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Italian Pages 216 Year 2006
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L’orizzonte della filosofia collana diretta da Romano Romani
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ALDO GIORGIO GARGANI - BRIAN McGUINNESS RUDOLF HALLER - DAVID PEARS ANTONIA SOULEZ
DIALOGO SU WITTGENSTEIN
a cura di Aldo Giorgio Gargani
CADMO
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Questo volume è stato pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi di Siena.
I saggi di David Pears e Brian McGuinness sono tradotti da Debora Maccanti ; il saggio di Rudolf Haller è tradotto da Leonardo Scarfò ; il saggio di Antonia Soulez è tradotto da Mariangela Priarolo.
Cura editoriale di Aldo Giorgio Gargani e Cecilia Rofena.
© 2006 Edizioni Cadmo Via Benedetto da Maiano, 3 c.p. 27 - 50014 Fiesole (Firenze) Tel. +39 055 50181 Fax +39 055 5018201 http://www.cadmo.com [email protected] isbn 88-7923-357-2
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nota editoriale
I problemi e gli argomenti contenuti nei saggi raccolti in questo volume – arricchito da un’ampia introduzione di carattere storico – sono stati esposti e discussi nel convegno in onore di Brian (Bernard) Francis McGuinness, che si è svolto il 10 maggio 2001 nella Certosa di Pontignano dell’Università degli Studi di Siena.
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INTRODUZIONE b.f. mcguinness e la filosofia britannica contemporanea
La ricerca svolta da B.F. McGuinness sull’opera di Wittgenstein, oltre ad averne illuminato i più diversi aspetti – dalla ricostruzione biografica1 alla ricerca sul Nachlass wittgensteiniano, dall’analisi delle dottrine logiche e matematiche all’indagine sul linguaggio ordinario, dalle tematiche eticoreligiose fino al confronto complesso e articolato con la dottrina psicoanalitica di Freud –, ha anche il merito di aver anticipato e presagito alcune delle linee e delle strategie interpretative che oggi, nel dibattito in corso, si confrontano sull’opera del filosofo austriaco, e che particolarmente sono emerse nei dibattiti dei convegni svolti nel 2001 in Austria, Francia e Italia, in occasione del cinquantenario della morte di Wittgenstein, in rapporto anche alla proposta interpretativa collettiva di un gruppo di filosofi americani, quali Stanley Cavell, James Conant, Cora Diamond ed altri nel volume The New Wittgenstein, destinata a rovesciare l’interpretazione standard dell’ « indicibile » e del « mistico » nel Tractatus logico-philosophicus, abolendo la tradizionale distinzione fra un mero nonsenso e un « illuminating nonsense » e introducendo al suo posto la nozione di un « austere nonsense ».2 Dalle analisi qui presentate nei testi di Rudolf Haller, David Pears, Antonia Soulez e di chi scrive, in occasione di un convegno sull’opera di B.F. McGuinness promosso e organizzato dai colleghi Romano Romani e Alberto Olivetti presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Siena nel maggio del 2001, risulta come egli abbia colto con lucidità e al tem1 Wittgenstein: A Life. Young Ludwig, 1889-1921, Duckwort, London 1988 ; trad.it. di R. Bini,Wittgenstein. Il giovane Ludwig (1889-1921), Il Saggiatore, Milano 1990. 2 A. Crary e R. Read (a cura di), The New Wittgenstein, Routledge, London e New York, 2000.
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po stesso con coraggio e spregiudicatezza intellettuale gli aspetti decisivi dell’opera del filosofo austriaco e segnatamente del Tractatus logico-philosophicus. B.F. McGuinness per primo ha svincolato l’intero impianto del Tractatus da pregiudizi o assunzioni di tipo ontologico-metafisico non solo nel senso tradizionale, diretto e primario, di un’intuizione o visione metafisica realista, ma anche nel senso indiretto e secondario di una teoria o dottrina del linguaggio quale matrice di un’ontologia realista derivata e marginale. McGuinness ha riconsegnato l’opera di Wittgenstein a quella che era la sua ispirazione originaria fondamentale, e cioè alla logica intesa come spazio di tutto ciò che è pensabile, come repertorio delle possibilità di significanza di tutti i nostri proferimenti linguistici. Quando McGuinness osserva che per sapere a quali oggetti noi ci riferiamo, quando parliamo, occorre intenderli, dirli, ossia asserirli nel contesto di enunciati (fregeianamente assunti come le unità minime di significato), quando, ancora, McGuinness osserva che non c’è alcuna proposizione da capire fintantoché non c’è la comprensione di una proposizione, egli ci fornisce uno straordinario contributo alla comprensione dell’opera di Wittgenstein, ma al tempo stesso egli ci trasmette una lezione essenziale che costituisce il requisito dell’analisi logica del linguaggio e delle sue applicazioni. Brian Francis McGuinness, professore al Queen’s College di Oxford, e in anni recenti professore al Dipartimento di Filosofia dell’Università di Siena, tra i più noti e autorevoli studiosi di Wittgenstein, si inserisce in quell’irrepetibile stagione di studi e di ricerche di cui Oxford fu la protagonista tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta sotto l’impulso rigeneratore della filosofia che proveniva dalla penetrazione della logica di Cambridge e dell’epistemologia del « Circolo di Vienna » e che doveva portare, con il cambio generazionale dopo la seconda guerra mondiale, alla sconfitta dell’idealismo, ad un lavoro filosofico rigoroso centrato sull’analisi del linguaggio e sulla ricerca logica. In quegli anni Oxford, in cui fare uno stage doveva diventare parte del « cursus honorum » per i filosofi americani, offriva le migliori opportunità per lo studio del Tractatus logico-philosophicus. Gilbert Ryle svolgeva sull’opera di Wittgenstein un corso per dottorandi, divenuto famoso, che egli adottava come una vera e
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propria introduzione allo studio della filosofia. McGuinness ricorda 3 come piccoli gruppi di giovani studiosi, tra i quali David Pears, Mary Warnock, Marcus Dick, Elizabeth Anscombe e altri si incontravano per leggere e commentare insieme il Tractatus. Qualcosa del genere era accaduto a Vienna circa vent’anni prima ad opera di un gruppo di matematici e fisici che dovevano dare origine al « Wiener Kreis » e alla più autorevole scuola di filosofia della scienza, mentre a Oxford e a Cambridge l’opera di Wittgenstein doveva ispirare una filosofia impegnata sull’analisi del linguaggio ordinario. L’opera di McGuinness, illustrata in questo volume dai saggi di studiosi come David Pears dell’Università di Oxford, da Rudolf Haller dell’Università di Graz, da Antonia Soulez dell’Università di Parigi e infine da chi scrive, da un lato restituisce il lettore a quella preziosa atmosfera di ricerca che è stata la filosofia oxoniense, dall’altro fornisce un contributo analitico decisivo per la comprensione dell’opera di Ludwig Wittgenstein. Nonostante, infatti, il « linguistic turn » che ha caratterizzato la filosofia anglosassone a partire dal secondo dopoguerra, hanno pesato a lungo, in particolare sull’interpretazione del Tractatus, letture ancora condizionate da presupposti metafisici, da assunti improntati ad una ontologia realista che prescindevano dalla radicale dimensione di linguisticità secondo la quale Wittgenstein filtrava i problemi filosofici. E qui risiede l’importanza della ricerca di McGuinness e del tema centrale che egli affronta : la raffigurazione e la forma degli enunciati che rappresentano quella costellazione di fatti in cui consiste il mondo. Le proposizioni nel Tractatus sono combinazioni di nomi che nella loro connessione raffigurano i fatti che, a loro volta, sono combinazioni di oggetti. Ma come i nomi di questi oggetti non hanno significato al di fuori del contesto proposizionale (come abbiamo visto, secondo la grande lezione di Frege), così gli oggetti non sono individuabili e conoscibili al di fuori del fatto espresso dall’enunciato. Contro Russell (contro colui che era stato il suo maestro) e la sua teoria del giudizio delineata nella Theory of Knowledge (1913), basata su oggetti logici preesi3 B.F. McGuinness, Raffigurazione e forma nel Tractatus di Wittgenstein, tr. italiana di A. Gianquinto, Edizioni Cadmo, Firenze 2001.
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stenti come forme ideali platoniche, Wittgenstein rivendicava l’immanenza del simbolismo linguistico ; « la proposizione rappresenta il fatto di proprio pugno (auf eigene Faust) ». Conseguentemente nei confronti delle interpretazioni in chiave realista degli oggetti del Tractatus, McGuinness rileva che per sapere a quali oggetti le proposizioni si riferiscono occorre proferire un enunciato, occorre intenderlo, cioè dirlo in quanto è la logica del simbolismo linguistico che dischiude l’orizzonte del senso e del dicibile ; così come non c’è nessuna proposizione da capire finché non c’è la comprensione di una proposizione. In questo senso, osserva McGuinness, Wittgenstein converte il lavoro filosofico nella logica, la quale è forma della raffigurazione, ossia è lo spazio di tutte le possibilità. Alla logica così concepita e rifondata nel Tractatus si connette l’etica, che per quanto indicibile e consegnata al mistico, manifesta l’atteggiamento dell’uomo di buona volontà (guten Wollens), decente (anständig), il quale accetta il mondo come un tutto, come una totalità indivisa, come l’insieme delle sue possibilità. L’opera di B.F. McGuinness è scaturita da, e ha poi a sua volta contribuito alla straordinaria fioritura filosofica di Oxford in particolare negli anni Cinquanta e Sessanta che si manifesta nel « linguistic turn », ossia nella svolta linguistica del lavoro filosofico. Nel corso degli anni Sessanta, appunto, io ebbi la fortuna di trascorrere un lungo periodo di studio e di ricerca presso « The Queen’s College » a Oxford, nella High Street, ed ebbi l’opportunità di poter lavorare sotto la guida di B.F. McGuinness che divenne così il mio tutore. Fu una impareggiabile lezione di rigore e di disciplina sui testi di Wittgenstein e di altri esponenti della filosofica analitica inglese. Ogni settimana, durante i terms, mi recavo nello studio di Brian, e fu lui a mettermi in contatto con altri studiosi di Oxford, fra i quali ricordo in particolare Gilbert Ryle, Alfred Julius Ayer, Lorenzo Minio-Paluello, David Pears, Michael Dummett, Richard Walzer. Al di là delle personalità ovviamente diverse di questi studiosi, riconoscevo in loro un tratto comune che potrei riassumere nei termini di etica della ricerca, di straordinaria applicazione nello studio, di varietà e ricchezza di informazione e anche di immense competenze linguistiche. C’erano anche in quella vibrante e vivida atmosfera oxoniense l’impegno, l’abito e la
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consuetudine verso la dimensione quantitativa e lo sforzo del lavoro da svolgere. Da una settimana all’altra bisognava leggere e commentare criticamente una serie di testi impegnativi. Ma ecco anche la controtendenza, ossia l’invito, la suggestione a non chiudersi nell’àmbito del sapere specialistico. Brian era un luminoso testimone di questa attitudine, studioso di filosofia e di logica, lasciava trasparire una cultura letteraria e umanistica eccezionalmente ampia. Ricordo, una volta al Queen’s, davanti agli scaffali della sua biblioteca, gli domandai : « Lei ha imparato l’arabo ? », e Brian : « sì, per leggere il Corano ». E poi l’audizione di canti della Divina Commedia nell’originale e molto altro. Ad un mio collega italiano, insieme a me a Oxford, un filologo classico che stava preparando una PhD sulla gnosi, su Basilide e Valentino, Edward Fraenkel e Arnaldo Momigliano a turno raccomandavano sempre : « lavori alla sua dissertazione tre, quattro ore al giorno, ma il resto del tempo lo dedichi a leggere Shakespeare, Milton, Jane Austen ! ». La mia straordinaria impressione dell’ambiente e dell’atmosfera di Oxford nasceva dalla insolita combinazione, mai prima esperita, del robusto senso di una tradizione culturale secolare, alta e istituzionalizzata, con la trasmissione di messaggi culturali e filosofici che erano radicalmente innovativi e intellettualmente spregiudicati. Era questa costellazione di valori che affascinava, era Oxford. A Cambridge Wittgenstein aveva rifondato l’intero lavoro filosofico ab imis fundamentis, ma subito dopo di lui a Oxford, in The Concept of Mind, Ryle aveva demolito il mito filosofico del dualismo cartesiano fra mente e corpo (e non è un caso che un eminente studioso come Daniel Dennett sia stato allievo a Oxford di Gilbert Ryle) e J.L. Austin aveva condotto un demolition job nei confronti della tradizionale concezione secondo la quale il linguaggio avrebbe una funzione fondamentalmente descrittiva. Se il « Wiener Kreis » all’inizio degli anni Trenta aveva formulato in termini sistematici e rigorosi e attraverso procedure logiche sofisticate una nuova epistemologia fondata su un apparato sintattico formalizzato, la filosofia che fiorì circa vent’anni dopo a Oxford e che doveva poi estendersi anche a Cambridge, si fondava invece sul ribaltamento delle linee programmatiche del neopositivismo logico. Sulla scorta dell’insegnamento e
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delle opere del secondo Wittgenstein, ma anche per ragioni culturali che erano indipendenti da Wittgenstein, come solevano ricordare sia Ryle sia Austin, Oxford sviluppò un nuovo tipo di analisi e di grammatica filosofica che respingeva qualunque approccio teorico sistematico al linguaggio e che, proprio al contrario, metteva in risalto la varietà indefinibile degli usi e delle applicazioni del linguaggio. Contro i neopositivisti e contro posizioni quali quella di A.J. Ayer, professore allo University College di Londra, autore del celebre e autorevole Language, Truth and Logic considerato negli anni Trenta e Quaranta la Bibbia del neopositivismo logico in Gran Bretagna, gli analisti di Oxford impegnavano le loro ricerche su settori delimitati del linguaggio, entro i confini di una categorizzazione segnata dalle differenti aree delle applicazioni linguistiche. La logica formale non costitutiva più l’unico ed esclusivo organo di legittimazione e di normalizzazione del linguaggio in quanto la sua area di applicazione risultava confinata a settori delimitati delle classi delle espressioni linguistiche. Alla terminologia filosofica dell’empirismo classico e al vocabolario tradizionale delle idee si veniva sostituendo una grammatica filosofica centrata sull’analisi informale dei differenti settori degli usi linguistici. È in questo contesto culturale e filosofico che si forma l’opera di B.F. McGuinness e in vista di una sua adeguata comprensione, ritengo sia opportuno delineare un quadro complessivo della cultura filosofica di Oxford e di Cambridge a partire dalla riscossa del logicismo nei confronti dell’egemonia idealista, fino alla formazione delle scuole di filosofia del linguaggio. 1. Gli intellettuali di Cambridge e la rivolta contro la tradizione Quantunque la filosofia o moral science, come più ufficialmente veniva chiamata, fosse divenuta a Cambridge tra la fine del secolo scorso e il principio del nostro « l’affare di un gruppo molto ristretto di specialisti »,4 essa doveva non4 Cfr. C.D. Broad, The Local Historical Background of Contemporary Cambridge Philosophy, in British Philosophy in the Mid-Century, a cura di C.A. Mace, London 1957, p. 14.
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dimeno risultare lo specchio fedele di quella situazione di vivace dibattito culturale e di quell’imponente processo di trasformazione della società britannica che movimentano l’ultimo decennio dell’Ottocento, ossia il corso di quegli anni che per la generale instabilità che sopravvenne nella vita pubblica, nelle relazioni sociali, nel costume, nella religione, nella cultura, dentro e fuori l’Università, furono anche soprannominati « gli impertinenti anni ’90 ».5 In questo scorcio di secolo doveva entrare in crisi l’immagine di quella società compatta e armonica che per quarant’anni era stata il modello dell’epoca vittoriana. Nel periodo della curva ascendente della prosperità economica e dell’apogeo dell’imperialismo britannico che « trovava se stesso », il concorso di profonde trasformazioni della società civile, – la formazione di nuove forze sociali, lo sviluppo dei conflitti tra capitale e lavoro, il rafforzamento della middle class che progressivamente sottraeva alla classe politica e alla Chiesa anglicana funzioni direttive nell’amministrazione della vita pubblica, che risultava così laicizzata e decentrata – divenne responsabile di quel processo di articolazione del tessuto sociale da cui doveva uscire profondamente modificata la compatta struttura sociale dell’Inghilterra dell’età vittoriana. Questo processo di trasformazione stendeva i suoi tentacoli un po’ su tutti gli aspetti della vita inglese e si rifletteva sul piano del costume religioso nella decadenza dell’unità evangelica che aveva caratterizzato i decenni precedenti, e nella crisi delle stesse chiese dissidenti o non-conformiste che erano state indotte a unificarsi nel 1893 nel National Council of the Evangelical Free Churches. La diffusione dell’istruzione pubblica aveva finito per trasformare la mentalità del cittadino britannico medio, inducendolo ad atteggiamenti più spregiudicati nei confronti delle norme morali e sociali sui quali si era modellata l’ideologia della società vittoriana.6 La diffusione della cultura scientifica e particolarmente dell’evoluzionismo darwiniano, anche a livello della pubblicistica popolare, aveva insinuato un certo scetticismo nei confronti delle prediche proferite la domenica dal pulpito ; l’ortodossia 5
Cfr. R.C.K. Ensor, England 1870-1914, Oxford 1960, p. 304. Cfr. C.F. Garbett, In an Age of Revolution, Harmondsworth 1956, pp. 50 sgg. 6
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verso la Chiesa Nazionale Inglese diventava un atteggiamento tanto più insostenibile quanto più risultava inconciliabile con l’abito razionalistico espresso dalla cultura scientifica che si andava diffondendo al di fuori delle Università e dei circoli di specialisti. Anche negli ambienti accademici entrava in crisi l’unità evangelica ; a partire dal penultimo decennio del secolo XIX doveva fortemente decrescere il numero degli intellettuali che usciti dalle università di Cambridge e di Oxford prendevano gli ordini anglicani. In tale periodo cominciarono ad affermarsi, in concomitanza al moltiplicarsi delle carriere nell’amministrazione statale e civile, nel campo dell’educazione, della ricerca scientifico-tecnica, i diritti ad entrare nelle due antiche cittadelle universitarie anche per coloro che, fossero studenti o insegnanti, per il fatto di essere cattolici o dissidenti ne erano stati esclusi attraverso il controllo esercitato sulle convinzioni religiose, e che fino allora avevano dovuto rifugiarsi nella più recente Università di Londra. I nuovi atteggiamenti della comunità che mettevano in questione le ortodossie dominanti e che rifiutavano quella sorta di divina sanzione che la Chiesa anglicana aveva accordato al codice pratico rigido, conformista dell’epoca vittoriana, trovavano il proprio riflesso in una letteratura narrativa che esprimeva l’immagine di un’umanità assai differente da quella consolidata intorno alla metà del secolo. In Erewhon (1872) e The Way of all Flesh (1903), Samuel Butler attaccava il conformismo dispotico e violento dei modelli vittoriani della religione, della società, della morale e dell’educazione. Il codice pratico dell’età vittoriana doveva diventare il bersaglio critico della letteratura inglese tra la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento ; Virginia Woolf e E.M. Forster rifiutavano quelli che ne erano stati i simboli ufficiali, i valori pubblici : ricchezza, prestigio sociale, rispettabilità. Alle convenzioni pratiche consolidate entro un tipo di educazione rigida e autoritaria, questi scrittori contrapponevano una mobilità di scelte pratiche e un sistema di valori alternativi che dovevano essere disponibili a ciascun individuo. Ma V. Woolf e E.M. Forster venivano esprimendo, in realtà, mentalità, scelte e modelli di condotta che erano significativi degli atteggiamenti di alcuni gruppi e circoli di intellettuali che operavano a Cambridge nei primi anni del ’900. Al prin-
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cipio del secolo Cambridge offriva l’immagine di un ambiente di scienziati, filosofi, storici, economisti, matematici, scrittori che mentre istruivano un processo di revisione critica del patrimonio culturale dell’età vittoriana, di una tradizione che recava molti contrassegni delle correnti del romanticismo dei primi decenni del secolo precedente, si slanciavano in una serie di nuove coraggiose esperienze intellettuali dalle quali doveva uscire profondamente modificata la fisionomia della cultura inglese contemporanea. La generazione degli intellettuali di Cambridge al principio del secolo doveva fare di una cittadella universitaria la « sintesi dell’Inghilterra ». Un ambiente culturale definito da un abito di irrequietezza critica, dall’aspirazione a nuove misure di chiarezza e di penetrazione intellettuale, dalla preferenza accordata al metodo della libera discussione, anche se non prometteva esiti conclusivi, anziché al consolidamento e alla cristallizzazione di risultati ottenuti al di fuori del controllo offerto dal confronto e dal dibattito: in un ambiente così formato si sviluppò al principio del secolo la scuola analitica di Cambridge. 2. La Scuola di Cambridge e la critica dell’idealismo assoluto L’opera di G.E. Moore, che doveva influenzare più di ogni altra la filosofia britannica per mezzo secolo, quella di Bertrand Russell, di C.D. Broad e di altri costituiva la traduzione, entro il linguaggio generalizzato delle teorie filosofiche, dei nuovi bisogni, delle svolte che avevano luogo sul piano dottrinale e su quello pratico in un’epoca di profonde trasformazioni e di grandi attese. Se tale scuola, nella sua fisionomia complessiva, si esprimeva prevalentemente nell’elaborazione di un nuovo metodo o, meglio, di nuovi metodi di analisi e di critica del discorso filosofico, anziché nel dispiegamento delle strutture di un nuovo sistema di verità assunte in maniera definitiva, ciò corrispondeva all’impegno secondo il quale la scuola di Cambridge veniva atteggiando il discorso filosofico in funzione critica nei confronti di quell’ormai esausta tradizione filosofico-culturale romantica, impersonata in Inghilterra dalla scuola dell’idealismo assoluto o metafisico di T.H. Green, F.H. Bradley, B. Bosanquet, J. McTaggart, che aveva dominato il panorama della cultura
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filosofica inglese degli ultimi decenni del secolo XIX. Nelle forme di uno splendore oratorio che risultava più spesso al servizio dell’esibizione del talento che non del rigore dell’argomentazione, e che doveva sopperire alle carenze del metodo dimostrativo, gli idealisti inglesi, in costante polemica con il Senso Comune e con gli interessi e i programmi delle scienze considerati frammentari e parziali, avevano definito un sistema filosofico nel quale venivano stabilite conclusioni definitive sulla Realtà assoluta nella sua totalità e nella sua interna struttura. Respingendo i modelli provvisori, in costruzione, forniti dall’indagine scientifica, dalla ricerca sperimentale, Bradley aveva introdotto lo schema metafisico di una realtà assoluta in cui non sussisteva quella pluralità di oggetti che era imputabile soltanto al gioco delle apparenze di cui è vittima la coscienza comune; uno schema metafisico della realtà in cui svanivano tutte le distinzioni e in cui non avevano cittadinanza i concetti di relazione.7 Lo schema concettuale della relazione era insostenibile secondo Bradley, dal momento che la relazione presuppone termini con i quali essa stessa deve stabilire un ulteriore rapporto, l’istituzione del quale rinvia però ad un procedimento ad infinitum. Contraddittori e irreali risultavano pertanto il Tempo e lo Spazio in quanto relazioni tra grandezze. Al di là del gioco delle apparenze in cui si risolve il mondo delle relazioni spazio-temporali, gli idealisti inglesi delineavano il modulo metafisico, altamente astratto, di un universo monistico, sovrarelazionale : « a me sembra che la realtà ultima sia sovrarelazionale. Noi la scopriamo anzitutto al di sotto delle relazioni, e anche se le relazioni sono necessarie al suo sviluppo, esse non possono nondimeno esser legittimamente predicate dell’unità originaria ».8 Lo schema metafisico di una realtà assoluta in cui svanivano tutte le relazioni tra termini distinti e indipendenti costituiva il tema centrale dell’idealismo inglese; la significativa riduzione degli oggetti e delle entità finite nel flusso di una realtà infinita era il contrassegno dell’eredità romantica sotto il quale si iscriveva la scuo-
7 Cfr. H. Bradley, The Principles of Logic, London 1883, 10-14, 525 sgg. ; Id., Appearance and Reality, London 1893, 33-34, pp. 144 sgg. 8 H. Bradley Essays on Truth and Reality, Oxford 1914, p. 239.
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la idealista inglese.9 Il complesso atteggiamento di rivolta espresso dalla nuova generazione dei filosofi di Cambridge non investiva soltanto la corrente dell’idealismo assoluto, ma finiva per coinvolgere più in generale le dottrine filosofiche di stampo metafisico. I grandi sistemi basati su astrazioni suscitavano, come doveva dire Broad, una sorta di « scetticismo istintivo ».10 Si trattava anzitutto di respingere un certo stile di filosofare incontrollato, confuso, talvolta oracolare, sostenuto più dall’immaginazione che da procedure argomentative razionali e controllate. L’elaborazione di modelli analitici del discorso filosofico, anziché la costruzione di sistemi speculativi, rappresenta la direzione in cui si espresse il lavoro filosofico svolto dalla Scuola di Cambridge. Una scuola che non si presta ad essere definita sotto il segno di una comune visione o rappresentazione complessiva della realtà e nemmeno sotto lo schema di una tecnica metodica univoca condivisa dai suoi esponenti. L’unità delle fisionomie culturali di Moore, Russell, Broad, Ramsey va piuttosto ricercata nell’atteggiamento con il quale costoro si posero di fronte al lavoro filosofico che non doveva essere destinato alla costruzione di teorie speculative, modellate sulla base di un’intuizione privilegiata della realtà, ma alla elaborazione accurata e controllata di modelli di analisi linguistico-concettuale delle proposizioni del Senso Comune, della filosofia e delle scienze. G.E. Moore riconosceva che a muoverlo alla ricerca erano state unicamente le asserzioni dei filosofi sulla realtà e sulla scienza : « non credo che il mondo o le scienze avrebbero mai suscitato in me dei problemi filosofici ; ciò che li ha suscitati sono state invece le affermazioni che gli altri filosofi hanno fatto sul mondo o sulle scienze. A molti problemi sollevati in questa maniera sono stato (e sono tuttora) vivamente interessato; essi sono di due tipi : il primo consiste nel cercar di rendere chiaro il significato delle proposizioni enunciate dai filosofi ; il secondo nello scoprire quali 9 Cfr. B. Bosanquet, The Principle of Individuality and Value, London 1912, p. 27 ; Id., Science and Philosophy, London 1927, pp. 104, 142, 428 ; Id., Life and Philosophy, in « Contemporary British Philosophy », a cura di I.H. Muirhead, iª serie, London 1924, p. 72. 10 C.D. Broad, Critical and Speculative Philosophy, in Contemporary British Philosophy, cit., p. 79.
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ragioni realmente soddisfacenti vi siano per supporre che quelle proposizioni sono vere o false ».11 La dimensione critica, analitica, la componente metodologica del lavoro filosofico svolto dalla Scuola di Cambridge nasceva dunque nel mezzo di una polemica condotta nei confronti del monismo metafisico dell’idealismo assoluto e più in generale nei confronti di qualsiasi modulo di discorso filosofico incontrollato. La filosofia cessava di occupare quel posto privilegiato nella gerarchia delle scienze che le avevano accordato una lunga tradizione filosofica e da ultimo l’idealismo metafisico.12 Il discorso filosofico, al quale non competeva più la funzione di legittimare le varie forme del sapere scientifico, né quella di fornire gli strumenti concettuali per il reperimento di nuovi fatti, risultava ora impegnata fondamentalmente in un compito di analisi e di chiarificazione concettuale. L’indagine filosofica destinata al controllo degli schemi concettuali e delle categorie di impiego del linguaggio nell’uso comune, come in quello tecnico, specialistico, risultava così dispensata, nel programma dei filosofi di Cambridge, da impegni di tipo ontologico. Questo atteggiamento metteva in grado Moore, Russell, Broad di restaurare i diritti del Senso Comune e la piena autonomia delle singole discipline scientifiche : « Bradley – scriveva Russell – aveva sostenuto che qualsiasi cosa in cui crede il Senso Comune è mera apparenza; noi passammo all’estremo opposto, e pensammo che è reale ogni cosa che il Senso Comune, non influenzato dalla filosofia e dalla religione, suppone che sia reale. Con il senso di fuggire da una prigione, ci permettemmo di pensare che l’erba è verde, che il sole e le stelle esisterebbero anche se nessuno fosse consapevole di essi, e che c’è un mondo pluralistico a-temporale di idee platoniche. Il mondo che era stato sino allora sottile e logico, improvvisamente diventò ricco, vario e solido. La matematica avrebbe potuto essere completamente vera, e non semplicemente uno stadio della dialet-
11 An Autobiography, in The Philosophy of G. E. Moore, a cura di P.A. Schilpp, New York 1952, p.14. 12 Cfr. per esempio, B. Bosanquet, Science and Philosophy, cit., p. 142 ; J.E. McTaggart, Philosophical Studies, London 1934, p. 277.
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tica ».13 Rifiutando qualsiasi programma speculativo riduttivo, i filosofi della Scuola di Cambridge si mostravano inclini ad un concetto di esperienza aperta e molteplice. La filosofia come metodo dell’analisi concettuale e come tecnica di accertamento degli enunciati, includeva la tolleranza teorica delle indefinite variabili dell’esperienza comune. Ma essa doveva anche diventare nelle mani di Russell, di Moore, di Broad, di Wittgenstein un potente strumento di critica della tradizione culturale e filosofica. L’interesse che essi accesero sulle questioni di metodo, sull’ispezione accurata degli schemi concettuali, sull’analisi delle forme linguistiche degli enunciati, aveva la funzione di tutelare l’attività filosofica dalle inclinazioni agli splendori retorici, dalle apparenti soluzioni verbali dei problemi investigati, dalla pressione esercitata dalla tradizione e dalle autorità del passato. L’indagine logico-linguistica, il paziente lavoro d’analisi svolto da Moore nella decifrazione degli intrecci di significati che attendeva qualsiasi approccio con i problemi filosofici non si esaurivano in particolari, specifiche questioni terminologiche, ma investivano la dimensione teorica degli schemi concettuali ai quali si doveva imputare l’intera portata di validità di una dottrina filosofica. Nei confronti di quegli interpreti che, a distanza di molti anni e alla luce delle impostazioni metodiche dell’analisi del linguaggio, assumevano il lavoro filosofico di Moore nei termini di un’indagine fondamentalmente linguistica, nel senso che le proposizioni filosofiche di Moore andavano recepite come enunciati linguistici, di tipo grammaticale, destinati a legittimare gli usi linguistici istituiti contro i tentativi da parte di certe scuole filosofiche di abrogarli, ma ancora espressi impropriamente nella forma e nello stile del linguaggio ontologico, nei confronti, dunque, di questi interpreti,14 Moore rivendicava il più vasto compito di analisi concettuale che aveva orientato e disciplinato la sua attività filosofica : « credo di poter dire nel modo 13 B. Russell, My Mental Development, The Philosophy of B. Russell, a cura di P.A. Schilpp, New York 1951, pp.11-12. 14 Cfr. N. Malcolm, Moore and Ordinary Language ; M. Lazerowitz, Moore’s Paradox ; A. Ambrose, Moore’s Proof of an External World, C.H. Langford, Moore’s Notion of Analysis, in The Philosophy of G.E. Moore, cit., pp. 369-93 ; 343-68 ; 397-417 ; 32142.
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più definitivo che non ho mai inteso impiegare la parola analisi in modo tale che l’analizzando risultasse un’espressione verbale. Quando ho parlato di analizzare qualcosa, ciò che ho affermato di analizzare è sempre stata un’idea o un concetto o una proposizione e non già un’espressione verbale ; vale a dire che se ho parlato di analizzare una proposizione, usavo sempre “ proposizione ” in un significato tale che nessuna espressione verbale potrebbe essere in quel senso una “ proposizione ” ».15 La funzione centrale accordata all’analisi linguisticoconcettuale, l’interesse per la chiarezza del significato delle parole, per le definizioni rigorose e controllate, il rifiuto delle formulazioni speculative oscure, enigmatiche erano i modi nei quali i filosofi di Cambridge al principio del secolo scorso definivano il proprio rapporto con la tradizione. L’elaborazione di un nuovo stile filosofico, il riordinamento della mappa delle categorie di concetti e di forme linguistiche entro schemi metodicamente controllati erano le strade che i filosofi di Cambridge si erano aperti per rompere ogni compromesso con la tradizione e per realizzare, nella dimensione di una teoria filosofica, i nuovi bisogni culturali del tempo. 3. L’analisi filosofica come chiarificazione concettuale G.E. Moore fu « il pioniere e la personalità dominante » del movimento di rinnovamento filosofico espresso dalla Scuola di Cambridge.16 Egli venne impostando la ricerca filosofica come programma di esplorazione del terreno logico-linguistico sul quale sorgono i problemi filosofici. Rifiutando gli schemi teorici precostituiti, Moore approntava moduli d’analisi filosofica differenti e alternativi che dovevano risultare appropriati volta per volta a singoli, ben definiti contesti di ricerca. Il tentativo di sbloccare l’indagine filosofica dai vasti impianti teorici complessivi e unitari, non suscettibili di correzioni e modifiche, era alla base di un programma filo15 G.E. Moore, A Reply to my Critics, in The Philosophy of G.E.Moore cit., p. 661 ; cfr. G.I. Warnock, English Philosophy since 1900, London 1958, p. 22. 16 R. Metz, A Hundred Years of British Philosophy, London 1938, p. 538.
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sofico destinato prevalentemente ad una funzione di revisione critica della tradizione. A partire dalle opere più significative come Principia Ethica (1903) e The Refutation of Idealism (1903), fino a A Defence of Common Sense (1925), Moore, questo « filosofo dei filosofi »,17 veniva delineando i propri quadri teorici nel mezzo di una revisione critica che coinvolgeva l’idealismo metafisico di F.H. Bradley, B. Bosanquet, J. McTaggart, l’idealismo fenomenistico di tipo berkeleyano, i modelli delle dottrine etiche degli stoici, di Spinoza, di Rousseau, l’utilitarismo di J.S. Mill, l’evoluzionismo etico di H. Spencer, l’intuizionismo etico di H. Sidwick. Ma Moore esprimeva anche, nella forma astratta del linguaggio teorico, gli atteggiamenti, i programmi, la mentalità dell’ambiente culturale di Cambridge. Un ambiente di intenso e vivace dibattito anche al di fuori del mondo accademico. I colleges universitari erano centri in cui la formazione culturale degli studenti avveniva non soltanto attraverso le lezioni, i seminari, ma in gran parte anche attraverso quei contatti personali e quelle discussioni tra studenti, e tra studenti e insegnanti, che stimolavano in un senso anche più sottile le capacità creative di coloro che vi prendevano parte, aprendo loro un mondo di incessanti scoperte. Circoli studenteschi e circoli culturali come, ad esempio, la « Discussion Society », alle cui riunioni prendevano parte J. McTaggart, Moore, Russell, J.M. Keynes, erano aperti ai dibattiti più svariati che andavano dai problemi attuali fino a quelli più astratti, interessanti la religione, il significato della musica o l’ordine sociale ideale. Un’altra società, la cui fondazione risaliva al 1820, la « Società degli Apostoli », o anche più semplicemente chiamata « La Società », era un’associazione i cui membri praticavano un abito di discussione spregiudicata, libera da impegni di fedeltà a opinioni precostituite o ad ortodossie di qualche tipo. H. Sidwick, che ne aveva fatto parte, definiva lo spirito di questa società « come lo spirito della ricerca della verità, con assoluta devozione e senza riserve, di un gruppo di amici intimi che erano pienamente sinceri gli uni verso gli altri e che mentre si abbandonavano facilmente al sarcasmo e allo scherzo, si rispettavano a vi17
G. Ryle, introduzione a The Revolution in Philosophy, London 1957,
p. 4.
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cenda e, nella conversazione ognuno cercava di imparare dagli altri e di vedere quello che gli altri vedevano. Un candore assoluto era l’unico dovere che la tradizione del circolo imponesse ai suoi membri ».18 La partecipazione degli intellettuali a questo tipo di discussioni costituiva un aspetto fondamentale della vita culturale di Cambridge; Sidwick aveva finito per ritenere che nessun aspetto della vita di Cambridge fosse per lui così importante e significativo « come le sere del sabato in cui avevano luogo le discussioni apostoliche ». Agli impegni e alla devozione nei confronti di un’ortodossia religiosa gli intellettuali di Cambridge avevano sostituito una nuova scala di valori schiettamente umani, che includeva l’integrità intellettuale, la sincerità, l’impegno strenuo verso la verità come dovere più alto dell’uomo, il confronto leale, libero da pregiudizi, delle opinioni. Il lavoro filosofico svolto da Moore era l’espressione e la teorizzazione dell’ambiente culturale di Cambridge, nel senso che metteva in opera un tipo di ricerca che stabiliva i propri risultati attraverso un metodo o un complesso di metodi che non dovevano esser influenzati in partenza da assunzioni precostituite e incontrollate. Il rapporto stesso tra gli uomini che si incontrano per mettere a disposizione di un dibattito libero, spregiudicato le proprie convinzioni e credenze costituiva per se stesso un valore etico fondamentale, avente una funzione orientativa della condotta umana. Nei Principia Ethica,19 Moore definiva i valori etici ideali, le cosiddette totalità organiche, incentrandoli, oltreché sui godimenti estetici, sui rapporti personali tra gli uomini. In un ideale così definito, Moore realizzava nei termini di una dottrina etica quei valori fondamentali ai quali si erano ispirati i dibattiti di Cambridge e ai quali si doveva richiamare di lì a poco quella proiezione delle discussioni cantabrigensi che doveva essere a Londra il circolo di Bloomsbury, del quale facevano parte Virginia Woolf, Lytton e Philippa Strachey, Leonard Woolf, J.M. Keynes, Duncan Grant, e lo stesso Moore. In questo senso si può dire che la filosofia etica di 18 H. Sidgwick, A Memoir, cit. in R.F. Harrod, The Life of J.M. Keynes, London 1951 ; trad. it. di B. Maffi, Torino 1965, pp. 95-96. 19 Cambridge 1963, cap. vi, trad. it. di G. Vattimo, Milano 1964, pp. 285 sgg.
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Moore sia stata la teorizzazione della pratica dei rapporti personali stabilita tra gli intellettuali di Cambridge. Nei dibattiti ai quali costoro davano vita si era affermata, al di là dei differenti atteggiamenti assunti sui singoli problemi dibattuti, l’esigenza di mettere in discussione i valori che la società vittoriana aveva codificato come norme irrevocabili. Il conformismo e l’univocità delle scelte, l’educazione autoritaria e rigida erano stati allora considerati strumenti necessari per disciplinare la condotta degli uomini in funzione dell’utilità sociale. La rottura con il rigorismo della moralità vittoriana, imperniata fondamentalmente sul valore dell’utilità, era l’atteggiamento in cui confluivano unitariamente le esigenze espresse dagli intellettuali di Cambridge al principio del secolo ; Lytton Strachey in Eminent Victorians conduceva un’opera di demistificazione nei confronti di alcuni prestigiosi personaggi di quell’epoca, mettendo in questione un codice morale che era stato a lungo praticato come una regola immutabile. Nei Principia Ethica Moore offriva con la sua dottrina della indefinibilità, semplicità e inanalizzabilità del bene morale lo strumento concettuale idoneo a fornire una risposta di grande portata teorica al bisogno espresso dalla cultura britannica più avanzata di una legittimazione di una pluralità di valori e di scelte secondo i quali fosse possibile agli uomini orientare la propria condotta pratica. Nei Principia Ethica, ricollegandosi alla più genuina letteratura etica britannica impegnata nello studio della morale entro una dimensione scientifica, cioè, al di fuori di scopi pratici di esortazione e di particolari disposizioni emozionali, Moore sviluppava attraverso una tecnica analitica metodicamente controllata l’indagine critica delle dottrine etiche tradizionali, dallo Stoicismo fino a Spinoza, Kant, J.S. Mill, H. Spencer e H. Sidwick. Queste dottrine si erano rese egualmente colpevoli dell’assunzione di un modello concettuale riduzionistico che esauriva il valore morale nel significato di termini designanti proprietà, oggetti naturali oppure oggetti metafisici come Dio, la Volontà pura pratica. Nel caso specifico della riduzione del bene ad un oggetto spazio-temporale questa fallacia logica, che Moore imputava a « tutti i libri di etica »,20 assumeva la ormai celebre definizione di « fallacia 20
Id., Principia Ethica, cit., pp. 64-69, 92-95.
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naturalistica ». Mediante la dottrina dell’indefinibilità e semplicità del termine « bene », Moore emancipava la discussione filosofica sull’etica e le stesse possibilità della condotta dai vincoli di una particolare dottrina morale privilegiata. L’irriducibilità del bene alla struttura di un valore metafisico prestabilito, qual era la volontà pura kantiana, oppure ad un dato naturale, assunto irrevocabilmente, come accadeva nei moduli naturalistici dell’etica, la negazione dello statuto analitico che tutte queste teorie accordavano agli enunciati etici e, come controparte di ciò, l’affermazione della condizione sintetica delle asserzioni etiche21 costituiscono i parametri fondamentali dell’operazione teorica con la quale Moore metteva a disposizione della condotta umana una pluralità di valori sui quali gli uomini potevano condurre le loro selezioni. Nei Principia Ethica è possibile reperire, sia pure nella forma piana, distaccata e anche un po’ scolastica che è caratteristica di tante argomentazioni mooriane, la traccia di quell’atteggiamento polemico e irriverente verso la tradizione che costituisce la connotazione più saliente dei circoli culturali di Cambridge. J.M. Keynes, L. Strachey e Wittgenstein erano stati protagonisti di questo movimento di polemica spietata con il mondo della tradizione e di sfida nei confronti delle istituzioni. Eminenti personaggi del passato, circondati di un’aureola di prestigio, si rivelavano personalità terribilmente retoriche che dovevano esser rovesciate dal loro piedistallo. « Non avevamo rispetto né per la saggezza tradizionale, né per i freni del Costume. Non avevamo riguardi come ha notato Edward Lawrence e come soleva dire giustamente Ludwig Wittgenstein, per nulla e per nessuno ».22 Questi intellettuali trovarono nel metodo filosofico di Moore lo strumento teorico appropriato per esprimere i loro interessi culturali, le loro scelte. Nella chiarezza spinta al limite estremo del linguaggio filosofico di Moore, nella precisione e nella lucidità dei moduli concettuali ai quali il filosofo inglese aveva affidato le sue argomentazioni, gli intellettuali di Cambridge e di Oxford trovarono strumenti teorici aventi un valore paradigmatico in campi sva21
Id., Principia Ethica, cit., pp. 63, 119, 132, 140. J.M. Keynes, Two Memoirs (a cura di Rupert Hart-Davis), London 1949, p. 94 ; cfr. R.F. Harrod, op. cit., pp. 93 sgg. 22
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riati di indagine. La pubblicazione dei Principia Ethica e di The Refutation of Idealism era stato un evento memorabile per il mondo culturale britannico ; le idee espresse da Moore dovevano diventare i pensieri di numerosi intellettuali. Moore forniva a costoro non soltanto dottrine e risposte a problemi teorici determinati e specifici, ma offriva un modello e una tecnica di investigazione concettuale che era suscettibile di venir generalizzata a campi di indagine differenti da quelli toccati dal filosofo inglese.23 La tesi dell’indefinibilità e della semplicità del termine « bene » fu tra le dottrine di Moore quella che ebbe maggior fortuna e incidenza non soltanto per la liberalizzazione che essa implicava sul piano delle scelte pratiche e per il fatto che legittimava il potere di rimettere in discussione qualsiasi principio, ma soprattutto perché forniva un paradigma di ricerca utilizzabile in ambiti differenti dell’indagine epistemologica. 4. Il metodo dell’analisi filosofica Il rifiuto delle costruzioni filosofiche sistematiche, degli ambiziosi programmi di riduzione dell’esperienza entro schemi concettuali unitari e irrevocabili rende ragione della funzione prevalentemente logico-critica e analitica accordata dalla Scuola di Cambridge al discorso filosofico. La vicenda culturale di questa scuola, così come anche nel caso di quella oxoniense, non si presta ad esser ridotta entro la fisionomia unitaria di una dottrina o di un complesso di dottrine sulle quali si sarebbe realizzato l’accordo dei suoi vari esponenti. Neppure è possibile reperire l’unità di questa scuola nella connessione problematica o in quella metodica: il metodo d’analisi informale di Moore avente il proprio sistema di riferimento negli enunciati del Senso Comune, la teoria russelliana dell’atomismo logico, delle descrizioni definite, la dottrina logicista dei Principia Mathematica, la teoria wittgensteiniana dell’isomorfismo tra mondo e linguaggio, o la dottrina del carattere tautologico delle proposizioni logiche sono formazioni e quadri teorici tra i quali non è possibile reperire un’unità né a livello della problematica, né al livello 23
Cfr. J.M. Keynes, Two Memoirs, cit., p. 94 ; R.F. Harrod, op. cit., p. 141.
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delle risposte e delle soluzioni, né a quello delle metodologie messe in opera. L’aspetto unitario che collega l’attività filosofica svolta dai membri della scuola di Cambridge va ricercato nella destinazione critica e analitica alla quale doveva essere indirizzata; i filosofi di Cambridge condividevano l’abbandono del lavoro filosofico come riflessione creatrice, destinata alla scoperta di nuovi fatti o di nuove forme dell’Essere. Questo atteggiamento non implicava peraltro un disimpegno teorico nei confronti delle dimensioni ontologiche del discorso filosofico, ma aveva l’importante conseguenza di orientare in modo nuovo la tecnica d’approccio ai problemi concernenti la struttura e la connessione degli oggetti dell’esperienza. In altri termini, non si trattava più di dedurre, nello stile dell’ontologia tradizionale, un sistema di enunciati a partire da un’intuizione privilegiata dell’Universo. I filosofi di Cambridge si mostravano disposti a riconoscere quei livelli dell’oggettività e a legittimare gli schemi ontologici che erano richiesti dalla funzione dell’analisi degli enunciati della scienza e del Senso Comune. L’atomismo logico risultava uno schema di stampo ontologico operante nello sfondo delle dottrine logiche e epistemologiche di Russell,24 e del primo Wittgenstein,25 in funzione di un modulo appropriato d’analisi degli enunciati significanti. Lo schema wittgensteiniano degli oggetti semplici, o quello russelliano dei logical particulars, derivavano la propria legittimazione teorica dalla circostanza che essi assolvevano ai requisiti di completezza e di determinatezza del senso degli enunciati. Analogamente, in Moore che sviluppava un atteggiamento positivo nei confronti del linguaggio ordinario e del Senso Comune, diverso quindi da quello di Russell e del primo Wittgenstein, il problema filosofico concernente le proposizioni osservative, di tipo fattuale, non si formulava in rapporto alla tecnica di reperimento e di accertamento 24 Cfr. The Principles of Mathematics, London 1956 2, pp. xv, 466-67 ; Id., The Philosophy of Logical Atomism, in Logic and Knowledge. Essays 1901-1950, a cura di R.C. Marsh, London 1956, pp. 177-281 ; Id., Logical Atomism, in Contemporary British Philosophy, a cura di I.H. Muirhead, London 1924, pp. 359-82. 25 Cfr. Tractatus logico-philosophicus, a cura di D. Pears e B.F. McGuinness, London 1961, propp. 2.02, 2.021, 2.026, 4.2211.
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dei fatti designati, ma in rapporto alla scoperta del modello appropriato della loro analisi. Enunciati del tipo « questa è una mano » o « questo è un oggetto materiale » non costituivano contesti problematici per Moore nel senso che non richiedevano tecniche specifiche per la loro conferma ; essi appartenevano a quella classe di enunciati sui quali esiste l’accordo espresso dal Senso Comune e dall’uso ordinario del linguaggio che rappresentano le coordinate linguisticoconcettuali in riferimento alle quali si decide della verità o della falsità di un’asserzione.26 Il problema filosofico connesso a questa classe di enunciati concerneva, secondo Moore, la modalità della loro analisi. Riprendendo sia pure nel quadro di una teoria neo-realista – alla quale sono associati i nomi di Kemp Smith, di J. Alexander, C.D. Broad, I. Laird, W.E. Johnson –, temi propri della tradizione fenomenista inglese, Moore introduceva la classe delle entità dei sensedata quali termini ai quali doveva esser ridotto il significato delle proposizioni osservative.27 Russell aveva introdotto ufficialmente la terminologia dei sense-data in The Problems of Philosophy (1912) ; dati sensoriali, cioè qualità dei campi di senso, risultavano essere i particolari logici ai quali l’analisi doveva ridurre i significati degli enunciati sugli oggetti fisici. Russell assumeva così i dati sensoriali come le unità minime, gli atomi della significazione,28 in funzione polemica rispetto allo schema metafisico bradleyano della realtà come totalità organica.29 In base a questo modulo d’analisi gli 26 Cfr. G.E. Moore, A Defence of Common Sense, in Contemporary British Philosophy, a cura di Muirhead, iiª serie, London 1953, p. 207; cfr. E.A. Murphy, Moore’s Defence of Common Sense, in The Philosophy of G.E. Moore, cit., p. 301. 27 Cfr. G.E. Moore, A Defence of Common Sense, cit., pp. 221-22; cfr. inoltre The Status of Sense-Data, in « Proceeding of the Aristotelian Society », xiv, 1913-14, pp. 355-80 ; Are the Materials of Sense Affections of the Mind ?, in « Proceedings of the Aristotelian Society », xvii, 1916-17, pp. 418-29 ; The Nature of Sensible Appearances, in « Proceedings of the Aristotelian Society », vol. suppl. vi, 1926, pp. 179-89 ; cfr. P. Marhenke, Moore’s Analysis of Sense Perception, in The Philosophy of G.E. Moore, cit., pp. 253 sgg. ; A. White, G.E. Moore. A Critical Exposition, Oxford 1958, pp. 168 sgg. 28 Cfr. The Philosophy of Logical Atomism, cit., pp. 187, 193-94, 201-202. 29 Cfr. The Principles of Mathematics, London 19562, cap. liii, sez. 439, pp. 466-67.
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oggetti materiali risultavano costruzioni logiche, ossia sistemi complicati di classi, o serie, di dati di senso.30 Anche la mente, la coscienza erano concetti che per Russell andavano analizzati in termini di costruzioni logiche di dati di senso ;31 soggetto conoscente, mente, coscienza erano finzioni logiche, come le masse puntiformi o gli istanti, nondimeno essi erano introdotti « perché è empiricamente conveniente e chiaramente richiesto dalla grammatica ». Anziché costituire enunciati bisognosi di verifica e di controllo, le proposizioni del Senso Comune sulla esistenza di una realtà esterna, di oggetti materiali, delle menti altrui, delle relazioni spazio-temporali costituivano i truisms aventi un valore paradigmatico, secondo Moore, per il controllo della validità delle asserzioni filosofiche.32 L’accertamento nelle proposizioni dei filosofi di un conflitto con le modalità di impiego del linguaggio ordinario e con gli schemi concettuali del Senso Comune era il sintomo dell’inaccettabilità di una dottrina filosofica. Moore non perveniva in tal modo alla critica dell’idealismo fenomenista, e al conseguente esito realista, muovendo da assunzioni teoriche e da premesse epistemologiche di un certo tipo. La dottrina fenomenista sull’identità di percezione e oggetto percepito, la tesi dell’idealismo bradleyano dell’irrealtà delle relazioni spaziotemporali venivano messe in discussione da Moore attraverso una procedura di ritraduzione nei termini delle categorie dell’uso ordinario del linguaggio e attraverso l’ispezione della loro funzionalità nel contesto dei rapporti della comunicazione. La dottrina dell’idealismo inglese sulla essenza spirituale dell’Universo costituiva un’illegittima generalizzazione di uno schema linguistico-concettuale che precludeva il riconoscimento del campo di distinzione e di differenze che il termine «spirituale» denuncia in rapporto alla classe degli 30 Cfr. B. Russell, The Problems of Philosophy, London 1912, p. 17 ; Id., Our Knowledge of the External World, London 19612, pp. 63, 70, 72, 8283, 148-50 ; Id., The Analysis of Mind, London 1921, cap. viii ; cfr. anche C.D. Broad, Phenomenalism, in « Proceedings of the Aristotelian Society », xv, 1914-15, pp. 227-35. 31 Cfr. B. Russell, The Ultimate Constituents of Matter, in « The Monist », xxv, 1915, pp. 399-417 ; Id., The Analysis of Mndi, cit., pp. 141-42. 32 G.E. Moore, A Defence of Common Sense, cit., p. 216.
