ guire per trovare lo Sposo nel suo nascondiglio. Ma se lo vuoi riascoltare, ascolta una parola piena di sostanza e di . verità inaccessibile: cercalo nella fede e nell'amore, senza voler trarre gusto o soddisfazione da cosa alcuna, senza vo­ ler intendere più di quanto tu debba sapere. Due sono le guide della cecità che ti guideranno per dove non sai, verso l'occulto di Dio; la fede, questo segreto che abbiamo detto, è i piedi con cui l'anima va verso Dio; e l'amore è la guida che l'istrada. E mentre l'anima pondera a tentoni questi mi­ steri e segreti della fede, meriterà che l'amore le sveli ciò che la fede racchiude in sé, lo Sposo che ella desidera in questa vita per mezzo della grazia speciale - la divina unio­ ne con Dio -; e nell'altra vita, per mezzo della gloria essen­ ziale, per cui godrà di lui, ormai in nessun modo celato, fac­ cia a faccia. Nel frattempo però, benché l'anima raggiunga l'unione che è lo stato più alto che si possa raggiungere in questa vita, egli resta ancora nascosto all'anima, nel seno del Padre, là dove ella desidera goderne nell'altra vita; pèr­ ciò continua a ripetere: Dove ti sei nascosto? Fai benissimo, o anima, a cercarlo sempre nell'occulto, perché esalti molto Dio e ti avvicini molto a lui, se lo stimi più alto e più profondo di tutto quanto tu possa raggiunge­ re. Quindi non badare né poco né molto a ciò che le tue fa­ coltà possono comprendere. Voglio dire, non ti contentare mai di ciò che capirai di Dio, ma di ciò che di lui non capi­ rai; e non indugiare mai ad amare e a godere ciò che com­ prendi o senti di Dio; ama invece e godi quanto di lui non puoi comprendere o sentire: questo, come abbiamo detto, 8!

significa cercarlo nella fede. Dio è inaccessibile e nascosto, sebbene ti possa sembrare di trovarlo e di sentirlo e di ca­ pirlo; dovrai perciò ritenerlo sempre nascosto, e come na­ scosto dovrai servirlo di nascosto. Non essere come molti ignoranti che pensano bassamente, e quando non lo capi­ scono o gustano o sentono, ritengono che Dio sia più lonta­ no e più nascosto, mentre è vero il contrario: quanto meno distintamente lo intendono, più gli sono vicini poiché «po­ se il suo nascondiglio nelle tenebre>>, come dice il profeta Davide.16 Arrivandogli vicino, devi per forza sentire le tene­ bre nella debolezza del tuo occhio. In ogni tempo, di avver­ sità o di prosperità, spirituale o temporale, fai bene a consi­ derare Dio come nascosto, e a invocarlo cosl: Dove ti sei na­ scosto,

Amato, abbandonando me gemente? L'anima lo chiama Amato per convincerlo meglio a esaudi­ re la sua supplica; quando Dio è amato, con grande facilità corrisponde all e richieste dell'amante. Lo promette per bocca di san Giovanni: «Se rimarrete in me, chiedete tutto quel che volete, e si farà»Y L'anima lo può davvero chia­ mare Amato quando è con lui per intero, e non ha il suo cuore preso da altro all'infuori di lui, sicché il suo pensiero è abitualmente rivolto a lui. Mancandole questo, Dalila dis­ se a Sansone: «Come puoi dirmi "ti amo", quando il tuo animo non è con me?»;18 nel quale animo sono inclusi il pensiero e il sentimento. Alcuni chiamano amato lo Sposo, ma non è amato davvero, perché non hanno interamente 16

Salmo 17, 12. Giovanni 15, 7· 1 8 Giudici 16, 15. 17

con lui il cuore, e cosi la loro richiesta non è di molto valo­ re agli occhi di Dio, e perciò non ottengono subito quanto hanno domandato; finché, continuando a pregare, arrivano a intrattener� più assiduamente l'animo con Dio, e più com­ pletamente il cuore con passione amorosa, poiché da Dio non si ottiene nulla se non per amore. Se aggiunge abbandonando me gemente, bisogna osservare che l'assenza dell'Amato fa gemere continuamente l'aman­ te, che null'altro ama all'infuori dell'Amato, e con null'al­ tro si acquieta o trova sollievo. Da questo anzi si riconosce chi davvero ama Dio, se di niente di meno si accontenta che di Dio. Ma cosa dico, si accontenta? Se pure possedesse tut­ ti i beni insieme, non resterebbe soddisfatto; e anzi, quanti più ne avesse, tanto meno sarebbe appagato, la soddisfazio­ ne del cuore non si trova nel possesso delle cose, ma nello spogliarsi di esse e nella povertà dello spirito. Poiché in questo consiste la perfezione dell'amore, nel possedere Dio con una specialissima grazia unificante; quando vi è giunta, l'anima vive in questa vita con una certa soddisfazione, ma non con sazietà; perfino Davide, con tutta la sua perfezione, aspettava di averla soltanto in cielo: «Quando apparirà la tua gloria mi sazierò».19 All'anima la pace, la tranquillità e la soddisfazione del cuore raggiungibili in questa vita non bastano per cessare di sentire in sé il gemito, sia pure pacifi­ co e non penoso, nella speranza di ciò che le manca; il ge­ mere è connesso alla speranza, come affermava di sé e di al­ tri, pur perfetti, l'Apostolo: «N o i stessi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente, aspettando l'adozione a figli di Dio».20 Questo è il gemito che l'anima 19 Salmo r6, 15. 20 Romani 8, 23.

ha dentro di sé, nel cuore innamorato, perché dovunque fe­ risce amore, 11 sta il gemere di colei che, ferita, grida sempre per il dolore dell'assenza; tanto più se, dopo aver assapora­ to qualche dolce e saporosa comunicazione dello Sposo, egli si assenta e all'improvviso lei resta sola e assetata. Per­ ciò aggiunge:

Come il cervo fuggisti, Qui bisogna notare che nei Cantici la sposa paragona lo Sposo a un cervo e al capriolo selvatico: «Somiglia il mio amato al capriolo e al figlio dei cervi»;21 non solo perché è selvatico e solitario e rifugge la compagnia come il cervo, ma anche per la velocità nel nascondersi e nel mostrarsi; cosl usa fare lo Sposo con le anime a lui devote, nelle visite che fa loro per dare diletto e stimolarle, e nelle assenze e nelle freddezze dopo queste visite, per metterle alla prova, e umiliarle, e istruirle; in tal modo rende più sensibile e do­ lorosa la sua assenza, come l'anima dà a intendere qui:

dopo avermi ferita; Come se dicesse: non mi bastavano soltanto la pena e il do­ lore che patisco abitualmente in tua assenza, ma dopo aver­ mi ancor più ferita d'amore con la tua saetta e dopo aver ac­ cresciuto la mia passione e il desiderio di vederti, fuggi con la velocità di un cervo, e non ti lasci comprendere nemme­ no un poco. Per chiarire ancora questo verso, bisogna sapere che, ol­ tre alle molte visite concesse da Dio all'anima in vari modi, 2 1 Cantico 2 ,



con le quali la piaga e la fa sobbalzare nell'amore, egli usa dei tocchi d'amore segreti, che come saetta di fuoco la feri­ scono e la trapassano così da !asciarla tutta cauterizzata di fuoco amoroso. Questi propriamente vengono chiamati fe­ rite d'amore, e di esse parla qui l'anima. Infiammano tanto la volontà e il sentimento, che l'anima brucia in fuoco e fiamma d'amore, tanto che sembra consumarsi nella fiam­ ma, e la fiamma la fa uscire fuori di sé e rinnovarsi tutta, e passare a un nuovo modo di essere, come la Fenice brucia e rinasce di nuovo. Di cui parlando Davide dice: «Si in­ fiammò il mio cuore, e le reni si mutarono, e io mi dissolsi in nulla, né altro seppi».22 Gli appetiti e le passioni - ai qua­ li allude qui il profeta con la parola "reni" -, vengono tutti scossi e si mutano in divini in quell'infiammarsi del cuore, e l'anima per amore si dissolve in nulla, null'altro sapendo se non amore. In questo tempo la trasformazione delle reni avviene come uno strazio e un'ansia di vedere Dio, così in­ tensa da sembrare intollerabile all'anima l'asprezza che le usa l'amore; non perché l'ha ferita - anzi ella ritiene salutari tali ferite -, ma perché l'ha lasciata cosi, nel tormento del­ l'amore, e non l'ha ferita più efficacemente, finendo di ucci­ derla, consentendole di vederlo e di unirsi con lui nella vita dell'amore perfetto. Esalta e spiega così il suo dolore, di­ cendo dopo avermi ferita; vuole dire: mi hai abbandonata così ferita, morente per le ferite dell'amore per te; ti sei na­ scosto veloce come un cervo. Questo sentimento sopravviene con tale forza perché, nella ferita amorosa inflitta da Dio all'anima, egli suscita in lei uno slancio improvviso della volontà verso il possesso dell'Amato, da cui si è sentita toccare; con il medesimo 22

Salmo 72, 21-22.

slancio ne sente l'assenza e l'impossibilità di possederlo qui come vorrebbe, e cosi sente al tempo stesso sollevarsi il ge­ mito per quest'assenza; queste visite non sono infatti come altre in cui Dio ricrea e sazia l'anima; sono fatte invece per ferire più che per sanare, e per affliggere più che per appa­ gare; servono a ravvivare l'attenzione e ad aumentare il de­ siderio e, di conseguenza, il dolore e l'ansia di vedere Dio. Vengono chiamate ferite spirituali d'amore, e sono saporo­ sissime e desiderabili per l'anima. Ella vorrebbe perciò star sempre a morire mille morti per questi colpi lancinanti, che la fanno uscir fuori di sé ed entrare in Dio. È quanto dà a intendere nel verso seguente:

uscii invocando ti e te n'eri andato. Le ferite d'amore le può guarire soltanto il feritore, e per questo l'anima ferita usci - a causa del fuoco provocatole dalla ferita - dietro all'Amato che l'aveva ferita, gridando­ gli di sanarla. Questo uscire spiritualmente designa qui due modi di inseguire Dio: l'uno è un venir fuori da tutte le co­ se, perché le si aborrisce e disprezza; l'altro, un uscire fuori di sé, scordandosi di sé, il che si fa per mezzo dell'amore di­ vino. Quando l'amore tocca l'anima davvero, nel modo qui descritto, l'esalta tanto, che non solo la fa uscire di sé incu­ rante di se stessa, ma addirittura la strappa dalle sue abitu­ dini e inclinazioni naturali, invocando Dio. È come se di­ cesse: Sposo mio, in questo tuo tocco e ferita d'amore, hai tirato fuori la mia anima, non soltanto da tutte le cose, ma l'hai pure strappata e fatta uscire fuori di sé - e sembra dav­ vero che la strappi dalle stesse carni - e l'hai innalzata verso di te, invocandoti, scioltasi ormai da tutto per aggrapparsi a te, che te n'eri andato. 86

Oppure: quando volevo comprendere la tua presenza, non ti ho trovato, e sono rimasta senza il sostegno dell'uno e senza poter afferrare l'altro, penando sospesa nell'aria del­ l'amore, senza appiglio né tuo né mio. Ciò che l'anima chia­ ma uscire per andare in cerca dell'Amato, è quanto la sposa chiama "alzarsi" nei Cantici: « Mi alzerò, voglio cercare co­ lui che la mia anima ama, farò il giro della città, per le stra­ de e per le piazze. L'ho cercato» dice «ma non l'ho trovato, e mi hanno ferita».23 L'alzarsi dell'anima sposa è inteso qui in senso spirituale, dal basso all'alto, e coincide con ciò che qui l'anima chiama uscire: fuori, dal basso dell'amore comu­ ne, verso l'alto amore di Dio. Nei Cantici la sposa dice di es­ sere rimasta ferita non avendolo trovato, e qui pure l'anima dice di essere ferita d'amore, e di essere stata abbandonata cosi. Chi è innamorato vive sempre in pena per l'assenza, avendo fatto dono di sé a colui che ama, e in cambio di tale dono attende che l'amato a sua volta si doni; e tuttavia, egli tarda ancora a farlo; nella perdita di ogni cosa e di se stessa a causa dell'Amato, l'anima non trova alcun guadagno, es­ sendo colui che ama, più che posseduto, perduto. ll penoso sentimento dell'assenza di Dio suole essere così grande in coloro che stanno arrivando allo stato della perfe­ zione nel tempo di queste ferite divine, che senza il soste­ gno del Signore ne morrebbero; poiché il palato della loro volontà è sano, lo spirito limpido e ben disposto verso Dio, e si concede loro di assaggiare un poco la dolcezza del­ l' amore divino, che essi appetiscono oltre ogni misura, e pa­ tiscono oltre ogni misura, perché vien loro mostrato, come attraverso spiragli, un bene immenso e non concesso. Così, è indicibile la pena che li tormenta. lJ

Cantico

3, 2

e

5, 7·

STROFE II

Pastori, voi che andrete lassù fino agli addiacci dell'altura, se colui che io ho scelto vedeste per ventura, ditegli che languisco e peno e muoio. COMMENTO

In questa strofe l'anima vuole giovarsi di intermediari e me­ diatori presso l'Amato, chiedendo loro di comunicargli il suo dolore e la sua pena; perché è proprio di chi ama, se non può comunicare di persona con l'amato, farlo con i mi­ gliori mezzi che può. Qui l'anima vuole avvalersi dei propri desideri, affetti e lamenti come di messaggeri che sanno an­ che loro manifestare il segreto del cuore all'Amato. Li esor­ ta cosi ad andare:

Pastori, voi che andrete Chiama pastori i propri desideri, affetti e lamenti, in quanto pascono l'anima di beni spirituali: pastore è infatti colui che pasce. E per loro tramite Dio le si comunica e !e dà un pa88

sto divino, mentre senza di essi le si comunica poco. Dice voi che andrete, che è come dire: «voi che uscirete per puro amore»; perché non tutti i sentimenti e desideri vanno fino a lui, ma solo quelli che sorgono dal vero amore.

