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Italian Pages 380 Year 2009
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In dialogo con / En dialogue avec Vladimir Jankélévitch A cura di / Sous la direction de
Enrica Lisciani Petrini
MIMESIS VRIN
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Indice/Table des matières
Nota preliminare/Avant-propos
p.
9
Introduzione/Introduction Une pensée “pour le XXIe siècle” di Enrica Lisciani Petrini
p.
13
Qualcosa di semplice, di infinitamente semplice di Vladimir Jankélévitch
p.
29
Le réalisme mystique de Vladimir Jankélévitch di Silvia Vizzardelli
p.
39
Necessità dell’Ineffabile di Vincenzo Vitiello
p.
55
L’impossible relation avec l’absolu di Adriano Fabris
p.
69
Conversion, vocation et ascèse dans la métaphysique de Jankélévitch di Lucio Saviani
p.
85
La meraviglia e l’indignazione di Frédéric Worms
p.
97
Éloge de la litote di Pier Aldo Rovatti
p. 109
Les vertus du fantasme di Marco Fortunato
p. 119
PRIMA PARTE/PREMIÈRE PARTIE
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Una morale del rifiuto di Françoise Schwab
p. 129
Nostalgie close et nostalgie ouverte di Francesco Corsini
p. 143
La noia, in Vladimir Jankélévitch di Antonio Delogu
p. 153
Volontà di mentire – su Vladimir Jankélévitch di Davide Tarizzo
p. 167
L’avant-dernier mot di Micaela Latini
p. 175
Il ritmo della vita morale in Vladimir Jankélévitch di Laura Boella
p. 187
SECONDA PARTE/DEUXIÈME PARTIE La sinfonia dei mormorii di Vladimir Jankélévitch
p. 197
Temi musicali ed ebraici nel pensiero di Jankélévitch di Enrico Fubini
p. 205
Le sérieux de la musique di Carlo Migliaccio
p. 217
Musique et subjectivité di Michela Garda
p. 231
Sfumatura e costruzione di Bernard Sève
p. 247
Vladimir Jankélévitch et l’écoute mortelle di Elio Matassi
p. 261
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Les pauses, le néant, le silence di Simone Zacchini
p. 269
“L’oscuro chiarore” di Clovis Salgado Gontijo Oliveira
p. 277
Jankélévitch et les instants mystérieux de Debussy di Sara Zurletti
p. 291
L’art d’effleurer di Giuseppina Santucci
p. 297
L’existence charnelle des sons di Maurizio Cogliani
p. 307
Philosopher ‘depuis’ la musique di Enrica Lisciani Petrini
p. 321
Bibliografia/Bibliographie (a cura di/sous la direction de Daniela Calabrò)
p. 337
Sigle/Abréviations
p. 355
Nota Biografica/Note Biographique (a cura di/sous la direction de E. Lisciani Petrini e F. Schwab)
p. 359
Gli autori/Les auteurs/The authors
p. 365
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Nota preliminare/Avant-propos
Questo volume nasce, per una sua cospicua parte, dal Convegno per il centenario della nascita di Vladimir Jankélévitch, svoltosi a Roma dal 10 al 12 dicembre del 2003. L’incontro, organizzato da Elio Matassi e da me, ha goduto del generoso sostegno delle Università di Roma Tre e Salerno nei rispettivi Dipartimenti di Filosofia, dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli e del Centro Culturale Francese di Roma. A tutte queste Istituzioni, che hanno reso possibile quel momento di ricco e fecondo dialogo, e ai colleghi e amici che lo hanno animato con la loro presenza e il loro impegno, va il mio ringraziamento sentito. Così come all’amico e collega Matassi, col quale ho condiviso l’impresa e i suoi felici esiti.
Ce volume a pour origine, en grand partie, le Colloque organisé pour le centenaire de la naissance de Vladimir Jankélévitch, qui s’est tenu à Rome du 10 au 12 décembre 2003. La rencontre, organisée par Elio Matassi et moi-même, a bénéficié du soutien généreux des Universités de Rome 3 et de Salerne (à travers leurs Départements de Philosophie respectifs), ainsi que de l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici de Naples et du Centre Culturel Français de Rome. À ces Institutions, qui ont rendu possible ce moment de dialogue riche et fécond, et aux collègues et amis, qui l’ont animé par leur présence et leur engagement, j’adresse mon vif remerciement. Je l’adresse également à mon ami et collègue Elio Matassi, avec qui j’ai partagé cette entreprise et ses suites heureuses.
Ma, essendo ormai passati diversi anni da quella occasione, l’iniziale raccolta degli interventi di allora si è ulteriormente arricchita grazie all’apporto di altri saggi – frutto del prezioso lavoro di colleghi ed amici ai quali va
Mais, comme quelques années se sont écoulées depuis cette occasion, le recueil originaire des interventions s’est enrichi d’autres essais – fruit du travail précieux d’autres collègues et amis à qui s’adresse aussi ma sincère recon-
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
parimenti il mio sincero grazie. La convergenza di tante voci ha prodotto così, grazie anche alla diversità delle posizioni e delle prospettive avanzate, un’ampia tessitura ‘polifonica’. Dunque, quelli che dovevano essere i classici Atti di un Convegno si sono trasformati in un volume diversamente articolato che – nello stesso spirito e con la medesima intenzionalità – vuol offrire uno spaccato della vitalità degli studi intorno al pensiero di Jankélévitch, nella sua doppia valenza filosofica e musicale. Una vitalità che dimostra come in questo filosofo, da sempre oggetto di una ricezione divisa fra appassionata ammirazione teorica e inspiegabile indifferenza critica, oggi, guardato alla giusta distanza, possa essere riconosciuto uno dei pensatori capaci di sollecitare l’interrogazione filosofica verso le grandi, inesaurite domande e offrire prospettive concettuali di straordinaria attualità proprio perché sfuggenti al panorama e ai paradigmi della tradizione. Forse, non senza ragione, Jankélévitch scriveva in una lettera all’amico Beauduc, del 1° gennaio 1955, “J’écris pour le XXIe siècle”. Questo volume vorrebbe esserne la viva testimonianza. Anche per tale ragione si è scelto di adottare una formula relativamente bi-lingue e cioè di pubblicare i testi parte in lingua francese, parte in lingua italiana.
naissance. La convergence de tant de voix a ainsi produit, à travers la multiplicité des positions et des perspectives avancées, un vaste ensemble ‘polyphonique’. Ce qui devait être les Actes ‘classiques’ d’un Colloque, s’est ainsi transformé en un volume différemment articulé qui – avec le même esprit et la même intentionnalité – veut offrir un aperçu de la vitalité des études autour de la pensée de Jankélévitch, dans sa double fulgurance philosophique et musicale. Une vitalité qui démontre comment ce philosophe – objet depuis toujours d’une réception partagée entre admiration théorique passionnée et inexplicable indifférence critique – est aujourd’hui, regardé à une “juste distance”, un des penseurs les plus capables de solliciter l’interrogation philosophique sur les grandes questions inépuisées et d’offrir des perspective conceptuelles d’une actualité inattendue, précisément dans la mesure où elles se dégagent du panorama et des paradigmes traditionnels. Ce n’est peut-être pas sans raison que Jankélévitch écrivait à son ami Beauduc, dans une lettre du 1er janvier 1955: “J’écris pour le XXIe siècle”. Ce volume voudrait en être le vivant témoignage. C’est pourquoi aussi on a choisi d’adopter une formule relativement bilingue, c’est-à-dire de publier une partie des textes en langue française et une autre en langue italienne.
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Nota preliminare/Avant-propos
Il volume è poi arricchito da due testi in cui risuona la parola di Jankélévitch stesso. Si tratta di due capitoli (II e XXII) del libro-intervista Quelque part dans l’inachevé (Gallimard, Paris 1978) – per gentile concessione della rivista “aut aut” sul cui n. 270 (nov.-dic. 1995, a cura della sottoscritta) sono apparsi per la prima volta tradotti in italiano. Al suo direttore, Pier Aldo Rovatti, e alla Redazione va il mio vivo ringraziamento. Un pensiero particolarmente grato, infine, voglio esprimere a Françoise Schwab – allieva e amica di Jankélévitch, alle cui instancabili cure si devono diverse pubblicazioni postume del filosofo e la custodia attenta della sua memoria – che, anche in questa circostanza, è stata prodiga di consigli, aiuti e informazioni.
Ce volume est enrichi par deux textes, dans lesquels résonne la parole de Jankélévitch lui-même. Il s’agit de deux chapitres (II et XXII) du livreentretien Quelque part dans l’inachevé (Gallimard, Paris 1978) – publiés grâce à l’aimable autorisation de la revue de philosophie italienne “aut aut”, dans laquelle ils ont parus, traduits pour la première fois en italien (n. 270, nov.-déc. 1995, sous ma direction). À son Directeur, Pier Aldo Rovatti, et à sa Rédaction, s’adresse également mon vif remerciement. Je veux exprimer enfin toute ma reconnaissance à Françoise Schwab – disciple et amie de Jankélévitch, aux infatigables soins de laquelle on doit diverses publications posthumes du philosophe et l’attentive conservation de sa mémoire – car, dans cette circonstance aussi, elle a été prodigue de conseils, d’aides et de renseignements.
Enrica Lisciani Petrini Napoli/Naples, 6 giugno/juin 2009
Tutti i testi tradotti in francese sono stati revisionati da: Tous les textes traduits en français ont été revisés par:
Antoine BOCQUET
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ENRICA LISCIANI PETRINI
Introduction Une pensée “pour le XXIe siècle”
1. Parole “inimitable” …d’un certain climat […] au lendemain de la Libération, le Collège philosophique de Jean Wahl […] était le reflet et l’un des foyers. Sonorité inimitable du dire hautain et inspiré de Vladimir Jankélévitch proférant l’inouï du message bergsonien, formulant l’ineffable, faisant salle comble […]. On pouvait sans ambages – et souvent sans précaution – et en prenant quelques libertés avec les règles académiques, mais aussi sans subir la tyrannie des mots d’ordre courants, se donner – et proposer à d’autres – des idées “à creuser”, “à approfondir” ou “à explorer”1.
Par ces mots intenses et suggestifs, Lévinas, évoquant la saison fervente de la pensée d’après-guerre, esquisse d’emblée les traits caractéristiques et incomparables du personnage de Vladimir Jankélévtich. D’abord, l’ascendance bergsonienne et donc l’appartenance à une tradition de pensée toujours attentive à la “vie vivante” et à l’agir concret de l’homme. Mais aussi, au même moment, la tension constante, toujours plus serrée, vers la dimension de l’“ineffable”, de l’insaisissable par la raison humaine – dimension dont la musique représente toujours, pour le philosophe, la réverbération la plus vive. Et enfin, son style personnel de vie et de pensée: anti-académique, libre, courageux, intransigeant. Une posture personnelle qui trouvait son “inimitable” reflet – comme le soulignait Lévinas – dans l’allure très particulière, devenue célèbre, de sa parole et de son écriture mêmes: non seulement rapides et presque pressées dans l’urgence d’une pensée qui s’offre “se faisant”, c’est-à-dire dans l’acte même de s’articuler, qui échappe, par conséquent, à la forme ‘classique’ d’une séquence de déductions analytiquement cadencées; mais surtout, parole et écriture ramifiées en plusieurs fils et relances argumentatifs qui semblent se tendre et se boucler pour essayer de saisir continuellement, tout en le perdant constamment, l’objet autour duquel elles se déploient. Ce qui a rendu, au 1
E. Lévinas, Le temps et l’autre (1948), PUF, Paris 1983, pp. 11-12.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
fil des années, l’élocution de Jankélévitch si chatoyante, que – de la salle du Collège philosophique de Jean Wahl jusqu’à celles de la Sorbonne – elle fascinait véritablement son auditoire. C’est justement dans ces traits spécifiques que se situe, non seulement l’attrait que le personnage exerçait, mais plutôt – bien au-delà des apparences les plus visibles – la signification de sa leçon, dans sa capacité inépuisée de transmettre un exercice de la pensée et des questions dont aujourd’hui, plus que jamais, on perçoit l’urgence. Ce qui, implicitement, explique l’attention grandissante portée à cet auteur – comme les essais compris dans ce volume le montrent, en pénétrant, prolongeant ou mettant en relief, chacun à leur manière, un des aspects particuliers de l’œuvre, et tout en s’avançant chacun sur des scènes théoriques différentes. De là l’importance de donner une ébauche de la très vaste texture de pensée dans laquelle ces contributions s’insèrent – en s’arrêtant précisément sur ces traits incomparables qui, dans leur singularité et leur entrelacement, sont si propres à Jankélévitch.
2. Vagabond humour Revenons donc à l’allure de la parole et de l’écriture de Jankélévitch, pour commencer à pénétrer – depuis cet aspect plus extérieur – au cœur de sa réflexion, et atteindre au fur et à mesure ses centres névralgiques. Dès le début, cette attitude singulière s’affirme par un choix net en faveur d’une certaine pratique de la philosophie, inscrite délibérément, et de façon remarquable, dans la meilleure tradition “érotique” et “ironique” – ou pour mieux dire “humoristique”. C’est-à-dire une pratique vivant l’“aventure” même du désir de savoir et d’interroger, et qui va “quelque part dans l’inachevé”, tout en étant consciente que “la vérité n’est localisable nulle part” et “ne se prête pas à une saisie directe” (QI, 154-552), une pratique distante ou critique, avec une pointe de rire mal dissimulé, à l’égard de la certitude souvent “mégalomane” de posséder la vérité. Une modalité de pensée “ren2
Ce n’est pas par hasard si le chap. de QI, auquel on se réfère ici, est intitulé “Vagabond humour”. C’est Jankélévitch lui-même qui précise la différence entre l’ironie et l’humour: “Alors que l’ironie exploite avec virtuosité, selon un dessein bien déterminé, l’équivoque du langage, l’humour, lui, n’a ni projet fixe ni système de référence… L’ironie est le talent d’une conscience souveraine, détachée […]. L’humour avec ses manœuvres de diversion et ses réticences secrètes est bien plus complexe […] n’a pas de stratégie puisque la vérité à laquelle il fait allusion n’est localisable nulle part, dans aucune forme arrêtée” (QI, 153-4).
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Enrica Lisciani Petrini - Introduction. Une pensée “pour le XXIe siècle”
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voyée à l’infini, car elle est toujours au-delà…”, et qui souvent est apparue irritante ou insatisfaisante aux oreilles accoutumées aux plus traditionnelles scansions syllogistico-déductives, et par conséquent indisposées par une attitude qui n’affiche pas de stratégies rassurantes, n’a pas l’intention de se faire dépositaire d’une vérité définitive, ne s’apaise pas dans le repos commode d’une réponse, mais au contraire exige de ne pas la hâter, de la suspendre et de la différer en lui imposant l’arrêt ou la pause de l’interrogation. Un inachèvement voulu – qui explique aussi, entre autres, le refus catégorique de tout “engagement” explicite en philosophie, de la part d’un philosophe qui n’a, par ailleurs, jamais hésité à s’engager politiquement3 – mais qu’on a prétexté, pour se dispenser de s’intéresser à son œuvre, voire pour la rejeter, et pas toujours innocemment. Le philosophe, souvent relégué, non sans en éprouver de l’amertume, dans les marges, les pratiquait néanmoins lui-même avec orgueil, en se situant délibérément dans un espace “inactuel”4, proprement “illocalisable”, hors de toute stratégie “à la mode” et des mots d’ordre dominants, pour “cheminer, comme l’écrivait justement Lévinas, en marge des constellations du monde” et – surtout – de tout “principe d’autorité”. Cela faisait de Jankélévitch – comme il aimait, non sans ironie, le dire de lui-même – “un apatride philosophique” (QI, 115). Expression dans laquelle retentit, de façon évidente, une tonalité juive, qui suit, telle une basse continue, toute sa méditation; on le verra aussi dans ce qui va suivre. Mais précisément, dans cette “marginalité” voulue et dans cette tension vers “l’inachevé” – qui marquent l’existence de Jankélévitch comme si elles étaient non seulement un choix de vie, mais aussi et surtout un projet ou un destin philosophique –, il y a quelque chose de profond à saisir 3
4
Il faut tenir compte du fait que Jankélévitch en 1934 entra dans le “Front commun” (ou “populaire”) – association politique de gauche, née en opposition aux mouvements nationaux et fascistes qui allaient surgir; pendant la guerre, au moment où il est frappé par la promulgation des lois raciales de Vichy, il entre dans la clandestinité et fait partie de la Résistance. Après la Libération il n’a jamais cessé de lutter pour la défense de l’Etat d’Israël – mais jamais d’un point de vue sioniste, qu’il a toujours refusé – et il a constamment défendu les minorités, de tout genre. (Pour compléter ces renseignements et d’autres d’ordre biographique, ici effleurés, v. la note à la fin du présent volume, pp. 359-364). Ce n’est pas un hasard si, à cette ‘inactualité’, révélatrice d’une actualité plus profonde du philosophe, a été consacré le Colloque organisé à l’ENS de Paris, en décembre 2005, sur le thème: Vladimir Jankélévitch: actuel/inactuel (les Actes, sous la direction de F. Schwab et J.-M. Rouvière. sont en cours de publication chez Beauchesne, Paris). De ma contribution à ce volume, j’extrais quelques passages repris ici.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
et à comprendre. D’autant plus que, pour Jankélévitch, la philosophie a toujours été une véritable “strenge Wissenschaft”, “une science dure et rigoureuse”, comme il l’affirmait lui-même en reprenant une célèbre expression de Husserl5 – bien au-delà des nuances, clairs-obscurs, scintillements éblouissants, reflets changeants etc., bien au-delà, en somme, de tous les aspects superficiels auxquels on l’a trop souvent réduit. Alors que l’écriture de Jankélévitch et son argumentation intrinsèque sont avant tout une importante leçon de sérieux éthique, qui oppose le délai, propre au travail de la pensée, à la prétention, voire à la hâte – si caractéristiques de notre époque et d’un climat culturel où l’on consomme étourdiment les idées, comme on gaspille les marchandises – de disposer tout de suite de toutes les réponses. Mais surtout, cette argumentation et cette écriture sont l’expression la plus patente de l’‘objet’ même autour duquel elles s’enveloppent et se développent sans cesse et, en même temps, sans aucun but: elles sont l’expression de ce que ‘la chose même’ – vers laquelle ce penseur se penche et nous invite à nous pencher – est en soi complètement insaisissable et ineffable, et qu’elle fait échouer toute tentative de posséder la vérité. De ces aspects se dégage donc une leçon ‘métaphysique’, qui s’écarte non seulement de la tradition, mais aussi du débat philosophique du XXe siècle. Ce qui est moins évident, mais présente pour nous un grand intérêt, car c’est là que se trouve l’actualité authentique et cachée de Jankélévitch. Et c’est là justement que se situe la leçon la plus profonde de ce philosophe.
3. Une pensée “se faisant” Comme on le sait, le travail philosophique de Jankélévitch naît dans le sillage de la pensée bergsonienne6, qu’il n’abandonnera jamais, et commence à acquérir un profil autonome dès la moitié des années 30. Dès son premier ouvrage, consacré justement à celui que Jankélévitch considérait comme son ‘maître’, Henri Bergson (1931; reéd. 1959), il saisit avec une finesse absolue que “le centre vivant” de cette pensée “est bien plutôt la Durée que l’Intuition” (HB, 6), en la dégageant de tout subjectivisme, et à partir de ce moment il en assume dans son propre travail le véritable point de force, qui n’est pas seulement (comme on pourrait le croire à première 5 6
V. ici, le chap. traduit de QI, à la p. 29. C’est à 1923 que remonte la première rencontre entre le jeune ‘normalien’ et Bergson, “maître à penser” indiscuté à l’époque. L’empathie immédiate, née entre les deux, est attestée aussi par deux lettres de Bergson à Jankélévitch (cf. H. Bergson, Mélanges, PUF, Paris 1972, pp. 1487, 1495).
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Enrica Lisciani Petrini - Introduction. Une pensée “pour le XXIe siècle”
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vue) la temporalité irréversible, mais plutôt le ‘mouvant’ qui se trouve en son cœur: le virtuel. Avec tout ce que cela comporte de dissolution ou de dépassement de l’appareil traditionnel tout entier, centré sur des idées supposées univoques et éternelles, auquel Jankélévitch oppose – en suivant justement l’inspiration bergsonienne originaire et, sous certains aspects, en la radicalisant – le “mouvement” toujours “intermédiaire” et insaisissable de la “vie vivante”7. Une formulation qui l’amène immédiatement à regarder l’“intermédiarité” même de l’homme en son agir concret au-dedans de la réalité. De là naît l’ouvrage qui affermit définitivement le profil de la pensée jankélévitchienne: le Traité des vertus (commencé avant la guerre, mais publié en 1949; éd. aug. 1967-71). Une réflexion d’ordre moral, vaste, articulée autour de l’“entrevision” des paradoxes ineffaçables et des équivoques au-dedans desquels ou à travers lesquels le réel et l’homme se développent. Une réflexion tendue par conséquent vers l’affirmation d’un volontarisme soutenu par la conviction que les “actions”, mesure véritable de l’homme, doivent être guidées par un sens de la “justice” ou de la “justesse” – plus que par le “droit” –, un volontarisme conquis à travers une “innocence” d’un sens nouveau et différent; c’est-à-dire, à travers un regard capable de voir que bien et mal sont indissociables, et que l’homme est appelé à un agir d’autant plus âpre et intransigeant qu’il a, précisément, à vivre dans une “équivocité” dramatique. Mais nous y reviendrons. Ce premier travail autonome (à côté de travaux ultérieurs) trace déjà un tableau théorique large, dans lequel, en 1953, vient se greffer Philosophie première. Introduction à une philosophie du “presque”, que Jankélévitch a pu désigner comme “[sa] métaphysique” (VL, 325). Avec ces travaux, s’accomplit une perspective philosophique – que le philosophe poursuivra jusqu’à la fin, à travers des œuvres capitales comme La Mort (1966; reéd. 1977) et Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-Rien (1957; reéd. aug. 1980-83), auxquelles s’unissent en contre-chant les œuvres à teneur musicologique – guidée par un déplacement net du regard par rapport à la tradition, qui est d’ailleurs englobée, mais profondément repensée et transformée par Jankélévitch, au-dedans d’une texture historique et conceptuelle qui plonge de la grécité de Platon pour revenir à la contemporanéité, en passant par le stoïcisme et l’épicurisme, Plotin, les Livres de l’Ancien et du Nouveau Testament, la patristique et la mystique chrétienne, continue jusqu’à la théologie apophatique d’Angelus Silesius, Bœhme, Jean de la Croix et la 7
Il est utile de rappeler que les deux premiers essais de Jankélévitch portent sur ces thèmes (et titres): Deux philosophes de la vie: Bergson et Guyau (1924); Georg Simmel, philosophe de la vie (1925). (V. ici Bibliographie générale, p. 339).
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
méditation de Pascal, traverse Schelling, et parvient jusqu’à Kierkegaard et Nietzsche – et ce, en restant toujours fidèle, comme on l’a déjà dit, à Bergson. Sur ce tableau culturel imposant Jankélévitch établit donc ses propres trajectoires mobiles, qui s’opposent point par point à ce qu’il nommait des “clichés conventionnels”.
4. “Grâce” ineffable Le choix du terrain et surtout le cadre conceptuel très articulé émergent dans toute leur force avec Philosophie première. En partant d’une perspective bergsonienne, Jankélévitch commence ici à soutenir avec détermination que le concept d’Être, entendu comme trame d’idées fixes et depuis toujours (ab æterno) incorruptibles, donnée, visible et transparente à la raison humaine, posée par la tradition philosophique (la tradition canonique du moins) comme Fondement ou Cause sous-jacente du réel empirique, est le fruit d’une attitude “superstitieuse” et non dépourvue de “mégalomanie”. D’autre part, la réalité ne se réduit même pas – comme le voudraient ceux qui, à l’inverse, nient toute transcendance – à l’immanence immédiate, empirique du devenir fini: cette conception, symétrique de la précédente, est complètement inscrite à son tour dans un substantialisme pacificateur et certain de posséder la Vérité sur l’Être des choses. De cette perspective on ne sortira non plus avec une conception qui suppose ou hypostasie une simple “négativité à l’envers”: un Rien antithétique de l’Être, “indicible”, comme une sorte de “nuit noire”, qui de fait ne serait autre qu’une Substance renversée, mais tout autant porteuse de vérité, fondatrice et dogmatique (de plus appuyée, selon la leçon bergsonienne, sur un pur paralogisme). Face à ces perspectives et à leurs prétentions explicitement ou implicitement substantialistes, Jankélévitch développe une vision diamétralement opposée8. Nous ne pourrons jamais, affirme-t-il, donner de réponse à la
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Il faut relever tout de suite que la tonalité particulière de la perspective adoptée par Jankélévitch découle de son origine juive, marquée par une vision tout à fait différente de celle qui caractérise le christianisme. Cette dernière se fonde sur la conviction que Dieu s’est révélé au monde – d’où la visibilité et la dicibilité parfaites de l’Être du réel, et aussi l’idée de temps historique du monde comme devenir téléologique. La vision juive se fonde au contraire sur la conviction opposée que Dieu ne s’est jamais révélé, mais demeure invisible et donc “ineffable”; et que, pour cette raison, l’histoire du monde ne peut se dérouler de manière linéaire, parce qu’elle est depuis toujours suspendue à la possibilité d’un événement (l’arrivée du Messie) qui brise tout “continuisme” temporel. D’où cette vision particu-
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Enrica Lisciani Petrini - Introduction. Une pensée “pour le XXIe siècle”
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question fondamentale de la philosophie: quel est l’être du réel ? ou encore: comment, à partir de quoi, se donne la réalité effective dans laquelle nous vivons? Parce que “l’effectivité est un spectacle où l’on n’arrive jamais à l’heure, c’est-à-dire juste pour le lever du rideau; à quelque moment qu’on arrive, la représentation est toujours déjà commencée” (PhP, 176). Donc, du monde, de son spectacle, nous pouvons dire seulement – soutient Jankélévitch faisant écho à Schelling – “ce qu’il est” (le quid, la quiddité), et non ce (le quod, la quoddité) pourquoi il existe. Son quod intime est l’“Absolument autre” par rapport à quelque plan de réalité que ce soit, et n’est certainement pas pour cela “fondement”, mais tout au plus “sans fondement”: “littéralement insondable, et le terme bœmiste d’‘Ungrund’, qui signifie non-fondement, est sans doute sa seule définition” (PhP, 102). Telle est la condition constitutivement “paradoxale” de l’homme, qui le destine par conséquent à un “perpétuel, décourageant échec” (JQPR, I, 76) dans lequel il est contraint de vivre: être dans une réalité dont il ne peut en aucune manière se séparer, qui est sa condition la plus propre – mais sans en savoir le comment (le Quia) ni le pourquoi (le Quod), et donc exproprié de soi à cause d’une radicale ‘improprieté’. Et c’est pour cela que toute attitude qui n’assume pas un tel paradoxe ou n’en part pas, et qui prétend dire ce qui est ‘avant’ le langage, le monde et l’existence même, est destinée à se renverser dans une “hybris”, une arrogance, qui interprète comme vérités éternelles ses propres présomptions et donc manque son but. Ce n’est, tout au plus, qu’au moyen d’un lexique contradictoire qui dit en niant – et qui est employé, et pour cause, par la grande mystique apophatique, de Plotin à Angelus Silesius, Bœhme, Jean de la Croix, et, à certains égards, Pascal –, qu’on peut le nommer “Nescioquid”, c’est-à-dire “No sé qué”, en somme “Je-ne-sais-quoi”. Justement parce qu’il n’est pas quelque chose, et à cet égard il n’“est” vraiment rien, au sens copulatif du verbe “être”, puisqu’il n’est ni ceci ni cela et qu’il refuse [...] toute prédication; [...] on ose à peine dire qu’il [...] fait être sans être [...]. Sans doute la formule la mieux adaptée à ce régime insaisissable de la non-chose ou de l’anti-res, ce serait peut-être: “il y a” – qui est la formule impersonnelle de la pure “autoposition” sans sujet substantiel ni copule ni attribut (JQPR, I, 68; c’est moi q. s.)9.
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lière du réel et du monde comme quelque chose qui, constitutivement, échappe à toute tentative d’appropriation de la part de la raison humaine. Soit dit en passant, mais c’est de la plus grande importance, telle est la raison pour laquelle Jankélévitch – contrairement à Heidegger et à la philosophie du XXe siècle en général, à l’exception, et pour cause, de Lévinas – n’a jamais parlé
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
C’est un impersonnel faire être sans être. C’est une “grâce profuse et diffuse” (JQPR, I, 93; c’est moi q. s.) – une “charis” selon le lexique plotinien, un “charme” – qui est “partout et nulle part”10. Un mouvement, un ‘mouvant’, un élan qui chaque fois pose (“fait être”) un monde, un cosmos réel – sans qu’il puisse être vu ni pré-supposé (PhP, 206). C’est pourquoi “le fait de l’empirie est un profond mystère” (PhP, 29; c’est moi q. s.), “caché quant à sa nature, patent quant à son «il y a»” (PhP, 152), dont jamais nous ne pourrons saisir la donation, qui est absolument “gratuite”, tout à fait dépourvue de cause visible. Bref, tout à fait virtuelle – et jamais actuelle. C’est cela qui fait de toute “position” un acte véritablement “initial”, et donc véritablement libre, en lui-même et non en vertu d’un ‘Pré-supposé’ qui le précéderait (JQPR, I, 105); et qui par conséquent la soustrait à toute synthèse dialectique (c’est-à-dire, qu’elle ne se laisse pas enfermer dans une vérité enfin conquise), ainsi qu’à toute approche herméneutique (justement parce qu’il n’y a rien à découvrir derrière ou au-delà d’elle). Maintenant on comprend bien pourquoi ce “faire être” est proprement “non localisable” – et donc pourquoi on a dit au début que les traits “non localisables” du personnage de Jankélévitch relèvent d’un “destin philosophique”: c’est qu’ils sont la marque même de son “ontologie”. Et voilà encore pourquoi ce “faire être” est proprement ineffable. Justement parce qu’il est ce mouvement initial et purement “virtuel”, qui n’accède jamais au langage – mais qui, par cela même, ouvre la voie à des paroles neuves, à de nouveaux commencements. Par ailleurs, soit dit en passant, mais c’est un point essentiel, telle est la vraie et unique raison pour laquelle Jankélévitch s’adresse aux auteurs de la mystique: non pas certes pour restaurer une nouvelle ontologie ou bien une théologie de signe renversé, mais dans une intention qu’on pourrait dire ‘déconstructive’, tendue à la démonstration de l’absence absolue de fondement du plan de l’effectivité – et de la vigilance majeure que celui-
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d’“ontologie”, qui présuppose l’accessibilité à une connaissance de l’Être. Audelà de l’ascendance juive (v. note 8), l’élément philosophiquement décisif, dans cette posture, se situe dans la pensée de l’Être comme “virtualité”. Ce qui le soustrait par principe à toute appréhension par des concepts et élimine à la racine la possibilité même de toute ontologie. On peut tout au plus parler, dans ce cas, de “méontologie”. Le thème de la “grâce”, où résonnent les échos de la charis epiteusa to callei (“grâce répandue” autour “de la beauté”) thématisée par Plotin (cf. MI, 70), est à la source du Leit-motiv du Charme. Pour la riche polysémie de ce mot, qui amplifie et achève le cadre conceptuel jankélévitchien, v. la “Nota” à la trad. it. de La musica e l’ineffabile (Bompiani, Milano 1998, pp. 27-28). V. aussi ici aux pp. 327 ss.
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ci requiert en conséquence. Ce qui ouvre la route – et c’est là le véritable enjeu de la réflexion de Jankélévitch aujourd’hui – à une pensée nouvelle de l’immanence11.
5. Lustre ambigu du réel En effet, la rotation complète de perspective sur la réalité, ouverte par cette nouvelle “mé-ontologie”, est évidente. Avec le franchissement ou l’abandon total de toute idée de Substance ou de Pré-supposé, le regard est ramené au plan unique de l’“effectivité”, en faisant signe vers ce qu’on pourrait definir comme une pensée singulière de l’immanence, qui contient en soi la transcendence12 telle un écart “intestin” au sein de l’immanence même. Une pensée dont – disons-le tout de suite – il faut cueillir, pour l’entendre pleinement, la ‘double sonorité’: une plus visiblement luxuriante; l’autre plus silencieuse et souterraine, mais avec un accent de deuil déchirant. Comme on le disait, la réalité n’est pas l’apparence phénoménique d’une éternité immobile et substantielle: derrière l’“effectivité” il n’y a rien à chercher, aucun Être à faire surgir, aucune loi présupposée qui en règle la dymanique. L’effectivité est donc l’unique réalité, qui ne cesse de différer d’elle-même: elle est comme la beauté dont Plotin “dit qu’elle n’est pas inhérente à la symétrie elle-même, qu’elle ne consiste pas dans une proportion déterminée des parties, mais qu’elle est quelque chose d’autre, une espèce de lustre qui rayonne de la symétrie: te symmetria epilampomenon” (JQPR, I, 89-90), complètement imprévue, “virtuelle”, véritablement “sans pourquoi” – “ohne warum”, selon la célèbre formule d’Angelus Silesius sous le signe de laquelle est placée aussi la réflexion de Jankélévitch. Mais alors, cette condition ‘mé-ontologique’ explique aussi pourquoi une “effectivité” de monde, une existence, une créature vit chaque fois en tant que suspendue seulement à soi-même. Ce qui signifie, parallèlement, qu’elle vit dans la 11
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Peut-être n’est-il pas inutile de signaler que Deleuze, lui aussi, ouvre la voie à une pensée inédite de l’immanence, justement au moyen du concept de “virtuel” qu’à l’instar de Jankélévitch il reprend de Bergson et articule avec la musique d’une manière féconde. Cf. G. Deleuze, Le bergsonisme, PUF, Paris 1966; Différence et répétition, PUF, Paris 1968; L’image-mouvement, Minuit, Paris, 1983; L’imagetemps, Minuit, Paris 1985. À cette égard deux seules phrases suffisent: “La «transcendance» même de l’Autos prend, dans ces conditions, un sens quelque peu ambigu […] la superipséité peut parfaitement […] rester «immanente», c’est-à-dire omniprésente et intra-mondaine et, comme un mystère domestique, intestine aux créatures, et déjà apparaître […] comme l’Absolument-autre” (PhP, 159).
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
mesure où sa propre existence est constamment penchante et en “équilibre perpétuellement instable” sur le néant-de-soi – la fin, la mort – dont elle est toujours “presque” prochaine et qui, de plus, l’entoure constamment13. Ici s’origine le caractère singulièrement et définitivement ambigu, “clairobscur”, de la réalité, indiqué par l’expression “presque-rien”: expression inédite, forgée par Jankélévitch et volontairement ‘étrange’, presque bizarre, jusqu’ici ‘impensée’ – et marque supplémentaire du caractère singulier de sa méditation – mais qui permet de saisir que le réel est le produit de cette intermédiarité, de cette “oscillation sans fin” entre un faire être qui, étant pure virtualité, n’est “rien”, n’a aucune substance (et même “est tout le contraire d’une substance”), et l’effectivité concrète qui se dresse à partir de cet insaisissable élan, tout en restant suspendue à un tel non-être, complètement confiée à sa chatoyante finitude, et renversée, comme effilée sur l’“altération” mortelle qui ouvre à de nouveaux événements. Une fois éliminé chaque fondement stable, la réalité perd toute continuité causale pour devenir la dimension de nombreux événements imprévisibles et ‘incausés’, non répétables et singuliers. Evénements, donc, en aucune manière universalisables et essentiellement “semelfactifs”14: autant d’expressions d’une unicité que seules les manœuvres de la logique humaine pourraient prétendre enfermer dans des formes/formules générales, “dialectiques”, propres à livrer le singulier aux mains d’un universel immortel. Le virtuel se ‘double’ ici – l’ascendance juive du philosophe fait résonner, dans cette déclinaison, son écho lointain – dans le terrible “visage de Jéhova”, dont le regard provoque la mort (PhP, 133). Voilà expliqué en son fond le statut de chaque événement ou étant, en tant que “presquerien”. Ainsi les étants apparaissent désormais non plus sous la forme lumineuse d’identités bien distinctes et installées dans la certitude de leur être, mais dans la condition “amphibolique” d’êtres enveloppés dans le flux du temps dont les contours s’évanouissent continuellement dans le non-être. De là le halo de charme qui les entoure: conformément au fait que, loin de pouvoir être objets de connaissance, ils peuvent seulement constituer un motif d’enchantement et d’attraction inépuisée. C’est pourquoi aussi, la 13
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Pour un approfondissement de ce point crucial de la pensée de Jankélévitch, centré sur la tension dramatique entre vie et mort – où la mort est vue comme le périmètre même de la vie, son “organe-obstacle” – v. l’œuvre capitale de Jankélévitch La Mort. Pour une lecture de ce livre, qu’il me soit permis de renvoyer à mon Introduction, “Perché noi siamo solo la buccia e la foglia”, de la trad. it. La morte (Einaudi, Torino 2009, pp. IX-XXXIII). Autre expression forgée par Jankélévitch, à partir du mot latin semel (= une fois), pour indiquer l’unicité absolue, non répétable de chaque étant.
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philosophie “première”, chez ce philosophe, ne peut être qu’une philosophie du “presque”15. En conclusion, dépassant tout substantialisme ancien ou nouveau, Jankélévitch nous permet d’accéder à une vision de la réalité effective sans double fond ni renvoi à un ailleurs, mais qui n’est pas pour autant aplatie sur elle-même. Elle tient – exactement comme la musique, qui, et ce n’est pas un hasard, devient dans ce discours le reflet le plus incisif de la condition propre du réel16 – “tout entière dans l’actualité superficielle [...] autrement dit dans la phénoménalité de son apparence sensible: en ce sens, il n’y a rien à chercher derrière la façade; aucune conclusion à tirer, nulle conséquence à déduire” (MI, 88-89). Le mystère de la réalité, le mystère profond de toute chose est toujours déjà là, sous nos yeux: dans ce mouvement continu d’altération, dans cette vibrante oscillation irradiée rythmiquement par la vie qui nous entoure, dans ces pulsations et ces dynamiques innombrables du monde, avec leurs jeux de surfaces, d’apparences, auxquels Jankélévitch a toujours été si sensible. On comprend bien à présent la raison de son attirance pour la luxuriante “ontophanie” du réel (cf. PhP, 24 ss.): elle est tout sauf “superficialité”. Et on pourrait dire de lui ce que Nietzsche disait des Grecs: ils étaient “superficiels par profondeur”17 – parce qu’ils savaient voir dans la surface ce qu’il y a de plus profond. Donc, c’est exactement là, dans cette torsion ‘ontologique’18, que s’explique aussi l’‘étrangeté’ du langage, de l’écriture, de la façon d’argumenter de Jankélévitch – que nous relevions ici au debut. Un langage luxuriant, éblouissant, complètement étranger au confort des cadences syllogistiques: un langage, on le comprend bien maintenant, en adéquation avec la riche – et pourtant mortelle – efflorescence du réel. Mais c’est aussi exactement cette même torsion ou “entrevision” ontologique qui fait passer continuellement la pensée et le discours de Jankélévitch du plan métaphysique à un plan proprement éthique où ils s’élargissent en un réseau thématique très dense – dont le Traité des vertus, déjà mentionné, constitue le monumental épitome. D’abord parce que cette “entrevision” découvre la réalité dans toute son “amphibolie” ou “intermédiarité” constituti15 16 17 18
Le titre de l’œuvre de 1953 est justement: Philosophie première. Introduction à une philosophie du “presque”. Pour compléter ce parcours thématique qu’il me soit permis de renvoyer à mon intervention, ici en fin de volume: Philosopher ‘depuis’ la musique. F. Nietzsche, Nietzsche contra Wagner, in Sämtliche Werke, de Gruyter, München – Berlin – New York 1988, 15 Bde, VI, p. 439 (trad. it. par F. Masini, Scritti su Wagner, Adelphi, Milano 1979, p. 237). Pour corriger cette expression impropre, v. supra note 9.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
ve. C’est-à-dire qu’elle en révèle le régime d’indépassable “altération”, dans lequel est immergé et continuellement modifié dans son sens l’agir humain, puisque souvent la “bonne intention” se retourne en “mauvaise intention” ou est mêlée à elle. De plus, elle révèle la constitution antinomique indépassable de tout geste, quel qu’il soit, qui fait qu’il est toujours, uno actu, “organeobstacle”: l’instant privilégié d’un pur élan en avant, et sa retombée, impure mais inévitable, dans la solidification des conventions et de l’égoïsme. C’est dans cette incurable “duplicité” ou “équivocité” que s’enracinent les aspects les plus problématiques et tous les paradoxes de l’humain comme tel: de la “séquence indéfinie de dédoublements” à travers laquelle le je “se brise”, jusqu’au “malentendu”, au “mensonge” et au “mal”. Et même toutes ces morales de la “compréhension rationaliste et du pardon hygiéniste”, qui ‘lavent’ chaque faute au nom d’une “justice compensatrice” – basée sur le présupposé d’une harmonie éternelle, d’un Bien et d’un Mal substantiels et univoques: matrice originaire de cette “justice distributive” qui est à la base du droit de nos États. Corps de préceptes tout à fait confortables et consolateurs auxquels Jankélévitch oppose au contraire l’efficacité d’une morale qui assume pour elle-même l’irréversibilité du devenir temporel – en sorte que ce qui a été fait ne peut plus jamais être défait (factum nequit infectum répète sans cesse le philosophe) – et le régime “amphibolique” dans lequel précisément se fond toute action. Une perspective éthique – basée sur la pleine conscience du lien indissoluble entre bien et mal, entre “le Pur et l’Impur” dans l’agir concret des hommes – qui, d’un côté, sait que le vrai “sérieux” ne réside pas dans la prétention à la certitude et à la vérité par rapport à ce que nous faisons ou connaissons, mais, au contraire, dans une attitude de pudeur et d’ironie, capable de démystifier toute prétention prométhéenne de ce genre et de regarder avec un sain détachement toute conviction obtenue; mais qui, de l’autre côté, et précisément pour cette raison, précisément parce qu’elle sait qu’aucune décision n’est garantie par une Vérité ou par un Bien préconstitués, impose une vigilance d’autant plus haute et sévère. En sorte que, si la “méchanceté” ou le “mensonge” consistent à être dans l’“imbroglio” sur un mode équivoque, “la sincérité du cœur” est la “simplicité retrouvée”, c’est-à-dire la capacité à habiter les contraires, à être, sur un mode “univoque”, dans l’“équivoque” constitutive du réel. En somme, la morale est donnée par cette innocence reconquise dès lors que l’on comprend que la vraie pureté n’est pas “purisme” mais capacité à trouver le pur dans l’impur. Morale difficile, certainement, mais qui – bien loin de se laisser aller à quelque abdication ou relativisme éthique – restitue toute sa force et toute sa profondeur problématique à la responsabilité de l’homme; et ouvre même, entre autres, la possibilité d’une réflexion très originale sur le droit et la justice.
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6. “J’écris pour le XXIe siècle” Arrivés à ce point, on voit bien l’enjeu inépuisé de cette réflexion. Notre façon de voir toute chose, y compris la plus petite, en est complètement changée. En effet, là où on est habitué à poser des causes et des antécédents, des “raisons” (des “pourquoi”) saisissables en concepts sur le plan logique comme sur le plan ontologique, là, tout est garanti au prix de tout figer dans une immobilité éternelle. Non seulement toute naissance, tout événement, est tenu pour acquis, voire banal; mais encore il perd la marque “infiniment précieuse” de sa “semelfactivité”, et nous sommes libérés à bon compte de tout engagement à son égard. Inversement, pour le dire avec ces mots de Debussy à la saveur ‘fénelonienne’, souvent cités par Jankélévitch, “là où tout est perdu” – là où nous n’avons plus le soutien rassurant d’un cadre de référence substantialiste, de schémas qui guident nos choix et nos actes de façon quasi somnambulique, là où tout semble “sans pourquoi”, profondément infondé – là, “tout est sauvé”. Parce que nous comprenons justement, et de la façon la plus aiguë, que toute la réalité est suspendue à sa “semelfactivité”; et que le terrain de notre agir est seulement cette unique effectivité. Ce qui nous appelle à une véritable vigilance à l’endroit de nos choix, et qui nous contraint à accomplir des “actions justes”. Précisément pour la raison que nous ne pouvons pas nous approprier cette effectivité, qui est, pour le dire avec cette amphibologie chère à Jankélévitch, notre plus ‘propre impropriété’. Ainsi, toute chose, jusqu’à la plus petite, retrouve tout l’émerveillement de son existence, devient merveilleuse et mystérieuse du fait même de tenir son existence d’un “pourquoi” qui nous échappe. Alors, à l’arrogance d’une science qui prétend tout savoir et tout rendre transparent, succède une science, ou mieux, un “demi-savoir”, comme le dit Jankélévitch, qui sait garder le mystère du réel. Et qui en même temps, et pour cela même, nous garantit l’accès à des commencements vraiment nouveaux, non pré-établis: libres. Ce philosophe, qui nous enseigne la plus grande liberté de pensée et la posture juste qu’il faut assumer dans le monde – ce dont aujourd’hui on ressent l’urgence et la nécessité – avait donc bien raison d’écrire, par delà le voile d’ironie amère, le 1er janvier 1955, à son ami Beauduc: “J’écris pour le XXIe siècle. Siècle qui discutera mes idées avec passion – contrairement au XXe” (VL, 332). Ce volume voudrait repondre à ce souhait.
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PRIMA PARTE/PREMIÈRE PARTIE Non c’è bisogno di essere filosofo per stupirsi di un’avventura straordinaria, di un evento fuori serie o di un incontro insolito, ma è necessario essere filosofo per trovare sorprendente l’esistenza quotidiana più banale e la quoddità dell’essere puro e semplice in generale.
Il n’y a pas besoin d’être philosophe pour s’étonner d’une aventure extraordinaire, d’un événement hors série ou d’une rencontre insolite; mais il est nécessaire d’être philosophe pour trouver étonnantes l’existence journalière la plus banale et la quoddité de l’être nu en général. (Vladimir Janlélévitch)
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Vladimir Jankélévitch, nel 1980, nel suo appartamento parigino en 1980, dans son appartement parisien
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VLADIMIR JANKÉLÉVITCH
Qualcosa di semplice, di infinitamente semplice1
BÉATRICE BERLOWITZ L’ostinazione di formica, il bisogno di verifica permanente in Lei sono al servizio di una filosofia aerea che, come Ondina, evapora in gocce che si depositano sul vetro. Una volontà contraddittoria, dunque, rende il Suo rigore piú esigente e al tempo stesso il Suo intento piú evanescente: somiglia piú a una sfida che alla meditazione. VLADIMIR JANKÉLÉVITCH La filosofia consiste nel pensare tutto ciò che in una questione è pensabile – nel pensarla fino in fondo, costi quel che costi. Si tratta di dipanare l’inestricabile, senza fermarsi, se non a partire dal momento in cui diventa assolutamente impossibile andare oltre. Mirando a una ricerca così rigorosa, le parole, che servono di supporto al pensiero, devono essere impiegate in tutte le posizioni possibili, nelle locuzioni piú varie: occorre girarle e rigirarle sotto tutte le facce, nella speranza che ne scaturisca un bagliore, occorre palparle e auscultarne le sonorità per percepire il segreto del loro senso. Le assonanze e le risonanze delle parole non hanno forse una virtú ispiratrice? Il rigore, talvolta, dev’essere raggiunto a prezzo di un discorso illeggibile: occorre poco, in effetti, per contraddirsi – basta continuare su una stessa linea, scivolare lungo una medesima pendenza, e ci si allontana sempre piú dal punto di partenza, sicché quest’ultimo finisce con lo smentire il punto d’arrivo. È a questo tipo di discorso senza cedimenti che io mi sottometto: ad una “strenge Wissenschaft” dunque, una scienza rigorosa – che non è la scienza degli scienziati, ma piuttosto un’ascesi. Per un po’ mi sento meno inquieto quando, dopo aver girato a lungo tutt’intorno alle parole, averle scavate e triturate, aver esplorato le loro risonanze semantiche e analizzato i loro poteri allusivi, la 1
È il II capitolo, del libro-intervista Quelque part dans l’inachevé (Gallimard, Paris 1978) a cura di Béatrice Bérlowitz, la cui traduzione è già apparsa sul n. 270 della rivista “aut aut” e qui (in alcuni punti modificata) riprodotta per gentile concessione del Direttore e della Redazione. Per la frase, che dà il titolo al capitolo, v. più oltre nota 2.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
loro potenza d’evocazione, mi rendo conto che decisamente non posso andare oltre. La pretesa di toccare un giorno la verità è un’utopia dogmatica: quel che importa è andare fino in fondo a ciò che si può fare, attingere una coerenza senza falle, far affiorare le questioni più nascoste, le più informulabili, per estrarne un mondo coeso. E siccome ciò che io cerco esiste appena, siccome l’essenziale è un quasi-niente, un non-so-che, una cosa leggera fra tutte le cose leggere, questa ricerca forsennata tende soprattutto a mostrare l’impalpabile – qualcosa di cui si può intravedere l’apparizione, ma non verificarla, poiché svanisce nell’istante stesso in cui appare, poiché la prima volta è anche l’ultima. La seconda volta è la ripetizione minima richiesta per una verifica... L’oggetto della nostra ricerca non è che un’apparizione subito scomparsa, un evento che non sarà in nessun caso reiterato né, pertanto, confermato: un ingannevole bagliore nella notte! B.B. Lei parla di ricerca [recherche], ma la Sua opera mi sembra si edifichi al di fuori di ogni ricerca. Già dalle prime pagine dei Suoi libri, si disegna irresistibilmente il punto a cui Lei vuole arrivare. La scrittura per Lei non è un anelito [quête], ma piuttosto, all’interno di ciò che Lei ha di mira, un modo di tornare indietro. Insomma Lei non si concede sorprese: ogni questione in fondo è una specie di finzione, una definizione continuamente rinviata. V.J. Ciò che io cerco finisce altrettanto presto di quando comincia e non si presta perciò a un discorso. È una cosa che non è una cosa. Dunque si può dire ‘cercare’? “Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato”... Invece, ciò che questa cosa è, lo so e non lo so. 0 meglio: so che è; ma non so ciò che è – come la morte, la cui effettività è certa, ma la data assolutamente incerta. Sapere che, senza sapere cosa: con questo semi-sapere, con questa scienza mescolata di inscienza, sappiamo i misteri – Dío, l’infinito, il tempo, la morte... So che c’è un numero infinito, dice Pascal, ma non so se è pari o dispari. E ancora, “Quid est tempus?” si chiede sant’Agostino nelle Confessioni. “Si nemo a me quaerat, scio. Si quaerenti explicare velim, nescio”. (Di passaggio, tra l’altro, è da ammirare la meravigliosa concisione della lingua latina che in sole undici parole, non una di piú, con le sue declinazioni abbreviate e le simmetrie che queste autorizzano, dice un mondo di cose!). Se non mi si domanda nulla e sono lasciato alla spontaneità della mia intuizione, l’evidenza della temporalità non è oscurata da niente; ma se mi si interroga sulla natura del tempo, mi confondo e smetto di sapere: tutto diventa ambiguo. Il violinista Robert Soetens mi ha raccontato questo particolare: Menuhin è stato un violinista geniale soprattutto
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Vladimir Jankélévitch - Qualcosa di semplice, di infinitamente semplice
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nella sua giovinezza, quando era perfettamente inconsapevole del proprio genio; il suo modo di suonare è diventato invece piú laborioso a partire dal momento in cui, a forza di sentir parlare del proprio genio, ha cominciato a chiedersi come faceva. Quando si interroga un virtuoso del pianoforte sul modo col quale suona gli studi trascendentali di Liszt o di Liapunov, le sue dita s’ínceppano, slittano e sbagliano nota. Ma quando non gli si domanda niente, siede al pianoforte e suona gli Studi del tutto naturalmente – come quando le bambine suonano la sonatina di Diabelli. Lo stesso vale per l’acrobata: quando gli si chiede come fa, stando su un solo piede, a mantenersi sulla punta della guglia di Notre-Dame, ha le vertigini, perde l’equilibrio e si schiaccia al suolo. Ora tutto questo è, a fortiori, altrettanto vero per ciò che riguarda il tempo: è la coscienza del tempo che produce tutti i turbamenti relativi a quest’ultimo. Da lontano, invece, il tempo ritrova la propria evidenza. Allo stesso modo, quando il vivente cessa di domandarsi in che cosa consista la vita – questa acrobazia rinnovata ad ogni istante, questo equilibrio che è uno squilibrio incessantemente rinnovato – la vita ricomincia ad andar da sé... Lo stesso accade per la morte. Vengo rimproverato di non fornire alcun consiglio, nessuna rassicurazione e neppure una vera speranza, e soprattutto di non svelare alcun segreto, di informare molto male il viaggiatore sui dettagli del suo viaggio all’ “altro mondo”... certo non ho informazioni a riguardo! Mi vien detto: a che pro scrivere un grosso libro sulla morte, se lei non ne sa niente? se è solo per arrivare a parlare di un istante evanescente, di un bagliore brevissimo? Tante parole per un intravedere cosí incerto! Non è risibile? Erik Satie parla di un enorme atleta che solleva un’enorme pietra: ebbene, questa pietra è una pietra-pomice... Ma quando non si pretende di fare dell’atletismo e quando si ha coscienza del carattere infinitesimale dell’intravedere, non c’è piú ciarlataneria. Dunque, non mi si venga a rimproverare la natura inafferrabile di questo fuoco fatuo, perché io la teorizzo esplicitamente! Sostengo che noi siamo in uno stato di indigenza. E che il nostro sapere, esso stesso indigente dunque, ci priva di ogni punto fisso, di ogni sistema di riferimento, di contenuti facilmente decifrabili o stemperabili, in grado di farci tirare delle conclusioni, alimentare il discorso e aprire cosi un lungo avvenire di riflessioni. Questo nostro sapere insciente è piuttosto uno scorcio, un orizzonte – per cui si è rassegnato a fare a meno della consistenza sostanziale in generale. Eccoci improvvisamente muti di fronte all’irriducibile... C’è stato un tempo in cui mi veniva chiesto di emettere oracoli sulla “crisi della morale”. In circostanze simili, bisogna saper dire le parole che gli ascoltatori si aspettano. Li deludiamo se spieghiamo loro che una problematica relativa ai compiti morali, che implicano il perfezionamento dei costumi,
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
l’umanizzazione delle istituzioni, lo stato giuridico della sessualità ecc. non dipende propriamente parlando dalla morale... Le questioni pedagogiche, le piccole casistiche quotidiane concernenti l’igiene della vita e l’equilibrio del benessere hanno ovviamente un’estrema importanza, ma hanno senso solo in rapporto alla morale che le ingloba e le supera, e che è il loro vero a priori; non vanno scambiate con quel dibattito infinito, nel quale ci precipita ogni autentico problema morale. L’intenzione morale è in qualche modo il Cogito della pratica sociale e politica. Ma quanto all’esigenza morale stessa, si riduce a un quasi-niente, a qualcosa di impalpabile... E questo impalpabile è appunto la qualità dell’intenzione e la purezza del cuore. Se mi si costringe ad andare fino in fondo reclamando a viva forza una risposta, ecco che ci troviamo di nuovo di fronte all’evidenza di questa cosa innominata, inesprimibile, verso la quale le parole convergono all’infinito e che perciò le parole non incontrano mai... Cosa deludente al termine di una ricerca irritante! E tuttavia senza di essa niente comincia e niente si conclude; senza di essa la vita morale non è che una gloriosa facciata o un sistema di belle maniere. Ad ogni istante l’evidenza rinasce… per confondersi e scomparire di nuovo, e scomparire ricomparendo. Non c’è niente da dire su di essa: ma occorre molto tempo per dire che non c’è niente da dire; occorre molto tempo per dire che è una cosa semplice e dissipare le chiacchiere magniloquenti; così come occorre molto tempo per avvicinare l’imponderabile verità della morte o il lampo fugace dell’innocenza. Allo stesso modo, la fine punta regolatrice del prezioso movimento d’amore si cela sotto la complessità delle motivazioni psicologiche, che lo affievoliscono. Bisogna anzitutto strappare questa zizzania, eliminare la gramigna delle impurità, cioè della filautia e delle sospette intenzioni recondite: in una parola, lo spessore del vissuto. A questa cernita impietosa ha dedicato tutto il proprio sforzo il rigorismo di La Rochefoucauld, Fénelon e Kant. B.B. “In questo punto vi è qualcosa di semplice, di infinitamente semplice, di così straordinariamente semplice, che il filosofo non è mai riuscito a dirlo...” V.J. “Ed è per questo che ha parlato per tutta la vita”2... A questa frase di Bergson aggiungerò che l’intuizione si svela e rompe la sterile coincidenza 2
Si tratta della celebre frase di Bergson, contenuta nella conferenza L’intuition philosophique, compresa poi nel volume La pensée et le mouvant (cfr. H. Bergson, Œuvres, PUF, Paris 1970, p. 1347): “Enfin tout se ramasse en un point unique, dont nous sentons qu’on pourrait se rapprocher de plus en plus quoiqu’il faille désespérer d’y atteindre. En ce point est quelque chose de simple, d’infiniment
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dell’uomo con se stesso attraverso il libro, e attraverso il tempo impiegato a scriverlo. Se l’intuizione restasse in noi, ripiegata e muta, non ci resterebbe che guardare eternamente in uno specchio, e respirare in silenzio il profumo del tempo... L’immediato stesso, per diventare comunicabile, deve accettare un minimo di mediazione. Tolstoj, nel libro Che cos’è l’arte?, sviluppa a questo proposito alcuni irritanti paradossi. Al limite, dice, il discorso prolisso è quasi indiscernibile da un balbettio quasi inghiottito dal silenzio. L’uomo che, privandosi di ogni mediazione estetica, pretende di aderire alle cose, comincia a balbettare: cinguetta con gli uccelli e muggisce come l’oceano. Ionesco e Beckett talora giocano con una simile messinscena derisoria. Di fatto, un realismo dell’immediato, se rigettasse ogni stilizzazione, sfocerebbe nella negazione cinica dell’arte. Tolstoj si chiede: il notturno dello scrittore come raggiungerà, eguaglierà la notte stessa? E si domanda quale rapporto possa esistere tra lo splendore di una notte nel Caucaso e i caratteri che vengono tracciati con l’inchiostro su un foglio di carta – da una parte: le stelle scintillanti, il baluginio della notte, i profumi notturni, l’immenso ronzio dei grilli, il gracidio delle rane al chiaro di luna, il mormorio dei torrenti; dall’altra: le parole tracciate con la penna, uno scarabocchio nero su di un foglio bianco... No, il gesto di scrivere non ha alcuna somiglianza, alcuna misura comune con l’incanto della notte nel Caucaso! Debussy, a sua volta, non senza serietà in Monsieur Croche scrive: vedere una notte d’estate è piú importante che andare ad ascoltare la Sinfonia pastorale... L’artista gioca con l’immediato, come la farfalla con la fiamma. Gioco acrobatico e pericoloso! Per conoscere intuitivamente la fiamma occorrerebbe non solo veder danzare la piccola lingua di fuoco, ma sposarne dal di dentro il calore: aggiungere all’immagine la sensazione esistenziale della bruciatura. La farfalla non può che avvicinarsi quanto più è possibile alla fiamma, sfiorare il suo calore bruciante e giocare letteralmente col fuoco – ma se, avida di conoscerla ancor meglio, giunge a penetrare imprudentemente nella fiamma stessa, che ne resterà se non un pizzico di ceneri? Conoscere la fiamma dal di fuori ignorando il suo calore, oppure conoscere la fiamma stessa consumandosi in essa: sapere senza essere o essere senza sapere3 – ecco il dilemma. Vietato riunirli!
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simple, de si extraordinairement simple que le philosophe n’a jamais réussi à le dire. Et c’est pourquoi il a parlé toute sa vie” [N. d. C.]. Qui Jankélévitch allude alla frase, da lui più volte citata (v. per es. M, 27), di Angelus Silesius “Non so quel che sono; non sono quel che so” (cfr. Angelus Silesius, Cherubinischer Wandersmann (1675); trad. it. Il Pellegrino cherubico, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1989, I, 5, p. 106) [N. d. C.].
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
Ciò che è vero per l’elemento igneo, non lo è meno per l’acqua. La Mer di Debussy si situa al limite della musica, in quel punto estremo in cui la musica diventa rumore... Ma il miracolo – e questo è anche il miracolo della scrittura e in generale dell’arte – è che la musica, piú artista e soprattutto piú agile della farfalla, resta come sospesa al di sopra del caos, prossima a sprofondare nel chiasso informe e nella stupidità dell’imitazione chiassosa: sul punto di non essere piú niente, in extremis ripristina il proprio equilibrio acrobatico. Allo stesso modo, nella raccolta En plein air Béla Bartók sembra quasi che trascriva quasi identici i rantoli delle bestie notturne, lo scricchiolio dei rami e il frusciare del fogliame: a tratti non c’è altro che il rumore atonale della natura animale e vegetale... E tuttavia questa ‘antimusica’ è tutta avvolta da uno strano mistero: questo mistero è il mistero inesplicabile della musica e della poesia. La grande notte del Caucaso: queste cinque parole ci allontanano dalla notte stessa, dall’ipseità della notte, dalla notte “in persona” – e però nell’istante stesso in cui ci allontanano da essa, ce la evocano, ce ne suggeriscono la fugace magia, suscitano un sommovimento interiore, riversano in noi il turbamento stesso della notte. B.B. Perché, nel momento in cui ci si aspetta una parola filosofica, Lei evoca la musica e la poesia? È per una sorta di prudenza dell’intuizione, prudenza estranea al filosofo, e propria per contro del poeta e del musicista? Lei passa attraverso mille svolte, mantiene in serbo alcuni barlumi e poi li camuffa sapientemente con una tecnica della dissimulazione che sembra rispondere al precetto di Balthasar Gracián: “Bisogna imitare il procedimento di Dio, che tiene tutti gli uomini in sospeso”. V.J. La dissimulazione per Gracián è una tattica di guerra, una strategia feroce ad uso dell’uomo di corte. Coprirsi di una “pelle di volpe”, quando non ci si può servire di una “pelle di leone” è un assioma politico usato dagli eroi del successo, dai principi e dai cortigiani: un assioma conforme allo spirito di un’epoca spietata, nella quale il fine giustificava qualsiasi mezzo e artificio, la strategia più crudele come l’astuzia piú cinica. Gracián ha messo a punto un sistema difensivo e uno offensivo, nonché forgiato le armi del penetrante impenetrabile. In questo, almeno, si avvicina a Epitteto, lo schiavo alla mercé di un padrone disumano. Epitteto è interiormente libero in virtù di una libertà autocratica: la fortezza interiore, la cittadella inespugnabile del volere non sono forse altrettante immagini guerriere, che esaltano l’onnipotenza del microcosmo personale? Col suo ripiegamento nel castello completamente invisibile, il “volere proprio” sfugge alla violenza del potere. Ma questa manovra clandestina non è una prerogativa
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Vladimir Jankélévitch - Qualcosa di semplice, di infinitamente semplice
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dello stato di guerra. Anche se in Gracián prende il volto implacabile del successo, laddove in Epitteto prende il volto altrettanto implacabile del silenzio e della resistenza, in realtà essa è presente in ciascuno di noi in ogni istante della durata. Una parte di noi manovra perennemente al di fuori del campo delle operazioni ufficiali: il nostro disegno profondo si esprime sotto mille maschere, mille astuzie, che lo rendono talora irriconoscibile: come Ulisse, facciamo finta di dormire al momento di toccare il porto, per concederci ancora un’ultima deviazione... Ma l’intimità della nostra interiorità non è una camera blindata, come quella dove l’avaro custodisce i propri averi e il tesoriere i propri tesori: il suo segreto non assomiglia alla combinazione di una cassaforte. È piuttosto un mistero, che si avvolge in una notte interiore, dove proietta la propria luce intermittente. Di questo genere sono le illuminazioni intermittenti dell’intravedere. L’accumularsi delle deviazioni ritarda e al contempo rende piú acuta la tangenza con un segreto presentito che bisbiglia attraverso la foresta delle parole, di cui lo carichiamo. Questa astuzia della scrittura è troppo disarmata perché la si possa confondere con l’astuzia soggiogante e aggressiva del giocatore, del grande stratega che calcola le possibilità di riuscita, misura i punti deboli dell’avversario, prevede tutti i pericoli e tutte le poste in gioco, nonché tutte le possibili reazioni; quest’astuzia è invece l’espressione della nostra finitezza: sorprende per illuminare, non per dominare; tiene gli uomini in sospeso, ma non promette alcun regno. La sua tattica è indiretta come la suggestione, il suo gioco è leggero come l’allusione: è allusiva ma non ludica la sua maniera di evocare. Non sottrae, né dissimula – dà da pensare. B.B. E cionondimeno non è mai tutto veramente perduto, basta aspettare e sapere che Lei prende tempo. Perché, nascostamente, Lei in fondo sembra promettere una riva al naufrago. Lei rinforza e rende piú oscuri i rovi per commuovere di più con la rosa che vi si cela.... V.J. ...ma questa rosa non sono io ad averla nascosta! Il tempo è l’oggetto per eccellenza della filosofia: un oggetto che non è un ‘oggetto’, un oggetto che non è niente, e che tuttavia è qualcosa: che dunque è quasi niente. Il tempo è qualcosa che non è niente – che è tutto! che è tutto e niente. Non che sia intermedio fra essere e non-essere (in tal caso sarebbe una sorta di stazione equidistante nello spazio), e neppure non so qual mescolanza fra i due, o quale misura media. Ma allora sarebbe, se non a metà cammino fra l’uno e l’altro, almeno sul cammino dall’uno all’altro, sempre per strada, come un elemento mobile che si avvicini alla propria meta? No, non è niente di tutto questo! Allora, decisamente: che cos’è? Al di qua di tutto?
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al di là di tutto? Ebbene: imponderabile, impalpabile e invisibile, e infinitamente deludente – come tutte le cose veramente importanti. Non si può né pesarlo, né toccarlo, né vederlo. D’altra parte questo oggetto così ambiguo, che non è un oggetto, non è neanche un soggetto. Insomma, proprio quel tempo che io assumo non solo per sviluppare un’intuizione, ma anche per sbarazzarmi di tutto ciò che non le appartiene, è esso stesso il primo mistero filosofico. Il tempo ha già superato il lavoro preparatorio della catharsis, il ragionamento e il discorso: il tempo è già qui, sotto la lampada, seduto al nostro tavolino – è già qui: pensiero pensante, che sta pensando. È già qui e – come l’humour – già non è piú qui. Per esempio, in questo stesso momento scorre via… Ironia delle ironie! Santa petizione di principio! È nel tempo che io cerco ciò che il tempo è. O piuttosto (poiché la preposizione nel è ancora troppo spaziale) è temporalmente che medito sul tempo. Il lavoro filosofico è un cerchio in cui si gira senza fine, correndo dietro al tempo che fugge. Oggetto preveniente, inglobante, oggetto evasivo, ribelle a ogni spazializzazione, oggetto deludente. Dunque oggetto che si fa ‘soggetto’! Io sono avviluppato nei lembi del tempo, in modo tale che l’atto col quale ne parlo è già nel tempo. La tradizione vuole che lo spazio e il tempo siano le due forme a priori della sensibilità – e si parla di questa coppia come di due fratelli gemelli: spazio e tempo farebbero “pendant” l’uno all’altro come due candelabri ai lati di un pendolo. È ciò che io chiamo ‘il mito dell’addobbo da caminetto’... Certo, lo spazio come il tempo mi avvolge – ma nel momento in cui lo erigo a problema o a spettacolo, il mio pensiero ne resta fuori e ne fa un oggetto. Invece, nel tempo il pensiero è necessariamente e continuativamente; o piuttosto, esso è integralmente temporale, perché se fosse ‘nel’ tempo come un contenuto nel proprio contenente trasformeremmo di nuovo il tempo in un recipiente, e cioè in spazio! Pensare il tempo è compiere un viaggio irreversibile nel corso del quale occorre che il pensiero si afferri da sé: pensare il tempo è pensare riflessivamente il modo di operare del pensiero – ed è per questo che l’intuizione non si situa in realtà né alla conclusione di un libro, né al termine di un discorso, né alla fine del tempo. Fare dell’intuizione un recinto privilegiato, luogo di preghiera e adorazione verso il quale tutti i cammini del pensiero convergerebbero, ci condannerebbe a una sorta di mistica dogmatica. Ecco la rosa che avevo promesso: eccola qui alfine! Ora, questa rosa per me è una compagna fedele che si tratta, al contempo, di preservare, nascondere e meritare: dobbiamo senza tregua sbarazzarla dalle spine, strappare ciò che ci impedisce di respirarne il profumo e vederne i colori. E ogni volta bisogna ricominciare... Compagna incessantemente ritrovata, incessantemente perduta. Tale sarebbe, in un
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Vladimir Jankélévitch - Qualcosa di semplice, di infinitamente semplice
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registro del tutto opposto, il mistero della morte: alla fine della ricerca non conosco la morte meglio che all’inizio, così come non conosco la morte alla fine della vita meglio che all’inizio, perché il mistero che essa risveglia non è una cosa nascosta da qualche parte, accovacciata in un angolo – questo mistero è immanente alla totalità della ricerca. Se questa rosa fosse stata segretamente deposta in un nascondiglio, la ricerca in effetti sarebbe solo una finzione, un semplice stratagemma destinato a condurci in porto, un cercare tanto per far finta. Ma la terra promessa è una terra eternamente compromessa. (Traduzione dal francese di Enrica Lisciani Petrini)
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SILVIA VIZZARDELLI
Le réalisme mystique de Vladimir Jankélévitch
1. À l’âge de vingt-et-un ans à peine, Jankélévitch écrit un essai, que l’on a pu considérer, à vrai dire, comme plutôt hâtif et scolaire, intitulé Les thèmes mystiques dans la pensée russe contemporaine1. Cet essai représente l’unique témoignage de son lien très fort avec la philosophie russe de la fin du XIXe et du début du XXe siècle. Le seul témoignage, si l’on exclut les très nombreux renvois aux textes et aux figures les plus importantes de la koinè culturelle qui sont disséminés dans la quasi-totalité de ses œuvres, et qui offrent des pistes de réflexion beaucoup plus faciles à contextualiser, peut-être, que celles suggérées par le recueil des œuvres de jeunesse publié en 1925. Dès cette toute première intervention, l’attention de Jankélévitch se concentre sur les facteurs socioculturels qui ont constitué les prémisses de cette tradition mystique, née en marge de l’intellectualisme scientiste et de l’idéalisme post-kantien, si active parmi les représentants les plus fervents de la philosophie russe. Quatre tendances confluent en elle: la réaction contre le matérialisme des années 80 alimenté par les occidentalistes de seconde génération, c’est-à-dire par ceux qui abandonnèrent la vocation idéaliste antérieure; la diffusion de certaines tendances qu’on peut dire en gros ‘irrationalistes’ de la philosophie franco-allemande; le développement d’études néoplatoniciennes et médiévales, et l’héritage du romantisme allemand. À partir de la fin du XIXe siècle, en particulier grâce à l’influence de l’un des penseurs les plus représentatifs de ce mouvement, Solov’ëv, la réaction à l’“hypertrophie monstrueuse de notre savoir analytique et abstrait”2 acquiert un ton plus modéré et conscient, qui atténue le radicalisme slavophile et accueille ce qu’il y a de plus important dans les solutions positivistes, tout en maintenant une empreinte spiritualiste accentuée3. 1 2 3
Institut d’études slaves, 1925, maintenant dans PDP, 101-130. Ibidem, p. 105. Comme le précise Jankélévitch, ce mouvement philosophique eut l’occasion de se répandre grâce à la fondation d’une Société psychologique qui, née en 1884, créa
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
Un autre facteur décisif fut la diffusion lente et indirecte de la pensée bergsonienne en Russie: lente, tout d’abord parce que, comme il est arrivé pour leur réception italienne, la complexité et le ton fortement spécialisé, surtout des premières œuvres bergsoniennes, ne favorisa pas une large circulation. Ensuite, mais seulement de façon marginale, dans la mesure où le français était une langue connue parmi les classes élevées de la population et a fortiori dans les milieux culturels, les œuvres de Bergson commencèrent à être traduites très tard, et, comme l’indique Jankélévitch, suivant un ordre singulier. L’Evolution créatrice fut traduite pour la première fois en 1909, alors que la première œuvre de Bergson, L’Essai sur les données immédiates de la conscience ne fut traduite qu’en 1911. La même année, la traduction de Matière et mémoire4 fut également publiée. Mais l’influence de Bergson fut surtout indirecte car elle passa, en Russie, par le biais des lectures des ‘philosophes de la vie’ comme Keyserling et Spengler, qui donnèrent à cette pensée une couleur socio-politique, particulièrement propre à alimenter certaines exigences slavophiles soutenues. C’est ainsi qu’agit, finalement, sur cette sorte de renaissance mystique, le développement des études néoplatoniciennes et médiévales qui conduisit, par exemple Simon Frank à chercher “la filiation spirituelle qui relie la doctrine plotinienne de l’extase au mysticisme d’Augustin, à l’Ineffable de Maître Eckart, à l’Un de Jacob Bœhme et des monistes du XIXe siècle, tandis que l’ombre de Plotin – d’un Plotin un peu lyrique, un peu trop chrétien à notre sens – obsède en quelque sorte perpétuellement la pensée anxieuse de M. Léon Chestov” (PDP, 109). Mais c’est surtout l’inflexion réaliste de ces études qui fascine Jankélévitch: Simon Frank, selon une ligne de pensée semblable à celle de Solov’ëv, tient à rappeler comment la connaissance intellectuelle perdrait ses contenus, deviendrait une abstraction vide, si elle ne tirait pas sa matière d’un “savoir vivant”, d’une intuition immédiate qu’il appelle, comme du reste le fait aussi Jankélévitch, première, où le transcendant est capté et totalement immergé dans l’expérience concrète5. Il existe encore un dernier grand courant qui a eu une remarquable influence sur la pensée russe, c’est celui du romantisme allemand – en
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les Voprosy filosofii i psikhologii, la première grande revue philosophique russe avant la fondation de Logos en 1910. Parmi les collaborateurs des Voprosy, se trouvaient entre autres Lopatin, Solov’ëv lui-même, Čičerin, Tolstoï, Trubeckoj. L’Essai fut traduit par M.S.I.Hessen, Moscou, 1911, alors que Matière et mémoire fut traduit par A. Bauler, éd. Joukovski, 1911. Cf. sur les sources russes de la pensée de Jankélévitch, la monographie de I. de Montmollin, La Philosophie de Vladimir Jnkélévitch, PUF, Paris 2000, sur Frank, pp. 44 et suivantes.
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Silvia Vizzardelli – Le réalisme mystique de Vladimir Jankélévitch
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particulier avec les figures de F. Schlegel et Novalis –, qui, soumettant la Critique de la Raison Pure kantienne à une sorte d’”exégèse lyrique”, ainsi que la définit Jankélévitch, c’est-à-dire à une tentative pour enrichir le formalisme avec les contenus de la vie, aboutit à l’idée d’une “synthèse universelle”, si chère à Gœthe, ainsi qu’aux mystiques russes à travers Novalis et Schlegel. Dans un bel essai intitulé Le nocturne, publié en 1948 dans un numéro spécial des “Cahiers du Sud” préparé par Albert Béguin et consacré justement au Romantisme allemand, Jankélévitch définit la conscience romantique ‘noctambule’ par sa disposition à disperser les frontières entre les choses simples et à activer la conscience du ‘mixte’, de l’indispensable ambiguïté de l’existence. Le nocturne, comme tonalité profonde de l’‘exister’, est la négation de l’évidence aiguë du cogito ergo sum cartésien et représente l’insertion dans une réalité psychosomatique, dans cet arrière-plan de relations sympathiques auxquelles Maine de Biran donnait le nom de fait primitif, et auxquelles correspond substantiellement l’ambiguïté positive de la nature dans la Naturphilosophie romantique. La nuit est la situation où le maximum d’intériorité se mêle chiasmatiquement à la disponibilité à accueillir la suggestion provenant de l’extérieur, de ce qui transcende la conscience. D’une part la nuit est propice au recueillement: avant que le matin affairé ne ramène le tumulte des vaines paroles, profitons des heures sacrées où la confidence est possible, où l’âme s’approfondit, se concentre et tout entière se possède. La soirée isole et dépayse l’humeur de l’âme en même temps qu’elle enveloppe les choses d’irréalité. C’est là le nocturne élégiaque de Chopin, et c’est surtout le nocturne intimiste de Fauré avec ses arpèges et ses soupirs, ses battements d’ailes invisibles qui vous frôlent la joue. […] D’autre part, la nuit provoque en nous un mouvement d’expansion centrifuge, et c’est là – faut-il le dire? – le nocturne panthéiste de Novalis.6
Ce n’est pas un hasard si Novalis, précisément, a été considéré par les symbolistes russes et en particulier par Ivanov7, comme le précurseur le plus significatif, dans le milieu romantique, du mysticisme réaliste. Un cas presque exceptionnel, si l’on pense que, par ailleurs, le romantisme était considéré, 6
7
V. Jankélévitch, Le nocturne, dans Aa.Vv., Le romantisme allemand, “Les Cahiers du Sud”, 1949, p. 95. Il s’agit d’un texte reprenant les thèmes développés dans un livret du même titre diffusé dans la clandestinité, Marius Audin, Lyon 1942, qui sera publié et augmenté dans l’édition Albin Michel, Paris 1957, puis inséré dans MH (pour la cit.: pp. 252-253). V.I. Ivanov, O Novalise, in Sobranie Sočinenii, Foyer Oriental Chrétien, Bruxelles 1971-1987, IV, pp. 252-277.
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avec ses conséquences décadentistes supposées, comme responsable d’une perte de l’objet dans le triomphe absolu d’une subjectivité capricieuse, fantastique, arbitraire. L’idéalisme magique de Novalis aurait en revanche soustrait au règne de la pure illusion, de l’imagination onirique, la possibilité de la tangence entre fini et infini, la rendant, de la sorte, réelle, effective, indépendante des projections utopiques d’une conscience hypertrophiée. Si ce sont là les tendances qui confluent dans la pensée russe et en particulier dans sa déclinaison mystique, alors je serais tentée de dire que le programme de vie et de pensée de Jankélévitch y tient tout entier. L’attraction pour l’immédiat, le contact direct avec les choses, l’objectivité sans médiations sont les aspects qui, s’ajoutant à la mélancolie et à la nostalgie du romantisme nocturne, donnent à la culture russe ce caractère de ‘dure’ approche du réel, de respect rigoureux de l’altérité irréductible à la conscience, qui se traduit dans un langage de faits plutôt que de paroles. Le motif qui attire l’attention de Jankélévitch sur le style narratif de Tolstoï et sur la pensée de philosophes tels que Solov’ëv et Losskij, pour rappeler ici les noms présents peut-être avec la plus grande fréquence dans ses textes, n’est autre que celui-là. Dans Guerre et Paix, alors qu’il dirige son attention sur les personnages historiques importants comme Kutuzov et Napoléon, Tolstoï s’attarde dans la description de vérités minuscules, du cou épais de Kutuzov et des bras laiteux et replets de l’empereur. La nature a son ultime revanche quand le prince André, blessé sur le champ de bataille, renonce à toute méditation sur sa propre vie, sur les affaires d’État ou la gloire militaire. Il se laisse conduire par les nuages dans le ciel, réduisant à néant tous les intermédiaires qui le séparent de la nature et de Dieu. La même chose arrive à Lévin dans Anna Karénine et à Ivan Il’ič, qui, devant la mort, refusent de se réfugier dans la pensée, et cherchent le contact direct avec la nature dans “une religion immédiate susceptible de rétablir la communion avec le divin en dehors de toute intervention étrangère”.8 Ce n’est pas un hasard si, parlant de Bergson, Jankélévitch fait de fréquents renvois à la passion de l’immédiat qui inspire les narrations tolstoïennes ainsi qu’au versant mystique du réalisme russe, c’est-à-dire, à une pensée russe qui n’est pas assez désenchantée et historiquement vigilante, mais certainement en mesure de récupérer le point de vue de l’acteur, de celui qui agit et qui, en agissant, s’identifie et participe à la vie, sans être ébloui par la distance qui le sépare du spectateur. 8
Toutes ces observations sont développées chez Jankélévitch dans un essai intitulé Tolstoï et l’immédiat, publié à l’origine en russe en 1950 et, devenu introuvable, traduit en français par M. Zanuttini et révisé par l’auteur lui-même dans S.
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Bergson a consacré la plus grande partie de sa vie à rechercher un contact direct avec la donnée immédiate, à traquer les moyens termes protocolaires qui médiatisent notre rapport avec le réel, à dénoncer les mirages de transposition et d’interposition. Sa philosophie est littéralement un retour aux choses elles-mêmes: la perception pure n’est-elle pas datum ipsum, l’ipséité du donné en personne? […] Bergson en cela tend la main non seulement au néoréalisme anglo-saxon, mais encore à ce réalisme russe qui est en quelque sorte une philosophie autodidacte et une nouvelle innocence: Bergson se serait reconnu dans le réalisme de Losskij, dans l’immédiat de Frank, et même dans l’objectivité tolstoïenne; la réalité ‘à bout portant’, écrit Moussorgski à Vladimir Stassov, voilà ma visée! (HB, 288).
On pourra dire alors que la pensée russe est un hommage au sens commun, au sens commun entendu cependant comme objectif de recherche, comme quelque chose qui doit être reconquis. Il est d’ailleurs significatif que Jankélévitch définisse ainsi la philosophie bergsonienne elle aussi. Mais que nous révèle le sens commun? Il nous appelle à transcender les deux unilatéralités opposées: l’unilatéralité positiviste et l’unilatéralité idéaliste, au nom d’un mysticisme qui porte en lui les germes d’un immanentisme radical. Jankélévitch est, en somme, attiré par le projet de restituer de l’autonomie aux deux pôles de la connaissance, le pôle subjectif et le pôle objectif. C’est justement l’intention de Solov’ëv: trouver dans le cadre d’une “synthèse concrète” la possibilité de ne pas annuler l’objet dans les projections subjectives et en même temps de ne pas céder à un empirisme naïf. S’abandonner à l’une ou à l’autre de ces deux unilatéralités signifie perdre la dualité de fond qui est le motif même de l’acte cognitif. La définition de la beauté nous offre justement le témoignage d’une volonté semblable de sauvegarder l’objet, le réel et d’admettre, au même moment, une sorte de communication avec le pôle de l’idéalité. Solov’ëv définit le beau comme l’incarnation de l’idée. Jusqu’ici, on peut dire qu’il n’y a rien de nouveau, cela semble même familier. Mais quelque chose d’original apparaît dans les motifs qu’avance Solov’ëv pour soutenir cette définition. Voici ses paroles, contenues dans un article de 1889 intitulé La beauté dans la nature: “La définition de la beauté comme idée incarnée, élimine, par le biais de son premier mot (idée), cette opinion selon laquelle la beauté peut exprimer n’importe quel contenu, et corrige également, au travers du second mot (incarnée), l’opinion (encore plus répandue) selon laquelle, même si elle exige pour elle-même un contenu idéal, elle trouve dans la beauté non pas une réalisation effective mais seulement une apparence (Schein) de l’idée” 9. Qu’est-ce que cela signifie? Cela signifie que pour 9
V. Solov’ëv, La bellezza nella natura, trad. it. di E. Lo Gatto in L’estetica e la poetica in Russia, Sansoni, Firenze 1947, p. 366.
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Solov’ëv, le processus d’incarnation de l’idée, de l’esprit, n’implique pas un passage de la vérité à l’apparence, ni une façon de transiter de l’inexprimé à l’expression, mais la compénétration de deux réalités pareillement dignes10. La lumière est le premier exemple, et l’exemple le plus immédiat, de beauté de la nature, car elle est par ses effets impondérables – l’éthéré – pénétrabilité positive en tout, capable à son tour de pénétrer, vivifier et organiser la matière. La pénétrabilité n’est donc rien d’autre que ce principe de conversion qui donne à l’esprit la possibilité de se faire matière et vice-versa. Et la beauté, justement au nom de sa capacité à transformer un pôle en l’autre, représente une exemplification privilégiée, une application du principe moral universel. “L’impénétrabilité de l’égoïsme – écrit Solov’ëv dans un autre essai de 1890 intitulé Le sens universel de l’art – est abolie; tous se retrouvent en chacun et chacun se retrouve dans tous les autres. Mais si cette pénétrabilité universelle et réciproque, dans laquelle se trouve l’essence du bien moral, s’arrête face à la nature matérielle. Si le principe spirituel, une fois vaincue l’impénétrabilité de l’égoïsme psychique humain, ne peut pas vaincre l’impénétrabilité de la matière ni l’égoïsme physique, alors cela veut dire que cette force du bien ou de l’amour n’est pas assez grande, que ce principe moral ne peut être réalisé jusqu’au bout et être pleinement justifié”11.
2. Dans quelle mesure Jankélévitch hérita de cette exigence de relier l’art et la morale sur la base de l’identification d’une racine qui leur soit commune, et jusqu’à quel point celui-ci fut-il d’accord avec Solov’ëv pour identifier cette racine commune dans le principe de “pénétrabilité universelle réciproque des opposés”? Répondre à ces questions serait un sujet d’une telle ampleur que je ne saurais me risquer à écrire plus que ces quelques considérations. Ce qui ressort d’une façon particulièrement originale est l’idée que la beauté ne comporte pas une transfiguration, une transposition en image du contenu représenté, une sublimation de l’archétype en effigies, ni un passage de l’original au phénomène, mais 10
11
Ainsi que l’a démontré R. Salizzoni dans son ouvrage intitulé L’idea russa di estetica. Sofia e Cosmo nell’arte e nella filosofia, Rosenberg &Sellier, Torino 1992, pp. 39-46, dans cette recherche du contact entre idéalité et matière, entre divin et extra-divin, se manifeste, non sans difficultés, la doctrine sophianique qui prend corps justement chez Solov’ëv. V. Solov’ëv, Il significato universale dell’arte, in L’estetica e la poetica in Russia, cit., p. 403.
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qu’elle est essentiellement un acte horizontal d’identification, d’installation dans le tout autre que nous, d’expatriation. Réalité et idéalité, bien que rigoureusement distinctes, ne peuvent pas être ontologiquement scindées. Tout comme l’ordre du monde et l’ordre céleste, les choses et la transcendance ne sont pas réparties sur des plans situés verticalement l’un par rapport à l’autre, mais sont co-essentielles. Il s’agit, en somme, du principe fondamental du christianisme russe orthodoxe, selon lequel la nette distinction entre le monde suprasensible et le monde terrien ne comporte pas de séparation, mais une coexistence ontologique: la vérité n’est ni dans l’un ni dans l’autre, mais dans leur tangence. Je voudrais citer encore un long passage de la monographie de Jankélévitch sur Bergson, dans lequel un philosophe russe, Nicolai Losskij, est de nouveau protagoniste: Comme Bergson, Losskij proteste contre un substantialisme grossier qui déracine irrémédiablement l’évidence de la perception et de la connaissance tout entière. L’idée centrale, et toute bergsonienne, du philosophe russe, c’est que le donné ne se dérange pas pour pénétrer en nous; ce que par suite nous en connaissons, ce n’est pas un double (miniature, phénomène ou simulacre) filtré par les sensoria organiques, c’est la Res Ipsa, c’est l’ ‘original’ lui-même (podlinnik). Il n’y aurait, en ce sens, que des qualités ‘primaires’. Dans ce réalisme de l’immédiat, il faut reconnaître un trait fondamental de la pensée russe; et qui sait si l’objectivité tolstoïenne n’en est pas la conséquence? […] L’intérêt de cette conception est de nous déshabituer de cette idée que la connaissance est une assimilation progressive, une digestion du réel, un engloutissement de l’univers, comme nous l’a fait croire l’orgueil intellectualiste. La relation cognitive ou, comme dit Losskij, la ‘coordination gnoséologique’, est quelque chose d’absolument original et spécifique; c’est une magie, au sens que Schelling donnait à ce mot, une sorte d’action à distance qui échappe à la malédiction de l’éloignement et de la discursion: l’objet est là, et par un sortilège de la connaissance il est instantanément aussi dans l’esprit. Ainsi la lumière brille, et par là même éclaire ce qui l’entoure, sans sortir de soi et sans s’installer dans les choses du dehors, ƴ Ƽαƴεƹ; la lumière, qui est le symbole même de l’omniprésence et de l’ubiquité, n’habite-t-elle pas à la fois la flamme d’où elle émane et la chambre où elle rayonne? Tel encore l’Un de Plotin s’épanche en créatures sans s’aliéner lui-même. Le réalisme, discréditant le préjugé de l’élaboration graduelle, restaure ainsi l’humilité de la connaissance véritable: nous n’annexons pas le donné, mais l’acceptons avec confiance, par un acte immédiat et en quelque sorte mystique (HB, 101-2)”.
On dira que nous nous trouvons dans le cadre d’un réalisme ingénu, simplifié, qui soustrait son histoire au sujet, à l’appui d’une objectivité crue, satisfaite d’elle-même, indépendante. En réalité, cette fois encore, comme
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il nous est déjà arrivé de le constater à propos de l’ambiguïté et de ses fonctions chez Jankélévitch, nous sommes bien loin des brumes de l’inconscience. Nous l’avons vu, lorsque Jankélévitch parle d’ambiguïté, d’ambivalence, il assume pleinement la responsabilité d’un discours apparemment paradoxal et, ce faisant, libère ces concepts de la malédiction qui les frappe traditionnellement: celle de confondre l’ambivalence avec la contradiction. De la même manière, Losskij s’impose le retour à une forme rigoureuse de réalisme, conscient de ce qui arrive quand on cherche imprudemment à s’en débarrasser. Même si l’on disait qu’il serait naïf, à une époque de repli individualiste et de rémissions tardives, de parler de réalisme, sous prétexte qu’on tournerait ainsi le dos aux résultats significatifs obtenus par les recherches gnoséologiques, en parler serait en même temps nécessaire pour récupérer certains fondements oubliés mais tout aussi décisifs. En somme, il s’agit d’une exigence qui, de nos jours, rend un son naïf, mais qui tire sa force fracassante de la limpidité avec laquelle elle est posée, s’enrichissant de ces tonalités ‘sentimentales’ qui la reconduisent à la conscience. Voici donc synthétiquement le point de départ de Losskij: il peut arriver que la culture philosophique conduise non seulement à un légitime et nécessaire dépassement de la naïveté primitive, de ce qui est défini comme réalisme naïf, mais comporte aussi une frénésie mesquine conduisant à exclure complètement cet appel à la nature et à l’autonomie de l’objet qui continue d’être un fondement indispensable pour expliquer l’acte cognitif. Losskij écrit dans un recueil d’essais intitulé L’intuition, la matière et la vie12: “la tâche de ceux qui se trouvent à un degré de culture encore plus élevé consiste dans le retour à la conception primitive, dans le but de faire renaître ses côtés valables d’une façon non plus naïve, mais consciente”13. À cette nouvelle théorie gnoséologique qui conserve l’idée primitive d’une coïncidence partielle entre le contenu de la perception et la réalité elle-même, la transférant sur un plan plus élevé de conscience, Losskij donne le nom d’intuitivisme. Mais quels sont ces caractères originaires qu’il faut garder précieusement? Ils concernent la manière de comprendre le rapport sujet-objet dans le processus de la connaissance. Si l’on continue défendre l’idée selon laquelle le but de la connaissance est d’atteindre le niveau maximal de proximité avec la vérité de l’objet, alors il faudra penser ce rapport non pas dans les termes d’une correspondance ou d’une copie mais dans ceux d’une coïncidence, même partielle, d’une identité. Où la coïncidence avec l’autre 12 13
N. O. Losskij, L’intuition, la matière et la vie, traduit du russe en français, Alcan, Paris 1928. Ibidem, p. 7.
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que soi, justement parce qu’elle suppose la radicale hétérogénéité des deux pôles de la connaissance, est expatriation, authentique expérience du nouveau. Il est, par conséquent, nécessaire qu’un objet appartenant au monde extérieur pénètre en original dans la sphère de la conscience et, pour que cela se réalise, il faut que l’objet, tout en devenant immanent à la conscience du sujet, reste toutefois au-dehors du sujet lui-même, conserve son identité, son autonomie: “La même pensée peut être exprimée aussi de la manière suivante: un arbre observé appartient au monde transsubjectif (c’est-à-dire au monde extérieur au sujet), mais cela ne l’empêche pas d’entrer, en même temps, dans la sphère de la conscience du sujet”14. En résumé, les différences qui existent entre les perceptions n’autorisent pas à subjectiviser le contenu des perceptions elles-mêmes ni à en exclure certaines comme fausses. “La question est résolue de la même manière que dans l’anecdote contée dans L’Introduction à la philosophie de Paulsen. Deux chevaliers se sont disputés au sujet de la couleur d’un bouclier: l’un d’eux disait qu’il était blanc, l’autre qu’il était noir. Après une altercation violente, ils en vinrent aux mains. Mais un troisième qui passait par là leur dit: Est-ce que vous ne voyez pas que le bouclier est en effet noir d’un côté et blanc de l’autre!”15.
3. Il me serait difficile de trouver des mots plus adaptés pour expliquer ce que Jankélévitch a à l’esprit quand il parle de conversion et quand il tente de se rapprocher le plus possible du modèle bergsonien, celui qui vise à comprendre la perception pure, la perception en droit. D’autre part, le texte de Losskij, mentionné ci-dessus, fut amplement consulté et repris par Jankélévitch; les renvois précis à ce recueil d’essais, dans son édition française (1928), que l’on trouve dans sa monographie sur Bergson, en témoignent. L’intuition, la matière et la vie réunit et réorganise trois articles: “Esquisse d’une théorie de l’intuitivisme”, “La matière dans un système de conception organique du monde” et “Le vitalisme contemporain”. Des articles qui forment un tout unitaire puisque – comme le déclare Losskij lui-même dans sa préface – ils sont l’application de la doctrine de l’intuition à la question de l’existence d’un système de la nature matérielle et à celle des fonctions de certaines facultés de l’organisme, et parce qu’ils sont reliés par la conception organique du monde. Si, dans le premier essai, comme nous 14 15
Ibidem, p. 8. Ibidem, p. 30.
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venons juste de le voir, ce qui ressort est l’idée de l’intuition comme récupération consciente de l’objectivité, comme entrée dans ce qui transcende la conscience à partir d’une intention subjective, les thèses soutenues dans les articles qui suivent ne sont pas moins assimilables à la perspective de Jankélévitch. Dans ces mêmes articles, la doctrine dynamiste de la matière est opposée à la doctrine hylocynétique, dans la conviction que seule la première peut rendre compte du caractère procédural de la nature, dynamisme qui intervient, justement, dans la constitution de n’importe quelle matière. Ce qui veut dire que, si la doctrine hylocynétique considère que le volume impénétrable de la matière est un état, c’est-à-dire une qualité qui ne fait qu’un avec l’existence même de la matière, et choisit ainsi comme point de départ la notion de masse, les dynamistes soutiennent, en revanche, que la faculté que possède la matière d’occuper un espace est un processus, c’est-à-dire une manifestation de forces répulsives et attractives. Cela signifie que l’existence même de la matière est le résultat d’un système dynamique de relations et n’est pas une conquête définitive et autocratique. L’idée que même les changements qui ont lieu dans la nature matérielle ne se font pas grâce à l’action d’un corps sur un autre, mais à travers l’action réciproque16, témoigne du fait que rien ne peut profiter d’un état acquis et que tout se constitue en relation. Et, par action réciproque, on doit entendre – écrit Losskij – “l’action de la chose A sur la chose B et inversement de B sur A, où l’état A de la première de ces choses et l’état B de la seconde jouent simultanément l’un pour l’autre le rôle de cause et d’effet”17. De cela dérive le caractère organique de cette doctrine, c’est-àdire que le système de relations réciproques ne peut certainement pas se fonder sur des existences séparées et complètement autonomes, et que les éléments qui agissent l’un sur l’autre doivent être des moments d’un tout organique où A existe non seulement pour lui-même, mais aussi pour B. Et cela, sans pour autant perdre foi en son irréductibilité et en sa différence. “Les derniers élément de la matière, que ce soit l’atome ou le sous-atome, l’électron ou le sous-électron, ne sont pas des principes absolument autonomes: ce sont des côtés relativement autonomes d’un tout”18. Cela nous renvoie sans équivoque à l’idée bergsonienne de la durée comme unité dans la multiplicité, et nous invite encore une fois à lire l’unité non comme toile de fond amorphe où se perdent les différences, mais com-
16 17 18
Solov’ëv s’était déjà très clairement exprimé sur ce thème dans son ouvrage Critique des principes abstraits (en russe), Œuvres, t. II, pp. 219 et suivantes. N.O. Losskij, L’intuition…, cit., p. 91. Ibidem, p. 105.
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me principe de différenciation. Il est d’ailleurs singulier que, lorsque Losskij se trouve devoir évoquer le passé et doit indiquer, pour ainsi dire, les pères de l’histoire dynamiste de la matière, il nomme Leibniz, Boscovitch, Kant, Schelling, Hegel, Ed. Hartmann, Solov’ëv, mais passe sous silence, outre le nom de Bergson, rappelé en revanche très clairement ailleurs, ceux également à qui l’on doit la première thématisation de la Wechselwirkung, c’est-à-dire Fichte et Novalis. Certes, Kant, avait déjà posé le problème de la détermination réciproque, mais il en avait traité comme d’une forme de causalité particulière, même si elle tendait à se dépasser elle-même comme moment überkausales. Ce furent, en revanche, Fichte et Novalis qui mirent au centre de leur réflexion philosophique le thème de la relation réciproque dégagé du simple rapport de causalité: au départ, il était caractérisé comme une fonction de l’opposition du Non-moi au Moi, mais à l’intérieur de l’absoluité fixe du Moi; tandis que, chez Novalis, il acquit le sens d’un principe originaire qui rend la différence absolue, se substitue à l’identité en soi du Moi, et se caractérise comme fondation échangeable entre opposés. Certes, chez tous ces auteurs, le principe de la relation réciproque et de la dynamique corrélative du rapport entre les éléments de la réalité est présent, mais ce qui, sans nul doute, intéresse Jankélévitch est l’application de ce principe au rapport âme-corps, parce que c’est justement ce dernier qui, à travers la médiation bergsonienne, lui permet de développer de façon cohérente l’idée de l’organe-obstacle, c’est-à-dire de la nécessité d’une force résistante pour permettre l’élan spirituel de l’intuition. Losskij affirme des choses plutôt proches de celles-là quand il relève le caractère idéal-réaliste de la doctrine dynamiste: la radicalisation du dynamisme, ou, si l’on veut, sa pleine et cohérente application, conduit à penser que tout processus mécanique extérieur possède un côté intérieur représenté par cet élan qui, aux niveaux les plus élevés du développement, constitue le processus psychique, “[tandis] que, aux degrés inférieurs du dèveloppement, il est analogue au processus psychique et, pour cette raison, peut être appelé phénomène psychoïde. Ainsi, d’après le dynamisme, il n’y a pas de processus purement mécaniques, car ils sont tous ou mécaniques-psychoïdes, ou bien psycho-mécaniques”19. C’est justement la thèse de l’action réciproque qui permet à Losskij de se libérer des théories artificielles du parallélisme psychophysique, s’il est vrai que ces dernières estiment possible une transposition du spirituel dans le cérébral, et vice-versa, sur la base d’une mesure commune qui rendrait les deux plans analogues, tandis que l’action réciproque suppose cette radicale hétérogénéité qui autorise même à parler 19
N.O. Losskij, L’intuition…, cit., p. VI.
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d’opposition, de résistance exercée par la corporéité sur l’élan spirituel. L’interruption de la continuité et la reprise d’un rapport non uniformisant, basé donc sur la ferme dissemblance entre deux ordres de réalité qualitativement différents, sont, comme on sait, les thèmes autour desquels tourne, non sans contradictions, Matière et mémoire. Jankélévitch se sent parfaitement en consonnance avec ces thèmes, tant et si bien que le chapitre qu’il consacre au rapport âme-corps dans sa monographie sur Bergson en est une réélaboration fidèle, mais personnelle20. Donnons maintenant quelques titres provisoires, mais capables de renfermer en une brève synthèse les motifs qui, présents chez Losskij, sont, pour ainsi dire, passés dans l’œuvre de Jankélévitch sans modification substantielle: L’intuition comme dévouement à l’objet et respect de son autonomie: nous avons déjà dit que pour Losskij, la doctrine de l’intuitivisme est la seule à garantir que la connaissance soit une prise de possession de l’original à l’intérieur de la conscience du sujet, et ne soit donc pas image, copie de l’objet composée par les sensations que ce dernier a provoquées à travers une action causale. Dans un bel essai intitulé Mystical intuition publié en 1938 en anglais dans le Bulletin de l’Association Russe pour les Recherches Scientifiques à Prague, Losskij applique justement ces considérations à l’intuition mystique, refusant les conclusions auxquelles était parvenu Delacroix, c’est-à-dire l’idée que les caractéristiques de l’expérience mystique doivent être expliquées à partir du subconscient et reconduites à une pure activité subjective. Losskij oppose à cela la conviction que l’intuition mystique est produite par les influences réelles d’un ordre autre, de manière à ce que la réalité contemplée soit un contexte trans-subjectif. Ainsi, Losskij écrit: “If some event in consciousness has the character of being ‘given to me’, it is not an expression of my self but springs from some other substan-
20
Jankélévitch écrit: “Le psychique n’est pas la traduction juxtalinéaire du cérébral, comme l’admettent les parallélistes: il y a exactement autant dans une traduction que dans le texte original, à la langue près, et la transposition n’ajoute ni ne retranche rien. Mais justement les deux versions contrepointées sont ici et infiniment inégales par leur contenu et absolument hétérogènes par leur nature; il n’y a pas, comme le voulait Spinoza, deux idiomes parallèles où se formule une substance unique, mais deux ordres de réalités qualitativement différents. Il n’y a pas davantage causalité transitive, et Bergson ferait siennes volontiers, sur ce point, les critiques que Leibniz opposait à la solution cartésienne du problème de la communication des substances; plus précisément encore l’Evolution créatrice montrera que la corporéité, loin d’exercer sur la vie une action efficiente, joue un rôle surtout négatif” (HB, 84).
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tival agent”21. S’il est donc vrai que de nombreuses visions du divin ont un caractère symbolique, car elles ne peuvent être représentées autrement, il s’agit toujours, d’après Losskij, de symboles réels, d’apparences symboliques concrètes du monde transcendant, et non du résultat d’activités subjectives de l’homme. L’intuition est donc cette expérience ponctuelle où l’activité, l’initiative qui part du sujet, a un équivalent immédiat dans la condition passive d’‘être porté’, de se laisser surprendre par l’ordre tout autre. Ainsi le refus du ‘subjectivisme’ criticiste, qui s’exprimerait dans la théorie kantienne de la connaissance, et celui du triomphe fichtien du Moi qui, dans les Fondements de l’intuitivisme (1906) sont caractérisés comme les plus grands responsables de la perte de l’objet, portent Losskij à réunir en soi les deux tendances principales du ‘rationalisme mystique’ russe: celle qui reconnaît ses origines chez Schelling et Hegel, et celle qui se réfère plutôt à Leibniz. La première, qu’il vaudrait mieux définir comme l‘idéalisme mystique’ et dont le représentant majeur est Solov’ëv, développe la théorie de la perception immédiate du monde trans-subjectif tant en rapport aux choses finies qu’en rapport à Dieu. Solov’ëv applique effectivement à la connaissance de Dieu le même principe qu’il voit agir dans les expériences cognitives communes; c’est-à-dire qu’il arrive à soutenir l’immédiate donation (gegebenheit) de Dieu dans la perception, posant les bases du symbolisme réaliste et de la majeure partie de la théorie de l’icône qui s’en inspire. La seconde tendance part en revanche de l’exigence d’expliquer les mécanismes de la connaissance en rendant compte de l’émergence de la capacité à coïncider au moins partiellement avec la spécificité absolue des objets, mais déclare en cela se tenir loin des problèmes ontologiques. Losskij se reconnaît au moins en premier ressort comme appartenant – avec Koslow et Lutoslawski – à cette ligne de pensée, se proposant de la développer sur le plan théorique, cognitif et logique, puisque la logique et la théorie de la connaissance sont pour lui étroitement liées. Il tient à préciser comment il a déjà appliqué cette perspective aux études de psychologie. Il écrit effectivement: “Dans notre livre, Les théories fondamentales de la psychologie du point de vue du volontarisme [Leipzig, 1904], nous avons développé pour la psychologie une théorie du Moi sur la base de laquelle ce ne sont pas tous les contenus de la conscience individuelle qui constituent une propriété du Moi: la conscience individuelle ne se fonde pas entièrement sur les états du Moi mais aussi sur les états trans-subjectifs ‘qui me sont donnés’. Dans cet essai, nous nous servons de la théorie de la perception immédiate 21
N.O. Losskij, Mystical Intuition, in “Bulletin de l’Association Russe pour les Recherches Scientifiques à Prague”, vol. VII, 1938, p. 202.
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du monde trans-subjectif pour construire une théorie de la connaissance, mais nous faisons dépendre de principes si généraux la solution de notre problème et nous la distinguons si nettement du domaine de l’ontologie que, dans le résultat, nous arrivons à une théorie qui ne prédétermine nullement la question sur la nature réelle de ce monde perçu immédiatement”. Juste après, cependant, Losskij apporte une précision qui remet en lumière également la présence dans sa pensée de certaines tendances de l’idéalisme mystique, nous permettant ainsi de justifier les observations rapportées cidessus quant à la valeur cognitive de l’expérience mystique. Il écrit ainsi: “Mais au même moment, la direction de recherche que nous avons prise perd son caractère d’affinité exclusive avec Leibniz et finit par se rattacher de façon aussi, sinon plus, étroite à la philosophie de Schelling et Hegel et, également à l’idéalisme mystique de Solov’ëv et Trubeckoj”22. En somme le tropisme réaliste, c’est-à-dire la tendance à considérer la perception du monde comme l’entrée dans la réalité trans-subjective, s’applique de nouveau, comme il arrive chez Jankélévitch, à l’autonomie objective des choses finies et également à l’horizon complètement transcendant qui doit être sauvegardé dans sa valeur de réalité absolue. La vie comme processus, dynamisme: n’importe quel acte de constitution de la matière, justement en tant qu’acte, c’est-à-dire processus, mouvement, est un concours de forces et non pas le résultat d’une action causaliste unilatérale. Il résulte de là que la masse, en tant qu’existence qui occupe un espace, n’est pas quelque chose de donné, d’acquis une fois pour toutes, mais est elle-même le résultat de forces interactives d’attraction et de répulsion. L’action réciproque et le refus des théories parallélistes du rapport âmecorps: la thèse dynamiste, appliquée à la relation psychophysique, conduit à soutenir que n’importe quelle réalité est caractérisée par la co-présence de forces intérieures et extérieures communiquant sur la base d’une relation réciproque, où les unes ont besoin des autres et vice-versa, tout en restant drastiquement distinctes et dégagées de toute dépendance causale.
22
N.O. Losskij, Obosnovanie intuitivizma, (St Pétersbourg 1906), traduit de l’édition allemande Die Grundlegung des Intuitivismus, Niemeyer, Halle 1908, p. 195.
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Abstracts
Questo saggio intende dimostrare come sia stata determinante nello sviluppo del pensiero di Jankélévitch l’influenza dell’ideal-realismo russo, benché egli non abbia dedicato uno studio approfondito a queste tematiche, ma solo una nota piuttosto frettolosa scritta all’età di appena ventun anni. La sintesi concreta di Solov’ëv, il realismo di Losskij, il culto dell’immediato di Frank, l’oggettivismo di Tolstoj costituiscono lo sfondo cui sempre Jankélévitch si richiama e una delle chiavi della sua lettura di Bergson e del bergsonismo. Si prenderanno in esame i motivi che caratterizzano l’ideal-realismo russo e che sono trapassati nel pensiero di Jankélévitch: L’intuizione come dedizione all’oggetto e rispetto della sua autonomia. La vita come processo e dinamismo. L’azione reciproca e il rifiuto delle teorie paralleliste del rapporto anima-corpo. Jankélévitch n’a jamais consacré de travail approfondi à l’idéal-réalisme russe. Il a seulement écrit à ce sujet une brève étude, à vrai dire plutôt hâtive et scolaire, lorsqu’il avait vingt et un ans à peine. Toutefois, le présent essai vise à démontrer que l’influence de l’idéal-réalisme sur le développement de la pensée de Jankélévitch a été profonde, et même déterminante. La synthèse concrète de Solov’ëv, le réalisme de Losskij, la soif de l’immédiat chez Frank, l’objectivisme de Tolstoï forment la toile de fond de la philosophie de Jankélévitch et permettent de mieux comprendre son interprétation de Bergson et du bergsonisme. Sont examinés ici les thèmes qui caractérisent l’idéal-réalisme russe, et qui sont passés dans la pensée de Jankélévitch: L’intuition comme dévouement à l’objet et respect de son autonomie; La vie comme processus et dynamisme; L’action réciproque et le refus des théories parallélistes du rapport âme-corps. This paper aims to show how important was in Jankélévitch’s philosophy the influence of Russian ideal-realism, even though he never focused on it with an exhaustive work but only with a quite brief essay written when he was just 21 years old. ‘Concrete synthesis’ in Solov’ëv’s philosophy, Realism in Losskij’s, ‘immediate and its worship’ in Frank’s, Tolstoj’s ‘objectivism’ are the background of Jankélévitch’s interpretation of Bergson and Bergsonism. We’ll consider the
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
main issues that were important in Russian ideal-realism and that handed down in Jankélévitch’s philosophy: Intuition as devotion to the object and respect of its autonomy. Life as process and dynamism. Wechselwirkung and refusal of parallelist theories of soul-body connection.
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VINCENZO VITIELLO
Necessità dell’Ineffabile. “Presque-rien”, “presque-tout” e “je-ne-sais-quoi” di Vladimir Jankélévitch
1. “Esprimere l’inesprimibile all’infinito” – così Vladimir Jankélévitch, richiamandosi a Debussy, definisce il “proposito” della musica. Ma subito precisa: […] il mistero che essa ci trasmette non è lo sterile inesprimibile della morte ma il fecondo inesprimile della vita, della libertà e dell’amore. In breve: il mistero musicale non è l’indicibile, ma l’ineffabile. L’indicibile, infatti, è la notte nera della morte e del desolante non-essere, la cui tenebra impenetrabile come un muro invalicabile ci impedisce di accedere al suo mistero: indicibile, dunque, perché su di esso non c’è assolutamente niente da dire e rende l’uomo muto, prostrando la sua ragione e pietrificando come Medusa il suo discorso. L’ineffabile invece, tutto all’opposto, è inesprimibile perché su di esso c’è infinitamente, interminabilmente da dire: tale è l’insondabile mistero di Dio; e l’inesauribile mistero dell’amore, che è il mistero poetico per eccellenza. Sicché se l’indicibile, congelando ogni poesia, somiglia ad un sortilegio ipnotico, l’ineffabile, grazie alle sue proprietà fecondamente ispiratrici, agisce piuttosto come un incanto e differisce dall’indicibile quanto l’incanto dalla fascinazione. […] l’ineffabile fa scattare nell’uomo uno stato di vitalità, perché sull’ineffabile c’è di che parlare e cantare sino alla fine dei secoli… e chi in questo campo potrebbe affermare: “tutto è stato detto”? (MI, 62).
Questa lunga citazione – necessaria per introdurci nel problema che intendiamo affrontare, di cui il titolo dice, intenzionalmente, solo una metà – pone una serie di questioni che andranno analizzate partitamente. In primis questa: è l’ineffabile stesso che pro-voca all’espressione, chiama a dire infinitamente, interminabilmente di sé, mettendo in atto le “sue proprietà fecondamente ispiratrici”, oppure esso resta fuori del rapporto espressivo, essendo l’infinito, interminabile dire su di esso opera esclusiva dell’uomo che parla, e canta, e fa musica? In breve: l’espressione è opera dell’ineffabile, o esso è solo “oggetto”, puro “oggetto” d’espressione? O tertium datur? Ed inoltre: è possibile separare così nettamente l’ineffabile dall’indicibile? Non si toglie “mistero” all’Ineffabile, escludendo da esso il pie-
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
trificante meduseo negativo dell’Indicibile? Non se ne definisce totalmente – e cioè senza residui – l’essenza quando lo si concepisce come la potenza (dynamis, Kraft) che fa “parlare e cantare sino alla fine dei secoli”? Anche l’essenza hegeliana non è mai totalmente espressa nel concetto, se è vero che nel circolo dell’Idea assoluta il Primo è l’Ultimo e l’Ultimo è Primo; e tuttavia la definizione del circolo è assoluta. E pertanto è sufficiente dire che l’Ineffabile non si esaurirà mai sino alla fine dei secoli? non è questa l’assoluta definizione dell’Ineffabile? Certamente è quello che Jankélévitch vuole evitare. E a tal fine pone una differenza incolmabile tra l’Ineffabile e le sue espressioni. Se in Hegel l’essenza è tutte le sue manifestazioni, nel senso che essa muß erscheinen1, deve di necessità apparire; per Jankélévitch l’Ineffabile resta sempre “al di là” d’ogni espressione. Se Hegel pareggia Wesen e Schein nell’Erscheinung, ovvero, se nella filosofia hegeliana il quid, il poión, la “qualità” che appare è l’essere stesso (il tí, il quod), dacché l’essenza è tutta nelle sue manifestazioni, per Jankélévitch l’espressione dice il “quid” dell’Ineffabile, non mai il “quod”. È proprio il sottrarsi del quod dell’Ineffabile al quid dell’espressione – di tutte le possibili espressioni, passate, presenti, future – ciò che impedisce, sino alla fine dei secoli, di cogliere l’Ineffabile. Che resta incoglibile, quantunque innegabile. Innegabile quale aplôs on, puro essente. Presque-rien, quasi-niente, e presque-tout, quasi tutto – per Jankélévitch. Perché di esso, dopo che si è detto quasi-tutto, e cioè tutte le sue espressioni, non si è detto quasi-niente della sua essenza – se non che è, che ci è. Resta un insormontabile non-so-che (je-ne-sais-quoi). Fermiamoci su queste “categorie” del linguaggio e della logica di Jankélévitch.