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oggetti designati dal termine « materiale ».33 La dottrina dell’indistinzione tra percezione e oggetto risaliva ad una lunga tradizione che andava da Berkeley fino a J.S. Mill ; in un contesto differente essa era stata ripresa da Bradley allorché questi aveva teorizzato un’esperienza totalizzante in cui non era possibile riconoscere alcuna distinzione tra la coscienza e il suo oggetto. 34 Ma la risoluzione idealista della realtà esterna nei termini di un contenuto percettuale risultava costruita su una illegittima modalità di impiego, deviante dall’uso ordinario, delle parole « coscienza », « oggetto », che non stanno nella stessa relazione logica in cui sono le parole « parte » e « contenuto ». La relazione nella percezione tra la coscienza e il suo oggetto era, secondo la celebre tesi mooriana, la relazione perfettamente distinta, semplice e indefinibile (propria delle connessioni di tipo conoscitivo) dell’esser consapevoli di qualcosa.35 Moore contestava la dottrina idealista sull’irrealtà della materia, delle relazioni spazio-temporali non dal punto di vista di una particolare dottrina epistemologica, ma muovendo dal riconoscimento che tale dottrina militava contro la compagine di quegli usi linguistici e di quegli schemi concettuali che costituiscono la matrice dell’articolazione linguistico-concettuale dell’esperienza comune, nella quale gli uomini ordinariamente si riconoscono e organizzano i modi dei loro comportamenti.36 La discussione filosofica, in altri termini, non doveva profilarsi sul piano delle procedure argomentative conclusive e formalmente certe; secondo Moore, un enunciato, una dottrina filosofica esprimevano possibilità di convalida che dovevano esser commisurate ad un sistema di credenze consolidato sul quale gli uomini avevano espresso quella forma di accordo che prende il nome di Senso Comune.37 33 Cfr. G.E. Moore, The Refutation of Idealism, in « Mind », n.s., xii, 1903, p. 433. 34 Cfr. H. Bradley, Essays on Truth and Reality, cit., p. 159. 35 Cfr. G.E. Moore, The Refutation of Idealism, cit., p. 450. 36 Cfr. G.E. Moore, The Conception of Reality, in Philosophical Studies, London 1922, pp. 209-10 ; Proof of an External World, in « Proceedings of the British Academy », xxv, 1939, pp. 273-300. 37 Cfr. N. Abbagnano, G.E. Moore e i Principia Ethica, in « Rivista di Filosofia », liv, 1963, p. 49.
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5. L’epistemologia e le scienze empiriche Moore e Russell avevano proposto in un linguaggio perspicuo moduli d’analisi filosofica che dovevano assumere un valore esemplare per le generazioni successive dei filosofi inglesi, e che dovevano inoltre orientare la ricerca filosofica nella direzione di una tecnica controllata di chiarificazione concettuale. Nei colleges di Cambridge i Principles of Mathematics e i Principia Ethica costituivano i temi dominanti di accesi dibattiti tra gli studenti.38 La filosofia come metodo d’analisi delle proposizioni del Senso Comune e della scienza è al centro dell’opera di C.D. Broad.39 La filosofia doveva investigare lo statuto delle categorie linguistico-concettuali che vengono impiegate nell’attività scientifica e nella vita pratica senza un’appropriata analisi. Proposizioni assunte nella forma di principi irrevocabili si rivelavano, in realtà, nel corso di un’analisi controllata, suscettibili di modifiche e revisioni. Postulati quali, per esempio, il principio di uniformità naturale e proposizioni necessarie non si dovevano considerare come schemi teorici assoluti e definitivi ; lo statuto epistemologico di un enunciato non poteva essere definito una volta per tutte. Esso era soggetto a trapassi e transazioni in occasione di nuove proposte e nuove obiezioni ; una proposizione necessaria poteva rivelarsi ad un certo punto un postulato e viceversa. Lo statuto di certezza di un enunciato doveva esser sempre aperto a nuove discussioni.40 L’analisi filosofica risultava anche per Broad un’indagine sugli apparati linguistico-concettuali delle teorie scientifiche e non una tecnica di reperimento di nuovi fatti. Anche se l’assunzione di un modulo analitico di un certo tipo poteva suscitare l’impressione che al filosofo competesse il negare o confermare l’esistenza dei fatti, in realtà al filosofo spettava soltanto il confronto dei moduli alternativi d’analisi che risultavano disponibili in rapporto alla descrizione di una classe di fatti o di oggetti. Rispondere a domande del tipo « esiste la
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Cfr. C.D. Broad, Critical and Speculative Philosophy, cit., p. 78. Cfr. C.D. Broad, op. cit., p. 82 ; Id., Scientific Thought, London 1923 ; Id., The Mind and its Place in Nature, London 1925. 40 Id., Critical and Speculative Philosophy, cit., pp. 87-88. 39
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coscienza ? », oppure « esiste la materia ? » significava per il filosofo impegnarsi non a confermare o escludere certe classi di fatti cui corrispondono i nomi « materia » o « coscienza », ma ad indicare il modulo d’analisi secondo il quale egli era disposto a parlare su di essi. 41 Come Moore, 42 Broad non escludeva interamente dal discorso filosofico una dimensione di tipo speculativo ; questa veniva però cautamente reintrodotta nella forma di una visione comprensiva della realtà che doveva collegare le differenti classi di esperienze scientifiche, etiche, estetiche, sociali, religiose, filtrate attraverso il medio dell’analisi concettuale. Ma uno schema speculativo di questo tipo, come del resto i sistemi scientifici, non poteva che configurarsi, nei propositi di Broad, nella forma di un quadro teorico provvisorio, congetturale e revocabile.43 La funzione prevalentemente analitica e metodologica, ascritta dai membri della Scuola di Cambridge alla ricerca filosofica, si esprimeva anche nell’interesse per le indagini epistemologiche sulla validità delle procedure delle scienze empiriche, per i principi della conoscenza induttiva e in particolare per il modulo della conoscenza probabilistica. Nel Treatise on Probability (1921) J.M. Keynes introduceva, insieme ad una notazione matematica che risaliva sostanzialmente alla simbologia di W.F. Johnson,44 una teoria sulla struttura logica della probabilità. Richiamandosi al modello logicista di Russell e Whitehead, Keynes aveva cercato di derivare la teoria matematica della probabilità da un numero ristretto di principi logici. Ma anche lo schema delle relazioni semplici, indefinibili, che Moore aveva applicato nell’analisi dei concetti morali e della relazione conoscitiva, doveva influenzare profondamente la teoria dell’economista inglese ; Moore aveva, del resto, richiamato l’attenzione sui temi della probabilità nelle sue indagini etiche in rapporto al problema della formazione della condotta e della delibera41
Id., Criticai and Speculative Philosophy, cit., pp. 93-94. Cfr. Some Main Problems of Philosophy, London 1953, pp. 1-2. 43 Cfr. C.D. Broas, Critical and Speculative Philosophy, cit., 96-97 ; Id., Scientific Thought, cit., p. 20. 44 Cfr. J.M. Keynes, A Treatise on Probability, London 1952, pp. 116, 121, 150, 153, 155. 42
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zione. Respingendo la teoria frequentistica della probabilità sostenuta da J. Venn,45 Keynes introduceva una teoria soggettivistica della probabilità secondo la quale la probabilità non è una funzione o una proprietà degli eventi ma è un concetto moorianamente interpretato nei termini di una relazione semplice e inanalizzabile tra un enunciato indicante l’indice di probabilità e un altro enunciato (o più enunciati) indicante l’evidenza disponibile a favore della conferma del primo.46 6. La Scuola di Oxford e l’analisi delle forme del pensiero Anche ad Oxford, dove maggiormente che altrove si era affermata la scuola dell’idealismo assoluto e dove tra gli altri aveva operato il suo più prestigioso esponente F.H. Bradley, si era cominciata a delineare tra la fine del secolo XIX e il principio del XX una reazione anti-idealistica che doveva avere come controparte positiva la formulazione di un nuovo programma realista. Thomas Case era stato il fautore ancora isolato, in piena temperie idealista, di questa polemica alla corrente filosofica allora dominante.47 Ma la personalità che doveva risultare protagonista della reazione anti-idealista a Oxford e che doveva influenzare in maniera non appariscente, ma non per questo meno penetrante, l’attività filosofica oxoniense dei decenni successivi fu John Cook Wilson. Sebbene affidata ad una forma spesso frammentaria e rapsodica, la ricerca di Cook Wilson fornì moduli esemplari di analisi filosofica ai quali dovevano richiamarsi alcune delle più significative personalità della cultura filosofica oxoniense quali H.A. Prichard, H.W.B. Joseph, H.H. Price. La polemica anti-idealista, l’atteggiamento dell’indagine filosofica nei termini di un’analisi concettuale, la consapevolezza della funzione linguistica nella costruzione del sapere scientifico 45 Cfr. The Logic of Chance, Cambridge 1888, pp. 4, 10, 11, 55, 64-5, 87, 124, 151, 174. Cfr. J.M. Keynes, op. cit., pp. 93 sgg. 46 Cfr. I.M. Keynes, A Treatise on Probability, cit., pp. 4, 7, 8, 18, 19, 115, 124, 126, 240. 47 Cfr. Realism in Morals, London 1877 ; Id., Physical Realism, London 1888.
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e nella risoluzione dei problemi filosofici sono i tratti che permettono di riconoscere nella scuola filosofica oxoniense altrettanti elementi di parentela e di analogia con la contemporanea cultura filosofica dei logici di Cambridge come J. Venn,48 W.E. Johnson49 e soprattutto Russell, Whitehead e Wittgenstein interessati ad un progetto di formalizzazione della ricerca logica ; Cook Wilson e più tardi Prichard e Price svilupparono l’indagine logica come una tecnica informale di ricerca, fondamentalmente destinata, sia pure nella acuta consapevolezza della funzione del linguaggio, alla scoperta delle forme del pensiero (the forms of Thought). In questo senso, Cook Wilson sviluppava un modulo di ricerca che era profondamente radicato nella tradizione degli studi oxoniensi di logica. Nei confronti dell’idealismo assoluto, Cook Wilson respingeva, nel corso di una polemica condotta attraverso saggi, note e lezioni raccolti e pubblicati postumi in Statement and Inference, 50 la riduzione della logica ad un’indagine imperniata sul giudizio ( judgment), ossia su un atto della mente (act of Mind) singolo, specifico e unico, al di fuori di un contesto linguistico d’espressione. Cook Wilson rivendicava contro gli idealisti inglesi la dimensione linguistica nella quale si esprimono le operazioni del pensiero umano, coniugandola ad una dottrina del giudizio non più assunta, alla maniera degli idealisti, come semplice asserzione (assertion), ma come un’inferenza. Cook Wilson, Prichard, Price conducevano una penetrante rettifica critica nei confronti dell’idealismo rivendicando la molteplicità e la varietà delle operazioni distinte disponibili al pensiero, e negando la possibilità della loro riducibilità sotto lo schema unitario e invariante di un unico atto della mente. In particolare, Cook Wilson esprimeva un modulo di analisi interessato a scoprire distinzioni, differenze laddove i filosofi idealisti inglesi avevano generalizzato uno schema rigido e uniforme di interpretazione delle operazioni intellettuali ; in questa direzione Cook Wilson stabiliva alcune premesse delle procedure 48
Cfr. Symbolic Logic, London 1881. Cfr. Logic, Cambridge 1921-24 ; Id., The Logical Calculus, in « Mind », n.s., i, 1892, pp. 330, 235-50 ; 340-57. 50 Oxford 1926, 2 voll. 49
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adottate più tardi dall’analisi del linguaggio. Credenza, opinione, supposizione, inferenza non erano le differenze specifiche di un uniforme atto del giudizio, ma costituivano operazioni mentali distinte ; quantunque presuppongano tutte un quadro di conoscenze, esse non esprimono un processo cognitivo, e non si identificano con la conoscenza che, – riecheggiando Moore e altri filosofi di Cambridge, – Cook Wilson, Price e Prichard interpretavano come una relazione semplice, indefinibile e inanalizzabile. Cook Wilson respingeva ogni problematizzazione del processo conoscitivo dal momento che la relazione conoscitiva era la matrice, il contesto originario, presupposta da qualsiasi tipo di indagine.51 Se la conoscenza è il modulo di un rapporto non ulteriormente analizzabile in termini più elementari, se essa definisce quella situazione in cui « un’entità o un fatto è direttamente presente alla coscienza », allora la conoscenza, – concludeva Price, richiamandosi a Cook Wilson, – si pone al di fuori delle alternative del « vero » e del « falso ».52 Analogamente A. Prichard procedeva alla dissoluzione della problematica gnoseologica affermando che qualsiasi tecnica di controllo della validità dei procedimenti conoscitivi era esposta in linea di principio agli stessi dubbi che essa era destinata a dissipare. Le procedure di controllo della validità degli enunciati dovevano esser spostate dall’ambito conoscitivo all’ambito qualitativamente distinto di quelle classi di operazioni che vanno sotto il nome di credenza, opinione, supposizione, assenso.53 Mediante una strategia che dissolveva la problematica gnoseologica attraverso il semplice riconoscimento del processo conoscitivo come relazione semplice, irriducibile di un oggetto o di un fatto con la coscienza, i filosofi oxoniensi avevano inferto un colpo vigoroso all’idealismo metafisico inglese che proprio del pregiudizio che la conoscenza sia un processo bisognoso di giustificazione aveva fatto uno strumento di avallo della tesi della dipendenza della realtà dalla 51
Id., Statement and Inference, cit., vol. i, parte i, sezione ii. Cfr. H.H. Price, Some Considerations about Belief, in « Proceedings of the Aristotelian Society », xxxv, 1934-35, p. 229. 53 Cfr. H.A. Prichard, Knowledge and Perception, Oxford 1950, pp. 85, 86, 90-91 e 97. 52
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coscienza, dai modi del pensiero oppure, nella versione fenomenistica, dalle modalità della percezione. La realtà di un mondo esterno non doveva esser dedotta ; essa rappresentava, secondo la nuova scuola oxoniense, la situazione originaria che andava riconosciuta alle spalle di qualsiasi impresa e operazione teorica.54 Sia pure entro il quadro di un’indagine modellata secondo la tradizione oxoniense nei termini di un’analisi delle « forme del pensiero », Cook Wilson esprimeva il modulo di una logica fortemente impegnata sul piano della ricerca linguistica. Cook Wilson riconosceva nelle modalità dell’uso ordinario del linguaggio parametri imprescindibili per la ricerca logica. Le distinzioni espresse nell’uso ordinario, istituito (usage), del linguaggio non potevano essere disattese dai filosofi. Se il pensiero (Thought) è l’oggetto di indagine della logica, allora, osservava Cook Wilson, « nell’esaminare il significato di una parola come “ pensiero ” nell’indagine filosofica, dobbiamo rammentare che essa è un termine del linguaggio ordinario ».55 L’uso ordinario del linguaggio assumeva una funzione paradigmatica per la ricerca filosofica.In una lettera a B. Bosanquet, Cook Wilson aveva affermato che « è compito dello studioso di logica determinare l’uso normale di un idioma o di un’espressione linguistica. Tutto dipende da questo ».56 Il linguaggio ordinario costituiva per Price il contesto di prova della distinzione tra gli atteggiamenti cognitivi e i vari atteggiamenti della credenza (belief ).57 Attraverso l’ispezione dei contesti dell’uso ordinario del linguaggio, gli esponenti della scuola oxoniense potevano reperire una varietà di operazioni intellettuali, di forme del pensiero che la corrente degli idealisti aveva obliterato sotto 54 Cfr. H.A. Prichard, Kant’s Theory of Knowledge, Oxford 1909, in particolare il capitolo Knowledge and Reality. 55 Statement and Inference, cit., pp. 34-35. 56 Citata in J. Passmore, A Hundred Years of Philosophy, London 1962, p. 244. 57 Cfr. Some Considerations, cit., pp. 229-31 ; « noi diciamo, per esempio, ‘ non so se egli sia ad Oxford, ma credo di sì ’, ma non diciamo in nessun caso ‘ so che egli è a Oxford e credo che ci sia ’. Se qualcuno trova a ridire a proposito di questo impiego, devo chiedergli di trovare un’altra parola per questo atteggiamento non-conoscitivo e fallibile ; ad ogni buon conto, esso certamente esiste ed è assai familiare a tutti ».
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lo schema uniforme e monotono di un unico e specifico « atto della mente ».58 La nuova scuola filosofica oxoniense rimuoveva così gli schemi di tipo essenzialistico con i quali la tradizione idealista aveva costruito la sua dottrina metafisica della mente umana ; in questo atteggiamento di rottura con la tradizione, con gli schemi di tipo scolasticistico ed essenzialistico, Cook Wilson e gli altri esponenti della corrente oxoniense esprimevano un nuovo e spregiudicato abito di ricerca e un nuovo tipo di approccio ai problemi filosofici. Il riconoscimento della dimensione linguistica nella ricerca filosofica imponeva a Cook Wilson il problema del disciplinamento metodologico del rapporto tra funzione linguistica e indagine fattuale. Cook Wilson riconosceva che la filosofia e l’epistemologia sono interessate all’accertamento dei significati di termini come « forza », « pensiero », « causa ». La restrizione dell’indagine all’uso istituito, all’ « actual usage », minacciava di sbilanciare la ricerca, precludendo qualsiasi forma di intervento critico sugli apparati linguisticoconcettuali consolidati e trasmessi. D’altronde, un’indagine proiettata sulla struttura o forma dei fatti, al di fuori di un quadro linguistico, era impossibile, in quanto l’approccio con le situazioni fattuali è filtrato mediante schemi d’articolazione linguistica. Questo non implicava, secondo Cook Wilson, che « siamo alla mercé dell’uso ».59 La mediazione delle operazioni linguistiche nella descrizione dei fatti non implica che tali operazioni siano necessariamente corrette e irrevocabili ; « non sarebbe assolutamente fruttuoso prescindere da atti che non sono giusti ». Anziché sbilanciare l’indagine filosofica in un’analisi esclusivamente verbale disciplinata dall’uso ordinario, oppure in un’indagine di tipo fattuale che avrebbe ignorato la funzione indispensabile del linguaggio, Cook Wilson proponeva un modulo di ricerca che doveva confrontarsi simultaneamente con un contesto in cui 58 Secondo Cook Wilson le attività del pensiero umano « che non sono di tipo conoscitivo sorgono dal desiderio di conoscere o da qualche altra relazione con il conoscere e sono unificate con il conoscere da una specifica relazione, dipendente in ciascun caso dalla sua particolare natura sui generis intelligibile soltanto attraverso una considerazione del caso particolare », Statement and Inference, cit., pp. 37-38. 59 Ivi, pp. 39-40.
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operavano sia la funzione linguistica, sia l’analisi delle strutture fattuali. A questo modello analitico così organizzato era disponibile allora la possibilità di un confronto tra strutture fattuali specifiche, filtrate e descritte mediante schemi linguistici di un certo tipo, dal quale poteva emergere l’esigenza di uno statuto linguistico più appropriato di quello esistente. La scoperta di una relazione di affinità oggettivamente esistente tra certi abiti o operazioni del pensiero umano imponeva la revisione di certi usi del linguaggio ordinario e legittimava l’introduzone di un nuovo assetto sostitutivo più idoneo all’organizzazione logico-linguistica di una certa classe di fatti.60 Cook Wilson poteva così affermare l’impossibilità di organizzare l’analisi filosofica al di fuori delle categorie dell’uso ordinario del linguaggio, e al tempo stesso poteva legittimare l’introduzione di modifiche e revisioni, di nuovi moduli d’uso alternativi in presenza di situazioni e condizioni che risultavano sprovviste di termini linguistici idonei. Ma le rettifiche e i nuovi statuti logico-linguistici per i quali si pronuncia l’analisi filosofica non dovevano essere funzioni di scelte arbitrarie e private. Essi dovevano essere, secondo Cook Wilson, in funzione di una nuova articolazione dei fatti dell’esperienza, dovevano, cioè, fornire una risposta linguistica esplicita ad atteggiamenti, e a procedure che operavano sia pure in una forma ancora inconsapevole e oscura.61 Il nuovo statuto linguistico, la riforma dell’uso ordinario, l’introduzione di nuove definizioni trovavano la propria legittimazione nella formazione preesistente di un abito sociale, di una consapevolezza pubblica, sociale (« general consciousness ») sia pure ancora oscura. Non dovevano, cioè, esser dedotte mediante strategie speculative di qualche tipo, ma dovevano esser reperite nella prassi esistente di una comunità linguistica, in un abito di disciplinamento già istituito, sebbene non ancora esplicitamente enunciato, degli apparati concettuali e linguistici. 60 « Esiste una certa sensazione di affinità tra i casi particolari, la natura dei quali non comprendiamo e non siamo in grado di formulare. Ciò spiega il paradosso per cui siamo capaci di criticare i dati dai quali sembra che dipendiamo interamente », Cook Wilson, op. cit., p. 42. 61 Cfr. ivi, pp. 43-44.
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7. La rottura con l’atomismo logico e con il neo-positivismo Quel complesso di metodologie informali e di tecniche procedurali destinate alla delucidazione degli usi ordinari delle espressioni linguistiche, che assume complessivamente il nome di analisi del linguaggio, è stato ed è tuttora un vasto movimento filosofico originato dai dibattiti che, a partire dal quarto decennio del Novecento, hanno avuto luogo in Inghilterra intorno agli schemi metodologici e alle tecniche d’analisi elaborate dalle teorie dell’atomismo logico e dal neo-positivismo. Formatosi originariamente a Cambridge e a Oxford, questo movimento si è diffuso alla fine della seconda guerra mondiale al di fuori della Gran Bretagna nel mondo filosofico di lingua inglese (Stati Uniti, Canada, Australia). Alla revisione critica dell’atomismo logico e del neo-positivismo iniziata in Inghilterra a partire dagli anni Trenta aveva fornito un contributo decisivo Ludwig Wittgenstein che, nello stesso periodo di tempo, veniva abbandonando i quadri teorici del Tractatus logico-philosophicus e il programma della definizione di un linguaggio idealmente perfetto. Nel corso di quella svolta che definisce la sua seconda maniera di filosofare, affidata per molti anni all’insegnamento, alla pratica colloquiale e alla trasmissione orale dei suoi alunni, Wittgenstein aveva elaborato gli schemi concettuali e le tecniche procedurali che dovevano prestare i tratti fondamentali della fisionomia culturale dell’analisi del linguaggio. Quest’ultima non designa una scuola o una corrente filosofica nel senso tradizionale in cui tali termini definiscono l’unità di un movimento culturale dal punto di vista del metodo o del tipo di problemi e di oggetti investigati. L’analisi del linguaggio è uno schema di riferimento assai comprensivo che raccoglie un vasto complesso di tecniche analitiche, di quadri concettuali, di moduli procedurali tra loro spesso differenti o addirittura alternativi, ma che tuttavia convergono in alcune dimensioni fondamentali e comuni definite dall’abbandono del programma di un linguaggio ideale del tipo espresso dal logicismo russelliano e dal Tractatus wittgensteiniano, dal rifiuto di interpretazioni globali e complessive del linguaggio, della struttura dei fatti e della modalità del loro rapporto, dal riconoscimento di una molteplicità di funzioni svariate cui assolvono gli usi del linguaggio, che non risultano pertan-
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to riducibili sotto il modulo unitario e invariante dello schema « oggetto-designazione », ossia della funzione descrittiva del linguaggio, dal rifiuto, infine, della logica simbolica quale strumento di risoluzione dei problemi filosofici. L’analisi del linguaggio designa un vasto dominio di ricerche interessate fondamentalmente alla delucidazione della logica delle espressioni linguistiche, ossia alla chiarificazione delle regole e convenzioni che disciplinano i differenti usi del linguaggio nei contesti dell’impiego ordinario. Ma si tratta anche di un complesso di ricerche che non muovendo da principi teorici, né da assunzioni metodiche rigide e vincolanti, non sono riducibili entro uno schema di classificazione sistematica, e che differiscono in funzione dei contesti specifici di indagine, delle variazioni che lo sviluppo della ricerca con i suoi esiti parziali e provvisori imprime al modulo analitico adottato. In un quadro di ricerche non disciplinato da assunzioni di metodo precostituite si è espressa l’attività filosofica degli esponenti della scuola dell’analisi del linguaggio, attraverso l’opera di studiosi come L. Wittgenstein, J. Wisdom, G. Ryle, J.L. Austin, P.F. Strawson, F. Waismann, R.M. Hare, H.L.L.A. Hart, S. Toulmin, P. Nowell-Smith, B.F. McGuinness, G.J. Warnock e di altri. La formazione dell’atteggiamento filosofico e culturale espresso dall’analisi del linguaggio risale ai dibattiti che si svilupparono al principio degli anni ’30 in Inghilterra sulle teorie dell’atomismo logico e nel neo-positivismo. La tecnica di scomposizione delle proposizioni in enunciati elementari assunti come raffigurazioni di fatti atomici o basici o « stati di cose » irriducibili – che nella versione epistemologica del positivismo logico viennese venivano ridotti a dati dell’esperienza percettiva immediata quali termini protocollari sui quali doveva essere eseguita la verificazione empirica degli enunciati,62 oppure nella diffusa versione fenomenistica venivano definiti sense-data – tale tecnica di scomposizione presupponeva uno schema interpretativo generalizzato e invariante delle espressioni linguistiche che privilegiava la funzione descrittiva di fatti oppure di stati della mente. In 62 Cfr. G. Pitcher, The Philosophy of Wittgenstein, Englewood Cliffs, New Jersey, 1964, pp. 166-67 ; A. J. Ayer, introduzione a Logical Positivism, Glencoe, Illinois 1959, pp. 12-13.
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questo senso, nel Tractatus, Wittgenstein aveva imputato la condizione di significanza del linguaggio ad una relazione interna di isomorfismo tra le componenti della espressione linguistica e i corrispondenti elementi semplici costitutivi del fatto raffigurato. Analogamente, Russell aveva orientato l’analisi degli enunciati in termini di espressioni contenenti esclusivamente i nomi propri di quegli elementi semplici e inanalizzabili costituiti dai particolari logici, ossia dai dati dei campi di senso ; i veri e autentici nomi propri risultavano essere « questo » e « quello », « là ». 63 Privilegiando la funzione descrittiva del linguaggio, l’atomismo logico e il neo-positivismo avevano imposto la riduzione delle varie classi di enunciati non appartenenti alle categorie del linguaggio dichiarativo, quali, per esempio, le espressioni contenenti preghiere, inviti, comandi alla categoria degli usi descrittivi, mediante la postulazione di processi mentali o di strutture fattuali che dovevano fungere da correlati oggettivi, da referenti delle espressioni impiegate. In questo senso, espressioni di comandi del tipo « vai via » dovevano essere trasformate nella forma di un enunciato dichiarativo quale « io voglio che tu vada via », descrivente uno specifico processo mentale di colui che proferisce l’enunciato.64 Il modulo interpretativo angusto e restrittivo dell’atomismo logico e del neo-positivismo implicava la postulazione di processi e di entità fittizie e incontrollabili. Un’altra fondamentale difficoltà in cui si erano imbattute queste due scuole concerneva l’analisi degli enunciati contenenti espressioni di generalità oppure le russelliane costruzioni logiche. La procedura d’analisi delle espressioni del tipo « (x) · fx » in una congiunzione di proposizioni elementari, oppure la tecnica di scomposizione degli enunciati contenenti costruzioni logiche come « L’Inghilterra dichiarò la guerra» in enunciati su individui (quali, per esempio, « Gli Inglesi dichiararono la guerra » oppure « Il Primo Ministro inglese dichiarò la guerra ») non disponevano di criteri uniformi e univoci di riducibilità ; ossia non disponevano di re63 Cfr. B. Russell, The Philosophy of Logical Atomism, in Logic and Knowledge. Essays 1901-1950, a cura di R.C. Marsh, London 1956, pp. 187, 193-94, 201-02. 64 Cfr. J.O. Urmson, Philosophical Analysis, Oxford 1956, p. 198.
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gole idonee a garantire che la procedura di riduzione adottata fornisse gli equivalenti delle proposizioni analizzate. Anziché fornire una tecnica procedurale univoca, l’analisi russelliana delle costruzioni logiche o la dottrina logica finitistica delle proposizioni generali delineavano un quadro di alternative indecidibili. In un saggio del 1931, Systematically Misleading Expressions, Gilbert Ryle aveva messo in discussione la dottrina wittgensteiniana del Tractatus che imputava il criterio di significanza del linguaggio ad una relazione reale e non convenzionale di raffigurazione biunivoca (one-one picturing relation).65 Nella serie di articoli Logical Constructions (1931-33), J. Wisdom denunciava la carenza nell’atomismo logico di criteri per la riducibilità delle costruzioni logiche ad espressioni su individui che risultassero logicamente equivalenti.66 Wisdom metteva egualmente in evidenza la mancanza nell’atomismo logico – e nelle varie dottrine della percezione esterna che confluivano nello schema fenomenistico degli oggetti fisici come classi o serie di sense-data – di criteri per il controllo del referente dei nomi logicamente propri. In questo senso non risultava disponibile un criterio per discriminare tra gli usi dei termini « questo », « quello » (che Russell aveva privilegiato come gli autentici nomi propri) quali di essi designavano costruzioni logiche e quali, invece, designavano dati sensoriali.67 La revisione del modulo analitico riduzionistico dell’atomismo logico e del neo-positivismo, il rifiuto degli ambiziosi progetti sistematici di schemi filosofici sulla struttura complessiva della realtà, l’abbandono dei tentativi di un’interpretazione generale del linguaggio erano i temi intorno ai quali si era aperto un ampio dibattito in Inghilterra al principio degli anni ’30. Ryle, uno degli interpreti più avvertiti della svolta che si andava realizzando nella cultura filosofica ingle65 Cfr. G. Ryle Systematically Misleading Expressions, in Logic and Language (a cura di A.G.N. Flew), serie i, Oxford 1955, p. 34. 66 Cfr. J. Wisdom, Logical Constructions, Parte i, in « Mind », xl, 1931, 191-92, 215 ; cfr. anche Parte ii, in « Mind », xl, 1931, pp. 460-75 ; Parte iii, in « Mind », xli, 1932, pp. 441-64 ; Parte iv, in « Mind », xlii, 1933, pp. 4366 ; Parte v, Mind, xlii, 1933, pp. 186-202. 67 Cfr. B. Russell, The Philosophy of Logical Atomism, cit., p. 201 ; J. Wisdom, Logical Constructions, Parte i, in « Mind », xl, 1931, p. 203.
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se, avviava il lavoro filosofico nella direzione di un’analisi del linguaggio dispensata da assunzioni metodiche precostituite e vincolanti, da schemi ontologici irrevocabili. Anziché alla definizione di un linguaggio ideale, Ryle destinava l’indagine analitica al reperimento dell’origine delle proposizioni filosofiche assurde e incontrollate nei fraintendimenti della logica dell’uso ordinario del linguaggio. Anziché codificare le norme di un linguaggio logicamente perfetto, Ryle restaurava la funzionalità del linguaggio ordinario del quale i filosofi dovevano investigare le regole e le convenzioni allo scopo di dissolvere le asserzioni filosofiche « sistematicamente ingannevoli » in quanto esse « sono adagiate in una forma sintattica inadeguata al fatto registrato e adeguata a fatti aventi una forma logica del tutto diversa da quella dei fatti registrati ».68 La destinazione dell’indagine filosofica in funzione della chiarificazione linguistico-concettuale, che pertanto abbandonava i temi ambiziosi della tradizione filosofica per ripiegare su contesti ben delimitati di ricerca, costituiva il programma di un nuovo modulo di analisi filosofica. Nel 1933 usciva il primo fascicolo della rivista Analysis che doveva essere l’organo della nuova scuola analitica britannica. Diretta da A. Duncan Jones, L.S. Stebbing, C.A. Mace, G. Ryle, nel suo primo fascicolo Analysis esponeva le linee programmatiche di una ricerca filosofica che abbandonava le « astratte speculazioni metafisiche sui fatti possibili o sul mondo come una totalità » per divenire strumento di chiarificazione di questioni ben definite entro settori delimitati dell’esperienza comune.69 Quantunque imperniata su un programma in gran parte destinato ad una revisione critica dell’atomismo logico, la nuova scuola dell’analisi filosofica ne conservava tuttavia alcuni presupposti che si riassumevano in un’assunzione di metodo che orientava la tecnica d’indagine in termini d’analisi di fatti. In questa fase di incoerente transizione tra il vecchio programma riduzionistico dell’atomismo logico e le nuove tecniche procedurali dell’analisi linguistica si
68
Cfr. G. Ryle, Systematically Misleading Expressions, cit., pp. 14 e 36. Cfr. la premessa redazionale A Statement of Policy, in « Analysis », i, 1933, p. 1. 69
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collocano le ricerche di L.S. Stebbing,70 di John Wisdom,71 e di G. Ryle,72 che nonostante la rottura con gli schemi teorici dell’atomismo logico continuavano a praticare l’analisi filosofica come analisi finale e conclusiva degli enunciati in proposizioni atomiche o basiche concernenti gli elementi semplici della struttura dei fatti. Questi filosofi continuavano a restringere il criterio di significanza delle espressioni linguistiche alla loro riducibilità a qualche grado verificato di fatti basici.73 Gli equivoci e le difficoltà che si annidavano nel nuovo programma d’analisi permettono di misurare in controluce l’incidenza e la portata dell’inf lusso che la metodologia linguistica dell’ultimo Wittgenstein doveva esercitare sull’intera vicenda culturale dell’analisi del linguaggio. Dopo gli anni di silenzio seguiti alla pubblicazione del Tractatus, Wittgenstein aveva elaborato gli strumenti teorici idonei a liberare le procedure dell’analisi filosofica dalla direzione obbligata e vincolante della funzione descrittiva che l’atomismo logico e il neo-positivismo avevano privilegiato. La riconduzione del significato di un’espressione linguistica al suo uso entro il sistema dei comportamenti aperti e pubblici di una comunità umana, il riconoscimento di una molteplicità di modalità d’impiego degli strumenti linguistici, il ridimensionamento della funzione descrittiva, che risultava uno tra gli svariati possibili usi del linguaggio e non più la funzione privilegiata, costituivano gli schemi concettuali in grado di fornire una risposta di ampia portata teorica ai problemi lasciati insoluti dai dibattiti filosofici che avevano avuto luogo in Gran Bretagna nel corso della crisi dell’atomismo logico. Se le discussioni e le posizioni programmatiche alle quali era interessata la cultura filosofica inglese a partire dagli anni Trenta avevano influito sulla svolta che si era prodotta contemporaneamen70 Cfr. The Method of Analysis in Metaphysics, in « Proceedings of the Aristotelian Society », xxxiii, 1932-33, pp. 65-94. 71 Cfr. Ostentation, in J. Wisdom, Philosophy and Psycho-Analysis, Oxford 1957, p. 1 ; Is Analysis a Usefui Method in Philosophy ?, in Id., Philosophy and Psycho-Analysis, cit., pp. 25-26. 72 Cfr. Systematically Misleading Expressions, cit., p. 36. 73 Cfr. G.J. Warnock, English Philosophy since 1900, London 1958, pp. 100-101.
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te nella filosofia di Wittgenstein, costituendone le premesse e il contesto culturale di riferimento, Wittgenstein aveva fornito gli strumenti metodologici in grado di interpretare validamente gli interessi e gli scopi verso i quali era diretta la filosofia inglese. 8. L’analisi della funzione descrittiva del linguaggio L’analisi del linguaggio assunta nella sua fisionomia complessiva di famiglia di tecniche variamente collegate, destinate alla delucidazione della logica delle espressioni linguistiche e alla dissoluzione dei problemi filosofici tradizionali ebbe il suo primo centro di sviluppo nella Università e negli ambienti culturali di Cambridge dove, a partire dal 1930, aveva cominciato ad insegnare Wittgenstein, esercitando un ruolo destinato a condizionare l’intera vicenda culturale della filosofia inglese. A Cambridge insegnava anche John Wisdom, che doveva sviluppare il tema wittgensteiniano dell’analisi come dissoluzione delle proposizioni filosofiche assurde e incontrollate, ossia come terapia linguistica rivolta ad eliminare i fraintendimenti e le distorsioni interpretative suscitate dalle forme stesse del linguaggio. Wisdom si era peraltro portato oltre i limiti del programma wittgensteiniano riconoscendo alle proposizioni metafisiche il potere di svelare, sia pure in una forma ingannevole e paradossale, distinzioni e proprietà del linguaggio e, indirettamente, dei fatti extra-linguistici che sfuggono alla coscienza comune. Alla corrente terapeutica dell’analisi del linguaggio appartengono tra gli altri G.A. Paul, M. Lazerowitz, N. Malcolm. Al termine della seconda guerra mondiale il centro dell’analisi del linguaggio doveva spostarsi ad Oxford. Gli analisti oxoniensi hanno accordato una dimensione positiva all’indagine delle categorie d’uso del linguaggio ordinario che, a differenza di quanto è avvenuto a Cambridge, non è stato investigato soltanto in funzione subordinata alla dissoluzione dei problemi filosofici, ma ha costituito un campo di indagine fornito di un interesse indipendente e autonomo. In questo senso, la tecnica analitica di stile oxoniense risulta maggiormente impegnata – rispetto al modulo di ricerca degli analisti di Cambridge fondamentalmente interessati
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alla indagine sulla natura e sulla funzione delle asserzioni filosofiche – sul terreno dell’attenta e minuziosa chiarificazione delle categorie degli usi linguistici, della logica, ossia delle regole e delle convenzioni che disciplinano ordinariamente le espressioni linguistiche nelle circostanze caratteristiche del loro impiego. Lo schema concettuale sotto il quale è possibile raccogliere e unificare il vasto ambito di ricerche e di contributi che l’analisi del linguaggio ha espresso su temi e problemi svariati, e tra loro spesso indipendenti, è costituito dalla critica alla quale ha sottoposto le teorie filosofiche e epistemologiche che hanno riduttivamente interpretato le procedure linguistiche nei termini della funzione descrittiva. Il privilegiamento di questa funzione corrispondeva ad uno schema teorico che affondava in una lunga tradizione di interpretazioni del linguaggio, ma esso era stato ripreso più recentemente dall’atomismo logico e dalle varie correnti logico-epistemologiche che erano confluite nel neo-positivismo. La rottura con questo schema interpretativo rappresenta il punto di orientamento fondamentale nel vasto complesso di indagini che l’analisi del linguaggio ha condotto su temi specifici, tra loro indipendenti, concernenti volta per volta ambiti delimitati dell’area linguistica che interessa i problemi filosofici. L’analisi del linguaggio non ha tentato di disciplinare le proprie ricerche nei quadri concettuali di una teoria, ossia di principi e di assunzioni metodiche rigide e vincolanti. Essa ha riconosciuto che ogni categoria d’uso del linguaggio ha una sua propria logica, cioè sue proprie regole e convenzioni, che devono essere scoperte volta per volta e non esser ridotte aprioristicamente sotto qualche schema interpretativo generale e complessivo del tipo di quelli teorizzati nei Principia Mathematica e nel Tractatus logico-philosophicus. La rottura con il modello interpretativo che imputava il significato delle espressioni linguistiche alla funzione descrittiva delinea la dimensione unitaria del lavoro filosofico svolto dall’analisi del linguaggio : 1) la discussione di quel modello ha orientato la critica che l’analisi del linguaggio ha espresso nei confronti del principio neo-positivista di verificazione, secondo il quale il significato di un enunciato è ascritto al metodo della sua verifica, ossia ad una tecnica di controllo conducibile su dati osserva-
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tivi ;74 2) ha determinato la revisione critica della funzione che la logica simbolica si era arrogata nella soluzione dei problemi filosofici ; 3) ha consentito il reperimento di modalità di impiego che, pur essendo state tradizionalmente ascritte alla classe delle espressioni descrittive, erano assegnabili mediante una più appropriata tecnica analitica a funzioni linguistiche differenti e alternative, quali, per esempio, l’ascrizione di responsabilità, il riconoscimento di diritti, l’adempimento di compiti, l’assunzione di impegni e simili ; 4) ha determinato un nuovo modulo d’analisi del linguaggio morale, non più destinato a «designare» – sulla base del privilegiamento della funzione descrittiva – oggetti e proprietà naturali, oppure qualità non-naturali, o, ancora, stati emozionali come avevano sostenuto, rispettivamente, le dottrine di stampo naturalistico, la teoria etica mooriana, e la teoria neo-positivista sulle asserzioni etiche ; 5) ha consentito il reperimento di moduli più appropriati di analisi del linguaggio che si riferisce alle sensazioni e agli stati interni ; 6) ha determinato, infine, un impegno di classificazione e di organizzazione concettuale, in forma talora sistematica, delle differenti categorie d’uso del linguaggio. 9. La critica della logica formale Allargando un tema di discussione aperto da Wittgenstein sulla crisi dei paradigmi di rigore e di certezza della logica formale,75 P. F. Strawson76 e altri analisti oxoniensi hanno respinto il programma, — che era a base del logicismo, dello atomismo logico, del neo-positivismo — di una codificazione delle regole di formazione e di trasformazione delle espressioni linguistiche entro i parametri di un sistema formale unitario. Gli analisti del linguaggio hanno messo in evidenza che 74 Cfr. G.J. Warnock, Verification and Use of Language, in « Revue internationale de Philosophie », nº 17-18, 1951, pp. 4-12 ; G. Ryle, The Verification Principle, in « Revue internationale de Philosophie », cit., pp. 243-50. 75 Cfr. Philosophische Untersuchungen, Oxford 1953, parte i, § 108. 76 Cfr. On Referring, in « Mind », lix, 1950, pp. 320-44 ; Singular Terms, Ontology and Identity, in « Mind », lxv, 1956, pp. 433-54 ; An Introduction to Logical Theory, London 1952, trad. it. di A. Visalberghi, Torino 1961, p. 76.
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un sistema sintattico non è in grado di estendere il suo potere di disciplinamento sull’intera area delle differenti classi di usi linguistici, essendo limitato al dominio degli enunciati che ammettono i valori di vero o di falso. Le espressioni linguistiche hanno significato entro il contesto d’uso in situazioni definite e tipiche del loro impiego. Le trasformazioni dei segni che in un sistema formale vengono eseguite dalla logica simbolica mediante operazioni di un certo tipo traggono la loro legittimità, secondo gli analisti del linguaggio, da un implicito ricorso a contesti empirici di riferimento, a situazioni spazio-temporali definite, ossia a quel complesso di condizioni che realizzano il funzionamento del linguaggio ordinario. Questo ultimo risulta pertanto la matrice del significato delle operazioni formali conducibili entro i sistemi formalizzati. I criteri di decidibilità per la trasformazione di certe classi di espressioni in altre equivalenti, degli statuti di analiticità, di non-contradditorietà degli enunciati, non sono parametri formalizzabili, ma rimandano alle circostanze spazio-temporali dell’esperienza comune in cui operano gli utenti delle espressioni linguistiche.77 L’atteggiamento critico espresso dall’analisi del linguaggio nei confronti della logica simbolica non ha certamente inteso invalidare la correttezza delle sue procedure formali, che rivestono un particolare interesse per quei settori specialistici, tecnici del linguaggio scientifico disciplinati da modalità di impiego uniformi e regolari,78 ma ne ha messo in discussione l’intera funzione per quanto riguarda la sua competenza a risolvere i problemi filosofici e a chiarificare le regole del linguaggio ordinario. In questo senso, per esempio, Russell aveva cercato di offrire con la dottrina delle descrizioni definite uno strumento per la soluzione dei problemi filosofici suscitati dagli enunciati contenenti espressioni introdotte dall’articolo definito e designanti entità inesistenti quali « l’attuale re di Francia » oppure auto-contradditorie come « il quadrato rotondo ».79 La funzione delle descrizioni 77
Id., Introduzione alla teoria logica, cit., p. 273. Id., Introduzione alla teoria logica, cit., p. 76. 79 Cfr. B. Russell, On Denoting, in « Mind », xiv, 1905, ripubblicato in Id., Logic and Knowledge Essays 1901-1950, cit., pp. 45-48 ; B. Russell e A.N. Whitehead, Principia Mathematica, Cambridge 19572, vol. i, p. 66. 78
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definite era quella di consentire la enunciabilità di proposizioni su entità inesistenti o auto-contradditorie che risultassero significanti senza peraltro implicare l’ammissione di qualche forma di esistenza per esse, che era stata la strada seguita invece da Meinong.80 Russell aveva interpretato gli enunciati contenenti espressioni definite del tipo « l’attuale re di Francia è calvo » oppure « l’autore di Waverley è Walter Scott » non come enunciati della forma soggetto-predicato, nelle quali ricorre un simbolo che funziona logicamente come un nome proprio, avente il proprio significato nell’oggetto designato, ma come proposizioni esistenziali, vere nel caso in cui sia indicato un oggetto che soddisfa la funzione proposizionale espressa dalla descrizione definita, false nel caso contrario.81 P.F. Strawson ha messo in discussione la teoria russelliana delle descrizioni definite contestando la validità del criterio che ascrive il significato di tali espressioni in rapporto al loro referente. La procedura che stabilisce il significato dell’espressione « l’attuale re di Francia » « è assai differente dall’indicazione della persona alla quale essa si riferisce, perché l’espressione stessa non si riferisce ad alcunché, sebbene possa esser usata, in circostanze differenti, per designare cose innumerevoli » ; 82 essa consiste piuttosto nella specificazione delle regole e delle convenzioni che disciplinano il loro corretto impiego in tutti i tipi di circostanze « per designare o per fare asserzioni ».83 Enunciati contenenti descrizioni definite non sono in linea di principio veri o falsi sulla base di criteri formali ; essi sono strumenti, secondo Strawson, per fare asserzioni vere o false. Ma il criterio al quale va commisurato lo statuto di validità di tale classe di enunciati è unicamente l’uso. L’impiego di enunciati quali « l’attuale re di Francia è calvo » non è vin80 Cfr. A. Meinong, Untersuchungen zur Gegenstandstheorie und Psychologie, Leipzig 1904 ; M. Black, Russell’s Philosophy of Language, in The Philosophy of B. Russell, a cura di P.A. Schilpp, New York 19513, p. 241 ; D.F. Pears, B. Russell and the British Tradition in Philosophy, New York 1967, pp. 97-115. 81 Cfr. B. Russell e Whitehead, Principia Mathematica, cit., vol. i, p. 66 ; B. Russell, Introduction to Mathematical Philosophy, London 1919, p. 177. 82 Cfr. P.F. Strawson, On Referring, cit., p. 328. 83 On Referring, cit., p. 327.
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colato ad un determinato referente, ma può concernere referenti svariati, ossia nel caso specifico, persone differenti.84 Sono le circostanze dell’uso che consentono di stabilire se gli enunciati contenenti descrizioni definite vengono impiegati per designare cose, persone, eventi, ossia se vengono adoperati per un uso linguistico genuino. Qualora le descrizioni definite vengano impiegate in enunciati che non si riferiscono a persone, cose e eventi, gli enunciati in questione non sono né veri, né falsi, né insignificanti (secondo la tripartizione russelliana), ma sono semplicemente inutili ( pointless).85 Nel quadro delle interpretazioni che assumono la funzione descrittiva del linguaggio come la funzione privilegiata rientra, secondo gli analisti del linguaggio, anche la teoria semantica della verità di Carnap e Tarski, in base alla quale « vero » è un termine appartenente ad un sistema sintattico interpretato e funge da predicato descrittivo ricorrente negli enunciati di un metalinguaggio che descrivono le proprietà degli enunciati appartenenti ad un linguaggio oggetto.86 Gli analisti oxoniensi hanno rilevato che se l’ascrivere il predicato semantico vero ad un enunciato è un’operazione logicamente distinta dalla semplice asserzione dell’enunciato medesimo, come invece aveva ritenuto F.P. Ramsey,87 ciò però non implica la distinzione di un livello meta-linguistico avente una funzione descrittiva delle proprietà delle espressioni appartenenti al linguaggio-oggetto.88 In sostanza, la teoria semantica della verità è modellata, secondo Strawson, su un fraintendimento linguistico dal quale è indotta ad assi84
On Referring, cit., p. 326. On Referring, cit., p. 331. 86 Cfr. A. Tarski, The Semantic Conception of Truth and the Foundations of Semantics, in « Journal of Philosophy and Phenomenological Research », iv, 1944, pp. 341-75 ; R. Carnap, Foundations of Logic and Mathematics, in International Encyclopedia of Unifled Stience, vol. i, parte i, Chicago 1939, pp. 143-211 ; Id., Introduclion to Semantics, Cambridge (Mass.) 1942 ; Id., Meaning and Necessity : a Study in Semantics and Modal Logic, Chicago, 19562, in particolare pp. 205-21, 222-29, 237-47 ; cfr. la recensione polemica di G. Ryle, in « Philosophy », xxiv, 1949, pp. 69-76. 87 F.P. Ramsey, The Foundations of Mathematics and other Logical Essays, London 1931, pp. 142-43. 88 Cfr. P.F. Strawson, Truth, in « Analysis», ix, 1949, pp. 83-84. 85
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milare come sinonimi i termini « vero-funzionale » e « significato » nel quadro di una dottrina estensionale della logica ; essa analizza il significato di un enunciato del tipo « il monarca è deceduto » nei termini dell’enunciato meta-linguistico « “ il monarca è deceduto ” significa (in italiano) che il re è morto ». Ma in quanto il termine « vero » è stato in partenza interpretato come un « predicato descrittivo », la teoria semantica della verità rimpiazza l’espressione « significa » nell’enunciato meta-linguistico con la clausola « è vero se e soltanto se », pertanto l’enunciato meta-linguistico suona : « “ il monarca è deceduto ” è vero (in italiano) se e soltanto se il monarca è deceduto ».89 Secondo l’analisi del linguaggio, il problema filosofico concernente il problema della verità non può essere risolto mediante la costruzione di un rigido modello formale che non avrebbe riscontro nelle regole e nelle convenzioni del linguaggio alla cui costituzione contribuiscono le procedure dell’uso ordinario. Il concetto « vero » non è riducibile al modulo restrittivo di una funzione descrittiva, ma deve essere analizzato nelle differenti e alternative modalità del suo effettivo impiego. In questo senso, l’analisi del linguaggio ha reperito una famiglia di usi differenti collegati al termine « vero », nessuno dei quali ha una funzione descrittiva : l’uso confermativo (confirmatory use) ; l’uso esecutivo ( performative use) nel senso, come vedremo, delineato da J.L. Austin ; l’uso concessivo (concessive use) ; l’uso per fare ammissioni (admissive use) ; l’uso per esprimere accordo (agreeing use) ; l’uso per riconoscere una novità (the “ novelty ” use).90 La teoria russelliana delle descrizioni definite o la dottrina semantica della verità di Carnap e Tarski sono paradigmi di quella che, a giudizio degli analisti del linguaggio, è stata una generale e persistente tendenza della logica simbolica a fraintendere le regole che disciplinano le espressioni linguistiche ordinarie, assumendole entro schemi interpretativi riduzionistici in conflitto con la varietà degli usi ordinari. Fraintendendo le convenzioni nelle quali si trova depositata la grammatica del linguaggio comune, la logica simbolica 89 90
Cfr. Truth, cit., pp. 85-87. Cfr. Truth, cit., pp. 89-96.
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avrebbe costruito risposte e soluzioni ingannevoli per problemi mal posti e per false perplessità intellettuali, perdendo i titoli che essa vantava per risolvere i problemi filosofici.91 10. La logica informale e la grammatica del linguaggio ordinario Analogamente all’operazione di revisione critica condotta nei confronti della logica simbolica, l’analisi del linguaggio ha rivendicato sul piano delle indagini epistemologiche una molteplicità di usi differenti delle espressioni linguistiche che i moduli interpretativi tradizionali e recenti avevano invece forzato entro la categoria del linguaggio descrittivo. In questo senso, l’analisi del linguaggio ha respinto l’identificazione stabilita dai neo-positivisti tra il significato di un enunciato e il metodo della sua verificazione. Non tutte le classi di espressioni sono soggette a questo criterio ; il significato degli enunciati che si riferiscono alle percezioni è reperibile al di fuori di procedure di verifica e di tecniche controllate.92 Il criterio della verificazione implica, inoltre, l’estensione generalizzata degli schemi concettuali collegati ai termini “ vero ” e “ falso ” a qualsiasi categoria di espressioni. Gli analisti del linguaggio hanno rilevato che ad un modulo di questo tipo si sottraggono le classi di espressioni contenenti comandi, preghiere, domande, promesse e simili, la grammatica delle quali non è costruibile in termini del linguaggio descrittivo.93 Il significato delle espressioni linguistiche non è metodologicamente costruibile in riferimento alla struttura del designatum : « “ Che cosa quell’espressione significa ” è interpretato – osserva Ryle contro i neo-positivisti – 91 Cfr. P.F. Strawson, On Referring, cit., pp. 343-44 ; Id., Introduzione alla teoria logica, cit., pp. 76 e 298-99 ; H.L.A. Hart, A Logician Fairy Tale, in « The PhiIosophical Review », lx, 1951, pp. 198-212; G.J. Warnock, Metaphysics in Logic, in « Proceedings of the Aristotelian Society », li, 1950-51, pp. 218-20 ; G. Ryle, Heterologicality, in « Analysis », xi, 1951, 61-69 ; Id., Formal and Informal Logic, in Id., Dilemmas, Cambridge 1956, pp. 111-29. 92 G.J. Warnock, Verification and Use of Language, cit., p. 9 ; cfr. anche J. Wisdom, Note on the new Edition of Professor Ayer’s “ Language, Truth and Logic ”, in Philosophy and Psycho-Analysis, cit., pp. 229 sgg. 93 Cfr. G.J. Warnock, Verification and Use of Language, cit., p. 4.