lassù fino agli addiacci dell'altura, Chiama addiacci le gerarchie e i cori degli angeli, che porta­ no di coro in coro i nostri gemiti e le nostre preghiere a Dio; il quale è chiamato altura per la sua somma altezza, e perché in lui, come dall'altura, si esplorano e si vedono tut­ te le cose, sia gli addiacci superiori sia gli inferiori. Vi vanno le nostre preghiere, che porgono gli angeli, come disse l'an­ gelo a T obia: «Quando pregavi con le lacrime e seppellivi i morti, io porgevo la tua preghiera a Dio».1 I pastori del­ l' anima possono anche essere intesi come gli angeli stessi, perché non solo portano a Dio i nostri messaggi, ma porta­ no pure quelli di Dio alle nostre anime, pascendole, come buoni pastori, delle dolci comunicazioni e ispirazioni di Dio: egli le fa anche per mezzo di loro; ed essi ci proteggo­ no dai lupi, che sono i demoni. Si vogliano intendere questi pastori come sentimenti oppure come angeli, da tutti l'ani­ ma desidera che le facciano da partecipi mediatori presso l'Amato. A tutti si rivolge con le parole

se colui che io ho scelto vedeste per ventura, e intende: se per mia buona sorte e ventura arrivaste alla sua presenza, in modo che egli vi veda e vi ascolti. Bisogna 1

Tobia

12, 12.

osservare che, sebbene sia vero che Dio tutto sa e compren­ de, e vede e nota perfino i pensieri dell'anima, come dice Mosè,2 tuttavia egli vede i nostri bisogni e ascolta le nostre preghiere nel momento in cui li rimedia o le esaudisce; non tutte le richieste fatte nel bisogno arrivano al colmo di esse­ re udite da Dio per esaudirle; devono arrivare invece a ma­ turare ai suoi occhi in tempo e in numero sufficienti, e allo­ ra si può dire che egli vede e ascolta; come avvenne nel­ l'Esodo: solo dopo quattrocento anni che i figli di Israele soffrivano nella schiavitù d'Egitto, Dio disse a Mosè: �>.10 L'assenzio, un'erba amarissi­ ma, si riferisce alla volontà, poiché a questa facoltà appar­ tiene la dolcezza del possesso di Dio: se viene a mancarle, resta con l'amarezza; e che l'amarezza appartenga alla vo­ lontà in senso spirituale, ce lo fa comprendere nell'Apocalis­ se, quando l'angelo dice a san Giovanni che «divorando quel libro, gli avrebbe riempito le viscere di amarezza», 1 1 intendendo per "viscere" la volontà. n fiele si riferisce non solo alla memoria, ma a tutte le facoltà e forze dell'anima; il fiele significa infatti la morte dell'anima, come risulta dalle parole che Mosè indirizza ai dannati nel Deuteronomio: «Fiele di draghi sarà il loro vino, micidiale veleno di vipe· re»;12 il che significa la mancanza di Dio, che è morte del­ l'anima. Queste tre penose privazioni sono fondate sulle tre virtù teologali, che sono la fede, la carità e la speranza; le quali corrispondono alle tre facoltà dell'anima qui elencate nel­ l' ordine: intelletto, volontà e memoria. Bisogna osservare che, nel verso citato, l'anima altro non rappresenta se non il suo doloroso bisogno dell'Amato; difatti, chi ama con di­ screzione, non si cura di domandare ciò che gli manca o che desidera, ma di richiamare l'attenzione sul proprio bisogno, perché l'Amato faccia quanto è necessario. Come fece la beata Vergine alle nozze di Cana in Galilea, dove si rivolse al figlio amato, non chiedendogli direttamente il vino, ma dicendogli: «Non hanno vino»;13 e le sorelle di Lazzaro gli mandarono a dire, non che guarisse il fratello, ma di guar-



Colossesi

12

Deuteronomio 32, Giovanni 2, 3·

2, 3 ·

1 1 Apocalisse r o , 9· Il

92

33·

dare che era malato colui che egli amava.14 E ciò per tre motivi: primo, il Signore sa meglio di noi quello che ci con­ viene; secondo, l'Amato ha più compassione se vede insie­ me il bisogno di colui che ama e la sua rassegnazione; terzo, l'anima è meglio salvaguardata dall'amore proprio e dal­ l'egoismo, esponendo il senso di mancanza più che doman­ dando quello che a suo parere le manca. Né più né meno l'anima fa qui adesso, esponendo le sue mancanze, come se dicesse: dite al mio Amato che, se languisco e solo lui è la mia salute, mi dia la mia salute; se peno e solo lui è la mia delizia, mi dia la mia delizia; se muoio e solo lui è la mia vi­ ta, mi dia la mia vita.

14 Giovanni

n,



93

STROFE III

Cercando i miei amori andrò sui monti e lungo le riviere; né coglierò mai fiori, né temerò le fiere, e passerò oltre i forti e le frontiere.

COMMENTO

L'anima, vedendo che per trovare l'Amato non le bastano gemiti e preghiere, e neppure l'aiuto di buoni mediatori come ha provato nella prima e nella seconda strofe -, sicco­ me il desiderio con cui lo cerca è sincero ed è grande il suo amore, non vuole tralasciare alcuna indagine possibile da parte sua; perché l'anima che veramente ama Dio non ri­ manda di compiere quanto può per trovare il Figlio di Dio, il suo Amato, e anche quando ha fatto tutto, non si conten­ ta e pensa di non aver fatto nulla. Cosi, annuncia in questa terza strofe di volerlo cercare lei stessa, con la propria ope­ ra, e come agirà per trovarlo; cioè dovrà andare esercitan­ dosi nelle virtù e nelle pratiche spirituali, sia della vita atti­ va sia della contemplativa; e non dovrà ammettere perciò 94

alcuna lusinga piacevole, né basteranno a fermarla o a im­ pedirle questa strada tutte le forze e le insidie dei tre nemici dell'anima: il mondo, il demonio e la carne.

Cercando i miei amori cioè il mio Amato. Qui l'anima dà chiaramente a intendere che per trovare veramente Dio non basta pregare con il cuore e con la lingua, e tanto meno aiutarsi con i benefici altrui; ma è necessario che dal canto suo faccia quanto può da sola; perché Dio suole stimare una sola opera fatta dalla stessa persona più di molte opere fatte da altri per questa persona. E per questo, rammentando una frase dell'Amato, «cercate e troverete»,1 l'anima decide di uscire lei stessa in questo modo, per cercarlo attivamente senza arrestarsi pri­ ma di averlo trovato. Come avviene a molti che vorrebbero guadagnare Dio solo colle parole, e anche queste dette ma­ le, e quasi non vogliono fare per lui nulla che costi loro qualcosa. Alcuni non vorrebbero neppure alzarsi dal posto di loro gusto e soddisfazione; desidererebbero che arrivasse loro in bocca e nel cuore il sapore di Dio senza muovere un passo e mortificarsi nella perdita di qualcuno dei loro inutili gusti, conforti e voglie. Ma finché non usciranno da se stessi per cercarlo, sebbene invochino Dio, non lo troveranno. Cosi lo cercava infatti la sposa dei Cantici, e non lo trovò finché non usci a ricercarlo. Ecco le sue parole: «Nel mio letto, di notte, ho cercato colui che la mia anima ama; l'ho cercato e non l'ho trovato; mi alzerò e farò il giro della cit­ tà; per le strade e per le piazze cercherò colui che la mia

1 Luca n, 9·

95

anima ama». E dopo aver superato alcuni travagli, dice di averlo trovato.2 Chi cerca Dio e desidera restare nel proprio piacevole ri­ poso, lo cerca di notte, e non lo troverà; invece, chi lo ricer­ ca con l'esercizio e le opere delle virtù, lasciato il letto dei propri piaceri e godimenti, lo cerca di giorno, e lo troverà: ciò che di notte non si trova, di giorno è visibile. Lo fa com­ prendere lo stesso Sposo nel libro della Sapienza: «La sa­ pienza è radiosa e indefettibile, facilmente è contemplata da chi l'ama e trovata da chiunque la ricerca. Previene quanti la desiderano, per farsi conoscere prima da loro. Chi per lei si leva di buon mattino non faticherà, la troverà seduta alla sua porta».3 Secondo queste parole l'anima deve uscire dal­ la casa della propria volontà e dal letto del suo piacere; ap· pena uscita, troverà fuori la sapienza divina, il Figlio di Dio, suo Sposo. Perciò l'anima dice qui: cercando i miei amori

andrò sui monti e lungo le riviere; Con i monti, che sono alti, intende qui le virtù: da una par­ te, per la loro altezza, dall'altra, per la difficoltà e la fatica che si affrontano per salirvi; con il loro aiuto eserciterà la vita contemplativa. Le riviere, che sono basse, sono segno delle mortificazioni, penitenze ed esercizi spirituali; con il loro aiuto eserciterà la vita attiva, insieme alla contemplati­ va; infatti, per cercare Dio con certezza e acquisire le virtù, l'una e l'altra vita sono necessarie. Ovvero è come dire: cer­ cando il mio Amato, metterò in opera le alte virtù e lo cer­ cherò abbassandomi nelle mortificazioni, negli esercizi umi2 Cantico 3, I·+ J Sapienza 6, 12-14.

li. Lo dice perché la via verso Dio è operare il bene in Dio e mortificare il male in se stessi, come va dicendo nei versi se­ guenti:

né coglierò mai fiori, Per cercare Dio si richiede infatti un cuore spoglio e forte, libero da tutti i mali e beni che non siano Dio. Cosi, in que­ sto verso e nei successivi l'anima rileva la libertà e la fer­ mezza necessarie in questa ricerca. Non coglierà i fiori, dice, che trovasse sull a via, per i quali intende tutte le voglie, le soddisfazioni e i piaceri che le si possono offrire in questa vita: essi potrebbero ostacolarla nel cammino, se volesse co­ glierli e accettarli. Gli ostacoli sono di tre tipi: temporali, sensibili, spirituali. Gli uni come gli altri occupano il cuore e gli risultano di impedimento, se dovesse soffermarvisi o se ne occupasse, alla nudità spirituale richiesta per la diritta via di Cristo. Per cercarlo, non coglierà, afferma, nessuna di queste cose; ovvero: non riporrò il mio cuore nelle ricchez­ ze e beni offerti dal mondo, né ammetterò le soddisfazioni e i piaceri della mia carne, né baderò ai gusti e ai conforti del mio spirito, per non tralasciare di cercare i miei amori sui monti delle virtù e delle fatiche. Dicendo cosi, segue il consiglio dato ai pellegrini dal pro­ feta Davide: Divitiae si affluant, nolite cor opponere: «Se qualcuno vi offre delle ricchezze abbondanti, non attaccate a esse il cuore».4 Questo vale sia per i gusti sensoriali, sia per gli altri beni temporali e per i conforti dello spirito. Non solo i beni terreni e i piaceri del corpo ostacolano e contrastano il cammino verso Dio, ma anche i conforti e i 4 Salmo 61,

·

n.

97

piaceri spirituali, se vengono posseduti o si cercano, impedi­ scono il cammino della croce dello Sposo Cristo. A chi de­ ve progredire, conviene perciò non andare a cogliere quei fiori. Non solo, ma abbia anche l'animo e la fermezza di as­ sicurare:

né temerò le fiere, e passerò oltre i forti e le frontiere. In questi versi l'anima nomina i suoi tre nemici: mondo, de­ monio e carne, i quali fanno guerra e rendono difficile il cammino. Nelle fiere designa il mondo, nei forti il demonio, nelle frontiere la carne. Chiama fiere il mondo, perché l'anima che comincia il cammino di Dio vede il mondo nell'immaginazione sotto fi­ gura di fiere, le quali la minacciano e la sfidano; ed è in tre modi soprattutto: la prima minaccia è che le mancherà il fa­ vore del mondo, perderà gli amici, il credito, la stima e per­ fino quanto possiede; la seconda, che è un'altra fiera non minore, è come potrà sopportare di non avere mai più le gioie e le soddisfazioni del mondo, e fare a meno di tutte le sue lusinghe; e la terza minaccia è ancora maggiore: vale a dire, le si leveranno contro le male lingue, per burlarsi di lei, per sottoporla a dicerie e a beffe, e tenerla in scarsa con­ siderazione. Queste minacce si presentano ad alcune anime in modo tale da rendere loro difficilissimo non solo di per­ severare contro queste fiere, ma perfino di compiere il pri­ mo passo sulla strada. Tuttavia, alcune anime generose incontrano spesso altre fiere più interiori, difficoltà e tentazioni spirituali, tribola­ zioni e fatiche di vario genere. Conviene loro oltrepassarle: queste fiere sono inviate da Dio a coloro che egli vuole in-

nalzare a un'alta perfezione, mettendoli alla prova e affi­ nandoli come l'oro nel fuoco. Davide afferma: Multae tribu­ lationes iustorum: «Le sventure dei giusti sono molte, ma da tutte li libererà il Signore».5 Tuttavia l'anima innamorata nel profondo, che più di ogni altra cosa stima l'Amato, con­ fidando nell'amore e favore di lui, può senz' altro dire: né te­ merò le fiere, e passerò oltre i forti e le frontiert; Chiama forti il secondo nemico, i demoni, perché essi con grande forza vogliono sbarrarle la strada, e le loro ten­ tazioni e astuzie sono più forti e ardue da vincere, e più dif­ ficili da percepire, di quelle del mondo e della carne. I de­ moni inoltre si rafforzano con questi altri due nemici, mon­ do e carne, per muovere una dura guerra all ' anima. Parlan­ do di loro, Davide li chiama forti: Fortes quaesierunt ani­ mam meam: «l forti pretesero l'anima mia».6 Anche il pro­ feta Giobbe parla di fortezza, quando afferma che « non vi è potere sulla terra paragonabile a quello del demonio, e tale che di nessuno debba avere paura»;7 nessun potere umano si potrà dunque misurare con il suo; e così, solo il potere di­ vino vale a superarlo, e la sola luce divina può rivelare le sue insidie. L'anima che dovesse vincerne la fortezza non potrà riuscirvi senza preghiere, né potrà intenderne gli in­ ganni senza mortificazione e umiltà. Perciò san Paolo avvi­ sa i fedeli: Induite vas armaturam Dei, ut possitis stare adver­ sus insidias diaboli, quoniam non est nobis colluctatio adver­ sus carnem et sanguinem: «Rivestitevi dell'armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del nemico; infatti la nostra battaglia non è contro la carne e il sangue».8 Il sangue è il ·. .

' Salmo 33, 20. 6 Salmo 53, 5· 7 Giobbe 41, 25. 8 Efesini 6, n-u.