2. “Je-ne-sais-quoi”, “Presque-rien”: questa distinzione riflette palesemente l’antica, tradizionale distinzione gnoseologica tra conoscente e conosciuto. Dell’essere dell’Ineffabile io non so che altro dire, se non che esso c’è. È un quasi-niente. Quasi – non niente. Al fondo del mio non-sapere, della mia nescenza, v’è un sapere certo, certissimo, innegabile: che esso, l’Ineffabile, ci è. E questo sapere certo, certissimo, innegabile, si trasmette dall’Ineffabile all’effato, da ciò che è oltre ogni espressione all’espressione 1
Cfr. G. W. F. Hegel , Wissenschaft der Logik, II, in Id., Werke in zwanzig Bänden, Suhrkamp, Frankfurt/ M. 1969, 6, p. 124.
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Vincenzo Vitiello - Necessità dell’Ineffabile
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medesima, a tutte le espressioni. A tutte le parvenze. Anch’esse ci sono. Ci sono e non sono, dato che anche di esse, anzi propriamente di esse, che sono parvenze, possiamo dire non che sono, e cioè: non l’essenza ch’è fuor d’esse, ma la nuda esistenza, ovvero: che ci sono. Possiamo pertanto – sia dell’Ineffabile che ha essenza, che è l’essenza stessa; sia delle espressioni sue, che sono solo parvenza – dire con certezza assoluta che ci sono. L’incertezza della conoscenza riguardando il quid, e non il quod. Ma mentre l’Ineffabile è necessario, le espressioni, o parvenze, sono solo possibili. Nessuna espressione è necessaria, proprio perché nessuna d’esse manifesta l’Ineffabile. Né può opporsi che, se nessuna espressione è necessaria, è però necessario che un’espressione, comunque, ci sia, perché questa necessità non dice altro che la necessità dell’Ineffabile, toto coelo diversa dalla necessità caratterizzante le inter-relazioni (di antecedenza-successione, o simultaneità) tra le espressioni. La necessità dell’Ineffabile è accostabile alla necessità della chôrha platonica, è la necessità di un “dove” in cui tutto quello che è, meglio: tutto quello che accade, per essere, ovvero: per accadere, deve presupporre. La chôrha, s’è nominata, piuttosto che l’Aperto di Heidegger, per una ragione di fondo. Questa: il presque-rien di Jankélévitch è come la chôrha “oggetto” di un sapere prossimo al non-sapere, di una nescenza – il je-ne-sais-quoi – prossima al nóthos logismós del Timeo (52a 9 – b 6), probabilmente anche per influenza degli schellinghiani Erlanger Vorträge, della cui terminologia2 v’è traccia nella scrittura del filosofo francese3. Questi riferimenti sarebbero fraintesi, ove venissero accolti come informazioni “storiografiche”, altro essendo il loro intento. Il rinvio alla chôrha, e al nóthos logismós, al discorso ibrido, al ragionamento svolto come in sogno, sottrae non soltanto l’Ineffabile – il “dove” degli eventi – ad ogni possibile cattura epistemica, ma insieme con esso le sue espressioni. Vale a dire: la necessità dell’Ineffabile non è soltanto toto coelo differente dalla relazione intramondana, causal-temporale, degli eventi mondani, ma persino l’interrompe. È questo un punto importante che ora accenniamo appena, ma che approfondiremo in seguito: il tempo che Jankélévitch tematizza non ha nulla del Werden di Hegel, e nulla della durée réelle di Bergson. È il tempo non dell’epistème discorsiva, e neppure dell’intuizione meta2
3
Mi riferisco in particolare alle due locuzioni “nicht-wissendes Wissen” e “wissendes Nichtwissen”: cfr. F. W. J. Schelling, Über die Natur der Philosophie als Wissenschaft, in Id., Ausgewählte Schriften, Hrsg. M. Frank, Bde 6, Suhrkamp, Frankfurt/ M. 1985, IV, pp. 369-409, spec. 390 ss. Va detto, però, che Jankélévitch cita il nóthos logismós in riferimento alle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà: cfr. JQPR, p. 283.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
fisica; è il tempo della phrónesis, del sapere etico-pratico (JQPR, 76 ss. e passim). Direi: più della “storia” che non della musica, quantunque trovi nella musica la sua più piena, più completa realizzazione. Anzi, forse, proprio per questo. Il tempo dell’exaíphnes, dell’istantaneo ed improvviso, del kairós, dell’occasione opportuna, è “in realtà” meno perfetto della sua immagine – Bild, non Abbild – musicale. Questo tempo conosce certamente anche durata e continuità, ma è la durata, la continuità che volta a volta nell’istante kairologico si riesce realizzare4. Pertanto non vi è un tempo, ma molti tempi. Ed il tempo vero – die wahre Zeit, si potrebbe dire con Schelling – non è il tempo lineare degli eventi naturali e storici, bensì quello che determina il passaggio dall’un tempo all’altro. Che però in Jankélévitch mai non assurge a “sistema” di eoni di tempo, come nella teo-cosmogonia schellinghiana5. I molti tempi di Jankélévitch sono tutti e solo umani, appartengono tutti a questo unico mondo. I molti tempi, che nei singoli differenti istanti sorgono nell’aperto dell’Ineffabile, sono tutti tempi storici. Umani, soltanto umani.6 La quasi-ontologia del presque-rien, opposta ad ogni forma come di assolutizzazione così di nichilizzazione dell’ente7, mira ad una filosofia del finito non “negativa”. Di qui la distinzione-opposizione dell’Ineffabile all’Indicibile. L’Ineffabile, infatti, proprio perché colto nel suo puro quod e non definito nella sua essenza (quid), assicura l’esserci dell’espressione, dando ad essa “spazio”, “luogo”, il “dove” necessario al suo accadere, ad ogni suo possibile accadere, ed insieme ne garantisce la piena libertà. La necessità della chôrha è il fondamento di possibilità dell’accadere possibile. Non necessita l’accadere, anzi ne “salva” la possibilità, permettendogli 4
5 6 7
“Il tempo non è puro continuum di essere, ma innovazione continua: il tempo è l’intervallo che si risolve all’infinito in istanti virtuali; gli istanti formicolano innumerevoli nella massa fluida del continuum, e il comtinuum stesso del divenire non è possibile che nella discontinuità del «sopravvenire». La durata si continua così nella scia di avvenimenti improvvisi che fanno divenire l’avvenire e avvenire il divenire e scaturire da ogni istante la novità…” (JQPR, 78). Cfr. F. W. J. Schelling, Filosofia della rivelazione, ed. italiana con originale a fronte a cura di A. Bausola, riv. da F. Tomatis, Bompiani, Milano 20022, pp. 1062 ss. Significativa questa citazione da Machiavelli, ed il relativo commento: “«I tempi non si assomigliano» dice Machiavelli, le età della vita hanno tempi qualitativamente eterogenei” (JQPR, 79). “Il fatto-di-parere è esso stesso l’essere del parere e la sua verità: l’essere del parere – ecco il minimo ontico incomprimibile ed indispensabile di cui non si può fare a meno e che sopravvive ad ogni nichilizzazione” (JQPR, 132-133). È il medesimo argomento impiegato da Sartre nell’Introduzione di L’être et le néant (1943), trad. it. di G. Del Bo, Il Saggiatore, Milano 19642, § 2: “Il fenomeno dell’essere e l’essere del fenomeno”.
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Vincenzo Vitiello - Necessità dell’Ineffabile
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di essere, come di non essere. Senza questo “dove”, sottratto ad ogni dubbio, perché, cartesianamente, anche il dubitare è possibile solo per esso e in esso, non ci sarebbe tempo, non ci sarebbe “istante”, non ci sarebbe kairós. Non ci sarebbe possibilità.
3. La necessità dell’Ineffabile salva la storia. La libertà della storia. L’Ineffabile di Jankélévitch, per la sua oltranza rispetto alle espressioni, è accostabile alla reine Sprache, alla “lingua pura” di Benjamin8, perché come questa, che pur “nulla più intende” (nicht mehr meint) e “nulla più esprime” (nicht mehr ausdrückt), è fondo (e mèta9) delle cento e cento lingue storiche degli uomini, così quello è come il foglio bianco in cui si scrivono le mille storie che s’intrecciano nel mondo. Il tempo plurale di Jankélévitch è questo intreccio di storie che si realizza nell’istante, che non è l’exaíphnes del Parmenide platonico, quell’átopon metaxy, quell’inter-mezzo né spaziale né temporale che spiega il passaggio-nonpassaggio da quiete a movimento e da movimento a quiete (156d – 157b); l’istante kairologico di Jankélévitch è tempo e luogo, determinatissimi tempo e luogo (JQPR, 90) quelli dell’occasione opportuna che l’uomo d’azione, il prudente, il phrónimos, uomo etico e/o politico, sa cogliere per realizzare, con l’aiuto della Fortuna10, quell’intreccio di casi ed eventi che producono storia nuova. Il rinvio alla Fortuna – alla machiavelliana Fortuna che regge metà o forse più delle azioni umane11 – sottolinea il fatto che l’istante, tempo e luogo dell’uomo, non appartiene all’uomo. Se è la “prudenza”, la phrónesis, la virtù che regge l’uomo d’azione, questo comporta che l’istante non è solo immediatezza e repentinità. Certo l’uomo pratico deve saper cogliere l’occasione al volo, l’appuntamento con la Fortuna accade – quando accade – una solo volta nella vita dell’uomo,
8 9
10 11
Cfr. W. Benjamin, Die Aufgabe des Uebersetzers, in Id., Gesammelte Schriften, Hrsg. v. R. Tiedemann u. H. Schweppenhäuser, Surkamp, Frankfurt/M. 19721974, IV/1, pp. 9-21, spec. p. 19. Mèta per il traduttore che deve liberare la reine Sprache imprigionata nella lingua storica dell’originale nella propria, pur essa storica, lingua (cfr. op. e pag. cit.). Mèta non è dunque il silenzio, ma la relazione della parola al silenzio: in ciò l’affinità con la teoria jankélévitchiana del rapporto Ineffabile-espressioni. “[…] le complicità della Fortuna sono i suoi jolly” (JQPR, 81). N. Machiavelli, Il principe, Introduzione e note di F. Chabod, a cura di L. Firpo, Einaudi, Torino 1961, cap. XXV.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
ma saper vedere l’occasione, saper cogliere il kairós, esige lungo studio, lunga scholè, che è anzitutto arte dell’indugio. L’istante della decisione è solo l’ultimo atto, certo il più importante, ma senza la precedente scholè mai non si sarebbe potuto realizzare. Jankélévitch rifugge dalla metafisica: non “vuole” essere “profondo”. Nietzschianamente lo è, perché ama la superficie. Perciò non ha bisogno di evocare – parlando dell’istante – il rapporto tra l’accadimento che è opera del Tutto, se si vuole: dello Spirito della storia, e l’azione dell’uomo, semmai elevato a weltgeschichtes Individuum, gli basta richiamare la Fortuna di Machiavelli, per mostrare il quasi-tutto del kairós, dell’istante che nel tempo è fuori del tempo, dell’espressione radicata nell’Ineffabile. La superficie è tale per il profondo. Ma questo non implica, non deve implicare l’identità di profondo e superficie, ovvero, per riprendere celebri tesi filosofiche, che il profondo tanto più è profondo quanto maggiore è la sua forza di apparire, di tradursi in mondo, e tempo, e storia12. Può esser vero giusto l’opposto, e cioè che il profondo è davvero profondo quando lascia in libertà l’apparire delle apparenze. E per Jankélévitch proprio questo è Profondo: il libero giuoco delle apparenze, delle espressioni che non si sentono frenate, impedite. Nel dire e per dire dell’Ineffabile – dell’Ineffabile e non l’Ineffabile – le libere espressioni giungono sino all’ostentazione, alla “pompa” barocca, all’esaltazione dell’ambiguità e della doppiezza. Per una filosofia – anche “morale” –, che tanto s’ispira a Balthasar Gracián, anche la méconnaissance, l’equivoco, il malinteso, il fraintendimento, e quant’altro la ricca fenomenologia dell’ambiguo, praticata dal filosofo francese, riesce a evidenziare dell’abito umano, dell’indole degli uomini storici, anche la méconnaissance, dicevo, ha il suo lato positivo13. Lo sguardo di Jankélévitch, nel suo felice strabismo, mira sempre al “quasi”, e quando osserva il “quasitutto” dell’Ineffabile, e quando esamina il “quasi-niente” dell’apparenza, meglio: delle apparenze. In ciò la grande, abissale differenza da Benjamin, che osservava la “pompa” barocca sì come un riflesso della luce divina, ma come un riflesso scuro, quasi che, penetrando nelle tenebre del mondo, la luce ne prendesse il colore e divenisse skotía essa medesima14. Jankélévitch per contro vede, intra-vede anche nelle tenebre il chiarore del cielo. Non ribalta hegelianamente il negativo in positivo, ma neppure come il verkehrter Hegel dell’Ursprung des deutschen Trauerspiels, vede tutto in negativo. 12 13 14
Cfr. G. W. F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, Hrsg. J. Hoffmeister, Meiner, Hamburg 19526, p. 15. Cfr. in particolare la Parte II di JQPR. Cfr. W. Benjamin, Der Ursprung des deutschen Trauerspiels, Gesammelte Schriften, cit., I/1, pp. 203-430.
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Vincenzo Vitiello - Necessità dell’Ineffabile
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Scrive: “La riabilitazione dell’apparenza conferma e giustifica a cose fatte l’ambiguità della disconoscenza” (JQPR, 131). A conferma ed a sostegno di questa riabilitazione della méconnaissance e della sua strutturale ambiguità, quindi contro il pareggiamento di essenza e parvenza, possiamo riportare “questo ammirevole paradosso” pascaliano, come a Jankélévitch piacque definirlo: “Diceva [dunque] Pascal: meglio non digiunare ed avere cattiva coscienza che digiunare e compiacersene” (JQPR, 242); e contro la condanna della pompa, dell’ostentazione, dell’apparenza, non è male leggere, dallo stesso testo, quest’altro “prudente” – in senso morale – monito: “Chi pretende di passare dagli aggettivi all’ipseità, di provare la gioia mimandone i gesti, commette il sofisma ontologico; non è che un triste Pagliaccio… a meno che, come i mimi, non finisca a furia di gesticolare, per provare i sentimenti di questi gesti” (JQPR, 244). Il “quasi” è tutto nell’“a meno che…”
4. Jankélévitch, s’è detto, rifuggiva la metafisica: amico delle apparenze, osservava la libertà nei suoi esiti, nei suoi “prodotti”, lasciando poco spazio alla considerazione sulle condizioni di possibilità dell’essere-libero. Studioso di Schelling e delle sue metafisicissime Ricerche sulla libertà, pareggiava i pro e i contra, affermando che “è impossibile che la libertà sia ed è impossibile che la libertà non sia”, e si chiedeva: “come potremmo non esitare? Una libertà che è sempre al futuro, una dipendenza che è sempre al passato…” (JQPR, 286). Quindi volgendosi al presente, si richiamava di nuovo al nŷn kairós, all’istante kairologico della decisione che taglia il nodo gordiano del tempo continuo. “Il modo personale che io ho di essere determinato – scrive – «è» la mia libertà”. La copula è posta tra virgolette, volendo con esse significare che “l’uomo libero non è libero da ogni determinazione, ma lo è per le sue stesse determinazioni” (JQPR, 288). Non un’argomentazione, ma un fatto. Il fatto delle apparenze. Che sono contro tutti i determinismi storici. Si potrà anche trovare in futuro la ragione che spiega l’evento assolutamente imprevisto ed imprevedibile al tempo del suo accadere, ma questa ragione retrospettiva mai non potrà togliere la sospensione del presente, la nescenza dell’“ora”: “Ciò che è intelligibile a cose fatte – rileva – era stato imprevedibile prima del fatto” (JQPR, 289). E ne conclude: “l’uomo libero può sempre fare altrimenti” (JQPR, 290). Che la conclusione ecceda di tanto, di troppo le premesse, è palese. Al più è possibile dire che l’uomo libero può credere di poter fare altrimenti. Ma tra il credere di fare e il fare, v’è un abisso. L’abisso che separa il noumeno dal
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
fenomeno, per dirla con Kant, o, per usare la terminologia del nostro autore, l’Ineffabile dalle sue espressioni. Vero è che Jankélévitch non è fedele alle sue premesse. L’amore per le apparenze, per la vita e la storia, per il tempo dell’uomo, lo porta a ridurre sempre più la distanza tra queste e l’Ineffabile. Tra il quasi-niente ed il quasi-Tutto. Il “quasi” prende il sopravvento, se il mistero stesso dell’Ineffabile è il “chiaroscuro” (JQPR, 44). Si badi: non il mistero dell’Ineffabile così com’è nell’espressione – ché allora sarebbe più giusto parlare del mistero dell’apparenza: mistero a se medesima per la luce che cela in sé –, bensì il mistero dell’Ineffabile in quanto tale, dell’Ineffabile in sé, questo mistero è “chiaroscuro”. La filosofia della differenza si muta in filosofia dell’Incontro: “l’Incontro è l’istante divino per eccellenza” (JQPR, 96). “L’ora di un milionesimo di secondo, divenuta Aeternum Nunc, non è al tempo stesso felice e gioiosa, cioè beata? Al tempo stesso! Questo al-tempo-stesso è certo la grande chimera metaempirica dell’uomo temporale condannato ad una successione inefficace, teso ad una simultaneità ad alta resa” (JQPR, 97). Quando la chimera diviene realtà, allora, la filosofia dell’Incontro si traduce in filosofia dell’Identità. 5. E questo avviene proprio là dove meno ce lo si aspetterebbe: nel libro sulla morte. “Dio non è nascosto, ma quasi nascosto, fere absconditus, ed è questo semi-occultamente a formare il misterioso del mistero” (M,128-9). Uno splendido inizio – diremmo, un inizio che potrebbe essere svolto in stretto rapporto alla proposizione XV del Proslogion di Anselmo d’Aosta. E non tanto per la prima parte che afferma che Dio è ciò di cui non si può pensare il maggiore (quo maius cogitari nequit), la più discussa, se non la sola discussa dai filosofi e dai teologi. Quanto per la seconda, da sempre trascurata dai filosofi e pur dai teologi – sino a Karl Barth, che l’ha posta al centro della sua meditazione15 su quell’unum argumentum, quod nullo alio ad se probandum quam se solo indigeret (Proslogion, Proemium, 1) del frate benedettino –, per quella seconda parte nella quale è detto essere Dio (quiddam) maius quam cogitari possit, maggiore di tutto che si possa pensare. Qui davvero il “quasi tutto” potrebbe aprire ad una comprensione effettiva del rapporto dell’uomo con il divino e col Sacro. Ma, come si diceva, lo sguardo strabico di Jankélévitch propende sempre (e aggiungerei: sempre più) per il “quasi”, a danno come del “rien”, 15
Cfr. K. Barth, Fides quaerens intellectum. La prova di Anselmo dell’esistenza di Dio, trad. it. di M. Vergottini, Morcelliana, Brescia 2001.
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Vincenzo Vitiello - Necessità dell’Ineffabile
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così del “tout”. Si legge, infatti, nell’opera da cui si cita, che la morte è come il Dio di Pascal, fere abscondita, in parte nascosta (M, 132). Ma in che senso la morte è quasi nascosta? Nel senso che di essa si sa che verrà, non però quando. E solo nel vuoto tra la conoscenza del “quod” e l’ignoranza del “quando” è possibile vita attiva, impegno nel mondo, e pur la sfida della morte. Qui la doppia determinatezza della libertà – l’essere l’uomo determinato da nel mentre stesso si determina per – trova la sua più evidente esplicazione. Anche perché l’“essere determinato” è nel caso della morte certamente un “fatto”, ma non un fatto, come dire?, empirico, il fatto del passato, o meglio l’insieme dei “fatti” che costituiscono l’ineludibile fardello del passato, bensì un fatto “trascendentale”, e cioè necessario perché costitutivo della vita stessa, il fatto che si muore, che la morte è la certezza assoluta, la certezza che mette a nudo la nostra impotenza, la impotenza dell’ente razionale finito. Ma a questa impotenza “trascendentale”, che la conoscenza certa della morte ci disvela, si accompagna il potere dell’ignoranza. Potere, perché non sapendo quando moriamo, possiamo fare progetti, pianificare le nostre azioni, organizzare la nostra vita “futura”. Là dove l’impotenza del sapere cancella il potere dell’ignoranza, là dove è conosciuto con il “quod” il “quando” della morte, la disperazione è inevitabile: ed è questa la vera pena della condanna a morte. Per contro là dove l’ignoranza del quando si estende al che, e si presume di aver potere sulla morte, e cioè di poter trascenderla, “sarebbe la condizione di un angelo” (M, 149). Ma non erano angeli i Resistenti del 1940 che contro ogni apprezzamento razionale delle forze in campo sceglievano di agire comunque, di lottare contro un nemico tanto più forte. Il ricordo accende la pagina del filosofo “Coloro che speravano di una speranza assurda, e contro ogni buon senso, facevano, anch’essi, una scelta al buio. Là dove la luce tragica dell’evidenza, là dove le certezze opprimenti ci [e qui si noti il passaggio dall’oggettivo ‘coloro che’ al molto personale ‘ci’] consiglierebbero la rinuncia e la capitolazione, la folle speranza che dire no al destino rende possibile l’impossibile e ragionevole l’irrazionale: l’irragionevole chimera si avvera qui come più vera dell’assurda verità” (M, 151). La chimera, ancora la chimera. Nobile, nobilissima chimera, ma tutta mondana, tutta legata alla vita. La morte pensata nell’orizzonte della vita. Un’alta forza morale espressa chiaramente in filosofia. Una filosofia che apprezza l’ambiguità, tematizza la méconnaissance e mostrandone la doppiezza è capace di rivalutarla, e che insieme si esprime chiaramente, senza ambiguità alcuna. Una filosofia cartesiana dell’ambiguità. Una filosofia che contrasta in actu exercito il suo “oggetto”. Quale la difficoltà? non si parla forse – o almeno non si tende o addirittura si pretende di parlare – secondo verità dell’errore?
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
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6. Quale la difficoltà? Questa: che parlare secondo verità dell’ambiguità – se verità significa conoscenza dell’essere della cosa di cui si parla – comporta la fuoriuscita dall’ambiguità; comporta che la conoscenza del doppio non è doppia; che la conoscenza del “quasi-niente” e del “quasi-tutto” non è una conoscenza relativa, una “quasi-conoscenza”, ma assoluta. Comporta che conoscere il “je ne sais quoi” non è riconducibile a “je ne sais quoi”. La teoria della conoscenza di Jankélévitch è smentita dalla sua pratica conoscitiva: questa la difficoltà. Quando sopra si notava che nel suo strabismo filosofico Jankélévitch mira al “quasi” più che al “tutto” o al “niente”, si rilevava il pericolo della contraddizione performativa appena evidenziata. Possiamo ora essere più espliciti, richiamandoci alla precedente osservazione che Jankélévitch considera la morte soltanto nell’orizzonte della vita, la morte diesseits: “di qua”. Non si vuole affatto dire con ciò che il filosofo – l’Autore di cui si discute, o qualsiasi altro – deve integrare la visione dell’orizzonte mondano della morte con quello oltremondano. Il cenno, per quanto rapido, rapidissimo ad Anselmo, dovrebbe averci liberato in anticipo da un sospetto del genere. Nessuna filosofia della Jenseitigkeit, dell’“aldi-là”! Al contrario: una coerente filosofia finita del finito, una coerente filosofia dell’“al-di-qua”, della Diesseitigkeit, che non assolutizzi il tempo del mondo, la storia. Non si tratta di affermare la “realtà” dell’Altro dal mondo, dalla storia, dal tempo; si tratta di postularne la “possibilità”. Non foss’altro perché affermarne la “realtà” significherebbe cadere in un’ulteriore contraddizione performativa: quella di affermare l’Altro e nello stesso tempo negarlo come Altro riducendolo al mondo e al tempo, alla storia. Significherebbe non parlare dell’Altro, ma parlare di una copia del medesimo; significherebbe semplicemente raddoppiare il mondo, questo mondo. La delimitazione della riflessione sulla morte all’orizzonte mondano consegue al fatto che Jankélévittch – ed è questa un’eredità che a lui viene direttamente da Bergson16, ma che ha le sue radici in Aristotele17 – pensa il possibile a partire dal reale. E questo lo si è visto chiaramente quando si è detto della necessità dell’Ineffabile come apertura alla possibilità della storia e alla libertà della storia. Ora proprio qui è il limite di tutta 16 17
Cfr. H. Bergson, La pensée et le mouvant. Essais et Conférences, III: “Le possible et le réel”, in Id., Œuvres, éd. du cent. a cura di A. Robinet, Introduzione di H. Gouhier, PUF, Paris 19844, pp. 1331-1345. E precisamente in quello che considera il phanerón che è alla base di tutto il suo pensiero, e cioè che próteron enérgheia dynámeos: cfr. Metaph., IX, 8, 1049b 5.
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Vincenzo Vitiello - Necessità dell’Ineffabile
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l’elaborazione filosofica di Jankélévitch: l’assunzione dell’Ineffabile come termine opposto ed escludente l’Indicibile. O, in altri termini, l’assunzione dell’Ineffabile come “l’inesauribile mistero dell’amore” che “fa scattare nell’uomo uno stato di vitalità, perché ecc. ecc.”, contro la potenza medusea dell’Indicibile che ammutolisce l’uomo pietrificando il suo discorso. Difficile pensare che Jankélévitch avesse dimenticato Malachia (1. 2-3): “ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù”. La sua ascendenza ebraica ce lo impedisce. E tuttavia…, dobbiamo riconoscere che soltanto una definizione unilaterale dell’Ineffabile permette di separarlo dall’Indicibile. Ma la definizione unilaterale dell’Ineffabile è un sapere assoluto e non relativo, un sapere che si sottrae alle categorie del “presque rien”, del “presqueTout”, del “je ne sais quoi”. Qui anche la ragione per cui Jankélévitch non si è fermato sulla distinzione tra “presque rien”, e “presque-Tout” quanto è necessario per elaborare una coerente teoria del “je-ne-sais-quoi”.
7. Il “quasi” è una delimitazione della conoscenza non del suo termine di riferimento. L’altro del “quasi”, tutto o niente che sia, non è toccato dal limite. Se lo fosse, la conoscenza sarebbe totale e non parziale, anche se dell’altro si conoscesse solo una parte; in tal caso sarebbe conoscenza totale della parte. Per essere davvero “nescienza”, il conoscere dev’essere rigorosamente fermato sul limite che lo divide dall’altro. Sul proprio limite interno. Ma in tanto è possibile fermare la conoscenza nescente sul proprio limite, in tanto cioè la determinazione del limite non è hegelianamente superamento del limite, in quanto il conoscere non conosce anzitutto il proprio limite! Non è un paradosso: è la coerente comprensione che il vero limite del conoscere è la non-conoscenza del limite. Ne consegue che tutto quanto si dice dell’Altro appartiene al conoscere e non all’Altro. E pertanto tutto quanto il conoscere afferma circa l’Altro può – sottolineo: può – ben essere l’Altro. L’Altro è la possibilità del conoscere: possibilità che ha in sé anche la non-possibilità, l’impossibilità. L’Altro è tanto altro da poter essere anche il medesimo. Perciò e solo perciò è altro. Diversamente sarebbe un Identico opposto ad altro Identico. Per intenderci con maggiore faciltà: il vero tháteron dei cinque generi del Sofista platonico (254a – 260e) non è il termine opposto al tautón, bensì l’eînai, il genere non-genere che comprende in sé gli altri quattro, che è quindi oltre l’identico e il diverso, la quiete e il movimento, per poter-essere e quiete e movimento, e identico e diverso. Questo “essere”, che è invero un poter-essere, una possibilità
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
d’essere e identità e diversità, è proprio ciò che Anselmo dice maius quam cogitari potest. E non è un caso che lo interpelli usando la seconda persona: “Ergo, Domine, es…”. Anselmo è pienamente conscio che alla possibilità possibile non è adeguata la copula “è”. Il verhältniswörtchen kantiano18 inchioda l’essere a se stesso, e con l’essere anche il non-essere, se, come rileva Aristotele, anche del “non-essere diciamo che è non-essere” (tò mè on eînai mè on phamen: Metaph., IV, 2, 1003b10), così necessitando ad essere – ad essere-se-stesso – persino il non-essere. La grammatica stessa del pensare muta, deve mutare, quando il pensare si volge all’Altro. L’Altro è interpellabile solo con la seconda persona, in quanto, come s’è detto, tutto quanto di lui si dice è detto da noi, e pertanto come può essere così può non essere proprio dell’Altro. Talché riguardo all’Altro la distinzione tra ineffabile e indicibile non regge. Ma neppure riguardo al conoscere regge. Ché nel volgersi all’Altro, all’Altro in quanto possibile, il pensare diviene consapevole che non potendo conoscere il proprio limite interno, neppure può conoscere se stesso. Se stesso è a se stesso altro. A se stesso il conoscere può rivolgersi solo col tu. Perché tutto quello che il conoscere dice di sé può – sottolineo: può – non appartenere al conoscere. Ma allora che cosa può dirsi del “Je ne sais quoi”? quello, e solo quello, che esso dice: je ne sais quoi. Presque rien, ovvero: minus quam cogitari possit. Se qualcuno ricavasse da tutto ciò che non si può più dire nulla, replicheremmo solo questo, che tutto resta ancora da dire. “Nulla è fatto, neanche ciò che è già fatto… Soprattutto ciò che è già fatto!” (JQPR, 38) 19.
18 19
I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Id., Werke, Akademie Textausgabe, de Gruyter, Berlin 1968, III, B 141 (Die Analytik der Begriffe: § 19). E ancora: “Ciò che è vero dell’atto morale non è meno vero della parola.. Tutto è detto, deplora il dogmatismo sostanzialista, come se quello che è stato detto non fosse più da dire… Ma no! Non è detto nulla – o piuttosto tutto è da dire […]. A dispetto del principio d’identità, il dictum non è un dictum, il dictum è un dicendum, e lo resta per l’eternità” (ibidem). Ecco: “lo resta per l’eternità” è di troppo – chiude di nuovo il discorso nella gabbia dell’identità.
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Abstracts
Muovendo dalla distinzione tra “ineffabile” e “indicibile”, il primo fonte d’ogni espressione e pertanto in nessuna racchiudibile, il secondo puro negativo, di cui non c’è nulla da dire, Vitiello discute la ‘quasi-ontologia’ di Jankélévitsch sul terreno che ritiene a lui più congeniale: la politica e la storia. Di qui l’attenzione ai temi della phrónesis, del kairós, della “fortuna” e dell’abilità pratica, che non possono essere trattati con l’acribia della scienza, ma esigono la duttile intelligenza del politico. Un ruolo centrale è attribuito da Vitiello alla coppia “Je-ne-sais-quoi” e “Presque-rien”, per l’esplicazione del tipo di filosofia che Jankélévitsch teorizza e pratica insieme. Resta da chiedersi se la conoscenza del limite del sapere non superi – in questo autore, come già in altri – il limite del sapere nell’atto stesso di definirlo. En partant de la distinction entre l’“ineffable” et l’“indicible” – le premier, source de toute expression, ne pouvant par conséquent être renfermé dans aucune, et le second, pur négatif, dont on n’a rien à dire –, Vitiello analyse la “presqueontologie” de Jankélévitch sur le terrain qu’il juge le plus pertinent, celui de la politique et de l’histoire. De là l’attention aux thèmes de la phrónesis, du kairós, de la “fortune” et de l’habileté pratique, qui ne peuvent pas être traités avec la rigueur de la science mais exigent l’esprit flexible de l’homme politique. Un rôle central est attribué par Vitiello à deux notions, le “Je-ne-sais-quoi” et le “Presque-rien”, pour expliquer la philosophie que Jankélévitch théorise et met en pratique. Il reste à se demander si la connaissance de la limite du savoir ne dépasse pas – chez cet auteur, comme déjà chez d’autres – la limite du savoir, dans l’acte même de le définir. In his paper Vitiello starts from the distinction between “ineffable” and “inexpressible”, the former as the source of all expressions and therefore impossible to be contained in any of them, the latter as the pure negative about which there is nothing to say. He argues the “near-ontology” of Jankélévitch within the field that he thinks more congenial to the French philosopher: the field of politics and history. Hence, attention is given to the themes of phrónesis, of kairós, of “fortune” and of practical skill, that cannot be dealt with by the accuracy of the science and that instead demand the flexible mind of the politician. According to Vitiello, a fundamental role is attributed to the notions of “Je-ne-sais-quoi” and “Presque-
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
rien” in order to explain the kind of philosophy both theorised and practised by Jankélévitch. According to this author as well as to many others already, the question remains as to whether the awareness of the limits of the knowledge exceeds the limits of the knowledge at the very moment of its definition.
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ADRIANO FABRIS
L’impossible relation avec l’absolu À propos de Philosophie première de Vladimir Jankélévitch
1. La structure de la “philosophie première” et sa question de fond. Philosophie première de Jankélévitch est une œuvre dense, engagée, presque prophétique au regard de ce que seront les développements de la réflexion de l’auteur1. Il s’agit d’un texte où ses exigences théoriques sont peut-être plus explicites que dans d’autres ouvrages. On y retrouve en effet, développés ou in nuce, presque tous les thèmes sur lesquels le philosophe français reviendra dans ses écrits ultérieurs, en exerçant une capacité analytique de plus en plus raffinée, grâce aussi à l’emploi d’une écriture qui se sert, pour parler comme Bergson, de “concepts fluides”. Mais c’est surtout dans Philosophie première que l’auteur donne une forme systématique à sa tentative de répondre à une question de fond2: de quelle manière est-il possible d’élaborer une métaphysique qui, en partant du donné, soit capable de saisir et d’exprimer ce qui, dans le donné, est toujours et constamment au-delà du donné même? En d’autres termes, comment est-il possible d’établir une relation avec l’absolu, avec l’‘irrelatif’? La forme systématique sous laquelle Jankélévitch répond à ces interrogations apparaît dans la manière dont la réponse est articulée dans le texte. Il s’agit d’une articulation caractérisée tout d’abord par la mise en œuvre d’un dynamisme spécifique et qui se réalise suivant une orientation particulière. Cette orientation est typique d’un parcours qui, partant de l’empirie, se dirige au-delà d’elle, vers l’origine radicale du “métempirique” et
1
2
A propos de cette œuvre de Jankélévitch la littérature secondaire est loin d’être abondante. Je tiens pourtant à mentionner au moins l’étude que Jean Wahl, lui aussi cité et discuté dans Philosophie première, lui a consacré dans la “Revue de métaphysique et de morale” (1955, pp. 161-217): La philosophie première de V. Jankélévitch. Dans la bibliographie italienne, M. L. Facco par exemple insiste sur cet écrit dans son Vladimir Jankélévitch e la metafisica, Università di Genova 1985. Parallèlement à la tentative – que Jankélévitch réalise dans la même période – de donner une forme systématique aux questions éthiques concernant l’acquisition et l’exercice des “vertus”. Voir à cet égard la première édition du Traité des vertus.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
du “métalogique”3, en passant par l’effondrement annihilant et nihilisant4 auquel conduit l’expérience de la mort. En effet, précisément à partir d’une sorte de meditatio mortis, la philosophie peut s’ouvrir une nouvelle voie. C’est la voie qui conduit à expérimenter un “tout autre ordre”5: un “tout autre ordre” qui est d’ailleurs “tout autre chose” qu’un ordre, quel qu’il soit, et même, que l’idée même d’ordre. Cette voie se parcourt en deux étapes: d’un côté, en suivant une voie négative capable de saisir non pas le ‘néant’ mais le presque-rien qui se manifeste avant tout dans la dimension de l’instant6; de l’autre, en faisant l’expérience, à la fois philosophique et linguistique, de ce que Jankélévitch appelle le je-ne-sais-quoi ou nescioquid7 comme tentative extrême de dire ce qu’il n’est pas possible de dire. Une telle expérience se réalise à partir de la tentative de penser une positivité pure, un pur poser, entendu comme poser en acte, et de saisir ainsi, dans tout son charme, le sujet de la position en acte, considéré dans ce qui lui est le plus propre, c’est-à-dire son “ipséité” (PhP, 144). Mais ce parcours se conclut par un revirement. Il s’agit, à bien y regarder, d’une véritable ascension de la pensée, qui est à la fois ascension et ascèse. Pourtant, une fois arrivés au sommet, il est possible d’expérimenter la naissance, l’origine étant atteinte, de toute la multiplicité qui se reflète dans le domaine de l’empirie. Il est possible, en d’autres termes, de repenser la dynamique descendante par l’intermédiaire de laquelle la réalité parvient à se structurer: c’est un mouvement qui, de l’ineffable, se dirige vers le concret et qui trouve dans l’acte divin de la création son exemple le plus approprié. Ce thème est illustré dans l’ample chapitre neuf de Philosophie première. De plus, à partir d’une telle interprétation de l’action créatrice de Dieu, on peut concevoir aussi le faire et l’être de l’homme, dans la mesure où, comme le dit Jankélévitch, “l’homme, à la lettre, est Dieu; Dieu noyé dans les discours, Dieu d’un milliardième de seconde” (PhP, 239).
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Il faut signaler que la même terminologie revient, avec une intention analogue, dans l’œuvre du philosophe juif Franz Rosenzweig: Der Stern der Erösung (1921), maintenant dans Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften, II, hrsg. v. R. Mayer, Nijhoff, The Hague 1976. Le recours à la métaphore de Gygès, présente dans ces pages (PhP, 55), et que Lévinas reprend aussi dans Totalité et infini, est toujours consonant avec une atmosphère ‘à la Rosenzweig’, au moins de façon implicite. Jankélévitch distingue de façon très précise ‘annihiler’ et ‘nihiliser’: PhP, 71. Jankélévitch insiste sur le thème d’“un tout autre ordre” dans le chapitre cinq de PhP. Voir ce qui est expliqué dans le chapitre quatre de PhP. Voir la définition dans PhP, 144.
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Adriano Fabris - L’impossible relation avec l’absolu
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S’il s’agit là du sens de l’interrogation métaphysique de Jankélévitch, si telle est en gros la structure propre à sa recherche, il est pourtant nécessaire d’en approfondir de façon appropriée les présupposés. Il doit être en effet bien évident – si l’on suit un tel sens, fruit d’une expérience partagée avec d’autres écrivains et philosophes français du deuxième après-guerre – que certaines positions philosophiques semblent préalablement définies, et comme placées sur des rails précis; de même, les questions suscitées par de telles positions paraissent inévitables. Cela est déjà arrivé à l’intérieur d’un courant particulier de la pensée occidentale, que nous analyserons ci-après plus en détail. En effet, une fois mis en question le niveau de l’empirie, on se trouve obligé de saisir d’abord ce qui est au-delà: il devient, en d’autres termes, nécessaire de se mettre en relation avec cette dimension métempirique capable de donner des explications, ou même du sens, au domaine empirique, qu’il soit considéré dans ses diverses composantes ou dans sa totalité. Il s’agit, en d’autres termes, de formuler une question de contenu concernant le domaine métempirique dont la “philosophie première” a pour finalité de rechercher la raison d’être. Pourtant, on est bien conscient que l’“autre” du “donné”, c’est-à-dire ce qui constitue le mystère du donné même, ne peut en aucun cas être ni figé, ni hypostasié à la manière d’une idée platonicienne, ni considéré comme une sorte de monde parallèle. Par conséquent, le rapport avec cet autre – qui doit assumer quand même une sorte de consistance pour pouvoir être pensé – se révèle être une relation tout à fait paradoxale. Mais surtout, à côté d’une telle question de contenu, il en apparaît une autre, liée à la précédente. Il s’agit du problème concernant la “méthode”: la manière selon laquelle il est possible de saisir ce qui se trouve au-delà de toute empirie; à savoir ce qui coïncide avec le fait en soi – métempirique, comme on l’a vu – que quelque chose comme une empirie se donne toujours. Sous quelle forme donc est-il possible de s’adresser à ce qui ne peut être reconduit à rien de saisissable? Ou encore, comment être en rapport avec l’absolu, avec ce qui, en tant que tel, est sans relations? Et surtout, avec quels mots peut-on tenter de l’exprimer? On rencontre ici une difficulté différente et plus spécifique, que la philosophie première, dans l’acception ici considérée, est (toujours) appelée à résoudre. Il s’agit là d’un problème de langage. Il faut se demander enfin ceci: si le langage philosophique est utilisé traditionnellement pour désigner et pour définir, et si cette tâche se réalise d’abord dans le domaine de l’empirie, dont s’occupent en particulier les sciences, quels mots, quelles expressions et quelle logique permettront de dire ce qui rentre au contraire dans la dimension métempirique de la philosophie première?
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
Cet ensemble de problèmes, on le sait, est sans doute le banc d’essai privilégié du débat philosophique au XXème siècle. Cela s’est vérifié dans la mesure où la réalisation de certains objectifs théoriques par l’investigation philosophique a coïncidé avec sa capacité à en donner une expression adéquate. Voilà pourquoi il s’agit d’un problème que de nombreux penseurs de ce siècle ont affronté, à partir de différents points de vue: le problème de l’adéquation du langage à exprimer ce qui est proprement ‘ultérieur’; la nécessité, dans ce but, de sauvegarder la pureté du langage; enfin, l’effort, accompli grâce au maintien d’une telle pureté, d’échapper à la décadence propre aux expressions courantes. On peut penser par exemple à l’exigence de purification qui anime la pensée de Heidegger comme la réflexion de Levinas, dans la tentative, réussie chez les deux auteurs, d’élaborer un langage qui ne retombe pas dans les erreurs de la philosophie traditionnelle. Sous cet aspect, Jankélévitch apparaît plus avisé, du moins par rapport à Levinas, en ce qui concerne l’issue paradoxale où retombe une telle exigence de pureté conceptuelle et linguistique. En effet, il thématise justement le paradoxe à l’œuvre dans la tentative de penser ce qui ne peut pas être pensé et dans le projet de dire ce qu’on ne peut pas dire. Jankélévitch en fait le problème décisif que sa philosophie première est appelée à affronter. De plus, il pose cette situation paradoxale comme une sorte de toile de fond totale à l’intérieur de laquelle placer l’effort vers le métempirique, qui anime son investigation philosophique. Tout cela, d’ailleurs, sans jamais abandonner définitivement le mythe de la pureté et, au contraire, en trouvant de nouveaux mots et de nouvelles expressions pour dire ce qu’on ne peut pas du tout dire, du moins dans les formes traditionnelles, puisqu’il s’avère non relatif, sans aucun rapport avec le reste. En même temps, sans renoncer à la tâche d’offrir une élaboration philosophique de ce paradoxe, quitte même à suivre une voie transversale, “marginale”, offerte par cette autre forme d’expression propre qu’est la musique; donc disposé aussi à développer une série de méditations innovatrices qui peuvent être reconduites, plus qu’au domaine d’une “philosophie de la musique”, à la dimension d’une philosophie “comme” musique8.
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La littérature secondaire consacrée aux réflexions de Jankélévitch sur les mondes de l’expression musicale est très volumineuse. On se limite ici à rappeler, puisque elles sont particulièrement raffinées et éclairantes, les recherches d’Enrica Lisciani Petrini publiées dans L’apparenza e le forme. Filosofia e musica in Jankélévitch, Nuove Edizioni Tempi Moderni, Napoli 1991.
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Adriano Fabris - L’impossible relation avec l’absolu
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2. Ascendances néoplatoniciennes Dans son élaboration d’une “philosophie première”, capable de répondre à de telles exigences et capable aussi de s’inscrire à l’intérieur de la tradition philosophique de l’Occident, Jankélévitch fait certainement référence à nombre d’auteurs du passé, auxquels il s’était dédié aussi à travers d’autres écrits et traductions9. Il le fait, de toute façon, avec une autonomie et une originalité constantes, et à travers de significatives contaminations conceptuelles, toujours motivées par le projet théorique dont on vient d’illustrer les lignes de fond. A ce propos, on a déjà fait référence à Bergson, mais on pourrait aussi rappeler les constantes références à Leibniz, et surtout à Schelling, autant de présences qui reviennent même en dehors du contexte de Philosophie première. À Schelling en particulier et à sa “philosophie positive” remonte la distinction entre quiddité et quoddité, ainsi que la mise en évidence de deux acceptions de l’idée de ‘négatif’ (le me on et le ouk on), qui sont plusieurs fois reprises et développées à l’intérieur de l’investigation de Jankélévitch10. Et pourtant Philosophie première, de même qu’une grande partie de la réflexion de Jankélévitch, ne serait pas compréhensible si on négligeait la présence de la pensée de Plotin, non seulement pour certains détails, mais surtout pour les caractères fondamentaux. C’est précisément dans le courant spéculatif de la tradition néoplatonicienne qu’une pareille réflexion peut être opportunément placée, à condition de tenir compte d’un correctif particulier – le correctif biblique – dont on devra sous peu montrer aussi bien l’incidence que la portée. Il serait même trop banal de dire que la perspective accueillie par Jankélévitch lorsqu’il élabore sa philosophie métaphysique est celle que Plotin avait léguée à la tradition philosophique, puisque dans le texte en question cela émerge d’une façon très explicite. Philosophie première est une œuvre où les références aux Ennéades se répètent sans cesse presque à chaque page et non pas de façon occasionnelle ou érudite, mais comme autant de points d’ancrage théoriques et d’occasions pour affronter des questions concrètes. 9 10
Une analyse détaillée des “Sources” de Jankélévitch se trouve dans le chapitre premier de l’étude de I. de Montmollin, La philosophie de Vladimir Jankélévitch, PUF, Paris 2000. Voir par exemple PhP, 144. À la p. 184 du même texte, Jankélévith cite les Weltalter: un autre élément qui le relie de façon implicite à la constellation conceptuelle d’origine hébraïque qui a chez Rosenzweig une de ses expressions les plus significatives.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
D’ailleurs, comme chacun sait, la fréquentation de Plotin de la part de Jankélévitch est vraiment précoce. En 1924, quand il était élève de l’École Normale Supérieure, il rédige, sous la direction d’Émile Bréhier – lui aussi plusieurs fois cité dans Philosophie première – un mémoire de maîtrise qui consiste en un commentaire du traité I, 3, Sur la dialectique, des Ennéades de Plotin. Ce travail a été publié à titre posthume en 1998. Cela apparaît surprenant, non seulement parce que ce travail révèle le talent du jeune philosophe, mais surtout parce qu’on y trouve abordés tous les thèmes qui seront le leitmotiv de son futur ouvrage, de la question du temps jusqu’au problème de l’amour, du rôle privilégié de la musique dans l’expression du métempirique jusqu’à l’exigence de saisir l’Un au-delà de tout ce qui peut être saisi et compris. Dans Philosophie première tous ces thèmes sont précisément examinés à nouveau. Dès le début, Jankélévitch conteste la démarche platonicienne, mais surtout aristotélicienne, selon laquelle “la métempirie” est considérée comme “une certaine modalité de l’empirie”, au lieu de désigner “ce qui est hors de toute expérience possible” (PhP, 4). C’est Plotin, il faut le répéter, qui offre les instruments pour saisir et exprimer de façon adéquate un tel “au-delà”; cependant, ce dernier ne doit pas être entendu comme ce qui transcende ce monde, mais comme ce qui, dans le monde même, en allant au fond du donné, en découvre la transcendance constitutive. Comme le dit justement Jankélévitch: “C’est pour Plotin que Là-bas est vraiment Au-delà, c’est-à-dire trans-mondain et ultérieur à toute l’empirie comme à toute vie terrestre” (PhP, 2). Toutefois, Plotin introduit non seulement une méthode, mais aussi des concepts spécifiques, des images particulières, capables de répondre de façon appropriée à l’exigence de penser l’“au-delà” de l’empirique. Si l’expérience n’est qu’expérience finie du fini, alors tout ce qui peut être offert à travers l’intuition, tout ce qui ne peut pas du tout être défini ou reconduit à une forme – ce que Plotin même, comme le rappelle Jankélévitch, définit comme “amorphe” (v. PhP, 110-11) – doit être indiqué et exprimé, dans le sillage de ce qui a été expérimenté par le néoplatonisme au moyen d’images hyperboliques. Tout cela pour répondre au défi, d’ailleurs lancé à la pensée occidentale pour la première fois par Platon, qui consiste justement à penser le bien au-delà de l’être: le “super-paradoxe” avec lequel toute philosophie qui refuse de se transformer en une pure et simple explication de l’empirique, et d’y rester liée, doit, tôt ou tard, se confronter (PhP, 32). On pourrait continuer longuement dans cette recognition des motifs plotiniens qu’on peut trouver dans les œuvres de Jankélévitch et, en particulier,
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dans Philosophie première. En résumé, Plotin représente pour Jankélévitch la réponse à deux exigences: celle de saisir l’“au-delà” entendu comme quelque chose d’un ordre tout à fait différent de celui de l’“en-deçà”; celle d’identifier un “au-delà” qui, par rapport à l’“en-deçà”, se révèle fondateur et fondant, tout en étant d’un tout autre ordre que lui. En effet, c’est seulement si le fondement relève d’un tout autre ordre qu’il est véritable fondement, tout en étant en relation étroite avec ce qu’il fonde. Distinction et en même temps rapport: voilà ce que la philosophie de Plotin essaie de garantir dans l’espace qui s’ouvre entre l’Un et le multiple, ainsi qu’entre l’Un et la pensée qui le pense. C’est parce qu’il pense y trouver un développement approprié de ce problème que Jankélévitch se confronte sans cesse avec l’investigation plotinienne, tout en récupérant cependant ultérieurement les raisons de la différence, ce qui le distingue de ces interprétations des Ennéades qui entendent le rapport entre l’Un et le multiple comme un procédé émanatif qui se déroule sans solution de continuité. Par conséquent il accentue – avec une sensibilité toute hébraïque, pourrait-on dire – la séparation entre empirique et métempirique, au prix même d’être forcé, enfin, à abandonner Plotin. Enfin, deux aspects peuvent être mis en relief par rapport à une pareille “ascendance néoplatonicienne” de la philosophie complexe et ambiguë de Jankélévitch. D’un côté, il s’agit d’éléments qui montrent que Jankélévitch adhère aux motifs néoplatoniciens, et même qu’il leur donne un véritable approfondissement créatif et un développement effectivement original. De l’autre, il s’agit de caractères qui dénoncent au contraire un véritable détachement – évident dans Philosophie première, bien que jamais souligné par elle – qui constitue un mûrissement par rapport à la pensée de Plotin: un détachement qui est dû à l’émergence du thème biblique de la création dont cette œuvre offre un développement approfondi. En abordant le premier thème et en laissant l’analyse de l’autre au paragraphe suivant, on a déjà vu en quoi consiste la voie de Jankélévitch vers la transcendance, et le motif du débat touchant une certaine image platonicienne, hypostasiée et hypostasiante, du “monde des idées”. Mais “au-delà” de l’empirie, il faut le répéter, il n’y a aucun autre monde, mais le fait même qu’il y ait quelque chose. De plus, on ne peut plus poser d’autres questions à ce sujet; encore moins la question hyperbolique posée par Leibniz et reprise par Schelling et Heidegger: “Pourquoi, en général, l’étant et non plutôt le néant?”11. Il est nécessaire au contraire de comprendre et d’exprimer cette aspiration à une dimension ‘ultérieure’ qui 11
Voir le débat à propos de “Potius-quam” dans PhP, 38 et ss.
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émerge déjà à partir du donné même. Il est nécessaire, pourrait-on dire, de comprendre ce transcendant qui inquiète l’immanent. Voilà l’exigence de Plotin que Jankélévitch assume. Il le fait, cependant, de façon ambiguë. D’un côté, il emploie des mots-clés du lexique platonicien, repris et développés dans les Ennéades: on peut par exemple mentionner le terme grec exaiphnes, répété plusieurs fois, ou celui de parousia; on peut rappeler l’emploi réitéré de mots d’évidente ascendance platonicienne qui, traduits en français, sonnent comme “source”, “hypostase”, “tangence”, “touche”. De l’autre, Jankélévitch élabore ultérieurement des expressions appropriées pour dire ce qui fait pression dans le donné tout en n’étant pas du tout un donné. Il s’agit de ce qui n’est pas quelque chose, mais pas néant non plus, et qui peut donc être appelé, comme on l’a vu, un “presque rien”. L’expression “presque rien” dénote l’une des façons de dire employées par Jankélévitch pour approfondir de façon personnelle la ligne de pensée inaugurée par Plotin. Dans le même but, une autre expression typique de Jankélévitch, que l’on vient de rappeler, et sur laquelle il s’arrête surtout dans le chapitre huit de sa Philosophie première: le “je-ne-sais-quoi”, le nescioquid12. De la même manière, il convient à ce projet d’analyser certains phénomènes qui, dans la tradition néoplatonicienne, soit n’étaient pas considérés du point de vue thématique, soit ne pouvaient pas être conçus conformément aux exigences de la sensibilité contemporaine. On peut songer, par exemple, à l’expérience de la mortalité, qui à l’époque moderne assume de plus en plus une connotation tragique et à laquelle Philosophie première consacre, comme on l’a dit, son troisième chapitre. On peut songer à la question théorique, présentée en version anti-platonicienne, de la “nihilisation des essences”, débattue amplement et en profondeur dans le chapitre quatre, et assumée de façon explicite dans le contexte d’un rapprochement avec le nihilisme contemporain (PhP, 76 et ss.). Jankélévitch répond donc à une exigence qui se trouve exprimée et articulée chez Plotin, en se servant d’expressions et de façons de penser qui, tout en marchant dans le sillage de cet auteur, en interprètent d’une façon originale le rapport entre immanence et transcendance. Toutefois, il faut encore le répéter, penser ce rapport suppose, contrairement à ce qui arrive chez Plotin, de récupérer l’autonomie du donné empirique à l’égard de la perspective “métempirique” qui, pourtant, s’y trouve attestée. Il s’agit, 12
Dans ce cas-là, l’arrière-plan de référence est donné par Plotin et par Schelling: voir PhP, 143-44.
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pourrait-on dire, d’un emploi du néoplatonisme qui le dégage, autant que possible, du système des émanations et en accentue les aspects apophatiques. Dans Philosophie première, le platonisme est entendu de façon programmatique comme un “extrémisme de la transcendance” (PhP, 43). C’est ce deuxième aspect, qui est décisif, qu’il est nécessaire de souligner par rapport à l’ambiguïté de la réception plotinienne chez Jankélévitch.
3. Références bibliques Cependant, il n’est pas encore suffisant de signaler l’urgence d’autonomie qui anime les références de Jankélévitch à l’égard de la pensée de Plotin. Il faut aussi déterminer la raison qui est à sa base. Il faut éclairer quelles autres exigences poussent Jankélévitch à un emploi théorique, pas du tout en épigone, du néoplatonisme. On sait déjà de quoi il s’agit, du moins en ce qui concerne Philosophie première. L’idée fondamentale qui permet d’affirmer cette autonomie, et qui donc conduit Jankélévitch non seulement à se diriger vers un développement original des suggestions néoplatoniciennes, mais surtout à modifier de façon décisive le cadre de référence, est donnée par l’idée biblique de la création. En effet, à l’un des développements du thème de la création est dédiée une vaste partie de Philosophie première où Jankélévitch développe une sorte de commentaire des premiers chapitres de la Genèse. C’est justement à partir d’une telle analyse qu’est conduite une réflexion anthropologique structurée qui conclut l’œuvre: du moment que, comme le dit l’auteur, “l’homme est le Dieu de l’instant” (PhP, 166). L’insertion du thème de la Création se réalise de façon presque naturelle, c’est-à-dire sans qu’émergent de tensions dérivant de la superposition de la pensée grecque et de la mentalité hébraïque–chrétienne. En effet, bien que Chestov13 soit un auteur très souvent utilisé et cité dans Philosophie première, la distance entre “Athènes” et “Jérusalem” (et tout ce que ces deux réalités symbolisent par rapport à l’attitude de la pensée envers la vie) n’est pas ici particulièrement accentuée par Jankélévitch de façon programmatique. Dans le fait de réaliser, apparemment sans tensions, une telle insertion du thème de la création, d’abord dans le système de la philosophie platonicienne puis dans le système de la philosophie néoplatonicienne – il se révèle au contraire presque comme l’héritier, au XXe siècle, d’une opération qui 13
L. Chestov, Athènes et Jérusalem (1937), trad. fr. par B. de Schloezer, Aubier, Paris 1993.
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a caractérisé un courant significatif de la pensée hébraïque et chrétienne, à partir de Philon d’Alexandrie et des Pères de l’Eglise14. En réalité, il y a là un problème: quelque chose qui contraste avec la dynamique de continuité caractéristique de la pensée de Plotin, en dépit de l’interprétation qu’en donne Jankélévitch. Il s’agit d’une question qui est bien davantage dans la ligne des exigences philosophiques émergentes entre le XIXe et le XXe siècles, et qui est en mesure d’expliquer la référence constante à l’expérience de la négativité, de l’annihilation et du néant qui caractérisent, comme on l’a vu, nombre de pages de Philosophie première. On veut parler ici du thème de la liberté. Il s’agit d’un thème qui doit être abordé, même chez Jankélévitch, d’un point de vue plutôt éthique que métaphysique. Déjà dans sa dimension éthique, en effet, la liberté est aussi liberté de Dieu et liberté de l’homme. En tant que telle, en effet, elle implique l’exercice d’un choix, entendu comme intervention visant à une césure et à une interruption du temps. De plus, elle implique un engagement dans le présent: dans le moment emblématique de l’instant15. À ce propos, un passage de Philosophie première est significatif, où l’on affirme que “ni la conversion ni la création n’ont de continuation extensive” (PhP, 113). Il y a donc un saut qui empêche la production d’une continuité de type émanatiste. Ce saut se réalise, aussi bien chez Dieu que chez l’homme, à travers un acte libre. Voilà l’élément qui a une répercussion sur la structure néoplatonicienne de la philosophie de Jankélévitch et qui, en provenant d’une autre tradition de pensée, donne lieu à de nouvelles questions: avant tout, à ces questions éthiques que Jankélévitch venait d’affronter dans la première édition de son Traité des vertus. En réalité, la cible polémique la plus typique, dans la critique de Jankélévitch à l’égard de l’idéologie de la continuité, n’est pas plus représentée 14
15
Dans Philosophie première l’apport de la pensée hébraïque est introduit par des références explicites à la pensée de A. Néher et utilisé pour résoudre des problèmes philosophiques fort précis. La Bible, avec le caractère d’ouverture à un monde de liberté qu’elle implique, constitue en effet le “correctif” du système plotinien qui, bien que révisé et actualisé, domine une grande partie de Philosophie première. C’est seulement sur ce fond d’enchevêtrement d’ouverture et de nouveauté que l’on peut comprendre la doctrine temporelle de l’instant créatif et la conception de l’ipséité et du sujet pur, développées dans le chapitre sept de cet ouvrage. Comme on l’a déjà vu, la façon dont Jankélévitch utilise la notion platonicienne de ‘exaiphnes’, pour exprimer l’exigence de coupure de la continuité temporelle, est singulière. Il se réalise là une véritable coïncidence de l’“évènement phatique” et du “décret thétique”. V. PhP, 114 et 117. Mais à cette conception se rattache de toute façon l’idée de kairos: v. PhP, 160-62.
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par Plotin que par Bergson16. Cela paraîtrait bizarre, étant donnés aussi les intérêts pour les thèmes religieux qui ont animé surtout la dernière phase de la pensée de Bergson. Mais ce que réalise Jankélévitch dans sa réflexion sur l’acte créateur est aussi une tentative de se confronter aux limites propres à la démarche de ce philosophe qui était pourtant très important pour lui. En même temps, cette référence à une démarche spécifique de type hébraïque–chrétien représente justement pour lui une occasion d’éclairer le sens dans lequel il faut entendre proprement la notion de ‘métaphysique’. On peut repérer une confirmation de ces intentions dans Philosophie première et dans la partie finale de l’étude de Jankélévitch sur Bergson, et précisément dans l’appendice consacré à “Bergson et [au] judaïsme”17. De fait – comme il le dit explicitement dans ces pages, d’ailleurs elles aussi plutôt ambiguës puisqu’elles confondent souvent considération et critique – ce qui distingue Bergson de la tradition hébraïque et même ce qui le place aux antipodes d’une telle mentalité, est son refus de toute spéculation vouée à investiguer les termes extrêmes du temps: son début et sa fin. Jankélévitch le souligne vigoureusement. Jankélévitch fait ça pour dépasser Bergson de façon consciente, en contestant sa philosophie de la plénitude et de la continuité qui le condamne, en dernière analyse, à abandonner la possibilité d’une expression effective de la transcendance. Chez Bergson en effet, le problème de la relation avec l’altérité est résolu en renonçant à maintenir une idée radicale de différence. Voilà pourquoi – c’est Jankélévitch qui l’affirme – dans la pensée de Bergson il ne peut pas y avoir de place pour l’éthique. De fait, puisqu’il n’a pas le goût du néant, Bergson n’a même pas le pathos du mal. Dans le domaine de l’évolution créatrice tout semble trouver sa propre justification. De plus, de même qu’il n’y a pas de place pour une véritable éthique, un véritable développement religieux s’avère décidément problématique, selon Jankélévitch, à l’intérieur d’un contexte bergsonien, malgré l’effort manifeste des Deux sources de la morale et de la religion. Il s’agit d’une autre conséquence de l’impossibilité chez Bergson de penser la transcendance de façon appropriée. Ainsi, l’élément principal de cette inspiration religieuse, qui est en quelque sorte présente dans la pensée de Bergson, est constitué par l’idée de l’insuffisance du devenir et de tous ses instants18. 16 17 18
C’est Jankélévitch lui-même qui le déclare, en réunissant Plotin et Bergson: v. par exemple PhP, 121-22. Appendice contenu dans l’édition PUF, Paris 1959. C’est donc avec une intention tout à fait différente par rapport à celle de Bergson que Jankélévitch affirme, dans Philosophie première : “Toutes choses ont par nature je ne sais quoi de divin” (PhP, 154).
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Le Dieu de Bergson est en effet un Dieu qui crée à chaque instant et qui pourtant, de cette manière, finit par sanctifier chaque instant, en empêchant de dépasser cette dimension. Certes, chez Bergson, comme d’ailleurs dans la Bible, le rapport de l’homme avec le temps est un rapport affirmatif. L’homme dit oui à la nature et à la société; il dit oui à la vie. Ce faisant toutefois – et à la différence de ce qui arrive dans la Bible –, l’homme finit par être lié à son monde, et si la réflexion ne parvient pas à éluder ce plan, alors l’élaboration d’une véritable “philosophie première” s’avère impossible.
4. L’impossible relation avec l’absolu Au contraire, le caractère le plus propre de la Bible consiste dans sa capacité à diriger vers une ouverture authentique au-delà de l’empirique: ouverture de l’espace; ouverture du temps. Ouverture vers un “au-delà” tout à fait différent. Ouverture vers un absolu avec lequel, pourtant, l’homme se trouve en relation. L’arrière-plan spécifiquement “religieux” qui caractérise la pensée de Jankélévitch remonte donc ici à la surface. Avec cette expression, bien entendu, on ne vise pas à mentionner ses engagements à l’intérieur d’une dimension confessionnelle particulière. On fait allusion ici au fait que la référence aux thèmes, aux catégories et aux façons de penser élaborées par la tradition hébraïque-chrétienne est utilisée par Jankélévitch pour affronter la question philosophique qu’il juge fondamentale. Il s’agit du problème de la possibilité d’une relation à l’absolu. Un problème qui se pose dans la mesure où Jankélévitch cherche, grâce aussi aux références philosophiques qu’on vient d’analyser, à saisir le transcendant dans sa différence par rapport à l’empirique et à l’exprimer dans sa pureté. Voilà un problème qui demande une solution de nature philosophique, même s’il s’agit d’une philosophie qui, pour être qualifiée pour ce but, doit subir une transformation radicale. Voilà le projet philosophique de Jankélévitch: qui met en œuvre une façon respectueuse, délicate et passionnante de faire de la philosophie, mais sur laquelle, en conclusion, il est nécessaire d’avancer de brèves considérations, ne serait-ce que sous la forme de simples questions. Il faut d’abord réfléchir sur l’effective compatibilité de l’approche grecque – platonicienne ou néoplatonicienne – avec l’apport biblique auquel Jankélévitch s’adresse aussi. Il faut se demander si vraiment l’insertion d’une tradition dans l’autre peut se réaliser sans tensions, comme semble
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le penser Jankélévitch même. En réalité, la référence au contexte biblique, ainsi qu’une certaine interprétation du néoplatonisme, sont le résultat de la tâche que Jankélévitch assume dans Philosophie première, celle qui vise à élaborer la possibilité de penser et d’exprimer une relation philosophique avec l’absolu. La possibilité d’une telle relation dépend pourtant de la manière dont on entend ce même absolu. Comme le dit le mot même, l’absolu est en effet ce qui échappe à toute forme de relation. Et pourtant Jankélévitch pense qu’on doit et qu’on peut repenser le concept et la pratique de la relation – notamment sa façon de se poser comme relation en acte dans l’instant, de la part du sujet humain ou divin – de manière à la configurer réellement comme une véritable relation avec l’absolu. En faisant cela on enregistre non pas l’abandon de la philosophie en faveur d’une approche religieuse, mais la nécessité de repenser la tradition philosophique et les manières dont, à l’intérieur d’elle, la relation a été conçue selon des modalités tout à fait différentes par rapport au passé. Pourtant, il reste à se demander si un tel effort n’est pas voué à l’échec. Comme on l’a déjà vu, avec Philosophie première, Jankélévitch s’intègre dans un courant de la pensée occidentale – le courant néoplatonicien, encore que corrigé par l’apport biblique – et en admet non seulement les présupposés, mais aussi, au moins en partie, les résultats. Parmi les présupposés on compte l’idée selon laquelle il y a toujours un absolu d’où partir et où retourner. Parmi les résultats il y a justement le risque constant – duquel Bergson même, dans son expérience de la relation, ne réussit pas à se débarrasser – d’une perte de la dimension transcendante qu’on voudrait sauvegarder à travers cette voie. On dirait que Jankélévitch identifie correctement le problème philosophique de fond dans le fait de repenser l’idée de relation, mais il ne parvient pas à se libérer de l’hypostase de l’absolu à laquelle la relation doit se référer comme point de départ et d’arrivée. L’absolu, tel qu’il l’entend, reste, en d’autres termes, extérieur à la relation: et il ne pourrait pas en être autrement s’il doit être, justement, vraiment absolu. Mais il reste le soupçon que, dans cette configuration, l’absoluité de l’absolu finit par dépendre, en dernière analyse, de la relation qui d’abord le pose en tant que tel et ensuite en affirme l’inaccessibilité, tout en continuant à se rapporter à lui de façon paradoxale. Tout cela ne peut produire qu’un embarras, bien sûr de nature philosophique. Une ultime preuve en est que, dans la perspective de Jankélévitch, on renonce à élaborer la question même qui est au contraire décisive dans la vision hébraïque-chrétienne: la question du sens. Dans Philosophie première est affirmé de façon explicite que l’origine du sens, en tant que telle,
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est insensée. De plus, tout ce que à quoi la philosophie a à faire dans sa recherche – le niveau empirique, le niveau métempirique et le domaine de l’absolu – se présente comme une donnée de fait; et, pour cette raison, comme quelque chose qui s’impose sans raison. La donnée de fait ne peut pas donner de sens: elle ne peut pas offrir d’orientation à l’homme, ni pour ce qui est de son action, ni pour ce qui est de sa pensée. Il fant se demander pourquoi l’espace qu’il reste à l’éthique – dimension que Jankélévitch a pourtant fort à cœur – si l’investigation philosophique n’est pas capable de saisir l’horizon du sens et de la motivation. Il fant se demander pourquoi la construction théorique raffinée de Jankélévitch ne doit pas être accueillie et considérée avec simple indifférence, dans la mesure où elle est liée à quelque chose qui se manifeste de façon insensée. À ces questions, peut-être, il n’est pas possible de répondre en demeurant sur le plan de la “philosophie première” de Jankélévitch. Au contraire, c’est probablement l’idée d’une “philosophie première” en tant que sauvegarde et expression de l’absolu qu’il faut remettre en question. Peut-être, s’il faut se concentrer sur le rapport en tant que relation qui, de toute façon, lie des termes qui sont et restent différents, et s’il faut s’en tenir là, il faut aussi se contenter de rester au niveau de la “philosophie seconde”. Mais le mérite de Jankélévitch ne consiste ni seulement dans le fait d’avoir posé, avec une lucidité exemplaire, le problème de la relation avec l’absolu, ni uniquement dans celui d’avoir repensé les termes de cette relation. Il consiste avant tout dans le fait d’avoir conçu le paradoxe de cette relation et d’en avoir ainsi approfondi l’impossibilité de façon proprement philosophique, relevant le défi contenu dans cette impossibilité et ouvrant ainsi des espaces nouveaux et originaux pour la philosophie même.
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Abstracts
Il saggio analizza il libro di Jankélévitch Philosophie première, nel quale il filosofo francese elabora il suo specifico modello di metafisica. Si tratta di una sua concezione davvero particolare di questa pratica filosofica, nella quale egli tenta di realizzare una relazione paradossale con l’“Assoluto”. A questo scopo Jankélévitch usa sia concetti platonici e neo-platonici, sia immagini e categorie bibliche. E tuttavia, come il saggio cerca di mostrare, questo suo modo di fare metafisica non può essere portato a compimento: una relazione autentica con un Assoluto che s’impone insensatamente sembra infatti risultare impossibile. Cet article analyse le modèle particulier de métaphysique élaboré par Jankélévitch dans Philosophie première, livre dans lequel il théorise une relation paradoxale avec l’“Absolu”. Pour ce faire, Jankélévitch se sert de concepts platoniciens et néo-platoniciens aussi bien que d’images et de catégories qui dérivent de la tradition biblique. Et pourtant – et c’est là ce que l’article entend démontrer – cette modalité d’approche de la métaphysique ne peut pas atteindre son but, car une relation authentique avec un Absolu, qui s’impose de façon insensée, paraît par définition impossible. The paper focuses on the new pattern of metaphysics worked out by Jankélévitch in his Philosophie première. What Jankélévitch attempts to create is a paradoxical relationship with the “Absolute” through both platonic and neo-platonic concepts, as well as images and categories deriving from the biblical tradition. But, as shown in the paper, his aim cannot be achieved since a true relationship with what cannot be related to anyone seems to be impossible.
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LUCIO SAVIANI
Conversion, vocation et ascèse dans la métaphysique de Jankélévitch
“Vocation”, “ascèse”, “conversion” sont des termes centraux, essentiels, dans le projet métaphysique de Jankélévitch. Cela ne fait aucun doute. Mais ils peuvent aussi contribuer à expliquer, à éclaircir certaines zones d’ombre, afin de reconstituer tant soit peu et de faire revivre – comme il est souvent nécessaire dans un labyrinthe – certains passages de l’intrigue labyrinthique d’influences et d’héritages, plus au moins directs, qui jalonnent le parcours de la pensée de Jankélévitch. Enfin, les thèmes de la vocation, de l’ascèse et de la conversion parviennent à diriger et à condenser les différentes orientations, aspects, influences, sources d’inspiration, ou héritages, autour d’une notion qui a été largement reconnue comme la notion-phare de la pensée de Jankélévitch. Il s’agit de la notion de limite, qui fait de cette pensée une “sensibilité philosophique” qu’on exerce “à l’extrême”, autour de la notion-expérience de limite, mais aussi sur la limite, dans cette dimension incertaine et paradoxale qui est propre à la limite, qui en fait un “passage à la limite”, selon l’expression de Jankélévitch lui-même. Comme nous pourrons le constater, à partir de ce point, ou passage, les trois termes dont nous parlons vont nous permettre, parmi les itinéraires qui font partie du labyrinthe de Jankélévitch, d’en parcourir un autre, qui n’est peut-être que la modulation différente d’une source, d’un aspect particulier déjà identifié de sa pensée, ou qui est une théorie moins courante, mais que je rencontre souvent, ces derniers temps, dans mon étude de la pensée de Jankélévitch. La limite désigne simultanément la proximité et la distance, la similitude et la différence, l’intériorité et l’extériorité. Un quelque chose qui se trouve au même instant d’un côté et de l’autre d’une frontière, d’un seuil ou d’une marge. Il s’agit donc, plutôt que d’une frontière absolue, d’une zone incertaine, où il est possible d’entrer mais aussi de revenir toujours pour en sortir à nouveau. Limen, point de transit, ou même de “conversion”, entre deux dimensions, ontologiquement nécessaires, radicalement différentes, marquées d’une altérité qualitative absolue et cependant en relation.
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Transit, relation, point d’intersection avec l’ordre tout autre – comme nous le savons, c’est le principe-même à la base de la pensée de Jankélévitch –, absolument transcendant par rapport à l’ordre d’ici-bas, impossible à approcher graduellement ni dialectiquement. La limite, donc, comme notion – à la lettre – paradoxale, ouvre des crises, des failles, elle pousse l’opinion courante vers le gouffre, elle produit des oscillations, en ébranlant des thèses et des vérités ancestrales; cependant elle demeure notre expérience la plus commune et la plus “quotidienne”. L’oscillation: autre terme cher à Jankélévitch; il suffit de penser à son interprétation du thème de l’aventure chez Simmel, du caractère péninsulaire, amphibolique, de l’aventure, de la vie issue de la prose, dans le seul but d’aller au plus profond, d’atteindre, l’espace d’un instant, le cœur de la vie, présence simultanée de participation active et de contemplation détachée. Mais il s’agit de l’oscillation, constitutive, de la pensée même de Jankélévitch, entre la célébration de l’apparence et la projection mystique à l’intérieur de la transcendance, entre la sauvegarde de la ponctualité extatique et l’enracinement d’une telle intuition dans le domaine des réalités tangibles. Il s’agit de la même oscillation qui conduit Jankélévitch à définir la conscience philosophique comme une ponctualité inquiète, instantanée, une conversion intuitive au mystère de la différence absolue, et la conscience esthétique comme une chute dans le domaine du plausible, pour ensuite ressaisir ces deux consciences sur le plan de l’aventure, inévitablement instable. C’est dans l’optique d’une “vibration fluctuante” que Jankélévitch interprétera le centaure, comme image de la condition de l’homme chez Pascal, selon une interprétation qui lui vient de Plotin, lequel, dit Jankélévitch, “se sent osciller entre le vertige du vide et l’admiration esthétique du plein, entre l’austérité de la grande Ténèbre et l’hédonisme de la lumière” (PhP, 251-2). La notion de limite ne peut être saisie que dans ses intermittences paradoxales et constitutives, dans ses intermittences entre l’interprétation possible et la réticence linguistique naturelle, dans ses intersections constitutives, autre terme cher à Jankélévitch. Un non-lieu qui, comme chaque seuil, intervient seulement quand le rien “a lieu”, ou arrive. La notion de limite disparaît habituellement à l’instant même où l’on cherche à la saisir. Et comme ce que je cherche existe à peine, comme l’essentiel est un presquerien, un je-ne-sais-quoi, une chose légère entre toutes les choses légères, cette investigation forcenée tend surtout à faire la preuve de l’impalpable; on peut entrevoir l’apparition, mais non la vérifier puisqu’elle s’évanouit dans l’instant même où elle apparaît, puisque la première fois est aussi la dernière. La deuxième fois est la répétition minimale requise pour une vérification… Or l’objet de
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notre recherche n’était qu’une apparition aussitôt disparue, un événement qui ne sera en aucun cas réitéré ni, partant, confirmé, une lueur décevante dans la nuit! (QI, 19).
La durée de l’éclair dont parle Jankélévitch représente l’arrivée soudaine d’une de ces “apparitions qui disparaissent” décidant du sens et de la vérité des choses. (L’apparition qui disparaît est, comme exaiphnes, “instant”; mais l’exaiphnes, à l’intérieur des poèmes homériques, c’était parfois aussi la lueur imprévue, souvent assassine, sur le bouclier des héros, le signe inattendu d’une présence et d’une intervention divine). C’est l’éblouissement imprévu à travers lequel, à partir du lieu immanent, on entrevoit l’ordre profond et privé de sens dans le mystère duquel l’immanence est fondée. Reconnaître l’existence du mystère est, pour Jankélévitch, se rendre à l’évidence, exactement comme on se rend à l’ennemi. Ou encore, comme c’est le cas grâce au coup de foudre de l’amour. La présence cachée de la fascination, de “l’enchantement” qui illumine le sens de chaque vérité, traverse d’un bout à l’autre, comme un éclair, la pensée du monde chez Jankélévitch. Le monde se produit au sein d’un “équilibre instable” entre sa réalité effective et une étrange toile de fond à laquelle il est suspendu; un insaisissable “point de proximité” entre la présence et l’absence. “Un éblouissement perfide dans la nuit” réussit, par moment, à faire entrevoir la façade mystérieuse à laquelle le monde est suspendu. Cet éclair est une grâce. Nous nous rendons justement parce que l’évidence du mystère est plus forte et qu’elle ne se laisse pas fasciner par la pensée conceptuelle. Dans sa recherche d’un “quelque chose de simple, d’infiniment simple”, Jankélévitch parvient au seuil d’une présence inaccessible, à l’avènement d’un quelque chose (“presque-rien”, “je-ne-sais-quoi”) qui “touche” la pensée conceptuelle dans ses certitudes, en la foudroyant. Un coup de foudre et un coup de grâce pour la pensée “achevée”. Écrire, penser “autour de” la limite semble être une ronde paradoxale autour d’un non-lieu, et conduire, à partir d’un non-lieu, à se retrouver, en même temps, encerclés. Même si on ne fait que l’effleurer, la notion de limite ne peut pas ne pas toucher, “entâmer”, l’écriture même. La philosophie consiste à penser tout ce qui dans une question est pensable, et ceci à fond, quoi qu’il en coûte. Il s’agit de démêler l’inextricable et de ne s’arrêter qu’à partir du moment où il devient absolument impossible d’aller au-delà. En vue de cette recherche rigoureuse, les mots qui servent de support à la pensée doivent être employés dans toutes les positions possibles, dans les locutions les plus variées; il faut les tourner et retourner sous toutes leurs faces,
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dans l’espoir qu’une lueur en jaillira, les palper et ausculter leurs sonorités pour percevoir le secret de leur sens. Les assonances et les résonances des mots n’ont-elles pas une vertu inspiratrice? […] C’est à ce discours sans failles que je m’astreins, à cette “strenge Wissenschaft”, science rigoureuse, qui n’est pas la science des savants, et qui est plutôt une ascèse. Je me sens provisoirement moins inquiet lorsque, après avoir tourné en rond, creusé et trituré les mots, exploré leurs résonances sémantiques, analysé leurs pouvoirs allusifs, leur puissance d’évocation, je vérifie que je ne peux décidément aller outre (QI, 18-19).
Non pas la science des savants, plutôt une ascèse. Ascèse, comme nous le savons, ne signifie pas l’abandon de la matérialité – dont Plotin avait tellement honte – ni un éloignement par rapport à elle. Askeìn veut dire “s’entraîner” avec discipline, se consacrer à une application constante, “pratiquer” un exercice avec un effort incessant. Dans la littérature grecque le terme indique également l’activité de l’artiste, c’est l’effort pour acquérir une habilité et une compétence spécifique: l’athlète, l’artiste, le soldat doivent “s’entraîner”, répéter et essayer à nouveau les mouvements et les gestes afin de pouvoir parvenir à des performances élevées. C’est pour cette raison qu’on appelait aussi les ascètes les “athlètes de Dieu”. La conversion, l’intuition instantanée, l’intersection avec l’ordre tout autre n’ont besoin – on le sait – d’aucune introduction, d’aucun entraînement. Elles sont sortie du sujet hors de lui-même, rencontre et découverte d’une altérité transcendante, et non enrichissement du sujet. Toutefois, comme nous le verrons après cette introduction, l’exercice ascétique peut aussi préparer et entraîner à accueillir, à se rendre disponibles à, un événement imploré et attendu et pourtant toujours radicalement immérité et surprenant. En quel sens, donc, une réflexion sur la vocation, l’ascèse et la conversion, centrée sur la notion paradoxale de limite, peut-elle contribuer à identifier de nouveaux repères dans le parcours labyrinthique au cœur des sources d’inspiration – platoniciennes, néoplatoniciennes, augustiniennes, hébraïques, slaves – de la pensée de Jankélévitch? Nous savons que la capacité à assumer, comme tonalité dominante, le principe du “toujours ailleurs” caractéristique de la conscience hébraïque, s’accorde, pour Jankélévitch, avec deux autres éléments qui demeurent constants dans son parcours de pensée, et qui forment le terrain et l’occasion propice pour la rencontre avec la pensée de Bergson. Le premier élément nous renvoie à la dernière phase de la pensée de Schelling, et on doit lui faire correspondre l’intérêt précoce de Jankélévitch pour Plotin, le néoplatonisme, la théologie négative, Maître Eckhart, Bœhme, Silesius, tout un horizon de pensée qui interprète la
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réalité dans son intégralité comme si elle était régie par “quelque chose” d’indicible. C’est le Schelling de la chute comme explication de l’origine du fini, de la différence qualitative entre l’ordre d’ici-bas et l’ordre tout autre, donc de la “conversion” comme unique solution possible pour leur réconciliation intuitive. L’autre élément est la culture slave, avec sa nostalgie caractéristique à l’égard d’une mystique patrie lointaine, partout et nulle part, surtout, comme dit Jankélévitch dans son œuvre de jeunesse consacré aux Thèmes mystiques dans la pensée russe contemporaine, avec une espèce de “réalisme mystique”, constante de la pensée russe: le mysticisme de Trubeckoj, l’intuitionnisme de Losskij, ainsi que l’ontologisme de Frank; la “filiation spirituelle” qui lie la doctrine de Plotin sur l’extase au mysticisme d’Augustin, à l’Ineffable de Maître Eckhart, à l’“Un” de Jacob Bœhme, à un tel point que l’ombre de Plotin – d’un Plotin un peu “lyrique”, un peu trop “chrétien” – hante sans cesse, en un sens, la pensée “tourmentée” de Léon Chestov (cf. PhP, 101-130). Enfin, l’influence de Schlegel et de Novalis sur la pensée russe de la fin du dix-neuvième siècle. Mais Jankélévitch place au-dessus d’eux tous d’un côté Solov’ev et sa définition de la beauté comme incarnation de l’idée et, de l’autre, Nicolaj Losskij. Des deux auteurs, Jankélévitch retient la nécessité de supposer la coexistence ontologique du monde suprasensible avec le monde matériel, en les distinguant sans pour autant les séparer, la connaissance d’un objet voulant dire alors prise de possession de l’original, et non de son image; et l’objet gardant son appartenance au monde extérieur, même s’il devient immanent par rapport à la conscience. C’est en poursuivant la réhabilitation des différentes sources du mysticisme russe, inaugurée par Jankélévitch lui-même, que l’on peut rencontrer cette dernière réflexion, peut-être moins connue, tant parmi les autres sources d’inspiration de la pensée russe que dans le parcours de Jankélévitch lui-même. Mais notre effort pour suivre les indices laissés par Jankélévitch ne peut éviter le passage par l’ascèse, la vocation et la conversion condensées dans ce point nodal qu’est Philosophie première, l’œuvre la plus complexe, incisive et décisive du point de vue théorique, que Jankélévitch ait produite, celle aussi qui comporte la plus grande tension “systématique” spéculative. Dès les premières pages de Philosophie première, Jankélévitch affirme que le “sérieux” métaphysique consiste à faire honneur à la différence vertigineuse qui sépare l’Ici-Bas de l’Ultérieur. C’est-à-dire qu’une métaphysique sérieuse ne peut pas refuser la différence de degré entre l’ordre empirique et l’autre ordre, et elle ne peut qu’affirmer une différence qualitative radicale. On n’est pas conduit de l’expérience à la métempirie par étapes.
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Il y a au contraire un saut, un bond: “on passe à l’incomparable superlatif, celui qui est le superlatif de tous les superlatifs, par une mutation radicale”. (PhP, 12). Changement radical: de nouveau, conversion. Il est nécessaire qu’on sauvegarde la différence qualitative des deux extrêmes, sans toutefois aboutir à l’incommunicabilité. En supposant une différence qualitative entre le plan de l’empirique et l’autre ordre, il y a nécessité absolue qu’un contact soit établi. La conversion dont parle Jankélévitch représente le resplendissant, le foudroyant mouvement instantané, l’élan, le saut qui met en contact les deux extrêmes. La durée d’un éclair, qui assure en même temps le contact et la différence. La conversion se donne dans l’instant, dans le moment imprévisible de l’intuition quand les identités matérielles et spirituelles se rencontrent sans se retenir et sans qu’aucune préparation soit nécessaire. Contact, saut, proximité, intuition: point d’unification de contraires pourtant toujours radicalement distincts; pont suspendu sur le gouffre et vertige du gouffre. Jankélévitch nous renvoie au livre VII de la République, où la conversion (periagoghé, metastrophé) apparaît comme un changement d’état instantané, plutôt qu’un changement de position. La conversion est le propre d’une métaphysique qui ne recherche pas un sens caché à l’intérieur de l’empirique. Pourtant il n’existe pas de métaphysique authentique qui ne soit, en même temps, célébration de la positivité, de l’empirique. L’expérience de l’ouverture à l’ordre tout autre, dans l’instant intuitif, nécessite la valorisation de l’expérience. De la conversion, l’expérience concrète représente un organe et une occasion indispensables. L’expérience n’est pas sage, platonique, elle n’offre pas un support stable. Dans le mouvement par lequel on saute au-delà, la vocation du sensible c’est de faciliter, de permettre le passage, mais en causant une résistance qui est en même temps une poussée et un élan intuitif. C’est, en somme, le sujet du double réalisme de Jankélévitch – qui le pousse à se rapprocher de la pensée russe de la fin du XIXe siècle: d’un côté, la réalité autonome de l’horizon transcendant et qualitativement différent, de l’autre la positivité de l’empirique et de l’expérience concrète comme cause de l’élan mystique et comme intersection avec l’ordre absolument différent, en préservant son altérité et son indépendance. Le réalisme mystique russe joue réellement ici un rôle décisif dans la pensée de Jankélévitch. Et c’est là, néanmoins, qu’il nous est possible d’emprunter un autre couloir du labyrinthe évoqué plus haut. Il ne s’agit pas tellement, ou pas seulement, de la pensée orthodoxe du christianisme d’orient – dont les principes fondamentaux restent la
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distinction, sans division, de la dimension suprasensible et du monde de l’homme, et la vérité comme point de contiguïté entre eux. Il s’agit de l’“hésychasme”, un des courants fondamentaux de la mystique du christianisme d’orient. L’hésychasme rayonne parmi les monastères de l’Athos à partir des XIIIe et XIVe siècles, mais la pratique et l’enseignement de la “prière du cœur” remontent au IVe siècle, à Évagre le Pontique et Diadoque de Photicé, inclus par Nicodème l’Hagiorite dans la Philocalie, Saint Jean l’Esichast et Syméon le Nouveau Théologien; à Saint Jean Climaque, enfin, qui consacre à l’hésychasme un chapitre de L’Échelle Sainte, Maxime le Confesseur et Isaac de Ninive. Un enseignement qui trouve une de ses principales racines dans la tradition apophatique de Grégoire de Nysse et, en particulier, de Saint Denis l’Aréopagite; c’est de son œuvre que Maxime le Confesseur écrira un commentaire. Les problèmes que Grégoire Palamas dut affronter dans son célèbre débat avec Barlaam le Calabrais concernent l’expérience mystique dans laquelle le divin se transmet luimême à l’homme. Il fallait garantir une anthropologie correcte du point de vue biblique et chrétien, qui ne réduise pas l’homme à “l’intelligence” et à “l’esprit” abstrait, mais qui soit capable d’en comprendre positivement la nature et la matérialité, de les diviniser, elles aussi, sur la base du principe de l’Incarnation – inadmissible selon la philosophie. Le problème, purement “théologique” dans le sens byzantin du terme (qui concerne, en d’autres termes, la vie même de Dieu), pouvait se formuler ainsi: comment Dieu peut-il réellement se transmettre lui-même à la créature en la divinisant, compte tenu de la transcendance absolue de sa divinité? C’était le grand thème de la voie d’ascèse apophatique, dont provient l’hésychasme qui place profondément le Christ au centre de la religion chrétienne et de la vie humaine. Grégoire Palamas est bien conscient du sens métaphorique de chaque “illumination”, et il pousse son discours plus loin, sur la base d’affirmations patristiques, particulièrement de Basile, Saint Grégoire de Nysse, Saint Denis l’Areopagite et Maxime: on doit faire la distinction chez Dieu entre son ousìa, essence qui n’admet absolument aucune participation de la créature, et ses énergies, elles aussi éternelles et non créées, qui correspondent précisément à sa liaison sanctifiante avec la créature, quoiqu’en dehors de toute relation avec elle. L’hésychia est la situation de recueillement, de silence extérieur et intérieur, qui est la condition nécessaire, préparée par l’ascèse et dans l’attention vigilante du “cœur” au moment de la prière, pour que l’âme se rende disponible à la visite de Dieu, visite implorée et attendue et quand même toujours radicalement imméritée et surprenante, dans une “lumière” qui reste toujours insondable, même si on peut la percevoir très réellement à
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travers ce qu’on nomme “perception spirituelle”, selon un langage humain qui révèle son inadéquation précisément lorsqu’il s’agit de rendre compte de ce genre d’expériences. Donc, silence et parole ininterrompue, intuition ponctuelle et valorisation du corps, de sa position, de la prière au moyen de tous les sens. Et du souffle. En conclusion, en rappelant le passage cité ci-dessus où Jankélévitch parle de sa forme d’ascèse, il y a un passage où il parle d’un terme russe, décisif pour notre discours. Surtout si, maintenant, nous essayons de rapprocher la page de Jankélévitch des paroles de Pavel Florenskij, qui parle d’une “métaphysique concrète” et d’une “vérité vivante, qui respire”. Tout cela est annoncé déjà dans Iconostas1, l’ouvrage magistral que Florenskij consacre à l’icône: image visible de l’invisible, “tautégorie”, renvoi rigoureux à lui-même et medium vers l’ordre tout autre. Jankélévitch parle du mot ‘réalité’, fondé sur ‘res’, qui désigne la chose, c’est-à-dire l’événement, et du mot dieistvitelny, qui évoque l’idée d’une activité acharnée (dieistvovat, dielo) et qui exprime la collaboration vivante de l’esprit à l’articulation des événements et la présence vécue des événements à l’intérieur de l’esprit (cf. HB, 47). Et voici les paroles de Florenskij: En deux mots, la peinture des icônes est une métaphysique de l’être; non une métaphysique abstraite, mais concrète (…) La peinture des icônes ressent ce qu’elle représente comme une manifestation sensible de l’essence métaphysique. Dans les moyens mêmes de la peinture d’icônes, dans sa technique, dans les matières employées ainsi que dans la facture de l’icône s’exprime la métaphysique dont elle vit et grâce à laquelle l’icône existe2.
Le discours de Florenskij sur l’icône se détache d’un arrière-plan au motif néoplatonicien. Le peintre d’icônes ne pro-duit pas mais “ouvre un rideau” et voit son objet, vivant en soi (comme sarx). La réalité sensible n’est pas dévalorisée, comme dans la vision gnostique, mais elle est sauvée car elle a été annoncée et transmise comme image du Père. Encore Florenskij: Je n’ai pas la vérité en moi, mais l’idée de la vérité brûle en moi comme un feu dévorant et l’espoir secret de la rencontrer face à face paralyse ma langue. C’est elle le torrent enflammé qui bouillonne et qui gargouille dans mes veines (…) Oui, dans la vie tout s’agite. Tout vacille en images de mirage. Mais la nécessité inéluctable de s’appuyer à la colonne et au fondement de la vérité 1 2
P. Florenskij, Iconostas, in Sobranie Sočinenii, vol. I, Ymca-Press, Paris 1985, (trad. it. Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, Milano 1977, 1981). P. Florenskij, Iconostas, trad. it. cit., p.125 et passim.
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s’élève du plus profond de l’âme. De la vérité, Ist’ina, intacte et éternelle au cours des siècles et pas simplement d’une vérité parmi tant d’autres 3.
Florenskij parle d’une vérité, liée davantage à la révélation qu’au raisonnement, qui se met en relation avec la connaissance et cela, seulement grâce à l’amour. Ist’ina est la forme substantivée du verbe jest’ (être, y être) et Florenskij cite le sens de cette vérité absolue par rapport à l’être – à une valeur ontologique et à la vérité en tant qu’existence – en soulignant que nous devons concevoir la vérité comme un “être vivant”, ou encore comme le souffle même, en rapprochant le terme Ist’ina du mot qui, en sanscrit, signifie ‘respirer,’ ce qui donne naissance à un lien essentiel entre respirer, vivre, être et vérité. Enfin, pour conclure cette intervention, lisons la première page de Iconostas: D’après les premières paroles de la Genèse, Dieu créa le ciel et la terre et cette division de toute la création en deux parties a toujours été considérée comme fondamentale. C’est ainsi que dans la profession de foi on appelle Dieu le créateur à la fois des choses visibles et invisibles. Ces deux mondes – le visible et l’invisible – sont en contact. Toutefois, la différence entre les deux est tellement grande qu’on ne peut ignorer le problème de la frontière qui les fait entrer en contact, qui les distingue mais aussi qui les unit. Comment pouvons-nous le comprendre? Ici comme pour les autres questions métaphysiques le point de départ est représenté par ce que nous savons déjà au fond de nous-mêmes. Oui, l’existence de notre âme nous donne le point d’appui qui nous permet de connaître cette frontière qui met en contact les deux mondes, en effet, en nous aussi la vie dans le visible et la vie dans l’invisible se succèdent, si bien qu’il arrive un moment, même court, même concentré au maximum, parfois jusqu’à l’atome de temps, où les deux mondes se touchent et où l’on peut même contempler cette jonction. À l’intérieur de nous le voile du visible se déchire pendant un instant et à travers lui, alors qu’on peut encore percevoir la déchirure, voici, qu’invisible, une haleine souffle qui n’est pas d’ici-bas: ce monde et l’autre s’ouvrent l’un à l’autre, et notre vie est soulevée par un flot incessant, tout comme la température fait monter l’air chaud4.
3 4
P. Florenskij, Solp i utverždenie istiny, Moskva: Put’ (trad. it. La colonna e il fondamento della verità, Rusconi, Milano 1998, pp. 73, 45-46). P. Florenskij, Iconostas, trad. it. cit., p. 3.
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Abstracts
‘Vocazione’, ‘ascesi’, ‘conversione’ sono termini fondamentali nella proposta metafisica di Jankélévitch. Essi possono contribuire a far luce su alcuni tratti delle sue fonti ispiratrici – platoniche, neoplatoniche, agostiniane, ebraiche, slave. Il principio del ‘sempre altrove’, che caratterizza la coscienza ebraica, si accompagna in Jankélévitch ad altri due elementi: l’ultima fase del pensiero di Schelling e la cultura slava. Proprio continuando la ricostruzione delle diverse fonti ispiratrici del misticismo russo, si può incontrare una riflessione, forse meno nota. Questo tentativo non può non passare attraverso Philosophie première. Si tratta non solo del pensiero ortodosso del cristianesimo d’oriente – i cui principi fondamentali restano la distinzione senza separazione tra dimensione ultraterrena e mondo dell’uomo, e la verità come loro punto di tangenza – quanto dell’“esicasmo”, una delle correnti fondamentali della mistica del cristianesimo d’oriente diffusasi tra i monasteri del Monte Athos a partire dai secoli XIII e XIV e che ha radici nella tradizione apofatica di Dionigi Areopagita. Infine l’Autore confronta le analisi di Jankélévitch con le pagine di Le porte regali che Pavel Florenskij dedica all’icona, immagine visibile dell’invisibile, tautegoria, rigoroso rinvio a se stesso e medium verso il “tutt’altro” ordine. “Vocation”, “ascèse”, “conversion” sont des termes centraux dans la pensée métaphysique de Jankélévitch. Ils peuvent contribuer à mettre en lumière de nouveaux aspects de ses sources d’inspiration: platoniciennes, néoplatoniciennes, augustiniennes, hébraïques, slaves. Le principe du “toujours ailleurs”, qui caractérise la conscience hébraïque, s’accorde chez Jankélévitch avec deux autres éléments: la dernière phase de la pensée de Schelling, et la culture slave. En approfondissant la reconstruction des différentes sources d’inspiration du mysticisme russe, on rencontre une réflexion peut-être moins connue. Notre tentative ne peut éviter de passer à travers Philosophie première. Il ne s’agit pas seulement de la pensée orthodoxe du christianisme d’orient – dont les principes fondamentaux restent la distinction sans division entre la dimension suprasensible et le monde de l’homme, et la vérité comprise comme leur point de tangence. Il s’agit de l’hésychasme, un des courants fondamentaux de la mystique dans le christianisme d’orient, qui rayonne parmi les monastères de l’Athos à partir des XIIIe et XIVe siècles, et plonge ses racines dans la tradition apophatique de Denis l’Aréopagite. En conclusion, on rapproche l’œuvre de Jankélévitch des pages que Pavel Florenskij consacre à
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l’icône, image visible de l’invisible, tautégorie, renvoi rigoureux à soi-même et medium vers l’ordre “tout autre”. “Vocation”, “asceticism” and “conversion” are fundamental terms in Jankélévitch’s metaphysical proposal. They contribute to throwing light onto several aspects of his inspirational sources – Platonic, Neo-Platonic, Augustinian, Hebraic, Slavic. The dominant principle of the “always elsewhere”, which characterizes the Jewish conscience, accompanies two other elements: the last phase of Shelling’s thought and the Slavic culture. Following the reconstruction of the different inspirational sources of Russian mysticism (also considering Philosophie première), there is a less well known consideration. It is not just Orthodox thought, the oriental Christianity – whose fundamental principles remain the distinction, without separation between the ultra-mundane and the mundane dimensions, with the truth as their point of tangency – but Hesychasm, one of the fundamental currents of mysticism in Oriental Christianity, which had spread among the monasteries of Mount Athos, beginning from the XIII and XIV centuries, having its roots in the (apophatic) tradition of Dionysius Areopagita. The author compares this less known Jankélévitch thought, with the work Iconostas, the masterpiece that Pavel Florenskij dedicates to the icon, visible image of the invisible, “tautegory”, rigorously self referring and medium to a completely different order.
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FRÉDÉRIC WORMS
La meraviglia e l’indignazione Le due esclamazioni di Jankélévitch nei momenti filosofici del Novecento
Può sembrare una cosa da nulla. Meravigliarsi, indignarsi. Eppure, pare che sia proprio in queste esclamazioni, nella loro dualità, in ciò che esse hanno di più irriducibile e nello stesso tempo di più comune tra loro – il fatto di essere entrambe delle esclamazioni –, che risieda la profonda originalità di Vladimir Jankélévitch nell’ambito del pensiero novecentesco. Qualcosa che lo avvicina, ma anche lo allontana da Bergson, al quale viene, e a giusta ragione, collegato. Come quest’ultimo, infatti, e forse come ogni filosofo, Jankélévitch prende le mosse dalla meraviglia, dalla sorpresa, dall’intuizione; ma, a differenza di Bergson, la sdoppia, o più precisamente, la determina – cosa che, secondo noi, ne fa un’esclamazione per l’appunto sempre qualificativa: meraviglia, ma anche, se necessario, inoppugnabile indignazione. Jankélévitch non si è accontentato, come nel suo importante lavoro su Bergson, di studiarne la critica alle “idee negative”, ma vi ha aggiunto da parte sua una negatività reale, arrivando a ciò che rappresenta il cuore del bergsonismo stesso: il tempo, la sua irreversibilità e la sua realtà. Per Jankélévitch questa non è solo novità, creazione, gioia – ma anche noia, nostalgia, morte. Fin da subito dunque, una ripresa e insieme una rottura rispetto a Bergson come anche, non c’è dubbio, rispetto a tutta una filosofia, ad un intero ‘momento’ filosofico. Il che, pur con le dovute distinzioni, lo avvicina ai suoi contemporanei. L’esclamazione è infatti, prima di tutto, istante. Insieme a Bachelard e Wahl, Jankélévitch crea quella che si potrebbe definire la figura dell’istante nel ‘momento’, e dunque nell’‘istante filosofico’, della Seconda Guerra Mondiale. L’istante come punto di incontro tra lo spirito e una realtà che gli si impone, che lo sorprende, in modo determinato, definito, per meravigliarlo – o, ancora una volta, per indignarlo. In tal senso, la filosofia dell’esclamazione è una filosofia dell’esistenza: essa attesta innanzitutto una realtà che squarcia, sbalordisce la conoscenza. E che è “mistica” se con ciò si intende, secondo la mirabile definizione data nel Traité des vertus, un
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
“realismo del mistero” (TV, 788)1. Ma tale filosofia dell’esistenza attesta anche una soggettività o, come dirà Jankélévitch prima di Ricoeur, un’“ipseità”, l’esistenza cioè di chi, nella sua irriducibile individualità, sta di fronte a tale realtà. Certo, Jankélévitch tratterà dell’istante, della realtà e dell’ipseità in modo profondamente singolare. Di più, in questa metafisica singolare, la meraviglia invocherà un’estetica e l’indignazione un’etica e una politica, a loro volta singolari. E tuttavia non risiede in questo, comunque, ciò che lo inscrive nel “momento” dell’“esistenza”, quello connesso alla Seconda Guerra Mondiale, o piuttosto ciò che lo ricollega e al contempo l’oppone non solo a Wahl o a Bachelard, ma anche ai loro comuni contemporanei – e che è, per ciò stesso, un “momento” filosofico molto importante. Occorre quindi andare oltre, su questi diversi punti. Ripartiremo perciò, in primo luogo, dalle due esclamazioni in questione, che lacerano in effetti tutto il XX secolo in relazione agli eventi storici e dal punto di vista filosofico, mostrando la loro comune forza, ma anche la loro, non meno sorprendente, reciproca tensione, se non addirittura contraddizione. In seguito, cercheremo di indicare in che direzione esse conducono il filosofo, il cui compito consiste nel risalire al principio della meraviglia e dell’indignazione e trarne tutte le conseguenze. Si tratterà, infine, di sottolineare ciò che unisce esperienza e pensiero dell’istante: punti, o punte, di unità proprio in quanto tali. Anche se questa unità e la gioia che essa procura, per quanto possano essere decisive, forse non elimineranno mai del tutto una dualità che va fino all’amore, ma anche fino al male, e che continuerà sino alla fine a risuonare per lacerare, due volte, il silenzio. 1. Due esclamazioni Non c’è che da partire, preliminarmente, da una meraviglia e da un’indignazione determinate. Saranno esse a condurci, in modo del tutto imprevedibile, verso ciò che ci meraviglia e c’indigna. Se non ci fosse nessuna sorpresa, se si potesse dire a priori ciò che sta per sorprenderci, tutto sarebbe di colpo perduto. Dunque, innanzitutto, c’è la meraviglia continuamente rinnovata di Jankélévitch di fronte a ogni mattino, di fronte a ogni “primavera”, di fronte a quel “mistero vernale” che segue ogni volta l’inverno e di cui egli parla così mirabilmente alla 1
L’edizione del Traité des vertus, alla quale qui si fa riferimento, è quella iniziale del 1949.
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fine del Traité des vertus: il “tamburo della primavera” risonante nel “petto dell’uomo”. Niente è più chiaro, a questo riguardo, della descrizione semplice, in certo senso persino banale, che il filosofo dà di tutto ciò in una conversazione con Guy Suarès – alla memoria del quale vorremmo offrire il presente contributo –, parlando del libro che questi gli aveva dedicato nella collezione “Qui suis-je?”. Ed ecco la sorpresa mattutina: La primavera è una cosa semplicissima. La primavera che aspettiamo, che non c’è ancora e ogni volta arriva, c’ispira una sorpresa piena di gioia. Come, lei non lo sa? Lei non sa che c’è la primavera? […] Ogni volta che si rivedono le gemme sugli alberi mia moglie mi chiama e mi dice: “Guarda! ci sono le gemme!”. Come se fosse una cosa straordinaria.
Ed aggiunge subito un’altra osservazione, che sembra sfumare la portata di questa sorpresa, senza tuttavia eliminarla del tutto: “Naturalmente, tutti gli anni c’è una primavera. È dunque una ripetizione. Ma, nonostante tutto, è una sorpresa di fronte all’identico”. Si sa che ogni anno arriva la primavera, e tuttavia l’arrivo di ogni primavera è una sorpresa, una “gioiosa” sorpresa. Da che cosa dipende tutto ciò? Da un doppio problema cui siamo fin da subito rinviati, e per il quale al momento non abbiamo che due indizi. Primo indizio: malgrado la ripetizione, c’è la sorpresa. In altre parole, la novità della primavera può anche essere in parte contraddetta, nel nostro pensiero e nel nostro sapere – ma nelle cose stesse (poiché “naturalmente”, dice Jankélévitch, “c’è” la primavera tutti gli anni) essa rimane. E questo ci rimanda ancora una volta ad un rapporto teso col bergsonismo. Da un lato, infatti, resta la sorpresa continua, che rinvia alla durata di Bergson; la quale peraltro, come per il filosofo dell’Ottocento, resta un criterio del reale, di quel che eccede di nostro pensiero. Ma dall’altro, essa è in qualche modo minacciata, resa fragile, almeno in apparenza. Senza essere eliminata, senza forse smettere di essere assoluta, si restringe e in un certo senso si concentra, in un modo enigmatico che occorrerà approfondire. Ma anche il secondo indizio prende la forma di una tensione o di una domanda, che potrebbe essere così formulata: è ogni sorpresa ad essere “gioiosa”, oppure, in modo più determinato, solo quella in particolare della “primavera”, con tutto quel che essa reca in sé di nascita, crescita, rinnovamento? Ce lo potremmo chiedere. Ci potremmo chiedere, in altre parole, se la sorpresa, pur restando ogni volta un criterio del reale, il criterio stesso della realtà stessa, non sia anche immediatamente qualificata, in maniera tale da poter prendere due forme profondamente opposte. Saremmo ugualmente gioiosi davanti a qualsiasi tipo di novità, irriducibile e sorprendente?
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
Davanti all’autunno e all’inverno, davanti alla vecchiaia e alla morte? Ancora una volta, è una domanda. Ma se la questione si può porre a proposito delle “stagioni”, non è con questo esempio che si risolve. Dopotutto, potremmo provare gioia davanti alla prima pioggia e alla prima neve, alla maturità e al compimento. L’opposizione, quand’anche irriducibile, con ogni probabilità è interna ad ogni sorpresa o ad ogni stagione. Invece, essa diventa assoluta nel caso dell’indignazione davanti al male. Qui il contrasto diventa totale, e Jankélévitch si basa anche su di esso per far sentire quella che è la sua seconda esclamazione, nel Novecento. Così scrive, infatti, alla fine de Le Pardon: l’immemore natura è, a quanto si dice, senza rancore – ma la sua noncuranza non ha alcun significato morale […]. L’innocente primavera brilla per i cattivi come per i buoni. Ogni anno gli alberi fioriscono ad Auschwitz come fioriscono dappertutto, e l’erba non prova disgusto a crescere in questi luoghi d’inesprimibile orrore: la primaveria non distingue tra i nostri giardini e la piana maledetta dove perirono col ferro e il fuoco quattro milioni di umiliati (PhM, 1030).
Qui Jankélévitch sembra proprio indignarsi della primavera stessa. O, in ogni caso, degli uomini che confondono la meraviglia davanti alla primavera con l’esclamazione morale davanti alle azioni umane. E tuttavia, è sempre davanti ai due problemi, e non a uno soltanto di essi, che siamo condotti. Certo, è prima di tutto un contrasto profondo, e forse irriducibile: chissà quale delle due esclamazioni determinate, “gioia” e “orrore”, avrà la meglio. Chissà se questa lotta avrà un vincitore, o se la lacerazione non ha, nella nostra esperienza, qualcosa di estremo, giacché nessuna delle due esclamazioni ha la forza di annullare l’altra. Tale è, secondo noi, una delle questioni che Jankélévitch pone fino in fondo due volte: dall’estasi gioiosa fino all’orrore imprescrittibile. Una tale opposizione, o perfino lacerazione, d’altro canto non riesce a sottacere quanto queste due esclamazioni abbiamo profondamente ancora in comune – ciò che fa la loro unità e costituisce, in qualche modo, l’altro problema del pensiero di Jankélévitch, per il quale egli si situa nel cuore del ‘momento’ filosofico più importante di tutto il secolo: quello dell’“esistenza”. Si tratta, in breve, di quanto hanno anche in comune sia la sorpresa davanti alla primavera, sia la sorpresa davanti ad Auschwitz: entrambe si riferiscono a un evento del tempo, che ha qualcosa di ripetitivo nel caso delle stagioni, ma anche di passeggero, come nel caso di Auschwitz, di apparentemente relativo – e tuttavia anche di assoluto, che la sorpresa o l’esclamazione stessa rivelano. Novità irriducibile, pur nella ripetizione,
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atto imprescrittibile, irrevocabile, forse perfino “imperdonabile”, anche nella memoria, anche nella storia, persino di fronte all’oblio? L’esclamazione, di meraviglia o di indignazione, testimonia nei due casi una realtà che lacera il discorso, ma anche lo rilancia, e lo obbliga, in qualche modo, a meditarne la condizione. È proprio di una “realtà” che si tratta – e di quale? Davanti a quale fatto, davanti a quale “esistenza” irrecusabile siamo ogni volta posti? Questa è la prima domanda alla quale, con Jankélévitch, dobbiamo cercare di rispondere, prima di ritornare su una dualità profonda, e forse tragica, che comunque non sarà abolita o superata.
2. Una realtà irriducibile Tocca a noi, questa volta, fare un’escalmazione davanti a ciò che dobbiamo chiamare il rigore di Vladimir Jankélévitch, che arriva a farsi rigore di una filosofia generale, passando però attraverso l’esistenza e l’etica. A questa filosofia generale è stata data troppo poca attenzione, già nello stesso titolo del più misconosciuto dei suoi libri: Philosophie première. Introduction à une philosophie du “presque”. E tuttavia, come non vedere che si tratta proprio di quello che si potrebbe definire il “poco”, ma irriducibile, della realtà? Ciò che Jankélévitch cerca di pensare, in generale, è una realtà irriducibile – ma anche, nello stesso tempo o nello stesso istante, e in maniera non meno irriducibile, fuggitiva ed evanescente. Una delle sue ultime opere lo mostrerà in maniera apparentemente più evidente, benché di fatto meno netta: Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien. Si avrà l’impressione che qui si tratta di una retorica del paradosso: un assoluto che si dissolve nel momento stesso in cui appare, il tutto in un discorso tanto infinito quanto ciò che descrive sembra istantaneo. La “filosofia prima” lo afferma con forza: “il non-so-che” e “il quasi-niente” non sono dei tratti come gli altri, degli avvenimenti come gli altri, ma sono proprio il tutto della nostra realtà, della nostra esistenza. “Quasi niente” è già un qualcosa, perfino la sola cosa che abbiamo, o meglio che siamo. È anche per questo, per poterne cogliere la portata, che bisogna passare attraverso la filosofia dell’esistenza, e della nostra stessa esistenza, così come attraverso le conseguenze etiche sulle nostre azioni e sul nostro stesso dovere di agire, che ne derivano, ancora una volta, con un rigore estremo. Che tutta la filosofia di Jankélévitch possa porsi sotto lo stesso titolo di una celebre opera di André Breton, ma con una sostanziale differenza d’accento, non può che colpirci. Discours sur le peu de réalité – sì, ma a
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
condizione di mettere in evidenza non solo il “poco”, ma anche, e ancor di più, la “realtà”. Questo non vale solo per l’esistenza delle cose esteriori, rivelate dagli eventi o dalle azioni che suscitano la nostra sorpresa e le nostre esclamazioni, ma anche per noi stessi; la realtà irriducibile, che è incontro tra due realtà, fa così di questa filosofia una filosofia dell’esistenza, e dunque incontro tra due esistenti. È da qui che occorre ripartire, è da qui che si arriva immediatamente all’etica, prima ancora di giungere alla metafisica. Innanzitutto attraverso la morte stessa, che certamente testimonia il “poco” della mia realtà – infatti non avrò vissuto che per un breve istante, un battito di ciglia, nell’infinito del tempo. Ma questo breve istante la morte lo suggella come irreversibile, irrevocabile, assoluto. Irreversibile vuol dire due cose: passeggero, certo, ma anche incancellabile; fuggevole, ma reale. Questo è il senso della famosa formula che si trova oggi, sia sul muro dell’edificio dove abitava Jankélévitch dietro Notre-Dame, di fronte agli alberi del Quai aux Fleurs, sia in esergo a uno degli ultimi libri di Ricoeur: “chi è stato, non può più ormai non esser-stato: ormai questo fatto misterioso e profondamente oscuro di aver vissuto è il suo viatico per l’eternità”2. Ben lungi dall’essere una formula come tante altre, essa è invece, in ciascuno dei termini ponderati con cura, una chiave dell’intero pensiero jankélévitchiano. Se ne troverà la prova in un suo scritto del 1939 che introduce una nuova nozione destinata a un lungo avvenire in filosofia. In De l’ipséité, infatti, il filosofo scriveva: [l’ipseità] non è neanche che l’io è ciò che è, ma semplicemente il fatto che esso è autos [in greco nel testo], precisamente esso stesso, e non un altro né il suo sosia (PDP, 196).