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come il designato di qualche correlato extra-linguistico dell’espressione, come il cane che risponde al nome “ Fido ” ».94 In questo senso, l’analisi del linguaggio ha emancipato l’interpretazione dei fenomeni linguistici dal riferimento obbligato a modelli ontologici di qualche tipo ; il reperimento del significato di un’espressione è disponibile nel modello grammaticale che ne indica le regole e le convenzioni d’uso.95 In funzione critica di quella che egli chiamava « la fallacia descrittiva », J.L. Austin forniva in Other Minds,96 il modello di una procedura analitica assai penetrante rivolta a sottrarre una vasta area di espressioni che la filosofia tradizionale e più recentemente l’atomismo logico e il neo-positivismo avevano interpretato nei termini della funzione descrittiva del linguaggio.97 Austin, nell’ambito di un numero assai considerevole di espressioni, ha riconosciuto al modo indicativo un settore del linguaggio che non è suscettibile di esser ridotto sotto la grammatica delle espressioni descrittive o constatative. Austin ha introdotto una distinzione tra espressioni descrittive o constatative designanti cose, eventi, processi (constative utterances) e espressioni che costituiscono l’adempimento di una funzione, l’assolvimento di un compito ( performative utterances). Espressioni di questo tipo non sono né vere, né false, ossia non descrivono il processo cui si riferiscono, poiché esse ne sono parti costitutive ; « chiamo questa nave Andrea Doria » non è un enunciato che descrive il battesimo di una nave, perché esso fa parte, invece, della cerimonia del battesimo della nave. L’asserzione « garantisco che queste uova sono fresche » non è la descrizione di una garanzia, perché essa è la prestazione di 94
Meaning and Necessity, in «Philosophy», xxiv, 1949, p. 70. Cfr. G.J. Warnock, Verification and Use of Language, cit., p. 12; G. Ryle, Ordinary Language, in « The Philosophical Review », lxii, 1953, p. 177 ; P.H. Nowell-Smith, Ethics, London 1954, pp. 61 e 98. 96 Cfr. J.L. Austin, Philosophical Papers, a cura di J.O. Urmson e G.I. Warnock, Oxford 1961, 44-84 ; Id., The Meaning of a Word, in Id., Philosophical Papers, cit., pp. 28-29. 97 Cfr. P.H. Nowell-Smith, Ethics, cit., pp. 61-62. 98 Cfr. J.L. Austin, Other Minds, in Philosophical Papers, cit., p. 71. Austin ha rimesso in discussione successivamente questa distinzione in How to do things with Words, a cura di J.O. Urmson, Oxford 1962, pp. 132 sgg. 95
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una garanzia. Le « performative utterances » adempiono ad una funzione e non sono il resoconto dell’adempimento medesimo.98 Riprendendo il tema wittgensteiniano che il linguaggio è una forma di vita (Lebensform),99 Austin scopriva modalità di impiego delle espressioni linguistiche che si sottraevano alla grammatica del linguaggio descrittivo e il cui significato andava pertanto reperito nella funzione cui assolvono nel contesto definito di un’esperienza, entro un certo sistema di comportamenti e di condizioni caratteristiche del loro impiego.100 In questo senso, Austin forniva un nuovo modello interpretativo della grammatica delle espressioni che asseriscono il possesso di conoscenze del tipo « io so », « io ho capito » e simili. Secondo Austin, espressioni di questo tipo non sono descrittive, esse non designano processi specifici e distinti come invece aveva stabilito uno schema tradizionale e diffuso ; « il supporre che “ io so ” è una frase descrittiva è soltanto un esempio della fallacia descrittiva così comune in filosofia ».101 Espressioni del tipo « io so » e simili non descrivono processi specifici e controllati, ma costituiscono operazioni linguistiche con le quali i parlanti impegnano la loro reputazione, la loro competenza e autorità nell’asserire una proposizione.102 Esse risultano imparentate con la grammatica dei termini « giurare », « garantire », « dare la parola », « promettere ».103 Analogamente, H.L.A. Hart indagando la logica del concetto di azione umana, ha restaurato la grammatica delle espressioni del tipo « l’ho fatto », « l’ha fatto », – tradizionalmente interpretate come asserzioni di tipo descrittivo – entro la distinta e indipendente categoria delle « espressioni ascrittive », l’uso delle quali non descrive azioni, ma assolve alla funzione di ascrivere diritti e responsabilità.104 Enunciati come « tu l’hai fatto » oppure « questo è tuo » sono espressioni ascrittive (ascriptive utterances), la 99
Cfr. Philosophische Untersuchungen, parte i, § 19. Cfr. S. Hampshire, Interpretation of Language, in British Philosophy in the Mid-Century, a cura di C.A. Mace, London 1957, p. 274. 101 Cfr. Other Minds, cit., p. 71. 102 Cfr.,Other Minds, cit., p. 67. 103 Cfr., Other Minds, cit., pp. 69-70. 104 Cfr. H.L.A. Hart, The Ascription of Responsability and Rights, in Logic and Language, a cura di A.G.N. Flew, Serie i, Oxford 1955, p. 145. 100
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grammatica delle quali non è collegata alla categoria delle espressioni descrittive come « bianco », « caldo », « piccolo », ma a quella delle espressioni che coinvolgono l’imputazione di responsabilità o l’attribuzione di diritti come avviene, per esempio, nel linguaggio dei dibattiti giudiziari.105 La rottura con gli schemi interpretativi che modellavano la grammatica di tutte le espressioni linguistiche sul paradigma dei nomi propri e delle definizioni ostensive ha consentito all’analisi del linguaggio di impostare la ricerca logica non nei termini di un’indagine rivolta alla definizione di una unità formale rigida che disciplinerebbe l’intero funzionamento linguistico, ma di una tecnica analitica destinata ad accertare differenti categorie d’uso delle espressioni, ciascuna disciplinata da regole e convenzioni autonome e indipendenti.106 In questo senso, G. Ryle in The Concept of Mind (1949) ha ricondotto i termini del tradizionale dibattito sulla natura della mente e dei processi mentali tra meccanicisti e materialisti da un lato e spiritualisti dall’altro ad un fraintendimento della grammatica del linguaggio ordinario ; entrambe le parti hanno imputato il criterio di significanza delle espressioni linguistiche che si riferiscono ai comportamenti di tipo mentale alla funzione di designazione di processi fisici oppure di processi immateriali, appartenenti ad un dominio di operazioni puramente ideali, ma formalmente modellati secondo il paradigma della designazione degli oggetti fisici e pubblicamente osservabili. Il fantasma dell’interiorità, lo spettro dentro la macchina (the Ghost in the machine), al quale ciascun individuo avrebbe un accesso privilegiato entro la propria coscienza, precluso alle menti altrui, è lo schema spiritualistico che « una dottrina filosofica ufficiale » a partire da Descartes ha fondato sulla distinzione dei due domini del corpo e della mente, ma anche sull’interpretazione della mente e dei fenomeni dì tipo mentale entro categorie formalmente analoghe a quelle in cui vengono espressi i fenomeni fisici e intersoggettivamente controllabili. La dottrina spiritualistica ufficiale risulta essere così un’ « ipotesi para-meccanica » sulla natura della mente, poi105
Cfr. The Ascription of Responsability and Rights, cit., p. 147. Cfr. S. Toulmin, An Examination of the Piace of Reason in Ethics, Cambridge 1953, p. 83. 106
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ché le distinzioni che essa prevede tra il fisico e il mentale cadono tuttavia all’interno di un comune apparato concettuale costituito delle categorie di « cosa », « materia », « attributo », « stato », « processo », « cambiamento », « causa », « effetto ».107 Descartes e la dottrina ufficiale sulla mente da lui inaugurata avrebbero scavato la grammatica del linguaggio che si riferisce agli stati della mente nelle medesime categorie logiche in cui Galilei aveva costruito l’interpretazione meccanicistica del mondo fisico.108 Disimpegnando la tecnica analitica dal modello « oggetto-designazione », proprio delle definizioni ostensive e del linguaggio descrittivo, Ryle ha ricostruito la logica del concetto di mente, di stati e attività mentali in termini di ben riconosciute modalità comportamentali nelle quali si esprimono certi tipi di condotta umana. In questo senso, la mente non è un centro addizionale (« extra centre ») che si aggiunge ad una classe o serie di comportamenti (volitivi, cognitivi, affettivi, percettivi) allo stesso modo che il concetto di « Università» non è un’unità addizionale di una serie costituita di aule, biblioteche, laboratori, uffici, alloggi. Il concetto di mente designa la modalità di organizzazione di quei comportamenti che sono variamente definiti percettivi, cognitivi, emotivi, affettivi (così come l’Università è il modo in cui sono organizzate aule, biblioteche, alloggi, uffici).109 Nella direzione di una rottura con lo schema tradizionale che assumeva le espressioni del linguaggio morale entro la grammatica della funzione descrittiva si sono espresse le indagini che gli analisti oxoniensi hanno condotto sullo statuto logico-linguistico degli enunciati etici.110 Il modello « oggettodesignazione » aveva influenzato : 1) le dottrine metafisiche, le quali avevano interpretato il concetto del bene e più in generale i concetti di valore in riferimento ad un dominio di 107
Cfr. G. Ryle, The Concept of Mind, London 1966, p.19. Cfr. ivi, pp. 19-20. 109 Cfr. ivi, p. 16. 110 Cfr., per esempio, S. Toulmin, An Examination of the Place of Reason in Ethics, cit. ; P. Nowell-Smith, Ethics, cit. ; R.M. Hare, The Language of Morals, Oxford 1952 ; K. Baier, Decisions and Descriptions, in « Mind », lx, 1951, pp. 181-204. 108
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oggetti extra-temporali ; 2) le teorie naturalistiche che avevano identificato quei concetti e quei termini con oggetti o proprietà spazio-temporali ; 3) la dottrina di G.E. Moore e dell’intuizionismo etico del bene morale come qualità nonnaturale ; 4) infine, la dottrina emozionalista del valore dei neo-positivisti.111 Gli analisti del linguaggio hanno messo in discussione l’assunzione dogmatica che si annida nella generalizzazione della funzione descrittiva alla classe degli enunciati etici, per effetto della quale le espressioni del linguaggio morale devono necessariamente designare qualche tipo di fatti, processi, oggetti o, diversamente, cadere al di fuori dei limiti del linguaggio significante.112 L’analisi del linguaggio ha spostato il dibattito entro l’ambito più vasto e comprensivo di un’indagine che non vincola la tecnica di controllo delle espressioni etiche alle procedure di una ragione destinata invariabilmente ad addurre fatti o a dedurre da essi un sistema di proposizioni. La modalità procedurale prevista per la giustificazione di un enunciato non consiste soltanto nell’addurre fatti, né d’altronde tutte le operazioni razionali sono di tipo deduttivo.113 L’analisi del linguaggio etico si è così impegnata in un’indagine guidata da un concetto più aperto e più disponibile di ragione, destinata non ad esibire schemi ontologici da correlare agli enunciati etici, ma ad esplorare le regole e le convenzioni che disciplinano l’area del linguaggio morale, ossia la classe indipendente e autonoma dei termini di valore (value words) nella quale vengono espresse scelte, decisioni, preferenze, esortazioni, approvazioni, riprovazioni e simili.114 All’indagine sulla logica dei concetti morali espressa dall’analisi del linguaggio, non compete la funzione di orientare o influenzare la condotta umana. Le scelte pratiche, la selezione tra i modelli di condotta alternativi sono rimesse alle decisioni private e ir111 Cfr. A.J. Ayer, Language, Truth and Logic, London 19582, pp. 107 e sgg. ; C.L. Stevenson, Ethics and Language, New Haven-Yale University Press, 1944. 112 Cfr. P. Nowell-Smith, Ethics, cit., pp. 61-62. 113 Cfr. S. Toulmin, An Examination of the Place of Reason, cit., pp. 42, 44, 68, 82. 114 Cfr. Nowell-Smith, Ethics, cit., pp. 100, 145, 163, 182. R.M. Hare, The Language of Morals, cit., p.v.
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revocabili di ciascuno.115 All’analisi del linguaggio morale è pertinente invece la funzione più modesta e limitata di offrire moduli linguistico-concettuali appropriati al tipo di condotta prescelta e di chiarificare l’area linguistica nella quale vengono formulati i dibattiti sui termini di valore. 11. Proposizioni grammaticali e funzione dell’uso La riduzione del significato delle espressioni linguistiche alle modalità del loro uso entro il sistema dei comportamenti pubblici, aperti, dei membri di una comunità e nell’ambito di circostanze caratteristiche del loro impiego, costituisce lo schema teorico centrale che l’ultimo Wittgenstein ha fornito alla analisi del linguaggio. Esso ha adempiuto ad una funzione decisiva nella revisione radicale alla quale è stato sottoposto il modulo tradizionale del concetto di analiticità. Anziché ascrivere lo statuto di analiticità degli enunciati ad una relazione di intrinseca necessità ideale tra i termini di un’espressione, l’analisi del linguaggio ne ha ricondotto i fondamenti agli schemi linguistici e concettuali sanzionati nel corso delle procedure dell’impiego ordinario del linguaggio. L’analiticità non è più, in questo senso, una proprietà riconoscibile nella dimensione di una necessità formale che collegherebbe i termini di un’espressione e che precostituirebbe il loro rapporto indipendentemente dal contesto effettivo d’impiego. In luogo di un rapporto di tipo essenzialistico che la filosofia e la logica tradizionalmente avevano accordato ai termini delle espressioni definite come analitiche, gli analisti del linguaggio hanno rimpiazzato un modulo più allentato di una connessione che risulta radicata negli abiti di uniformità che una prassi sociale ha realizzato intorno a certi tipi di collegamenti tra le espressioni del linguaggio ordinario.116 In questo senso risultava mal posto, secondo l’analisi del linguaggio, il programma del logicismo e del neo-positivismo destinato al disciplinamento delle procedu115 Cfr., Nowell-Smith, Ethics, cit., p. 320 ; R.M. Hare, The Language of Morals, cit., p. 69. 116 Cfr. M. Weitz, Analytic Statements, in « Mind », lxiii, 1954, p. 493 ; P. Nowell-Smith, Ethics, cit., pp. 76 e 98.
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re di formazione e di trasformazione dei segni linguistici entro formule che prescindono dal riferimento ai contesti empirici, dalle modalità istituite del linguaggio quotidiano. Gli analisti oxoniensi hanno messo in discussione il programma dei logici che « sperano di rimpiazzare il filosofare con il calcolo ».117 La varietà dei moduli alternativi d’uso di un’espressione dissolve, secondo l’analisi del linguaggio, la possibilità di fissare la relazione tra i suoi termini entro uno schema unico e invariante. Anziché essere il sintomo di una connessione interna ed essenziale, la regolarità delle procedure linguistiche deve essere imputata alle uniformità dei comportamenti espressi dai membri di una comunità linguistica, alla circostanza che esistono modalità selezionate e ricorrenti dell’impiego del linguaggio.118 Il disciplinamento mediante norme rigide dei significati linguistici assolve alla richiesta di una terminologia tecnica, specialistica controllata che scaturisce nei settori delimitati dall’area linguistica delle discipline scientifiche. Ma esso non ha la funzione, né la prerogativa di definire i modelli di significanza di termini quali « cosa », « causa », « vero », « conoscenza », che sono, prima del loro impiego specialistico, parole del linguaggio comune, « parole pubbliche », il cui significato viene appreso nel corso dell’esperienza comune ; parole che « noi impieghiamo prima di cominciare a sviluppare o a seguire teorie specialistiche ».119 I concetti e gli schemi linguistici dell’esperienza e della vita d’ogni giorno sono la matrice dei linguaggi scientifici; essi costituiscono « i rudimenti di ogni forma di pensiero, incluso quello specialistico ».120 La giustificazione delle categorie d’uso del linguaggio rimanda agli abiti e alle convenzioni che si sono consolidati nelle esperienze delle comunità linguistiche. Il riconoscimento, allora, di un certo modulo di interazione comunicativa esistente è sufficiente a dissolvere il problema filosofico che tende a metterne in questione la legittimità. La dottrina filosofica che sostiene l’impossibilità della conoscenza delle menti altrui 117 118 119 120
G. Ryle, Ordinary Language, cit., pp. 183-84. Cfr., P. Nowell-Smith, Ethics, cit., pp. 68, 91, 98, 329. G. Ryle, Ordinary Language, cit., p. 171. Ibidem.
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non risulta sostenibile una volta che sia messa a confronto con le procedure del linguaggio ordinario nel corso delle quali gli uomini comunemente fanno asserzioni sugli stati mentali altrui.121 12. La natura dei problemi filosofici Nelle opere della seconda maniera, Wittgenstein aveva interpretato i problemi filosofici tradizionali come fraintendimenti delle reali modalità di funzionamento del linguaggio.122 L’analisi del linguaggio ha confermato il verdetto del filosofo austriaco. Austin ascriveva l’origine delle dottrine filosofiche false o assurde al « peccato originale del filosofo che si getta fuori dal giardino del mondo in cui viviamo »,123 che si affida a schematizzazioni e a generalizzazioni premature senza aver condotto un’indagine accurata del terreno linguistico sul quale sorgono i problemi filosofici investigati, che drammatizza rozze e primitive dicotomie (per esempio, quella fenomenistica tra dati di senso e oggetti fisici),124 senza ispezionare preliminarmente lo spettro di distinzioni linguistico-concettuali che afferiscono ad un campo di problemi. Ryle ha imputato ad una matrice linguistica l’origine delle teorie filosofiche assurde e incontrollate ; queste ultime sorgono da ricorrenti errori categoriali (category mistakes), ossia dal fraintendimento e dalla assimilazione indebita di differenti categorie degli usi linguistici, per effetto dei quali fatti appartenenti ad una certa categoria, con la quale è legittimo operare in determinate circostanze, sono adagiati entro categorie appropriate ad un’altra classe di fatti.125 121 Cfr. G. Ryle, The Concept of Mind, cit., pp. 62 e 76 ; J.L. Austin, Other Minds, cit., pp. 66, 71, 83. 122 Cfr. Philosophische Untersuchungen, Parte i, §§ 109-111. 123 J.L. Austin, Other Minds, cit., p. 58 ; cfr. R.M. Chisholm, Austin’s Philosophical Papers, in Symposium on J.L. Austin, a cura di K.T. Fann, London 1969, p. 106. 124 Cfr. J.L. Austin, Sense and Sensibilia, a cura di G.J. Warnock, Oxford 1962, p. 3. 125 Cfr. G. Ryle, Categories, in Logic and Language, a cura di A.G.N. Flew, serie ii, Oxford 1959, pp. 78-79 ; Id., The Concept of Mind, cit., p. 8.
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Nondimeno, l’analisi del linguaggio ha complessivamente accordato alla filosofia un compito meno negativo e angusto di quello ascrittole da Wittgenstein, secondo il quale doveva esaurire il proprio compito dissolvendo i fraintendimenti della logica del linguaggio ordinario che suscitano i problemi, le perplessità e gli enigmi filosofici. Su questo terreno, numerosi esponenti dell’analisi del linguaggio hanno preso le distanze da Wittgenstein, manifestando un atteggiamento più cauto nei confronti della tradizione filosofica, rivendicando un compito positivo per l’indagine filosofica alla quale hanno accordato una funzione di chiarificazione della logica del linguaggio ordinario, fornita di un interesse autonomo e indipendente. Gli esponenti della corrente dell’analisi terapeutica, tra i quali vanno menzionati M. Lazerowitz, G.A. Paul, N. Malcolm hanno interpretato le proposizioni filosofiche come raccomandazioni e proposte espresse nella forma ingannevole di una terminologia ontologica, destinate a modificare l’uso del linguaggio comune, ed hanno interpretato i dibattiti filosofici come conflitti tra proposte alternative di modalità d’impiego del linguaggio.126 John Wisdom, successore di Wittgenstein a Cambridge, ha rivendicato una funzione positiva per gli enunciati metafisici ; nonostante che essi militino contro gli schemi linguistico-concettuali dell’esperienza ordinaria, hanno il potere di disvelare, sia pure entro moduli linguistici ingannevoli, proprietà e distinzioni dei fenomeni linguistici e, indirettamente, dei fatti extra-linguistici ai quali si riferiscono. In forza del loro carattere paradossale, gli enunciati filosofici costituiscono penetranti suggestioni destinate a reperire e a mettere in luce distinzioni che rimangono coperte nell’uso ordinario del linguaggio.127 126 Cfr. B.A. Farrell, An Appraisal of Therapeutic Positivism, in « Mind », lv, 1946, pp. 25-48 ; parte ii, pp. 133-50 ; M. Lazerowitz, The Existence of Universals, in « Mind », lv, 1946, pp. 1-24 ; Id., Negative Terms, Analysis, xii, 1952, pp. 51-66 ; N. Malcolm, Are Necessary Propositions Really ‘ Verbal ’ ?, in « Mind », xlix, 1940, pp. 189-203 ; A.G. Paul, Is there a problem about Sense-data ?, in Logic and Language, a cura di A.G.N. Flew, serie i, Oxford 1955, pp. 101-16 ; Duncan-Jones, S. Hampshire, S. Körner, Are Philosophical Questions Questions of Language ?, in « Proceedings of the Aristotelian Society », vol. suppl. xxii, 1948, pp. 31-48. 127 Cfr. J. Wisdom, Other Minds, Oxford 1952, pp. 208 e 259 ; Id., Os-
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Mentre per la corrente dell’analisi terapeutica di Cambridge l’indagine sulle modalità di funzionamento del linguaggio ordinario ha una funzione subordinata alla dissoluzione dei problemi filosofici, la scuola analitica di Oxford ha sollevato la chiarificazione della logica del linguaggio ordinario al livello di un’indagine rivestita di un interesse autonomo e indipendente. L’analisi sistematicamente condotta sul linguaggio quotidiano costituisce lo strumento di scoperta e di appropriazione degli strumenti conoscitivi e delle articolazioni concettuali dell’esperienza che hanno resistito alla prova del tempo e mediante i quali gli uomini hanno potuto realizzare compiti altamente complessi. In questo senso, l’analisi del linguaggio viene ad acquisire secondo Austin una portata teorica che trascende i limiti della mera indagine linguistica, per investire anche le situazioni reali sulle quali vertono le espressioni linguistiche : « quando esaminiamo ciò che dovremmo dire, quali parole dovremmo usare e in quali situazioni, noi non consideriamo semplicemente le parole […], ma anche le realtà per parlare delle quali usiamo le parole ».128 F. Waismann, P.F. Strawson, G.J. Warnock hanno rivendicato una funzione più costruttiva del discorso filosofico di quella che era stata accordata da Wittgenstein ; una funzione che si esprime nei termini di una descrizione e organizzazione sistematica delle categorie d’uso del linguaggio, nel senso di un compito « inventivo » o « costruttivo » destinato alla definizione di nuove grammatiche, di nuovi apparati linguistico-concettuali alternativi a quelli esistenti.129 nel senso della definizione di nuove visioni (visions), di nuove scene intellettuali (intellectual scenes), destinate a soppiantare gli schemi concettuali esausti della tradizione.130 tentation, in Philosophy and Psycho-Analysis, Oxford 1957, pp. 5 e 12-13 ; Philosophical Perplexity, ivi, pp. 37-39, 41-46, 50; Philosophy and PsychoAnalysis, ivi, p. 178 ; Things and Persons, ivi, p. 228. 128 A Plea for Excuses, in Id., Philosophical Papers, cit., pp. 130-33. 129 Cfr. P.F. Strawson, Construction and Analysis, in The Revolution in Philosaphy, a cura di G. RyIe, London 1957, pp. 106-10 ; G.J. Warnock, Analysis and Imagination, in The Revolution in Philosophy, cit., pp. 111-26. 130 Cfr. F. Waismann, How I see Philosophy, in Contemporary British Philosophy, a cura di H.D. Lewis, Serie iii, London 1956, pp. 447-90.
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Ma il richiamo alle modalità di funzionamento del linguaggio ordinario non ha significato per la scuola di Oxford un programmatico appello a quello che risulta essere l’uso linguistico prevalente. Un appello ad autorità di questo tipo è stato sconfessato come filosoficamente insignificante.131 L’analisi del linguaggio si è proposta un’indagine concettuale delle categorie d’uso che disciplinano la logica delle espressioni linguistiche. In altri termini, essa si è proposta l’indagine di un campo d’operabilità aperto, senza confini prefissati, che è disponibile nell’ambito di impiego delle espressioni linguistiche, mediante tecniche procedurali dispensate da assunzioni metodologiche precostituite.132 Aldo Giorgio Gargani Luglio 2003
131
Cfr. G. Ryle, Ordinary Language, cit., p. 177. Cfr. G. Ryle, Taking Sides in Philosophy, in « Philosophy », xii, 1937, p. 332 ; S. Hampshire, Changing Methods in Philosophy, « Philosophy », xxvi, 1951, p. 144 ; I.L. Austin, A Plea for Excuses, cit., pp. 132-33. 132
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David Pears Università di Oxford
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A COMPARISON OF TWO ARGUMENTS
The two arguments that I am going to compare with one another occupy central positions in the books in which they occur, one in the Tractatus and the other in Philosophical Investigations. The Tractatus argument is the proof of logical atomism, at 2.0211-2, and the Investigations argument is the refutation of the Platonizing explanation of the regular use of a word at § 201. I hope that a comparison of these two arguments will throw light on the development of Wittgenstein’s philosophy. First, I will give you the two arguments. The Tractatus argument goes like this : « If the world had no substance, then whether a proposition had sense would depend on whether another proposition was true. In that case we could not put together any picture of the world (true or false) ». (T.L.P. 2.0211-2).
This is a reductio : if there were no simple objects, language would be impossible ; but we do have language and so there must be simple objects. The Investigations argument is also a reductio, but it has a different kind of target : it is not aimed at philosophers who reject a theory like logical atomism but, rather, at those who, accept a theory, and its conclusion, that Platonism fails to explain the regular use of a word, is not followed by a better explanation. Wittgenstein had come to believe that there are no philosophical theories and that the task of philosophy is not to explain but only to describe. The Investigations argument goes like this:
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UN CONFRONTO TRA DUE ARGOMENTI
Le due argomentazioni che mi accingo a confrontare occupano una posizione centrale nei libri in cui compaiono, vale a dire nel Tractatus e nelle Ricerche Filosofiche. L’argomentazione del Tractatus è la prova dell’atomismo logico, e viene sviluppata nelle proposizioni 2.0211-2, mentre l’argomentazione delle Ricerche è la confutazione della spiegazione platonica dell’uso regolare di una parola nel paragrafo 201. Spero che il confronto tra queste due argomentazioni getterà luce sullo sviluppo della filosofia di Wittgenstein. Per prima cosa, vi presenterò le due argomentazioni. L’argomentazione del Tractatus è la seguente: « Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe allora dall’essere un’altra proposizione vera. Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine del mondo (vera o falsa) » (TLP 2.0211-2, trad. di A.G. Conte).
Questa è una reductio : se non ci fossero oggetti semplici, il linguaggio sarebbe impossibile ; ma noi abbiamo il linguaggio, quindi devono esserci oggetti semplici. Anche l’argomentazione delle Ricerche è una reductio, ma ha un obiettivo diverso: non è rivolta ai filosofi che rifiutano una teoria come l’atomismo logico ma, piuttosto, a quelli che accettano una teoria, la cui conclusione, secondo la quale il platonismo non riesce a spiegare il regolare uso di una parola, non è seguita da una migliore spiegazione. Wittgenstein era giunto a credere che non ci fossero teorie filosofiche e che il compito della filosofia non fosse quello di spiegare ma solo quello di descrivere. L’argomentazione delle Ricerche è la seguente : « Il nostro paradosso era questo : una regola non può determinare alcun modo di agire, poiché qualsia-
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68 « This was our paradox : no course of action could be determined by a rule, because every course of action can be made out to accord with the rule. The answer was : if everything can be made out to accord with the rule, then it can also be made out to conflict with it. And so there would be neither accord nor conflict here. It can be seen that there is a misunderstanding here from the mere fact that in the course of our argument we give one interpretation after another, as if each one contented us at least for a moment, until we thought of yet another standing behind it. What this shows is that there is a way of grasping a rule which is not an interpretation, but which is exhibited in what we call “ obeying the rule ” and “ going against it ”, in actual cases » (P.I. § 201, first two paragraphs).
This too is a reductio argument, and it also has something else in common with the Tractatus argument : both arguments are connected with the doctrine of showing. Since that is the topic of this Colloquium, I will begin by looking at the connection. The Tractatus argument is designed to prove that the analysis of any singular factual sentence must terminate with elementary sentences containing names of simple objects. At that basic level nobody will be able to say what the words mean because saying is restricted to contingent sentences, and if the name “ a ” means the object a, it is not a contingent fact that it does so : if it is true that it means a, it is necessarily true. The meanings of names can only be shown by applying them, and since the senses of elementary sentences depend on the names that they contain, their senses can only be shown by using them. There is a paradox here and Wittgenstein makes the most of it in T.L.P. 3.263 : « The meanings of primitive signs can be explained by elucidations. Elucidations are propositions that contain the primitive signs. So they can only be understood if the meanings of those signs are already known ».
This paradox has two components, one general and the other specific. First, it is a general doctrine of the Tractatus that the equivalence of meaning of two phrases can only be
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69 si modo d’agire può essere messo d’accordo con la regola. La risposta è stata : se può essere messo d’accordo con la regola potrà anche essere messo in contraddizione con essa. Qui non esistono, pertanto, né concordanza né contraddizione. Che si tratti di un fraintendimento si può già vedere dal fatto che in questa argomentazione avanziamo un’interpretazione dopo l’altra ; come se ogni singola interpretazione ci tranquillizzasse almeno per un momento, finchè non pensiamo a un’interpretazione che a sua volta sta dietro la prima. Vale a dire : con ciò facciamo vedere che esiste un modo di concepire la regola che non è un’interpretazione, ma che si manifesta, per ogni singolo caso d’applicazione, in ciò che chiamiamo “ seguire la regola ” e “ contravvenire ad essa ” » (Ricerche Filosofiche, § 201, primi due paragrafi).
Anche questa è una reductio, ma ha anche qualcos’altro in comune con l’argomentazione del Tractatus : entrambe le argomentazioni sono connesse con la dottrina del mostrare. Poiché è l’argomento di questo Colloquio, inizierò indagando la connessione. L’argomentazione del Tractatus ha come scopo quello di provare che l’analisi di ogni singola proposizione fattuale deve terminare con una proposizione elementare che contiene i nomi di oggetti semplici. A tale livello elementare nessuno potrà dire che cosa le parole significano perché il dire è limitato a enunciati contingenti, e se il nome ‘a’ significa l’oggetto a, non è un fatto contingente che sia così : se è vero che significa a, è necessariamente vero. I significati (meanings) dei nomi possono essere mostrati solo con la loro applicazione, e poiché il senso (sense) delle proposizioni elementari dipende dai nomi che esse contengono, il loro senso (sense) può essere mostrato solo con il loro impiego. Qui c’è un paradosso e Wittgenstein in TLP 3.263 lo porta all’estremo : «I significati di segni primitivi si possono spiegare mediante chiarificazioni. Le chiarificazioni sono proposizioni che contengono i segni primitivi. Esse dunque possono essere comprese solo se già siano noti i significati di quei segni» (trad. A. G. Conte).
Questo paradosso ha due componenti, una generale e l’altra specifica. Primo, è una dottrina generale del Tractatus
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shown by their intersubstitutability and cannot be asserted by a factual sentence with a sense. Second, in the special case of elementary sentences there are no verbal equivalents of the names and so the paradox takes the specific form that their senses can only be shown by applying them. If you try to say that “ a ” means a, you will not succeed in saying anything. For if you understand the meaning of “ a ” you will know that it must mean a, and so your words will express a referential tautology rather than a proposition. The meaning of a name can only be shown by using the name itself. I do not want to get involved in the question about Wittgenstein’s concept of showing that was discussed here two years ago : « When he says that something can only be shown, does he suppose that it is something that we can dimly understand but cannot put into words, or does he suppose that it is simply nonsense ? » I doubt if this question can be given the same answer in all cases. There certainly seems to be something expressed however illegitimately by the words “ a ” means a. On the other hand, a Platonic explanation of linguistic regularity may well be completely vacuous. The investigation of this question would also need to allow for the possibility that his view of the matter changed over time. Anyway, as I said, I am by-passing this controversy, because my concern is with something else. I am concerned with the question, whether anything in the Tractatus argument survived in the argument developed in § 201 of Philosophical Investigations, and, in particular, whether there is any residual trace of the doctrine of showing. Of course, there has been a massive change of scene in the interim. Logical atomism, which was not a natural product of Wittgenstein’s mind and must surely have been the effect of Russell’s influence, has now vanished – in fact, it was the first Tractatus doctrine to go. But it did not vanish without a trace. For the conclusion of the Investigations argument is that the regular use of a word cannot be completely fixed by verbal specifications and must rest ultimately on the actual practice of applying words to things. If this were all, it would not amount to a very impressive survival of the earlier doctrine of showing. True, you can
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che l’equivalenza di significato (meaning) di due proposizioni può solo essere mostrata dalla loro intersostituibilità e non può essere asserita da una proposizione fattuale dotata di senso (with a sense). Secondo, nel caso specifico delle proposizioni elementari, non ci sono equivalenze verbali dei nomi ; il paradosso consiste allora propriamente nel fatto che i loro sensi (senses) possono essere mostrati solo con la loro applicazione. Se si prova a dire che ‘ a ’ significa a, non si riesce a dire niente. Infatti, se si comprende il significato di ‘ a ’, si comprenderà che esso deve significare a, e in questo modo queste parole esprimeranno una tautologia referenziale anziché una proposizione. Il significato (meaning) di un nome può soltanto essere mostrato usando il nome stesso. Non voglio entrare nel merito della discussione sul concetto di mostrare in Wittgenstein, che è stato discusso in questa sede due anni fa : « Quando egli dice che qualcosa può solo essere mostrato, ipotizza che sia qualcosa che indistintamente possiamo capire ma che non possiamo mettere in parole, o ipotizza che sia semplice nonsenso ? ». Dubito che a questa domanda sia possibile dare una risposta univoca per tutti i casi. Qui certamente sembra che ci sia qualcosa espresso, anche se illegittimamente, dalle parole « a » significa a. Dall’altro lato, una spiegazione platonica della regolarità linguistica sarebbe completamente inutile. L’indagine di questo argomento richiederebbe anche di ammettere la possibilità che il suo punto di vista su questa questione sia cambiato nel corso del tempo. Comunque, come ho detto, non mi occuperò di questa controversia, perché il mio interesse è diretto verso qualcos’altro. Mi prefiggo di indagare se qualcosa dell’argomentazione del Tractatus è sopravvissuto nell’argomentazione sviluppata nel § 201 delle Ricerche, e in particolare, se vi sia una traccia residuale della dottrina del mostrare. Naturalmente, c’è stato un imponente mutamento di scena nel frattempo. L’atomismo logico, che non era un prodotto naturale della mente di Wittgenstein e che può certamente essere imputato all’influsso di Russell è scomparso – infatti, è stata la prima dottrina del Tractatus ad essere liquidata. Ma non senza lasciare una traccia. Poiché la conclusione dell’argomentazione delle Ricerche è che il regolare uso di una parola non può essere
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only demonstrate the practice to a pupil – e.g. you could only demonstrate the meaning of the name “ a ” by applying it to the object a. But there is also a deeper similarity between the conclusions of the two arguments. In Investigations a pupil is taught the application of a word in a somewhat mysterious way : he can only be shown short segments of its application and yet he learns its application in all further cases. So what is transmitted by actual example is a disposition which cannot be completely demonstrated, and the teacher can only hope that the lesson will take root in similar soil in the pupil’s mind. Of course, this is a new development of the idea that something can only be shown : in the Tractatus the idea was only part of a general theory of language, but in Investigations it is enriched by considerations drawn from the philosophy of psychology. But it is a development of the same idea. I pointed out at the beginning of this paper that both arguments rely on an infinite regress and the next thing that I need to do is to establish the structures of the two regresses. This will be a lengthier task. I will start with the Tractatus regress. Epicurus used a very appealing argument to prove that space must be infinite : wherever it was supposed to terminate, you could imagine a man standing at that point and throwing a spear a little further. A philosopher who rejected Wittgenstein’s logical atomism would argue in a similar way : wherever Wittgenstein supposed that the analysis of a sentence terminated, he could imagine himself taking the words in the supposedly final analysis and analyzing them further. Wittgenstein’s response is the argument that I have quoted from the Tractatus : if that really were the situation, the sense of the original sentence would be indeterminate and it could never be given completely. Why not ? Because the sense of any sentence at that level would always depend on the truth of another sentence at the next level down. But what would be wrong with that ? Why does Wittgenstein use this as the punch-line of a reductio ? His idea seems to have been this : if there were no simple objects, then the predicament of a speaker trying to give the analysis of some-
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completamente fissato da specificazioni verbali e deve poggiare in ultima istanza sulla pratica effettiva dell’applicazione delle parole alle cose. Se fosse soltanto questo, non potremmo parlare di una significativa sopravvivenza della prima dottrina del mostrare. È vero, si può solo mostrare la pratica ad un allievo – ad esempio si può solo mostrare il significato (meaning) del nome ‘ a ’ applicandolo all’oggetto a. Ma c’è anche una somiglianza più profonda tra le conclusioni delle due argomentazioni. Nelle Ricerche, l’applicazione di una parola viene insegnata ad un allievo in un modo misterioso : gli vengono mostrati solo piccoli segmenti della sua applicazione e nonostante questo egli impara la sua applicazione in tutti gli altri casi. In questo modo, ciò che è trasmesso dall’esempio attuale è una disposizione che non può essere completamente mostrata, e l’insegnante può solo sperare che la lezione si radicherà in un terreno simile nella mente dell’allievo. Naturalmente, questo è solo un nuovo sviluppo del fatto che qualcosa può solo essere mostrato : nel Tractatus l’idea era solo una parte di una teoria generale del linguaggio, ma nelle Ricerche è arricchita da considerazioni tratte dalla filosofia della psicologia. Ma è uno sviluppo della stessa idea. All’inizio di questo saggio ho sottolineato che entrambe le argomentazioni poggiano su un regresso all’infinito e la prossima cosa da fare è stabilire le strutture dei due regressi. Questo sarà un compito piuttosto lungo. Partirò con il regresso nel Tractatus. Epicuro ha usato un’argomentazione molto accattivante per dimostrare che lo spazio deve essere infinito : ovunque si ponesse il limite si potrebbe sempre immaginare un uomo che, fermo in quel punto, scagliasse la lancia un po’ più in là. Un filosofo che rifiuti l’atomismo logico di Wittgenstein argomenterebbe in un modo simile : ovunque Wittgenstein ritenesse l’analisi di una proposizione portata a termine, si potrebbe immaginare di analizzare ancora le parole prese nell’analisi supposta definitiva. La risposta di Wittgenstein è l’argomentazione che ho citato dal Tractatus : se quella fosse la situazione, il senso della proposizione originale sarebbe indeterminato e non potrebbe mai essere dato completamente. Perché no? Perché il senso (sense) di ogni proposizione a quel livello dipenderebbe dalla verità di un’altra
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thing that he himself had said would be like the predicament of Epicurus’ spear-thrower : he would halt his analysis at some arbitrary point and he would claim that at that point the words just designated complex objects. But Wittgenstein argues that this would not be a tenable position. For the complex objects which those words designated would have to exist in order to be designated, and so further propositions would have to be true, viz. the propositions that their components had been combined with one another to produce them. In a later text, when Wittgenstein is explaining his argument, long since abandoned, he uses a homely example to illustrate it. Someone says « The broom is in the corner ». Now suppose that this sentence cannot be further analyzed in spite of the fact that the broom is a complex object with two components, the broomstick and the brush. In that case, the sense of the original sentence would depend on the fact that the two components were combined with one another. For if they were not combined, there would be no broom to be designated in the original, supposedly unanalyzable sentence. So how can he say that he cannot throw the spear any further ? Surely, if something has to be true before the original sentence can have a sense, it must also be true if that sentence is true, and so must be included in its sense. This argument assumes, reasonably enough, that words get their meanings from their applications to the world. It then argues for a conclusion that is not concerned with the way we go about applying them but, rather, with the remote presuppositions of our applying them, a theory of depth grammar. For the implied application of simple words to simple objects is not something that we do intentionally or even by remote control, because there is no feedback. The Investigations reductio works in a very different way. The main difference is that it does not try to establish a philosophical theory of Wittgenstein’s by reducing its negation to absurdity : it merely tries to reduce someone else’s philosophical theory to absurdity and then makes no attempt to put another philosophical theory in its place. So when the rejected theory has gone we are left standing in a pro-theoretical
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proposizione al livello inferiore. Ma che cosa ci sarebbe di sbagliato in tutto questo ? Perchè Wittgenstein se ne serve come della battuta finale di una reductio ? La sua idea sembra essere stata questa : se non ci fossero oggetti semplici, allora la situazione di un parlante che cercasse di fornire l’analisi di qualcosa che egli stesso ha proferito sarebbe come la situazione del tiratore di lance di Epicuro : arresterebbe la sua analisi ad arbitrio e sosterrebbe che in quel punto le parole designano solo oggetti complessi. Ma Wittgenstein sostiene che questa non è una posizione difendibile. Infatti gli oggetti complessi che quelle parole designano dovrebbero esistere per poter essere designati, e così ulteriori proposizioni dovrebbero essere vere, ossia le proposizioni le cui componenti sono state combinate l’una con l’altra per produrle. In un testo più tardo, quando Wittgenstein torna a spiegare la sua argomentazione, da tempo abbandonata, usa un esempio familiare per illustrarla. Qualcuno dice : « La scopa è nell’angolo ». Supponiamo adesso che questa frase non possa essere ulteriormente analizzata malgrado la scopa sia un oggetto complesso con due componenti, il manico e la spazzola. In quel caso, il senso (sense) della proposizione originale dipenderebbe dal fatto che le due componenti sono combinate l’una con l’altra. Infatti se non fossero combinate, non ci sarebbe la scopa designata nella frase originale, presumibilmente inanalizzabile. Allora, come può il lanciatore dire di non poter gettare la lancia più lontano ? Sicuramente, se qualcosa deve essere vero prima che l’enunciato originario possa avere un senso, deve anche essere vero se quell’enunciato è vero, quindi deve essere incluso nel suo senso. Questa argomentazione suppone, abbastanza ragionevolmente, che le parole ottengano i loro significati (meanings) dalla loro applicazione al mondo. Questo allora stabilisce una conclusione che non ha a che fare con il modo in cui noi le applichiamo, ma piuttosto, con i presupposti remoti di come le applichiamo, una teoria della grammatica profonda. Poiché l’applicazione delle parole semplici agli oggetti semplici non è qualcosa che noi facciamo intenzionalmente o addirittura secondo un controllo remoto, perché non c’è feedback. La reductio delle Ricerche funziona in un modo molto di-
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landscape wondering what the task of philosophy can be, if it is not to produce a better theory to explain phenomena – in this case the phenomenon of linguistic regularity. Wittgenstein’s response is well known : its task is only to describe and never to explain. A scientific explanation of the application of a word might be acceptable, because it would point to something genuinely independent of the application itself – e.g. the structures of our sense organs or our needs and interests. But a philosophical explanation like Platonism would be vacuous, because it would gesture in a direction where nothing independently identifiable could be found. That is his general reason for rejecting all philosophical explanations. They are figments of the imagination, more pictures that bewitch our minds and prevent us from seeing things as they are. In the case of Platonism this criticism is reinforced by a specific objection : it leads to the infinite regress developed in P.I. § 201. This reductio has a surprising feature : the argument is that Platonism is launched on an infinite regress of paraphrases because it takes no account of the actual practice of applying words to things. That practice was simply taken for granted in the Tractatus reductio, and it was the phenomenon that the Picture Theory was designed to explain. But now, in Investigations, it is represented as something that Platonism ignores, and ignores to its own detriment. This change of focus can be explained. In the Tractatus the possibility of applying words to things and using them to construct sentences with senses was what had to be explained and the explanation offered was logical atomism and the Picture Theory. In Investigations the strategic situation is very different, not only because philosophical theorizing is excluded, but also because Wittgenstein believes that the Platonist is looking in the wrong direction for the key to linguistic regularity. For he supposes that the only way to understand the phenomenon is to stay within language and seek definitional equivalences, giving the essences of universals, while Wittgenstein thinks that we will understand it only if we examine the actual application of words to things. Incidentally, we might regard Wittgenstein’s con-
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verso. La differenza principale è che non tenta di stabilire una teoria filosofica di Wittgenstein, riducendo la sua negazione all’assurdo ; cerca solo di ridurre all’assurdo la teoria filosofica di qualcun altro senza cercare di sostituirla con un’altra teoria filosofica. Così, quando la teoria filosofica rifiutata è stata abbandonata, ci ritroviamo in un paesaggio pre-teoretico domandandoci quale possa essere il compito della filosofia, se non quello di produrre una teoria migliore per spiegare i fenomeni – in questo caso il fenomeno della regolarità linguistica. La risposta di Wittgenstein è ben nota : il compito della filosofia è quello di descrivere e mai di spiegare. Una spiegazione scientifica dell’applicazione di una parola potrebbe essere accettata perché punterebbe a qualcosa di completamente indipendente dall’applicazione stessa – come ad esempio alle strutture dei nostri organi di senso o ai nostri bisogni e interessi. Ma una spiegazione filosofica come quella del platonismo sarebbe inutile perché indicherebbe una direzione dove non potrebbe essere trovato niente di identificabile indipendentemente. Questo è il motivo per cui Wittgenstein rifiuta tutte le spiegazioni filosofiche. Esse sono finzioni dell’immaginazione, semplici immagini che incantano la nostra mente e ci impediscono di vedere le cose come sono. Nel caso del platonismo questa critica è rinforzata da un’obiezione specifica : esso conduce al regresso all’infinito sviluppato nelle Ricerche al § 201. Questa reductio ha una caratteristica sorprendente : l’argomento è che il platonismo è lanciato verso un regresso all’infinito di parafrasi perché non tiene conto della pratica effettiva di applicare le parole alle cose. Questa pratica era stata semplicemente data per scontata nella reductio del Tractatus, ed era il fenomeno che la picture theory era chiamata a spiegare. Ma adesso, nelle Ricerche, viene rappresentata come qualcosa che il platonismo ignora, e ignora a suo discapito. Questo spostamento del centro d’attenzione non si può spiegare. Nel Tractatus la possibilità di applicare le parole alle cose e usarle per costruire proposizioni dotate di senso era ciò che doveva essere spiegato e la spiegazione offerta era l’atomismo logico e la Picture Theory. Nelle Ricerche, la situazione strategica è molto differente, non solo perché vie-
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strual of the strategic situation as a late survival of the doctrine of showing : if someone wants to know the application of a word, you cannot satisfy his curiosity completely by telling him what it is, and so you must actually demonstrate the application either of the word itself or of the words into which you have analyzed it. The Platonist is driven down the Investigations regress because he fails to see the importance of the application of words to things and consequently looks in the wrong direction for the way to linguistic regularity. He seeks it at a high level of abstraction – according to Russell it is acquaintance with universals – whereas Wittgenstein claimed that it is to be found in something concrete and familiar, the regularity itself. This raises a question that I will discuss in a moment : « How can he avoid the charge that he brings against Platonism – that it fails to provide an independently identifiable point on which to hang the explanation of the phenomenon ?» His answer is that he is not offering an explanation. But that can wait while we examine the mechanism of the regress. Suppose that we ask why the Platonist cannot simply stop the regress ? Why must the analysis of a phrase itself always be analyzed ? Why is it not possible to halt the process at some convenient point ? If the answer is « Because that would leave the explanation of the meaning of the original phrase incomplete », this would surely set the standard of completeness too high. A linguistic rule governing the application of a word to things will itself be expressed in words because all rules are expressed in words. However this can easily be seen as a fault in a linguistic rule. For the words in its formulation will themselves need further rules to fix their meanings. This would lead to an infinite regress if there were not some other way of fixing the meanings of words. Fortunately there is another way : you can avoid the regress by taking the words in your last formulation of the rule and demonstrating their application to things. The regress is stopped by what Wittgenstein calls « the practice of obeying the rule ». This regress does not threaten other kinds of rules. A recipe lays down the rules for producing a particular dish,
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ne esclusa la teoretizzazione filosofica ma anche perché Wittgenstein crede che il platonico ricerchi nella direzione sbagliata la chiave della regolarità linguistica. Perché egli suppone che il solo modo di capire il fenomeno sia rimanere dentro il linguaggio e cercare delle equivalenze definizionali, che forniscono l’essenza degli universali, mentre Wittgenstein pensa che riusciremo a comprenderlo solo se esaminiamo l’effettiva applicazione delle parole alle cose. Tra parentesi, potremmo considerare l’interpretazione di Wittgenstein della situazione strategica come un tardivo residuo della dottrina del mostrare : se qualcuno vuole conoscere l’applicazione di una parola, non si può soddisfare completamente la sua curiosità dicendogli che cosa essa sia, e così si deve effettivamente mostrare l’applicazione o della parola stessa o delle parole nelle quali è stata analizzata. Il platonico è costretto al regresso delle Ricerche perché non riesce a vedere l’importanza dell’applicazione delle parole alle cose e di conseguenza cerca nella direzione sbagliata la soluzione della regolarità linguistica. La cerca ad un alto livello di astrazione – secondo Russell è la conoscenza degli universali – mentre Wittgenstein rivendica che deve essere trovata in qualcosa di concreto e familiare, nella regolarità stessa. Questo solleva una questione che mi accingo ad affrontare : « Come può evitare l’accusa che egli rivolge contro il platonismo – che esso non permette di fornire un punto indipendentemente identificabile su cui poggiare la spiegazione del fenomeno ? ». La sua risposta è che egli non sta fornendo una spiegazione. Ma questo può aspettare, mentre esamineremo il meccanismo del regresso. Supponiamo di rispondere alle seguenti domande: perché il platonico non può semplicemente fermare il regresso ? Perché l’analisi di una proposizione stessa deve sempre essere analizzata ? perché non è possibile fermare il processo in qualche punto conveniente ? Se la risposta fosse “ Perché questo lascerebbe la spiegazione del significato della proposizione originale incompleta ”, questo vorrebbe dire stabilire lo standard della completezza troppo in alto. Una regola linguistica che regola l’applicazione di una parola alle cose sarà essa stessa espressa in parole perché tutte le regole sono espresse in parole. Ad ogni modo, questo può essere visto facilmente come
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but nobody expects it to be accompanied by explanations of the applications of the words in which those rules are expressed. Their applications are simply taken for granted in a cookery book. An egg is an egg is an egg. It is only linguistic rules that face the demand for further rules to specify the applications of the words in which they are expressed. They face this demand because their task is to specify meanings completely. So it is the fact that language is self-regulating that generates the regress – the regress that can be stopped only by demonstrating the practice of obeying its rules. If the rules governing the applications of words could be expressed in some other medium than words, we might, perhaps, take that medium for granted, just as we now take language for g ranted when we are telling someone how to make an omelette. But then, of course, the problem posed by the self-regulating character of language would merely be transferred to the self-regulating character of that other medium. There must always be one medium that regulates itself, one medium at the top of the pyramid. At this point the Platonist can counter-attack by raising the question that I postponed just now : « What is the good of bringing in the actual practice of applying words to things if it does not provide an independently identifiable point on which to hang the explanation of linguistic regularity ? ». As I said earlier, Wittgenstein’s response would be to disclaim any intention of providing an explanation. But the Platonist can then retort that something more than explanation is at stake here. For the application of a word to things is an intentional action, done sometimes correctly and sometimes incorrectly, and so there is also a need for authority and a criterion of correctness, and these are things that require, just as much as explanation requires, a basis that is identifiable independently of the practice itself. This raises the much-discussed question whether Wittgenstein’s account of linguistic regularity is normative or descriptive. The answer must surely be that it is both. But now the Platonist is counter-attacking with the claim that, even if Wittgenstein has given up any attempt to explain linguis-
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una mancanza in una regola linguistica. Poiché le parole nella loro formulazione avranno esse stesse bisogno di ulteriori regole per fissare i loro significati (meanings). Questo condurrebbe ad un regresso all’infinito se non ci fossero altri modi di fissare i significati (meanings) delle parole. Fortunatamente c’è un altro modo : si può evitare il regresso prendendo le parole nell’ultima formulazione della regola e mostrare la loro applicazione alle cose. Il regresso è fermato da ciò che Wittgenstein chiama “ la pratica di obbedire ad una regola ”. Questo regresso non minaccia altri tipi di regole. Una ricetta fornisce le regole per preparare un particolare piatto, ma nessuno si aspetta che essa sia accompagnata dalle spiegazioni delle applicazioni delle parole in cui quelle regole sono espresse. Le loro applicazioni sono date per scontate in un libro di cucina. Un uovo è un uovo è un uovo (An egg is an egg is an egg). Sono solo le regole linguistiche che si trovano di fronte la richiesta di ulteriori regole per specificare le applicazioni delle parole in cui esse sono espresse. Esse sono esposte a questa richiesta perché il loro compito è di specificare completamente i significati (meanings). Così è il fatto che il linguaggio si autoregoli a generare il regresso – il regresso che può essere fermato solo mostrando la pratica di obbedire alle sue regole. Se le regole che governano le applicazioni delle parole potessero essere espresse tramite altri mezzi rispetto alle parole, noi potremmo, forse, prendere quel mezzo per scontato proprio come prendiamo il linguaggio per garantito quando diciamo a qualcuno come fare un’omelette. Ma allora, naturalmente, il problema originato dal carattere autoregolante del linguaggio sarebbe semplicemente trasformato nel carattere autoregolante dell’altro mezzo. Deve esserci sempre un mezzo che regola se stesso, un mezzo in cima della piramide. A questo punto il platonico potrebbe contrattaccare sollevando la questione che io ho appena posposto : « Qual è il vantaggio di riportare alla pratica effettiva di applicare le parole alle cose, se questa non fornisce un punto identificabile indipendentemente dal quale far dipendere la spiegazione della regolarità linguistica ? ». Come ho detto prima, la risposta di Wittgenstein sarebbe di negare ogni intenzione di fornire una spiegazione. Ma il platonico potrebbe contro-
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tic regularity and is confining himself to pure description, he still has to give a credible account of authority. And how can he do that if he denies that there is any independently identifiable point to which an explanation could be attached ? For in the special case of intentional action, the same point would be needed to serve as the basis of authority. The Platonist will claim that the universals postulated by his theory meet both needs : they serve both as explanations and as criteria of correctness. But since there is nothing in Wittgenstein’s account that has an explanatory role, it cannot contain anything that will serve as a basis of authority either. Wittgenstein parries this counter-attack by making a move which, right or wrong, takes him to the heart of the matter. It is obvious that authority does not usually rest on the behaviour of those who are required to obey it. For if it did not have any independent basis, it would have no leverage when it tried to correct deviant behaviour. But though this is the usual structure of authority, there are exceptions. Rousseau’s political theory locates the basis of authority in the wills of those who are legitimately subject to it. In this case there are two distinct, but connected points at which normativity operates : legislation ought to aim at the common good and if it does so, it ought to be obeyed. But there is also another exception which is more difficult to analyze, because the points at which normativity operates and the roles of legislation and obedience cannot be so neatly identified : the correct use of a word is its customary use. So language is selfgoverning and compilers of dictionaries do not find this paradoxical or even see any difficulty in accepting it. However, it is not enough to claim that language is selfgoverning. It is also necessary to explain how it can be selfgoverning without giving speakers the extravagant freedom that Humpty Dumpty claimed for his use of his neologisms. Wittgenstein carries out this task in a way that is startlingly new : instead of offering a philosophical theory to replace Platonism, he simply describes the way in which one person teaches another to speak a language and the « agreement in judgements » that the teacher tries to produce, and, in most cases, succeeds in producing.