99

mondo, e le armi di Dio sono la preghiera e la croce di Cri­ sto, dove risiedono l'umiltà e la mortificazione di cui abbia­ mo parlato. L'anima aggiunge che passerà oltre le frontiere, intenden­ do per esse le resistenze e ribellioni che per natura la carne oppone allo spirito. Come dice san Paolo: Caro enim concu­ piscit adversus spiritum: «La carne ha desideri contrari allo spirito»,9 e come uno sbarramento di confine resiste alla via spirituale. Queste sono le frontiere che l'anima deve attra­ versare, superando le difficoltà e abbattendo a terra, con forza e determinazione di spirito, tutti gli appetiti sensuali e le inclinazioni naturali, perché, finché li avrà nell'anima, lo spirito ne verrà talmente soggiogato da non poter cammina­ re avanti, verso la vera vita e il piacere spirituale. Tutto questo ci fa intendere bene san Paolo quando dice: Si spiri­ tu /acta carnis mortificaveritis, vivetis: «Se con l'aiuto dello spirito voi farete morire le inclinazioni e i desideri della car­ ne, vivrete».10 Dunque, questo è lo stile che l'anima nella strofe considera opportuno su questa via della ricerca del suo Amato. Vale a dire: costanza e coraggio per non chinar­ si a cogliere i fiori, e animo per non temere le fiere, e fer­ mezza per passare oltre i forti e le frontiere, con l'intenzione di andare soltanto sui monti e lungo le riviere delle virtù, co­ me abbiamo spiegato.

9

10

100

Galati 5, 17. Romani 8, 13.

STROFE IV

O boschi e folte selve, piantati dalla mano dell'Amato, o prato che smaltato sei di fiori e di verde, svelatemi se qui egli è passato.

COMMENTO

Dapprima l'anima ha esposto il modo di prepararsi a intra­ prendere il cammino, cosi da non deviare più verso i piaceri e le voglie, e quale debba essere la fermezza per vincere le tentazioni e le difficoltà: in ciò consiste l'esperienza della conoscenza di se stessi, la prima cosa che l'anima deve fare per avviarsi alla conoscenza di Dio. Ora, in questa strofe, comincia a camminare attraverso l'osservazione e la cono­ scenza delle creature verso la conoscenza del suo Amato, che le ha create. Infatti, dopo l'esperienza della conoscenza di sé, la contemplazione delle creature è la prima nell' ordi­ ne di questo cammino spirituale a favorire la conoscenza di Dio. L'anima può osservarne la grandezza ed eccellenza nelle creature, come dice l'Apostolo: lnvisibilia enim ipsius 101

a creatura mundi, per ea quae facta sunt, intellecta conspiciun­ tur: «Le cose invisibili di Dio vengono conosciute dall'ani­ ma attraverso le cose create, visibili e invisibili».1 In questa strofe l'anima parla con le creature, e le interroga sul suo Amato. Come dice sant'Agostino, questa domanda rivolta dall'anima alle creature è la considerazione in esse del loro creatore.2 La strofe contiene anche la considerazione degli elementi e delle altre creature inferiori; e la considerazio­ ne dei cieli e delle altre creature e cose materiali create in essi da Dio; e la considerazione degli spiriti celesti, dicendo: O boschi e folte selve, Chiama boschi gli elementi: vale a dire la terra, l'acqua, l'aria e il fuoco; giacché essi sono popolati, come boschi amenissimi, da una folla di creature, che qui chiama folte selve, per il grande numero e la molteplice diversità che di esse esistono in ogni elemento; nella terra, innumerevoli specie di animali e di piante; e nell'acqua, innumerevoli va­ rietà di pesci; e nell'aria, una grande diversità di uccelli; quanto all'elemento del fuoco, concorre ad animarle e a conservarle tutte; e così ogni sorta di animali vive nel pro­ prio elemento, e vi è collocata e piantata come nel proprio bosco o regione, dove nasce e si moltiplica. In verità, così fu disposto da Dio nel crearli, quando ordinò alla terra di produrre le piante e gli animali, e al mare e all'acqua i pe­ sci, e dell'aria fece la dimora degli uccelli. Perciò l'anima,

1

Romani

I,

20.

2 Confessioni I, Io, 6. IOl

vedendo che cosi si ordinò e cosi si fece, dice il verso se­ guente:

piantati dalla mano dell'Amato, dove considera queste varietà e magnificenze, e si rende conto che solo la mano dell'Amato Dio poteva crearle e far­ le crescere. Bisogna notare che dice coscientemente dalla mano dell'Amato: sebbene Dio faccia molte altre cose per mano altrui - cioè per mano degli angeli e degli uomini -, questa creazione non l'ha fatta né la fa se non per propria mano. Quindi l'anima si sente fortemente mossa verso l'amore del suo Amato Dio attraverso la considerazione delle creature, vedendo che esse sono cose fatte dalla sua propria mano. E prosegue:

o prato che smaltato sei di fiori e di verde, Questa è la contemplazione del cielo, chiamato prato smal­ tato di verde, perché le cose create in esso conservano un verde immarcescibile, non finiscono né si appassiscono col tempo, e in esse, come nelle fresche piante, si ricrea e si di­ letta la visione dei giusti. La contemplazione include anche tutta la varietà delle stelle leggiadre e degli altri pianeti del cielo. Anche la Chiesa attribuisce il verde alle cose del cielo, quando prega Dio per le anime dei fedeli defunti, e rivol­ gendosi a esse, dice: Constituat vos Dominus inter amoenia virentia: «Vi trapianti Iddio tra le verzure amene». L'anima aggiunge che questo prato è smaltato di fiori, dove i fiori rappresentano gli angeli e le anime sante, che conferiscono 103

ordine e bellezza al luogo, con la grazia e la finezza dello smalto in un vaso d'oro eccellente.

svelatemi se qui egli è passato. Questa domanda richiama la considerazione preceden­ te; come se dicesse: dite quali pedezioni egli ha creato in voi.

104

STROFE V

Mille grazie spargeva varcando le boscaglie con premura, e mentre le guardava, la sua sola figura vestite di bellezza le lasciava.

COMMENTO

In questa strofe le creature rispondono all'anima. Come di­ ce anche sant'Agostino nel medesimo passo, 1 questa rispo­ sta è la testimonianza che danno in sé all'anima della gran­ dezza ed eccellenza di Dio, dopo la considerazione che ha suscitato la domanda. In sostanza questa strofe ricorda che Dio creò tutte le cose con grande facilità e prontezza, e la­ sciò in esse un certo vestigio del suo essere, non solo traen­ dole dal nulla all'esistenza, ma dotandole di grazie e di virtù innumerevoli, abbellendole con ordine ammirevole e con l'immancabile subordinazione che le une hanno

1

Confessioni

I, IO,

6.

10 5

con le altre. Tutto questo a causa della sua sapienza, e di colui che le creò, il Verbo, il suo Figlio unigenito. Dice dunque:

Mille grazie spargeva Le mille grazie che egli spargeva significano la moltitudine delle creature innumerevoli; ecco perché usa il numero più alto, mille, per significarne la molteplicità. Le chiama grazie per le molte grazie di cui ha dotato le creature; le spargeva, vale a dire ne popolava il mondo,

varcando le boscaglie con premura, Varcare le boscaglie è creare gli elementi, qui chiamati le bo­ scaglie. Vi passava e spargeva mille grazie, perché le adornava di ogni creatura, della loro grazia, e vi spargeva inoltre mille grazie, dando loro la virtù di concorrere alla generazione e all a conservazione di tutte le creature. Dice che le varcava, perché le creature sono come un'impronta del passo di Dio, nella quale si rintracciano la grandezza, la potenza, la sa­ pienza e altri attributi divini. Le varcava con premura, dice poi, perché le creature sono le opere minori di Dio, che egli fece quasi di passaggio. Quanto alle maggiori, invece, quel­ le in cui si è meglio mostrato e in cui si è soffermato più a lungo, sono state l'Incarnazione del Verbo e i misteri della fede cristiana; in confronto a esse, tutte le altre cose sono state fatte come di passaggio, con premura. e mentre le guardava, la sua sola figura vestite di bellezza le lasciava. xo6

Come dice san Paolo, il Figlio di Dio è «splendore della sua gloria e figura della sua sostanza».2 Bisogna sapere che con questa sola figura del Figlio, Dio guardò tutte le cose, e in questo modo donò loro l'essere naturale, comunicando molteplici grazie e doni di natura, facendole rifinite e per­ fette, come dice la Genesi: «Dio guardò tutte le cose che aveva fatto, ed erano molto buone».3 Vederle molto buone significava farle molto buone nel Verbo suo Figlio. E non solo, come abbiamo detto, guardandole, conferiva loro l'es­ sere e i doni di natura, ma anche vestite di bellezza le lascia­ va, con la sola figura del Figlio, partecipando loro l'essere soprannaturale; ciò avvenne quando il Figlio si fece uomo, e lo innalzò alla bellezza divina, e di conseguenza tutte le creature in lui, perché si era unito con la natura di tutte nel­ l'uomo. Quindi lo stesso Figlio di Dio disse: Si ego exaltatus a terra fuero, omnia traham ad me ipsum: «Se io sarò elevato da terra, innalzerò a me tutte le cose».4 In questo innalza­ mento dell'incarnazione del Figlio, e della gloria della sua resurrezione nella carne, il Padre ha abbellito le creature non solo in parte, ma, potremo dire, le ha del tutto rivestite di bellezza e dignità.

PREMESSA ALLA STROFE SUCCESSIVA

Ma inoltre, se ora si parla secondo il senso affettivo della contemplazione, bisogna sapere che nel vivo della contem­ plazione e conoscenza delle creature, l'anima scorge in esse una tale abbondanza di grazie e virtù e bellezza che Dio 2

Ebrei I, 3· Genesi 1, 31. • Giovanni 12, J

32.

107

donò loro, da sembrarle tutte vestite di mirabile bellezza e di virtù naturale, profuse e comunicate da quell'infinita bel­ lezza soprannaturale della figura di Dio, che con lo sguardo riveste di bellezza e allegria il mondo e tutti i cieli, così co­ me aprendo la sua mano, come dice Davide, egli «ricolma ogni vivente di benedizioni».' Quindi, ferita l'anima d'amo­ re per l'impronta conosciuta nelle creature della bellezza dell'Amato, e ansiosa di vedere quell'invisibile bellezza, che fu origine di questa bellezza visibile, essa dice nella strofe seguente:

5 Salmo

ro8

145,

x6.

STROFE VI

Ahi, chi potrà sanarmi? Concediti ora intero e per davvero. Oggi non mi mandare ancora un messaggero, perché non sanno dirmi ciò che anelo.

COMMENTO

Poiché le creature hanno dato all'anima segni dell'Amato, mostrandole in sé le impronte della sua bellezza ed eccel­ lenza, in essa è aumentato l'amore e, per conseguenza, si è accresciuto il dolore per la sua assenza: quanto più l'anima conosce Dio, tanto più cresce il desiderio e la pena di ve­ derlo. Quando si accorge però del fatto che nulla è capace di curare la sua afflizione, se non la presenza e la vista del­ l' Amato, diffidando di ogni altro rimedio, in questa strofe gli chiede di concederle il possesso della sua presenza, e gli dice di non intrattenerla ancora con altri indizi e comunica­ zioni, né con qualsivoglia tracce della sua eccellenza, per­ ché queste cose accrescono l'ansia e il dolore, anziché sod­ disfare la volontà e il desiderio; la quale volontà non si con109

tenta né si soddisfa con meno della vista e della presenza di lui; voglia perciò degnarsi di concedersi finalmente a lei davvero, nell'amore pieno e perfetto. Quindi dice:

Ahi, chi potrà sanarmi? Come se dicesse: Tra tutti i piaceri del mondo, le soddisfa­ zioni dei sensi, e i diletti e soavità dello spirito, certo, nulla potrà sanarmi, nulla potrà appagarmi; e giacché è così,

Concediti ora intero e per davvero. Bisogna osservare che qualsiasi anima che ama veramente non può essere soddisfatta né contentarsi prima di possede­ re davvero Dio, perché tutte le altre cose non solamente non la appagano, ma anzi, come abbiamo detto, le fanno crescere la fame e appetito di vedere proprio lui, come è. E così, ogni visione che l'anima riceve dell'Amato - per via di cognizioni o di sentimenti o di qualunque altra comunica­ zione, i quali sono come messaggeri che recapitano all'ani­ ma notizia di ciò che egli è, e le aumentano l'appetito e ne suscitano uno seinpre maggiore, come fanno le briciole quando la fame è grande - rende più gravoso per lei pazien­ tare con così poco; ecco perché dice: Concediti ora intero e per davvero. Quanto si può conoscere di Dio in questa vita, per tanto che sia, non è conoscenza vera, ma una conoscen­ za parziale e molto remota: solo conoscerlo essenzialmente è conoscenza vera, e l'anima domanda questo, senza con­ tentarsi di altre comunicazioni. Quindi dice subito:

Oggi non mi mandare ancora un messaggero, no

come se dicesse: Non pretendere che da qui innanzi io ti co­ nosca cosi limitatamente, per mezzo di questi messaggeri, di segni e di sentimenti che essi mi danno di te, cosi remoti e diversi da quanto desidera di te l'anima mia; poiché i mes­ saggeri, in chi patisce per averti presente, tu lo sai bene, Sposo mio, accrescono il dolore: da una parte, perché essi rinnovano la piaga con il loro messaggio; dall'altra, perché sembrano dilazioni della tua venuta. Da oggi in poi, dun­ que, non mi mandare questi segnali remoti; perché, se finora potevo contentarmene, giacché non ti conoscevo e non ti amavo molto, ormai la grandezza dell'amore che sento non può contentarsi di queste assicurazioni; dunque concediti ora intero. Come se dicesse in parole più chiare: Questo, mio signore e Sposo, che di te stai dando alla mia anima a tratti, dammelo finalmente per intero; e questo che vai mo­ strando quasi da spiragli, mostralo infine chiaramente; e questo che stai comunicando attraverso intermediari, che è come un comunicarti per scherzo, fallo infine davvero, co­ municandoti attraverso te stesso. A volte sembra che nelle tue visite tu stia per darmi il gioiello del tuo possesso, ma quando la mia anima se ne accerta, se ne trova priva, perché glielo nascondi: ciò che è come dare per scherzo. Concediti, dunque, a me per davvero, dandoti tutto al tutto dell'anima mia, perché tutta lei abbia tutto te; e non mi mandare ancora un messaggero,

perché non sanno dirmi ciò che anelo. Come se dicesse: Io tutto te anelo, ed essi non sanno né possono dirmi tutto di te. Infatti, nessuna cosa della terra né del cielo può dare all'anima la notizia che essa desidera avere da te; cosi, non sanno dirmi ciò che anelo. Invece di questi messaggeri, sii tu stesso il messo e il messaggio. III

STROfE VII

E chiunque a te abbia atteso mille grazie di te va riferendo, e più la piaga sento e resto moribonda di un non so che che vanno balbettando.