E aggiungeva: “è il viatico di ogni creatura” (PDP, 197). Dunque si tratta proprio, è del tutto evidente, di una tesi filosofica: ciò che conta non è ciò che siamo, ma il fatto stesso di essere, di esistere – il “quod”, dirà Jankélévitch più tardi, il “fatto che” noi esistiamo, piuttosto che il “quid”, il “che cosa” noi siamo, la nostra “essenza”. Un fatto che viene ad attestare, appunto, la propria temporalità e la propria irreversibilità, la propria stessa sparizione tanto quanto la propria stessa apparizione. Non solo il quod precede il quid, cioè il fatto di essere precede la natura del nostro essere – come per Sartre, secondo il quale “l’esistenza precede l’essenza” –; ma inoltre questa esistenza si attesta come fatto irriducibile nel fatto non meno irriducibile della sua cessazione d’essere. Si attesta altrettanto, e ancor più, 2
[La frase, come si sa, è tratta da IN, 275].
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come essere stato, piuttosto che come essere. Strano “viatico” che non ha nulla di trascendente o di rivelato, e che ciononostante è eterno nel passaggio o nel fatto stesso di passare. Ma è qui che si deve procedere in direzione dell’etica. In Jankélévitch questo esser-stato è indissociabile, in effetti, da un dover agire. Ben lungi dal dispensarci dall’agire, il passaggio del tempo sotto la forma dell’istante più breve, cioè dell’occasione, ci obbliga più che mai – o, come egli non smette di dire: “seduta stante” – all’azione. L’effimero non è un’inerte svalutazione dell’azione, ma una sua estrema intensificazione. Bisogna agire “adesso”. Questa è “la serietà dell’intenzione”, la fonte di tutto quel mirabile Traité des vertus, la cui prima edizione del 1949 conserva tutta la forza e la portata. È il cuore di un edificio di “filosofia morale” che restituisce ai nostri atti e al nostro modo di agire tutta la responsabilità e l’urgenza. A quell’atto che nulla sostituisce, e soprattutto non il discorso, giacché il discorso della filosofia morale consiste esattamente nel mostrare il proprio limite e nel far posto, in seno a se stessa, con cerchi sempre più stretti, a quel punto centrale che essa non può né produrre né rimpiazzare: l’azione di ognuno. In questo senso, così vicino sia a Sartre che a Nabert, ma anche con tutto ciò che li separa, l’etica di Jankélévitch è profondamente “esistenziale”. Non è il caso di insistere ulteriormente su questa etica rigorosa e appassionata, ma è evidente in che cosa conferisce tutto il suo peso alla metafisica, che peraltro rigorosamente precede. È che in essa “il poco di realtà” diventa il massimo d’intensità, il poco di esistenza diventa il massimo di esigenza. Ecco perché occorreva dare a questa tesi il suo principio metafisico, la sua unità: è il compito di Philosophie première, così come delle opere che l’hanno seguita in questa direzione. La caratteristica di questo testo, come si è detto fin troppo misconosciuto, sta infatti nel riassumere tutti gli aspetti del pensiero di Jankélévitch, e questo in tre modi. Si tratta innanzitutto di un percorso globale. Tutto si svolge infatti come se questo libro procedesse dal mistero dell’essere al miracolo dell’azione, tentando di illustrarne le conseguenze metafisiche. In tal modo Jankélévitch mostra come la metafisica, o “filosofia prima”, non sia ricerca o scienza del fondamento, ma solo meraviglia davanti al fatto: il fatto di esistere, il fatto di scomparire, il fatto dell’ipseità in tutta la loro nudità. Questa filosofia è spossessamento e non sistema, davanti a delle realtà che essa non elimina né supera, ma constata e al tempo stesso sospende. È una metafisica dell’esclamazione. Ma l’agire ricava anche il proprio rigore metafisico in quanto è in rapporto alla dimensione della creazione. Così, di fronte al fatto, al “quod”, Jankélévitch elabora il “fiat”, il miracolo del volere, del creare, anch’esso irreversibile, ma attraverso di noi. Benché
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questa creazione non comporti alcuna trascendenza, così come il fatto non è fondato – essa non porta al divino ma all’umano, non a Dio ma all’uomo, designato fin dalla prima frase dell’ultimo capitolo nel modo più paradossale e rigoroso: “Dio di un miliardesimo di secondo”. È che, in effetti, oltre ad essere un percorso teorico globale, Philosophie première è anche l’elaborazione di categorie precise, al cui primo posto vi è quella dell’istante. Jankélévitch ne assume fino in fondo il paradosso: l’essere al contempo assoluto ed evanescente, infinitesimale e infinito. È sulla sua fine punta, misteriosa e intangibile, che egli costruisce ormai una metafisica del “quasi”, con un rigore prossimo, e a un tempo dissimile, da quello degli due altri grandi pensatori dell’istante, a lui contemporanei: Bachelard e Wahl. Ma se l’istante è la categoria essenziale, falsamente semplice, non è tuttavia la sola. Altre portano, per così dire, il segno dei paradossi da attraversare e assumere: le categorie dell’organo-ostacolo, del “non-so-che” e del “quasi-niente”, che daranno luogo ad approfondimenti dialettici sempre più vertiginosi. Tutto si svolge come se, più la realtà è semplice, in tutti i sensi di questo termine così essenziale in tale opera, più le categorie e i discorsi devono complicarsi per non perderla. Si devono liberare della pretesa del fondamento, o dell’abbandono della sorpresa, pur cogliendone le contraddizioni interne. In questo senso, la Philosophie première si situa a un punto di svolta del pensiero jankélévitchiano, che non indietreggierà più davanti ai giochi col linguaggio, senza tuttavia venire minimamanete mai meno alla serietà e alla gioia dell’assoluto. Ed è proprio questo il terzo aspetto che occorre sottolineare in Philosophie première, e cioè che esso culmina in una struttura ontologica, certo ambivalente, doppia, ma che è tale solo nella struttura – evanescente / eterno; organo/ostacolo etc… – e non nel contenuto – gioia/orrore. Certo, questa struttura è inaggirabile per noi: Jankélévitch ci proibisce rigorosamente di credere che l’ambivalenza dell’istante sia superabile hic et nunc. E tuttavia, poiché tale ambivalenza dipende più dalla struttura ontologica che dal contenuto etico, più dal fatto dell’istante che da ciò che lo riempie (amore o crimine, primavera o assassinio), essa traccia malgrado tutto l’orizzonte di un superamento sperato. C’è una speranza, di e dentro l’assoluto, in cui la contraddizione non scompare, ma cambia senso o “segno”: c’è un punto impercettibile in cui la tragedia dell’altenativa diventa una possibilità meravigliosa (PhP, 266).
Di più. Questa possibilità dipende anche da noi, dalla nostra meraviglia e dalla nostra esclamazione, che raddoppia uno dei lati dell’alternativa e così lo
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salva: la meraviglia diventa seria, assoluta, nella sua evanescenza, nel suo svanire, e perfino nella sua stessa perdita. Donde la famosa frase finale del libro: dopotutto, si può vivere senza il “non-so-che”, così come si può vivere senza la filosofia, senza la musica, senza la gioia e senza l’amore. Ma non tanto bene (ib.).
La speranza diventa così un atto che trasfigura la nostra vita. L’intuizione evanescente del “non-so-che” può irrorare il pensiero, l’arte, il rapporto con il mondo e con gli altri: “filosofia, musica, gioia, amore” ne sono allora le forme. In extremis, ridiventa possibile un modo di vivere, che riesce a trasfigurare l’alternativa per la quale l’istante non dovrebbe durare. Ma queste stesse esperienze, portatrici della speranza del superamento delle dualità, potrebbero finire per ricondurci all’irriducibile, come se loro stesse avessero qualcosa di esso.
3. Una dualità irriducibile? Ora ci limiteremo, di fatto, a qualche breve annotazione circa le due esperienze portatrici della speranza di un tale superamento, e che tuttavia s’infrangono entrambe contro un ultimo ostacolo. Riportandoci così a quella dualità nella quale, a nostro avviso, risiede l’estrema lezione del pensiero di Jankélévitch: la musica, il perdono. La musica infatti reca sempre in sé, secondo Jankélévitch, lo “charme” di una liberazione. È essa che dispiega nel corso del tempo ciò che altrove ci è dato nell’esperienza fuggitiva dell’istante. Essa contempla l’ineffabile; di più, lo produce, poiché non è solo arte della contemplazione ma dell’esecuzione. Così il pianista fa, nel senso forte del termine, quell’esperienza del tempo che il metafisico può solo descrivere; egli la continua, laddove il filosofo ne vede l’interruzione; egli la prova nella semplice gioia, laddove il concetto deve duellare con se stesso; egli la trasmette a tutti, laddove la filosofia fa fatica a distruggere le false certezze. Musica di cui Jankélévitch è stato, anche in questo caso, un vero e proprio militante nel corso del secolo, compiendo incursioni nei campi più importanti di quest’arte, presso i compositori più imprevedibili di tutta la storia della musica, ma ritrovandola anche negli snodi più importanti del suo pensiero. Tuttavia, a questo “charme” dell’ineffabile resta insuperabilmente legato quello della “nostalgia”. Nella gioia stessa di perpetuare l’istante, insita nella musica, un’ombra velata annuncia l’interruzione e il silenzio. La musica trasfigura la nostalgia in “charme” senza con ciò eliminarla, e così ce la fa sentire in
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
maniera ancora più acuta. In tal modo, nella musica ritroveremmo non una ma due esclamazioni irriducibili: quella della realtà ritrovata e quella della realtà perduta, quella mattutina e quella notturna, quella del risvegliarsi e quella dell’addormentarsi. Così la prima via, la via estetica del superamento della nostra condizione, ci riporta ancora a quest’ultima. Lo stesso avviene, ed in maniera ancor più pungente, nell’etica. Perché il problema del “perdono” è percepito in modo così acuto da Jankélévitch? Adesso possiamo capirne il motivo. È perché esso, ed esso soltanto, avrebbe il potere di disfare quello che un atto irreversibile e irrevocabile ha fatto. Solo il perdono può ristabilire l’innocenza, “lavare” la “macchia” indelebile dalla mano dell’assassino, eliminare il fatto, comunque eterno, di aver fatto. Il problema è quindi acuto, sia per ragioni metafisiche che per ragioni storiche e morali. Jankélévitch ha affermato in un primo tempo il potere redentore e salvifico del perdono, ma ha dovuto, subito dopo, rinunciarvi. Qui occorre essere precisi. In Le Pardon, e soprattutto nella sua ultima parte, L’impardonnable, di un’intensità senza eguali, non si tratta di una mera oscillazione di un termine da un estremo all’altro. Non si tratta di passare da una mistica del perdono ad una mistica dell’assenza di perdono. Esattamente al contrario, e con un rigore senza pari, si tratta di porre un’eguaglianza, un’eguaglianza insormontabile tra la crudeltà e l’amore, tra il male e il perdono. L’uno non è più forte dell’altro, “e reciprocamente” (PhM, 1148). Ecco, allora, le esclamazioni estreme: Di fronte alla cattiveria infinita, grazia infinita; e reciprocamente. Sempre reciprocamente! L’amore è più forte del male, e il male è più forte dell’amore; sono più forti l’uno dell’altro! Lo spirito umano non può andare oltre… (PhM, 1148).
Non è una facile constatazione quella cui giunge qui Jankélévitch. C’è voluta la tragedia dei crimini contro l’umanità e ciò che ne è seguito: l’indifferenza, la questione del perdono, della richiesta di perdono, dell’assenza di richiesta di perdono, e quindi anche del rifiuto di perdonare. C’è voluta la sua seconda esclamazione, il suo secondo grido, nel secolo, la sua indignazione, l’imprescrittibile prescritto, l’iperbole del rifiuto, l’eccesso, almeno di fronte ad un eccesso che bisognava vedere e capire. Ma non era nemmeno facile, se così si può dire, dal punto di vista della metafisica. Questa volta il limite dell’esclamazione non era solo ontologico, di fronte all’assoluto evanescente dell’istante: era etico, all’interno della sua stessa lacerazione, tra la grazia e la colpa, tra il male e l’amore. Proprio là, per noi, c’è qualcosa di inaggirabile. (Traduzione dal francese di Ida Plastina e Enrica Lisciani Petrini)
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Abstracts
In questo saggio vengono analizzati due tratti caratteristici del lavoro di Jankélévitch: la meraviglia e l’indignazione, nella doppia valenza etica e metafisica. Viene così mostrato come il piano metafisico del discorso jankélévitchiano è preceduto e non può non passare attraverso una rigorosa e preliminare adesione al (e analisi del) piano dell’esistenza e delle sue ineliminabili contraddizioni. Infatti il “poco di realtà” su cui il filosofo insiste, diventa sul piano etico un massimo di intensità: il poco di esistenza comporta, per ciò stesso, un massimo di esigenza. Il percorso di questo filosofo – dal mistero dell’essere al rigore dell’azione – mette così in netta luce la forza del suo pensiero e la sua intransigente lezione morale. Dans cet essai, on analyse deux attitudes caractéristiques du travail de Jankélévitch: l’étonnement et l’indignation, avec leur double valeur éthique et métaphysique. On montre ainsi comment le plan métaphysique du discours jankélévitchien est précédé par, et ne peut pas ne pas passer à travers une adhésion préliminaire et rigoureuse au (et une analyse du) plan de l’existence et de ses contradictions inéliminables. De fait, le “peu de réalité”, sur lequel insiste le philosophe, devient, au plan éthique, un maximum d’intensité: le peu d’existence comporte, par cela même, un maximum d’exigence. Le parcours de ce philosophe – du mystère de l’être à la rigueur de l’action – met ainsi clairement en lumière la force de sa pensée et l’intransigeance de sa leçon morale. Two characteristics of the work of Jankélévitch are analysed in this essay: wonder and indignation, in both the ethical and metaphysical meanings. It highlights how the metaphysical plane of Jankélévitchian thought is preceded and can not not pass through a rigorous and preliminary adhesion to (and analysis of) the plane of existence and its uncancellable contradictions. In fact, the “little reality” on which the philosophy insists, becomes an ethical plane of maximum intensity: the little existence leads to, for itself, an intense need. The path of this philosopher – from the mystery of being to the rigidity of the action – highlights the force of his thought and the its intransigent moral lesson.
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PIER ALDO ROVATTI
Éloge de la litote
Dans une page de L’Ironie ou la bonne conscience (une œuvre publiée dans sa version définitive en 1950, mais qui remonte à 1936)1, Vladimir Jankélévitch oppose deux techniques de la pensée, qui sont aussi deux façons d’agir: la technique de la dissimulation, dont le modèle pourrait être l’arte de prudencia conseillé par Balthasar Gracián dans son Oráculo manual, et celle qu’on pourrait appeler la technique de l’ignorance, l’art exemplairement professé par Socrate. Il est évident que l’on est plus proche de Gracián: il semble que, sans le bagage adéquat de cette prudencia, qui consiste dans l’art de se cacher pour gagner un bénéfice, et dans l’art de faire un pas en arrière ou de laisser passer un temps d’attente pour obtenir le contrôle de la situation et donc un avantage, aucun de nous n’aurait de chance sur la scène sociale actuelle, surdéterminée par des conflits en tout genre. Puisque tout se joue dans un cadre agonal, à partir des microrapports quotidiens entre les individus jusqu’aux grands rapports de la politique et de l’économie, il faut s’équiper avantageusement pour la lutte et compenser la force par l’habileté. Celui qui ne connaît pas, tant soit peu, l’art des Horaces, celui qui ne sait pas reculer pour mieux sauter, ou qui n’arrive pas à appliquer, tant soit peu, la technique de la duperie, est déjà perdu, c’est un perdant, il ne peut pas compter sur la victoire. Je ne connais pas de zones de la scène sociale qui soient à l’abri de cette logique compétitive. Les exemples qui peuvent venir à l’esprit des individus qui ont tâché de rester au-dessus de ce jeu, en prétendant en annuler les règles et ne jamais se servir de la technique de la dissimulation, croyant évidemment au caractère directe de la force et du mérite, sont presque toujours des exemples de douloureuses défaites ou même de résultats catastrophiques. Gracián a donc raison de nous inviter à l’ironie de la prudence rusée. Il s’agit alors d’évaluer, en revenant à la page de Jankélévitch, comment ce penseur peu ordinaire peut parvenir à nous demander de nous engager dans l’autre chemin, ouvert par Socrate. Comment est-il possible de re1
Dorénavant avec l’abréviation I, rapportée à l’édition Flammarion 1964.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
cueillir l’héritage de l’‘ignorance’ socratique? S’agit-il véritablement d’un chemin différent? En tout cas, pourquoi devrions-nous nous fatiguer à le parcourir? Pour essayer d’avancer quelques réponses, observons de plus près la scène où évolue le raisonnement de Jankélévitch. Il y a de nombreuses façons d’entendre l’ironie, et il y en a autant d’emplois différents: le plus souvent, on se sert de l’ironie pour défendre son propre territoire de toute invasion gênante, ou encore pour se barricader en soi-même. L’ironiste maintient une distance de sûreté, il ne s’expose pas, au contraire il se couvre et tâche de se mettre hors de la portée des coups et des contrecoups. Le spectateur lucrétien, qui observe le naufrage les pieds bien plantés sur la terre ferme et en surplomb, est cet ironiste. Ce modèle de détachement est, encore aujourd’hui, le modèle prédominant de la sagesse philosophique. Même le Zarathoustra de Nietzsche avance vers le haut, tout en prétendant paradoxalement aller dans la direction opposée. Le paradoxe mis en scène par Nietzsche nous montre en effet que l’emploi prédominant de l’ironie comme détachement ne peut jamais être, pour ainsi dire, à l’équilibre. Dans l’ironie, il y a toujours un reste: la ‘violence’ que la sagesse ironique (à laquelle, me semble-t-il, on peut reconduire toute forme de pensée ou de pratique contemplative) exerce par rapport à l’extérieur, même si de façon non intentionnelle, fonctionne toujours, en quelque sorte, comme un boomerang, en se retournant contre l’ironiste lui-même. Bien qu’il se barricade, à partir du moment où il s’engage dans une communication ironique, il visera aussi sa personne. L’ironie ne peut jamais être seulement sadique; finalement on découvrira que, chez tout ironiste, il y a un désir d’automutilation: il croit se cacher derrière son ironie, mais c’est justement l’ironie qui lui donne visibilité en le révélant au regard des autres et, avant tout, au sien. Nietzsche a indubitablement donné à ce paradoxe l’importance qu’il mérite: il faut s’engager dans le chemin de l’ironie pour se rendre compte ensuite que c’est un chemin courbe – puisqu’il ne s’agit ni d’une ascension ni d’une descente, mais des deux à la fois. Jankélévitch choisit une scène linguistique et déplace l’attention de son lecteur sur une figure rhétorique, la litote, dont il fait ouvertement l’éloge. L’ironie – dit-il – est une diminution, une atténuation. Elle se révèle dans le langage quand le langage se retourne contre soi-même et se moque de sa propre prétention à la vérité, comme si la parole ironique était à la fois une parole rusée (et ‘violente’), par l’intermédiaire de laquelle on arrive à se mouvoir dans le monde en creusant une certaine distance, mais aussi une parole qui ne peut que trébucher sur elle-même et ‘rire’ de sa propre distance, ou du moins en sourire. Pour simplifier, ce pourrait être la différence qui existe entre celui qui dit ‘je t’aime!’ à la personne aimée, et celui
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Pier Aldo Rovatti - Éloge de la litote
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qui répond à la question ‘est-ce que tu m’aimes?’ par un ironique ‘assez!’. Jankélévitch réfléchit plus ou moins de la manière suivante: la vérité contenue dans la réponse ‘je t’aime assez!’ peut être d’un degré supérieur à celui de la vérité contenue dans l’affirmation ‘je t’aime!’. Et en tout cas cette diminution, ou auto-limitation, présentée dans la réponse, offre, à ceux qui arrivent à assumer l’attitude d’une telle réponse (dans l’hypothèse bien sûr qu’il s’agit de la réponse d’un amoureux), un avantage qui peut être évalué en termes d’ouverture dans la communication. En revanche, celui qui se sert de l’ironie comme d’une dissimulation pour se procurer un avantage (qui vise à conquérir la personne aimée et lui dit ‘je t’aime beaucoup!’), atteint probablement son but, mais finalement réduit l’horizon et éteint la communication. La litote est le contraire de l’hyperbole et on sait que personne ne conclut de bonnes affaires s’il se sert, pour ainsi dire, de l’‘esprit de litote’. Mais Jankélévitch nous invite à considérer ceci: de quelles affaires s’agit-il? D’un côté, on a un ‘moi’ qui s’impose en forçant sa vérité, à laquelle peut-être il ne croit même pas. (Il me vient à l’esprit l’exemple de la presse quotidienne, en particulier italienne, dont on a observé que les gros titres penchent souvent vers l’hyperbole pour s’affirmer sur le marché; en appliquant l’‘esprit de litote’ de façon systématique, les quotidiens vendraient bien moins et ils feraient une mauvaise affaire). De l’autre côté, on a un ‘moi’ qui cherche à son tour à s’imposer mais qui, pour le faire, doit abaisser l’affirmation de sa propre vérité en limitant les hyperboles et même en les éliminant totalement (comme si, un jour, un quotidien laissait sa première page en blanc, ou bien si son directeur confessait dans son éditorial que les choses sont tellement enchevêtrées qu’il est dans l’incapacité de produire un jugement). Le ton philosophique de l’argument de Jankélévitch est, à vrai dire, très précis et se réfère à une tradition de pensée reconnaissable, qui, dans les dernières décennies, a connu nombre de relances: depuis certaines élaborations post-phénoménologiques mais aussi post-heideggeriennes, le revival de formes de scepticisme, la lecture de la pensée contemporaine, à partir de Nietzsche, dans la perspective de la “pensée faible”, ou encore l’attention portée à la rhétorique de Freud, jusqu’aux actuelles revalorisations philosophiques de la métaphore. Il suffit de considérer des phrases comme les suivantes: “La litote déflationniste est à l’opposé de l’emphase, qui est inflation” (I, 80); “Pudeur est sans doute un autre nom pour cette volonté d’exprimer le plus disant le moins” (I, 87); “il y a un silence ironique que décourage l’injustice en faisant le vide autour d’elle” (I, 88); “[…] Elle est la pudeur d’affirmer, l’epokè qui retient notre dogmatisme naturel toujours
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
prêt à foncer en avant” (I, 88)”; “l’esprit, sollicité par les silences et les humbles diminutions de la litote […] comble les vides et supplée aux lacunes” (I, 96). On y distingue, de toute évidence, les thématiques philosophiques telles que la critique de l’inflation du moi (Levinas, mais aussi Jung), l’importance de l’epokè (Husserl) comme exercice et pratique de vie (on pense à Enzo Paci), le thème du silence dans le langage (Merleau-Ponty) et celui, à mon avis très important, du ‘trop plein’ (l’injustice, observe Jankélévitch, meurt pour trop de raisons) et de la nécessité de produire une décompression, un vide dans le plein. La référence à Nietzsche, à Freud et à Heidegger (que Jankélévitch n’aimait pas) est moins explicite et directe, mais l’horizon dans lequel ces trois auteurs, si décisifs pour notre contemporanéité, ont été interprétés à l’intérieur des thématiques que je viens de mentionner, les place dans le même souffle philosophique. Le fait de reconnaître une telle tonalité ou appartenance permet de faire, sans aucun doute, de considérables opérations de suture dans une scène philosophique elle aussi trop pleine, et qu’on est habitué, en général, à considérer comme morcelée et fragmentée. Mais en travaillant à l’exigence d’un ‘exercice du silence’ sur une scène qui peut se décrire à travers le paradoxe d’’habiter la distance’ (j’emploie des expressions qui me sont chères), on peut déterminer un cadre philosophique d’ensemble et peut-être une tonalité de pensée qui pourrait y correspondre. Bien évidemment, une telle reconnaissance ne suffit pas, du moins pour la raison que, s’il est important d’annexer Jankélévitch à ce cadre sans le réduire à une figure insulaire et peu ordinaire (qui demande son morceau dans le vêtement d’Arlequin de la pensée contemporaine), on ferait un tort à sa particularité en s’arrêtant ici. La pointe de son argument se situe certainement dans le fait de se concentrer sur l’ironie. Cela produit une succession d’effets dont Jankélévitch traite déjà dans ces pages (qu’en effet on pourrait bien considérer comme des réflexions de jeunesse) mais qui ensuite l’engageront dans un corps à corps philosophique jusqu’au dernier moment: l’idée-clé de sa pensée, le presque rien, est la plus visible, et de là on arrive aux pages du Paradoxe de la morale de 1981. Le ‘moins’ de la litote est-il à son tour un expédient, ou bien est-ce une voie obligatoire qui porte en elle quelque chose qu’on pourrait appeler une ‘diminution d’être’? On serait amené à dire que pour Jankélévitch il s’agit d’une effective diminution d’être: l’exemple de la relation amoureuse dont je viens de me servir pour introduire l’éloge de la litote est en réalité un exemple qui est très cher à Jankélévitch. Dans Le paradoxe de la morale il représente de façon explicite la scène guide de toute l’argumentation: celui qui aime (et l’amour est ici considéré comme une représentation exemplaire et un analogue de l’expérience morale) s’expose
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Pier Aldo Rovatti - Éloge de la litote
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nécessairement au risque d’une perte d’être: sans cette annulation il n’y a pas d’expérience amoureuse. Mais – observe aussitôt Jankélévitch – si cette perte devait être complète il n’y aurait pas d’amour. Quand la diminution arrive au néant, ce qui est son impulsion, alors il n’y a plus aucune effective / véritable expérience amoureuse, et aucune véritable expérience morale n’est donnée. Le paradoxe est que, si l’on veut aimer jusqu’au bout, on n’a plus d’amour, et si l’on veut être moral jusqu’au bout, on n’a plus d’expérience et par conséquent même pas de morale. C’est ici qu’on trouve la particularité philosophique de Jankélévitch (qu’on peut relier aux apories de la durée chez son maître Bergson), dans sa tentative de manier l’‘impossibilité’ à travers une économie du ‘presque’. Chez Gracián, en effet, tout se joue sur une limite, à la limite. La pointe devient une véritable pointe sur laquelle tenter un exercice acrobatique d’équilibre. À la morale du juste milieu, Jankélévitch oppose l’habileté de l’acrobate qui, à chaque instant, est sur le point de tomber, mais qui échouerait dans son exercice si, à chaque instant, il n’oscillait pas dangereusement. Il faut observer qu’il n’est pas facile de composer la sagesse pudique de la litote avec l’exposition de l’acrobate sur la limite du néant. Jankélévitch est conscient du fait qu’aux dangers de l’hyperbole et de l’emphase philosophique (sur les deux versants du désir du tout plein et du vertige du complètement vide) s’ajoute un péril plus subtil, auquel la pensée ellemême est exposée et auquel aussi – pense-t-il – on ne peut pas manquer de s’exposer. Il s’agit du risque que le presque rien devienne une autre formule de sagesse, une zone d’équilibre retrouvé et d’adoucissement de la pointe. C’est le péril auquel s’expose tout détachement socratique, quand, en somme, le difficile exercice de l’acrobate devient méthode et savoir. Ce dont Jankélévitch nous prévient est que ce péril est inévitable: et la chose intéressante pour nous est de voir comment le philosophe tente de faire face à cette inévitabilité. Sur le plan pratique, l’expérience morale se traduit par un incessant accommodement, comme si, pour faire le point, une focale devait être sans cesse réglée et adaptée. En effet, lorsqu’on dirait ‘voilà le bon réglage!’, l’expérience serait déjà floue, à l’inverse, précisément, d’un thermostat qui répond aux sollicitations de l’environnement par une variation de température. Ce fonctionnement déréglant tâche de correspondre, de façon approximative et insuffisante, à une considération paradoxale qui se joue sur l’impossibilité d’unir deux exigences opposées; du moins un minimum d’être et un maximum de sens. Ce paradoxe, exemplifié dans la scène amoureuse, ne supporte aucun réglage, pourtant, à chaque fois qu’on le pratique, et, plus encore, à chaque fois qu’on essaie de se le représenter, il est pris en
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
quelque façon dans une forme de réglage. Mais, voilà le point, la pointe philosophique, la tonalité de pensée qu’on lui prête n’est pas indifférente. On pourrait se retrouver à nouveau dans la tonalité de la distance cognitive, comme s’il s’agissait d’une prise d’acte, ‘les choses sont comme cela!’ Cela ne fait aucun doute que Jankélévitch a fait tout ses efforts pour se soustraire à cette répétition, ou qu’il a mis tout en œuvre dans tous ses écrits pour nous convaincre que tel est le chemin à éviter par-dessus tout. Mais on pourrait avoir des doutes sur les résultats qu’il a obtenu par rapport à une autre tonalité, non moins insidieuse et invétérée, caractéristique de son style de pensée, ou du style qui convient à sa pensée: la tonalité tragique. Le renvoi au risque et au péril de la condition paradoxale est déjà en soi-même l’indice d’un engagement qu’on pourrait aussi appeler existentialiste. Sûrement, Jankélévitch reste redevable d’une part du ‘regard de vérité’. Mais il s’agit d’une dette, non pas d’une prise de parti. Les prémisses à partir desquelles Jankélévitch philosophe ne peuvent plus légitimer aucune prise de parti. Et alors: il y a enfin une tonalité de pensée capable de compter les dettes sans se résoudre en elles ou en une d’elles. La ‘rhétorique’ de la litote et la ‘théâtralité’ de l’acrobate, au moment où l’on réussit à les relier, ouvrent-elles un autre espace à la pensée ? Qu’estce que le paradoxe et l’extériorité du jeu ont en commun ? L’ironie n’estelle pas justement ce reste ou cette dérive qui dérègle à chaque fois le cercle tracé par les tonalités ‘de vérité’, et qui pourtant le dérègle de l’intérieur et sans prétendre s’identifier avec un ‘dehors’ (le versant paranoïaque de toute philosophie ou de toute pensée tout court) qui annulerait ce cercle? N’est-elle pas cela qui tente, tout en étant conscient que c’est une tentative impossible, de loger dans le cercle toutes les lignes de fuite, et de faire tenir, justement, le plus dans le moins? L’ironie est une bataille perdue dès le départ, mais aussi une manière d’invalider toute métaphore de guerre conçue comme un regard de l’extérieur, une observation ‘théorique’ du cercle ou des cercles. Il y a en effet un pas à franchir pour passer de la métaphore à la litote: d’une rhétorique qui sait manquer la vérité mais qui pourtant réaffirme la vérité de ce manque, qui s’est déjà ‘baissée’ mais qui contemple encore affirmativement son abaissement, à une rhétorique qui arrive à sourire de sa propre nostalgie d’une vérité manquante. Mais qu’est-ce que cela veut dire ici sourire ? Rappelons-nous l’anecdote de Thalès, le premier philosophe qui, alors qu’il médite les yeux et l’esprit tournés vers le ciel, tombe dans un trou et suscite le rire d’une humble jeune fille: ce serait comme si la philosophie réussissait à s’approprier ce rire au
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moment même de sa pratique, disons, ‘professionnelle’2. C’est une combinaison difficile, rare, souvent fortuite, de courte durée, pour laquelle, de toute façon, il faut un long exercice de pudeur et peut être aussi toute une discipline de vie, sans que le résultat soit jamais assuré. L’acrobatie ne s’improvise pas; la rhétorique est un art difficile, et insidieux. Le rire (et pensons maintenant au rire de Zarathoustra) pourrait tout de suite se transformer en une attitude d’élévation, et voilà la bonhomie supérieure (même si ce n’est pas un rire) du sage, de celui qui sait, qui sait ne pas savoir, et qui tient sa supériorité de cette lucide ignorance. On n’échappe pas – paraît-il – à cet éloge de soi-même, aux ruses du narcissisme. Peut-on du moins l’atténuer? Il semble que la condition pour que l’abaissement ne soit pas aussitôt une élévation déguisée est que ce soit un autre qui rie, et que notre ‘sourire’ (déjà une réponse, ou une réponse anticipée) fasse partie d’une expérience communicative: le dissimulateur à la Gracián, l’homme ou la femme aimée, la jeune fille de Trace sont là, ils doivent y être, et nous démasquent. La réponse de la pudeur et de la litote ne peut pas renoncer à la théâtralité de l’acrobate: je veux dire qu’elle devra prendre en charge (s’il s’agit d’une véritable réponse et non d’une relance déguisée, s’il veut avoir de l’avance sur la ruse et sur le narcissisme) la précarité de la ruse, de la fiction et même de l’hypocrisie. Pour sourire de soi-même il faut – semble-il – jouer le jeu que l’autre propose, et accepter – aussi – que l’autre se joue de nous. Pour jouer le jeu, pour être bon joueur, il faut accepter notre rôle de funambules et aussi de dupeurs déclarés. Je ne suis pas sûr que Jankélévitch accepterait de pousser jusque là son éloge de la litote. Mais je crois que c’est lui-même, en passant et repassant dans le parc d’attraction du paradoxe, en somme par son exténuante pratique de l’ironie, qui nous exhorte à prendre ce chemin courbe. En effet, Jankélévitch se trouve dans la position de celui qui sait qu’il doit briser l’emphase de la philosophie mais qui n’arrive pas à déplacer son propre penchant emphatique. Cela vaut naturellement pour toute philosophie. En tout cas, le lecteur de Jankélévitch le trahirait s’il en répétait le geste, s’il en imitait le ton ou bien s’il en reproduisait les métaphores. Au fond, Jankélévitch montre qu’il croit à une forme de vérité qui ressemble à l’innocence d’une pensée mise au pied du mur et donc pudique envers elle-même. Il s’agit de raisonner autour de cette nécessité d’être innocent; non pas pour l’abolir, ce qui ne serait qu’un geste de vérité, mais, au besoin, pour la dépayser, pour en pratiquer la secondarité ainsi que pour réussir à la 2
Cf. à ce propos-là R. Prezzo, “Il teatro filosofico e la scena comica”, dans Ridere la verità, Cortina, Milano 1994.
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placer dans un lieu théorique qui corresponde à son paradoxe, pour en faire la topologie, mais avant tout pour tâcher de démanteler la référence à une idée univoque de réalité. Innocent, on le devient, prévenait justement Nietzsche: mais, en disant cela, il n’indiquait que les traits les plus généraux d’une tâche, qui reste son héritage philosophique le plus important. Comment peut-on se mouvoir simultanément dans la réalité et dans l’illusion ? Comment une chose peut-elle être pour nous à la fois vraie et illusoire, et même: vraie grâce à l’illusion ? En faisant un éloge de la litote, Jankélévitch croit à la pudeur de celui qui affirme en contenant sa propre affirmation jusqu’à la limite d’un silence plus éloquent que les mots. Mais il y a tant de silences: le silence du mystique, le silence de la méditation, l’aphasie de la douleur. On dira qu’ici il est pourtant question d’un silence ironique: la sagesse ironique du moine zen? Le laconisme professionnel du psychanalyste ? Arrivant à la limite d’un silence qui, faisant le vide, le remplit (et on a l’impression là de toucher au paradoxe), Jankélévitch se souvient-il aussi que c’est là une question d’ironie ? Que la litote est encore une forme de dissimulation ? et que ce jeu du moins reste pourtant un jeu, un truc, une exhibition ? Une façon de dire ? On devrait alors remarquer que la pudeur ironique n’est pas celle qui s’affirme et se prend au sérieux, mais celle qui arrive à sourire de soimême, c’est-à-dire à se distancier de son propre désir d’innocence, de son désir ardent d’un silence éloquent, dirait-on, et finalement vrai. Je l’appelle ‘distance’, même s’il semble qu’on ne peut l’obtenir qu’en se laissant prendre par le jeu justement quand la distance semble s’évanouir: c’est seulement quand on reconnaît ce désir ardent comme le sien propre, qu’on peut faire l’expérience de sa fausseté et à la fois du fait qu’on ne peut pas l’éviter. Ce sera donc un silence embarrassé qui arrive à sourire un peu de sa pédanterie démasquée. Ce n’est pas une écoute extatique dans l’extinction des mots: plutôt, si l’acrobatie réussit, c’est un silence qui nous fait entendre l’écho parodique de sa propre extase. Cette dernière se découvre même dans sa médiocrité, et, ce faisant, laisse ouverte, peut être pendant un seul moment, l’irrémédiable du paradoxe. En ce moment d’embarras et de faiblesse (si le sourire arrive à l’arrêter), il peut arriver quelque chose. Mais nous ne croyons pas qu’il s’agisse d’une expérience de vérité, même si nous sommes à chaque fois tentés de le croire; ce qui peut se passer, à travers ces moments préparés par la litote, est simplement une reprise de la communication: une relation qui n’a su temporairement se dégager de sa fermeture intrinsèque que dans le trop-plein des mots. À son tour, l’autre ne répond que lorsqu’il a à sa disposition cet espace paradoxal qu’il tient à nous de lui laisser.
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Abstracts
Nel suo libro sull’ironia Jankélévitch mette al centro della riflessione la figura retorica della litote e ne fa l’elogio. Nel presente saggio questo elogio viene spinto alle sue conseguenze filosofiche, sottolineando il percorso curvo dell’ironia che porta sempre all’auto-ironia e quindi a un pensiero del pudore, che dovrebbe conservare la capacità di “sorridere” sul pudore stesso. Si precisano così un tono filosofico, un’idea di verità e un’idea di soggetto caratterizzato da un’etica paradossale: strumenti teorici essenziali per combattere le piccole e grandi violenze di cui si nutre, sempre di più, lo scenario contemporaneo. Dans son livre sur l’ironie, Jankélévitch met au centre de sa réflexion la figure rhétorique de la litote et en fait l’éloge. Dans le présent article, cet éloge est poussé à ses conséquences philosophiques, en soulignant le parcours courbe de l’ironie qui conduit toujours à l’auto-ironie et donc à une pensée de la pudeur qui devrait conserver la capacité de “sourire” de la pudeur même. De la sorte, on est amené à insister sur un ton philosophique, une idée de la vérité, et une idée du sujet caractérisé par une éthique paradoxale: autant d’instruments théoriques essentiels pour combattre les petites et grandes violences dont se nourrit, toujours davantage, la scène contemporaine. In his book on irony, Jankélévitch puts at the centre of his thought the rhetorical figure of litotes and praises them. In the essay, this eulogy faces its philosophical consequences, highlighting the curved path of irony that always leads to self-irony and therefore a thought of modesty, that should conserve the ability to “smile” at modesty itself. There is therefore a philosophical tone, an idea of truth and an idea of subject characterised by a paradoxical ethic: essential theoretical tools in order to fight the small and large acts of violence of which the contemporary context is fuelled.
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MARCO FORTUNATO
Les vertus du fantasme1
Face à une philosophie comme celle de Jankélévitch, qui prend pour fondements de sa réflexion morale les notions d’abnégation et d’amour, comme paroxysme d’un don de soi-même poussé presque jusqu’à la consomption de soi-même, une question provocatrice survient spontanément: qu’est-ce qui arrive au plaisir dans cette philosophie? Y a-t-il une place pour le plaisir? Or, nous croyons qu’une forme particulièrement saillante de plaisir affleure dans les pages de L’Irréversible et la Nostalgie consacrées à Ulysse. Nous proposons de lire ces pages comme si elles étaient appelées à répondre à la question: en quoi consiste le plaisir d’Ulysse? La réponse qui s’imposerait comme la plus évidente serait que, la nostalgie (en grec “la douleur du retour”) d’Ulysse étant causée par l’éloignement de sa patrie, c’est-à-dire d’Ithaque, le plaisir devrait résider dans le fait de la retrouver, dans le retour à Ithaque (IN, 349-52). Mais Jankélévitch nous présente un Ulysse prétendant retrouver rétablie à la lettre la scène d’Ithaque, telle qu’il l’avait laissée lors de son départ pour la guerre de Troie, et qui donc, à son retour, est déçu, car son désir est intrinsèquement impossible à satisfaire: tout, en effet, a changé et vieilli, à commencer par lui-même, et jusqu’aux pierres des bâtiments, et le fait qu’il revienne dans le même lieu n’implique guère qu’il retrouve le même (IN, 367-72). Jankélévitch reprend en outre la suggestion de l’écrivain grec Kazantzakis, qui fait de “son” Ulysse un homme inquiet qui, après avoir remis le pied à Ithaque, ne semble guère satisfait mais, absent et l’air rêveur, repense avec nostalgie aux péripéties du voyage de retour, en particulier aux figures ensorcelantes rencontrées au cours du voyage, comme Calypso et Nausicaa, et finit bientôt par reprendre la mer (IN, 358-60). D’un côté, cet Ulysse qui repart et qui, quelque lieu qu’il aborde au cours de son nouveau voyage, en repartirait également insatisfait, apparaît 1
L’Irréversible et la Nostalgie est cité dans l’éd. Flammarion, Paris 1983; L’Aventure, l’Ennui, le Sérieux, éd. Aubier-Montaigne, Paris 1963; L’Ironie, éd. Flammarion, Paris 1964; Traité des vertus, éd. Bordas, Paris 1949.
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à Jankélévitch comme le symbole d’un destin, désespérant au fond, qui fait que l’homme ne peut trouver la satisfaction de se sentir dans sa patrie nulle part dans le monde ou, si l’on préfère, qu’il la trouve toujours ailleurs que dans les lieux du monde où il peut vivre, c’est-à-dire justement nulle part (IN, 360-63). Mais de l’autre côté, la parabole de cet Ulysse nous apprend que – Jankélévitch même le perçoit, même s’il y insiste beaucoup moins – la patrie/la satisfaction/le plaisir pour l’homme ne sont pas complètement inexistants, mais que, en quelque façon, ils existent parce que, quel que soit le lieu où l’homme se trouve, et quel que soit le présent qu’il est en train de vivre, ils consistent en quelque chose de différent du rien absolu, c’est-à-dire en l’image-souvenir des lieux où il a été et de ce qu’il a vécu avant. Ce n’est pas sans raison que, si l’Ulysse de Kazantzakis, rentré à Ithaque, rêve des aventures qu’il a laissées derrière lui, celui d’Homère, suivant le soupçon malicieux et subtil de Jankélévitch, contribue peut-être, inconsciemment, à provoquer les maintes déviations et les longueurs de son voyage de retour; tant que se poursuivra le voyage, en effet, Ulysse pourra jouir du plaisir raffiné de caresser l’image-souvenir de lui-même, de Pénélope, des rapports interpersonnels (en particulier celui qui le liait à sa femme) dont il était le centre, et des lieux d’Ithaque tels qu’ils étaient avant son départ pour Troie (IN, 363-66). Jankélévitch fait deux affirmations décisives. Il dit que le charme et le “mérite” de ces personnes et de ces choses sur lesquelles l’effet du temps s’est imprimé en profondeur, en les faisant régresser au niveau du passé, au niveau d’images du passé, consiste justement dans le fait pur et simple qu’elles sont le passé, dans leur passéité pure et simple. Et il rappelle en passant que le fait que la loi de l’irréversibilité soit en vigueur, qu’existe le travail du temps réduisant toute chose et tout le monde à la condition de fantasme mnésique, tout cela est pour l’homme, d’une manière générale, une misère (IN, 352-58). Mais, comme le cas d’Ulysse – exemplification de la condition humaine en général – en témoigne, cette misère est aussi une occasion propice, et une source de bien. Répondre à la question: “pourquoi le travail du temps est-il, d’une manière générale, terrible?” ne pose pas de difficultés particulières. La première réponse, massive, est que, pour tous les individus, les uns après les autres, il s’achève avec la mort; et si, d’un côté, la mort représente ce qui est évident, ce qui est prévu, l’antiquissimum que l’on connaît depuis toujours, et qui est donc à sa façon familier, de l’autre côté elle demeure au contraire un caillot d’une dureté inouïe et inassimilable, “la contradiction interne, l’absurdité constitutionnelle, l’opacité absolue qui nous barre irrémédiablement tout avenir” (AES, 50).
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Marco Fortunato - Les vertus du fantasme
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Mais il y a d’autres raisons, plus “subtiles” pour lesquelles le travail du temps est une misère et un malheur. S’il fait régresser le présent au passé et à la condition de fantasme, c’est parce qu’il le remplace par un autre, par un nouveau présent, qui aura à son tour le même destin. Mais cela signifie que, là où la loi du temps est en vigueur, est en vigueur aussi – inséparable d’elle – la loi de la multiplicité, infligeant à tout présent, à tout état du monde, à n’importe qui ou à n’importe quoi, l’offense de ne pas être le seul, de n’être qu’un des nombreux, qu’un des innombrables. Jankélévitch, avec une grande finesse, voit qu’une des nuances de l’ironie consiste en ce que chaque élément de la réalité est soumis à la réduction et à la remise en perspective qui lui sont imposées par sa radicale non-unicité et non-rareté, par son impossibilité, littéralement, d’exister sans les autres (I, 22-25). Mais on pourrait dire, avec une amertume plus sombre, qu’il ne s’agit pas vraiment d’une ironie élégante, mais plutôt d’une ouverte moquerie, dont le ridicule se retourne contre le monde, le monde où l’on continue à “brouiller les cartes” et où rien ne demeure, où l’alternance sévit, faisant de nous tous des pièces de rechange, où l’espoir de garder quelque chose en place est systématiquement frustré car tout disparaît ou se transforme, parfois en son contraire. Seul celui qui, au lieu de maudire le travail du temps dans la mesure où il ronge le bien, et de le bénir au contraire lorsqu’il ronge et renverse le mal, le renie toujours et de toute façon, possède la grandeur d’une véritable et inconditionnelle protestation contre ce régime de la dérision. Leopardi, par exemple, possède cette grandeur: dans une page dramatique et puissante du Zibaldone, il constate d’un regret ébahi que l’écoulement du temps, solvant sordide, a finalement presque réussi à vaincre même une douleur si âpre et profonde qu’au début, et pendant longtemps, le passage du temps non seulement n’arrivait pas à la diminuer, mais la faisait même augmenter2. Il sera moins évident de répondre à la question de savoir comment et pourquoi un des produits de l’inexorable action désagrégeante du temps, c’est-à-dire justement le fantasme mnésique, peut engendrer du bien et donner du plaisir. Nous avancerons quatre réponses; si la première sera clairement redevable à certaines indications données par Jankélévitch, les suivantes s’appuieront sur des considérations de plus en plus indépendantes de sa spéculation, et la dernière, enfin, se ressentira d’un “goût” philosophique ouvertement divergent du sien. Premièrement, nous savons que, dans le Traité des vertus, Jankélévitch laisse entendre assez clairement que le fait de rester liés à l’absent, de 2
G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, 2419-2420.
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tenir pour certain ce qui a été dépassé par le temps, représente une forme importante de fidélité (TV, 213-15): la première vertu du fantasme consiste donc à offrir à l’homme l’occasion d’exercer, en restant fidèle à l’absent, une vertu occupant une position de tout premier choix parmi celles que Jankélévitch examine dans son Traité. Et le fait de rester fidèle à l’absent et à ce qui est dépassé signifie aussi faire preuve de cette capacité de résistance à la dérive de la facilité et de ce qui est évident, capacité que Jankélévitch apprécie hautement, puisqu’il reconnaît là, au fond, rien moins que le “secret” même de l’attitude morale. Ce serait en effet une facilité pour l’homme d’oublier et de laisser de côté ce qui est passé, et de se laisser entraîner et “posséder” complètement par l’instans, c’est-à-dire par ce qui pour lui est présent, spatialement et temporellement. Comme le suggère le fait que le verbe latin instare signifie aussi “harceler”, l’instans est une des formes de la violence qui a pour elle un avantage manifeste sur l’absent, et qui exigerait de faire converger sur elle l’attention et la participation complètes de celui qui est en train de vivre l’instans; le fidèle à l’absent corrige cette disparité de forces car il “tient bon”, il a la force de rendre l’absent presque plus influent et plus présent que le présent même. Deuxièmement, les personnes et les choses de l’Ithaque d’avant la guerre, “réapparaissant” à Ulysse réduites à l’état de fantasme, sont un passé; et du passé, on peut dire qu’il est repoussé dans la distance (temporelle); alors, le sens commun même sait que la vision de ce qui est loin, la vision de loin, justement parce qu’elle est, en quelque sorte, indéfinie-imprécise-floue, possède un pouvoir de transfiguration et d’embellissement. Sur ce thème, Leopardi a dit des choses décisives. Dans une note très brève et fulgurante du Zibaldone, il affirme que le présent (l’instans) est, de toute façon, vil et “condamné”, car la vision de ce qui est proche ne se trompe pas et voit son objet pour ce qu’il est, qu’elle ne peut se distinguer de son objet, qui est effectivement ce qui est proche, la réalité effective et présente, le vrai être qui, en tant que tel, est méchant et décevant3, tandis que ce qui est loin jouit de l’effet de la distance, et sa vision, l’image qu’on s’en fait, possède une hauteur et, pour utiliser un mot très cher à Jankélévitch, un charme dont il est tout à fait dépourvu. La pesanteur et la grâce contient une pensée suggérant que le présent a tort même à l’égard de ce qui est éloigné dans le temps à venir: Simone Weil dit que, pour qu’une chose continue à exhaler le charme qu’elle avait lorsque, n’étant pas encore là, elle continuait à être objet d’attente et d’espoir, il 3
G. Leopardi, op. cit., 1521-1522.
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faudrait que, même lorsque nous la possédons, nous puissions continuer à la sentir comme si elle n’avait pas encore été atteinte4. Jankélévitch sait bien que ce qui est actuel est irrémédiablement prosaïque, et que ce ne sont que les choses qu’on peut dire “du temps jadis”, ou le présent même, mais seulement s’il apparaît comme déjà révolu, qui ont quelque importance artistique (MI, 53). Dans L’Aventure, l’Ennui, le Sérieux, il reconnaît lucidement que l’homme regrette souvent ex post des moments et des événements qui, lorsqu’il les vivait, lui semblaient ennuyeux ou pénibles; suivant la subtile observation de Jankélévitch, le seul “type” humain qui fait exception à cette attitude est l’artiste, dont les perceptions possèdent presque déjà le “voile” des souvenirs car lui seul, étant doué d’une mélancolie heureusement précoce, peut voir ce qui est (présent) comme s’il n’était déjà plus là (AES, 170-75). Mais dans ces pages Jankélévitch d’une certaine façon “se trompe”, dans la mesure où il paraît affirmer que, dans le regret, l’homme revalorise ce qui, lorsqu’il le vécut, ne lui donna ni plaisir ni joie. En réalité, l’homme en effet ne revalorise pas le passé, mais apprécie, savoure cette forme du présent qui est l’imago mémorielle du passé, laquelle est – comme d’ailleurs toute chose, suivant ce que Jankélévitch enseigne le premier – un événement “primultime”, ayant la fraîcheur inédite d’une nouvelle création qui n’a jamais existé auparavant, et qui n’est pas simplement une deuxième occurrence de l’événement déjà révolu. L’imago de ce qui est révolu est tout autre chose que celle dont elle est le fantasme, c’est-à-dire que ce qui est révolu comme il fut lorsqu’il fut présent, à peu près comme la prise de vue cinématographique d’un lieu ou d’un événement est quelque chose de tout à fait différent d’eux. Et la référence à l’image filmique n’est pas impropre, car il est raisonnable de penser que c’est l’expérience de l’intensité de son charme qui a rendu l’humanité des XXe et XXIe siècles, notre humanité, que nous pourrions appeler “cinématographique”, particulièrement sévère avec ce qui est im-médiatement présent, car particulièrement incapable d’en tirer du plaisir. Troisièmement, l’excellence du fantasme vient aussi de sa constitution, de ce dont il “est fait”. En tant qu’image mentale, il est ce qui est non-localisable et, surtout, ce qui est immatériel, ce qui est tout à fait impalpable, et donc il est la contrepartie de ce qui possède une structure volumétrique, de ce qui a une épaisseur, de ce qui est corporel, en somme. Et ce qui est corporel est chargé d’un trait de vulgarité, car il est le public, l’ouvertement visible par tout le monde, qui à tout le monde apparaît essentiellement identique, et, en tant que tel, il est dépourvu d’aura et de mystère; la grêle des 4
S. Weil, La pesanteur et la grâce, Plon, Paris 1948, p. 23.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
présences corporelles est le tout à fait ordinaire, la chose connue jusqu’à la nausée, c’est le spectacle dont l’individu est incessamment entouré, ou plutôt dont il fait partie dans la mesure où, lui-même, il est un corps. Le fantasme, au contraire, est le privé, il a le charme du secret que l’individu garde au plus profond de son intimité, qu’il est le seul à voir, et d’une vue d’ailleurs si singulière qu’on doute de pouvoir dire qu’en le voyant, il voie effectivement quelque chose. Mais ce qui est corporel est vulgaire aussi dans une deuxième signification, plus radicale. Certes, il peut être aussi considéré comme ce qui est impuissant, ce qui est infiniment fragile, et qui excite une pitié attendrie, pas seulement parce que l’on sait qu’il est infailliblement livré à un destin de décadence et de destruction, mais aussi parce que ce qui est corporel et sexuel est la “part maudite”, malmenée par cette composante prédominante de la grande tradition philosophique occidentale que nous pouvons sans aucun doute qualifier de somatophobe, et représentée par elle sous des traits diaboliques. Mais d’une manière au moins aussi légitime, ce qui est corporel peut être perçu comme solidement structuré, comme ce qui est fermement enraciné dans ses membres bien robustes, comme une espèce de fanfaron qui a mis en place une occupation de l’espace et qui plane, en menaçant d’en mettre en place une plus grande encore, comme une figure, en somme, ou plutôt comme la figure paradigmatique de la puissance qui use ouvertement de la force. En tant que contrepartie de ce qui est corporel, le fantasme se présente donc comme le symbole privilégié de la non-puissance, de l’absolue non-utilisation de la force, de la non-violence, d’une capacité de se retirer poussée quasi à la suprême humilité de l’inexistence, de véritables vertus en somme, ou du moins d’une capacité, digne d’éloge, de s’abstenir de vices particulièrement odieux. Quatrièmement, et en dernier lieu, le mérite du fantasme dépend de la nature du travail de mémoire dont il est le résultat. Le travail de la mémoire se résout en une intervention qui élague, allège et abrège de manière radicale. Il “prend” un bout de vie qui, quoique caracterisé par des événements pour la plupart heureux, a été quand même lourd et pénible, tout simplement parce que l’individu a été obligé de le vivre sans aucune réduction ou omission, sans pouvoir en “déserter” un seul instant, en sentant sur lui le poids de l’être, moment après moment; dans ce passé, la mémoire, presque magiquement, ouvre des ellipses énormes, elle le vide, le “triture”, le réduit à quelques morceaux minuscules. La mémoire ne “sauve”, même d’une période très longue, que quelques éclats, quelques flashes, quelques instantanés, ou instants, fugitifs.
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Marco Fortunato - Les vertus du fantasme
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“Instant” est précisément le mot décisif. La contrepartie de l’instant, c’est-à-dire la longueur, le prolongement, l’extension, est vulgaire, pour deux grandes raisons au moins: parce qu’elle est le lieu de l’insistance et de l’obstination où l’homme est appelé à exercer l’art assez sordide de tenir bon, de tenir pour certain, plus ou moins aveuglément, son propre intérêt afin de ne pas s’évanouir; et parce qu’il y a, en elle, assez de temps pour que n’importe quel état de grâce qui pourrait s’y insinuer se corrompe jusqu’à se retourner presque en son contraire, ne serait-ce que parce que la conscience a tout le temps de s’en apercevoir, de le transformer en son propre objet et en son propre thème dominant, de s’y attarder, et la conscience – comme très peu d’auteurs le savent aussi nettement que Jankélévitch – est la condition indispensable à la possibilité du plaisir qui en même temps, toutefois, le trouble et l’interdit inexorablement. L’instant, au contraire, étant le moindre être au-délà duquel il n’existe que le néant, apparaît chez Jankélévitch comme la figure éminente de cette (non) catégorie, si singulière et centrale dans sa pensée, qu’est le Presque-rien; et Jankélévitch dit très nettement que, si jamais l’homme approche l’absolu et le sublime, cela n’arrive que grâce à l’instant et dans l’instant (LM, 24-25), dans son frisson presque imperceptible et tout à fait impossible à retenir. Puisque, comme on l’a vu, l’exaltation du fantasme forgé par la mémoire n’est autre que l’exaltation de l’instant, nous aussi terminerons par un éloge de l’instant, auquel toutefois nous accordons une valeur opposée, en un certain sens, à celle mise en relief par Jankélévitch. Celui-ci, appartenant de plein droit à cette tradition française dont Bergson est le représentant-modèle, et qui est marquée par une véritable idolâtrie de la mobilité et du changement, par une “obsession de l’absence de fixité”, veut voir essentiellement dans l’instant un début toujours nouveau, l’étincelle, le jet électrisant et angoissant à la fois, la cellule génératrice qui, de sa fécondité incessante et inépuisable, fait arriver-naître le devenir (AES, 5961, 12). Nous voudrions au contraire rappeler, tout en sachant qu’un certain nombre d’auteurs la taxent d’être philosophiquement naïve, l’idée selon laquelle l’instant est la fraction temporelle infinitésimale-minimale, l’atome qui, tout en demeurant fait de temps, lui échappe en quelque sorte pourtant, et le suspend, car il “accorde” tellement peu au temps et à la durée, qu’en lui presque rien ne peut vraiment arriver, si ce n’est, tout au plus, une chose (minime) seulement. Ainsi interprété, comme ce qui est très petit, entre les “parois” duquel, presque écrasées les unes sur les autres, ne reste pas assez de marge pour qu’une trace quelconque de multiplicité et de complexité puisse s’infiltrer, l’instant se présente comme miraculeux, et sous certains aspects, comme le seul rempart de résistance au devenir qui sévit, comme
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
l’apothéose de ce qui est identique et immobile. Cela concorde d’ailleurs avec le fait que, s’il est possible d’attribuer un charme iconique-visuel au fantasme mémoriel – cette figure de ce qui est instantané, cette vision dans laquelle presque rien n’est vu –, il s’agit sans aucun doute du charme d’une immobilisation qui arrête à tout jamais le quelqu’un ou le quelque chose qu’il “représente” dans un calme inaltérable soustrait à la douleur et à l’injure du devenir.
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Abstracts
C’è spazio per il piacere nella filosofia di Jankélévitch, che culmina in un elogio dell’amore concepito come dono di se stessi spinto fin quasi all’autoconsunzione? Una rilevante figura del piacere è suggerita dalle pagine di L’irreversibile e la nostalgia dedicate a Ulisse, nelle quali Jankélévitch insinua che forse Ulisse abbia inconsciamente concorso a determinare le numerose diversioni del suo viaggio di ritorno da Troia per poter assaporare più a lungo le immagini mnestiche di Itaca e dei suoi cari come erano allorché li lasciò partendo per la guerra. Ma il fantasma memorativo è il prodotto del lavoro mortale del tempo, che trasforma tutti e tutto in passato; com’è possibile che sia fonte di bene? Se ne possono indicare quattro ragioni. 1) Il fantasma offre l’occasione di esercitare la virtù della fedeltà: nel suo Trattato delle virtù Jankélévitch dice che una forma di fedeltà consiste nel tenere fermo all’assente-al passato. 2) La visione di ciò che è lontano è ben più fascinosa del suo oggetto; anche il senso comune sa che la visione dalla distanza, proprio in quanto è indistinta e “sfocata”, genera un effetto di abbellimento. 3) Il fantasma è impalpabile, immateriale, e in quanto tale si contrappone al corpo; e poiché il corpo può essere considerato come il simbolo della forza e della prepotenza, il fantasma può stagliarsi come l’alto emblema dell’im-potenza e della non-violenza. 4) Il fantasma è il risultato del lavoro della memoria, che svolge un’azione di radicale sfoltimento-abbreviazione; di un periodo di tempo anche molto lungo, la memoria “salva” soltanto schegge-flash-istanti. E Jankélévitch insegna che, se mai l’uomo sfiora il sublime e l’assoluto, è solo nell’istante. Y a-t-il, dans la philosophie de Jankélévitch, une place pour le plaisir? La question se pose dans la mesure où cette philosophie culmine dans un éloge de l’amour entendu comme don de soi, et presque comme anéantissement de soi. Les pages que Jankélévitch, dans L’Irréversible et la Nostalgie, consacre à Ulysse, nous fournissent une figure pertinente du plaisir. L’auteur y suggère qu’Ulysse aurait inconsciemment provoqué les nombreux détours de son voyage de retour pour pouvoir jouir plus longtemps des images mnésiques de l’Itaque d’avant son départ pour la guerre. Mais si le fantasme mémoriel est le produit du travail mortel du temps qui transforme tout en passé, comment est-il possible qu’il soit aussi source de bien? On peut suggérer quatre raisons à cela: 1) Le fantasme offre l’occasion d’exercer la vertu de fidélité: ainsi, dans le Traité des vertus, Jankélévitch considère qu’une
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des formes de la fidélité consiste à tenir fermement à l’absent et au passé. 2) La vision de ce qui est lointain est bien plus fascinante que son objet; même le sens commun sait que la vision à distance, précisément parce qu’elle est indistincte et floue, embellit son objet. 3) Le fantasme est impalpable, immatériel; en tant que tel, il s’oppose au corps; et dans la mesure où le corps peut être considéré comme le symbole de la force et de la puissance, le fantasme peut être vu quant à lui comme le symbole par excellence de l’im-puissance et de la non-violence. 4) Enfin, le fantasme est le résultat du travail de la mémoire, qui a une action de réductionabréviation; d’une période de temps même très longue, la mémoire ne “sauve” en effet que des fragments, des flashes, des instants. Et Jankélévitch enseigne que, si l’homme touche jamais au sublime et à l’absolu, c’est dans l’instant, et dans l’instant seulement. Is there any place for pleasure in Jankélévitch’s philosophy, which culminates in a praise of love conceived as a self-gift almost carried to self-consumption? A remarkable figure of pleasure is suggested by the pages of L’Irréversible et la Nostalgie devoted to Ulysses, where Jankélévitch insinuates that maybe Ulysses unconsciously contributed to causing the numerous diversions of his homeward voyage from Troy in order to go on savouring the mnemonic images of Ithaca and his dear ones, as they were when he left them and went off to war. But the mnemonic phantasm is the result of time’s deadly work, that turns everyone and everything into the past. How can it be a source of good? Four reasons can be pointed out. 1) The ghost offers the opportunity to practise the virtue of faithfulness: in his Traité des vertus Jankélévitch says that a form of faithfulness lies in holding fast to what is absent-to the past. 2) The vision of what is far off is much more charming than its object; also common sense knows that the vision from a distance, just as it’s indistinct and “out of focus”, produces an adorning effect. 3) The ghost is impalpable, immaterial, therefore it’s the opposite of the body; and since the body can be considered as the symbol of power and overbearing, the ghost can stand out as the noble emblem of powerlessness and non-violence. 4) The ghost is the result of the work of memory, which carries out a radically curtailing action; even of a very long period of time, memory “saves” only splinters-flashes-instants. And Jankélévitch teaches that, if man ever shaves the sublime and the absolute, it’s only in the instant.
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FRANÇOISE SCHWAB
Una morale del rifiuto1
1. Una morale della vita Fin dai primi scritti di Jankélévitch, negli anni Trenta, appare evidente il legame tra il concetto di vita e l’emergere dell’intenzionalità della coscienza, che permette al decifratore de La mauvaise conscience, del Mensonge e del Mal di definire le forme della moralità in relazione al soggetto agente. Il mondo di cui egli parla è senza rimedio né soccorso: ognuno dei nostri atti è sigillato nel tempo, irrimediabile, irrefragabile, indimenticabile; noi siamo padroni dell’azione per farla – “il che avrà luogo solo una volta” (L’A, 133) – non per revocarla o annullarla. Non c’è compensazione né riscatto possibile. Di più: ogni morale del pentimento sarebbe un insulto alla libertà dell’uomo. Da qui proviene l’essenza della sofferenza umana. La coscienza non è mai tutto quello che può essere: è inquieta e tormentata, è “a metà strada” poiché sempre semi-coscienza. Per essa, il sapere è nel “frammezzo” (entre-deux). L’uomo è “condannato a non essere altro che un presente alla volta; striscia e si trascina sul filo della storia come un esiliato” (PhM, 765). Colui che esiste [advient] una sola volta in tutta l’eternità, parimenti tutto quello che fa lo fa una sola volta nel corso della sua unica vita: è l’intuizione ossessivamente presente fin dai primi scritti di Jankélévitch. A partire da L’Alternative il filosofo sottolinea la solennità dei nostri atti, primi e ultimi ad un tempo. L’irreversibilità, l’unicità delle nostre azioni, sono il nostro destino personale. In tal senso, la nozione fondamentale dell’antropologia jankélévitchiana è l’intermediarità. La nostra natura anfibia ci limita. Non abbiamo che un istante, laddove sarebbe stata necessaria un’eternità: un istante per intravedere e un tempo infinito dopo. Il regime aleatorio dell’istante e dell’intervallo esprimono l’essere mediano e perciò dimidiato dell’uomo: fisico e metafisico – né angelo né bestia, ma tutt’e due contemporaneamente. 1
Una versione più lunga di questo articolo, col titolo Les paradoxes d’une éthique résistante, è apparsa nella “Revue d’éthique et de théologie morale”, n. 254, juin 2009.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
E tuttavia, il tempo, che destina l’esistenza al “quasi niente”, le conferisce anche una valenza qualitativa, proprio perché l’uomo, essendo da cima a fondo temporalità, è da cima a fondo libertà. Dunque una legge – il chiasmo ironico, in quanto alternativa – è il paradosso di questa “filosofia prima”. Il dilemma si situa tra il “so che” (“je sais que”) e il “non so che cosa” (“je ne sais quoi”). È la legge di quaggiù. Ci sono delle eccezioni a questo chiasmo? Sembra di sì. L’istante ne sarebbe una: “c’è un punto impercettibile in cui questa tragedia dell’alternativa diventa una possibilità meravigliosa” (PhP, 100 e165). L’organo-ostacolo è lo strumento per comprendere tale divina possibilità. Il “malgrado” è un “perché”: è la resistenza dell’ostacolo che costituisce un organo. La negatività si rovescia così in positività. Una tale visione del mondo c’immerge quindi nell’urgenza e nella necessità di captare l’istante divino, di cogliere l’occasione, giacché “ogni istante pesa quanto tutta la storia del mondo” (PhM, 955). La temporalità costituisce pertanto il tema fondamentale della riflessione, profondamente bergsoniana, di Jankélévitch. Questi afferma con forza la positività del divenire e, a un tempo infecondo, statico e circolare, oppone la sua vocazione al divenire. Nel 1985 Lévinas scriveva “tutta l’opera di Jankélévitch è un modo stupefacente di restare fedele alla nuova intelligibilità e alla nuova intelligenza della durata, insistendo nelle sue analisi, con estrema sottigliezza, sul suo significato etico”2. Questo significa che l’esperienza non può essere improvvisata: deve fare il suo corso e accogliere il valore terapeutico dell’irreversibile, che è perduto solo se è senza sofferenza. Tra la desolazione maledetta in piena tragedia, in piena insolubilità, in pieno inferno, e la consolazione troppo affrettata attraverso l’ironia, c’è posto per la vera consolazione che, come il sacrificio, trova una via d’uscita nell’assunzione stessa dell’irreparabile. Questo irreparabile non è né ostacolo insormontabile, né ostacolo da aggirare, appiattire o nichilizzare; ma beninteso non è neppure ragione o motivo di guarigione – dipende dal mistero dell’organo-ostacolo” (PhM, 201-202).
È, questa, una delle più importanti conclusioni cui perviene Jankélévitch. Nel saggio Le Paradoxe de la morale, quest’ultima, la morale, appare allora come la condizione necessaria, in virtù della quale il soggetto meditante deve aggiornare senza posa le condizioni di possibilità della sua interrogazione. Ne consegue che – tralasciando l’ingenua adesione all’istinto e 2
E. Lévinas, Hors sujet, Fata Morgana, Paris 1997, p.119.
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Françoise Schwab - Una morale del rifiuto
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alla naturalità, che si situano al di qua dell’etica – nella vita morale acquista un peso determinante un altro stadio: quello della negazione, da cui germina poi il rifiuto. Rifiutare è dire no: un no perentorio – e questa parola è un atto. Con la magia di questo vocabolo, l’uomo taglia il nodo gordiano dell’alternativa. Il rifiuto fa vacillare la bella piramide dei valori. Diciamo che il rifiuto è un gesto gordiano come il gesto di Alessandro Magno […]. Il rifiuto è la spada che taglia con un sol colpo le astuzie e i sofismi pieni di promesse, opponendo loro il monosillabo No […]. Come una conversione, il rifiuto compie una rottura (QI, 117).
Creando un’apparente dissonanza, il rifiuto inaugura un’era nuova con la violenza del suo taglio risoluto. Quindi, il vero problema dell’uomo morale non è il plurale innumerevole dovuto alla complessità dell’agire, ma il duello aspro delle intenzioni. Questa disgiunzione necessaria ci chiede con insistenza, interpellandoci personalmente, guardandoci negli occhi: quale dei due? l’uno o l’altro? Scegliendo l’uno, si rifiuta la tentazione dell’altro. Il movimento del rifiuto segue esattamente lo stesso processo del movimento dell’atto morale. Si tratta di farsi beffe della nostra finitezza per superare le scelte lasciando vivere le contraddizioni. L’urgenza dell’azione non si preoccupa più di modalità, di quatenus, del “fino a un certo punto”. La riserva gnoseologica si oppone infatti in tutto e per tutto al rifiuto morale: piena di sfumature e di dettagli, essa implica il più o il meno, i vari gradi della comparazione e le sfumature della qualità […]. Il rifiuto morale ignora questo buon uso analitico del piacere: non conta i gradi né dosa le maniere […]. Il rifiuto morale è sommario, cioè esiste solo nella dimensione ontica del tutto o niente, del sì o del no, dell’essere o del non essere, del qualcosa o del niente in generale. Per l’agente morale è come per l’amante: il solo pensiero di un quatenus, di un “fino a un certo punto”, è già, negli affari di cuore, una riserva ingiuriosa” (PhM, 559).
Ė dunque la libertà che libera: essa è interamente “liberazione” poiché è interamente “operazione”. L’uomo libero va e agisce.
2. Il rifiuto del purismo e della retta via. “Dipende!” Ora questo Dover-Fare è il nostro destino. Certo, l’azione delinea una zona mediana per sua natura impura. La coerenza dei valori si volge presto in alibi da “imboscato”. Rifiutiamo allora il purismo, capolavoro della
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cattiva fede. Il purista è colui che vuole la libertà assoluta per renderla di fatto impossibile. L‘anima bella rifiuta di impegnarsi in uno scenario che non sia asettico! Ma “ogni militante sa che, in determinate circostanze, dovrà stringere mani dubbiose e rassegnarsi all’incoerenza del mondo dei valori” (QI, 110). Ogni azione ci fa sporcare, laddove l’angelismo che si rifiuta di agire è la peggiore delle ipocrisie. “Noi preferiamo l’impurità del coraggio e della buona volontà appassionata”, se agire consiste nell’accettare le mediazioni impure. La serietà è il coraggio di impegnarsi nel “male necessario delle concessioni e dei compromessi, che ogni impegno vero impone”. All’immobilismo Jankélévitch oppone la scelta del rifiuto resistente. Sul piano descrittivo si possono mettere in evidenza quattro possibili comportamenti nell’ambito dell’incoerenza empirica: l’esitazione, o incapacità di scegliere; la voracità, o incapacità di porre una scelta rinunciando a qualcosa; il compromesso, con il quale l’uomo rinuncia a possedere tutto lanciandosi sull’occasione che si presenta; e infine l’innocenza, che Jankélévitch chiama “il nostro filo di Arianna nel labirinto della confusione” (cfr. PhM, 307-8). Una tale tipologia è preziosa per ciò che essa ci dice e ci fa capire a proposito dell’impegno. Infatti “le decisioni coraggiose si prendono sempre più o meno nella notte di un accecamento momentaneo […] esse pronunciano il fiat perentorio, gordiano, ineluttabile, che permette loro di attraversare effettivamente la soglia del reale e il Rubicone dell’atto” (TV, 379). Il coraggio è dunque “dotta nescienza”, perché una coscienza troppo avvertita rischierebbe di impantanarsi in deliberazioni senza fine. In tal senso l’eroe, secondo Jankélévitch, fa qualcosa insieme di assurdo e di contraddittorio con la sua scelta di sacrificarsi. Sacrificio che è esso stesso catturato nel rapporto reciproco tra i valori. Non si può fare onore a un valore che sacrificandone degli altri. È per questo che proporrei volentieri una semplicissima regola di vita: bisogna far vivere le contraddizioni, e quando si ha qualcosa di importante da fare, bisogna innanzitutto farlo, anche se si appare in contrasto con se stessi […]. Non era questo che avevano capito gli uomini della Resistenza quando fecero il gesto folle di dire no ai nazisti? (QI, 117).
Senza porsi domande, colui che è impegnato nella Resistenza dice “no”, e in quell’istante egli regola una volta per tutte i propri stati d’animo. L’uomo troppo prudente avrebbe avuto “alla fine torto nell’aver ragione”. Questa notte del coraggio e della folle speranza invece dice “no” al destino immobile. La notte della scelta decisiva e la decisione di resistere restituiscono l’innocenza che salva. Perciò con queste parole: “Arianna è la
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nostra semplicità ritrovata” si conclude il saggio su Le Mal (PhM, 308). La contraddizione si risolve nel movimento. Dunque il rifiuto non è una negazione dell’atto di agire bene, in tal senso non è immobilismo, ma al contrario implica il tempo più drastico: quello dell’azione dell’uomo che s’impegna. Il tempo cioè – ironizzava Jankélévitch – non dell’uomo che in poltrona, al caldo, coniuga il verbo impegnarsi in tutti i tempi e modi, ma il tempo di colui che abbraccia in un corpo a corpo la realtà; il tempo di colui che, con tutta l’anima, tenta di invertire il corso delle cose, anche a rischio di tradire, rinnegare, sbeffeggiare gli antichi valori, per instaurarne di nuovi richiesti dall’urgenza dell’azione. Allora alla non violenza si sostituisce la guerra, al cinismo risponde l’atto coraggioso di agire servendosi, nel dolore, anche delle armi. Ecco perché l’impegno e il rifiuto non sono atti di tutto riposo. Al contrario, essi rendono manifesto il conflitto di valori cui ci obbliga la nostra umana finitezza. Parlando dell’impegno, Jankélévitch giunge fino a parlare di “guerra civile interiore”. Il bene e il male si lanciano al combattimento in seno alla nostra coscienza stessa – anche se la scelta morale s’impone come un atto unico che coinvolge la nostra volontà nella sua interezza, e cioè dall’istante iniziale a quello finale del volere. “Non bisogna dunque – rincara Jankélévitch – rimproverarsi le incoerenze dovute alla passione e nemmeno l’ambivalenza delle nostre opzioni: sono la misera incoerenza e lo sporadismo dei valori che ci obbligano a indossare, cinicamente, scandalosamente, la tunica strappata della contraddizione” (QI, 118). Non si può, in effetti, riunire sotto la stessa bandiera, nell’armonia, tutto ciò che si ama, e il chiasmo dei valori si riflette nel necessario sguardo disgiuntivo richiesto dalle azioni umane. Jankélévitch descrive molto bene il disagio delle prese di posizione coraggiose. Riferendosi a quello che era stato il suo stesso impegno (la Resistenza, il Maggio del ’68), il filosofo francese mette l’accento sulla sua coscienza dilaniata. Ma la contraddizione non è solo una cosa scomoda, e quindi l’impegno non deve aver paura di essa. Un gesto gordiano, un fiat, potrà metterci in contraddizione con il resto della nostra vita o della nostra storia. E tuttavia la connessione di questo fiat con l’insieme della nostra esistenza apparirà un giorno, più in là, sempre a posteriori. La connessione ci sembrerà allora più essenziale. Di più: non solo non bisogna temere di apparire in contraddizione, ma bisogna inoltre rifiutare l’obiezione alla contraddizione. Con questo criterio, non bisogna mai negare lo sporadismo dei valori e le contraddizioni che esso implica. La
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morale, dice ancora Jankélévitch, non comincia che con le due polarità di Bene e Male. Ma non si preferisce il bene al bello o alla verità perché il bene sarebbe letteralmente preferibile o materialmente superiore o quantitativamente più prezioso […]; no, si preferisce il bene perché il bene pone gli altri valori e crea così un ordine di valori, un mondo intelligibile, una gerarchia all’interno della quale il bello e il vero avranno il loro posto (PhM, 307).
È quindi un atto che permette di preferire – proprio perché agire non è vedere e noi non abbiamo strumenti “per mettere a fuoco l’immagine confusa del mondo dei valori” (ib.). Questo rapporto con la negazione fa allora dell’uomo, e del filosofo, un essere al contempo attratto e respinto. La morale è sostanzialmente rifiuto – ma non tutti i rifiuti sono necessariamente morali. Tutto dipende da ciò che si rifiuta. Qui ancora, “dipende!” Cosa devo far essere? Questa è la domanda, che può essere risolta solo con la purezza dell’intenzionalità. L’intenzionalità del movimento giustifica da sé sola la sua buona qualità. La minima riserva mentale si tradisce in qualche lapsus rivelatore e allora il ‘buon movimento’ diventa ‘cattivo movimento’ e la buona intenzione è subito corrotta fino alla radice: la fragile, la fugacissima virtù, appena sfiorata dal secondo fine diabolico, dall’odore di muffa e zolfo, si rattrappisce e vira immediatamente da un tutto a un altro tutto. Si tratta dunque di prender sul serio il peso della negazione e le forze che essa può trasmettere. Creatrice di energia, essa trascina la creatura limitata al di là delle sue possibilità, sul cammino della vita morale. Lontana da dosaggi, gradazioni, calcoli meschini, al di là dell’angelismo come della confusione, essa prende di mira “l’istante propizio”, che è al cuore del bisogno di infinito e di assoluto proprio della coscienza morale. L’impossibile-necessario richiede allora non solo “di fare con laboriosità cose che non somiglino ai loro fini”, ma di fare delle cose che siano persino diametralmente opposte ai loro scopi. Ed esattamente quest’atteggiamento di accettazione dell’“ostacolo”, come inevitabile concomitante dell’ “organo”, è la serietà – perché la serietà è l’assunzione dell’ostacolo; non la volontà angelica o machiavellica dei fini senza i mezzi, ma la volontà globale dei mezzi e dei fini, perché la serietà è il rifiuto del purismo, perché essa è la virtù dell’uomo modesto, sincero, coraggioso – sicché la serietà fonda la vera noncuranza, quella filosofica, che non ha niente a che vedere con la ciarlataneria filosofeggiante. Non bisogna prendere l’assurdità né sul tragico né alla leggera, ma molto semplicemente sul serio (PhM, 315).
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Questo significa che, se la morale esige di tanto in tanto il rifiuto, un tale rifiuto è rivolto anche alle false morali che fanno di necessità virtù, che contabilizzano e capitalizzano le buone azioni. Rifiuto dei “moralismi” che fissano dei valori e assicurano che la scelta di questi valori rende per ciò stesso buono colui che li sceglie. Ma anche rifiuto delle compiaciute austerità, dei digiuni inutili e delle penitenze sospette, che costituiscono il momento in cui l’uomo, mentre fa, si guarda fare e si applaude, insediandosi nella fenditura della coscienza presa da secondi fini, poiché Dio non vi chiede di non mangiare le aringhe affumicate in sua gloria, né di bere acqua benedetta alla sua salute, ma ci chiede di dedicarci ai nostri fratelli e alle nostre sorelle, di vivere per gli altri […]. E per parafrasare un magnifico pensiero di Pascal, diremo: è meglio non digiunare e amare il prossimo, che mangiare aringhe per amore di Dio […] Dio non vuole essere amato in questo modo! Ad un tale ascetismo, che altro non è che golosa avidità spirituale, egli preferirà, quando verrà il giorno, l’egoismo senza esponente e senza sovracoscienza (PhM, 579).
L’esame di coscienza uccide l’innocenza col compiacimento. Si comprende come quest’etica – che si colloca nel seno di una filosofia apparentemente insoddisfacente, poiché è pensiero dell’istante e pensiero istantaneo – acquisti senso unicamente nel quadro di una filosofia negativa. Sotto questa luce, il pensiero di Jankélévitch sarebbe più un pensiero della dialettica negativa che un pensiero del limite. Alcuni gli hanno rimproverato un eccesso di sottigliezza, una non comune agilità dialettica che scorge contemporaneamente, e come in un solo sguardo sinottico, i contrari. Ma è solo apparenza. Niente è più lacerato e irresolubile, nel fondo, di questa visione tragica del mondo. Dietro la quale si nasconde un’esperienza personale dolorosa. E questa è forse la singolare croce alla quale questo filosofo della lacerazione è inchiodato – se è vero che il suo nome resta, per molti, legato al rifiuto di chiudere il capitolo di un “passato che non passa” e al fatto di aver riportato in auge il ruolo dell’indignazione morale. Tant’è che quest’ultima costituisce per lui una delle condizioni principali del passaggio all’atto. Infatti, per avere il coraggio di dire “no”, scendere in strada, passare dalla rivoluzione al ‘tutt’altro ordine’ dell’azione militante, ci vuole un’idea forte, una forza che può nascere solo dall’indignazione morale. (Per nostra salvaguardia, essa rinasce sempre dalle sue ceneri). Del resto, non è proprio l’estremo pungolo dell’indignazione che avvertiamo, quando ci troviamo dentro gli intervalli deludenti così tipici della negligenza, nei quali scorgiamo i primi accenti ovattati della ‘buona
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coscienza’? Prendiamo l’esempio del dopo-guerra in Francia e mettiamo in risalto il carattere totale e definitivo dell’insorgere di Jankélévitch. Non ha quasi precedenti il fatto che tante sofferenze abbiano così poco modificato il destino degli uomini, e che rivolgimenti così giganteschi abbiano generato un dopo-guerra così mediocre. No, non è commisurato – perciò grande è il senso di collera che sentiamo protestare in noi, quando ritroviamo sulle colonne dei teatri il nome dei buffoni, degli esibizionisti e degli omuncoli del collaborazionismo. Il fatto è che quello che viviamo non è commisurato a quello che abbiamo sofferto … (Im, 99).
L’indignazione addita qui la commistione fra mancanza di dignità e ipocrisia, introdotta dal collaborazionismo. La catastrofe è politicamente digerita! C’è, quindi, una netta sproporzione tra il male e il dolore morale che ne viene avvertito, tra l’evento e quello che ne è seguito. Ma cosa sperare dall’indignazione? il destino dell’indignato non è forse quello di essere lasciato solo, di fronte all’evidenza che grida, ma abbandonato da tutti? alla vista dei suoi violenti soprassalti d’indignazione, dei suoi rifiuti perentori, non sarebbe più accorto occuparci della nostra facilità di assorbimento illimitato? Così, c’è voluto lo scatenamento dell’umanità, l’istinto tribale del cannibalismo, del razzismo e del nazionalismo, perché l’uomo del Novecento riannodasse consapevolmente il filo di un’antica idea: l’idea universale dell’uomo morale – poiché decisamente “la Morale è ciò che intralcia i cavalieri della forza trionfante” (QI, 148).
Rifiuto del silenzio e del perdono. Paradosso supremo. In effetti non si riuscirebbe a comprendere la filosofia di Jankélévitch se non si tenesse conto dello spazio che essa ha dovuto dare a degli eventi, da cui ha avuto la più tragica conferma: la guerra, la sconfitta, l’olocausto. Tra gli scritti del giovane filosofo di prima della guerra e quelli del maestro che in molti abbiamo conosciuto c’è “tutto il dolore del mondo”. Egli usava ripetere instancabilmente: “sento il bisogno di prolungare in me le sofferenze che mi sono state risparmiate”, rifiutando di voltare una pagina piena di dolori infiniti. In testi veementi, si è furiosamente scagliato contro la volontà di sterminio e l’oblio, spiegando con forza le proprie ragioni. All’indomani della guerra, tenne ferma la rottura con la Germania – presa di posizione mal compresa dal mondo delle lettere che emergeva al sole della Liberazione. La cesura prodotta dalla guerra fece sì, appunto, che egli indirizzasse in seguito il suo pensiero nel quadro di una filosofia dell’azio-
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ne, della volontà agente. “Preferiamo essere impuri con i professionisti della purezza, e puri con coloro che accettano l’impurità approssimativa […] preferiamo l’impurità del coraggio e della buona volontà appassionata […] agire consiste nell’accettare le mediazioni impure” (TV, 111). Di fronte all’imperdonabile malvagità, la scelta della lotta presuppone la volontà di agire, capace di farsi carico dell’impurità come il minore dei mali. Per volere ci vuole il volere e ciò all’infinito, poiché nessuno può volere al posto mio. Il volere è l’alfa e l’omega, il principio e la fine di tutto. Jankélévitch si irrigidisce nel rifiutare il silenzio e scolpisce le parole che oppone all’oblio. Con il rifiuto del perdono viene smantellato il significato del silenzio nel quale le vittime sono state volutamente sprofondate. Rifiutandoci di parlare per loro, diamo parola al loro silenzio, lo facciamo sentire; in tal modo non viene rubata loro una seconda volta la parola. Ed è anche questo il paradosso della nostra responsabilità: rispondere delle vittime vuol dire mantenere la loro parola sospesa, interrotta, non sostituendo la nostra alla loro. La memoria storica è dunque una delle componenti del pensiero di Jankélévitch. Poiché l’esigenza di vita non coincide con il piano inclinato dell’oblio, l’uomo – essere dotato di memoria – avverte un attaccamento alle cose invisibili. L’oblio ha un bell’essere predicato in nome dell’irreversibilità temporale, la memoria si irrigidisce contro il tempo e dice “no” a questo tempo trascorso opponendogli “la buona memoria” di chi non è né ingrato, né frivolo, né eclettico – ma serio. Il passato ha bisogno della nostra buona memoria. Si può perdonare al boia perché l’amore è più forte del male? No. Perché se l’amore è forte quanto il male, il male è forte quanto l’amore – si affretta ad aggiungere Jankélévitch. Nel dramma in cui si gioca, in una storia senza fine, la questione pregiudiziale del perdono e dell’imperdonabile, dell’amore e del male, Jankélévitch non è persona che possa far propria questa misteriosa sintesi. La sua coscienza dilaniata protesta qui la sua “difficile libertà”, il suo rifiuto lacerante di dire sì a una morale dell’amore pur inscritta nel cuore stesso del suo pensiero e della sua anima. Parlando a proprio nome, egli oppone il rifiuto più radicale al perdono dei crimini contro l’umanità. Questo perdono non può essere accordato per dei crimini i cui insondabili abissi e l’inesauribile meditazione superano ogni comprensione e ossessionano le nostre notti. Se ci si chiede perché egli adotti, per quanto riguarda la Shoah, un atteggiamento singolare che alcuni hanno definito follemente irragionevole, allora è bene chiedersi: “cosa ha visto, che noi non abbiamo visto?”. “Forse – suggerisce Lévinas – una storia profana in cui si ricostituiscono le prove che furono quelle della Passione d’Israele, e questa Passione lo ha toccato in modo religioso: una religione senza
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riti, senza culto, con o senza Dio, di cui solo Dio decide! Religione che sarebbe comprensione dell’essere, sempre educativa, mai taumaturgica”3. Questo mondo disumano, votato non alla giustizia ma al perdono, ne resta però esentato per Jankélévitch, che non acconsente a banalizzare quelle atrocità per vedervi un caso particolare di xenofobia o di razzismo. È dunque con tutta la tristezza del mondo che il filosofo del “puro amore” rifiuta il perdono all’imperdonabile, a questo imperdonabile infinito in cui il male sovrabbonda, e che non si riassorbirà per tutto il tempo a venire, fosse anche quello della speranza. L’esigenza morale si fa qui chiaroveggenza politica. Non ci si può scaricare dalla propria responsabilità sui regimi politici, quali che essi siano. Non possiamo abbandonare questi problemi al lavorìo del tempo. Si tratta di sventare i periodici rigurgiti dell’impostura. Se i crimini prendono di mira l’essenza umana, negando a una parte del genere umano di farne parte, essi sono allora dei “crimini metafisici” sui quali il tempo non potrà aver presa. L’imprescrittibile è una condizione etica connessa al tempo umano. I vivi hanno l’immensa responsabilità di essere, in piena coscienza, i soggetti di questa storia. I morti dipendono interamente dalla nostra fedeltà, dalla nostra memoria, “poiché il passato non si difende da solo, come si difendono presente e avvenire”. E così, nel suo volumetto Pardonner?, l’autore oppone a se stesso la più esistenziale, la più insostenibile delle contraddizioni. Jankélévitch non ha temuto, poiché egli è stato filosofo come non lo si è più, di sottoporre il suo stesso pensiero a questa prova. Esiste tra l’assoluto della legge dell’amore e l’assoluto della libertà malvagia una lacerazione che non può essere del tutto sanata. Noi non abbiamo cercato di riconciliare l’irrazionalità del male con l’onnipotenza dell’amore.
Conclusione Lo si sarà capito, non c’è nessuna dissimulazione in questa vita di cittadino giusto, nessuna cesura tra riflessione speculativa e impegno nell’azione. Per lui si tratta di tradurre l’intenzione in termini di durata. Questo pensiero non mira a smussare le asperità, a dissolvere i malintesi, ma si concentra sugli equivoci che incessantemente si ripropongono, esprime lo slancio e l’angoscia di un’epoca dilaniata ma feconda. La lezione è austera, ma corrisponde ad una fine di secolo quale è stata la nostra: senza gratuite 3
E. Lévinas, in «Information juive», juin 1985.
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provocazioni, infatti, Jankélévitch non ha temuto di prendere delle posizioni che disturbano, e non ha mai dissimulato le scelte da lui operate, offrendoci lo sguardo raro e prezioso di chi riflette controcorrente. Il suo discorso sull’indicibile risponde alle inquietudini di una società in pieno smarrimento. I suoi interrogativi coinvolgono tutti e tutti possono comprendere la sua parola. Essa fa presa sui drammi del nostro tempo, ci mette senza posa in guardia contro il ritorno delle cose ignobili, rifiuta i compromessi; non coniuga mai facilmente i verbi “dimenticare” e “perdonare”. Jankélévitch non è un moralista dedito alle massime o alla descrizione letteraria dei caratteri. Piuttosto, ci guida parlandoci dell’impegno con l’esperienza intima di chiunque, un giorno qualsiasi, abbia preso la decisione di impegnarsi, fino a, e ivi compreso, il rischio di sacrificare la propria vita. La sua opera filosofica sopravviverà ai climi mutevoli della filosofia, poiché appartiene al piccolo gruppo di quelle che pensano che la tradizione culturale non sia un errore, assumendosi il compito di superare due visioni erronee: quella dell’estetismo morale, che corrisponderebbe all’“anima bella”, e quella della “coscienza infelice”, sempre angosciata dalla realizzazione di un progetto a venire. Sicché solo una ‘poetica’ dell’impegno è in grado di descrivere quest’opera seria e cangiante che sfugge decisamente a ogni discorso precostituito. (Traduzione dal francese di Ida Plastina e Enrica Lisciani Petrini)
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Abstracts
Senza mai inclinare verso il discorso edificante, il pensiero morale costituisce il cuore stesso dell’opera di Jankélévitch, il quale, rifiutando il compiacimento della contemplazione e delle soluzioni consolatorie religiose, rinvia al “fare” laborioso, all’“esercizio in terra” come direbbe Pascal. Il presente saggio si propone di dar conto degli sviluppi diacritici del rifiuto, in seno a questa esigenza morale. La domanda fondamentale è la seguente: com’è possibile – al di là dell’inevitabile impurità in un mondo fondato sull’arbitrario, la confusione, la pluralità dei valori – trovare un principio di scelta e un motivo per agire, percepire la sottile punta adamantina della giusta direzione? Dunque, è all’interno di un movimento etico teso verso la positività del “fare” che troveremo i segni e i momenti del rifiuto. Qui si situa il primo paradosso e non il minore: all’interno di una morale del “sì” e del dovere coesistono affermazione e negazione. Il saggio individua inoltre i momenti in cui l’indignazione e l’azione sollecitano l’impegno dell’uomo libero. In effetti, rammaricandosi che la nostra epoca si contenta sempre più di “verità approssimative”, Jankélévitch ha continuamente difeso l’insegnamento di una filosofia vivente e vissuta, perché pensava che uomini formati “con l’arte e il metodo del pensare da sé” sarebbero “una garanzia contro le derive o gli accecamenti ideologici”. Questo atteggiamento, dal quale non si è mai discostato, ha fatto di lui per essenza un “resistente”, quale è stato durante l’ultima guerra e ha continuato ad essere nella difesa dei diritti dell’uomo. Infine, il saggio affronta la problematica paradossale del perdono, che costituì una difficoltà fondamentale nel suo pensiero. Come uscire da questa storia infinita del perdono e dell’imperdonabile, dell’amore e del male? Combattuto nella propria coscienza, davanti al perdono dell’imperdonabile Jankélévitch ha difeso con forza la sua “difficile libertà” e il suo lacerante rifiuto a dire “sì” ad una morale dell’amore pur tuttavia centrale nella sua riflessione. Questa, completamente rivolta verso un ottimismo non redentore ma attore di un rinnovamento perennemente possibile, rivendica l’impossibilità di un atto di perdono, un rifiuto magistrale e consapevolmente assunto, un “no” tuonante e ripetuto. Sans jamais donner dans le discours édifiant, la pensée morale est le coeur même de l’oeuvre de Jankélévitch qui, refusant la complaisance de la contemplation et des solutions consolantes religieuses ou métaphysiques, renvoie au “faire” laborieux, à “l’exercice sur terre” comme dirait Pascal. Cette étude se propose de
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rendre compte des développements diacritiques de la notion de refus au sein de son exigence morale. La demande fondamentale est la suivante: comment est-il possible – par delà la nécessaire impureté dans un monde fondé sur l’arbitraire, par-delà la confusion, la pluralité des valeurs – de trouver un principe de choix, un motif pour agir, de percevoir la fine pointe adamantine de la juste direction? C’est donc au sein d’un mouvement éthique incliné vers la positivité du “faire” que nous trouverons les signes et les moments du refus. Là se situe le premier paradoxe et non le moindre: à l’intérieur d’une morale du oui et du devoir coexistent position et négation. L’essai situe ensuite les moments où l’indignation et l’action induisent l’engagement d’un homme libre. Regrettant, en effet, que notre époque se contente de plus en plus de “vérités approximatives”, Jankélévitch a toujours plaidé pour l’enseignement d’une philosophie vivante et vécue, car il considérait que de tels hommes formés à “l’art et la méthode de penser par eux-mêmes” seraient “un garant contre les dérapages ou aveuglements des idéologies”. Cette attitude dont il ne se départira jamais, fait de lui par essence un “résistant”, comme il l’a été pendant la dernière guerre et a continué à l’être dans sa défense des droits de l’homme. En dernier lieu, l’essai rend compte de la problématique paradoxale du pardon qui fut, au cœur de sa pensée, une difficulté fondamentale. Comment sortir de cette histoire sans fin du pardon et de l’impardonnable, de l’amour et du mal? Dans ce combat, la conscience de Jankélévitch – face au pardon de l’impardonnable – proteste de sa “difficile liberté”, de son refus déchirant de dire oui à la morale de l’amour et du pardon pourtant centrale dans sa réflexion philosophique Sa position personnelle, complètement tournée vers un optimisme non rédempteur mais acteur d’un renouveau perpétuellement possible, revendique une impossibilité à l’acte du pardon, un refus magistral et assumé, un “non” tonitruant et répété. Without ever inclining towards a edifyng discussion, moral thought constitutes the very heart of the work by Jankélévitch, who, refuses the complacency of contemplation as well as consolatory religious solutions, puts off the laborious “doing” to the “working on the land” as Pascal would say. This essay proposes taking into account the diacritic developments of refusal through this moral need. The fundamental issue is the following: How is it possible – apart from the inevitable impurity in a world based on the arbitrary, confusion and plurality of values – to find a principle of choice and a reason to act, perceive the fine point of the right direction? It is therefore within a ethical movement open to the positivity of “doing” that we find the signs and moments of refusal. This present the first paradox, which is not a minor one: within a “yes” moral and duty, there is both affirmation and negation. The essay also identifies the moments in which indignation and action urge the commitment of the free man. In fact, regretting that our era is satisfied with the “approximate truth”, Jankélévitch has continuously defended the teaching of a living and lived philosophy, believing that men formed “with the art and method of thinking for themselves would be a guarantee against ideological trends and blindings”. This behaviour, from which he never fared, made him a “resistor” during the last war as well as defender of human rights.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
In conclusion, the essay deals with the paradoxical problem of forgiveness, which is a fundamental difficulty in his thought. How can you get out of this infinite story of forgiveness and the unforgivable, of love and hate? His conscious is undecided when having to face forgiving the unforgivable, Jankélévitch strongly defended his “difficult freedom” and his lacerating refusal to say “yes” to a moral of love even though it was central to his thought. This complete denial of an unliberating optimism but rather actor of a permanently possible renewal, highlighting the impossibility of an act of forgiveness, a masterly and fully aware refusal, a thundering and repetitive “no”.
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FRANCESCO CORSINI
Nostalgie close et nostalgie ouverte Enjeux éthiques et politiques
1. Un point de départ: Bergson La question du clos et de l’ouvert, dans Les deux sources de la morale et de la religion de Bergson, reprend, dans le domaine de la vie sociale, la dialectique bergsonienne et simmelienne de la vie et des formes. Il s’agit là à la fois de la conclusion et du sens, du terme et du but, du chemin bergsonien, d’un côté, et du point de départ de la réflexion morale de Jankélévitch, de l’autre. Ces deux sources sont liées aux trait spécifiques de l’homme: il y a, selon Bergson, une socialité originaire, intrinsèque, de la nature humaine, qui demeure au-delà des différentes superstructures culturelles. La première source est la pression sociale qui s’exerce sur les individus d’une société en les regroupant dans une communauté, communauté qui est telle dans la mesure où elle exclut les autres. La société close qui en jaillit est caractérisée par la cohésion interne, la cristallisation et la fixité des fonctions et des rapports sociaux, l’autorité de la classe dirigeante et l’obéissance de la classe subordonnée. Une telle société est, potentiellement, toujours préparée à la guerre, à la collision avec l’autre, qui augmente la cohésion interne. D’après Bergson, pour accéder à une moralité supérieure, consubstantielle à cette société ouverte qui s’étend à l’humanité entière en poursuivant le jet de l’élan vital à travers le courant de la matière, il faut accomplir un saut. Il n’y a pas gradation scalaire mais saut qualitatif. (Dans cette doctrine, il y a un côté discontinuiste que Jankélévitch souligne: les Deux Sources seraient une méditation sur l’instant). Les figures qui permettent à l’homme du commun de faire ce bond en avant sont le saint et le héros. Leur appel agit comme un aimant, en suscitant une adhésion qui vient des profondeurs et qui ne tient compte d’aucune évaluation rationnelle. En dernière analyse, il s’agit d’une attraction d’ordre mystique. Selon Bergson, c’est seulement au contact de ces hommes et de leur exemple que nous pouvons poser, à côté de la morale de la société close, faite d’accomplissements mécaniques et de devoirs auxquels nous
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
nous sentons soumis par obligation, une morale différente, animée par une participation sympathique qui s’exprime en suivant l’exemple des ces personnes. Les valeurs que ces personnes encouragent s’étendent à l’humanité toute entière. La société close s’appuie sur la “religion statique”, c’est-à-dire sur la forme sclérosée du phénomène religieux, qui est, d’un côté – en ce qui concerne la vie de l’individu –, un antidote au pouvoir déprimant de l’intelligence (à travers la croyance à une survie après la mort, et à travers l’influence que les rites cherchent à avoir sur les événements), et de l’autre, une puissante force de cohésion sociale, à travers des cérémonies, des rites collectifs, et dans l’identification au groupe comme porteur d’un rapport privilégié avec la divinité. La “religion dynamique”, en revanche, est l’effort pour accomplir un nouveau saut et une évolution à travers l’expérience mystique. Le mysticisme que Bergson considère comme susceptible de changer l’homme est un mysticisme de l’action, qui trouve dans le Christ son incarnation la plus parfaite: l’extase mystique, sentiment de coïncidence partielle et momentanée avec Dieu, est seulement une étape intermédiaire vers une transfiguration émotive qui impose l’action et qui se transmet aux autres sous la forme d’une contagion poussant à agir. L’autre source de la morale et de la religion est l’aspiration. Il s’agit de la soif mystique de poursuivre l’action de l’élan vital qui révolutionne les structures cristallisées de la société – close, dans sa morale, sa mentalité et sa religion – vers un dynamisme continuel. Entre ces formes de socialité et de morale, il y a un saut, une différence radicale de qualité. Le passage de l’une à l’autre prend donc vraiment les traits d’une mutation évolutive. La morale de l’humanité ne se cristallise pas dans un catalogue de préceptes, mais elle exprime une inquiétude dynamique vers un renouvellement continu. En réalité, comme c’était déjà le cas dans L’Évolution créatrice, il y a une seule vie, un seul élan, qui se développe pourtant en deux mouvements divergents ou, mieux encore, qui peut être parcouru en deux sens. Il faudrait parler de divergence plutôt que de dualité rigide. Pression et aspiration se situent aux extrêmes d’une morale unique qui prend d’un côté le visage impersonnel de l’habitude et de l’instinct et, de l’autre, celui de la puissance personnelle. Peut-être s’agit-il de la même force, qui se manifeste d’abord directement, en tournant en cercle dans l’espèce humaine, ensuite indirectement, pour pousser l’humanité en avant à travers des individualités privilégiées. Il s’agit de deux manifestations complémentaires de la vie qui tend d’un côté à se conserver dans des structures morphologiques et, de l’autre, à poursuivre la poussée à travers des sauts évolutifs.
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Francesco Corsini - Nostalgie close et nostalgie ouverte
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Les Deux Sources se termine avec un rappel à la simplicité. La société occidentale a atteint un progrès technologique tel qu’il peut libérer l’humanité entière de l’esclavage de la faim et de l’indigence. Il s’agirait là d’un pas fondamental pour la libération vis-à-vis de toute chaîne matérielle ou spirituelle. Toutefois, la recherche a été trop orientée vers la satisfaction des désirs superflus, et on préfère le luxe d’une minorité à la faim du reste de l’humanité. Du fait de ce que Bergson baptise “loi de double frénésie”1, la tendance à l’élargissement de la vie matérielle et celle, complémentaire, à l’élargissement de la vie spirituelle ne sont pas concordantes, mais la première a fait passer la technique du statut de moyen à celui de but. C’est comme si le corps agrandi de façon démesurée par la technologie ne pouvait plus être dirigé par une âme qui, elle, est restée la même. Un nouveau mysticisme pourrait fournir ce “supplément d’âme” nécessaire à un retour à la simplicité, pour une frugalité et une austérité dans le style de vie qui sont la base même d’un équilibre spirituel intérieur. Elles seules garantissent à tous la possibilité d’accéder à un certain bien-être matériel. Jankélévitch nous fait remarquer que tout le parcours bergsonien a prêché le retour à cette simplicité, depuis, déjà, la recherche de la donnée immédiate en-deçà de nos superstructures conceptuelles. Mais cette simplicité exige le courage d’une expérience directe. La même passion qui nous conduit à chercher le superflu, nous pousse à chercher partout d’inutiles complications conceptuelles avec une complaisance mal dissimulée. La liberté de l’Essai, qui était encore liée à la pression solipsiste du passé personnel, devient possible seulement dans l’optique d’une aspiration à la Libération de l’humanité entière. Ici le terme de “libération” doit être entendu comme l’effort continu de libérer. Il n’existe pas d’autre liberté que cette intention dynamique de libérer, d’ouvrir ce qui est fermé, d’insérer de l’indétermination dans les âmes – comme la vie le faisait dans la matière (HB, 295)2 –, dans le domaine sociale comme dans celui des préjugés intellectualistes.
2. Un point d’arrivée: ailleurs Jankélévitch distingue une nostalgie close, restauratrice, liée au mirage spatial d’un retour possible qui, pourtant, est interdit par l’altération
1 2
H. Bergson, Les deux sources de la morale et de la réligion, in Œuvres (éd. du Cent.), PUF, Paris 1970 p. 1227. L’abréviation se réfère à l’édition de Henri Bergson de 1989 (Flammarion, coll. Quadrige).
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
irréversible du devenir, et une nostalgie ouverte, qui a les traits d’une inquiète aspiration à un ailleurs insaisissable. Mais ces deux termes bergsoniens montrent l’actualité des Deux Sources dans le cadre des malaises de la mondialisation contemporaine, et relancent implicitement le défi du multiculturalisme. Ce sont la méconnaissance du temps et l’asservissement aux tentations spatiales de l’intelligence qui nous font oublier notre destin, voire le fait que tout retour en arrière est chimérique. L’irréversibilité du temps nous prive d’une Patrie, et tous les hommes sont proches en cela. La “nostalgie ouverte” est source d’inquiétude: elle est un ressort propulsif qui agit en synergie avec l’espoir. La “nostalgie close”, en revanche, est source de l’illusion de pouvoir récupérer le passé perdu en fermant les yeux devant les possibilités que nous offrent le présent et l’avenir; on se retranche ainsi dans des position de refus des changements propres aux dynamiques sociales actuelles. En l’espèce, les crispations ethniques, qu’elles résultent d’une insatisfaction liée à des attentes déçues, voire à une aggravation effective des conditions de vie, ou qu’elles soient les manifestations d’une poussée agressive dont la pression aurait augmenté, au cours des années, à l’intérieur des frontières imposées par les régimes autoritaires, transforment en violence intégriste les revendications de préservation d’une spécificité culturelle. Avec la fin des “grandes récits”, avec une globalisation qui semble étouffer toute différence, l’individu égaré et atomisé exploite l’occasion de cimenter son identité au moyen de mythes d’appartenance, dans le but de recouvrer un sens et une authenticité, toutes choses qui semblent perdues dans le monde de la parcellisation bureaucratique. 3 Un intéressant recueil sur le regret du passé communiste , écrit par des intellectuels de l’ensemble des pays d’Europe de l’Est, nous donne, en quelque mesure, l’occasion d’accomplir une vraie phénoménologie de l’expérience nostalgique. Le texte de Svetlana Boym, en particulier, présente, dans son caractère d’introduction générale, une grande similitude avec les considérations que Jankélévitch développe dans le dernier chapitre de L’Irréversible et la Nostalgie. Boym distingue une nostalgie restauratrice et une nostalgie réflexive, qui reprennent en dernière analyse la distinction entre nostalgie close et nostalgie ouverte. Il y a donc une structure commune aux configurations différentes que chaque fois l’expérience nostalgique prend; cette structure est le lieu du dialogue possible. 3
S. Boym, Nostalgia. Eseje o t’sknocie za komunismen, Wydawnictwo Czarbe 2002 (trad. it. F. Modrzejewski, M. Sznayderman (sous la direction de), Nostalgia. Saggi sul rimpianto del comunismo, B. Mondadori, Milano 2003).
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Francesco Corsini - Nostalgie close et nostalgie ouverte
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Le principe qui oriente l’action de la nostalgie close-restauratrice est la réversion temporelle. En revanche, la nostalgie réflexive-ouverte rend compte d’une conception du devenir qui exclut tout retour au passé. Elle s’appuie davantage sur la manière dont la personne a vécu les événements que sur des notions; elle se base sur ce que Vygotski appelait mémoire épisodique (par opposition à la mémoire sémantique). Les hommes nostalgiques du premier type ont tendance à projeter leur bonheur passé (souvent généré a posteriori par l’oubli sélectif) sur le cadre social où ils avaient vécu leur jeunesse, où ils avaient vécu et aimé. Évidemment, cette tendance au regret de la jeunesse perdue peut être facilement exploitée par des politiques nationalistes, populistes et réactionnaires. Par rapport au régime communiste, le nostalgique peut regretter la déresponsabilisation du sujet qui y avait lieu, et qui prenait les traits d’une infantilisation de l’individu, lequel déléguait tout choix et toute responsabilité au Parti. Le Père-Parti exploitait habilement cette envie universelle de rester enfant, avec l’illusion de l’innocence. C’était une innocence qui privait de la liberté, car la liberté implique le devoir de faire des choix et d’accepter des responsabilités. On regrette aussi la téléologie de l’idéologie, qui expliquait de façon cohérente toute chose. En effet cette téléologie a été souvent remplacée par le pur et simple déterminisme du libre marché, en refusant de voir le deuil que le rejet systématique de toute téléologie impose. Un autre trait qui ressort des essais cités, c’est la nostalgie des espoirs qu’on projetait sur les démocraties inconnues de l’occident, qui étaient investies d’une sorte de “libido eschatologique”; espoirs ensuite frustrés par une réalité faite de chômage, d’incertitude et d’augmentation de la pauvreté. La fracture de la solidarité sociale, même spontanée, qui régnait dans les pays de l’Europe de l’Est, remplacée par un hédonisme emprunté aux pires modèles occidentaux, a été un choc très dur. En tout cas, les processus sélectifs de la mémoire, responsables de la poésie propre à la nue “passéité” du passé, ont contribué à engendrer un regret qui se décline selon des nuances différentes dans les diverses mémoires collectives. La mémoire collective historique a été confisquée, dans la tentative de faire naître de nouvelles mythologies ethniques, basées sur des tradition manipulées ou inventées ex novo. La nostalgie ouverte rendrait compte de l’impossibilité de revenir au passé, et elle imposerait la confrontation (inconfortable pour certains) avec les mémoire collectives historiques. Le concept de “nostalgie” se redéfinit par rapport à la mémoire collective, qui est l’âme de l’identité d’une communauté. Depuis Proust, tout souvenir apparaît comme une forme de regret, et donc, même dans le bagage des souvenirs communs d’une collectivité, il y a un fond de nostalgie. L’enjeu serait de transformer, par une confrontation
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
avec le passé historique, la nostalgie “restauratrice” en nostalgie “réflexive”, bref la nostalgie close en nostalgie ouverte. L’affinité entre la terminologie de la philosophe sociale de Bergson et la distinction que fait Jankélévitch entre les deux nostalgies n’a pas un caractère exclusivement verbal. En fait, la nostalgie close est le propre d’une conception de la temporalité qui méconnaît la nouveauté imprévisible, conception typique du sujet produit par la société close des Deux Sources. Il s’agit de cette structure du comportement que Bergson rapprochait de l’attraction de la forme cristallisée, qui fait que l’élan qui crée de nouvelles espèces est paralysé par le tourbillonnement qui atrophie la poussée de l’élan vital, comme chez les Mollusques et les Échinodermes de L’Évolution créatrice. En revanche, la nostalgie ouverte est dirigée vers l’avenir, amoureuse du changement qui structure la durée même. Le passage de la nostalgie close à la nostalgie ouverte est une vraie epistrophé, pour utiliser une expression que Jankélévitch aimait, ou, si nous voulons, un des ces “sauts brusques” qui, dans L’Évolution, marquaient la naissance d’une nouvelle espèce. Bergson retrouve du reste ces “sauts” dans le surgissement de la personnalité mystique, responsable de l’évolution vers une forme nouvelle d’humanité, voire vers l’ouverture à l’humanité même. La “nostalgie close” est une expression véhémente de la pression sociale en faveur de l’étroitesse d’esprit, organe de la cohésion extrême des sociétés dictatoriales, où le pouvoir politique peut être autoritaire et devenir 4 totalitaire . La “nostalgie ouverte”, au contraire, est décrite, dans L’Irréversible et la Nostalgie, comme une aspiration infinie, dans la continuité (sur laquelle Jankélévitch n’insiste pas) de l’aspiration dont Bergson parle dans Les deux sources. Jankélévitch reprend aussi la parenté qui lie – traditionnellement, depuis le Banquet – la nostalgie à l’amour. Et l’amour est le noyau fondamental de son éthique, cette “survaleur” qui donne sens aux autres valeurs; d’ailleurs, l’amour est ce dont Bergson parle pour décrire l’aspiration mystique vers la société ouverte, typique de la “religion dynamique” et de l’effort vers la démocratie. En dernière analyse, si c’est seulement aujourd’hui que l’on prend conscience de la portée politique de la réflexion de Jankélévitch sur la nostalgie, de même, le dernier ouvrage de Bergson revient au-devant de la scène dans un contexte de perte du sens et de disparition des structures qui traditionnellement donnaient des valeurs et des significations, des idéologies et des téléologies. 4
Ce n’est pas pour rien que la clôture en soi-même et la parcellisation des rapports humains figurent chez H. Arendt parmi les Origines du totalitarisme.