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battere che qui è in gioco qualcosa di più di una spiegazione. Infatti l’applicazione delle parole alle cose è un’azione intenzionale, fatta qualche volta correttamente e qualche volta scorrettamente ; per questo c’è il bisogno di un’autorità e di un criterio di correttezza, e queste sono cose che richiedono, proprio come lo richiede anche una spiegazione, una base che è identificabile indipendentemente dalla pratica stessa. Questo solleva la tanto discussa questione se la caratteristica della regolarità linguistica di Wittgenstein sia di essere normativa o descrittiva. La risposta deve sicuramente essere che è entrambe. Ma adesso il platonico contrattacca rivendicando che, anche se Wittgenstein ha rinunciato a spiegare la regolarità linguistica e si confina nella pura descrizione, egli deve ancora dare una descrizione credibile di autorità. Ma come può farlo se nega che ci sia un punto identificabile a cui la spiegazione potrebbe aggrapparsi ? Infatti, nel caso speciale di un’azione intenzionale, lo stesso punto sarebbe servito come base per l’autorità. Il platonico rivendicherà che gli universali postulati dalla sua teoria soddisfano entrambi i bisogni : essi servono sia come spiegazione che come criteri di correttezza. Ma dal momento che non c’è niente nella descrizione di Wittgenstein che abbia un ruolo di spiegazione, non potrà neppure contenere qualcosa che possa servire come base di autorità. Wittgenstein para questo contrattacco con una mossa che, giusta o sbagliata, lo porta al cuore del problema. È ovvio che l’autorità non poggia abitualmente sul comportamento di coloro ai quali è richiesto di obbedirle. Perché, se non avesse una base indipendente, non avrebbe alcun potere qualora cercasse di correggere il comportamento sbagliato. Ma sebbene questa sia la struttura usuale dell’autorità ci sono delle eccezioni. La teoria politica di Rousseau situa la base dell’autorità nella volontà di coloro che sono legittimamente soggetti ad essa. In questo caso ci sono due punti, distinti ma connessi, secondo cui opera la normatività : la legislazione deve mirare al bene comune e se lo fa, bisogna obbedire ad essa. Ma c’è anche un’altra eccezione più difficile da analizzare, perché i punti secondo cui la normatività opera e i ruoli della legislazione e dell’obbedienza non possono essere identificati così nettamente : l’uso corretto di una parola è il
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The pupil is shown short segments of the application of a word and, if the lesson is successful, he internalizes the disposition to apply or withhold it in all further cases. No doubt, this achievement could be explained and the explanation would be scientific. Perhaps certain continuations of the applications that he has been shown will strike him as natural, while others strike him as unnatural, and that, in its turn, might be explained by the structures of his senseorgans or by his needs and interests. But the things that are cited in explanations of this kind will not also play the role of targets at which both teacher and pupil must aim. For these explanations are not teleological and the Platonist was wrong to assume that the two functions, explanation and providing criterion of correctness, must be attributable to a single entity, like a universal. « Then », he will ask, « where is the authority located ? ». But that is a question that Wittgenstein will not answer in the way in which he wants to hear it answered. For authority is seldom located at a single point in the development of a language. Innovations are not necessarily regarded as mistakes and there is no need to demand greater fixity of meaning than is required for communication between contemporaries, or at least near-contemporaries, and for communication with one’s own earlier self through the records preserved in memory. It is also an important feature of Wittgenstein’s account of authority that it is not invested in any single thing in a speaker’s mind. Anything that is proposed for that role will always turn out to be inadequate : an analytical formula can always be interpreted in many different ways and even a mental image can have different applications. The only repository of authority is what we do, prompted by human nature and conditioned by the need to communicate with others and with oneself. Wittgenstein completes his critique of Platonism by adding a diagnosis of the error that makes it seem so plausible. The Platonist knows how he is going to apply a familiar word in the future. He can already see the applications running on to infinity on fixed rails and he thinks that Wittgenstein is
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suo uso abituale. Così il linguaggio è autoregolementato e chi scrive i dizionari non trova questo fatto strano e non trova nessuna difficoltà nell’accettarlo. Comunque questo non è abbastanza per rivendicare che il linguaggio sia autoregolamentato. È necessario anche spiegare come può essere autoregolamentato senza dare ai parlanti la stravagante libertà che Humpty Dumpty rivendica per l’uso dei suoi neologismi. Wittgenstein esegue questo compito in un modo che è sorprendentemente nuovo : invece di offrire una teoria filosofica che rimpiazzi il platonismo, egli descrive semplicemente il modo in cui una persona insegna ad un’altra a parlare un linguaggio e l’ “ accordo nel giudizio ” che l’insegnante prova a produrre, e che nella maggior parte dei casi riesce a produrre. Pochi esempi dell’applicazione di una parola vengono mostrati ad un allievo e, se la lezione ha successo, l’allievo fa propria la disposizione ad applicarla o rifiutarla in tutti gli altri casi. Senza dubbio, questa conquista (achievement) può essere spiegata e la spiegazione sarebbe scientifica. L’allievo considererebbe alcuni sviluppi delle applicazioni come naturali, altri come innaturali e questi, a loro volta, potrebbero essere spiegati con la struttura degli organi di senso o con i suoi bisogni o con i suoi interessi. Ma le cose che vengono prese in esame nelle spiegazioni di questo tipo non sono l’obiettivo dell’insegnante e dell’allievo. Infatti queste spiegazioni non sono teleologiche e il platonico ha torto ad assumere che le due funzioni, la spiegazione e il fornire criteri di correttezza, debbano essere attribuite ad una singola entità, come un universale. « Allora » egli dirà « dove si trova l’autorità ? ». Ma questa è una domanda cui Wittgenstein non risponderà nel modo in cui egli vorrebbe sentirsi rispondere. Perché l’autorità è raramente situata in un singolo punto nello sviluppo di un linguaggio. Le innovazioni non sono necessariamente guardate come errori e non c’è bisogno di esigere una maggiore stabilità di significato di quanto sia richiesto per la comunicazione tra contemporanei, o almeno quasi contemporanei, e per la comunicazione con il proprio io passato attraverso le registrazioni conservate nella memoria. È anche un’importante caratteristica della descrizione di Wittgenstein dell’autorità che essa non si fondi su alcun og-
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missing a glaringly obvious point. But Wittgenstein’s response is that his appeal to his own knowledge of the future rests on a confusion. His diagnosis is that the Platonist confuses the psychological necessity of continuing to apply a word in a certain way with the logical necessity of continuing to apply it in that way. But it is not an easy diagnosis to follow. For, instead of developing it directly, he uses an analogy : instead of examining the relation between the contents of a speaker’s mind and his continuing application of a word, he examines the relation between the arrangement of the working parts of a machine and its future performance. This part of his deconstruction of Platonism is headed « The machine as symbolising its action ». So suppose you have a clock encased in glass which enables you to see everything that is going on inside it. Then you can look at the arrangement of its working parts and there will be two different ways of construing what you see. You may take it to be physically necessary that, given the disposition of its working parts, the clock will perform in a certain way : or, alternatively, you may take what you see as a picture of that future performance – i.e. you read it as a kind of three-dimensional blueprint, with the wheels actually about to revolve instead of having the direction of their movement indicated by arrows. lf you construe what you see in the second way, you may get the illusion that it is logically necessary that the clock will perform as you predict that it will. However, the only logical necessity in this case is the necessity that it will perform in that way if its mechanism, read as a blueprint, is an accurate representation of its future performance. Nothing is categorically pre-determined with logical necessity : logical necessity can only yield hypothetical pre-determination. But Wittgenstein’s diagnosis is that it is very easy to forget the crucial condition – « if its mechanism is an accurate representation of its future performance » and so to assume that the predetermination is not only logical but also categorical. It is especially easy to succumb to that confusion because the necessity in the other construal – physical necessity – really is categorical. So in a case like this you end with the illusion that the future is absolutely fixed.
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getto nella mente del parlante. Qualunque cosa venga proposta per quel ruolo sarà sempre inadeguata : una formula analitica può sempre essere interpretata in molti modi differenti e perfino un’immagine mentale può avere diverse applicazioni. Il solo depositario dell’autorità è ciò che facciamo, spinti dalla natura umana e condizionati dal bisogno di comunicare con gli altri e con noi stessi. Wittgenstein completa la sua critica del platonismo aggiungendo una diagnosi dell’errore che lo fa sembrare così plausibile. Il platonico conosce come si può applicare una parola familiare nel futuro. Egli può già leggere le applicazioni che si sviluppano all’infinito su binari fissi e pensa che Wittgenstein stia trascurando un punto ovvio e di grandissima importanza. Ma la risposta di Wittgenstein è che il suo appellarsi alla conoscenza del futuro poggia su una confusione. La sua diagnosi è che il platonico confonde la necessità psicologica di continuare ad applicare una parola in un certo modo con la necessità logica di continuare ad applicarla in quel modo. Ma non è una diagnosi facile da seguire. Per questo, invece di svilupparla direttamente egli utilizza un’analogia: invece di esaminare la relazione tra i contenuti della mente di un parlante e la sua applicazione continua di una parola, esamina la relazione tra la posizione delle parti attive di una macchina e le loro prestazioni future. Questa parte della sua decostruzione del platonismo è intitolata “ La macchina come simbolizzante la sua azione ”. Supponiamo di avere un orologio incassato in un vetro che permetta di vedere tutto quello che accade dietro. Allora si può guardare alla disposizione delle sue componenti e ci saranno due modi diversi di interpretare ciò che si vede. Si può pensare che sia fisicamente necessario che, data la disposizione delle sue componenti, l’orologio si comporterà in un certo modo ; o, in alternativa, si può pensare che ciò che si vede è una rappresentazione di quel comportamento futuro – cioè lo si legge come una sorta di disegno tecnico tridimensionale, con le ruote sul punto di girare invece di avere la direzione del movimento indicata da frecce. Se si costruisce ciò che si vede nel secondo modo, si avrà l’illusione che è logicamente necessario che l’orologio faccia quello che si è predetto che faccia. In ogni modo, la sola necessità logica in questo caso è la necessità che funzionerà in
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Wittgenstein’s point is that the continuing application of a word is a case like this. The contents of the speaker’s mind correspond to the arrangement of the working parts of the clock and the future performance of the clock corresponds to the speaker’s future applications of the word. This is how the Platonist gets the illusion that his applications run on ahead of him on fixed rails to infinity. There is, of course, no implication that the mind works in a mechanical way. The analogy is not total.
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quel modo se il suo meccanismo, letto come un progetto, è un’accurata rappresentazione della sua prestazione futura. Niente è categoricamente predeterminato secondo una necessità logica : la necessità logica può solo produrre predeterminazioni ipotetiche. Ma la diagnosi di Wittgenstein è che è molto facile dimenticare la condizione cruciale – « se il meccanismo è un’accurata rappresentazione della sua prestazione futura » – e assumere che la predeterminazione non è solo logica ma anche categorica. È molto facile soccombere a quella confusione perché la necessità nell’altra interpretazione – necessità fisica – è realmente categorica. Così in casi come questo si finisce col credere che il futuro sia assolutamente determinato. L’idea di Wittgenstein è che l’applicazione continua di una parola corrisponde ad un caso di questo tipo. I contenuti della mente del parlante corrispondono alla posizione delle parti operanti dell’orologio e la prestazione futura dell’orologio corrisponde alle applicazioni future che il parlante compie di una parola. Questo è il modo in cui il platonico cade nell’illusione che la sua applicazione lo precede su binari fissi all’infinito. Questo non implica, naturalmente, che la mente funzioni in un modo meccanico. L’analogia non è assoluta.
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Rudolf Haller Università di Graz
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ÜBER UND FÜR BRIAN MCGUINNESS
i Semel in vita – einmal im Leben – wird es wohl erlaubt sein, unmittelbar über einen Philosophen, einen Kollegen, einen Freund ein paar Worte zu sagen, auch dann wenn man weiß und sicher bestätigt bekommt, dass es ihm nicht angenehm, ja eher peinlich ist, als Objekt zu erscheinen, wo er sich doch schon als Subjekt gänzlich ausgelastet fühlt. Zudem ist es ja auch tatsächlich eine zwiespältige Erfahrung, andere und insbesondere Freunde über sich sprechen zu hören, hören zu müssen, noch dazu in der – in solchem Zusammenhang – ungewohnten dritten Person, die erst recht befremdend wirkt. Doch ich möchte – gleichfalls noch vor dem ersten Wort – sagen, dass ich gar nicht vorhabe, so etwas wie eine Laudatio auszuprobieren, zu der ich mich an diesem Ort weder berechtigt noch erwünscht sehen könnte. Wohl aber trifft zu, dass ich über die Weise unseres Zusammentreffens hier nicht ausreichend orientiert war. Allein die Tatsache, dass wir uns zu Ehren Brians hier versammeln, sprach und spricht für sich selbst. Das wenige aber, was ich zu sagen habe, könnte sicher von all seinen Freunden, Kollegen und Schülern besser gesagt und vielfach in jedem Sinne ergänzt und erweitert werden, nur dass ich den Gruß und Dank der Grazer Philosophen überbringe, wo er seit 1988 nicht als Visiting – Professor, sondern als Honorarprofessor nach wie vor Mitglied unserer Fakultät ist. Diesen von stetem Dank begleiteten Gruß müssen Sie mir überlassen.
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SU E PER BRIAN MCGUINNESS
i Semel in vita - una volta nella vita - sarà pur permesso dire direttamente alcune parole su un filosofo, un collega, un amico, anche se si sa, e di sicuro ci viene confermato, che questo non gli fa piacere ed anzi, lo imbarazza comparire come oggetto, là dove egli si sente del tutto coinvolto proprio in quanto soggetto. Ascoltare, inoltre, dover ascoltare altri, amici in particolare, parlare di te, in una riunione come questa, in un’insolita terza persona, è un’esperienza ambivalente che, innanzitutto, agisce in modo davvero estraniante. Vorrei dire – ancor prima di cominciare – che non mi propongo di tentare qualcosa come una laudatio, per la quale, in questo luogo, non mi potrei considerare né autorizzato, né benvenuto. C’è da dire, però, che non ero stato sufficientemente informato riguardo al significato del nostro incontrarci qui. Il semplice fatto che ci riuniamo in onore di Brian parla da sé. Il poco che ho da dire, potrebbe sicuramente essere detto meglio, completato ed ampliato in ogni senso, da tutti i suoi amici, colleghi ed allievi. Dovete però concedermi di portargli il saluto, accompagnato da un sincero ringraziamento, dei filosofi di Graz, dove egli, dal 1988, è presente non in qualità di professore ospite, ma di professore onorario ed è tutt’ora membro effettivo della nostra facoltà.
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ii Die Zeit in Oxford in den späten Fünfzigerjahren, die Periode der sog. “ Ordninary-language-philosophy ”, der Entdekkung der gewöhnlichen Sprache, die wohl im Gegensatz zur “ ungewöhnlichen ” Sprache von Theorien und Konstrukten so getauft wurde, liegt mehr als vierzig Jahre zurück. Das heißt für die jungen Studenten von heute geradezu eine praehistorische Periode zu erwähnen, für uns Ältere oder Alte sich einer Periode zu erinnern, die wohl in die Ferne gerückt scheint – jedoch in Wirklichkeit eine des Anfangs, der Erneuerung unserer Weise zu philosophieren war, einer Auffassung, die uns bis heute begleitet. Die Zeit, von der ich spreche, begann für mich selbst im akademischen Jahr 1958/59, in welchem ich als post-graduate (mein PHD lag fünf Jahre zurück) gerade noch rechtzeitig Oxfords lebendigste Zeit in diesem Jahrhundert miterleben durfte. Als mein Supervisor wirkte Professor Gilbert Ryle vom Magdalen - College. Professoren – dies nur in Parenthese – gab es übrigens nur wenige; wenn ich mich recht erinnere : nur drei, zu denen während des Jahres noch Sir Jesaiah Berlins feierliche Installierung als Professor hinzukam. Lecturer hingegen – zu denen auch seniors wie Friedrich Waismann gehörten – gab es dutzendweise : sie gehörten den einzelnen Colleges an und, so weit ich es verstand, lag die Hauptlast des Unterrichts in ihren Händen. Brian McGuinness – selbst nicht viel älter als ich – war einer von ihnen und da es damals zwar viele gab, die sich für Wittgenstein interessierten, über ihn vortrugen oder schrieben, war er unter den letzteren schon darum bekannt, weil er Wittgenstein aus der Perspektive seiner – Wittgensteins Heimat betrachten wollte. Wann genau Brian’s besonderes Interesse für Wittgenstein gänzlich in den Vordergrund rückte, so sehr, dass er bald zu den geläufigen Namen in der Wittgenstein - Gemeinde zählte, kann ich augenblicklich nicht sagen. Wohl aber erinnere ich mich an eine Lehrveranstaltung, die gemeinsam von David Pears u. Brian McGuinness abgehalten wurde – mit dem Titel “ Introduction to the Tractatus ”, die ich ebenso besuchte wie das hochgestochene Seminar “ Late Plato und early Aristotle ” an dem – neben Ryle –
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ii L’ epoca dei tardi anni cinquanta a Oxford, il periodo della cosiddetta “ Ordinary Language Philosophy ”, della scoperta del linguaggio ordinario, così battezzato in contrasto con il linguaggio “ non ordinario ” di teorie e costrutti, risale a più di quaranta anni fa. Per i giovani studenti di oggi questo significa addirittura evocare un’età preistorica, per noi più vecchi o vecchi abbastanza da ricordare un tempo che pare profondamente lontano – in realtà era un momento di inizio, di rinnovamento del nostro modo di filosofare che ancora oggi ci accompagna. Per me, l’epoca di cui parlo ebbe inizio nell’anno accademico 1958/59 nel quale, come post-graduate (il mio PHD risaliva a cinque anni prima), potei ancora partecipare pienamente della più viva temperie di Oxford in questo secolo. Il mio supervisore fu il professor Gilbert Ryle del MagdalenCollege. Di professori d’altronde – questo solo in parentesi – ve n’erano pochi soltanto, se ben ricordo solamente tre, ai quali si aggiunse, durante l’anno, la solenne nomina a professore di Sir Jesaiah Berlin. Lettori, invece, dei quali facevano parte anche seniors come Friedrich Waismann, se ne trovavano a dozzine: essi appartenevano ai singoli Colleges e, per quanto potessi capire, l’onere principale dell’insegnamento gravava sulle loro spalle. Anche Brian McGuinness - sebbene non molto più anziano di me - era uno di essi e, dal momento che allora ce n’erano molti che si interessavano di Wittgenstein, tenevano conferenze, scrivevano su di lui, egli era già conosciuto fra questi ultimi, poiché interpretava Wittgenstein nella prospettiva della sua – di Wittgenstein – patria. Al momento non saprei dire quando esattamente l’interesse di Brian per Wittgenstein si sia posto del tutto in primo piano, così da rendere McGuinness uno dei nomi più familiari nella comunità wittgensteiniana. Posso però ben ricordarmi di un corso di lezioni, tenuto insieme da David Pears e Brian McGuinnes, dal titolo di “ Introduzione al Tractatus ”, che io frequentai, come pure frequentai l’ambizioso seminario “ Tardo Platone e primo Aristotele ” a cui, accanto a Ryle, Elizabeth Ascombe, Richard Walzer, G.E.L. Owen e John Ackrill, prese parte anche
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Elizabeth Anscombe, Richard Walzer, G.E.L. Owen und John Ackrill gleichfalls auch Brian teilnahm – sozusagen Oxford at its best. Brian hatte, das wurde bald deutlich, die klassische Philosophie – Plato und Aristoteles – im Rücken, wenn er auf die ‘ Revolution ’ der neuen philosophischen Bewegung blickte, eine Bewegung die – so schien es – wohl in Großbritannien ihr Zentrum hatte, aber bald über den Ozean ausstrahlte. Ryle’s ‘ The Concept of Mind ’ erschien 1949, Kurt Baier – ein Österreicher im Exil – wählte den Titel ‘ The Ordinary Use of Words ’ für seinen Beitrag in der Aristotelischen Society 1951/52. Anthony Flew begann die Serie “ Logic and language ” bei Blackwell’s; im gleichen Jahr, 1951, publizierten Norman Malcolm und Roderick Chisholm Aufsätze nahezu gleichen Titels “ Philosophy and Ordinary Language ” bzw. “ Philosophers and Ordinary Language ” der letztere. Dies waren Beispiele, wie der Einfluss des späten Wittgenstein auf eine Generation wirkte, die auf verschiedenen Wegen den Spuren der “ neuen ” Form philosophischer Fragen begegnete. Die Landschaft der Philosophen hatte sich gewandelt, so wie “ die Landschaftsskizzen ”, von denen Wittgenstein meinte, sie ähnelten den philosophischen Bemerkungen. Und mit seinem Vorwort zu den Untersuchungen machte er es ganz deutlich, dass ein Interpretationsschlüssel dieser Untersuchungen die im Traktat gezeigte Denkweise wäre : Gerade durch den Gegensatz würden die “ Irrtümer ” der alten Texte deutlich und verständlich. Damit war offenkundig, dass es sich lohnte, die Probleme der beiden Bücher neu zu betrachten. Endlich, zwei Jahre nach Wittgensteins Tod, erschienen 1953 die “ Philosophische Untersuchungen ”, die letzte Fassung in einer Reihe von hundertseitigen Versuchen Wittgensteins, seine Gedanken über “ den Begriff der Bedeutung, des Verstehens, des Satzes, der Logik, die Grundlagen der Mathematik, die Bewußtseinszustände und Anderes ” 1 in der Form von Bemerkungen festzuhalten. Hier hatte man nun einen Text in einer nicht ohne weiteres durchschaubaren Form in Händen, in einer Fassung, die in seinen eigenen Augen jene eines Albums ist. 1
L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Vorwort.
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Brian – come dire, il meglio di Oxford. Brian aveva alle spalle, ciò divenne presto chiaro, la filosofia classica – Platone ed Aristotele –, benché la considerasse dal punto di vista della rivoluzione del nuovo movimento filosofico ; un movimento che – così parve – aveva il proprio centro in Inghilterra ma che si irradiò rapidamente oltre oceano. “ The Concept of Mind ” di Ryle fu pubblicato nel 1949, Kurt Baier – un austriaco in esilio – scelse il titolo “ The Ordinary Use of Words ” per il suo contributo presso la Società Aristotelica nel 1951/52. Antony Flew iniziò la serie “ Logic and Language ” per Blackwell’s; nello stesso anno, il 1951, Norman Malcom e Roderick Chisholm pubblicarono saggi con titoli quasi uguali ; “ Philosophy and Ordinary Language ” Norman Malcom, mentre Roderick Chrisholm “ Philosophers and Ordinary Language ”. Questi furono esempi di come l’influsso dell’ultimo Wittgestein avesse agito su di una generazione che, su strade diverse, incontrò le tracce della “ nuova ” forma di questioni filosofiche. Il paesaggio dei filosofi si era mutato; allo stesso modo dei “ Landschaftskizzen ” dei quali Wittgenstein pensava che si avvicinassero alle osservazioni filosofiche. E con la sua prefazione alle Ricerche, egli rese del tutto chiaro come il modo di pensiero illustrato nel Tractatus desse una chiave interpretativa delle Ricerche : gli “ errori ” dei vecchi testi diventavano chiari e comprensibili proprio attraverso la contraddizione. Con ciò si rese evidente che valeva la pena di prendere in considerazione nuovamente i problemi di entrambi i libri. Finalmente, due anni dopo la morte di Wittgenstein, nel 1953, apparvero le Ricerche Filosofiche ; l’ultima stesura dopo una serie di prove in centinaia di pagine per fissare i suoi pensieri nella forma di osservazioni su « den Begriff der Bedeutung, des Verstehens, des Satzes, der Logik, die Grundlagen der Mathematik, die Bewußtseinszustände und Anderes » [« il concetto di significato, di comprendere, di proposizione, di logica, i fondamenti della matematica, gli stati di coscienza, e altre cose ancora »].1 Qui ora si aveva in mano un testo in una forma per nulla trasparente, in una redazione che Wittgenstein stesso vedeva come quella di un album. 1 L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Vorwort. Trad. it. di Mario Trinchero, Einaudi, Torino 1967.
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Brian zusammen mit David F. Pears schien für eine längere Periode mehr mit dem Text der Logisch-philosophischen Abhandlung – dem Tractatus Logico-Philosophicus – beschäftigt, so sehr, dass – abgesehen von den Bemerkungen und Aufsätzen darüber – auch der Text selbst durch beider Hand neu übersetzt wurde. Dreizehn Jahre nach der ersten Auflage folgte eine verbesserte zweite, die seither vielfach neu aufgelegt wurde als der standardisierte englische Text der Abhandlung. Wenn McGuinness in seiner 1988 erschienenen Wittgenstein – Biographie : Wittgenstein : A Life. Young Ludwig (1889 - 1921) in der deutschen Übersetzung durch Joachim Schulte “ Wittgensteins frühe Jahre ” betitelt, auf die Abfassung des ersten Buches von Wittgenstein, den Tractatus Logico-philosophicus, zu sprechen kommt, so geschieht dies in einem kurz gefassten, komprimierten Überblick, in welchem die Lebensgeschichte des jungen Wittgenstein bereits vorausgesetzt ist. Darum kann er hier seinen Kommentar auf knappe dreißig Seiten beschränken. Zurück zu Wittgenstein, genauer, zur Zeit der Rezeption seines Werkes nach dem Zweiten Weltkrieg und zum Beitrag bzw. zur Rolle, die Brian dabei zufiel. In unglaublicher Geschwindigkeit von knapp einem Dutzend von Jahren wurde eine der neuen philosophischen Bewegungen als selbstständige analytische charakterisierbar. Ja, 1956 erlaubte der Rückblick auf die letzten zehn Jahre nach dem Krieg sogar von einer Revolution zu sprechen, wie die von Alfred J. Ayer u.a. Herausgebern benannte Sammlung “ The Revolution in Philosophy ” verdeutlichte. In den Spuren von Wittgenstein setzte auch der aus Österreich geflüchtete Friedrich Waismann von 1949 an seine Veröffentlichungen in Analysis fort. Es war freilich schade, dass ich damals, in dem Jahr 1958/59 in Oxford, noch nicht die persönliche Bekanntschaft mit Brian machen konnte, obschon ich ja an einer seiner Lehrveranstaltungen teilnahm. Aber die Zeit, da alle philosophische Welt wusste oder wissen konnte, dass in ihm einer der hervorragendsten Kenner von Wittgensteins Leben und Werk zu identifizieren ist, war noch nicht reif. Tatsächlich datiert unsere persönliche Bekanntschaft um einige Jahre später, nämlich von der Zeit her, die McGuinness in Österreich verbrachte, um sein Projekt, eine Lebensgeschichte des frühen Wittgenstein, an Ort und Stelle vorzubereiten.
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Brian, insieme a David F. Pears, sembrò impegnato per un periodo piuttosto lungo con il testo del Tractatus Logicophilosophicus, così tanto che, a parte le osservazioni e gli studi a proposito di esso, anche il testo stesso venne nuovamente tradotto da entrambi. Tredici anni dopo la prima edizione, ne seguì una seconda, migliorata, la quale – edita più volte – si impose come il testo inglese standard della Abhandlung. Quando McGuinness nella sua biografia di Wittgenstein uscita nel 1988 – Wittgenstein : A Life young Ludwig (1889-1921), nella versione tedesca di Joachim Schulte intitolata Wittgensteins frühe Jahre – arriva a parlare del primo libro di Wittgenstein, il Tractatus Logico-philosophicus, ciò avviene in una panoramica sintetica ed essenziale, nella quale la vita del giovane Wittgenstein è già presupposta. Grazie a questo gli è possibile limitare il suo commento a sole trenta pagine. Torniamo a Wittgenstein, o più esattamente al tempo della ricezione della sua opera dopo la seconda guerra mondiale e dunque al contributo, o piuttosto al ruolo, che a Brian spettò a tale proposito. Con l’incredibile rapidità di una dozzina d’anni, uno dei nuovi movimenti filosofici si rese autonomo, caratterizzandosi come analitico. Proprio nel 1956, la riconsiderazione degli ultimi dieci anni dopo la guerra permise di parlare persino di una rivoluzione, come chiarì la nota raccolta The Revolution in Philosophy curata da Alfred J. Ayer e da altri. Nelle sue pubblicazioni in Analysis, anche Friedrich Waismann, emigrato dall’Austria nel 1949, proseguì il suo cammino sulle orme di Wittgenstein. Fu un peccato che io allora, nell’anno 1958-59 ad Oxford, non avessi ancora potuto conoscere Brian di persona, benchè avessi preso parte ad uno dei suoi cicli di lezioni. Ma il momento in cui tutto il mondo filosofico avrebbe saputo, o avrebbe potuto sapere, che in lui si vedeva uno dei più eccellenti conoscitori della vita e dell’opera di Wittgestein, non era ancora maturato. La nostra conoscenza personale è di alcuni anni dopo, risale al periodo che McGuinnes trascorse in Austria per preparare sul posto il suo progetto, una biografia del giovane Wittgenstein. Nel Maggio del 1964 Brian mi comunicò che aveva intenzione di venire in Austria, cioè a Vienna, per proseguire le
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Im Mai 1964 teilte mir Brian mit, dass er die Absicht habe, nach Österreich, d.h. nach Wien, zu kommen, um seine Forschungen über Wittgenstein hier fortzusetzen und dass er bei dieser Gelegenheit auch nach Graz zu kommen vorhätte. Von diesem Zeitpunkt an war deutlich, was die Richtung seiner Forschungen bestimmen werde : Die schwierige Suche und Enthüllung der Lebensphasen und Gedankenfolge eines der bedeutendsten Philosophen der neueren Zeit und sicher – vielleicht mit Heidegger – der herausragendste dieses Jahrhunderts. Sich an die Darstellung dieser Gestalt und der Geschichte eben dieses so komplizierten und folgenreichen Lebens zu wagen, dazu bedurfte es eines großen Mutes, der Geduld und vor allem einer angemessenen sensiblen Einstellung, das Leben und die philosophische Arbeit aus dem Geiste der Empfindlichkeit und Musik in eine Harmonie zu bringen. Ein solches Werk kann nur gelingen, wenn ein immenses und akkurates Detailwissen im Einklang mit dem Hauptziel – Leben, Wille und Werk im Deutungshorizont eines Jahrhunderts zu zeigen – verschmilzt und jene Übersicht erlaubt, welche die einzelnen Gedanken und Bezüge mit dem Kontext seiner Schriften verbindet. Diesem Ziel opferte, nein, weihte Brian den allergrößten Teil seines akademischen Lebens in England wie auch auf dem Kontinent, d. h. unserem Kontinent. Hierher, so möchte mir scheinen, passte er sicher viel besser in den Zusammenhang von Geschichte und Kultur als irgend sonst wo in der Welt. Warum ? Ich hatte den Eindruck, dass Brian – ob seiner Herkunft wegen oder durch Erziehung – eine besondere Empfindsamkeit entwickelt hatte, welche ästhetische mit moralischen Gesichtspunkten vereint und er so sich einen Rahmen aneignete, der das gewöhnliche, oberflächliche Reden und Deuten meidet, ja aus der eigenen Perspektive ausschließt. Eben diese Sensibilität ist sodann zu einem späteren Zeitpunkt, nämlich bei der Niederschrift von “ Wittgensteins frühe[n] Jahre[n] ”, dem bisherigen Hauptwerk McGuinness’, eines der hervorstechendsten Merkmale bei der Charakterisierung und Zeichnung von Wittgensteins frühen Jahren (d. h. der Zeit bis zum Ende des ersten Weltkriegs), zum Werkzeug seines Stils geworden. Jede Figur, jede Handlung, jede Überlegung findet ihren Charakter und ihre vorherr-
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sue ricerche su Wittgenstein, e che intendeva recarsi, per l’occasione, anche a Graz. Da quel momento fu chiaro che cosa avrebbe determinato la direzione delle sue ricerche : la difficile investigazione e scoperta delle tappe esistenziali e dello sviluppo teoretico di uno dei più importanti filosofi della modernità e certamente – forse insieme ad Heidegger – il principale di questo secolo. Per avventurarsi nell’esposizione della forma e della storia proprio di questa vita così complessa e feconda, v’era bisogno di un grande coraggio, di pazienza e innanzitutto di una adeguata sensibilità che permettesse di armonizzare vita e lavoro filosofico a partire dalla spiritualità del sentimento e della musica. Una simile opera può riuscire soltanto se un’immensa ed accurata conoscenza del dettaglio si fonde in consonanza con lo scopo principale – mostrare vita, volontà ed opera nell’orizzonte di significato di un secolo – rendendo possibile quello sguardo capace di unire i singoli pensieri, i singoli tratti, con il contesto dei suoi scritti. Brian ha sacriftcato, anzi, ha consacrato a questo fine la gran parte della sua vita accademica in Inghilterra, così come sul continente, sul nostro continente. Qui, così mi sembra, egli ha potuto realizzarsi nella storia e nella civiltà meglio di quanto non avrebbe potuto fare in qualsiasi altra parte del mondo. Perché ? Avevo l’impressione che Brian – non so se per la sua origine o a causa della sua educazione – avesse sviluppato una particolare sensibilità che avvicina punti di vista estetici e punti di vista morali e così egli si era elevato ad un livello ed entro una cornice che esclude la banalità, evita il parlare e l’interpretare superficiali e li pone del tutto fuori dal proprio sguardo. Proprio questa sensibilità è divenuta, così, in un momento successivo nel tempo, cioè nella redazione di Wittgenstein : A Life young Ludwig, 1889-1921, fino ad ora il capolavoro di McGuinness, quale un mezzo del suo stile, una delle punte massime, degli emblemi, nella caratterizzazione degli anni giovanili di Wittgenstein (quelli che giungono sino alla fine della prima guerra mondiale). Ogni figura, ogni azione, ogni riflessione trova il suo carattere e il suo profilo dominante in una forma della lingua e in uno stile adeguati all’epoca e al soggetto. Dovevano essere restituiti con naturalezza e
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schenden Eigenschaften in einer Sprachform und einem Stil, die der Zeit wie dem Sujet angemessen sind. Darin sollten Eigenschaften und Gewohnheiten des Familienlebens klar und selbstverständlich wiedergegeben werden so wie die Ereignisse und Eigenheiten des Lebens und der Welt überhaupt. Darum ist es auch so schwer, die Bedeutung von Musik und Literatur im Rahmen der Familientradition wie für die einzelnen Mitglieder angemessen wiederzugeben. McGuinness gelingt dies, indem er sich, soweit es möglich ist, auf den Standpunkt des Objekts der Beschreibung stellt und einlässt, um von dieser Perspektive aus die Welt und ihre Gegenstände zu beschreiben. Spricht er von Ludwigs Jugend und von der tiefen Bedeutung von Musik und Literatur, der “ geistigen Kinderstube ” der frühen Jahre, so erfährt der Leser aus allein zwei, drei kurzen Sätzen mehr über eine Atmosphäre als aus vielen Geschichtsbüchern : « Es war eine ständige Erörterung des Lebens mit Hilfe der Literatur, und man legte Wert darauf, die Dinge in zurückhaltender Sprache und ohne Rhetorik zu formulieren. So sagte Ludwig einmal zu einem Freund, es komme nicht darauf an, was man getan habe, selbst wenn man jemanden umgebracht habe. Das, worauf es ankäme, wäre, wie man darüber rede, oder ob man überhaupt darüber rede. Eben darum ging es ihm auch in den Werken der Literatur ».2 So heißt es an einer frühen Stelle von McGuinness’ Wittgenstein Biographie über die frühen Jahre. Ich bin oder wäre gerne versucht, an vielen Stellen dieses Werkes, als besonders herauszuhebende Vorzüge einerseits die intensive und mit außerordentlichem Takt erfolgte Rekonstruktion der erzählten Ereignisse und ihrer Hintergründe zu sehen – man denke z. B. daran, wie McGuinness Wittgensteins mystische Erlebnisse erwähnt und beschreibt: er sagt nicht mehr als nötig ist, um die Wahrheit der Aussagen zu bestätigen – andererseits ebenso die relevanten Passagen philosophischer Problemstellungen, z. B. die Auseinandersetzungen mit Frege und mit Russell. Und doch würde ich – im Ernst – zögern, denn das eigentliche Verdienst des Buches über “ Wittgensteins frühe Jahre ”, das heute mehr als 2 B. McGuinness, Wittgensteins frühe Jahre, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1992, p. 67.
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chiarezza, abitudini e qualità della vita familiare, così come avvenimenti e peculiarità della vita e del mondo più in generale. Per quanto riguarda questo argomento, è anche tanto difficile parlare adeguatamente del significato della musica e della letteratura nella cornice della tradizione familiare e, al tempo medesimo, per i singoli componenti della famiglia. Questo riesce a McGuinness che, nella misura del possibile, assume il punto di vista dell’oggetto della trattazione per descrivere il mondo e i suoi oggetti. Parla dunque della giovinezza di Ludwig e del profondo significato di musica e letteratura, dell’educazione spirituale dei bambini nei loro primi anni, ed ecco che il lettore, attraverso soltanto due o tre brevi frasi, apprende di quell’atmosfera più che attraverso molti libri di storia. « Per il tramite della letteratura si innescava una continua discussione sulla vita ponendo l’accento sul linguaggio nitido e privo di orpelli retorici con cui veniva espressa. Una volta Ludwig disse a un amico : “ non importa che cosa hai fatto ; potresti anche aver ucciso un uomo, quel che importa è come ne parli e se ne parli ”. È questo che egli chiede anche a un’opera letteraria ».2 Questo si legge in un momento iniziale della biografia scritta da McGuinness sugli anni giovanili di Wittgenstein. Sono o sarei tentato di vedere il vero e proprio pregio di molti luoghi di quest’opera, sia nella intensa, e con straordinario tatto, riuscita ricostruzione degli eventi narrati e dei loro sfondi – si pensi, ad esempio, a come McGuinness richiami e descriva i vissuti mistici di Wittgenstein : egli non dice più di ciò che è necessario per rendere evidente la verità di quanto afferma –, sia nei rilevanti passi ove si pongono importanti problemi filosofici – ad esempio, quello dei rapporti con Frege e con Russell –. Eppure esiterei a farlo, poiché il vero pregio del libro Wittgenstein : A Life Youg Ludwig, 1889-1921 (che è oggi disponibile, da più di una dozzina d’anni, in inglese come in tedesco – per non parlare di altre traduzioni) consiste proprio nella ricostruzione di idee ed immagini così come di avvenimenti interiori ed esteriori di un’epoca, in una fase di rivolgimento, al centro della quale stava lo sviluppo di Ludwig e questo sviluppo non ricom2 B. McGuinness, Wittgenstein : il giovane Ludwig (1889-1921), trad. it. di R. Rini, Il Saggiatore, Milano 1990, p. 53.
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ein Dutzend Jahre englisch wie deutsch – von sonstigen Übersetzungen spreche ich nicht – vorliegt, besteht eben in der Rekonstruktion von Ideen und Bildern wie dem inneren und äußeren Geschehen einer Zeit, in einer Umbruchsphase, in deren Zentrum wohl Ludwigs Entwicklung stand, die freilich nicht allein in Wien und Österreich, sondern – wesentlich vor allem – England, und in geringerem Maß Deutschland, Italien und Norwegen in ihrem Inhalt einschließt. McGuinness hat in diesem Werk die komplizierte Aufgabe übernommen, zwei Probleme, die jedes für sich, äußerst schwierig zu erfassen und zu beantworten sind, in irgendeiner der möglichen Weisen zu charakterisieren, zu erläutern und verständlich, d.h. anschaulich zu machen. Die eine ist die biographische, die angemessene Darstellung des Lebens eines Philosophen, dessen ausgeprägte, ja schwieriger Charakter schon für sich des größten Einfühlungsvermögens und Gefühls und des analytischen Verstandes bedarf um die selbstgewählte Aufgabe zu erfüllen. Allein den vielschichtigen und doch so kräftig-ausgeprägten Charakter zu erfassen, zu verstehen und zu beschreiben, fordert ein ebenso vielschichtiges wie genaues Wissen und Verstehen, wie auch den nötigen Abstand zur Innen- und Außenwelt dieses schwierigen Charakters, der selbst nichts abstoßender fand als Oberflächlichkeit und Ungenauigkeit, aber wohl auch wusste, dass auch den eigenen Möglichkeiten immer Grenzen gesetzt sind. Wittgensteins Tagebücher und Briefe sind in dieser Hinsicht oft unsre einzigen Zeugnisse. Sie in richtigem Licht zu deuten gehört zur Empfindlichkeit, die auf alle Nuancen anspricht. Man muss daher auf die Äußerungen mit aller Sensibilität eingehen, ob diese bloß im Verhalten oder in Worten zum Ausdruck gebracht werden ; in Worten oder Zeichen können sie allein beschrieben werden. Immer ist es nämlich die sprachliche Äußerung, die uns einen Text bietet, der den Ausdruck von Gefühlen, Wünschen oder Ängsten darstellt. Selbst wenn der Gegenstand das Denken selbst ist, ist es nicht anders als durch die Sprache erfassund darstellbar. Auf diese frühen Einsichten geht Wittgensteins Denkweg und Brians Darstellung und Rekonstruktion zurück. Der Traktat und die Vorstudien zu ihm geben Auskunft, wie weit der Weg gewesen war, dahin zu kommen. Ohne die Anstöße von Frege und ohne die stets intensive
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prendeva in sé soltanto ciò che accadeva in Austria, a Vienna, ma – nella sua essenza – innanzitutto in Inghilterra e, in piccola misura, in Germania, in Italia e in Norvegia. McGuinness, in quest’opera, si è fatto carico del difficile compito di caratterizzare, secondo le diverse metodologie possibili, di chiarire e rendere comprensibili, cioè accessibili, due problemi che, ognuno a suo modo, sono straordinariamente difficili da afferrare e da risolvere. Uno di tali problemi è quello dell’adeguata esposizione della vita di un filosofo, per comprendere l’eminente, difficile carattere del quale è già di per sé necessario avere una grandissima capacità di empatia, un alto sentire ed un intelletto analitico che consenta di portare a termine il compito che ci si è posti. Anche solo afferrare, comprendere e descrivere quella multiforme, potente ed eminente personalità esige un altrettanto preciso e poliedrico ingegno ed intelletto, così come, anche, richiede la necessaria distanza dal mondo interiore ed esteriore di quest’uomo difficile che nulla riteneva più lontano da sé della superficialità e dell’imprecisione, pur consapevole che anche alle nostre autentiche possibilità sempre sono posti dei limiti. Le uniche testimonianze a questo riguardo, spesso, sono i diari e le lettere di Wittgenstein. Interpretarli nella giusta luce spetta alla sensibilità che reagisce a tutte le sfumature. Che si manifestino nel comportamento o attraverso le parole, è necessario per ciò entrare nelle espressioni con tutta la capacità di intenderle ; rappresentarle, tuttavia, è possibile soltanto con parole o con segni. È sempre l’espressione linguistica infatti, dalla quale è reso possibile un testo, a raffigurare la manifestazione di sentimenti, desideri o paure. Persino quando l’oggetto è il pensiero stesso, esso non è afferrabile e comprensibile altro che attraverso il linguaggio. A queste prime evidenze è diretta la via del pensiero di Wittgenstein e ad esse torna l’esposizione e la ricostruzione di Brian. Il Tractatus, e gli studi preliminari ad esso, mostrano quanto lunga sia stata la strada per giungere sin qui. Senza gli stimoli di Frege e senza il continuo e intenso confronto con Russell, non si potrebbe nemmeno rendere comprensibile il passaggio dalla scienza dell’ingegneria alla logica ed alla filosofia, il trasferimento da Manchester a Cambridge. La fine esposizione di McGuinness degli anni giovanili di Wittgenstein – si tratta del primo volume di una completa e
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Auseinandersetzung mit Russell könnte man nicht einmal den Übergang von der Ingenieurwissenschaft zur Logik und Philosophie, den Wechsel von Manchester nach Cambridge begreiflich machen. Am sensiblen und vorsiochtig-angemessenen Verständnis der fundamentalen Grundsätze des Tractats und der sozusagen ‚dahinter‘ liegenden Einstellung lässt sich McGuinness feinsinnige Darstellung von Wittgensteins frühen Jahren – dem ersten Band einer umfassenden und angemessenen Biographie am besten messen. Nicht nur waren diesem opus magnum Brians die frühe Neu – Übersetzung des Tractatus Logico-philosophicus (1961), sowie seine Abhandlungen über den “ Mysticism of the Tractatus ” (1966) und jene über den Grundgedanken des Traktats (1974) vorausgegangen, nein : Brian hat mehr als vierzig Jahre so gut wie alle Kraft in die Analyse des Zusammenhanges von Werk und Leben Wittgensteins gelegt, so als ob er sich verpflichtet hätte die “ einfache Wahrheit ” zu entdecken und zu erzählen. Dazu, so fand er, müsste zu aller erst die Spannweite zwischen Logik und Mystik ebenso erforscht und beschrieben werden, wie das Wesen der Welt. « Ja, meine Arbeit hat sich ausgedehnt von den Grundlagen der Logik zum Wesen der Welt ».3 So eine von Wittgensteins Notierungen am 2. August 1916, die McGuinness an jener Stelle seiner Darstellung zitiert, in der er bei Wittgenstein die Überbrückung einer “ Lücke zwischen seiner Philosophie und seinem Inneren ” sieht. Es ist an der gleichen Stelle, wo Brian bei Wittgenstein erstmals eine Verbindung zwischen dem “ Verständnis des Wesens der Sätze ” und “ der richtigen Haltung im Leben ” zu entdecken meint. Und in der Tat ist es der Zusammenhang von Logik und Ethik, der erst recht auf die Problematik des Unsagbaren hinweist. « Wovon man nicht sprechen kann, darüber muß man schweigen » : 4 dieser Schlusssatz des Traktats hat, genau genommen, eine universale Anwendung und gilt insbesondere für alle metaphysischen Aussagen sofern sie das Leben und die Welt betreffen. So weit die Sätze, die wir äußern, die Welt betreffen und etwas aussagen, was sich sagen lässt, ha3 4
L. Wittgenstein, Tagebücher 1914 – 1916. Eintragung vom 2.8.1916. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 7.
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adeguata biografia – si fa considerare una vibrante e accortamente precisa comprensione dei principi fondamentali del Tractatus e dell’atteggiamento intellettuale da cui esso deriva. Non soltanto questo opus magnum di Brian era stato preceduto dalla prima nuova traduzione del Tractatus Logicophilosophicus (1961) così come dai suoi saggi su “ Mysticism of the Tractatus ” (1966) e da quelli sui “ Grundgedanken des Tractatus ” (1974), no ; Brian ha impiegato più di quarant’anni e tutte le sue migliori energie nell’analisi della relazione tra vita e opera di Wittgenstein, come se si fosse dedicato a scoprire e narrare la semplice verità. A tale scopo, questo egli trovò, era necessario che cercasse e descrivesse innanzitutto la distanza tra logica e mistica e, ugualmente, l’essenza del mondo. «Sì, il mio lavoro si è esteso dai fondamenti della logica all’essenza del mondo».3 Così una delle annotazioni di Wittgestein del 2 Agosto 1916 che McGuinness cita in quel passo della sua esposizione nel quale egli vede che Wittgenstein getta il ponte su un “ vuoto tra la sua filosofia e la sua interiorità ”. È nello stesso luogo che Brian ritiene di aver scoperto per la prima volta in Wittgenstein un collegamento tra la “ comprensione dell’essenza delle proposizioni ” e “ il giusto comportamento nella vita ”. È infatti la relazione fra logica ed etica che, in primo luogo, fa giustamente riferimento alla problematica dell’indicibile. « Wovon man nicht sprechen kann, darüber muß man schweigen ».4 Questa proposizione conclusiva del Tractatus ha, se intesa esattamente, un impiego universale e vale in particolar modo per tutte le asserzioni metafisiche, per quel tanto che riguardano il vivere e il mondo. Sin dove le proposizioni che noi pronunciamo riguardano il mondo e dichiarano qualcosa che è possibile dire, le proposizioni non hanno nulla a che fare con la filosofia. Tali proposizioni non hanno alcuna propria rilevanza filosofica. Tutte le restanti, che vengono asserite sul mondo – le cosiddette proposizioni metafisiche – sono invece, secondo Wittgenstein, prive di senso. In questo modo, come Wittgestein dice e McGuinness tanto chiaramente pone in evidenza, permane il mistero – del mi3 4
L. Wittgenstein, Tagebücher 1914 – 1916. Eintragung vom 2.8.1916. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 7.
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ben die Sätze mit Philosophie nichts zu tun. Solche Sätze haben keine eigene philosophische Relevanz. Alle übrigen, die über die Welt geäußert werden – so genannte metaphysische Sätze – sind Wittgenstein zufolge aber sinnlos. So bleibt, wie Wittgenstein sagt und McGuinness so deutlich hervorhebt, das Mysterium – des Mystischen, der Unausdrückbarkeit dessen, was nicht gesagt werden kann: «Es gibt allerdings Unaussprechliches. Dies zeigt sich, es ist das Mystische».5 Es lohnte sich, Brians Erörterungen für die unauflösbare Schwierigkeit der Konsequenzen in Erinnerung zu rufen. Die Selbstverständlichkeit, die dem Text der Abhandlung durch Brians Erläuterungen zukommt und das Verständnis der allergrößten Schwierigkeiten und Folgerungen zumindest ermöglicht, ist vielleicht der größte Vorzug dieses erzählenden Kommentars von Wittgensteins Jugendwerk. Es ist wahrscheinlich übertrieben, wenn ich dem hinzufüge, dass McGuinness’ Betrachtungs- und Darstellungsweise den Tonfall des Österreichischen mitschwingen lässt, der auch den Stil mitprägt. Aber wenn es auch eine Übertreibung wäre, so steckt noch immer genug Wahrheit in ihr, um sie nicht zu unterdrücken.
5 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 6.522. Cfr. McGuinness, op. cit., p. 465.
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stico,della inesprimibilità di ciò che non può essere detto: « Es gibt allerdings Unaussprechliches. Dies zeigt sich, es ist das Mystische».5 Varrebbe la pena richiamare alla memoria i chiarimenti di Brian intorno alla insuperabile difficoltà delle conseguenze. La naturale comprensibilità che viene conferita al testo del trattato. Le spiegazioni di Brian e la comprensione che consente delle difficoltà e delle conseguenze che ne derivano, è forse il maggior pregio di questo commento narrativo dell’opera del giovane Wittgenstein. È verosimilmente esagerato ch’io aggiunga che il modo di vedere e di esporre di McGuinness fa come risuonare un accento austriaco che ne segna anche lo stile. Ma anche se, forse, è una esagerazione, v’è tuttavia in essa una verità sufficiente perché meriti di non essere trascurata.
5 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 6.522. Cfr. McGuinness, op. cit., p. 465.