COMMENTO

Nella strofe precedente l'anima ha mostrato di essere infer· ma o ferita d'amore per lo Sposo, a causa dei segni che le hanno dato di lui le creature irrazionali; e in questa fa in­ tendere di avere una piaga d'amore a causa di segni più alti che riceve dall'Amato per mezzo delle creature razionali, le quali sono più nobili delle altre: gli angeli e gli uomini. Non solo dice questo, ma aggiunge che sta morendo di amore a causa di un'immensità mirabile, la quale le si svela per mezzo di queste creature senza finire di svelarsi: la chia­ ma qui un non so che, perché non si sa dire, ma è tale da ren· dere l'anima morente d'amore. Ne possiamo dedurre che in queste faccende d'amore ci sono tre modi di penare per l'Amato, in corrispondenza a Il l

tre possibili modi di averne notizia. n primo si chiama "feri­ ta": essa guarisce e passa più brevemente, poiché nasce dal messaggio che l'anima riceve dalle creature, le quali sono le opere inferiori di Dio. Di questa ferita, che qui chiamiamo anche "malattia", parla la sposa dei Cantici, dicendo: Adiuro vos, filiae Hyerusalem, si inveneritis dilectum meum, ut nun­ tietis ei quia amore langueo, che significa: «lo vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, se trovate il mio diletto, ditegli che sono malata d'amore»,1 intendendo per "figlie di Gerusa­ lemme" le creature. n secondo modo si chiama "piaga": essa più della ferita s'imprime nell'anima, e per questo dura di più, perché è co­ me una ferita mutata ormai in piaga, sicché l'anima si sente veramente piagata d'amore. E questa piaga cresce nell'ani­ ma attraverso la conoscenza delle opere dell'incarnazione del Verbo e i misteri della fede; le quali, essendo opere su­ periori di Dio, che rispetto a quelle delle creature racchiu­ dono un maggiore amore, producono nell'anima un effetto piÒ intenso d'amore. La loro qualità è tale che, se il primo modo è una ferita, questo secondo è ormai come una piaga fissa e durevole, parlando della quale lo Sposo dei Cantici dice all'anima: «Mi hai piagato il cuore, sorella mia, mi hai piagato il cuore con un solo tuo occhio e con un solo capel­ lo del tuo collo»;2 dove l'occhio è il simbolo della fede nel­ l'incarnazione dello Sposo, e il capello raffigura l'amore dell'incarnazione stessa. n terzo modo di patire nell'amore è come "morire", che è come avere una piaga infistolita. lnfistolita tutta l'anima, vi­ ve morendo, finché l'amore, uccidendola, le faccia vivere la 1

Cantico '' 8.

2 Cantico 4, 9· II 3

vita dell'amore, trasformandola in amore. E questo morire d'amore avviene nell'anima mediante un tocco di somma conoscenza della divinità, il non so che che in questa strofe dice che vanno balbettando: questo tocco non è continuo né intenso, perché l'anima altrimenti si scioglierebbe dal cor­ po, ma passa, è breve, e cosi ella resta moribonda d'amore, e più muore vedendo che non finisce di morire d'amore. Questo è l'amore impaziente di cui si tratta nella Genesi, dove la Scrittura dice che Rachele aveva un tale amore di procreare, da chiedere al suo sposo Giacobbe: Da mihi libe­ ros, alioquin moriar: «Dammi dei figli, se no io morirò».3 E il profeta Giobbe diceva: Quis mihi det, ut qui coepit ipse me conterai?, vale a dire: «Chi mi concederà che colui il quale ha dato inizio alla mia vita, vi ponga termine?».4 Questi due generi di sofferenze amorose, cioè la "piaga" e il "morire", secondo la strofe sono provocati dalle creatu­ re razionali: la "piaga" per il fatto che le vanno riferendo mille grazie dell'Amato, i misteri e la sapienza di Dio inse­ gnati dalla fede; il "morire" per quanto dice che vanno bal­ bettando, cioè quel sentimento e quell'esperienza della divi­ nità, che talvolta vengono svelati all'anima nei discorsi che sente dire su Dio. Dice dunque:

E chiunque a te abbia atteso Come abbiamo detto, si riferisce alle creature razionali di­ cendo chiunque a te abbia atteso:' gli angeli e gli uomini, i ' Genesi 30, I . 4 Giobbe 6, 9·

' Se nella versione autonoma del testo poetico l'originale "vagan significa pro­ babilmente "vagano", nel commento l'autore legge il verbo come un latinismo de­ rivato da vacare, nell'accezione di "attendere a"; analoga è l'accezione del verbo "vacare" nell'uso degli umanisti italiani. La prosa di Giovanni della Croce è ricca di sensi etimologici, spesso non dichiarati. •

quali sono i soli, fra tutte le creature, a prestare attenzione sollecita a Dio. Tutti quanti attendono a Dio, gli uni, con­ templandolo nel cielo e godendone, come gli angeli; gli al­ tri, amandolo e desiderandolo in terra, come gli uomini. Siccome per mezzo di queste creature razionali l'anima co­ nosce Dio con più evidenza, sia considerandone l' eccellen­ za al di sopra di tutte le cose create, sia perché esse ci inse­ gnano di Dio - gli uni interiormente, con ispirazioni segre­ te, cioè gli angeli; esteriormente gli altri, per mezzo delle verità della Scrittura -, la strofe dice:

mille grazie di te va riferendo, cioè mi fanno capire cose ammirevoli della tua misericordia e della tua grazia nell'opera della tua incarnazione e verità della fede che mi spiegano di te, e sempre più mi vanno ri­ ferendo, perché quanto più vorranno dirmi, tanto maggiori grazie potranno svelarmi di te.

e più la piaga sento perché se gli angeli mi ispirano e gli uomini mi insegnano di te, sempre più mi innamoro di te; e così sento di più la mia piaga d'amore,

e resto moribonda di un non so che che vanno balbettando. Come se dicesse: Ma al di là della piaga che mi infliggono queste creature nelle mille grazie che mi fanno capire di te, c'è quel non so che, qualcosa che si sente resta ancora da di­ re, qualcosa che si riconosce ancora inespresso; è una subiiIl 5

me impronta di Dio che si svela all'anima e nello stesso tempo resta da rintracciare; è un'altissima comprensione di Dio che non sappiamo dire - quindi la chiama un non so che ; e se quello che capisco mi piaga e mi ferisce d'amo­ re, quello che non riesco a comprendere, e che suscita in me un sentimento cosi alto, mi uccide. Talvolta ciò avvie­ ne nelle anime ormai avviate verso Dio: Dio le favorisce concedendo loro una sublime conoscenza in quanto ascol­ tano o vedono o percepiscono, a volte anche senza l'una o l'altra percezione; una conoscenza in cui possono com­ prendere o sentire l'altezza di Dio e la sua grandezza; in tale sensazione l'anima ha un'esperienza cosi eccelsa di Dio, da riconoscere chiaramente che le resta tutto da com­ prendere; e questo capire e sentire che la divinità è cosi immensa da non poterla afferrare per intero, è una forma di conoscenza molto elevata. Così, uno dei grandi favori transitori concessi da Dio al­ l'anima in questa vita è la chiara comprensione unita all'al­ to sentimento di Dio, tali da capire con chiarezza che non lo si può comprendere né sentire per intero; e questo è in una certa misura simile alla visione di Dio nel cielo, dove coloro che lo conoscono meglio capiscono più distintamen­ te l'infinito che resta loro da conoscere; al contrario, coloro che lo vedono di meno riconoscono meno distintamente di quelli che più lo vedono ciò che resta loro da vedere. Que­ sto, credo, non riuscirà a comprenderlo bene chi non l'ab­ bia provato; invece l'anima che ne ha esperienza e vede quanto dista dal comprendere quello che le suscita un senti­ mento cosi alto, lo chiama un non so che. Come non si com­ prende, cosi non si sa neppure dire, quantunque si sappia sentire. Per questo la strofe afferma che le creature vanno balbettando, perché non riescono a farlo comprendere: la -

116

"balbuzie", il linguaggio degli infanti, è non riuscire in modo comprensibile ciò che si deve dire.

a

dire

PREMESSA ALLA STROFE SUCCESSIVA

Anche per quanto riguarda le creature superiori, accadono all'anima delle illuminazioni come quelle che abbiamo det­ to - seppure non sempre cosi sublimi -, quando Dio conce­ de all'anima la grazia di rivelarle la cognizione e il senso dello spirito che hanno dentro. Queste illuminazioni sem­ brano voler far comprendere l'eccellenza di Dio senza riu­ scire a farla comprendere del tutto: è come se volessero far comprendere qualcosa che sfugge; e così, è un non so che che vanno balbettando. Dunque l'anima continua il suo la­ mento, e nella strofe seguente parla con la propria vita inte­ riore dicendo:

!1 7

STROFE VIII

Ma come sopravvivi, o vita, se non vivi dove vivi, se ti fanno morire le frecce che ricevi da quel che dell'Amato concepisci?

COMMENTO

Mentre si vede morire d'amore, senza riuscire però a morire per godere dell'amore liberamente, l'anima deplora la per­ sistenza nella vita corporale, come causa del rinvio della sua vita spirituale. In questa strofe parla con la vita stessa della propria anima, rincarando il dolore che le suscita. E il senso della strofe è il seguente: vita dell'anima mia, come puoi perseverare in questa vita di carne, dal momento che per te è morte e privazione della vera vita spirituale in Dio, nel quale per essenza, per amore e per desiderio tu vivi veramente, più che nel corpo? Se anche questo non fosse motivo perché tu esca e ti liberi da questo corpo votato alla morte, 1 1

n8

Romani

7, 24.

vivendo e godendo la vita del tuo Dio, come puoi tutta­ via perseverare in un corpo tanto fragile che bastano da sole a porre fine alla tua vita le ferite d'amore ricevute attraver­ so le magnificenze che ti vengono comunicate da parte dell'Amato? Esse ti lasciano tutte veementemente ferita d'amore, e cosl, ogniqualvolta senti e capisci qualcosa di lui, tu ricevi altrettanti colpi e ferite mortali d'amore. Se­ guono 1 vers1:

Ma come sopravvivi, o vita, se non vivi dove vivi, Per capire questi versi, occorre sapere che l'anima vive più là dove ama che nel corpo da lei animato/ giacché non ha la sua vita nel corpo, anzi la dà al corpo, e vive per amore in ciò che ama. Ma, oltre a questa vita d'amore per cui vive in Dio l'anima che lo ama, l'anima ha pure una sua vita origi­ naria e naturale in Dio, come tutte le cose create, secondo quanto dice anche san Paolo: «ln lui viviamo e ci muovia­ mo ed esistiamo»;3 vale a dire: in Dio abbiamo dunque la nostra vita, il nostro movimento e il nostro essere. E san Giovanni dice che «tutto quanto è stato fatto, era vita in Dio».4 Quando l'anima riconosce di avere la sua vita natu­ rale in Dio per l'essere che in lui possiede, come pure la sua vita spirituale per l'amore con cui lo ama, si duole e si af­ fligge che una vita cosl fragile in un corpo mortale possa tanto da impedirle di godere una vita cosi forte, vera e squi­ sita quale vive in Dio per natura e per amore. In tutto que­ sto è grande l'insistenza dell'anima, perché qui ci dimostra 2

È

una formula classica del platonismo cristiano.

3 Atti 17, 28. � Giovanni 1,

3-4.

Il9

di soffrire tra due contrari, che sono la vita naturale nel cor­ po e la vita spirituale in Dio, due contrari che si ripugnano a vicenda. E vivendo ella in entrambi, per forza ne deriva un grande tormento:' una vita penosa le impedisce l'altra squisita, tanto che la vita naturale nel corpo è per lei come la morte: la esclude dalla vita spirituale dove risiedono tut­ to il suo essere e la sua vita per natura, e a cui appartengono tutte le sue opere e le sue inclinazioni per amore. E aggiun­ ge, per far meglio capire il rigore di questa vita fragile:

se ti fanno morire le frecce che ricevi quasi dicesse: inoltre, come puoi perseverare nel corpo, se da soli bastano a toglierti la vita i tocchi d'amore - li chia­ ma frecce - che infigge nel tuo cuore l'Amato? Questi tocchi fecondano l'anima e il cuore di amorosa intelligenza di Dio, in modo tale che possiamo ben dire che l'anima concepisce di Dio, come dice il verso successivo:

da quel che dell'Amato concepisci? per ciò che comprendi a proposito della sua grandezza, bel­ lezza, sapienza, grazia e virtù.

PREMESSA ALLA STROFE SUCCESSIVA

Come il cervo intossicato da erbe velenose non riposa né sosta e va cercando qua e là un rimedio, e ora si immerge in ' L'espressione corrisponde al principio aristotelico della non contraddizione, caro alla Scolastica.

120

quest'acqua ora in quella, ma a ogni tentativo e a ogni rime­ dio il tocco del veleno cresce sempre di più, fino a impos­ sessarsi completamente del cuore, e il cervo ne viene a mo­ rire; così l'anima toccata dall'erba dell'amore, del quale par­ liamo qui, non smette mai di cercare rimedio al suo dolore, e non soltanto non lo trova, ma anzi, tutto ciò che pensa, dice e fa le è fonte di più dolore. E quando se ne accorge, e sa di non avere altro rimedio se non andare a porsi nelle mani del suo feritore, perché la tolga di pena e finisca di uc­ ciderla con la forza dell'amore, si rivolge allo Sposo, che è la causa di tutto questo, e dice la strofe seguente:

121

STROFE IX

Perché, se l'hai piagato, non hai sanato pure questo cuore? E se me l'hai sottratto, perché tu l'abbandoni, e non cogli la preda che hai rubato?