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Francesco Corsini - Nostalgie close et nostalgie ouverte
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L’ouverture à l’autre n’est pas l’oubli de la dimension individuelle, de l’ipséité. Il s’agit au contraire de comprendre que l’élaboration du deuil qui caractérise tout instant est un processus qu’il faut accomplir ensemble. Depuis Halbwachs, nous avons compris combien la mémoire se structure, dans son contenu comme dans son fonctionnement (mais y a-t il une différence?), à partir de la socialité intrinsèque de l’humain. Et Ricœur nous permet de comprendre qu’identité communautaire et identité personnelle 5 sont comparables aux deux foyers d’une même ellipse . Il parle de leur 6 “constitution distincte mais mutuelle et croisée” . L’acceptation de l’altérité, le rapport problématique avec cette altérité, c’est le point nodal des difficultés dans l’élaboration d’une mémoire collective qui ne pourra jamais rejoindre la sobriété de l’historiographie (qui toutefois en dérive par filiation). Ce n’est qu’en renonçant au mythe de l’objectivité qu’on donnera forme rationnelle à la prise de distance vis-à-vis d’une mémoire qui est, intrinsèquement, mémoire blessée, mémoire qui marche vers la nostalgie close. Ricœur met au jour les difficultés de l’élaboration de la mémoire, car “une mémoire exercée en effet, c’est, au plan institutionnel, une mémoire 7 enseignée” . Assumer de n’avoir que la nostalgie comme point commun, assumer la différence de ses cristallisations spécifiques, peut contribuer à favoriser le dialogue entre des cultures qui craignent d’être étouffées. La société close voit dans la mondialisation un ennemi. La société ouverte s’efforcera de reprendre l’origine gestaltique du terme, c’est à dire de “voir le tout avant les parties”, et visera dans cette direction, tout comme le mystique et le héros bergsoniens.
5 6 7
P. Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Seuil, Paris 2000. Pour une déclaration programmatique, cf. p. 95. Ibidem, p. 114. Ibidem, p. 104.
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Abstracts
Il testo prende in esame la distinzione svolta da Jankélévitch ne L’Irréversible et la Nostalgie tra “nostalgia chiusa” e “nostalgia aperta”, mettendone in prospettiva l’aspetto sociale. Nella società odierna assistiamo infatti al rifiuto delle dinamiche di innovazione in nome di un ritorno nostalgico ad una identità collettiva, basata su memorie collettive spesso manipolate o inventate. Questa celebrazione retrospettiva di un passato mai esistito rappresenta la risposta al senso di smarrimento dell’uomo in una società che sembra aver perduto tutte le specificità culturali. Molti politici hanno strumentalizzato questo tipo di nostalgia da un punto di vista nazionalistico e populistico, ad esempio nel contesto delle violenze etniche dell’Europa orientale. Qui si mette in luce come la distinzione fra “nostalgia chiusa e aperta” derivi da Bergson. Infatti, ne Les deux sources de la morale et de la religion, a due tipi di società corrispondono due tipi di mentalità. La nostalgia di chi vive per il ritorno del passato è tipica della società chiusa governata dall’autorità. La nostalgia aperta invece è quella di chi è consapevole che il passato non potrà tornare, e che il suo ricordo deve essere una molla propulsiva per vivere il presente e progettare il futuro, vivendo l’uguaglianza nella differenza Le texte part de la distinction que Jankélévitch fait dans L’Irréversible et la Nostalgie entre “nostalgie close” et “nostalgie ouverte”, en en envisageant le côté social. Dans la société d’aujourd’hui nous assistons en effet au refus de toute dynamique novatrice, dans l’illusion d’un retour nostalgique à une identité collective du passé, une identité qui prend appui sur des mémoires collectives souvent manipulées voire inventées. Cette célébration rétrospective d’un passé qui n’a jamais eu lieu constitue la réponse à l’égarement que ressent l’homme, dans une société qui semble avoir perdu toute spécificité culturelle. Beaucoup d’hommes politiques ont instrumentalisé ce type de nostalgie d’un point de vue nationaliste et populiste, par exemple dans le contexte des violences ethniques en Europe de l’Est. Dans cet article, on met en lumière que la distinction entre “nostalgie close” et “nostalgie ouverte” vient de Bergson. En effet, dans Les deux sources de la morale et de la religion, il y a deux modèles de société auxquelles correspondent deux mentalités différentes. La nostalgie qui vit pour le retour au passé est typique de la société close, gouvernée par l’autorité. De l’autre coté, la nostalgie ouverte sait bien que le passé ne pourra jamais revenir, et que le souvenir doit
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Francesco Corsini - Nostalgie close et nostalgie ouverte
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être un ressort pour vivre dans le présent et se projeter dans le futur, en vivant l’égalité dans la différence. The article considers the distinction Jankélévitch makes in L’Irréversible et la Nostalgie between “closed nostalgia” and “open nostalgia” highlighting the perspective of the social aspect. In present-day society, we witness the rejection of dynamic innovation in favour of a nostalgic return to the collective identity of the past based on manipulative or totally fictional collective memories. Such a retrospective celebration of a past that never existed represents man’s answer to the sense of bewilderment in a society that appears to reject every cultural aspect. A lot of politicians have used this type of nostalgia from a nationalist as well as populist point of view and within the context of ethnic violence in Eastern Europe. The text clarifies how the distinction between “closed and open nostalgia” made by Jankélévitch was influenced by Bergson. In fact, in Les deux sources de la morale et de la religion, two different kinds of mind correspond to the two kinds of society. Nostalgia that lives for the return of the past is particular of a closed society ruled by a certain authority. On the other hand, open nostalgia is aware that the past will never come back and the memory of it is a propelling force to live in the present and to plan for the future. This awareness helps to foster relations with other people (otherness) on an equal footing, despite the differences brought about by the different cultural aspects.
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ANTONIO DELOGU
La noia, in Vladimir Jankélévitch
1. Jankélévitch è filosofo impareggiabile nella comprensione del senso delle umane esperienze quali il perdono, l’amore, la nostalgia, il risentimento, l’avventura, la serietà. Non può sorprendere, perciò, il fatto che dedichi una illuminante attenzione anche alla noia in pagine che ne seguono l’essenziale dispiegarsi esperienziale, come è nel suo stile argomentativo con “continui rilanci e variazioni […] apparentemente inconcludenti” e tali da mettere “a dura prova la pazienza del lettore abituato alle più comode cadenze dell’argomentare classico, unilineare e coerentemente deduttivo”1. Si tratta di pagine che dicono molto sul fatto che ogni descrizione del vissuto, fenomenologicamente orientata, se rimane incompiuta in quanto lascia sempre margini da esplorare, è, però, al contempo, ricca di verità riguardo al come stanno effettivamente le cose. La noia, nella laboriosa ricerca di Jankélévitch, si dà come cifra dell’umano esistere, non come aspetto secondario o irrilevante del nostro modo di essere. Essa non sarebbe l’oggetto di semplice analisi psicologica, quanto piuttosto momento o aspetto di riflessione filosofica sul senso di una esperienza esistenziale di rilevante importanza. In ciò egli è in oggettiva sintonia con Heidegger – benché si sia sempre tenuto lontano dalla filosofia tedesca, com’è noto, a differenza di tanti filosofi francesi del suo tempo. Perché tanta attenzione alla esperienza della noia? Quale senso dell’esistenza Jankélévitch riteneva sia proprio di questa esperienza, al di là del suo manifestarsi come insoddisfazione o fastidio, tristezza o inattività, sensazione di inutilità o vanità del mondo in cui viviamo e di cui viviamo? Il senso profondo, essenziale del sentirsi impigliati nella noia consisterebbe nell’esperire l’incapacità di riprendersi, riprendere il proprio esistenziale cammino valorialmente motivato, di cui la noia, appunto, sarebbe 1
E. Lisciani Petrini, Introduzione alla trad. it. di MI, p. XX.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
l’arresto. Questo è ciò che anche Heidegger dice nelle numerose pagine dedicate alla comprensione dell’esperienza della noia ne I concetti fondamentali della metafisica – pagine in rapporto alle quali può venire ad evidenza la peculiarità della ricerca jankélévitchiana. Qui Heidegger descrive tre forme di noia: la noia superficiale, di cui si fa esperienza quando si è annoiati da qualcosa; l’annoiarsi, riguardo al quale il venir-annoiati da è altro dall’annoiarsi di: “Nel venir-annoiati da questo libro siamo ancora concentrati sulla cosa in questione e proprio su di essa. Nell’annoiarsi di la noia non è più inchiodata […] inizia già ad espandersi […] si irradia diffondendosi sopra le altre”2; e, infine, la “noia profonda o fondamentale”, in cui lo stato d’animo del sentirsi annoiati non è motivato né da cose né da persone, ma dall’impalpabile, invisibile temporalità. Questa modalità della noia, dice Heidegger, si dà come quella particolare esperienza della temporalità, per la quale ogni cosa diviene indifferente, “non esclusi noi stessi in quanto persone”. In questa forma di noia, il vuoto, l’indifferenza “avvolgono” l’individuo nella sua totalità.3 Se per Heidegger le forme della noia sono tre, per Jankélévitch sono molteplici: la noia è multiforme, è il più indeterminato dei sentimenti, anzi “l’indeterminazione fatta sentimento”: “la noia diviene tutto ciò che si vuole. È la possibilità allo stato puro, l’indifferenza rispetto a qualsiasi forma attuale […]. La noiosa monotonia è insieme uniforme e multiforme, e quindi è informe […] la pura noia è il sentimento che non c’è alcun sentimento, il che significa la possibilità di tutti i sentimenti” (AES, 60). Essa è il sentimento dell’assoluta mancanza di sentimenti, l’indifferenza allo stato puro, la possibilità della impossibilità della scelta, è “l’informe che precede ogni forma”, il “grigio fondale, il grigio fondamentale che le nostre sensazioni screzieranno dei loro ricchi colori” (AES, 95).
2. La noia, dice Jankélévitch, è una possibilità essenziale delle umane esistenze, ma il suo venire ad esperienza non è inscritto nella nudità o innocenza dell’esistenza: è una seconda natura. Proprio ciò comporta che la noia sia spesso “la conseguenza di una coscienza satura di grandi esperienze”, dell’appagamento pieno dei nostri desideri, del completo raggiungimen2 3
M. Heidegger, I concetti fondamentali della metafisica- Mondo finitezza solitudine, trad. it., il melangolo, Genova 1983, p. 123. Ibidem, p. 183.
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Antonio Delogu - La noia, in Vladimir Jankélévitch
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to degli obbiettivi che ci siamo prefissi. Accade, quindi, che la felicità si trasformi in sentimento di vacuità, che il conseguimento della meta si trasformi nel sentimento di inutilità, insensatezza o banalità del vivere. Non a caso, nota Jankélévitch, la noia, a livello sociale, fiorisce nei periodi di decadenza, in cotesti socio-culturali in cui si è giunti al “supremo raffinamento della cultura e del buon gusto”4. Il sentimento del vuoto, proprio della noia, è una strana malattia dell’anima: strana perché spesso conseguente ad uno stato di pieno (o eccessivo) benessere, di troppa felicità.5 Perché la noia s’installa in certi momenti della esistenza? Le ragioni, secondo Jankélévitch, sono numerose e sottili, “si perdono all’infinito nella molteplicità delle circostanze e nella profondità del nostro passato”6, in cui questo strano malessere, che “non accetta la propria frivolezza” va alla ricerca di cause che in effetti non sono altro che pretesti”7. La noia di cui parla Jankélévitch è, quindi, tutt’altra cosa da quella elogiata da Bertrand Russell (“è stata una delle grandi forze motrici della storia”8 ) e da quella descritta da Sansot secondo il quale essa è la condizione esistenziale in cui “ci si stira voluttuosamente, si sbadiglia di piacere” o si è felici di non aver nulla da fare9. In questi casi si tratta, in effetti, della noia superficiale. Ma Jankélévitch, più che della noia superficiale, parla della noia profonda che è esperienza di una specifica modalità di esperire il tempo in rapporto alla moralità: esperienza dell’impossibilità del vivere il tempo come tensione morale. Il sentirsi impigliati nella noia sarebbe l’arrestarsi del tempo della moralità, un’esperienza del tempo vissuto come evasione anziché come tensione morale – mentre per Heidegger è esperienza del puro e semplice esperire la fissità della durata temporale. Con un’espressione, che potremmo definire jankélévitchiana, Heidegger dice che ciò che ci annoia nell’esperienza della noia profonda “ha il carattere del non-socosa”10. Strana o straordinaria coincidenza con il lessico jankélévitchiano in cui il non-so-che è cifra essenziale, tanto da dare il titolo ad una delle opere maggiori del filosofo: Le je-ne-sais-quoi et le Presque-rien. Nel filosofare bergsonianamente orientato di Jankélévitch il tempo si dà come istante e intervallo, come continuum e cominciamento: il non so 4 5 6 7 8 9 10
Cit. in Lars Fr. H. Svenden, Filosofia della noia, trad. it. Guanda, Parma 2004, p. 85. Ibidem, p. 100. Ibidem, p. 66. Ibidem, pp. 61-2. Cfr. B. Russell, La conquista della felicità, trad. it. Longanesi, Milano 1948. P. Sansot, Sul buon uso della lentezza, trad. it. Il Saggiatore, Milano 2003, p. 59. Ibidem, pp. 152-3.
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che è l’istante che consente all’individuo di fare un passo avanti, cioè di staccarsi dall’immobilità della durata per pro-tendersi nel tempo del cambiamento interiore contrastando la noia cioè “la ragnatela [che] tappezza il continuum in tutta la sua estensione” (AES, 58). Per Jankélévitch il senso o ritmo esperienziale dell’esistenza è nel rapporto tra istante e intervallo, tra cominciamento e continuità, tra novità e abitudine, tra serietà e avventura, tra poesia e prosaicità della vita. Il fatto è che, egli sostiene, nella noia profonda ci si installa nel continuum, non si fa esperienza dell’istante che è novità, cambiamento, modalità in cui il tempo si dà come oltrepassamento, come tensione all’av-venire11. Non si tratta evidentemente dell’istante di cui parla Berdiaev a proposito del tempo della tecnica in cui “nessun istante ha valore o pienezza in se stesso; non ci si può fermare ad esso; ogni istante deve lasciare il passo all’istante che segue il più presto possibile. Ogni istante non è che un mezzo per l’istante che segue […] l’io non ha più la gioiosa liberta di sentirsi il libero creatore del futuro”12. L’istante jankéléviciano, invece, ci trae fuori dalla noia poiché interrompe lo statico continuum, ci reinserisce nella corrente del divenire. Se bloccato nel continuum, l’individuo si trova nell’impossibilità di fare esperienza del tempo come rottura, oltrepassamento. Nella noia profonda, l’individuo, ci avverte Berdiaev, non si aspetta niente o si aspetta vagamente tutto13, patisce l’affievolimento della volontà, dell’impulso ad agire. Nell’esperienza dell’uscita da questa noia tramite la “sorpresa” dell’istante, invece, tutto si rimette in movimento: il tempo ridiventa “av-ventura”.
3. Nella riflessione heideggeriana l’essere annoiati insito nella noia profonda è esperienza dell’incantamento e dell’incatenamento, che impediscono la decisione di agire in cui l’individuo si trova di volta in volta situato. Da parte sua, Jankélévicth specifica: la noia è il perdersi nel niente, cioè nella interminabile ripetitività della durata, mentre l’istante è av-ventura e av-venire, cioè volontà di re-agire, de-cidere, ri-cominciare. Dunque, intanto è da sottolineare che per Jankélévitch (come per Heidegger) la noia superficiale è esperienza di qualcosa per cui lo stato d’animo 11 12 13
Cfr. S. Vizzardelli, Battere il tempo. Estetica e metafisica, Quodlibet, Macerata 2003, pp. 27-38. N. Berdiaev, Cinque meditazioni sull’esistenza, trad. it. Leumann, Torino 1982, p. 133. Ibidem, p.103.
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è quello dell’essere annoiato da qualcosa o da qualcuno che per noi, in una certa situazione, è noioso, è “pesante, squallido, non ci stimola e non ci entusiasma, non ci dà niente, non ha nulla da dirci”, e quindi deprime la nostra attenzione alle cose. Gracián (uno dei punti di riferimento della ricerca jankélévitchiana) diceva che è noioso l’individuo che non sa fare né dire che una sola cosa, che riesce ad essere soltanto prolisso, ripetitivo, capace di stucchevoli verbosità.14 L’individuo troppo compito o manieroso, sottolineava, è perciò stesso noioso. Quando qualcosa ci annoia, dicono in sostanza Jankélévitch e Heidegger, ci sentiamo vincolati da qualcosa da cui possiamo sottrarci perché conosciamo ciò che ci annoia. Perciò diciamo che una persona in una particolare circostanza è noiosa. Noiosa non per essenza, cioè non per chiunque e in qualunque circostanza: noiosa per noi. L’essere noioso non è nell’altro né in noi, ma nella specifica relazione che si crea nello stato d’animo dell’annoiarsi. Tuttavia, nella descrizione e nella comprensione della noia profonda, i due filosofi procedono lungo vie diverse. Il rapporto col mondo, suggerisce Jankélévitch, nella noia profonda si dissolve, in quella superficiale permane. L’individuo esperisce nel primo caso una profonda solitudine: “La noia isola chi ne è vittima, rende uniformi le cose intorno a lui, favorisce l’inerzia”, la monotonia, l’inattività (AES, 63). L’esperienza del profondo annoiarsi si dà, quindi, come interruzione della nostra relazione col mondo, come perdita di senso e valore delle cose che ci circondano. In essa si disseca ogni valore, il mondo sbiadisce perché vengono anestetizzate le sensazioni e affievolito il pensiero: non si conoscono che esseri qualunque (v. AES, 111). La noia, nella misura in cui svuota di senso il mondo, svuota l’individuo del sentire, del pensare, del volere, del desiderare, dell’immaginare, e viene esperita come mediocrità del vivere, come appiattimento dei sentimenti. Nella noia perciò non si fa esperienza dell’amore che è avventura, vitale tensione verso l’altro, attenzione alle cose che si danno come novità delle umane esperienze. In Heidegger, invece, l’indeterminatezza del Dasein ci porta a cogliere la peculiare modalità del nostro esperire il tempo della noia, ma non a evidenziarne il senso o non-senso in rapporto alla moralità. Heidegger descrive la noia nella sua mera datità temporale, cioè considera la noia come una peculiare modalità di rapportarsi al tempo, di vivere il tempo: il tempo della noia è tempo lungo o statico in quanto lo si vive come impossibilità 14
B. Gracián, Oracolo manuale e arte di prudenza, trad. it. Guanda, Parma 1986, p. 80 e p. 93.
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del cambiamento; è tempo che, perciò, si esperisce come torpore dell’animo, come oppressione vaga e indefinibile delle cose. Jankélévitch va oltre: comprende la noia come essenziale aridità morale. Tra i due filosofi vi è oggettivo accordo sul fatto che la noia non sia da considerare una malattia di cui si possa isolare la causa tramite la scienza bio-medica o la scienza economica. Ma mentre per Heidegger la ricerca sulla noia conduce e si ferma alla descrizione della peculiare modalità del vissuto temporale che la caratterizza, per Jankélévitch, che è animato da un umanismo dalla forte caratura etica, le radici esistenziali della noia ramificano in quell’atteggiamento verso il mondo per il quale “diviene difficile trovare al di fuori di noi quei ritmi simpatici e sincronici, quelle fraterne risonanze in cui si sente la natura vibrare all’unisono con l’io” (AES, 100). La noia è il sentirsi immersi nella quotidianità “insipida, incolore e inodore” della piattezza morale, l’esser presi nella rete dei conformismi sociali in cui tanto più viene meno “l’austerità e il rigore per le faccende del denaro” tanto meno si vive con intensità e fervore la propria vita interiore o spirituale. La serietà stagnante che si dà nella noia, dice Jankélévitch, è tutt’altra cosa dalla serietà dinamica, moralmente vitale, spiritualmente vigile che si dà nell’istante pro-teso verso l’av-venire. La noia è propriamente vivere una condizione esistenziale in cui non si hanno compiti da assolvere, un avvenire cui tendere. L’atarassia morale, propria della noia profonda, porta al punto in cui “il culto della noia si dà in perfetto accordo con la vienneseria da strapazzo” (AES, 176). Ma perché soffermarsi nell’analisi della noia come malessere esistenziale? Perché, suggerisce Jankélévitch, in sostanza la noia profonda è la malattia dell’uomo contemporaneo. L’individuo assoggettato a vuoti o in-sensati rituali collettivi e alla tecnicizzazione, che elimina ogni prudenza e garbo nell’approccio alle cose ridotte alla loro mera funzionalità, si trova prigioniero di lavori o svaghi alienanti in cui (possiamo dire citando Adorno) esperisce non il contatto, il tatto o delicatezza nel rapporto col mondo e con gli altri, ma la pura manipolazione o il possesso15. L’individuo contemporaneo, impigliato nella noia, non si appassiona al lavoro né si arricchisce spiritualmente nello svago, non si sente coinvolto in alcuna fede o ideale, non vive di certezze che diano senso alla vita perché, avverte Jankélévitch, nella prosaica felicità del benessere materiale all’individuo manca “qualcosa di ineffabile, [cioè la] tenera sollecitudine per la seconda persona” (AES, 146). Il fare o faticare che conduce all’esperienza della noia profonda, in altri contesti storico-culturali, è 15
T. Adorno, Minima moralia, trad. it. L’Espresso, Roma 2006, pp. 134 e 31..
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stato, peraltro, raro o inesistente poiché il negotium (nec-otium) era passione, impegno, progettualità, mentre l’otium era svago e forte attenzione alle cose e alle persone, occasione di arricchimento del proprio modo di essere al mondo, esperienza della distesa lentezza delle cose: conversazione anziché concitazione, cammino anziché corsa, distensione anziché tensione.16 L’otium era l’impossibilità della noia, perché si dava come esistenziale esperienza di rispetto verso tutto e tutti, di tatto, dolcezza, fantasticheria. La noia profonda dell’individuo contemporaneo è, invece, dice Jankélévitch, l’ozio come inerzia spirituale, lo stato d’animo che trasforma il raccoglimento in inettitudine: il passaggio dalla tensione alla verità alla sospensione sul Nulla – nichilismo non pensato ma vissuto. La noia profonda coincide, dunque, con la stanchezza profonda che è perdita del mondo, nel senso che svuota il nostro mondo di senso. Se il mondo di cui fanno esperienza gli uomini può essere più o meno ricco di senso, più o meno povero di senso, nella esperienza della noia profonda l’individuo sente che il suo mondo si svuota di valori. Il vuoto di senso del mondo si traduce per l’individuo in perdita dello strato assiologico delle cose, in indifferenza morale verso tutto e tutti. Si giunge al punto – diceva già Pessoa, il nichilista più radicale del Novecento letterario-filosofico – che “si uccidono le persone senza sapere perché si uccidono, senza pensare che si sta uccidendo”, a causa della perdita di attenzione al fatto che gli altri sono anime17. Che cosa può salvarci da questa noia che è male di vivere, stanchezza dell’anima, indifferenza verso tutto e tutti, verso il passato, il presente, il futuro, vero e proprio vuoto interiore? Non si tratta evidentemente della noia superficiale che avvertiamo quando delle cose ci danno, appunto, noia: la luce che dà fastidio, la musica che dà insofferenza, la conversazione che procura disinteresse; si tratta invece della noia che tocca e intacca la radice della nostra esistenza. Essa può nascere dal fatto che non diamo alla nostra vita una fede, dal fatto che perdiamo la volontà di rapportarci alla verità, dal fatto che non abbiamo ragioni per vivere18. Jankélévitch avverte che sono fonti di noia sia l’insensata inoperosità, sia il lavoro che assorbe tutta la nostra vita. L’una e l’altra esperienza tolgono all’anima il salutare respiro, le dànno tedio. Quando nel lavoro si consumano tutte le energie spirituali, in effetti, si può giungere ad uno 16 17 18
Sul tema della lentezza cfr. P. Sansot, op. cit., pp. 30-43; D. Demetrio, Filosofia del camminare, Cortina, Milano 2005. Sull’ozio nel mondo classico cfr. A. Dosi, Otium: il tempo libero dei romani, Quasar, Roma 2008. F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, trad. it. Feltrinelli, Milano 1986, p. 33. Ibidem, p.141.
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stato di prostrazione, di nausea per tutto ciò che ci circonda. Il lavoro è essenziale se è carico di senso, se è motivato da un fine per il quale valga la pena sopportarlo. Del pari è essenziale l’ozio quando si dà come necessario riposo dell’anima, raccoglimento interiore, intensa attenzione a profonde, esistenziali esigenze. Tuttavia, sottolinea Jankélévitch, il riposo può essere inquietudine: il riposo in cui ci si sente presi dal senso della vanità di ogni cosa e di ogni esperienza, in cui ci si trova immersi in un tempo stagnante, in-sensatamente immobile, privo di orientamento, tempo di torpore dell’anima che si ritrova avvolta “in una sorta di cotonosa imbottitura” (AES, 103). Il mondo perde il suo valore, è nulla. E per questo nulla che motiva l’apatia, l’indifferenza verso gli altri, l’individuo può sentirsi preso da volontà distruttrice o distruttiva. L’individuo che pensa di agire sul Nulla non pone remore alla tendenza a nientificare ciò a cui si rapporta. Nelle pagine di Jankélévitch possiamo dire perciò che riecheggi la sapienziale avvertenza dell’Ecclesiaste: “La fatica dell’uomo non sazia l’anima”. Il lavoro può, in effetti, essere tanto un bene quanto un male dell’anima. Ed è un male quando è ricerca soltanto del guadagno, della ricchezza, quando diventa fine a se stesso e non mezzo per l’affermazione della persona come soggetto morale. Tommaso Cajetano e Tolstoij dicevano che il lavoro può essere gioia dello spirito ma anche sua pena se inaridisce le fonti della spiritualità. Per altro, anche l’inerzia (l’assoluta, in-sensata inattività) “istupidisce e infetta lo spirito”19. In sostanza, come l’inattività si può tradurre in indigenza spirituale, in apatia, ignavia, tedio o noia profonda, così il lavoro può tradursi in torpidità d’animo, in esaurimento delle energie spirituali.
4. La ricerca jankélévitchiana sul senso e sul peso della noia esistenziale ci riporta alle verità dei Padri del deserto, dei cui scritti è stato un attento lettore20: per riconquistare la libertà di spirito è necessario fare esperienza del ritorno all’originario, della rinascita interiore. La semplice inerzia spirituale, la negligenza nell’operare il bene o nell’esercitare la virtù possono trasformarsi in ciò che i Padri del deserto definivano accidia o acedia, cioè
19 20
A. Verri, Dell’ozio in “Il Caffè” (1764-66), a cura di G. Francioni e S. Romagnoli, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pp. 288-91 (vol. I, XXVI, pp. 211-12 ). Cfr. I. de Montmollin, La philosophie de Vladimir Jankélévitch, PUF, Paris 2000, pp. 82-5.
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vivere nell’indifferenza per tutti gli esseri, non sentirne la cifra di valore. Da ciò deriva il taediun vitae, lo stato d’animo che si manifesta come profonda stanchezza di vivere. L’individuo patisce l’incapacità ad attivare un rapporto positivo con la natura e con gli altri: soffre, in sostanza, di cecità morale. La noia profonda è, perciò, condizione di affievolimento della sensibilità morale. Se la noia esistenziale è la prigionia nella abitudinarietà in cui lo spirito muore per esaurimento delle sue energie, è necessario allora uscirne attraverso l’impegnativa decisione a ricondursi al luogo o al momento dell’originario esperire se stessi e la realtà in cui si vive, affidandosi alla forza liberante dell’istante. Ciò è possibile perché la coscienza morale non ci è data dalla lettura delle opere dei grandi filosofi come Platone, Aristotele, Agostino, Kant, Husserl, ma perché proviamo il senso di colpa quando violiamo norme o valori che sappiamo essere giusti21. Peraltro, questo è l’ammonimento dei grandi moralisti e perfino del nichilista Pessoa, che definiva la noia esistenziale come “un tedio senza sonno e senza speranza”, in cui, tuttavia, può riattivarsi il desiderio di “essere nuovo ad ogni nuova alba”22. Gracián, parlando dell’aspirazione alla rinascita morale, scriveva: “Si cerchi di rinascere continuamente […] ci si impegni continuamente in imprese nuove […] risorgendo di frequente come fa il sole al mattino”23. Dunque l’uscita dalla quotidianità, cioè l’atto di volontà che determina la rigenerazione interiore, implica il ri-sentire il pungolo della tentazione, l’esperienza per la quale la scelta morale è purificazione dell’anima, riconquista della modalità d’esistenza come tatto nei rapporti con la natura e, soprattutto, con le persone, discrezione, misura, delicatezza; insomma, l’agire in tutte quelle modalità d’esistenza che, per dirla con Gracián, indicano il passaggio dalla malizia alla milizia morale. La noia perciò, diremmo sviluppando il pensiero di Jankélévitch, è la mancanza di tentazione, il non sentire il rischio della caduta morale, dunque, il vivere non nella tentazione ma nella stagnazione morale. Per uscire da questa penosa condizione è necessario che la conquista della virtù sia fatica d’ogni giorno, poiché il coraggio può scadere nella temerarietà o nella in-sensata bravata, la giustizia può scadere nell’insensibilità morale e perfino nella crudeltà, la sincerità può scadere nell’indifferenza per le altrui sofferenze, la parsimonia nell’esaltazione della egoistica intangibilità dei beni materiali. Una coscienza scrupolosa, invece, sottoli21 22 23
L. Kolakowski, Breviario minimo, trad. it. il Mulino, Bologna 2000, p. 140. F. Pessoa, op. cit., p. 72. B. Gracián, op. cit., p. 70.
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nea Jankélévitch, non ha mai la possibilità di annoiarsi, di sentire il tempo vissuto come tempo interminabile, fermo. La vita interiore tanto più è profonda tanto meno sprofonda nella noia. Come uscire, in definitiva, dall’esperienza della noia profonda, superare la fiacchezza interiore, risentire l’obbligatorietà dei valori? Intanto, afferma Jankélévitch, prendendo atto del senso o non senso che si manifesta profondamente nel vissuto dell’essere annoiato: “La noia è il disseccamento del valore. La sorgente delle valutazioni che zampillava in noi si è prosciugata, il mondo non ha più rilievo, né spessore, né prospettiva”. Non a caso la noia si contrappone al rimorso, un avvenimento morale che, “implicando la disperazione dell’aver fatto, implica una gerarchia dei valori e dei giudizi di valore e un ordine dei doveri” (AES, 109). Nella noia si spengono la moralità e la passione per la verità, l’ardore spirituale. Dunque, secondo il filosofo, bisogna prendere atto del fatto che “è dall’egoismo che viene la noia e [che] la causa fondamentale dell’egoismo è l’aridità” (AES, 146). L’uscita dalla noia profonda ridona così al mondo il carattere assiologico che gli è proprio, la sua cifra di senso; e ridona senso all’esistenza sollecitando l’individuo a forgiare moralmente se stesso nel perseguimento di un av-venire ricco di idealità. E ciò in forza dell’atto di volontà che consente il superamento dell’affievolimento morale, dell’abulia, dell’indolenza, dell’apatia. Con l’atto di volontà, cioè con l’istante che interrompe l’abitudine, si risveglia in noi il desiderio di darci, come diceva Martinetti, “un’unità di direzione”, di imporre alla nostra vita” un fine ed una legge, un punto di riferimento valoriale”24.
Conclusione L’individuo è indotto dalla società postmoderna al culto dell’esclusivo benessere materiale, dell’erranza morale vissuta nella convinzione dell’impossibilità di porsi in rapporto con la verità – salvo quella per la quale si ritiene che la nostra identità sia radicata nelle nostre basi biologiche, anziché nella nostra fioritura personale25. Il culto dell’esistente corrode il sentimento che ci lega alle verità fondamentali, porta alla caduta nelle abitudini che ci svuotano del bene che ci può riempire l’animo di ciò che rende davvero
24 25
Cfr. P. Martinetti, L’educazione della volontà, Ed. Clandestine, Marina di Massa 2006, p. 34. R. De Monticelli – C. Conni, Ontologia del nuovo. La rivoluzione fenomenologica e la ricerca oggi, B. Mondadori, Milano 2008, p. 10.
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piena la nostra esistenza. La noia, quindi, se seguiamo il percorso filosofico jankélévitchiano, è la distrazione dalle esigenze profonde della nostra vita interiore, che esige tensione verso il futuro, quiete ma non rilassamento, solitudine ma non isolamento, non indugio soverchio né irrequieto procedere, non la frettolosa premura che Gracián definiva “la passione degli sciocchi perché non distingue i pericoli né agisce con precauzione”26. Si può dire che la noia è uno stare presso di sé soltanto apparente, giacché è un sostanziale allontanarsi da sé, un vivere di pretesti e frivolezze, un non aversi a cuore, un perdere il senso del mistero che ci circonda. Perciò Jankélévitch invita alla platonica epimeleia (Timeo, 47b), cioè alla cura dell’anima, all’attendere alle esigenze dello spirito, al ridestare la sollecitudine per il senso valoriale dell’esistenza per cui vale la pena (se la vita è pena) di vivere. In sostanza uscire dalla noia è uscire dall’esperienza del nichilismo, se per nichilismo s’intende la perdita di energia spirituale, lo spaesamento morale, l’esaltazione dell’effimero, delle apparenze. Peraltro la concreta possibilità della coscienza desta (felice espressione di Husserl) porta a considerare l’esperienza della noia come esperienza necessariamente provvisoria per quanto profonda sia: il nichilismo, di cui è affetto l’uomo contemporaneo, non è un destino ma una caduta da cui ci si può riprendere poiché l’individuo (ce lo ricorda Bachelard) vive la sua essenziale condizione come aspirazione alla verticalità, cioè ad uno stato esistenziale in cui si è affettivamente ricchi, motivati da fini moralmente alti. L’importante quanto attuale avviso di Jankélévitch è che la pratica del filosofare, inteso non solo come pensare ma anche come meditare, ci libera dal nichilismo, proprio di tanti percorsi del pensiero contemporaneo, se ci sollecita ad evitare di perderci nella ricerca del futile e a riattivare il desiderio di fare cose moralmente buone, poiché se c’è il desiderio di farle, si sa come farle27. Detto altrimenti: se ci si rende avvertiti che il problema è quello di riattivare il desiderio del bene che nel quotidiano vivere tende a spegnersi – nella cenere della quotidianità resta sempre qualche piccola brace del fuoco della virtuosità. Dal tedio può rinascere l’operosità, dalla viltà può rinascere il coraggio. Il vizio non è, per usare un termine del dizionario machiavelliano, necessitata condizione del vivere. Ciò che è ineliminabile non è il vizio, ma la tentazione del vizio (per Jankélévitch essenziale all’esperienza morale) che esige la lotta interiore per la quale il cedere alla malevolenza è possibile, non più che l’incedere verso la benevolenza.
26 27
B. Gracián, op. cit., p. 56. Ph. Foot, Virtù e vizi, trad. it. il Mulino, Bologna 2008, pp. 9-10.
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L’annoiato non ha avvenire né ideali, si sente consumato dal tempo. L’esperienza della noia si dà, dunque, come ristagno della vita interiore, irretimento nelle convenzioni o abitudini che anestetizzano il senso morale. La noia perciò è distrazione da sé – tutt’altro che tempo di conoscenza di se stessi e degli altri28. Dell’incantamento e incatenamento (i termini sono di Heidegger), di cui si fa esperienza nel tempo della noia, ci si può liberare in quanto l’esistenza è anche possibilità dell’incanto dell’istante, della tensione al mutamento, del desiderio di volgersi verso il fine che dona senso alla fatica del vivere moralmente, dell’entusiasmo per la vita buona, dell’ardore e dell’ardire tesi agli orizzonti che elevano il senso della realtà da semplice datum ad arricchente donum. Peraltro, se si riflette al senso che Jankélévitch attribuisce alla noia profonda, cioè al fatto che tutto perde senso e interesse per l’individuo che esperisce il vuoto dentro di sé e fuori di sé, viene ad evidenza che la noia è sostanzialmente mancanza di attenzione: è un vivere nel presente, ma non il presente; è un vivere il tempo della presenza nella dis-attenzione: l’individuo si volge al proprio passato senza sentire l’esigenza di oltrepassarlo. La noia profonda è una situazione esistenzialmente insostenibile. L’inerzia spirituale impone all’individuo, ad un certo punto, il pungolo di un nuovo slancio interiore. Se l’esistenza morale è, come indica Jankélévitch, fondamentalmente tensione tra il vizio e la virtù, tra l’istante e la durata, tra l’abitudine e il rinnovamento interiore, l’umana esperienza non può risolversi nel vuoto di senso, di speranza, di attesa, di attenzione. La noia profonda è non la morte dell’anima, ma il morire dell’anima, cioè l’esperienza dell’affievolimento (non del totale, definitivo annichilimento) dell’energia prodotta dal raccoglimento interiore. La morte morale dell’anima è insostenibile, insopportabile in quanto definitiva modalità di vita. Jankélévitch è il filosofo che guarda alla umana esistenza come alla condizione in cui l’insidia del non-senso può essere vinta, il progetto di vita può, se perso, essere ritrovato e rinnovato. E tutto ciò perché Jankélévitch è il filosofo che ci ridona la fede nella verità, la fiducia nella capacità dell’uomo di riscoprire i valori che riempiono la vita di senso. La noia profonda è certamente un rischio: ci prende, ci avvolge, ci riduce al lato oscuro o notturno del nostro vivere in cui il Tutto si riduce al Nulla. Ma da questa condizione costringente e costrittiva ci si può liberare: il messaggio che ci ha lasciato Jankélévitch è ricco di speranza poiché si fonda sulla fiducia nella capacità degli individui di curare il proprio malessere spirituale prendendosi cura
28
Di diverso e contrario avviso è Lars Fr. Svenden, op. cit., p. 147.
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Antonio Delogu - La noia, in Vladimir Jankélévitch
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della dimensione spirituale della propria esistenza – la sola che veramente conta e di cui si deve dar conto. Se la durata è l’arresto del tempo come esaurirsi dell’energia spirituale, l’istante è l’esperienza del ritrovare il proprio dinamismo morale. La noia profonda è la dispersione di sé, la sospensione di se stessi sul Nulla. Da questa esperienza di vertigine paralizzante, si può uscire, ma con fatica e pena. Se la noia profonda è la caduta nell’ombra della durata, anch’essa, come ogni ombra, rimanda alla luce a cui ogni individuo può guardare con la fiducia di poter vedere la cifra valoriale delle cose. La durata umilia, l’istante eleva. Il quasi niente che è l’istante consente all’individuo di abbandonare l’arido deserto della noia profonda per protendersi verso il futuro come av-venire aperto alla speranza di potersi affidare ad un saldo e moralmente salvifico punto di riferimento.
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Abstracts
La noia profonda dell’individuo contemporaneo è – dice Jankélévitch – inerzia spirituale, stato d’animo che trasforma il raccoglimento interiore in inettitudine, il sentirsi persona in sentirsi cosa, la tensione alla verità in sospensione sul Nulla. La noia profonda è perdita o affievolimento della sensibilità morale. Se la noia esistenziale è la prigionia nella abitudinarietà in cui lo spirito si perde per esaurimento delle sue energie, è necessario uscire da questa condizione di prigionia attraverso l’impegnativa decisione di ricondursi al momento dell’originario esperire se stessi e la realtà in cui si vive. L’uscita dalla noia riattiva la sensibilità morale, ridona al nostro stile di vita carattere assiologico, cioè la possibilità di una rinnovata rinascita spirituale. L’ennui profond de l’individu contemporain est – selon Jankélévitch – inertie spirituelle, état d’âme qui transforme le recueillement intérieur en inaptitude, le sentiment d’être une personne en sentiment d’être une chose, la tension vers la vérité en suspension au-dessus du Néant. L’ennui profond est perte ou affaiblissement de la sensibilité morale. Si l’ennui existentiel correspond à l’enfermement dans une quotidienneté où l’esprit se perd par épuisement de ses énergies, il est nécessaire de sortir de cette condition d’enfermement en décidant résolument de retourner au moment de l’expérience originaire de soi-même et de la réalité dans laquelle on vit. La sortie de l’ennui réactive la sensibilité morale, redonne à notre style de vie un caractère axiologique, c’est-à-dire la possibilité d’une nouvelle renaissance spirituelle. The profound boredom of the contemporary individual is – says Jankélévitch – spiritual inertia, an emotional state that transforms internal thought into ineptitude, the feeling a person into feeling a thing, the tension to the truth into suspension on nothing. Profound boredom is the loss or reduction of moral sensibility. If existential boredom is the prison within habitualness in which the spirit loses itself due to the finishing of its energies, it is therefore necessary to leave this condition of imprisonment through the decision to go back to the moment of the original accomplishment and the reality in which it is lived. Leaving boredom reactivates moral sensitivity, returning to our lifestyle an axiological nature, namely the possibility of a renewed, spiritual rebirth.
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DAVIDE TARIZZO
Volontà di mentire – su Vladimir Jankélévitch
Comincerò con quella che mi sembra una semplice constatazione: il problema della menzogna è uno dei problemi chiave del mondo in cui viviamo. Più precisamente, il problema è quello dei rapporti tra la politica e la menzogna, o di una politica che tende ad elevare sempre più e a rendere quasi illimitato, assoluto, il potere della menzogna. Uno dei meriti di Jankélévitch è stato quello di aver riportato l’attenzione su questo vizio – il vizio squisitamente umano, e di conseguenza politico, della menzogna. Non è stato il solo filosofo a farlo: citerò subito altri nomi. Tuttavia, l’insistenza di Jankélévitch su questo tema è più forte, mi sembra, che in qualsiasi altro filosofo del Novecento. Ciò detto, Jankélévitch è tenuto oggi ai margini del discorso filosofico: nessuno ne parla, o sono davvero in pochi a parlarne. Jankélévitch pare insomma un pensatore del passato, ormai inattuale. Non solo, ma nei suoi testi sembra che risuoni persino un’ironica rivendicazione di questa inattualità. Facciamo un esempio. Derrida ha pubblicato nel 1997 un saggio intitolato History of the Lie: Prolegomena. Il nome di Jankélévitch non è menzionato neppure una volta. Derrida cita Platone, Agostino, Kant, Nietzsche, Koyré, Schürmann, Arendt, ma non fa un solo cenno al saggio di Jankélévitch Sulla menzogna o a Il non-so-che e il quasi-niente, in cui il tema è ripreso e sviluppato. Questo per quanto riguarda l’inattualità di Jankélévitch nel panorama attuale della filosofia. Per quanto riguarda invece la rivendicazione di questa inattualità, pensiamo a una frase come la seguente: “Fanfarone, e per di più poltrone, chi si attarda nelle introduzioni e si eternizza nelle prefazioni” (JQPR, 322). Siamo nel 1957 e questo passo non può certo riferirsi a Derrida. Ma come non pensare a Derrida, leggendolo? Chi ha un minimo di dimestichezza coi testi derridiani degli ultimi vent’anni non può evitare di pensarci. History of the Lie, ad esempio, comincia così: “Prima ancora di cominciare, prima ancora di una prefazione o di un’epigrafe, lasciatemi fare due confessioni…”. Non è questo un caso unico: è questa, al contrario, la cifra stilistica di quasi tutti gli incipit derridiani, la cifra sintomatica del problema che arrovella Derrida a partire dagli
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
anni ottanta. Il problema in questione, parlo del problema di Derrida, è appunto il problema dell’inizio, del cominciamento, vale a dire il problema della libertà, come lo stesso Jankélévitch ci spiega con chiarezza: “«Cominciare è una grande parola», scrive Jules Lequier. Bastava forse dire che la libertà stessa, in se stessa e quanto a se stessa, libertas ipsa, l’ipseità della libertà, insomma, coincide con il potere di cominciare” (JQPR, 309). Tuttavia, se il problema di Derrida e il problema di Jankélévitch si rivelano identici, confluendo entrambi nel problema della libertà, il fossato tra i due pare comunque incolmabile. Non c’è abbastanza tempo per scendere nei dettagli (anche se il problema del tempo e dell’istante è un altro punto di tangenza tra Derrida e Jankélévitch, che andrebbe approfondito, sia in relazione al problema della libertà, sia in relazione a Kant, dalla cui filosofia tutti questi problemi si sprigionano, passando poi in Lequier, Renouvier, Bergson, per citare solo tre nomi di una lunga tradizione di pensiero francese di cui Jankélévitch non è l’ultimo esponente). Limitiamoci invece a compiere un primo parallelo grossolano, da prendere sin d’ora con le molle: quella di Derrida si delinea come una filosofia della libertà o della decisione basata sul soggiorno, sulla dimora della nostra decisione nell’aporia (dimora, decisione, aporia sono altrettante parole chiave dell’ultima filosofia di Derrida), mentre quella di Jankélévitch si delinea come una filosofia della libertà basata su una metafisica della volontà che, pur consapevole delle aporie in cui la decisione incappa, è capace ogni volta di compiere un salto al di là, “infischiandosene delle aporie” (JQPR, 335). Qual è allora il limite tra la filosofia di Derrida e la filosofia di Jankélévitch? Se diamo retta a Heidegger, secondo il quale l’epoca della metafisica compiuta è l’epoca della “volontà di volontà”, e se ripensiamo al titolo dell’ultimo capitolo de Il non-so-che e il quasi-niente, “La volontà di volere”, il limite appare chiaro: Jankélévitch si muoverebbe ancora in un orizzonte metafisico (la metafisica della volontà di volontà) da cui si tratterebbe invece di prendere congedo. In altre parole, laddove Jankélévitch pensa ancora la libertà in termini di volontà e di coscienza – giacché “alla volontà è connessa la coscienza” come dice Heidegger1 e dunque la metafisica della volontà è una metafisica della coscienza o degli “esponenti di coscienza” come dice Jankélévitch –, Derrida (e molti altri assieme a lui) tentano oggi di pensare la libertà altrimenti, tentano di pensarla al di fuori e a prescindere da ogni riferimento alla volontà e alla coscienza. Ma è così chiaro e netto il confine tra le due posizioni: tra l’inattualità di Jankélévitch e l’attualità di Derrida? Anticipando subito una risposta che riuscirò qui ad argomentare solo in 1
M. Heidegger, Saggi e discorsi (1954), trad. it.Mursia, Milano 1980, p. 58.
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Davide Tarizzo - Volontà di mentire – su Vladimir Jankélévitch
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parte, mi sembra che l’inattualità o il limite della metafisica di Jankélévitch porti allo scoperto il limite dell’attuale riflessione filosofica sulla libertà: in altri termini, non basta uscire da una metafisica della coscienza per uscire anche da una metafisica della volontà (come Heidegger e Derrida sembrano pensare, anche se da prospettive in parte divergenti). Un modo di provarlo è quello di riflettere sulla menzogna, o meglio sulla volontà di mentire. Secondo Jankélévitch non si può mentire senza avere l’intenzione o la volontà di farlo. Ciò che distingue l’errore dalla menzogna è appunto questo: errore è semplicemente dire il falso, mentre menzogna è voler-dire il falso. Dunque, “non si mente mai senza volerlo” (PhM, 217). È quella che già Agostino chiamava la voluntas fallendi. La volontà di mentire crea, produce e definisce la menzogna. E questa volontà è l’indice della nostra più intima e profonda libertà. Infatti, se la libertà è libera volontà (liberum arbitrium) e questa volontà libera è il segreto dell’individuo, della sua stessa individualità, se l’individuo è definito insomma dall’intenzione che si nasconde dietro le sue parole e i suoi comportamenti, un’intenzione che solo lui conosce (come spiega a lungo Arendt in La vita della mente), allora la menzogna è sempre possibile, poiché l’intenzione con cui io dico certe parole o compio certe azioni è e resta qualcosa di assolutamente privato, che soltanto io posso vedere. Non solo, ma la possibilità di mentire, o il “potere di mentire”, diventa l’indice della libertà stessa dell’individuo, o dell’assoluta intimità e inviolabilità della volontà libera e segreta dell’individuo, volontà che tanto più è libera quanto più è segreta. In sostanza, se il linguaggio è la “casa dell’essere”, la menzogna è la “casa della libertà”. Derrida non dice nulla di diverso, ma trae da tutto questo un’ulteriore conseguenza, ossia che è impossibile mentire a se stessi. “Mentire significa sempre ingannare l’altro intenzionalmente e consciamente, ben sapendo che cosa si sta deliberatamente nascondendo, e dunque senza mentire a se stessi”.2 Jankélévitch è meno categorico in proposito: se da un lato la forza logica del ragionamento lo induce a trarre la stessa conclusione, per cui è impossibile mentire a se stessi (poiché, se mi mentissi, non saprei che sto mentendo e dunque nemmeno mentirei), dall’altro egli parla anche di una menzogna tanto abituale da diventare una seconda natura, trasformando “l’io in un fantasma” (PhM, 230). Ed è significativo che egli esprima questa ipotesi in un testo che porta una precisa data (la data è un altro tema comune a Derrida e Jankélévitch) vale a dire il 1942. Sullo sfondo della stessa tra2
J. Derrida, Storia della menzogna: prolegomeni (1997), trad. it. in S. Forti (a cura di), La filosofia di fronte all’estremo. Totalitarismo e riflessione filosofica, Einaudi, Torino 2004, p. 228.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
gedia storica Arendt parlerà poi di “menzogna assoluta” della politica contemporanea, che si trasforma in auto-inganno (Verità e politica). Nel 1942, quindi, Jankélévitch lascia aperta la porta alla possibilità dell’auto-inganno; mentre in seguito un’ombra sembra calare sul problema, un’ombra gettata dalla convinzione perfettamente logica che la volontà di mentire, una volontà sempre cosciente di se stessa, definisca la menzogna. Perché in ciò si può scorgere un limite, se non il limite, della sua filosofia? Innanzitutto, intendiamoci sul senso della parola limite (altro tema capitale delle riflessioni di Jankélévitch e Derrida). Limite non va inteso qui come difetto, ma come bordo di un discorso, quel bordo che il discorso non include in sé, ma su cui si affaccia, venendone di continuo lavorato, plasmato, rimodellato. Per quale motivo allora la volontà di mentire può essere vista come il limite della metafisica della volontà di Jankélévitch? Per un motivo in fondo semplice, ossia perché la volontà, nell’accezione assai complessa che Jankélévitch attribuisce a simile concetto, non può mentire. La volontà, se davvero vuole o vuole volere, nell’istante libero della decisione, non può decidersi per la menzogna, ma solo per la sincerità. Ed è questo il valore sacrosanto della volontà, vale a dire della libertà (che è concepita chiaramente da Jankélévitch in termini di libera volontà) cui sono dedicate le ultime pagine de Il non-so-che e il quasi-niente. Non posso dilungarmi a provarlo come si deve, testi alla mano. Diciamo che questa ipotesi interpretativa potrebbe dare spunto a una ricerca ulteriore. E diciamo che essa se non altro spiega perché Jankélévitch si accanisca tanto sul problema della menzogna – concetto che per lui sfuma, come noto, in quello di malinteso. Vorrei solo citare un breve passo, che acquista in questa luce un valore quasi sintomatico: Cos’è questo potere di mentire impunemente, a volontà, all’infinito, potere essenzialmente eludibile, a confronto con l’invincibile potere di volere? Mentre la menzogna è propria dell’untuosa clandestinità della coscienza, che è un potere di sdoppiamento variamente agile a seconda degli uomini, il potere di volere è letteralmente uniforme e sempre perfetto in tutti (JQPR, 333-34).
Questo brano andrebbe analizzato parola per parola. Ma limitiamoci a porne in luce un solo aspetto: Jankélévitch oppone il “potere di mentire” al “potere di volere”, come se si trattasse di potenze contrapposte. Ora, se è vero che non si mente mai senza volerlo, questa contrapposizione non dovrebbe prodursi: se la menzogna è un voler-dire il falso, il potere di mentire è sempre interno al potere di volere. Mentre in questo passo Jankélévitch sembra distinguere due poteri eterogenei: il potere della menzogna e il potere della volontà, col suo valore meta-empirico e metafisico, sacrosanto,
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Davide Tarizzo - Volontà di mentire – su Vladimir Jankélévitch
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di libertà dell’uomo. Quali sono le ragioni di questa contraddizione o di questo limite del discorso di Jankélévitch? La prima, sulla quale non mi soffermerò, è che la volontà (la “volontà di volere”) assume nella sua filosofia il significato di bene: la volontà di volere è il bene, perché il bene è la libertà. E se la libertà, intesa come libera volontà di volere, scintilla voluntatis, è il bene, la menzogna, vale a dire il male, non può rientrare nella più pura determinazione della volontà. (Sono le stesse identiche aporie che si scatenano nel discorso kantiano sulla menzogna, che muove da presupposti metafisici analoghi: la volontà pura è legge morale…). Ciò spiega la singolare sfumatura semantica che assume la locuzione bien vouloir nei testi di Jankélévitch, in cui essa sembra significare sia volere bene (così come si dice agire bene, comportarsi bene) sia volere tout court (in francese si dice ad esempio: “je veux bien…”, espressione che semplicemente rafforza il voglio…). Eccone un esempio: “Dans le mal la cause fondamentale de la mauvaise volonté, c’est qu’on veut mal. Pour vouloir, il faut le vouloir et pour le vouloir, mon Dieu, il n’y a qu’un remède, c’est de bien vouloir” (PhM, 154). (Questo passo è letteralmente intraducibile e Jankélévitch gioca con questa intraducibilità, col carattere idiomatico della lingua francese, così come ci giocherà qualche anno dopo Derrida.) La seconda ragione è che Jankélévitch, sebbene non lo dica più espressamente (a mia conoscenza), non esclude comunque mai, neppure dopo il 1942, che si possa mentire a se stessi. (Per rispetto dell’evidenza, potremmo dire, o per le bruciature di una storia e di una politica, quelle francesi, che all’epoca non vogliono fare i conti con se stesse: Vichy, la questione algerina...). In particolare, è là dove parla del “desiderio” che Jankélévitch sembra veder riemergere la possibilità o il potere di mentire a se stessi; là dove egli parla di quella “vertigine passionale” che ci rende tutti, prima o poi, “testimoni sinceri” del falso (JQPR, 234 ss.). Ora, perché la possibilità o il potere di mentire a se stessi produce una disgiunzione tra il mentire e il voler-mentire? Perché non si può volere mentire a se stessi. Ed è appunto per questo che il potere di mentire e il potere di volere non incarnano lo stesso potere. Cosa potrebbe significare: voglio mentire a me stesso? Se mento a me stesso, non posso volerlo, perché non posso sapere che sto mentendo a me stesso. Dunque, non si può voler-mentire a se stessi. Ma si può ancora parlare di menzogna allora? Derrida, come abbiamo visto, pensa di no e sostiene che il concetto di autoinganno debba essere sostituito con altri, con quello di “ideologia” ad esempio, oppure – come i suoi riferimenti a Freud lasciano intendere – con quello di sintomo. In ogni caso, argomenta Derrida, il fenomeno dell’“auto-inganno” non può essere descritto in questi termini, come un auto-inganno appunto o come una menzogna a
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
se stessi, perché non ci può essere in questo caso volontà di mentire, ragion per cui non si può parlare di menzogna in senso stretto. La mia ultima domanda è: le cose stanno proprio così? O il limite del discorso di Jankélévitch lascia intravedere un limite nel discorso dello stesso Derrida? L’impasse del mentire a se stessi, che delimita la metafisica della volontà e della coscienza di Jankélévitch, non delimita anche il discorso di Derrida? In altre parole, è proprio vero che non posso voler mentire a me stesso, che non c’è più traccia di “volontà” in questo fenomeno, e che di conseguenza tutto ciò apre la porta ad altri concetti, a una diversa metafisica o topica dell’ipseità, che si lascia alle spalle la vituperata metafisica e topica della volontà? Pensiamo a un sintomo qualsiasi, a un sintomo DOC (disturbo ossessivo-compulsivo): prima di uscire di casa controllo per tre volte se ho chiuso il rubinetto del gas. Non si tratta certo di un errore, non mi sto sbagliando; e se qualcuno, ridendo, mi fa notare che è la terza volta che ripeto la stessa operazione, questo non mi aiuterà a non compierla una quarta o a non riprodurre un sintomo analogo dopo soli cinque minuti, magari con la portiera dell’automobile, controllando ripetute volte se l’ho davvero chiusa a chiave. In poche parole, nel distubo ossessivo-compulsivo si esprime una certa volontà, una certa intenzione, che pur non essendo conscia è mia. È quello che Freud chiama Wunsch, e Lacan chiama désir. La domanda allora è la seguente: fino a che punto possiamo negare che questo “desiderio” inconscio corrisponde a una qualche forma di “volontà”? In che misura la volontà DOC può essere distinta e separata dalla volontà tout court? E in che misura, dunque, posso evitare di concludere che il sintomo è, a tutti gli effetti, una menzogna a se stessi, un voler-mentire a se stessi? Inutile dire che tutto ciò riapre la partita della menzogna, e riapre soprattutto la partita di quella che Heidegger definisce la metafisica della volontà. Se il desiderio inconscio – al contrario di quanto pensano Derrida e Jankélévitch, mano nella mano – è pur sempre un’espressione della mia volontà, è cioè una forma o una variante del concetto (metafisico) di volontà, in che misura il richiamo a Freud ci può fare uscire dall’orizzonte di una metafisica della volontà? Qualcuno, qualcuno in cui Hegel scorgeva il padre della filosofia moderna e in cui Lacan scorgeva il nonno della psicoanalisi, ha definito la passione del desiderio come “la volontà di ottenere qualche bene e fuggire qualche male”, precisando che “le passioni non ci possono indurre ad alcuna azione se non per mezzo del desiderio che esse eccitano”, per cui “dobbiamo avere cura particolarmente di regolare tale desiderio”, perché proprio “in questo consiste la principale utilità del-
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Davide Tarizzo - Volontà di mentire – su Vladimir Jankélévitch
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la morale”.3 Non c’è qui intervallo tra la volontà e il desiderio, che sono la stessa cosa (il desiderio è solo una volontà appassionata); così come non c’è intervallo tra una metafisica della volontà (della coscienza) e una metafisica del desiderio (dell’inconscio); così come non c’è intervallo, a conti fatti, tra Cartesio, Jankélévitch e Derrida. In tutti questi casi, la nostra libertà non si è ancora liberata di qualcosa: della nostra volontà. Ma noi vogliamo essere liberi, o semplicemente noi siamo liberi? E saremo mai realmente liberi, se siamo condannati a volerlo eternamente (a “volere di volere”, secondo Jankélévitch, in una logica anti-aporetica della volontà conscia; a “decidere di decidere”, secondo Derrida, in una logica aporetica del desiderio inconscio)? O tutto questo è viceversa il sintomo di qualcosa che non riusciamo ancora a scorgere: un sintomo, vale a dire una menzogna che continuiamo a raccontarci, una menzogna che ci impedisce di cogliere l’attualità di Jankélévitch nel cuore della nostra inattualità?
3
R. Descartes, Le passioni dell’anima (1649), trad. it. in Id., Opere filosofiche, Utet, Torino 1969, pp. 755, 773 (articoli 106, 144).
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Abstracts
La questione della menzogna è al cuore della filosofia di Jankélévitch, esattamente come è al cuore di quella di Derrida. Si tratta dunque di riprenderla, per verificare l’attualità di una filosofia, quella di Jankélévtich, che ci ha fornito le coordinate del nostro tempo. Il potere di mentire non è identico al potere di volere, ci diceva Jankélévitch, ma si può mentire a se stessi? La risposta di Derrida è negativa. E tuttavia, proprio attorno a tale questione si vedono sorgere i limiti di una filosofia, la nostra, che non arriva a superare i vecchi dilemmi metafisici della volontà. La question du mensonge est au cœur de la philosophie de Jankélévitch, tout comme elle est au cœur de la philosophie de Derrida. Il s’agit alors de la reprendre afin de vérifier l’actualité d’une philosophie, celle de Jankélévitch, qui nous avait déjà donné les coordonnées de notre temps. Le pouvoir de mentir n’est pas identique au pouvoir de vouloir, nous disait Jankélévitch, mais est-ce qu’on peut se mentir à soi-même? La réponse de Derrida est négative. Cependant, c’est autour de cette question qu’on voit surgir les limites d’une philosophie, la nôtre, qui n’arrive pas à dépasser le vieux dilemmes métaphysiques de la volonté. The lie is a main topic of Jankélévitch’s philosophy, as well as it is a main topic of Derrida’s. From this point of view we can see that Jankélévitch was trying to answer to many of the questions which are still debated nowadays. The power of lying is far from being identical to the power of willing, told us Jankélévitch. But what about the power of lying to oneself? Is it really possible? Derrida’s aswer was negative. Nonetheless, here is where we can feel the limits of a philosophy, I mean our philosophy, that is still unfit to overtake the old metaphysical dilemmas of the Will.
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MICAELA LATINI
L’avant-dernier mot Notes sur Bloch et Jankélévitch à propos de “penser la mort”
C’est dans une de ses analyses les plus suggestives du concept de mort que Lévinas suggère une comparaison entre la pensée de Bloch et celle de Jankélévitch. Et cela, comme l’on sait, bien que Jankélevitch, à l’exception de Schelling, n’ait jamais eu d’intérêt particulier pour la culture allemande et ses auteurs. Le point de départ de ces pages très denses, qu’on lit dans Dieu, la mort et le temps (1993)1, est la relation entre le thème de la mort et le projet que Bloch considère, à l’instar de Jankélevitch, comme la tâche irréalisable à laquelle, pourtant, on ne peut renoncer.
1. Le désir et la mort chez Ernst Bloch À la différence de Jankélevitch, qui a dédié à la question de la mort une grande partie de son œuvre, Bloch n’a jamais abordé cette problématique de façon systématique. Cependant, on perçoit dans sa philosophie une sorte de motif de deuil, qui résonne avec insistance dans une tonalité indiscutablement thanatologique. Il s’agit du thème de l’opacité du moment vécu, l’obscur du moment vécu. Comme Bloch ne cesse jamais de le répéter, l’existence n’est pas transparente mais voilée et obscure. En tant que telle, elle nous empêche de la saisir dans sa totalité et de comprendre définitivement quel est son sens. L’opacité est précisément ce “quelque chose” d’ineffable qui se niche dans notre vécu, et qui, d’une certaine manière, nous rend étranger ce qui est familier. Devant chaque effort qui nous est demandé pour comprendre notre expérience jusqu’au bout, on se rend compte que “quelque chose manque [etwas fehlt]”. C’est l’attente d’un “pas encore” qui est déjà tendanciellement présent dans “l’être-là”, mais qui ne se manifeste pas. Cependant ce manque, au lieu de se donner comme simple absence, fermente sous le surface du vécu, en nous faisant remarquer son 1
E. Lévinas, Dieu, la Mort et le Temps, Grasset et Fasquelle, Paris 1993, pp. 107-121.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
altérité impénétrable. Ce noyau d’ombre qui persiste dans la présence nous empêche d’achever notre œuvre une fois pour toutes, de vivre notre vie d’une manière totalisante, entièrement. Toutefois, ce noyau obscur dans l’existence transparente n’est pas paralysant. Au contraire, il transforme, en conséquence, toute recherche de sens en une tâche infinie qu’il faudra de nouveau recommencer. Le sujet blochien, qui tend vers une totalité ineffable, impossible à atteindre, est contraint à habiter l’inachèvement de l’existence et de l’expérience. Cette obscurité sans rédemption représente toutefois moins un point d’arrêt incontournable que la condition interne de toute expérience possible. L’opacité se révèle alors comme un surplus qui fermente, comme un excédent du désir, soit un processus qui annonce la nouveauté. Aussi s’agit-il d’une tension, d’une puissance dont la finalité est le dépassement de ce manque. Elle est une ombre d’altérité dans l’identique: elle se révèle, d’une part, comme “opacité de la vie présente [enges Dunkel des gegenwärtigen Lebens]”, de l’autre, comme ouverture vers le futur, comme anticipation utopique. Dans ce dernier sens, Bloch parle d’une “modalité auratique de l’obscur [auratische Art des Dunkels]”: la présence persistante de l’opacité dans chaque pensée est l’impulsion qui déclenche le processus de notre compréhension, tout en stimulant l’émergence de ce qui était oublié2. Bloch reconnaît dans l’aspiration vaine à une vérité impossible à atteindre le fil qui serre les franges du tissu déchiré de l’existence humaine. C’est dans les traces latentes constellant notre vie qu’un élan propulseur se cache, prêt à se développer: il est la convoitise du mieux, la tension vers le novum. Autrement dit, selon Bloch, c’est grâce à son opacité constitutive que l’instant vécu pousse l’homme vers un éclaircissement à la fois impossible et inéluctable. C’est une opacité indéterminée et fuyante qui nous force à revenir continûment sur le donné et à nous laisser surprendre par sa force. Il s’agit de faire remonter la contingence vers sa condition intérieure qui, tout en étant dans le conditionné, ne s’épuise pas en celui-ci, mais présente toujours un écart, un excédent. Ce “reste” représente également une mine de possibilités nouvelles: c’est à cette source qu’il faut puiser les matériaux nécessaires à la construction du futur, dans l’effort de donner une forme et une figure à nous-mêmes et à notre monde, tout en étant conscients, dans le même temps, de “ne pas pouvoir terminer”. C’est en ces termes que Bloch réfléchit sur la question de la praxis humaine: la “tâche” de l’homme est la recherche d’un sens voilé qu’on ne 2
Je renvoie tout particulièrement à l’étude de A. Münster, Ernst Bloch. Messianisme et utopie, PUF, Paris 1989.
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Micaela Latini - L’avant-dernier mot
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peut pas esquiver. L’enjeu de cette recherche est la production d’un sens: quelque chose qui échappe à la définition totalisante et qui, pourtant, pousse l’homme à transformer activement sa vie ainsi qu’à éclaircir et à définir son Moi. Si la dimension d’opacité de l’instant vécu représente un défi constant pour l’espérance, il est tout aussi vrai que le combat le plus difficile de l’espérance est celui que l’on mène contre la mort: soit la lutte contre l’oubli, contre l’obscurité éternelle. Face à l’“anti-utopie” par excellence, la plus puissante, face à cet échec ultime et incontournable, on ne peut pas ne pas avoir peur. C’est ce que dans les pages de Dieu, la mort et le temps Lévinas appelle “la mélancolie de l’inachèvement”3. Comme Lévinas le remarque fort justement, selon Bloch “il y a un échec dans toute vie, et la mélancolie de cet échec est sa façon de se tenir dans l’être inachevé”4, dans l’opacité féconde qui imprègne toute facticité. Cela veut dire qu’on ne fait l’expérience de l’opacité, et donc de la mort, que dans la quotidienneté. Et que l’angoisse vient de la peur de mourir sans avoir accompli, achevé son œuvre et son être. Dans Le principe espérance, on peut lire: “Chez l’artiste, l’angoisse la plus forte est celle de ne pouvoir mener à bien son œuvre. La mort anéantit non seulement l’homme tout entier, mais elle atteint une cible plus précise en lui ôtant le crayon de la main”5. L’échec que personne ne peut éviter consiste en cela: à ne pas réussir à donner une forme définitive à la vie réelle et à tomber dans l’oubli originaire. D’un côté, l’œuvre d’art devrait l’emporter sur la mort, en faisant émerger l’éternité; de l’autre côté, la mort, qui devrait être dépassée par l’éternité, se présente dans sa forme irrachetable. L’œuvre n’arrive donc pas à l’emporter sur la mort pour nous assurer l’éternité; tout projet, au contraire, est destiné à l’échec final. Comme le fait observer Bloch dans Esprit de l’utopie (1918), à propos de Novalis “[…] nous nous retrouvons toujours à l’extérieur de ce que nous créons, le peintre n’entre pas dans le tableau, ni le poète dans le livre, dans le pays d’utopie en arrière des lettres; et la jeune fille elle-même, la fleur bleue, si nettement qu’elle tranche sur tous les trésors, ne tombe, pour finir, que du dehors dans le bras du disciple, et reste au-dehors”6. L’échec particulièrement significatif est représenté par l’amant qui voudrait posséder pour toujours la personne aimée, alors que l’amour se révèle comme la recherche inépuisable de l’altérité de l’autre, comme une tension vers ce qui ne peut être saisi. Selon Bloch, l’amour de 3 4 5 6
E. Lévinas, op. cit., p. 115. Ibidem, p. 115. E. Bloch, Le principe espérance, 3 voll., Gallimard, Paris 1976, 1982, 1991, III, p. 303. E. Bloch, L’esprit de l’utopie (1918), Gallimard, Paris 1977, p. 239.
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l’autre coïncide avec le sentiment de la mort (ou non-être) de l’autre. Et pourtant “l’amour est fort comme la mort”, nous rappelle un célèbre passage de la Bible dont Bloch a fait le Leitmotif d’un récit, Traces (1930)7. C’est le renvoi à la dimension érotique et affective de l’existence, selon Bloch, qui rend possible le renouvellement de la recherche du sens comme un devoir. Par amour, il faut ici entendre ce qui est propre au désir et à son retour éternel. Dans l’amour comme dans l’art, l’altérité de l’autre est absolue, et en tant que telle, elle échappe à tout effort d’unité ou de domination. Ce qui reste dans la vie, c’est la nécessité éthique de la recherche du sens, qui se propose comme un exercice perpétuel, comme l’expérience continuelle de ses propre limites. Bloch se réfère à Montaigne, “philosopher, c’est apprendre à mourir”: “La vie tout entière des philosophes n’est autre chose que s’apprêter à la mort, dit Montaigne après Sénèque, avec une sagesse presque magique”8. S’il est vrai que nous somme condamné à la contingence, il faut tout de même agir “comme si [als ob]” il était possible d’atteindre l’absolu. C’est dans cet effort de compréhension en effet que l’accomplissement devient visible. L’amour fait un avec la décision de vivre son existence jusqu’au bout, dans son non-sens. Aucun doute pour Bloch: c’est en vivant la vie dans sa plénitude qu’on arrive à faire face à la mort, et à lui faire face en pleine conscience. On ne peut abolir la mort; on peut cependant l’affronter, en y pensant, en reconnaissant son inéluctabilité. Pour vivre leur vie jusqu’au bout, les hommes ont beaucoup de ressources: l’espérance, le rêve, le désir de revanche et de compensation – des images utopiques qui anticipent un être meilleur dans un avenir meilleur: “Mais c’est l’obscurité qui nous attend, plus ou moins colorée par ces contes, du moins par nos «rêves de désir [Wunschträume]» et le fait – qui ne va nullement de soi, non conforme à l’ordre du monde – qu’on puisse les façonner, voire les habiter”9. Selon Lévinas, c’est dans ce cadre problématique qu’intervient la notion d’étonnement, qu’il faut entendre comme l’expérience érotique et bouleversante de la merveille. Chez Bloch, la stupeur concerne ce qui n’est pas voyant, les choses les plus simples: la façon dont une feuille se laisse emporter par le vent, le sourire d’un enfant, le regard d’une jeune fille, la beauté d’une mélodie qui remonte du néant, l’apparition imprévue d’un mot rare. L’étonnement côtoie le néant à l’instant où nous nous interrogeons sur la nature d’un brin d’herbe, en essayant de trouver dans le néant 7 8 9
E. Bloch, Traces, Gallimard, Paris 1968, p. 134. Ibidem, p. 135. Ibidem, p. 136.
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notre propre tout. Dans Traces, Bloch cite le moment d’étonnement du “il pleut” de Knut Hamsun10, mais il se réfère aussi à Tolstoï. Dans Le principe espérance (1938-1947), Bloch évoque un moment hautement significatif: le très beau passage de Guerre et Paix, lorsque le prince André, grièvement blessé sur le champ de la bataille d’Austerlitz, contemple son existence mortelle en regardant le ciel éternel. À mesure qu’il se rapproche de la limite extrême qu’est la mort, s’éclaire le non-sens même qui, tout en étant défini, conditionne le “sens de la vie”. Ce sens ne peut être compris que dans son ambiguïté constitutive: comme le rapport réciproque entre transparence et opacité. L’expérience du repos faite par le prince André mortellement blessé: tout autour de lui les corps meurtris et gémissant, par-dessus lui, une fois encore, le ciel étoilé, et voilà que naît, sans possibilité de méprise aucune, ce sens d’une grandeur qui n’a plus rien à voir avec celle à laquelle on prétendait. […]. Et c’est cela aussi que découvre dans les étoiles le regard du prince André de Tolstoï; pourtant, quand il revient à la vie, une vie bien peu changée, l’Ens perfectissimum de la grandeur tout là-haut se révèle être non pas une illusion mais une anticipation: l’Ens perfectissimum est une intuition et un vécu intérieur, mais pas une réalité atteinte 11.
2. La mort et le sens chez Jankélévitch. Lorsqu’il aborde le thème de la mort12, Jankélévitch emprunte au même épisode de Guerre et Paix, ainsi qu’à l’œuvre de Tolstoï dans son ensemble. Dans La mort, l’expérience-limite du prince André sert de façon exemplaire d’illustration au courage extrême et héroïque, indispensable face au “mystère à la lumière du soleil” de la mort13: 10 11 12
13
Ibidem, p. 189 , par. L’étonnement. E. Bloch, Le principe espérance, cit., III, pp. 495-496. Sur ce motif chez Jankélevitch, voir : E. Lisciani Petrini, Lo zar nudo, il gaffeur e la morte, pensare “ai margini della vita”, Introduction à l’éd. it. de V. Jankélevicth, Pensare la morte?, Cortina, Milano 1995, pp. 7-21; A. Fabris, Pensare la morte? in “Teoria” 1995 (15, 2), pp. 119-120; M.-J. Königson, La voie négative, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, 1971, 113-122; L. Jerphagnon, Le thème de l’ipseitas moritura dans l’œuvre de V. Jankélévitch, in “Revue philosophique de la France et de l’Etranger”, 160 (3), pp. 287-299. Dans une note des Cours de philosophie morale, on peut lire: “Ainsi, dans un passage de Guerre et paix, Tolstoï nous dépeint l’atmosphère des avant-gardes russes à la bataille d’Austerlitz. Le no man’s land, la mince bande de terrain qui sépare les avant-gardes de l’ennemi, devient pour ceux-là une immensité
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
Tolstoï, dans Guerre et Paix, parle de ce no man’s land inquiétant qui sépare le soldat aux avant-postes et les positions ennemies: entre les premières lignes et cette ligne énigmatique à cent mètres, où sont les uniformes d’une armée étrangère, il y a la mort qui rôde […]. Mais l’instant soudain de la mort n’est pas une limite: l’instant de la mort est le point d’intersection de deux contradictoires, qu’il faut bien appeler être et non-être (M, 354).
“La mince bande de terrain” représente ici le seuil inquiétant près duquel la vie et la mort se rencontrent et se reconnaissent être en mesure de se définir mutuellement, s’enlaçant dans une étreinte indissoluble, qui suscite l’angoisse. Dans l’appréhension tourmentée qu’est l’angoisse suscitée par la proximité de la mort, on saisit le sens de la vie, le sens de notre terrible finitude, et donc le sens de la mort. Regarder les choses du point de vue de la cime, c’est-à-dire de la hauteur vertigineuse de la mort, signifie devenir conscients de la précarité de l’existant. À cet égard, un passage extrait de l’Entretien avec Françoise Reiss (Le Monde, 1977) est encore plus emblématique: “Mais je trouve que les mystères en pleine lumière, ceux de La Guerre et la Paix, ceux du prince André sur les champs de bataille d’Austerlitz, regardant le ciel où les images se pourchassent, et réfléchissant sur le sens de la vie et la mort, se disant que tout cela est insignifiant à côté de ce ciel […]. Le mystère dans la lumière m’intéresse et m’attire davantage que le sous-sol de Dostoïevski” (CPhM, 246; note 192). La mort représente une absurdité fatale, un non-sens qui est le sens même du sens (c’est-à-dire de la vie). C’est l’événement de la mort en effet qui définit la vie et qui la structure de tout son non-sens tout en la privant de ce sens: la vie s’affirme malgré la mort et contre la mort, mais seulement parce qu’elle est vouée à la mort (PM?, 40). Selon les mots de Jankélévitch: “c’est l’absence de sens qui donne un sens à la vie […] l’absence d’un au-delà fait déboucher ma vie sur le vide, sur le néant” (PM?, 51-52). L’angoisse décrite par Tolstoï lorsqu’il parle de l’expérience du prince André à la bataille d’Austerlitz est un état d’esprit que nous connaissons bien dans la quotidienneté, dans des proportions toutefois différentes. Cette angoisse se présente à chaque fois que nos tentatives de compréhension se heurtent au noyau résistant du mystère. Jankélévitch n’en doute pas: le problème véritable auquel il faut inévitablement se confronter est la mort, “le problématique par excellence” par rapport auquel les autres problèmes de la vie quotidienne ne sont que des “formesmystérieuse où rôde la mort. Ce groupe d’hommes silencieux a pris conscience qu’il n’y a plus aucun intermédiaire entre eux et l’ennemi, c’est-à-dire la mort” (CPhM, 165-66).
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émanations”. Quoiqu’il ne soit envisagé que sous la forme d’une pensée, l’événement de la mort l’emporte sur les questions de tous les jours. Cela est rendu possible car ces dernières sont de même nature que la question de la mort. Comme Jankélévitch l’observe dans un texte intitulé Le Mal, face à l’expérience de la mort, qui est le problème par excellence, tous les autres problèmes de la vie s’évanouissent, car ces problèmes sont constitués de la mort elle-même: La mort, qui fait craquer les solutions quidditatives, est ainsi le problématique par excellence, c’est-à-dire le mystère. Au cœur de tout secret il y a un noyau quidditatif de mystère qui représente l’insoluble de ce secret: car qu’estce qu’un mystère, sinon un secret qui ne peut pas être résolu? Qu’est-ce qu’un mystère, sinon le problème en tout problème? Un problème n’est problématique que par la quantité de mystère ou plutôt par la quantité de mort qu’il renferme, tout ce qui est vraiment problématique dans le problème étant d’essence mystérieuse et par conséquent thanatologique (LM, 47) .
Selon Jankélévitch, tout problème renferme en lui-même une énigme, tout comme dans l’image hegélienne, la pyramide égyptienne abrite le mortuum. Cette dimension funèbre ne peut être effacée car elle est la condition même de notre questionnement. Ainsi essayer de définir la mort de façon définitive serait comme nier la mort. Cela n’est possible qu’au prix de nier la vie elle-même. La mort est ce que l’existence porte toujours en soi, le fardeau inévitable de non-sens qui rend la vie humaine. La nécessité d’accepter le mystère comporte également la nécessité d’accepter le fait que la vie ne peut être comprise dans sa totalité. En effet, toute tentative de décrire la mort ne fait que replacer la mort au-delà de l’humain, dans “un tout autre ordre” (cf. M, 368-70). Toutefois il nous faut penser comme s’il était possible de saisir le sens de la mort: “la plus profonde philosophie consiste à méditer sur la mort, non que ce problème soit le plus difficile de tous, mais parce que tous les autres, et la douleur, et la maladie empruntent leur dimension tragique à cette quintessence mortelle qui est en eux; parce que tout les autres sont des formes du problème mortel” (PM?, 47). Chez Jankélévitch, de même que chez Bloch, nous retrouvons l’ascendant de Montaigne sur ce thème “que philosopher c’est apprendre à mourir”. L’apprentissage de la mort peut être comparé à l’exercice philosophique en général. La tâche de la réflexion consiste justement à se rapprocher des frontières délabrées de l’existence. Selon Jankélévitch, il ne nous reste qu’une seule possibilité: il faut se mesurer aux problèmes de la quotidienneté, tout en préservant leur contenu de mystère:
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
Il faut distinguer mystère et secret. Il y a un mystère de la mort, mais ce mystère se caractérise par le fait que ce n’est pas un secret […] la mort est un mystère. C’est-à-dire que c’est un mystère en plein jour, en pleine lumière […] C’est un mystère qui est dans la transparence, dans le fait même de l’existence. On dit par exemple que ce qu’il y a de plus mystérieux, ce n’est pas le nuit profonde c’est le grand jour à midi, le moment où toutes les choses sont étalées dans leur évidence, où se dénude le fait même de l’existence des choses. Le fait qu’elles sont là est plus mystérieux que la nuit, qui éveille des pensées de secret. Un secret se découvre, mais un mystère se révèle et il est impossible de le découvrir (PM?, 37-8).
Jankélévitch se soucie de réfuter les lectures philosophiques qui ont voulu expliquer de façon définitive le sens de la mort. À cette fin, il souligne l’étrangeté radicale de la mort, son altérité irrachetable. Définir la mort signifierait en effet se soustraire à la vie, se tenir à l’écart de l’existence: “Je la pense en essayant de la dominer, ça ne m’empêche pas de mourir. Mais, dans la mesure où je la pense, je ne suis pas dedans, je suis dehors. Je suis dedans en tant que je vais mourir, mais en tant que je pense ma mort, je ne suis pas dedans, mais dehors” (PM?, 56-7). Comme le philosophe ne cesse de le répéter, il n’y a rien à savoir du concept paradoxal de la mort, puisque la réflexion humaine ne peut qu’avancer péniblement derrière cet événement qui la concerne intimement, qui la définit dans son essence, et qui reste pourtant impossible à atteindre et à saisir. Le syntagme “penser la mort” se présente alors comme paradoxal, car il s’adresse à un objet qui tout en existant reste irréductible à un objet de connaissance. La mort apparaît comme un message chiffré, ou même dénué de sens, parce qu’elle appartient à un ordre tout autre que celui de la vie. La mort est indéfinissable, comme le démontre, entre autres, le fait que tout ce qui peut être représenté de la mort n’est qu’une variation de la vie. La représentation de la mort se situant dans la trace de la vie, est vie. C’est encore une fois l’expérience-limite d’André Bolkonskij qui le montre avec clarté. Dans l’œuvre de Tolstoï, la mort ne coïncide pas avec le “grand instant”. Le sens de la vie qui vient de se révéler aux yeux du prince s’effondre à nouveau dans les conventions d’un monde étranger, inessentiel et sans but. De cette manière, l’on réduit le sens de la mort à un simple événement. La position de Jankélévitch est très nette. Si la mort ne peut être saisie par la pensée, c’est pour une raison bien précise: elle coïncide avec la condition de possibilité de notre activité de penser, de connaître, de faire expérience en général: “La mort, non seulement nous empêche de vivre, limite la vie, et puis un beau jour l’écourte, mais en même temps nous comprenons bien que sans la mort l’homme ne serait même pas un homme,
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que c’est la présence latente de cette mort qui fait les grandes existences, qui leur donne leur ferveur, leur ardeur, leur tonus” (PM?, 20-1). C’est là un point très important. Ce que nous savons de la mort, c’est que nous n’en pouvons rien savoir. La mort marque la limite extrême de la vie et notre tâche: “Si tard que la mort intervienne, elle arrive toujours trop tôt; toujours elle interrompt une tâche, toujours elle advient au beau milieu d’une entreprise inachevée: l’écrivain n’avait pas tout dit (ou du moins le croit-il), l’œuvre de l’artiste n’était pas terminée, l’homme le plus simple avait encore de petits projets à réaliser” (M, 282-3). Mais elle marque aussi la limite de notre possibilité de la connaître. Pourtant, l’échec auquel aboutit toute tentative de définir la mort ne doit pas être considéré comme le point d’arrêt de notre questionnement. Dans la lignée de Platon, Jankélévitch affirme qu’il est nécessaire de méditer sur la mort à partir des questions quotidiennes qui sont les formes-émanations de la mort. Ce “mystère à la lumière du soleil” qu’est la mort nous invite à réfléchir sur elle, à penser la mort dans son rapport indissociable avec l’existence humaine. Aussi l’événement de la mort comme limite de la vie marque-t-il essentiellement la pensée philosophique, qui se charge d’une tentative d’appréhension de l’idée de mort. Voilà ce que le thème “penser la mort” signifie: il faut porter un regard sur la vie dans sa plénitude, dans sa duplicité, c’est-à-dire en tant que vie qui est également mort. Cela signifie être à la fois à l’intérieur et à l’extérieur de la vie, habiter les limites de la vie, et comprendre, à partir de ce point de vue particulier, la nature paradoxale de l’existence elle-même. Comme un regard strabique, la pensée doit se fixer en même temps sur la vie et sur sa fin, elle doit considérer à la fois l’objet problématique et son noyau de mystère insondable: Le problème est devant moi, en dehors de moi, comme un objet, transparent, dans la pleine lumière de l’évidence et du grand jour, tandis que le mystère, je suis dedans. Or, la mort est à la fois problème et mystère, logique et mysterieuse (PM?, 58).
La pensée par conséquent doit avancer jusqu’à la frontière entre la vie et la mort, pour atteindre un point de vue privilégié sur sa propre existence. C’est pourquoi Jankélévitch considère comme un devoir éthique la tentative de tracer les marges d’un nouvel ethos, une éthique régie par la mortalité. L’enjeu est important, comme Jankélévitch le suggère: L’alternative est pour nous la suivante: avoir une vie brève, mais une vraie vie (une vie faite d’amour, etc); ou bien une existence indéfinie, sans amour, qui n’est cependant pas la vie mais “une mort perpétuelle” (cf. M, 192-5). La dérive à éviter est l’attitude selon laquelle on s’abandonne à un processus de mort
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
lente qui finit par détruire ce que l’on voudrait conserver. Il faut au contraire se joindre à ceux qui décident de vivre réellement, en assumant le fardeau de la connaissance, en cherchant à pénétrer sans relâche le mystère de l’existence humaine. Cette tâche de compréhension est ce qui nous reste de l’eros de la pensée: un devoir-être, un impératif catégorique qui a quelque chose à voir avec l’espérance et avec “l’amour” (M, 430-431). Voilà pourquoi Lévinas, en retraçant les convergences possibles entre la réflexion de Bloch et la réflexion de Jankélévitch au sujet de la mort, cite fort à propos un passage connu du Le Roi se meurt d’Eugène Ionesco: “L’amour est fou. Si tu as l’amour fou, si tu aimes insensément, si tu aimes absolument, la mort s’éloigne. Si tu m’aimes moi, si tu aimes tout, la peur se résorbe”14. Aussi, dans ce contexte théorétique singulier, la mort ne peut-elle avoir le dernier mot – comme le souligne Lévinas à propos des réflexions de Bloch et de Jankélevicth – mais tout au plus aura-t-elle l’avant-dernier mot15.
14 15
E. Ionesco, Le Roi se meurt, Gallimard, Paris 1963, p. 112. E. Lévinas, op. cit., pp. 120-121.
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Abstracts
In una delle più interessanti analisi filosofiche del concetto di morte, Lévinas suggerisce un paragone tra il pensiero di Ernst Bloch e quello di Vladimir Jankélevitch, prendendo le mosse dalla coppia concettuale opera e morte. Secondo Lévinas, nei due autori il compito umano (praxis) non può mai essere portata a compimento, perché il mondo stesso è incompleto e non interamene “illuminato”. La dimensione di opacità – che per Bloch da un lato è ravvisabile come ostacolo al lavoro umano (anche quello quotidiano), e dall’altro come un elemento costitutivo irriducibile di ogni produzione artistica – è parte essenziale della morte. Le osservazioni di Jankélevitch su questo tema si rivelano particolarmente vicine alla prospettiva blochiana. Anche secondo Jankélevitch la morte si presenta come un momento irriducibile dell’esperienza umana, che tuttavia, sotto forma di opacità, innerva di sé l’esperienza quotidiana. Dans l’une des plus intéressantes analyses philosophiques de la notion de mort, Lévinas établit une comparaison entre la pensée de Ernst Bloch et celle de Vladimir Jankélévitch. Son point de départ théorique est le couple mort/œuvre. Selon Lévinas, chez Bloch et Jankélévitch, le travail d’une vie humaine (praxis) ne peut jamais être complètement mené à bien, parce que le monde lui-même est inachevé et pas entièrement “éclairé”. Cet élément opaque – dont Bloch reconnaît qu’il est un obstacle au travail de l’homme (également dans la vie quotidienne), mais aussi un élément constitutif irréductible de la production artistique et cognitive même – fait partie de l’essence de la mort. Les observations de Jankélévitch sur la question présentent de nombreuses analogies avec cette position. Selon Jankélévitch aussi, la mort s’offre à nous comme un élément irréductible, mais en même temps elle participe à la base même de l’opacité de l’expérience quotidienne. In one of the most interesting philosophical analyses of the concept of death, Lévinas draws a comparison between Ernst Bloch’s and Vladimir Jankélevitch’s thought. His starting point is the theoretical pair death/oeuvre. Lévinas argues that in Bloch and in Jankélevitch the work of a human life (praxis) can never be thoroughly brought to completion, because the world itself is unaccomplished and not entirely “enlightened”. This opaque element – which is acknowledged by Bloch as an obstacle to human labour (also in everyday life), but also as an irreducible
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
element constitutive of artistic production and of cognitive activity itself – is part of the essence of death. Jankélévitch’s observations on the subject show many analogies with this position. According to Jankélevitch, too, death offers us an irreducible element, but at the same time partakes at the core of the same opacity of everyday experience.
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LAURA BOELLA
Il ritmo della vita morale in Vladimir Jankélévitch
1. Le lingue sono ricche di espressioni, più ancora che estetico-morali, musicali-morali. Il pensiero di Jankélévitch è leggibile all’interno di questa affascinante risonanza. Takt, come insegna la lingua tedesca, è tempo, ritmo, misura, battuta musicale, ma è anche tatto, delicatezza di modi. Vedremo presto: tonalità, grazia. In questo doppio significato della parola tedesca sta la relazione tra musica e morale in Jankélévitch. Una relazione tutta giocata sullo scarto e sulla grazia di un ordine insidiato dal disordine, di una leggerezza insidiata dallo spirito di gravità. La musica è insidiata dall’espressione e la morale dall’autocompiacimento. Virtuosismo e improvvisazione si rovesciano le parti sia in musica sia nella condotta morale, possono significare eccesso, ridondanza, dilettantismo, superficialità. Musica e morale non rappresentano, per un pensatore che vive fino in fondo la crisi della filosofia moderna e contemporanea, un punto di fuga estetico o un’alternativa postmetafisica. La realtà è oceano di indeterminatezza e confusione, movimento continuo di alterazione e combinazione di elementi, ambiguità, opacità, rugosità e mescolanze. L’imprendibile divenire offre alla presa solo frammenti sfilacciati, un non-so-che e un quasi-niente. Attraverso la musica, l’arte del tempo, Jankélévitch osa porsi la domanda abissale dell’essere. Allo stesso modo, attraverso la morale, la dottrina del Sommo Bene e soprattutto dell’assoluto, dell’incondizionato, osa porsi la domanda umana troppo umana: è possibile una vita morale? Come se musica e morale, con il loro identico tremore di fronte all’essere e alla vita, seguissero un percorso comune, quello di una tonalità morale dell’intera esistenza umana. Tonalità è vocabolo musicale, emozionale e morale: indica l’intonazione della voce, ma anche la tonalità emotiva di un atto e insieme l’accordo, il consenso, l’armonia.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
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2. Jankélévitch ha insegnato per molti anni alla Sorbona filosofia morale, la parte più consistente delle sue opere riguarda la filosofia morale. L’esperienza della lotta partigiana, le rigorose prese di posizione sulla Shoah (non tornò più in Germania dopo la seconda guerra mondiale, scrisse importanti saggi sull’imprescrittibilità della colpa nazista, si impose persino un’aspra rinuncia nella trattazione dei musicisti tedeschi, da lui molto amati), il rifiuto di aderire alla retorica dell’engagement degli intellettuali francesi negli anni Cinquanta e Sessanta e alcuni lucidi giudizi espressi sulla rivolta giovanile del ’68, definiscono i tratti, a volte rigidi e austeri, spesso contrariati, della sua personalità pubblica (cfr. VL). A partire dal discepolato nei confronti di Bergson, ma anche in seguito all’influsso non troppo sotterraneo del pensiero di Max Scheler, egli ritrovò nell’esperienza e nell’effettività il senso della filosofia e lo declinò nella forma di un’originaria qualità di valore di ogni approccio al mondo. I problemi filosofici trattati da Jankélévitch nella sua lunga attività – che si tratti della coscienza, della temporalità, della morte – ricevono tutti una declinazione morale a partire dal fatto che la loro forma si dà solo nelle tortuosità e inabissamenti della vita della coscienza e del suo tenore eminentemente emotivo-affettivo. Essi diventano così problemi di innocenza e di malvagità, di coraggio e di pudore, di vergogna e di menzogna. La concezione appassionata e passionale della filosofia, che Jankélévitch eredita da Bergson, mette al centro la morale come forma di vita, onnipresente e antecedente rispetto alla filosofia in senso stretto. Ne consegue una visione molto concreta e reale della morale, che sfugge, è ambigua, imprendibile, si sottrae alla finezza del quasi-niente, impegnata com’è a fronteggiare la pesantezza e l’astrazione dell’assoluto e la derisoria inefficacia della norma. Affrontare il problema morale ha già una sua preliminare paradossalità, analoga a quella che emerge a proposito del virtuosismo e di alcune scelte musicali jankélévitchiane. Com’è possibile interessarsi al virtuosismo in un contesto di indicibilità, di ineffabilità? Non sarebbe meglio che il pensatore del quasi-niente preferisse la sobrietà e la secchezza di tanti musicisti contemporanei, diffidenti rispetto all’espressività, alla sovrabbondanza, all’esibizionismo del virtuoso? Il virtuoso non ha pudore né discrezione, vive completamente nella sfera dell’ostentazione, cerca la gloria e l’applauso, è prolisso e artificioso, incarna la furia dell’espressione, vuole le luci della ribalta e i clamori entusiasti del pubblico (cfr. LRI). C’è un’evidente parentela tra il virtuosismo e alcuni comportamenti morali, quelli da cui Jankélévitch vuole distaccarsi e che sono il dilettantismo e l’intran-
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Laura Boella - Il ritmo della vita morale in Vladimir Jankélévitch
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sigenza, il relativismo e l’assolutismo. Ma è anche vero che il virtuosismo musicale, così come la virtuosità morale mettono di fronte alla logica dell’atto spogliato di qualsiasi rivestimento spirituale, forse anche a una logica improduttiva, dispendiosa. È la qualità dell’agire, la sua eccellenza, virtù squisitamente estetica e morale, ciò che interessa Jankélévitch, a costo di mettere a nudo il vuoto. Jankélévitch offre al pensiero morale del ‘900 la più radicale resa dei conti con la contraddizione e l’ambiguità: la pesantezza della negazione viene presa sul serio e considerata una forza, un’energia di contrasto. Calcolo infinitesimale e psicologia delle piccole percezioni sono i dispositivi, ereditati dalla grande tradizione filosofica francese abbracciando di essa sia l’esprit de geometrie sia l’esprit de finesse, di una ricostruzione della morale ancora in gran parte inesplorata. La domanda fondamentale della filosofia morale di Jankélévitch è la seguente: com’è possibile, nell’esuberanza dell’impurità, in un mondo fondato sul capriccio, sull’arbitrio, sul reciproco controbilanciarsi dei motivi, sulla confusione, il pluralismo e lo sfilacciamento dei valori, trovare un principio di scelta, un motivo per agire, la fine punta adamantina della giusta direzione? Questa domanda è primaria per la filosofia, anzi “la impregna” (PhM, 20), posto che la coscienza venga considerata, secondo la tradizione kantiana, autoriflessione critica, foro interiore, tribunale che interroga e giudica, inquietudine che si manifesta in molti modi e soprattutto precorre e accompagna tutte le attività del pensiero con il suo carico di valutazione, a volte impalpabile, a volte pudicamente messo da parte. La realtà morale è pertanto il colmo dell’ambiguità, anzi vive della e nella logica della negazione: il corpo è nemico dell’anima, il finito è superato dall’infinito, il naturale si oppone al soprannaturale, la vita alla morte, l’essere al dovere. Una negazione che è il contrario dell’annientamento, ma è piuttosto duplicazione, complicazione, reciprocità e turbolenza. La morale vive pertanto nella logica di una negazione il cui funzionamento Bergson aveva già acutamente delineato nella sua critica del nulla e che insistentemente Jankélévitch riprende: una negazione che esercita un’energia positiva e dà luogo a un effetto di rilievo che esalta la contraddizione invece di sfumarla. I movimenti di una realtà intrinsecamente squarciata in due sono infatti per Jankélévitch funzione del ruolo attivo svolto dalla negazione: l’ostacolo, l’antitesi fa da trampolino, il peso dà slancio, si discende per risalire, si cade per risollevarsi, c’è contrappeso, lievitazione, leva, effetto bilancia, rilancio, rimbalzo da un estremo all’altro, battito alternativo, vibrazione, va e vieni, spola veloce, alternanza precipitosa, ondulazione, circolarità, chiasmo, miracolo a ripetizione. Viene
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spontaneo pensare a una fisica dello spirituale, molto adatta a una materia la cui consistenza è aerea, veloce, non prevista, la materia dell’effettività, ossia la quintessenza della temporalità intesa come occasione, istante inafferrabile, attivazione/attualizzazione di tutto ciò che fa resistenza. Viene spontaneo aggiungere: non è fatto della stessa materia il suono, “corpo tenero e trasparente”, come lo chiamava Ernst Bloch nella sua prima filosofia della musica?
3. La domanda fondamentale rivolta da Jankélévitch è la seguente: è possibile una vita morale? Conosciamo il suo contenuto di impossibile, di paradosso. D’altra parte, Jankélévitch ci mostra come in realtà la vita morale, se non ha densità, durata (pena il convertirsi nel suo contrario), ha però risonanza, la “risonanza del vissuto fragrante” (TV, 110), la capacità di irradiazione dell’amore, simile al potere della suggestione frammentaria in Debussy (TV, 109). Tre secondi di disinteresse costituiscono una piccola virtù infinitesimale: il movimento è la chiave della contraddizione, che la spezza in infinitesime quantità, la diluisce e fluidifica in un battito vibratorio, la costringe ad ammettere la propria ambiguità e ambivalenza, il suo non essere guerra tra estremi, tra opposti principi, tra esclusivismi incompatibili. Togliere la contraddizione morale dall’immobilismo non vuol dire attenuarla o smorzarla, bensì sottrarla all’autocompiacimento dell’abnegazione, alla sublimità professionale, all’estetismo e al quietismo piccolo-borghese. Vivere la contraddizione significa dunque metterla in movimento, riassestarsi continuamente in essa, “caduta differita”, “instabile equilibrio”. Precarie creature della contraddizione morale saranno dunque momenti di finezza che si emancipano o prevengono l’obiettivazione dell’opera: la grazia dell’intenzione, il momento amoroso della virtù, lo charme della benevolenza, la modestia, lo humour, le piccole purezze palpabilmente impure, la finezza della maniera. E la virtù sarà qualità del volere nel suo insieme, movimento e direzione della volontà, maniera, modo e via, tensione sempre rinnovata. C’è un termine che ricorre e parrebbe riassumere la concezione morale di Jankélévitch: acrobazia. I movimenti acrobatici, le prodezze avventurose e sportive con cui Jankélévitch descrive la condotta morale pongono in effetti un problema di fondo, il problema dell’eccellenza e del virtuosismo e infine di una morale del come e non del che cosa. Il momento virtuosistico della virtù inerisce a una delle convinzioni di fondo di Jankélévitch: non c’è
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Laura Boella - Il ritmo della vita morale in Vladimir Jankélévitch
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essere senza apparire – la convinzione che gli fa seguire con tanta ammirazione le finezze dell’eroe di Gracián. Una morale dell’atto è una morale dell’essere ciò che si fa, della prodezza puntuale nell’oceano dell’assenza, del negativo, dell’indeterminato. Ma in Jankélévitch tra essere e apparire c’è anche dissimmetria. Nella trattazione del virtuosismo musicale si offrono alcuni spunti di riflessione. Il virtuoso è la figura eroica in senso classico e moderno. Il virtuoso è ciò che fa e il suo fare è eccellenza, energia, attività in atto e eutuchia, virtù e fortuna. Al tempo stesso, il virtuoso rende omaggio alla demiurgica artigiana dell’uomo moderno, glorifica la mano artistica e operaia nell’epoca delle macchine, ossia il potere sovrano dell’uomo che domina la natura e padroneggia la materia. La virtù del virtuoso è eroica perché senza intenzione, è drastica, dispendiosa e gratuita, spreca energie sovrabbondanti in esercizi acrobatici, è generosità a fondo perduto, senza domani, è eccesso e insieme sforzo e lotta contro difficoltà create ad arte, escogitate per il proprio perfezionamento. Nel virtuoso c’è anche volontarismo e solitudine eroica, nonché trasfigurazione e sublimazione. A dispetto delle analogie, alcuni aspetti del virtuosismo musicale non si ritrovano nella virtuosità morale. Innanzitutto la felice armonia, la relazione semplice e diretta con l’essenza, la positività dell’essere, di cui il virtuoso rende visibile lo splendore, non si ritrova affatto nel rapporto obliquo e contorto, dissonante e scandaloso, miserevole, che apparenza ed essenza intrattengono nella vita morale. La virtù della riuscita o la visibilità del merito, per cui il virtuoso non esiste al di fuori del palcoscenico, osannato dagli applausi, aureolato dalla gloria, nella morale lascia il posto al carattere spesso misconosciuto e ignoto della bontà. L’aintenzionalità dell’esecuzione contrasta a sua volta con il ruolo dell’intenzione nella vita morale. Ma proprio qui si può notare come l’elemento di virtuosismo, di acrobazia che nell’attività estetica porta alla solitudine eroica, per quanto fortemente disinteressata dell’artista, nella morale producono una trasformazione profonda dell’elemento intenzionale. Quest’ultimo non solo ha perso il momento della finalità intesa come affermazione di un valore, di un ideale, ma si è riempito di abbandono, ha spossessato la volontà braccata dal contrario di ciò che vuole fino a renderla umile, innocente e nuda al punto che il lavoro morale non ha più niente di eroico o di individualistico, ma coincide con un’intenzione pura perché non è nient’altro che orientamento, direzione, movimento. È vero che il coraggio e lo sforzo, virtù delle virtù per Jankélévitch, sono le più esteriori, legate alla maniera d’essere, al come, e anche le più ostentative (Gracián) e regali, in quanto legate alla grandezza d’animo, allo charme della benevolenza, alla grandiosità e sontuosità del gesto. In ogni caso, la morale non è né sport né avventura, altrimenti si ri-
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solverebbe in dilettantismo. Già nel virtuosismo musicale Jankélévitch intravvedeva una sorta di tatto, di tocco fine, di allusione leggera, un pudore e un ritrarsi che tolgono enfasi al momento eroico del coraggio, allo slancio ascensionale dell’atto. Momenti declinanti, fluidi, pesantezze del corpo, limiti umani (delle possibilità della mano e del fiato), elementi di aleatorietà e perpetuo cambiamento rendono sommesse le combinazioni improvvise, delicata l’acrobazia, non proprio insistente la riuscita. È questo il momento del disfare ciò che si è fatto, del non aver fatto niente, che abita anche il fare più dispendioso ed eccellente, e mostra come il gioco con il pericolo, il differimento della caduta non abbiano nulla in comune con il divertimento futile ed esibizionistico né con la seriosità del tragico, ma siano quotidiane e sobrie dimensioni di ogni atto che si riconosca creatura dell’ambiguità e del disordine e che quindi veda il suo valore nel fare indietreggiare il suo contrario, non nella sua impossibile abolizione. Indietreggiare per prendere lo slancio non sono dunque acrobazie estreme, ultime prodezze, bensì movimenti strutturati dalla fatica, dall’ostacolo, dalla contraddizione. La moralità della musica e la musicalità della morale sono un invito ad attenuare i furori del genio e del santo, ma soprattutto a mitigare il silenzio e l’aridità dell’anima.
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Abstracts
Il pensiero di Jankélevitch è leggibile all’interno dell’affascinante risonanza di temi estetico-morali o, più precisamente, musicali-morali. Basta pensare alla parola tedesca Takt, che è tempo, misura, battuta musicale, ma anche tatto, delicatezza di modi, grazia. Nel doppio significato della parola tedesca sta la relazione tra musica e morale in Jankélévitch. Una relazione tutta giocata sullo scarto e sulla grazia di un ordine insidiato dal disordine, di una leggerezza insidiata dallo spirito di gravità. La musica è infatti insidiata dall’espressione e la morale dall’autocompiacimento. Virtuosismo e improvvisazione si scambiano le parti sia in musica sia nella condotta morale, possono significare eccesso, ridondanza, dilettantismo, superficialità. Musica e morale non rappresentano, per un pensatore che vive fino in fondo la crisi della filosofia moderna e contemporanea, un punto di fuga estetico o postmetafisico. Al contrario, con il loro identico tremore di fronte all’essere e alla vita, seguono un percorso comune, quello di una tonalità morale dell’intera esistenza umana. La pensée de Jankélévitch est lisible à l’intérieur d’une résonnance fascinante de thèmes esthético-moraux ou, plus précisément, musicaux-moraux. Il suffit de penser au mot allemand Takt, qui est temps, mesure, division musicale, mais aussi tact, délicatesse de manières, grâce. La relation entre musique et morale chez Jankélévitch est tout entière dans la double signification de ce mot allemand. Une relation qui se joue entièrement dans l’écart et dans la grâce d’un ordre menacé par le désordre, d’une légèreté menacée par l’esprit de gravité. La musique est, en effet, menacée par l’expression, comme la morale l’est par la satisfaction de soi. Virtuosité et improvisation échangent les rôles en musique comme dans la conduite morale, et peuvent signifier excès, redondance, dilettantisme, superficialité. Musique et morale ne représentent pas, pour un penseur qui vit jusqu’au bout la crise de la philosophie moderne et contemporaine, un point de fuite esthétique et post-métaphysique. Au contraire, avec leur tremblement identique face à l’être et à la vie, elles suivent un parcours commun, celui d’une tonalité morale donnée à l’existence humaine tout entière. The thought of Jankélévitch can be read within the fascinating resonance of aesthetic-moral themes or, more precisely, musical-moral. It is merely worth no-
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ting the German word, Takt, which means time, measure, musical beat but also tact, delicate ways and grace. Within the double meaning of the German word, there is the relationship between music and moral which can be found in Jankélevitch. A relationship that is based on the unwrapping and grace of an order undermined by disorder, a lightness undermined by the spirit of seriousness. In fact, music is undermined by expression and moral by self-complacency. Virtuosity and improvisation exchange roles in both music as well as moral behaviour, they can mean excess, redundancy, amateurism, superficiality. Music and moral do not represent, for a thinker who fully lives the crisis of modern and contemporary philosophy, an aesthetical or post-metaphysical vanishing point. On the contrary, with their identical fear when faced with being and life, they follow a common path, that of a moral tonality within human existence.
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SECONDA PARTE/DEUXIÈME PARTIE La musica testimonia il fatto che l’essenziale in tutte le cose è non so che d’inafferrabile e d’ineffabile; essa rinforza in noi questa convinzione: la cosa più importante del mondo è proprio quella che non si può dire. La musique témoigne du fait que l’essentiel en toutes choses est je ne sais quoi d’insaisissable et d’ineffable; elle renforce en nous la conviction que voici: la chose la plus importante du monde est justement celle qu’on ne peut dire. (Vladimir Janlélévitch)
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Vladimir Jankélévitch, nel 1980, nel suo appartamento parigino en 1980, dans son appartement parisien
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VLADIMIR JANKÉLÉVITCH
La sinfonia dei mormorii1
BÉATRICE BERLOWITZ La sensibilità – quasi patologica – ai rumori appena udibili, e immediatamente significativi, il piú delle volte si confonde con il potere di far esistere il silenzio. Non si tratta, molto semplicemente, di ciò che viene chiamato: aver orecchio? Traccia, inscritta nel corpo di alcuni, di una convivenza che lega per sempre il silenzio alla musica. VLADIMIR JANKÉLÉVITCH La musica in effetti è essa stessa una sorta di silenzio, perché impone il silenzio ai rumori, e in primo luogo a quel rumore insopportabile per eccellenza che è il rumore delle parole. Il piú nobile di tutti i rumori: la parola – perché è quello tramite il quale gli uomini si comprendono gli uni con gli altri – diventa, quando entra in concorrenza con la musica, il piú indiscreto e impertinente. La musica è il silenzio della parola, così come la poesia è il silenzio della prosa: alleggerisce la pesantezza opprimente del logos e impedisce all’uomo di identificarsi con l’atto del parlare. Il direttore d’orchestra aspetta, per dare il segnale d’attacco ai musicisti, che il pubblico taccia – il silenzio degli uomini infatti è come un sacramento di cui la musica ha bisogno per innalzare la sua voce... Il rumore privilegiato, nella società politica degli uomini, è quello che essi stessi fanno parlando. I greci, popolo eloquente che passava il tempo su un’agora rumoreggiante di parole, avevano almeno due termini per designare il silenzio. Il silenzio per eccellenza è il silenzio della parola, che fa tacere la chiacchiera, e non il silenzio del rumore, che Plotino chiamava ǃƻǁία... Ma le macchine, a quei tempi, facevano meno rumore degli oratori! Il rumore delle parole, che porta con sé il senso e lo comunica agli altri, questo rumore che fa, sembra, la dignità dell’uomo pensante, non solo non è tollerato dalla musica, ma questa lo considera quasi un sacrilegio. A 1
È il XXII capitolo, del libro-intervista Quelque part dans l’inachevé, a cura di Béatrice Berlowitz, la cui traduzione è già apparsa sul n. 270 della rivista “aut aut” e qui (alquanto modificata e ampliata nei riferimenti, resi espliciti in nota) riprodotta per gentile concessione del Direttore e della Redazione.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
riguardo essa è assolutamente intollerante. Al minimo bisbiglio rispondono i vari “sst... sst…” indignati degli ascoltatori. Pena di morte, contro i chiacchieroni! La musica stessa, che fa tanto rumore, è il silenzio di tutti gli altri rumori: di fronte alla musica tutti i rumori sono parassiti; fino a quando vi è un rumore nella sala, una poltrona scricchiola, un ascoltatore tossisce, una mosca ronza, il concerto non può cominciare. Questo rumore cadenzato, armonioso, incantato – che si chiama musica – ha bisogno di essere circondato di silenzio, protetto come una fragile pianta. Tanto è instabile e delicata la grazia dell’armonia! Accanto ad essa, tutto è nota sbagliata, incongrua dissonanza... In tal senso si può parlare di un ‘imperialismo’ musicale: la musica non intende dividere con altri un posto che da sola basta a riempire e rivendica per sé! Non accetta di coesistere col discorso: tollererebbe quasi di piú il rumore di un aspiratore nel corridoio della sala da concerto che non il chiacchiericcio umano. Quest’ultimo, per essa, è ingiurioso perché pretendendo di “significare” qualcosa, rivela la distrazione, l’indifferenza, la disinvoltura o, ciò che forse è ancor peggio, una sordità soddisfatta di se stessa. Contrariamente alla sordità della sonnolenza, che è inoffensiva, la sordità loquace perpetra un attentato particolarmente insolente contro la musica. È un sabotaggio! Perciò non sì perdona al verboso il fastidio che la sua indiscrezione, facendo sfumare la felicità dell’ascolto, provoca. B.B. Chi ama la musica acconsente sempre, e come prima cosa, di essere ridotto al silenzio. Tra il logos e la musica c’è un vecchio contenzioso da regolare, una venerabile concorrenza.. V.J. Se la musica è vista con sospetto è, probabilmente, perché svaluta il discorso. Accettare di essere momentaneamente frustrati in questo privilegio – ecco per coloro che amano discorrere una prova terribile... la prova del mutismo obbligato! Del resto, se gli uomini all’uscita di un concerto si precipitano nel flusso delle parole, non è forse per prendersi una rivincita sulla musica, che per due ore li ha condannati al silenzio? Le parole represse escono tutte insieme dalla gola come un torrente impetuoso: si analizzano i colpi d’arco, si discute della sonorità, si fanno le bucce al minimo gesto del pianista, si mettono sotto accusa gli acuti della cantante... Ebbene, queste analisi tecniche, il piú delle volte, sono solo un modo di sottrarsi allo charme, per non essere soggiogati e rompere la convenzione d’innocenza sulla quale riposa ogni incanto: un modo come un altro, per la nostra terribile aridità speculativa e per la nostra pedanteria, di vendicarci del silenzio. Bisogna subito colmare, con dei discorsi, lo stato silenzioso al quale la musica ci ha condannati! Indubbiamente oggi l’invasione prodotta
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Vladimir Jankélévitch - La sinfonia dei mormorii
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nei confronti della musica da parte della tecnica – che si tratti della musica o in generale dell’industria musicale – costituisce un profitto inaspettato per il discorso, perché sfocia in un inesauribile avvenire di aride discussioni e analisi pedanti. La polvere grigia delle parole ricopre la graziosa precarietà del momento musicale e, penetrando attraverso i minimi interstizi, invade a poco a poco tutti gli strati del silenzio. Tutto quanto fa deviare verso il discorso, o minimizza e restringe il dominio propriamente musicale, è accolto con gratitudine dagli amanti della chiacchiera: no, non sia mai detto che la musica abbia l’ultima parola! Per la verità, certi ascoltatori si risvegliano dopo un concerto come dopo un sogno e riprendono possesso del linguaggio come una sentinella che, preoccupata per avere sonnecchiato un po’, si precipita a verificare che nessuno le abbia rubato l’arma... B.B. La musica non solo impone il silenzio alle parole, ma impone anche a se stessa taluni generi di silenzio. Si potrebbe persino immaginare una storia della musica che racconti il cammino del silenzio attraverso le opere dei musicisti, e si potrebbe constatare qualcosa del genere presso molti compositori: piú la scrittura si approfondisce, più la loro opera diventa rarefatta e si ricorda del silenzio. Del resto Lei stesso ha dato, come titolo generale, ai Suoi libri sulla musica: De la musique au silence.2 V.J. La musica vive di silenzi. La musica, per essere musicale, deve articolarsi – e come si articola? Attraverso i silenzi piú o meno lunghi ed esattamente misurati che la scandiscono, l’aereano e le permettono di respirare: senza silenzi, pause e sospiri, non sarebbe che un rumore continuo e finirebbe per soffocare. Col che non si è ancora detto tutto. La musica tende nella sua interezza, con un’approssimazione asintotica, verso quel limite estremo al di là del quale regna il silenzio... È qui la sua essenza piú segreta. Tende verso il silenzio da cui sorge e che sembra negarla. Questa legge del silenzio spiega cosi quell’ondulazione vivente che caratterizza certe musiche, come quella di Albéniz per esempio: da una parte i pianissimo sovrannaturali, quasi inudibili – tre, quattro p bastano appena a tradurre il grado di imponderabile che la mano del pianista dovrebbe attingere suonando l’‘infra-musica’ di Jerez o del CorpusDomini a Siviglia; e dall’altra una favolosa profusione – che in Albéniz ha nutrito, fasciato, armonie sempre piú esuberanti e ricche: in Iberia, La 2
L’intervistatrice qui si riferisce alla raccolta De la musique au silence, prevista in 7 voll., presso Plon, degli scritti più importanti di Jankélévitch sulla musica (ne sono stati editi solo tre). V. qui “Bibliografia/Bibliographie, p. 346 [N. d. C.].