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Antonia Soulez Università di Paris VIII e e Collège International de Philosophie
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L’HYPOTHÈSE D’UNE INTUITION DANS LA LANGUE
Préambule Je suis très honorée d’être invitée à cette rencontre en l’honneur de Brian McGuinness que je ne saurai jamais assez remercier de m’avoir un jour téléphoné pour demander des informations sur le Colloque parisien que Jan Sebestik et moi-même préparions en 1982 sur “ le Cercle de Vienne, doctrines et controverses ” et auquel il a bien évidemment participé. Une relation suivie de travail et d’amitié s’en est suivie dont j’ai bénéficié d’une manière inestimable. Il m’avait si j’ose dire “ remarquée ” à un Symposium Wittgenstein quelque temps auparavant, où je m’étais imprudemment embarquée dans une conférence sur Heidegger et Wittgenstein et où je m’étais fait un malin plaisir de m’écarter des rapprochements à la mode entre les deux auteurs, un peu aussi par réaction allergique au milieu philosophique d’où je provenais. Il est venu tout simplement me serrer la main. J’étais venu parce que mon abstract avait été accepté. La conférence n’a pas été publiée. Mais j’étais une novice mettant le pied dans un domaine encore inconnu de moi. En effet, j’étais encore à l’époque (début 1970) une chercheuse en philosophie grecque, fréquentant les cercles de recherches approfondies sur la philosophie grecque à la Sorbonne, à l’Ecole Normale Supérieure de la rue d’Ulm, et parfois aussi au Centre philologique de Lille maintenant à Villeneuve-d’Ascq. Je lisais les dialogues dits “ du milieu ” sur le langage, de Platon, et découvrais tout à propos du Cercle de Vienne auxquels mes travaux de philosophe hélléniste ne m’avaient guère préparée. Cependant, je m’intéressais tout particulièrement aux interprétations “ analytiques ” de ces dialogues de Platon sur le sol anglais (notamment à G. Ryle). J’étais encore loin d’avoir soutenu ma thèse – à l’é-
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L’IPOTESI DI UN’INTUIZIONE NELLA LINGUA
Premessa Sono molto onorata di essere stata invitata a questo incontro in onore di Brian McGuinness, che non potrò mai ringraziare abbastanza di avermi telefonato un giorno, nel 1982, per chiedermi informazioni sul Colloquio parigino che Jan Sebastik e io stavamo preparando su « Il Circolo di Vienna, dottrine e controversie », e al quale egli, come è evidente, ha partecipato. Ne è seguita una relazione di lavoro e di amicizia da cui ho tratto un beneficio inestimabile. McGuinness, se posso dirlo, mi aveva “ notato ” qualche tempo prima a un Symposium Wittgenstein, dove mi ero imprudentemente imbarcata in una conferenza su Heidegger e Wittgenstein e avevo provato un piacere malizioso nell’allontanarmi dagli accostamenti ‘ alla moda ’ tra i due autori, un po’ anche per reazione allergica all’ambiente filosofico da cui provenivo. McGuinness era venuto molto semplicemente a stringermi la mano. Ero là perché il mio abstract era stato accettato. La conferenza non è mai stata pubblicata. D’altra parte ero una novizia che metteva piede in un dominio per me ancora sconosciuto. All’epoca, infatti, (inizio 1970), ero ancora una studiosa di filosofia greca e frequentavo i circoli di ricerche approfondite sulla filosofia greca alla Sorbona, all’École Normale Superieure di rue d’Ulm, e qualche volta anche al Centro filologico di Lille ora a Villeneuve-d’Ascq. Leggevo i dialoghi di Platone sul linguaggio detti “ di mezzo ”, e scoprivo su questo argomento il Circolo di Vienna, al quale i miei lavori di filosofo ellenista non mi avevano affatto preparato. Tuttavia, mi interessavo in particolar modo alle interpretazioni “ analitiche ” in terra inglese di questi dialoghi di Platone (in particolare a G. Ryle). Ero ancora ben lontana dalla discussione
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poque une thèse d’état ancien régime qu’on disait inhumaine et qui vous prenait la vie entière. Par ailleurs, je commençais à assurer des cours de logique symbolique à la demande des départements de philosophie qui manquaient de “ logiciens ” à l’époque. Je me recyclais donc entièrement tout en apprenant à l’Institut Goethe l’allemand que je n’avais pas appris dans mes études supérieures. L’attention qu’il m’a portée fut un réel encouragement, sans emphase, mais je ne voulais pas que l’on m’encense. Je cherchais à comprendre, au delà du Cercle de Vienne dont la critique de la métaphysique découverte par hasard en lisant “ le Manifeste du Cercle de Vienne ” me convainquit complètement, la pensée que j’ai trouvée immédiatement plus profonde et subtile de Wittgenstein. J’ai en quelque sorte fait le “ détour ” par le Cercle de Vienne, convaincue qu’il fallait en passer par là pour pénétrer dans cette grande pensée fondamentale qui avait rendu possible le Cercle luimême. Le détour m’a été l’occasion d’une investigation historique et intellectuelle dans un milieu de réflexions que des voyages personnels à Vienne m’amenaient à faire de toutes façons jusque dans le champ de l’art et de la littérature. Une étrange collusion s’est produite qui fut fructueuse pour le travail, dont l’importance finit vite par croiser la recherche sur Platon que je devais par ailleurs mener à bien pour ma carrière en France. C’était un risque. Je l’ai pris. Les échanges qui se sont noués à partir de là ont eu des conséquences difficiles à mesurer qui ont retenti y compris sur mon travail de chercheuse dans l’antiquité. Mon regard s’est modifié de proche en proche. Mais je n’ai jamais basculé. C’est Wittgenstein qui justement, grâce à l’esprit de ses lecteurs les plus profonds tels que Brian qui m’aidaient à le lire, m’a retenue de ruer sans réfléchir dans un positivisme logique étroit et militant à l’extrême ou d’abandonner un modèle de pensée pour un autre comme si j’avais trouvé enfin la perle rare. Sans doute, je n’avais pas non plus le tempérament à me ranger à la bannière “ analytique ” au sens d’une sémantique désincarnée, qui m’aurait amenée peutêtre à renier ma propre tradition, ce qui n’était pas non plus mon but. Je suis convaincue que l’on ne peut, sans s’exiler soi-même, intégrer des modèles de pensée rien qu’en pensant dans une langue étrangère et si la sortie hors de son ca-
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della mia tesi – all’epoca una tesi di stato di ancien régime che veniva considerata inumana e vi prendeva la vita intera. Per altro, cominciavo a tenere corsi di logica simbolica su richiesta dei dipartimenti di filosofia che mancavano all’epoca di “ logici ”. Mi riciclavo interamente, dunque, ed imparavo contemporaneamente il tedesco, che non avevo mai studiato, all’Istituto Goethe. L’attenzione che McGuinness mi prestò fu un vero incoraggiamento, senza enfasi, ma non volevo essere lodata. Al di là del Circolo di Vienna, la cui critica alla metafisica che avevo scoperto per caso leggendo Il Manifesto del Circolo di Vienna mi convinceva completamente, cercavo di comprendere il pensiero di Wittgenstein che avevo trovato da subito più profondo e più sottile. In un certo senso ho fatto una “ deviazione ” nel Circolo di Vienna, convinta che bisognasse passare di là per penetrare in questo grande e fondamentale pensiero che aveva reso possibile il Circolo stesso. La deviazione è stata l’occasione per un’indagine storica e intellettuale in un ambito di riflessioni che alcuni viaggi personali a Vienna mi portavano a fare anche nel campo dell’arte e della letteratura. Una strana collusione, feconda per il lavoro, si è prodotta e la sua portata ha finito presto per incontrare la ricerca su Platone che dovevo comunque condurre a buon termine per la mia carriera in Francia. Era un rischio. L’ho corso. Gli scambi allacciati a partire da quel momento, hanno avuto alcune conseguenze, difficili da misurare, che si sono ripercosse anche sul mio lavoro di studiosa dell’antichità. Il mio sguardo si è via via modificato. Ma non ho mai oscillato. È Wittgenstein che giustamente, grazie allo spirito dei suoi lettori più profondi, quali Brian, che mi aiutavano a leggerlo, mi ha impedito di cadere, senza riflettere, in un positivismo logico angusto e militante all’estremo, o di abbandonare un modello di pensiero per un altro, come se avessi finalmente trovato una perla rara. Indubbiamente non avevo nemmeno il carattere per schierarmi sotto lo stendardo “ analitico ”, nel senso di una semantica disincarnata, che mi avrebbe portato forse a negare la mia tradizione, cosa che non era affatto nei miei scopi. Sono convinta che non si può, senza esiliare se stessi, integrare dei modelli di pensiero se non pensando in una lingua straniera e se si
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dre familier s’impose, il ne faut le faire qu’à titre d’une hypothèse auto-critique afin de “ travailler sur soi-même ”, comme dit Wittgenstein, par une réflexion exigente sur l’activité de philosopher à laquelle on adhère et l’engagement qu’elle signifie. On ne pense pas non plus par mimétisme en imitant “ l’accent ” des pensées des autres. C’est pourquoi je suis d’autant plus reconnaissante à Brian de m’avoir invitée à plusieurs reprises car je sentais qu’il m’acceptait avec mon caractère “ français ” dans ce champ de la philosophie analytique marquée par Wittgenstein. J’en conçois encore une certaine fierté. Je ne m’exclamerai pas comme Jacques Bouveresse combien “ I am so un-French ”, car je ne crois pas à ce genre de déclaration à la première personne. Seul un autre peut le dire. Le soutien, l’intérêt qu’il a portés à mon travail, le sérieux qu’il y a détecté dans ce qui me tenait à coeur: le travail sur les dictées qu’il a rendu possible notamment en me faisant connaître Gordon Baker, puis celui que nécessitait en profondeur la traduction de la double Leçon de Wittgenstein sur “ The Freedom of the Will ”, tout cela est devenu pour moi le ferment de ma réflexion philosophique présente. En ce sens, et en raison des liens d’amitié personnelle que cette relation de travail a produits, la reconnaissance que je lui dois est sans limite. Mes venues à Sienne grâce à lui ont intensifié ce sentiment d’une véritable chance, comme aussi d’une entrée très spéciale, très précieuse dans Wittgenstein, je pense au penseur de l’Ethique, incomparablement grand. A cause de cela, je ne peux oublier ce que Brian a dit de la Weltseele, cette notion d’appartenance à un Tout que Wittgenstein mentionne dans ses Carnets, à Paris lors d’un matin de “ Samedi du livre ” (en juin 2000 au Collège International) autour du livre de David Pears (The False Prison). Certes, il ne sera pas question de ce point élevé dans l’exposé qui suit. Je me tourne donc avec gratitude en particulier vers Romano Romani son collègue fidèle et ami, puisque c’est en premier à lui, par ailleurs, philosophe de l’antiquité grecque, que je dois d’être dans ces lieux magnifiques. La question en forme de dilemme que j’expose maintenant a une autre raison qui est le travail récent 1 que j’ai fait 1
Dans un colloque à Bruxelles dont les Actes ont été publiés en janvier
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impone un’uscita dal nostro quadro familiare bisogna farla soltanto a titolo di ipotesi autocritica finalizzata a “ lavorare su se stessi ”, come dice Wittgenstein, attraverso una riflessione esigente sull’attività del filosofare alla quale si aderisce e sull’impegno che essa significa. Non si pensa neppure per mimetismo, imitando l’ “ accento ” dei pensieri degli altri. È per questo che sono ancora più riconoscente a Brian per avermi invitato più volte, poiché sentivo che mi accettava con il mio carattere “ francese ” in questo campo della filosofia analitica segnato da Wittgenstein. Provo ancora un certo orgoglio. Non esclamerei mai come Jacques Bouveresse quanto « I am so un-French », perché non credo a questo genere di dichiarazioni in prima persona. Solo un altro può dirlo. Il sostegno, l’interesse che ha avuto per il mio lavoro, l’importanza che ha scoperto in ciò che mi stava a cuore, il lavoro sui “ Dettati ” che egli ha reso possibile, soprattutto facendomi conoscere Gordon Baker, e poi il lavoro profondo che necessitava la traduzione della doppia lezione di Wittgenstein su « The freedom of the Will », tutto questo è divenuto per me il lievito della mia attuale riflessione filosofica. In questo senso, e in ragione dei legami di amicizia personale che questa relazione di lavoro ha prodotto, la riconoscenza che gli devo è illimitata. Le mie visite a Siena, per merito suo, hanno reso più intenso il sentimento di una vera fortuna e di un accesso privilegiato a Wittgenstein – penso al pensatore dell’Etica, incomparabilmente grande. Per questo non posso dimenticare ciò che Brian ha detto a Parigi in un mattino del “ Sabato del libro ” (in giugno 2002 al Collegio Internazionale) dedicato al libro di David Pears (The False prison), a proposito della Weltseele, questa nozione di appartenenza a un tutto che Wittgenstein menziona nei suoi Quaderni. Non si toccherà certo un punto così elevato nell’esposizione che segue. Mi rivolgo allora con gratitudine a Romano Romani, suo collega e amico fedele, poiché è per primo a lui, a sua volta filosofo dell’antichità greca, che devo di essere in questi luoghi magnifici. Il problema, in forma di dilemma, che ora espongo, ha un’altra ragione che è il lavoro fatto da me recentemente 1 1 In un convegno a Bruxelles i cui atti sono stati pubblicati nel gennaio 1955 nelle « Recherches Husserliennes », n. 10, poi in una conferenza a
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sur une confrontation entre phénoménologie et philosophie analytique sur la question de l’ a priori. Je voudrais profiter de l’occasion, de la chance qui m’est donnée d’être ici pour apporter quelques arguments en renfort d’une suggestion de Brian en faveur du rôle d’une “ quasi-intuition ” comme il dit dans son article de 1956, et j’ajouterai: en tant qu’elle opère dans la langue. La question de l’incompatibilité des couleurs, thème également central dans la phénoménologhie husserlienne comme on sait, est mon point de départ. Le déverrouillage que permet la grammaire du sens des “ règles ” trouve dans ce cas une application particulièrement lumineuse. Le nombre de fois qu’en exposant cette question, quelqu’un s’est levé dans la salle en me disant, mécontent : “ Mais, moi, je suis peintre, et je peux vous dire que rouge et vert peuvent se trouver au même lieu et au même endroit ! ” est incalculable. Wittgenstein a compris que le grammairien travaillant sur l’aspect des règles pouvait dénouer cette affaire pas trop rigide en donnant peutêtre raison au peintre.
i. l’entretien “ anti-husserl ” de 1929 chez schlick Wittgenstein en écho à une critique plus argumentée que Schlick a formulée à l’encontre de Husserl, est amené à reconnaître avec lui, dans un Entretien “ Anti-Husserl ” (noté par Waismann lors d’une de ces réunions de travail chez Schlick en 1929), que la thèse phénoménologique d’énoncés qui correspondraient à des jugements synthétiques et a priori est irrecevable. Prenons, dit Wittgenstein, l’énoncé “ un objet ne peut être à la fois rouge et vert ”. Cela veut dire non pas que je n’ai jusqu’à maintenant jamais rien vu de tel dans l’expérience, mais que “ rouge et vert ne peuvent pas occuper le même lieu ”. La question porte ici sur le sens de ce “ peut ” ou “ ne peut pas ”. Le mot “ peut ” n’est pas un concept factuel mais un concept grammatical (logique). 1999 dans « Recherches Husserliennes », nº 10, puis dans une conférence à une table-ronde à USP de Sao Paulo, publiée dans la revue « Manuscrito » de l’Université de Campinas, été 2002.
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per un confronto tra fenomenologia e filosofia analitica sulla questione dell’ a priori. Vorrei approfittare dell’occasione, della fortuna che mi è data di essere qui, per portare qualche argomento a sostegno di un suggerimento di Brian in favore del ruolo di una “ quasi-intuizione ”, come egli dice nel suo articolo del 1956, e aggiungerei : in tanto in quanto essa opera nella lingua. La questione dell’incompatibilità dei colori, tema, come è noto, altrettanto centrale nella fenomenologia husserliana, è il mio punto di partenza. Lo scardinamento, che la grammatica permette ; del senso delle “ regole ” trova in questo caso un’applicazione particolarmente luminosa. È incalcolabile il numero di volte in cui, mentre esponevo questo problema, qualcuno si è alzato nella sala per dirmi, scontento : « Ma io sono pittore e posso dirle che il rosso e il verde possono trovarsi insieme nello stesso luogo e nello stesso posto! » Wittgenstein ha compreso che il grammatico, lavorando sull’aspetto delle regole, poteva sciogliere questo problema non troppo rigido, dando forse ragione al pittore.
i. il colloquio “ anti-husserl ” del 1929 a casa di schlick Riecheggiando una critica più argomentata che Schlick ha formulato nei confronti di Husserl, Wittgenstein è portato a riconoscere con lui, in un colloquio “ Anti-Husserl ” (trascritto da Waismann durante una delle riunioni di lavoro a casa di Schlick nel 1929), che la tesi fenomenologica di enunciati che corrisponderebbero a giudizi sintetici e a priori è inaccettabile. Prendiamo, dice Wittgenstein, l’enunciato « un oggetto non può essere allo stesso tempo rosso e verde ». Questo non vuol dire che io non ho mai visto fin ora niente di simile nell’esperienza, ma che « rosso e verde non possono occupare lo stesso luogo ». La questione riguarda qui il senso di questo « può » o « non può ». La parola « può » non è un concetto fattuale, ma un concetto grammaticale (logico).
una tavola rotonda all’Università USP di San Paolo, pubblicata nella rivista « Manuscrito » dell’Università di Campinas, estate 2002.
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1. L’argument Il est le suivant : « Supposons que l’énoncé en question soit un jugement synthétique mais que le mot “ ne peut pas ” ait un sens d’impossibilité logique. Comme un énoncé est la négation de sa négation, l’énoncé contraire doit aussi exister, à savoir l’énoncé que “ rouge et vert peuvent occuper le même lieu ”. Or le contraire d’un énoncé synthétique est un énoncé encore synthétique. Il a donc, tout autant que sa négative, un sens en vertu duquel l’état de choses représenté peut se présenter, tandis que “ peut ” conserve le sens de possibilité logique comme “ ne peut pas ”, le sens d’une impossibilité logique. Nous en arrivons alors à l’absurdité qu’une impossibilité logique est cependant “ possible ”. 2. Le point de vue wittgensteinine : Un certain a priori = le mot “ pouvoir ” « “ Que deux couleurs n’aillent pas ensemble en même temps et en un même lieu, cela doit forcément tenir à leur forme… ”. Et cela ne veut absolument pas dire que l’inférence puisse se faire non seulement formellement mais aussi matériellement, dit Schlick en s’appuyant sur Wittgenstein. Le sens découle du sens et à cause de cela, la forme de la forme » (Rem. philos. viii, § 78). Il faudrait interroger ce découlement interne de forme qui donne un certain sens à l’impossibilité de voir un objet rouge et vert en même temps au même lieu. Quel est le substrat formel de sens qui sous-tend cette possibilité négative ? Certainement, comme on l’a vu, rien ne peut être invoqué qui trouverait dans une essence phénoménale de la chosemême un quelconque appui, une quelconque raison d’origine : « Le mot “ pouvoir ” est à l’évidence un concept grammatical (logique), non un concept se rapportant à la chose (sachlich) » (J. Benoist in L’ a priori conceptuel, Vrin, 1999, p. 181). Une forme découlant d’une forme et parallèlement un sens d’un sens exclut de fait toute “ réification ” de l’ a priori grammatical, mais elle n’est pourtant pas, on l’a compris, seulement analytique au sens logico-déductif. Ainsi, il y aurait place pour une espèce d’ a priori non absolument analytique touchant la nature de cette “ possibilité ” négati-
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1. L’argomento È il seguente : « Supponiamo che l’enunciato in questione sia un giudizio sintetico, ma che l’espressione “ non può ” abbia un senso di impossibilità logica. Poiché un enunciato è la negazione della sua negazione, l’enunciato contrario, in questo caso l’enunciato “ il rosso e il verde possono occupare lo stesso luogo ”, deve anch’esso esistere. Ora, il contrario di un enunciato sintetico è un enunciato a sua volta sintetico. Esso ha dunque, tanto quanto la sua negativa, un senso in virtù del quale lo stato di cose rappresentato può presentarsi, laddove “ può ” conserva il senso di possibilità logica, come “ non può ” il senso di una impossibilità logica. Giungiamo allora all’assurdità che una impossibilità logica è tuttavia “ possibile ”. 2. Il punto di vista wittgensteiniano : un certo a priori = la parola “ potere ” « “ Che due colori non stiano assieme nello stesso tempo e nello stesso luogo, questo deve dipendere per forza dalla loro forma… ”. E questo non vuole assolutamente dire che l’inferenza possa farsi non soltanto formalmente ma anche materialmente, dice Schlick rifacendosi a Wittgenstein. Il senso deriva dal senso e, a causa di ciò, la forma dalla forma » (Osservazioni filosofiche, viii, § 78). Bisognerebbe interrogare questa derivazione interna di forma che dà un senso determinato all’impossibilità di vedere un oggetto rosso e verde nello stesso luogo e nello stesso tempo. Qual è il sostrato formale di senso che sottende questa possibilità negativa? Certamente, come si è visto, non può essere invocato nulla che troverebbe in un’essenza fenomenica della cosa stessa un qualche appoggio, una qualunque ragione d’origine : « La parola “ potere ” è evidentemente un concetto grammaticale (logico), non un concetto che si riferisce alla cosa (sachlich) » (J. Benoist in L’ a priori conceptuel, Vrin, 1999, p. 181). Una forma che deriva da una forma, e, parallelamente, un senso da un senso, esclude di fatto ogni “ reificazione ” dell’ a priori grammaticale, ma essa non è tuttavia, lo si è compreso, soltanto analitica in senso logicodeduttivo. Così, vi sarebbe spazio per una specie di a priori
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vement assertée. Si c’est vrai, l’exclusion du synthétique a priori dont le Cercle de Vienne s’est fait fort, n’est pas aussi catégorique que Carnap et Neurath l’ont fait croire, en tous cas du côté plus nuancé de Schlick et Wittgenstein.
ii. nature de la “ troisième voie ” husserlienne en question 1. Pour Husserl : Le vécu est acte saisi dans le flux, notion d’immanence par laquelle Jean-Michel Salanskis fait commencer sa présentation de Husserl (Husserl, 1998, Belles Lettres). Le “ vécu ” Erlebnis, est une notion qui appartient au domaine de la vie. La conscience est «tissu des vécus psychiques dans l’unité du flux des vécus », et possède un caractère d’impersonnalité en même temps que d’appartenance collective. Pour Husserl, il est possible d’accéder cognitivement à ce contenu du flux des vécus. Le concept a prise sur le vécu. Ce point constituera en revanche un point d’attaque des philosophes analytiques. C’est en effet sur cette idée de saisie cognitive d’une contenu de vécu que les philosophes du Cercle de Vienne se séparent de la phénoménologie. Carnap dans son Aufbau (La construction logique du monde, Berlin, 1928) n’estime possible la description que moyennant des coupes opérées sur le “ courant de conscience ”, ce qui suppose qu’on ait d’abord pratiqué une méthode d’abstraction. Les “ expériences élémentaires ” résultantes de ce prélèvement sont alors traitables formellement comme des unités inanalysables, mais discrètes, et dont on a retenu la forme d’ordre (ici l’influence de la Gestalt-Theorie). Le point de vue constructionnel combine les “ éléments ” de Mach avec la procédure abstractive russellienne. Carnap précise que cette façon de voir les éléments des expériences ne doit pas conclure à poser le flux de conscience comme composé en réalité de tels éléments discrets, matériellement parlant (§ 67). Cette mise au point indique clairement que Carnap ne se prononce pas sur la conscience comme flux car dit-il, « tout état de conscience est une unité inanalysable ». Il n’en retient que ce qui ressort d’une analyse de ce courant. Ainsi il ne dit pas le contraire de Husserl. C’est un problème
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non del tutto analitico che riguarda la natura di questa “ possibilità ” negativamente asserita. Se questo è vero, l’esclusione del sintetico a priori di cui il Circolo di Vienna si è fatto forte, non è così categorica come Carnap e Neurath hanno fatto credere, e in ogni caso nell’aspetto più sfumato che ha in Schlick e Wittgenstein.
ii. natura della “ terza via ” husserliana in questione 1. Per Husserl : Il vissuto è atto colto nel flusso, nozione di immanenza mediante la quale Jean-Michel Salanskis fa cominciare la sua presentazione di Husserl (Husserl, Belles Lettres, 1998). Il “ vissuto ”, Erlebnis, è una nozione che appartiene al dominio della vita. La coscienza è « tessuto di vissuti psichici nell’unità del flusso dei vissuti », e possiede un carattere che è ad un tempo di impersonalità e di appartenenza collettiva. Per Husserl è possibile accedere cognitivamente a questo contenuto del flusso dei vissuti. Il concetto ha presa sul vissuto. Questo punto costituirà, in contraccambio, un bersaglio polemico dei filosofi analitici. È in effetti su questa idea di presa cognitiva di un contenuto di vissuto che i filosofi del Circolo di Vienna si separano dalla fenomenologia. Carnap nel suo Aufbau (La costruzione logica del mondo, Berlino, 1928) ritiene possibile la descrizione solamente attraverso tagli operati sulla “ corrente della coscienza ”, il che suppone che sia stato innanzitutto praticato un metodo d’astrazione. Le “ esperienze elementari ” che risultano da questo prelevamento sono allora trattabili formalmente come unità inanalizzabili, ma discrete, e di cui si sia recuperata la forma d’ordine (qui l’influenza della Gestalt-theorie). Il punto di vista costruttivista combina gli “ elementi ” di Mach con la procedura astrattiva russelliana. Carnap precisa che questo modo di vedere gli elementi delle esperienze non deve giungere al risultato di porre il flusso di coscienza come composto in realtà di tali elementi discreti, materialmente parlando (§ 67). Questa messa a punto indica chiaramente che Carnap non si pronuncia sulla coscienza come flusso, poiché, dice, « ogni stato di coscienza è un’unità ina-
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de niveau d’opération. Le Husserl mentionné dans l’Aufbau n’est pas visé comme une cible dans une polémique. Carnap propose une méthode pour aborder formellement le donné une fois dépouillé de la subjectivité du vécu. C’est le “ solipsisme méthodologique ”. Pour le Cercle de Vienne, le parti de la saisie conceptuelle du vécu, possible pour Husserl, à même le flux, est une imposture. Le philosophe ne fait là qu’une expérience de mutisme. Il croit dire alors qu’il rencontre de l’inarticulé. Wittgenstein juge vaine la quête de l’inarticulé qui guette toute démarche cherchant à ressaisir un phénomène à son premier commencement: le langage à peine séparé du phénomène, le mot tout contre chose, comme s’ils étaient bord à bord. Husserl a cru en effet pouvoir à force d’analyse au sens phénoménologique plier la forme du pur logique à celle de la phénoménalité comme si la forme qui réside en chacun pouvait s’intriquer, se fondre en une. L’ a priori phénoménal qui fait l’objet d’une intuition, ce serait cela, le contenu inouï d’une troisième sorte de détermination par une troisième voie. Ce qui ouvrirait la troisième voie ? Une corrélation entre l’objectité pensée et une forme d’aprioricité au coeur de la phénoménalité. Mais il n’y a pas de mot tout à fait pour appréhender ce niveau. Il faut dès lors pour y parvenir désempiriciser la phénoménalité (contre l’empirisme) et solidairement intentionaliser le vécu à caractère d’acte orienté vers un contenu de signification (plutôt que l’objet réellement visé). Voilà tout ce qu’il faut mettre en place pour construire une troisème voie. Et là, rien n’est tout prêt d’avance pour un “ voir ” qui ne se laisse ni démontrer ni déduire, dit Husserl car pour arriver à saisir un “ phénomène pur ” distinct de ce qui se laisse appréhender à la surface empirique, réussir à saisir le donné d’aperception du vécu, il faut plus que seulement savoir, il faut savoir et voir, savoir-voir indissociablement. La troisième voie est celle, récusée par Wittgenstein et Schlick d’un “ savoir-voir ” donnés ensemble conformément aux 3e et 4e Leçons sur l’idée de phénoménologie (1907). Mais donnés comment ? Par la “ réduction ”, en vue de capturer l’essence, à savoir en quelque sorte l’élément identifiant décisif – eidos – commun aux cas qui s’appréhende par variation eidétique.
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nalizzabile ». Egli non ne ricava se non ciò che scaturisce da un’ analisi di questa corrente. Così non dice il contrario di Husserl. È un problema di livello di operazione. Lo Husserl menzionato nell’ Aufbau non è guardato come un bersaglio polemico. Carnap propone un metodo per avvicinare formalmente il dato una volta spogliato della soggettività del vissuto. È “ il solipsismo metodologico ”. Per il Circolo di Vienna, la posizione che sostiene la presa concettuale del vissuto, possibile per Husserl, e lo stesso flusso, è un’impostura. Il filosofo non fa qui che un’esperienza di mutismo. Crede di dire quando, invece, incontra dell’inarticolato. Wittgenstein giudica vana la ricerca dell’inarticolato che spia ogni percorso per giungere a cogliere un fenomeno al suo primo inizio: il linguaggio separato a fatica dal fenomeno, la parola del tutto di fronte alla cosa, come se fossero fianco a fianco. Husserl ha creduto infatti di poter piegare, a forza di analisi in senso fenomenologico, la forma del puro logico a quella della fenomenicità, come se la forma che risiede in ciascuno di essi potesse intrecciarsi, fondersi in una. L’ a priori fenomenico che costituisce l’oggetto di un’intuizione, questo sarebbe il contenuto inaudito di un terzo tipo di determinazione attraverso una terza via. Cosa che aprirebbe la terza via ? Una correlazione tra l’oggettità pensata e una forma di aprioricità nel centro della fenomenicità. Ma non c’è una parola per attingere a questo livello. Per giungervi bisogna allora disempiricizzare la fenomenicità (contro l’empirismo) e, insieme, intenzionalizzare il vissuto come atto orientato verso un contenuto di significato (piuttosto che come l’oggetto cui realmente si guarda). Ecco tutto ciò che bisogna mettere a posto per costruire una terza via. E qui non v’è niente di già pronto per un “ vedere ” che non si lascia né dimostrare né dedurre, dice Husserl, poiché per arrivare a cogliere un “ fenomeno puro ”, distinto da ciò che si lascia afferrare sulla superficie empirica, per riuscire a cogliere il dato di appercezione del vissuto, occorre, più che soltanto sapere, sapere e vedere, saper-vedere indissolubilmente. La terza via è quella, rifiutata da Wittgenstein e Schlick, di un “ saper-vedere ” dati insieme, conformemente alla terza e quarta delle Lezioni sull’idea di fenomenologia (1907). Ma dati come ? Attraverso la “ riduzione ”, per catturare l’essenza, ossia in qualche modo
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2. A la suggestion de cette troisième voie, Wittgenstein répond: « qu’on peut bien inventer des mots, mais je ne saurais me donner la moindre représentation de ce qu’ils recouvrent ». Dans les termes de Wittgenstein, cela veut dire que l’intuition ne nous est d’aucune aide pour “ opérer avec la phrase ” en question. Il nous manque des règles de projection pour traduire en signes manipulables les “ Vorstellungsbilden ” qui accompagnent les processus qui se déroulent en moi quand je la lis. Ce point rejoint la critique de l’idée plus générale d’une saisie d’objet au sens de visée de contenu de signification comme phénomène articulé ayant lieu dans l’esprit. Rien n’est moins évident qu’une « élucidation phénoménologique (non-naturelle par mise hors circuit de l’attitude naturelle) du signifier, du penser, du connaître » à laquelle croit Husserl (6e Recherches logiques, PUF, Epiméthée, p. 239). Digression à titre de rappel : Eléments d’une filiation de la critique d’une saisie intuitive directe de contenu : Bolzano, Frege, Wittgenstein On reconnaît dans les considérations finales de cet argument par l’absurde un élément de critique formulé déjà par Frege (à propos de 135 664 doigts, § 18 p. 39, trad. française Claude Imbert, Fondements de l’arithmétique) quasiment dans les mêmes termes que ceux de Bolzano qui le premier s’attaqua à l’intuition pure des grandeurs chez Kant (in Introduction à une méthode d’exposé de la pensée mathématique, § 11, Als Einleitung in Bolzanos “ Wissenschaftlehre ”, ed. Jan Berg, Fromann-holzboog ; cp. avec Jan Sebestik, Bernard Bolzano, Vrin, 1992, p. 152). Il y a dans l’intuition quelque chose d’irreprésentable qui correspond à une opération infaisable. L’expression d’intuition pure est donc un abus de langage, une “ expression vide ”, donc un mot en plus plus un contenu qui manque. Le phénoménologue est “ en manque de mots ” comme le dit lui-même Husserl à la recherche d’un langage pour la phénoménologue qui ne soit pas pour autant “ de la littérature ”. Ce qui est récusé ici est un certain emploi d’ “ intuition ”, non toute intuition. Nous savons bien qu’il y a chez Bolzano, place pour l’intuition entendue en tant que relation im-
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l’elemento identificante decisivo – eidos – comune ai casi e che si afferra attraverso una variazione eidetica. 2. Al suggerimento di questa terza via, Wittgenstein risponde : « che si possono ben inventare delle parole, ma non saprei darmi la minima rappresentazione di ciò che esse nascondono ». Nei termini di Wittgenstein, ciò vuol dire che l’intuizione non ci è di alcun aiuto per “ operare con la frase ” in questione. Ci mancano regole di proiezione per tradurre in segni manipolabili le “ Vortsellungsbilden ” che accompagnano i processi che si svolgono in me quando la leggo. Questo punto va nella stessa direzione della critica dell’idea più generale di una presa d’oggetto nel senso di sguardo intenzionato ad un contenuto di significato, come fenomeno articolato che ha luogo nello spirito. Niente è meno evidente di una « chiarificazione fenomenologica (non naturale a causa della messa fuori gioco dell’atteggiamento naturale) del significare, del pensare, del conoscere », alla quale crede Husserl (Sesta delle Ricerche logiche, PUF, Epiméthée, p. 239). Digressione a titolo di richiamo : Elementi di una filiazione della critica di un coglimento intuitivo diretto di contenuto ; Bolzano, Frege, Wittgenstein Nelle considerazioni finali di questo argomento per assurdo, si riconosce un elemento di critica già formulato da Frege (a proposito di 135 664 dita, § 18, p. 39, trad. francese di Claude Imbert, Fondamenti dell’aritmetica) quasi negli stessi termini di Bolzano che attaccò per primo l’intuizione pura delle grandezze in Kant (in Introduzione a un metodo di esposizione del pensiero matematico, § 11, Als Einleitung in Bolzanos “ Wissenschaftslehre ”, ed. Jan Berg, FromannHolzboog ; cp. con Jan Sebestik, Bernard Bolzano, Vrin, 1992, p. 152). C’è nell’intuizione qualcosa di irrappresentabile che corrisponde a un’operazione infattibile. L’espressione ‘ intuizione pura ’ è dunque un abuso di linguaggio, un’ “ espressione vuota ”, dunque una parola in più per un contenuto che manca. Il fenomenologo è “ in carenza di parole ”, come dice lo stesso Husserl, alla ricerca di un linguaggio per la fenomenologia che non sia però “ letteratura ”. Ciò che qui viene rifiutato è un certo uso di “ intuizione ”,
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médiate à l’objet. Mais pas, comme chez Kant, au sens d’une intuition de forme générale. Pour Bolzano l’intuition est celle d’un “ ceci ”, donc directe et singulière. Elle a un caractère ostensif quasiment privé chez Bolzano qui semble préfigurer le privé chez Wittgenstein. Cependant, ce qui semble inadmissible à Bolzano est l’idée d’une intuition qui saisirait une généralité. Cette seconde acception kantienne de l’intuition (pure, au fondement de la géométrie et de l’arithmétique) suppose que l’on a le sentiment d’une généralité dans l’intuition, chose absolument inconcevable. Dès qu’il y a généralité, pense Bolzano, c’est au concept qu’il faut recourir. 3. Kant d’après Husserl Cette critique de la troisième voie husserlienne peut être lue comme une réfutation terme à terme d’un argument d’Husserl lui-même contre Kant. Dans la vie Recherche logique, Husserl s’applique à construire sa notion d’acte d’intuition catégoriale, une notion dit-il, confusément entrevue par Kant mais qu’il n’a pas réussi à atteindre parce qu’il n’a pas su dépasser le cadre étroit de l’intuition sensible pour l’étendre jusqu’à la signification. Reprenant un argument assez frégéen d’esprit, il dit que si Kant avait perçu l’analyticité de la pensée logique en son vrai sens, il ne se serait pas débarrassé si vite du domaine purement logique (orig. § 203, pp. 242-3, 6e Recherches logiques, ch. viii). Cependant, la logique pour Husserl n’en reste pas, comme pour Frege, à l’explication analytique des “ purs rapports de dépendance entre vérités ” (ainsi dans la preuve mathématique qui sert à Frege de paradigme pour penser le pensable sur le modèle du nombrable). Ce plan est celui de l’ a-priori seulement formel. La logique selon Husserl doit pousser l’élucidation jusqu’à “ l’analyse d’essence ” (dans la coll. Epiméthée, v. p. 243). Ce sont en effet les “ lois d’essences ” qui fondent la possibilité ou l’impossibilité objective de relations entre les choses. C’est ici l’ a priori matériel ou phénoménal. Kant, dit Husserl, ne s’est pas donné un “ concept authentique phénoménologique de l’ a priori ” parce qu’il n’a pas ancré son a priori dans l’intuition des formes de nécessité d’essence. C’est la raison pour laquelle Kant, dit Husserl (Conférence
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non l’intuizione. Sappiamo bene che in Bolzano c’è spazio per l’intuizione intesa come relazione immediata all’oggetto. Ma non, come in Kant, nel senso di un’intuizione di forma generale. Per Bolzano l’intuizione è quella di un “ questo ”, dunque diretta e singolare. Essa ha in Bolzano un carattere ostensivo quasi privato che sembra prefigurare il privato in Wittgenstein. Tuttavia, ciò che sembra inammissibile a Bolzano è l’idea di un’intuizione che coglierebbe una generalità. Questa seconda accezione kantiana dell’intuizione (pura, a fondamento della geometria e dell’aritmetica) suppone che si abbia il senso di una generalità nell’intuizione, cosa assolutamente inconcepibile. Quando c’è generalità, pensa Bolzano, è al concetto che bisogna ricorrere. 3. Kant secondo Husserl Questa critica della terza via husserliana può essere letta come una confutazione, parola per parola, di un argomento di Husserl stesso contro Kant. Nella vi Ricerca Logica, Husserl si dedica a costruire la sua nozione di atto di intuizione categoriale, una nozione, egli dice, confusamente intravista da Kant, ma che Kant non è riuscito a raggiungere perché non ha saputo oltrepassare il quadro ristretto dell’intuizione sensibile per estenderla fino al significato. Riprendendo un argomento molto fregeano nello spirito, egli dice che, se Kant avesse percepito nel suo vero senso l’analiticità del pensiero logico, non si sarebbe sbarazzato così velocemente del dominio puramente logico (orig. § 203, pp. 242-243, vi delle Ricerche logiche, cap. viii). Tuttavia, la logica per Husserl non si ferma, come per Frege, alla spiegazione analitica dei “ puri rapporti di dipendenza tra verità ” (come nella prova matematica che serve a Frege da paradigma per pensare il pensabile sul modello del numerabile). Questo piano è quello dell’ a priori soltanto formale. La logica, secondo Husserl, deve spingere la chiarificazione fino all’ “ analisi d’essenza ” (nella collana Epiméthée, v. p. 243). Sono infatti le “ leggi d’essenze ” che fondano la possibilità o l’impossibilità oggettiva di relazioni tra le cose. Questo è l’ a priori materiale o fenomenico. Kant, dice Husserl, non si è dato « un concetto autentico fenomenologico dell’ a priori » perché non
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sur Kant, 1924, notes de 1903-1908), a jugé trop vite que seul le contraire d’un jugement analytique était absurde. Pour Husserl, le contraire d’un jugement synthétique a priori comme « rouge et vert ne peuvent pas être au même lieu » est également absurde (en réalité “ faux ” plutôt qu’insensé, cf. J-L. Gardies, cit. plus bas) et c’est ce que montrent non pas les pures catégories de l’entendement selon Kant qui justement n’ont rien à faire avec l’expérience, mais les “ lois d’essences pures ” qui gouvernent les actes de leur saisie (ou “ vécus intentionnels”) “ à travers ” les significations des essences conceptuelles et de leur généralité. Par ex. “ un rond rouge vert ” est impossible, dit Husserl. Ce qui se présente logiquement comme une contradiction analytique, correspond en réalité à un certain emploi de : “ ce petit mot de pouvoir ” qui “ apparaît en relation avec le terme prégnant de penser ”, et “ ce que l’on vise par là, n’est pas une nécessité subjective c’est à dire une incapacité subjective à ne-pas-pouvoir-se-représenter-autrement, mais une nécessité idéale de ne-pas-pouvoir-être-autrement ”. La “ conversion ontologique ” (expression de Husserl lui-même) de la phrase indique bien le passage à la nécessité d’une donnée dans la conscience fondée ici sur l’essence du contenu intuitif, d’où un “ conflit supposant une unité ” (comme le “ n’est pas ”).2 Cette remarque se laisse cependant comparer à l’idée wittgensteinienne de « voir d’un seul regard une relation de contradiction entre deux termes » déjà en jeu dans le Tractatus.
iii. la question du “ conflit dans l’intuition ” (husserl) est-elle commune à wittgenstein et à husserl ? 1. Retour au Tractatus : la relation sémantique d’incompatibilité Le contexte dans lequel apparaît pour la première fois l’argument de l’impossibilité de concevoir une possibilité ou impossibilité autre que logique quant aux couleur est le Tractatus 6.375 et 6.3751. Dans ces passages, il y a un pro2
RL 3, § 7, à propos des objets dépendants.
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ha ancorato il suo a priori all’intuizione delle forme di necessità d’essenza. È questa la ragione per la quale Kant, dice Husserl, (Conferenza su Kant, 1924, note del 1903-1908) ha ritenuto troppo velocemente che soltanto il contrario di un giudizio analitico è assurdo. Per Husserl, il contrario di un giudizio sintetico a priori come « rosso e verde non possono essere nello stesso luogo » è ugualmente assurdo (è in realtà “ falso ” piuttosto che insensato, cf. J.-L. Gardies, cit. più sotto) ed è ciò che mostrano non le pure categorie dell’intelletto secondo Kant, che giustamente non hanno niente a che fare con l’esperienza, ma le “ leggi d’essenze pure ” che governano gli atti del loro afferramento (o “ vissuti intenzionali ”) “ attraverso ” i significati delle essenze concettuali e della loro generalità. Per esempio « un cerchio rosso verde », dice Husserl, è impossibile. Ciò che si presenta logicamente come una contraddizione analitica, corrisponde in realtà a un certo uso di : « questa piccola parola potere » che « appare in relazione con il termine pregnante pensare », e « ciò che si intende con questo, non è una necessità soggettiva e cioè una incapacità soggetiva di non-potersi-rappresentare-altrimenti, ma una necessità ideale di non-poter-essere-altrimenti ». La “ conversione ontologica ” (espressione di Husserl stesso) della frase indica bene il passaggio alla necessità di un dato all’interno della coscienza fondata qui sull’essenza del contenuto intuitivo; donde un “ conflitto che suppone un’unità ” (come il “ non essere ”).2 Questa osservazione si lascia tuttavia paragonare all’idea wittgensteiniana di « vedere con un solo sguardo una relazione di contraddizione tra due termini », già in gioco nel Tractatus.
iii. la questione del “ conflitto nell’intuizione ” (husserl) è comune a wittgenstein e husserl ? 1. Ritorno al Tractatus : la relazione semantica di incompatibilità Il contesto nel quale appare per la prima volta l’argomento dell’impossibilità di concepire una possibilità o impossibilità 2
RL 3, § 7, a proposito degli oggetti dipendenti.
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blème : (1) « la tache en ce lieu est rouge » et (6) « la tache en ce même lieu est verte » constituent deux énoncés élémentaires. C’est en raison de la structure logique des couleurs dans le langage élémentaire qu’elles forment, que les deux énoncés pris ensemble forment une incompatibilité. On rejettera donc comme logiquement contradictoire le produit logique de ces énoncés. C’est ce que confirme la proposition 6.3751 : la logique condamne l’intuition d’une relation visuelle simultanée de rouge et vert au même endroit. Par “ logique ” Wittgenstein entend aussi la “ structure logique de la couleur ” (ibid.). Il y aurait donc une sorte de lutte à mort ici entre ce que voudrait voir l’intuition et ce que la logique barre à la vision, un conflit par conséquent entre intuition et logique. Pourtant, le même Wittgenstein reconnaîtra que, entre les énoncés (1) et (6), s’intercalent la série suivante: si (2) « la tache dans le champ visuel à cet endroit est rouge », alors (3) « elle n’est pas bleue » (4) « la tache a une couleur », (5) « rouge est une couleur ». Ces trois énoncés s’impliquent dans cet ordre et cela en conformité parfaite avec l’intuition. C’est l’argument de J. Katz (« The problem in twentieth Century philosophy », « The Journal of Philos. », Nov. 1998, nº 11). Les énoncés 2-5 sont logiquement parfaitement en accord avec l’intuition, tant qu’on les prend en régime d’indépendance, mais 1 et 6 à savoir : (1) « rouge et vert en même temps au même endroit » et (6) « la tache est verte » nous disent qu’ils n’ont pas les propriétés logiques de l’intuition. Quand Wittgenstein écrit donc que « le produit logique de deux énoncés élémentaires ne peut être ni une tautologie ni une contradiction » (parenthèse finale de 6.3751) il exprime étrangement un fait en conflit avec la thèse d’incompatibilité. L’argument de Katz est qu’il y a une différence de registre entre le fait logique de la contradiction, laquelle se montre dans le symbolisme (ainsi (1) se montre), et le fait proprement sémantique que la contradiction comme relation est « contenue dans le sens des deux énoncés ». Le fait d’être “ contenu dans ” caractérise la relation interne c’est-à-dire aussi, dans ce contexte de la philosophie de Wittgenstein I, la structure élémentaire. Comment celui-ci se laisse-t-il au juste appréhender ? Par un regard, un seul regard. Une seule
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diversa da quella logica per i colori, è quello di Tractatus 6. 375 e 6. 3751. In questi passaggi c’è un problema : (1) « la macchia in questo luogo è rossa » e (6) « la macchia in questo stesso luogo è verde » costituiscono due enunciati elementari. È in ragione della struttura dei colori nel linguaggio elementare che essi formano, che i due enunciati, presi insieme, danno luogo ad una incompatibilità. Si respingerà dunque come logicamente contradditorio il prodotto logico di questi enunciati. Ciò è confermato dalla proposizione 6. 3751 : la logica condanna l’intuizione di una relazione visiva simultanea del rosso e del verde nello stesso luogo. Per “ logica ” Wittgenstein intende anche la “ struttura logica del colore ” (ibid.). Vi sarà dunque qui una lotta all’ultimo sangue tra ciò che l’intuizione vorrebbe vedere e ciò che la logica impedisce alla visione ; un conflitto, di conseguenza, tra intuizione e logica. Tuttavia, lo stesso Wittgenstein riconoscerà che tra gli enunciati (1) e (6) si inserisce la serie seguente : se (2) « la macchia nel campo visivo in questo luogo è rossa », allora (3) « non è blu » (4) « la macchia ha un colore », (5) « rosso è un colore ». Questi tre enunciati si implicano in quest’ordine e ciò in perfetta conformità con l’intuizione. È l’argomento di J. Katz (« The problem in twentieth century philosophy », « The Journal of Philosophy », Novembre 1998, n° 11). Gli enunciati 2-5 sono logicamente in perfetto accordo con l’intuizione, se li si prende in un ordine di indipendenza, ma 1 e 6, ossia (1) « rosso e verde nello stesso tempo nello stesso luogo » e (6) « la macchia è verde » ci dicono che non hanno le proprietà logiche dell’intuizione. Quando Wittgenstein dunque scrive che « il prodotto logico dei due enunciati elementari non può essere né una tautologia né una contraddizione » (parentesi finale di 6. 3751) egli esprime stranamente un fatto in conflitto con la tesi dell’incompatibilità. L’argomento di Katz è che c’è una differenza di registro tra il fatto logico della contraddizione, la quale si mostra nel simbolismo (così (1) si mostra) e il fatto propriamente semantico che la contraddizione in quanto relazione è « contenuta nel senso dei due enunciati ». Il fatto di essere “ contenuto in ” caratterizza la relazione interna, vale a dire, in questo contesto della filosofia del primo Wittgenstein, la struttura elementare. Questo come si lascia com-
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chose se montre donc qui est la contradiction entre deux énoncés élémentaires. Mais comment deux propositions élémentaires qui sont indépendantes peuvent-elles se contredire si par ailleurs, comme c’est la thèse du Tractatus, elles sont de structure logiquement indépendante ? Se présenteraient ici deux points permettant d’éclairer le problème ; le premier est une hypothèse défendue par M. Black. Même si on l’adopte, cela n’empêche pas que se pose la deuxième question relativement au Tractatus, et sans préjuger de la suite : Wittgenstein revient sur le caractère véritablement élémentaire des énoncés en question. C’est ce que laisse supposer la clause de la parenthèse finale mentionnée ci-dessus 6. 3751 qui finalement conduit à douter qu’on ait affaire à une véritable incompatibilité. Max Black dans un commentaire cité par Katz émet cette hypothèse.3 Aux yeux de Black, le doute qui se glisse ici aura des suites. Le cas de l’incompatibilité des couleurs met certainement en difficulté l’opposition du se montrer et voir (dans un tableau) ou du moins la complique. Je ne dis pas entre montrer et dire, qui est une autre question. Qu’est-ce qu’une relation qui se montre (une relation interne d’énoncé élémentaire comme la contradiction) et que l’on ne saurait voir ? Cette impasse conduira Wittgenstein dans son article de 1929 à remplacer “ contredire ” par “ exclure ”, note Black. Rouge et vert s’excluent mais ne se contredisent pas. Cela donne lieu à des tableaux de vérité différents. Les situations où p et q reçoivent des valeurs contraires sont F contrairement à l’incompatibilité mais surtout la situation où il est F que V est incompatible avec V (la conjonction de V avec V est V) – qui est celle qui correspond à la ligne du produit logique d’énoncés incompatibles – est éliminée du tableau comme non-sens.4 Ce qui ne peut se contredire (RPT & BPT, pour Rouge en un point P et en un temps T et Bleu en un point P et en un temps T) peut s’exclure, dit Wittgenstein p 168 de SRLF. En réalité la ligne supérieure (il est F que V est incompatible avec V) n’est pas “ visible ” car elle donne une 3 P. 367 de son Companion to Wittgenstein’s Tractatus, Cornell U.P., 1964, p. 368. 4 Wittgenstein, Some Remarks on Logical Form, p. 170, publ. in Copi and Beard.
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prendere correttamente ? Con uno sguardo, un solo sguardo. Una sola cosa si mostra, dunque, ed è la contraddizione tra due enunciati elementari. Ma in che modo due proposizioni elementari che sono indipendenti possono contraddirsi se, d’altra parte, com’è la tesi del Tractatus, hanno una struttura logicamente indipendente ? Possono presentarsi qui due punti che permettono di chiarire il problema : il primo è un’ipotesi difesa da Max Black. Anche se la si adotta, ciò non impedisce che si ponga la seconda questione relativa al Tractatus, e senza pregiudicare il seguito : Wittgenstein ritorna sul carattere propriamente elementare degli enunciati in questione. È ciò che lascia supporre la clausola della parentesi finale sopra citata 6. 3751 che porta alla fine a dubitare che si tratti di una vera incompatibilità. Max Black,in un commento citato da Katz, enuncia quest’ipotesi.3 Agli occhi di Black il dubbio che qui si insinua avrà delle conseguenze. Il caso dell’incompatibilità dei colori mette certamente in difficoltà l’opposizione tra mostrarsi e vedere (in un quadro) o per lo meno la complica. Non dico tra mostrare e dire, che è un altro problema. Che cos’è una relazione che si mostra (una relazione interna di un enunciato elementare come la contraddizione) e che non si saprebbe vedere ? Questa impasse condurrà Wittgenstein, nel suo articolo del 1929, a rimpiazzare “ contraddire ” con “ escludere ”, nota Black. Rosso e verde si escludono ma non si contraddicono. Ciò dà luogo a tavole di verità differenti. Le situazioni dove p e q ricevono dei valori contrari sono F contrariamente all’incompatibilità, ma soprattutto la situazione dove è F che V è incompatibile con V (la congiunzione di V con V è V) – che è quella che corrisponde alla riga del prodotto logico di enunciati incompatibili – è eliminata dalla tavola come non-senso.4 Ciò che non può contraddirsi (RPT & BPT, per Rosso in un punto P e in un tempo T e Blu in un punto P e in un tempo T) può escludersi, dice Wittgenstein a p. 168 di SRLF. In realtà la riga superiore (è F che V è incompatibile con V) non è “ visi3 p. 367 del suo Companion to Wittgenstein’s Tractatus, Cornell UP, 1964, p. 368. 4 Wittgenstein, Some Remarks on Logical Form, p. 170, pubblicato in Copi and Beard.