COMMENTO

In questa strofe l'anima torna a parlare all'Amato, con l'identico doloroso lamento; perché l'amore impaziente, quale l'anima dimostra di avere, non tollera alcuna inerzia, né concede requie alla propria pena. Essa espone in ogni modo le sue ansie, fino a trovare il rimedio: mentre si vede ferita e sola, senza alcuno che l'aiuti e senz' altra medicina se non l'Amato, proprio il suo feritore, gli domanda perché, se egli ha piagato il suo cuore con l'amore della conoscenza di lui, non glielo ha poi sanato con la sua presenza visibile? E poi, se le ha rubato il cuore per mezzo dell'amore con cui lo ha innamorato, sottraendolo al potere di lei, perché mai lo ha abbandonato così, sottratto al suo potere - chi ama non possiede più il proprio cuore, poiché lo ha dato all'amato -, 122

e non lo ha posto davvero nel proprio cuore, appropriando­ sene in una completa e definitiva trasformazione amorosa nella gloria? Dice allora:

Perché, se l'hai piagato, non hai sanato pure questo cuore? L'anima non lamenta che egli l'abbia piagata, poiché l'inna­ morato, quanto più è ferito, tanto più è contento; ma che, avendole piagato il cuore, non l'abbia sanata, finendo di uc­ ciderla. Le ferite d'amore sono tanto dolci e gustose che, se non giungono a darle la morte, non la possono appagare; sono tanto gustose che vorrebbe esserne piagata fino a mo­ rirne; e quindi dice: Perché, se l'hai piagato, non hai sanato pure questo cuore? Come se dicesse: se lo hai ferito fino a piagarlo, perché non lo sani, terminando di ucciderlo di amore? Se tu sei la causa della dolente piaga d'amore, sii tu ora la causa della salute nell'amorosa morte; così il cuore piagato dal dolore della tua assenza, sanerà con il piacere glorioso della tua dolce presenza. E aggiunge:

E se me l'hai sottratto, perché tu l'abbandoni, Sottrarre altro non è che spossessare di un bene chi ne è pa­ drone, e impossessarsene colui che ruba. Questa è la la­ gnanza che l'anima sottopone all'Amato: se egli le ha ruba­ to il cuore per mezzo dell'amore, sottraendo lo al suo potere e possesso, perché glielo ha lasciato così, senza appropriar­ sene davvero e prenderlo per sé, come fa il ladro con l' og­ getto del suo furto, portandoselo via di fatto? Di un inna­ morato si dice che ha il cuore rubato o rapito da chi egli l23

ama: infatti lo ha fuori di sé, riposto nella cosa amata, e quindi non ha il cuore per sé, ma per ciò che ama. Da que­ sto l'anima potrà riconoscere bene se ama Dio puramente o no: se l'ama, non avrà il cuore per se stessa, né mirerà al proprio piacere e al proprio utile, ma solo all'onore e alla gloria di Dio, e a compiacerlo; quanto più ha il cuore per sé, tanto meno lo ha per Dio. In una cosa si riconosce se il cuore è stato davvero rubato da Dio: se prova dentro di sé ansie per Dio, e se d'altro non gode se non di lui, come di­ mostra qui l'anima. La ragione è che il cuore non può stare in pace e in calma senza qualche possesso, e quando vi è molto affezionato non possiede più sé né altro, come abbia­ mo detto; e se nemmeno possiede completamente ciò che ama, allora il suo affanno è grande quanto la sua mancanza. Finché non lo possiede e si appaga, l'anima è come un va­ so vuoto che spera di essere colmato, e come l'affamato che desidera il cibo, e come il malato che geme per la salu­ te, e come uno sospeso in aria che non ha appoggio; cosi sta il cuore veramente innamorato. L'anima, che lo sa per esperienza, dice: perché tu l'abbandoni - cioè vuo­ to, affamato, solo, piagato e dolente d'amore, sospeso nell'aria -,

e non cogli la preda che hai rubato? Vale a dire: perché non cogli il cuore che hai sottratto per mezzo dell'amore, così da colmarlo e saziarlo e accompa­ gnarlo e sanarlo e dargli appoggio e riposo pieno in te? L'anima innamorata, per quanto si conformi all'Amato, non può fare a meno di desiderare la paga e il salario del suo amore; salario per il quale serve l'Amato: altrimenti non sarebbe vero amore, perché il salario e la paga del124

l'amore non è altra cosa (e null'altro può volere l'anima) se non più amore, finché l'amore perfetto sia raggiunto. L'amore non si paga che con se stesso, come fece intendere il profeta Giobbe quando, con la medesima ansia e deside­ rio provato qui dall'anima, disse: «Come il servo sospira l'ombra e come il bracciante aspetta la fine della sua opera, così a me sono toccati mesi vuoti e ho contato le notti per me laboriose. Se mi corico dico: quando arriverà il giorno in cui mi alzerò? E poi ritornerò ad aspettare la sera, e sarò pieno di dolori fino alle tenebre della notte».1 Così l'anima accesa di amore di Dio desidera il compi­ mento e la perfezione dell'amore, per trovarvi il perfetto re­ frigerio, come il servo sfinito dall'estate desidera il refrige­ rio dell'ombra. E come il bracciante aspetta la fine della sua opera, così lei aspetta la fine della sua. Dove bisogna notare che il profeta Giobbe non disse che il bracciante attendeva la fine del suo lavoro, ma la fine della sua opera, confer­ mando quello che andiamo dicendo, cioè che l'anima inna­ morata non aspetta la fine del suo sforzo, ma la fine della sua opera, perché la sua opera è amare, e di quest'opera d'amore aspetta la fine e il coronamento, la completa perfe­ zione dell'amare Dio. Finché non avverrà questo, l'anima si comporta come la dipinge Giobbe nel passo ricordato, con­ siderando vuoti i giorni e i mesi, e contando le notti trava­ gliate e interminabili. Da tutto ciò si capisce che l'anima in­ namorata di Dio non deve pretendere né aspettarsi altro compenso del suo servizio, se non la perfezione nell'amare Dio.

1

Giobbe

7, 2·4·

12 5

PREMESSA ALLA STROFE SUCCESSIVA

Quando si trova in questo grado estremo di amore, l'anima è come un malato spossato che, avendo perso il gusto e l'ap· petito, ricusa tutte le vivande, e tutte le cose lo molestano e lo irritano. In tutto quanto gli si offre al pensiero o alla vi­ sta, egli ha presente un solo appetito e desiderio, che è la sua salute, e tutto ciò che non vi rientra gli è molesto e di peso. Cosl quest'anima, per essersi ammalata d'amore dolo­ roso di Dio, ha tre proprietà: vale a dire, qualsiasi cosa in­ contri o tratti, ha sempre presente quell'" ahi" della sua salu­ te che è l'Amato, e se pure deve per forza occuparsi di qual­ cosa, il suo cuore rimane sempre in lui. E da questo deriva la seconda proprietà, che consiste nell'aver perduto il gusto di tutte le cose. E ne deriva anche la terza: tutte le cose le sono moleste, e ogni relazione sociale le pesa e le è noiosa. La ragione può essere tratta da quanto abbiamo detto: cioè che, siccome nell'anima il palato della volontà è già stato toccato e insaporito da questa pietanza dell'amore di Dio, in qualunque cosa o relazione le si presenti, subito, e senza badare ad altri gusti o riguardi, la volontà mira a cercarvi e a gustarvi il suo Amato; come fece Maria Maddalena quan­ do, con ardente amore, lo andava cercando nel giardino. Pensando di vedere il custode, senza alcuna riflessione o al­ tre considerazioni, gli disse: «Se tu me l'hai portato via, dimmi dov'è e io andrò a prenderlo».2 Provando l'anima una simile ansia di trovarlo in tutte le cose, ma non trovan­ dolo subito come desidera, anzi al contrario, non solo non le gusta, ma le diventano piuttosto un tormento, e talvolta molto grande. Simili anime patiscono molto nell'attendere 2 Giovanni 20, 15.

126

alla gente e ad altre occupazioni, perché, più che sentirsi fa­ vorite, sentono disturbate le proprie esigenze. La sposa dei Cantici mostrava di avere queste tre proprie­ tà quando cercava lo Sposo, dicendo: «L'ho cercato, ma non l'ho trovato. Mi hanno trovato invece coloro che si ac­ campano attorno alla città e mi hanno ferito, e mi hanno tolto il mantello le guardie delle mura».3 Coloro che stanno accampati attorno alla città sono i rapporti mondani; quan­ do incontrano l'anima che cerca Dio, le infliggono molte piaghe, pene, dolori e dispiaceri, perché non solo non trova in essi quanto vuole, ma anzi la ostacolano. Quelli che di­ fendono il muro della contemplazione perché non vi entri l'anima, che sono i demoni e gli affari del mondo, le tolgo­ no il mantello della pace e della quiete nella contemplazio­ ne amorosa. Da tutto questo l'anima innamorata di Dio ri­ ceve mille contrarietà e fastidi, e riconoscendo che non se ne può liberare né poco né molto finché resta in questa vita senza vedere il suo Dio, continua le preghiere verso il suo Amato, e dice la strofe seguente:

J Cantico 5, 6·7·

127

STROFE X

Estingui le mie smanie, giacché nessuno basta per disfarle; ti vedano i miei occhi perché ne sei la luce, e soltanto per te io voglio averli.

COMMENTO

L'anima prosegue nella strofe presente, e domanda al­ l' Amato di voler finalmente porre termine alle sue ansie e ai suoi dolori - non vi è altri che lui capace di farlo -; e tutto avvenga in modo che gli occhi dell'anima possano vederlo, perché lui soltanto è la luce a cui essi guardano, e per nul­ l'altro li vuole impiegare. Dunque, dice:

Estingui le mie smanie, Questa proprietà ha l'intemperanza amorosa, come si è det­ to: tutto quello che non si accorda, di fatto o a parole, con ciò che la volontà ama, le causa stanchezza e noia e cruccio e disgusto, giacché non vede realizzarsi quello che vuole. A 128

questo, alle fatiche affrontate per vedere Dio, l'anima dà il nome di smanie, e nulla basta per disfarle fuorché il possesso dell'Amato. L'anima gli dice di estinguerle con la sua pre­ senza, refrigerandole tutte, come fa l'acqua fresca a chi è spossato dal calore; usa appunto la parola estingui per far capire che soffre nel fuoco amoroso.

giacché nessuno basta per disfarle; Per meglio commuovere e persuadere l'Amato a esaudire la sua preghiera, l'anima lo esorta, poiché nessun altro basta per sovvenire alla sua necessità, a estinguere lui le sue sma­ nie. Qui bisogna notare che Dio è ben disposto a confortare l'anima e a soddisfare le sue necessità e i suoi dolori, quan­ do lei non ha né pretende altra soddisfazione né conforto all'infuori di lui. Così, l'anima che non ha alcun intratteni­ mento all'infuori di Dio, non può restare per molto senza la visita dell'Amato.

ti vedano i miei occhi cioè, fa' che io ti veda faccia a faccia con gli occhi dell'ani­ ma m1a,

perché ne sei la luce, Siccome Dio è luce soprannaturale degli occhi dell'anima, senza la quale essa sta nelle tenebre, l'anima lo chiama per affetto luce dei suoi occhi, come l'innamorato usa chiamare la persona amata "luce degli occhi", per mostrarle l'affetto che prova. E nei due versi ricordati, è come se dicesse: poi­ ché gli occhi della mia anima né per natura né per amore 129

hanno altra luce che te, i miei occhi ti vedano, perché in ogni modo tu ne sei la luce. Di questa luce sentiva la mancanza Davide, quando si lamentava: «La luce dei miei occhi, è quella che non è più con me»;1 e Tobia, quando diceva: >.' Fa­ remo le ghirlande, dice l'anima,

nel tuo amore fiorite, Il fiore delle opere e delle virtù è la grazia e la forza origina­ te dall'amore di Dio, senza il quale non solamente non sa­ rebbero fiori, ma sarebbero tutte secche e prive di valore davanti a Dio, anche se umanamente perfette. Ma poiché egli dona la sua grazia e il suo amore, le opere sono fiorite nel suo amore, e

intrecciate nel nodo di un capello.

Questo capello è la volontà di lei e l'amore che porta al­ l'Amato; il quale amore compie l'ufficio del filo nella ghir­ landa. Come il filo allaccia e ferma i fiori nella ghirlanda, così l'amore dell'anima allaccia e ferma le virtù nell'anima e ' Cantico 3, n.

274

ve le sostiene. Perché, come dice san Paolo, è la carità il vincolo e il legame della perfezione.6 In questo amore del­ l' anima le virtù e i doni soprannaturali sono stretti in modo cosi essenziale, che se si rompesse mancando a Dio, subito si scioglierebbero tutte le virtù e verrebbero meno all'ani­ ma, come, se si spezza il filo della ghirlanda, cadono i fiori. Non basta che Dio ci porti amore per darci le virtù; noi pu­ re dobbiamo portarlo a lui per riceverle e per conservarle. Parla di un capello solo, e non di molti capelli, per significa­ re che ormai la sua volontà è sola, distaccata da tutti gli altri capelli, che sono gli amori estranei a Dio; ed esalta cosi la qualità e il pregio di queste ghirlande di virtù. Perché, se l'amore è unico e saldo in Dio come afferma qui, anche le virtù sono perfette e compiute e fiorite nell'amore di Dio, e allora l'amore che egli porta all'anima è inestimabile, come sente bene lei stessa. Ma se volessi far comprendere la bellezza dell'intreccio che questi fiori di virtù e smeraldi fanno tra sé, o dire qual­ cosa della forza e della maestà che la loro ordinata composi­ zione conferisce all'anima, e della grazia perfetta di cui la ri­ veste questo vestito di varietà, non troverei parole né termi­ ni per farlo. Nel libro di Giobbe, Dio dice del demonio: «Il suo corpo è come scudi di metallo saldato, munito di squa­ me cosi strette e talmente attaccate l'una all'altra, che fra di esse non passa l'aria».7 Se dunque il demonio ha tanta for­ za, per esser rivestito di malizie, connesse e disposte fra di loro, le quali sono significate dalle "squame", che il suo corpo è "come scudi di metallo saldato", mentre tutte le sue malizie sono di per sé debolezza, quanta sarà la 6 Colossesi 3, 14. 7 Giobbe 41, 78.

275

forza di quest'anima tutta rivestita di forti virtù, così unite e intrecciate, che fra di loro non può passare alcuna bruttezza o imperfezione? Ciascuna aggiunge la propria forza alla for­ za dell'anima, e la propria bellezza alla sua bellezza, arric­ chendola del proprio pregio, aggiungendo nobiltà e gran­ dezza alla sua maestà. Quanto apparirà meravigliosa alla vi­ sta spirituale quest'anima sposa collocata con questi doni al­ la destra del re suo Sposo! «Belli sono i tuoi passi nei calza­ ri, figlia di principe», dice lo Sposo di lei nei Cantici,8 chia­ mandola "figlia di principe" per indicare il primato che qui ella possiede. E se la chiama bella nei calzari, come sarà nel­ la sua veste? N o n solo suscita ammirazione la bellezza che possiede nell'abito di fiori, ma desta anche spavento la forza e la po­ tenza presentata dalla loro ordinata disposizione, con l'inse­ rimento degli smeraldi di innumerevoli doti divine. Perciò lo Sposo dice ancora di lei nei Cantici: «Terribile sei, dispo­ sta come le schiere del campo reale».9 Queste virtù e doti divine, come ricreano con il loro aroma spirituale, così, una volta unite nell'anima, con la loro sostanza danno anche forza. Quando la sposa dei Cantici era debole e malata d'amore perché non era arrivata a unire e intrecciare i fiori e gli smeraldi nel capello del suo amore, e desiderava forti­ ficarsi con tale unione e tale vincolo, esprimeva la sua ri­ chiesta con le parole: «Fortificatemi con fiori, rassodatemi con mele, perché languisco d'amore»,10 chiamando fiori le virtù e mele le altre doti.