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Vega, Azulejos la raffinatezza e la sottigliezza estreme non si esprimono attraverso la rarefazione della materia armonica, ma al contrario attraverso lo splendore del tessuto strumentale e degli accordi scintillanti: la folle prodigalità all’esterno, il germogliare delle note all’interno dell’accordo. La musica di Albéniz è il canto di un animo semplicissimo che ha per linguaggio la complessità di un’armonia interamente nuova e letteralmente ‘inaudita’. Ma il grande genio dell’infinitesimale ovviamente è Debussy, nel quale sono rappresentate tutte le transizioni differenziali dal pianissimo al silenzio. Molti musicisti, invecchiando, tendono a poco a poco al silenzio, come se le loro opere fossero vinte dall’impoverimemo e dalla nudità invernale. Nelle ultime opere di Liszt – Du berceau jusqu’à la tombe (l’ultimo “poema sinfonico”), le Lugubri gondole – sempre più si estendono plaghe di silenzio... Qui tutto esala solitudine: le lunghe battute mute, le pagine tacite, gelate come banchi di ghiaccio, l’attesa nel vuoto, i righi musicali sui quali i segni si rarefanno e le note non sono altro che punti esclamativi nel silenzio, e infine quei valori così lenti, così lunghi, tanto che per renderli sopportabili a un concerto il pianista è obbligato ad accelerare un po’ e a barare con il metronomo... Si direbbe che Liszt abbia come voluto compensare il vuoto ‘stirando’ il tessuto musicale nel tempo... Questa traversata del deserto, al termine di un’opera eroica e follemente generosa, salutata dall’acclamazione delle folle, ha qualcosa di enigmatico e pungente: ora che le ovazioni entusiaste e le grandi feste del virtuosismo trionfante tacciono, siamo afferrati da una sorta di angoscia, e ci chiediamo se questa austerità, questa immobilità contemplativa, questi “passi sulla neve”3 tradiscano il declino della vitalità oppure l’intravisione di un mistero, l’inaridirsi dell’ispirazione oppure un’esigenza di scavo metafisico... Impoverimento o approfondimento? Come misurare quanto è dovuto alla forza declinante e quanto all’esigenza ascetica? Quando si ascoltano le ultime opere di un De Falla o il Quartetto per archi di Fauré (l’opus ultimum, quello che il compositore scriveva un anno prima della morte) la loro spoglia nudità sembra proprio essere, al di là di ogni concessione al facile piacere, l’indice di un processo di riduzione all’essenziale. Ma, timidamente, formulerei una domanda: e se nella nostra ammirazione per questa spoglia aridità c’entrasse in qualche modo una sorta di delirio interpretativo?
3
Evidente allusione ad un altro brano musicale, celebre per i suoi suoni felpati e quasi raggelati: il Preludio n. 6, Des pas sur la neige, dal “Primo libro” dei Preludi di Debussy [N. d. C.].
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Vladimir Jankélévitch - La sinfonia dei mormorii
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B.B. Se si trattasse di un declino della vitalità, e se questo ritorno al silenzio non fosse che un miraggio – il puro miraggio di un amatore agiografo –, queste pagine non avrebbero il potere obiettivo di liberare il senso nascosto dell’opera. Si può parlare di inaridimento, là dove al travaglio della composizione si congiungono le radici ultime della disperazione? V.J. Qui tocchiamo il mistero del destino. Può darsi che in questo lavoro di progressiva spoliazione gli uomini riconoscano e salutino fraternamente il proprio destino. Quel destino insito nella contraddizione misteriosa della vecchiaia, che è al contempo declino e ricerca di un’altra saggezza e talvolta persino di un altro linguaggio, o le due cose insieme. Nel momento in cui, attraverso il continuo accumulare esperienze, conoscenze e ricordi, il vecchio dovrebbe accedere al colmo della saggezza – si spoglia. Tolstoj era affascinato da questa spoliazione che, per lui, si riassumeva nel gesto del moribondo sul letto di morte. Impoverirsi arricchendosi, progredire declinando: ecco la vita. Oggi non siamo piú ricchi di ieri, né domani lo saremo piú di oggi... Moltiplichiamo le esperienze, gustiamo quasi tutte le bevande, intingiamo le nostre labbra in tutte le coppe – e al tempo stesso mai siamo piú vicini al non-essere... La memoria diventa vacillante, la capacità creativa sempre piú pigra e lenta, come se il momento della più pura esigenza e il superlativo della piú alta saggezza dovessero necessariamente coincidere con la decadenza dell’energia vitale. Il declino comincia all’apogeo: questo l’angosciante paradosso! C’è di che sentirsi lacerati e perplessi! Si possono ammirare le audacie politonali, ovvero atonali, dell’ultimo Liszt, la nudità meditativa del Quartetto per archi di Fauré, ma al pensiero della radiosa maturità di questi creatori, la nostalgia s’impadronisce di noi... E allora cominciamo a rimpiangere quel meraviglioso terzo Impromptu di Fauré, nel quale la pulsazione vitale è così energica, il cuore batte così forte, il sangue è cosí giovane nelle arterie! La giovinezza infatti rende tutti giovani – come la poesia fa di ciascuno un poeta! Certo, è vero, nella vita di un uomo c’è un momento ottimale in cui le forze creatrici attingono il loro piú alto grado di pienezza: in questo momento di felicità, le esigenze della scrittura non sono ancora sornionamente complici del declino, E cosí che nella FaustSymphonie di Liszt è riunito tutto ciò che fa l’imperiosa evidenza del genio: un dono melodico inesauribile, le trovate orchestrali, la tenerezza appassionata e inoltre l’abbagliante verve mefistofelica – quando alla chiusa il coro maschile intona l’inno finale, una specie di entusiasmo e di riconoscenza infinita ci solleva al di sopra di noi stessi. Altro genere d’emozione, invece, proviamo ascoltando le opere della vecchiaia di Liszt. A questo punto ci troviamo davanti a una delle sorgenti essenziali della musica moderna – e
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
nello stesso tempo sentiamo, sappiamo che queste scoperte geniali, sulla soglia della vecchiaia, marcano l’ingresso di Liszt nel deserto di ghiaccio e nella solitudine: la contrada glaciale dove ciascuno di noi, un giorno, approderà. Proprio quando, alla fine, l’opera di Liszt libera l’avvenire che porta in sé, l’ombra della morte è già scesa a oscurarla. Un impoverimento che conduce il musicista a rischiare gli sfregamenti piú duri, le dissonanze piú crudeli, come se quel gioco col silenzio, che la musica è, diventasse un gioco con la morte; come se fosse il silenzio stesso della morte a venire ad invadere col suo mutismo profetico la pienezza musicale. B.B. Si può dire che questo progredire del silenzio, che ritroviamo ormai all’interno di ogni opera, si sia impadronito dell’intera musica. Il sofferto lavorìo interno del musicista è diventato la regola della modernità: la musica ha ormai valicato la linea del silenzio? V.J. È certamente vero che nella musica si è prodotto un lento dilatarsi del silenzio. Certi musicisti, in particolare del XX secolo, hanno reagito in questo modo contro il lusso, il sovraccarico e le complicazioni della poliarmonia. Ma in questo caso la qualità del silenzio è del tutto differente da quella che troviamo nelle opere della vecchiaia di Liszt, quando ormai le trombe della gloria e gli ultimi squilli del “Trionfo”4 hanno abbandonato lo spazio sonoro e lasciato il posto al raccoglimento e alla preghiera. C’è una reticenza tutta moderna che dice “no” alla tentazione verbosa: la reticenza, allora, è rifiuto di continuare, resistenza all’allettamento dell’inerzia – cosi nel bel mezzo di un discorso, si ha un brusco ripiegamento nel silenzio, una fuga nel silenzio. Come nel caso della serenata interrotta!5 Debussy sgonfia l’enfasi, strangola la prolissità... A partire dal XIX secolo la musica è dominata da Chopin e dai grandi poeti del pianoforte. L’emergenza dal silenzio e il ritorno al silenzio, il flusso e il riflusso, le infinite fluttuazioni della sfumatura, il crescendo e il decrescendo, in una parola il piano-forte, formano l’oscillazione fondamentale del patetismo romantico e il suo rapporto passionale col silenzio. Il pianissimo e lo sfiorare impercettibile dei tasti sono nati da queste possibilità aperte dal romanticismo e in contrasto con esse. Non si può parlare di quell’“appena udibile”, di quel pianissimo possibile [in it.], di quel quasiniente – di cui Debussy fu il meraviglioso poeta – senza evocare la scoperta
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Allusione al secondo brano, “Trionfo” (che segue al primo, “Lamento”), del “poema sinfonico” Tasso [N. d. C.]. Qui in riferimento è a La sérénade interrompue, nono brano del “Libro dei Preludi”, prima citato, di Debussy [N. d. C.].
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Vladimir Jankélévitch - La sinfonia dei mormorii
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del calcolo infinitesimale e la psicologia delle piccole percezioni, con i quali Leibniz ha inaugurato i tempi moderni. Il rumore che sentiamo del mare, si compone di un’infinità di mormorii che non sentiamo – ebbene in Debussy le innumerevoli goccioline, da cui nascono quegli innumerevoli mormorii, sono convertite in musica. L’appena-udibile e il brontolio della tempesta, nella Mer di Claude Debussy, con la loro alternanza compongono l’enorme ciclotimia oceanica. Grazie all’ambiguità naturale del linguaggio musicale, l’analisi della schiuma marina con le sue bolle, la sua spuma e i suoi scintillii, dà immediatamente luogo alla sintesi sonora. Talora, in questa sinfonia fatta di mormorii, si stacca una particella liquida: quel la diesis (ovvero si bemolle), che le arpe sgranano a piú riprese in “Jeux de vague”6, evoca la goccia d’acqua che si ostina a voler essere udita... La sensibilità ai microsuoni è la forma assunta dall’esplorazione dell’infinitesimale nella modernità debussiana. L’orecchio umano è in ascolto: lo stridio di un insetto, il gorgogliare di una bestia notturna, il sospiro d’uno stelo d’erba, lo scricchiolio di una foglia secca... al miracoloso udito di Debussy nulla sfugge. Solo Bartók, autore delle Musiche della notte7, può sostenere il paragone con lui. In Debussy la musica si è lasciata invadere dal brivido delle fate leggere, dalla leggerezza [in it.] delle nuvole che scivolano dolcemente attraverso il cielo, come pensieri... Così, in un paesaggio silenzioso Debussy scopre dei passi sulla neve8: tracce fugaci che domani il vento invernale avrà già spazzato via. E tuttavia l’intento che è al fondo del silenzio debussiano è del tutto opposto a quello del silenzio lisztiano. Nelle ultime opere di Liszt il silenzio è interiorizzazione e conversione: Liszt si distoglie dai clamori del mondo e, sulla soglia della morte, quest’uomo magnanimo rinuncia a ogni magnificenza come a ogni grandezza – dopo i grandiosi inni che riempiono l’“Eroica” degli Studi trascendentali o il “Resurrexit” del Christus, ecco l’umile melopea di un animo mendico: questa musica non dice piú Sursum corda9, ma piuttosto “Fratello, devi morire” – e sembra già che preghi nell’ombra di un monastero. Il silenzio debussiano, viceversa, libera e fa emergere i rumori della vita universale: offre al nostro ascolto il respiro di ogni essere. Comunque, in entrambi i casi, che si tratti di una voce soprannaturale o di voci naturali, di una voce dell’oltre-mondo o di voci di questo mondo che ci parlano di quaggiù, il musicista 6 7 8 9
È il secondo dei “tre schizi sinfonici”, intitolati La Mer (1905), di Debussy [N. d. C.]. Si tratta del quarto brano, della suite per piano Im Freien [All’aria aperta] (1926), di Béla Bartók [N. d. C.]. V. supra nota 3. Questa espressione dà il titolo al settimo e ultimo brano della terza raccolta delle Années de pélerinage. Troisième année: Rome [N. d. C.].
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
del silenzio è davvero all’ascolto di una lingua sconosciuta. Come se, dietro la voce sonora e stentorea, dietro la voce immediatamente udibile, percepisse qualcosa d’altro: un messaggio venuto da altrove, un messaggio lontano... come se, in un medesimo silenzio, si congiungessero la morte del musicista e la morte della musica sensibile. La musica del silenzio è solo piú straziante e piú irradiante: si affida al silenzio come a qualcosa su cui continua ad esser trasportata... La musica sopravvive ancora, nello scuotimento che ci procura, e vibra a lungo dopo che l’orchestra ha taciuto: i violini e i cori continuano a cantare dentro di noi, ci accompagnano con la loro risonanza sul nero viale e talvolta il loro incanto viene ad abitare persino il nostro sonno. Ora il silenzio ha ripreso possesso della sala da concerto, mentre qualcosa continua a vibrare in noi come una eco proveniente dall’oltre-mondo. Questo secondo silenzio, infatti, è un silenzio nuovo… La musica torna al silenzio, ma non senza averlo prima trasformato – e ciò in virtú dell’irreversibilità del tempo. La musica ormai inudibile e insensibile ha fatto di questo silenzio un silenzio musicale. Siamo passati attraverso la musica – e niente, dopo di essa, sarà mai piú come prima... Ho distinto dunque tre tipi di silenzio. Un silenzio primordiale, in cui la musica nasce: è quello in cui, brancolando nelle profondità marine, improvvisano le prime battute del poema sinfonico La Mer di Debussy. Un silenzio della continuità, che instancabilmente bagna e penetra la musica e l’avvolge nel mistero del pianissimo. E infine un silenzio terminale: il quasi-piú-niente nel quale si conclude Pelléas et Mélisande. Il triplice silenzio – dell’inizio, della continuità e della fine – non riassume, in qualche modo, tutta la storia del mondo? (Traduzione dal francese di Enrica Lisciani Petrini)
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ENRICO FUBINI
Temi musicali ed ebraici nel pensiero di Jankélévitch
Vladimir Jankélévitch, filosofo e musicologo, ha dedicato una parte relativamente esigua delle sue riflessioni ad un tema in apparenza secondario ed eterogeneo rispetto ai suoi interessi dominanti, cioè alla situazione esistenziale dell’ebreo diasporico nel mondo odierno, delineando così una fenomenologia della coscienza ebraica. Nella immensa produzione filosofica di Jankélévitch tale riflessione occupa una posizione senza dubbio marginale ma tuttavia, dal momento che la sua personalità non ha i caratteri dell’eclettismo, sorge spontanea la domanda se le sue riflessioni sull’ebraismo s’inseriscano ne contesto più generale del suo pensiero o se rimangano un episodio isolato, legato a sue vicende biografiche personali. L’attenzione alla tematica ebraica, divenuta in lui viva soprattutto dopo la guerra, concretatasi in un appassionato impegno di saggista non solo sui problemi di attualità più bruciante come lo Stato d’Israele o il drammatico confronto con i crimini nazisti e il problema del perdono, ma anche sui più astratti e filosofici temi della natura della coscienza ebraica, del diritto alla diversità ecc., sembra a tutta prima del tutto scissa dai suoi ben noti interessi musicali. Va inoltre ricordato che gli interessi musicali di Jankélévitch sono estremamente settoriali e si concentrano su pochi autori (praticamente su Fauré, Debussy e Ravel) ed hanno una natura quindi eminentemente ideologica. In altre parole, ci si chiede, tra la saggistica musicale di Jankélévitch e le sue riflessioni sull’ebraismo è individuabile una qualche intrinseca relazione, un filo rosso che colleghi i due campi, in apparenza così lontani ed estranei l’uno all’altro, cioè una continuità di pensiero? Per rispondere a questo quesito è forse necessario ripercorrere brevemente i punti più salienti del pensiero musicale di Jankélévitch per ritrovare le coordinate estetiche e più in generale filosofiche che lo hanno guidato nella sua speculazione. Si è detto che i musicisti prediletti da Jankélévitch sono scelti da una rosa assai ristretta di autori francesi a cavallo tra romanticismo, impressionismo e simbolismo. Chiaramente una scelta così circostanziata e precisa è dettata non solo da una sua preferenza sul piano estetico ma da una ben precisa scelta ideologica. Per brevità si può senz’altro affermare che la musica di Debussy rappresenta il centro della specula-
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
zione estetica e filosofica di Jankélévitch, e quindi scavando all’interno di tale scelta si ritrovano le ragioni più profonde del suo pensiero. Perché dunque proprio Debussy? La musica di Debussy, secondo Jankélévitch, rappresenta la più straordinaria incarnazione artistica di una concezione non architettonica e spaziale del tempo ma piuttosto organica e vitalistica, vicina in qualche modo alla concezione bergsoniana del tempo. Forse si può ancora aggiungere che tale modo di sentire e vivere il tempo come durata non può che incarnarsi in una forma musicale. “La musica di Debussy elimina in tal modo il principio di una sostanza centrale gerarchicamente prima e compiutamente rappresentabile (come invece avveniva nell’arte tradizionale), per sostituirvi una nuova entrevision della realtà, quale ‘innumerabile’ e inafferrabile apparenza di una polvere di molecole istantanee, di schegge luminose che qui-ora splendono. Alla fluidità faureana, bergsoniana del tempo, nonché alla scansione razionalistica di esso come processo snodato in sequenze dialettiche (slanci e risoluzioni) è opposta una ‘disgregazione’ fatta di abbaglianti folgorazioni, di “immediate epifanie risplendenti’”1. Così, uno dei più acuti critici italiani di Jankélévitch, evidenzia ciò che per il filosofo francese è il nucleo centrale dell’arte di Debussy e soprattutto la sua portata ideologica nell’ambito della musica occidentale. Infatti Debussy incarna una delle più profonde ribellioni al ‘logos’, come ragione dialettica, consequenziale e onnicomprensiva, di cui la forma sonata, nella musica, rappresentava la più compiuta e perfetta incarnazione; al tempo stesso addita una nuova via, alternativa, alla musica stessa in cui tutti i valori fortemente affermativi della musica precedente vengono in qualche modo rovesciati in nome di una nuova poetica della marginalità e del silenzio. Se nella tradizione romantico-ottocentesca erano considerati valori positivi la conclusività e l’affermatività realizzati con la forza del meccanismo cadenzale, la complessità costruttiva realizzata innanzitutto con la struttura sonatistica, la dialettica delle parti che approda ad una sintesi onnicomprensiva e rassicurante capace di superare tutte le apparenti contraddizioni, il ‘progresso’ che si snoda attraverso sicuri percorsi nello spazio e che si sviluppa secondo una ferrea logica musicale, tutti questi valori nella musica di Debussy vengono radicalmente capovolti. La musica, per sua natura, in quanto “linguaggio defluente e incoerente, equivoco e discontinuo, spezza la coerenza verbosa del Logos rappresentativo, sgretolandone l’impianto ontologico totalitario e alludendo ad uno completamente altro, destituito di qualsiasi fondamento sostanziale. Nella musica 1
E. Lisciani Petrini, L’apparenza e le forme. Filosofia e musica in Jankélévitch, Nuove Edizioni Tempi Moderni, Napoli 1991, pp. 110-111.
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Enrico Fubini - Temi musicali ed ebraici nel pensiero di Jankélévitch
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c’è allusione ad un regime ontologico – un essere delle cose – né rassicurato né rassicurante, ma del tutto incerto, dubitativo, incessantemente penetrato di non essere, interrotto dalla morte, trascinato tra essere e non essere: sempre sulla soglia quasi del nulla: presque rien. Ma un (non) essere allora che è piuttosto un divenire. Là dove divenire va inteso non come un cammino diritto e unilineare, sorretto da una precisa strategia, bensì come un puro essere in moto....”2 Così commenta ancora Enrica Lisciani Petrini il pensiero di Jankélévitch. Ora c’è da chiedersi perché, la musica, quella di Debussy per intenderci, che rappresenta questa alternativa radicale alle “ebbrezze razionalistiche” della civiltà occidentale, non si è sempre posta in questi termini, ma invece per lungo tempo, per lo meno in Occidente, ha accompagnato e favorito l’ideale rassicurante e progressivo in cui siamo cresciuti. Il linguaggio musicale, per sua natura inesprimibile e ineffabile si sarebbe orientato verso questa inespressività originaria, se non fosse stato artificialmente piegato ad una concezione del mondo espressiva e rassicurante. Nel mondo odierno, in cui tutte le razionali e rassicuranti certezze di ieri sono entrate in crisi, la musica, ma non solo la musica, è diventata in qualche modo il simbolo di un altro pensiero, di un diverso stato di coscienza, di un diverso modo di vivere il tempo. Il discorso sulla musica rimanda pertanto a problemi di altra natura e forse si può cominciare ora ad intravvedere il suo segreto legame con l’ebraismo. Scorrendo, anche distrattamente, gli scritti ebraici di Jankélévitch si rimane a tutta prima colpiti di notare che in essi ricorrono termini e concetti che già comparivano nei suoi scritti musicali3 Anzitutto anche per quanto riguarda l’ebraismo è centrale la riflessione sul tempo e sulla modalità ebraica di vivere il tempo, soprattutto in relazione all’idea messianica. Il rifiuto dello storicismo e della dialettica consolatoria e conciliante costituiscono un altro asse portante della sua riflessione; ma stupisce altresì di trovare la stessa terminologia quale ‘indefinito’, ‘inesprimibile’, ‘non so che’, ‘elusività’, ‘differenza’ ecc.. di cui già si serviva per descrivere lo status ontologico della musica. Ciò forse potrebbe semplicemente spiegarsi con il fatto che l’autore è affezionato ad una certa terminologia e che quindi questa ricorre in tutti gli scritti, di qualsiasi argomento trattino. Ma in un filosofo così raffinato ed acuto quale è Jankélévitch ci sembra una spiegazione troppo riduttiva. L’uso di una medesima terminologia meglio 2 3
E. Lisciani Petrini, Lo “Charme” della musica, Introduzione a V. Jankélévitch, La musica e l’ineffabile, Tempi Moderni, Napoli 1985, p. XXXV. A tale edizione farà riferimento, nel prosieguo del testo, la sigla MI. Cfr. soprattutto la raccolta di scritti Sources; si veda inoltre la traduzione italiana parziale di questi scritti La coscienza ebraica (sigla CE).
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
si spiega con l’ipotesi che ci si trova di fronte a problemi che ad un’attenta analisi rivelano una profonda affinità. L’esistenza ebraica è spiegata da Jankélévitch in termini di sottile ambivalenza per non dire di sottile e inafferrabile ambiguità. Ci sono elementi di insanabile contraddizione nella stessa struttura concettuale della vita ebraica: l’esilio, in questa prospettiva, è visto non come un evento storico, superabile in virtù di altri possibili eventi storici, ma inscindibilmente connesso alla stessa coscienza ebraica. Così si esprime acutamente Jankélévitch in un suo saggio del 1957: “Il movimento rappresenta la maniera di esistere di una coscienza che porta in se stessa degli elementi contraddittori, il modo di essere di un uomo che è straniero e indigeno, che vuole a un tempo assomigliare e ‘dissomigliare’. Il peregrinare, che si oppone alla tendenza all’insediamento, fu sempre considerato come uno dei tratti fondamentali di Israele” (CE, 28). Il movimento a cui si allude non è un movimento nello spazio, ma è da riportarsi al tempo, un movimento perciò che è legato all’idea del divenire. Ma, afferma ancora Jankélévitch, “lo spirito di movimento fa d’Israele il portatore privilegiato della contraddizione umana.... Un non so che di definito e di indefinibile si esprime in questo problema irritante,senza sosta risolto, senza sosta rinascente e, per farla breve, essenzialmente equivoco” (CE, 23). La situazione dell’ebreo è dunque irrimediabilmente ambigua e trae la sua linfa vitale dall’irresolubilità delle contraddizioni all’interno delle quali egli vive. “Di qui – continua Jankélévitch – viene forse lo spirito di mobilità di cui Israele è il portatore. Il movimento è la sola soluzione alla tensione interiore, così come il divenire, che è la nostra vocazione, risolve la contraddizione dell’essere e del non essere, l’uomo diviene questi opposti che egli non può essere simultaneamente” (CE, 28). Non vi è conciliazione dunque, le contraddizioni rimangono aperte, le lacerazioni non sono sanabili ma sono feconde, sono il sale della terra. Scorrendo con attenzione le pagine del filosofo sulla coscienza ebraica ci si accorge che in esse viene privilegiato un aspetto particolare dell’ebraismo: la condizione diasporica, condizione invalicabile, fonte di dolore e d’infelicità ma al tempo stesso di feconda e produttiva inquietudine. La conclusione di Jankélévitch è centrale per il nostro discorso: “La lacerazione ebraica, in questo, è una forma privilegiata della lacerazione umana in generale” (CE, 36), ed aggiunge: “La peculiarità dell’ebreo non è mai stata quella di cercare la soluzione nella sintesi conciliatrice: lasciamo questo compito a Hegel e ai suoi amici. Crediamo piuttosto alla fecondità di un’oscillazione vibratoria infinita fra questi due poli: la disseminazione con la sua inquietudine, la Diaspora che è principio d’aporia; dall’altra
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Enrico Fubini - Temi musicali ed ebraici nel pensiero di Jankélévitch
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parte, lo Stato temporale, certamente banale come tutti gli altri Stati, ma che rappresenta la possibilità intramondana di Israele, che dico?, la sua certezza quaggiù, l’affermazione stessa della sua pienezza vitale” (CE, 3435). Pertanto il dualismo e l’oscillazione, così presente ieri ma anche oggi, nell’animo ebraico tra la diaspora e un Israele, ieri lontano, immaginato, sconosciuto, desiderato, invocato, oggi reale e presente nella sua concretezza, “non è un vicolo cieco disperante, ma è una polarità vivificante che elettrizza la coscienza ebraica” (CE, 35-36). A chi rimprovera agli ebrei di non accettare senza riserve né l’assimilazione totale né la nazionalità israeliana, Jankélévitch risponde: “non siamo noi a non sapere ciò che vogliamo, è la verità che è lacerata e incoerente, sono le verità che sono sporadiche e incompatibili e non possono essere onorate tutte insieme” (CE, 22) Così conclude Jankélévitch in un altro saggio dal significativo titolo, L’ebraismo, problema interiore, affermando che la situazione esistenziale dell’ebreo “è inquietante anche quando non è tragica, è una sollecitazione a cercare sempre altrove, sempre oltre..... C’è una perplessità infinita, che non comporta né fine né soluzione. Io non conosco il modo di fare in me stesso la sintesi delle contraddizioni, e la conciliazione hegeliana ha per noi poca attrattiva. La nostra perplessità durerà fino alla fine dei tempi, i quali non hanno fine” (CE, 40). Non tutti possono concordare su questa concezione dell’ebraismo che privilegia un aspetto senza dubbio centrale, cioè il carattere diasporico, visto come la principale molla propulsiva dell’ebraismo stesso. Un ipotetico ritorno di tutti gli ebrei in Israele sarebbe considerato da Jankélévitch come la fine dell’ebraismo o meglio la fine di quella situazione esistenziale dell’ebreo a lui così cara cioè di quella produttiva e feconda tensione di cui si è sempre alimentato l’animo ebraico, l’avvento quindi di una normalità nella storia che cancellerebbe la diversità ebraica. Ma non è il luogo qui per mettere in questione questa visione dell’ebraismo: ci basta ricordare che è la sua visione dell’ebraismo e che ve ne sono altre in cui la diaspora stessa viene vista come un accidente storico, deprecabile, gravido di pericoli che può, oggi in particolare, mettere in forse l’esistenza stessa dell’ebraismo. Ancora un cenno, per meglio penetrare nel suo ebraismo, ad un problema strettamente connesso a quelli a cui già si è fatto cenno: il messianismo ebraico. Nota Jankélévitch che si possono dare due diversi tipi di messianismo. Il primo implica l’idea della fine dei tempi: l’avvento del Messia segnerebbe un termine a cui prima o poi si giunge, per lontano che sia; il tempo verrebbe a configurarsi come “una grandezza scalare”, come un “mobile che avanza regolarmente e sempre nello stesso senso” e “il diveniente si avvicina sempre più alla consumazione del tempo” (CE, 42-
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
43). La storia significherebbe dunque srotolare “il rotolo dei possibili” e si fermerebbe quando il rotolo è alla fine; questo vale anche per la vita umana: “noi siamo degli esseri limitati che abbiamo solo pochissime idee: ci fermiamo quando siamo in fondo, come si ferma un orologio che esaurisce la carica”(CE, 58). Il secondo modo d’intendere il messianismo è proprio dell’ebraismo e anzitutto implica l’abbandono dell’idea di un Messia personale che giunge in un tempo determinato: “Fin dal libro di Isaia gli ebrei hanno voltato le spalle all’idea di un Messia personale, per fare del messianismo il campo di una speranza pneumatica, indeterminata, di natura così morale e religiosa da implicare una trasfigurazione morale degli uomini. A questa trasfigurazione ci si guarda bene dall’assegnare una data. La depersonalizzazione del Messia, rimasto personale solo nelle credenze popolari, è un fenomeno essenziale nella storia filosofica dell’ebraismo” (CE, 58). Il tempo assume dunque un carattere d’infinitezza e il vero problema non è la fine dei tempi, ma piuttosto “i fini del tempo”; “non la fine della storia, perché essa non avrà mai fine, perché non sarà mai alla fine del suo rotolo; il nostro vero problema sono i fini della storia; i fini smentiscono la fine; i fini che sono ideali, normativi, con i quali viviamo, che sono capaci di produrre in noi i grandi rinnovamenti e che non ci lasciano la possibilità di dire ‘per sempre’.... Per il fatto stesso che noi ci rivolgiamo a un futuro infinitamente lontano, che questo futuro non arriverà mai sul calendario, ma sopraggiungerà come un profondo mistero, come il mistero della morte sbocca in un altro ordine, esso è sempre presente: dire che è sempre futuro o sempre presente è la stessa cosa.... Questo domani è il mio oggi, brilla in questa lampada accesa della speranza che è nel cuore di ciascuno di noi e trasfigura il nostro ‘ogni giorno’, la nostra quotidianità, l’orienta perché la speranza fiorisca continuamente in noi” (CE, 64-5). Così Jankélévitch conclude il denso saggio del 1961, La speranza e la fine dei tempi, saggio sul messianismo ebraico ma più ancora saggio sul senso del tempo nell’ebraismo. Ed infine ancora un accenno ad un altro importante saggio Assomigliare, dissomigliare, del 1964. Anche qui Jankélévitch mette ancora una volta il dito su quella contraddizione irrisolta e irresolubile che sta alla radice dell’esistenza ebraica ma che al tempo stesso diventa una cifra universale dell’esistenza umana. L’ebreo è costantemente preso tra due tentazioni diverse ed opposte, speculari una all’altra: essere come gli altri, cioè assomigliare, essere come tutti, o isolarsi nella propria specificità, diversità e particolarità. Si potrebbe universalizzare questa duplice tentazione affermando che una rispecchia il bisogno di vita sociale, l’altra il bisogno di solitudine che si manifesta anche come “la protesta dell’uomo che non vuole scom-
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Enrico Fubini - Temi musicali ed ebraici nel pensiero di Jankélévitch
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parire in questo universale grigiore”: l’uomo ebreo è alla ricerca di questa forte particolarità, ma allo stesso tempo “sente la nostalgia dell’apertura, di tutto ciò a cui egli si chiude, di tutto ciò a cui rinuncia, e ha la sensazione di rinchiudersi e di impoverirsi” (CE, 88-9). Un dilemma non molto diverso si rivela nel “volere allo stesso tempo essere trattato assolutamente come gli altri, senza alcuna discriminazione” ma conservando al tempo stesso la propria originalità. “E tuttavia è questa rassomiglianza differente o questa differenza rassomigliante che spiega il lato problematico dell’ebreo, il suo senso enigmatico”, e così “sfugge col movimento, sfugge con l’umorismo e sfugge essendo un altro da se stesso, all’infinito” (CE, 92). Ed ancora per concludere: “Chi non accetta di essere come gli altri né un altro dagli altri, chi non accetta di essere uno fra loro né il solo della sua specie, accetta di essere un altro da sé sviluppandosi all’infinito, sfuggendo a se stesso” (CE, 92-3). Quale atteggiamento di fronte a questa duplice tentazione, al desiderio di assomigliare e al contro-desiderio di dissomigliare? “Non è serio – afferma ancora Jankélévitch – essere tentati dal contro-desiderio del proprio desiderio. Non è una cosa seria né una verità. È qualcosa, al contrario, che richiede di essere trattato come uno scherzo, con umorismo. È serio, al contrario, riconoscere al limite il lato un po’ ironico della nostra condizione, il lato contraddittorio e ironico della nostra condizione di uomini. C’è una perfetta serietà che non ne ha l’aria, quella dell’ebreo che va avanti, che raggiunge in questo modo l’innocenza, lontano da ogni tentazione impura.... L’uomo che ha capito, che si è convertito a questa innocenza – e forse la coscienza ebraica vi è particolarmente preparata ed ha in questo senso un valore esemplare –, l’uomo che ha capito il valore dell’innocenza, e il lato illusorio e puerile di queste tentazioni che egli stesso ha fabbricato, riconoscerà che tutto ciò non valeva la pena, che non vale veramente la pena lasciarsi tentare dal serpente per così poche cose. Capirà che il frutto proibito, una volta che non è più proibito, ha un gusto molto amaro, lo getterà lontano da sé e arrossirà un giorno di averlo tanto desiderato” (CE, 92-4). Questi passi sopra citati permettono di cogliere in modo sufficientemente chiaro il modo d’intendere l’ebraismo da parte di Jankélévitch e di ritornare quindi al discorso iniziale sulla musica. Abbiamo parlato di terminologia affine: appare ora chiaro che vi è una ragione profonda del fatto che tale terminologia, o meglio, tali strumenti concettuali, si possono perfettamente a buon diritto applicare a questi due campi, la musica e l’ebraismo, in quanto essi rivelano, ad un attenta analisi, una profonda affinità strutturale. Per la musica “l’equivoco è il regime normale” e perciò essa “non è tenuta a scegliere fra sentimenti contraddittori” ma anzi “compone con essi – ad onta di ogni alternativa – un solo stato d’animo complessivo,
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
uno stato d’animo ambivalente e sempre indefinibile” (MI, 103-4). La contraddizione non risolta e irresolubile è dunque l’anima della musica, della musica autentica, come può essere per l’appunto quella di Debussy. Ma tale musica, tale esperienza esistenziale privilegiata diventa, proprio come l’ebraismo, una cifra dell’esistenza umana, una spia per cogliere i lati più autentici e profondi della stessa condizione umana. Si può così enumerare tutta una serie di parentele tra musica ed ebraismo, rimanendo ovviamente all’interno dell’esperienza di pensiero di Jankélévitch. Debussy ha sottolineato con la sua musica la condizione dell’uomo che rinuncia alla saldezza dell’esistenza, al suo significato univoco e affermativo: la realtà non è più sentita come la casa dell’uomo, la patria salda in cui ci si riconosce senza residui. Debussy con la sua musica ha sancito la condizione della Heimatlosigkeit, della perdita della terra e della patria, propria dell’uomo. Come non avvertire la non casuale coincidenza con l’ebreo che vive ormai un’esistenza costituzionalmente priva di patria e che al tempo stesso anela ad una patria, preso da un eterna e inestinguibile nostalgia di patria, che neppure la nascita dello Stato d’Israele ha potuto estinguere? Così l’illusoria concretezza univoca del reale è stata spazzata via dalla musica di Debussy e dalla sua ineffabile inespressività ed ambiguità. “La musica – afferma Jankélévitch – discorso vago e defluente, si situa dunque al di là delle categorie separate del comico e del tragico, nella profondità stessa della vita vissuta” (MI, 93). La definitezza non si confà alla musica che per sua natura tende ad ‘esprimere l’inesprimibile all’infinito’ e il suo ambito “non è l’indicibile ma l’ineffabile. L’indicibile è la notte nera della morte, perché essa è tenebra impenetrabile e desolante non-essere.... Mentre l’ineffabile, del tutto all’opposto, è inesprimibile perché su di esso c’è infinitamente, interminabilmente da dire...” (MI, 101). Anche a questo proposito si può constatare la perfetta specularità tra l’esperienza musicale e l’esperienza ebraica. Anche l’ebraismo ha una sua ineffabilità perché definirlo è “come definire qualcosa la cui essenza è quella di essere indefinibile”. L’ebreo infatti vuole essere se stesso e allo stesso tempo vuole essere l’altro da sé, perciò è due volte assente da se stesso e in questo si potrebbe dire che è uomo per eccellenza. Che è due volte uomo” (CE, 8). Di qui ha origine quella tensione tipicamente ebraica, che diventa “tensione creatrice e la sua soluzione risiede all’infinito” (CE, 22). Il che vale a dire che tale tensione si risolve nel tempo e nel movimento. Il messianismo ebraico incarna perfettamente questa concezione del tempo come movimento infinito. Il rifiuto dell’idea della fine dei tempi e quindi della conclusività del nostro operare ancora una volta ci riporta alla musica di Debussy, come metafora dell’esistenza umana ed ebraica in particolare. La fine dei tempi
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è la morte così come l’indicibile è ancora metafora della morte, della paralizzante immobilità a cui conduce. Il Messia come tensione verso il futuro, come speranza indefinita e ineffabile è invece la vita, il movimento infinito, il tempo nella sua più profonda dinamica: ma questo discorso, va notato ancora una volta, è proprio della musica come dell’ebraismo, e non a caso Jankélévitch usa termini chiave come innocenza, per designare il procedere dell’ebreo come del musicista. Si potrebbe dire che l’innocenza è il modo più appropriato di vivere il tempo come movimento ed è una qualità ugualmente necessaria al musicista come all’ebreo. Solo nell’innocenza del compositore così come dell’interprete, la musica può esercitare il suo potere e la sua suggestione profonda, la sua “forza persuasiva”, trascinando l’ascoltatore nel flusso del suo movimento. È la stessa innocenza necessaria “all’ebreo che va avanti, che raggiunge in questo modo l’innocenza”, lontano dalla tentazione impura, l’innocenza che” ignora la lotta”, l’innocenza che “essendo nel movimento, implica essa stessa la serenità e l’indifferenza...” (CE, 93). Lo stato d’animo più consono al musicista ed anche all’ebreo è dunque lo scherzo e l’humour: è l’unica possibile serietà, l’unica possibile saggezza per l’uomo. Così come l’ebreo non può che ironizzare sottilmente sull’ambiguità della propria situazione esistenziale, così il musicista, che ritrova un’analoga ambiguità nell’essenza stessa della musica ricorre all’humour per esprimere il contenuto più profondo della musica stessa che, come afferma efficacemente Jankélévitch, è al tempo stesso “seria e frivola, profonda e superficiale” (MI, 91). Sono molti dunque i punti di contatto tra l’ebraismo, quello vissuto ed esperito da Jankélévitch, e la musica, la cui essenza più profonda s’incarna nell’opera di Debussy: si tratta di due esperienze limite che rimandano anzitutto alla situazione umana, una situazione da cui l’uomo tende a sfuggire per rifugiarsi in miti collettivi consolatori, vani e ingannevoli. In qualche modo l’ebraismo e la musica si pongono nel pensiero di Jankélévitch come due residui baluardi, silenziosi, appartati e soprattutto marginali alle “ebbrezze razionalistiche e dialettiche”. Saper vivere la marginalità nella sua positività, come dimensione della vita appartata dai clamori e dalle troppo facili certezze può essere appunto il messaggio più pregnante che musica ed ebraismo, in quanto esperienze intensificate dell’esistenza umana, ci trasmettono, lontano dalle folle vocianti, come “reminiscenza o profezia”, che può ricordare “all’uomo il mistero che egli porta in se stesso” (MI, 211).
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Abstracts
Vladimir Jankélevitch ha dedicato una parte relativamente esigua delle sue riflessioni ad un tema che può apparire secondario rispetto al filone più importante dei suoi interessi, cioè alla situazione esistenziale dell’ebreo diasporico nel mondo odierno, definendo in tal modo una fenomenologia della coscienza ebraica. Ci si chiede pertanto se vi sia una relazione tra il pensiero di Jankélevitch musicologo e le sue riflessioni sulla coscienza ebraica. La musica di Debussy, secondo Jankélévitch, rappresenta la più straordinaria incarnazione artistica di una concezione non architettonica e spaziale del tempo ma piuttosto organica e vitalistica, vicina in qualche modo alla concezione bergsoniana del tempo. Infatti Debussy incarna una delle più profonde ribellioni al ‘logos’, come ragione dialettica, consequenziale e onnicomprensiva, di cui la forma sonata, nella musica, rappresentava la più compiuta e perfetta incarnazione; al tempo stesso addita una nuova via, alternativa, alla musica stessa in cui tutti i valori fortemente affermativi della musica precedente vengano in qualche modo rovesciati in nome di una nuova poetica della marginalità e del silenzio. Il tempo, nella musica di Debussy, assume dunque un carattere d’infinitezza e il vero problema non è la fine dei tempi, ma piuttosto “i fini del tempo”; “non la fine della storia, perché essa non avrà mai fine, perché non sarà mai alla fine del suo rotolo; il nostro vero problema sono i fini della storia; i fini smentiscono la fine; i fini sono ideali normativi, con i quali viviamo, che sono capaci di produrre in noi i grandi rinnovamenti e che non ci lasciano la possibilità di dire ‘per sempre’....” Così Jankélevitch conclude il suo saggio La speranza e la fine dei tempi, un saggio sul messianismo ebraico ma ancor più sul significato del tempo nell’ebraismo. Il messianismo incarna così perfettamente questa concezione del tempo come movimento infinito, una concezione del tempo che si trova, in via metaforica, nella musica di Debussy. Questi ha sottolineato con la sua musica la condizione dell’uomo che rinuncia alla saldezza dell’esistenza, al suo significato univoco e affermativo: la realtà non è più sentita come la casa dell’uomo, la patria salda in cui ci si riconosce senza residui. Debussy con la sua musica ha sancito la condizione della Heimatlosigkeit, della perdita della terra e della patria, propria dell’uomo. Come non avvertire la non casuale coincidenza con l’ebreo che vive ormai un’esistenza costituzionalmente priva di patria e che al tempo stesso anela ad una patria, preso da un’eterna e inestinguibile nostalgia di patria? Nel pensiero di Jankélevitch ebraismo e musica appaiono come sicuri e silenziosi argini alle “ebbrezze razionalistiche e dialettiche”. Nasce pertanto il sospetto
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Enrico Fubini - Temi musicali ed ebraici nel pensiero di Jankélévitch
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che per Jankélevitch la cultura ebraica rappresenti un sottofondo al suo intero lavoro di filosofo e non solamente di musicologo e filosofo della musica. Forse che l’etica ebraica non è un elemento pervasivo, anche se non sempre evidenziato, nei suoi ampi scritti filosofici? Questo è un problema a cui gli esperti del pensiero di Jankélevitch, con le dovute cautele, possono darci una risposta. Vladimir Jankélévitch a consacré une part relativement faible de ses réflexions à un thème qui peut paraître secondaire par rapport aux intérêts les plus centraux de sa philosophie, c’est-à-dire à la situation existentielle du juif de la diaspora dans le monde d’aujourd’hui, définissant de cette façon une phénoménologie de la conscience juive. C’est pourquoi on se demande s’il existe une relation entre la pensée de Jankélévitch musicologue et ses réflexions sur la conscience juive. La musique de Debussy, selon Jankélévitch, représente le plus extraordinaire exemple artistique d’une conception du temps ni architectonique ni spatiale, mais plutôt organique et vitaliste, proche, en quelque façon, de la conception bergsonienne du temps. En effet, Debussy incarne une des plus profondes rébellions à l’égard du “logos’, entendu comme raison dialectique, logique, compréhensive, dont la forme-sonate, dans la musique, représente l’incarnation la plus accomplie et la plus parfaite; dans le même temps, il indique une nouvelle voie, alternative, pour la musique elle-même, dans laquelle toutes les valeurs fortement affirmatives de la musique antérieure sont en quelque façon renversées au nom d’une nouvelle poétique de la marginalité et du silence. Le temps, dans la musique de Debussy, assume donc un caractère d’infinité et le vrai problème n’est pas celui de la fin des temps, mais plutôt celui des “buts du temps”; “non pas la fin de l’histoire, parce qu’elle n’aura jamais de fin, parce qu’elle ne sera jamais au bout de son rouleau; notre vrai problème ce sont les buts de l’histoire; les buts démentent la fin; les buts sont des idéaux normatifs, avec lesquels nous vivons, qui sont capables de produire en nous les grands renouvellements et qui ne nous laissent pas la possibilité de dire ‘à jamais’ …” Ainsi Jankélévitch conclut-il son essai L’espérance et la fin des temps, un essai sur le messianisme juif mais plus encore sur la signification du temps dans le judaïsme. Le messianisme incarne si parfaitement cette conception du temps comme mouvement infini, une conception du temps qui se retrouve, de façon métaphorique, dans la musique de Debussy. Celui-ci a souligné avec sa musique la condition de l’homme qui renonce à la solidité de l’existence, à sa signification univoque et affirmative: la réalité n’est plus perçue comme la maison de l’homme, la ferme patrie où l’on se sent bien chez soi. Debussy, avec sa musique, a sanctionné la condition de la Heimatlosigkeit, de la perte de la terre et de la patrie, propre à l’homme. Comment ne pas se rendre compte de la coïncidence – qui n’a rien d’un hasard – avec la situation du juif qui vit désormais une existence constitutionnellement privée de patrie, et qui, en même temps, aspire ardemment à une patrie, pris qu’il est d’une éternelle et inextinguible nostalgie de la patrie ? Dans la pensée de Jankélévitch judaïsme et musique apparaissent comme des digues sûres et discrètes pour les “ébriétés rationalistes et dialectiques”. C’est pourquoi naît le soupçon que, pour Jankélévitch, la culture juive représente l’ar-
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
rière-plan de son travail philosophique tout entier, et pas seulement de celui du musicologue et philosophe de la musique. Peut-être que l’éthique juive n’est pas un élément envahissant, même si pas toujours mis en évidence, dans ses amples écrits philosophiques ? C’est là un problème auquel il appartient aux experts de la pensée de Jankélévitch de donner, avec les précautions nécessaires, une réponse. Vladimir Jankélévitch devoted a relatively meagre part of his reflections on a topic which seems secondary to and out of line with his dominant interests, namely the existential situation of the Jew of the diaspora in the world of today, thus defining a phenomenology of Jewish consciousness. One is bound, then, to wonder whether there is a relationship between the thinking of Jankélévitch the musicologist and his reflections on Jewish consciousness. The music of Debussy, according to Jankélévitch, is the most extraordinary artistic incarnation of a conception of time which is not architectural, not spatial but rather organic and vitalistic, in a way close to the Bergsonian conception of time. In fact, Debussy incarnates one of the most profound rebellions against the ‘logos’, as dialectic, consequential and allembracing reason, of which the sonata form, in music, was the most complete and perfect incarnation; at the same time he points to a new, alternative way to music itself in which all the powerfully affirmative values of earlier music are in some way overturned in the name of a new poetics of marginality and silence. Time, in Debussy’s music, takes on a character of infinitude and the real problem is not the end of times, but rather “the ends of time”. “The ends – the purposes – belie the end; they are ideals, rules, with which we live, capable of producing great renewals in us and robbing us of the possibility to say ‘for ever…’”. Thus does Jankélévitch conclude the substantial 1961 study Hope and the end of times, an essay on Jewish Messianism but still more on the meaning of time in Judaism. Jewish Messianism thus perfectly incarnates this conception of time as infinite movement, a conception of time which is also found, metaphorically speaking, in the music of Debussy. With his music Debussy stressed the human condition, of one who gives up the solidity of existence, its univocal, affirmative meaning: reality is no longer felt to be the home of the human being, the solid homeland in which we recognize ourselves without residue. With his music Debussy sanctioned the condition of Heimatlosigkeit, of the loss of the earth and the homeland, specific to humanity. In some way Judaism and music are set up in Jankélévitch’s thinking as surplus bastions, silent, cut off from and above all marginal to “rationalistic and dialectic thrills”. The suspicion thus arises that Jewish culture is for Jankélévitch an undercurrent to his entire work as a philosopher and not only as a musicologist and philosopher of music. Is Jewish ethics perhaps a pervasive, though not always emphasized, element in his vast philosophical writings? This is a question that is worth asking, with all due caution, of the experts on Jankélévitch’s thought.
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CARLO MIGLIACCIO
Le sérieux de la musique
Telle est bien la vie: elle ne ressemble pas au roman picaresque où le héros, d’un chapitre à l’autre, est surpris par des événements toujours nouveaux, sans nul dénominateur commun; elle ressemble à la composition que les musiciens appellent thème avec variations. (M. Kundera, L’immortalité)
1. Chez Jankélévitch, le schéma aventure – ennui – sérieux n’est pas seulement le sujet du livre, publié en 1963, L’Aventure, l’Ennui, le Sérieux, mais se situe également à différents niveaux de l’articulation de sa pensée: méthodologique, existentiel, éthique, esthétique, gnoséologique, à tel point qu’il peut être envisagé dans beaucoup de ses œuvres, aussi bien philosophiques que musicologiques. Il s’agit d’une dialectique qui relève surtout du problème de la temporalité: en effet, l’aventure est, avant tout, une manière immédiate et non réflexive de vivre le temps, tandis que l’ennui est une façon, intellectuelle et analytique, de le neutraliser, et le sérieux une manière ultérieure, sage et désenchantée, de le récupérer. Concernant la temporalité, le rôle de la musique est très important, non pas comme une simple métaphore, mais au contraire comme le lieu spécifique où cette dialectique s’articule, et à l’intérieur de laquelle les thèmes du langage, de la science, de l’histoire et du mythe deviennent visibles. Afin de renouer le fil de ces rapports complexes, je voudrais partir d’une réflexion sur le mythe, faite par Karoly Kerényi, le célèbre mythologue hongrois, dans son Introduction à l’essence de la mythologie: “Nous avons perdu le contact immédiat avec les grandes réalités du monde spirituel – dont fait partie tout ce qui est vraie mythologie –, et c’est précisément la science, toujours prête à intervenir et riche de ses remèdes, qui est la cause de cette perte”. La vraie mythologie est, selon Kerényi, le mouvement du mythologème – c’est-à-dire “une somme d’éléments anciens, transmis par la tradition […] éléments contenus dans des récits connus”: “quelque chose de ferme et de mobile en même temps, de matériel bien que non statique,
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
sujet à transformations”. Mais la réflexion scientifique sur le mythe trouve ce qu’elle cherche à l’avance et, d’une certaine façon, déjà tout fait; ainsi elle trahit le sens original du mythologème et fait perdre le goût de l’immédiat et le plaisir de la recherche. En outre, l’auteur hongrois compare de façon significative la mythologie à la musique: comme la musique, la mythologie se développe selon un devenir qui se présente par images, toujours différentes, comme des variations d’un même thème fondamental: “L’art de la mythologie et la matière dont elle se sert se trouvent réunis dans une seule et même manifestation, comme l’art du compositeur et sa matière, dans le monde des sons. L’œuvre musicale se trouve nous faire voir l’artiste en tant que créateur et nous montre en même temps le monde des sons, tel qu’il arrive à le modeler”. Et par conséquent: “Il s’agit là d’un art [la mythologie] qui se manifeste par son modelage même, et se sert d’une matière spéciale se modelant elle-même, les deux indissolublement unis dans une seule et même manifestation”. En musique comme en mythologie, les idées ne peuvent être exprimées respectivement qu’en musique et en mythologie et leur langage ne peut pas être traduit par le langage de la science. Donc, dit Kerényi, il faut “laisser parler les mythologèmes par eux-mêmes, et simplement prêter l’oreille, tout simplement”. Et cette écoute est une vibration commune, une expansion commune; et Kerényi peut citer Rilke: “Celui qui s’épanche en source, la connaissance le connaît”1; ainsi le mythos apparaît comme une fusion de l’artiste avec la matière de l’art; ils forment ainsi un seul ensemble, l’œuvre, c’est-à-dire quelque chose d’“objectivé” et dont toute explication ou interprétation demeure insuffisante, parce qu’il faut le laisser prononcer son sens par soi-même.2 Il semble inévitable de comparer ces problèmes à ce que dit Henri Bergson lorsqu’il renvoie la connaissance à l’intuition de la durée et qu’il critique la méthode intellectuelle, qui sépare celui qui connaît de ce qui est connu. Selon Bergson, l’intuition est “la sympathie par laquelle on se transporte à l’intérieur d’un objet pour coïncider avec ce qu’il a d’unique 1 2
Dans R.M. Rilke, Sonnet à Orphée, II, XII, in Elégies de Duino, Les Sonnets à Orphée, trad. fr. par J. F. Angelloz, Aubier Montaigne, Paris 1943, p. 217. K. Kerényi, De l’origine et du fondement de la mythologie, in K. Kerenyi, C. G. Jung, Introduction à l’essence de la mythologie: l’enfant divin, la jeune fille divine, trad. fr. par H. E. Del Medico, Payot & Rivages, Paris 19933, pp. 11-15. C. Levy-Strauss aussi, dans Le cru et le cuit, compare la mythologie à la musique, mais de cet art il souligne les aspects narratifs plutôt que ceux purement temporels. Et H. Blumenberg, in Arbeit am Mythos, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1979, compare l’élaboration du mythe au thème avec variations. On peut déjà retrouver l’analogie mythe-musique chez Wagner, qui considérait le mythe comme une sorte de partition orchestrale.
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Carlo Migliaccio - Le sérieux de la musique
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et par conséquent d’inexprimable”. Au contraire, l’analyse est “l’opération qui ramène l’objet à des éléments déjà connus, c’est-à-dire communs à cet objet et à d’autres”3. Pour Bergson, donc, l’analyse est “une traduction, un développement symbolique, une représentation prise de points de vue successifs d’où l’on note autant de contacts entre l’objet nouveau, qu’on étudie, et d’autres, que l’on croît déjà connaître”. Tandis que – conclut le philosophe – “l’intuition, si elle est possible, est un acte simple”.4 Mais ces repères, outre que bergsoniens, sont aussi plotiniens et ne peuvent que rappeler la phrase célèbre du Premier livre des Ennéades, très admirée par Goethe et citée par Jankélévitch dans sa monographie sur Bergson: “L’œil doit être solaire pour voir la lumière” (HB, 74)5. On sait que Plotin était le sujet du premier essai de Jankélévitch, c’est-à-dire de sa thèse pour le Diplôme d’Études Supérieures, soutenue en 1924 sous la direction d’Émile Bréhier, éminent traducteur de Plotin. Dans le sillage de Bréhier, Jankélévitch remarque – après une lecture pénétrante des Ennéades6 – l’unité vivante qui s’instaure entre intelligence et sensation, l’harmonie profonde qui existe entre l’intention et la réalisation, dont il reprend la dialectique dans son livre sur Bergson; il identifie cette dialectique avec la continuité de la vie, avec un principe “mobilisateur” et dynamique qui anime aussi bien la connaissance que l’action morale. Le titre du dernier chapitre de cette œuvre est la citation de la phrase du livre VII de la République, où Platon décrit la conversion de l’obscurité de la caverne à la lumière du Bien, ƾὺƹ ὅƷῃ ƿῇ ǃǀǂῇ, “avec l’âme toute entière”; cette epistrophé, ou peristrophé, vers la vérité, coïncide pour Jankélévitch aussi bien avec une totalisation de l’être qu’avec la “liberté qui exige le sérieux”. En effet, Bergson avait utilisé l’expression de Platon dans l’Essai sur les données immédiates de la conscience, afin de caractériser l’acte libre, qui est aussi un acte unique, concret et mobile, avant de se solidifier en mots et de se recouvrir “d’une croûte extérieure de faits psychologiques nettement dessinés, séparés les uns des autres”7. Jankélévitch se réfère au passage du Rire, où Bergson fait une distinction entre le mot comique (“quand il nous fait rire de celui qui le prononce”) et le mot spirituel (“quand il nous fait rire d’un tiers ou rire de nous”), et ensuite il distingue deux sens du mot esprit, l’un étroit (intellectuel, qui manie les idées “comme des symboles 3 4 5 6 7
H. Bergson, Introduction à la métaphysique, in Œuvres, éd. par A. Robinet, PUF, Paris 1959, p. 1395. Ibidem., p. 1396. L’abréviation dorénavant se réfère à l’éd. Henri Bergson, PUF, Paris 1959. Cf. V. Jankélévitch, “De la dialectique”. Ennéades 1, 3 de Plotin. H. Bergson, Œuvres, cit., p. 110.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
indifférents”), l’autre plus large, dramatique. Il s’agit non pas d’une négation du comique, mais d’un niveau supérieur où l’effet comique se produit non pas dans le langage, mais dans la manière d’utiliser le langage, et où entre en jeu tout l’art du poète, du comédien et du metteur en scène, par opposition à ce qui advient dans une simple lecture: “Pour bien lire, il suffit de posséder la partie intellectuelle de l’art du comédien; mais pour bien jouer, il faut être comédien de toute son âme et dans toute sa personne”; c’est-à-dire qu’il faut une sorte d’empathie entre le sujet et l’objet et “un certain oubli de soi”, typique de la création poétique.8 Dans le chapitre consacré à l’ennui dans L’Aventure, l’Ennui, le Sérieux, Jankélévitch dénonce – d’une façon très proche de celle de Kerényi – un aspect de notre modernité: étant trop riche, rassasiée et saturée, elle ne sait plus savourer la nouveauté de l’innocence et de l’immédiat qui appartiennent à l’expérience ingénue et aventureuse. La temporalité de l’ennui, donc, est la temporalité du continuum, en tant que laps de temps dont l’étendue est parcourue par l’intervalle entre deux instants et à l’intérieur de laquelle toutes les tensions et les relations dynamiques ont été toutefois neutralisées, c’est-à-dire qu’ont été neutralisées toutes les marges de risque et de hasard, qui projettent vers l’antérieur l’imprévisibilité du postérieur. Sans la passion de l’irréversible, cette temporalité se réduit à l’ennui de la prévisibilité, ou bien à l’hypnose de la répétition, au divertissement inerte, comme dans les dialogues insensés des personnages de Goncarov, de Dostoevskij, de la jeunesse opulente et gâtée des romans de Scott Fitzgerald, ou encore des personnages-fantômes des films de Fellini, de La Dolce Vita et Otto e mezzo aux Clowns et à E la Nave va. Dans la temporalité de l’ennui, il y a aussi un aspect épistémologique, outre qu’existentielle, c’est-à-dire une tendance de l’intelligence analyti8
Ibidem, pp. 436-437. Avec une métaphore très belle, et très bergsonienne, Whitehead compare l’acte qu’il appelle “unification préhensive” de la connaissance, au sourire qui s’étend sur le visage: “...une préhension trouve sa localisation simple dans le volume A, de la même manière que le visage humain s’adapte au sourire qui s’étend sur lui”. Et la perception, selon le philosophe anglais, est simplement “la cognition de l’unification préhensive ou, plus brièvement, la perception est la cognition de la préhension”. L’espace et le temps, dès lors, ne sont que des “abstractions de la totalité des unifications préhensives réagissant l’une sur l’autre”. En outre: “Les difficultés de la philosophie, en ce qui concerne l’espace et le temps, proviennent de l’erreur qui nous les fait considérer comme étant essentiellement le siège des localisations simples”; au contraire, “l’espace et le temps se présentent sous la forme d’un système général des relations réciproques de ces préhensions” (A. N. Whitehead, La science et le monde moderne, trad. fr. par A. D’Ivéry et P. Hollard, Payot, Paris 1930, pp. 99-100).
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que et de la science à annuler les qualités et les différences spécifiques des événements dans le temps, à les réduire de façon tautologique à l’uniformité d’une loi ou à la neutralité des relations formelles, ou encore à l’identité logique des généralités et à la prévisibilité de la succession causale et de la nécessité. Donc, par rapport au temps, il s’agit de le réduire à l’espace. Dans le langage de Jankélévitch, c’est le caractère quidditatif de la science et de la métaphysique, c’est leur prétention à ramener la complexité de la réalité et de l’objet à la description simple du quid – ƿƵ ‘εƾƿƵ – en cherchant des formules, des symétries, des principes et des fondements. Le passage de l’ennui au sérieux, alors, requiert un renversement presque copernicien de la connaissance; chez Jankélévitch, la question de la mise en acte de la dimension authentique du temps ne se pose pas au niveau de l’objet (c’est-à-dire la continuité temporelle), mais à celui du sujet, c’est-àdire au niveau de l’intention qui se réfère à la temporalité, non pas dans la matière de la connaissance, mais au contraire dans le modus cognoscendi, dans la manière – comme chez Balthasar Graciàn – de s’occuper du temps. Par conséquent, le temps aventureux de la succession des événements n’est pas, quant à lui, frivole, mais c’est au contraire la manière esthétique – au sens kierkegaardien – de le vivre, qui l’est; ainsi le sérieux ne concerne pas la temporalité en soi, mais la temporalité prise au sérieux, c’est-à-dire réhabilitée dans sa positivité et sa totalité; et cela doit advenir non pas par une hypostase intellectuelle, mais par une disposition légère, ironique et pudique, c’est-à-dire impalpable, de l’âme, à l’instar du comique bergsonien9. À la suite de Proust, Jankélévitch parle du temps retrouvé, c’est-à-dire d’un temps conçu non plus comme exil mais comme patrie; cela conduit à une conception nouvelle du devenir et de la durée, soustraite à l’inertie métaphysique et à la réification de l’ennui. De cette façon, on peut réévaluer l’intervalle et la continuité, et le devenir total peut être vécu et expérimenté sub specie durationis.10 Cette totalisation de l’âme, qui est – chez Plotin – l’image de la transparence du cristal traversé par la lumière, selon l’interprétation jankélévitchienne de Bergson, se déroule dans la temporalité, conçue aussi bien comme conversion et bouleversement de nos habitudes, que comme futurition, c’est-à-dire comme élan en avant, qui adhère à l’irréversibilité du temps et comprend en son flux chaque répétition, chaque 9
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Dans la théorie du rire de Bergson, l’esprit est “une certaine disposition à esquisser en passant des scènes de comédie, mais à les esquisser si discrètement, si légèrement, si rapidement, que tout est déjà fini quand nous commençons à nous en apercevoir” (op. cit., pp. 437-438). Selon l’expression de Bergson, opposée à celle célèbre (sub specie œternitatis) de Spinoza (Etique, II, 2, n. 44).
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regard en arrière et chaque arrêt dans l’instant. Cette temporalité est le “principe mobilisateur”, qui fait devenir mobile l’immobile et anime toute inertie; il s’agit de l’élément éthique et musical, qui avance en recommençant et recommence en avançant. Ainsi, pour Kerényi, le sens original de la musiké est l’événement qui fait se produire et fait vivre le rite; et l’ars est conçu comme ce qui bouge et qui se meut, opposé à l’in-erte, à l’irritus, à l’inutile. De façon tout à fait similaire, pour Jankélévitch, on peut s’approprier la temporalité de la vie non dans la verticalité d’une illumination transcendante, mais au contraire dans l’horizontalité d’un mouvement qui est immanent à la vie même, dans son déroulement quotidien, en lui donnant un surplus poétique; par exemple, si nous ouvrons notre journal d’il y a quelques années, nous parcourons mentalement les jours passés avec un état d’âme désenchanté, avec une disposition d’âme nostalgique et mélancolique, en souriant de nos ingénuités et de nos préoccupations désormais défuntes. Le sérieux de cette disposition est alors ironique, parce qu’elle coïncide avec l’intention double de l’ironie, qui d’une part détruit la continuité inerte, d’autre part la reconstruit selon un sens nouveau, plus conscient et spirituel; et par conséquent elle recompose ce que la dérision avait réduit à un mécanisme. La dérision se limite à désagréger le devenir en instants ponctuels et atomisés, tandis qu’ensuite l’ironie le recompose dans un ordre supérieur, qui en réévalue les potentialités qualitatives: en cela consiste le sérieux le plus profond. Jankélévitch écrit: “Si l’ironie morcelle les totalités étouffantes ou ridiculement solennelles, c’est pour installer à la place une totalité pneumatique, une totalité ésotérique, une totalité dans l’invisible et selon la qualité pure” (I, 103)11.
2. S’il est un musicien très sérieux, profondément sérieux, c’est bien – de l’avis de Jankélévitch – Gabriel Fauré: dans sa musique, émergent des thèmes éthiques et théorétiques, comme la tranquillité de l’âme, la lucidité, la maîtrise des passions; une sagesse souveraine se fait jour dans la condition que Jankélévitch qualifie d’équanimité, c’est-à-dire dans une prise de distance par rapport à l’alternative expressif-inexpressif, pathétique-anodin, classique-romantique. Le sérieux de Fauré, donc, caractérise une disposition esthétique générale, un dépassement de la grandiloquence romantique, qui ne retombe pas pour autant dans le classicisme pur: c’est le refus 11
L’abréviation dorénavant se réfère à l’éd. L’Ironie, Flammarion, Paris 1964.
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d’un pathétisme affiché, théâtral, quelquefois hystérique; et, dans ce caslà, la cible polémique de Jankélévitch est Richard Strauss, souvent cité, tandis que Wagner n’est presque jamais nommé directement12. En outre, chez Fauré, le sérieux implique d’aller au-delà de la musique qui relève de l’ethnologie, du populisme et du folklore, contrairement à ce qu’on peut trouver dans les Lieder romantiques de Mahler, Brahms, et même dans les œuvres du groupe des Cinq13; la musique de Fauré, selon Jankélévitch, reste étrangère à cette tendance, qui n’est qu’une nostalgie d’archivistes, pour ne pas dire une préoccupation nationaliste de fonder sur des fables populaires l’identité, la dignité et souvent la suprématie d’un peuple. Non, pour Jankélévitch “la musique française, après 1870, se produit dans un pays de vieille civilisation et qui n’a pas besoin, pour prendre conscience de soi, de consulter ses archives” (FI, 19). C’est pourquoi Fauré préfère, plutôt qu’une mythologie ambiguë, comme la réhabilitation wagnérienne des traditions nordiques et des sagas des Nibelungen, les “subtilités inouïes et les sensations exquises”. Sa mélodie, comme d’ailleurs toute la mélodie française en général, “va tout droit, sans convulsions et sans frénésie, au rare, à l’exquis, à l’inattendu”; sa matière est irréelle, évasive, lointaine; ses sonorités ne sont pas hypertrophiques et assourdissantes, mais estompées, languides, sourdes. Aux forêts romantiques, celles du Freischütz et de Siegfried par exemple, il substitue un “parc couleur du temps”, dans le style de Watteau, Banville ou Verlaine, non pas peuplé de héros pathétiques, mais de donneurs de sérénades, d’Arlequins et de Pierrots (FI, 22). Il y a ici une sorte de double source du mythe, chez Jankélévitch: d’un côté les mythes archaïques, fondateurs de nationalismes et de fanatismes politiques et religieux; ce sont des mythes statiques, pour ainsi dire, verticaux, fabulateurs (au sens de Bergson), car ils ont pour fonction d’agréger un peuple autour de ses traditions, de rendre stables ses racines et de fonder son identité, mais aussi d’exclure les autre peuples et de justifier le racisme le plus irrationnel et le plus farouche. De l’autre côté, nous avons une mythologie plus légère, horizontale, “couleur du temps”, justement, c’est-àdire ironique et mélancolique, dont les personnages ne représentent aucune race, mais une condition existentielle commune, ouverte et universelle: elle 12
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La critique de Jankélévitch à Richard Strauss rappelle celle de Debussy contre la musique de Gounod, qu’il qualifie de “farce sinistre” et “produit d’une mysticité hystérique” (lettre à H. Vasnier, 24/11/1885, in C. Debussy, Correspondances. 1884-1918, éd. par F. Lesure, Hermann, Paris 1993). Il s’agit des recueils d’Arnim et Brentano Das Knaben Wunderhorn (pour Mahler), et les recueils russes d’Alexandre Afanassiev (pour Stravinskij et le groupe des Cinq).
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fonde une “humanité illusoire”, dont la passion morale n’est pas montrée avec ostentation, ni clamée, mais qui, au contraire, émerge pudiquement et presque imperceptiblement des visages impassibles de ses masques. Et à ce propos, nous revenons encore à Kerényi – et à son élève Furio Jesi – lorsqu’ils distinguent deux types de mythes: le premier est technicisé, et dépend d’une exhumation, ou “pseudo-épiphanie”, de mythes archaïques, évoqués à dessein, dans des buts bien précis, notamment politiques et de pouvoir; cette attitude est typique de la “culture de droite”, et c’est une espèce de joug, sous lequel les fables, fantaisies et inventions sont rendues rigides et dociles. L’autre, au contraire, est pur, innocent, dont les manifestations (“épiphanies”) sont tout à fait “spontanées et désintéressées” et dont la fonction n’est pas répressive mais critique et libératrice, étant basée sur une réappropriation empathique des archétypes et du sens originaire du mythologème14. D’ailleurs Fauré – dont la musique est souvent comparée à la pensée de Bergson – est le musicien du continuum, de la temporalité fluide, de l’optimisme et du vitalisme; et pourtant, la condition d’équanimité est d’un niveau supérieur à celui de l’alternative continuité-discontinuité, instant et durée; pareillement, chez Bergson, l’élan mystique est supérieur à la divergence entre société close et société ouverte qui existe dans la morale et la religion.15 De même, serait équanime le sens d’une musicologie qui ne se limiterait pas seulement à analyser des éléments atomiques et discrets, ou à se renfermer dans la “cage du langage” – comme l’a bien dit Gianni Car-
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K. Kerényi, Dal mito genuino al mito tecnicizzato, in F. Jesi – K. Kerényi, Demone e mito. Carteggio 1964-1968, Quodlibet, Macerata 1999. Voir F. Jesi, Mito, Isedi, Milano 1973, p. 107; F. Jesi, Cultura di destra, Garzanti, Milano 1979, p. 32. Sur le sérieux du mythe, Suzanne Langer écrit: “Myth is a story of the birth, passion, and defeat by death which is man’s common fate. Its ultimate end is not wishful distortion of the world, but serious envisagement of its fundamental truths ; moral orientation, not escape” (S.K. Langer, Philosophy in a new key, New American Library, New York and Toronto 19512, p. 153). À ce propos, Jankélévitch veut répondre “plus nettement que jamais au sot reproche de dualisme qui est souvent fait à Bergson”, car dans la dichotomie intelligence – intuition, société close et ouverte, religion statique et dynamique, “il n’y a pas dualité, mais divergence”. “C’est la même vie qui donne l’intelligence et l’intuition mystique, c’est comme le même élan qui, tournant sur soi, dépose les sociétés circulaires, et, rompant le cercle enchanté de l’espèce, enfante l’héroïsme. Il n’y a pas deux substances, mais une seule vie qui, étant mouvement et tendance, peut se prendre à l’endroit ou à l’envers: le «mal» n’est donc qu’une certaine direction immanente de la vie, une tentation de reculer. On comprend dès lors ce que Bergson entend par «dichotomie»: il n’y a pas dualité, mais divergence” (HB, 196).
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chia en se référant justement à Bergson.16 Ou encore: une musicologie qui ne soit pas obligée d’opposer l’instant à la continuité, l’expression à la construction, mais qui au contraire puisse récupérer le sens le plus propre de la temporalité: c’est-à-dire saisir non le quid de l’instant – un accord, une pause, un rythme – mais son quod, à savoir son effectivité en tant qu’événement doué de sens; c’est seulement dans cette dimension que la musicologie saurait confronter de façon plus libre la musique aussi bien avec le monde historique qu’avec les instances les plus profondes du sujet humain, sans risquer d’être accusée de sociologisme ou de psychologisme. Jankélévitch donne un exemple de cette musicologie – que, par extension à partir de la métaphysique, on pourrait qualifier de quodditative, ou appeler ‘musicologie première’ – lorsqu’il “analyse” notamment la musique de Fauré, où l’on peut voir se refléter cette dialectique au niveau de la technique musicale. Jankélévitch remarque que certains morceaux de Fauré (le sixième Nocturne, par exemple) proposent une espèce de “récapitulation de l’itinéraire humain”, c’est-à-dire de la temporalité de l’existence. Du point de vue formel, cela se réalise par la reprise finale du commencement, du prologue par l’épilogue, comme si les souffrances et les tribulations étaient “transfigurées dans la sérénité grave, mais rayonnante, d’une seconde jeunesse mûrie par le temps” (FI, 342). Certes, chez Fauré on ne trouve ni de solutions de continuité trop évidentes, ni, tout de même, un pointillisme et une fragmentation mélodique. Toutefois, on peut remarquer que la mélodie fauréenne, en soi, abstraction faite de l’harmonie, semble renvoyer à une partie d’accompagnement tout à fait différente; ainsi les modulations, au fur et à mesure qu’elles se déroulent, éludent continuellement la possibilité de prévoir aucune de leurs conséquences: au contraire, la contradiction est seulement apparente et se recompose dans l’unité du tout; et, si la main droite et la main gauche semblent adhérer à des directions divergentes, dans leur concomitance émerge une harmonie tout à fait inattendue, qui résulte de leur union. Donc, on pourrait dire qu’il s’agit de 16
Citant Bergson, Gianni Carchia, parle de la “gabbia del linguaggio”, qui renverse “lo stato di cose reale, inducendoci a credere, ad esempio, che il valore dell’opera d’arte non sia nella sua concezione – la visione delle idee, l’afferramento dei ‘ricordi puri’ – ma nella sua ricezione, nella sua accettazione da parte della critica, dei musei ecc. ; oppure ancora, che il valore dell’azione morale non le sia intrinseco, ma dipenda dal suo adeguarsi o meno alle norme etiche ecc.” ; et Carchia rattache cette critique à un faux usage du mythe, lorsqu’il se trouve réduit simplement à un logos masqué ou à un effet linguistique, et il reconnaît chez Bergson une herméneutique postulant “un darsi originario del senso”, avant toute transformation en communication. Voir G. Carchia, L’amore del pensiero, Quodlibet, Macerata 2000.
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leur harmonie supérieure, car elle est à la fois l’harmonie accompagnatrice et l’harmonie sous-jacente à la mélodie accompagnée. Jankélévitch dirait: c’est une harmonie amphibolique et pneumatique, ou une “enharmonie spirituelle” (FI, 259). Ce modèle de composition, basé sur cette temporalité supérieure, est applicable davantage à ces musiques qui manifestent des sauts temporels, des solutions de continuité considérables, et qui relèvent de l’instantanéisme (stagnance), comme celles d’Igor Stravinskij, Bartòk, les Six et Debussy même, dont le régime discontinu de la sérénade interrompue et les harmonies statiques des Estampes et des Images ne représentent pas une fin en soi, mais renvoient à la continuité supérieure d’une stratégie compositive globale, qui demeure toujours consciente et lucide. Ironiques et humoristiques, ces compositeurs sont en même temps profondément sérieux, car le sérieux, selon Jankélévitch, n’est ni affectation de sévérité (comme chez Vincent D’Indy ou Max Reger), ni tragique affiché (à la Richard Strauss), mais humour impalpable, comparable à l’état d’âme de Socrate devant la mort dans le Phédon. Est sérieuse, alors, cette musicologie qui reste supérieure même à la distinction sérieux–frivole, sérieux–comique, sérieux–léger, opposition qui est souvent objet de discussion aujourd’hui. Et la conception supra-catégorielle du sérieux, qu’on peut trouver chez Jankélévitch, c’est-à-dire une conception indépendante des genres et des catégories stylistiques, pourrait apporter une contribution significative au débat. Pour conclure, un exemple souverain de musique sérieuse est la Valse de Maurice Ravel: écrite en 1919, juste après la paix, comme le souligne Jankélévitch. Avec quelle ironie grandiose Ravel évoque un valzer viennois de 1855, une vaste salle de bal, bondée, avec ses vêtements volumineux et bruissants ! Mais ici, il ne s’agit plus de nonchalance et de frivolité, comme dans les Valses nobles et sentimentales, de 1911: la Valse montre la dignité, sérieuse, mais non point grave ou sévère, de ceux qui ont expérimenté le poids terrible de l’histoire et de la barbarie. Comme le représentant de la France civilisée et victorieuse, Ravel exhume les fantômes d’une Europe en ruines, traversée par une frénésie d’autodestruction. De façon tout à fait similaire à ce que Federico Fellini montrera avec Prova d’orchestra et E la Nave va, Ravel rassemble ironie et tragique, mondanité et présages de mort et, pour emprunter un mot d’esprit au compositeur Gino Negri, il renverse la belle époque en “brutt’époque”. Ainsi, la mélodie se présente d’abord en loques, interrompue; ensuite, au fur et à mesure que la musique avance, elle émerge peu à peu d’une brume sonore, encore interrompue de façon inattendue, reprise, morcelée, jusqu’à se recomposer de façon paroxystique, dans un énorme crescendo, haletant et angoissant.
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Selon les mots de Jankélévitch: “Quel contraste avec ces Valses nobles et sentimentales qu’en 1911 un musicien qui se voulait frivole écrivit audessus de la mêlée! Au changement de ton on devine la catastrophe qui, bouleversant le monde, va séparer la vieille Europe et la nouvelle. L’auteur de La Valse n’est plus un dilettante en quête d’«occupations inutiles». Voici donc non plus une suite de danses […], mais une valse unique, une grande valse tragique qui est à elle toute seule, et du même coup, noble et sentimentale; mais cette fois sérieusement” (R, 65).
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Abstracts
Nel pensiero di Jankélévitch, il concetto di serietà appartiene non soltanto alla sua filosofia morale e alla sua particolare ontologia, ma coinvolge anche la musica. La serietà è il terzo aspetto della vita morale, dopo l’avventura e la noia; questi sono anche modi differenti di vivere il tempo: naturale e immediato il primo, atomico e razionale il secondo; il modo serio coincide con un recupero saggio e lucido del tempo autentico. In musica, questa dialettica concerne il superamento sia di un atteggiamento frivolo e spensierato sia di una descrizione analitica e scientifica, a favore di una visione superiore, capace di esprimere il complesso significato di quest’arte come peculiare esperienza vitale. Il presente scritto ripercorre i capisaldi della musicologia di Jankélévitch mettendoli in relazione con il tema della serietà; inoltre mette in evidenza il particolare nesso con la riflessione sul mito, che si rivela essere molto significativa per comprendere la natura dinamica della musica. Le sérieux concerne aussi bien la philosophie morale de Jankélévitch que son ontologie singulière et sa conception de la musique. Le sérieux est le troisième moment de la vie morale, après l’aventure et l’ennui; ce sont là aussi des manières différentes de vivre le temps: la première est naturelle et immédiate; la deuxième atomique et rationnelle; le sérieux, au contraire, consiste à récupérer le temps authentique de façon sage et désenchantée. En musique, cette dialectique renvoie au dépassement, aussi bien d’une disposition frivole et légère que de la description analytique et scientifique, en faveur d’une vue supérieure qui soit en mesure d’exprimer la signification complexe de cet art en tant qu’expérience vivante. Cet essai parcourt la musicologie de Jankélévitch en la mettant en relation avec le thème du sérieux et en soulignant son rapport avec la réflexion sur le mythe, réflexion qui s’avère décisive pour comprendre la nature dynamique de la musique. In the Jankélévitch’s thought, the concept of Seriousness belong not only to his moral philosophy and his particular ontology, but involved also music. Seriousness is the third aspect of moral life, after the adventure and ennui; they are different ways of living the time: the first is natural and immediate; the second, atomic and rational; the serious way is a wise and lucid recovery of the authentic time. In music, this dialectic concerns the overcome of frivolous and carefree attitude, or an analytic and scientific description, for a superior sight, that is able to express
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the complex significance of this art as a special vivid experience. The present article sets out the overall lines of the musicology of Jankélévitch in the relationship with the theme of seriousness, and therefore it shows the particular nexus with the reflection on the myth, that is a very significant question to understand the dynamic nature of music.
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MICHELA GARDA
Musique et subjectivité
1. Regarder dehors: la musique, les auteurs et les œuvres Les écrits de Vladimir Jankélévitch sur la musique ont fait l’objet de nombreux commentaires fidèles à la position excentrique de l’auteur par rapport au discours musicologique et esthétique-musical, dont ils constituent une critique radicale. La réception récente du philosophe dans la musicologie anglo-saxonne, inaugurée par la traduction anglaise de La musique et l’ineffable par Carolyn Abbate, a touché et mis en évidence cet aspect-là, en en faisant un des étendards de la critique radicale de la musicologie dite “moderniste”1. Relire les essais de Jankélévitch à l’occasion du centenaire de sa naissance entraîne la nécessité de réfléchir sur sa figure en la mettant en relation aussi bien avec le contexte de son temps qu’avec la perspective d’aujourd’hui. L’objet de cette étude sera de soumettre la pensée de Jankélévitch sur la musique à une sorte de regard stéréoscopique, en déterminant les différents niveaux de sa pratique interprétative, et de la mettre en rapport avec certains aspects de la réflexion sur la musique de la deuxième moitié du siècle passé, dans l’intention de soustraire notre auteur à sa splendide ‘non-contemporanéité’ pour le voir sous une lumière plus nette. J’ai essayé également de ne pas être trop fidèle. Pour commencer, je suis d’abord obligée de le brusquer un peu et de l’exposer, ce poète des charmes et des rayons obliques, à une lumière intense qui vient du dehors de sa pensée et qui peut paraître violente et effrontée comme la lumière froide du néon. Je fais référence à l’expérience de la “pensée du dehors”, notion que Foucault avait avancée dans un texte foudroyant et inspiré, inquiétant et apocalyptique qui s’appelle La pensée du dehors. Au début de son essai
1
C. Abbate, Jankélévitch’s Singularity, in V. Jankélévitch Music and the Ineffable, translated by C. Abbate, Princeton University Press, Princeton 2003; v. aussi C. Abbate, Music – Drastic or Gnostic?, “Critical Enquiry”, 30 (2004), pp. 505536.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
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il met en évidence cette notion dans son sens historique, comme émergence actuelle, c’est-à-dire contemporaine à l’auteur: La percée vers un langage d’où le sujet est exclu, la mise au jour d’une incompatibilité peut-être sans recours entre l’apparition du langage en son être et la conscience de soi en son identité, c’est aujourd’hui une expérience qui s’annonce en des points bien différents de la culture: en effet elle consiste dans le seul geste d’écrire tout comme dans les tentatives de formaliser le langage, dans l’étude des mythes et dans la psychanalyse, dans la recherche aussi de ce Logos qui forme comme le lieu de naissance de toute la raison occidentale. Voilà que nous nous trouvons devant une béance qui longtemps nous est demeurée invisible: l’être du langage n’apparaît pour lui-même que dans la disparition du sujet. Comment avoir accès à cet étrange rapport? Peut-être par le biais d’une forme de pensée dont la culture occidentale a esquissé dans ses marges la possibilité encore incertaine. Cette pensée qui se tient hors de toute subjectivité pour en faire surgir comme de l’extérieur les limites, en énoncer la fin, en faire scintiller la dispersion et n’en recueillir que l’invincible absence, et qui en même temps se tient au seuil de toute positivité, non pas tant pour en saisir le fondement ou la justification, mais pour retrouver l’espace où elle se déploie, le vide qui lui sert de lieu, la distance dans laquelle elle se constitue et où s’esquivent dès qu’on y porte le regard ses certitudes immédiates2.
Une histoire de la “pensée du dehors” se caractérise chez Foucault comme l’exigence irréductible de savoir d’où elle nous parvient (à son avis, de la pensée mystique et de la théologie négative), et dans quelle direction elle nous emmène. Si c’est là la direction de l’histoire, même s’“il n’y a rien encore de certain”, alors le désir surgit d’en accélérer la fin, et les pages de Foucault sont toutes placées sous le signe sinistre d’un désir de la fin, d’une accélération, d’une furie apocalyptique, pour parvenir à libérer l’expérience de passer “hors de soi”. Cette pensée resta, selon Foucault, étrangère et flottante, extérieure à notre intériorité, “pendant tout le temps où s’est formulée, de la façon la plus impérieuse, l’exigence d’intérioriser le monde, d’effacer les aliénations, de surmonter le moment fallacieux de l’Entäusserung, d’humaniser la nature, de naturaliser l’homme”3. Foucault nous parle des expériences du “dehors” les plus pures et les plus dépouillées: l’attraction selon Blanchot, le désir selon Sade, la force selon Nietzsche, la transgression selon Bataille. Jankélévitch nous parle d’une étape dans l’histoire de la subjectivité qui explore la ligne frontière qui la sépare du dehors avec d’éblouissants franchissements et de prudentes retraites. Certes, on est loin 2 3
M. Foucault La pensée du dehors, in “Critique”, n. 229, juin 1966; nouvelle éd., Fata Morgana, Paris 1986, pp. 15-16. Ibidem, p. 18.
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Michela Garda - Musique et subjectivité
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de l’esthétique de la transgression et de l’excès, de l’anéantissement du soi individuel décrit lucidement par Foucault à partir des auteurs susmentionnés, mais on est également loin de la tyrannie de l’intériorité qui domine l’époque de Kant et de Hegel, “au moment – dit Foucault – où jamais sans doute l’intériorisation de la loi de l’histoire et du monde ne fut plus impérieusement requise par la conscience occidentale”4. Passons maintenant du domaine de la philosophie à celui de la musique: dans quelle autre période l’impératif de l’intériorisation fut-il, en musique, aussi absolu qu’à partir de la fin du XVIIIe siècle, de Beethoven à Schönberg et jusqu’aux avant-gardes? La sévère dialectique de l’expression et de la construction, de la nécessité intérieure et de la volonté de forme, se manifeste sans équivoque dans ce répertoire, dont le matériel musical porte si bien le caractère de la subjectivité qu’il fallut, pour le neutraliser, une révolution linguistique qui concentrait dans le choix arbitraire du compositeur les temps géologiques propres aux transformations des langages naturels. Le choix de Jankélévitch s’adresse au domaine qui peut sembler le plus loin de l’empire de la logique de la subjectivité dialectique. Ses interprétations sont vouées à un répertoire principalement français, qui inclut une période allant de la fin du XIXe siècle aux trente premières années du XXe (Debussy, Ravel, le groupe des Six – parmi lesquels, surtout, son cher Satie –, Mompou et Séverac, Albéniz et Fauré, et à l’arrière plan les grands Liszt et Chopin); un répertoire français, mais qui était ouvert aux contributions de la grande civilisation musicale russe (de Tchaïkovski, Moussorgski et Rimskij-Korsakov jusqu’à Prokof’ev, Chostakovitch et Khatchaturian). Ce choix pourrait passer pour idiosyncratique et dédaigneux de la tradition austro-allemande, digne d’un amateur exclusif de cette musique qui ne lui parle que dans sa langue musicale maternelle et le met aristocratiquement à l’écart de la fiévreuse contemporanéité musicale que, au fur et à mesure, portaient en France les noms de Leibowitz, Messiaen et Boulez. Cependant, ce n’est pas sur le versant de l’histoire de la musique, mais sur celui de l’histoire de la subjectivité musicale qu’il faut chercher le fil de l’investigation de Jankélévitch. Elle vise à distinguer une expérience esthétique qui s’annonce dans la musique et qui, par son intermédiaire, conduit la subjectivité aux frontières “de l’omniprésence universelle”, qui la conduit à s’enlever elle-même, à se soustraire dans l’acte même de dire. Il s’agit donc d’une recherche qui marque une étape dans l’histoire de la subjectivité moderne, mais qui, justement à cause de sa non-contemporanéité et de son attachement têtu à un canon privé, implique un choix qui se révèle à la 4
Ibidem, p. 17.
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fois esthétique et éthique. Elle est le produit d’une souveraine idiosyncrasie qui élit la beauté reflétée dans le plaisir de l’écoute et de l’interprétation, accrochée au geste du mélomane qui choisit ce qu’il aime, qui le joue et le fait aimer dans un geste répété à l’infini. Éthique est la prise de position en faveur d’une musique qui incarne les vertus, elles aussi souverainement inactuelles, de la modestie, de la pudeur, de la discrétion, de la sobriété et de la frugalité d’expression. Il s’agit d’un choix de longue durée: au début des années quatre-vingt, le philosophe, alors octogénaire, met sur son pupitre les pages tirées de ses compositeurs préférés, Albéniz, Séverac et Mompou, par passion, par choix et peut-être par fidélité. Au régime de la logique musicale, explorée dans la musicologie et la philosophie de la musique de Riemann à Adorno, Jankélévitch oppose le régime de la rhapsodie, un régime alogique, adialectique, fantasque. C’est l’instrument d’une subjectivité extrovertie qui cherche à connaître l’extérieur, le “dehors”, qui ne cherche pas à assumer la fonction d’instance de contrôle, dans la complexe médiation entre l’intérieur et l’extérieur. La première figure de cette subjectivité complaisante vis-à-vis des droits du “dehors” est le promeneur, incarné dans des compositeurs comme Albéniz, Séverac, Moussorgski; elle enregistre les détours et les concrétise dans des impressions subjectives, dans des états d’âme, des humeurs et des rencontres sentimentales. Le promeneur transforme la géographie en état d’âme, et l’espace en temps vécu. Dans cette figure semble s’incarner la conception bergsonienne du temps. Le “je vois” du promeneur rend possible une musique du paysage qui se reflète dans une intériorité fantasque et distraite, volage et impressionnable, mais qui, en même temps, tend à se soustraire, à disparaître en effaçant du paysage abandonné dans une extériorité impressionniste et atmosphérique ses propres traces. Debussy marque une étape de plus dans le mouvement de mise hors jeu de la subjectivité: “il a pour interlocuteurs – dit Jankélévitch – les météores et les éléments sans visage, et il les laisse parler dans la langue muette qui est la leur” (PL, 58). Dans la célébration de la dimension lumineuse et sonore du “dehors”, surtout dans les pages consacrées à Albéniz, Jankélévitch semble trouver les exemples qui avaient manqué à Nietzsche pour décrire le “Sud dans la musique” par opposition aux brumes du wagnérisme, il trouve, en d’autres termes, cette sublime extériorité que le langage des sons – à la différence de la poésie – est capable d’évoquer. La route excentrique qu’avaient inaugurée, en philosophie de la musique, les aphorismes énigmatiques de Nietzsche, connaît une réception productive exactement dans les réflexions de Jankélévitch. Un signe en est, entre autres, la description, d’ascendan-
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ce nietzschéenne, de la force créative qui sollicite les génies, en termes d’énergie vitale et explosive et d’ivresse dyonisiaque. La figure du créateur, du génie, nous conduit immédiatement à nous poser la question du rôle de l’auteur, c’est-à-dire du compositeur, et du rôle des œuvres, dans la réflexion de Jankélévitch sur la musique. Tout d’abord, les compositeurs, du fait qu’ils sont mentionnés dans presque tous les titres d’œuvres musicales, semblent jouer le rôle des protagonistes. Pourtant, ils ne représentent pas le primum de la réflexion critique; ce serait plutôt un post, comme si Jankélévitch ne pensait et ne parlait d’eux qu’au moment où il soulève les mains du clavier et ferme la partition. Même lorsqu’il aborde leur personnalité individuelle et géographiquement déterminée, leurs figures se révèlent comme des fonctions de l’œuvre: les origines géographiques (le Languedoc pour Séverac, la Catalogne pour Albéniz, pour ne donner que deux exemples) sont le point de départ pour un tropisme esthétique qui déplace l’authenticité de l’origine: “Séverac l’Occitan glisse vers la Catalogne comme Albéniz le Catalan vers Séville et vers l’Andalousie” (PL, 78). Dans le nom de l’auteur, se fige l’originalité du signe sonore, unique, originel, créé. J’ai dit “signe sonore”, car dans la lecture de Jankélévitch les auteurs ne sont jamais compositeurs–constructeurs. Au contraire, ils seraient plutôt compositeurs–alchimistes, connaisseurs attentifs de la matière sonore: ils travaillent avec des accords et des sonorités comme s’il s’agissait de matières mystérieusement colorées; ils en connaissent les charmes secrets, en découvrent les combinaisons insolites et en maîtrisent les doses minimales. Leur talent, leur génialité, consiste dans cette proximité avec le son et dans cette capacité à faire chanter, à céler le pronom personnel “je” dans l’acte même de composer. Des noms des compositeurs, cependant, émane une aura particulière: ils ne sont pas que l’origine des œuvres, la projection de leurs significations ou les fantômes de notre reconnaissance; chez eux flotte une dimension aurorale, car ils sont capables de faire éclore le futur et d’inaugurer de nouvelles saisons de la sensibilité et de l’expérience, et de nouveaux régimes expressifs. Dans ce sens, Jankélévitch reconnaît à Satie le mérite de donner à sentir le début, l’apparition matinale, et à Debussy la capacité de révéler le mystère de l’instant. Chez Jankélévitch, l’originalité des génies n’a rien à voir avec l’obsession de la nouveauté d’ascendance romantique, caractéristique du XXe siècle; il ne s’agit pas d’une dynamique de dépassement perpétuel de la ligne tracée par la philosophie de l’histoire. Le génie inaugure un espace nouveau et ouvre une brèche dans le fin rideau impalpable qui sépare le dedans du dehors. Dans la réflexion de Jankélévitch apparaît une dimension plus intense et plus profonde, si l’on veut une dimension seconde, où le niveau des
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auteurs et des œuvres s’estompe et où les pronoms personnels et les frontières des compositions perdent de leur individualité et montrent l’accès à une dimension ésotérique. Ce niveau s’entrevoit lorsque l’on prête attention à la manière dont Jankélévitch traite les œuvres. Certes, ce ne sont pas les titres et les exemples qui manquent dans son œuvre. Mais chaque composition apparaît comme l’un des éléments d’un réseau infini de renvois, de chiffres et d’allusions. Aussi dans la conception de l’œuvre d’art musicale, Jankélévitch résiste à la tradition compacte de l’esthétique du XXe siècle 5. Chez lui, les œuvres ne parlent pas pour elles-mêmes, comme si elles réussissaient l’alliance de la nécessité expressive et des conventions linguistiques; elles ne sont pas des monades, des énigmes, des tours de force, comme le soutenait Adorno. C’est plutôt la musique elle même qui parle à travers elles. Leur individualité est précaire car elles sont pleines de fêlures et même d’ouvertures. Dans ces œuvres, ce ne sont que les fragments, les sonorités isolées, les simples inflexions qui comptent, et non pas le tout. Pour cette raison, Jankélévitch, surtout dans sa dernière production mais en réalité dès ses premiers commentaires, passe d’une œuvre à l’autre dans une incessante chaîne d’associations. Il n’est pas guidé seulement par le goût des beaux passages, comme l’appelait Adorno avec un hautain mépris, par la capacité précritique de saisir un beau passage sans connaître les médiations avec la totalité de l’œuvre, résidu du goût aristocratique pour le beau. Dans ses commentaires, Jankélévitch saute d’une œuvre à l’autre, à la poursuite d’une énigme en perpétuel mouvement: “La réalité musicale est toujours ailleurs, comme les paysages évoqués, chez Gabriel Fauré, par une expression évasive et amphibolique; cette géographie pneumatique où l’alibi estompe et brouille sans cesse le repérage univoque des lieux, rend fondante et fuyante toute localisation” (MI, 129). On ne peut pas trouver meilleur exemple de ce déplacement perpétuel que les pages dédiées au double paradoxe, c’està-dire le forte avec sourdine et le pianissimo sonore (PL, 44-56). Il s’agit d’un artifice technique d’exécution dans lequel le forte – dit le pianiste Jankélévitch – “est un forte amorti et légèrement étouffé par un pianissimo latent”, tandis que le pianissimo sonore doit être joué de manière “pneumatique”, c’est-à-dire dans l’intention sous-entendue de se tourner vers la luminosité. C’est là l’intention de l’auteur, son intention psychologique – spécifie Jankélévitch –, que l’interprète doit réaliser. Cela ne 5
Cf. M. Garda, Le teorie dell’opera d’arte musicale nel Novecento, in Storia dei concetti musicali. Espressione, forma, opera, éd. par G. Borio et C. Gentili, Carocci, Roma 2007, pp. 295-316.
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vaut pas pour tous les compositeurs, mais seulement pour les pianissimo de ceux qui, comme par exemple Fauré, Albéniz ou Debussy, témoignent du choix du régime de la litote: “Jouer una corda, c’est contrecarrer le régime de la poudre-aux-yeux, c’est choisir la modestie et la litote” (PL, 45). Or, une sonorité intentionnelle comme “le pianissimo sonore [est] en quelque manière une force infinitésimale: ce pianissimo [est] un forte contenu, la force cachée, réprimée, d’une musique qui se ramasse sur elle-même pour avancer sans bruit dans le secret et le silence” (PL, 51). L’intention de l’auteur parvient à indiquer le point où la sonorité parle elle-même, où l’intention recule pour faire place à une dimension ineffable. Les œuvres sont traversées par ces interstices sonores, par ces fissures qui donnent sur une dimension autre, sur un dehors où il n’y a ni individualités, ni vie, ni espace, ni temps: “La musique tranche sur le silence, et elle a besoin de ce silence comme la vie a besoin de la mort et comme la pensée, selon le Sophiste de Platon, a besoin du non-être. La vie, toute semblable à l’œuvre d’art, est une construction animée et limitée qui se découpe dans l’infini de la mort; et la musique, toute semblable à la vie, est une construction mélodieuse, une durée enchantée, une très éphémère aventure, une brève rencontre qui s’isole entre commencement et fin dans l’immensité du non-être” (MI, 180). Mais l’isolement est interrompu parce que dans l’art, et dans la musique en particulier, le diaphragme qui sépare être et non-être, espace et ubiquité, permet un souffle, des points de raréfaction où la différence entre être et néant, son et silence, se réduit. Les œuvres musicales sont poreuses; là où “il n’y a donc plus d’ici-ou-là – dit Jankélévitch –, il y a seulement la présence absente, sans alternative ni exclusion, il y a l’éternel va-et-vient des musiques, du vent et des nuages. Comme le pianissimo sonore permet à la musique de transcender la disjonction du piano et du forte, ainsi l’omniprésence transcende l’alternative du près et du loin. Je ne sais quoi, mais aussi: je ne sais où, je ne sais quand; toute localisation devient artificielle; les catégories en général sont caduques, et la contradiction elle-même n’est plus un non-sens” (PL, 69) La suspension de l’espace et du temps est un des points centraux de la spéculation de Jankélévitch. Elle est liée, d’un côté, au grand thème de la musique comme médium qui rend possible des régimes de la sensibilité et de l’expérience esthétique au maximum des possibilités de la subjectivité. En même temps, elle manifeste une intuition heureuse qui anticipe l’un des thèmes porteurs de la musicologie de la deuxième moitié du XXe siècle, celui de la suspension du temps linéaire et bergsonien, ou encore de l’identification du temps musical avec le temps de la conscience, et la naissance
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d’une nouvelle dimension du temps musical non-linéaire et sans direction: de Debussy à la Moment-Form de Stockhausen6. Le style philosophique de Jankélévitch enveloppe ce thème dans une affabulation qui peut sembler suspecte au musicologue qui cherche des preuves dans la stratégie de composition inscrite dans les œuvres. Pourtant, l’écoute attentive du philosophe et les recherches musicologiques convergent sans équivoque. Il suffirait, avec quelque hardiesse, de comparer deux passages: une formulation “aérienne” de notre philosophe, et une autre, “introductive”, de Jonathan Kramer, le spécialiste qui a donné l’une des contributions les plus importantes et systématiques à l’étude du temps musical au cours des vingt dernières années 7. Voici une image tirée du dernier volume de Jankélévitch sur la musique: “Plutôt que d’une coprésence statique, il faudrait sans doute parler d’une omniprésence féerique. Les vents qui relient les points cardinaux sont les courriers ailés de la chanson lointaine” (PL, 67). Voilà au contraire la définition préliminaire de la notion de non-linéarité temporelle présentée par Kramer: “Elle désigne un concept, une attitude de composition et une stratégie d’écoute qui concernent la permanence de la musique, ou encore les aspects d’un morceau qui ne changent pas, et, dans les cas les plus extrêmes, les compositions qui ne changent pas”8. Pour compenser une définition générale aussi vague et insaisissable, Kramer offre quantité d’analyses formelles convaincantes de divers ouvrages, parmi lesquels ne manquent pas des exemples de Debussy, et il réfléchit de façon pénétrante et concrète à la non-linéarité musicale, d’une façon qui va bien au-delà, pour ce qui est de la clarté, des étincelantes métaphores dont on a cité un exemple 9. L’intuition de Jankélévitch cependant, mérite encore notre attention, et pas seulement d’une façon redondante et oiseuse. Elle mérite de retenir notre attention, car elle met en relation les intuitions de l’écoute avec les raisons philosophiques de la révolution temporelle incarnée par la musique 6
7 8 9
Cf. J. Kramer, The Time of Music: New Meanings, New Temporalities, New Listening Strategies, Schirmer Books, New York 1988 et Id., Il tempo musicale in Enciclopedia della musica, éd. par J.-J. Nattiez, Einaudi, Torino 2002, vol. II, Il sapere musicale, pp. 143-165; M. Garda, Teorie del tempo nella modernità, in Storia dei concetti musicali. Armonia, tempo, éd. par G. Borio et C. Gentili, Carocci, Roma 2007, pp. 321-342; I. Pustijanac, Il tempo nel pensiero compositivo della seconda metà del Novecento, in Borio-Gentili (éd. par), Storia di concetti musicali. Armonia, tempo, cit., pp. 343-359. A propos de la centralité de cet aspect dans la musicologie, voir l’étude bibliographique du même J. Kramer, Studies of Time and Music: a Bibliography, “Music Theory Spectrum”, 7 (1985), pp. 72-106. J. Kramer, Il tempo musicale, cit., pp. 144-5. J. Kramer, The Time of Music, cit.
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de Debussy. Sur ces raisons, au contraire, Kramer arrive à peine à s’interroger, se contentant d’affirmer que l’idée de l’être, en tant que corrélat philosophique de la musique non-linéaire, “même si certainement explorée par les penseurs de l’Occident, a reçu sa plus grande affirmation dans les philosophies introspectives du Bouddhisme, dans lesquelles le Zen joue un rôle majeur” 10. Dans cette comparaison entre les deux perspectives, il faut saisir cependant que les positions ne sont pas nécessairement en conflit, mais bien plutôt complémentaires. Bien que l’analyse de Jankélévitch, tout en offrant une très vaste moisson d’exemples, n’approfondisse pas les rapports et l’articulation formelle de chaque composition, elle saisit la temporalité caractéristique de la musique de Debussy, qui ne s’écoule pas vers une destination fixée dans le futur mais se fige dans un moment “stationnaire”. Les trois volumes dédiés à Debussy11 reviennent sans cesse sur les mêmes thèmes dans une sorte de variation infinie, sur une période d’une trentaine d’années. Le thème de l’instant est une de ces thèmes récurrents. Il se présente déjà en 1949 comme le corrélat temporel de l’objectivisme: “Les Préludes sont le langage du mystère ontologique qui est un mystère de gratuité, c’est-à-dire de coprésence, de multiprésence et d’omniprésence. Statisme, présentisme, instantanéité d’une part, objectivisme de l’autre, – telles sont les marques signalétiques de cette mystériologie” (DM, 32). À cette date, la non-linéarité de la musique de Debussy est saisie à travers la métaphore de la “stagnation” que définissent, du côté musical, l’absence de développement, l’emploi de très longues pédales, la figure du perpetuum mobile, et, du côté esthétique, une coupe verticale du temps “hors de tout devenir, sans relation avec l’avant et l’après”. Jankélévitch inscrit cette temporalité “statique, stagnante, stationnaire”, éloignée à son avis de la durée bergsonienne autant que du dynamisme de Stravinskij, dans un filet à mailles serrées de renvois culturels qui vont de Monet, Proust, Verlaine et Valéry, à Nietzsche, Leconte de Lisle et Laforgue. L’expérience esthétique de la non-linéarité se trouve donc enracinée dans la culture et dans la sensibilité de l’Occident, selon des modalités et des nuances que Jankélévitch décline avec une habilité métaphorique consommée, et raffinée. On en tire ici un seul aperçu, parmi les pages intenses du deuxième chapitre (Le mystère de midi) du premier volume dédié à Debussy: Midi est comparable au cristal, dont la transparence est aussi une résistance et une consistance, dont la limpidité signifie impénétrabilité. Au néant de mi10 11
J. Kramer, Il tempo musicale, cit., p. 144. Debussy et le mystère; La vie et la mort dans la musique de Debussy; Debussy et le mystère de l’instant.
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nuit, qui est néant dans le vide et le non-être obscur, qui est pur Rien négatif, le soleil de mort oppose son néant de midi, lequel est plénitude absolue, actualité aiguë, extrême positivité. Debussy a connu mieux que tout autre ce mystère de lumière, cette insomnie au grand soleil de l’omniprésence diurne (DM, 81).
L’expérience esthétique de l’instantanéité, du devenir bloqué, de la stationarité, illustrée dans la musique de Debussy, semble se rapprocher de l’intuition de l’instant tel qu’il est analysé en termes philosophiques par Gaston Bachelard, un philosophe avec lequel Jankélévitch dialogue beaucoup dans ses écrits 12. Les caractéristiques de l’instant chez Debussy, “plénitude absolue, actualité aiguë, extrême positivité”, sont pourtant éloignées de la métaphysique créationniste de Bachelard, selon laquelle, dans chaque instant, l’être s’accomplit en tant qu’acte et nouveauté absolue. Dans le mystère de l’instant, Jankélévitch voit à contre-jour, paradoxalement, le cercle bloqué de l’éternel retour, exemplifié dans la tragédie de Pelléas et Mélisande: chaque début contient sa fin et vice-versa, “le point qui sépare symétriquement les deux moitiés du jour et qui, vu à l’endroit ou du dehors, c’est-à-dire par rapport au passé, est l’apogée de l’être, se révèle dans l’optique ésotérique du futur comme le premier instant de la tragédie, car toute fin est aussi commencement” (DM, 81). Durée et instant sont pour le philosophe-musicien deux principes esthétiques et de composition incarnés, respectivement, dans la musique de Fauré et dans celle de Debussy. Ils semblent apparentés aux principes de forme, de composition et de réception de la linéarité et de la non-linéarité étudiés par Kramer, plutôt qu’à l’opposition de principes métaphysiques proposée par Bachelard. Le fait de les traiter comme des principes esthétiques et de composition serait néanmoins encore une fois restrictif. Deux conditions de la subjectivité s’y manifestent, deux modalités différentes d’être dans le monde, de prêter l’oreille aux pauses dans le silence, et de faire l’expérience du commencement et de la fin. 2. Interprétation, commentaire, critique Je voudrais terminer cette étude avec quelques observations à propos de la nature du commentaire musical-philosophique de Jankélévitch, en le mettant en relation avec d’autres formes de discours critique qui s’affirment au XXe siècle chez Bloch, chez Adorno et à l’intérieur de l’hermé12
G. Bachelard, L’intuition de l’instant. Étude sur la Siloë de Gaston Roupnel, Stock, Paris 1932.
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neutique, même si cette dernière n’a manifesté qu’un intérêt marginal à la dimension musicale. Au cours de l’exercice d’exécution, c’est-à-dire dans l’interprétation reproductive et dans le commentaire et la critique, se manifeste un rapport particulier à la temporalité, comme le montrent le thème de l’application dans l’herméneutique, la figure de la pré-apparition (Vorschein) et du rêve les yeux ouverts dans la théologie musicale de Bloch, et le thème de l’interprétation comme forme dans laquelle se cristallise l’essence évolutive de l’œuvre chez Adorno. Le commentaire est donc une forme de médiation particulière dont l’enjeu est le rapport des œuvres à la temporalité et au sens. Si dans l’herméneutique, l’interprétation est d’une certaine façon au service de ce qui signifie et fonde lui-même (le “classique”, en termes hégéliens), chez Adorno l’interprétation philosophique est – toujours en termes hégéliens – travail du concept, médiation entre l’universel et le particulier, qui se produit dans l’art à un niveau inconscient et que l’esthétique doit porter à la conscience. Le commentaire philosophique-musical de Jankélévitch se situe à égale distance de la philosophie dialectique, de la musicologie comme discipline, et de l’herméneutique; il assume une fonction anagogique, et accompagne au seuil du mystère en soutenant l’auditeur dans un voyage vers une dimension où espace et temps, sujet et individu, n’ont plus droit de cité. Là encore, je suis tentée d’allumer la lumière froide de Foucault. On lit, dans “Réflexion, fiction”, troisième paragraphe de Pensée du dehors: Extrême difficulté de donner à cette pensée un langage qui lui soit fidèle. Tout discours purement réflexif risque en effet de reconduire l’expérience du dehors à la dimension de l’intériorité; invinciblement la réflexion tend à rapatrier du côté de la conscience […] D’où la nécessité de convertir le langage réflexif […] parvenu au bout de lui-même, il ne voit pas surgir la positivité qui le contredit, mais le vide dans lequel il va s’effacer; et vers ce vide il doit aller, en acceptant de se dénouer dans la rumeur, dans l’immédiate négation de ce qu’il dit, dans un silence qui n’est pas l’intimité d’un secret mais le pur dehors où les mots se déroulent indéfiniment. […] Nier dialectiquement, c’est faire entrer ce que l’on nie dans l’intériorité inquiète de l’esprit. Nier son propre discours, […] c’est le faire passer sans cesse hors de lui-même, le dessaisir à chaque instant non seulement de ce qu’il vient de dire mais du pouvoir de l’énoncer […]. Pas de réflexion, mais l’oubli; pas de contradiction, mais la contestation qui efface; pas de réconciliation, mais le ressassement; pas d’esprit à la conquête laborieuse de son unité, mais l’érosion indéfinie du dehors; pas de vérité s’illuminant enfin, mais le ruissellement et la détresse d’un langage qui a toujours déjà commencé13. 13
M. Foucault, op. cit., pp. 21-23.
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Se perdre sans la perdition, transgresser sans la transgression, soustraire sans effacer, est la tâche discrète que Jankélévitch reconnaît à l’artiste, et que lui-même pratique constamment dans ses commentaires musicaux, qui sont en effet répétition perpétuelle et circulaire, affabulation infinie vouée à créer le mystère qui rend muette la musique. Dans cet exercice, se manifeste aussi une résistance aux séductions des forces occultes du mystère, qui donne une dignité et une force particulières, une dimension éthique, aussi, à son magistère esthétique. Ses commentaires naissent d’un sortilège, d’une transformation: les sons suscités par les gestes du musicien se transforment et se transfigurent en mots; la musique se reflète dans le discours, qui à son tour cède à l’impulsion mimétique, et finit par triompher dans un langage qui pullule d’allitérations et de séductions sonores. Il s’agit surtout d’un discours ostensif qui célèbre un rite mystérieux: faire briller à travers des voies obliques les rayons énigmatiques de la beauté. Maître de la litote, de l’approximation et de la forme élusive, Jankélévitch n’évite pas la beauté comme ses contemporains qui en craignent les mille faux-semblants, et il ne tremble pas face à son regard “épouvantable et terrible”, don d’un Dieu qui “n’a posé que des énigmes”, comme dit Dimitri Karamazov. Jankélévitch choisit les formes faibles de la beauté élusive et du charme, et les cultive avec un goût de l’interprétation musicale proche de celui de la lecture, fruit d’une discipline fructueuse et d’une heureuse verve poétique. Plus d’une dizaine de livres sur la musique apportent, au moins du point de vue des faits, un démenti solennel à une de ses affirmations les plus fréquentes: “La musique a ceci de commun avec la poésie et l’amour, et même avec le devoir: elle n’est pas faite pour qu’on en parle, elle est faite pour qu’on en fasse; elle n’est pas faite pour être dite, mais pour être «jouée»… Non, la musique n’a pas été inventée pour qu’on parle de musique!” (MI, 101). L’exigence que la musique soit considérée comme strict événement, et la revendication de la suprématie de l’exécution par rapport au texte, représentent une critique radicale de la musicologie, et c’est ainsi qu’elles ont été comprises par la critique la plus récente14. L’interprétation musicale et son actualisation rendent possibles la plénitude du sens et l’efficacité de la musique, ce que ne permet pas la prétentieuse et intolérable médiocrité des bavardages à son sujet. Cependant, l’exhortation: “Et puisqu’à notre tour nous prétendons parler de l’indicible, parlons-en au moins pour dire qu’il ne faut pas en parler et pour souhaiter qu’aujourd’hui sera la dernière fois” (MI, 104) demeure une boutade qui contredit la pratique de l’auteur 14
C. Abbate, Music – Drastic or Gnostic?, cit.
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et la conscience de l’inévitabilité de l’interprétation, du commentaire et de la critique. À côté du travail du concept souhaité par Adorno, à côté du respect interprétatif voulu par l’herméneutique, nous pouvons également placer la discipline discrète et allusive du commentaire de Jankélévitch, qui part, bien sûr, de l’écoute, plutôt que de la dissection de la partition, mais s’inscrit complètement dans la tradition occidentale des XIXe et XXe siècles, conçoit musique et philosophie comme deux dimensions de la pensée et de l’expérience, deux dimensions parentes et pourtant séparées par une différence insurmontable dans l’espace de laquelle se niche, comme une nécessité inévitable, la tâche de l’interprétation infinie.