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proposition avec une multiplicité logique plus grande que ses possibilités actuelles. L’exclusion réside précisément en cette situation d’incompatibilité qu’on ne peut voir. Il reste, dit Wittgenstein que notre notation ici échoue en quelque manière à la fois à faire que quelque chose se voie en cette ligne tout en n’empêchant pas des constructions symboliques aussi insensées (que fournit Wittgenstein envers et contre tout). L’espace visuel ne fournit pas la visibilité qui convient à des configurations de forme logique telle que l’incompatibilité exclusive. C’est ce cas qui conduit donc également à réviser progressivement sa thèse de l’indépendance des propositions élémentaires en suggérant qu’on n’applique pas à la réalité une proposition isolée comme règle graduée à la réalité, mais un système entier de propositions. Cf. à ce sujet les passages 34, 5 et 6 des Remarques Philosophiques cités par M. Black où le système de propositions se présente comme un jeu de langage et où, corrélativement, le concept de proposition élémentaire perd de sa pertinence. 2. On peut maintenir que Wittgenstein fait appel, dans le Tractatus, à une forme de compréhension ou de saisie de relation, notamment celle de l’incompatibilité. Cette hypothèse en quelque sorte herméneutique n’est pas contradictoire avec le point 1. Cette compréhension peut être revendiquée alors même que l’incompatibilité (la situation évoquée cidessus) s’avère “ inprésentable ” et trop “ queer ” pour qu’on lui fasse correspondre une troisième possibilité de caractère husserlien. L’acceptation d’une forme de “ saisie ” ici implique en tous cas que Wittgenstein ne condamne pas aussi totalement qu’on le croyait l’appréhension d’une relation de forme entre particuliers. Le point 1 a sa raison d’être dans l’évolution de la question de l’incompatibilité. Mais l’approche que suggère le point 2 conduit à poser la question suivante dans le cadre du Tractatus : Indépendance logique mais un seul regard sur leur relation (une forme a priori d’Einsicht de la possibilité d’une forme logique en l’occurrence de la contradiction cf. 6.33, 6.34). Ce que je voudrais dire ici est que la thèse de la saisie de la relation d’incompatibilité doit faire sens dans le Tractatus
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bile ”, poiché essa dà una proposizione con una molteplicità logica maggiore delle sue attuali possibilità. L’esclusione risiede precisamente in questa situazione di incompatibilità che non si può vedere. Resta il fatto, dice Wittgenstein, che la nostra notazione si incaglia, in qualche modo, facendo qui vedere qualcosa su questa riga, senza tuttavia contemporaneamente impedire costruzioni simboliche anche insensate (che Wittgenstein fornisce verso e contro tutto). Lo spazio visivo non fornisce la visibilità propria a delle configurazioni di forma logica quale l’incompatibilità esclusiva. È questo caso dunque che conduce ugualmente a rivedere progressivamente la tesi dell’indipendenza delle proposizioni elementari, suggerendo che alla realtà non si applica una proposizione isolata come regola graduata alla realtà, ma un sistema intero di proposizioni. Cfr. a questo proposito i passaggi 34, 5 e 6 delle Osservazioni Filosofiche citate da M. Black, dove il sistema di proposizioni si presenta come un gioco linguistico e dove, correlativamente, il concetto di proposizione elementare perde la sua pertinenza. 2. Si può continuare a pensare che Wittgenstein faccia appello, nel Tractatus, a una forma di comprensione o di coglimento della relazione, soprattutto quella di incompatibilità. Quest’ipotesi in un certo senso ermeneutica non è in contraddizione con il punto 1. Questa comprensione può essere rivendicata persino quando ci si renda conto che l’incompatibilità (la situazione sopra evocata) è “ impresentabile ” e troppo “ queer ” perché le si faccia corrispondere una terza possibilità di carattere husserliano. L’accettazione di una forma di “ presa ” implica qui in ogni caso che Wittgenstein non condanni, così totalmente quanto si credeva, l’apprensione di una relazione di forma tra particolari. Il punto 1 ha la sua ragione d’essere nell’evoluzione del problema dell’incompatibilità. Ma l’approccio che suggerisce il punto 2 conduce a porre la questione seguente nel quadro del Tractatus: indipendenza logica, ma uno sguardo unico sulla loro relazione (una forma a priori d’ Einsicht della possibilità di una forma logica nell’occorrenza della contraddizione cfr. 6.33, 6.34). Ciò che vorrei dire qui è che la tesi del coglimento della relazione di incompatibilità deve avere un senso nel Tracta-
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même si Wittgenstein éprouve le besoin de la remanier. L’hypothèse 1 n’empêche nullement que se pose la question du point 2. Elle ne la fait pas taire une fois pour toutes. Et c’est cette difficulté que je tiens à épingler, moins parcequ’elle serait appelée à disparaître, que parcequ’elle tend au contraire à persister ou à se poser quand même, en dépit d’un remaniement de fond de la doctrine (renoncement à l’élémentarité certes, mais à l’indépendance ? C’est une question). Si l’on renonce totalement à l’élémentarité au vu des remaniements postérieurs au Tractatus, on ne peut plus poser le problème important du Tractatus qui est et demeure celui de la saisie de la possibilité d’une forme logique, en l’occurrence ici d’une relation d’incompatibilité, qui a également retenu l’attention de Brian McGuinness (quoique en d’autres termes que ceux de Jerrold Katz). 2. Le point de Brian McGuinness sur le besoin de quelque chose comme une “ intuition ” Cf. son “ Introduction to Pictures and Forms in Wittgenstein’s. Tractatus Logico-Philosoficus ” 1956 (publ. en 66 dans l’ouvrage co-ed. par Copi § Beard) et sa récente introduction rétrospective distribuée en vue de ce colloque sui nopus réunit à Sienne en son honneur. A ce point, j’aimerais évoquer la position de Brian concernant le statut des “ objets ” dans le Tractatus, position très marquée par la série des propositions 6. 342 - 6. 3611 à propos de la mécanique de Hertz où Wittgenstein accentue le caractère hypothétique ou imaginaire des points-masse non matériels mais irgend welchen, et le caractère “ réseau ” das Netz que leurs configurations forment : « Ce qui est vrai l’est de ce réseau, non de ce qui est décrit par le réseau », écrit McGuinness.5 On sait que le problème de l’incompatibilité des couleurs est au cœur de la réflexion sur la transition du Tractatus à la suite. Il s’y joue en effet la légitimité de la thèse de l’élémentarité, à 5 Article sur Wittgenstein et Hertz, in « Revue Internationale de Philosophie », numéro sur Wittgenstein, Acta du Colloque d’Aix en Provence organisé par Gilles Granger, 1969, p. 162.
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tus anche se Wittgenstein prova il bisogno di rimaneggiarla. L’ipotesi 1 non impedisce affatto che si ponga il problema al punto 2. Essa non la fa tacere una volta per tutte. Ed è questa difficoltà quella che voglio appuntare, non tanto perché sarà destinata a sparire, ma piuttosto perché, al contrario, essa tende a persistere o a porsi comunque, a dispetto di un rimaneggiamento di fondo della dorttrina (rinuncia all’elementarità, certo, ma anche all’indipendenza ? È un problema). Se si rinuncia totalmente all’elementarità, davanti ai rimaneggiamenti successivi al Tractatus, non si può più porre l’importante problema del Tractatus, che è e rimane quello della presa della possibilità di una forma logica, nel darsi, qui, di una relazione di incompatibilità che ha ugualmente occupato l’attenzione di Brian McGuinness (anche se in altri termini rispetto a quelli di Jerrold Katz). 2. Il punto di Brian McGuinness sul bisogno di qualcosa come un’ “ intuizione ” Si veda la sua introduzione a Pictures and Forms in Wittgenstein’s (1956, pubblicata nel ’66 nell’opera coedita da Copi e Beard) e la sua recente introduzione retrospettiva distribuita in vista del colloquio che ci riunisce a Siena in suo onore. A questo punto, vorrei richiamare la posizione di Brian sullo statuto degli “ oggetti ” nel Tractatus, posizione molto segnata dalla serie di proposizioni 6. 342-6.3611 sulla meccanica di Hertz, in cui Wittgenstein accentua il carattere ipotetico o immaginario dei punti-massa, non materiali ma irgend welchen, e il carattere di “ rete ”, das Netz, che le loro configurazioni formano : « Ciò che è vero, scrive McGuinness, lo è di questa rete, non di ciò che è descritto dalla rete ».5 Si sa che il problema dell’incompatibilità dei colori è al centro della riflessione sulla transizione dal Tractatus al seguito. Vi si gioca, in effetti, la legittimità della tesi della elementarità, attraverso la questione di sapere cosa designano ugualmente i nomi dei colori, cosa dobbiamo pensare di tali 5 Articolo su Wittgenstein e Hertz in « Revue internationale de Philosophie », numero su Wittgenstein, Atti del colloquio di Aix-en-Provence organizzato da Gilles Granger, 1969, p. 162.
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travers la question de savoir ce que désignent également les noms de couleur, ce que l’on doit penser de tels “ objets ”. Notons que c’est en réalité l’article de Edwin B. Allaire publié dans l’ouvrage édité par Copi and Beard (“ The Tractatus, nominalistic or realistic ? ”) qui a suggéré à Katz l’idée d’une différence entre la significabilité d’un complexe de signes et le bien formé syntactique de leur combinaison. L’idée de Brian est, si je ne me trompe, que les objets ont un statut quasi-réel ou non-réel d’éléments en lesquels les propositions sont résolues théoriquement seulement. Ils ne sont pas des entités pré-linguistiques (ce qu’a cru et dénoncé Otto Neurath qui comme toujours “ refusait de comprendre ”), et c’est un héritage de Frege d’avoir fait des objets “ la mesure de la complexité des propositions ”. Le langage fonctionne comme s’il y avait de tels objets. Nous sommes même amenés à renverser la formulation de la fonction de vérité et à dire, avec Brian que les “ objets sont fonction des propositions qu’ils composent ” car ce sont elles, et non les objets, qui sont les véritables unités de sens (“ introd. to Picture and Form ”). La thèse qui d’un coup nous renvoie aux symplokai du Sophiste de Platon, est très forte. En tant que constituant de telles “ présuppositions ” les objets sont donc théoriquement exprimables, écrit encore Brian McGuinness, non seulement cela mais ils “ existent ” et même “ co-subsistent ” sur le mode non-réel, “ seulement en théorie ”, à titre de ce qu’il faut supposer pour que le langage fonctionne de manière sensée quand nous parlons du monde. Pour la même raison, la saisie de la forme logique de la contradiction – ou mieux d’exclusion – a le caractère d’une “ connaissance a priori qu’on ne doit pas chercher à expliquer ” écrit-il. Mais, je demande ici à Brian de quelle nature est cette connaissance a priori que nous sommes amenés à concevoir sans pouvoir l’expliquer ? L’idée serait si j’ai bien compris la fin de l’article de 1956 que c’est la notation qui montre ici ce que nous sommes incapables de justifier dont nous avons cependant une saisie a priori. Nous aurions une saisie a priori, mais quasi intuitive 6 « Its true basis of the rejection of ethical propositions is the inexpressible metaphysics constituted by our intuition (if I may use the word) of what it is to be a fact » (fin de l’art. de Brian).
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“ oggetti ”. Rileviamo che in realtà è l’articolo di Edwin B. Allaire, pubblicato nell’opera curata da Copi e Beard (“ The Tractatus, nominalistic or realistic? ”), che ha suggerito a Katz l’idea di una differenza tra la significatività di un complesso di segni e la buona forma della loro combinazione sintattica. L’idea di Brian, se non erro, è che gli oggetti hanno uno statuto quasi-reale o non-reale di elementi nei quali le proposizioni sono risolte soltanto teoricamente. Essi non sono delle entità pre-linguistiche (come ha creduto e denunciato Otto Neurath che come sempre “ rifiutava di comprendere ”), ed è un’eredità di Frege l’aver fatto degli oggetti “ la misura della complessità delle proposizioni ”. Il linguaggio funziona come se ci fossero tali oggetti. Siamo persino condotti a rovesciare la formulazione della funzione di verità e a dire, con Brian, che gli “ oggetti sono funzione delle proposizioni che compongono ”, poiché sono queste, e non gli oggetti, ad essere le vere unità di senso (“ Introd. To Pictures and Forms in Wittgenstein’s. Tractatus Logico-Philosoficus ”). La tesi, che d’un colpo solo ci rinvia ai symplokai del Sofista di Platone, è molto forte. In quanto costituenti tali “ presupposti ”, gli oggetti non soltanto, dunque, sono teoricamente esprimibili, scrive ancora Brian McGuinness, ma “ esistono ” e persino “ co-sussistono ” nel modo non-reale, “ solamente in teoria ”, come ciò che si deve supporre perché il linguaggio funzioni in modo sensato quando parliamo del mondo. Per la stessa ragione, la presa della forma logica della contraddizione – o, meglio, dell’esclusione – ha il carattere di una “ conoscenza a priori che non si deve cercare di spiegare ”, egli scrive. Ma, chiedo qui a Brian, di quale natura è questa conoscenza a priori che noi siamo portati a concepire senza poterla spiegare ? L’idea sarebbe, se ho ben compreso la fine dell’articolo del 1956, che è la notazione a mostrare qui ciò che noi siamo incapaci di giustificare, ma che tuttavia afferriamo a priori. Avremmo una presa a priori, e quasi intuitiva (espressione qui “ azzardata ” da Brian)6 dell’incompatibilità che la 6 « Its true basis of the rejection of ethical propositions is the inexpressible metaphysics constitudes by our intuition (if I may use the word) of what it is to be a fact » (fine dell’articolo di Brian).
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(expression ici “ osée ” par Brian)6 de l’incompatibilité que la notation pourrait produire par des constructions insensées mais que l’esprit essaie à toute force et contre toute résistance de concevoir. Cependant la contrainte qui s’impose ici à la conception ne vient pas de l’esprit mais du monde. Je souhaite dans cet exposé enfoncer ce clou d’une intuition ou quasi intuition d’une relation impossible à saisir comme “ une ”, qui défie toute représentation de quelque chose d’unifié dans le sens de la proposition “ osée ” par Brian. Nous nous trouverions ici devant un dilemme wittgensteinien entre vision d’un seul regard d’une relation de contradiction ( regard qui, en réalité, ne disparaît pas si l’on parle plutôt d’exclusion qui est une relation qu’il faut bien également “ comprendre ” – c’est à dire saisir comme une quoique entre deux termes – ) et le fait logique de cette structure. On peut bien invoquer la nécessité qu’a ressentie ultérieurement Wittgenstein d’abandonner une vision strictement calculatoire du symbolisme au profit de sa grammaire philosophique. Mais cette nécessité n’empêche pas que le fait d’avoir à comprendre la relation sémantique de contradiction l’ait conduit à prendre du recul par rapport à la pure syntaxe, dans le Tractatus même si c’est sur un mode aporétique. Le fait d’être pourvu de sens serait une chose, celui d’être une expression syntactiquement bien formée une autre. Ce n’est que du point de vue de la seconde que la négation d’un énoncé synthétique a priori serait dépourvue de sens. Mais du point de vue de la première c’est à dire du point de vue d’une saisie d’ordre sémantique requérant par conséquent quelque chose comme une “ intuition dans la langue ”, Wittgenstein ne serait pas loin de lui accorder quand même un sens. Wittgenstein serait alors plus près de Husserl. Pourtant, comme on l’a vu, cette proximité semble bel et bien démentie par l’entretien “Anti-Husserl ”.
iv. de quelle nature peut être une saisie d’une relation d’incompatibilité comme un tout unique alors qu’elle passe entre des termes qui s’excluent ? Dans le Théétète de Platon, la saisie des relations se pose à un niveau catégorial. Il s’ensuit une première liste de “ notions
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notazione potrebbe produrre con construzioni insensate, ma che la mente cerca di concepire con tutta la sua forza e contro ogni resistenza. Tuttavia, lo sforzo che qui si impone alla capacità di concepire non proviene dalla mente ma dal mondo. Mi auguro, nel corso di questa esposizione, di fissare questo punto di una intuizione o quasi-intuizione di una relazione impossibile da cogliere come “ una ”, che sfida ogni rappresentazione di qualche cosa di unificato, nel senso della proposta “ audace ” di Brian. Ci troveremmo qui davanti a un dilemma wittgensteiniano tra visione ad un solo sguardo di una relazione di contraddizione ( sguardo che, in realtà, non scompare se si parla piuttosto di esclusione che è una relazione la quale è altrettanto necessario “ comprendere ” – vale a dire afferrare come una anche se tra due termini – ) e il fatto logico di questa struttura. Si può certo invocare la necessità sentita in seguito da Wittgenstein di abbandonare una visione strettamente calcolatoria del simbolismo a favore della sua grammatica filosofica. Ma questa necessità non impedisce che il fatto di dover comprendere la relazione semantica di contraddizione, l’abbia condotto a indietreggiare di fronte alla pura sintassi, nel Tractatus, anche se in modo aporetico. Il fatto di essere provvisto di senso sarebbe una cosa, quello di essere un’espressione sintatticamente ben formata, un’altra. È soltanto dal punto di vista della seconda che la negazione di un enunciato sintetico a priori sarebbe sprovvista di senso. Ma dal punto di vista della prima, vale a dire dal punto di vista di una presa d’ordine semantico, che richiede di conseguenza qualcosa come “ un’intuizione nella lingua ”, Wittgenstein non sarebbe lontano dall’accordarle comunque un senso. Wittgenstein sarebbe allora più vicino a Husserl. Tuttavia, come abbiamo visto, questa prossimità sembra decisamente smentita dal colloquio “Anti-Husserl ”.
iv. di quale natura può essere un coglimento di una relazione di incompatibilità come un tutto unico quando essa intercorre tra termini che si escludono ? Nel Teeteto di Platone, il coglimento delle relazioni si pone a un livello categoriale. Ne segue una prima lista di “ no-
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communes ” dont on sait que Platon en tirera ses “ grands genres ” du Sophiste. Ces notions communes ne s’appréhendent qu’avec l’âme alors que les termes entre lesquels les relations passent sont saisis par le canal des sens. Myles Burnyeat a consacré une belle étude pour examiner de près et dans le grec la différence entre un canal et l’autre. Pour Platon, il ne fait pas de doute que ces relations sont saisies intellectuellement. Bien sûr la relation de non-identité en fait partie, mais à condition de ne pas la prendre au sens absolu. Wittgenstein pour qui il n’y a pas deux canaux mais un seul (voir a un sens ordinaire, et il n’y a pas un “ voir de l’âme ”) tient cependant à nous faire sentir une situation extrême où il y aurait à saisir une situation extrême d’exclusion mutuelle qui serait encore une relation quoique peutêtre imprésentable à l’œil. La “ relation ” aurait donc encore un sens. Evidemment, cette idée rend difficilement explicable la réfutation de Husserl dans “Anti-Husserl ”. Husserl distingue l’énoncé “ un carré rond ” de l’énoncé “ vertu verte ”, une différence que n’a pas vue Bolzano (Wissenschaftslehre § 67). Le premier est faux parce qu’il pèche contre la rationalité géométrique, mais pas insensé, tandis que seul le second est un non-sens. Il pèche contre la règle des types et n’est donc ni vrai ni faux (cf. J.-L. Gardies in Esquisse d’une grammaire pure, orig. Felix Meiner, 1963, Vrin, version fançaise, 1975, p. 47). Doit-on émettre l’hypothèse que Wittgenstein n’est pas très loin de penser la même chose ? 1. Mon hypothèse : l’existence chez Husserl et chez Wittgenstein de deux “ a priori ” de nature différente Mon hypothèse est que la reconnaissance d’une relation de contradiction ou mieux , – comme dans Remarques sur la forme logique (1929) – d’exclusion, ne rejoint pas l’approche phénoménologique de la saisie d’une loi d’essence régissant la relation entre ces énoncés opposés. La significabilité d’une relation se comprend en référence à une règle grammaticale concernant l’usage des signes pour un langage donné. Cette conception qui se fait jour au début des années 30 présuppose l’abandon de la thèse d’un langage-calcul en faveur d’une conception des signes en tant qu’ils travaillent “ con-
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zioni comuni ” dalle quali sappiamo che Platone farà derivare i “ grandi generi ” del Sofista. Queste nozioni comuni si apprendono soltanto con l’anima, mentre i termini tra i quali intercorrono le relazioni sono colti attraverso il canale dei sensi. Myles Burnyeat ha dedicato un bello studio a un esame ravvicinato nel greco della differenza tra un canale e l’altro. Per Platone, non v’è dubbio che queste relazioni siano colte intellettualmente. Certamente la relazione di nonidentità ne fa parte, ma a condizione di non prenderla in senso assoluto. Wittgenstein, per il quale non vi sono due canali ma uno solo (vedere ha un senso ordinario, e non c’è un “ vedere dell’anima ”) ci tiene tuttavia a farci sentire una situazione estrema in cui si dovrebbe cogliere una situazione estrema di esclusione reciproca che sarà ancora una relazione, benché forse impresentabile all’occhio. La “ relazione ” avrebbe dunque ancora un senso. Evidentemente, questa idea rende difficilmente spiegabile la confutazione di Husserl nell’ “Anti-Husserl ”. Husserl distingue l’enunciato “ un quadrato rotondo ” dall’enunciato “ virtù verde ”, una differenza che Bolzano (Wissenschaftslehre, § 67) non ha visto. Il primo è falso perché pecca contro la razionalità geometrica, ma non è insensato, mentre solo il secondo è un non-senso. Esso pecca contro la regola dei tipi e dunque non è né vero né falso (Cfr. J.-L. Gardies in Esquisse d’une grammaire pure, orig. Felix Meiner, 1963, Vrin, versione francese 1975, p. 47). Dobbiamo formulare l’ipotesi che Wittgenstein non è molto lontano dal ritenere la stessa cosa ? 1. La mia ipotesi : l’esistenza in Husserl e in Wittgenstein di due “ a priori ” di natura diversa La mia ipotesi è che il riconoscimento di una relazione di contraddizione o, meglio, – come nelle Osservazioni sulla forma logica (1929) – di esclusione, non giunge sino all’approccio fenomenologico del coglimento di una legge d’essenza che regge la relazione tra questi enunciati opposti. La significatività di una relazione si comprende in riferimento a una regola grammaticale sull’uso dei segni per un linguaggio dato. Questa concezione, che viene alla luce all’inizio degli anni 30, presuppone l’abbandono della tesi di un lin-
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tre la syntaxe ” écrit Wittgenstein dans un autre Entretien chez Schlick de 1929 (à propos de Russell et pour se distinguer de lui). Il n’est donc pas juste d’opposer Husserl et Wittgenstein comme une sémantique essentielle de la relation à une syntaxe, ce que pourrait laisser croire une lecture trop rapide de cet entretien. Il y a bel et bien un registre sémantique de saisie d’un a priori chez Wittgenstein et c’est ce que signale la question de la saisie de la relation d’incompatibilité. Le différend rapporté par Schlick entre Husserl et Wittgenstein sur l’existence d’une 3e possibilité est donc plus complexe. Il porte sur l’irréductibilité de la grammaticalité à des traits touchant les relations entre essences conceptuelles (cf. à propos de Husserl plus haut). On touche maintenant à ce qui fait le titre de cet exposé : au “ dédoublement ” de l’ a priori. D’un côté l’ a priori, propre à la dérivabilité. Mais il y en a un autre qui est maintenu dans la thèse sémantique d’une logique du sens, quoique cette thèse batte en brèche les philosophies de l’intuition. On peut, comme Jocelyn Benoist (in L’ a priori conceptuel…, op. cit.) voir dans cette seconde acception un sens de “ structure ” liée à notre usage des concepts. Cependant, cet argument est schlickien, beaucoup plus que strictement wittgensteinien. Il convient donc de distinguer l’approche wittgensteinienne de celle de Schlick qui nourrit en réalité une idée d’un a priori conceptuel que n’embrasse pas Wittgenstein. Wittgenstein a une (troisième ?) conception de l’ a priori, ni husserlienne ni schlickienne. Je ne le ferai pas ici car le propos n’est pas de serrer de près l’opposition entre Wittgenstein et Schlick sur ce point. Il suffit de reconnaître que l’argument sémantique est en tous cas censé tenir tout entier dans l’usage des concepts, et dans cet usage seul indépendamment de la référence à un “ contenu ” non seulement intuitif (contre Husserl) mais conceptuel (Schlick). Mon hypothèse est au contraire à l’idée que Wittgenstein résoudrait le dilemme en restaurant un a priori saisissable par un acte hybride au carrefour de l’intuition et de la logique qui se trouveraient ainsi rapprochées. Le principe rappelé plus haut, certes encore obscur et difficile à comprendre, d’une forme découlant d’une forme, nous dissuade de rapporter un découlement formel de sens à un découle-
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guaggio-calcolo a favore di una concezione dei segni intesi come se lavorassero “ contro la sintassi ”, scrive Wittgenstein in un altro Colloquio a casa di Schlick nel 1929 (a proposito di Russell e per distinguersi da lui). Non è dunque corretto opporre Husserl e Wittgenstein nei termini di un’opposizione di una semantica essenziale della relazione a una sintassi, come potrebbe lasciar credere una lettura troppo rapida di questo colloquio. Vi è proprio un registro semantico di coglimento di un a priori in Wittgenstein, ed è questo che la questione del coglimento della relazione di incompatibilità segnala. La controversia, riportata da Schlick, tra Husserl e Wittgenstein sull’esistenza di una terza possibilità, è dunque più complessa. Essa verte sull’irriducibilità della grammaticalità a qualcosa che riguarda le relazioni tra essenze concettuali (cfr. sopra a proposito di Husserl). Si giunge ora a ciò che dà il titolo a questa parte della trattazione: lo “ sdoppiamento ” dell’ a priori. Da un lato vi è l’ a priori proprio della derivabilità. Ma ve ne è un altro che è mantenuto nella tesi semantica di una logica del senso, nonostante questa tesi batta in breccia le filosofie dell’intuizione. In questa seconda accezione possiamo vedere, come fa Jocelyn Benoist (in L’ a priori conceptuel…, op. cit.), un senso di “ struttura ” legata al nostro uso dei concetti. Tuttavia, tale argomento è molto più schlickiano che propriamente wittgensteiniano. Conviene dunque distinguere l’approccio wittgensteiniano da quello di Schlick che alimenta in realtà un’idea di un a priori concettuale che Wittgenstein non accoglie. Wittgenstein ha una (terza ?) concezione dell’ a priori, né husserliana né schlickiana. Non farò qui tale distinzione, perché il mio scopo non è di addentrarmi nell’opposizione tra Wittgenstein e Schlick su questo punto. È sufficiente riconoscere che l’argomento semantico è in ogni caso considerato del tutto attinente nell’uso dei concetti e, solo in quest’uso, indipendentemente dal riferimento a un “ contenuto ”, non soltanto intuitivo (contro Husserl) ma anche concettuale (Schlick). La mia ipotesi si oppone all’idea che Wittgenstein risolverebbe il dilemma restaurando un a priori afferrabile da un atto ibrido, all’incrocio tra l’intuizione e la logica, le quali si troverebbero così accostate. Il principio richiamato sopra,
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ment de règle à partir de contenu comme chez Husserl (et Schlick). Une chose est sûre, c’est que la relation d’incompatibilité, donc un certain emploi de la négation, est sans doute 1 – ce qui motive un besoin de dépassement de l’élémentarité et 2 – en même temps une source de perplexité très fondamentale. La simple réfutation analytique de l’ a priori phénoménal demeure donc encore trop faible au regard de la saisie qu’exige cette relation qui n’est pas un contenu représentable et même est un défi à la représentation d’un tout. Le problème que pose Wittgenstein est très inconfortable. Opposé à l’idée d’un contenu comme tel représentable 7 unitairement, Wittgenstein fait cependant appel à une saisie unitaire d’une relation impossible. Il faut donc donner pertinence à une saisie de relation dont la représentation quoiqu’unitaire ne se réduit jamais à un contenu représentable. Fonder une unité sans contenu est fort difficile. Que ce soit un défi à l’intuition, passe. Mais il ne faudrait pas que ce soit un défi à la raison. Devant un pareil dilemme d’une unité sans contenu pour une saisie de relation impossible, Husserl fait un choix : il opte pour l’unité et parle donc de “ conflit supposant l’unité ” au niveau d’un a priori factuel de contenu. C’est ainsi que dans sa 6e Recherche logique, il appelle à reconnaître “ l’existence de significations impossibles ” et à saisir unitairement, précisément “ dans le domaine du conflit ”, cette relation “ paradoxale ” en tant qu’elle constitue le fait “ phénoménologique ” à “ réaliser ” écrit-il, par un acte intuitif unique. Notons l’expression “ réaliser ” qui rappelle la solution anti-Meinongienne d’Ehrenfels. Husserl décrit un affect de “ vécu de résistance ” car “ empiriquement tout nous résiste ”, écrit-il, d’où le besoin d’asseoir la conscience d’un conflit, irréductible à une impossibilité purement logique, sur l’essence d’une grammaticalité a priori des lois de possibilité et d’impossibilité des significations elles-mêmes. C’est qu’il nous faut bien comprendre en dernier ressort comment il nous est possible d’appréhender une inconciliabilité 7 Voir ici le débat sur la représentation des formes de qualités en particulier négatives entre Ch. Ehrenfels et Meinong et les travaux de J.-M. Monnoyer.
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certo ancora oscuro e difficile da comprendere, di una forma derivante da una forma, ci dissuade dal riportare una derivazione formale di senso a una derivazione di regola a partire da contenuto, come avviene in Husserl (e Schlick). Una cosa è certa, la relazione di incompatibilità, dunque un certo uso della negazione, è indubbiamente : 1 - ciò che motiva un bisogno di superamento dell’elementarità e 2 -, nello stesso tempo, una fonte di perplessità fondamentale. La semplice confutazione analitica dell’ a priori fenomenale rimane dunque ancora troppo debole rispetto al coglimento che esige questa relazione, la quale non è un contenuto rappresentabile ed è persino una sfida alla rappresentazione di un tutto. Il problema che pone Wittgenstein è molto difficile. Contro l’idea di un contenuto in quanto tale rappresentabile unitariamente 7 Wittgenstein fa tuttavia appello a un coglimento unitario di una relazione impossibile. Bisogna dunque richiamare una presa di relazione la cui rappresentazione, benché unitaria, non si riduce mai a un contenuto rappresentabile. Fondare un’unità senza contenuto è davvero difficile. Che sia una sfida all’intuizione, passi. Ma non dovrebbe essere una sfida alla ragione. Davanti a un simile dilemma di un’unità senza contenuto per un coglimento di relazione impossibile, Husserl fa una scelta: egli opta per l’unità e parla dunque di “ conflitto che suppone l’unità ” a livello di un a priori fattuale di contenuto. È così che, nella sua 6ª Ricerca logica, richiama al riconoscimento di “ significati impossibili ” e a cogliere unitariamente, proprio “ nel dominio del conflitto ”, questa relazione “ paradossale ” per quel tanto che essa costituisce il fatto “ fenomenologico ” da “ realizzare ”, come scrive, con un unico atto intuitivo. Notiamo l’espressione “ realizzare ” che richiama la soluzione anti-Meinongiana di Eherenfels. Husserl descrive un affetto di “ vissuto di resistenza ”, poiché “ empiricamente tutto ci resiste ”, scrive, da ciò il bisogno di fondare la coscienza di un conflitto, irriducibile a un’impossibilità puramente logica, sull’essenza di una grammaticalità a priori delle leggi di possibilità e impossibilità dei si7 Si veda qui il dibattito tra Ch. Eherenfels e Meinong sulla rappresentazione delle forme delle qualità, in particolare di quelle negative, e i lavori di J. M. Monnoyer.
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de contenus, cette possibilité même d’inconciliabilité qui est encore une “ relation ”. Mais Wittgenstein renonce, lui à justifier ce vécu ou cette conscience tout aussi aigüe du conflit en question car ce serait pour lui mêler la psychologie à la logique. Il préfère dire que le cas d’impossibilité est celui qui correspond à la situation où “ deux propositions entrent en collision dans le même objet ” (Remarques Philosophiques § 79). Il reporte l’incompatibilité sur le monde pour que la question du “ vécu ” de cette relation ne soit pas posée. 2. “ Il ne s’attendait pas à cela ! ” : une solution “ aspectuelle ” au dilemme de l’incompatibilité Un passage d’une Dictée donne, sous la forme d’un mini-dialogue entre un phénoménologue, un empiriste que pourrait rejoindre Schlick, et un grammairien, donne une idée de ce que pourrait être une solution grammaticale au dilemme “ rouge et vert au même endroit…”. Il s’agit justement de contrecarrer deux “ résistances ” : celle d’un vécu d’impossibilité appelant à hypostasier une relation d’essence, qui est un cas de “ crispation sur l’essence ” dénoncé par Wittgenstein dont Waismann reprend le motif à son compte (par ex. dans “ How I see philosophy ”), et une autre forme de résistance, celle de l’empiriste, qui lui, refuse par scepticisme de ressaisir ce qu’il voit, c’est à dire justement des cas où rouge et vert sont au même endroit en même temps, en termes d’énoncés articulés à l’aide de règles. Celui-là résiste donc à la règle. Le dernier mot est à “ Nous ”, ni empiriste ni phénoménologue : c’est le point de vue sans thèse qu’on pourrait qualifier d’ “ hypothétisant ”, celui d’une imagination grammaticale portant sur les symboles. Il révèle en s’appliquant que l’introduction du jeu dans l’emploi et le sens des mots suivant un certain “ principe de tolérance ” (expression de Carnap que j’apllique ici à la grammaire de Wittgenstein) est seule propre à déverrouiller la règle. “ Nous ” prend en compte les constats de l’empiriste pour ébranler le phénoménologue. Mais, en cherchant à rendre justice à ce que voit l’empiriste qui heurte la règle d’incompatibilité durcie en loi d’essence par le phénoménologue, ce “ nous ” appelle à suspendre la règle telle qu’elle est définie à partir d’un
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gnificati stessi. Ciò che si deve comprendere bene, in ultima analisi, è come ci sia possibile afferrare un’inconciliabilità di contenuti, quella stessa possibilità di inconciliabilità che è ancora una “ relazione ”. Ma Wittgenstein rinuncia a giustificare questo vissuto o questa coscienza così acuta del conflitto in questione, poiché, secondo lui, questo sarebbe mescolare la psicologia alla logica.Preferisce dire che il caso di impossibilità è quello che corrisponde alla situazione in cui “ due proposizioni entrano in collisione nello stesso oggetto ” (Osservazioni filosofiche, § 79). Egli riporta l’incompatibilità sul mondo, purché non sia posta la questione del “ vissuto ” di questa relazione. 2. “ Non ci si aspettava questo ! ”. Una soluzione “ aspettuale ” al dilemma dell’incompatibilità Un passaggio di un Dettato, nella forma di un mini dialogo tra un fenomenologo, un empirista che potrebbe assomigliare a Schlick e un grammatico, dà un’idea di quella che potrebbe essere una soluzione grammaticale al dilemma “ rosso e verde nello stesso posto… ”. Si tratta proprio di contrastare due “ resistenze ” : quella di un vissuto di impossibilità che si appella all’ipostatizzazione di una relazione d’essenza, che è un caso di “ contrazione sull’essenza ” denunciata da Wittgenstein, della quale Waismann riprende il motivo per proprio conto (per es. In “ How I see philosophy ”), e un’altra forma di resistenza, quella dell’empirista, che, dal canto suo, rifiuta, per scetticismo, di riafferrare ciò che vede, vale a dire proprio quei casi in cui rosso e verde sono nello stesso luogo nello stesso tempo, in termini di enunciati articolati con l’aiuto di regole. Questi resiste dunque alla regola. L’ultima parola sta al “ Noi ”, né empirista né fenomenologo : è il punto di vista senza tesi che potremmo dire “ ipotizzante ”, quello di un’immaginazione grammaticale che si avvale dei simboli. Esso rivela,quando si applichi, che l’introduzione, nell’impiego e nel senso che si dà alle parole del gioco che segue un certo “ principio di tolleranza ” (espressione di Carnap che applico qui alla grammatica di Wittgenstein) è solo capace di far saltare la regola. “ Noi ” prende in considerazione le constatazioni dell’empirista per scuotere
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sens pré-établi qui suppose l’essentialisation de cette règle (en “ corps de règle ” : Regelskörper, comme l’on parle de “ corps de signification ”). Ainsi, ce que signifie la négation (“ rouge et vert ne peuvent pas… ”) serait à tort tenue pour la source de la règle qui s’applique dans le symbolisme. Dans cet argument, la cible est de toute évidence la définition ostensive de la négation, c’est à dire Schlick. Faut-il vraiment s’obstiner à penser l’unité des inconciliables ? La réponse est non, mais d’abord déployer les règles. La négation est un concept dont le sens a la plasticité des cas qui se présentent dans l’usage. A l’écart de la sémantique conventionnelle de Schlick toute pénétrée de contenu conceptuel, Wittgenstein amorce une conception où l’élasticité des concepts dénoue complètement le dilemme dans lequel nous étions enfermés. Par ce changement de cap, ce n’est plus l’unité entre inconciliables qui est à penser à toute force, mais à l’inverse, la multiplicité de sens d’un concept que l’on croirait unitaire en son contenu, à savoir ici ces petits mots de “ ne pas ”. C’est à ce point que quelque chose comme une “ intuition dans la langue ” est requise. “ Modifions le sens des mots ! ” s’écrie-il. Sous cet appel à libéraliser la grammaire, ce qui se fait ainsi jour n’est rien moins que la thèse des “ aspects ”. Ainsi, si l’on modifie le sens de “ et ”, je peux dire que “ rouge et vert sont au même endroit ”. Il reste que je ne peux le dire qu’à condition de m’être libéré de l’explication ostensive de rouge et vert. Au lieu de considérer que c’est l’ostension qui fixe leur sens, j’adopte l’attitude qui me fait annuler la règle que je m’imposais d’abord. Dès lors, je ne peux plus affirmer que les deux couleurs s’excluent absolument si je peux produire un cas “ en analogie avec lequel ” d’autres cas peuvent être effectivement produits où les deux couleurs se mêlent. L’analogie est d’aspect en quelque sorte “ re-portable ” sur un autre cas. Il est étrange de voir Wittgenstein citer, à l’appui de cette extension analogique, le double sens du mot grec “ kyanos ” d’ Homère signifiant à la fois le blond des cheveux et le bleu de la mer, comme si le “ et ” entre les deux couleurs se résumait à l’équivocité d’un mot dans la langue. Ce que l’exemple grec fait entendre, c’est en tous cas la plasticité de la langue naturelle, et conformément à cette plasticité, le jeu qu’elle offre. Il signifie aussi que le sens univoque que l’on croirait
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il fenomenologo. Ma, cercando di rendere giustizia a ciò che l’empirista vede e che urta la regola di incompatibilità, indurita in legge d’essenza dal fenomenologo, questo “ noi ” si richiama alla sospensione della regola così com’è definita a partire da un senso pre-stabilito che suppone l’essenzializzazione di questa regola (in un “ corpo di regola ” : Regelskörper, come si parla di “ corpi di significato ”). Così, ciò che significa la negazione (“ rosso e verde non possono… ”) sarebbe a torto ritenuto la fonte della regola che si applica nel simbolismo. In questo argomento, il bersaglio è, con ogni evidenza, la definizione ostensiva della negazione, vale a dire Schlick. Bisogna davvero ostinarsi a pensare l’unità degli inconciliabili ? La risposta è no, ma all’inizio occorre mostrare le regole. La negazione è un concetto il cui senso ha la plasticità dei casi che si presentano nell’uso. Lontano dalla semantica convenzionale di Schlick, interamente penetrata di contenuto concettuale, Wittgenstein inaugura una concezione nella quale l’elasticità dei concetti scioglie completamente il dilemma nel quale eravamo costretti. Con questo cambiamento di impostazione, non è più l’unità tra inconciliabili a dover essere pensata per forza, ma, viceversa, la molteplicità del senso di un concetto che si crederebbe unitario nel suo contenuto; ossia, qui, questa piccola parola “ non ”. È a questo punto che qualcosa come un’ “ intuizione nella lingua ” è richiesta. “ Modifichiamo il senso delle parole ! ”, si grida. Sotto questo richiamo a liberalizzare la grammatica, ciò che viene alla luce non è niente di meno che la tesi degli “ aspetti ”. Così, se si modifica il senso di “ e ”, posso dire che “ rosso e verde sono nello stesso luogo ”. Rimane che posso dirlo solo a condizione di essermi liberato della spiegazione ostensiva di rosso e verde. Invece di ritenere che è l’ostensione a fissare il loro senso, io adotto l’atteggiamento che mi fa annullare la regola che mi imponevo all’inizio. Di conseguenza, non posso più affermare che i due colori si escludono assolutamente se posso produrre un caso “ in analogia con il quale ” altri casi possono effettivamente essere presentati nei quali i due colori si mescolano. L’analogia è d’aspetto, in qualche modo “ riportabile ” su un altro caso. È strano vedere Wittgenstein citare, in appoggio a questa
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d’essence n’est qu’une construction après coup. Nous ne sommes victimes de la règle que parceque nous croyons, comme Schlick, dans l’univocité de la détermination du sens. En opposant à ce principe intolérant de l’univocité du sens si crucial pour Schlick, l’équivocité dont la langue naturelle témoigne, Wittgenstein ne fait rien moins qu’apporter une pierre à la future thèse des aspects. Présentée à ce stade comme solution grammaticale à l’incompatibilité quand on s’est débarrassé de l’ostension ostensive, elle s’offre comme un moyen de lever les résistances du phénoménologue et de l’empiriste nouvelle manière (Schlick sous couvert de S. Mill), mais elle occupera bientôt le centre de la future “ philosophie de la psychologie ”. Il est en tous cas très clair que la question de l’aspect est solidaire d’un assouplissement de la règle une fois libérée de la contrainte ostensive. Cette attitude vis à vis du langage est celle de la “ liberté ” mais une liberté très particulière qui est une liberté de combinaison symbolique laquelle fait échapper à la tyrannie de la norme déjà établie. On croyait que le point de vue sur le langage était celui d’une frontière nette entre sens et non sens. Maintenant, s’il s’agit de “ suspendre la règle grammaticale ” de sorte à faire varier librement les emplois des concepts sans être limité par la barrière invisible du non sens. Celle-ci reculerait donc au gré de l’hypothèse. Ainsi Wittgenstein en vient-il à subvertir la sacrosainte prescription du langage sensé si chère au Cercle de Vienne qui la tirait de lui. L’aspect dilate les marques du concept en fonction des différents contextes de l’emploi de ces mots tels que la négation, la conjonction dont on croyait le rôle logique d’avance déterminé. Aussi voit-on maintenant que rien ne porte plus gravement atteinte à l’idée-même de contenu conceptuel que la thèse des aspects. Par là, il n’est pas exagéré de dire que Wittgenstein explore des solutions grammaticales sur les deux fronts de “ résistance ” que représentent Husserl et Schlick. Face à Schlick c’est clairement à sa conception arrêtée, non inventive de la grammaire, qu’il en a. Stylistiquement, la structure ternaire de ce petit dialogue est intéressante. Nous aboutissons à trois styles: – le style sceptique accumulant les cas d’obser vation conduisant à un point de vue qui résiste à l’unification phénoménologique.
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estensione analogica, il doppio senso della parola greca “ kyanos ” di Omero, la quale significa ad un tempo il biondo dei capelli e il blu del mare, come se l’ “ e ” tra i due colori si riassumesse nell’equivocità di una parola nella lingua. Ciò che l’esempio greco fa intendere è, in ogni caso, la plasticità della lingua naturale, e conformemente a questa plasticità, il gioco che essa offre. Significa anche che il senso univoco, che noi crederemmo d’essenza, non è che una costruzione a cose fatte. Noi siamo vittime della regola soltanto perché crediamo, come Schlick, nell’univocità della determinazione del senso. Opponendo a questo principio intollerante dell’univocità del senso, così cruciale per Schlick, l’equivocità di cui la lingua naturale è testimone, Wittgenstein non fa niente di meno che portare una pietra alla futura tesi degli aspetti. Presentata a questo stadio come soluzione grammaticale all’incompatibilità, una volta che ci si sia sbarazzati dell’ostensione ostensiva, essa si offre come un mezzo per togliere le resistenze del fenomenologo e dell’empirista nuova maniera (Schlick sotto le sembianze di S. Mill), ma occuperà presto il centro della futura “ filosofia della psicologia ”. In ogni caso, è molto chiaro che la questione dell’aspetto è complice di un assopimento della regola, una volta liberata dalla costrizione ostensiva. Questo atteggiamento di fronte al linguaggio è quello della “ libertà ”, ma una libertà molto particolare che è una libertà di combinazione simbolica la quale fa sfuggire alla tirannia della norma già stabilita. Si credeva che il punto di vista sul linguaggio fosse quello di un confine netto tra senso e non senso. Adesso, si tratta di “ sospendere la regola grammaticale ” in modo da far variare liberamente gli usi dei concetti senza essere limitati dalla barriera invisibile del non senso. Questa regredirebbe dunque allo stadio dell’ipotesi. Così Wittgenstein giunge a sovvertire la sacrosanta prescrizione del linguaggio sensato così cara al Circolo di Vienna che da lui la traeva. L’aspetto dilata i segni del concetto in funzione dei differenti contesti dell’uso di parole come la negazione, la congiunzione, il cui ruolo logico si credeva fosse determinato in anticipo. Così vediamo ora che niente nuoce più gravemente all’idea stessa di contenuto concettuale, della tesi degli aspetti. Di qui, non è esagerato dire che Wittgenstein
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– le style idéalisant du phénoménologue, philosophe de la résistance sublimée qui, se plaçant au-dessus des cas, résiste à la multiplicité des cas. – le style hypothétisant du grammairien partisan de “ laisser être le langage ”. Pour lui, le chemin de l’hypothèse se construit entre deux résistances. L’unité est une affaire d’aspect, et la multiplicité une affaire de contextes. La distribution comme au théâtre rappelle que le grammairien a double tâche, celle de ramener l’idéaliste à redescendre de son piédestal et l’empiriste à apporter quelques critères à sa conception inductiviste et sans critère des choses. Que devient alors l’ a priori quand l’intuition opère dans la langue ? 1 – “ Il ne s’attendait pas à cela ! ” : ou le mirage d’une “ logicité de l’expérience ”.8 La définition de la sémantique dans les seuls termes de la grammaticalité de la règle occupera nos dernières remarques. A la différence de la grammaire de la signification symbolique des concepts selon Schlick, la grammaire wittgensteinienne, tournée contre l’idée de noyau dur de sens, rejette l’idée que les règles découlent de la signification de concepts comme de contenus ou “ corps de signification ”, la critique vise la sémantique de Schlick mais elle éclaire surtout la raison pour laquelle la grammaticalité selon Wittgenstein ne peut mener à une réconciliation de l’intuition avec la logique. “ Rouge et vert au même endroit ” ? Si l’hypothétiste est amené à dire oui, les deux peuvent être ensemble, c’est d’une part qu’il peut constater cet état de choses qui scandalise le logicien analytique, ou le phénoménologue, chacun pour ses raisons propres, et que d’autre part il donne à “ ce petit mot de pouvoir ” un sens extensible qui justifie l’emploi de la conjonction. Il y a bien un être-donné à la fois dans la grammaire et dans l’empirie puisqu’il est supposé que cette co-existence entre rouge et vert peut être vue. Par là, l’expression a un statut catégorial: il lui correspond un être tel et tel à la fois donné à voir, et énonçable dans les formes d’un dispositif logico-linguistique.9 Une expansion de notre 8 9
Expression de E. Rigal « L’objet avec ses formes catégoriales (l’être du son avec son timbre,
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esplora delle soluzioni grammaticali sui due fronti di “ resistenza ” rappresentati da Husserl e Schlick. Per quanto riguarda Schlick, si tratta della sua concezione chiusa, non inventiva, che egli ha della grammatica . Stilisticamente la struttura ternaria di questo piccolo dialogo è interessante. Arriviamo a tre stili: – lo stile scettico che accumula i casi di osservazione e conduce a un punto di vista che resiste all’unificazione fenomenologica; – lo stile idealizzante del fenomenologo, filosofo della resistenza sublimata che, ponendosi al di sopra dei casi, resiste alla loro molteplicità; – lo stile ipotetico del grammatico, fautore del “ lasciar essere il linguaggio ”. Per lui, il cammino dell’ipotesi si costruisce tra due resistenze. L’unità è un problema di aspetto, e la molteplicità un problema di contesti. La distribuzione delle parti, come a teatro, ricorda che il grammatico ha un doppio ruolo, quello di ricondurre l’idealista a scendere dal suo piedistallo e quello di condurre l’empirista a dare qualche criterio per la sua concezione induttivista e senza criterio, delle cose. Cosa diventa allora l’ a priori quando l’intuizione opera nella lingua ? 1 - “ Non ci si aspettava questo ! ” : o, il miraggio di una “ logicità dell’esperienza ”.8 La definizione della semantica nei soli termini della grammaticalità della regola occuperà le nostre ultime osservazioni. A differenza della grammatica del significato simbolico dei concetti per Schlick, la grammatica wittgensteiniania, vòlta contro l’idea del nocciolo duro del senso, respinge l’idea che le regole derivino dal significato dei concetti come contenuti o “ corpi di significato ”. La critica ha in vista la semantica di Schlick, ma essa chiarisce soprattutto la ragione per la quale la grammaticalità secondo Wittgenstein non può portare a una riconciliazione dell’intuizione con la logica. “ Rosso e verde nello stesso luogo ” ? Se colui che formula ipotesi è portato a dire sì, i due possono stare insieme, da un lato, perché egli può constatare questo stato di cose che 8
Espressione di E. Rigal.
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grammaire se justifie par la rencontre d’états de choses dont on n’avait pas idée, tout en agissant sur notre capacité de faire droit à des expressions auxquelles nous n’aurions pas habituellement accordé de sens. “ Il ne s’attendait pas à cela ! ”, dit l’hypothétiste du “ contradicteur ” dans le bout de Dictée que nous venons de commenter. Ce sont exactement les mots du grammairien. Hypothétiquement, l’expérience de pensée aboutit à ce que état de choses et proposition co-varient. Mais qui est au juste le “ contradicteur ” ? Le logicien analytique ? Le phénoménologue ? Tous deux peut-être qui, chacun sa raison, est “ crispé ” sur l’essence de la contradiction. Le logicien analytique bien sûr, mais aussi le phénoménologue tout à l’heure accroché à la logique de la non-contradiction qui traite d’arbitraire la suppression de la règle de non-contradiction. Il est vrai, rien de nécessaire n’est véritablement appréhendé à travers ces formes de catégorialité, car Wittgenstein exclut toute référence à l’essence générale de la chose. Dans cette perspective, l’être-ainsi du donné n’a de nécessité que pour nous, dans le cadre de notre langage, non en soi. Et si le “ et ” de “ rouge et vert au même endroit ” articule une règle aussi forte que “ on n’a pas rouge et vert au même endroit ”, c’est que l’on a affaire à un synthetisches Faktum qui certes a la “ nécessité ” de la règle mais en mode contingent. L’être-ainsi des choses est fonction des formes de vie : “ l’intention est incorporée dans sa situation, coutumes et institutions humaines ” tandis que l’ensemble des formes de vie forme le cadre ultime dans lequel il prend sens. Pour justifier cet être-donné conjointement dans la grammaire et dans l’expérience, on ne peut donc aller plus loin que ce cadre. Le fait anthropologique a le dernier mot, à la place de l’être des choses.10 En d’autres termes, que “ rouge et vert puissent se sa hauteur, son intensité… est pris comme exemple d’objet se rendant effectivement présent avec ses caractères propres, par l’intuition) n’est pas simplement visé, comme dans le cas d’une fonction purement symbolique des significations, mais il est lui-même sous nos yeux dans ces formes » (Husserl, 6e Recherche Logique, t. iii, p. 175, § 45 ; lignes cit. plus haut). 10 Cf. ce que Robert Sokolowski dit à propos de cette rupture entre grammatical et ontologique dans Études phénoménologiques, nº 19, 1994, “ Problèmes husserliens ”, art. sur “ Le concept husserlien d’intuition catégoriale ”.
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scandalizza il logico analitico o il fenomenologo, ciascuno per le sue ragioni, e, dall’altro, perché egli dà a “ questa piccola parola potere ” un senso estendibile che giustifica l’uso della congiunzione. V’è senz’altro un esser-dato sia nella grammatica che nell’empiria, poiché si è supposto che questa co-esistenza tra rosso e verde può essere vista. Per ciò, l’espressione ha uno statuto categoriale: le corrisponde un essere così e così, ad un tempo dato da vedere, e enunciabile nelle forme di un dispositivo logico-linguistico. 9 Un’espansione della nostra grammatica è giustificata dall’incontro con stati di cose di cui non si aveva idea, che agiscono sulla nostra capacità di legittimare espressioni alle quali non avremmo abitualmente accordato senso. 1 – “ Non ci si aspettava questo ! ” : dice colui che formula ipotesi, del “ contradditore ” alla fine del Dettato che abbiamo commentato. Sono esattamente le parole del grammatico. Ipoteticamente, l’esperienza di pensiero finisce per arrivare a questo, che stato di cose e proposizione co-variano. Ma chi è davvero il “ contradditore ” ? Il logico analitico ? Il fenomenologo ? Tutti e due forse, e ciascuno a suo modo è ripiegato sull’essenza della contraddizione. Il logico analitico sicuramente, ma anche il fenomenologo, subito impigliato nella logica della non-contraddizione, il quale considera arbitraria la soppressione della regola di non-contraddizione. È vero, niente di necessario è davvero afferrato attraverso queste forme di categorialità, poiché Wittgenstein esclude ogni riferimento all’essenza generale della cosa. In questa prospettiva, l’esser-così del dato ha necessità soltanto per noi, nel quadro del nostro linguaggio, non in sé. E se l’ “ e ” di “ rosso e verde nello stesso luogo ” articola una regola così forte come “ non ci sono rosso e verde nello stesso luogo ”, è perché abbiamo a che fare con un syntethische Faktum che certo ha la “ necessità ” della regola, ma in modo contingente.
9 « L’oggetto con le sue forme categoriali (l’essere del suono col suo timbro, la sua altezza, la sua intensità… è preso come un esempio di oggetto che si rende effettivamente presente, con i suoi caratteri propri, attraverso l’intuizione) non è semplicemente visto, come nel caso di una funzione puramente simbolica di significati, ma è lui stesso sotto i nostri occhi in queste forme » (Husserl, 6ª Ricerca Logica, t. iii, p. 175 ; righe citate sopra).