8

Cantico 7, 2. 9 Cantico 6, 4·



Cantico 2 , 5 ·

PREMESSA ALLA STROFE SUCCESSIVA

Credo sia evidente come, attraverso l'intreccio delle ghir­ lande e il loro consolidarsi nell'anima, quest'anima sposa voglia far comprendere la divina unione di amore che ha luogo tra lei e Dio in questo stato. Lo Sposo è i fiori, essen­ do, come egli stesso dice, «il fiore di campo e il giglio delle valli»;11 e il capello dell'amore dell'anima è, come abbiamo detto, quello che ferma e unisce con lei questo fiore dei fio­ ri, essendo l'amore, come dice l'Apostolo, il vincolo della perfezione,12 che è l'unione con Dio. L'anima è il fastello che sostiene le ghirlande, giacché essa è il soggetto di que­ sta gloria. N o n sembra più quella che sembrava prima, ma lo stesso fiore perfetto, con la perfezione e la bellezza di tutti i fiori. Con tanta forza stringe i due, cioè Dio e l'ani­ ma, questo filo d'amore, che li congiunge e li trasforma e li unifica nell'amore, di modo che, sebbene siano differenti nella sostanza, nell'aspetto splendente l'anima sembra Dio, e Dio l'anima. Così, questa è l'unione. Essa è meravigliosa, al di sopra di tutto quanto si possa dire. Se ne può com­ prendere qualcosa da ciò che la Scrittura dice di Gionata e Davide nel primo libro dei Re, dove si legge che l'amore che Gionata portava a Davide era tanto stretto, da «conglu­ tinare l'anima di Gionata con l'anima di Davide».13 Quindi, se l'amore di un uomo per un altro uomo fu così forte da conglutinare un'anima con un'altra, che produrrà tra l'ani­ ma e lo Sposo Dio l'amore che l'anima porta a Dio stesso? Tanto più essendo Dio qui il primo amante; coll'onnipoten­ za del suo amore abissale assorbe in sé l'anima, con più effi11 Cantico 2,

12 Il

1. Colossesi 3, 14 . r Samuele r8, 1.

cada e forze di un torrente di fuoco che scioglie una goc­ cia di rugiada mattutina e la fa volare nell'aria. Il capello che compie una simile opera di giuntura, dev'essere senza dubbio molto forte e sottile, se con tale forza compenetra le parti che stringe; e quindi l'anima espone nella strofe seguente le proprietà di questo suo leggiadro capello, dicendo:

STROFE XXXI

In quel capello solo che hai visto svolazzare sul mio collo, ne hai osservato il volo, vi sei rimasto avvinto, e in uno dei miei occhi ti ho ferito.

COMMENTO

Tre cose vuole dire l'anima in questa strofe: la prima è ri­ cordare che l'amore in cui le virtù sono annodate altro non è che l'amore forte, l'unico davvero capace di conservarle; la seconda dice che Dio è rimasto avvinto da questo suo ca­ pello d'amore, vedendolo solo e forte; la terza dice che Dio si è innamorato profondamente di lei, vedendo la purezza e l'integrità della sua fede.

In quel capello solo che hai visto svolazzare sul mio collo, ne hai osservato il volo, Il collo significa la fortezza, sulla quale svolazzava il capello dell'amore in cui sono intrecciate le virtù. Dunque, è un 279

amore basato sulla fortezza: per conservare le virtù non ba­ sta che il capello sia solo, ma deve essere anche forte, per­ ché nessun vizio nemico possa lacerare in qualche punto la ghirlanda della perfezione; tale è infatti l'ordine con cui le virtù sono legate da questo capello d'amore dell'anima, che, se il vizio penetrasse in una, subito verrebbero a man­ care tutte: dove si trova una si trovano tutte, e nello stesso modo dove ne manca una mancano tutte. Dice che svolazza­ va sul collo, perché nella fortezza dell'anima l'amore di Dio svolazza con grande forza e con grande rapidità, senza impi­ gliarsi in nulla. Come l'aria agita e fa volare sul collo il ca­ pello, così pure l'aria dello Spirito Santo muove e solleva l'amore forte perché spicchi i suoi voli verso Dio; senza questo vento divino che muove le facoltà all'esercizio del­ l' amore divino, non agiscono né hanno effetto le virtù, an­ che se sono presenti nell'anima. E dicendo che l'Amato ha visto e osservato il volo del capello, fa capire quanto Dio ami l'amore forte; osservare è guardare particolarmente, con attenzione e stima di ciò che si vede, e l'amore forte fa sì che Dio gli rivolga a lungo lo sguardo. Dio non solamente ha apprezzato e stimato questo amore dell'anima vedendolo solo, ma lo ha pure amato vedendo lo forte; lo sguardo di Dio è amore, come il suo osservare abbiamo detto - è stimare ciò che osserva. Osservarne il vo­ fo sul collo è la ragione di averlo molto amato, vedendone la fortezza; ed è come se dicesse: l'hai amato vedendolo for­ te, senza viltà né apprensione, senza altri amori, osservan­ done il volo rapido e fervente. Fin qui Dio non aveva guardato questo capello in modo da rimanerne avvinto, perché non l'aveva visto da solo e staccato dagli altri capelli, cioè da altri amori e desideri e sentimenti e gusti; non svolazzava ancora solo sul collo del28o

la fortezza. Ma ora che attraverso le mortificazioni e i trava­ gli e le tentazioni e la penitenza, è arrivato a staccarsi e a farsi resistente, in modo da non spezzarsi per alcuna violen­ za e per nessun motivo, ora Dio lo guarda e lo prende e vi lega i fiori delle ghirlande, perché esso ha la forza di mante­ nerli legati nell'anima. Quali e di che genere siano queste tentazioni e sofferenze, e sin dove penetrino nell'anima, perché possa raggiungere questa fortezza d'amore in cui Dio si unisce con lei, l'ho accennato nel commento delle quattro strofe che cominciano: Fiamma d'amore viva.1 Que­ st' anima vi è passata ed è arrivata a un tale grado di amore di Dio, da aver meritato ormai la divina unione. Perciò ag­ giunge subito:

vi sei rimasto avvinto, Oh, cosa degna di plauso e di esultanza che Dio resti avvin­ to in un capello! La causa di questa così preziosa prigionia è che Dio ha voluto soffermarsi a guardare il volo del capello, come dicono i versi antecedenti; perché lo sguardo di Dio è amare; se nella sua grande misericordia egli non ci avesse guardati e amati per primo, come dice san Giovanni/ se non si abbassasse, nessuna presa avrebbe potuto fare in lui il volo del capello del nostro basso amore, perché non avrebbe un volo così alto da catturare quest'aquila divina dalle alture e indurla a guardarci, suscitando e sollevando il volo del nostro amore, dandogli il coraggio e la forza neces­ sari. Perciò ha avvinto se stesso nel volo di un capello, cioè 1 Nel commento del quano verso della prima strofe e in quello del quano ver­ so della seconda. 2 Giovanni 4• 10. 281

egli stesso se ne è appagato e compiaciuto, per rimanerne avvinto. Questo vuoi dire ne hai osservato il volo, vi sei rima­ sto avvinto: è cosa del tutto credibile che un uccello di basso volo possa catturare l'altissima aquila reale, se essa scende in basso e vuole essere presa. E segue: e

in uno dei miei occhi ti ho ferito.

L'occhio indica qui la fede. Parla di un solo occhio, nel qua­ le si ferì, perché se la fede e la fedeltà dell'anima verso Dio non fosse una sola, ma mescolata con qualche altro riguar­ do o affetto, non riuscirebbe a ferirlo d'amore, e deve esse­ re quindi uno solo l'occhio di questa ferita, come uno solo è il capello in cui rimane avvinto l'Amato. Ed è cosi stretto l'amore con cui lo Sposo è avvinto dalla sposa vedendo ne questa fedeltà unica, che, se nel capello del suo amore era legato, nell'occhio della fede questa prigionia si stringe con un nodo tanto stretto da provocargli una piaga d'amore, a causa della grande tenerezza dell'affetto che sente per lei. Questo significa introdurla di più nel suo amore. Di questo stesso capello e di quest'occhio parla lo Sposo nei Cantici: «Mi hai ferito il cuore, sorella mia, mi hai ferito il cuore con uno dei tuoi occhi e con un capello del tuo collo».} Due volte ripete che gli ha ferito il cuore con un occhio e col capello. E per questo l'anima ricorda nella strofe il ca­ pello e l'occhio, per indicare la sua unione con Dio per mezzo dell'intelletto e della volontà; la fede, simboleggiata dall'occhio, si assoggetta all'intelletto come fede, e alla vo­ lontà come amore. L'anima si gloria qui dell'unione, e rin­ grazia il suo Sposo di questo favore ricevuto dalla sua ma3 Cantico 4• 9·

no, e apprezza molto che egli abbia voluto appagarsi del suo amore e restarne avvinto. Si può immaginare l' esultan­ za, la gioia e la delizia che l'anima sentirà con un tale pri­ gioniero, dopo essere stata cosi a lungo la sua prigioniera, come sua innamorata.

PREMESSA ALLA STROFE SUCCESSIVA

Sono grandi il potere e la tenacia dell'amore, se catturano e legano Dio stesso. Felice l'anima che ama Dio avendolo per prigioniero, sottomesso a ogni suo desiderio; la sua indole è tale che se egli viene persuaso con l'amore e col bene, gli si farà fare quanto si vorrà; non c'è modo di parlargli o di smuoverlo altrimenti, neppure con misure estreme; per amore, invece, lo si lega con un capello. L'anima lo sa, e sa che le ha concesso favori molto superiori ai propri meriti elevandola a un amore cosi sublime, con pegni di doti e di virtù cosi ricche; e attribuisce quindi tutto a lui nella strofe seguente:

STROFE XXXII

Quando tu mi guardavi, i tuoi occhi la grazia in me stampavano; perciò tu mi adoravi, perciò io meritavo di adorarti con gli occhi miei guardandoti.

COMMENTO

È una qualità dell'amore perfetto non voler accettare e non

prendere niente per sé, né attribuire nulla a sé, ma tutto al­ l' Amato; se ciò esiste anche negli amori umili, quanto più nell'amore verso Dio, che ha una ragione così profonda. Siccome nelle due strofe precedenti la sposa sembra attri­ buirsi qualcosa, come quando afferma che farà insieme allo Sposo le ghirlande, o che saranno intrecciate nel suo capel­ lo - che è un'impresa d'importanza e di valore non scarsi -, e poi si vanta dello Sposo rimasto avvinto da un suo capello e ferito da un suo occhio, dove sembra pure attribuirsi un grande merito, ora in questa strofe vuole spiegare la sua in­ tenzione, e dissipare ogni possibile fraintendimento, nel cruccio o nel timore che venga attribuito a lei qualche pre-

gio o qualche merito, assegnando perciò a Dio meno del dovuto e di quanto ella desidera. Attribuendo tutto a lui, e al tempo stesso ringraziandolo di ogni cosa, gli dice che la causa del rimanere avvinto nel capello del suo amore e feri­ to dall'occhio della sua fede è il fatto che Dio le ha dato la grazia di guardarla con amore, rendendola cosl graziosa e gradita a lui stesso. Per la grazia e per la stima da lui ricevu­ te, ella ha meritato il suo amore, e possiede ora in sé il valo­ re per adorare in modo soddisfacente il suo Amato, e fare opere degne della sua grazia e del suo amore. Segue il ver:o:

Quando tu mi guardavi, cioè con affetto d'amore, perché abbiamo detto che lo sguardo di Dio è amare,

i tuoi occhi la grazia in me stampavano; Gli occhi dello Sposo significano la divinità misericordiosa, la quale, chinandosi verso l'anima con misericordia, stampa e infonde il suo amore e la sua grazia in lei; con essi l' abbel­ lisce e la nobilita tanto, da renderla consorte della stessa sua divinità. Vedendo la dignità e l'altezza in cui Dio l'ha collo­ cata, l'anima aggiunge:

perciò tu mi adoravi, Adorare è amare molto, è più del semplice amare, è come un amare doppiamente, cioè per due ragioni. In questo ver­ so l'anima allude ai due motivi e cause dell'amore che lo Sposo sente per lei, per i quali non solo l'amava avvinto nel

suo capello, ma l'adorava ferito dal suo occhio. La ragione di averla adorata in modo così stretto è che egli ha voluto infonderle, guardandola, la grazia per trovarla graziosa, in­ fonderle l'amore del suo capello, e formare con la propria carità la fede del suo occhio. Se dice perciò tu mi adoravi, è perché Dio, riponendo nell'anima la sua grazia, l'ha resa de­ gna e capace del suo amore. È come se dicesse: avendo ri­ posto in me la tua grazia, che era il pegno degno del tuo amore; tu perciò mi adoravi, cioè m'infondevi ancora di più la tua grazia. La stessa cosa dice san Giovanni: «Dà grazia per la grazia che ha dato»,1 ossia più grazia, perché senza la sua grazia non si può meritare la sua grazia. Per comprendere questo, bisogna osservare che Dio, co­ me non ama nulla al di fuori di sé, cosi non ama cosa alcuna di grado inferiore al suo, perché ama tutto per sé, e a questo fine è motivato l'amore: non ama dunque le cose per quel che sono in se stesse. Che Dio ami l'anima significa in una certa misura che egli la immette in se stesso, identificandola con sé; cosi Dio ama l'anima in sé e con sé, le porta lo stesso amore con cui egli si ama. Perciò in ogni opera - nella mi­ sura in cui la compie in Dio - l'anima merita l'amore di Dio, perché, elevata a grazia e a questa altezza, merita in ogni opera Dio stesso. E prosegue:

perciò io meritavo in questo favore e grazia che lo sguardo della tua misericor­ dia mi ha fatto quando tu mi guardavi, facendomi gradita ai tuoi occhi e degna di essere vista da te,

1

Giovanni 1, 16.

286

di adorarti con gli occhi miei guardandoti.