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Abstracts
Il saggio si propone di affrontare l’estetica musicale di Jankélévitch alla luce della sua comprensione della soggettività. Collocata idealmente tra l’estetica della trasgressione e dell’eccesso incarnata da Sade, Blanchot e Bataille e il predominio dell’interiorità sancito da Kant e Hegel, la posizione di Jankélévitch si concreta nell’incessante e ripetuta interpretazione di un repertorio francese e russo a cavallo tra la l’ultimo decennio dell’Ottocento e il terzo decennio del Novecento a cui rimarrà fedele tutta la vita. Centrali risultano le categorie del bello e del piacere esecutivo opposte alla concezione della musica come pensiero e costruzione coltivate dalla musicologia e dalla filosofia della musica da Riemann ad Adorno. La scelta della dimensione rapsodica, alogica, dialettica e umorale rivendica la legittimità della musicofilia rispetto alla musicologia sulla base di una scelta etica a favore di una musica che incarni le virtù inattuali, della modestia, del pudore, della discrezione, della sobrietà, della frugalità espressiva. La sfuggente dialettica tra presenza e assenza, tra interno ed esterno, si ripresenta nel depotenziamento del soggetto creatore e in una presa di posizione a favore dell’estemporaneità del momento esecutivo rispetto alla sostanzialità e durevolezza dell’opera d’arte musicale, il che comporta anche un precoce ripensamento del tradizionale concetto di tempo lineare. Nonostante il tentativo di collocarsi al di là delle riflessioni tradizionali, il pensiero di Jankélévitch si inscrive completamente nella tradizione occidentale ottonovecentesca che concepisce musica e filosofia come due dimensioni del pensiero e dell’esperienza consanguinee, eppure separate da una differenza insuperabile, nel cui spazio si annida come una necessità ineludibile il compito dell’interpretazione infinita. Cet essai se propose d’aborder l’esthétique musicale de Jankélévitch à la lumière de sa compréhension de la subjectivité. Placée idéalement entre l’esthétique de la transgression et de l’excès incarnée par Sade, Blanchot et Bataille, et la prédominance de l’intériorité soutenue par Kant et Hegel, la position de Jankélévitch se concrétise dans l’interprétation ininterrompue et répétée d’un répertoire français et russe, à cheval sur la dernière décennie du XIXe et la troisième décennie du XXe siècle, auquel il restera fidèle toute sa vie. Les catégories du beau et du plaisir de l’exécution s’avèrent centrales, par opposition à la conception de la musique en tant que pensée et construction, cultivée par la musicologie et la philosophie de la musique de Riemann à Adorno. Le choix de la dimension rhapsodique, alogique,
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Michela Garda - Musique et subjectivité
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dialectique et fantasque est l’expression d’une préférence pour la musicophilie, contre la musicologie, sur la base d’un choix éthique en faveur d’une musique incarnant les vertus inactuelles de la modestie, de la pudeur, de la discrétion, de la sobriété et de la frugalité expressive. La dialectique ambiguë de la présence et de l’absence, de l’intérieur et de l’extérieur, se présente de nouveau dans l’affaiblissement du sujet créateur, et dans une prise de position en faveur de l’extra-temporalité du moment de l’interprétation, par rapport à la substantialité et à la durabilité de l’œuvre d’art musicale, ce qui comporte également une remise en question précoce du concept traditionnel de temps linéaire. Malgré la tentative de se placer au-delà des réflexions traditionnelles, la pensée de Jankélévitch s’inscrit entièrement dans la tradition occidentale des XIXe et XXe siècles qui conçoit musique et philosophie comme des dimensions de la pensée et de l’expérience parentes et pourtant séparées par une différence insurmontable, dans l’espace de laquelle se loge comme une nécessité inéluctable la tâche de l’interprétation infinie. The intention of this essay is to address the music aesthetics of Jankélévitch in the light of his understanding of subjectivity. Ideally placed between the aesthetics of transgression and excess, embodied by Sade, Blanchot and Bataille and the predominance of the sanctioned interiority of Kant and Hegel, Jankélévitch’s position develops itself in the incessant and repeated interpretation of a French and Russian repertoire occurring between the end of the last decade of 18th century and the third decade of the 19th century to which he will remain true for his whole life. The categories of beauty and pleasure raised by music interpretation, result in being central and opposite to the concept of music as thought and construction, cultivated by musicology and philosophy of music from Riemann to Adorno. The election of the rhapsodic, illogical, dialectic and mood dimension claims the legitimacy of musicophilia as opposed to musicology. It is based on an ethic option in favour of a music that embodies the outmoded virtues of modesty, shame, discretion, sobriety and expressive frugality. The elusive dialectic between presence and absence, internal and external, that characterizes Jankélévitch’s particular conception of subjectivity presents itself again in the weakening of the subject creator and in taking the side of extemporaneousness of the executive moment as opposed to the substantiality and duration of the musical work of art. This also requires a rethinking of the traditional concept of linear time. Despite the attempt to be placed beyond the traditional philosophical practices, Jankélévitch’s thought inscribes itself completely in the 18th-19th century Western tradition that conceives music and philosophy as two kin dimensions of thought and experience. However, they are separated by an insurmountable difference in which space lodges the work of an infinite interpretation as an inescapable necessity.
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BERNARD SÈVE
Sfumatura e costruzione Note sul corpus musicale di Vladimir Jankélévitch
Nel campo della filosofia dell’arte, il corpus delle opere privilegiate da un filosofo è in stretto rapporto con il tipo di analisi e di pensiero che egli propone. Il corpus delle opere musicali evocate da Jankélévitch, nei suoi diversi studi dedicati alla musica, non fa eccezione alla regola1. C’è un intimo legame tra questo corpus e il modo in cui Jankélévitch pensa la musica. Quando Adorno scrive i suoi due grandi libri su Mahler e Beethoven, di cui il secondo incompiuto, è chiaro che egli si muove in un universo musicale totalmente differente rispetto a quello nel quale si muove Jankélévitch, suo perfetto contemporaneo, essendo l’uno e l’altro nati nel 1903. Ed è altrettanto chiaro che le scelte musicali di Adorno esprimono scelte filosofiche del tutto diverse da quelle di Jankélévitch. Ogni corpus è sia un catalogo sia una lista. Un catalogo è, per definizione, disparato; esso appartiene all’ordine dei fatti, e non c’è che da registrarli. Una lista, invece, è per principio unificata da uno o più criteri. Ora, il corpus delle opere musicali, chiamate in causa da Jankélévitch nei suoi testi, ci sembra una lista e non un catalogo. Certo, sarebbe irragionevole voler trovare un criterio unico che permetta di collocare sotto una sola categoria compositori tanto diversi come Déodat de Séverac, Liszt, Rimskij-Korsakov, Albéniz, Chopin, Satie, Ravel, Mussorgskij, Debussy, Stravinskij, Fauré o Mompou. Il fatto è che il legame tra questi diversi musicisti non deriva da un unico tratto che tutti costoro avrebbero in comune, ma piuttosto da un insieme di tratti, di cui ognuno possiede alcuni, e spesso la totalità. Tratti che non sono solo di tipo musicale. Sicché il loro insieme definisce qualcosa come una fisionomia, la fisionomia jankélévitchiana del musicista, il suo Ideal-tipo. Il primo, e il più visibile di questi tratti, è quello cronologico: l’ambito storico coperto dal corpus di Jankélévitch è estremamente ristretto, non su1
A questo proposito, non posso che raccomandare vivamente la lettura dell’eccellente lavoro, sintetico e riflessivo, di J. Lacoste, La musique et la plénitude exaltante de l’être, in “Critique”, jan.-fév. 1989, pp. 71-101.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
pera quel centinaio d’anni che va dall’inizio dell’Ottocento fino alla metà del Novecento, dal 1825 al 1937 (anno della morte di Ravel), come precisa anche Jean Lacoste2. Il secondo tratto è nazionale: non c’è nessun inglese, nessun tedesco, nessun austriaco e nessun italiano. Certo, accade che Scarlatti, Mahler o altri ancora siano rapidamente menzionati, ma queste altre tradizioni musicali non sono affatto prese in considerazione. Le scuole realmente presenti e attive nel pensiero di Jankélévtich sono le scuole francese, russa e quelle della Mitteleuropa non germanica. Il terzo tratto è il rapporto con il pianoforte: la maggior parte dei musicisti di questo corpus sono pianisti e hanno scritto per pianoforte – e la biografia del filosofo, la sua lunga e ricca pratica dello strumento, da sola non basta a spiegare questo fatto3. Il quarto tratto è il gusto per la magia sonora, nozione sulla quale ritorneremo: magia delicata nel caso di Fauré o Satie, magia fragorosa nel caso di Stravinskij o di Liszt, ma in tutti i casi magia. Il quinto e ultimo tratto si trova nella nozione di sfumatura: la maggior parte dei musicisti della lista sono dei maestri di ciò che Jankélévitch chiama, ne La Musique et l’Ineffable, “l’espressivo inexpressif” e maestri della reticenza, della litote, dell’allusione, del pudore. Ora, ogni scelta di un oggetto di studio presuppone e implica la scelta di un modo di pensare, sicché i cinque tratti di questo corpus hanno una valenza filosofica. Due di essi ci sembrano presentare un significato artistico e filosofico particolarmente marcato, ed è su questi due che si concentrerà la nostra analisi. Sono quelli della sfumatura e della magia.
1. Sfumatura e magia Fin dall’inizio de La Musique et l’Ineffable, l’opera più concettuale e sistematica che abbia dedicato alla musica, Jankélévitch evoca la magia. “La musica agisce sull’uomo, sul suo sistema nervoso e persino sulle sue funzioni vitali” (MI, 3); il seguito del testo descrive un vero e proprio impossessamento dell’uomo attraverso la musica, e la parola “magia”, che Jankélévitch prende in prestito da Combarieu4, è adoperata fin dalla pagina seguente: “La 2 3 4
Ibidem., p. 72. Frédéric Worms mi ha giustamente fatto notare che il pianoforte permetteva, forse più di ogni altro strumento, il gioco delle sfumature e dei fini contrasti, che per Jankélévitch erano al cuore stesso della musica. J. Combarieu, La musique et la magie, Picard, Paris 1909, p. 8.
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Bernard Sève - Sfumatura e costruzione
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modulazione musicale è un atto che pretende di influenzare un essere” (MI, 4). Tale concetto di magia prende talvolta il nome, in apparenza meno inquietante, di “charme”: “l’operazione musicale, come l’iniziativa poetica, è un’azione sorgiva, ed è per questo che merita l’appellativo di Charme […] piuttosto che quello di magia: lo Charme infatti rappresenta qualcosa di magico solo in senso lato, essendo operazione mistica e non magica” (MI, 107). La differenza tra charme e magia è che la magia è operazione completa, mentre lo charme è “azione nascente”, operazione “in sospeso” e “incompiuta” (MI, 106). Altrove Jankélévitch dice che la musica raramente rende saggi, dato che essa “evoca piuttosto una esistenza illogica e un po’ orgiastica, una coscienza frenetica sconvolta da tragedie e deliri” (MI, 103). Il filosofo qui si sovviene della polemica condotta da Tolstoj contro la musica, accusata di “rimestare tutto ciò che è torbido, impuro e illecito nel cuore degli uomini” (ib.). A tal punto è persuaso della potenza irresistibile dei poteri magici della musica, che commette un errore molto singolare, alla fine de La Musique et l’Ineffable, quando scrive che Ulisse “si tappa le orecchie per non sentire le Sirene dell’errore, cioè per rendersi sordo alle musiche melodiose della perfida tentazione” (MI, 125)5: si sa che Ulisse, ben lungi dal tapparsi le orecchie, al contrario, prevedendo di udire ed essere quindi stregato dal canto delle Sirene, si fa legare all’albero maestro della sua nave per non rischiare di slanciarsi verso di esse e quindi verso la morte. Di primo acchito, le nozioni di magia e sfumatura sembrano agli antipodi l’una dall’altra. La magia sta dalla parte dell’irrazionale, della manipolazione pericolosa dovuta a forze oscure, della superstizione, della religione statica e della società chiusa. La sfumatura, al contrario, sta dalla parte della padronanza dell’uomo sui suoi processi, della raffinatezza, della delicatezza, dell’apertura dei sensi. Jankélévitch fa l’elogio della sfumatura, delle “variazioni infinitesimali del timbro e dell’intensità”, delle “inflessioni delicate che la sonorità deve all’attacco e al tocco”, del “pianissimo impressionnista” (MI, 39); la sfumatura va fino alla “reticenza”, graziosamente definita come “la forza di un’emozione trattenuta” (MI, 43); mentre il pudore, è un “dire meno” (MI, 41). Il pensatore del “je-ne-sais-quoi” e del “presque-rien” non poteva che valorizzarne l’equivalente musicale: il pianissimo evanescente, l’allusione suggerita più che detta, o il “rifiuto d’esprimere” che egli attribuisce a Satie nel suo saggio su Le Nocturne.
5
E ancora: “le Sirene marine, nemiche delle Muse, non hanno altro scopo che sviare, dirottare, ritardare l’odissea di Ulisse” (MI, 5). In seguito evoca un cammino che conduce alla morte. Queste allusioni omeriche sono un po’ curiose e, tutto sommato, poco rigorose.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
Sarebbe tuttavia sbagliato opporre tra loro magia e sfumatura, come se rappresentassero rispettivamente lo stato selvaggio e quello civilizzato del fenomeno musicale. Poiché la sfumatura ha anche un potere magico, essa comporta l’adesione in modo forse ancor più intimo che non il fracasso degli ottoni. Jankélévitch lo suggerisce là dove elabora una bella analisi della reticenza: “non dire spesso è più persausivo che dire tutto” (MI, 120). Soprattutto, la sfumatura non è debolezza, ma forza trattenuta, o sospesa. Non occorre meno forza per la sfumatura sonora che per la magia sonora. Liszt sotto questo aspetto costituisce un esempio privilegiato: è una forza della natura, una potenza di lavoro e di generosità, e questa forza si fa in lui tanto magia quanto sfumatura – il loro incontro potrebbe essere illustrato dal brano “Sposalizio” di Années de pèlerinage. Si potrebbe infine collegare alla coppia magia/sfumatura un’idea filosoficamente molto importante, sebbene molto discutibile, di Jankélévitch. In molti testi, egli sostiene che la musica sfugge al principio di contraddizione: principio logico supremo non solo del pensiero, ma anche dell’azione razionale e della produzione tecnica. Perciò nel Nocturne invoca la “coincidenza irrazionale dei contrari” (N, 27); mentre ne La Musique et l’Ineffable dice, in modo ancor più netto, che “la musica ignora il principio di non contraddizione […] la musica non è tenuta a scegliere fra sentimenti contraddittori, ma anzi compone con essi – a onta di ogni alternativa – un solo stato d’animo” (MI, 63)6. Questo rifiuto del principio di contraddizione potrebbe essere letto come una metafora, e forse Jankélévitch stesso lo intendeva come tale. Ma, quand’anche fosse, un tale rifiuto dice qualcosa di molto importante. Dice il rigetto della forma e delle nozioni ad essa associate: costruzione, sviluppo, polifonia – appunto perché queste diverse nozioni e pratiche musicali presuppongono la piena validità del principio di contraddizione.
2. Estetiche della sfumatura ed estetiche della costruzione Esponiamo subito la nostra tesi: esistono, presso i filosofi della musica – senza tenere conto delle diverse correnti all’interno dell’estetica analitica (J. Levinson, P. Kivy, St. Davies) –, due grandi generi di estetica musicale: le estetiche della sfumatura, che sono anche delle estetiche dell’espressività; e le estetiche della costruzione. Jankélévitch è certamente l’esponente migliore, il più coerente e il più eloquente, delle prime. Più numerosi sono i 6
Si veda anche LRI, 49.
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Bernard Sève - Sfumatura e costruzione
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rappresentanti dell’estetica della costruzione. Tanto per fare un solo nome, si potrebbe richiamare quello di Boris de Schloezer, estetologo russo nato nel 1881, esiliato in Francia e morto nel 1969. I suoi due grandi lavori sono, da una parte, Introduction à Jean-Sébastien Bach, e dall’altra Problèmes de la musique moderne7, che egli scrive in collaborazione con la nipote, Marina Skrjabin, figlia di Aleksander Skrjabin. Jankélévitch e Schloezer si saranno mai incontrati? I loro corpus musicali sono agli antipodi l’uno dall’altro; uno dei rari musicisti che hanno in comune è Stravinskij. Le loro estetiche sono opposte, ma vale la pena cercare di determinare ciò che ciascuna di esse permette o non permette di pensare. La parola “opposizione” non è d’altronde totalmente esatta: c’è opposizione tra due tesi quando le due tesi dicono cose opposte circa lo stesso oggetto. Ma qui l’oggetto non è in comune. Jankélévitch e Schloezer dicono cose diverse su oggetti diversi: in tal caso si può ancora parlare di opposizione? Sì, perché gli oggetti in questione sono in entrambi i casi la musica, e perché si capisce bene, nonostante che né l’uno né l’altro lo dicano esplicitamente, che la musica di cui trattano è, per ognuno, quella vera, quella compiuta, quella che realizza le sue più alte possibilità. È a questo livello di grande profondità che si oppongono i due pensatori e le loro due prospettive estetiche. Ne va della determinazione di ciò che la musica è, fa e può. Il corpus musicale del grande libro di Schloezer si riduce a un solo nome, Jean-Sébastien Bach, che qui rappresenta tutti i costruttori – ed è proprio il grande assente nella riflessione di Jankélévitch. Il concetto chiave del pensiero di Schloezer è il concetto di forma, inteso, in modo strutturale, come una costruzione regolata anche se irriducibile alle “regole compositive” e all’ordine del concetto in generale. Molte cose importanti nel processo musicale non possono essere pensate senza ricorrere necessariamente a questo concetto di forma8. Ora, ciò che davvero colpisce in questo confronto è il rigetto assoluto, da parte di Schloezer, di ogni magia nella musica. Egli sa bene che c’è della magia nella musica, ma tutto ciò che rientra nel campo della magia, dello charme, della seduzione immediata, della carezza sonora, gli sembra rientrare nel campo di forze inferiori e indegne della vera musica. “Un’opera assolutamente perfetta dev’essere sprovvista di magia, e cioè incapace di agire se non è compresa”9. Questa affermazione 7 8 9
Introduction à Jean-Sébastien Bach, Gallimard, Paris 1947; Problèmes de la musique moderne, Minuit, Paris 1959. Ma non si dimenticherà il suo Igor Stravinskij, Éd. Claude Aveline, Paris 1929. Sul punto mi permetto di rinviare al mio L’Altération musicale, ou ce que la musique apprend au philosophe, Seuil, Paris 2002. Introduction à Jean-Sébastien Bach, cit., pp. 47-8.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
è illuminante: l’azione della musica è legittima, cioè realmente artistica, a patto che nell’esercitarla si dia comprensione. Non una comprensione evidentemente di natura professionale o colta, poiché allora sarebbero solo i musicisti ed i musicologi a dover affollare le sale da concerto; ancor meno una comprensione di natura logica o concettuale. Si tratta invece di una comprensione estetica che mobilita ad un tempo l’intelligenza, l’attenzione posta dalla volontà, la memoria, la facoltà di istituire paragoni, la volontà di ri-costruire l’opera attraverso l’ascolto. Laddove la melodia agisce “magicamente” quando è semplice ed evidente, quando aderisce ai canoni più comuni della cultura, quando è stereotipata e non richiede alcun lavoro di assimilazione, quando parla direttamente al cuore e al sentimento, quando si fa canaglia e complice. La magia musicale è la passività dell’ascoltatore. Mentre la vera musica richiede la cooperazione attiva di chi l’ascolta – tanto più necessaria quanto più l’opera è complessa e costruita. Si capisce come Schloezer abbia trovato in Bach il musicista che si adeguava alla sua visione, poiché il genio bachiano consiste nella polifonia. Ora, scrive Schloezer, “una polifonia è proprio la tipologia di musica a-magica (per quanto sia possibile un tale genere di musica)”10; ed è per questo che polemizza contro gli arrangiamenti orchestrali dell’ Arte della fuga di Bach, adducendo il motivo che, così artificialmente colorata, essa acquista “un’azione diretta, uno charme magico, che ne altera profondamente il senso”11. Si sarà notata la medesima associazione tra magia e charme rilevata in Jankélévitch, ma ora intesa secondo un’assiologia il cui significato è completamente opposto. Così come si sarà notato che Schloezer non crede sia realmente possibile una musica del tutto priva di magia. La musica “pura”, liberata dalla magia, è un Ideale, qualcosa come un’Idea musicale regolatrice. Ora, la nozione di costruzione, e in particolare di costruzione polifonica, richiede il rispetto del principio di contraddizione, di cui si è visto che Jankélévitch rifiutava la pertinenza nel regno dei suoni. Le operazioni di scrittura polifonica come il contrappunto reversibile e la fuga, o ancora i procedimenti divenuti usuali a partire da Schönberg e la Seconda scuola di Vienna, come il movimento retrogrado e i ritmi non-retrogradabili cari a Messiaen, tutte queste tecniche di scrittura musicale dotta richiedono il rispetto del principio di non-contraddizione. Il rigore delle regole presuppone la validità del principio del terzo-escluso, correlato al principio di contraddizione: non si può nello stesso momento fare una cosa e il suo contrario. Ma come vede, dunque, Jankélévitch la polifonia? 10 11
Ibidem, p. 50. Ibidem.
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Bernard Sève - Sfumatura e costruzione
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3. Rifiuto della costruzione e rifiuto della forma in Jankélévitch Il modo in cui Jankélévitch parla della polifonia è del tutto fuori dall’ordinario, tanto da attestare il suo rifiuto profondo per ogni sorta di costruzione formale e dell’idea stessa di costruzione: “Nella polifonia le voci parlano insieme armoniosamente, ma non parlano l’una all’altra, non si rivolgono l’una all’altra: piuttosto concertano per dei terzi, come coristi che si rivolgono verso l’uditorio… o attestano Dio” (MI, 18). Ora, sarebbe impossibile per chiunque, non conoscendo la polifonia, averne una minima e sia pur approssimativa idea leggendo questo passaggio. E va anche aggiunto che siffatta descrizione è falsa e rivela un profondo misconoscimento di ciò che la polifonia è. Molte altre ancora sono le maniere in cui si esprime il rifiuto della costruzione in Jankélévitch – eccone alcuni esempi privilegiati. Esso si esprime innanzitutto nel suo amore per la rapsodia: “anomia, acronia, ametria sono dunque le sole leggi di un genere che ripudia ogni convenzione. La rapsodia è opera che procede per licenze” (LRI, 61); e ancora: “la Rapsodia segue dunque un ordine accumulativo e torrenziale, che si apparenta molto più alla mistica ebbrezza del Cantico dei cantici che al logos rettilineo e oratorio del ragionamento” (LRI, 59). E via di seguito, si potrebbero moltiplicare le citazioni di questo tipo. Il rifiuto della costruzione si legge anche nell’elogio dell’improvvisazione – o meglio di un certo tipo di improvvisazione, si dovrebbe dire, quella di Liszt e non quella di Bach. Perché Bach era anche lui un improvvisatore senza pari, seguiva però delle regole – ma improvvisare delle fughe a tre o quattro voci su soggetti commissionati, fossero anche regali, anzi specie se regali12, non fa parte dei gusti di Jankélévitch. L’improvvisazione, secondo il filosofo, è quella di Liszt: abbondante, generosa, inventiva, fantasiosa, e perfino se possibile, multiforme come i venti scatenati di una tempesta, senza scopo predeterminato, insomma da virtuoso. Identico rifiuto della costruzione troviamo nella polemica di Jankélévitch contro il genere della variazione, che gli sembrava un modo di “tirarla per le lunghe” ripetendo le stesse cose. C’è da chiedersi se Jankélévitch conoscesse le Variazioni Goldberg o le Variazioni Diabelli, per citare solo due dei più grandi monumenti del genere. E ancora, rifiuto delle forme chiuse, di tutto ciò che porta a un risultato determinato: “la rapsodia di Liszt – dice Jankélévitch in modo molto significativo – è tutta preludio, e preludio perpetuo” (LRI, 168). Il preludio, ma senza la fuga … 12
V. al riguardo l’Offrande musicale e il suo “tema regale” sul quale Federico II chiese a Bach d’improvvisare una fuga.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
Infine, rifiuto dello sviluppo, considerato come troppo logico e prevedibile: è Jankélévitch che oppone la Sinfonia classica, quella di Mozart13, fondata sul principio dello sviluppo e che è opera della ragione, alla Rapsodia, che dipende solo dalla Fantasia (LRI, 48). Nel suo lavoro sul Nocturne, Jankélévitch esalta Satie per il suo “rifiuto di sviluppare”: “le belle consonanze inespressive e monocrome si aprono sull’infinito, in lunghi allineamenti silenziosi […]. Queste giustapposizioni impassibili vogliono escludere ogni discorso, ogni continuità, e dunque ogni eloquenza” (LRI, 127). Ed è ancora Jankélévitch a fare l’elogio della più serrata brevità: “una scena, un atteggiamento sono sorpresi sul vivo, come attraverso il lampo di magnesio, e trascritte nella flagranza della loro istantaneità…” (LRI, 130). Ma non si veda in ciò una contraddizione con l’elogio dell’ampia rapsodia! Nell’elogio della brevità, come in quello dell’ampiezza rapsodica, si esprime lo stesso rifiuto della costruzione, perché il troppo breve non può essere costruito e la rapsodia non vuole esserlo. Tale rifiuto della costruzione va di pari passo con un doppio rifiuto della forma: rifiuto delle musiche concepite nel quadro delle forme ereditate; rifiuto del concetto di “forma” nella filosofia dell’arte. Jankélévitch polemizza spesso, e spesso in modo alquanto fastidioso, con la forma-sonata: quindi, contemporaneamente, contro la forma e contro le sonate, le sinfonie e i concerti concretamente scritti secondo gli schemi della forma-sonata14. Perciò il suo articolo su “François Liszt et la muse de la rhapsodie” comincia con dei motteggi indirizzati alla volta dell’ “homo symphonicus, legislatore della forma-sonata, che procede in modo dogmatico senza far distinzioni di data o di luogo. Mentre l’uomo della rapsodia congeda queste astrazioni da conservatorio” (LRI, 26). Qui Jankélévitch si fa localista e anti-universalista: “All’universalismo impersonale e astratto della Sinfonia [cioè della formasonata], la Rapsodia sostituisce il principio della localizzazione nazionale o provinciale” (LRI, 27). Jankélévitch fin dall’inizio di questo articolo aveva enunciato che il principio della Rapsodia procedeva quasi in sincronia col “principio ottocentesco del nazionalismo” – ricordiamo che all’epoca di cui parla Jankélévitch, appunto l’Ottocento, il nazionalismo significava indipendenza dei popoli, e non, come accadrà più tardi, chiusura xenofoba di società chiuse. Ma lasciamo da parte queste considerazioni politiche, non senza osservare che esse ritornano spesso e sono, in generale, piuttosto
13 14
Jankélévitch si fa beffe di Mozart in modo un po’ greve (LRI, 54). Val la pena di ricordare che la forma-sonata non è la forma della sola sonata, o piuttosto del primo movimento della sonata, ma anche di innumerevoli trii, quartetti, concerti e sinfonie.
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sbrigative. Jankélévitch contesta la sonata perché essa sarebbe dissertativa, retorica, argomentativa, tendente “al sermone o all’arringa” (LRI, 52-3). Il che significa misconoscere le grandi proprietà artistiche della sonata, come d’altronde di ogni forma regolata. Non vedere nella forma-sonata, come fa appunto Jankélévitch, che un semplice prodotto scolastico dei conservatori tedeschi, è profondamente ingiusto e persino scioccante. Tutti coloro che hanno letto i lavori di Charles Rosen sulla, o meglio sulle forme-sonata, tutti coloro che, più semplicemente, hanno ascoltato, eseguito e studiato le 32 sonate di Beethoven, non possono che ricusare le dichiarazioni di Jankélévitch su questo punto. Procede sempre come se la forma-sonata fosse una costrizione e la rapsodia una liberazione – cosa che è una caricatura, inseribile forse in un pamphlet, ma non in un trattato di filosofia. 4. Nuvole e precisione Nel libro La vie et la mort dans l’œuvre de Debussy, Jankélévitch oppone alla nozione di “struttura” (parola che egli scrive sempre tra ironiche virgolette) “l’esistenza diffusa, diffluente, deliquescente, quell’esistenza senza limiti precisi, quell’esistenza senza consistenza, plastica e quasi senza massa” cui Debussy alluderebbe in Nuages (VMD, 24). La nuvola è l’altro dalla forma, “infatti, che cos’è una nuvola se non una forma instabile e continuamente deformata? […] Incessantemente le nuvole si scompongono e ricompongono, diventano una figura strana, corolla gigante o nastro, fino al momento in cui ogni forma sostanziale si dissolve nella bruma” (VMD, 24-5). Tuttavia va osservato che Jankélévitch non identifica “nuvoloso” con “sfumato”. “Debussy è misterioso, ma insieme luminoso e preciso: misterioso e minuzioso!” (VMD, 107). E protesta contro la riduzione “dello stile debussiano ad un’estetica dello «sfumato»” (VMD, 108). In altre parole, Jankélévitch tende a dissociare il concetto di costruzione da quello di precisione, e cerca di pensare una precisione che non dipenda da regole di costruzione. Questo atteggiamento è molto interessante: la sfumatura debussyana è precisione non costruita. “I musicisti tesi innazitutto alla costruzione e alla ‘struttura’ dimenticano troppo spesso che la precisione d’acciaio dei Douze Études e delle Épigraphes antiques precorreva la stessa reazione anti-debussyana […]. In Debussy c’è una ‘dialettica della durata’ che esclude il vago ed è all’opposto di ogni confusionismo” (ib.). Senza voler forzare troppo il discorso, si potrebbe dire che per Jankélévitch è la musica “costruita” ad essere vaga e sfumata, poiché applica principi astratti e forme “bell’ e fatte” che mal si attagliano alla flessibilità del processo musicale.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
Su questo punto l’estetica di Jankélévitch è tanto interessante quanto problematica. Essa non può essere compresa se non si tiene presente il suo retro-fondo bergsoniano. Bergson oppone spesso la falsa chiarezza e la falsa precisione dei concetti dell’intelletto, concetti passe partout già pronti, alla vera chiarezza e alla vera precisione dell’intuizione e del concetto duttile, che si modella esattamente sulla realtà da pensare. Da buon bergsoniano, Jankélévitch è amante della precisione e nemico dello sfumato, del vago, dell’approssimativo. Occorre peraltro precisare che Jankélévitch dice esplicitamente, sempre nel saggio su Debussy, che la sua musica non è bergsoniana perché è musica delle “acque profonde”, stagnanti, persino “putride”, e non musica delle “acque primaverili” (VMD, 40-2). Ma le nuvole di Debussy non diventano per questo sfumate. Questa estetica della precisione è, dicevamo, problematica. Il fatto è che la trasposizione musicale del bergsonismo non è cosa così agevole. L’intuizione, in Bergson, è comprensione di una realtà, in noi o fuori di noi. La musica non deve comprendere una realtà; essa deve inventarla, crearla. Ma allora diventa molto difficile trovare il criterio della precisione fluida nel campo della musica: la metafora bergsoniana dell’intuizione che “si modella” sul proprio oggetto non può più funzionare, poiché non c’è più l’oggetto – salvo riservare questa filosofia della precisione musicale alle musiche a programma o alle musiche descrittive. È in fondo quello che fa Jankélévitch senza dirlo. Ma, per quanto riguarda quella che viene chiamata la “musica pura”15, cioè, per brevità, la musica nella sua pratica non referenziale, si può comprendere la nozione di precisione in termini che non siano costruzionisti? L’idea resta in Jankélévitch allo stato programmatico È un peccato che Jankélévitch non si sia mai interessato alla nozione di linguaggio musicale, in Debussy o in qualsivoglia altro musicista. L’estrema precisione è in Debussy il frutto di un lavoro sulle forme16 e, a nostro avviso, di un lavoro di costruzione. Nel suo saggio Debussy, la révolution subtile, André Boucourechliev parla, a proposito di un brano dal titolo Brouillards, di “macchina da nebbia”: non si confonda qui la nuvola, precisa, con la nebbia, imprecisa. E Jankélévitch avrebbe potuto dopo tutto ammettere, almeno fino a un certo punto, quest’idea di Boucourechliev. Ma ciò che qui appare importante è la parola “macchina”, che implica l’idea 15 16
Cfr. su questo argomento il saggio fondamentale di C. Dahlhaus, L’idée de la musique absolue, Contrechamps, Paris 1997. Cfr. sull’arg. gli studi dedicati a Debussy da N. Ruwet (in Langage, musique, poésie, Seuil, Paris 1972), A. Boucourechliev (Debussy, la révolution subtile, Fayard, Paris 1998), A. Schaeffner (in Variations sur la Musique, Fayard, Paris 1998) e A. Souris (in La lyre à double tranchant, Mardaga, Liège 2000).
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Bernard Sève - Sfumatura e costruzione
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di costruzione. Ai nostri giorni, Gyorgy Ligeti ha dimostrato che la costruzione colta, persino iper-colta, di un brano musicale, poteva produrre sia l’estrema precisione che l’estrema imprecisione, e che, cosa ancora più sorprendente, poteva produrre egualmente la trasformazione della precisione in imprecisione e dell’imprecisione in precisione. Si pensi a due affascinanti brani di Ligeti: quella costruzione del caso che è il Poème symphonique pour 100 métronomes e quella costruzione di precisione che è Clocks and clouds (1973). In entrambi i casi, un gioco meraviglioso di meccanica, rischio, sfumatura, precisione, e, bisogna aggiungere, emozione. Ma con queste opere ci siamo portati al di là di Jankélévitch, al di là di Schloezer, e al di là del dibattito tra le due nozioni di sfumatura e precisione.
5. La posta in gioco delle due estetiche Quello che ci si aspetta dalla filosofia è che ci permetta di pensare l’esperienza. Ora, la ristrettezza del periodo storico coperto dalla riflessione musicale jankélévitchiana limita, secondo noi, la portata dei suoi concetti e delle sue analisi. Infatti, non sono solo i polifonisti e i grandi costruttori, come Bach, Haendel o Beethoven, ad essere assenti dal pensiero di Jankélévitch, ma anche tutta la musica barocca e tutta l’opera italiana, senza parlare dei tedeschi, o delle musiche a volte considerate semi-esotiche, quali la musica medievale e la musica rinascimentale. Queste assenze sono tanto più imbarazzanti in quanto non sono semplici assenze, dovute alle numerose casualità che intervengono inevitabilmente nella costituzione di ogni patrimonio culturale, ma assenze rese doppiamente gravi dalla scelta deliberata che esse esprimono. Tali assenze sono rifiuti. Una siffatta scelta rappresenta, in prima istanza, un modo di pensare, e poi una preferenza d’ordine estetico. La maniera di sentire e di pensare, e il loro legame, dettano senza dubbio in questo caso la scelta del corpus. Il miglior modo per esprimere i gusti estetici è la critica d’arte; e, in un certo senso, si renderebbe quasi più giustizia agli studi di Jankélévitch su Satie, Chopin, Debussy o Rimskij-Korsakov se li si leggesse come critiche musicali, piuttosto che come testi di filosofia della musica. Il vero libro di Jankélévitch in tal senso è La Musique et l’Ineffable. Il titolo è ambizioso: indica che il trattato verterà su “la” musica; e la prima frase del libro è “Che cos’è la musica?” (MI, 1). Si tratta, dunque, di sapere se i concetti elaborati da Jankélévitch siano esportabili nei campi musicali che questo filosofo non prendeva in considerazione.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
I concetti delle estetiche della costruzione sono probabilmente più esportabili di quelli delle estetiche della sfumatura. Schloezer costruisce i suoi concetti sul modello privilegiato di Bach; ma essi possono, mutatis mutandis, essere utilizzati anche per pensare la musica di Beethoven o di Schönberg, quella di Chopin, Debussy o Rimskij-Korsakov – mentre per Satie sarebbe sicuramente più difficile. Anche questi musicisti costruiscono delle strutture sonore complesse che obbediscono a delle regole. Dal canto loro i concetti di Jankélévitch sarebbero parimenti esportabili? Ci certo sfumature, e sfumature di una sottigliezza straordinaria, in musicisti come Wagner o Mahler – che peraltro Jankélévitch non amava. La questione è di sapere se queste sfumature e permutazioni della voce funzionano nel Tristano o nel Knabenwunderhorn, come funzionano per Albéniz o per Mompou. C’è da dubitarne. I concetti adoperati da Jankélévitch sono così esattamente appropriati al suo corpus, che non sono di nessun utilizzo altrove. Ma forse, dopo tutto, egli avrebbe considerato questa osservazione come un complimento. Per concludere, vorremmo sottolineare due punti di forza della filosofia musicale di Jankélévitch. I suoi libri sono una meditazione continua del tempo musicale come tempo inaugurale, come tempo del cominciamento, quel “cominciamento del cominciamento” che è l’improvvisazione musicale (LRI, 113). La filosofia musicale di Jankélévitch è un costante appello a sentire, nella musica, una forza vitale e creativa. E un tale pensiero conserva certamente tutta la sua forza polemica contro il formalismo, lo psittacismo, le forme vuote. Le estetiche della costruzione, come quella di Schloezer, sono essenzialmente estetiche dell’oggetto musicale; l’estetica della sfumatura e del ‘trattenuto’, come quella di Jankélévitch, è un’estetica del rapporto con l’oggetto – oggetto che, come abbiamo detto, non è un oggetto ma un processo. La struttura contrappuntistica di un brano di Bach o Boulez è una proprietà dell’oggetto, anche se questa proprietà trova il suo prolungamento e il suo compimento estetico solo nel lavoro dell’ascoltatore; ma la fluidità del tempo o la sfumatura di un attacco non hanno senso che nel rapporto soggettivo con l’oggetto, o piuttosto con il processo musicale. In altre parole, mettere l’accento sul “quasi niente” e sul “non so che” nella musica significa ricordare che, dietro l’oggetto di studio, c’è l’oggetto d’amore, e che questo oggetto d’amore non è appunto solo un oggetto, ma un incontro e un ascolto. Questo, Jankélévitch, non l’ha mai dimenticato. (Traduzione dal francese di Ida Plastina e Enrica Lisciani Petrini)
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Abstracts
Nella filosofia dell’arte, ogni corpus esprime una scelta di metodo. Il corpus delle opere musicali evocate da Vladimir Jankélévitch è alquanto ristretto e obbedisce ad alcuni criteri: cronologici, nazionali, organologici (il piano), stilistici (magia sonora, sfumatura, “reticenza”). Questa estetica della sfumatura, che non è il contrario della magia, si oppone alle estetiche della costruzione (di cui è un rappresentante di rilievo Boris de Schloezer). La costruzione suppone il rispetto del principio di non-contraddizione, la cui validità è rifiutata da Jankélévitch in musica. Il rifiuto esplicito della costruzione va di pari passo, nel filosofo, con il rifiuto della forma. Tuttavia egli pensa la sfumatura come precisione (alla maniera di Debussy) e non come “sfumato”. In definitiva l’estetica di Jankélévitch è una estetica dell’incontro con la musica. Tout corpus, en philosophie de l’art, exprime un choix de méthode. Le corpus des œuvres musicales évoquées par Vladimir Jankélévitch est étroit et obéit à quelques critères: chronologiques, nationaux, organologiques (le piano), stylistiques (magie sonore, nuance, “réticence”). Cette esthétique de la nuance, laquelle n’est pas le contraire de la magie, s’oppose aux esthétiques de la construction (dont Boris de Schloezer est un bon représentant). La construction suppose le respect du principe de non-contradiction, dont Jankélévitch refuse la validité en musique. Le refus explicite de la construction va de pair, chez Jankélévitch, avec le refus de la forme. Il pense toutefois la nuance comme précision (Debussy) et non comme flou. L’esthétique de Jankélévitch est une esthétique de la rencontre de la musique. In the field of philosophy of art, any corpus expresses a choice in methodology. The corpus of musical works refered to by Jankélévitch is a narrow one and obeys to a few criteria: a chronological criterion, a national one, an organological one (piano) and a stylistic one (magic of sound, nuance, “réticence”). This aesthetic theory of nuance, in which nuance does not contradict magic, is opposed to aesthetical theories based on construction (such as the one held, for instance, by B. de Schloezer). Construction theory of musical aesthetics presupposes the principle of non-contradiction, whose validity is rejected by Jankélévitch in the realm of music. This explicit dismissal of the notion of construction is concomitant, in Jan-
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
kélévitch’s work, with the rejection of form. He nonetheless conceives of nuance as precision (Debussy), not as blur. Musical encounter is central to Jankélévitch’s theory of aesthetics.
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ELIO MATASSI
Vladimir Jankélévitch et l’écoute mortelle
1. Dans la Fable en musique de Claudio Monteverdi, l’Orphée (1607) en un prologue et cinq actes, sur un livret d’Alessandro Striggio, La Musique fait son entrée en tant que protagoniste en entonnant la ritournelle: “M’accompagnant d’une cithare d’or, j’ai coutume / D’enchanter l’oreille des mortels / Et, à m’entendre, leur âme aspire / Aux sons harmonieux de la lyre du ciel”. Pareille expression pourrait passer inaperçue, mais pour qui connaît et comprend certaines résonances qui viennent de cette œuvre lyrique, “l’oreille des mortels” évoque une sorte de prophétie propre à l’œuvre elle-même1. Ce qui, en fait, pourrait être défini comme “écoute mortelle” figure le motif de la désobéissance d’Orphée qui, lors de sa descente aux Enfers, finit par perdre Eurydice pour la seconde et dernière fois. En d’autres termes, ce que la Musique, toujours en tant que protagoniste, semble annoncer discrètement ici, en ouverture du drame qui va se jouer, est précisément cette oreille mortelle, faible, pauvre, laquelle sera, au quatrième acte, pour avoir perçu un bruit, la cause de la volte d’Orphée. C’est ainsi qu’il perdra pour toujours son Eurydice, avant d’être condamné, au cinquième et dernier acte, à ne plus entendre rien d’autre que ses pleurs et ses lamentations que seul un écho lui renvoie en fragments. Il s’agit là d’une fable en musique qui se présente sous la forme d’une fable destinée à l’écoute et qui narre l’interruption par une oreille mortelle de la souveraineté absolue de la musique. Une telle Kehre survient dans l’œuvre au moment précis où Orphée se trouve assailli par le doute né de son propre chant. Peu avant de désobéir, Orphée chantait en effet une chanson parlant du chant, une chanson sur le chant: “Mais hélas, tandis que je chante, qui peut m’assurer / Qu’elle me suit?”. Orphée qui d’une certaine façon est sur le point de se remettre à chanter, a presque 1
P. Szendy, L’oreille mortelle, ou le retournement d’Orphée, in Sur écoute. Esthétique de l’espionnage, Minuit, Paris 2007.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
l’impression que chanter, à savoir exercer son propre pouvoir musical, représente une activité problématique. Il ne s’agit pas d’une simple coïncidence si peu après, suite à une rumeur inconnue, Orphée s’exclame: “Mais, hélas, qu’entends-je?”. Son oreille mortelle est attirée par une rumeur inconnue, à tel point qu’il s’éloigne de l’écoute absolue qu’au cours du prologue, la Musique exigeait pour ses chants souverains. L’écoute d’Orphée, ce demi-dieu qui incarne et transmet le pouvoir musical parmi les mortels, cette oreille du musicien légendaire, de celui qui symbolise le destin et l’essence de la musique, est donc contingente, soumise à la contingence. Dans le dixième livre des Métamorphoses d’Ovide, Orphée et Eurydice, tandis qu’ils marchent (lui devant, elle derrière) pour quitter le règne des morts, se voient entourés d’un silence qu’aucune rumeur, qu’aucune voix ne vient enfreindre. Et c’est dans ce silence absolu qu’Orphée se retourne: Ils prennent, au milieu d’un profond silence, un sentier en pente, escarpé, obscur, enveloppé d’un épais brouillard. Ils n’étaient pas loin d’atteindre la surface de la terre, ils touchaient au bord, lorsque, craignant qu’Eurydice ne lui échappe et impatient de la voir, son amoureux époux tourne les yeux et aussitôt elle est entraînée en arrière; elle tend les bras, elle cherche son étreinte et veut l’étreindre ellemême; l’infortunée ne saisit que l’air impalpable. En mourant pour la seconde fois […]2.
Dans la quatrième Géorgique de Virgile, source principale de Striggio pour son livret, c’est seulement une fois qu’Orphée s’est retourné que les enfers résonnent trois fois en un grondement tonitruant, lequel apparaît comme un écho, voire comme ponctuant avec force une catastrophe qui se serait déjà produite. Monteverdi et Striggio ont donc introduit une inversion dans l’ordre des événements en faisant précéder la volte-face par la rumeur qui en est la cause. Au moyen de cette inversion, ils laissent entendre que l’écoute est mortelle, à savoir exposée par sa finitude même à la contingence. En outre, le motif révolutionnaire de la volte-face, lequel s’incarne de façon dramatique dans le retournement d’Orphée, est préparé et souligné musicalement par la dissémination, au fil du tissu mélodique, de nombreuses inversions et involutions, comme si les volutes ornementales
2
Ovide, Les Métamorphoses, Tome II, Livre X, 50-59, texte établi et traduit par G. Lafaye, Les Belles Lettres, Paris 1955, pp. 122-123.
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Elio Matassi - Vladimir Jankélévitch et l’écoute mortelle
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des chants vocaux ou instrumentaux, en tournant et en se retournant sur elles-mêmes, annonçaient l’imminence de la catastrophe. Le retournement d’Orphée outre qu’il entraîne cette déclinaison musicale, marque également un tournant dans la structure dramatique du cinquième acte: dans ce dernier acte, comme en miroir au premier acte, il fait entrer en scène une seconde figure allégorique qui n’est plus toutefois la Musique mais l’Écho. Ces figures sont les seules dans l’oeuvre à échapper à l’opposition humain-divin au point que l’Écho apparaît comme une sorte de réplique de la Musique, comme sa répétition incomplète (dimidiée), en d’autres termes l’Écho est une reproduction finie, un double mortel de la Musique, privée, dépouillée et chassée de sa souveraineté. Ce que fait l’Écho des lamentations d’Orphée, ce qu’il tire de ses pleurs, n’est plus quelque chose de proprement musical: l’Écho, double indigent de la Musique, oreille mortelle d’Orphée, écoute mortelle, vaut pour preuve ultime de cet appel à la contingence. L’Orphée de Monteverdi représente donc une espèce de parabole descendante: dans cette fable en musique qui semble célébrer les fastes fabuleux de la Musique, la souveraineté de cette dernière se voit mise en discussion de façon sous-jacente avec pour conséquence l’esquisse du profil d’une écoute fragile, contingente, soumise à la contingence. S’agit-il d’une courbe régressive ou de la constatation de la perte de la souveraineté, présumée absolue, de la musique? La réponse à cette interrogation se trouve dans une vision de la musique qui, en exaltant l’écoute mortelle, contingente, en circonscrit la spécificité, et qui trouve dans le concept jankélévitchien d’ineffable sa véritable vérification. Afin d’éclairer une telle perspective, je suivrai le plan que voici: J’approfondirai le concept de l’ineffable selon un double mouvement, celui de la via negationis (c’est-à-dire que l’ineffable n’est pas et ne veux pas être ) et celui de la via affirmationis. La juxtaposition des deux séquences permettra de saisir avec lucidité la méthode autant que la finalité de l’ineffable. Enfin, je traduirai le modèle ainsi défini dans des termes qui rendent compte de la dimension contingente du son et de l’écoute.
2. Pour comprendre jusqu’au bout ce qu’est l’ineffable tel que le suggère l’important chapitre deuxième – intitulé “L’‘espressivo’ inexpressif” – de La Musique et l’Ineffable de Jankélévitch, il est opportun de poser le concept d’indicible, en tant que terme négatif de comparaison. Avant
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
d’entrer dans le vif du sujet, il est intéressant de constater que pour se référer à la musique, Jankélévitch utilise fréquemment la figure rhétorique de l’oxymoron, une figure où la signification de l’adjectif est complètement opposée à celle du substantif.Le recours extrêmement fréquent à cet usage littéraire témoigne de la complexité et de l’ambiguïté du statut de la musique, qu’il n’est possible d’appréhender qu’en recourant à de subtils stratagèmes littéraires. La méthode logique que suit Jankélévitch pour remettre en question l’ineffable est tout aussi discriminante. En négatif, il existe une opposition de principe entre l’ineffable et l’indicible, une opposition déterminée en premier lieu par le fait que l’ineffable n’a aucun rapport avec la négativité, avec le pur non-être, le néant et la mort. C’est une voie complexe qui mène à l’interprétation du phénomène musical dans sa spécificité, en raison de l’équilibre difficile qu’exprime la musique; en revanche, l’automatisme qui encadre cette complexité dans des catégories nihilistes n’est pas aussi évident. Le fait que la musique n’appartienne pas au monde du dire, qu’elle n’appartienne pas au langage, n’a pas comme conséquence l’insensé, l’absence de tout horizon de sens. Du point de vue logique, l’inexprimable peut correspondre à l’absence de sens; mais du point de vue spécifiquement musical, il représente la plénitude de certaines valeurs fondamentales, par exemple l’insondable mystère de Dieu, l’inépuisable mystère de l’amour: “L’inexprimable-ineffable, étant exprimable à l’infini, est donc porteur d’un «message» ambigu, et il ressemble au jene-sais-quoi d’Henri Bremond en cela […]. Le sens du sens est donc une ineffable vérité. Si le sens du sens, quand il s’agit de la vie, est non-sens, car le sens du sens de la vie n’est autre que l’absurdité létale, c’est-à-dire la mort, le sens du sens que la musique dégage est un mystère de positivité” (MI, 93-4). L’étape logique que franchit ensuite Jankélévitch consiste à corréler le charme de la musique (le fait qu’elle soit caractérisée par l’expressif-inexpressif) au poïein, au faire: en d’autres termes, à une dimension propositive et constructive et, donc, positive. À ce propos, on remarquera avec intérêt la mention qui est faite du célèbre passage du Phédon où Platon célèbre – dans le rêve de Socrate et dans le dédoublement qui en découle – l’action de faire de la musique, autrement dit, comme Socrate se le rappelle à luimême, l’action de faire de la philosophie, car qu’est-ce que la philosophie, sinon la musique à son niveau le plus élevé? Dans ce cas, Jankélévitch interprète le célèbre passage de Platon comme une réaffirmation de la poïéticité intrinsèque de la musique et de la philosophie. Toutes deux appartiennent au monde de la production des formes: “Le Faire est d’un tout autre ordre que le Dire! Composer de la musique, la jouer en l’interprétant,
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Elio Matassi - Vladimir Jankélévitch et l’écoute mortelle
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la chanter ou même l’écouter en la recréant – ne sont-ce pas trois modes d’opérer, trois attitudes drastiques bien plus que gnostiques?” (MI, 99). Il semble que Jankélévitch se soit emparé, en le sédimentant en profondeur, de ce passage de l’Introduction aux Leçons d’esthétique où, à l’intérieur du processus de constitution de l’œuvre d’art – l’œuvre d’art comme produit de l’activité humaine –, Hegel célèbre le moment poïétique pour dépasser la spröde Fremdheit (rétive aliénation) du monde, de la réalité. Le faire, l’action de produire des formes, obéit donc à une exigence d’affirmation et de plénitude que Hegel et Jankélévitch parviennent à appréhender pleinement. Cette exigence de plénitude affirmative caractérise aussi la musique: “La musique n’existe pas en soi, mais seulement durant la périlleuse demiheure où nous la faisons être en la jouant: la vérité éternelle devient alors opération temporelle et se met à advenir effectivement selon des coordonnées d’horaire et de calendrier. Cela s’appelle: «avoir lieu». L’amphibolie […] de l’expression infinie se résout donc finalement dans l’efficacité d’un acte” (MI, 100-1). La musique s’inscrit dans le projet du mettre-en-œuvre, tout comme la poésie, l’amour, et même le devoir. Dans le cadre de cette argumentation, Jankélévitch définit une nouvelle fois avec rigueur l’espace qui sépare l’indicible de l’ineffable, car si le premier est un faire inachevé et atrophié, le second reflète quant à lui un faire parfaitement accompli. Il est important de relever les deux implications qui en découlent: le faire est une dimension avec un statut supérieur à celui du dire: a. cette supériorité découle du fait que seul le faire permet d’atteindre un résultat effectivement positif; b. cette dimension n’est pas constituée de manière exclusive du moment spécifiquement créatif, mais elle comprend aussi le moment de l’écoute, selon les termes de Jankélévitch, “récréation passive”: “l’auditeur, recréateur tertiaire, coopère en imagination ou par des gestes naissants avec les deux premiers. Refaire […] c’est faire, et le recommencement est parfois un vrai commencement” (MI, 99). En suivant le même raisonnement, on peut affirmer avec conviction que, si le premier événement-acte (la musique comme création) a une priorité de type chronologique, le second (l’écoute comme événement-acte) est tout aussi inchoatif, inaugural et instaurateur que le premier: “l’interprète, semblable à l’amant en cela, refait l’acte primordial comme s’il était le premier à le faire, comme si personne ne l’avait jamais fait avant lui; il réinvente pour son propre compte et par devers soi les éléments d’Euclide! Chacun respectivement et solitairement, chacun quant à soi!” (MI, 100). Ce rapport complémentaire et spéculaire entre le créateur et l’auditeur est approfondi au cours du chapitre troisième – “Le Charme et l’Alibi”
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
– avec une intensité encore supérieure: “La musique, elle aussi, fait de tout auditeur un poète: car ce pouvoir persuasif appartient en propre à la musique: il s’appelle le Charme, et l’Innocence est sa condition. À l’innocence du créateur en train de faire répond l’innocence de l’interprète en train de refaire” (MI, 111). La complémentarité et le caractère spéculaire de ces deux conditions – celle du créateur et celle de l’auditeur – est donc parfaite, scandée par l’innocence du charme, l’innocence que Jankélévitch attribue de manière paradigmatique à la vierge Fevronia de Rimskij-Korsakov. D’autre part, Jankélévitch réaffirme encore l’importance de l’écoute au cours de ce même chapitre troisième. Tout en reconnaissant la valeur des synesthésies et des intersections particulières entre l’espace visuel et l’espace sonore, Jankélévitch remet en question l’utilisation des métaphores spatiales dans le lexique musical: “Il faudrait de même incriminer le «visualisme» chez tous ceux qui parlent de renversements, voire de rimes musicales” (MI, 116); il affirme en outre que la musique est faite pour être écoutée et non pour être lue et qu’aucune éventuelle symétrie déductible de la médiation visuelle n’est identifiable à l’oreille: “parce qu’en effet un trajet dans l’espace peut être parcouru dans les deux sens, on applique à la musique l’idée d’un cycle ou d’un aller-et-retour comme si le mouvement musical était réversible” (MI, 116-7). Cette réversibilité est impossible dans la musique parce que la priorité de la ‘première fois’ n’est que chronologique et que le mouvement de la “futuration”, sans exclure la mémoire, empêche le cercle de se refermer: “la musique n’est pas une calligraphie projetée dans l’espace, mais une expérience vécue à même la vie” (MI, 118). L’écoute est un événement décisif parce qu’il offre la caractéristique exacte de l’altérité de la temporalité musicale où même le même apparaît incessamment autre que soi. La musique, définie comme un “silence écoutable”, ne pourrait exister avec tout ce que sa condition a d’exceptionnel, que par le biais de l’écoute. C’est précisément le rapport particulier institué entre la musique et le silence qui exalte la fonction de l’écoute: en effet, le silence est le pendant naturel de la musique et non une forme de négation absolue, le non-être total de Parménide. Dans ce cas, le silence peut être assimilé à une forme de non-être relatif, en ce qu’il présume des propriétés différentielles. Comme l’avait parfaitement compris Bergson, dont Jankélévitch invoque l’autorité au nom d’un nominalisme authentique, le néant en tant que représentation achevée ne pourra jamais exister. Si nous nous privions de la possibilité d’écouter, il nous resterait quand même celle de regarder, et vice-versa: “L’effacement d’un sens est toujours l’avènement parfois l’avivement d’un autre: il y a alternance et déplacement de la plénitude, mais il n’y a jamais nihilisation radicale. Le
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Elio Matassi - Vladimir Jankélévitch et l’écoute mortelle
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silence est donc à son tour non-être relatif ou partiel, et non pas néant absolu” (MI, 170). Relevée de son cadre naturel – le silence –, la musique ne pourrait pas exister sans la dimension de l’écoute, qui exalte le caractère allusif et oblique de son message. C’est entre ces deux limites extrêmes que s’inscrit la philosophie de la musique de Jankélévitch en tant que philosophie de l’écoute: a) la complémentarité spéculaire de la création et de l’écoute, deux dimensions authentiquement poïétiques; b) l’union de la musique et du silence qui, dans son contrepoint, ne peut être exprimée que par une écoute adéquate – l’événement sonore ne peut pas être pris en considération pour son volume phénoménologique, mais pour son poids ontologique: “Le son résonne dans le temps et se dégonfle à l’instant même si on ne le regonfle sans cesse, comme le vacarme d’une trompette qui s’interrompt quand on ne souffle plus dans l’instrument” (MI, 183). Une philosophie, celle de Jankélévitch, qui considère donc le message musical comme un message a-métaphysique: “Cette voix d’un autre ordre ne vient pas d’un autre monde; encore moins d’outre-monde! […] D’où elle vient, la voix inconnue? Elle vient du temps intérieur de l’homme, et aussi de la nature extérieure” (MI, 186).
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Abstracts
A partire dalla svolta che caratterizza il più grande mito musicale, Orfeo ed Euridice, nel IV atto del libretto di Alessandro Striggio per la favola in musica di Claudio Monteverdi L’Orfeo – Orfeo si volta perché sente un rumore – si impone il problema dell’ascolto mortale o contingente. Grande tema della filosofia del Novecento, che irrompe nella musica e trova in Vladimir Jankélévitch una risposta decisiva. C’est à partir de ce geste, symbole de l’Orfeo de Monteverdi, par lequel Orphée se retourne parce qu’il entend un bruit, que le problème de l’écoute mortelle, ou contingente, se pose. Un thème remarquable de la philosophie du XXe siècle fait ainsi irruption dans la musique, et trouvera, avec Vladimir Jankélévitch, une contribution décisive. Starting from the turning point that characterises the greatest musical myth, Orpheus and Eurydice, in the IV act of the Alessandro Striggio’s work of the musical tale by Claudio Monteverdi, Orpheus – Orpheus turns around because he hears a noise – he poses the problem of the mortal or accidental listening and finds in Vladimir Jankélévitch a decisive answer.
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SIMONE ZACCHINI
Les pauses, le néant, le silence Musique et métaphysique chez Jankélévitch1
Dans la plupart de ses livres et surtout dans la dernière partie de La Musique et l’Ineffable, Jankélévitch consacre de nombreuses pages au rapport entre la musique et le silence. Ce rapport, problématique et ambigu, oblige Jankélévitch, pour avoir la possibilité d’aller au fond de la question, à mettre en œuvre une philosophie de la virtuosité, acrobatique et poétique en même temps, une philosophie qui se place à la frontière et échappe à toute définition rigide. La prose paradoxale de Jankélévitch est surtout une méthode de réflexion, puisqu’il s’agit de penser à la limite de la pensabilité, entre la musique philosophique et la philosophie musicale, entre l’expression sonore de la parole et sa signification silencieuse, entre le mouvement des bruits humains et la fixité du silence métaphysique. Nous sommes donc devant deux modalités différentes: d’un côté, la vie humaine, toujours en mouvement et donc toujours bruyante; d’un autre côté, le silence, c’est-à-dire, en général, quelque chose qui échappe au sens commun. Sur le thème du silence, La Musique et l’Ineffable est le livre-symbole. Pour commencer à réfléchir sur cette problématique, Jankélévitch écrit: “le monde des bruits et des sons [...] est une parenthèse sur fond de silence” (MI, 161), et encore: “Cette profondeur de silence sur laquelle la vie flotte comme sur un radeau est ce qui rend si précaires les bruits humains, et si précieuse l’île enchantée de l’art” (MI, 163). Nous pouvons donc penser que le silence est quelque chose sur lequel bruits et sons, vie quotidienne et art, vivent dans le même temps2, mais nous ne sommes pas autorisés à penser le silence comme néant: “le silence n’est donc pas le néant” (MI, 169), il n’est pas quelque chose d’abstrait ou une négation absolue. Si le silence “est en lui-même recherché [...] c’est 1 2
Je tiens à remercier Françoise Schwab pour sa lecture du texte et pour les conseils sur la langue française. “La musique tranche sur le silence, et elle a besoin de ce silence comme la vie a besoin de la mort et comme la pensée, selon le Sophiste de Platon, a besoin du non-être” (MI, 163); et, de même que la musique, les bruits.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
qu’il a pour l’homme une fonction” (MI, 169), c’est qu’il est quelque chose de significatif, une structure de la conscience intentionnelle, non pas la simple négation des bruits et des sons. On peut dire que sons et bruits sont l’expression de l’existence et du mouvement; en général, ils sont le devenir des êtres. Bruits de la vie, durée et temps de la vie sont donc la même chose. La vie est toujours bruits et mouvements inquiets, sonorité vécue. Le silence, au contraire, c’est le fond ontologique, la dimension de l’être, la dimension où tout bruit cesse et où l’homme commence à réfléchir. Ce silence, c’est le silence de la survérité de l’être et non pas l’abîme du néant. L’être, toutefois, pour Jankélévitch n’a pas non plus la forme rationnelle de l’être de Parménide, ni celle de la dialectique de Hegel, ni celle de l’espace visuel de Heidegger, mais il est un mystère en pleine lumière, une survérité3, quelque chose d’intimement musical. Jankélévitch n’a pas pour but de faire une philosophie systématique sur le silence ou une énumération complète de la relation entre musique, philosophie et silence; le dessein de Jankélévitch, c’est plutôt de définir un chemin vers le silence4: un chemin difficile, accidenté, solitaire, et non pas une promenade philosophique, tranquille et rassurante. Pendant ce parcours, on peut découvrir et on peut lire que “la musique est une espèce de silence” (MI, 173), et que “la musique [...] peuple l’espace vide” (ib.); et encore: “la voix que le silence nous laisse entendre, elle s’appelle Musique” (MI, 190). Donc, si la voix du silence est la musique, on peut dire aussi que la musique est la voix de l’être. Et de la musique, on peut dire en outre qu’elle est l’autre nom du silence. On peut dire encore que la musique (temps incarné et enchanté) révèle l’être, un être qui est silence et dialogue avec le silence. On peut essayer de donner une interprétation de ces problématiques à la fois philosophiques et musicales; on peut essayer de sortir de l’étonnement philosophique pour comprendre la leçon de Jankélévitch. Pour ce faire, nous avons le choix entre deux chemins: l’approfondissement philosophique-musical, c’est-à-dire la compréhension de la pensée vivante de
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Sur ce point v. PhP. Pour une introduction à la philosophie de Jankélévitch, cf. I. de Montmollin, La philosophie de Vladimir Jankélévitch, PU, Paris 2000. La publication la plus belle et la plus claire sur la métaphysique de Jankélévitch reste J. Wahl, La philosophie première de V. Jankélévitch, “Revue de Métaphysique et de Morale”, 1-2, 1955, pp. 161-217. Cf. S. Zacchini, L’altra voce del logos. Filosofia, musica e silenzio in Vladimir Jankélévitch, Trauben, Torino 2003.
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Simone Zacchini - Les pauses, le néant, le silence
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Jankélévitch5, ou l’approfondissement historique-musical, consistant, lui, à suivre le développement du silence dans la musique, à suivre, en particulier, l’histoire de la pause. Je vais tenter d’emprunter cette deuxième voie; j’y suis ‘autorisé’ par Jankélévitch lui-même, quand il écrit, dans Quelque part dans l’inachevé, qu’il y a, dans l’histoire de la musique, une lente progression du silence (QI, 197). Comme chacun sait, Jankélévitch développe cette intuition à propos de la musique du vingtième siècle. Fauré, Debussy, Ravel, Satie, Mompou, etc. sont les auteurs nécessaires pour comprendre cette affirmation; en particulier Debussy est l’incarnation parfaite du subtil équilibre entre sonorité et silence. Mais quel est le sens de l’affirmation de Jankélévitch à propos de l’histoire de la musique? Nous devons avancer à travers une exemplification paradigmatique, sans autre prétention que de suggérer une possible interprétation de Jankélévitch. Dans l’histoire de la musique, avant toute chose, nous devons faire une distinction. En musique, nous pouvons penser le silence de deux manières: selon son expression et selon sa signification. L’expression du silence en musique est donnée par l’écriture, par la pause. L’écriture de la pause est rationnelle et mesurable. Les pauses sont la manifestation, l’expression du silence dans l’écriture musicale, mais elles ne sont pas tout ce que nous pouvons savoir sur le silence musical. Nous avons aussi, en effet, la signification humaine du silence, c’est-à-dire l’interprétation des pauses. Alors nous pouvons dire que les pauses sont l’organe-obstacle du silence; d’un côté la manifestation empirique du silence, d’un autre côté l’intentionnalité invisible du musicien. Nous pouvons dès lors chercher quel est l’usage de la graphie de la pause musicale et tout de suite tenter de comprendre sa signification, non seulement comme moment technique, mais aussi comme moment lié à l’intériorité humaine. On peut considérer la période de la Renaissance et surtout le Baroque, comme une période de ‘plein musical’. Non plus que la matière selon Descartes, la musique n’y connaît le vide. Dans le ‘plein sonore’, il n’y a pas de place pour le néant, et les pauses ont seulement une fonction syntaxique et technique. Les pauses et les notes sont seulement les pièces d’un jeu d’échecs et n’ont d’autre signification que de construire l’ensemble de l’œuvre. En effet, la pause a aussi une fonction dynamique,
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Cf. mon article S. Zacchini, Le “Logos” du silence: la philosophie de la musique de Vladimir Jankélévitch, dans Vladimir Jankélévitch. L’empreinte du passeur, sous la direction de F. Schwab et J.-M. Rouvière, Éditions Le Manuscrit, Paris 2007, pp. 183-199.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
celle de rendre le mouvement enlevé, mais elle n’est jamais autonome et indépendante du contexte: elle n’est pas la voix du silence mais simplement l’absence du son. L’horror vacui du dix-septième siècle cache le silence dans un ‘plein sonore’, et sa voix musicale, la pause, n’est pas non plus une voix philosophique. Pour avoir une signification de la pause qui ne soit pas seulement technique, nous devons attendre la musique de Beethoven. Chez Beethoven, la pause a déjà son épaisseur philosophique. La mélodie de Beethoven, contrairement à la mélodie baroque, n’est pas composée de notes et de pauses, mais de sons et de silence. Le silence, chez Beethoven, est philosophique parce que la pause a une fonction surtout extra-musicale: elle est quelque chose qui demande et émerveille, étonne et fait allusion. Il suffit de penser au “Grave” de la Sonate Pathétique op. 13, pour comprendre la valeur du silence et son incarnation dans les pauses. La pause de Beethoven, si on peut dire, n’est pas mélodique, elle est harmonique. En effet, c’est seulement au travers des pauses que nous pouvons entendre la complexité de l’harmonie du dernier Beethoven; et ainsi nous pouvons remarquer qu’avec Beethoven, la pause perd la structure mathématique, un peu ingénue, qu’elle avait au dix-huitième siècle, pour prendre un sens qui va au-delà de l’écriture musicale même. La pause sort de l’empirie, pour revêtir ‘quelque chose de métempirique’. Ce ‘quelque chose’ est la composante proprement humaine de la musique; et cette composante est ‘quelque chose’ d’extra-musical et d’extra-technique. Chez Beethoven, en effet, la pause n’est pas seulement à l’intérieur de la musique, mais aussi à l’extérieur, dans la forme musicale même. La Forme-sonate, par exemple, n’est pas comme la Suite baroque, elle n’est pas un ensemble (modulable) de danses; elle est surtout une unité percée par le silence. Seul le musicien peut interpréter ce silence et ménager un espace humain entre un mouvement et l’autre. La pause, donc, n’est pas seulement quelque chose de technique, mais elle est aussi quelque chose de philosophique: c’est le silence entre une musique qui n’est plus et une musique qui n’est pas encore. Ce silence nous fait penser que la pause n’est pas seulement entre deux sons, mais aussi entre deux complexes sonores6, et qu’elle signifie la voix même de l’intériorité humaine qui joue ou écoute. Le silence, donc, n’est pas vide sonore, mais ‘plein humain’. 6
Ernst Bloch a dit, justement, que la musique de Beethoven est composée par complexes (Komplexe) et non par lignes (Linien), cf. E. Bloch, Geist der Utopie, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1964, p. 87.
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Simone Zacchini - Les pauses, le néant, le silence
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La période romantique, par exemple avec Chopin, met l’accent sur ce silence extra-musical et proprement humain. Ce qui, chez Beethoven, est extérieur, retourne, chez Chopin, à l’intérieur. Les pauses de Chopin n’ont rien à voir avec leur graphie. Elles sont symbole du silence à l’intérieur de la notation musicale; elles sont le pathos de l’expressivité et hyper-expressivité; et le silence, pouvons-nous dire, occupe la même place dans la musique. On peut dire que le silence commence à être ‘quelque chose’ d’ineffable; en effet, nous ne pouvons pas réduire ce silence sonore et ‘fluide’ à son image mathématique. Par exemple, nous ne pouvons pas solfier les pauses de Chopin et introduire une mesure exacte dans sa musique. Le rôle de l’interprète, comme la participation de l’auditeur, sont essentiels pour vivre cette musique. Cela veut dire que c’est l’intention qui remplit de sens le silence et les sons. Ce remplissement est en réalité la figure autrement ambiguë sur laquelle Jankélévitch insiste à propos de la relation entre musique et silence, et que nous avons déjà explicitée au début de cet article. Pour compléter le parcours de la pause vers le silence, nous devons attendre Claude Debussy. Jankélévitch nous a laissé des pages formidables sur ce musicien. Pour terminer cet article, je voudrais en reprendre quelques passages. C’est une thèse centrale de Jankélévitch: la musique de Debussy est une percée du silence. Mais le silence n’est pas toujours le même; nous trouvons, donc, une grammaire du silence et non pas une simple notation ou remarque philosophique. Cela veut dire que le silence n’est pas le néant, mais une articulation de la conscience humaine, donc une structure existentielle et ontologique, le fond de l’être et de l’homme. En effet, pour Jankélévitch, il y a avant tout, un silence ‘intra-musical’: “Comme l’être se découpe sur un fond de non-être sans bornes, ainsi la musique de Debussy baigne toute dans l’océanographie du silence. Le silence océanique est à la fois l’alpha et l’oméga: il est silence originel d’où la musique émerge et procède, et silence terminal auquel la musique fait retour pour en lui se perdre” (DMI, 233). La musique de Debussy, donc, exprime un silence intra- et ultra-musical: “il est au centre et au cœur même de la musique, il habite en elle, il est silence omniprésent. Tout un silence intra-musical baigne l’œuvre de Debussy, en pénètre les pores, en espace les notes, en aère les portées”. Ce silence, c’est la consécration définitive, l’extrême correspondance entre la graphie de la pause et sa signification. Mais en Debussy nous trouvons aussi le silence extra-musical, c’est-à-dire le silence situé à des confins extrêmes: le silence terminal et le silence initial. “Car le silence encadre et cerne le musique autant qu’il l’habite; silence-en-deçà et silence-au-delà,
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
silence du pas-encore et silence du ‘déjà-plus’, ce double finistère de silence représente en quelque sorte l’alpha et l’oméga” (DMI, 235). Et le double silence de la composition musicale n’est pas loin du double infini de la vie: “La vie de l’homme émerge dans le silence de l’éternité antécédente et de l’éternité conséquente, comme le monde émerge dans le vide de l’espace infini” (DMI, 294). Le monde, la vie, la musique, donc, sont expressions du même être, un être qui parle la voix du silence. Je terminerais cet article en soulignant le rôle de la pensée philosophique dans l’histoire. En effet, l’intuition de Jankélévitch nous a permis de parcourir un moment de l’histoire de la musique dans une perspective inédite et de comprendre un aspect peu connu et pas simplement technique de la grammaire de la musique7. Encore une fois, grâce à Jankélévitch, la musique a vécu d’une vie nouvelle et a brillé d’une lumière différente.
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J’ai essayé de comprendre, dans une perspective philosophique, un autre thème de la graphie musicale (les agréments) dans S. Zacchini, La leggerezza dell’inessenziale. Studio sulla razionalizzazione dell’abbellimento nel linguaggio della musica occidentale, Università degli Studi di Siena, Arezzo 1998.
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Abstracts
Questo articolo è dedicato all’analisi e allo sviluppo, sul piano storico, di una interessante intuizione filosofica di Jankélévitch. È noto come la filosofia della musica possa aprire nuove vie per la ricostruzione storica e l’analisi del linguaggio musicale. A partire da questa convinzione, si è cercato di sviluppare una osservazione di Jankélévitch, secondo il quale la storia della musica mostra “una lenta progressione del silenzio”. Questa osservazione viene analizzata cercando di seguire gli sviluppi e la diversa concezione, all’interno della grammatica musicale, dell’uso della pausa. Isolando e commentando quattro diversi usi della pausa (musica barocca, Beethoven, Chopin, Debussy), si è tentato di far luce sull’affermazione jankélévitchiana evidenziando il reciproco intreccio di storia e filosofia della musica. Cet article est consacré, dans une perspective historique, à l’analyse et au développement d’une intéressante intuition philosophique de Jankélévitch. Il est bien connu que la philosophie de la musique peut ouvrir de nouvelles voies à la reconstruction historique et à l’analyse du langage musical. À partir de cette conviction, on a cherché à développer une observation de Jankélévitch, selon laquelle l’histoire de la musique montre “une lente progression du silence”. On a dès lors cherché à suivre les développements et les différentes conceptions dont l’usage de la pause a été l’objet à l’intérieur de la grammaire musicale. On a commenté quatre usages différents de la pause (dans la musique baroque, puis chez Beethoven, chez Chopin, et enfin chez Debussy), et on a cherché à mettre en lumière l’affirmation de Jankélévitch en travaillant dans la perspective d’un entrecroisement entre histoire et philosophie de la musique. This paper is devoted to the historical analysis and devolpment of an important Jankélévitch’s philosophical insight. It is well known that philosophy of music facilitates historical reconstructions and music language analysis, and beginning from this belief I have developed Jankélévitch’s idea of the history of music as ‘a slow progression of silence’. I shall discuss this observation following the devolopments and the different conceptions of the use of the pause within the music grammar. Isolating and analysing four different uses of the pause (baroque music, Beethoven, Chopin, Debussy), I shall attempt to shed light on the Jankélévitch’s idea, emphasizing the complex interplay between history and philosophy of music.
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CLOVIS SALGADO GONTIJO OLIVEIRA
“L’oscuro chiarore” Il simbolo della luce notturna in Jankélévitch
La parola “luce” appare spesso nel lessico dei musicisti. L’universo sonoro sembra essere dotato di una certa luminosità, sia per il compositore, che sceglie la tonalità della sua opera e gli strumenti di un passaggio secondo l’intensità di luce desiderata, sia per l’interprete, nella sua ricerca timbrica. Le indicazioni “chiaro”, “luminoso”, “scuro”, presenti in diverse opere musicali – specialmente dell’impressionismo –, confermano questa premessa. Occorre però capire come la musica possa includere queste “impronte” di luce, fenomeno “importato” dal dominio visivo. Quali sono i presupposti di quest’inclusione, dal punto di vista della percezione, della filosofia e della storia della musica? A quale tipo di luce si fa riferimento quando si applica questa terminologia alla sfera sonora? Esiste una luminosità specifica che si avvicina a quella della musica? L’estetica di Jankélévitch, filosofo che mette in relazione “la musica e le ore”, potrà esserci d’aiuto per chiarire alcune di queste domande. Il verbo chiarire sembra una chiave per la nostra ricerca e ci suggerisce altri interrogativi: l’approccio di Jankélévitch alla musica potrebbe essere raffigurato come una sorta di illuminazione? e in tal caso, quale luce si identifica di più, secondo il filosofo francese, con l’esercizio del pensiero nei confronti di un’esperienza ineffabile come quella musicale? Le prime domande connesse all’argomento in questione – una possibile “luce” musicale – sono in rapporto diretto con le ultime, relative al metodo seguito da Jankélévitch nella sua ricerca dell’‘ipseità’ del fenomeno musicale. La luce che rappresenta tanto la luminosità sonora quanto l’illuminazione del cammino filosofico verso l’ineffabile è una luce crepuscolare e anche soprattutto notturna.
1. La luminosità della notte Per comprendere quel che c’è di notturno nella “luce” della musica, bisogna innanzitutto analizzare il modo in cui Jankélévitch intende la luminosità della notte. Dialogando con la tradizione filosofica, l’autore distin-
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
gue due significati opposti dell’esperienza notturna, basati su due diverse immagini della notte. Come mostra l’autore, la distinzione tra di esse può essere stabilita proprio in base al grado di luce presente in ognuna. Il primo significato è associato al concetto di “niente”, formulato per ultimo da Schelling. L’immagine notturna ad esso corrispondente è concepita come il buio totale che circonda le realtà completamente sterili, impermeabili al pensiero, impenetrabili alla luce. In questo ambiente oscuro vive “tutto un pullulare di creature notturne quali il male, la morte, la malattia, l’errore e il peccato” (MH, 228). È il territorio dell’inconoscibile, dell’impronunciabile – in una parola, è la notte parmenidea del “non-essere”. Ora, come il non-essere si opponeva all’essere nel poema di Parmenide, il “niente che è zero” (ib.) è il contrario del “nulla” in Schelling. Sicché, l’immagine che, nel pensiero del filosofo romantico, meglio potrebbe rappresentare l’esperienza contraria a quella del vuoto, non è il giorno, come presso i presocratici, ma un altro tipo di notte. L’etimologia di alcuni termini legati alla nostra percezione dei colori, sebbene non sia stata presa in considerazione da Jankélévitch, potrà aiutarci a capire meglio questo “doppio volto” della notte. Sia lo spazio vuoto che l’assenza di luce – in inglese blank1 e black2 – derivano probabilmente dalla stessa radice del suo antonimo francese – blanc, ‘bianco’ –, che è la sintesi di tutti i colori. Questo insieme di correlazioni etimologiche3 sembra così suggerire l’ambiguità dell’oscurità, e di conseguenza della notte, intesa sia come il nero in quanto ‘assenza’ (“niente”), sia come il bianco in quanto ‘potenza’4 (“nulla”). A queste tre coppie di opposti, – non essere/ essere, niente/nulla, black/blanc (‘nero/bianco’) –, se ne potrebbe aggiun1
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“Blank, agg.– inglese medio, dall’antico francese, nonché francese moderno blanc, femminile blanche; dal francone *blank, ‘luccicante, luminoso’, correlato con l’antico alto tedesco; blanc, blanch, (…), a partire dalla radice indo-europea *bhleg-, ‘luccicare, brillare’ (…)”. Cfr. Klein’s Comprehensive Etymological Dictionary of the English Language, p. 84. “Black, agg – inglese medio blak, blakke, dall’antico inglese blæc, collegato all’antico norvegese blakkr, ‘scuro’, all’antico alto tedesco blah, ‘nero’, allo svedese bläck, ‘inchiostro’. All’olandese blaken, ‘bruciare’, anch’esso derivato dalla stessa radice indo-europea *bhleg-, ‘luccicare, brillare’, da cui anche il greco ǁƷ γεƵƹ, ‘bruciare, scottare‘, ǁƷ γƸα, ‘calore, infiammazione’, ǁƷ ƺ, gen. ǁƷƻγ ƽ, ‘fiamma, incendio’. ǁƷƻγƸ ƽ, donde lo stesso significato del latino flamma (da *flagmā), ‘fiamma’, flagrāre ‘incendiare, ardere, bruciare’, (…)”. Ibidem. “Che la stessa radice producesse parole per ‘nero’ e ‘bianco’ è probabilmente dovuto al fatto che entrambi sono non-colori, e forse entrambi sono associati alla combustione”. Cfr. Online Etymology Dictionary, sotto la voce: “bleach”, sbiancatura. Questa idea del nulla come black, ‘nero’, che si avvicina al bianco grazie al suo potenziale generatore, è confermata da Jankélévitch nel saggio Le Nocturne: “il
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Clovis Salgado Gontijo Oliveira - “L’oscuro chiarore”
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gere una quarta, costituita dalle due categorie sviluppate da Jankélévitch in La Musique et l’Ineffable: la coppia indicibile/ineffabile. Allo stesso modo del concetto di “niente” presentato in Le Nocturne, l’indicibile s’identifica con il significato parmenideo della notte: “L’indicibile è la notte nera della morte e desolante non-essere, la cui tenebra impenetrabile come un muro invalicabile ci impedisce di accedere al suo mistero” (MI, 62). All’impenetrabilità di essa, che rappresenta tutto e “su cui non c’è assolutamente niente da dire”, si oppongono le realtà ineffabili, feconde, dotate di un mistero innegabile e “inesauribile”, sulle quali c’è “infinitamente, interminabilmente da dire”. Quest’altro estremo dell’inesprimibile si rivela, nel suo parallelismo con il concetto di “nulla”, come una “profondità transparente” (ib.), atmosfera notturna che non può escludere totalmente la luce. In tal modo c’è un rapporto più intimo tra le coppie niente/nulla e indicibile/ineffabile, che tra queste e l’opposizione non-essere/essere stabilita da Parmenide. I primi termini di ogni gruppo si equivalgono, mentre i secondi si riferiscono, in Schelling e Jankélévitch, a una realtà che non corrisponde più all’essere parmenideo. La nuova luce del “positivo” di un tale non-essere esige un nuovo approccio, raffigurato anche da un altro genere di illuminazione.
2. La luminosità del percorso I percorsi del giorno e della notte in Parmenide implicano una possibilità o un’impossibilità nei campi della conoscenza e del linguaggio. Ugualmente, i due ambienti notturni individuati da Jankélévitch rappresentano un mezzo di approssimazione o un limite per la riflessione e l’espressione di certe realtà. Ma, contrariamente al filosofo eleatico, l’opposto del non-essere indicibile è, per Jankélévitch, altrettanto inesprimibile. La possibilità di un’indicibilità positiva – equivalente all’ineffabile – è legata a una nuova comprensione della portata del logos. Le esperienze umane fondamentali non possono essere ridotte ad un discorso univoco. Pertanto la ricerca di ciò che è essenziale – ricerca filosofica per eccellenza – non si identifica più, in Jankélévitch, con la ricerca di una verità astratta e immobile, relativa a un essere “totale, unico, incrollabile”5. Di conseguenza, temi come la vita, la libertà, l’amore, il mistero di Dio, la musica – tutti
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nero non qualificabile avvolge nel suo mantello di tenebre le qualità multicolori e la screziatura policroma” (MH, 228). Al riguardo cfr. N.–L. Cordero, Les deux chemins de Parménide, Vrin, Paris 1984, p. 38 [Parmenide, fram. 8].
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esempi presenti in La Musique et l’Ineffable – e infine il perdono, devono essere avvicinati per un’altra via. In quanto ineffabili, non possono essere perfettamente delimitati; e vissuti nella dimensione temporale, richiedono una comprensione più che spaziale. Per questo motivo, la luminosità dell’“ora meridiana” (MI, 118) che ci invita a separare, a inquadrare e ad opporre gli oggetti – quella luminosità impiegata nella tradizione filosofica come simbolo del cammino verso la vera conoscenza6 – non può servire per illuminare un percorso che si diriga verso l’ineffabile. Quest’ultimo, inscritto più volte nel campo del non-verbale, può essere davvero “toccato” verbalmente solo da un discorso che non perda di vista il paradosso contenuto in tale impresa: un discorso che, consapevole del limite di fronte a quel “non so che” “infinitamente intelligibile” (MI, 62), non si fidi di se stesso e si diriga quindi verso la propria dissolvenza, verso il silenzio, o anche verso la musica. È così che la tematizzazione dell’ineffabile si realizza in un regime ambiguo, equivoco, reticente e talvolta ironico, seguendo i tratti dell’ineffabilità stessa. In tal modo la notte, la cui positività era già stata sottolineata nel romanticismo come determinazione feconda e primigenia, emerge in Jankélévitch come il “luogo” più favorevole alla realizzazione di questo nuovo percorso filosofico. E ciò perché la notte riunisce in sé diversi elementi che permettono di identificarla con esso. Intesa come un certo ambiente, come uno scenario dotato di una particolare luminosità grazie alla quale “le linee, i colori, i suoni diventano vaghi”7, la notte non è più soltanto un semplice momento della giornata, ma diventa un tòpos verso il quale è possibile incamminarsi. L’associazione tra la notte e una sorta di percorso non è presente solo nella tradizione filosofica, ma anche nella mistica islamica e cristiana, le quali, prima ancora della filosofia, hanno valorizzato positivamente l’am-
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Come esempi di questo percorso orientato da e verso la luce solare, potremmo citare Parmenide: “le figlie del sole, che abbandonavano la contrada della Notte, si affrettavano a spingermi verso la luce” (fram. 1); e Platone: “se gli occhi non fossero pieni del suo splendore, non sarebbero incapaci di vedere anche uno solo di questi oggetti che ora diciamo veri?” (Rep, VII, 516a). Oltre a questi due esempi, il modello visivo e luminoso del percorso filosofico sembra presente anche nelle procedure che mirano ad una determinazione inequivoca, “chiara e distinta”, del proprio oggetto di studio – come il principio aristotelico della non-contraddizione e il metodo cartesiano. “Le linee, i colori, i suoni diventano vaghi”, in Soir, musica di G. Fauré, versi di A. Samain.
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biente notturno come la via più “sicura”8 per approssimarsi all’ineffabile. Anche la poesia mistica c’insegna che non c’è una sola notte: la sua luminosità si modifica sottilmente durante le ore notturne9. Oltre a trasformarsi e a trasformarci attraverso l’azione del tempo, la notte approfondisce, secondo Jankélévitch, la nostra percezione temporale. In tal modo, il cammino notturno non costituisce un’atmosfera statica, ma include la successione dei nostri passi, ed al tempo stesso suggerisce la nostra immersione nella fluidità caratteristica delle realtà più feconde. La dimensione temporale della notte può essere anche legata, secondo Jankélévitch, al senso predominante attraverso il quale la percepiamo. Impossibilitati a concepirla come un “affresco statico” o un “panorama sinottico” (MH, 242) a causa della riduzione di luce e di stimoli visivi nell’ambiente notturno, noi siamo portati a sperimentarla attraverso l’udito. In questa prospettiva, la notte si presenterebbe come un cammino da “ascoltare”. Tale attitudine notturna all’ascolto costituirebbe allora un ulteriore confronto con il percorso filosofico connesso alle figure di immagini diurne. Sicché, mentre queste servirebbero a rappresentare una contemplazione che si traduce in visione – ƴεDŽƼεƵƹ –, il modello notturno del cammino evocherebbe una “veggenza” che si distingue dalla “chiaroveggenza” (MH, 225) e si avvicina ad una modalità di audientia. È così che la coppia notte/ascolto e quindi la coppia notte/musica emergono come il simbolo di un nuovo atteggiamento riflessivo in risposta ad un nuovo paradigma ontologico.
3. La “luce” della musica L’estetica musicale di Jankélévitch scopre un nesso essenziale tra la musica e la notte. Secondo il filosofo francese, la musica, rispetto alle altre arti, condividerebbe degli aspetti comuni con la notte, più che con altri 8
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L’idea della notte come atmosfera più sicura per realizzare un percorso verso l’ineffabile è presente anche nella poesia di San Giovanni della Croce, in opposizione alla corrispondenza tra la notte e il pericolo stabilita nel Vangelo di Giovanni (Giovanni 11, 9-10). È da notare che alcuni argomenti, utilizzati dal poeta-santo per sostenere il senso di sicurezza connesso all’ambiente notturno, corrispondono agli aspetti positivi della notte così come li identifica Jankélévitch. Tra i punti in comune ricordiamo inoltre la dissoluzione, durante la fase notturna, delle immagini visive, che per il santo distraggono e ingannano l’anima. Tale dissoluzione è messa in relazione con la riduzione della pretesa di definire gli oggetti e con il cambiamento della gerarchia dei sensi (cfr.: G. della Croce, Notte oscura, libro II, cap. XVI). Cfr. G. della Croce, L’ascesa al Carmelo, libro I, cap. II, 5.
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momenti della giornata. Tali aspetti, individuati da Jankélévitch nella letteratura, nella musica, nella filosofia, nelle scienze naturali, insieme alla sua stessa percezione della notte, gli permettono anche di generalizzare: “poiché in fondo è tutta la musica ad essere notturna” (MH, 239). In questa affermazione, il filosofo amplia l’accostamento tra la musica e la notte già suggerita nel romanticismo, il quale ha fatto della notte un’atmosfera musicale ricorrente e del “notturno” un genere musicale preciso. La musica notturna supera, per Jankélévitch, tanto la poetica musicale della notte più esplicitamente rappresentata, nonché i notturni per pianoforte e le opere a simile tema, quanto i “generi intercambiabili della musica della sera” (MH, 239) (quali la ninnananna, la barcarola, la marcia funebre, le serenate e i chiari di luna) dove il filosofo individua una scrittura musicale che li avvicina spesso al profilo dei notturni. La musica, secondo Jankélévitch, è “talmente notturna” (MI, 81) che anche nelle opere ricche di riferimenti o caratteristiche diurne giace un substrato crepuscolare. Così come lo spazio rimane stellato, al di fuori dall’atmosfera terrestre segnata dal passaggio delle ore della giornata, l’essenza notturna soggiace alla musica solare. Anche le musiche del sud, le musiche solari di Rimskij-Korsakov e di Déodat de Séverac, e i sottoboschi di Fauré sono ancora, a modo loro, delle musiche notturne; Debussy intitola Nocturnes tre brani sinfonici pieni di azzurro e di luce, ma di una luce che sottrae le forme invece di farle risaltare (MH, 239)10.
La corrispondenza tra la luminosità notturna e quella presente nella musica appare, in questo passaggio, come un aspetto che favorisce la parentela tra il fenomeno sonoro-musicale e la notte. Tale corrispondenza, che va al di là degli esempi forniti, è stabilita grazie al fatto che Jankélévitch intende la struttura musicale come una forma sprovvista di limiti rigorosi e ben definiti, simile ad un paesaggio rischiarato dalla luce della notte11. Ciononostante, è possibile identificare, nella storia della musica, delle opere che si allontanerebbero dal paradigma compositivo di questo tipo. Scritti con uno schema formale prestabilito, e concepiti a partire da una struttura più marcata, generi come la sonata classica o la fuga si avvicinano più al discorso
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Nella sezione “La temporalità e il notturno” di La Musica e l’Ineffabile, si ritrova un brano quasi identico a questo (MI, 81). “nel mentre che dissolve la massività e la grossolana voluminosità del corpo, la tenebra semplificante sommerge il disegno che ne disegnava il profilo e ne circoscriveva le forme; insieme al dettaglio delle strutture si cancella così il contorno delle figure” (MH, 246).
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ben delimitato, al logos, e di conseguenza, alla luce solare. Come potrebbe risolvere Jankélévitch questo problema? Sarebbe possibile includere questi generi nella poetica musicale notturna? L’idea presente nell’estetica jankélévitchiana – secondo la quale tutta la musica condividerebbe una medesima vocazione, una “vocazione derealizzante” (JQPR, 61) legata alla propria essenza notturna – ci offre una possibile chiave di soluzione a questo problema. Anche se, da una parte, la difesa di una tale specifica vocazione musicale spinge a pensare che gli esempi contrari a un tale modello si allontanano non solo dalla poetica notturna ma anche da ciò che la musica “dovrebbe essere” – il che spiega come mai opere di grande estensione, con quadratura e forma ben definite, non figurino in un pensiero che mette in evidenza il “quasi niente”, l’ambiguo, l’indeterminato. D’altra parte, proprio la difesa di una simile vocazione musicale giustifica la preponderanza, in Jankélévitch, dei riferimenti alle opere romantiche e impressioniste. Una tale prepondernza non è giustificata solo dagli aspetti formali, che, come abbiamo osservato, simulano la luminosità notturna essenziale alla musica. La valorizzazione di questi stili risulta dal modo in cui il filosofo francese concepisce la stessa vocazione espressiva della musica. Secondo Jankélévitch l’espressività musicale, così come la forma, non può essere ben definita. Infatti, “il regime naturale della musica” (MI, 55), in termini espressivi, sarebbe “equivoco infinito”, ambiguità, indeterminazione. Queste caratteristiche, comuni alle realtà ineffabili, contrastano con l’oggettività del discorso verbale che pretende di esprimere qualcosa di ben definito. Un contrasto che permette al filosofo di includere nell’espressività musicale l’“inespresso” – termine che deve essere inteso comme non-espressione di un senso o di un sentimento delimitati. Tuttavia la musica, “espressivo inespressivo” (MI, 15), porta in se stessa un senso, “il senso del senso” (MI, 49; cfr. anche JQPR, 34), un senso diffuso e molteplice ottenuto dalla sottrazione del “senso primario” (MI, 49). Questa sottrazione di un “senso definibile” (MI, 51) non potrebbe essere una sorta di sfumato, realizzato appunto dalla luce notturna? Dunque, la vocazione musicale notturna si manifesta sia nell’indeterminatezza della forma che nell’indefinitezza del suo contenuto espressivo. E come suggerisce il filosofo, questa particolare vocazione sarebbe all’origine del nesso indelebile stabilito tra la musica e la notte: Non poche Berceuses, Serenate, Notturni e Chiari di luna testimoniano la costante preferenza della musica per quel momento privilegiato in cui le forme e le immagini sprofondano nell’indistinto del caos (MI, 81).
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Occorre però sottolineare che il filosofo non sempre intende l’atmosfera notturna come equivalente al caos. L’immagine della notte sottostante all’affermazione “tutta la musica è notturna” include, come abbiamo già messo in rilievo, una luminosità speciale e si allontana così dalla notte totalmente oscura. Inoltre, sebbene il caos possa essere concepito in senso positivo come realtà originaria e feconda, l’aspetto essenziale della musica, la sua ineffabilità, può essere evocato in modo più preciso da un’immagine legata alla tradizione mistica, anch’essa volta a esprimere ciò che va oltre le parole. È per questo che, in due diversi momenti dell’estetica di Jankélévitch (cfr. MI, 62-3; MH, 248), la notte musicale viene identificata con la “notte trasparente” – immagine paradossale, come molte altre che accompagnano le descrizioni dell’ineffabile. Secondo il filosofo, oltre a somigliare a un’immagine mistica della notte, l’atmosfera notturna che avvolge la musica si identifica con l’accezione romantica del notturno. Parimenti ineffabile, come ci rivela la poesia di Novalis12. La notte romantica non ha quindi nulla in comune con gli spazi neri, muti e disperanti di cui parla Pascal; al contrario, è una notte infinitamente popolata, una notte in cui circola ogni sorta di presenze, in cui si odono scricchiolii, trilli, frullii, risate furtive e brandelli di valzer che volteggiano e poi spariscono (MH, 247).
Questo passaggio ci indica che la notte romantica – e musicale – si oppone tanto al buio assoluto, quanto al silenzio opprimente, agli antipodi di quell’ineffabilità rappresentata dalla “notte trasparente”. Ecco perché la ricchezza sonora, nella scena notturna del romanticismo, sembra coniugarsi con la persistenza di un certo grado di luminosità. D’altra parte, la luce della notte ineffabile e i suoni sono fra loro connessi non solo nell’estetica dei romantici e in quella di Jankélévitch, ma anche nella stessa natura, dove l’attività sonora si rivela inversamente proporzionale all’intensità della luce dell’ambiente. In quanto atmosfera di luce minimale – ma non del tutto nulla –, la notte diventa il “luogo” musicale per eccellenza: approfondisce il silenzio necessario per l’ascolto, crea un nuovo paesaggio sonoro, amplifica tutto ciò che risuona in essa. Questo aspetto d’ordine naturale può fissare così un nuovo punto di contatto tra le esperienze musicali e notturne. È ancora la luce a favorire questo incontro, anche se sulla base della diminuzione della sua intensità.
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“Ma io mi volgo verso la Notte santa, la Notte ineffabile e misteriosa” (cfr. Novalis, Inni alla notte, “Inno primo“).
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Per quanto riguarda il tema dell’intensità della luce, occorre notare che il romanticismo musicale era talmente raffinato nella sua “rappresentazione” della notte, che alcune composizioni di questo periodo sembrano simulare diversi gradi di luminosità notturna. Per illustrare questa particolarità, Jankélévitch cita le sfumature stabilite da Schumann nei suoi Phantasiestücke, Op. 12, tra la luce crepuscolare di Des Abends e l’oscurità della notte fonda di In der Nacht (MH, 250). Secondo il filosofo, la scelta della tonalità contribuirebbe alla ‘simulazione’ musicale dei diversi gradi di luminosità notturna. Jankélévitch oppone così la canzone in fa diesis maggiore La lune blanche – paradigma della “notte d’estasi […] lucida e trasparente” spesso evocata da Fauré – a In der Nacht in fa minore13, “notte dalle tenebre spesse, cieche, opache” (MH, 262). Tra le tonalità più notturne di luminosità, Jankélévitch sottolinea il tono di re bemolle maggiore, che sarebbe “all’origine di tutta una tradizione notturna” (MH, 234) (tonalità della Berceuse, Op. 57, che, come abbiamo già visto, si rivela un genere di notturno, e del Nocturne Op. 27, nº 2), e il tono di do minore14 (tonalità del Nocturne Op. 48, nº 1). Al contrario, il tono di do maggiore si avvicinerebbe alla luce “del sole pieno del mattino” (MH, 251), mentre “l’accecante sol maggiore” (MH, 230) servirebbe per l’evocazione del Soleil à midi.15 Nel saggio Le Nocturne non troviamo la giustificazione di tali corrispondenze. Esse si basano con tutta probabilità sul rapporto tradizionalmente stabilito fra i toni bemollizzati e l’oscurità, sulla ripetizione canonica di certe tonalità nelle opere notturne e ad alcune idee relative alla sinestesia sviluppata nel romanticismo16. Cionondimeno, in Satie et le matin il filosofo ci fornisce una possibile spiegazione dell’associazione tra il tono di do maggiore e la “luminosità astratta del color bianco” (MH, 238): i tasti bianchi del pianoforte, utilizzati per questo tono, possono suggerirci il candore (MH, 12). Oltre alla scelta della tonalità, Jankélévitch individua in altre procedure compositive, frequenti nelle opere notturne, la simulazione del chiarore notturno. Per esempio, l’ornamento tipico dei notturni, già presente nei primi
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In questo passaggio, Jankélévitch non cita la tonalità di In der Nacht, ma solo il riferimento al tono di fa diesis maggiore di La lune blanche; cionondimeno il contrasto creato tra questi due ambienti notturni sembra implicare il contrasto tra le due tonalità. “La maestosità del grandioso tredicesimo Nocturne drappeggiato nella lunga veste di nero e argento del do minore” (MH, 258). Titolo di un brano per pianoforte (Op. 33, nº 2) del compositore belga J. Jongen. Questo brano è cit. da Jankélévitch nello scritto Le Nocturne (cfr. MH, 230). Jankélévitch cita il trattato di J.-P. Richter, Vorschule der Æsthetik, in un passaggio di Le Nocturne (MH, 240) in cui affronta brevemente il tema della sinestesia.
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brani del genere di John Field, potrebbe evocare la luce di un “firmamento tutto splendente di stelle filanti, comete e meraviglie astronomiche” (MH, 236). Come la luce del cielo stellato, così il chiaro di luna – tema caro alla poesia e alla musica romantiche – potrebbe essere suggerito anche dagli ornamenti – come dimostrano i “trilli lunari” della Berceuse di Liszt (MH, 235). Per concludere quest’analisi dell’idea della “luce” nella musica, potremmo mettere in rilievo un’ultima procedura compositiva, menzionata da Jankélévitch e utilizzata per ricreare la luce notturna. Secondo il filosofo francese, l’ambiguità tonale, evidenziata dal cromatismo17 e dalle armonie diminuite18, simulerebbe la fusione e l’indistinzione degli oggetti durante la notte. La dissoluzione notturna delle forme potrebbe essere suggerita, per finire, dall’aspetto ritmico: per un verso, dalla successione e dalla giustapposizione di diverse suddivisioni; per un altro, da un’accentuazione fuori del tempo forte – espressione dell’ambiguità nella metrica –; ed infine, dalle misure composte la cui flessibilità e diffluenza si accostano ancor più intimamente all’esperienza del tempo vissuto durante la notte.19 Conclusione: “Verso la fiamma”20 Ma si dice che i nictalopi, che cercano la mezza luce, possono trovarla a mezzanotte se essa è un lampo nel cielo nero; poiché lo strappo in piena tenebra lascia passare un messaggio (MH, 225).
Giunti alla fine del presente contributo, ci rendiamo conto che tutte le domande poste all’inizio non sono state affrontate direttamente. I punti 17 18
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“Sotto lo scintillio notturno del cromatismo, il tono maggiore e quello minore, brutalmente separati da Rameau, tendono a confondersi, allo stesso modo in cui svanisce la polarità tra luce e ombra” (MH, 237-8). “Il tragico settimino (Nocturne, Op. 27, nº 1, di Chopin) sprigiona una qualità di disperazione completamente diversa, con i potenti ondeggiamenti dei suoi bassi, i vasti arpeggi della mano sinistra, sempre posati sulle note di do diesis minore, e soprattutto il sublime re bequadro che è pieno di notte e inconsolabili rimpianti” (MH, 258-9). Occorre notare che l’applicazione del simbolo della luce alla forma musicale, all’ambiguità tonale e alla ritmica non è frequente tra i musicisti. Essa viene fondata dalla filosofia e dalla letteratura romantiche, trovando così nell’atmosfera notturna la possibilità di superare il dualismo e raggiungere un ideale di sintesi e fusione. Jankélévitch trasferisce questo effetto luminoso della notte, fonte d’ammirazione durante il Romanticismo, a due ambiti già impregnati di una forte connotazione visiva: la forma e la struttura musicali. Titolo di una composizione di Skrjabin per pianoforte, Op. 72.
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relativi al fondamento cognitivo dell’accostamento tra musica e luce, e al rapporto stabilito tra questi due fenomeni nei diversi periodi della storia della musica, non sono stati sviluppati. Il che è giustificato dall’assenza di approfondimento di questi problemi da parte dello stesso filosofo francese, sul quale ci siamo basati per le nostre riflessioni. E tuttavia, Jankélévitch ci mostra qualcosa di nuovo, a partire dal tema della luce notturna, che può in realtà esserci d’aiuto sia per avvicinarci ad una possibile essenza della musica, sia per pensare ad un percorso capace di evocare l’ineffabile. Questo percorso non è sempre verbale, né soggetto a une pre-visione. Quando esso si trasforma in un percorso musicale, esso stesso ineffabile, deve essere costruito su una poetica che non si allontani solo dalla pre-vedibilità, ma anche dalla visibilità diurna. In tal modo la musica potrebbe realizzare la propria vocazione. E potrebbe essere accostata all’immagine, di nuovo paradossale, dell’“oscuro chiarore” (MH, 251) che indica al tempo stesso la luminosità generale della “notte radiosa”21 o trasparente, e la luce inattesa che può sorgere nell’atmosfera notturna. Quest’ultima si identifica con ciò che Jankélévitch definisce una “circostanza-lampo” (MI, 105), a partire dalla quale si può sfiorare l’ineffabile. L’estetica musicale di Jankélévitch ci mostra che questa “circostanza”, in relazione ai concetti di “je-ne-sais-quoi” e di “charme”, può rivelarsi nella musica che suona in istanti fugaci. Sotto tale prospettiva, la musica potrebbe essere intesa allora a sua volta come “una scintilla brevissima che si accende spegnendosi e compare scomparendo” (P, 152)22. Ma la musica potrebbe essere anche il suono che accompagna “un lampo nel cielo nero” (MH, 225). Siffatta eventualità s’incontra in natura, allorché il balenare di una densa luce in un’atmosfera buia stimola gli uccelli a cantare. Questo caso eccezionale di un rapporto diretto tra la luce e i suoni non potrebbe simbolizzare la possibile risposta musicale, suggerita dal nostro filosofo, allo sfioramento dell’ineffabile? (Traduzione dal francese di Ida Plastina e Enrica Lisciani Petrini)
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Après en rêve, musica di G. Fauré; versi di anonimo italiano, tradotti in francese da R. Bussin. In Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien, Jankélévitch ci mostra che anche le più lunghe composizioni musicali – come “l’Adagio secolare” citato dal filosofo (JQPR, 99) – tendono a essere uguali a un “lampo”, a una “scintilla” e a un “quasi niente”, se rapportate all’eternità. Questa idea rivela un interessante parallelo tra la musica e la vita umana, poiché entrambe si fondano sulla durata e sulla finitezza.
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Abstracts
La frequente utilizzazione di metafore visive e di termini che si riferiscono alla luce, e alla luminosità, per descrivere le nostre esperienze musicali fa problema: come può la musica assimilare immagini provenienti da un campo extrasonoro? Allo scopo di analizzare tale problema, in questo articolo ci si riferisce alla filosofia della musica di Jankélévitch, nella quale s’incontra una luce specifica, la luce notturna, quale strettamente legata al fenomeno musicale. Questo legame, fondato su un’immagine peculiare della notte, potrà essere verificata in due sensi complementari. Per un verso il chiarore notturno s’identifica con l’essenziale luminosità della musica. Per un altro, quest’ultima simboleggia uno specifico paradigma ontologico e un possibile cammino per avvicinarsi alle realtà ineffabili, tra le quali s’inscrive l’arte del suono. Sicché la filosofia della musica jankélévitchiana potrebbe portare un contributo inatteso all’indagine problematica indicata all’inizio. In tal modo l’ “ocuro chiarore” emerge come il simbolo di due tentavivi paradossali: trovare la “luce musicale” e “sfiorare” l’ineffabile. L’utilisation fréquente de métaphores visuelles et de termes se référant à la lumière ainsi qu’à la luminosité pour décrire nos expériences musicales pose question: comment la musique peut assimiler des images venues d’un domaine extrasonore? Afin d’analyser cette question, cet article se référera à la philosophie de la musique de Jankélévitch, dans laquelle on rencontre une lumière spécifique, la lumière nocturne, étroitement liée au phénomène musical. Ce lien, soutenu par une image particulière de la nuit, pourrait être vérifié en deux sens complémentaires. D’un côté, l’éclairage nocturne s’identifie à la luminosité essentielle de la musique. De l’autre, cette dernière symbolise un paradigme ontologique spécifique et un chemin possible pour s’approcher des réalités ineffables, parmi lesquelles s’inscrit l’art sonore. De cette façon, la philosophie de la musique de Jankélévitch pourrait apporter à la recherche de notre problème initial une contribution inattendue. C’est ainsi que “l’obscure clarté” émerge comme le symbole de deux tentatives paradoxales: trouver la “lumière musicale” et “effleurer” verbalement l’ineffable. Visual terms are often applied to the description of our musical experiences. The association between music and images attached to light and luminosity leads us to question how the musical sphere could incorporate visual metaphors. The
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current article will examine this problem through the perspective of Jankélévitch’s philosophy of music, which contains relevant visual analogies. According to the philosopher, a specific light, the nocturnal one, is closely connected to the musical phenomenon. That connection, supported by a particular image of night, can be verified in two different ways. On one hand, the nocturnal éclairage is identified as the essential luminosity of music. On the other, it symbolizes a specific ontological paradigm and a possible path to approach ineffable realities, including musical experience. In that way, Jankélévitch’s philosophy of music may bring an unexpected contribution to the research of our initial problem. Therefore, the “dark brightness” (“l’obscure clarté”) emerges as the symbol of two paradoxical attempts: to find the “musical light” and to verbally “touch” the inexpressible.