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trouver au même endroit ” montre que lorsque l’on dit avec quelques raisons que “ rouge et vert ne peuvent être au même endroit ”, il pourrait en être autrement. La nécessité est la nôtre. Elle relève d’un cadre parmi d’autres possibles. Mais la variabilité, d’univers à univers, des formes de relations et de propriétés empêche qu’un fait synthétique, qui n’est rien d’autre qu’un être-ainsi grammatical et anthropologique, une certaine co-existence de traits, de couleurs, de sons, ou autres qualités, atteigne à une forme d’universalité. Le caractère de nécessité n’en demeure pas moins mais délié d’une universalité d’essence. La coexistence du “ rouge et du vert au même endroit ” acquiert, au même titre que des relations non logiques comme par exemple le fait que la puce et le pelage du chien adhèrent l’un à l’autre, un droit égal à figurer au nombre des traits anthropologiques qui intéressent l’éthologue. Cela veut aussi dire que le sens que l’on donnera à ce “ et ” qui heurte de front la raison du logicien, est aussi peu déductible et explicable que tout autre donnée synthétique et anthropologique.11 Pourtant il est une nécessité en quelque sorte factuelle de cet être-ainsi, qui relève moins d’une objectivité d’essence universelle, que de notre anticipation ainsi structurée : “ Ce dont je parle ici comme d’une attente, c’est de quelque chose qui en tous cas, doit nécessairement (unbedingt) être ou satisfait ou déçu – ce n’est donc pas d’une vague attente dans les nuages ”.12 Conclusion : Obstacles au rapprochement Husserl/Wittgenstein. L’erreur husserlienne : l’idée d’une logicité de l’expérience. Frege estimait du seul ressort de la psychologie l’approche de l’acte de saisie, avec son porteur humain. Ce que Brentano a d’une certaine manière confirmé en braquant l’objectif sur la relation intentionnelle comme étant un phénomène psychique. Mais, pour ne pas tomber dans les facilités de la psychologie empirique (et son langage), Husserl a cherché comme Frege, à “ chasser la conscience de la pen11 12
Voir Les Remarques sur le Rameau d’Or de Frazer. Remarques Philosophiques, i, § 28 in fine, tr. française, p. 67.
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L’esser-così delle cose è funzione delle forme di vita : “ l’intenzione è incorporata nella sua situazione, nei costumi e nelle istituzioni umane ”, mentre l’insieme delle forme di vita costituisce il quadro ultimo nel quale prende senso. Per giustificare questo esser-dato congiuntamente, nella grammatica e nell’esperienza, non si può dunque andare oltre questo quadro. Il fatto antropologico ha l’ultima parola al posto dell’essere delle cose.10 In altri termini, che “ rosso e verde possano trovarsi nello stesso luogo ” mostra che, quando si dice con qualche ragione che “ rosso e verde non possono essere nello stesso luogo ”, potrebbe essere altrimenti. La necessità è la nostra. Essa dipende da un quadro fra altri quadri possibili. Ma la variabilità, da universo a universo, delle forme di relazioni e di proprietà impedisce che un fatto sintetico, il quale non è nient’altro che un esser-così grammaticale e antropologico, una certa co-esistenza di tratti, di colori, di suoni o altre qualità, attinga a una forma di universalità. Il carattere di necessità non permane di meno, ma è slegato da una universalità dell’essenza. La coesistenza di “ rosso e verde nello stesso luogo ”, allo stesso titolo delle relazioni non logiche, come per esempio il fatto che la pulce e il pelo del cane aderiscono l’una all’altro, acquisice un pari diritto a figurare nel numero dei tratti antropologici che interessano l’etologo. Ciò vuol dire anche che il senso che daremo a questo “ e ”, il quale urta frontalmente la ragione del logico, è tanto poco deducibile e spiegabile quanto ogni altro dato sintetico e antropologico.11 Nondimeno, si tratta di una necessità in qualche modo fattuale di questo esser-così, la quale deriva meno da una oggettività d’essenza universale che dalla nostra anticipazione così strutturata: « Ciò di cui parlo qui come di un’attesa, è qualcosa che in ogni caso, deve necessariamente (unbedingt) essere o soddisfatto o deluso- non è dunque di una vaga attesa tra le nuvole (che parlo) ».12 10 Cfr. ciò che Robert Solowski dice a proposito di questa rottura tra grammaticale e ontologico negli « Ètudes phénoménologiques », n. 19, 1994, “ Problèmes husserliens ”, art. su “ Le concept husserlien d’intuition catégoriale ”. 11 Vedi Le note sul ramo d’oro di Frazer. 12 Osservazioni filosofiche, i, § 28 in fine, trad. francese p. 67.
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sée ” (M. Dummett) et a appelé de ses voeux une méthode nouvelle – à savoir la phénoménologie – propre à décrire ce vécu ou acte de nature non psychologique, dont ni la logique de Frege ni celle de Wittgenstein ensuite ne voulaient se charger. La question de l’acte, le laissé pour compte de la logique, est ainsi échue à l’élucidation phénoménologique. Mais Wittgenstein lui a tourné le dos. Pour Husserl, il est clair qu’en l’absence de cette relation subjective intentionnelle à caractère d’acte – distincte de ce phénomène psychique contingent auquel Brentano justement s’intéressait –, il ne saurait y avoir de pensée de l’objectité au niveau de la saisie-même des relations. En s’intéressant au “ conflit dans l’intuition ”, ce qu’il traque est l’a prioricité propre à l’essence de l’acte orienté vers un vécu d’inconciliabilité des contenus. Mais Wittgenstein était trop frégéen pour consentir à situer l’ a priori au niveau de cet acte. S’il y a intuition pour lui, c’est par rapport à l’usage des concepts dans la langue “ à l’intérieur de la grammaire ”, et nullement au niveau d’une intention de signification dirigée vers l’objet (dont le geste ostensif relève d’une sorte de croyance en la “ magie ”). Il reste donc quelques obstacles de taille à l’idée que dans la recherche d’une explication sur le conflit dans l’intuition, Wittgenstein rejoindrait Husserl concernant un possible rapprochement entre intuition et catégorialité. Le caractère grammatical de l’être-donné le désigne comme un synthetisches Faktum qui a la “ nécessité ” de la règle mais en mode contingent. C’est que l’être-ainsi des choses est fonction des formes de vie : “ l’intention est incorporée dans sa situation, coutumes et institutions humaines ” sans référence aucune à l’être des choses.13 Il pourrait en être autrement. Rien de nécessaire n’est donc véritablement appréhendé par une saisie des formes de catégorialité quant à l’essence générale de la chose. Dans cette perspective, l’êtreainsi du donné n’a de nécessité que pour moi ou nous, dans le cadre de notre langage, non en soi. La nécessité est de 13 Cf. ce que Robert Sokolowski dit à propos de cette rupture entre grammatical et ontologique dans « Études phénoménologiques », nº 19, 1994, “ Problèmes husserliens ”, art. sur “ Le concept husserlien d’intuition catégoriale ”.
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Conclusione : Ostacoli all’accostamento Husserl/Wittgenstein. L’errore husserliano: l’idea di una logicità dell’esperienza Frege riteneva che spettasse soltanto alla psicologia l’approccio all’atto del cogliere, con il suo portatore umano. Cosa che Brentano ha in un certo modo confermato, richiamando l’attenzione sulla relazione intenzionale come fenomeno psichico. Ma, per non cadere nella superficialità della psicologia empirica (e del suo linguaggio), Husserl ha cercato come Frege di “ scacciare la coscienza dal pensiero ” (M. Dummett) e ha chiamato in suo soccorso un nuovo metodo – la fenomenologia – in grado di descrivere questo vissuto o atto di natura non psicologica, di cui né la logica di Frege né quella di Wittgenstein vollero, in seguito, farsi carico. La questione dell’atto, il rimosso della logica, si è così arrestata alla chiarificazione fenomenologica. Ma Wittgenstein le ha voltato le spalle. Per Husserl è chiaro che in assenza di questa relazione soggettiva intenzionale che ha carattere d’atto – distinta da questo fenomeno psichico contingente al quale Brentano per l’appunto si interessava – non potrebbe esserci pensiero dell’oggettità al livello del coglimento stesso delle relazioni. Interessandosi al “ conflitto nell’intuizione ”, ciò che egli persegue è l’a priorità propria all’essenza dell’atto orientato verso un vissuto di inconciliabilità di contenuti. Ma Wittgenstein era troppo fregeano per consentire di collocare l’ a priori a livello di questo atto. Se c’è intuizione per lui è in rapporto all’ uso dei concetti nella lingua, “ all’interno della grammatica ”, e nient’affatto a livello di un’intenzione di significare diretta verso l’oggetto (il gesto ostensivo del quale deriva da una sorta di credenza nella “ magia ”). Incontra dunque alcuni grandi ostacoli l’idea che, nella ricerca di una spiegazione sul conflitto nell’intuizione, Wittgenstein raggiungerebbe Husserl per quanto riguarda un possibile accostamento tra intuizione e categorialità. Il carattere grammaticale dell’esser-dato lo designa come un synthetisches Faktum che possiede la “ necessità ” della regola ma in modo contingente. È che l’esser-così delle cose è funzione delle forme di vita : “ l’intenzione è incorporata nella sua situazione, nei costumi e nelle istituzioni umane ”
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mon seul point de vue et relève d’un cadre parmi d’autres possibles. Contingente puisque variable d’univers à univers, la forme de relations et propriétés a la nécessité factuelle mais non universelle d’un fait synthétique injustifiable dans un cadre comme l’est un ensemble de traits anthropologiques (v. Les Remarques sur le Rameau d’Or de Frazer). La nécessité factuelle, de nature grammaticale-anthropologique subvertit la distinction sacrosainte d’origine kantienne entre synthétique/contingent, analytique/a priori , non en introduisant, comme Husserl après Kant, une troisième possibilité, mais en faisant place à une dimension de nécessité de fait qui sans avoir la contingence de l’empirie, n’a pas non plus la nécessité strictement analytique des lois logiques. Le donné dont il s’agit présente certes une structure d’a-prioricité qui tient à l’usage des concepts en tant qu’ilsfont partie d’un système. Mais les règles qui norment cet usage n’apparaitront pas à qui se cramponne encore à l’opposition aux angles trop nets de l’analytique et du sythétique kantien. Il serait tentant de faire de la relation interne, qui s’offre à la vision, un analogon de la catégorialité husserlienne, car comme elle, elle n’est ni inscrite dans l’objet : “ l’expérience ne nous parvient pas déjà catégorialement articulée ”, ni inscrite dans le vécu de l’acte intentionnel 14 ni davantage inscrite dans une couche commune aux deux. C’est toujours en termes de commensurabilité d’espace pour des lieux logiques, que doit être compris le fait du remplissement d’un énoncé d’attente. L’image pour comprendre ce fait nous éloigne de la phénoménologie. C’est une image techno-dynamique. L’attente et le fait attendu s’articulent dans cet espace abstrait comme une forme vide de corps avec la forme pleine qui vient l’occuper, donc selon le schéma substitutionnel plein/vide “ sans tierce possibilité ” propre au maniement des signes. Loin d’être fusion entre intentionnant et intentionné, un tel “ remplissement ” est illustré mécaniquement par le modèle de l’ajustement d’un cylindre à une chambre cylindrique. Le corps plein chasse ce qui pourrait occuper l’espace vide. Le contact qui n’est pas fusion est bien en ef14 Contrairement à ce que pense d’ailleurs Hintikka, en croyant être fidèle à Husserl ; cf. “ The idea of phenomenology in Wittgenstein and Husserl ”, in Austrian Philosophy, ed. K. Lehrer, 1997, chez Kluwer.
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senza alcun riferimento all’essere delle cose.13 Potrebbe essere altrimenti. Nulla di necessario è dunque veramente afferrato da un coglimento delle forme di categorialità rispetto all’essenza generale della cosa. In questa prospettiva, l’essercosì del dato non ha necessità che per me o per noi, nel quadro del nostro linguaggio, non in sé. La necessità è dal mio solo punto di vista e deriva da un quadro tra altri quadri possibili. Contingente, perché variabile da universo a universo, la forma di relazioni e proprietà ha la necessità fattuale, ma non universale, di un fatto sintetico ingiustificabile in un quadro, come lo è un insieme di tratti antropologici (vedi Le note sul Ramo d’oro di Frazer). La necessità fattuale, di natura grammaticale-antropologica, sovverte la sacrosanta distinzione di origine kantiana tra sintetico/contingente e analitico/a priori, non introducendo, come Husserl dopo Kant, una terza possibilità, ma facendo posto a una dimensione di necessità di fatto la quale, senza avere la contingenza dell’empiria, non ha però nemmeno la necessità strettamente analitica delle leggi logiche. Il dato di cui si tratta presenta certo una struttura di a priorità che attiene all’uso dei concetti in quanto fanno parte di un sistema. Ma le norme che regolano questo uso non appariranno a chi si aggrappa ancora all’opposizione troppo netta dell’analitico e del sintetico kantiano. Si potrebbe provare a fare della relazione interna, che si offre alla visione, un analogo della categorialità husserliana, poiché, come quella, essa non è né iscritta nell’oggetto, “ l’esperienza non ci arriva già articolata categorialmente ”, né iscritta nel vissuto dell’atto intenzionale,14 né, tanto più, iscritta in uno strato comune ai due. È sempre in termini di commensurabilità di spazio per due luoghi logici, che deve essere compreso il fatto del soddisfacimento di un enunciato di attesa. L’immagine per comprendere questo fatto ci allontana dalla fenomenologia. È un’immagine tecno-dinamica. L’attesa e il fatto atteso si articolano in questo spazio astratto come una forma vuota di corpo con la forma piena che 13 Cfr. ciò che Robert Solowski dice a proposito di questa rottura tra grammaticale e ontologico negli « Ètudes phénoménologiques », n. 19, 1994, “ Problèmes husserliens ”, art. su “ Le concept husserlien d’intuition catégoriale ”. 14 Contrariamente a ciò che pensa allora Hintikka, credendo di essere fedele a Husserl ; cfr. “ The idea of phenomenology in Wittgenstein and Husserl ”, in Austrian Philosophy, a cura di K. Lehrer, 1997, Kluwer.
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fet exclusif d’une entité tierce. C’est le propre de la relation interne que de rendre possible un remplacement de signes dans la grammaire sans sortir du langage. Ce qui sépare Wittgenstein de Husserl est fondamentalement qu’il n’y a pas pour Wittgenstein d’objectivité à aller chercher au coeur de la signification. Alors que pour Wittgenstein la logicité ou catégorialité appelant un voir est toujours celle d’un langage de signes pour des relations d’expérience, la logicité husserlienne de l’opération par laquelle l’acte intuitif opère implique que nous faisons toujours référence aux objets, écrit Richard Cobb-Stevens,15 “ à travers leurs significations ”, ce qui nous permet en effet d’atteindre l’être tel et tel de l’objet, y compris contradictoire, comme donné à la conscience. Wittgenstein à l’inverse de Husserl ne place pas d’objet transitif au bout de mon regard, mais un voir comme qui en intoduisant la catégorie de l’aspect, permet de poser qu’il m’est possible de voir des contraires comme un selon les contextes. Ainsi la question de l’unification des contraires dans l’intuition est-elle levée. C’est pourquoi Husserl s’est rendu coupable d’avoir postulé une “ logique de l’expérience ” c’est-à-dire une conception non linguistique des relations entre essences conceptuelles. Ainsi en va-t-il de l’impossibilité logique, dit Husserl, régie par une loi a priori d’essence absolument générale, à laquelle correspond une impossibilité objective, celle de “ déterminations objectives signifiées ”. 16 C’est donc en dernier ressort par sa conception référentialiste-objective du formel que l’articulation husserlienne de l’intuition avec la logique prête le flanc à la critique.
15
Husserl et la philosophie analytique, Vrin, 1998, p. 216, ch. 7, . L’idée de grammaire pure in RL iv, à propos de l’absurdité matérielle = synthétique relative à des concepts matériels et source de non-sens, à distinguer de la contradiction purement analytique-formelle source de contre-sens. 16
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l’ha occupato; dunque secondo lo schema sostituzionale pieno/vuoto, “ senza terza possibilità ”, proprio del maneggiare i segni. Lungi dall’essere una fusione tra intenzionante e intenzionato, un tale “ riempimento ” è illustrato meccanicamente dal modello dell’adattamento di un cilindro a una camera cilindrica. Il corpo pieno scaccia ciò che potrebbe occupare lo spazio vuoto. Il contatto, che non è fusione, è infatti davvero escludente una entità terza. Il proprio della relazione interna è di rendere possibile una sostituzione dei segni nella grammatica, senza uscire dal linguaggio. Ciò che separa Wittgenstein da Husserl è fondamentalmente che per Wittgenstein non c’è oggettività da cercare al cuore del significato. Mentre per Wittgenstein la logicità o categorialità che richiama un vedere è sempre quella di un linguaggio di segni per delle relazioni di esperienza, la logicità husserliana dell’operazione, attraverso la quale l’atto intuitivo opera, implica che noi facciamo sempre riferimento agli oggetti, come scrive Richard Cobb-Stevens,15 “ attraverso i loro significati ”; il che ci permette infatti di attingere l’essere così e così dell’oggetto, ivi compreso quello contradditorio, come dato alla coscienza. Wittgenstein, al contrario di Husserl, non pone oggetto transitivo alla fine del mio sguardo, ma un vedere-come che, introducendo la categoria dell’aspetto, permette di porre che mi è possibile vedere dei contrari come uno a seconda dei contesti. Così la questione dell’unificazione dei contrari nell’intuizione è tolta. È per questo che Husserl si è reso colpevole di aver postulato una “ logica dell’esperienza ”, vale a dire una concezione non linguistica delle relazioni tra essenze concettuali. Così si dà l’impossibilità logica,dice Husserl, retta da una legge a priori d’essenza assolutamente generale, alla quale corrisponde un’impossibilità oggettiva, quella di “ determinazioni oggettive significate ”.16 È dunque in ultima analisi attraverso la sua concezione referenzialista-oggettiva del formale che l’articolazione husserliana dell’intuizione con la logica si espone alla critica. 15
Husserl et la philosophie analytique, Vrin 1998, p. 216, cap. 7. L’idea di grammatica pura in RL, iv, a proposito dell’assurdità materiale = sintetica relativa ai concetti materiali e fonte di non-sensi, da distinguere dalla contraddizione puramente analitica-formale fonte di contro-sensi. 16
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Aldo Giorgio Gargani Università di Pisa
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B.F. MCGUINNESS SU PROPOSIZIONI E FORMA LOGICA NEL TRACTATUS DI WITTGENSTEIN
Nelle analisi dedicate da Brian McGuinness al Tractatus di Wittgenstein vengono portate alla luce alcune componenti decisive della prima opera del filosofo austriaco ; dico subito, alcune componenti che concernono problemi e difficoltà specifici, altre componenti di importanza perfino maggiore che riguardano lo stesso stile del filosofare di Wittgenstein, ossia un certo modo di tematizzare il lavoro filosofico che investe il Tractatus, ne costituisce la sua specificità, ma che va anche oltre, investendo alcuni modi decisivi di fare filosofia di Wittgenstein anche negli scritti delle fasi successive. Una constatazione questa che vale a superare la presunta rottura fra un primo e un secondo Wittgenstein, ristabilendo importanti nessi di continuità tematica ai quali McGuinness ha fornito un vigoroso contributo. Tra questi modi o stili del lavoro filosofico vorrei indicare, come verrà specificato nel seguito, la concezione immanente del linguaggio, per effetto della quale il linguaggio non è governato se non dalla propria logica interna e non da strutture formali esterne e precostituite al suo uso. In questo senso Wittgenstein osserverà, contro Russell, che bisogna smetterla di pretendere di spiegare ciò che fa dire al linguaggio ciò che esso dice. In una lettera dal campo di concentramento di Cassino,1 Wittgenstein replica a Russell, il quale aveva affermato che « a symbol must have the same structure as its meaning », che questo è ciò che non si può dire : « That’s exactly what you can’t say. You cannot prescribe to a symbol what it may be used to express ». Ed è proprio in questa divergenza che McGuinness, nell’importante saggio sul misti1 Wittgenstein, Lettera a Russell del 19.8.1919, in Notebooks 1914-1916, ed. by G.H. von Wright and G.E.M. Anscombe, Blackwell, Oxford 1961, pp. 120-30.
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cismo nel Tractatus,2 rileva « one big difference between the two men, a difference affecting precisely the question of mysticism ». Nel Tractatus infatti il linguaggio si presenta come una certezza vivente, e questa concezione connette Wittgenstein al tema dello statuto organico del linguaggio che circola nella cultura austriaca a lui contemporanea, anche al di fuori dell’àmbito filosofico. Vorrei inoltre sottolineare la concezione immanentista del linguaggio nella concezione che Wittgenstein sviluppa fin dal Tractatus e che trova nuovi e più estesi sviluppi a partire da The Brown Book. L’immanentismo linguistico di Wittgenstein significa, contro Russell, che il linguaggio dice ciò che dice sulla base delle proprie risorse e non già in forza di una conformità e di una corrispondenza con una struttura esterna e precostituita ad esso. Credo che ciò sia in accordo con quanto scrive David Pears in un decisivo saggio, in cui illustra la relazione nel Tractatus fra forma logica e contenuto di una proposizione nei termini (in qualche modo aristotelici) di un assorbimento della forma nella proposizione.3 Il tema della immanenza del significato all’espressione linguistica ricorre significativamente fin dagli scritti preliminari del Tractatus, precisamente in un’annotazione dei suoi Tagebücher del 5 novembre 1914 dove scrive : « so stell der Satz den Sachverhalt auf eigene Faust dar » (e così la proposizione rappresenta il fatto di proprio pugno) che costituisce da un lato il nucleo fondativo e generativo di tutta la filosofia dl linguaggio di Wittgenstein e, da un altro lato, la ragione del suo dissenso critico da Russell. Questa condizione di immanenza è stata presumibilmente oscurata da quella che McGuinness ha definito l’apparente enunciazione di una semantica realistica nel suo saggio, a mio avviso di importanza decisiva, « The So-called Realism of Wittgenstein’s Tractatus » (Il cosiddetto realismo del Tractatus di Wittgenstein). Questa falsa apparenza di una semantica realistica ha certo avuto l’effetto di suscitare l’impressione che si potesse parlare degli oggetti e dei fatti nel 2 B.F. McGuinness, The Mysticism of the Tractatus, in «The Philosophical Review», lxxv, n. 3, 1966, p. 310. 3 Cfr. D. Pears, The Relation between Wittgenstein’s Picture Theory of Propositions and Russell’s Theory of Judgment, in G. Luckhardt (a cura di), Wittgenstein. Sources and Perspectives, Hassocks, Sussex, 1979, pp. 190 sgg.
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Tractatus, come se fossero entità disgiunte dalla logica e dal linguaggio. Questa visione fuorviante può essere stata incoraggiata da proposizioni come la 4.0312 e 4.0311 e 2.1515 senza che queste venissero riconsiderate nel più ampio contesto dell’opera del filosofo austriaco. I nomi non hanno un significato intensionale ; ossia il significato, la Bedeutung, è ridotto al portatore (Träger). Come sottolinea McGuinness, propriamente parlando i nomi non funzionano come segni dotati di senso, perché la connessione tra nome e oggetto consiste in una relazione di Vertretung, « di stare per », di « essere al posto di », ma non in una relazione intensionale. Prop. 4.0312 : « Die Möglichkeit des Satzes beruht auf dem Prinzip der Vertretung von Gegenstände durch Zeichen » (la possibilità della proposizione si fonda sul principio della rappresentanza d’oggetti da parte di segni).4 Questa circostanza è decisiva perché Wittgenstein, sulle evidenti tracce di Frege, attribuisce il senso, il Sinn, alla proposizione nel suo complesso articolato, nella sua struttura composta, e non già alle sue singole componenti costitutive. Se i nomi, le componenti costitutive avessero un senso, il problema della comprensione delle proposizioni sarebbe riproposto dall’inizio e aprirebbe un regresso all’infinito. L’articolazione e la composizione dei nomi nel nesso proposizionale introduce la possibilità del senso che raffigura una articolazione di oggetti nel fatto, nel Sachverhalt. Nella prop. 4.032 è scritto : « Nur insoweit ist der Satz en Bild einer Sachlage, als er logisch gegliedert ist » (la proposizone è un’immagine d’una situazione solo nella misura in cui è articolata logicamente). Come scrive McGuinness, « l’intenzione di Wittgenstein non era quella di fondare una metafisica sulla logica o sulla natura del linguaggio (to base a metaphysics upon logic or the nature of our language) » (p. 103).5 Altrettanto poco quanto era sua intenzione di individuare il fondamento ontologico della nostra grammatica. Quella che conduce sostanzialmente è una indagine che apre un nuovo modo di affrontare i problemi 4 Trad.it. di A.G. Conte, L.Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1968. 5 McGuinness, The So-called Realism of the Tractatus, in Irving Block (a cura di), Perspectives on the Philosophy of Wittgenstein, Blackwell, Oxford 1981, p. 62.
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filosofici, ossia dal punto di vista di una filosofia della logica del linguaggio. Nella proposizione 2.0121 del Tractatus Wittgenstein osserva : « Parrebbe quasi un accidente se alla cosa, che potesse sussistere per sé sola, successivamente potesse convenire una situazione ». In questo senso Wittgenstein, come osserva McGuinness, rimproverava in una lettera a Russell di non aver colto la sua tesi principale, ossia « il problema cardine della filosofia », vale a dire la dottrina filosofica che ciò che può essere espresso da proposizioni non può essere detto esplicitamente (gesagt), bensì solo mostrato (gezeigt).6 La logica, dice giustamente McGuinness, è il punto di partenza della ricerca filosofica. Infatti le tautologie – nelle quali Wittgenstein riconosce lo statuto delle proposizioni logiche – mostrano, zeigen, senza dire (sagen) alcunché. La tautologia mostra l’intero spazio logico delle possibilità del linguaggio, vale a dire del pensiero e del mondo : l’enunciato « p v – p », per es. « piove o non piove », apre l’intero orizzonte delle possibilità senza esprimere o designare alcun fatto specifico. Ossia, le tautologie mostrano la forma della struttura, cioè la possibilità di quei Sachverhälte, di quei fatti in cui consistono le proposizioni e simmetricamente gli eventi in cui consiste la realtà. « Che le proposizioni della logica siano tautologie mostra le proprietà formali – logiche – del linguaggio, del mondo. Che le sue parti costitutive, collegate così, producano una tautologia caratterizza la logica delle sue parti costitutive » (Tractatus, prop. 6.12). Ciò indica la possibilità di enunciare proposizioni indipendentemente dallo stato di cose del mondo. Ed è solo in questo senso, ossia per quanto concerne lo statuto metodologico del Tractatus, che mi pare che McGuinness concordi con la tesi parallela di Hidé Ishiguro, esposta in Use ad Reference of Names,7 secondo la quale nel Tractatus la nozione di Bedeutung è di carattere intensionale ; nell’interpretazione che ne fornisce McGuinness « il ruolo semantico del nome o segno semplice, di cui si suppone che sia possibile, è 6 P. Wittgenstein, Letters to Russell, Keynes and Moore, ed. by G.H. von Wright and B.F. McGuinness, Oxford, Blackwell 1974, p.37. 7 H. Ishiguro, Use and Reference of Names, in P. Winch (a cura di), Studies in the Philosophy of Wittgenstein, Routledge and Kegan Paul, London 1969, pp. 41-43.
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quello di combinarsi con altri nomi o segni per produrre una proposizione che ha un valore di verità. Ogni segno che, nelle stesse combinazioni, produca esattamente gli stessi valori di verità, è lo stesso segno, o ha lo stesso riferimento ».8 La tautologia è l’inizio stesso dell’esercizio del linguaggio, ossia del pensiero. Questo è l’assunto wittgensteiniano che si contrappone a quell’ « esperienza logica del giudizio », a quell’esperienza di una forma variabile xyz, « qualcosa ha una relazione con qualcos’altro », di cui Russell aveva parlato nella Theory of Knowledge come del fondamento per la comprensione del giudizio.9 Lo statuto logico e l’immanenza delle proposizioni – che sono i temi dei quali intendo particolarmente trattare – trovano una illustrazione nell’analisi di McGuinness del Tractatus, là dove egli sottolinea che « ciò che la filosofia cerca di chiarire non può essere detto, ma è mostrato dalle proposizioni ordinarie, che possono essere vere o false » e che « le tautologie sono l’inevitabile risultato o sottoprodotto (inevitable offshoots or by-products) dell’attività di enunciare qualcosa di vero o di falso ».10 In luogo di una forma logica variabile quale xyz nella Theory of Knowledge di Russell, che precederebbe la realizzazione e la comprensione degli enunciati, Wittgenstein conduce la sua analisi filosofica da effettive proposizioni ordinarie – da quello che c’è, ossia dal linguaggio ordinario così come è, e non dunque da un supposto precedente logico (logischer Präzedent),11 al quale siamo sempre tentati di richiamarci e al quale Russell fu tentato di richiamarsi. Nelle proposizioni ordinarie – a partire dalle quali le proposizioni della logica si generano
8
B.F. McGuinness, The So-called Realism of the Tractatus, cit., p. 65. B. Russell, Theory of Knowledge, Archivio Bertrand Russell, McMaster University, p. 181. Russell pubblicò i primi sei capitoli di questo libro sulla rivista « Monist » fra il 1914 e il 1915. Sulle ragioni della mancata pubblicazione, legate ad una discussione accesa con Wittgenstein nel 1913, cfr. l’importante saggio sopra citato di David Pears, The Relation between Wittgenstein’s Picture Theory of Propositions and Russell’s Theory of Judgment ; cfr. anche A.G. Gargani, Il coraggio di essere. Saggio sulla cultura mitteleuropea, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 147-154. 10 B.F. McGuinness, The So-called Realism of the Tractatus, cit., p. 64. 11 Tractatus, prop. 5.525 : « Quel precedente, cui ci si vorrebbe sempre appellare, deve essere già nel simbolo ». 9
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come caso limite – la forma logica è assorbita immanentemente e intransitivamente nel contenuto della proposizione. Affrontando il problema decisivo sull’ontologia del Tractatus, ossia l’esistenza o sussistenza, il Bestehen, degli oggetti, McGuinness osserva che questi oggetti non possono essere identificati né per mezzo di descrizioni definite, né per mezzo di designatori e di definizioni ostensive. Gli oggetti del Tractatus hanno infatti un Bestehen, una sussistenza che è indipendente dai fatti, dagli stati di cose.12 Ma questa loro indipendenza non implica un’ontologia metafisca realistica, perché proprio al contrario gli oggetti del Tractatus sono da considerarsi come termini di confronto e di connessione, nel senso che ogni segno di nome – avente come referente un oggetto – che entrando nelle medesime combinazioni segniche produce i medesimi valori di verità, è il medesimo segno ed ha il medesimo riferimento. Anche da questo punto di vista McGuinness può ristabilire una continuità tematica, ossia la continuità dello stile filosofico di Wittgenstein, quando osserva, che non esiste rottura fra il Tractatus e le Philosophische Untersuchungen dal momento che in entrambe le opere è l’uso a determinare il riferimento, anche se nella seconda l’uso ha un’ampiezza maggiore di quanto abbia nella prima, in cui esso si trova limitato alla classe degli enunciati apofantici. È sulla base di questa analisi che McGuinness respinge le obiezioni di Michael Dummett, secondo il quale il Tractatus finirebbe per escludere una distinzione fra contesti intensionali e contesti estensionali. Sulla scia di Frege, Dummett obbietta la necessità di distinguere fra enunciati contenenti espressioni prive di referenza, che non dicono nulla, e che non sono né veri, né falsi, da enunciati in cui espressioni dello stesso tipo hanno un portatore e risultano veri o falsi. Ma, secondo McGuinness, avere un portatore costituisce precisamente il ruolo semantico del nome nel Tractatus. Dipendono dalla modalità d’uso dei nomi la correttezza e la scorrettezza, il senso o il nonsenso, degli enunciati nei quali i nomi ricorrono. E qui si vorrebbe dire: è la nozione di uso a restituire per altra via quella distinzione di contesti di cui 12
McGuinness, The So-called Realism of the Tractatus, pp.65-6.
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Dummett lamenta la mancanza. « So sagt : “ Sokrates ist identisch ” darum nichts, weil wir dem Wort “ identisch ” als Eigenschaftwort keine Bedeutung gegeben haben (così « Socrate è identico » non dice nulla, perché alla parola “ identico ” quale aggettivo non abbiamo dato alcun significato) » (Tractatus, prop. 5.4733). Ciò su cui bisogna dunque insistere è che i nomi nel Tractatus non possono non avere un portatore e questo precisamente nel senso che i nomi e i rispettivi oggetti sono paradigmi di possibilità di senso, sono oggetti della logica nel senso in cui la logica investiga le condizioni di possibilità del linguaggio. Ed è pertanto in questi termini che McGuinness dichiara : « questo è tutto quello che diciamo quando diciamo che gli oggetti formano la sostanza del mondo. […] Così non dobbiamo pensare al mondo dei riferimenti come ad un magazzino sconfinato e misterioso, come se si trattasse di oggetti che potremmo o meno essere fortunati abbastanza da conoscere durante un’intera vita, perché li incontriamo per caso sul nostro cammino ».13 E precisamente per questa ragione non ha senso domandarsi se i nomi nel Tractatus possono non avere portatore, se gli oggetti sussistono o no. Non ha senso cioè avanzare la domanda sull’esistenza o sussistenza degli oggetti nel Tractatus al di fuori delle condizioni e delle proprietà logiche a cui essi appartengono. Questa concezione tractariana degli oggetti e dei rispettivi nomi come elementi costitutivi di quelle conformazioni articolate che sono i fatti e come fattori di intercambiabilità nei contesti proposizionali salva veritate, esibisce un’analogia, sia pure in un contesto fortemente modificato, con la funzione degli oggetti come termini di confronto, come paradigmi formali di comparazione nella seconda fase dell’opera di Wittgenstein. È proprio per effetto di questa immanenza logica degli oggetti ai nomi che Wittgenstein replica alla sentenza di Frege « jeder rechtmässig gebildete Satz muss einen Sinn haben (ogni proposizione legittimamente formata non può non avere un senso) », che « Jeder mögliche Satz ist rechtmässig gebildet (ogni possibile proposizione è formata legittimamente » (Tractatus, prop. 5.4733). Quelle proprietà che io defini13
Ivi, pp. 69-7.
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sco immanenza e intransitività del linguaggio di Wittgenstein illustrano la circostanza che capire una proposizione, ossia afferrare il suo senso, non significa andare fuori dal linguaggio per sbirciare se le cose e i fatti corrispondono ad essa, perché ogni proposizione, in quanto tale, è la realizzazione effettiva del proprio senso. Non si presenta nel Tractatus l’eventualità di una proposizione di cui rimanga sospesa la condizione di senso. Perciò, giustamente, osserva McGuinness che nella prospettiva del Tractatus « there is no proposition to be understood until there is an understanding of a proposition (non c’è nessuna proposizione da capire finché non c’è la comprensione di una proposizione) ».14 Ogni proposizione è la conseguenza del repertorio delle possibilità logiche che come tali sono tutte le possibilità immanenti al linguaggio e al pensiero. Vale la pena di osservare che ad un semplice effetto di lettura il testo del Tractatus, mentre da un lato presenta tormentose difficoltà esegetiche, dall’altro sembra trasmettere asserzioni quasi come ovvietà o banali tautologie, del tipo « ogni proposizione possibile è legittimamente costruita », come poi nelle Philosophische Untersuchungen « come fai a dire che questa rosa è bianca? Ho imparato l’italiano » e simili. Questo effetto non è marginale, non è un inafferente o un superficiale risvolto percettivo, perché – pur senza costituire un episodio cognitivo – esso fa segno alla specificità dell’analisi logico-linguistica di Wittgenstein, al suo stile filosofico che non adotta una procedura costruttiva, che non edifica una teoria, ma cerca di ricondurre i lettori all’ispezione del simbolismo e al riconoscimento delle condizioni effettive di funzionamento del linguaggio. Come se, per usare un’espressione figurata, Wittgenstein conducesse la sua analisi facendo un passo indietro, anziché avanti ; come se – a fronte delle teorie del linguaggio di altri filosofi e logici – mostrasse di fare un dietrofront. Possiamo continuare su questa linea di ricerca, osservando con McGuinness, nel corso della sua analisi critica del mito o della retorica del realismo ontologico, che se qualcuno domandasse quale oggetto è denotato da un segno ricorrente nella proposizione p, per es. 14
Ivi, p. 69.
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l’oggetto F o l’oggetto G, considerata l’intercambiabilità dei nomi in una medesima forma logica, l’unica risposta sarebbe che per indicarlo o per intenderlo nella sua mente egli deve dirlo.15 Il linguaggio non riflette o non rispecchia combinazioni o aggregazioni di oggetti, ma costituisce combinazioni articolate di oggetti, ossia i fatti, esprimendole e dicendole. Anche sotto questo riguardo noi troviamo una linea di continuità fra il Tractatus e le opere di Wittgenstein della seconda maniera nel senso che le distinzioni, le differenze concettuali così come le analogie, devono essere performativamente costruite per mezzo del linguaggio, anziché essere riconosciute o scoperte attraverso il linguaggio. Gli oggetti del Tractatus risultano essere così per McGuinness le forme di ogni dominio di enti del pensiero, del linguaggio come della realtà. Sono forme del riferimento immanenti alle proprietà logiche della nostra grammatica, ma non hanno sussistenza al di fuori di queste condizioni formali. Perciò gli oggetti del Tractatus non costituiscono i termini di processi o di episodi cognitivi. « Di certo, scrive McGuinness, le nostre proposizioni non sono, in ultima analisi, sulla attività delle nostre menti ; ciò che Wittgenstein sta cercando di sostenere è un punto di vista secondo il quale ciò cui si riferiscono non è nel mondo più di quanto sia nel pensiero o nel linguaggio ».16 Nella sua Theory of Knowledge – che nel 1913 aveva costituito l’occasione di una accesa discussione fra Russell e Wittgenstein – Russell si era posto, come è noto, il problema del fondamento del giudizio. Come fa una persona, un soggetto giudicante a comprendere una proposizione, per esempio del tipo : « Socrate precede Platone » ? Come ha mostrato David Pears, Russell era convinto che la conoscenza dei termini costitutivi della proposizione non fosse sufficiente a spiegare la comprensione di una proposizione. Occorreva un fattore addizionale e Russell riteneva di averlo individuato in una forma proposizionale variabile del tipo xyz, intesa come forma logica del complesso nel quale risultano combinati insieme gli elementi costitutivi della proposizione. Per15 16
Ivi, p. 71. Ivi, p. 72.
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tanto la forma logica generale di un giudizio come, ad esempio, « Socrate precede Platone », si poteva rendere nei termini della formulazione « qualcosa ha una relazione qualsiasi con qualcos’altro ». Questa forma costituiva un oggetto logico che era il termine di una apprensione diretta, (acquaintance), di una conoscenza immediata (immediate knowledge). Russell parlava di una « logical experience » : « vi è certamente qualcosa come “ un’esperienza logica ”, con la quale – scriveva Russell – intendo quel tipo di esperienza immediata, diversa dal giudizio, che è ciò che ci mette in grado di comprendere i termini logici ». « Many such terms have occurred in the last two chapters, for instance, particulars, universals, relations, dual complexes, predicates. Such words are, no doubt somewhat difficult, and are only understood by people who have reached certain level of mental development. Still, they are understood, and this shows that those who understand them possess something which seems fitly described as “ acquaintance with logical objects ”. It is that I now wish to investigate ». Russell assumeva la conoscenza di questa forma logica nei termini dunque di una relazione diretta fra un soggetto e un oggetto logico complesso, come una conoscenza autoevidente (self evident) della verità logica. Trattandosi dell’autoevidenza di una forma logica, « neutral » come la definiva Russell, – per la quale non può sorgere la possibilità della non-verità (untruth), – questa forma logica pur essendo complessa, cioè costituita da una relazione multipla di elementi costitutivi, veniva assunta come un oggetto semplice, e pertanto come l’oggetto di una conoscenza diretta. La cognizione diretta di questa forma costituiva per Russell il fondamento del giudizio e della comprensione delle proposizioni; costituiva inoltre la premessa fondazionale che precede l’inizio del pensiero esplicito sulla logica. « I think it may be shown that acquaintance with logical form is involved before explicit thought about logic begins, in fact as soon as we can understand a sentence […] What we understand is that “ Socrates ” and “ Plato ” and “ precedes ” are united in a complex of the form xRy, where Socrates has the x-place e Plato the y-place. It is difficult to see how we could possibly understand how Socrates and Plato and “ precedes ” are to be combined unless we have had acquaintance with the logical form of the com-
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plex ». Come ha mostrato David Pears, si può interpretare il Tractatus e gli scritti prepatorî dei Tagebücher come un’altenativa critica alla Theory of Knowledge di Russell. Nella proposizione 5.4 Wittgenstein scrive « Hier zeigt es sich, dass es “ logische Gegenstände ”, “ logische Konstante ” (im Sinne Freges und Russells) nicht gibt (qui si mostra che nel senso di Frege e di Russell non vi sono “ oggetti logici ”, “ costanti logiche ”) », e nella prop. 4.441 « Es ist klar, dass dem Komplex der Zeichen “ F ” und “ W ” kein Gegenstand (oder Komplex von Gegenständen) entspricht ; so wenig, wie den horizontalen und vertikalen Strichen oder den Klammern – “ Logische Gegenstände ” gib es nicht (è chiaro che al complesso dei segni “ F ” e “ W ” non corrisponde alcun oggetto, o alcun complesso di oggetti, altrettanto poco quanto alle righe orizzontali e verticali o alle parentesi. Non vi sono oggetti logici) ». Come ha mostrato McGuinness nel saggio sulla ontologia del Tractatus, le proposizioni logiche non sono conoscenze che precedono la formazione e la comprensione delle proposizioni reali, ma sono proposizioni che si ottengono come casi limite dalle proposizioni ordinarie, dalle proposizioni che già abbiamo. E sarà in questo senso che Wittgentein potrà dire nel Tractatus che il linguaggio ordinario, così come esso è, è già ordinato logicamente. Wittgenstein respinge quell’impasto di logica e di epistemologia che costituisce la semantica impura di Russell. In effetti la conoscenza della forma logica – che è una relazione multipla di elementi costitutivi, dunque un oggetto complesso – risultava per Russell l’oggetto di una conoscenza diretta, di una acquaintance, per effetto di un parallelismo con l’epistemologia russelliana dei « sense data » (una terminologia da lui introdotta pochi anni prima nei Problems of Philosophy del 1911) che costituiscono i referenti dei nomi logicamente proprî (logically proper names) nelle costruzioni logiche degli enti fisici e mentali. Essendo l’acquaintance la cognizione diretta, immediata di un dato, la sua applicazione alla forma logica xyz, « qualcosa ha una relazione con qualcos’altro », aveva l’effetto di rendere semplice e indiviso quell’oggetto logico che peraltro doveva risultare composto, dovendo costituire il fondamento della bipolarità della proposizione, ossia dell’articolazione del giudizio nei due valori del vero e del falso. Mediante la
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sua semantica impura, Russell assumeva come un oggetto logico semplice la forma di un complesso. Già nelle Notes on Logic Wittgenstein commentava con ironia la tesi russelliana osservando che gli oggetti logici complessi di Russell « dovrebbero avere l’utile proprietà (the useful property) di essere composti (compounded), e con essa dovrebbero combinare la gradevole proprietà (the agreable property) di essere trattati come dei semplici (simples). Ma ciò basta a renderli inservisibili come tipi logici (forme), perché allora vi sarebbe significanza nell’asserire d’un semplice che sia complesso. Ma una proprietà non può essere un tipo logico ».17 La logica, secondo Wittgenstein, non può dipendere dalla conoscenza di un fatto qualsiasi, dal momento che la logica è la condizione formale della possibilità di formare e comprendere una proposizione cognitiva suscettibile di essere vera o falsa ; ossia la forma logica – concetto centrale nel Tractatus – è la possibilità della struttura del fatto che costituisce un episodio conoscitivo. « Se l’esistenza della proposizione soggetto-predicato – scrive Wittgenstein nei Tagebücher – non mostra quanto è necessario, questo potrebbe allora essere mostrato solo dall’esistenza d’un qualunque fatto particolare di quella forma. E la conoscenza di un tale fatto non può essere essenziale per la logica ».18 Wittgenstein metteva in discussione i concetti russelliani di « self-evidence » e di « logical experience » in quanto è la grammatica logica del nostro linguaggio che provvede a impedire qualunque errore. Nella prop. 5.4731 del Tractatus Wittgenstein scrive che « Das Einleuchten, von dem Russell so viel sprach, kann nur dadurch in der Logik entbehrlich werden, dass die Sprache selbst jeden logischen Fehler verhindert. – Dass die Logik a priori ist, besteht darin, dass nicht unlogisch gedacht werden kann (dell’evidenza, della quale Russell parlò tanto, si può fare a meno in logica solo in quanto il linguaggio stesso impedisca ogni errore logico. – Che la logica sia a priori consiste nell’impossibilità di pensare illogicamente) ». Nel saggio sul cosiddetto realismo del Tractatus McGuinness riassume
17 Wittgenstein, Notes on Logic, in Id., Notebooks 1914-1916, Blackwell, Oxford 1969, p. 99. 18 Wittgenstein, Notebooks 1914-1916, cit., p. 3.
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efficacemente la posizione di Wittgenstein : « nel linguaggio, e nel pensiero, è già contenuta la possibilità di tutti gli oggetti possibili. Tutte le forme logiche sono logicamente possibili nell’àmbito del linguaggio, nell’àmbito del pensiero. Nessuna indagine o esplorazione separata della realtà è concepibile. Quando dico che con il linguaggio possiamo fare tutto quello che vogliamo, intendo banalmente che qualunque cosa facciamo con gli elementi del linguaggio o del pensiero avrà le conseguenze logiche che in effetti ha ». 19 Nel volume Raffigurazione e forma nel Tractatus di Wittgenstein McGuinness scrive che « gli oggetti di cui parla Wittgenstein non sono entità indipendenti dal linguaggio, di cui possiamo avere o ipotizzare una conoscenza precedente all’acquisizione del linguaggio ».20 In un saggio significativamente intitolato The Future of Philosophy (1931) Moritz Schlick coglieva lucidamente l’importanza della distinzione wittgensteiniana fra ricerca logicoformale del senso della verità ed esperienza cognitiva della verità. Era sua opinione che il futuro della filosofia dipendesse da questa distinzione tra la scoperta del senso e la scoperta della verità.21 Ciò che Russell aveva ripartito, diviso fra due mondi, quello platonizzante della forma trascendente e quello delle proposizioni ordinarie del nostro linguaggio, Wittgenstein provvedeva a ricongiungere in un unico mondo. L’enunciato «aRb» non designa un oggetto logico, bensì che a stia in una relazione con b dice che aRb (cfr. prop. 3.1432 del Tractatus). E in questo senso emerge l’immanenza del linguaggio, ossia la condizione per cui è all’interno della struttura delle proposizioni che dobbiamo scoprire la forma logica, ossia la possibilità di senso degli enunciati, senza far ricorso ad alcun apparato cognitivo esterno, ad una forma trascendente. Il 5 novembre 1914 nei suoi Tagebücher Wittgenstein annota, come abbiamo visto sopra, che « so stellt der Satz den Sachverhalt gleichsam aud eigene Faust dar (così la proposi19
McGuinness, The So-called Realism of the Tractatus, cit., p. 70. McGuinness, Raffigurazione e forma nel Tractatus di Wittgenstein, Cadmo, Fiesole (Firenze), 2001, p. 19. 21 Cfr. M. Schlick, Philosophical Papers, Reidel, Dordrecht 1979, vol. ii, p. 173. 20
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zione rappresenta lo stato di cose per così dire di proprio pugno) ».22 Alla base di questa asserzione è la logica, ossia la natura stessa dei segni naturalmente necessari ad esprimere. « […] in der Logik drücken nicht wir mit Hilfe der Zeichen aus, was wir wollen, sondern in der Logik sagt die Natur der naturnotwendigen Zeichen selbst aus (nella logica non siamo noi ad esprimere, con l’aiuto dei segni, ciò che vogliamo ; nella logica è la natura stessa dei segni naturalmente necessari ad esprimere) » (Tractatus, prop. 6.124). L’immanenza del linguaggio logico arriva al punto, nel Tractatus, da rendere superflue o dispensabili le stesse notazioni logiche canoniche che possono essere surrogate o sostituite dall’ispezione dei segni, dall’ « Ansehen ». « Daraus ergibt sich, dass wir auch ohne die logischen darüber ankommen können, da wir ja in einer entsprechenden Notation die formalen Eigenschften der Sätze durch das blosse Ansehen dieser Sätze erkennen können (ne risulta che possiamo far anche senza le proposizioni logiche, poiché, in una notazione rispondente, possiamo riconoscere le proprietà formali delle proposizioni per mera ispezione delle proposizioni stesse) » (prop. 6.122). Se p e q nell’espressione p ⊃ q · p costituiscono una tautologia, risulta evidente che q segue da p. Che q segue da p ⊃ q · p lo si riconosce dall’ispezione di queste proposizioni, ma lo possiamo riconoscere mediante la notazione che esibisce una tautologia, ossia «p ⊃ q · p : ⊃ : q ». In altri termini, la notazione logica è uno strumento per facilitare il riconoscimento delle proprietà formali dei simboli. La proposizione parla di proprio pugno e non sulla base di un fondamento esterno, precostituito e trascendente. Nella prop. 5.525 del Tractatus scrive Wittgenstein : « Jener Präzedenzfall auf den man sich immer berufen möchte, muss schon im Symbol selber liegen (quel precedente, al quale ci si vorrebbe sempre appellare, deve essere già nel simbolo stesso) ». Questa attitudine teorica di Wittgenstein verso l’immanenza del linguaggio coincide con quella che anche negli scritti della seconda maniera, Wittgenstein conduce una battaglia contro quella che egli chiama, in The Brown Book, « the logic of the double », la logica del doppio, ossia contro le procedure della duplicazione così frequenti in filo22
Wittgenstein, Notebooks 1914-1916, cit., p. 26.
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sofia. Questo tema ispira la polemica wittgensteiniana nelle Philosophische Bemerkungen contro la dottrina degli atti intenzionali di Russell in Analysis of Mind . Nelle « Lectures » a Cambridge del 1931, Wittgenstein scrive che « il simbolo è in un certo senso contenuto in se stesso (self-contained), lo si afferra come un tutto (as a whole). Esso non indica qualcosa al di fuori di sé come se fosse un’ombra (it does not point to something outside itself in a shadowy way) ».23 Contro la logica del doppio, contro le tendenze alla duplicazione, in The Brown Book Wittgenstein rivendica l’immanenza del significato di un enunciato al contenuto dell’enunciato, « Ciò che chiamiamo : “ comprendere un enunciato ” è, in molti casi, molto più simile al comprendere un tema musicale di quanto penseremmo […] Comprendere un enunciato significa afferrare il suo contenuto, ed il contenuto dell’enunciato è nell’ enunciato ».24 Riconoscere un volto in un disegno, una svastica in uno scarabocchio, una proposizione in una stringa di segni non significa confrontare due oggetti visuali : « vedere nella figura una svastica – scrive Wittgenstein in The Brown Book – non significa vedere questo o quello, vedere in una cosa qualcos’altro, ove, essenzialmente intervengano nel processo due oggetti visuali. – Analogamente, vedere nella prima figura un cubo non significa “ prenderla per un cubo ” ».25 Anche la polemica di Wittgenstein contro il mentalismo si iscrive nella polemica insistente che egli conduce contro la logica del doppio laddove egli analizza il fenomeno del riconoscere una proposizione in una stringa di segni, una figura in uno scarabocchio e simili. Anche qui dunque riconosciamo una continuità tematica fra il primo e il secondo Wittgenstein. Ma appunto perché il linguaggio parla « auf eigene Faust », di proprio pugno, e pertanto non è richiesta alcuna procedura di duplicazione per spiegare il senso delle proposizioni, Wittgenstein perviene alla conclusione, illustrata da McGuinness,26 che il problema cardine della filosofia consi23 Wittgenstein’s Lectures. Cambridge 1930-32, Blackwell, Oxford 1980, p. 43. 24 Wittgenstein, Libro Blu e Libro Marrone, Einaudi, Torino 1983, p. 213. 25 Ivi, p. 210. 26 McGuinness, The So-called Realism of the Tractatus cit., p. 63.
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ste nella circostanza il senso delle proposizioni può essere gezeigt, mostrato, ma non gesagt, detto o espresso esplicitamente. In quanto la proposizione parla di proprio pugno, essa non può descrivere o illustrare come essa riesce a fare questo, cioè a raffigurare la realtà, lo può appunto soltanto mostrare. Il tema dell’ineffabile, dell’indicibile milita contro la logica del doppio e assume un’importanza che è pari al compito del lavoro filosofico. Il tema del mostrare porta con sé l’esclusione da parte di Wittgenstein di metadiscorsi, di metalinguaggi o di discorsi del second’ordine, salvo ammetterli provvisoriamente per dichiararli poi privi di senso, come viene affermato nell’ultima proposizione del Tractatus, « Wovon man nicht sprechen kann, darüber muss man schweigen (su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere) ». In Forma e rappresentazione nel Tractatus di Wittgenstein 27 McGuinness formula un’obiezione nei confronti del rifiuto wittgensteniano dell’intensionalità, che egli attribuisce all’impossibilità di analizzare il senso delle proposizioni, che pertanto può essere soltanto mostrato. McGuinness considera alquanto arbitraria l’esclusione dell’intensionalità nelle proposizioni « A crede che p », « A pensa p », « A dice che p » (Tract. 5.542).28 Personalmente ho qualche dubbio su questa tesi di McGuinness. Da un lato, come lo studioso inglese sa benissimo, il rifiuto di Wittgenstein dell’intensionalità risale alla circostanza strutturale che nella forma proposizionale generale una proposizione si trova in un’altra solo come base dell’operazione di verità (cfr. Tractatus, prop. 5.54). Ne segue che enunciati della forma « A crede che p », « A pensa che p » e simili si possono analizzare come coordinazioni di fatti, e non come coordinazione di un fatto e di un oggetto (cfr. prop. 5.542). Questo significa che ammettere l’intensionalità, significherebbe ammettere la relazione fra un soggetto che giudica, che pensa da un lato e dall’altro la proposizione pensata, giudicata come una relazione fra un’entità coesa e unitaria (il soggetto) e la proposizione assunta come una molteplicità di parti, come un fatto composto. Un passo del genere significherebbe anche ricadere in quello che Witt27 McGuinness, Forma e rappresentazione nel Tractatus di Wittgenstein, cit., pp. 24 e 59. 28 Cfr. ivi, pp. 63-71.
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genstein considerava l’errore di Russell. Per questo Wittgenstein asserisce che « A crede che p », « A pensa che p » e simili sono della forma « “ p ” dice p » (prop. 5.542). Vi sono, a mio giudizio, altre ragioni a favore della coerenza dell’esclusione dell’intensionalità nell’opera di Wittgenstein. Se il pensiero, l’attività del giudicare consistono nell’uso del simbolismo linguistico, nelle connessioni formali dei segni proposizionali, – e dove altrimenti? – il soggetto che pensa, il soggetto che giudica diventa dispensabile, può essere lasciato fuori come il residuo inutile di una metafisica inservibile alla luce del « linguistic turn » operato da Wittgenstein. Del resto, nel Tractatus e negli scritti preparatori, negli scritti della fine degli anni Venti e nel corso degli anni Trenta (inclusi i testi dei colloqui di Wittgenstein con alcuni esponenti del Wiener Kreis, editi da B.F. McGuinness),29 dalle Lectures a Cambridge, nelle Philosophische Bemerkungen fino alle Philosophische Untersuchungen, in vario modo e su differenti argomenti, Wittgenstein continua a condurre la sua revisione critica dell’intensionalità e della metafisica della soggettività che costituisce anche la continuazione della sua polemica contro Russell. Nella direzione di questa ricerca rientrano infatti : i) la critica degli atti intenzionali e degli atteggiamenti proposizionali nelle Philosophische Bemerkungen, in polemica con Analysis of Mind di Russell, contro il dispositivo a tre fattori, ossia la proposizione che esprime la congettura, la previsione, l’aspettativa, l’evento che si verifica e il soggetto che esprime la « satisfaction » nel confronto fra i primi due ; ii) il superamento della dicotomia fra Hohlform e Vollform nella risoluzione linguistica dell’atto intenzionale ; iii) la polemica contro la logica del doppio che implicava un soggetto responsabile del riconoscimento del senso del segno proposizionale, fino alle Philosophische Untersuchungen, dove viene scritto « In der Sprache berühren sich Erwartung und Erfüllung (nel linguaggio aspettativa e soddisfacimento si toccano) ».30 Nella revisione critica dell’intensionalità Wittgenstein ha compiuto la svolta decisiva di una nuova antro29 Cfr. Wittgenstein und der Wiener Kreis, aus dem Nachlass, herausgegeben von B.F. McGuinness, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1967. 30 Cfr. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Blackwell, Oxford 1953, Erster Teil, § 445.
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pologia filosofica. A mio parere, il tema wittgensteniano del solipsismo (Tractatus, propp. 5.62-5.63) che viene toccato da McGuinness nel suo saggio The Mysticism of the Tractatus,31 conferma la dissoluzione del soggetto metafisico; infatti, il solipsismo consiste nella circostanza che « i limiti del linguaggio significano i limiti del mio mondo ». Ma questo limite è segnato dai limiti del linguaggio logico ; «la logica – dice infatti Wittgenstein nel Tractatus (prop. 5.61) – riempie il mondo ; i limiti del mondo sono anche i suoi limiti ». Possiamo dire che il solipsismo wittgensteiniano è la conseguenza lineare della sua concezione della logica. In effetti, come sottolinea McGuinness nel saggio sul misticismo di Wittgenstein,32 l’esperienza che è necessaria per la logica coincide con quella in cui consiste das Mystische : entrambe esprimono un atteggiamento verso il mondo, « an attitude toward the existence of the world ». L’analisi di McGuinness consente di stabilire un nesso effettivo, non semplicemente letterario o allusivo, fra etica e logica nel Tractatus. Detto in breve, come la logica dischiude lo spazio di tutte le possibilità ed è indipendente da ogni fatto specifico, così l’etica si origina nell’atteggiamento verso il mondo come un tutto. « Il mondo è il mio mondo », può dire il soggetto che è in armonia con la realtà, che è conciliato con il mondo considerato come un tutto. Ma il mondo della sfera etica è lo stesso mondo unitario aperto dalle possibilità della logica. In questo senso etica e logica si connettono. « In logic – scrive Brian – a correct apprehension of the general form of a proposition, which is also the general form of reality, leads to contentment with what can be said ; in mysticism the right feeling about the existence of the world […] leads to an acceptance of the sort of the world that there is, so that we cease to ask what the purpose of life or of the world is ».33 L’uomo felice, l’uomo di buona volontà, « no longer needs to have any purpose except to live ; that is to say, he is in agreement with the world ».34 Il mondo è il mio 31 McGuinness, Mysticism of the Tractatus, in « The Philosophical Review », vol. lxxv, n. 3, 1966, p. 307. 32 Cfr. ivi, pp. 313-14. 33 Ivi, p. 315. 34 Ivi, p. 316.
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mondo dice Wittgenstein nei Notebooks : «Meine Welt ist die erste und einzige ! (il mio mondo è il primo e l’unico !) ».35 Anche qui Wittgenstein, contro la logica delle duplicazioni, propone la sua visione immanente che viene estesa anche all’etica ; la ricompensa etica o la punizione devono risiedere nell’azione stessa : « Es muss zwar eine Art von ethischen Lohn und ethischer Strafe geben, aber diese müssen in der Handlung selbst liegen (dev’esservi sì una specie di premio etico e di pena etica, ma questi non possono non essere nell’azione stessa) » (Tractatus, prop. 6.422). Analogamente, il tema dell’immanenza si ripropone nell’esigenza di Wittgenstein di vivere nel presente che è parte essenziale dell’atteggiamento etico : « Nur wer nicht in der Zeit, sondern in der Gegenwart lebt, ist glücklich (solo chi vive non nel tempo, ma nel presente, è felice) ».36
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Wittgenstein, Notebooks 1914-1916, cit., p. 82. Ivi, p. 74.
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Brian McGuinness Università di Siena
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AFTERWORD
To be the subject of an audit at the end of one’s academic career is chastening as well as flattering. How little has been done of what one hoped, how much remains still to be said for which one has not quite found the words. The way is much smoothed, however, when all happens among friends, who have accompanied one through the various phases of that career. Four have contributed to the present volume : David Pears, who guided my novice steps when I was an undergraduate and he just graduated, Aldo Gargani, for whom I had the congenial task of indicating how to enter into the world of Oxford philosophy, Rudolf Haller, with whose help I became, or liked to think of myself as, an honorary Austrian, and Antonia Soulez, who with her husband (sadly lost to us) gave me a different and French view of our common objects of study. I remember many a meeting in the Collège internationale de Philosophie, where the audience (not of course she herself) struggled to see Wittgenstein through quizzical eyes borrowed from Jacques Lacan. Nor should I forget the organizers of the symposium here recorded, Romano Romani and Alberto Olivetti, who did so much to make me welcome in Italy, where at or towards the end I settled, now myself under the guidance of Aldo Gargani, to whose research group along with Rosaria Egidi and others I had been an occasional visitor. I am grateful for the kind remarks in this volume, while aware that my debts to the writers are much greater than they allow to appear. What is here presented to the reader is in fact a casting up of accounts not particularly on my own contribution (interest in which will be slight), but rather on the half century that most of the symposiasts have devoted to philosophy and its history and especially to the figure of Ludwig Wittgenstein. He is a figure with whom, as Michael Dummett has said, we
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POSTFAZIONE
Essere l’oggetto di un bilancio alla fine della propria carriera accademica è tanto una punizione quanto una lusinga. Quanto poco è stato fatto di ciò che si sperava di fare, quanto ancora rimane da dire riguardo a ciò per cui non si sono ancora trovate le parole. Ma il compito è molto più semplice quando tutto ciò avviene tra amici che hanno accompagnato le varie fasi di questa carriera. Quattro di questi amici hanno contribuito a dare vita al presente volume : David Pears che, appena laureato, ha guidato i miei primi passi di novizio quando ero ancora studente, Aldo Gargani, per il quale ho avuto il compito per me congeniale di mostrare come entrare nel mondo della filosofia di Oxford, Rudolph Haller, grazie al quale divenni un austriaco onorario, o comunque così mi piace pensare di me, e Antonia Soulez, che insieme al marito (purtroppo scomparso) mi ha dato una visione diversa, francese, dei nostri comuni oggetti di studio. Ricordo molti incontri al Collège Internationale de Philosophie, dove il pubblico (non lei naturalmente) si sforzava di vedere Wittgenstein attraverso gli occhi estranianti presi in prestito a Jacques Lacan. Né potrei dimenticare gli organizzatori del simposio messo qui agli atti, Romano Romani e Alberto Olivetti, che così tanto hanno fatto per farmi sentire a casa in Italia, dove alla fine, o verso la fine, mi sono stabilito, ora sotto la guida di Aldo Gargani, del cui gruppo di ricerca, insieme a Rosaria Egidi e altri, ero stato un ospite occasionale. Sono grato per le gentili osservazioni contenute in questo volume, e sono allo stesso tempo consapevole che i miei debiti verso gli autori sono molto più grandi di quanto essi lascino apparire. Ciò che qui viene presentato al lettore è infatti una raccolta di saggi che concernono non tanto il mio contributo (per cui l’interesse sarà limitato), quanto piuttosto il mezzo
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have still to come to terms. It is well that we do so in several languages and from several points of view, since his thought was also difficult to localize : he wrote in German but his problems were those he felt in an English environment. There is always something struggling to be expressed in what he says and a variety of approaches is required if we are to understand him. This fact inspired the title of a recent collection of my essays.1 I think myself lucky to have been for so long in Oxford and at the focus of much interaction between different traditions, from several of which Gilbert Ryle steered visitors and graduate students in my direction. In this volume it cannot be my role to answer or even comment on all the papers in extenso, but I may claim the privilege of the occasion, the Narrenfreiheit, to comment in an unbuttoned manner on what strikes me most about them. Gargani’s introduction is a masterly description of the English environment I have spoken of. It is natural that he spends more time discussing Oxford, important in all our lives and (from the size of its philosophy school) the powerhouse of the subject in England for at least the first half of the last century. Yet Cambridge was Wittgenstein’s point of origin as a philosopher. It was there (he told David Pinsent) that he began systematic reading of philosophy : « he expresses the most naïve surprise that all the philosophers he once worshipped in ignorance are after all stupid and dishonest and make disgusting mistakes ! ».2 This is not to minimize his earlier acquaintance with Boltzmann, Hertz, Schopenhauer and Frege: it was they who led him to the point where he saw that there were philosophical problems to be solved (or, as we know) dissolved. Indeed, sent as he was by Frege, he came to Cambridge precisely because of the reaction against Idealism there, which was different from that in Oxford to the extent that it was married to the ideas of Frege and of the early phenomenologists. Thus the first thing we find Wittgenstein congratulating Russell on is the Theory of Descriptions, which comes precisely from that stable.3 1
Approaches to Wittgenstein, Routledge 2002 (hereafter Approaches). A Portrait of Wittgenstein as a Young Man, ed. G.H.von Wright, Blackwell 1990, p.5. 3 See on this point the discussion of the motivation of the Theory of 2
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secolo che la maggior parte dei partecipanti a questo convegno ha dedicato alla filosofia e alla sua storia, e in particolare alla figura di Ludwig Wittgenstein. Wittgenstein è una figura con cui, come ha detto Michael Dummett, dobbiamo ancora scendere a patti. Ed è giusto che questo sia fatto in molte lingue e da molti punti di vista, poiché il suo stesso pensiero era difficile da localizzare : scriveva in tedesco ma i problemi erano quelli che avvertiva nell’ambiente inglese. In ciò che dice c’è sempre qualcosa che lotta per venire espresso ed è necessaria una varietà di approcci se vogliamo capirlo. Proprio questo fatto ha ispirato il titolo di una raccolta recente di miei saggi.1 Mi considero fortunato di essere stato così a lungo a Oxford, al centro di molte interazioni tra differenti tradizioni, per molte delle quali Gilbert Ryle indirizzò visitatori e laureati verso di me. In questo volume il mio ruolo non può certo essere quello di chi risponde o perfino commenta tutti i contributi in extenso, ma posso arrogarmi il privilegio dell’occasione, la Narrenfreiheit, di commentare in maniera informale ciò che di tutti i contributi più mi ha colpito. L’introduzione di Gargani è una descrizione magistrale dell’ambiente inglese di cui ho parlato. È naturale che egli dedichi più tempo a discutere di Oxford, così importante in tutte le nostre vite e (per l’importanza della sua scuola filosofica) fonte principale di ricerca in Inghilterra per almeno la prima metà dell’ultimo secolo. Tuttavia era stata Cambridge il luogo di origine di Wittgenstein come filosofo. È stato lì (come disse a David Pinsent) che iniziò a leggere sistematicamente di filosofia : « esprime la più ingenua sorpresa scoprendo che tutti i filosofi che egli aveva una volta venerato nell’ignoranza erano dopotutto stupidi e disonesti e facevano errori disgustosi ! ».2 Questo non significa minimizzare la sua precedente conoscenza di Boltzmann, Hertz, Schopenhauer e Frege: sono stati loro a condurlo al punto da cui vide che c’erano problemi filosofici da risolvere o (come sappiamo) da dissolvere. Infatti, su consiglio di Frege, giunse a Cambridge proprio a causa della reazione contro l’Idealismo che qui si stava svi1
Approaches to Wittgenstein, Routledge 2002 (d’ora in poi Approaches). A portrait of Wittgenstein as a Young Man, ed. G.H. von Wright, Blackwell 1990, p. 5. 2
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196 Ich will nur noch sagen, daß Deine Theorie der “ Descriptions ” ganz zweifellos richtig ist, selbst wenn die einzelnen Urzeichen darin ganz andere sind als Du glaubtest. I only want to add that your theory of descriptions is quite certainly correct, even though the individual primitive signs in it are not at all the ones you thought. Letter to Russell, November-December 1913
What exactly he had in mind at the time we cannot tell, but the qualification is valid for his work in the Tractatus, which, as Gargani says, does not present a realistic ontology of objects or particulars. This is one of the arguments in the collection of my papers already referred to, 4 in this case largely inspired by the work of Hidé Ishiguro. This issue brings us to the heart of the project that became the Tractatus. Frege had sent Wittgenstein to Russell to learn what book to write and in the course of that discipleship it was resolved that he should provide a substitute for the first eleven chapters of Principia Mathematica. From his M.A. thesis onwards – we see stages of it in Notes on Logic and Notes dictated to G.E. Moore – he set out to show how few assumptions were necessary for the system of logic developed by his two masters. If I am right about the further development of his work in the first years of the War he produced by 1916 a “ Tractatus ” with the logical core of our Tractatus but largely without the remarks on mystical and ethical topics. The final work (with the additions made from 1917-19) was justly entitled Logisch-philosophische Abhandlung, being a dismantling of philosophy by logical means: for the English publication Wittgenstein indignantly rejected the title “ Philosophical Logic ”, which he regarded as nonsense – it also gets things exactly the wrong way round. Frege did not understand the work, when he was sent a copy, but he persisted in the hope that he might learn someDescriptions in Michael Dummett, Origins of Analytical Philosophy, Duckworth 1993, p. 81. Behind “ On Denoting ” (Mind 1905) in which Russell propounds that theory, there is also Russell’s « Review of Meinong’s Theory of Complexes and Assumptions », Mind 1904. 4 “ The supposed Realism of the Tractatus ”, Approaches, pp.82-94.
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luppando e che era diversa da quella di Oxford, al punto da essere coniugata all’idea di Frege e dei primi fenomenologi. Così, la prima cosa di cui Wittgenstein si congratula con Russell è la sua teoria delle descrizioni, che proviene proprio da quella scuderia.3 Ich will nur noch sagen, daß Deine Theorie der “ Descriptions ” ganz zweifellos richtig ist, selbst wenn die einzelnen Urzeichen darin ganz andere sind als Du glaubtest. Voglio solo aggiungere che la tua teoria delle descrizioni è certamente corretta, anche se i segni primitivi individuali in essa non sono assolutamente quelli che pensavi. Lettera a Russell, Novembre-Dicembre 1913.
Non sappiamo che cosa avesse esattamente in mente in questo periodo, ma la riserva implicita è valida anche per il lavoro svolto nel Tractatus che, come dice Gargani, non presenta un’ontologia realista di oggetti o particolari. Questo è un argomento, della mia raccolta di saggi, in gran parte ispirato dal lavoro di Hidé Ishiguro.4 Questa questione ci conduce al cuore del progetto che è poi diventato il Tractatus. Frege aveva mandato Wittgenstein da Russell per capire quale libro scrivere e nel corso di quell’apprendistato divenne chiaro che avrebbe dovuto fornire un sostituto dei primi undici capitoli dei Principia Mathematica. Dalla sua tesi di dottorato in poi – se ne vedono gli sviluppi attraverso Notes on Logic e Notes dictated to G.E. Moore – si prefisse di mostrare quante poche assunzioni fossero necessarie per il sistema di logica sviluppato dai suoi due maestri. Se ho ragione riguardo l’ulteriore sviluppo del suo lavoro nei primi anni della guerra, entro il 1916 Wittgenstein compose un ‘ Tractatus ’ con il nucleo logico del nostro Tractatus, ma in larga parte senza le osservazioni sul 3 Vedi su questo punto la discussione sui motivi della Teoria delle Descrizioni in Michael Dummett, Origins of Analytical Philosophy, Duckworth 1993, p. 81. Oltre “ On denoting ” (Mind 1905) dove Russell propone tale teoria, c’è anche Russell “ Review of Meinong’s Theory of Complexes and Assumptions ”, Mind 1904. 4 “ The Supposed Realism of the Tractatus ”, in Approaches, pp. 82-94.
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thing from Wittgenstein : from their long discussions (he wrote) he had come to know a man who sought the truth as he himself did, though in part by other paths.5 He criticized particularly the lack of definitions or the circularity respecting key terms drawn from ever yday language, such as “ fact ”, “ state of affairs ”, “ object ”, “ being the case ”. The terminology is typical of the phenomenological school and I have described elsewhere 6 how it may have been derived from the work of Adolf Reinach, pupil of Husserl and mentor of Edith Stein. But its use by Wittgenstein is largely rhetorical. The account given is circular in that neither objects and Sachverhalte on the one hand nor elementary propositions and names on the other are independently identifiable in practice. They are brought together to cover in the most satisfactory way the features of propositions required for the construction of “ Logic ”, as conceived by Frege, Russell and Wittgenstein. This was the task that the older men looked to the younger to perform or assist in performing. To eliminate all questionable axioms or presuppositions and yet establish the existence of the material conditions, the ontological conditions, if you will, that were necessary for the truth of logic and the analytic character of mathematics or most of it. Wittgenstein, who always sought to transcend a problem rather than to resolve it in the terms in which it was posed, undertook instead to eliminate all axioms and all ontological conditions. To put it very summarily : the system (thought, language, reality) was to be self-guaranteeing and so the account of it was bound to be circular. Concretely, this comes out in ways such as the following. There are no logical objects as Russell once thought. In particular numbers are not objects. No assumption that there are such and such or so and so many objects or relations of such and such complexity in the world is needed. Instead we have his own ontology, which is revealed in the end as a myth. His objects are similar to the material points of Hertz – and like those are pure5 « Und ich habe in langen Gesprächen mit Ihnen einen Mann kennen gelernt, der gleich mir nach der Wahrheit gesucht hat, z. Tl auf andern Wegen » (Letter from Frege to Wittgenstein of 16.9.1919). 6 Approaches, p. 171.
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mistico e sull’etica. L’opera finale (cui vennero fatte delle aggiunte tra il 1917 e il 1919) fu giustamente intitolata Logischphilosophische Abhandlung, trattandosi di uno smantellamento della filosofia con strumenti logici : per l’edizione inglese, Wittgenstein rifiutò con indignazione il titolo di “ Philosophical Logic ”, che egli considerava un nonsenso – e per giunta convince esattamente del contrario. Frege non capì il lavoro quando ne ricevette una copia, ma ha continuato a sperare di poter imparare qualcosa da Wittgenstein : nelle loro lunghe discussioni (egli scrisse) era venuto a contatto con un uomo che ricercava la verità come lui stesso faceva, anche se in parte per altre vie.5 Frege criticava particolarmente la mancanza di definizioni o la circolarità riguardante i termini chiave tratti dal linguaggio quotidiano come ‘ fatto ’, ‘ stato di cose ’, ‘ oggetto ’, ‘ essere il caso ’. La terminologia è tipica della scuola fenomenologica e ho descritto in altra sede 6 come può essere stata derivata dal lavoro di Adolf Reinach, allievo di Husserl e mentore di Edith Stein. Ma l’impiego che ne faceva Wittgenstein è largamente retorico. La spiegazione che viene fornita è circolare nel senso che né gli oggetti né i Sacheverhalte da un lato, né le proposizioni elementari né i nomi dall’altro, sono in pratica identificabili indipendentemente. Queste componenti sono messe insieme per garantire, nel modo più soddisfacente, le proprietà delle proposizioni richieste per la costruzione della ‘ Logica ’, come era concepita da Frege, Russell e Wittgenstein. Questo era il compito che i più vecchi speravano il più giovane potesse (o li aiutasse a) realizzare: eliminare tutti gli assiomi o i presupposti discutibili e tuttavia stabilire l’esistenza delle condizioni materiali, le condizioni ontologiche, se si vuole, necessarie alla verità della logica e al carattere analitico della matematica o della maggior parte di essa. Wittgenstein, che cercava sempre di trascendere un problema piuttosto che risolverlo nei termini in cui era stato posto, si impegnò invece ad eliminare tutti gli assiomi e tutte 5 « Und ich habe in langen Gesprächen mit Ihnen einen Mann kennen gelernt, der gleich mir nach der Wahrheit gesucht hat, z. Tl auf andern Wegen » (Lettera da Frege a Wittgenstein del 16.9.1919). 6 Approaches, p. 171.
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ly theoretical objects, assumed to exist only as required to represent the states of affairs we wish to represent but not or not necessarily identifiable by themselves. The possibilities of combination of names in sentences mirror exactly (and, we may say, necessarily) the possibilities of combination of objects in states of affairs. As Hertz dispenses with the notion of force, so Wittgenstein dispenses not only with the logical objects we have already mentioned but also with all connexion between distinct states of affairs such as causality might seem to require. The question is whether this can serve as a theory of meaning. Instead of tying language to the world by commencing with objects identified by ostension or otherwise and building up propositions (Bilder or pictures in Hertzian terminology), we find that the nature of the world is revealed to us only in the understanding of propositions. Gargani is therefore right to stress the linguicentric character of the Tractatus, but we must also see that the study of the meaningfulness and truth of propositions in language is identical with that of possibility and reality in the world. It is a basic conviction of Wittgenstein’s that the meaningfulness of one proposition can never depend on the truth of another (TLP 2.0211) and the generalized version of this is that no experience of anything’s being the case is necessary for the understanding of logic, but only the experience that something is – « that, however, is not an experience » (TLP 5.552). Logic (he says, but it is true of language generally) is prior to the “ How ” but not to the “ What ” (ibid.). What this means is that we are already launched in language (or, if you will, in the world) when we make any inquiry, so that the idea of an explanation of how we come to speak or think (I mean an explanation of the logic of this not of the physiology) is incoherent. We are both blessed by and limited to a linguistic ability to understand the sense of propositions. This involves our knowing that in the end the proposition will be either true or false and that it will be rooted in propositions of the sort that we can in principle know to be true or false. The complexity of the proposition we can implicitly know even if we can never or not usually present a complete analysis and that complexity, taken together with our use of the lan-
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le condizioni ontologiche. Per dirla in breve: il sistema (pensiero, linguaggio, realtà) doveva garantirsi da sé e conseguentemente la sua descrizione era destinata ad essere circolare. Concretamente questo si esplicita in modi come il seguente. Non ci sono oggetti logici come aveva pensato una volta Russell. In particolare i numeri non sono oggetti. Non è richiesta alcuna assunzione che vi siano nel mondo tali e tal’altri oggetti o oggetti così numerosi o relazioni di tale e tanta complessità. Abbiamo invece l’ontologia di Wittgenstein, che alla fine si rivela un mito. I suoi oggetti sono simili ai punti materiali di Hertz – e come questi sono oggetti puramente teorici, l’esistenza dei quali è postulata soltanto per rappresentare gli stati di cose che noi desideriamo rappresentare ma che non sono, o non sono necessariamente, identificabili per se stessi. Le possibilità di combinazioni dei nomi negli enunciati rispecchiano esattamente (e, potremo dire, necessariamente) le possibilità di combinazioni degli oggetti negli stati di cose. Allo stesso modo in cui Hertz elimina la nozione di forza, così Wittgenstein elimina non solo gli oggetti logici che abbiamo menzionato, ma anche tutte le connessioni tra stati di cose distinti che potrebbe sembrare la causalità richieda. La questione è se questo possa servire come una teoria del significato (meaning). Invece di legare il linguaggio al mondo cominciando con oggetti identificati ostensivamente o in altro modo e costruire proposizioni (Bilder o immagini nella terminologia di Hertz), troviamo che la natura del mondo si rivela a noi solo nella comprensione delle proposizioni. Gargani ha quindi ragione nel sottolineare il carattere linguocentrico del Tractatus, ma noi dobbiamo anche riconoscere che lo studio delle condizioni di significato e di verità delle proposizioni nel linguaggio è identico a quello della possibilità e della realtà nel mondo. È convinzione fondamentale di Wittgenstein che la significanza di una proposizione non può mai dipendere dalla verità di un’altra (TLP 2.0211) e la versione generalizzata di questo è che non è necessaria alcuna esperienza dell’accadere di qualcosa per la comprensione della logica: basta l’esperienza che qualcosa è – « questa, comunque, non è un’esperienza » (TLP 5.552). La logica (egli dice, ma è vero anche per il linguaggio in generale) è precedente al ‘ Come ’ ma non al ‘ Cosa ’ (ibid.). Questo
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guage, is enough to tell us what the proposition means and in particular whether it is to mean p or not-p. That is important because these last two are of identical complexity. I have argued this general position, though still rather schematically, in papers in Approaches.7 For the present discussion I leave aside the question of the justification for the important assumption of bivalence. To the question whether our position is a blessing or a limitation I shall return shortly. In the early 1930’s, more under the influence of Sraffa than of Ramsey, Wittgenstein made an important shift in his thinking, which he described to Waismann in December 1931 as the move away from dogmatism. Looking back later, in a rough notebook (Ms 157b) that he used when he was making a determined effort to write the definitive account of his changed view (his 1936-37 Ms 142, which corresponds to the opening part of Philosophical Investigations), Wittgenstein sums up the reasons for his change. The notebook is of particular interest because it is the origin of many of the passages about the nature of philosophy in Ph. Inv. §§ 89-133. Wittgenstein says (in the notebook) that the idea of the family [i.e. family resemblance] and [the realization that] understanding was not a pneumatic process, were two axe strokes against [his previous doctrine – of the crystal clarity of logic in itself]. Sraffa had shown him that he had to accept as a sign something for which he could not give the rules and grammar. Wittgenstein saw in a flash that no rules or grammar lay behind this sign or transaction between speakers. All we could say about it was how it was received in the language. So also in general there was not such a thing as a meaning, a sense, which we, unskilfully and unwittingly yet unerringly, managed to express. There was only a set of reactions thought appropriate – in a typical instance and in the first instance in the order of Wittgenstein’s earlier thought these would be the reactions of establishing its truth or falsity (we are in the period of the verification principle). He immediately associates his new insight with the realization that there is no essence of language, no realm of 7 « The supposed Realism etc. » already cited and “ Language and Reality ” (Approaches, pp. 95-102).
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significa che siamo già immersi nel linguaggio (o, se si vuole, nel mondo) ogni volta che facciamo un’indagine, così che l’idea di una spiegazione di come arriviamo a parlare o pensare (voglio dire una spiegazione della sua logica, non della fisiologia) è incoerente. Siamo benedetti da e limitati ad una abilità linguistica di comprendere il senso delle proposizioni. Questa abilità implica la cognizione da parte nostra che alla fine la proposizione sarà vera o falsa e che sarà radicata in un tipo di proposizioni di cui possiamo sapere in linea di principio che sono vere o false. Possiamo implicitamente conoscere la complessità della proposizione anche se non possiamo mai, o almeno non abitualmente, presentarne un’analisi completa e quella complessità, insieme al nostro uso del linguaggio, è sufficiente a dirci che cosa significa la proposizione e in particolare se essa significa p o non-p. Che è importante perché queste ultime due proposizioni hanno la medesima complessità. Ho argomentato questa posizione generale, anche se piuttosto schematicamente, nei saggi raccolti in Approaches.7 Per la presente discussione, tralascio la questione della giustificazione dell’importante ipotesi della bivalenza e ritornerò fra breve sulla questione se la nostra posizione sia una benedizione o una limitazione. Nei primi anni Trenta, più sotto l’influenza di Sraffa che di Ramsey, Wittgenstein operò un importante spostamento nel suo modo di pensare, spostamento che egli descrisse a Waismann nel dicembre del 1931 come un allontanamento dal dogmatismo. Più tardi, guardando indietro, in un taccuino d’appunti (MS 157b) che usò quando si impegnò a scrivere il resoconto definitivo del cambiamento della sua visione (il manoscritto MS 142 del 1936-37, che corrisponde alla parte iniziale delle Ricerche Filosofiche), Wittgenstein riassumerà le ragioni del suo cambiamento. Questo taccuino è di particolare interesse perché costituisce l’origine di molti dei passi concernenti la natura della filosofia nei paragrafi 89-133 delle Ricerche Filosofiche. Wittgenstein dice (nel taccuino) che l’idea della famiglia [cioè somiglianze di famiglia] e [la presa di coscienza che] la comprensione non fosse un processo 7 “ The supposed Realism… ” già menzionato e “ Language and Reality ” (Approaches, pp. 95-102).
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meaning to be tapped into. That was (as he called it now) the pneumatic theory of thought, misrepresented in the English of Ph. Inv. § 109 as « the conception of thought as a gaseous medium ». The word “ gaseous ” is used also by Wittgenstein in English but is an inept translation and Wittgenstein himself says that the word “ ethereal ” would be better. Pneuma is certainly not gas. The pneumatic theory was the idea that behind our understanding and meaning there was some structure (something concrete) that we could perhaps only glimpse but on which we depended for our thoughts or utterances to have sense. This substructure or skeleton now vanished. He describes the theory also as one that supposes that sense is something that we give life to, like a child, and it then has a life of its own, which we can only follow and examine. There is a reference here to a distich of Goethe’s about children, which Wittgenstein used to quote, We should accept children as God gave them to us.8 Not so with sense or understanding, for it is only our activity that gives life to sense or language – shown above all (at this period) in the propositions that we accept as following from the one we are concerned with or the propositions it follows from. The move towards the verification principle was an ingenious modification of the Tractatus system but was not the whole of the lesson learnt at this period. The 1937 passage shows the realization that the pre-existence of a set of rules is an illusion. We invent or abstract rules later as a kind of model or ideal case for what we in fact do. And that is a whole variety of things, a family whose members resemble one another to various degrees in various ways. And there came very naturally the realization that there was not one thing (not even one chief thing) that language always (or nearly always) did. Understanding and hence sense itself were not “ spiritual ” processes behind language because language itself was a family of practices, not just the operation of pneuma. Any one practice would be, as any one member of a family is, only a rough guide to what the others would 8 « Denn wir können die Kinder nach unserem Sinne nicht formen, / So wie Gott sie uns gab, so muß man sie haben und lieben » (Hermann und Dorothea, 3.47 f).
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pneumatico, erano due colpi d’ascia contro [la sua precedente dottrina – della chiarezza cristallina della logica in sé]. Sraffa gli aveva mostrato che doveva accettare come segno qualcosa per il quale non poteva dare regole e grammatica. Di colpo, Wittgenstein vide che non ci sono regole o grammatica dietro questo segno o transazione tra parlanti. Tutto ciò che potevamo dirne era come poteva venir recepito nel linguaggio. Così, anche in generale, non esisteva una cosa come un significato, un senso che in modo maldestro e inconsapevole, ma nondimeno corretto, riuscivamo ad esprimere. C’era soltanto un insieme di reazioni considerate come appropriate – in un caso tipico e nel primo caso, nell’ordine del precedente pensiero di Wittgenstein, queste sarebbero le reazioni volte a stabilire la sua verità o falsità (siamo nel periodo del principio di verificazione). Wittgenstein associa immediatamente questa nuova intuizione alla consapevolezza che non c’è nessuna essenza del linguaggio, nessun dominio di significato a cui attingere. Questa era (come egli ora la chiamava) la teoria pneumatica del pensiero, distorta nella traduzione inglese del paragrafo 109 delle Ricerche Filosofiche come « la concezione del pensiero come un mezzo gassoso ». La parola “ gassoso ” è usata anche da Wittgenstein in inglese, ma non è una traduzione appropriata ed egli stesso dice che ‘ etereo ’ sarebbe stato meglio. Pneuma non è certamente gas. La teoria pneumatica consisteva nell’idea che dietro la nostra comprensione e il nostro significato ci sia una qualche struttura (qualcosa di concreto) che possiamo forse solo intravedere, ma dalla quale dipendiamo affinché i nostri pensieri o i nostri proferimenti abbiano senso. Questa sottostruttura, o scheletro, ora era svanita. Egli descrive la teoria anche come una teoria che suppone che il senso sia qualcosa a cui noi diamo la vita, come ad un bambino, e che conseguentemente ha una vita propria, che noi possiamo solo seguire ed esaminare. Qui c’è un riferimento a un distico di Goethe sui bambini, spesso citato da Wittgenstein : Dovremmo accettare i bambini come Dio ce li ha dati.8 Non così per quanto riguarda il sen8 « Denn wir können die Kinder nach unserem Sinne nicht formen, / So wie Gott sie uns gab, so muß man sie haben und lieben » (Hermann und Dorothea, 3.47f).
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be like. (The terminology and approach here is determined by Wittgenstein’s understanding and modification of Spengler). Thus he gives up the idea central to the Tractatus that there was a great inexpressible structure of logic and language behind the way we viewed or should view the world and in particular that it consisted essentially in the enunciation of propositions that must be either true or false. There was no system at all but an inexhaustible variety of practices permitted by die gemeinsame menschliche Handlungsweise, the pattern of behaviour common to all mankind, on which Rudolf Haller has written well.9 Gargani perhaps gives the impression that Wittgenstein, like the ordinary language philosophers of Oxford, wanted to chart this ocean but in fact, while Wittgenstein recognizes that there might be a descriptive science of language, just as the rules of chess might be taken as propositions of natural history, his interest is rather in showing that there is in principle no system involved, no theory to explain whatever might be described. Sense and reference to reality now rest, as David Pears brings out very well in his discussion here of the crucial § 201 of Philosophical Investigations, not on any assumptions a Platonist might demand or a sceptic question, but on the ineluctable tide of common practice, which the speaker moves in as a fish does in a current. What moves the fish makes in the current are its choice but the ambiance itself is the condition of its life. The all-pervasiveness of language puts it above criticism, since all criticism, all interpretation indeed, must necessarily employ it. In essence it can be seen that the earlier and the later Wittgenstein bring out the same point, which is the radical impossibility of providing a rational account of the origin or nature of thought or language. This is not pointed out in a sceptical way as by Saul Kripke. Rather the wrong-headedness of the question, indicated here by David Pears and well analysed elsewhere by Barry Stroud,10 is used to induce us 9 “ Die gemeinsame menschliche Handlungsweise ” in Zeitschrift für philosophische Forschung, 33 (1979) pp. 521-33. See also Newton Garver’s This Complicated Form of Life, Open Court, Chicago 1994. 10 I think particularly of his contribution to a Girona symposium of 2002, which is in the course of publication.
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so o la comprensione, perché è solo la nostra attività che dà vita al senso o al linguaggio – questo è evidente soprattutto (in questo periodo) nelle proposizioni che noi accettiamo in quanto seguono da una che ci interessa o dalle proposizioni da cui essa segue. La mossa verso il principio di verificazione era una modifica ingegnosa del sistema del Tractatus, ma non era tutta la lezione appresa in questo periodo. Il passo del 1937 mostra la presa di coscienza che la preesistenza di un insieme di regole è un’illusione. Inventiamo o astraiamo regole successivamente, come una specie di modello o caso ideale per ciò che già facciamo. E questa è un’intera varietà di cose, una famiglia i cui membri si somigliano l’uno all’altro in vari gradi e in vari modi. E venne naturalmente la consapevolezza che non c’è nessuna cosa (e nemmeno una cosa principale) che il linguaggio faccia sempre (o quasi sempre). La comprensione e quindi il senso stesso non erano processi ‘spirituali’ nascosti dietro il linguaggio, perché il linguaggio era esso stesso una famiglia di pratiche, non già l’operazione di un pneuma. Una qualsiasi pratica sarebbe, come lo è un qualsiasi membro di una famiglia, solo una guida approssimativa di ciò cui gli altri potrebbero somigliare. (Questa terminologia e questo approccio sono determinati dalla comprensione e dalla correzione di Spengler da parte di Wittgenstein). Conseguentemente egli rinuncia all’idea centrale del Tractatus che ci sia una grande, inesprimibile, struttura della logica e del linguaggio dietro il modo in cui vediamo o dovremmo vedere il mondo e in particolare che consista essenzialmente nell’enunciazione di proposizioni che devono essere vere o false. Non esisteva nessun sistema, bensì un’inesauribile varietà di pratiche consentite dal gemeinsame menschliche Handlungsweise, il modello di comportamento comune a tutta l’umanità, su cui Rudolph Haller ha scritto così bene.9 Gargani forse dà l’impressione che Wittgenstein, come altri filosofi del linguaggio di Oxford, volesse tracciare una carta di questo oceano, ma piuttosto, mentre Wittgenstein riconosce che potrebbe esserci una scienza descrittiva del linguag9 “ Die gemeinsame menschliche Handlungsweise ” in Zeitschrift für philosophische Forschung, 33 (1979), pp. 521-33. Vedi anche This complicated form of life di Newton Garver, Open Court, Chicago, 1994.
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not to seek a theory of this kind. In this hostility to theory (open in the later, implicit in the earlier work) there is something positive. Each central work is designed (with characteristic reserve concerning its prospects of success) to give us illumination – we should see the world aright (as promised in Tractatus 6.54) or some light may be brought into our brains (the pious hope in the preface to Philosophical Investigations), and that in times of darkness. There is no mistaking the ethical thrust, which Rudolf Haller rightly says is inseparable from this logician. To put the matter in both its moral and its intellectual aspects, we are not masters of everything but survey things from within a whole that we cannot define – in another image : there is a bedrock that sets limits to our language and our life. It is both a moral and an intellectual task to respect the reality of our involvement in the world (later the stress is more obviously on its being a world of fellow-creatures and social practices). This brings us back to the question whether our being launched on a sea of language that we can neither delimit, nor escape from, is a boon or a curse. In the first work, in order to see the world aright we had to accept the unsayability of the propositions about ethics and the sense of the world. We have to (that is to say, we have to if we are to understand what Wittgenstein is up to) see that these absurdities are the necessary result of seeking to go outside language, as we feel driven to do. Wittgenstein condones that in Heidegger, 11 again in the “ Lecture on Ethics ” he sees the tendency to run up against the limits of language as one that he would by no means condemn. Philosophy itself is such an attempt, and we must recognize both its attractions and the impossibility that it should bring us to port. There is much in Wittgenstein of Browning’s Rabbi ben Ezra, with his “ fancies that broke through language and escaped ” and the link between ethics, aesthetics and logic is always strong for him. His apparent realism, his hostility to psychologism (in logic) or idealism (in philosophy) is akin to that of Dostoevsky, references to whom run through the last of what we call the pre-Tractatus notebooks 11 Ludwig Wittgenstein and the Vienna Circle, (ed. McGuinness) Oxford 1967, p. 68.
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gio, proprio come le regole degli scacchi potrebbero essere assunte come proposizioni di storia naturale, il suo interesse è rivolto a mostrare che in generale non vi è il coinvolgimento in nessun sistema, non c’e nessuna teoria che possa spiegare tutto ciò che può essere descritto. Il senso e il riferimento alla realtà adesso poggiano, come David Pears chiarisce molto bene nella sua discussione sul cruciale paragrafo 201 delle Ricerche Filosofiche, non sul tipo di assunzioni che potrebbero esigere un platonico o una domanda scettica, ma sull’ineluttabile marea della pratica comune, in cui i parlanti si muovono come un pesce nella corrente. I movimenti del pesce nella corrente sono una sua scelta ma l’ambiente è la condizione della sua vita. La onnipervasività del linguaggio lo pone al di sopra di ogni critica, dal momento che ogni critica, in effetti ogni interpretazione, deve necessariamente servirsene. Essenzialmente si può vedere che il primo e l’ultimo Wittgenstein fanno emergere il medesimo punto, vale a dire la radicale impossibilità di fornire una spiegazione razionale dell’origine o della natura del pensiero o del linguaggio. Ma questo non viene riconosciuto in maniera scettica come da Saul Kripke : piuttosto, Wittgenstein usa l’erroneità di questo modo di porre il problema, messa qui in luce da David Pears e ben analizzata altrove da Barry Stroud,10 per indurci a non cercare una teoria di questo tipo. In questa ostilità alla teoria (palese nelle ultime opere, implicita nell’opera precedente) c’è qualcosa di positivo. Ciascuna delle due opere centrali è designata (con una specifica riserva relativa alle sue prospettive di successo) a illuminarci – dovremmo vedere il mondo correttamente (come viene promesso nella proposizione 6.54 del Tractatus) o una qualche luce potrebbe illuminare i nostri cervelli (la pia speranza dell’introduzione alle Ricerche Filosofiche) e questo in tempi oscuri. Non è possibile non riconoscere la spinta etica che, come dice giustamente Rudolph Haller, è inseparabile da questo filosofo. Per porre questo argomento nei suoi aspetti sia morali che intellettuali, non abbiamo la padronanza di ogni cosa ma consideriamo le cose dall’interno di un tutto che 10 Penso in modo particolare a un suo intervento in un simposio di Girona del 2002, che è in corso di pubblicazione.
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(though their later parts are in fact revisions of the original Tractatus or Abhandlung). Antonia Soulez asks how I conceive the intuition into what it is to be fact that I postulated in a very early paper of mine. She is right to look for some parallels in the work of Husserl. Perforce contemporaries will circle round the same problems and even terminology, as I have pointed out in the case of Wittgenstein and the Husserlian Reinach. It is also true as Stephen Toulmin and Peter Hacker point out that it is a mistake to interpret Wittgenstein as if he were an AngloSaxon (a word that has passed from eulogy to dyslogy in a mere hundred years). But we cannot see him as a continuator of Kant. His philosophical ancestor in this area is Schopenhauer, read through the eyes of Tolstoy, Weininger and, as now indicated, Dostoevsky. And the fundamental intuition that I think he conveys is an expression, precisely, of will, as Dostoevsky says,12 whereby the thinker projects himself into the whole world of what is other – sich in eins setzen. Here it is the thinker’s metaphysical character not his empirical that is in play. Wittgenstein in his 1916 notebook begins to draw this lesson. Ethics and aesthetics consist in seeing the world or any object in the world sub specie aeternitatis, that is to say from outside, no longer from the point of view of an involved person. This is possible only for the metaphysical subject, where the personality has shrunk to an extensionless point, and all objects (including one’s own body or empirical self) are of equal importance. « Now at last, » he says, « the connexion of ethics with the world has to be made clear ».13 My point here is that this connexion with the world is established precisely by the logical considerations that he was to present in his treatise. How far this ethical, aesthetic or even religious motivation determines also his later work in philosophy is a subject as yet but little explored. That a certain type of clear thinking and a determination to find the reality underlying the phras12 See the discussion in V. Ivanov, Freedom and the Tragic Life, A study in Dostoevsky, London 1952, Part i, chapter 2. 13 Notebooks 9.10.1916, but all relevant passages scattered among his notes for the second half of 1916 should be read.
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non possiamo definire – in altre parole : c’è un fondo roccioso che pone limiti al nostro linguaggio e alla nostra vita. È un compito sia morale che intellettuale rispettare la realtà del nostro coinvolgimento nel mondo (successivamente l’accento è posto maggiormente sull’essere un mondo di simili e di pratiche sociali). Questo ci riporta alla questione se il nostro essere immersi in un mare di linguaggio che non possiamo né delimitare né dal quale possiamo scappare sia un beneficio o una maledizione. Nella prima opera, per vedere il mondo correttamente, dovevamo accettare l’indicibilità delle proposizioni sull’etica e il senso del mondo. Dobbiamo (cioè dobbiamo se vogliamo capire che cosa intende Wittgenstein) vedere che queste assurdità sono il risultato necessario del nostro tentativo di andare al di là del linguaggio, come ci sentiamo spinti a fare. Questo Wittgenstein concede ad Heidegger,11 ancora nella “ Conferenza sull’etica ”, vede la tendenza ad avventarsi contro i limiti del linguaggio come una tendenza che egli in nessun modo condannerebbe. La filosofia stessa è un simile tentativo, e dobbiamo riconoscerne sia le attrattive sia l’impossibilità che questo ci conduca in porto. In Wittgenstein c’è molto del Rabbi ben Ezra di Browning, con le sue « fantasie che “ sfondavano ” il linguaggio e fuggivano » e il legame tra etica, estetica e logica è sempre forte in lui. Il suo apparente realismo, la sua ostilità allo psicologismo (in logica) e all’idealismo (in filosofia), è simile a quello di Dostoevsky, riferimenti al quale attraversano l’ultimo di quelli che noi chiamiamo quaderni del pre-Tractatus (sebbene le loro ultime parti siano di fatto revisioni del Tractatus, o Abhandlung, originario). Antonia Soulez si chiede in che modo io concepisca l’intuizione di ciò che deve essere un fatto, che io ho postulato in un mio saggio di molto tempo fa. Ha ragione a cercare alcuni parallelismi con l’opera di Husserl. I contemporanei girano per forza intorno agli stessi problemi e anche alla stessa terminologia, come ho messo in evidenza nel caso di Wittgenstein e dell’husserliano Reinach. È anche vero, come mostrano Stephen Toulmin e Peter Hacker, che è un errore 11 Ludwig Wittgenstein and the Vienna Circle, (a cura di McGuinness), Oxford 1967, p. 68.
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es of politics or of social or private relations can shape one’s life as well as serve one’s purposes is too obvious to stand as a peculiar contribution of Wittgenstein’s. What made philosophy worthwhile for him (as long as he was convinced he could do it) must, one feels, have been something more. Perhaps a clue can be found in the hostility he had to the science of his day: sometimes it is unclear whether it is science itself or only the false estimate held of it that he objects to or (another alternative) the misuse of it in what he calls “ popular science ”, meaning, I suppose, the writings of Jeans and Eddington. Towards figures like Einstein (regarding whom he even had a small collection of newspaper cuttings) he entertained a mixture of fascination and awe – perhaps he thought that he himself ought to have been recognized as a great man in the way Einstein was – but also distaste for the clownish side that Einstein sometimes displayed and his willingness to appear on all sorts of occasion. Is there here (or in his long struggle with the mathematicians) something more than intellectual impatience ? The Tractatus had as its main function (he told Ficker) to draw attention to another dimension. Can anything similar be said of his later work, apart from some fragments like the “ Lecture on Ethics ” ? To be sure there is the new anthropological approach implicit in his treatment of language and explicit in his discussions of Frazer and even Freud. But was there, this time too, a hidden stream of which such would be traces on the surface ? Occasional remarks suggest it: take for example his distinction between faith and superstition (conveniently Glaube and Aberglaube in German) : the latter springs from fear and is a sort of false science, while the former is a kind of trust.14 And there is the whole later interest in psychological states and their expression. But the best demonstration of this would be if one could tease out the motivation of the constantly rethought or rephrased philosophical reflections and could see them in the context of a life in which, despite vicissitudes, everything seems interconnected by a driving will (an intelligible character in Dostoevsky’s sense). Such is the task to which I 14
Manuscript 137, p.48b, approximate date June 1948.
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interpretare Wittgenstein come se fosse un anglo-sassone (una parola che è passata dall’eulogia alla dislogia in soli cento anni), ma non possiamo vederlo come un prosecutore di Kant. Il suo predecessore filosofico in questa area è Schopenhauer, letto attraverso gli occhi di Tolstoy, Weininger e, come appena indicato, Dostoevsky. E l’intuizione fondamentale che io penso egli trasmetta è un’espressione precisamente della volontà (come dice Dostoevsky)12 per cui il pensatore si proietta nell’intero mondo di ciò che è altro – sich in eins setzen. Qui ad essere in gioco è il carattere metafisico del pensatore, non quello empirico. Wittgenstein nel suo quaderno del 1916 inizia a trarre questa conclusione. L’etica e l’estetica consistono nel vedere il mondo o qualsiasi oggetto del mondo sub specie aeternitatis, cioè dall’esterno, non più dal punto di vista di una persona coinvolta. Questo è possibile solo per il soggetto metafisico, dove la personalità si è contratta fino a divenire un punto senza estensione, e tutti gli oggetti (incluso il proprio corpo o l’io empirico) sono di eguale importanza. « Ora finalmente » dice « la connessione dell’etica con il mondo deve essere chiara ».13 La mia tesi qui è che la connessione con il mondo è stabilita proprio dalle considerazioni logiche che egli doveva presentare nel suo trattato. Quanto questa motivazione etica, estetica, o addirittura religiosa, determini anche la sua opera filosofica più tarda è un argomento che è stato ancora poco trattato. Che un certo tipo di pensiero chiaro e che una determinazione a trovare la realtà sottostante le frasi della politica o delle relazioni sociali o private possa sia modellare la propria vita sia servire ai propri fini è cosa troppo ovvia per risultare un contributo specifico di Wittgenstein. Il merito della filosofia per lui (finché era convinto di poterla fare) deve essere stato qualcosa di più. Forse un indizio può essere trovato nell’ostilità che aveva verso la scienza del suo tempo : talvolta non è chiaro se egli si opponesse alla scienza in sé o solo all’abuso di essa, oppure (un’altra alternativa) al cattivo impiego di 12 Cfr. la discussione in V. Ivanov, Freedom and the Tragic Life. A study in Dostoevsky, Londra 1952, Parte i, capitolo 2. 13 Quaderni 9.10.1916, ma dovrebbero essere letti tutti i passaggi rilevanti sparsi fra i suoi appunti della seconda metà del 1916.
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hope to continue to devote myself and to which in the writings generously discussed here by friends 15 I have already set my hand, o si melius !
15 Rudolf Haller in particular describes brilliantly the book I should like to have written.
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essa in ciò che egli chiama la “ scienza popolare ”, volendo indicare con ciò, suppongo, gli scritti di Jeans e Eddington. Nei confronti di figure come Einstein (su cui aveva addirittura una piccola collezione di ritagli di giornale) nutriva un misto di fascino e di soggezione – forse pensava che egli stesso avrebbe dovuto essere riconosciuto come un grande uomo allo stesso modo in cui era riconosciuto Einstein – ma anche un certo disgusto per il lato da clown che Einstein talvolta esibiva e per la sua tendenza a voler apparire in ogni occasione. C’è qui (o nella lunga battaglia con i matematici) qualcosa di più di un’impazienza intellettuale? Il Tractatus aveva come obiettivo principale (come disse a Ficker) il compito di richiamare l’attenzione su un’altra dimensione. Si può dire qualcosa di simile delle sue opere più tarde, fatta eccezione per alcuni frammenti come la “ Conferenza sull’etica ” ? C’è sicuramente un nuovo approccio antropologico implicito nella sua trattazione del linguaggio e esplicito nei commenti su Frazer e persino su Freud. Ma c’era, anche questa volta, una corrente nascosta di cui questo era traccia rivelatrice ? Osservazioni occasionali lo fanno pensare: per esempio la sua distinzione tra fede e superstizione (Glaube e Aberglaube in tedesco) : la seconda è generata dalla paura ed è una specie di falsa scienza, mentre la prima è una sorta di fiducia.14 Nelle opere tarde c’è poi anche l’interesse per gli stati psicologici e la loro espressione. Ma la migliore dimostrazione della ricerca di un’altra dimensione sarebbe se si riuscisse a estrarre la motivazione delle sue riflessioni filosofiche, costantemente ripensate o riformulate, e le si potesse vedere nel contesto di una vita nella quale, nonostante le vicissitudini, ogni cosa sembra interconnessa da una fortissima volontà (un carattere intelligibile in senso dostoevskiano). Questo è il compito cui spero di continuare a dedicarmi e a cui nei saggi generosamente qui discussi dai miei amici 15 ho già messo mano, o si melius !
14
MS 137, p. 48b, datato approssimativamente giugno 1948. Rudolph Haller in particolare descrive brillantemente il libro che avrei voluto scrivere. 15
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INDICE
Nota editoriale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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aldo giorgio gargani Introduzione : B.F. McGuinness e la filosofia britannica contemporanea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9
david pears Un confronto tra due argomenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
65
rudolf haller Su e per Brian McGuinness . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
91
antonia soulez L’ipotesi di un’intuizione nella lingua . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
91
aldo giorgio gargani Brian F. McGuinness su proposizioni e forma logica nel Tractatus di Wittgenstein . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 169
brian mcguinness Postfazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
191
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Finito di stampare nel settembre 2006 presso l’Industria Grafica Pistolesi Monteriggioni (Siena)
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