È come se dicesse: le facoltà della mia anima, Sposo mio,

che sono gli occhi con i quali puoi essere visto da me, han­ no meritato di alzarsi a guardarti, mentre prima, con l'umil­ tà del loro operare e con le loro risorse naturali, erano chini e bassi; per l'anima poter guardare Dio è agire in grazia di Dio; e così le facoltà dell'anima meritavano di adorarlo per­ ché adoravano in grazia del loro Dio, grazia in cui ogni ope­ ra è meritoria. Adoravano illuminate e sollevate dalla sua favorevole grazia quello che vedevano già in lui, ma non potevano scorgere prima per la loro cecità e bassezza. Co­ s' era quello che vedevano? Vedevano magnificenza di virtù, abbondanza di soavità, bontà immensa, amore e misericor­ dia in Dio, innumerevoli benefici ricevuti da lui, sia quando l'anima era prossima a Dio sia quando non lo era. Tutto questo erano ormai degni di adorare meritatamente gli occhi dell'anima, perché ormai erano graziosi e graditi allo Sposo; prima, invece, non solo non meritavano né di adorare né di guardare, ma non erano nemmeno degni di discernere qual­ cosa di queste proprietà divine, perché è grande la rozzezza e la cecità di un'anima che vive senza la grazia di Dio. Vi sarebbe molto da osservare qui, e molto da deplorare, vedendo quanto è lontana dal compiere il proprio dovere l'anima che non è illuminata dall'amore di Dio. Dovrebbe riconoscere questi e altri innumerevoli favori temporali e spirituali, che ha ricevuto e riceve a ogni passo da lui, e do­ vrebbe adorare e servire incessantemente con tutte le sue facoltà Dio. Invece, non solo non lo fa, ma non merita nep­ pure di guardarlo e di conoscerlo, né di rendersene conto; a tal punto arriva la miseria di coloro che vivono, o per me­ glio dire, sono morti, nel peccato.

PREMESSA ALLA STROFE SUCCESSIVA

Per comprendere meglio quanto si è detto e si dirà, occorre sapere che lo sguardo di Dio produce quattro benefici nel­ l'anima: la purifica, le conferisce grazia, l'arricchisce e l'illu­ mina, come il sole emanando i suoi raggi asciuga, riscalda, abbellisce e rischiara. E una volta che Dio ha posto nell'ani­ ma gli ultimi tre beni, per essi l'anima gli è molto gradita, ed egli non si ricorda mai più della bruttezza e del peccato che prima l'occupava, come afferma per bocca di Ezechie­ le.2 Dopo averle tolto il peccato e la sua bruttezza, mai più glieli rinfaccia, e non cessa più di farle favori, perché egli non giudica due volte una cosa.3 Ma sebbene Dio dimenti­ chi la malvagità del peccato una volta che l'ha perdonato, non per questo conviene all'anima riporre nell'oblio i suoi precedenti peccati. «Non restare senza il timore del peccato perdonato>> ammonisce il Sapiente.4 Per tre motivi: il pri­ mo, per avere sempre occasione di non essere presuntuosa; il secondo, per avere materia di essere sempre grata; il ter­ zo, per avere più fiducia e per riceverne di più. Se stando in peccato ha ricevuto tanto bene da Dio, ora che si trova nel­ l' amore di Dio e fuori dal peccato, quanto più favore potrà aspettarsi? Ricordando poi tutte le misericordie ricevute, e vedendo­ si collocata accanto allo Sposo con tanta dignità, l'anima si rallegra grandemente, con il piacere della gratitudine e del­ l' amore. L'aiuta molto la memoria di quella sua condizione primitiva, cosi vile e cosi brutta, che non solo era indegna 2

Ezechiele 18, 22. 3 Naum 1 , 9· 4 Siracide 5, 5-6.

2.88

dello sguardo di Dio, ma perfino di prenderne il nome in bocca, come egli afferma per mezzo del profeta Davide.' Ri­ conosce che da parte sua non ha, né può avere, alcuna ra­ gione per essere guardata e nobilitata, ma ce l'ha solo da parte di Dio, per la sua bella grazia e per la sua semplice vo­ lontà. Attribuisce a se stessa la miseria e all'Amato tutti i be­ ni che possiede, e vedendo di meritare ormai per essi ciò che prima non meritava, prende coraggio e osa chiedergli la continuazione dell'unione spirituale con Dio, dove tali fa­ vori le si andranno moltiplicando. Tutto ciò lo esprime nel­ la strofe seguente:

' Salmo

15, 5·

STROFE XXXIII

Non disprezzarmi adesso se in me il colore bruno tu hai trovato; ormai puoi ben guardarmi, avendomi guardato, ché grazia in me e bellezza tu hai lasciato.

COMMENTO

La sposa si è fatta coraggio, e apprezza se stessa per i doni avuti dal suo Amato. Sebbene riconosca il proprio basso va­ lore, e di non meritare alcuna stima, sa tuttavia che per i be­ ni di lui merita di essere stimata; osa affrontare l'Amato, e gli dice di non svalutarla e non disprezzarla; se prima non lo meritava per la bruttezza della sua colpa e per la bassezza della sua natura, dopo che egli l'ha guardata, quella prima volta che l'ha adornata con la sua grazia e rivestita della sua bellezza, ormai può ben guardarla una seconda volta, e più volte ancora, accrescendone la grazia e la bellezza. Se l'ha guardata quando non ne era degna né possedeva le qualità necessarie, ora c'è una ragione sufficiente per farlo.

Non disprezzarmi adesso L'anima non dice questo perché vuole essere tenuta in qualche considerazione - del disprezzo e dei vituperi fa anzi grande stima e gioisce l'anima davvero innamorata di Dio, perché riconosce che di suo non merita altro -, lo dice per la grazia e per i doni ricevuti da Dio, come va spiegando:

se in me il colore bruno tu hai trovato; cioè se prima di avermi graziosamente guardato, hai trovato in me la bruttezza e la nerezza della colpa e delle imperfe­ zioni e della bassezza della condizione naturale,

ormai puoi ben guardarmi, avendomi guardato, Avendomi guardato, avendo tolto da me quel colore scuro e sgraziato della colpa, con il quale non ero degna di essere vista, la prima volta che mi hai dato la grazia, ormai puoi ben guardarmi. Ormai io ben posso e merito di essere vedu­ ta, ricevendo più grazia dai tuoi occhi, perché con essi non solo mi hai tolto per la prima volta il colore bruno, ma mi hai reso pure degna di essere veduta; perché con il tuo sguardo amoroso grazia in me e bellezza tu hai lasciato. Quello che ha detto l'anima nei due versi precedenti può spiegare l'espressione di san Giovanni nel Vangelo, che Dio

dà grazia per grazia.1 Quando Dio vede l'anima graziosa ai suoi occhi, ha un forte impulso di darle ancora grazia, poi­ ché dimora in lei a suo pieno gradimento. Mosè sapeva que­ sto quando domandò a Dio più grazia, e lo voleva convince­ re per la grazia ricevuta da lui: «Tu dici di conoscermi per nome, e che ho trovato grazia ai tuoi occhi; ora, se davvero ho trovato grazia al tuo cospetto, mostrami il tuo volto, così che io ti conosca, e trovi grazia ai tuoi occhi».2 Con questa grazia ella è nobilitata, onorata e abbellita al cospetto di Dio, come abbiamo detto, e perciò è da lui amata in modo ineffabile. Se prima che ella stesse in grazia egli l'amava per se stesso, ora che è nella sua grazia l'ama non solo per se stesso, ma anche per amore di lei; e così, innamorato della sua bellezza a causa degli effetti e delle opere di lei, adesso, anche senza questi, egli le va comunicando sempre più amo­ re e favori; e nella misura in cui la onora e l'esalta di più, ne rimane sempre più avvinto, e se ne va sempre più innamo­ rando; ciò che Dio fa capire rivolgendosi all'amico Giacob­ be per bocca di Isaia: «Dacché ai miei occhi sei diventato degno di onore e di gloria, io ti ho amato»;l ovvero: dacché i miei occhi ti hanno dato la grazia col loro sguardo, e tu perciò sei diventato glorioso e degno di onore al mio co­ spetto, hai meritato più grazia di miei favori. In Dio l'amare di più equivale a fare più favori. La sposa dei divini Cantici esprime la stessa cosa, dicendo alle altre anime: «Bruna so­ no, ma bella, figlie di Gerusalemme. E perciò il re mi ha amato, e mi ha fatto entrare nell'intimità del suo letto».4 Vale a dire: anime, voi che non sapete né avete conosciuto l

Giovanni 1, r6.

3

Isaia 43, 4· Cantico r, 4-5 .

2 Esodo 33, 12-13 . 4

nulla di queste grazie, non vi meravigliate che il re celestia­ le me le abbia concesse così grandi da arrivare ad ammetter­ mi nell'intimità del suo amore; sebbene di mio sia bruna, dopo avermi guardato la prima volta, egli ha posato tanto i suoi occhi in me, che non è stato contento finché non mi ha sposata con lui e mi ha portato all'intimo letto del suo amore. Chi potrà dire fino a dove Dio può elevare un'anima quando si compiace di lei? Non si può, e neppure immagi­ narlo; perché in fondo agisce da Dio, per dimostrare chi è. Se ne può solo capire un po' dalla qualità che ha Dio di da­ re di più a chi più ha: egli dona per moltiplicazione, secon­ Jo quanto l'anima possiede prima, come fa capire il Vange­ lo: «A chiunque ha sarà dato di più, fino ad abbondarne; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha».' Così, al servo che non era nelle grazie del padrone fu tolto il denaro pos­ seduto, e venne dato a chi aveva da solo più denaro di tutti gli altri che erano nelle grazie del padrone. 6 I migliori e principali beni della sua casa, cioè della sua Chiesa, sia mili­ tante sia trionfante, Dio li accumula in chi gli è più amico, e lo fa per meglio onorario e glorificarlo, come una luce gran­ de assorbe in sé molte luci piccole; ciò che Dio ha fatto in­ tendere in senso spirituale nel testo ricordato di Isaia, nelle parole rivolte a Giacobbe: «lo sono il Signore tuo Dio, il Santo di Israele, il tuo Salvatore. Ho dato l'Egitto perché tu prosperassi, l'Etiopia e Saba per te, e darò uomini per te, e nazioni per la tua anima».7 Ben puoi, dunque, mio Dio, guardare e apprezzare molto l'anima che guardi, poiché col tuo sguardo riponi in lei pre' Matteo 13, 12 e 2.5, 29. 6 Matteo 2.5, 24·28. 7 Isaia 43, 3-4.

29 3

ziosi pegni d'amore, di cui tu ti pregi e t'innamori; e per questo non una sola, ma molte volte merita di essere guar­ data da te, dopo che l'hai guardata, come lo Spirito Santo dice nel libro di Ester: «Di tale onore è degno colui che il re vuole onorare>>.s

PREMESSA ALLA STROFE SUCCESSIVA

Gli amichevoli doni che lo Sposo fa all'anima in questa con­ dizione, sono inestimabili; e le lodi e le galanterie d'amore divino che molto spesso i due si scambiano, sono ineffabili. Lei si dedica a lodare e a ringraziare lui; lui, a esaltare, a lo­ dare e a ringraziare lei, come si vede nei Cantici: «Guarda che sei bella, amica mia, guarda che sei bella, e i tuoi occhi sono di colomba». E lei risponde: «Guarda che tu sei bello, Amato mio, e grazioso»;9 e molte altre gentilezze e lodi che a ogni passo dei Cantici si dicono l'uno all'altro. E cosi lei nella strofe precedente ha appena finito di disprezzarsi, chia­ mandosi bruna e brutta, e ha lodato lui come bello e grazio­ so, poiché col suo sguardo le ha dato grazia e bellezza; e lui, poiché ha l'abitudine di esaltare chi si umilia, posando su di lei gli occhi come lei gli ha richiesto, in questa strofe si dedi­ ca a lodarla, chiamandola non bruna - come lei si è definita ma bianca colomba, e lodandone le buone qualità che possie­ de come colomba e come tortora. E dice:

s

Ester 6, n. ' Cantico z, z,.z6.

294

STROFE XXXIV

La bianca colombella all'arca con il ramo è ritornata, e già la tortorella il consorte anelato sulle verdi riviere ha ritrovato.

COMMENTO

È lo Sposo a parlare in questa strofe, cantando la purezza

che ormai a questo punto lei possiede, e le ricchezze e il premio che la sua buona disposizione e gli sforzi per venire da lui hanno guadagnato. E canta pure la felice sorte incon­ trata quando ha trovato il suo Sposo in questa unione, e mostra il compimento dei suoi desideri e il ristoro delizioso che prova in lui, terminati ormai i travagli di questa vita e del tempo passato. E dice:

La bianca colombella Egli chiama l'anima bianca colombella per la bianchezza e la purezza ricevute dalla grazia trovata in Dio. La chiama co295

lomba come fa nei Cantici, per designare la semplicità e la mansuetudine dell'indole, e la sua amorosa contemplazio­ ne. La colomba infatti non solo è semplice e mansueta, sen­ za fiele, ma ha pure gli occhi limpidi e amorosi. Proprio per questo, per esprimere questa proprietà di amorosa contem­ plazione con cui guarda Dio, lo Sposo ha detto nei Cantici che ella aveva gli occhi della colomba. Questa, dice, all'arca con il ramo è ritornata, Qui lo Sposo paragona l'anima alla colomba dell'arca di Noè: l'andare e il tornare della colomba all'arca raffigura ciò che è accaduto all'anima in questo caso. Come la colom­ ba andava e veniva all'arca non trovando dove posare la pianta del piede tra le acque del diluvio, finché poi vi tornò con un ramo di ulivo nel becco - in segno della misericor­ dia di Dio, che aveva fatto cessare le acque che tenevano sommersa la terra -, 1 cosi quest'anima, uscita dall'arca del­ l' onnipotenza di Dio quando fu creata, dopo aver errato sulle acque del diluvio dei peccati e delle imperfezioni, non trovando un appoggio per il suo desiderio, andava e veniva per l'aria dell'ansia d'amore verso l'arca del petto del suo creatore, senza riuscire a esservi accolta realmente in modo definitivo; finché, avendo Dio fatto cessare tutte quelle ac­ que di imperfezioni sopra la terra dell'anima, ella è ormai ritornata con il ramo di ulivo, che è la vittoria riportata su tutte le cose, grazie alla clemente misericordia di Dio, a questa felice e definitiva accoglienza nel petto del suo Ama­ to. Non solo vittoriosa su tutti gli avversari, ma premiata · per i suoi meriti: entrambe le cose sono espresse nel ramo di l

Genesi 8, 8-n.

ulivo. E così, la colombella dell'anima non solo ritorna al­ l' arca del suo Dio, bianca e pura come ne era uscita quando fu creata, ma possiede in più il premio del ramo della pace conseguito nella vittoria su se stessa.