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SARA ZURLETTTI
Jankélévitch et les instants mystérieux de Debussy
Th.W. Adorno écrit dans la Philosophie de la nouvelle musique que “Pour quiconque a été formé par la musique allemande au autrichienne, l’expérience de l’attente déçue est familière du côté de chez Debussy. L’oreille ingénue reste tendue pendant tout le morceau pour entendre si «cela vient»; tout semble préluder à la réalisation musicale effective, à l’abgesang qui ne vient pas. Il faut une rééducation de l’oreille pour écouter correctement la musique de Debussy, c’est-à-dire non en tant que processus de tensions et résolutions, mais en tant que bout à bout de couleurs et de surfaces comme dans un tableau. La succession ne fait qu’exposer ce qui selon le sens est simultané”1. L’idée que la musique de Debussy doit être comprise non comme une musique traditionnelle (la musique de la tradition austro-allemande, selon le philosophe) mais comme un tableau, rationnalise le malaise d’Adorno face aux choix de langage du compositeur français qui, le premier, a montré qu’il était capable de se passer des relations systémiques qui fondaient l’infrastructure de la tonalité classique aussi bien que, en dernière analyse, son sens. Il est en effet très rare de trouver dans les pages debussystes la succession V – I, dominante – tonique, qui est le pivot de tout le système des tensions conventionnelles de la musique traditionnelle, et le puissant telos formel qui les organise. Dans ce sens, en tant qu’il exclut le système des conventions “linguistiques” traditionnelles, Debussy se revèle comme le plus révolutionnaire des compositeurs, le premier qui ait été capable d’imposer à la musique un paradigme alternatif et provocateur par son anti-classicisme. Le relâchement des connexions syntaxiques tonales n’implique pas seulement la disparition de la plupart des topoi technicoformels enracinés dans la compétence des compositeurs et des auditeurs: le renoncement debussyste à l’harmonie fonctionnelle traditionelle, en faveur 1
Th. W. Adorno, Philosophie der neuen Musik, Tübingen 1949; ensuite Suhrkamp, Frankfurt a/Main 1975; maintenant in Gesammalte Schriften 12, Suhrkamp; trad. fr. de H. Hildenbrand et A. Lindenberg, Philosophie de la nouvelle musique, Gallimard, Paris 1962, pp. 192-193.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
d’une harmonie, au contraire, défonctionnalisée, détruit l’alliance – armée si l’on veut, jamais pacifique, mais alliance de toute façon – que la musique traditionnelle avec conclu avec le temps. La Grosse Musik de tradition allemande, à laquelle se réfère Adorno, était depuis toujours capable d’accorder à l’auditeur authentiquement attentif des instants privilégiés: la révélation de la structure intemporelle de la composition derrière l’écoulement des notes produisait l’effet d’une suspension du temps, et l’auditeur qui avait suivi le telos de la composition sans en perdre aucun détail accédait ainsi, pour emprunter une belle image de Lévi-Strauss, à une “sorte d’immortalité”. Debussy, dans un geste d’innovation qui ne permet aucun retour en arrière, démentit justement la prétention traditionnelle de la musique à arrêter le temps, et montre que le temps lui-même n’est pas un continuum que la musique peut comprimer à son gré, mais une donnée qui se présente déjà naturellement sous une forme discrète, en instants d’autant plus mystérieux et extraordinaires, donc, qu’ils révèlent l’écoulement du temps, sans essayer de le cacher. En refusant de faire de sa musique un moyen de se procurer une brève immortalité, Debussy établit le premier véritable paradigme anti-classique de la scène musicale européenne. Les “reflets dans l’eau”, les “pas sur la neige”, les “feux d’artifice”, les “nuages”, les “parfums de la nuit”, manifestent le mystère même des instants vitaux: leur pur et simple être-là, cerné pas le non-être du néant. Ce qui rend les instants de Debussy différents de tous ceux que la musique avait connus jusque-là, c’est leur refus de se projeter au-delà d’eux-mêmes et de trouver une garantie dans les respectables conventions de la tradition, dont le caractère d’apparence, toutefois, avait déjà troublé le dernier Beethoven; ce caractère avait pu tout de même survivre jusqu’à Wagner, qui le livra intact, pour l’essentiel, aux dernières ramifications du Romantisme. Debussy rompt l’alliance traditionnelle avec le temps (qui pourtant était favorable seulement à la musique, laquelle infligeait au temps des vols petits, mais combien précieux), et donne à la musique des instants qui ne se rebellent pas contre leur caractère conditionné, mais qui au contraire vivent leur précarité comme le seul trait qui puisse leur donner un sens, et assurer leur authenticité. Si l’on cherche alors une composition qui vaille comme symbole de ce paradigme anti-classique, comme épitomé d’un art qui veut seulement briller un instant pour disparaître tout de suite, il ne faut pas chercher plus loin que les Préludes pour piano seul, en particulier celui du deuxième volume qui célèbre la splendeur instantanée des feux d’artifice. On trouve en effet une sorte de coïncidence, d’identification parfaite de la poétique de Debussy avec cet objet paradoxal, dont la sympathie pour la vie éphémère est telle
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Sara Zurletti - Jankélévitch et les instants mystérieux de Debussy
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qu’elle le pousse à accueillir en soi-même son propre caractère transitoire jusqu’à en faire un trait distinctif. Il n’est pas question de la pure et simple instantanéité: chez Debussy, le feux d’artifice se révèle encore mieux comme l’organisme exceptionnel où coïncident miraculeusement l’explosion vitale et le début de la décomposition, où la co-appartenence de la naissance et de la mort se manifeste plus clairement, où la radieuse expansion des particules pyrotechniques dans le ciel sacrifie à sa propre noblesse l’espoir de durer qui constitue le trait le plus typiquement bourgeois de l’art. Jankélévitch écrit que “La nuit des Feux d’artifice est ainsi toute déchirée de fulgurantes dissonances: raies lumineuses, éclairs aveuglants, incandescences d’un millionième de seconde interrompent soudain les cascades de petites notes…” (DM, 73), et il n’exagère pas. L’écriture de Debussy atteint ici un de ses sommets: naturellement elle est non-fonctionnelle, fractionnaire, indifférente à la tension que les dissonances non résolues accumulent dans la musique, et suprêmement expressive. L’émancipation vis-à-vis des obligations de l’harmonie fonctionnelle, qui faisaient ressembler parfois la composition à un “casse-tête technique” (l’expression est d’Adorno), charge maintenant chaque harmonie d’une couleur particulière. Ce qui auparavant était lisible même seulement comme “fonction” – c’est-à-dire comme une variable dont le sens doit être compris en rapport avec le système qui la justifie – acquiert chez Debussy une signification autonome et est employé comme une nécessité qu’on ne peut éluder à un certain moment de l’expression. Si l’une des caractéristiques de la musique traditionnelle, basée sur les fonctions harmoniques, était de disposer pour chaque période musicale d’un éventail assez étendu d’alternatives – car ce qui était vraiment substantiel était l’infra-structure fonctionnelle et non pas ses exécutions individuelles –, la musique de Debussy charge au contraire chaque détail symboliquement, en le rendant irremplaçable. Ce qui change complètement est en effet le critérium qui régit la succession des harmonies: la différence la plus nette entre une phrase de Mozart et une autre de Debussy est le passage d’une logique de type syntaxique à une logique de type associatif. C’est précisément pour cela que la trajectoire rapide et explosive du feu d’artifice trouve dans le prélude de Debussy un équivalent musical presque plus vrai que nature. Les notes, les phrases, l’arc formel du Feux d’artifice, les couleurs, les éclats des explosions, poussent l’écriture de Debussy vers des effets d’imitation qui frôlent le madrigalisme, et n’arrêtent leur mimésis du jeu pyrotechique que devant l’odeur âcre de la poudre pyrique, qui ne trouve pas une traduction musicale mais passe comme un voile sur les dernières notes. Et tout se consume, comme il se doit, dans l’espace d’un instant: toute la beauté, la violence, la lumière, l’irrésistibilité du feu d’ar-
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
tifice, cèdent soudain à la nuit qui se referme derrière la dernière étincelle et n’offre en échange que du silence, et encore du silence. Jankélévitch, toutefois, n’accepte pas cela. Le philosophe a un sens trop vif de la beauté et du caractère sacré de l’instant qui accueillit le dévoilement de la vie pour le laisser passer. En face de la pyrotechnie douloureusement brève des feux d’artifice debussystes, Jankélévitch s’empare du matériau musical de Debussy et écrit une paraphrase littéraire de la musique qui prélève les éléments du Prélude et leur restitue, a posteriori, la durée qu’ils refusaient. En reprenant, en articulant et même – horreur! – en développant les éléments de la composition de Debussy, Jankélévitch soustrait cette musique au caractère transitoire qu’elle cherche passionnément, et la force à durer dans une transfiguration paradoxale. Pour célébrer l’anti-durée de Debussy, le caractère transitoire cherché – et trouvé – de ses instants, la pose anti-classique d’une musique qui accepte de se consommer sans résidus, sans que les fonctions qu’elle a remplies lui survivent en tant que memento mori, Jankélévitch déploie l’arsenal des ressources rhétoriques qui garantissaient à la musique traditionnelle son immortalité bien connue. Ce n’est pas un mystère, au moins, que la pensée de Jankélévitch a une allure qui l’apparente à la musique: mais à quelle musique, il faut le découvrir. Pour célébrer l’auteur anti-classique de Pelléas et Mélisande, Jankélévitch dispose son argumentation par thèmes, phrases, ponts mobiles et savantes reprises; par toniques (on dirait que l’idée de la mort est la plus récurrente parmi ses tonalités fondamentales); par dominantes (dont la plus typique est la tension dissonante, obstinée, de la vie); par d’ensoleillés quatrièmes degrés, par des tons napolitains qui frémissent de sentimentalité, par des tritons impossibles à stabiliser, par de fausses cadences qui n’ont d’autre but que d’éluder la cadence définitive, et des cadences parfaites qui finalement fleurent le chagrin. Si Debussy déploie donc des ressources d’une habileté sans pareille pour comprimer jusqu’à la dernière tentation de dynamisme dans ses éléments, les rendant semblables à des tableaux d’une élégance immobile et inatteignable, Jankélévitch, à force de regarder fixement ces tableaux, en observant leurs détails avec une passion maniaque, découvre des échos de mouvements dans ce qui semble arrêté à jamais; et en pointant son microscope sur l’infiniment bref de Debussy, sur ce tellement bref qu’il semble ne pas durer du tout, il découvre que, si l’on regarde bien, un instant musical peut valoir l’éternité; et que l’éternité elle-même peut se consommer, en brillant, dans un instant.
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Abstracts
Il saggio discute la concezione del “tempo musicale” in Debussy, questione che viene affrontata sia nella riflessione di Jankélévitch che – in particolare sotto l’aspetto del confronto con la grande tradizione austro-tedesca – in quella di Adorno. Per Adorno, la musica di Debussy rinuncia a dare all’ascoltatore l’illusione di poter “sospendere” il tempo durante l’ascolto nell’attimo dell’“Einstand”, del “Kairós”, che costituisce il piacere più tipico legato all’ascolto nella grande tradizione classica – specialmente nel sinfonismo beethoveniano. La concezione del tempo in Debussy viene messa a fuoco commentando l’analisi di Jankélévitch del Preludio Feux d’artifice per pianoforte solo. L’essai porte sur la conception du “temps musical” chez Debussy. Cette question est abordée dans la réflexion de Jankélévitch, ainsi que dans celle d’Adorno (en particulier sous l’aspect d’une confrontation avec la grande tradition autrichienne et allemande). Selon Adorno, la musique de Debussy renonce à donner à l’auditeur l’illusion de suspendre le temps pendant l’écoute, dans l’instant de l’“Einstand” et du “Kairós”, illusion qui constitue le plaisir le plus typique lié à l’écoute dans la grande tradition classique – en particulier dans le symphonisme beethovénien. La conception du temps chez Debussy est mise en lumière à travers un commentaire de l’analyse par Jankélévitch du Prélude Feux d’artifice pour piano seul. The essay deals with the relationship of Debussy’s music with the time. The question is faced both in Jankélévitch’s and – particularly concerning the comparison with the great german tradition – Adorno’s thought. For Adorno, Debussy’s music is not interested in an alliance with the time: it doesn’t want to give to the listener the illusion of suspending the time during the audition in the instant of “Einstand” or “Kairós”, that is the most intense pleasure accorded to the listener in the german tradition, specially in Beethoven’s symphonies. Debussy’s position about “time” is discussed analysing Jankélévitch’s words about the Feux d’artifice Prélude for piano solo.
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GIUSEPPINA SANTUCCI
L’art d’effleurer Erik Satie et les apories en musique
À ce stade tombe tout le clinquant: pour être laconique, il faut avoir une solide ossature. (E. Bloch)
Comme toute métaphore, l’art d’effleurer porte en lui un ferment de sens, un supplément qui nous paraît représentatif du sujet qui va retenir notre attention. En outre, si l’on pense que, dans l’œuvre de Jankélévitch, cette expression est utilisée pour désigner deux horizons de sens parallèles mais distincts, l’humour et l’ironie, alors l’aspect obscur tend à s’accentuer, jusqu’à inscrire les ambiguïtés d’application dans une ambiguïté sémantique fondamentale. À cela s’ajoute une seconde problématique, due à l’incompatibilité de l’art et de l’ironie. Cette dernière tisse sans cesse sa toile de Pénélope, son ouvrage qui renaît chaque fois, mais, malgré ce “faire” et la dimension du poieîn qui l’unit à l’art, ses œuvres sont des œuvres fantômes, caractérisées par une oscillation entre les extrêmes et par un mouvement dialectique allant du contraire au contraire. Tout cela conduit droit à une impasse: comment rapprocher musique et ironie, si celle-ci se situe toujours aux frontières de l’art? Mais, d’autre part, si le propre de l’art est de donner forme à des œuvres consistantes, la musique ne peut-elle pas revendiquer pour elle-même le caractère d’exceptionnalité? Et encore: si, d’aventure, l’on considère l’ironie comme la disposition intégrale qui caractérise la recherche que Socrate mène au moyen du logos, est-il possible de parler de musique ironique ou d’associer musique et humour? Et, si oui, en quel sens est-il légitime de lui attribuer le titre d’opération sérieuse dans le domaine du poieîn humain? Telles sont quelques-unes des questions pour lesquelles nous formulerons une tentative de réponse au cours de la présente intervention, en nous arrêtant en particulier sur la figure de Satie et sur l’excentricité qui caractérise sa poétique musicale.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
Satie s’applique à désenchanter l’esprit enchanté: ce n’est pas l’enchantement qui subjugue l’esprit, mais plutôt l’incantation enracinée dans le rapport profond, entendu naïvement, entre l’homme et le monde, qui conduit à une fragile et illusoire certitude: celle d’un horizon ultime et pacifiant. La tentative de Satie pour se soustraire à l’incantation s’ébauche sous la forme de l’Inexpressif mis en œuvre afin de s’opposer tant à l’expressivité romantique qu’aux modalités harmoniques de l’Impressionnisme. Le style inexpressif se manifeste par une pudeur oblique, qui prend corps au moyen de stratégies particulières, dont le dire a contrario. Ce dégonflement du pathos peut se vérifier, ou bien dans le contraste entre la forme de la composition et le titre qui lui correspond, ou bien dans la dissonance sémantique mise en évidence par les titres antithétiques ou par les indications paradoxales d’exécution disséminées çà et là sur la portée. Une des modalités par lesquelles Jankélévitch voit se manifester la pudeur est l’ironie, marquée par l’altérité, qui est propre au dialogue, mais aussi à l’oscillation de sens: il s’agit d’un dire qui, en soi, rappelle l’alibi le plus propre à l’art musical, en son être partout et nulle part. Même le fait d’exprimer moins compte parmi les formes de la pudeur, mais cela ne signifie point que ne passe aucun message; au contraire, ce qui est effleuré dans la pénombre peut suggérer le sens mieux que l’expression affichée. Par le terme moins, Jankélévitch ne veut aucunement se référer à une simple réduction d’ordre quantitatif: il s’agit, au contraire, d’une gestion prudente des mots et des sons, qui s’enracine dans une dimension profondément qualitative, car inextricablement liée à l’intention pneumatique du compositeur: discrétion et défense de sa propre intimité, dans le respect du mystère de soi et de l’autre. Le fait de vouloir dire moins prend souvent la forme de la brachylogie, c’est-à-dire du morceau bref, où le matériel sonore se raréfie au point de conduire le musicien à écrire presque sans notes. Parmi les représentants du dire brachylogique ressort Satie, chez qui le refus de développer s’affirme au moyen de la juxtaposition rhapsodique, loin de la continuité de la symphonie et de la forme sonate, qui semblent— d’après des analogies dialectiques et rhétoriques erronées—incarner un discours logique, mais aussi au moyen de la répétition stagnante, construite sur l’immobilité des sons. L’immobilisme est dû, en outre, à l’utilisation d’un rythme qui, souvent en l’absence de subdivisions en mesures, se déploie en toute liberté, tandis que la stagnance est perceptible dans le temps gnossien, immobile et obstiné, occupé à désavouer la souplesse propre à l’arabesque romantique. Cependant, la valeur semelfactive, en portant avec elle quelque chose de nouveau, fait en sorte que chaque répétition ne devienne pas réitération pédante. Cela se vérifie même quand la répétition est
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Giuseppina Santucci - L’art d’effleurer
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littérale, car, parallèlement au vécu, s’amorce une innovation continuelle due au temps, qui mine à la racine le principe d’identité. Néanmoins, l’impression psycho-acoustique, soulevée par l’impassible répétition, renvoie à quelque chose qui fascine irrésistiblement: Satie retrouve ainsi la capacité d’enchanter, qui est le propre de toute musique, son potentiel de sé-duction, en un mot: son charme. Pourtant, Satie incarne le conflit auquel conduit le renoncement à exprimer, celui-ci étant motivé non par l’incapacité à la composition, mais par une sorte de violence dans le fait de contenir le pathos, qui se condense dans la sévère autocensure et dans la torture de la forme elle-même. Mais de la stérilité d’inspiration ne peut naître qu’une violence destructrice, qui tente de cacher la pauvreté créatrice et, ce faisant, pervertit la forme en appelant le difforme à l’existence. De la richesse d’inspiration naît, au contraire, une violence géniale qui, en retenant son élan, fait place à cet informe antérieur à toute forme, véhicule d’une verve toujours nouvelle et féconde. Toutefois, le sens où doit être entendu “l’art d’effleurer” n’a pas encore été éclairci, et puisque Jankélévitch n’hésite pas à faire usage de l’expression de manière fluctuante, peut-être y a-t-il lieu de voir quel type de rapport entretiennent ironie et humour. Il est curieux de noter comment l’humour est tantôt situé parmi les nombreuses nuances de l’ironie, tantôt assimilé à elle. Les deux attitudes de la conscience sont considérées, par moments, comme étant étroitement liées—voire indistinctes, au point que l’on puisse employer les deux termes de manière interchangeable—mais en même temps différentes, puisque, entre humour et ironie, court une différence irréductible, fondée sur l’ambiguïté de l’un et sur la transparence totale de l’autre. Ainsi qu’on s’en rend compte, on ne peut pas ne pas relever dans le dire de Jankélévitch le jeu qui se dessine entre humour et ironie, qui passe de l’un à l’autre, en se confondant par instants. C’est pourquoi, afin de saisir l’identité des deux, il est nécessaire d’en approfondir la portée sémantique en rapport avec la figure de Socrate, défenseur des ironistes. C’est précisément lui qui, du reste, contribue à la confusion, car, d’une part, il peut être considéré comme un humoriste grâce à la légèreté de sa raillerie et à la vérité qui apparaît comme dépourvue de lieu. D’autre part, c’est un ironiste, puisqu’il met en œuvre des stratégies dans le dire et conduit ses interlocuteurs vers un point d’arrivée sûr. Pourtant, l’ironie socratique n’est pas seulement une manière de conduire le discours, mais aussi un authentique modus vivendi construit sur l’ambivalence, sur l’attribution d’un sens autre aux mots et aux événements. Pour tous ceux que la réfutation socratique met dans l’embarras, Socrate est un èiron, un beau parleur qui tend à se dérober sans donner de réponses
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
définitives. Pourtant, sa démarche n’est nullement un jeu. Au contraire, il s’agit d’une manière sérieuse de tout remettre en question, sans rien tenir pour acquis, en procédant au moyen d’une méthode qui prend la forme de l’interrogation. Ce n’est pas un hasard si l’étymologie du terme “ironie” nous renvoie à un mot grec qui rappelle l’acte de poser des questions pour dissiper toute certitude présumée. Jankélévitch souligne le mouvement interrogatif de la musique de Satie, soutenu par les annotations verbales mises sur la portée—comme cela se produit, par exemple, dans la première des trois Gnossiennes ou dans l’œuvre Le Fils des Étoiles. Mais si le questionnement socratique est celui d’un homme qui sait seulement qu’il ne sait pas, l’ambiguïté du dire se rattache au caractère insaisissable du sujet même qui interroge: Socrate ne saurait être saisi avec certitude à cet endroit-ci ou à cet endroit-là, car il est une sorte de feu follet, un original (atopos), une créature contradictoire qui sème le trouble. Pour Jankélévitch, l’atopie engendre l’aporie, c’est-à-dire un contraste entre un dire qui semble conforme au dire du plus grand nombre et l’intentionnalité, oscillant toujours entre le comique et le tragique, et qui veut plutôt subvertir la règle. Tout cela contribue à l’assimilation fréquente de Socrate à la figure d’un satyre. Mais n’est-ce pas précisément cette image que Jankélévitch applique à la figure de Satie souvent assimilé au musicien Marsia? C’est par une telle analogie qu’il semble possible de parler d’apories en musique, pour autant que cette expression puisse être hasardée. Il est clair que, si l’on veut conserver le terme d’“aporie”, lié au domaine du langage verbal, l’application au domaine musical devient abusive. Mais l’on n’entend pas l’appliquer dans le sens communément répandu dans l’usage moderne selon lequel l’aporie serait liée à une difficulté sans solution dans le domaine logique, étant donné que la musique n’a rien à démontrer. On fait plutôt référence à l’horizon étymologique du terme, qui tire son origine du verbe grec aporein, être incertain. Incertitude engendrée par l’ambivalence de la méthode socratique à laquelle fait écho l’ambivalence même de l’œuvre de Satie, caractérisée, pour Jankélévitch, à la fois par l’humour et l’ironie. Nous revoilà dans l’embarras. Mais, quoi qu’il en soit, par-delà les différences et les passages hybrides de l’un à l’autre état de conscience, le philosophe aboutit à l’image de l’ironie humoresque: en elle est présente une finesse de plus, due à une ironie redoublée, puisque celui qui se croit trompé, l’est doublement, non qu’il le soit, mais parce qu’il croit l’être. Il s’agit, toutefois, d’une illusion qui fait confiance aux valeurs et qui entend conduire la conscience à la vérité de soi; c’est pourquoi l’ironie humoresque est très sérieuse, car elle peut puiser au profond sérieux de la vie.
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Giuseppina Santucci - L’art d’effleurer
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L’analogie soulève le problème du sérieux de la musique. Est-il légitime de parler de musique ironique? Et si oui, quel sens donner à pareille attribution? Si l’ironie est une manière de voiler ce qu’on pense, ou de le dévoiler avec une plus grande efficacité, au moyen de mots au sens ambigu ou employés de manière tout autre qu’univoque, il semble impossible qu’elle accède au domaine musical, d’autant plus si l’on considère que la musique, sans conventions, ne veut rien dire. Mais parce que, précisément, on peut faire dire aux notes ce que l’on veut, il devient légitime d’attribuer à l’art des sons un caractère ironique ou humoristique. L’humour de Satie est maintenu avec finesse par les indications d’exécution qui, tout en faisant partie intégrante de la partition, jouissent d’un “quant-à-soi” eu égard à la notation musicale, sans être de la musique à proprement parler. Dans une certaine mesure, la musique n’est donc ironique que par attribution. Il existe, cependant, des éléments musicaux qui permettent de discerner l’intention humoristique du compositeur et qui sont repérables dans les formes rythmiques du pizzicato et du staccato, à même de dépassionner le sentiment et de contenir l’expression. Et, à l’appui de cela, on peut mentionner le fait que, si l’aporie a un rythme, seul le staccato, avec son pointillisme, peut lui être assimilé, puisqu’il rend la mélodie incertaine, en la fragmentant et en s’opposant à la durée du son. Au moyen précisément de ces stratégies de composition, l’ironie de Satie joue à l’égard de la redondance wagnérienne le même rôle que l’ironie de Socrate joue à l’égard de Protagoras et de Prodicos, en conditionnant intensément l’épaisseur aporétique de l’Expressif-Inexpressif. Pour Jankélévitch, toutes les ambiguïtés du domaine musical sont assumées par la profondeur superficielle. Précarité d’écoute et absence de clarté sémantique soutiennent la superficialité de la musique, qui est néanmoins profonde, en tant qu’elle vit de la profondeur du cours du temps et de la profondeur de celui qui, se tenant à l’écoute, en bénéficie. Tout ce qui a été dit rappelle le caractère ambigu de l’ironie humoresque, à tel point que, par analogie, “l’art d’effleurer” peut devenir attribut de la musique elle-même, grâce au temps qui soustrait faire et penser à l’immobilité: ironie et musique tendent, en effet, à briser les prétentions égocentriques du logos affirmatif. Mais, pour la musique, il n’y a pas d’itinérance dans l’espace, mais plutôt une fluidité, qui se passe de tout point d’arrivée et d’arrêt pouvant soutenir sa marche, d’autant que la diffluence dans la métamorphose est ce qui caractérise toute forme musicale. Il n’est rien de plus profond, car, à travers la conscience du devenir, l’homme entre en relation d’entrevision avec le temps, familier et étranger je-ne-sais-quoi qui enveloppe le réel.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
Sur le fait que l’être ne se donne que dans le devenir se construit l’impossible-nécessaire, paradoxe qui tisse l’existence de tout homme. N’estce pas cette conscience, incarnée par Satie dans la maison de l’art, qui conduit au désenchantement et au sens tragique de la vie? Quand l’homme parvient à la conscience de la précarité qui conditionne l’humain, on se joue, tout comme Satie, de tous ceux qui se prennent trop au sérieux. Cela prête à rire, mais le rire est amer. Le masochisme musical de Satie, qui fait tout pour lasser son auditeur—alors qu’il pourrait facilement séduire—cache peut-être une solitude abyssale, et l’humour en vient souvent à étouffer les larmes. L’esprit de litote chez Satie se répand en se contractant et le laconisme ironique se déploie à travers le silence, absence qui rappelle la théologie mystique et apophatique; la réticence qui fait briller une présence absente; et l’allusion grâce à laquelle ce qui est absent devient présent. Mais ce qui compte, c’est que la litote dégonfle toute grandiloquence. Telle n’est-elle pas l’attitude de Socrate à l’égard des pédants qui l’interpellent? L’œuvre qui incarne l’atticisme de Satie et sa fausse incapacité à la composition— qui cache le sommet de l’habileté—est Socrate (1918), “drame symphonique” pour voix et orchestre de chambre, empreint de l’austérité la plus totale. La déclamation syllabique de morceaux choisis extraits des dialogues de Platon — Le Banquet, le Phèdre et le Phédon — traduits en français par V. Cousin, est confiée à des formules répétitives et opiniâtres, où la rigueur formelle, quasi ascétique, réduit au minimum, soit la construction rythmique, soit le chant et son accompagnement: simplicité absolue, fruit d’un exercice exténuant de simplification. Pourtant, ici, l’ironie est complètement absente, puisqu’il s’agit d’une phase ultérieure dans l’évolution de la composition satienne, qui parvient progressivement à ce qu’on a défini comme l’attitude socratique. Dans Socrate, les textes de Platon servent purement et simplement de prétexte, et la musique considère les mots seulement de manière fort évasive: même dans les moments de plus grande emphase, le mouvement reste plat et impassible, rien de bouleversant ne se produit dans le domaine musical. Le chef-d’œuvre litotique de Satie prend ses distances par rapport à la capacité première d’enchantement—que l’on pense au temps gnossien des débuts— pour rejeter tout sortilège musical. Néanmoins, l’élément séduisant ne vient pas à manquer; au contraire, il se présente sous un nouvel aspect dans la volonté de blancheur qui, s’il prend, d’un côté, des airs comiques, de l’autre, sollicite une herméneutique du blanc. Du fait qu’il renvoie à la totalité synthétique des couleurs et à l’absence de toute nuance, le blanc est la couleur du “Tout ou Rien”, comme tona-
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Giuseppina Santucci - L’art d’effleurer
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lité qui envahit le quotidien de Satie, depuis le comportement alimentaire jusqu’à la manière de s’habiller. Mais le blanc caractérise aussi sa musique, pas seulement dans les indications d’exécution, celle-ci étant délibérément empreinte d’une sorte de monotonie qui la fait paraître monochrome. Parmi les tonalités musicales, c’est la tonalité blanche, dépourvue d’armatures en clef, le Do Majeur, qui représente la simplicité et s’impose pudiquement sur les partitions de Satie. La métaphore du blanc acquiert une signification profonde en rapport avec l’attitude du musicien et, selon l’interprétation de Jankélévitch, si, d’un côté, elle rappelle la luminosité matinale, loin de l’emphase expressive de la nuit, de l’autre, elle sollicite une reconquête déstabilisante, celle de l’innocence, qui est un peu la capacité de retrouver l’esprit de l’enfance dont les balbutiements sonores de Satie deviennent l’image. Il ne s’agit pas d’un retour à l’innocence originelle, mais d’un progrès vers une innocence retrouvée, car la dynamique du devenir est incessante. Loin de tout infantilisme, il faut plutôt recommencer à s’étonner. Pourtant, depuis le style balbutiant des premiers temps, Satie est en mesure de s’approcher d’une docte ingénuité, par le biais d’un retour à l’essentiel qui frôle le mouvement ascétique. Mais l’innocence dont parle Jankélévitch ne saurait, en aucun cas, être confondue avec la condition de l’ingénu. La preuve en est qu’en musique, l’innocent est assimilé au sage dans la mort, car tous deux sont unis par quelque chose qui va plus loin que la pratique de la sobre composition. S’il est vrai que Mélisande, au cinquième acte du drame de Debussy, expire au moment de l’apothéose du “pianissimo” et que, dans le Socrate de Satie, la mort arrive sur la pointe des pieds, sans aucun bruit, accompagnée de quatre noires immobiles, toutefois, seule une maturité accrue par la simplicité, qui a traversé la nuit de la désillusion, unit paradoxalement sagesse et innocence. Selon Jankélévitch, l’ironie aurait pour finalité de mettre en valeur un esprit innocent et un cœur inspiré sans lesquels l’ironie ne serait même pas ce qu’elle est: d’un côté, cela alimente une nouvelle aporie, puisque ce qui est réclamé comme fondement devient aussi fin à poursuivre. De l’autre, cela conduit à reconnaître le fait que l’iter de Satie, depuis l’ironie jusqu’à l’austérité innocente, suppose que le musicien soit déjà “candide” dès le départ. Ce n’est donc que par le “drame symphonique” que l’on peut reconstruire le pourquoi d’une pratique de la composition depuis toujours en dehors des règles, parvenue progressivement à la catharsis suprême. C’est une marche musicale, les pieds nus, sans direction claire, qui élit, au fond, la simplicité comme unique point d’arrivée. La désintoxication s’opère par un thaumazein qui parvient à s’imposer malgré le désespoir: ce que Platon et Aristote repèrent comme étant la première aube de la philosophie de-
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
vient chronique dans la musique de Satie, qui se fait le porte-parole d’un étonnement blanc. La musique de Satie, parthénogenèse de l’aporie, permet de se réveiller du sommeil dogmatique et de se réapproprier cette simplicité qui est précisément ce qui sauve l’homme: salut provisoire, toutefois, dans l’instantanée et intermittente parabole du quotidien, à travers la pénible et dramatique reconquête de sa propre authenticité.
Bibliographie de référence Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien. La Musique et l’Ineffable. L’Ironie. La Musique et les Heures. AA. VV., Écrit pour Vladimir Jankélévitch, Flammarion, Paris 1978. E. Lisciani Petrini, L’apparenza e le forme. Filosofia e musica in Jankélévitch, Nuove Edizioni Tempi Moderni, Napoli 1991. I. De Montmollin, La philosophie de V. Jankélévitch, PUF, Paris 2000. G. Santucci, Jankélévitch. La musica tra charme e silenzio, Milella, Lecce 2001.
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Abstracts
Come ogni metafora, l’arte di sfiorare porta con sé un’ulteriorità che pare rappresentativa del tema qui affrontato. Se poi si pensa che nell’opera di Jankélévitch tale espressione è impiegata per connotare due orizzonti di senso, paralleli ma distinti, quali lo humour e l’ironia, le ambiguità di applicazione s’inscrivono in un’ambiguità semantica di base. A ciò si aggiunge una seconda problematica. L’ironia tesse costantemente la sua tela di Penelope, la sua opera rinasce ogni volta, ma nonostante questo “fare” e la dimensione del poieîn che l’accomuna all’arte, le sue sono opere fantasma, caratterizzate da un’oscillazione fra gli estremi e da un movimento dialettico da contrario a contrario. Tutto ciò provoca un’immediata impasse: come avvicinare musica e ironia? Se per caso si assume l’ironia come disposizione integrale che caratterizza la ricerca socratica attraverso il logos, è possibile parlare di musica ironica o vincolarla allo humour? E se sì, in che senso è lecito attribuirle il contrassegno di operazione seria nell’ambito dell’umano poieîn? Questi alcuni degli interrogativi intorno ai quali viene formulato un tentativo di risposta, soffermandosi in particolare sulla figura di Satie e sull’eccentrico che ne caratterizza la poetica musicale. Comme toute métaphore, l’art d’effleurer porte en lui un ferment de sens, un “quelque chose en plus” qui nous paraît représentatif du sujet ici abordé. En outre, si l’on pense que, dans l’œuvre de Jankélévitch, cette expression est utilisée pour désigner les deux horizons de sens, parallèles mais distincts, que sont l’humour et l’ironie, les ambiguïtés d’application s’accentuent dans une ambiguïté sémantique fondamentale. À cela s’ajoute une seconde problématique. L’ironie tisse sans cesse sa toile de Pénélope, son ouvrage renaît chaque fois, mais, malgré ce “faire” et la dimension du poieîn qui l’unit à l’art, ses œuvres sont des œuvres fantômes, caractérisées par une oscillation entre les extrêmes et par un mouvement dialectique allant du contraire au contraire. Tout cela conduit droit à une impasse: comment rapprocher musique et ironie? Si, d’aventure, on considère l’ironie comme la disposition intégrale qui caractérise la recherche que Socrate mène au moyen du logos, est-il possible de parler de musique ironique ou d’associer musique et humour? Et, si oui, en quel sens est-il légitime de lui attribuer le titre d’opération sérieuse dans le domaine du poieîn humain?
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
Telles sont quelques-unes des questions pour lesquelles on formule ici une tentative de réponse, en s’arrêtant en particulier sur la figure de Satie et sur l’excentricité qui caractérise sa poétique musicale. As any metaphor, l’art d’effleurer brings with it something else which seems to represent our theme. In the works of Jankélévitch, this metaphor is used for two parallel but distinct meanings, such as humour and irony, the ambiguity of application emphasizes a basic semantic ambiguity. There is a second problem. Irony weaves constantly its cloth of Penelope, with its work being continuously revived, but in spite of this “doing” and the dimension of the poieîn which connects it to art, its works are phantom works, characterized by a fluctuation between the extremes and a dialectical movement. The impasse is immediately: how is it possible to bring together music and irony, if irony always stands at the margin of art? On the other side, if the proprium of art is to form substantial operas, why can’t music claim exceptionality? If irony becomes the way that characterizes the Socratic research through logos, is it possible to speak about ironical music or to bind it to humour? And if so, is it a serious proceeding in the matter of humane poieîn? These are some of the questions that we try to answer with particular attention to Satie and the eccentric nature of his music.
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MAURIZIO COGLIANI
L’existence charnelle des sons Une réflexion sur la dimension corporelle de l’exécution pianistique
Il y a deux heures que j’ai quitté la salle de concert. Mais je suis encore tout-à-fait hors de moi. Où suis-je? Où sommes-nous? Est-ce la réalité ou est-ce un rêve? Est-il vrai que j’ai pu écouter Franz Liszt ? A. N. Serov1 L’attrait qu’exerce le virtuose sur le public paraît assez semblable à celui qui attire les foules vers les jeux du cirque. On espère toujours qu’il va se passer quelque chose de dangereux: X va jouer du violon en prenant Y sur ses épaules, ou bien Z terminera son morceau en saisissant le piano entre ses dents... C. A. Debussy2
1. La relation qui unit le langage du corps à celui de la musique est enchevêtrée et indissoluble puisque la perception et l’exécution des œuvres musicales supposent le corps comme véhicule. Même s’il n’avait jamais traité ce sujet de façon systématique, dans un fragment d’interview, Vladimir Jankélévitch propose à notre réflexion quelques considérations sur le rapport que le corps entretient avec le phénomène musical (cf. PM?, 53). En outre, il est possible de trouver, à l’intérieur de quelques-unes de ses œuvres qui ont pour objet l’étude de la musique, plusieurs références à ce thème, qui ne concerne pas le seul domaine pianistique, mais qui s’étend, bien au-delà, au corps en tant que tel.
1 2
Cité dans D. Hildenbrandt, Pianoforte, oder Der Roman des Klaviers im 19. Jahrhundert, Hanser, München – Wien 1985. C.-A. Debussy, “Vendredi saint – La “Neuvième Symphonie”, in “Revue blanche”, 1er Mai 1901, puis in Monsieur Croche et autres écrits, édité par F. Lesure, Gallimard, Paris 1987, p. 33.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
Dans les deux œuvres consacrées à Liszt on peut trouver des observations à propos du corps ‘résonnant’ de l’interprète (cf. LRV, LRI)3. Selon Jankélévitch, le fondement de l’art de Liszt en tant que compositeur et virtuose réside dans la main (LRV, 13). Mais il ne s’agit pas d’une main objectivée, d’une structure complexe à observer froidement: “la main-objet de Liszt, conservée en plâtre, ne nous révèle rien du secret de son art. Il faut plutôt porter le regard sur le corps vivant de l’artiste virtuose et improvisateur”4, qui est animé par un élan vital exceptionnel. On est en présence de la réalité multiforme d’un phénomène qui se nourrit d’un caractère extraordinaire, en apparence exclusif et inaccessible: qu’est-ce qu’on pourrait partager de la vie quotidienne avec le pianiste? Peut-être qu’il “ne respire que dans l’immensité” (LRI, 100), vivant une dimension quotidienne inhabitée, dans la “géniale solitude du héros” (LRV, 27)? Pourtant Jankélévitch semble vouloir montrer comment ce qui semble tellement élevé, au point de paraître impossible à atteindre, appartient à la gamme des possibilités de la main, et donc, de la nature humaine (LRV, 26). “Nul autre instrument en effet ne révèle plus lumineusement les ressources de la main. La chirotechnique du virtuose démontre avec éclat tout ce que peut un homme” (QI, 265). Tout ce que peut un homme! Cela produit une expérience à la fois corporelle, esthésico-esthétique et – d’ailleurs – potentiellement extatique, qui coïncide avec l’exécution, puisque, entre l’essence musicale du passage, telle qu’elle est indiquée dans la partition, et la musique qui effectivement résonne autour de l’instrument, s’établit une relation d’autant plus directe que le corps de l’exécutant et l’instrument sont le lieu de passage de cette relation5. Il naît une 3
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5
Cf., en outre, M. Périgord, Vladimir Jankélévitch ou improvisation et Kairós, dans “Revue de Métapysique et de Morale”, n. 78, 1974, pp. 223-252; J. Aguila, Dix ans après: relire Vladimir Jankélévitch, dans J. Gribenski – M.-C. Mussat – H. Schneider (éd.), D’un opéra à l’autre. Hommage à Jean Montgrédien, Presses de l’Université de Paris-Sorbonne, Paris 1996, pp. 431-438. G. Csepregi, La musique et le corps. Vladimir Jankélévitch sur l’art du piano, dans (sous la direction du même) Sagesse du Corps, Éditions du Scribe, Aylmer 2001, p. 103. Au Prof. Csepregi vont mes remerciements personnels pour avoir inspiré la rédaction de cette communication. Cf. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945. À cet égard Enrica Lisciani Petrini écrit: “Le corps de l’instrumentiste ‘bouge avec’ l’instrument. En ne faisant qu’un avec l’ ‘action sonore’, il produit ce ‘signifié’, ce dessin, cette image sonore-allégorique en mouvement […] qui se détache dans l’espace environnant, en le chargeant en même temps de sens, d’une ‘valeur émotionnelle’ ”: E. Lisciani Petrini, ‘Belle catene in cui s’avvolge il dio nella carne sperduto…’. La riflessione di Merleau-Ponty sulla musica, in “Rivista Italiana di Musicologia”, vol. XXXVI, n. 1, 2001, p. 67 (trad. fr. M.C.).
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Maurizio Cogliani - L’existence charnelle des sons
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sorte de ‘constellation triadique’ composée par l’exécutant, la musique et l’instrument: en d’autres termes, le domaine d’investigation de Jankélévitch sur le pianisme. Heinrich Neuhaus voit dans ces trois éléments les parties constitutives de l’exécution pianistique, en faisant abstraction du rôle que peut avoir ‘l’insertion dans le monde’ au moment de l’exécution musicale, et en précisant qu’il pense ‘faire de la musique de façon désintéressée’ et non pour un public6. D’ailleurs, un psychanalyste comme Ignacio Matte Blanco fait référence à la même dynamique – identifiée à l’intérieur d’une triade constituée par le créateur, l’œuvre et le destinataire – dans sa réflexion sur l’action que les structures, qu’il appelle ‘bi-logiques’ (puisqu’elles parcourent la double voie de l’émotion et de la raison), exercent sur le destinataire. Dans le cas en discussion, la structure bi-logique est évidemment la musique, mais la perspective à partir de laquelle Jankélévitch observe le jeu des mains sur le piano n’est ni psychanalytique ni philosophique tout court, mais plutôt anthropologique.
2. Comme l’observe Schneider “La grande importance rituelle des mains et du bras […] doit certainement être attribuée au fait qu’elles furent considérées comme un analogue cosmique des ailes. Alors que dans le bras se manifeste la force physique, les ailes sont l’organe d’une action spirituelle qui, tout en étant moins forte que la puissance spontanée du son, dépasse amplement la force exclusivement corporelle. Les mains et le bras sont les dépositaires d’une force harmonieuse presque morte puisqu’elle a été transformée en matière“7. Jankélévitch voit aussi dans le pianiste “un animal qui a deux mains préhensiles avec le pouce opposable aux autres doigts”; les jeux de virtuosité, fruit de mains qui autrefois étaient des ailes, dévoilent dans quelle mesure le pianiste-ange déchu est capturé par la fatigue de la technique d’exécution, ce qui dans le raison-
6 7
H. Neuhaus [G. Nyegauz], Ob iskusstvo fortep’yannoy igry, trad. it. L’arte del pianoforte. Tecnica, Cultura, Estetica, Spiritualità. Note di un professore, éd. par V. Voskobojnikov, Rusconi, Milano 1985, pp. 14-15. M. Schneider, Zur Bedeutung der Flügel, dans Mouseion, Studien aus Kunst und Geschichte für Otto H. Förster, DuMont, Köln, s. d., pp. 50-57; trad. it. Il significato delle ali, dans Il significato della musica, Rusconi, Milano 19904, p. 129.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
nement de Jankélévitch à propos de la virtuosité pianistique se traduit dans l’expression “démiurgie artisane de l’homme” (LRV, 23)8. Le pianiste dispose d’un instrument musical qui est une extension de sa main et une source de créativité en vertu du contact du corps avec quelque chose qui lui oppose résistance, de même que la pierre pour le sculpteur. Jankélévitch parle de “transcendance manuelle” du pianiste, de “complications de l’écriture virtuose”, de “multiplication des notes”; l’instrument est d’ailleurs “l’organe-obstacle de la musique” (LRV, 156) autour duquel s’organise le mouvement et qui, à la fin d’un processus mécanique, provoque une vibration qui n’est pas seulement sonore, mais qui a aussi une composante affective interne à la dynamique pianistique, que le philosophe compare au “vertige des trilles” d’un flûtiste ou au charme d’une voix séduisante. Bien avant la musique, c’est l’instrument même qui charme: “Quand il s’agit du piano, l’ensorcellement tient aux passes magnétiques d’une main agile qui caresse les touches, danse sur les touches, bondit d’une touche à l’autre, survole toute l’amplitude des sept octaves” (LRV, 53). Le philosophe, qui est également pianiste9, observe que “le piano mêle 8
9
Henri Focillon écrit, dans son Éloge de la main, que l’historien de l’art définit comme un “dieu en cinq personnes”: “Que signifie la légende d’Amphion, qui faisait mouvoir les pierres au chant de sa lyre, si bien qu’elles s’ébranlaient toutes seules pour aller construire les murailles de Thèbes? Sans doute rien d’autre que l’aisance d’un travail justement cadencé par la musique, mais accompli par des hommes qui se servaient de leurs mains, comme les rameurs des galères, dont la nage était soutenue et scandée par un air de flûte. Nous connaissons même le nom de l’ouvrier qui prenait sa peine: c’était Zethos, frère du sonneur de lyre. On ne parle guère de Zethos. Peut-être viendra-t-il un temps où il suffira d’une phrase mélodique pour faire naître des fleurs, des paysages. Mais suspendus dans le vide de l’étendue comme sur l’écran du rêve, auront-ils plus de consistance que les images des songes? Né dans le pays des tailleurs de marbre et des fondeurs de bronze, le mythe d’Amphion [est] peut-être […] un mythe compensateur, une consolation inventée par un musicien. Mais nous, bûcherons, modeleurs, maçons, peintres de la figure de l’homme et de la figure de la terre, nous restons les amis de la noble pesanteur: ce qui lutte d’émulation avec elle, ce n’est pas la voix, ce n’est pas le chant, c’est la main”. H. Focillon, Éloge de la main (1934), dans Vie des formes, suivi de Éloge de la main, PUF, Paris 1981, p. 8 (je souligne). “Jankélévitch apprend à jouer du piano grâce à une de ses tantes et à sa soeur Ida, habile pianiste. Il joue et lit la musique tous les jours, alternant le pupitre et le bureau du travail philosophique et obéissant à une sorte d’impératif éthique et musical: assis au piano, il sentait souvent la nécessité de passer tout à coup au bureau pour transcrire les intuitions suscitées par l’écoute d’un extrait musical, comme si l’instrument avait été une espèce de laboratoire concret et vivant de la pensée philosophique”: C. Migliaccio, L’odissea musicale nella filosofia di Vladimir Jankélévitch, CUEM, Milano 2000, p. 18 (trad. fr. M.C.).
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Maurizio Cogliani - L’existence charnelle des sons
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au plaisir musical proprement dit un bonheur tactile dont il est très difficile de parler et que rien ne remplace; sans ce bonheur quelque chose de vital manquerait: la participation de l’être au charme du temps” (QI, 261-262). L’agilité de l’exécutant naît de caractéristiques anatomiques et fonctionnelles comme la flexibilité des mains, la capacité à étendre les doigts10 et la virtuosité de la main que Jankélévitch nomme une “course vertigineuse” sur le piano (LRV, 66), et qui pour le philosophe représente la victoire du corps sur la pesanteur. Mais le pianiste peut se trouver face à des facteurs imprévisibles qui conditionnent son exécution musicale en gâchant le résultat final, en dépit d’une préparation méticuleuse et parfois obsessionnelle: “la réussite virtuose est une chance, et cette chance inouïe est elle-même relative à la misère et à la déréliction fondamentales de l’homme” (LRV, 74), car d’incroyables coïncidences doivent nécessairement se vérifier au cours de l’exécution pianistique en ce qui concerne l’exactitude et la disposition temporelle des notes. Pour cette raison l’exécutant doit posséder une “kinesthésie infaillible” (LRV, 83), mais aussi jouir du secours d’une sensibilité particulière, soustraite à toute tentative de contrôle conscient et d’organisation rationnelle. L’affleurement de ce processus au niveau de la conscience est dû à une “forme sensorielle de cette tangence délicate que l’on appelle le tact” (LRV, 84), relativement rationnelle – “l’art d’atteindre l’instant précis est en partie irrationnel” (LRV, 84) – puisqu’ “il y a un esprit de finesse qui réintègre la technique jusque dans l’irrationnel, l’imprévisible et l’infinitésimal des cas d’espèce, et nous adapte aux circonstances éclairs des situations éclairs” (LRI, 112-113). Le facteur hasard enveloppe le travail préparatoire du musicien dans une situation où l’impondérable peut être vi10
Sergej Rachmaninov, qui fort probablement souffrait d’un trouble du tissu conjonctif appelé “syndrome de Marfan” – qui en est atteint a, entre autres, de grandes mains ultra-extensibles – “réussissait facilement à rejoindre la douzième avec les deux mains. Certaines de ses œuvres […] exigent des extensions démesurées des mains”: J. O’ Shea, Music and Medicine. Medical profiles of great composers, Dent, London 1990; trad. it. Musica e medicina. Profili medici di grandi compositori, EDT, Torino 1991, p. 214; cf. aussi D.-A.-B. Young, Rachmaninov and Marfan’s Sindrome, in “British Medical Journal”, 293, 1986, pp. 1625-6; M. Ramachandran – J.-K. Aronson, The diagnosis of art: Rachmaninov’s hand span, in “Journal of the Royal Society of Medicine”, 2006, 99, pp. 529-530. On pense que Paganini aussi souffrait du même syndrome (cf. M.-R. Schoenfeld, Niccolò Paganini. Musical magician and Marfan mutant?, in “The Journal of the American Medical Association”, vol. 239, n. 1, January 2, 1978), tandis que Liszt, qui avait toujours atteint aisément la douzième, atteignait ‘seulement’ la dixième dans son vieil âge.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
sualisé et orienté vers les circonstances où se déroule l’exécution musicale, comme vers la recherche d’un équilibre qui est nécessairement inconstant: “Le pèlerinage est un déséquilibre récupéré à l’infini. Comme l’acrobate bondit et rebondit et retombe sur ses pieds, ainsi la main en mouvement retombe avec élégance sur la note juste” (LRV, 91)11.
3. Dans son œuvre sur l’improvisation Jankélévitch met en évidence que les qualités nécessaires au pianiste pour improviser résident dans l’adaptation instantanée à des situations éclairs et à des suggestions qui “se font et se défont sans cesse” pour donner lieu à un processus efficacement décrit comme “le tout-fait” qui cède la place au “se-faisant” (cf. LRI, 121). La musique créée par le pèlerinage de la main sur le clavier est le produit moteur d’un ensemble d’habitudes acquises et stratifiées au cours du temps, de réminiscences des doigts, de mémoires conservées par le corps (LRI, 124125). Cela ne suffit pas à expliquer la formation de l’évènement sonore puisque l’habitude doit se référer à la sphère de la créativité: “Toutes les monographies sur l’acquisition des habitudes signalent ce rapport curieux entre l’intention qui lance l’appel dans un sens déterminé et la réponse qui vient du corps et de l’intelligence et a toujours figure d’improvisation. Cela est bien connu des patineurs, des pianistes et même de ceux qui s’essayent à écrire. L’habitude n’avancerait pas sans cette espèce de germination, d’inventivité qu’elle recèle. Acquérir une habitude, ce n’est pas répéter, consolider, mais inventer, progresser”12. Le corps constitue une extension du Moi qui s’étend vers le clavier à la recherche d’un rapport fusionnel qui est re-création de l’originel “bain des sons” intra-utérin13. Jankélévitch rappelle comment notes et agrégations harmoniques sont dictées par les cognitions latentes de la main qui garde en soi les innombrables paramètres qui concourent à la construction d’un édifice sonore, et pour indiquer tout cela il se sert du terme verve: “Il y a verve 11 12 13
Cf. aussi A. Berleant, Notes pour une phénoménologie de l’exécution musicale, in “Revue d’Esthétique”, 36, 1999, pp. 157-164. P. Ricoeur, Le volontaire et l’involontaire, Aubier, Paris 1967, p. 273. D. Anzieu, Le Moi-peau, Dunod, Paris 1985; cf. aussi E. Bick, The experience of the skin in early object-relations, in “Int. J. Psycho-Anal.”, vol. 49, pp. 484-486, trad. it. L’esperienza della pelle nelle prime relazioni oggettuali, dans S. Isaacs e Al., L’osservazione diretta del bambino, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1989, pp. 90-95.
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Maurizio Cogliani - L’existence charnelle des sons
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quand les énergies créatrices opèrent d’elles-mêmes et roulent pour ainsi dire toutes seules sans pouvoir s’arrêter, en sorte que l’inventeur devienne le spectateur de ses propres inventions et perde tout le premier contrôle de cette crue élémentaire” (LRI, 164-165). Le pianiste, qui n’est pas en contact direct avec la source sonore d’où s’écoule la musique qu’il exécute, noue avec l’instrument une relation telle que les touches, les marteaux et les cordes deviennent de plein droit des composantes émotionnelles de l’exécution. De même que les phonèmes et les mots suggèrent une qualité affective14, les sons, entités originairement parcellisées, en soi insignifiantes, donnent lieu à une altérité qui est la musique même, à l’intérieur de l’organisation du sens apportée par le pianiste au moyen du mécanisme. “Une sorte de spiritualité léthargique sommeille aussi dans les signes du langage; et de même encore que les mots sont des souvenirs comprimés et desséchés dans des phonèmes, des souvenirs en conserve qui s’activent quand on les prononce, de même l’esprit endormi dans les sons s’éveille à l’émotion et à la musique dès que le jeu de l’instrumentiste lui donne une existence charnelle” (LRI, 125). Une existence charnelle: la musique fait affleurer de nouveau dans le pianiste “un état d’enchantement, lequel, par une sorte d’induction affective, provoque l’invention et l’expérimentation. Cette disposition éveillée peut être comparée à une sorte d’atmosphère de rêve avec laquelle le pianiste communique d’une façon immédiate et intense et en laquelle il trouve son inspiration”15. La “verve improvisatrice” de l’exécutant naît d’un état de grâce qui dérive de la capacité du corps à être entraîné par la particularité du contact avec les touches et par la production subséquente de sons (cf. MI, 36-41; LRI, 161). Dans cet état ineffable, l’improvisateur expérimente, explore, au milieu des lignes horizontales des sons qui s’organisent en séquences mélodiques, et les conglomérats verticaux des accords qui forment les harmonies; et encore, au milieu des purs jeux logiques des artifices contrapuntiques et les nuances infinies de la dynamique. Il ne s’agit pas seulement de varier un thème donné: “L’improvisateur ne varie pas un thème donné, il tente ou sollicite une suggestion mélodique pour éprouver toutes les possibilités de musique qu’elle contient, pour en provoquer les propriétés inspirantes: il essaie à tâtons plusieurs 14
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Le psychanalyste et spécialiste de psychophonétique et de psycholinguistique Ivan Fónagy a proposé une explication classiquement pulsionnelle pour tous les sons produits par l’appareil de la phonation. Les sons doux porteraient l’écho primitif de l’ancienne relation de succion. Voir I. Fónagy, Il carattere pulsionale dei suoni del linguaggio in “Il piccolo Hans”, n. 12, 1976, p. 60-104; Id., Le basi pulsionali della fonazione, “Il piccolo Hans”, n. 16, 1977. G. Csepregi, op. cit., p. 110.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
directions successives avant de trouver celle qui lui permettra de s’engager le plus loin, et par conséquent d’actualiser la plus grande quantité possible de virtuel” (LRI, 133).
4. La fusion qui se crée entre le pianiste et l’instrument se relie au “continuum” des expressions sonores échangées bien avant la parole entre la mère et son enfant, et qui constituent le moyen grâce auquel le lien prénatal trouve une continuité immédiate avec l’‘après’ dès le premier instant de vie dans le monde. “Ce précurseur de l’écoute peut être vu comme un premier signe d’identité que le son lance d’un sujet à l’autre, de même que le souffle créateur dans la Genèse. C’est aussi le début du charme exercé par la voix et par les mélodies. […] Le rythme et la voix ont une puissance d’enchantement (charme) qui étonne et qui peut conduire à la transe”16. Charme – du latin carmen, qui signifie “composition poétique” et “enchantement” – est donc quelque chose “qui suscite une attraction irrésistible, sans que la raison puisse la maîtriser ou la réduire à ses normes. Jankélévitch fait aussi résonner dans ce terme la lointaine notion plotinienne de cháris – c’est-à-dire la “grâce” –, utilisée par le philosophe néoplatonicien dans un passage où il entend expliquer, par cette qualité insaisissable, […] le caractère particulier du beau”17. Jankélévitch se réfère au charme dans ses réflexions sur l’improvisation pianistique sans jamais complètement le définir, au point qu’il le fait coïncider avec le je-ne-sais-quoi18. Cette condition du pianiste trouve un 16
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A. Schön, Ascolto musicale, ascolto clinico, dans S. Gosso (éd.), Paesaggi della mente. Una psicoanalisi per l’estetica, Franco Angeli, Milano 1997, p. 40. Cf. aussi G. Rouget, La musique et la transe. Esquisse d’une théorie générale des relations de la musique et de la possession, Gallimard, Paris 1980, (éd. rev. et aug. en 1990), et, plus récemment, A. Di Benedetto, Prima della parola. L’ascolto psicoanalitico del non detto attraverso le forme dell’arte, Franco Angeli, Milano 2000. E. Lisciani Petrini, La “scommessa impossibile”, Introduction à l’édition italienne de V. Jankélévitch La musica e l’ineffabile, Bompiani, Milano 1998, p. XXVII. Cette expression s’inspire évidemment de l’expression “no sé qué” que Juan de la Cruz pose au fondement d’une de ses poésies les plus denses du point de vue conceptuel, Por toda la hermosura (1585), basée sur une chanson populaire de Pedro de Pedilla: “Por lo que por el sentido / puede acá comprehenderse / y todo lo que enterderse, / aunque sea muy subido / ni por gracia y hermosura / yo nunca me perderé, / sino por un no sé qué / que se halla por ventura”. L’expression est présente aussi dans Cántico espiritual (1577-1585). De plus, il faut rappeler que
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déploiement19 dans le mécanisme des doigts, à la base duquel il n’y a pas exclusivement un contrôle conscient de la part de la volonté, mais aussi un processus émotionnel. Jankélévitch fait allusion à ce “déclenchement spontané des gestes” lorsqu’il décrit la performance pianistique par les termes de “surprise”, de “fonds d’irrationnel”, d’“esprit d’à-propos”, d’“invention”, d’“éclair”, de coïncidence ou d’adaptation. Il sait que la musique, improvisée ou concertée, est constituée d’une sorte de ‘mutualité de corrélation’: elle implique équilibre et déséquilibre, technique et “fortuité irrationnelle”, apparition et disparition, prestidigitation et profondeur “20. La prédominance du style de la virtuosité remarquée par Jankélévitch surtout dans l’étude sur Liszt se retrouve aussi dans les écrits sur Ravel, dont la musique est définie comme génialement “artificielle”, et sur Albéniz, dont le pianisme est comparé au mysticisme de Denis Pseudo-Aréopagite; enfin, à Rachmaninov le philosophe consacre un bref écrit21, où il
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dans l’esthétique française entre les XVIIe et XVIIIe siècles le terme “je ne sçay quoy”, qu’on doit à Bouhours [“Car la Devise estant un symbole ingénieux, elle ne doit pas estre entenduë du peuple & il n’y a que les personnes intelligentes qui en doivent pénétrer le secret (…). (Il) faut concevoir en mesme temps je ne sçay quoy de mystérieux, & de clair; ou plutost quelque chose qui ne soit ni trop clair, ni trop obscur”, Dominique Bouhours, s.j., Entretiens d’Ariste et d’Eugène, VI, “Les Devises”, 2e éd., Sébastien Mabre-Cramoisy, Paris 1671, pp. 380, 386], renvoie, en dernière ressort, à l’indicibilité du processus de signification: “Chacun ressent un je ne sçay quoy dans chaque passion, sans pouvoir précisément déterminer où se fait ce sentiment” (G. Lamy, Explication Mécanique et Physique des Fonctions de l’Ame sensitive, ou des Sens, des Passions, et du Mouvement Volontaire, Lambert Roulland, Paris 1681). Et encore: “… En un mot dans un certain je ne sçay quoy qu’il est difficile d’exprimer, mais qui se fait entendre sans peine: langage d’autant plus éloquent qu’il n’est point suspect d’artifice, qu’il entraîne sans violence & qu’il persuade toujours”: Maubec (probablement un pseudonyme), Principes Physiques de la Raison, et des Passions des Hommes, B. Girin, Paris 1709, p. 67, cité dans C. Campa, La repubblica dei suoni. Estetica e filosofia del linguaggio musicale nel Settecento, Liguori, Napoli 2004. Cf. aussi P. D’Angelo – S. Velotti, Il non so che: storia di un’idea estetica, Aesthetica edizioni, Palermo 1997. C’est-à-dire le processus à travers lequel les contenus ou les aspects inconscients, qui ne peuvent pas être objet de la conscience à cause de leur nature et de la nature de la conscience, parviennent à être connus dans la conscience. Voir I. MatteBlanco, The Unconscious as Infinite Sets. An Essay in Bi-Logic, Duckworth, London 1975. G. Csepregi, op. cit., p. 111. Il s’agit d’une présentation de l’enregistrement intégral des œuvres pianistiques de Rachmaninov effectué par François-Joël Thiollier, à qui le philosophe attribue un profil qui vise à réunir dans une seule figure toutes les qualités que l’interprète idéal devrait posséder: “une virtuosité transcendante, la légèreté aérienne alliée à
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
relève comment l’aspect incantatoire de la musique, qui s’exprime dans la virtuosité et dans la capacité d’improvisation, reflète une réalité musicale cachée qui ne se révèle accessible qu’en se laissant séduire par le déploiement total d’une exécution pianistique, et non pas en s’arrêtant sur les aspects considérés comme ‘extérieurs’. Ce mouvement interne met en contact celui qui écoute avec un niveau de signification plus profond et plus vaste, en tant qu’il est élargi à d’autres valeurs expressives (cf. S, 32). La position de Jankélévitch à propos de Rachmaninov se situe dans une plus vaste revalorisation des grands compositeurs du Néo-Romantisme ou du Romantisme tardif et d’autres auteurs peu connus par le grand public22, car ils lui paraissent plus révolutionnaires que les musiciens célébrés par les avant-gardes historiques, puisque les nouveautés de leur langage sont moins évidentes que leur facilité bourgeoise, et cela ne veut pas dire qu’elles soient moins authentiques23; en outre, les idées sur Rachmaninov s’intègrent dans le contexte plus vaste de la réflexion musicologique de Jankélévitch selon laquelle on ne devrait pas écrire “sur” la musique mais “avec” la musique, tout en restant musicalement complices de son mystère (QI, 248) et conduisant ainsi un “inexorable démontage de tout l’échafaudage élevé par la culture classique ‘sur’ la musique” 24. Mais qu’est-ce donc que la musique? Un processus premièrement émotionnel qui peut aboutir seulement en partie à la connaissance, et se donne comme le “tout autre” (PhP, 133), le «je-ne-sais-quoi», l’ineffable qui n’a pas de raisons25: “le produit d’un événement tout à fait immotivé, gratuit:
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la puissance, le dynamisme conjugué avec la délicatesse du toucher, la souplesse d’une interprétation qui doit s’adapter à une variété étonnante de styles contrastés, l’endurance et le courage enfin – et avant toute chose (ce qui est infiniment rare) une haute culture musicale et une compréhension profonde des œuvres qu’il interprète”. V. Jankélévitch, Rachmaninov: le dernier des poètes inspirés, pochette du disque de F. J. Thiollier, RCA 1979. J’en cite quelques-uns: Maurice Emmanuel, Charles Koechlin, Déodat de Séverac, Josef Suk, Joaquín Nin, Gabriel Dupont, Georges Migot, Frédéric Mompou, Alexandre Tansman, Alexander Mosolov… C. Migliaccio, op. cit., p. 140. E. Lisciani Petrini, La “scommessa impossibile”, cit., p. IX. On pense ici au fameux apophtegme de Angelus Silesius (Johannes Schleffer): Die Rose ist ohne Warum. / Sie blühet, weil sie blühet. / Sie achtet nicht ihrer selbst, / fragt nicht, ob man sie siehet [La rose est sans pourquoi: elle fleurit parce qu’elle fleurit. / De soi même elle ne s’occupe pas; qu’on la regarde elle ne demande pas], Geistreiche Sinn-und Schluss-reime, 1657; ensuite (1674) Cherubinischer Wandersmann, éd. par L. Gnädinger, Reclam, Stuttgart 1984, I, 289. Remarquable est la citation faite par Heidegger (dans Der Satz vom Grund) qui “critique la pensée fondatrice qui cherche l’être comme fondement, dans le sillage
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d’une grâce. Voilà pourquoi Jankélévitch nomme également charme le ‘je ne sais quoi’ dans lequel il faut lire l’absolue gratuité liée à ce qui désormais n’est plus concevable comme Fondement, en d’autres termes comme la Raison qui donne toujours ‘raison’ de toute chose et qui constitue ainsi le solide terrain d’une civilisation rationnelle” 26. C’est la même interrogation que se pose Gabriel Fauré à l’approche de ses soixante ans27, et que Jankélévitch place à l’incipit de son La Musique et l’Ineffable: il s’agit d’une question destinée à rester sans réponse puisque toute expression de la musique – un dire qui ne ‘dit’ pas – est “au fond (in abysso) adressée à un ‘ineffable’ qui ne peut jamais être porté à la parole musicale, et reste ainsi profondément ‘inexpressive’ ”28. C’est en vertu de cette “inexpressivité”, voie principale vers le charme et la dépossession de soi que nous tous, nous autres – témoins d’un événement totalisant, unique et cependant toujours répété sous des formes changeantes – participons à l’existence charnelle des sons, en devenant nousmêmes des corps résonnants. *** Presque une conclusion – en forme d’appendice A quelqu’un qui lui demandait: “Y a-t-il des relations entre le corps et la musique?”. Jankélévitch repondit: “Oui, je crois. […] J’ai toujours négligé cet aspect, mais je pense que ce serait important de l’approfondir, d’abord parce qu’il y a un domaine commun dans lequel la musique et le corps sont parties prenantes: c’est la danse. La musique est faite pour la danse, la musique est danse naissante. Une partie de la musique européenne et étrangère est née de cette participation du corps. Le rhytme est un élément essentiel de la musique et intéresse
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du principe de raison. […] Il s’annonce comme une pensée non-rationnelle, non– logique, qui s’inspire de l’affirmation de Silesius: la rose est sans pourquoi (ohne Warum), elle est parce que (weil) elle est. Le weil pour Heidegger ne signifie pas renoncer à penser, mais dépasser la logicisation de l’être. Weil est relié à weilen et indique le Sein, le Grund non métaphysiquement considéré”: L. Romera Oñate, Heidegger e i requisiti del pensiero dell’essere: il concetto di Geviert, in “Acta Philosophica”, vol. 2 (1993), fasc. 1, p. 92 (trad. fr. M.C.). E. Lisciani Petrini, La “scommessa impossibile”, cit., pp. XIII-XIV, passim. G. Fauré, Lettres intimes, présentées par Ph. Fauré-Fremiet, La Colombe, puis Grasset, Paris 1951, p. 78 (lettre du 29 août 1903). E. Lisciani Petrini, La “scommessa impossibile”, cit., p. XVIII.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
également directement le corps. Le corps est donc le lieu de rencontre, malgré tout, à la fois de la musique et de la danse. Dans la musique même, l’élément rhytmique et métrique implique une participation du corps, une participation des organes. On frappe du pied involontairement, instinctivement, sans s’en apercevoir soi-même dans certains cas, et puis on est transporté par des ondes, les ondes musicales, qui impliquent la présence du corps. D’autre part, le corps aussi est commode et joue un très grand rôle, parce que nous disions tout à l’heure que l’homme a l’angoisse de la mort, mais maintenant je dirais tout à fait différemment que l’homme est inquiet de tout ce qui est invisible, et cherche toujours à rendre visible ce qui ne l’est pas. Or, la musique est invisible, elle est dans le temps, elle se développe dans le temps, lequel est impalpable et impondérable. Alors l’homme s’accroche à tout ce qui peut se montrer dans la musique. Estce que vous vous êtes jamais demandé la raison pour laquelle on connaît si bien les visages des mucisiens? On les représente toujours, alors que l’on ne connaît pas ceux des peintres. On ne sait pas comment était… si… Rembrandt, puisqu’il se peignait lui- même, mais on ne connaît pas tellement les visages de Rubens, Manet, Renoir… nous les avons rarement vus. Matisse? ... Il avait une grande barbe ! Mais enfin on les voit très peu, pourquoi? Parce que la peinture s’adresse naturellement à l’œil, c’est sa fonction, mais le visage du peintre est inconnu. Tandis que le visage du musicien, c’est tout ce que l’on peut montrer dans la musique. La seule chose que l’on puisse montrer et qui parle à l’imagination, c’est le visage, les bustes, les photographies… c’est une connaisance universelle. Pour l’homme, il faut pouvoir montrer et on ne peut rien montrer de la musique. Que voulez-vous montrer? Même une exposition consacrée à un musicien ne nous montre rien. On nous montre simplement des choses qui sont extérieures à la question, des choses marginales, mais on ne nous montre pas l’essentiel: la musique. Lorsqu’une exposition est consacrée à un peintre, on expose ses exquisses, ses portraits, ses dessins, ses peintures, il n’y a pas de problème, mais pour un musicien il n’y a rien à montrer! Tout ce qui nous est présenté, c’est latéral, marginal, extérieur, périphérique. Alors, on expose le visage du musicien sous toutes les coutures, en gros, de près, de loin, et puis la ville où il a vécu… Que peut-on montrer d’autre? C’est ce qui est frappant et qui fait le caractère dérisoire des expositions consacrées aux musiciens, puisque la musique est invisible. C’est donc le paradoxe de la musique art du temps” (PM?, 134-137).
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Abstracts
Negli scritti che Jankélévitch dedica a Liszt si colgono alcune riflessioni sul corpo ‘risonante’ dell’esecutore. L’agilità del pianista non può prescindere da caratteristiche anatomico-funzionali e da una sensibilità sottratta ad ogni tentativo di controllo cosciente e di organizzazione razionale. Il fattore di casualità non inficia il lavoro preparatorio di un concertista, ma lo arricchisce di un ‘che’ d’imponderabile che può essere valorizzato e finalizzato alle circostanze in cui si svolge l’esecuzione, nella dinamica virtuosistica come in quella improvvisativa. Nel rapporto fusionale che si crea tra il pianista e il suo strumento opera la grazia, intesa nel senso jankélévitchiano di charme. La cornice di riferimento per inquadrare tale fusionalità risale al “continuum” delle espressioni sonore che prima della parola si scambiano madre e bambino, e che costituiscono il mezzo grazie al quale il legame prenatale trova una continuità immediata con il ‘dopo’ fin dal primo istante di vita nel mondo. Dans les écrits que Jankélévitch dédie à Liszt on relève quelques réflexions sur le corps ‘résonnant’ de l’exécutant. L’agilité du pianiste dépend aussi de caractéristiques anatomo-fonctionnelles et d’une sensibilité soustraite à toute tentative de contrôle conscient et d’organisation rationnelle. Le facteur hasard ne remet pas en cause le travail préparatoire d’un concertiste, mais l’enrichit d’un élément d’impondérabilité qui peut être valorisé et orienté vers les circonstances où se passe l’exécution musicale, aussi bien dans la dynamique de la virtuosité que dans celle de l’improvisation. Dans la relation fusionnelle qui s’établit entre le pianiste et son instrument, opère la grâce, entendue dans le sens jankélévitchien de charme. Le cadre de référence où placer cette fusionalité remonte au “continuum” des expressions sonores que, avant la parole, la mère et son enfant échangent, et qui constituent le moyen grâce auquel le lien prénatal trouve une continuité immédiate avec l’‘après’, et ce, dès le premier moment de vie dans le monde. From Jankélévitch’s works dedicated to Liszt, we can draw some reflections on the ‘resonant’ body of the performer. The nimbleness of the pianist’s movements cannot be separated either from anatomical-functional characteristics or from a sensitivity freed by any attempt of conscious control and rational organization.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
The casualness factor does not affect the groundwork for a concert, but it gives away to ‘something’ unpredictable that can be enhanced and put into use within the circumstances in which the performance takes place, both in the virtuosistic and improvisative dynamics. The underlying principle the fusional relationship, establishing between the pianist and his instrument, is grace, in the jankélévitchian sense of charme. The reference frame to understand that fusionality can be traced back to the “continuum” of sound expressions exchanged by mother and child, before the talking age, which represents the means through which the prenatal bond finds an immediate continuity with the postnatal one, beginning with the first moment of life in the world.
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ENRICA LISCIANI PETRINI
Philosopher ‘depuis’ la musique1 A-t-on déjà remarqué que la musique rend l’esprit libre? Qu’elle donne des ailes à la pensée? Et que l’on devient d’autant plus philosophe qu’on devient musicien? (F. Nietzsche) Malheur à ces temps où l’art ne rend pas la terre dangereuse! (K. Kraus)
1. La musique “donne à penser” Dans son livre d’entretiens Quelque part dans l’inachevé, à la question que lui adresse Béatrice Berlowitz “Pourquoi évoquez-vous la musique […] à un moment où l’on attend de vous une parole philosophique?” Jankélévitch répond tout simplement: parce qu’ “elle donne à penser”. Et à la fin de ce long discours il argumente encore: “la musique témoigne du fait que l’essentiel en toutes choses est je ne sais quoi d’insaisissable et d’ineffable”. De sorte qu’il semble presque conclure – et voilà le point décisif – “on devrait écrire non pas ‘sur’ la musique, mais ‘avec’ la musique et, musicalement, demeurer complice de son mystère” (QI, 24-5; 247-8). Déjà dans La Musique et l’Ineffable le philosophe avait écrit des mots analogues: “On ne pense pas ‘la musique’, mais par contre on peut penser selon la musique, ou en musique, ou musicalement” (MI, 127). Peu de phrases, mais chargées d’intuitions et de questions. En effet ces phrases – à la coloration d’ailleurs ‘inactuelle’, presque hors du temps – justement à cause de leur différence de ton par rapport au flux d’idées do1
On a voulu ainsi rendre le titre italien “Filosofia dalla musica“: philosopher depuis la musique. Mais il est important de préciser que dans cette expression il faudrait ‘entendre’ toute un plexus sémantique. D’abord la présence de la signification: philosophie ‘de la’ musique – où la préposition de introduit le complément dans son double sens, subjectif et objectif. Ensuite, elle renvoie à la signification supplémentaire: ‘philosophie à partir de la musique’ (la musique comme origine d’une philosophie renouvelée). Enfin, on comprend ici un sens plus vaste exprimant quelque chose qui ‘arrive’ ou est ‘reçu’ de la musique comme son don gratuit.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
minant, peuvent ouvrir la route vers une nouvelle façon de comprendre la philosophie de la musique pensée dans ses racines, dans ses statuts et ses méthodes. Pour cette nouvelle philosophie, la musique n’est plus l’‘objet’ des investigations esthétiques de la pensée – selon la forme traditionnelle qui se limitait à appliquer à la musique, et à l’art en général, les principes préétablis d’un système philosophique donné, dans le but de retrouver ou de vérifier en elle la vision acquise des choses. Il s’agit, bien au contraire, de faire de la musique le ‘sujet’ ou le ‘lieu’ de questions posées à la philosophie elle-même, et à nous-mêmes, en remettant en cause toute prétention de connaissance appropriative. Voilà pourquoi une réflexion ainsi orientée travaille non tant sur la musique qu’avec la musique, à partir de la musique et des questions internes aux chemins musicaux et artistiques – en particulier ceux de notre époque, mais pas seulement –, pour les orienter dans la dimension de notre ethos, de notre ‘séjour’ dans le monde, et comprendre à quelle figure du monde nous correspondons et nous devons nous adresser. De sorte que, dans l’expression “philosophie de la musique”, on devrait substituer une acception ‘subjective’ du génitif à l’acception ‘objective’ habituelle: dans le sens que la philosophie suscitée par la musique est une philosophie de la musique en tant qu’elle provient de cette dernière, des questions que celle-ci – et celle-ci précisément – pose. Donc, dans le sens de quelque chose qu’on pourrait appeler une “philosophie à partir de la musique”. Un renversement de perspective déterminé par l’intuition, très nette chez Jankélévitch, de la portée novatrice contenue, avant même de l’être dans la philosophie, dans la recherche musicale et artistique du début du XXe siècle, et qui déconstruit les trois piliers de la pensée classique: le concept de forme, le concept de temps et la notion de sujet-identité. Jankélévitch en fait découler, justement, un renversement de perspective – conjugué tout de suite avec le dépassement ou l’abandon de la notion traditionnelle de temps (et de la notion connexe d’être) comme déroulement historique unilinéaire et continu – inauguré dans le sillage de la notion bergsonienne du temps comme flux “virtuel”, c’est-à-dire comme efflorescence imprévisible d’événements non prédéterminés. Renversement qu’il relance sagittalement – c’est là un point crucial – à travers l’horizon du passé même, en déconstruisant ainsi toute interprétation progressive-linéaire de ce dernier et en démontrant que, là-même où ces piliers semblaient fermement plantés, on peut entrevoir un autre arrière-fond.
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Enrica Lisciani Petrini - Philosopher ‘depuis’ la musique
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2. La musique “objet” de l’esthétique musicale. Pour comprendre la distance nette qui sépare le traitement que la musique reçoit dans le cadre de la philosophie traditionnelle de la façon différente d’entendre la philosophie ‘de la’ musique à laquelle Jankélévitch ouvre la route, il serait opportun de faire une brève digression, en revenant sur des questions certainement bien connues, mais qui nous serviront de toile de fond pour faire ressortir par contraste le discours de et sur Jankélévitch. Il s’agit en effet de voir rapidement sur quelles bases et à partir de quels présupposés l’on se réfère à l’art en général et à la musique en particulier quand on en fait, ‘classiquement’, un “objet” de recherches. Avec une précaution préliminaire qu’il faut bien retenir: le fil conducteur, qu’on va tracer ici, correspond à la compréhension de sa propre histoire par la philosophie elle-même, auto-compréhension élaborée peu à peu, et selon laquelle la ligne de développement de la culture occidentale part de Platon et de son opération culturelle – auto-compréhension que Jankélévitch nous aide donc à critiquer et à dépasser. Ce qui explique, indirectement, pourquoi nous reprenons ici des questions bien connues. Dans la perspective que nous considérons, Platon instaure une conviction qui accompagne l’histoire de l’Occident presque jusqu’à nos jours. Une conviction selon laquelle la réalité tout entière, le tissu entier des choses, sont gouvernés par une Substance, un Être parfaitement visible. Il s’agit d’une conviction qui confère à la réalité le statut d’une ‘patrie’ sûre et certaine, d’un ‘sol’, d’un Fondement ou d’un Ordre sans mystères ni énigmes qui ne puissent être amenés tôt ou tard dans le cône de lumière de la raison et de la connaissance humaines. En ce sens-là, l’Être du réel est alors, comme le disait Platon, to ekphanestaton: la chose la “plus lumineuse” pour l’œil de la pensée exercée à voir la clé logique interne des choses2. Cet éminemment visible qui – comme le dit Saint Augustin, qui reçoit le discours de Platon, tout en le prolongeant dans le sillage du christianisme, et le lègue sous cette forme aux siècles à venir – se manifeste et se révèle dans le corps concret de l’histoire sous différentes formes, dans une progression temporelle idéalement continue et infinie. Ce qui instaure cette notion de temps comme continuum unilinéaire et progressif, com2
Comme on sait, Platon affirme la concordance entre la lumière du soleil et l’œil humain dans Rép. VI, 508 b. C’est à cette affirmation que se réfère Plotin lorsqu’il déclare : “L’œil ne verrait jamais le soleil s’il n’était solaire” (Enneades, I, VI, 9 30-32). Elle a été enfin reprise par W. J. Goethe dans Farbenlehre (Dumont Schauberg, Köln 19782; trad. it. La teoria dei colori, Il Saggiatore, Milano 19917, p. 14).
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me scansion horizontale et évolutive, qui s’est imposée peu à peu dans le monde occidental. Il suffit de songer à la Weltgeschichte de Hegel – dont la “révélation” (Offenbarung) s’articule à travers la succession de “figures historiques” progressives – véritable point d’arrivée et d’accomplissement de cette vision pluriséculaire des choses. Où ce qui compte est la trame conceptuelle éternelle et “rationnelle”, qui régit le “réel” historique effectif et se rend visible dans celui-ci. Dans ce cadre se dessine alors cette façon de traiter de l’art et de la musique qui – bien qu’à travers des changements remarquables – s’est configurée au cours des siècles, et à travers laquelle on assigne premièrement à l’art la tâche d’amener vers une manifestation sensible, c’est-à-dire de montrer, dans une forme artistique concrètement tournée vers les sens, l’Ordre universel logico-mathématique sous-jacent au réel. Cela également, ou même surtout, alors qu’on prête, avec l’avènement des sciences physico-mathématiques, davantage d’attention à l’aspect physico-acoustique des sons3. Tout au long d’un tel fil conducteur, l’art a reçu ainsi une valeur esthétique, au sens étymologique du terme: porter à l’aisthesis (sensation), ou bien assigner à la sensibilité et au sentiment concret, cet Ordre absolu. Et pas seulement. Puisque cet ordre est aussi et surtout beau et harmonieux – to agathon chez Platon –, la forme artistique devra à son tour être surtout belle et harmonieuse, proportionnée et congruente dans ses parties. Voilà d’où naît cet autre sens ‘esthétique’ attribué à l’art, selon lequel celui-ci est lié non seulement à la sensibilité – l’aisthesis –, mais aussi au beau. Le beau, la beauté deviennent ainsi une prérogative intrinsèque de l’œuvre d’art. Il faut ajouter que, dans ce cadre, l’art ne peut pas ne pas assumer une valeur “édifiante” (cf. MI, 7-9): le message souterrain, qui doit être transmis à travers l’attraction exercée sur les sens, est l’adhésion convaincue à la vision logique idéale de la réalité et à la “rectitude” éthique et gnoséologique qui en découle – justement en suivant à la lettre la lectio de Platon. Donc, à l’intérieur de ce cadre culturel on parvient à faire du produit artistique un “objet”, “sur” lequel appliquer, ou “dans” lequel retrouver, des coordonnées métaphysiques préétablies – ce que précisément fait la discipline appelée “esthétique”, à partir du XVIIIe siècle. C’est-à-dire que l’art devient un lieu de “représentation” de la vision des choses en acte. Ce qui a fait assez fréquemment de l’esthétique une “anésthétique”4, à savoir un ap-
3 4
À ce propos cf. P. Gozza, (sous la direction de), La musica nella rivoluzione scientifica del Seicento, il Mulino, Bologna 1989. Cf. O. Marquard, Aesthetica und Anaesthetica. Philosophische Überlegungen, Schöningh, Paderborn 1989.
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pareil conceptuel voué à ramener l’œuvre d’art à des systèmes conceptuels préconstitués, en la réduisant trop souvent à un facteur de réconciliation avec la réalité, et même d’adaptation et d’embellissement sinon de simple ameublement de la réalité, en la soustrayant à sa puissance antinomique et inquiétante, rebelle à toute appréhension rationnelle. La philosophie de la musique (ou esthétique musicale) traditionnelle s’inscrit donc, à son tour, à l’intérieur du développement théorique que nous avons brièvement parcouru jusqu’ici, et dont les fondements peuvent être résumés dans les idées suivantes: le concept d’art comme lieu de manifestation-révélation de l’être – et par conséquent comme “objet” de la pensée; le concept de temps comme continuum unilinéaire (le long duquel figurent les différentes manifestations historiques effectives de cet être), articulé dans un processus de thèse/antithèse/synthèse (selon la dialectique canonique, spécifiquement hégélienne), ou bien arsis/thèse/résolution finale (selon le lexique canonique de la musique); le concept de forme, comme dessin idéal fermé, congruent, harmonieux; d’où découle, enfin, la notion d’identité comme périmètre subjectif – la forme, précisément – individuel, unique et indépassable.
3. Au-delà de la tradition A partir de la fin du XIXe siècle – et cela encore est bien connu – s’est produit un affaissement total du sous-sol culturel que nous avons décrit jusqu’ici. Provoqué par des réflexions – par exemple celles de Bergson et de Nietzsche, bien connues de Jankélévitch –, mais surtout par les extraordinaires recherches effectuées précisément dans les domaines artistiques et en particulier dans le domaine musical. D’où le déplacement net du barycentre philosophique et esthétique. Un déplacement du regard que Jankélévitch a tout de suite assimilé, partant d’une conscience diamétralement opposée à celle qui dominait dans la tradition5. C’est la conscience que l’Être est radicalement invisible et que, par conséquent, la réalité entière est suspendue à quelque chose de fuyant et de “nocturne”, d’“informe” et “énigmatique”, qui se soustrait aux prétentions cognitives humaines. Au point que, par rapport à la perception de la réalité, plus que de “vision” il faut désormais parler d’“entrevision”: c’est-à-dire d’un regard “de clair5
Pour ces points névralgiques de la texture globale de la pensée jankélévitchienne, et pour leur thématisation plus articulée, qu’il me soit permis de renvoyer à mon Introduction (ici aux pp. 13-25).
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obscur”, à cheval entre lumière et ombre, inexorablement ambigu, déficitaire, paradoxal, pour lequel les choses et les êtres ne sont plus les “objets” d’une saisie certaine et définitive, mais les lieux d’une exploration inépuisée, que la raison humaine ne peut ni posséder ni s’approprier. Mais maintenant, ce qui nous intéresse davantage ici c’est que cette vision particulière des choses est attestée précisément, selon Jankélévitch, à partir de la musique. Et cela non pas depuis aujourd’hui, depuis le XXe siècle – même si, à notre époque, cette conscience est revenue impérieusement au jour, comme Jankélévitch même le met en évidence en travaillant surtout sur des musiciens en particulier du siècle dernier.6 Mais depuis toujours. C’est pourquoi il est à penser que, chez Jankélévitch, c’est justement la rencontre avec la musique qui a, sinon déterminé, du moins favorisé et accentué une interrogation du réel au sens ici tracé. C’est-à-dire au sens d’une interrogation ou d’une “entrevision” qui fait irruption dans notre environnement culturel, comme on vient de le dire, à partir des débuts du siècle dernier, remettant ainsi à flot des ferments novateurs, qui renversent la polarité, grâce à une accélération révolutionnaire démarrée dans le domaine artistique et en particulier musical7. À partir de Debussy qui tranche, le premier, avec le système tonal – symbole accompli d’une vision des choses transparente et compacte, mais désormais fastidieusement “grandiloquente”8 – pour rendre la musique à de lointains archaïsmes modaux capables d’y faire résonner sonorités et dimensions plus silencieuses (cf. DM, 123-9), “mystérieuses” et “en clair obscur”, comme suspendues. Voilà pourquoi le philosophe ressent une syntonie immédiate et intime avec tout cela, pourquoi il en saisit – et remet à découvert – les valeurs souterraines de dissolution et d’innovation, pour les transformer en ‘lieu’ privilégié de sa méditation philosophique. 6
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Comme on le sait, Jankélévitch opère un choix très particulier dans le répertoire musical, en privilégiant surtout les musiques française, slave et ibérique du tournant de XIXe et XXe siècles. Je ne peux ici qu’effleurer cet aspect, dont un traitement plus approfondi nous amènerait trop loin. Une remarque cependant: si ce choix tient certainement au goût personnel du philosophe (à cet égard v. ici les justes observations de Bernard Sève, aux pages 247 ss.), il est par ailleurs profondément lié à sa vision ‘mé-ontologique’ du réel, que j’essaie ici de mettre en relief. Pour cet aspect v. les pages toujours excellentes de P. Boulez, dans Relevés d’apprenti, Seuil, Paris 1966. Sur cette question, qu’il soit permis aussi de renvoyer à E. Lisciani Petrini, Il suono incrinato. Musica e filosofia nel primo Novecento, Einaudi, Torino 2002. Cf. C. Debussy, Monsieur Croche antidilettante et autres écrits (1921), Gallimard, Paris 1971.
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De là viennent donc la philosophie de la musique de Jankélévitch et ses célèbres interprétations – qui restent encore aujourd’hui un point de repère obligé, sinon sans pareil – de Fauré et de son emploi particulier de l’enharmonie, qui exclut toute référence tonale; de Debussy et de son concept de temps “instantané” et “stagnant”; de Liszt et de sa singulière “virtuosité” efflorescente, jouée sur l’“improvisation” pure et gratuite; et enfin de Ravel et de son concept de “masque”. Pour n’en citer que quelques-uns. En ce sens, la réflexion de Jankélévitch constitue une modalité de rencontre avec la musique peut-être plus ‘mobilisatrice’ que celle des interprétations musicologiques élaborées par d’autres philosophes qui lui sont contemporains9 – notamment Adorno et Bloch, dont les analyses d’origine hégélienne restent rivées à la position d’un ordre historique universel, qui puisse servir de fondement aux individus, même s’il est brisé et nostalgiquement poursuivi (Adorno), ou bien vu comme telos utopique (Bloch)10. Rien de tout cela chez Jankélévitch: un philosophe qui non seulement laisse derrière soi ces modalités d’approche des problèmes et ces appareils catégoriels, mais qui n’y a jamais eu recours, et qui s’est penché au contraire dès le début vers une pensée décidément différente. Et c’est précisément en se disposant le long d’un vecteur différent, ou d’une façon différente de regarder les choses, qu’il peut prononcer les phrases d’où nous sommes partis: “la musique témoigne du fait que l’essentiel en toutes choses est je ne sais quoi d’insaisissable et d’ineffable” – mots dont on commence maintenant à saisir toute la portée.
4. Le “Charme” de la musique Dans une page écrite sur le ton direct et ironique qui le caractérise, le philosophe soutient – en introduisant à la fin le thème qui nous intéresse ici: La plupart des hommes demandent à la musique la légère griserie dont ils ont besoin pour accompagner leurs associations d’idées, rythmer leur songerie, bercer leurs ruminations: la musique […] est devenue pour eux – au sens ironique de Satie – simple musique d’ameublement, mélodieux bruitage sous-tendu aux
9 10
C’est également le jugement de E. Fubini, Il pensiero musicale del Romanticismo, EDT, Torino 2005. Pour un approfondissement de cette question v. E. Matassi, Bloch e la musica, ed. Fond. Menna, Salerno 2001; e Id., Musica, Guida, Napoli 2004. V. aussi G. Danese, Theodor Wiesengrund Adorno il compositore dialettico, Soveria Mannelli, Rubettino 2008.
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repas et aux conversations […]: fond musical pour hommes affairés. L’auditeur se dit: pensons à autre chose! et le musicographe décide à son tour: parlons d’autre chose! par exemple de la biographie et des amours du compositeur, ou de son importance historique. […] Les plus pédants parleront grammaire, métier et ce sont sans doute aussi les plus roués, car ils paraissent viser une réalité spécifiquement musicale, repérable dans certaines locutions […]. Nous connaissons tous ces têtes froides qui, après le concert, affectent de s’intéresser à la manière dont l’œuvre “est faite”… La technique est un moyen de refuser cet abandon spontané à la grâce que le charme nous réclame (MI, 127-9).
La première chose à dire est que, face à ces affirmations, on est obligé de reconnaître que Jankélévitch a raison. C’est ainsi que la plupart d’entre nous se conduit: nous allons à un concert la tête déjà pleine d’idées préconçues – notices historiques et biographiques, analyses techniques et/ou musicologiques, jugements interprétatifs, paramètres acoustiques, parfois même vulgarisations journalistiques etc… – qui fonctionnent en général, plus que comme guide, comme un philtre ou une barrière par rapport à une expérience différente “avec” la musique – que Jankélévitch qualifie elliptiquement de “rencontre avec le charme”. Et nous voilà parvenus au cœur, au point central de sa pensée philosophique-musicale. Mais qu’est que cela signifie: le charme? et qu’est-ce que c’est précisément dans le vocabulaire de Jankélévitch? qu’est-ce qu’il veut véritablement dire par ce choix lexical, qui constitue la marque de toute sa réflexion, et particulièrement en musique? quelle pensée forte et radicale peut-on découvrir en approfondissant son contenu? D’abord, le mot charme est le résultat d’un mélange de significations très anciennes. Charme évoque, tout d’abord, l’étymologie latine carmen – qui signifie non seulement composition poétique, dans son acception soutenue (que l’on pense aux “Charmes” de Valéry, par exemple) –, mais aussi “rite incantatoire” ou “formule magique”. Bref, dans l’un et dans l’autre cas, le signifié de carmen montre quelque chose qui a à faire avec l’enchantement, le charme, la séduction, la magie (que l’on pense à la Carmen de Bizet). Donc le charme, à cause de ses caractéristiques, non seulement n’a rien à voir avec la raison, mais tout au contraire fait référence à quelque chose qui la subjugue, la déstabilise et même la trouble. Il faut d’abord en conclure que c’est précisément pour cela que Jankélévitch en utilise l’étymologie: à cause de sa capacité de nous transporter du domaine de la rationalité appropriative et “définissante”, vers un domaine éloigné. Mais Charme dérive aussi, et surtout, du mot grec charis, traduisible par “grâce”, dans l’acception classique de donation désintéressée, non vénale, non commerciale, non appropriative, mais au contraire “sans raison”, en
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un mot: gratuite – terme employé en particulier chez Plotin (cf. MI, 70) pour indiquer la qualité insaisissable et fuyant toute “localisation” ou explication (“sans pourquoi”, sans raison: gratuite encore) qui caractérise en propre le beau11. La musique est donc une rencontre avec le charme parce qu’elle est un événement ‘illocalisable’. Ce qui signifie qu’on ne peut pas expliquer la musique de façon rationnelle, en localisant sa signification dans une structure mélodique particulière, dans un timbre spécifique, dans une hauteur déterminée des sons ou dans une certaine typologie syntactique etc. Bref, elle n’a pas de fondement. Donc elle est totalement gratuite. Comme la fameuse rose d’Angelus Silesius – un des repères privilégiés de la pensée de Jankélévitch – qui “est sans pourquoi (ohne Warum)”. Il n’y a pas de Présupposé extérieur – un Sens, une Idée, un Ordre idéal, un Principe – qu’on puisse désigner comme “cause” première ou “raison” dernière d’un événement musical; pas même ce “sujet” qui s’appelle “compositeur”, à son tour impliqué dans l’événement musical comme sa partie ‘illocalisable’. A considérer sa naïve et immédiate vérité, la musique ne signifie pas autre chose que ce qu’elle est: la musique n’est pas l’exposé d’une vérité intemporelle, mais c’est l’exposition elle-même […] qui n’exprime absolument rien […][car elle] est tout entière une fioriture, une exquise efflorescence […]. La musique, présence sonore, tient tout entière dans l’actualité superficielle de l’audition, autrement dit dans la phénoménalité de son apparence sensible: en ce premier sens il n’y a rien à chercher derrière la façade, aucune conclusion à tirer, nulle conséquence à déduire: l’enchantement a sa fin, son sens et sa raison d’être en lui- même […]. Elle n’acquiert décidément la complexité et la fausse dimension de la profondeur que dans l’idéologie ou dans les spéculations marginales du musicien. […] Ce phénomène de surface n’est pourtant pas étranger à toute profondeur, encore que la profondeur n’ait ici aucun caractère didactique ou dialectique. La musique n’est certes pas un système d’idées à développer discursivement, ni une vérité dont il s’agirait de parcourir successivement les degrés, d’expliciter les implications, ou dégager la portée, de dérouler les conséquences lointaines. Malgré tout […] une musique ‘profonde’ accumule dans ses notes, à l’état d’implication réciproque, un nombre infini de virtualités: comme le tout est immanent, selon Bergson, à chaque partie […] l’impression de profondeur nous est suggérée par l’effort qui serait nécessaire pour [les actualiser] […]. Bien entendu ces possibilités ne sont pas à la lettre contenues ou conservées dans chaque membre de la phrase, dans chaque fragment de la mélodie – car c’est le progrès même du discours qui les fait surgir au fur et à mesure et qui nous fait conclure après coup à leur immanence (MI, 87-90; c’est moi q.s.). 11
V. la nota 10 de l’Introduction dans le présent volume (p. 20).
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Apparaît en plein lumière ici la raison pour laquelle l’expérience musicale, vécue “en elle même”, démolit tous nos paramètres et repères culturels, musicologiques et perceptifs, c’est-à-dire toute prétention de notre raison à la connaissance et à l’appréhension appropriative. Car, en effet, si nous nous abandonnons à un tel événement sans interposer entre lui et nous aucun filtre préétabli, il nous saisit comme une magie – au sens, soulignons-le, où il nous détache de toute ‘froide’ démarche lucidement analytique (sens dépourvu évidemment de toute connotation irrationnaliste) – et, nous surprenant comme “par enchantement” (comme par un charme), nous permet de saisir l’aspect dynamique des choses, présent partout, c’est-àdire dans la réalité même, mais insaisissable par la raison. C’est là le véritable, l’incontournable mystère: expression qui apparaît maintenant plus que jamais appropriée, et pas du tout fumeuse, obscurément irrationnelle ou ésotérique. Un “mystère en pleine lumière” puisqu’il concerne directement le sens énigmatique qui enveloppe la présence même des choses, dans leur effectivité éblouissante, dans leur “apparence” éclatante et “bigarrée” – c’est ainsi que Jankélévitch caractérise, et ce n’est pas un hasard, les différentes formes d’art du passé, de la Renaissance au Baroque (cf. PhP, 24-7). De sorte que, de ce point de vue, la musique se révèle être un espace problématique qui renvoie, à la pensée elle-même, des questionnements cruciaux, et lui fait entrevoir des aspects paradoxaux du réel, son clair-obscur: toutes choses qui, sans la musique, passeraient inaperçues, seraient oubliées ou occultées – mais qui appartiennent depuis toujours au réel même. Bref, la musique se révèle être un espace – Jankélévitch a bien raison de le dire – “qui donne à penser”.
5. Penser “avec” la musique Il est donc évident que le philosophe ne nous invite à aucune démission ou abandon de la pensée (contrairement aux apparences). Jankélévitch nous pousse plutôt vers une autre pensée, une autre façon de penser, plus radicale même, justement parce que libre de toute idée préconçue. Puisqu’à travers la musique – ainsi rencontrée – nous sommes poussés à nous demander si la réalité entière ne serait pas elle-même – précisément comme la musique – une dynamique de forces non substantielles, une texture de relations spatio-temporelles tout-à-fait virtuelles et non localisables. Bref, nous sommes poussés à nous poser des questions parfaitement et typiquement philosophiques – en pensant à partir ‘de’ et ‘avec’ la musique.
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On comprend alors ce que Jankélévitch vise à “entrevoir” dans la musique qu’il aime tant, in primis chez Debussy, grand constructeur de sons et véritable point de départ de toutes les innovations contemporaines les plus significatives dans ce domaine: la récupération d’une dimension musicale, très ancienne mais toujours présente, à y regarder de plus près. Une dimension éminemment plastique, opérant dans le matériau sonore lui-même et potentiellement ouverte à une perpétuelle différentiation. De sorte que, pour révéler y compris une plasticité interne, une composition se structure maintenant selon une forme qui se donne apparemment “dans l’inachevé”, ouverte de tous côtés et presque répandue hors d’elle-même12 – ce qui a donné lieu au “flou”, bien connu, mais aussi si peu et si mal compris, de Debussy; et ce qui a également produit les constructions sonores minimales et tissues de silences d’un Webern. Des constructions, il faut le répéter, qui sont informes seulement en apparence, parce que, de fait, elles sont déjà annonciatrices d’un nouveau sens de la forme. Mais, justement, une telle récupération est rendue possible, précisément et seulement aujourd’hui, grâce à une recherche musicale qui se penche vers une nouvelle compréhension de la matière sonore elle-même et de ses cellules phoniques. Une recherche, en ce sens, qui est partie intégrante et même déterminante de ce vecteur de pensée qui traverse notre époque – dont Jankélévitch n’est pas un représentant mineur –, voué à remettre en question l’horizon conceptuel du passé, et ses piliers fondamentaux, les concepts de forme, de substance, d’idée, de sujet/identité et de temps entendu comme continuum unilinéaire. Auxquelles on oppose, point par point, les notions de force, de virtuel, de matière, de corporéité/altérité et d’espace multi-dimensionnel. Ainsi la recherche artistique, en nous appelant à adhérer à sa construction, nous permet de nous interroger – précisément dans la même intention d’exploration que celle des compositeurs – sur la naissance du sentiment du corps, sur la manière dont se produit une construction de sons, jusqu’à nous demander ce que c’est que l’écoute ou la perception sonore, ce que c’est que le son même… et ainsi de suite, en abordant des questions qui atteignent à la couche géologique originaire de notre être ou de notre existence dans le monde, qui mettent en question la “nature humaine” même – comme on le fait aujourd’hui de toute part, avec la conscience précise
12
Il est presque inutile de rappeler que ce même processus, comme on le sait bien d’ailleurs, a fonctionné et se poursuit aussi dans les autres arts: en littérature (ainsi chez Beckett, si on veut donner un nom cité par Jankélévitch lui-même), en peinture (depuis Cézanne), etc.
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qu’il s’agit du véritable enjeu de notre époque. Entre autres, il suit de là que l’art n’a plus aujourd’hui de rôle esthétique, et encore moins “ornemental”, et que les œuvres d’art ne veulent, ne doivent, ni ne peuvent plus être un “fond musical pour hommes affairés”, comme le disait justement Jankélévitch, d’‘anesthésiants’ objets d’ameublement. Et ce, précisément, parce que les artistes ressentent la “nécessité”13 de montrer non pas la patine belle et harmonieuse de la réalité et du monde extérieur, mais son caractère profondément fuyant et énigmatique, éloigné et inquiétant. En ce sens, l’art acquiert un rôle éthique – bien saisi, et pour cause, par Jankélévitch, dont le cadre de pensée est entièrement construit le long d’un tel vecteur. C’està-dire que l’art s’interroge et nous pousse à nous interroger sur notre ethos, sur notre façon d’‘habiter’ les choses, de les vivre, de les percevoir, et il nous pousse à nous demander, comme on vient de l’évoquer, ce que c’est qu’une sensation (l’ouïe), qu’une perception (l’écoute), ou qu’une structure sonore, comment elle se répand dans l’espace et comment celui-ci, avec le temps, est produit grâce aux sons mêmes14. En effet, désormais, depuis les œuvres de Debussy, si l’on se dispose à écouter et à rencontrer ces compositions non comme des “événements culturels” mais – selon la leçon de Jankélévitch – comme des “lieux de demande”, nous quitterons ces rencontres non pas chargés de notions grâce auxquelles “se faire admirer à droite et à gauche”15 mais munis d’interrogations aiguës: qu’est-ce que le temps? est-il encore cette séquence chronologique mathématique autour de laquelle on s’obstine à articuler notre vie, ou bien est-il autre chose? comment écouter ces sons feutrés, et les silences, les vides, les pauses qui entrent dans la composition musicale en tant que “matériau tectonique”, qui l’effritent et la broyent, la réduisant de fait, apparemment, à un ensemble informe? et alors, comment exercer notre perception acoustique, et comment est-elle faite? et qu’est-ce que nous écoutons quand nous écoutons? mais, aussi, comment écoutons-nous? pouvons-nous encore penser que nos sens soient ‘distincts’ au sens cartésien du terme, ou bien ces musiques nous font-elles découvrir une couche de notre sensorialité cachée et oubliée, primordiale et synesthésique, pour laquelle les sens glissent l’un sur l’autre en se superposant sans cesse? mais alors pourquoi l’homme, et justement lui, est-il dépourvu d’une sensorialité sé13 14 15
Ce n’est pas un hasard si ce terme est comme une ‘note’ qui résonne dans tous les discours des artistes du début du XXe siècle (par ex. chez Webern, Schoenberg, Rilke). V. la note 16. La phrase est prononcée par A. Webern en Der Weg zur neuen Musik, Universal Edition, Wien 1960.
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lective? et, par conséquent, et enfin, quelle nouvelle idée de “forme”, à tous les niveaux, nous attend dans le futur et comment faut-il la repenser? Ce sont les questions qui ont étayé le travail de compositeurs comme Debussy, Webern, jusqu’à Boulez, Varèse, Berio, Grisey et Xénakis, et qui encore aujourd’hui stimulent le travail des centres de recherche les plus avancés16. Et alors, une philosophie ‘de’ la musique qui veuille penser ‘avec’ la musique et non pas ‘sur’ la musique, pour rappeler en conclusion les expressions de Jankélévitch, ne peut que se laisser traverser elle-même par ces questions – qui viennent et arrivent ‘de’ la musique. Précisément dans le sillage de cette recherche – éthique et non pas esthétique – qui, dès le début du XXe siècle, palpite au cœur des œuvres des compositeurs et de la musique elle-même. Et qu’il faut sentir palpiter dans notre propre cœur aussi. Comme l’a toujours fait, et comme nous apprend à le faire, Vladimir Jankélévitch – en pensant avec la musique.
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Il m’est impossible, dans l’espace de cette intervention, de m’engager dans cette thématique étant donné son ampleur et la multiplicité des références. Je me limiterai à dire que, comme chacun sait, à partir de Debussy et Webern en particulier, et tout au long du XXe siècle, la recherche musicale a privilégié le travail sur les masses phoniques, les timbres, la matière sonore. Une recherche qui a été conduite de Messiaen jusqu’à Boulez, Varèse, Pousser, Ligeti, Xénakis, Schaeffer… pour ne citer que quelques noms. Dans ce cadre, il faut signaler (aussi pour son ascendance bergsonienne) le travail du compositeur “spectraliste” Gérard Grisey, sur les Espaces acoustiques (titre qui n’est pas par hasard celui d’une complexe composition musicale datant de 1981, qui élabore des flux de matériau phonique), dont il faut v. aussi les essais: La musique. Le devenir des sons, dans “Darmstädter Beiträge zur Neuen Musik”, XIX, 1984; Tempus ex machina, dans “Entretemps”, IV, n. 8, 1989. Il est aussi significatif que la réflexion philosophique récente tourne autour de ces expériences. V. en particulier P. Szendy (sous la direction de), L’écoute, L’Harmattan, Paris 2000; Id., Écoute. Une histoire de nos oreilles, Minuit, Paris 2001; M. Imberty (sous la direction de), De l’écoute à l’œuvre, L’Harmattan, Paris 2001; Sonic Process. Une nouvelle géographie des sons, Éd. du Centre Pompidou, Paris 2002; J.-L. Nancy, À l’écoute (Galilèe, Paris 2002); D. Cohen-Lévinas (sous la direction de), Le temps de l’écoute. Gérard Grisey ou la beauté des ombres sonores, L’Harmattan, Paris 2004.
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Abstracts
La lunga riflessione di Jankélévitch all’interno della musica, che non a caso scorrre di pari passo con quella filosofica, non solo apre ad un pensiero dell’essere delle cose radicalmente diverso – “insostanziale” e “ineffabile” – (di cui la musica è appunto il riverbero più vivido), ma proprio perciò dischiude la possibilità di una filosofia della musica diversamente impostata. Non più come ambito di analisi storico-tecniche, ma come “luogo di domanda”, che per un verso decostruisce le categorie tradizionali di forma, soggetto, identità, tempo unilineare; per un altro apre la strada a nuovi interrogativi, sulla forma musicale, la materia sonora, la stessa percezione acustica. Inteorrogativi che si riflettono e si ripiegano sulla filosofia stessa, spingendola o sollecitando in essa questioni oggi più che mai urgenti. In tal senso Jankélévitch inaugura quella che potrebbe essere chiamata, con una espressione polisemica: una filosofia ‘dalla’ (= a partire/donata/ricevuta – dalla) musica. La longue réflexion de Jankélévitch dans le domaine de la musique, qui – et ce n’est pas un hasard – suit le même cours que sa réflexion philosophique, non seulement débouche sur une pensée de l’être des choses radicalement différente – “nonsubstantielle” et “ineffable” – (dont la musique est précisément le plus brillant reflet), mais, précisément pour cela, ouvre la possibilité d’une philosophie de la musique autrement articulée. Non plus comme domaine d’analyses historico-techniques, mais comme “lieu de questions”, qui, d’un côté, déconstruit les catégories traditionnelles de forme, sujet, identité, temps unilinéaire, et, d’un autre côté, ouvre la voie à de nouvelles questions, sur la forme musicale, la matière sonore, ou la perception acoustique même. Questions qui se reflètent et se replient sur la philosophie elle-même, la provoquant, ou sollicitant en elle des problèmes dont l’urgence est manifeste aujourd’hui plus que jamais. Dans ce sens, Jankélévitch inaugure ce qu’on pourrait appeler, d’une expression polysémique: une philosophie ‘depuis’ (= à partir de, donnée par, reçue de) la musique. The lasting thought of Jankélévitch within music, which not by mere chance coincides with that of philosophy, not only opens up to a thought of the being of things that is so radically different – “unbearable” and “ineffable” – (of which music is the most vivid reflection) – but it is for this very reason also allow the possibility of a music philosophy differently set. No longer within the context of
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Enrica Lisciani Petrini - Philosopher ‘depuis’ la musique
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historical-technical analysis, but rather as “a place of questions”, that on the one hand deconstructs the traditional categories of form, subject, identity and unilineal time, while on the other, opens up the way to a new debate on musical form, sound fields and acoustic perception. This debate reflects and relate to philosophy, posing questions that are now more urgent than ever. In this sense, Jankélévitch creates what could be called using a polysemic expression: a philosophy ‘from’ (= starting from/donated/received) music.
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Bibliografia/Bibliographie1 A cura di/Sous la direction de DANIELA CALABRÒ
1. Scritti di Vladimir Jankélévitch 1.1 Filosofia e scritti di vario genere 1.1.1. Volumi 1931, Henri Bergson, la éd., Alcan, Paris; 2a éd. aum., PUF, Paris 1959; 3a éd., ivi, Paris 1975; 4a éd., ivi, Paris 1989; trad. it. di G. Sansonetti, Morcelliana, Brescia 1991. 1933, L’Odyssée de la conscience dans la dernière philosophie de Schelling, Alcan, Paris. — Valeur et Signification de la mauvaise conscience, la éd., Alcan, Paris; La Mauvaise Conscience, 2a éd. (aum.), PUF, Paris 1939; 3a éd., ivi, Paris 1951; 4a éd., Aubier-Montaigne, Paris 1966; 5a éd., ivi, Paris 1982; trad. it. a cura di D. Discipio, La cattiva coscienza, Dedalo, Bari 2000. 1936, L’Ironie, la éd., Alcan, Paris; L’Ironie ou la bonne conscience, 2a éd., PUF, Paris 1950; L’Ironie, 3a éd., Flammarion, Paris 1964; 4a éd., ivi, Paris 1972; 5a éd., ivi, Paris 1979; trad. it. di F. Canepa, L’ironia, II Melangolo, Genova 1987, 2° éd., ivi, 1997. 1938, L’Alternative, Alcan, Paris; ripreso in L’Aventure, l’Ennui, le Serieux, Aubier-Montaigne, Paris 1963, cap. II. 1942, Du Mensonge, la éd., Confluences, Lyon; 2a éd., ivi, Lyon 1945; ripreso in Traité des vertus, Bordas, Paris 1968-1972, cap. IX; trad. it. di M. Motto, La menzogna e il malinteso, Cortina, Milano 2000. 1947, Le Mal, Arthaud, Paris; ripreso in Traité des vertus, Bordas, Paris 19681972, capp. XIII-XIV; trad. it. a cura di R. Peccenini, Il male, Marietti, Genova 2003. 1949, Traité des vertus, la éd., Bordas, Paris; 2a éd. aum., tomo I: Le sérieux de l’intention, Bordas-Mouton, Paris 1968; 3a éd. Flammarion, Paris 1984; tomo II: Les Vertus et l’Amour, Bordas-Flammarion, Paris 1970; 2a éd. Flammarion, Paris 1986; tomo III: L’innocence et la méchanceté, Bordas-Flammarion, Paris 1972; 2a éd. Flammarion, Paris 1986; trad. it. parziale di E. Klersy Imberciadori, 1
La Bibliografia qui presentata riprende e aggiorna fino al 2009 quella già pubblicata in “aut aut”, 1995, n. 270. / La présente Bibliographie reprend et met à jour, jusqu’à 2009, celle déjà publiée dans “au aut”, 1995, n. 270.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
Trattato delle virtù, a cura di F. Alberoni, intr. di R. Maggiori, Garzanti, Milano 1987, 2° éd., ivi, 1996. 1954, Philosophie première. Introduction à une philosophie du “presque”, PUF, Paris; 2a éd. 1986; trad. it. di un cap., La via negativa, G. Gabetta, “aut-aut”, 1987, n. 219. — L’austérité et le mythe de la pureté morale, C.D.U. (Les cours de la Sorbonne-Lettres), Paris; ripreso in L’Austérité et la Vie morale, Flammarion, Paris 1956. 1957, Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien, PUF, Paris; 2a éd. aum., Seuil, Paris 1980: tomo I, La manière et l’occasion; tomo II, La méconnaissance. Le malentendu; tomo III, La volonté de vouloir; trad. it. di C. Bonadies, Il non-so-che e il quasi niente, Marietti, Genova 1987. 1960, Le Pur et l’Impur, Flammarion, Paris; 2a éd., ivi, Paris 1978. 1963, L’Aventure, l’Ennui, le Sérieux, la éd., Aubier-Montaigne, Paris; 2a éd., ivi, Paris 1976; trad. it. di C. Bonadies, L’avventura, la noia, la serietà, Marietti, Genova 1991. 1966, La Mort, la éd., Flammarion, Paris; 2a éd., ivi, Paris 1977; trad. it. a cura di E. Lisciani Petrini, La morte, Einaudi, Torino 2009. 1967, Le Pardon, Aubier-Montaigne, Paris; trad. it. di L. Aurigemma, II perdono, IPL, Milano 1969. 1971, Pardonner? [Suivi de deux lettres de P. Abraham et J. Madaule et des réponses de V. Jankélévitch], Le Pavillon, Roger Maria, Paris; trad. it. di D. Vogelmann, Perdonare?, La Giuntina, Firenze 1987 e 1988. 1974, L’Irréversible et la Nostalgie, la éd., Flammarion, Paris; 2a éd., ivi, Paris 1983. 1978, Quelque part dans l’inachevé (conversazione-intervista con V. Jankélévitch condotta da Beatrice Berlowitz), Gallimard, Paris; 2a éd., ivi, Paris 1987; trad. it. parz. del XVIII cap., Vagabondo umorismo, in R. Prezzo (a cura di), Ridere la verità, Cortina, Milano 1994; trad. it. di M. Osti del XXI cap., “Il rumore del silenzio”, in “Tellus”, maggio 1993, 9; trad. it. di E. Lisciani Petrini del II cap., Qualcosa di semplice, di infinitamente semplice, in “aut aut”, 1995, n. 270; e del cap. XXII, La musica dei mormorii, ivi. 1981, Le Paradoxe de la Morale, la éd., Seuil, Paris; 2a éd., ivi, Paris 1989; trad. it. di R. Guarini, II paradosso della morale, Hopeful Monster, Firenze 1986. 1984, Sources, a cura di F. Schwab, Seuil, Paris; trad. it. parz. di D. Vogelmann, La coscienza ebraica, La Giuntina, Firenze 1986. 1986, L’Imprescriptible, (Pardonner? Dans l’honneur et la dignité), Seuil, Paris. 1994, Penser la mort?, L. Levi, Paris; 2° éd., ivi, 2000; trad. it. a cura di E. Lisciani Petrini, Pensare la morte?, Cortina, Milano 1995. — Premières et Dernières Pages, a cura di F. Schwab, Seuil, Paris. 1995, Une vie en toutes lettres, a cura di F. Schwab, L. Levi, Paris. 1998, Philosophie morale, a cura di F. Schwab, Flammarion, Paris. — Plotin, “Ennéades” I, 3. Sur la dialectique, préface par L. Jerphagnon, édition établie par J. Lagrée et F. Schwab, Cerf, Paris. 2006, Cours de Philosophie Morale, notes recueillies à l’Université libre de Bruxelles 1962-1963, texte établi, annoté et préfacé par F. Schwab, Seuil, Paris.
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Bibliografia/Bibliographie
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1.1.2. Articoli, prefazioni, interviste 1924, Deux philosophes de la vie: Bergson et Guyau, in “Revue philosophique de la France et de l’étranger”, 2; poi in Premières et Dernières Pages, cit., cap. I. 1925, Georg Simmel, philosophe de la vie, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, n. 2 e 3; poi in G. Simmel, La tragédie de la culture et autres essais, Rivages, Paris 1988, “Introduction” di V. Jankélévitch. — Les thèmes mystiques dans la pensée russe contemporaine, in “Mélanges publiés en l’honneur de Paul Boyer”, Champion, Paris (travaux publiés par l’Institut d’Études Slaves); poi in Premières et Dernières Pages, cit., cap. VII. 1928, Signification spirituelle du principe d’économie, in “Revue philosophique de la France et de l’Étranger”, n. 1; poi in L’Alternative, cit., e in Premières et Dernières Pages, cit., cap. VIII. — Prolégomènes au bergsonisme, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, n. 4; poi in Henri Bergson, cit., capp. I, II, III, V. 1929, Bergsonisme et biologie, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, n. 2; poi in Premières et Dernières Pages, cit., cap. II. 1933, Les deux sources de la morale et de la religion d’après Bergson, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, n. 1; poi in Henri Bergson, cit., cap. V. 1939, De l’ipseité, in “Revue Internationale de Philosophie”, n. 5; poi in Premières et Dernières Pages, cit., cap. IX. — La méchanceté, in “Annales de l’Ecole des Hautes Etudes de Gand”, t. III; poi in Le Mal, cit. 1940, Le mensonge, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, n. 1; poi in Du Mensonge, cit., e in Traité des vertus, cit., cap. IX. 1943, De la simplicité, in “Cahiers du Rhone”, n. 5; poi in Henri Bergson, cit., cap. VII. 1946, Le masculin et le féminin, in “Deucalion”, n. 1; poi in Traité des vertus, cit., cap. VIII. — Psychanalyse de l’antisémitisme, in “Le Labyrinthe”, n. 19. 1947, La déception, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, n. 1; poi in Traité des vertus, cit., cap. XIV. — Quelques camarades..., in “Bulletin du service central des déportés israélites”, n. 12. 1948, Dans l’honneur et la dignité, in “Les Temps Modernes”, n. 33; poi in L’Imprescriptible, cit. 1949, Du sérieux, in “Proceedings of the Tenth International Congress of Philosophy”, North Holland Publishing Company, Amsterdam; poi in L’Aventure, l’Ennui et le Sérieux, cit., cap. III. — In memoriam Paul Desjardins (1859-1940), in “Bulletin de l’union pour la Vérité, Cahiers de Pontigny”, Minuit, Paris; poi in Premières et Dernières Pages, cit., cap. XIII. — Les philosophes et l’angoisse, in “Revue de Synthèse”, n. 66; poi in L’Aventure, l’Ennui et le Sérieux, cit., cap. II.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
— La liberté et l’ambiguïté, in “Actes du IVe Congrès des Sociétés de Philosophie de langue française”, La Baconnière, Neuchâtel, n. 29; poi in Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien (1957), cit., cap. III. — Goebbels avait raison..., in “Europe”, n. 29. — Justice et logos, in “Evidences”, New York. 1950, Décadence, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, n. 4; poi in L’Austérité et la Vie morale, cit., cap. I, e in “Revue de Métaphysique et de Morale”, Hommage à Vladimir Jankélévitch, 1985, n. 1. — La consolation et l’inconsolable, in “Synthèses”, poi in La Mauvaise Conscience, cit., cap. II. — Le rôle actif du témoin, in “Évidences”, New York. 1951, Machiavélisme et modernité, in Aa.Vv., Umanesimo e Scienza politica, Marzorati, Milano; poi in Premières et Dernières Pages, cit., cap. X. — Henri Bergson, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, n. 1; poi in “Revue internationale d’histoire politique et constitutionnelle” gen. 1952, e in Premières et Dernières Pages, cit., 1994, cap. III. — L’optimisme bergsonien, in “Évidences”, n. 1; poi in Henri Bergson, cit., cap. VII. — Apparence et manière, in “Hommenaje a Gracián”, Istitucion Fernando el Catolico, Saragosse. 1953, Mystique et dialectique chez Jean Wahl, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, n. 4; poi in Sources, cit. — La philosophie du ‘presque’ et l’intuition du ‘presque-rien’, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, poi in Philosophie première, cit. 1954, “Le presque-rien”, in “Bulletin de la Société française de Philosophie”, n. 3; poi in Premières et Dernières Pages, cit., cap. XI. — Préface a P. Fauré-Fremiet, Esquisse d’une philosophie concrète, PUF, Paris. — Le bon combat, in “Droit et Liberté”, 15 gen. — Ne réarmez pas l’Allemagne, in “Droit et Liberté”, 27 giu. — Conséquences d’une abominable entreprise, in “Bulletin du service central des déportés israélites”, n. 134, poi anche in “Droit et Liberté”, giu. 1955, La volonté de vouloir, in “Archivio di Filosofia”, n. 2; poi in Le ]e-ne-saisquoi et le Presque-rien (1957), cit., cap. III — Le Senne moraliste, in “Études philosophiques”, n. 3. — Philippe Fauré-Fremiet (1889-1954), in “Revue philosophique de la France et de l’Étranger”, n. 80. 1956, Préface a Gaston Grua, La justice humaine selon Leibniz, PUF, Paris. — Ce que l’imagination se prête à concevoir, in “Amitiés France-Israël”, dic. — Bergson et le Judaïsme, in “Mélanges de philosophie et de littérature juives”, poi in Henri Bergson (Appendice). — Le prochain et le lointain (conférence prononcée lors du VIIIe Congrès des Sociétés de philosophies de langue française), in Aa.Vv., La présence d’autrui, PUF, Paris. — Léonid Andréiev (inedito); poi in Premières et Dernières Pages, cit., cap. XIV. 1957, La responsabilité et son for intérieur, in «Revue internationale de philosophie”, n. 39; poi in Le ]e-ne-sais-quoi et le Presque-rien,(1957), cit., cap.
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Bibliografia/Bibliographie
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III; trad. it. di A. Guzzo, La responsabilità nel foro interiore, in “Filosofia”, 1957, n. 8. — Le judaïsme, problème intérieur (allocution prononcée au ler Colloque des intellectuels juifs de langue française), in Aa.Vv., La conscience juive. Données et débats, PUF, Paris; poi in Sources, cit. — La première et la dernière fois (conférence prononcée au Collège philosophique), in “Combat”, apr. — La conscience juive et la contradiction (allocution prononcée à la VIIIe assemblée générale du FSJU), in “L’Arche”, poi in Sources, cit. 1958, La purification et le temps, in “Archivio di Filosofia”, n. 1; poi in Le Pur et l’Impur, cit. — “Nous commémorons…”, commémoration du massacre de juin 1942 au Mont Valérien. — L’Aventure (conférence prononcée au Collège philosophique), in “Combat” 16 mag., e già in “Annales du Centre universitaire méditerranéen”, 8 apr., XIVe vol.; ripreso in L’Aventure, l’Ennui et le Sérieux, cit. 1959, Avec l’âme tout entière, in “Actes du Xe Congrès des sociétés de philosophie de langue française” (Bergson et nous), PUF, Paris, vol. I; poi in Henri Bergson, cit. — N’écoutez pas ce qu’ils disent, regardez ce qu’ils font, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, n. 2 (Pour le centenaire de Bergson); poi in Premières et Dernières Pages, cit., cap. IV. — L’éternité et la première impureté, in “Archivio di Filosofia”, n. 1; poi in Le Pur et l’Impur, cit. — Violencia y pureza, in “Episteme”. Annuario di filosofia, Caracas, n. 3; poi in Le Pur et l’Impur, cit., cap. III. — Quelle est la valeur de la pensée bergsonienne?, in “Arts-Spectacles”, 27 mag.; poi in Premières et Dernières Pages, cit., cap. V. 1960, Le pur et l’impur, in “La philosophie et ses problèmes”, E. Vitte, LyonParis. — Tolstoï et l’immédiat (testo tradotto dal russo da M. Zanuttini), in “Vozrojdenie”, n. 4; poi in Sources, cit. — Xavier Léon: souvenirs, in “Revue de Métaphysique et de morale”, n. 3. — Hommage solennel à Bergson, in “Bulletin de la Société française de philosophie”, poi in Premières et Dernières Pages, cit., cap. VI. 1961, La pensée de la mort et la mort de l’être pensant, in “Archivio di Filosofia”, n. 3; poi in La Mort (1966), cit., cap. III. — Philosophie de la tolérance, in «Les Droits de l’Homme et l’Éducation” (Actes du Congrès du centenaire de l’Alliance Israélite universelle), PUF, Paris; poi in Traité des vertus (1968-1972), cit., t. II, cap. XI. 1962, With the whole Soul, in “The Bergsonian Heritage”, Thomas Hanna éd., Columbia University Press, New-York; già in Henri Bergson, cit., (conclusione). — L’arte del sortilegio, in Aa.Vv., Manuel de Falla, a cura di M. Mila, Ricordi, Milano. — L’Intention pure, in “Archivio di Filosofia”; già in Le Pur et l’Impur, cit.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
1963, Le Judaïsme, problème intérieur, in Aa.Vv., La conscience Juive. Données et débats (Textes des trois premiers colloques d’intellectuels juifs de langue française, organisés par la section française du congrès juif mondial, présentés et revus par E. A. Levy-Valensi et J. Halperin), préface d’ A. Neher, PUF, Paris; poi in Sources, cit. — Hommage à Edmond Fleg (allocution prononcée à la Maison de la chimie), in “La Vie juive”. — La méconnaissance, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, n. 4; poi in Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien, cit. — Les missions chrétiennes de l’État juif, in “La Terre retrouvée”, nov. — La laïcisation de la théocratie israélienne est une nécessité inéluctable, in “Amitiés France-Israël”, nov. — Hommage à la résistance. Allocution prononcée à l’occasion du XXe anniversaire de l’U.J.R.E. (1943 – 1963). 1964, La mort et la profondeur, in “L’aventure de l’esprit” (Mélanges A. Koyré, vol. II), Hermann, Paris; ripreso in La Mort, cit., capp. I-II — Hommage à Edmond Fleg. Une musique invisible, in “Combat”, 15 ott. — Hommage à la Résistance universitaire. Allocution prononcée à l’UNESCO sous le patronage de l’UFU le 28 novembre pour le XXe anniversaire de la Libération. 1965, Un État comme les autres (allocution prononcée au 7e Colloque des intellectuels juifs de langue française, “Israël et la vie juive”, 24 ott.); poi in Sources, cit. — L’imprescriptible, in “Le Monde”, 3-4 gen. e in “La Revue administrative”, gen.-feb., n. 103, poi in Pardonner?, cit., e in L’Imprescriptible, cit. — Le diurne et le nocturne chez Jean Cassou, in “Cahiers du Sud”, n. 382; poi in Premières et Dernières Pages, cit., cap. XV. — L’espérance et la fin des temps, in Aa.Vv., La conscience juive face à l’histoire: le Pardon (4e Colloque des intellectuels juifs: “Le messianisme juif et les fins de l’histoire”), PUF, Paris; poi in Sources, cit. — Discours de clôture, ivi. — V. Jankélévitch estime que nous ne savions pas tout sur les atrocité nazies…, interview de P. Mazars, in “Le Figaro Littéraire”, jan. — Introduction au thème du pardon, in “5e Colloque des intellectuels juifs de langue française”, poi in Le Pardon, cit. 1966, Préface a M. Barthélemy-Madaule, Bergson adversaire de Kant, PUF, Paris. — Le temps et la vie morale, in “Cahiers de Philosophie”, n. 2-3; poi in Le paradoxe de la morale, cit. — Faut-il dire la vérité au malade?, in “Médecine de France”, n. 177. — Explorer toutes les possibilités d’accord, in “Amitiés France-Israël”, 10 mag. — Un grave manque d’humour, in “L’Arche”, sett. 1967, A propos d’un livre: La Mort (intervista), in “Harangues”, poi in Penser la mort?, cit., cap. I. 1969, Commémoration du centenaire de la naissance de Xavier Léon, in “Bulletin de la société française de philosophie”, n. 1; poi in Sources, cit.
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Bibliografia/Bibliographie
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— Préface a R. Catherine et G. Thuillier, Introduction à une philosophie de l’Administration, A. Colin, Paris. — Préface a Pierre-Michel Klein, Perpétuels Augures, Éditions de la Grisière, Paris. 1970, Commémoration du centenaire de Léon Brunschvicg, in “Bulletin de la Société française de philosophie”, n. 1; poi in Sources, cit. — Réflexions sur la mort (intervista), in “La pensée et les hommes”, Bruxelles, dic. n. 14; poi in Penser la mort?, cit., cap. II. — Message in Le déporté juif, in “Bulletin de l’Amicale des Anciens déportés juifs de France et familles de disparus”, déc. 1971, L’humour est la revanche de l’homme faible, in “Les Nouvelles littéraires”, dic. — Rassembler ou dissembler (Colloque des intellectuels juifs de langue française), in Aa.Vv., Tentations et Actions de la conscience juive, PUF, Paris; poi in Sources, cit.. — V. Jankélévitch, philosophe de l’ineffable (entretien avec F. Reiss), in “Les Nouvelles littéraires”, 4 mar. — La cause de Beate Klarsfeld est notre cause…, in “Le droit de vivre”, avril. — V. Jankélévitch, un philosophe pas comme les autres (entretien avec F. Reiss), in “Le Monde”, 10 dic. — Allocution à l’occasion de l’inauguration de la salle François Cuzin (1914 – Mont Valérien, 1944), Sorbonne, notice biographique. 1972, La mort à la troisième, à la deuxième et à la première personne, in “Delo”, Yougoslavie, n. 4; già in La Mort, cit., cap. XVIII. — Les mémoires d’un bourreau, in “Combat”, 29 mai. — Lettres écrites dans le cadre de la protestation contre la libération de Touvier, in “Combat”, 19 juin. — Touvier: Une faveur plus qu'une grâce, interview de Victor Malka, in “L’Arche”. — Non, nous ne jetterons pas la voile..., Châteaubriant, in “Journal de l’Association des familles de fusillés et massacrés de la Résistance française”, octobre 1972, n. 98. 1973, Prochaine et lointaine, la femme... (Colloque des intellectuels juifs de langue française), in Aa.Vv., L'autre dans la conscience juive, PUF, Paris, poi in Sources, cit. — À propos de l’euthanasie (intervista inedita); poi in Penser la mort?, cit., cap. III. — Le livre de la fidélité 1948-1973, in “Amitiés France-Israël”. — Il y a 30 ans, le ghetto de Varsovie – Les morts ont besoin de nous, in “Information Juive”. — Israël vivra, in “Information Juive”, oct., n. 234. 1974, De l'amour, prefazione a Louis Sala-Molins, La philosophie de l'amour chez Raymond Lulle, La Haye-Mouton, Paris; poi in Premières et Dernières Pages, cit., cap. XVI. — Mr Brandt, libérez Beate!, in “Combat”, 22 avril.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
1975, Mystique et dialectique chez Jean Wahl, in “Études philosophiques”, (2a éd.), n. 1; poi in Sources, cit. — Philosophes et bovidés, in “Le Nouvel Observateur”, 17 mar. — Corps, violence et mort (intervista), in “Quel corps?”, Maspero, Paris; poi in Penser la mort?, cit., cap. IV. — L’occasion et l’aphoristique, in “Bulletin de la Société de Philosophie de Bordeaux”, n. 99. — Lettre à Henry Bulawko: “De l’antisémitisme”, in “Information Juive”, juillet. 1976, Hommage à Jacques Decour (1912 – Mt. Valérien, 1944), manuscrit. notice biographique. — Après la mort d'Heidegger. Il faut des philosophes (intervista), in “Paradoxes”. — Le sionisme d’un Juif de gauche, in “Cahiers Bernard Lazare”, entretien, janv.fév. — Contre la répression, in “La Presse Nouvelle Hebdomadaire”, 9 avril. 1977, Une monstrueuse apothéose, in “Quel corps?”, Maspero, Paris, n. 6. — Préface a H. Bulawko, Jeux de la mort et de l’espoir, Recherches, Paris. — Difficultés du pardon (intervista), in “La Vie spirituelle”, mar., n. 619. — Il existe une nouvelle misère juive, in “La Presse Nouvelle Hebdomadaire”, 18 nov. 1978, Nous avions beau savoir..., in “Le Nouvel Observateur”, 22 mag. — La Méconnaissance, in “Art-Press international”, sett.; poi in Le ]e-ne-sais-quoi et le Presque-rien,(1980) cit., t. II. — Réveille-toi, impalpable, prefazione a M. Clerbout, Poèmes. Pour un nuage violet, Mortemart-Rougerie, Paris. — Préface a P. Boudot, Douceur ou la Passion selon Yahvé (drame en 3 actes, publié par le Secours catholique), Édition S.O.S, Paris. — Contre l’oubli Châteaubriant, in “Journal de l’Association des familles de fusillés et massacrés de la Résistance française”, juin-août, n. 113. — 1979 Entretien, in “L’Arc”, n. 75. — Méconnaissance de la mort, in “L’Arc”, n. 75. — États Généraux de la Philosophie, 16-17 juin, in Aa.Vv., Pour la philosophie, Flammarion, Paris. — La haine devant le miroir (intervista), in “Le Nouvel Observateur”. — Il faut que la jeunesse prenne conscience, “Cahiers Bernard Lazare”. — Ce qui est humain ce n’est pas l’oubli mais la mémoire, la vigilance et la fidélité…, in “La Presse nouvelle hebdomadaire”,15 juin. 1980, L’ambiguïté morale et son for intérieur, in “Philosopher”, Fayard, Paris; poi in Le paradoxe de la morale, cit. — Temporalité et méconnaissance, in Aa.Vv., Esistenza, mito, ermeneutica. Scritti per Enrico Castelli, in “Archivio di Filosofia”, vol. I; poi in Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien, cit. — La vérité par hasard, in “Le Nouvel Observateur”, 14 janv. — Qui a peur de la philosophie?, in “Esprit”, feb. — L’enfer et le délire d’Auschwitz, in Le Monde, 7 mars à propos du livre de V. Pozner.
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Bibliografia/Bibliographie
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— Allocution pour l’Association nationale des Anciennes déportées et Internées de la Résistance, Sorbonne. — Préface pour la réédition des “Jeux de la mort et de l’espoir” de Henry Bulawko, Éd. Recherches, Paris. 1981, Tolstoj et la mort, in “Cahiers Renaud-Barrault”; poi in Sources, cit. 1982, La vérité est sanglante, in “Traces”, n. 5. — C’est le moment d’accorder un petit crédit à Arafat, interview dans Libération, 8 juillet. — L’appel que j’ai signé […] pour la paix au Liban…, article paru dans Le Monde, et lettre du 10 juillet adressée à François George. — Cher ami, je suis bien loin de revendiquer pour moi-même la vérité totale, Lettre adressée à F. Georges. 1983, Le philosophe et l’histoire, in “Revue de l’Association des professeurs d’histoire et de géographie de l’enseignement public”. — L’art d’être philosophe. Libre parcours, in “Magazine de l’éducation”, 23 feb. 1983. — Contre l’oubli (dattiloscritto inedito). — La germanophilie et le goût du néant (dattiloscritto inedito). — Hommage à A. Hoérée et A. Peeters, in “Zodiaque”, apr., n. 128. 1985, “Un manifestant pour Beyrouth”, Libération, 7 juin. 1987, La sérénade interrompue, in Aa.Vv., Ravel par lui-même et ses amis, a cura di J. Bonnaure, Maule, Paris. 1995, Lettres à un ami, 31 octobre 1927 et 9 février 1944, in “magazine littéraire”, juin, n. 333. — Lettres pour un pardon, juin, 1 juillet et 5 juillet (correspondance inédite entre W. Raveling, F.-R. Bastide et V. Jankélévitch), ivi. 2004, Lettre de Vladimir Jankélévitch, 7 avril et 20 juin 1979, in “Les cahiers de l’Herne”, n. 83.
1.2 Musica 1.2.1. Volumi 1938, Gabriel Fauré et ses mélodies, la éd., Plon, Paris; poi in Gabriel Fauré, ses mélodies, son esthétique, 2a éd. aum., ivi, 1951. 1939, Ravel, la éd., Rieder, Paris; 2a éd., Seuil, Paris 1956; 3a éd., ivi, 1975; 4a éd., ivi, 1988; trad. it. di L. Lovisetti, Mondadori, Milano 1962. 1942, Le Nocturne, la éd., A. C., Lyon; poi in Le Nocturne: Fauré, Chopin et la nuit, Satie et le matin, 2a éd., Albin Michel, Paris 1957; ripreso in La Musique et les Heures, Seuil, Paris 1988, capp. I, III, IV. 1949, Debussy et le Mystère, la éd., La Baconnière, Neuchâtel; trad. it. di C. Migliaccio, Debussy e il mistero, a cura di E. Lisciani Petrini, il Mulino, Bologna 1991; ripreso in Debussy et le Mystère de l’instant, t. II della raccolta De la musique au silence, Plon, Paris 1976.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
1955, La Rhapsodie. Verve et Improvisation musicale, Flammarion, Paris. 1961, La Musique et l’Ineffable, Armand Colin, Paris; 2a éd., Seuil, Paris 1983; trad. it. a cura di E. Lisciani Petrini, La musica e l’ineffabile, Ed. Tempi Moderni, Napoli 1985, e Bompiani, Milano 1998, 2001. 1968, La Vie et la Mort dans la musique de Debussy, La Baconnière, Neuchâtel. 1974, -1979 De la musique au silence, raccolta prevista in 7 tomi che doveva riprendere e riunire i testi più importanti di Jankélévitch sulla musica. Ne sono stati pubblicati invece, presso Plon, soltanto tre: Fauré et l’Inexprimable, la éd., Plon, Paris 1974; 2a éd., Presses Pocket, Paris 1988. Debussy et le Mystère de l’instant, la éd., cit., Plon, Paris 1976; 2a éd., ivi, 1989. Liszt et la Rhapsodie, la éd., Plon, Paris 1979; Liszt et la Rhapsodie. Essai sur la virtuosité, 2a éd., ivi, 1989. 1983, La Présence lointaine, Albéniz, Séverac, Mompou, Seuil, Paris. 1988, La Musique et les Heures, a cura di F. Schwab, Seuil, Paris. 1998, Liszt. Rhapsodie et Improvisation, édition établi par F. Schwab, Flammarion, Paris (chapitres 1 et 5 de La Rhapsodie. Verve et Improvisation Musicale, cit.).
1.2.2. Articoli, prefazioni, interviste 1929, Franz Liszt et les étapes de la musique moderne, in “Musique”, n. 4. 1936, Le symbolisme et la musique: Satie le simulateur, in “Europe”, n. 162; poi in Le Nocturne, (1957), cit., cap. 1, e in La Musique et les Heures, cit. 1937, Le nocturne, in “Cahiers du Sud” poi in La Musique et les Heures, cit. 1945, Pelléas et Pénélope, in “Revue historique et littéraire du Langue doc”; poi in Premières et Dernières Pages, cit., cap. XVII. 1946, En blanc et noir, in “Contrepoint”, n. 1. — Béla Bartók, in “Europe”, n. 1; poi in Premières et Dernières Pages, cit., cap. XVIII. 1947, Manuel de Falla, in “Europe”, n. 16; poi in Premières et Dernières Pages, cit., cap. XIX. 1948, François Liszt et la muse de la rhapsodie, in “Europe”, n. 26; poi in La Rhapsodie. Verve et improvisation musicales, cit., cap. I. — Marguerite Hasselmans et Gabriel Fauré, in “Europe”, n. 29. 1949, Chopin et la mort. Variations sur une pièce breve, in “Peuples amis. Revue de l’amitié franco-polonaise”; poi in Le Nocturne, cit., cap. II, e in La Musique et les Heures, cit., cap. IV. — Joaquin Nin, inedito; poi in Premières et Dernières Pages, cit., cap. XXI. 1952, De la Rhapsodie, in “Mélanges d’Esthétique et de Science de L’Art”, Nizet, Paris; poi in La Rhapsodie. Verve et improvisation musicales, cit. 1953, De l’improvisation, in “Archivio di Filosofia” n. 1; poi in La Rhapsodie. Verve et improvisation musicales, cit.; trad. it. di A. Arbo, in “Nuova rivista musicale italiana”, 1993, n. 2.
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Bibliografia/Bibliographie
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— Joie et tristesse dans la musique russe d’aujourd’hui, in “L’Age nouveau”, n. 82; poi in La Musique et les Heures, cit. 1954, Le lointain dans l’œuvre de Déodat de Séverac, in “Les Dialogues. Revue des problèmes culturels de l’enseignement dans le monde”; poi in La Présence lointaine, cit. — La rhapsodie et l’état de verve, in “Revue Philosophique de la France et de l’Etranger”, n. 1-3; poi in La Rhapsodie. Verve et improvisation musicales, cit. 1955, Albéniz et l’état de verve, in “Mélanges d’histoire et d’esthétique musicales”, Richard Masse, Paris, t. II; poi in La Présence lointaine, cit. 1957, Philosophie et musique, in “Encyclopédie Française”, poi in La Musique et l’Ineffable, (1961), cit. — Liszt et l’Europe, in “Centre européen universitaire de Nancy”. — F. Liszt et les écoles nationales (conferenza inedita). 1958, Gabriel Fauré et ses disciples, 21 lug. — Gabriel Fauré et son temps, 9 e 13 lug. — Gabriel Fauré et le mystère, 20 apr.: programmes de concert de Foix. 1971, Le message de Mompou, in “Scherzo”, apr. — Louis Aubert, in “Scherzo”, ott.; poi in Premières et Dernières Pages, cit., cap. XX. — Préface a S. Jarocinski, Debussy: impressionisme et symbolisme, Seuil, Paris; trad. it. di M. G. D’Alessandro, Discanto, Fiesole 1979. 1972, Le vrai centenaire de Séverac, in “Scherzo”, giu. — Préface a W. Evrard, Scriabine, José Millas-Martin, Paris. 1973, Déodat de Séverac et la déambulation, brochure à l’occasion du centenaire de Déodat de Séverac; poi in La Présence lointaine, cit. 1977, La musique et le corps, in “Quel corps?”, Maspero, Paris, n. 3. — Debussy: Pelléas et Melisande (intervista), in “L’avant-scène Opéra”, n. 9. 1979, Rachmaninov: le dernier des poètes inspirés, pochette du disque de F J. Thiollier; poi in Sources, cit. — A l’écoute de Vladimir Jankélévitch (intervista), in “Diapason”, ott. 1983, Pour le cœur du moulin, (libretto di sala dell’Opera de Paris), gen.; poi in La Présence lointaine, cit., cap. III. 1993, Correspondance entre Vladimir Jankélévitch et Federico Mompou, in “Bulletin de la Société nationale de musique”, ott.-dic.
2. Scritti su Vladimir Jankélévitch Aa.Vv., Écrit pour Vladimir Jankélévitch, Flammarion, Paris 1978. Aa.Vv., Seminario. Letture e discussioni intorno a Lévinas, Jankélévitch, Ricœur, a cura di L. Boella, Unicopli, Milano 1988. Aa.Vv. Vladimir Jankélévitch, in “Lignes”, 1996, n. 28, scritti di R. Alcoberro, D.W. Breucker, G. Cahen, F. Fabre, R. Fregosi, B. Imbert-Vier, L. Jerphagnon, P.M. Klein, M. J. Konigson-Montain, A. Le Guyader, E. Lisciani Petrini, J. Maurel, C. Migliaccio, H. Politis, L. Sala-Molins, F. Schwab, P. Trotignon.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
J. Aguila, Dix ans après: relire Vladimir Jankélévitch, in J. Gribenski, M.-C. Mussat, H. Schneider, (éd.), D’un opéra à l’autre. Hommage à Jean Montgrédien, Presses de l’Université de Paris-Sorbonne, Paris 1996. E.S. Apter, Le charme philosophal, in “Critique”, 1989, n. 500-501. J. Ayala, Vladimir Jankélévitch, admirateur de Gracian, in “Philosophie”, 19861988, n. 12-14. J.P. Barou, Notes dissonantes, in “L’Arc”, 1979, n. 75. M. Barthelemy-Madaule, Le “Traité des vertus” de Vladimir Jankélévitch, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, 1951, n. 4. Id., Autour du Bergson de V. Jankélévitch, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, 1960, n. 4. M. Basset, “Des pensées qui tendent au silence”, in Aa.Vv., Écrit pour Vladimir Jankélévitch, cit. L. Baumann, Vladimir Jankélévitch Entwurf einer Ersten Philosophie, in “Prima Philosophia”, 1988, n. 1. E. Bazzanella, V. Jankélévitch, ‘Debussy e il mistero’, in “aut aut”, 1992, n. 250. Id., Tempo e Linguaggio. Studio sul pensiero di Vladimir Jankélévitch, Franco Angeli, Milano 1994. L. Béghin, Romantisme et raison chez Ginzburg et Jankélévitch, in “La Revue Nouvelle”, 1999, (109), n. 2. B. Berlowitz, Jankélévitch et la mort, in “Critique”, 1970, n. 278. A. E. Bertheau, Bibliographie de Vladimir Jankélévitch, in Aa.Vv., Écrit pour Vladimir Jankélévitch, cit. G. Besse, Jankélévitch présent, in “Cahiers du Communisme”, 1985, n. 7-8. L. Boella, Fare il contrario. La riflessione morale di Vladimir Jankélévitch, in “aut aut” 1995, n. 270. R. Braun, Tiempo y virtud, segun V. Jankélévitch, in “Rev. Filos. La Pl.”, 1968, n. 20. P. Cainarca, “La mort”, in Aa.Vv., Seminario. Letture ..., cit. D. Campanale, recensione a ‘Le Je ne-sais-quoi et le Presque-rien’, in “Rassegna delle scienze filosofiche”, 1957. A. Canilli, L’ironia nel pensiero di Vladimir Jankélévitch, in “II Pensiero”, 1964, n. 9. B. Clarinval, Les procédés de composition et dérivation dans la formation du vocabulaire philosophique de V. Jankélévitch, Université Libre de Bruxelles, Bruxelles 1966. C. B. Clement, Vladimir Jankélévitch. Tout est à dire, in Les dieux dans la cuisine. Vingt ans de philosophie en France, Aubier, Paris 1978. Id., Au rhapsode, in Aa.Vv., Écrit pour Vladimir Jankélévitch, cit. Id., L’amour de la vie, in “L’Arc”, 1979, n. 75. Id., Le messager du printemps, in “magazine littéraire” juin 1995, n. 333. R. Commers, Het onzegbare en het onuitsprekelijke. Ethiek, metafysica en muziek bij Vladimir Jankélévitch. Met een vertaling van Vladimir’s Jankélévitchs La Musique et l’Ineffable, door R. Commers, VUB Press, Brussel 2005. G. Csepregi, La musique et le corps. Vladimir Jankélévitch sur l’art du piano, in Id., Sagesse du Corps, Éditions du Scribe, Aylmer 2001.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
Id., La musica dei mormorii, trad. it. del cap. XXII di V. Jankélévitch, Quelque part dans l’inachévé, Gallimard, Paris 1978, ivi. Id., Il nazismo e l’essere, presentazione di due articoli di V. Jankélévitch, trad. it. in “Micromega”, 2003, n. 5. Id., Jankélévitch, voce dell’Enciclopedia filosofica, vol. VI, Bompiani, Milano 2006. Id., Quartetto per un’ontologia del virtuale: Bergson, Jankélévitch, Merleau-Ponty, Deleuze, in “Il Pensiero”, 2008, n. 1. Id., Il pensiero filosofico musicale di Vladimir Jankélévitch, in C. Migliaccio (a cura di), Introduzione alla filosofia della musica, Utet – De Agostini, Novara 2009. Id., “Perché noi siamo solo la buccia e la foglia”, Introduzione alla trad. it. di V. Jankélévitch, La morte, Einaudi, Torino 2009. J. Lonchampt, Le rôle primordial de la musique. L’éblouissement du feu central, Le Monde, 8 giugno 1985. A. Lorente-Perinan, Le corps et l’être ou autopathie: l’espace potentiel de l’esse in via, in Aa.Vv., Écrit pour Vladimir Jankélévitch, cit. J.-J. Lubrina, Vladimir Jankélévitch. Les dernières traces du maître, J. Lyon, Paris 1999. G. Madaule, V. Jankélévitch, in Aa.Vv., Écrit pour Vladimir Jankélévitch, cit. R. Maggiori, Franchir, le seuil du réel, in “L’Arc”, 1979, n. 75. Id., Vladimir Jankélévitch et la morale de l’amour, in “Critique”, 1989, n. 500501. R. Maggiori, J. P. Barou, Intervista inedita a Vladimir Jankélévitch, in “Libération”, 8-10 giugno 1985. J. Maurel, La surprise. L’amour fou de la philosophie, in Aa.Vv., Écrit pour Vladimir Jankélévitch, cit. Id., “Des pas sur la neige”, in “L’Arc”, 1979, n. 75. Id., Le mal entendu, in “magazine littéraire”, juin 1995, n. 333. C. Migliaccio, Morte, ironia e verve musicale. La temporalità nella musica di Debussy secondo Jankélévitch, in Aa.Vv., Seminario. Letture..., cit. Id., Bergson pour maître, in “magazine littéraire”, juin 1995, n. 333. Id., L’odissea musicale nella filosofia di V. Jankélévitch, CUEM, Milano 2000. Id., L’Odyssée musicale dans la philosophie de Vladimir Jankélévitch, Presses universitaires du Septentrion, Lille 2000. M. Mihalovich, Songe, in “L’Arc”, 1979, n. 75. P. Necchi, L’assurdo e lo scandalo. Sulla filosofia del male di Vladimir Jankélévitch, in Aa.Vv., Seminario. Letture..., cit. D. Noguez, Cinq petits riens sur l’humour, in Aa.Vv., Écrit pour Vladimir Jankélévitch, cit. M. Nomiyama, Jankélévitch no keijijongaku niokeru jikan oyobi ongaku no ichizuke [The situation of time and music in the metaphysics of Jankélévitch], MA diss., Musicology: Musashino College of Music, 1981. D. Pagliacci, Il tempo di perdonare. L’enigma del perdono in Jankélévitch e Ricoeur, in Aa.Vv., Libertà, evento e storia, a cura di M. Signore e G. Scarafile, Ed. Il Messaggero, Padova 2006.
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Bibliografia/Bibliographie
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M. Perigord, Vladimir Jankélévitch ou improvisation et ‘Kairos’, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, 1974, (2) n. 78. Id., L’irréversible et la nostalgie, in “Revue de Synthèse”, 1975. A. Philipe, De la musique au silence, in “L’Arc”, 1979, n. 75. B. Pingaud, Irréversible, irrévocable, le récit, ivi. F. Pittau, II volere umano nel pensiero di Vladimir Jankélévitch, Libreria Editrice dell’Università Gregoriana, Roma 1972. S. Plourde, E. Lévinas et V. Jankélévitch. Un “grain” de folie et un “presque-rien” de sagesse pour notre temps, in “Laval théol. Philos.”, 1993, (49), n. 3. H. Politis, Sermons humoristiques (Les Écrits d’Erik Satie), in Aa.Vv., Écrit pour Vladimir Jankélévitch, cit. Id., Jankélévitch kierkegaardien, in “L’Arc”, 1979, n. 75. Id., Vladimir Jankélévitch: “Mais d’où vient le vent dans la plaine?”, in “Critique”, mar. 1979, n. 382. R. Prezzo, Pensare fino al limite dell’ironia. Nota su Jankélévitch e Nietzsche, in “aut aut”, 1987, n. 220-221. M. R. Restuccia, L’ineffabile e la sua musica, in “II Cannocchiale”, 1985, n. 3. L.-A. Revah, Sur la partialité en musique, in “Critique”, 1989, n. 500-501. E. Riverso, Vladimir Jankélévitch o alle soglie dell’ineffabile, in “Giornale di Metafisica”, 1959, n. 4. R. Ronchi, L’evidenza assurda. Note a “La mort” di Vladimir Jankélévitch, in “aut aut”, 1995, n. 270. Id., Luogo comune. Verso un’etica della scrittura [In Appendice: L’evidenza assurda: Tolstoj e Jankélévitch], Egea, Milano 1996. A. Rosati, Etica, essere, ego nel “Trattato delle virtù” di Vladimir Jankélévitch, in Av.Vv., Percorsi della ricerca filosofica. Filosofia tra storia, linguaggio e politica, Gangemi, Roma 1990. C. Rosset, Musique et réalité, in Av.Vv., Écrit pour Vladimir Jankélévitch, cit. Id., Le sérieux de la vie, in “L’Arc”, 1979, n. 75. Id., L’absent, in “Critique”, 1989, n. 500-501. Id., Matière d’art. Hommages, Le Passeur, Nantes 1992. J.Rousseau-Dujardin, Nocturnes, in “magazine littéraire”, juin 1995, n. 333. P.A. Rovatti, L’altalena della coscienza, in “aut aut”, 1987, n. 219. Id., Le sens des mots. Les oscillations de la conscience, trad. fr. par Ch. Alunni, in “Critique”, 1989, n. 500-501. Id., Elogio della litote, in “aut aut”, 1995, n. 270. L. Sala-Molins, Hypostasier le néant? Le aristos de l’indifférence, in Av.Vv., Écrit pour Vladimir Jankélévitch, cit. Id., La mort de Vladimir Jankélévitch. Le philosophe de tous les combat, in “Le Monde”, 8 giugno 1985. Id., L’amour tisserand, in “magazine littéraire”, juin 1995, n. 333. S. Sanchez, Jankélévitch sur France-Culture, ivi. G. Santucci, Jankélévitch, la musica tra charme e silenzio, Milella, Lecce 2001. A. Schniewind, Plotin traduit et commenté. Comparaison de deux volumes, [Plotin, traité 25(II, 5), trad. fr. par J.-M. Narbonne, Cerf, Paris 1998; V. Jankélévitch,
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
Plotin, “Ennéades” I, 3, éd. par J. Lagrée et F. Schwab, Cerf, Paris 1998], in “Freib. Z. Philos. Theol.”, 2000, (47) n. 1-2. F. Schwab, Parcours d’une vie, in “magazine littéraire”, juin 1995, n. 333. Id., Penser la mort, ivi. M. Serres, Espaces et temps, in Aa.Vv., Écrit pour Vladimir Jankélévitch, cit. G. Simmel, La tragédie de la culture et autres essai, trad. fr. par Cornille et Ph. Ivernel, précédé d’un: Essai de Vladimir Jankélévitch, Rivages, Paris 1993. J. Sivak, Vladimir Jankélévitch, cet incompris, in “Revue Philosophique de la France et de l’Etranger”, 1985. C. Smith, The Philosophy of Vladimir Jankélévitch, in “Philosophy”, 1957, n. 32. G. Suares, Vladimir Jankélévitch (Qui suis-je?), La Manufacture, Lyon 1986. A. Tasman, Quelques réflexions musicales, in “L’Arc”, 1979, n. 75. X. Tilliette, Une Kitiége de l’âme, ivi. F. Todesco, Filosofia della musica e discorso dichiarativo: una lettura dell’“ineffabile” di Jankélévitch, in “Annuario di Discipline Filosofiche Università di Bologna”, 1985-86, n. 7. Y. Tozawa, Le silence qui mesure le silence, c’est l’autre nom de la musique. L’interprétation de la musique chez Vladimir Jankélévitch, in “Bigaku” XXXI/1, 3 (giu.-dic. 1980). S. Trejos, Le temps dans la philosophie première de Vladimir Jankélévitch, Thèse référencée à la réserve de la Sorbonne, 1990. P. Trotignon, Le simple, in Aa.Vv., Écrit pour Vladimir Jankélévitch, cit. G.B. Vaccaro, I motivi dell’etica di Jankélévitch, in “Critica Marxista”, 1988, n. 1. Id., Ontologia e etica in Vladimir Jankélévitch, Longo, Ravenna 1995. J.P. Valabrega, Hommage au philosophe et au moraliste, in “L’Arc”, 1979, n. 75. M. Vassiliadou, Vladimir Jankélévitch (1903-1985), in “Diotima”, 1985, n. 13. G. Vattimo, Le bien: presque rien, in “Critique”, 1989, n. 500-501. L. Vax, Du bergsonisme à la philosophie première, “Critique”, 1955, n. 92. Id., L’esthétique négative de V. Jankélévitch, in “Revue Philosophique de la France et de l’Etranger”, 1964. E. Verondini, L’odissea morale nel pensiero di Vladimir Jankélévitch, in “Giornale di Metafisica”, 1961, n. 3-4. R. Villa, Vladimir Jankélévitch, in “Belfagor”, 1986. D. Vircillo, Essere e vocazione in Vladimir Jankélévitch, in “Sapienza”, 1986, n. 39. V. Vitiello, L’incantesimo di Alcina e l’anello del tempo, in “aut aut”, 1995, n. 270. S. Vizzardelli, Sul realismo mistico di Vladimir Jankélévitch, in “La nuova estetica italiana” a cura di L. Russo, Aesthetica preprint. Supplementa, n. 9, Palermo 2001. Id., Battere il tempo. Estetica e metafisica in Vladimir Jankélévitch, Quodlibet, Macerata 2003. J. Wahl, La philosophie première de Vladimir Jankélévitch, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, 1955, n. 1-2. S. Zacchini, L’altra voce del logos. Filosofia, musica e silenzio in V. Jankélévitch, Trauber, Torino 2003.
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Sigle/Abréviations
Qui di seguito sono indicati solo i titoli delle opere citate e sigle relative. Per il completamento bibliografico, si rinvia alla “Bibliografia/Bibliographie”, a cura di Daniela Calabrò, alle pp. 337-354 del presente volume. Nei saggi compresi nel presente volume, pertanto, i riferimenti relativi alle citazioni sono sempre forniti direttamente nel testo, con la sigla dell’opera di volta in volta citata, seguita dal numero della pagina. Per i saggi in lingua francese, i riferimenti sono sempre agli originali francesi. Per i saggi in lingua italiana, i riferimenti sono alle traduzioni (ove esistenti), ma le sigle sono le stesse. Sola eccezione Il trattato delle virtù, di cui non si è usata l’edizione italiana perché, com’è noto, frammentata e incompleta. Per le traduzioni con titoli difformi dagli originali sono state indicate sigle apposite (per es. La coscienza ebraica: CE). Nel caso di edizioni differenti della medesima opera (e/o traduzione), eventualmente in nota, nel testo, è indicata l’edizione di riferimento. Inoltre si avvisa che tutti i riferimenti in generale, nel corso dei vari saggi, alle opere di Jankélévitch, indicate col solo titolo o la sola sigla, trovano anch’essi il loro completamento bibliografico sempre nella “Bibliografia” generale.
Sont uniquement indiqués ci-dessous les titres des œuvres citées, ainsi que les abréviations adoptées pour les renvois. Pour un complément bibliographique, on consultera la “Bibliografia/Bibliographie”, sous la direction de Daniela Calabrò, aux pages 337-354 du présent volume. Ainsi, dans les essais inclus dans ce volume, les références relatives aux citations sont toujours fournies directement dans le texte, avec l’abréviation de l’œuvre citée au fur et à mesure, suivie de l’indication de la page. En ce qui concerne les essais en langue française, les références vont toujours aux originaux français. Pour ceux en italien, les références vont aux traductions (quand elles existent), mais les abréviations sont les mêmes. Une exception cependant: on n’a pas utilisé l’édition italienne du Traité des vertus (Trattato delle virtù) qui est, comme on sait, fragmentaire et incomplète. On renvoie aux traductions dont les titres diffèrent de ceux des originaux, au moyen d’abréviations adaptées (par ex. La coscienza ebraica: CE). Dans le cas d’éditions différentes de la même œuvre (et/ou traduction), on indique, éventuellement en note, dans le texte, l’édition de référence.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
Enfin, signalons que toutes les références en général aux œuvres de Jankélévitch, dont, au cours des divers essais, seul le titre ou bien l’abréviation est indiqué, sont elles aussi complétées par la “Bibliographie” générale.
HB = MC = I= A= LM = TV =
Henri Bergson La Mauvaise Conscience L’Ironie L’Alternative Le Mal Traité des vertus (salvo diversa indicazione, che nel caso verrà segnalata nel testo, l’edizione alla quale si fa riferimento con la sigla è quella, ampliata, del 1968-72) / sauf indication contraire, qui sera, le cas échéant, signalée dans le texte, on fait référence, au moyen de cette abréviation, à l’édition augmentée de 1968-72). PhP = Philosophie première. Introduction à une philosophie du “presque” JQPR = Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien PI = Le Pur et l’Impur AES = L’Aventure, l’Ennui, le Sérieux M= La Mort P= Le Pardon IN = L’Irréversible et la Nostalgie QI = Quelque part dans l’inachevé PM = Le Paradoxe de la morale S= Sources Im = L’Imprescriptible PhM = Philosophie morale CPhM = Cours de philosophie morale PM? = Penser la mort? PDP = Premières et dernières pages VL = Une vie en toutes lettres
R= DM = RVI = MI =
Ravel Debussy et le mystère La Rhapsodie. Verve et Improvisation musicale La Musique et l’Ineffable (salvo diversa indicazione, che nel caso verrà segnalata nel testo, la trad. it. di riferimento è quella relativa all’ed. Bompiani 1998 /sauf indication contraire, qui sera, le cas échéant, signalée dans le texte, la traduction italienne de référence renvoie à l’édition Bompiani, 1998). VMD = La vie et la mort dans la musique de Debussy FI = Fauré et l’inexprimable DMI = Debussy et le mystère de l’instant
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Sigle
LRV = PL = MH = LRI =
Liszt et la Rhapsodie. Essai sur la virtuosité La Présence lointaine. Albéniz, Séverac, Mompou La Musique et les Heures Liszt: Rhapsodie et Improvisation
CE =
La coscienza ebraica
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Nota biografica/Notice biographique A cura di/Sous la direction de ENRICA LISCIANI PETRINI – FRANÇOISE SCHWAB
Vladimir Jankélévitch nasce il 31 agosto 1903 a Bourges, da genitori ebrei russi, entrambi medici. Suo padre, che era inoltre umanista e letterato, è stato il primo traduttore di Freud in Francia; così come ha tradotto Hegel, Schelling, Benedetto Croce, Walter Pater, Solov’ ev ed altri autori. Dopo i primi studi a Bourges, la famiglia si trasferisce a Parigi e Jankélévitch prosegue gli studi al liceo Montaigne e al liceo Louis le Grand. Nel 1922 entra all’École Normale Supérieure, dove ha per maestri in particolare Émile Bréhier e Léon Brunschvicg. Il primo incontro con Bergson avviene nel 1923 ed è l’inizio, fra i due, di una serie di colloqui e di uno scambio di lettere che instaurano fra il giovane allievo e il grande maestro un sodalizio fecondo. Nel 1924 ottiene il “Diplôme d’Études Supérieures” discutendo una tesi sul tema “De la dialectique”, Ennéades I, 3 de Plotin, sotto la guida di Émile Bréhier (pubblicata nel 1998, presso le edizioni Cerf). Nello stesso anno appare il suo primo articolo: Deux philosophes de la vie: Bergson et Guyau nella “Revue philos. de la France et de l’étranger”, n. 49. Dopo l’“agrégation” nel 1926, in cui risulta primo, l’attende il servizio militare. Il giovane “normalista” si dedica negli anni dal 1923 al 1927 alla pubblicazione di numerosi articoli di rilievo (questi articoli sono pubblicati nella maggior parte in Premières et dernières pages). Nel 1927 si trasferisce a Praga, essendo stato nominato professore al locale
Vladimir Jankélévitch naît le 31 août 1903 à Bourges de parents juifs russes, tous deux médecins. Son père, qui était aussi humaniste et lettré, est le premier traducteur de Freud en France; il traduit également Hegel, Schelling, Benedetto Croce, Walter Pater, Solov’ëv entre autres. Après ses études primaires à Bourges, sa famille s’installe à Paris et il poursuit alors ses études au lycée Montaigne et au lycée Louis le Grand. En 1922 il entre à l’École Normale supérieure, rue d’Ulm. Il a pour maîtres notamment Émile Bréhier et Léon Brunschvicg. La première rencontre avec Bergson se situe en 1923: début d’une série d’entretiens et de correspondances entre eux. Une connivence s’installe entre le jeune disciple et le maître, qui va être féconde. En 1924 il soutient son Diplôme d’Études Supérieures sur le traité “De la dialectique”, Ennéades I, 3 de Plotin, sous la direction d’Émile Bréhier (édité en 1998 aux éditions Cerf). La même année, paraît son premier article: Deux philosophes de la vie: Bergson et Guyau dans la “Revue philos. de la France et de l’étranger”, n. 49. Après l’agrégation en 1926, où il est reçu premier, l’armée l’attend. Le jeune normalien s’attache pendant ces années 1923-1927 à la publication de nombreux articles remarqués (ces articles sont édités pour la plupart dans Premières et dernières pages). En 1927 il s’installe à Prague où il a été nommé professeur à l’Institut français. Il y demeurera cinq ans, participant
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
“Istituto Francese”. Vi resta cinque anni, durante i quali partecipa alla vita musicale della città e porta a termine la scrittura sia della monografia Henri Bergson (pubbl. 1931; ed. riman. 1951) che ottiene subito un grande successo, sia delle tesi che discute, una volta rientrato in Francia nel 1933, ottenendo così il diritto d’insegnamento all’Università: L’odyssée de la conscience dans la dernière philosophie de Schelling (tesi principale) e La signification spirituelle de la mauvaise conscience (tesi complementare). Fra il 1933 e il 1939 insegna al liceo di Lione, quindi nelle Facoltà di Lettere di Besançon, Toulouse et Lille (in qualità di “Maître de conférences”). In questi anni appaiono numerosi libri: L’Ironie ou la bonne conscience (1936; ried. 1950); il suo primo libro sulla musica Gabriel Fauré et ses mélodies (1938); Ravel, (1939) – egli alterna con la medesima vena felice filosofia e musica. A partire dal 1934 comincia ad accostarsi al “Front populaire” (associazione di sinistra). Nel 1939 si stabilisce nell’abitazione di Quai aux Fleurs, nel quarto “arrondissement” a Parigi, e, eccezion fatta per il periodo dell’Occupazione, vi resterà tutta la vita. In questa dimora incantevole, tappezzata di libri e partiture musicali fino al soffitto, frequentatori abituali negli anni sono poeti e musicisti: Jean Cassou (il cognato), Edmond Fleg, Tansman, Mompou e tanti altri. La guerra getta questo universitario avviato su un cammino brillante nella tenebra più oscura e il profilo del giovane filosofo disegnatosi prima della guerra si forgerà, durante questa prova, in modo indelebile. Richiamato alle armi il 1° settembre 1939 come luogotenente di fanteria, il 20 giugno 1940 è ferito alla Sauvetat de Guyenne ed è ricoverato in ospedale a Marmande fino al 1° agosto. E’ in questo momento che scrive il saggio Le malentendu. In tale situazione apprende che il 18 luglio era stato revocato dall’in-
à la vie musicale de la ville et achevant l’écriture de son livre Henri Bergson (1931; éd. reman.1951), qui obtient un grand succès, et de ses thèses qu’il soutient, une fois rentré en France en 1933: L’odyssée de la conscience dans la dernière philosophie de Schelling constitue sa thèse principale et La signification spirituelle de la mauvaise conscience sa thèse complémentaire. Entre 1933 et 1939, il enseigne au lycée de Lyon, puis dans les Facultés des Lettres de Besançon, Toulouse et Lille (Maître de conférences). De nombreux livres paraissent pendant cette décennie: L’Ironie ou la bonne conscience (1936; rééd. 1950); son premier livre sur la musique Gabriel Fauré et ses mélodies (1938); Ravel, (1939) – il alterne avec un égal bonheur philosophie et musique. Dès 1934 il sympathise avec le Front populaire. En 1939 il s’installe Quai aux Fleurs (Paris 4e) et, si l’on excepte l’intermède de l’Occupation, il y restera toute sa vie. Dans cette demeure enchantée, tapissée de livres et de partitions de musique jusqu’au plafond, les familiers sont poètes et musiciens: Jean Cassou (son beaufrère), Edmond Fleg, Tansman, Mompou et tant d’autres. La guerre va jeter cet universitaire au parcours brillant dans un trou noir et les traits du jeune philosophe esquissés avant-guerre se forgeront pendant l’épreuve pour ne plus varier. Mobilisé le 1er septembre 1939 comme lieutenant d’infanterie, il est blessé à la Sauvetat de Guyenne le 20 juin 1940, évacué, puis hospitalisé jusqu’au 1er août 1940 à Marmande. C’est à ce moment qu’il rédige un essai sur Le malentendu. C’est dans une telle situation qu’il apprend qu’il avait été révoqué le 18 juillet 1940 de son poste à la Faculté de Lille, lors de la promulgation des lois “pour les fils des étrangers” (en fait des lois raciales) de Vichy, et en décembre 1940, n’ayant pas la
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Nota biografica/Notice biographique segnamento presso la Facoltà di Lilla a causa della promulgazione, da parte del governo di Vichy, delle leggi “per i figli degli stranieri” (di fatto leggi razziali); nel dicembre di quell’anno, non avendo la nazionalità francese “a titolo originario”, è destituito per una seconda volta a causa del suo “stato di ebreo”. Entra così nella clandestinità a Tolosa (adottando diverse identità), dove trascorrerà gli anni della guerra, partecipando alla Resistenza nel gruppo clandestino “Les Étoiles”, legato contemporaneamente al “M.N.C.R.” (Mouvement national contre le racisme) e al “Front National Universitaire”. A partire dal 1941 insegna clandestinamente a Tolosa e tiene il suo primo corso sulla morte al “Café du Capitole”. La riflessione filosofica e gli scritti di questo periodo ne portano il marchio: Le malentendu (1942), Du Mensonge (1942), Le Nocturne (1942) sono testi emersi dall’ombra della sua vita sotterranea. Il suo rifiuto di patteggiare, nel dopo-guerra, con i “dottori dell’indeterminazione” nasce da questa esperienza lacerante. Dopo la Liberazione (1944-45), accetta la direzione, per un anno, delle trasmissioni musicali di Radio ToulousePyrénées. Nel gennaio 1945 è reintegrato come professore di Filosofia Morale alla Facoltà di Lettere di Lilla, e in giugno consegue l’ordinariato. Nel 1947 tiene delle lezioni al “Collège Philosophique” fondato da Jean Wahl, a Parigi, luogo di incontro con diversi filosofi fra cui Lévinas, e pubblica il libro Le mal. Nello stesso anno avviene il suo matrimonio ad Algeri, dal quale nel 1953 nascerà la figlia Sophie. Cominciato prima della guerra e terminato nel 1946, nel 1949 pubblica il magistrale Traité des vertus (che, dal 1968 al 1972, sarà ripubblicato in una versione molto ampliata in tre volumi). Dello stesso anno è Debussy et le mystère. Nel 1951 succede a René Le Senne alla cattedra di Filosofia Morale alla Sor-
361 nationalité française “à titre originaire”, il est destitué une deuxième fois en vertu du “statut de juif”. Ainsi il entre dans la clandestinité à Toulouse (adoptant plusieurs identités) où il passera les années de guerre. Résistant il adhère tout d’abord au réseau clandestin “Les Étoiles”, apparenté à la fois au M.N.C.R. (Mouvement national contre le racisme) et au “Front National universitaire”. À partir de 1941 il professe clandestinement à Toulouse et tient son premier cours sur la mort au “Café du Capitole”. Sa réflexion philosophique et ses écrits portent le sceau de cette période: Le malentendu (1942), Du Mensonge (1942), Le Nocturne (1942), autant de textes surgis des ombres de sa vie souterraine. La raison de son refus d’après guerre de pactiser avec les “docteurs de l’indétermination” doit tout à cette expérience déchirante. Après la Libération (1944-45), il accepte, pour un an, la direction des émissions musicales de Radio Toulouse-Pyrénées. Réintégré en janvier 1945 comme professeur de Philosophie morale à La Faculté des Lettres de Lille, il est titularisé en juin. En 1947 il donne des leçons au “Collège Philosophique” fondé par Jean Wahl à Paris, lieu de rencontre avec, entre autres philosophes, Emmanuel Lévinas et publie le livre sur Le mal. Dans la même année: mariage à Alger, duquel en 1953 naîtra sa fille Sophie. Commencé avant-guerre, achevé en 1946, il publie en 1949 son magistral Traité des vertus (qui d’ailleurs, de 1968 à 1972, sera réédité dans une version largement augmentée en trois tomes). De la même année date Debussy et le mystère. En 1951 il succède à René Le Senne à la chaire de Philosophie morale à la Sorbonne. Enseignement qu’il maintiendra jusqu’en 1979. Il a marqué de nombreuses générations d’étudiants par ses cours de morale et de métaphysique, mais aussi par sa personnalité chatoyan-
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
bona. Insegnamento che manterrà fino al 1979. Con i suoi corsi di morale e metafisica, ma anche con la sua personalità poliedrica, piena di foga, calorosa e umana, Jankélévitch ha lasciato il segno su numerose generazioni di studenti. Questo ‘seduttore’, nel senso socratico del termine, affascinava il suo auditorio con lo stile brillante dell’eloquenza, ma anche con la profondità del suo pensiero al contempo pudico e folgorante. Gli anni che vanno dal 1953 al 1963 testimoniano un’intensa attività di lavoro e sono scanditi dalla pubblicazione di numerosi testi: Philosophie première (1953), L’Austérité et la vie morale (1956), Le Jene-sais-quoi et le Presque-rien (1957), Le Pur et l’Impur (1960), La Musique et l’Ineffable (1961), L’Aventure, l’Ennui, le Sérieux (1963). Il tempo – nel solco bergsoniano – è il tema fondamentale della meditazione di questo periodo: è esso che consegna l’esistenza al “quasi niente”, gli conferisce il suo carattere irrimediabile, irreversibile. Di qui nascono anche le opere ulteriori: La Mort (1966) – originata da due corsi pubblici alla Sorbona, trasmessi per Radio, degli anni 1955-57 – e L’Irréversible et la Nostalgie (1974). È a partire da questa nozione di tempo che Jankélévitch concentra le proprie analisi sul ruolo dell’etica. Nel 1962-63 insegna per un anno presso l’Università Libera di Bruxelles come “visiting professor” e nel 1965 viene nominato “Dottore honoris causa” dalla medesima Università. (Sulla base degli appunti presi durante questo corso verrà edito il Cours de Philosophie Morale, pubblicato nel 2006). Dopo la guerra, Jankélévitch contribuisce alla ferma custodia del ricordo della Resistenza francese in seno all’“Union universitaire française” di cui è stato presidente. In occasione di vibranti omaggi a uomini quali François Cuzin, Jean Cavaillès, Jacques Decour, pubblica dei testi politici e polemici volti a mantenere vivo
te, fougueuse, chaleureuse, humaine. Ce ‘charmeur’, au sens socratique du terme, laissait son auditoire médusé par la brillance de son éloquence mais aussi par la profondeur du propos à la fois modeste et fulgurant. Les années 1954-63 témoignent d’une intense activité de pensée et sont marquées par la publication de nombreux textes: Philosophie première (1953), L’Austérité et la vie morale (1956), Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien (1957), Le Pur et l’impur (1960), La Musique et l’Ineffable (1961), L’Aventure, l’Ennui, le Sérieux (1963). Le temps – dans le sillage bergsonien – est le thème fondamental de la méditation de cette période: le temps, qui voue l’existence au “presque rien”, lui confère son caractère irrémédiable, irréversible. De là aussi les œuvres ultérieures: La Mort (1966) – dont l’origine si situe dans deux cours publics à la Sorbonne, radiodiffusés, des années 1955-57 – et L’Irréversible et la Nostalgie (1974). À partir de cette notion nouvelle du temps, Jankélévitch centre ses analyses sur le poids de l’éthique. En 1962-63 il enseigne pendant un an à l’Université Libre de Bruxelles comme “professeur visiteur”, et en 1965 il sera nommé “Docteur honoris causa” de cette Université. (À partir des notes prises à ce cours on éditera le Cours de Philosophie Morale, publié au Seuil en 2006). Après la guerre, il contribue à ce que le souvenir de la Résistance française soit correctement entretenu au sein de l’“Union universitaire française” dont il fut président. Rendant de vibrants hommages à des hommes tels que François Cuzin, Jean Cavaillès, Jacques Decour, il publie des textes politiques et polémiques destinés à maintenir vivant le souvenir de cette période noire. Dans les années soixante Jankélévitch prend une position tranchante face aux questions laissées ouvertes après la guerre,
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Nota biografica/Notice biographique il ricordo di quel periodo scuro. Negli anni Sessanta egli prende una posizione molto tagliente di fronte alle questioni lasciate aperte dalla guerra, concernenti i crimini nazisti. Fin dall’inizio il suo atteggiamento è molto netto: non è possibile prescrivere ciò che rappresenta un crimine “ontologico”, ossia contro l’essere stesso dell’uomo. Nel 1965 l’articolo L’Imprescriptible, che appare sul quotidiano “Le Monde”, pone come imperativo categorico l’imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità. Il filosofo vuol farsi garante della memoria di quelli che non sono più, poiché i viventi hanno l’immensa responsabilità di essere, in coscienza, i soggetti di questa storia. Originano da qui i testi successivi sul perdono – Le Pardon (1967), Pardonner? (1971) – imperniati sull’impossibilità di accettare l’innominabile. Il libro Sources, a sua volta, testimonia il profondo interesse per l’ebraismo, espresso in pagine molto belle attraverso “la fedeltà lontana, ma mai dimenticata come origine, al suo stato di ebreo che comporta così tanto dolore” secondo le suggestive parole dell’amato Jacques Madaule. Jankélévitch non ha mancato di prendere posizione anche sul problema della costituzione dello Stato di Israele – ma mai da posizioni sioniste. Dunque, se il filosofo non ha scritto un testo propriamente politico, cionondimeno tutta la sua opera morale vi allude, per il fatto stesso di non aver smesso di esplorare il legame ontologico che ci unisce agli altri. Conferma ulteriore ne è la costante difesa di tutte le minoranze. Il 1968 segna una data anch’essa significativa: è l’anno degli eventi connessi al cosiddetto “Maggio ‘68” durante i quali Jankélévitch – raro caso tra i professori della Sorbona – sceglie di assumere un ruolo impegnativo di adesione verso gli studenti, partecipando alle loro assemblee e alle loro marce. Nel solco di questo impegno “militante”, nel 1975 difende l’insegnamento del-
363 concernant les crimes nazis. Il exprime dès le début une position très nette: on ne peut pas prescrire ce qui constitue un crime “ontologique”, c’est-à-dire contre l’être même de l’homme. En 1965 avec l’article L’Imprescriptible, qui paraît dans “Le Monde”, il pose comme impératif catégorique l’imprescriptibilité des crimes contre l’humanité. Le philosophe se veut le garant de la mémoire de ceux qui ne sont plus, puisque les vivants ont l’immense responsabilité d’être, en conscience, les sujets de cette histoire. De là ses textes successifs sur le pardon – Le Pardon (1967), Pardonner? (1971) – centrés sur l’impossibilité d’accepter l’innommable. Le livre Sources aussi témoigne de son profond intérêt pour le judaïsme où il exprima dans de belles pages “sa fidélité lointaine, mais jamais oubliée comme origine, à son état de juif qui comporte tant de douleurs” selon la belle formule de son cher Jacques Madaule. Jankélévitch prend position aussi sur le problème de la constitution de l’État d’Israël, mais jamais d’un point de vue sioniste. Donc, si Jankélévitch n’a pas écrit d’ouvrage politique, toute son œuvre morale y conduit en ce qu’elle ne cesse d’explorer le lien ontologique aux autres. Une preuve supplémentaire en est la défense constante de toutes les minorités. 1968 marque aussi une date significative: c’est l’année des événements de “Mai 1968” pendant lesquels Jankélévitch – rare cas parmi les professeurs de la Sorbonne – choisit d’assumer un important engagement auprès des étudiants, en participant à leurs Assemblées et à leurs marches. Dans le sillage de cet engagement “militant”, en 1975, il défend l’enseignement de la philosophie au lycée et participe aux “États Généraux de la Philosophie” (16-17 juin) avec Michel Foucault, Michel Serres, Jacques Derrida. La même année, il prend sa retraite, mais
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
la filosofia nei licei e partecipa agli “Stati Generali della Filosofia” (16-17 giugno) insieme a Michel Foucault, Michel Serres e Jacques Derrida. Nello stesso anno va in pensione, ma conserva, fino al 1979, un seminario di Dottorato. Gli ultimi anni lo vedono ancora dedito ad un’intensa attività di pensiero, sempre divisa fra filosofia e musica. Sono sufficienti questi titoli a testimoniarlo: Debussy et le mystère de l’instant (1976), Quelque part dans l’inachevé (libro-intervista in collaborazione con Béatrice Berlowitz, 1978), Liszt et la Rhapsodie (ultimo volume della serie “De la musique au silence”, 1978), Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien (ried. in 3 voll., 1980), Le Paradoxe de la Morale (l’ultima opera filosofica, 1981), La Présence lointaine. Albéniz, Séverac, Mompou (l’ultima opera sulla musica, 1983). Muore il 6 giugno 1985 nel suo appartamento parigino: viene tumulato nel cimitero di Châtenay-Malabry (Hautsde-Seine), dove riposano i suoi genitori.
conserve, jusqu’à la fin de 1979, un séminaire de doctorat. Les dernières années le voient encore consacré à une intense activité de pensée toujours partagée entre philosophie et musique. Les titres que voici suffisent à en témoigner: Debussy et le mystère de l’instant (1976), Quelque part dans l’inachevé (livre-entretien en collaboration avec Béatrice Berlowitz, 1978), Liszt et la Rhapsodie (dernier volume de la série “De la musique au silence”, 1978, Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien (rééd. en 3 voll., 1980), Le Paradoxe de la Morale (son dernier ouvrage de philosophie, 1981), La Présence lointaine. Albéniz, Séverac, Mompou (son dernier ouvrage sur la musique, 1983). Il meurt le 6 juin 1985 à son domicile parisien: enterrement au cimetière de Châtenay-Malabry (Hauts-de-Seine) où reposent ses parents.
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Gli autori/Les auteurs/The authors
LAURA BOELLA è professore ordinario di Filosofia morale presso l’Università statale di Milano. Si è dedicata allo studio del pensiero femminile del ’900, proponendosi come una delle maggiori studiose di Hannah Arendt, Simone Weil, Maria Zambrano e Edith Stein. In questo ambito di riflessione, ha sviluppato in particolare il tema delle relazioni intersoggettive e dei sentimenti di simpatia, empatia, compassione. L. B. est professeur de Philosophie morale à l’Université de Milan. Elle s’est consacrée à l’étude de la pensée féminine du XXème siècle, en se signalant comme l’une des plus importantes spécialistes de H. Arendt, S. Weil, M. Zambrano et E. Stein. Dans ce domaine, elle a approfondi en particulier les thématiques des relations intersubjectives et des sentiments de l’empathie, de la sympathie et de la compassion. L. B. is Professor of Moral Philosophy at the University of Milan. She has studied feminist thought of the 1900s, becoming an authority on Hannah Arendt, Simone Weil, Maria Zambrano and Edith Stein. She has developed the theme of inter-subjective relationships and the feelings of empathy, sympathy and compassion. Recenti pubblicazioni/ Publications récentes / Recent publications: Hannah Arendt. Agire politicamente, pensare politicamente (Feltrinelli, Milano 1995, e 2005); Cuori pensanti. Hannah Arendt, Simone Weil, Edith Stein, Maria Zambrano (Tre Lune, Mantova 1998); Le imperdonabili. Etty Hillesum, Cristina Campo, Ingeborg Bachmann, Marina Cvetaeva (Tre Lune, Mantova 2000). Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia (Cortina, Milano 2006); Neuroetica. La morale prima della morale (Cortina, Milano 2008). Ha recentemente curato l’edizione italiana di /Elle a récemment édité / Recently edited: J. Hersch, Rischiarare l’oscuro. Autoritratto a viva voce (Baldini Castoldi Dalai, Milano 2006); H. Arendt, L’umanità in tempi bui (Cortina, Milano 2006). E-mail: [email protected] DANIELA CALABRÒ è Ricercatore in Filosofia Teoretica presso l’Università di Salerno. Sue pubblicazioni sono apparse sulle riviste “aut aut”, “Chiasmi International”, “Il Pensiero”. Le sue ricerche vertono sugli esiti fenomenologici della filosofia husserliana in Francia, in particolare con Merleau-Ponty e Sartre. Da qualche anno sta lavorando intorno ai temi di soggetto e corpo in Jean-Luc Nancy.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
D. C. est “Ricercatore” en Philosophie Théorique à l’Université de Salerne. Ses publications sont parues dans les revues: “aut aut”, “Chiasmi International”, “Il Pensiero”. Ses recherches ont pour objet les développements de la phénoménologie husserlienne en France en particulier avec Merleau-Ponty et Sartre. Depuis quelques années elle travaille sur les thèmes du sujet et du corps chez Jean-Luc Nancy. D. C. is currently a “Ricercatore” in Theoretical Philosophy at the University of Salerno (Italy). She published in “aut aut”, “Chiasmi International”, “Il Pensiero”. Her research is focused on the phenomenological philosophy outcomes of Husserl in French, in particular through Merleau-Ponty and Sartre. More recently, her research deals with the themes of the subject and body in Jean-Luc Nancy. Tra i suoi lavori/ Parmi ses publications/ Her publications include: L’infanzia della filosofia. Saggio sulla filosofia dell’educazione di Maurice Merleau-Ponty, UTET, Torino 2002; Dis-piegamenti. Soggetto, corpo e comunità in Jean-Luc Nancy, Mimesis, Milano 2006. E-mail: [email protected] MAURIZIO COGLIANI, dopo la laurea in Lettere e il diploma in Pianoforte, Musica corale e Direzione di Coro, ha studiato Fenomenologia della Musica con elementi di Direzione d’orchestra sotto la guida di S. Celibidache. È docente di Pianoforte nei corsi ad indirizzo musicale nelle Scuole secondarie di I grado, nonché docente di Musica in tsm, Trentino School of Management, al Mart MAC Master of Art and Culture Management, Gestione delle istituzioni e degli eventi dell´arte e della cultura, in partnership con il Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto. È dottorando di ricerca in “Metodologia della ricerca educativa” presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Salerno e svolge ricerche in ambito psicologico e musicale. M. C., après un diplôme de Lettres et un autre de piano, musique pour chœur et direction d’orchestre, a étudié la phénoménologie de la musique, et reçu des éléments de direction d’orchestre, sous la direction de S. Celibidache. Il enseigne le piano pour les classes avec option musique dans les “Scuole secondarie di secondo grado”; il enseigne également la musique à la tsm, la “Trentino School of Management”, au Master of Art and Culture Management, Gestion des institutions et des événements artistiques et culturels, en partenariat avec le Musée d’Art Moderne et Contemporain de Trente et de Rovereto. Il est directeur de recherche en “Méthodologie de la recherche éducative”, au Département de Sciences de l’éducation de l’Université de Salerne. Ses recherches portent sur la psychologie et la musique. M. C., upon graduating in Literature and being awarded a diploma in Piano, Choir music and direction studies, he studied Phenomenology of Music with elements of directing an orchestra under the guidance of S. Celibidache. He teaches Piano at middle school as well as Music at the Trentino School of Management, on the Mart MAC Master of Art and Culture Management, in partnership with the Museum of Modern and Contemporary Art of Trento and Rovereto. He is also
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Gli Autori/Les Auteurs/The Authors
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taking a PhD in “Methodology of educational Research” at the Department of Educational Science at the University of Salerno, carrying out research in the fields of psychology and music. Tra le sue pubblicazioni / Parmi ses publications / His publications include: “Per una biografia di Nestore Caggiano”, in Nestore Caggiano e il suo tempo (a cura di M. Giani), La città del sole, Napoli 2002; “La musica delle emozioni e il contenitore di risonanza”, in Mente e pensiero. Incontri con l’opera di Wilfred R. Bion (a cura di F. Oneroso e A. Gorrese) Liguori, Napoli 2004; Antinomia dell’essere e conoscenza estesica. Un’esperienza di ascolto musicale in sintonia col pensiero di I. Matte Blanco, Quaderni del Dipartimento di Scienze dell’educazione, Università di Salerno, Pensa, Salerno 2009. E-mail: [email protected] FRANCESCO CORSINI si è laureato in Filosofia all’Università di Pisa, con una tesi dal titolo “Irreversibilità del tempo e poetica della nostalgia nell’opera di Vladimir Jankélévitch”, realatore Remo Bodei. In seguito, ha conseguito il Dottorato di ricerca nello stesso ateneo, in cotutela con l’Université de Lille-3 Charles de Gaulle, con una tesi dal titolo “Le origini del dualismo. Jankélévitch, lettore di Bergson”, relatori Adriano Fabris e Frédéric Worms. Attualmente, sta svolgendo attività di insegnamento nei licei. F. C. a obtenu son diplôme à l’Université de Pise avec un mémoire sur “Irréversibilité du temps et poétique de la nostalgie dans l’œuvre de Vladimir Jankélévitch”, sous la direction de Remo Bodei. Il a terminé ses études avec un doctorat dans la même Université, en cotutelle avec l’Université de Lille-3 Charles de Gaulle. Sa thèse: “L’origine du dualisme. Jankélévitch, lecteur de Bergson”, a été dirigée par Adriano Fabris et Frédéric Worms. Il enseigne dans les Lycées. F. C. graduated in Philosophy at the University of Pisa with a thesis entitled “The Irreversibility of time and the poetics of nostalgia in the work of Vladimir Jankélévitch”, under the guidance of Remo Bodei. Subsequently, he was awarded a PhD from the same University, in co-tutelage with the University of Lille-3 Charles de Gaulle with a thesis on “The origins of dualism. Jankélévitch, reader of Bergson” under the guidance of Adriano Fabris and Frédéric Worms. He is currently teaching Philosophy in secondary schools. E-mail: [email protected] ANTONIO DELOGU è professore ordinario di Filosofia morale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Sassari. È direttore dei “Quaderni sardi di filosofia letteratura e scienze umane”. Fa parte del comitato scientifico della rivista “Segni e comprensione”. Nel 2006 gli è stato conferito il Premio Capograssi dalla giuria presieduta da Giovanni Conso già presidente della Corte Costituzionale. A. D. est professeur de Philosophie morale à l’Université de Sassari. Il est Directeur des “Quaderni sardi di filosofia letteratura e scienze umane”. Il fait partie du comité scientifique de la revue “Segni e comprensione”. En 2006 un jury, pré-
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
sidé par Giovanni Conso (déjà Président de la Cour Costitutionnelle) lui a conféré le “Premio Capograssi”. A. D. is Professor of Moral Philosophy at the Faculty of Literature and Philosophy at the University of Sassari. He is Editor of the “Quaderni sardi di filosofia letteratura e scienze umane”. He is also part of the editorial committee of the journal “Segni e compresione”. In 2006, he was awarded the Premio Capograssi by the committee chaired by Giovanni Conso, president of the Constitutional Court. Tra i suoi ultimi lavori / Parmi ses derniers travaux / His most recent publications include: (a cura di) K. Wojtyla. L’uomo nel campo della responsabilità (Bompiani, Milano 2002); Legge morale e legge civile in “Annuario di filosofia”, 2007; Giustizia e pena in Salvatore Satta, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, 2007, n.4; (a cura di) Filosofia e Letteratura in Karol Woytyla (Urbaniana University Press, 2007); Prefazione a G. Capograssi, Analisi della esperienza comune, ( Prefazione a G. Capograssi, La vita etica (Bompiani, Milano 2008). Ha curato la traduzione italiana di / Il a édité la traduction italienne de /Edited the Italian translation of: V. Jankélévitch, Corso di Filosofia morale (Cortina, Milano 2007). E-mail: [email protected] ADRIANO FABRIS è professore ordinario di Filosofia morale all’Università di Pisa, dove insegna anche Filosofia delle religioni ed Etica della comunicazione. Nella stessa Università è Direttore dei Master di I e di II livello in “Comunicazione Pubblica e Politica”, e del Centro interdisciplinare di ricerche e di servizi sulla comunicazione (C.I.Co.). Dirige la rivista “Teoria”. È altresì direttore dell’Istituto “Religioni e teologia” della FTL di Lugano (Svizzera) e del Master in Scienza, filosofia e teologia delle religioni. A. F. est professeur de Philosophie morale à l’Université de Pise, où il enseigne aussi la Philosophie de la Religion et l’Éthique de la communication. Il est Directeur des Masters I et II en “Communication Publique et Politique”, et du Centre interdisciplinaire de recherches et de services sur la communication (C. I. Co). Il dirige la revue de philosophie “Teoria”. Il est aussi Directeur de l’Institut “Religions et théologie” de la FTL de Lugano (Suisse) et du Master en “Sciences, philosophie et théologie des religions”. A. F. is Professor of Moral Philosophy at the University of Pisa. Director of the “Master degree in “Public Communication” at the University of Pisa. Director of “Master degree in Science, Philosophy and Theology of Religions” in Lugano (Suisse). Director of “Teoria. Review of philosophy” (Pisa). Tra le sue pubblicazioni recenti / Parmi ses publications les plus récentes / His most recent publications include: Paradossi del senso. Questioni di filosofia, Morcelliana, Brescia 2002, Etica della comunicazione interculturale, Eupress, Lugano 2004, Teologia e filosofia (Morcelliana, Brescia 2004), Guida alle etiche della comunicazione (a cura di), Edizioni ETS, Pisa 2004, Etica della comunicazione, Carocci, Roma 2006, Senso e indifferenza, Edizioni ETS, Pisa 2007, Heidegger
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Gli Autori/Les Auteurs/The Authors
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(insieme a/avec/with A. Cimino), Carocci, Roma 2009, Filosofia del peccato originale, Albo Versorio, Milano 2009. E-mail: fabris@fls.unipi.it MARCO FORTUNATO (Milano 1961) si è occupato della tematica esistenziale, della problematica del nichilismo e della dialettica, e dei rapporti tra filosofia e narrazione. M. F. Ses travaux portent sur les thèmes existentiels, la problématique du nihilisme et de la dialectique, et les rapports entre philosophie et récit. M. F. deals with the existential themes, the problems of nihilism and dialectics, and the relations between philosophy and fiction. Tra le sue pubblicazioni / Parmi ses publications / His publications include: Il soggetto e la necessità. Akronos, Leopardi, Nietzsche e il problema del dolore (Guerini e Associati, Milano 1994), Aporie della decisione. Separatezza del soggetto e saggismo filosofico da Weininger e Michelstaedter ad Adorno (Guerini e Associati, Milano 1996), Il mondo giudicato. L’immediato e la distanza nel pensiero di Rensi e di Kierkegaard (Mimesis, Milano 1998) e Alternative alla vita. Esistenza e filosofia (il melangolo, Genova 2004). Ha pubblicato inoltre saggi in volumi collettivi e nelle riviste / Il a publié aussi des essais dans volumes collectifs et dans les revues / He has published several essays in collections and journals: «Paradigmi”, «Il Pensiero”, «NotaBene. Quaderni di studi kierkegaardiani”, “Itinerari filosofici”, “TESTO” e “Acme”. E-mail: [email protected] ENRICO FUBINI è professore ordinario di Storia della musica all’Università di Torino. È inoltre Visiting Professor presso l’Università di Middlebury (USA) e presso l’Università Autonoma di Madrid e di Valencia. Ha tenuto corsi e conferenze in numerose università straniere. I suoi interessi di studio si sono diretti soprattutto verso la storia dell’estetica e del pensiero musicale. È stato Direttore della “Rivista di Musicologia”, di cui attualmente è redattore. E. F. est professeur d’Histoire de la musique à l’Université de Turin. Il est également Visiting Professor à l’Université de Middlebury (USA) et à l’Université Autonome de Madrid et de Valence. Il a donné des cours et des conférences dans de nombreuses universités étrangères. Ses travaux portent surtout sur l’histoire de l’esthétique et de la pensée musicale. Il a dirigé la “Rivista di Musicologia”, dont il est actuellement collaborateur. E. F. is Professor of Music History at the University of Turin. He is also a Visiting Professor at the University of Middlebury (USA) as well as the Universities of Madrid and Valencia. He has held courses and conferences in numerous foreign universities. His interests include the history of aesthetics and musical thought. He was Editor of the “Rivista di Musicologia”, to which he currently contributes.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
Tra le sue opere, diverse tradotte anche in spagnolo, inglese, francese, tedesco, polacco, cinese e turco / Parmi ses œuvres, traduites aussi en espagnol, anglais, français, allemand, polonais, chinois et turc / His publications include, which have been also translated into Spanish, English, French, German, Polish, Chinese and Turkish: Musica e linguaggio nell’estetica contemporanea (Einaudi, Torino 1973); L’estetica musicale dal Settecento a oggi (ivi, 1964; ed. ampl. 1987); Gli Enciclopedisti e la musica (ivi, 1991); L’estetica musicale dall’antichità al settecento (ivi, 1976); Musica e pubblico dal Rinascimento al Barocco (ivi, 1984); Musica e cultura nel settecento europeo (EDT, Torino 1986); La musica nella tradizione ebraica (Einaudi, Torino 1994); Estetica della Musica (il Mulino, Bologna 2003); El Romanticismo: entre Musica y Filosofia (Univ. De Valencia ed., Valencia 2001); Il pensiero musicale del Romanticismo, La musica: natura e storia (Einaudi, Torino 2004); Il pensiero musicale del Novecento (ETS, Pisa 2007); L’Illuminismo francese e la musica (BMG Ricordi, Milano 2007); Musica y Estetica en la Epoca Medieval (Eunsa, Navarra 2007). In collaborazione con altri autori ha curato / En collaboration avec d’autres auteurs a édité /Edited in collaboration with other authors: la Storia della musica (Einaudi, Torino 1999). E-mail: [email protected] MICHELA GARDA è nata e vive a Torino. Ha studiato filosofia nella sua città e musicologia alla Freie Universität di Berlino e all’Università di Bologna. Attualmente è professore associato presso l’Università di Pavia, Facoltà di musicologia in Cremona. M. G. est née à Turin où elle vit. Elle a étudié la philosophie dans sa ville natale et la musicologie à l’Université libre de Berlin et à l’Université de Bologne. Elle est actuellement “professore associato” à l’Université de Pavie, Faculté de musicologie à Crémone. M. G. lives in the city of Turin where she was born. She studied Philosophy in her native city and Musicology at the Freie Universität of Berlin as well as the University of Bologna. She is currently a Professor at the University of Pavia at the Faculty of Musicology in Cremona. È autrice di numerosi saggi sull’estetica musicale del Settecento e del Novecento e di due libri / Elle est l’auteur de nombreux essais sur l’esthétique musicale du XVIIIe et du XXe siècle et de deux livres / She is the author of numerous essays on music aesthetics of the 17th and 19th centuries as well as two books: Musica sublime. Metamorfosi di un’idea nel Settecento musicale (Ricordi-Lim, Milano 1995); L’estetica musicale del Novecento. Tendenze e Problemi (Carocci, Roma 2007). E-mail: [email protected] MICAELA LATINI ha studiato filosofia e germanistica a Roma (laurea e perfezionamento), a Urbino (dottorato) e a Vienna (post-dottorato). Attualmente insegna Letteratura tedesca presso l’Università di Cassino.
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Gli Autori/Les Auteurs/The Authors
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M. L. a étudié la philosophie et la littérature allemande à l’Université de Rome (Laurea et Master), de Urbino (doctorat) et de Vienne (études post-doc). Elle enseigne maintenant la Littérature allemande à l’Université de Cassino. M. L. studied Philosophy and German Literature at the University of Rome (Degree and Master), Urbino (Doctoral studies) and Vienna (Post-doctoral studies). She is currently Professor of German Literature at the University of Cassino. Ha scritto un libro dal titolo / Elle a publié un livre intitulé / She has published a book entitled: Il possibile e il marginale. Studio su Ernst Bloch (Mimesis, Milano 2005); e diversi articoli, apparsi in Italia e in Germania, su / et d’autres essais, parus en revues italiennes et allemandes, sur / and many articles, in Italian and German, about: T.W. Adorno, G. Anders, Th. Bernhard, E. Bloch et J.-P. Sartre. E-mail: [email protected] ENRICA LISCIANI PETRINI è professore ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università di Salerno. I suoi lavori ruotano attorno al pensiero filosofico ottonovecentesco, con una particolare attenzione alle riflessioni di autori come Heidegger, Bergson, Jankélévitch, Merleau-Ponty; e agli intrecci con le esperienze artistiche che sono sullo sfondo di esse o ne ampliano e intensificano l’orizzonte problematico. E. L. P. est professeur de Philosophie à l’Université de Salerne. Ses travaux portent sur la pensée philosophique des XVIIIe et XIXe siècles, particulièrement sur les réflexions d’auteurs comme Heidegger, Bergson, Jankélévitch, MerleauPonty; ainsi que sur les expériences artistiques qui sous-tendent ces réflexions ou en intensifient l’horizon problématique. E. L. P. is Professor of Theoretical Philosophy at the University of Salerno. Her work is based on philosophical thought of the 1800-1900s, with particular interest being given to works of authors such as Heidegger, Bergson, Jankélévitch, Merleau-Ponty as well as the artistic experiences upon which they are based or amplifying and intensifying the themes. Tra le sue pubblicazioni / Parmi ses publications / Her publications include: Il suono incrinato. Musica e filosofia nel primo Novecento (Einaudi, Torino 2001); La passione del mondo. Saggio su Merleau-Ponty (ESI, Napoli 2002); Risonanze. Ascolto Corpo Mondo (Mimesis, Milano 2007). Ha curato le traduzioni italiane di alcuni scritti di / Elle a édité des traductions italiennes de / Editor of the Italian translations of Vladimir Jankélévitch: La musica e l’ineffabile (Tempi Moderni Edizioni, Napoli 1985; poi Bompiani, Milano 1998); Pensare la morte? (Cortina, Milano 1994); La morte (Einaudi, Torino 2009). E-mail: [email protected] ELIO MATASSI è professore ordinario di Filosofia morale ed Estetica musicale, presso l’Università di Roma Tre. Si è occupato sostanzialmente di filosofia tedesca dell’Otto-Novecento e di filosofia della musica moderna e contemporanea. Fa parte
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
di molti comitati direttivi di riviste nazionali e internazionali a carattere filosofico e musicale, tra queste, in particolare, “Civiltà Musicale”, “Ad Parnassum”, “Itamar”. Tiene una rubrica mensile di filosofia della musica per la rivista “Amadeus”. E. M. est professeur de Philosophie morale et d’esthétique musicale à l’Université Rome III. Il s’est intéressé principalement à la philosophie allemande aux dix-neuvième et vingtième siècles, et à la philosophie de la musique moderne et contemporaine. Il appartient à de nombreux comités directeurs de revues nationales (Italie) et internationales sur la philosophie et la musique, parmi lesquelles, en particulier, “Civiltà Musicale”, “Ad Parnassum”, “Itamar”. Il tient la rubrique mensuelle de philosophie de la musique dans la revue “Amadeus”. E. M. is Professor of Moral Philosophy and Music Aesthetics at the University of Rome Tre. He deals with German Philosophy of the 1800-1900s as well as Modern and Contemporary Music Philosophy. He part of several editorial boards of national and international journals, including “Civiltà Musicale”, “Ad Parnassum”, “Itamar”. He also has a regular column on music philosophy in the monthly journal “Amadeus”. Sue ultime pubblicazioni / Ses dernières publications / Recent publications include: Bloch e la musica (Marte, Salerno 2001); Musica (Guida, Napoli 2004); L’idea di musica assoluta. Nietzsche-Benjamin (Il Ramo, Rapallo 2007). E-mail: [email protected] CARLO MIGLIACCIO è docente di filosofia e musicologo. Dottore di ricerca all’Università di Tolosa, è tra i fondatori, presso l’Università degli Studi di Milano, del “Seminario Permanente di Filosofia della musica”. C. M. est professeur de philosophie, musicologue et docteur en philosophie de l’Université de Toulouse. Il compte parmi les fondateurs du “Seminario Permanente di Filosofia della musica”, à l’Università degli Studi de Milan. C. M. is Professor of philosophy and musicologist. He was awarded a PhD from the University of Toulouse and he is one of the founders of the “Seminario Permanente di Filosofia della musica” (University of Milan). Ha pubblicato / Il a publié / Has published: I balletti di Stravinskij (Mursia, Milano 1992), Bergson (Mursia, Milano 1994), Musica e utopia (Guerini, Milano 1995), Debussy (Mursia, Milano 1997) L’Odissea musicale nella filosofia di Jankélévitch (CUEM, Milano 2000; trad. fr. L’Odyssée musicale dans la philosophie de Vladimir Jankélévitch, Presses Universitaires du Septentrion, Lille 2000). Ha curato / Il a édité / He edited: Introduzione alla filosofia della musica (Utet-De Agostini, Novara 2009). E-mail: migliaccio.carlo@ fastwebnet.it PIER ALDO ROVATTI, dopo essersi formato a Milano alla scuola di Enzo Paci, dal 1977 insegna a Trieste dove attualmente è ordinario di Filosofia teoretica. Ha lavorato soprattutto sul pensiero contemporaneo pubblicando monografie su Whi-
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Gli Autori/Les Auteurs/The Authors
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tehead, Sartre, Lévinas, e concentrandosi poi sulla questione della soggettività. Dal 1974 dirige la rivista “aut aut” (fondata nel 1951 da Paci), attraverso la quale ha valorizzato soprattutto i temi di Foucault, Derrida e Lacan. Con Gianni Vattimo ha pubblicato Il pensiero debole (1983) aprendo un’intensa stagione di dibattiti, anche a livello internazionale. P. A. R. (1942), après s’être formé, à Milan, à l’école phénoménologique dirigée par Enzo Paci, enseigne depuis 1977 à l’Université de Trieste, où il est professeur de Philosophie. Il a travaillé surtout sur la pensée contemporaine. Il a consacré d’abord des monographies en particulier à Whitehead, Sartre, Lévinas, puis a concentré son travail sur la question de la subjectivité. Il dirige depuis 1974 la revue de philosophie “aut aut” (fondée en 1951 par Enzo Paci), dans laquelle les pensées de Foucault, Derrida et Lacan en particulier ont reçu un relief particulier. Il a publié Il pensiero debole (1983) avec Gianni Vattimo, ce qui a ouvert une intense saison de debats, y compris au niveau international. P. A. R. (1942), after having studied at the school of Enzo Paci in Milan, he has taught at Trieste since 1977, where he is currently Professor of Theoretical Philosophy. He has focussed on contemporary thought, publishing works on Whitehead, Sartre, Lévinas, subsequently dealing with the issue of subjectivity. He has been editor of the journal “aut aut” since 1974 (founded in 1951 by Paci), through which he has valorised the themes of Foucault, Derrida and Lacan. In 1983, he published along with Gianni Vattimo, Il pensiero debole, which lead to a series of intense debates, even on an international level. Fra le sue opere più recenti /Parmi ses ouvrages les plus récents / His most recent works include: La posta in gioco (Bompiani, Milano 1987), L’esercizio del silenzio (Cortina, Milano 1992), Il paiolo bucato (Cartina, Milano 1998), La follia in poche parole (Bompiani, Milano 2000), Guardare ascoltando (Bompiani, Milano 2003), La filosofia può curare? (Cortina, Milano 2006), Possiamo addomesticare l’altro? (Forum Ed., Udine 2007). E-Mail: [email protected] CLOVIS SALGADO GONTIJO OLIVEIRA ha conseguito il diploma di laurea in Musica alla Facoltà Santa Marcellina (San Paolo – Brasile) e il Master in Musica all’Università Cristiana del Texas (Fort Worth – EUA). Dopo gli studi musicali, ha conseguito un secondo diploma di laurea in Filosofia alla Facoltà Gesuitica di Filosofia e Teologia (Belo Horizonte – Brasile). Attualmente, grazie al finanziamento del Conicyt (Comisión Nacional de Investigación Científica y Tecnológica del Governo del Cile), sta preparando il dottorato in Estetica alla Facoltà dell’Arte dell’Università del Cile (Santiago). In occasione del primo convegno brasiliano di Filosofia della musica (all’Università di San Paolo, 2005), ha presentato l’articolo Le concept de l’ineffable dans l’esthétique musicale de Vladimir Jankélévitch, pubblicato negli “Atti” del convegno stesso. C. S. G. O. a obtenu sa licence en Musique à la Faculté Santa Marcelina (São Paulo – Brésil) et son Master en Musique à l’Université Chrétienne du Texas (Fort Worth – EUA). Après ses études musicales, il a obtenu une deuxième licence en
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
Philosophie à la Faculté Jésuite de Philosophie et Théologie (Belo Horizonte – Brésil). Maintenant, avec le financement du Conicyt (Comisión Nacional de Investigación Científica y Tecnológica del Gobierno de Chile), il prépare le doctorat du programme d’Esthétique de la Faculté d’Art de l’Université du Chili (Santiago). À l’occasion de la 1 ère Rencontre Brésilienne de Philosophie de la Musique (Université de São Paulo, 2005), il a présenté l’article Le concept de l’ineffable dans l’esthétique musicale de Vladimir Jankélévitch, qui a été publié dans les “Annales” du congrès. C. S. G. O. earned his Bachelor’s degree in Music from the Santa Marcelina College (Faculdade Santa Marcelina – São Paulo – Brazil) and his Master’s degree in Music from the Texas Christian University (Fort Worth – USA). He subsequently graduated in Philosophy from the Jesuit College of Philosophy and Theology (Belo Horizonte – Brazil). As a Conicyt (Comisión Nacional de Investigación y Tecnología del Gobierno de Chile) scholarship recipient, he is now a doctorate candidate in the Aesthetics’ program of the Faculty of Arts of the University of Chile (Santiago). He presented, during the 1st Brazilian Meeting of Philosophy of Music (University of São Paulo, 2005), a speech on The concept of the ineffable in the musical aesthetics of Vladimir Jankélévitch, which was published in the annals of the congress. E-mail: [email protected] GIUSEPPINA SANTUCCI, diplomata in arpa al Conservatorio “G.Rossini” di Pesaro e dottore di ricerca in filosofia, insegna Storia sociale dell’arte e Storia della musica moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. Diplomata in Scienze Religiose presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “I.Mancini” di Urbino, si interessa prevalentemente di filosofia, teologia e musica e dei rapporti che intercorrono tra tali discipline. Perfezionatasi in Scienze storico-antropologiche delle religioni, insegna Dottrina sociale della Chiesa presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Giovanni Paolo II” di Pesaro. G. S., diplômée en harpe du Conservatoire “G.Rossini” (Pesaro) et en Sciences Religieuses de l’Institut des Sciences Religieuses “I.Mancini” (Université des Études d’Urbino “Carlo Bo”), docteur en philosophie dans la même Université; elle a étudié les multiples rapports de la musique avec la philosophie et la théologie. Professeur en Histoire sociale de l’art et en Histoire de la musique moderne et contemporaine (Université “Carlo Bo”), et professeur en Doctrine sociale de l’Église (Institut Supérieur des Sciences Religieuses “Jean Paul II”, Pesaro), G. S. was awarded a diploma in harp studies from the Conservatorio “G.Rossini” (Pesaro) and graduated in Religious Sciences at the Institute of Advanced Studies in Religious Sciences of “I.Mancini” (University “Carlo Bo”, Urbino). She took a PhD in philosophy at the same University. As researcher, she is interested in the relationships between philosophy, theology and music. She teaches Social history of art and History of modern and contemporary music (University “Carlo Bo”) and Social doctrine of the Church (Institute of advanced Studies in Sciences of Religion “Giovanni Paolo II”, Pesaro).
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Gli Autori/Les Auteurs/The Authors
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Tra le sue pubblicazioni / Parmi ses publications / His publications include: Jankélévitch. La musica tra charme e silenzio (Milella, 2001); Librarsi oltrepassando. L’ascolto nell’experimentum musicae di Ernst Bloch (Mimesis, 2007); Theophonia. Mistero della musica e suono del Mistero (in “Hermeneutica”, Morcelliana, 2003); L’arte di sfiorare. Il Satie di Jankélévitch e le aporie in musica (in “Estetica”, Il Melangolo, 2004); Höllenrose. Bloch contra Wagner e il paradosso della sua riconciliazione (in “Rivista di filosofia neo-scolastica”, Vita e Pensiero, 2006). E-mail: [email protected] LUCIO SAVIANI ha insegnato Storia della Filosofia e Fondamenti di Scienze Umane all’Università di Roma “La Sapienza”, dove attualmente insegna Estetica. Collaboratore dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, consulente di Rai Educational e membro della Società Italiana di Estetica, tiene seminari e conferenze nelle università europee e americane. I suoi lavori si situano nell’ambito dell’ermeneutica, cui ha contribuito con numerosi studi (volumi e saggi, in riviste e volumi collettanei) tradotti in Europa e in America, dedicati all’estetica e all’ermneutica contemporanea, alla filosofia come genere di scrittura e al dialogo fra filosofia e teologia. L. S. a enseigné l’histoire de la Philosophie et les Fondaments des Sciences Humaines à l’Université de Rome “La Sapienza”, où il enseigne actuellement l’Ésthétique. Collaborateur de l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici de Naples, Conseiller de RAI Educational et membre de la Société Italienne de l’Esthétique, il tient des séminaires et des conférences dans les Universités européennes et américaines. Ses travaux se situent dans le cadre de l’herméneutique, à laquelle il a donné sa contribution avec de nombreux essais (livres et articles, en revues et collectifs) traduits en Europe et en Amérique, consacrés à l’esthétique et à l’herméneutique contemporaine, à la philosophie comme genre d’écriture et au dialogue entre philosophie et théologie. L. S. has taught History of Philosophy and Foundations of Human Science at the University of Rome “La Sapienza”, where he is now teaches Aesthetics. He is a member of the Italian Institute for Philosophical Studies of Naples, a consultant for Rai Educational and member of the Italian Society of Aesthetics, he holds lectures and seminars in European and American Universities. His works are set within hermeneutics in Italy as shown by his numerous studies (books and essays, published in reviews and miscellaneous volumes) translated in Europe and America, about aesthetics, contemporary hermeneutics, philosophy as a writing genre and the dialogue between philosophy and theology. Fra i suoi lavori/Parmi ses travaux/ His works include: Voci di confine (Rispostes, Salerno-Roma 1993); A dadi con gli dei (ivi, 1994); L’ordine del giorno (Politeia, Caserta 1995); (a cura di) Segnalibro (Liguori, Napoli 1995); Ermeneutica del gioco (ESI, Napoli 1998); Sull’Athos (Casetta dell’Uva, Caserta 2002); Necessità della filosofia (ivi, 2006); Ermeneutica e scrittura (Aliberti, Reggio Emilia 2008). E-mail: [email protected]
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
FRANÇOISE SCHWAB, storica, allieva e amica di Vladimir Jankélévitch. F. S. historienne; disciple et amie de V. Jankélévitch. F. S. Historian, student and friend of Vladimir Jankélévitch. Dopo la morte del filosofo, ha curato le edizioni e prefazioni di diverse sue opere, come / Depuis la mort du philosophe, elle a établi et préfacé l’édition de nombreux ouvrages notamment /Following the death of the philosopher, he has edited and contributed to several works, including: Sources; Premières et dernières pages; La Musique et les heures; Une vie en toutes lettres; Penser la mort?; Plotin, Ennéades I, 3 “Sur la dialectique”; Philosophie Morale; Liszt, rhapsodie et improvisation; Cours de philosophie morale. (In preparazione / En préparation / In preparation: Vladimir Jankélévitch, l’esprit de résistance; Actuel, inactuel; Jankélévitch et Léon Chestov). Ha pubblicato numerosi articoli, come / Elle a publié de nombreux articles, notamment / Has published several articles, including: Liszt et Jankélévitch: deux âmes semblables paru en Italie (“Paradigmi”) et en France (“Kephas”, avril 2008). E-mail: [email protected] BERNARD SÈVE ex-allievo dell’ Ecole Normale Supérieure (Parigi), attualmente è Professore di Estetica e filosofia dell’arte presso l’Università di Lilla -3. B. S. ancien élève de l’École Normale Supérieure (Paris), est professeur d’esthétique et de philosophie de l’art à l’Université Lille-3. B. S. studied at the École Normale Supérieure (Paris). He is currently Professor of Aesthetics and Philosophy of Art at the University of Lille III. È autore di / Il est l’auteur de / He is the author of: L’Altération musicale, ou ce que la musique apprend au philosophe (Seuil, Paris 2002). Recentemente ha pubblicato / Il a récemment publié / Is published recently: Montaigne, des règles pour l’esprit (PUF, Paris 2007). E-mail: [email protected] DAVIDE TARIZZO è Ricercatore in Filosofia Morale presso l’Università di Salerno. Per alcuni anni ha lavorato sulle implicazioni etiche e ontologiche del pensiero psicoanalitico (Freud e Lacan). Attualmente lavora su due altri temi: il concetto moderno di vita all’incrocio di scienza e politica; usi teorici e significati politici di talune categorie psicoanalitiche. D. T. est “Ricercatore” en Philosophie Morale à l’Université de Salerne. Il a travaillé pendant longtemps sur les implications éthiques et ontologiques de la théorie psychanalytique (Freud et Lacan). Ses travaux portent désormais sur deux autres problèmes: la notion moderne de vie dans le champ de la science et de la politique; la signification politique et l’usage théorique des certaines catégories psychanalytiques.
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Gli Autori/Les Auteurs/The Authors
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D. T. is currently a “Ricercatore” in Moral Philosophy at the University of Salerno. For many years, he has worked on the ethical and ontological implications of psychoanalysis (Freud and Lacan), he is currently working on two other topics: the modern concept of life in the field of science and politics; the political meaning and philosophical use of some psychoanalytical categories. Tra le sue pubblicazioni recenti/ Parmi ses publications les plus récentes/ His most recent publications include: Il pensiero libero. La filosofia francese dopo lo strutturalismo (Cortina, Milano 2003); Introduzione a Lacan, Laterza (Roma-Bari 2003); Giochi di potere. Sulla paranoia politica (Laterza, Roma-Bari 2007). E-mail: [email protected] VINCENZO VITIELLO è professore ordinario di “Filosofia teoretica” all’Università di Salerno; ha insegnato “Teologia politica” all’Università “Vita-Salute San Raffaele” di Milano, ove insegna attualmente “Filosofia della storia”. Studioso del pensiero moderno e contemporaneo – in particolare di Vico, Kant, dell’idealismo classico tedesco, di Nietzsche e Heidegger – in costante rapporto con la filosofia greca e la tradizione cristiana, ha elaborato una propria prospettiva ermeneutica, la “topologia”, fondata su una reinterpretazione del concetto di spazio. Ha tenuto cicli di conferenze e seminari in Europa (Germania, Francia, Spagna, Croazia), negli USA (New York, Chicago) e in America latina (Messico, Argentina). Suoi scritti sono stati tradotti in tedesco, francese, inglese e spagnolo. V. V. est professeur de philosophie théorique à l’Université de Salerne; il a enseigné la théologie politique à l’Université “Vita-Salute San Raffaele” de Milan où il enseigne actuellement la philosophie de l’histoire. Ses travaux portent sur la pensée moderne et contemporaine – en particulier sur Vico, Kant, l’idéalisme classique allemand, Nietzsche et Heidegger – en constant rapport avec la philosophie grecque et la tradition chrétienne. Il a élaboré sa propre perspective herméneutique, la “topologie”, fondée sur une réinterprétation du concept d’espace. Il a donné des cycles de conférences et des séminaires à travers l’Europe (Allemagne, France, Espagne, Croatie), aux Etats-Unis (New York, Chicago) et en Amérique Latine (Mexique, Argentine). Ses écrits ont été traduits en allemand, français, anglais et espagnol. V. V. is Professor of Theoretical Philosophy at the University of Salerno. Has taught Political Theology at the University “Vita-Salute San Raffaele” in Milan, where he currently teaches Philosophy of History. He studies modern and contemporary thought, in particular Vico and Kant, from classical German idealism of Nietzsche and Heidegger – in constant connection with Greek philosophy and Christian tradition, he has elaborated his own hermeneutic perspective, “topology”, based on a reinterpretation of the concept of space. He has held conferences and seminars in Europe (Germany, France, Spain, Croatia), USA (New York, Chicago) and Latin America (Mexico, Argentina). His most recent works have been translated into German, French, English and Spanish.
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
Tra le sue pubblicazioni / Parmi ses publications/ His publications include: Heidegger: il Nulla e la fondazione della storicità (Argalia, Urbino 1976); Dialettica ed Ermeneutica: Hegel e Heidegger (Guida, Napoli 1978); Utopia del nichilismo. Tra Nietzsche e Heidegger (Guida, Napoli 1983); Ethos ed Eros in Hegel e Kant (ESI, Napoli 1984); Topologia del moderno (Marietti, Genova 1992); Elogio dello spazio. Ermeneutica e topologia (Bompiani, Milano 1994; trad. tedesca parziale 1993); Cristianesimo senza redenzione (Laterza, RomaBari 1995; trad. spagnola 1999); Genealogía de la modernidad (Buenos Aires, 1998); La Favola di Cadmo. La storia tra scienza e mito da Blumenberg a Vico (Laterza, Roma-Bari 1998); Secularización y Nihilismo (Buenos Aires, 1999); Vico e la topologia (Cronopio, Napoli 2000); Il Dio possibile (Città Nuova, Roma 2002); Hegel in Italia. Dalla storia alla logica (Guerini, Milano 2003); Dire Dio in segreto (Città Nuova, Roma 2005; I Premio Internazionale “Salvatore Valitut-ti”); I tempi della poesia. Ieri / Oggi (Mimesis, Milano 2007; trad. spagnola in corso); Ripensare il cristianesimo. De Europa (Ananke, Torino 2008); Vico. Storia Linguaggio Natura (Ed. Storia e Letteratura, Roma 2008); Grammatiche del pensiero. Dalla kenosi dell’io alla logica della seconda persona, ETS, Pisa 2009. Dirige la Rivista di filosofia “Il Pensiero”. E-mail: [email protected] SILVIA VIZZARDELLI è professore associato di Estetica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria, dove insegna anche Estetica musicale e Filosofia della musica. S. V. enseigne l’Esthétique, l’Esthétique musicale et la Philosophie de la musique à l’Université de Calabre (Faculté de Lettres et Philosophie). S. V. is Professor of Aesthetics, Music Aesthetics and Philosophy of Music at the University of Calabria (Faculty of Arts and Philosophy). Negli ultimi anni ha pubblicato / Au cours des dernières années elle a publié / Her most recently published works include: L’esitazione del senso. La musica nel pensiero di Hegel (Bulzoni, Roma 2000); (a cura di) La regressione dell’ascolto. Forma e materia sonora nell’estetica musicale contemporanea (Quodlibet, Macerata 2002); Battere il tempo. Estetica e metafisica in Vladimir Jankélévitch (Quodlibet, Macerata 2003), Filosofia della musica (Laterza, Roma-Bari, 2007). E-mail: [email protected] FRÉDÉRIC WORMS attualmente è professore di Filosofia presso l’Université de Lille 3 e Direttore del “Centre international d’étude de la philosophie française contemporaine all’ENS (Parigi). I suoi lavori si rivolgono all’opera di Bergson, attorno al quale egli organizza diverse attività collettive: redige gli “Annales bergsoniennes” (tre volumi apparsi presso PUF), al contempo dirige l’edizione critica di Bergson (sempre presso PUF) ed è presidente della “Société des amis de Bergson”. I suoi interessi ventono anche sulla questione delle relazioni vitali e morali oggi (diversi articoli, già pubblicati, saranno raccolti prossimamente in volume).
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Gli Autori/Les Auteurs/The Authors
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F. W. est actuellement professeur de philosophie à l’Université de Lille 3 et Directeur du Centre international d’étude de la philosophie française contemporaine à l’ENS (Paris). Ses travaux portent sur l’œuvre de Bergson autour duquel il anime diverses entreprises collectives: rédacteur des Annales bergsoniennes (trois volumes parus, PUF), il est également responsable de l’édition critique de Bergson aux PUF, et président de la Société des amis de Bergson. Il s’intéresse également à la question des relations vitales et morales aujourd’hui (divers articles déjà parus seront prochainement réunis en recueil). F. W. is currently Professor of Philosophy at the University of Lille 3 and Director of Centre international d’étude de la philosophie française contemporaine à l’ENS (Paris). His studies are based on the works of Bergson, upon which he has published several collections: he has edited the Bergsonian annals (three volumes by PUF) as well as the criticism of Bergson (PUF). He is also the president of Société des amis de Bergson. He is interested in issues of vital and moral relationships of today (having written several articles, which will be published in a forthcoming volume). Ultimo libro pubblicato / Dernier livre paru / Most recent publication: Bergson ou les deux sens de la vie, PUF, Paris 2004 E-mail: [email protected] SIMONE ZACCHINI è Ricercatore in Storia della filosofia presso l’Università degli Studi di Siena. Si occupa di filosofia del Novecento, in particolare di fenomenologia, epistemologia e filosofia della musica. S. Z. est “Ricercatore” en Histoire de la Philosophie à l’Université de Sienne. Il s’intéresse à la philosophie du vingtième siècle, en particulier à la phénoménologie, l’épistémologie et la philosophie de la musique. S. Z. is a “Ricercatore” in History of Philosophy at the University of Siena. He is interested in the Philosophy of the 1900s, in particular of phenomenology, epistemology and philosophy of music. Tra i suoi libri /Parmi ses livres/ His books include: Al di là della musica. Friedrich Nietzsche nelle sue composizioni musicali (FrancoAngeli, Milano 2000), Stravinsky. Caso, nulla disincanto (Messaggero, Padova 2002), L’altra voce del logos.Filosofia, musica e silenzio in Jankélévitch (Trauben, Torino 2003), Il corpo del nulla. Note fenomenologiche sulla crisi del pensiero contemporaneo (FrancoAngeli, Milano 2005). E-mail: [email protected] SARA ZURLETTI è nata a Roma, dove si è diplomata in violino e laureata in Estetica, con Emilio Garroni, all’Università “La Sapienza” (1997). Ha proseguito gli studi a Parigi, all’Università “Parigi 8”, conseguendo il diploma di Dottore di ricerca (2002). Ha poi insegnato a “Parigi 8” come docente a contratto. È stata borsista dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici ( 2001-2003), e attualmente è
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In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch
“professore a contratto” per l’insegnamento di Estetica musicale presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. È autrice di numerosi saggi di argomento filosofico e musicologico per i maggiori teatri italiani e per le più importanti riviste italiane e francesi del settore. S. Z. est née à Rome, où elle a obtenu sa maîtrise en Esthétique avec Emilio Garroni, à l’Université “La Sapienza” (1997). Elle a poursuivi ses études à Paris, où elle a obtenu son Doctorat en “Musique” (2002). Elle a commencé à enseigner dans cette même Université, et a ensuite été boursière de l’Istituto Italiano per gli Studi Storici de Naples (2001-2003). Elle est actuellement “professore a contratto” à l’Université Suor Orsola Benincasa de Naples. Elle est l’auteur de nombreux essais pour les plus importants théâtres italiens, et dans des revues italiennes et françaises. S. Z. was born in Rome, where she has graduated in Aesthetics under Emilio Garroni, at the University “La Sapienza” (1997). She continued her studies in Paris, where she was awarded a Ph.D in “Music” by the University “Paris 8” (2002). She started teaching at the same University. She subsequently won a scholarship at the Istituto Italiano per gli Studi Storici of Naples (2001-2003). She is currently “professore a contratto” at the university Suor Orsola Benincasa of Naples. She has written many essays on music and aesthetics for the most important Italian theatres, as well as Italian and French magazines. Ha curato i volumi / Elle a édité / Has edited: Adorno 1903-2003. Una Ragione per la musica (Cuen, Napoli 2006) e Mozart 1756-2006. Il dissoluto impunito (Cuen, Napoli 2008). Ha pubblicato la monografia /Elle a publié la monographie / Has published: Il concetto di materiale musicale in Th. W. Adorno (IISF, Napoli 2006). E-mail: [email protected]
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