e già la tortorella il consorte anelato sulle verdi riviere ha ritrovato. Lo Sposo chiama l'anima tortorella, perché in questa ricerca dello Sposo ha agito come la tortorella quando non trova il consorte anelato. Per comprendere questo passo, bisogna sa­ pere che la tortorella, quando non trova il consorte, non si posa su un ramo verde, né beve l'acqua chiara e fresca, né si ferma sotto l'ombra, né si unisce ad altra compagnia; ma ap­ pena si riunisce con lui, gode già di tutto. L'anima ha tutte queste proprietà, e le deve avere per arrivare all'unione e al congiungimento con lo Sposo, il Figlio di Dio; deve infatti procedere con tanto amore e tanta sollecitudine, da non po· sare il piede del desiderio sul ramo verde di qualche piace­ re; da non voler bere l'acqua chiara di qualche onore o glo­ ria del mondo, né assaggiare quella fredda di qualche refri­ gerio o conforto temporale; da non voler fermarsi all'ombra del favore o della protezione di qualche creatura; senza de­ siderio di riposare per nulla in nulla, né di accompagnarsi ad altri affetti, gemendo nell'isolamento da tutte le cose, fi. no a trovare il suo Sposo con perfetta soddisfazione. E poiché quest'anima, prima di arrivare all'attuale alta condizione, andava con grande amore alla ricerca del suo Amato, di ogni cosa insoddisfatta senza di lui, qui è lo stes­ so Sposo a cantare la fine delle fatiche di lei e il compimen­ to dei suoi desideri, dicendo già la tortorella il consorte ane· 29 7

lato sulle verdi riviere ha ritrovato. Vale a dire: ormai l'ani­ ma sposa si appoggia sul ramo verde, deliziandosi del suo Amato; e beve l'acqua chiara della sublime contemplazione e della conoscenza di Dio, e l'acqua fredda del piacevole re­ frigerio che prova in Dio; e si ferma pure all'ombra del suo favore e del suo riparo tanto anelati, dove è consolata, pasciuta e ristorata saporitamente e divinamente, come lei stessa si rallegra nei Cantici: «All'ombra di colui che anelavo mi sono seduta, e il suo frutto è dolce alla mia �ola».2 PREMESSA ALLA STROFE SUCCESSIVA

Lo Sposo continua a mostrare la sua soddisfazione, per il bene conseguito dalla sposa nella solitudine in cui aveva vo­ luto vivere in passato, che è una pace stabile e un benessere immutabile. Quando l'anima giunge a confermarsi nella quiete dell'unico e solitario amore dello Sposo, come ha fatto questa di cui parliamo, fa presa in modo cosi squisito in Dio, e Dio in lei, che non ha bisogno di altri mezzi né maestri come guide verso Dio, perché è Dio ormai la sua grazia e la sua luce, e in lei adempie la promessa fatta per bocca di Osea: «lo la condurrò nella solitudine e là parlerò al suo cuore».3 Nella solitudine egli si comunica e si uni­ sce all'anima, perché parlarle al cuore vuoi dire soddisfar­ ne il cuore, che non si appaga con meno di Dio. Perciò lo Sposo dice:

2 Cantico 2, 3· 3 Osea 2, 16.

STROFE XXXV

Viveva in solitudine, ha fatto in solitudine il suo nido; la guida in solitudine da solo il suo Amato, d'amore in solitudine ferito.

e

COMMENTO

Due cose fa lo Sposo in questa strofe. In primo luogo elogia la solitudine dove l'anima ha voluto vivere in passato, indi­ cando in essa il mezzo perché ella potesse trovare e godere il suo Amato, isolata da tutte le pene e le fatiche anteriori. Avendo ella voluto sussistere nell'isolamento da ogni gusto, conforto e appoggio delle creature, per raggiungere la com­ pagnia e il vincolo dell'unione con l'Amato, ha meritato di possedere la pace della solitudine nel suo Amato, in cui ri­ posa, lontana e isolata da ogni molestia. In secondo luogo egli dice che, avendo l'anima voluto rimanere isolata da tut­ te le creature, per amore del suo Amato, lui stesso, innamo­ rato di lei per questa sua solitudine, si è preso cura di lei, ac­ cogliendola nelle sue braccia, pascendola in sé di tutti i be299

ni, guidandone lo spirito alle cose alte di Dio. E non solo af­ ferma di essere ormai la sua guida, ma di esserlo da solo, sen­ za altre mediazioni, né di angeli né di uomini né di forme né di figure, in quanto lei, per mezzo di questa solitudine, pos­ siede ormai la vera libertà dello spirito, che non si lega ad al­ cuna di queste mediazioni. E pronuncia il verso:

Viveva in solitudine, La tortorella, che è l'anima, viveva in solitudine prima di trovare l'Amato in quest'unione stabile; l'anima desiderosa di Dio non trova infatti conforto nella compagnia di nessù­ na cosa; e anzi, finché non ha trovato lui, tutto la induce a una maggiore solitudine. e

ha fatto in solitudine il suo nido;

La solitudine dove viveva prima, era voler essere priva di tutte le cose e di tutti i beni del mondo per amore dello Sposo - come abbiamo detto della tortorella - cercando di rendersi perfetta nell'acquisto della perfetta solitudine, in cui si giunge all'unione con il Verbo, e di conseguenza al pieno refrigerio e al pieno riposo: che è qui significato dal nido, che rappresenta il sollievo della quiete. È come se di­ cesse: in quella solitudine in cui viveva prima, sforzandovisi attraverso travagli e angosce, perché non era perfetta, in es­ sa ha posto adesso il suo riposo e refrigerio, perché ha già acquisito la perfetta solitudine in Dio. Ne parla Davide, in senso spirituale: «Il passero si è trovato davvero una casa, e la tortora un nido, dove allevare le sue nidiate»;1 ossia il 1 Salmo 83 , 3·

3 00

luogo di riposo in Dio, dove gli istinti e le facoltà trovano appagamento.

la guida in solitudine Come dire: nella solitudine da tutte le cose, in cui è sola con Dio, egli la guida, la muove e la solleva alle cose divine; guida l'intelletto dell'anima alle cognizioni divine, perché ormai è libero e spoglio da altre idee contrarie e peregrine; e ne muove liberamente la volontà all'amore di Dio, perché è già sola e libera da altre inclinazioni; e ne riempie la me­ moria di indizi divini, perché anch'essa è già sola e svuotata da altre immaginazioni e fantasie. Non appena l'anima sba­ razza queste facoltà e le svuota da quanto è inferiore, e dal­ l' appropriazione di quanto è superiore, !asciandole sole e senza niente di questo, Dio gliele impegna immediatamente in ciò che è invisibile e divino. Ed è Dio stesso a guidarla in questa solitudine; san Paolo definisce perfetti coloro qui spiritu Dei aguntur: «che sono mossi dallo spirito di Dio»;2 ovvero, come qui avviene, li guida in solitudine

da solo il suo Amato, Non solo la guida nella solitudine di lei, ma è lui stesso ad agire da solo in lei, senza alcuna mediazione. Questa è ap­ punto la proprietà dell'unione dell'anima con Dio nel ma­ trimonio spirituale: Dio agisce in lei e le si comunica da so­ lo, non più per mezzo degli angeli, né attraverso le capacità naturali, poiché i sensi esterni e interni, e tutte le cose crea­ te, e perfino l'anima stessa, possono contribuire assai poco a 2 Romani 8, 14.

3 01

ricevere le grandi grazie soprannaturali infuse da Dio a que­ sto punto. Non dipendono dalle capacità e dalle attività na­ turali, né dalla diligenza dell'anima: è lui da solo ad attuarle in lei. La causa, ripeto, è il trovarla da sola; e cosi non le vuoi dare un'altra compagnia, e non ne affida il progresso ad altri che a se stesso da solo. Siccome l'anima ha già la­ sciato tutto ed è passata per tutte le mediazioni, innalzando­ si al di sopra di ogni cosa verso Dio, è cosa conveniente che Dio stesso ne sia la guida e il mezzo per raggiungere pro­ prio lui. Una volta isolata l'anima da tutto e sollevata sopra ogni cosa, di tutto ciò non le giova più nulla, e nulla può servirle per salire più in alto se non il Verbo stesso, il suo Sposo, che è tanto innamorato di lei da volerle fare queste grazie da solo. E aggiunge subito:

d'amore in solitudine ferito. cioè, ferito dall' amore della sposa. Oltre ad amare la solitu­ dine dell'anima, lo Sposo è molto più ferito dall'amore di lei perché ha voluto rimanere sola, isolata da tutte le cose, ferita com'era dall'amore di lui; e perciò egli non ha voluto !asciarla sola, ma, ferito da lei e dalla sua solitudine per amore suo, vedendo che non si contenta di altro, lui solo la guida a se stesso, attraendola e assorbendola in sé. Non lo farebbe se non l'avesse trovata in solitudine spirituale.

PREMESSA ALLA STROFE SUCCESSIVA

È strana questa proprietà degli amanti di preferire il godi­

mento reciproco nella solitudine, isolati da ogni creatura, più che in compagnia. Se stanno insieme, basta la presenza 3 02

di una persona per impedirne il godimento a loro agio, ben­ ché non parlerebbero o agirebbero diversamente di nasco­ sto da lei o in sua presenza, o sebbene la persona estranea non dica né faccia nulla. La ragione è che l'amore è unità di due soltanto, e da soli gli amanti si vogliono comunicare. Sollevata l'anima a questa cima della perfezione e della li­ bertà di spirito in Dio, cessate tutte le resistenze e le ribel­ lioni della sensualità, essa non ha ormai altro a cui attende­ re, né altra attività in cui impegnarsi, se non l'abbandonarsi alle delizie e alle gioie dell'intimo amore con lo Sposo, co­ me si dice del santo Tobia nel suo libro che, dopo essere passato per i travagli della sua povertà e delle tentazioni, fu illuminato da Dio e trascorse tutto il resto dei suoi giorni nella gioia.} Così accade ora all'anima di cui stiamo parlan­ do: i beni che vede in sé le sono di somma gioia e di grande diletto; come fa intendere Isaia dell'anima, esercitatasi nelle opere della perfezione, che è arrivata a questo culmine. Rivolgendosi all'anima perfetta, Isaia dice: «Allora nasce­ rà fra le tenebre la tua luce, e le tue tenebre saranno come il mezzogiorno. E il Signore ti darà riposo per sempre, e ti riempirà di splendori l'anima, e libererà le tue ossa, e sarai come un orto irrigato e come una sorgente le cui acque non verranno meno. In te verranno edificate le solitudini dei se­ coli, e i principi e fondamenti risusciterai di generazione in generazione, e sarai chiamato costruttore di siepi, poiché separi i tuoi sentieri e i tuoi viottoli nella quiete. Se separe­ rai il tuo sforzo dal riposo, e dal fare la tua volontà nel mio santo giorno, se lo chiamerai riposo delicato, santo e glorio­ so del Signore, e lo glorificherai non mettendoti in cammi­ no e non compiendo la tua volontà, allora troverai la delizia ' Tobia 14, 4-

nel Signore, e ti solleverò sopra le alture della terra, e ti pa­ scerò nell'eredità di Giacobbe».4 Fin qui le parole di Isaia, dove "l'eredità di Giacobbe" è Dio stesso. Perciò quest'ani­ ma non bada ormai ad altro, come abbiamo detto, che a go­ dere continuamente le delizie di questo pascolo. Una sola cosa le resta da desiderare, il goderne perfettamente nella vita eterna; e quindi in questa strofe e nelle rimanenti si de­ dica a chiedere all'Amato questo pascolo beatifico nella vi­ sione manifesta di Dio. E dice:

4

Isaia 58, 10·14.

STROFE XXXVI

Godiamoci, mio Amato, e a rispecchiarci nella tua bellezza andiamo al monte, al colle, dove esce l'acqua pura; entriamo ancora più nel bosco folto.

COMMENTO

Siccome la perfetta unione amorosa tra l'anima e Dio è compiuta, l'anima vuole dedicarsi a esercitare le proprietà dell'amore. È lei a parlare in questa strofe con lo Sposo, do­ mandandogli tre cose che sono proprie dell'amore. Come prima, desidera ricevere il godimento e il sapore dell'amo­ re, con le parole: Godiamoci, mio Amato; la seconda è che desidera diventare simile all'Amato e lo chiede quando di­ ce: e a rispecchiarci nella tua bellezza andiamo al monte, al colle; e come terza vuole indagare e conoscere le cose e i se­ greti dello stesso Amato, dicendo: entriamo ancora più nel bosco folto. Segue il verso:

Godiamoci, mio Amato,

cioè, scambiandoci la dolcezza dell'amore, non solo quella posseduta nella congiunzione e unione di noi due, ma quel­ la che risulta ora dall'esercizio effettivo e attuale dell'ama­ re, con la volontà che agisce affettivamente, ora da quello esteriore, facendo opere appartenenti al servizio dell'Ama­ to. Questo è proprio dell'amore quando mette radici, il de­ siderio di continuare ad assaporare le sue dolcezze e gioie, che sono l'esperienza interiore ed esteriore dell'amore; e tutto, come abbiamo detto, per diventare più simile al­ l' Amato. Aggiunge subito:

e a rispecchiarci nella tua bellezza come a dire: facciamo in modo che, per mezzo di questa esperienza amorosa, giungiamo a rispecchiarci nella tua bel­ lezza nella vita eterna. Ovvero: io sia talmente trasformata nella tua bellezza, che, essendo una tua simile in bellezza, ci vediamo entrambi nella tua bellezza, avendo già la tua stes­ sa bellezza. In modo che, guardandoci l'un l'altro, ciascuno veda nell'altro la propria bellezza, essendo quella dell'uno e quella dell'altro la tua sola bellezza, assorbita io nella tua bellezza. E così ti vedrò io nella tua bellezza, e tu vedrai me nella tua bellezza, e io mi vedrò in te nella tua bellezza, e tu ti vedrai in me nella tua bellezza. E così, possa io sembrare te nella tua bellezza, e tu sembrare me nella tua bellezza, e la mia bellezza sia la tua bellezza, e la tua bellezza sia la mia bellezza; e così io sarò te nella tua bellezza, e tu sarai me nella tua bellezza, perché la tua stessa bellezza sarà la mia bellezza. E così ci vedremo l'un l'altro nella tua bellezza. Questa è l'adozione dei figli di Dio, i quali diranno dav­ vero a Dio ciò che lo stesso Figlio disse all'eterno Padre per bocca di san Giovanni: «Tutte le cose mie sono tue e tutte

le cose tue sono mie».1 Le sue lo sono per essenza, perché è suo figlio per natura; le nostre lo sono per partecipazione, perché siamo figli adottivi. Egli l'ha detto non solo per sé, che è il capo, ma per l'intero suo corpo mistico, che è la Chiesa. Essa parteciperà della stessa bellezza dello Sposo il giorno del suo trionfo: .ciò sarà quando essa sarà con Dio faccia a faccia. Per questo l'anima chiede qui: a rispecchiarci nella tua bellezza

andiamo al monte, al colle, cioè all'esperienza mattutina ed essenziale di Dio, che è co­ noscenza nel Verbo divino, simboleggiato qui dal monte per l'altezza, come dice Isaia incitando a conoscere il Figlio di Dio: «Venite e saliamo sul monte del Signore»;2 e altrove: