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Italian Pages 264 [266] Year 2018
Immacolata Amodeo Caroline Lüderssen Giovanni Meda Riquier
B A ND 6
L’opera letteraria di Camillo Boito in dialogo con le Arti
Immacolata Amodeo, Caroline Lüderssen, Giovanni Meda Riquier (Hg.) L'opera letteraria di Camillo Boito in dialogo con le Arti
AURORA Schriften der Villa Vigoni herausgegeben von Immacolata Amodeo Band 6
L'opera letteraria di Camillo Boito in dialogo con le Arti a cura di Immacolata Amodeo, Caroline Lüderssen e Giovanni Meda Riquier in collaborazione con Carmelo Alessio Meli
Franz Steiner Verlag
Gefördert vom DAAD aus Mitteln des Bundesministeriums für Bildung und Forschung (BMBF).
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INDICE Immacolata Amodeo, Caroline Lüderssen, Sandro Scarrocchia Introduzione ......................................................................................................
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Giovanni Meda Riquier I Boito e i Vigoni...............................................................................................
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I
L’OPERA LETTERARIA DI BOITO
Matilde Dillon Wanke Reversibilità dei ruoli in Boito viaggiatore.......................................................
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Chiara Cretella Anatomie estetiche. Iconografie del femminile nella letteratura boitiana ........
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Ludger Scherer Fratelli d’Italia: Il dialogo letterario fra Camillo ed Arrigo Boito ....................
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Corinna Scalet Fra soprannaturale, psicologico e grottesco: il demonio muto. Tematiche e influsso della novellistica scapigliata nella scrittura di Camillo Boito................................................................................................
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Dagmar Bruss Fratelli annebbiati e sorelle angeliche. Notte di Natale di Camillo Boito e Senilità di Italo Svevo ....................................................................................
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Laura Staiano Camillo Boito e il genere fantastico. Analisi comparativa della novella Macchia grigia e del racconto Claire Lenoir di Villiers de l’Isle-Adam ..........
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II BOITO TRA LETTERATURA E ARTI Viola Stiefel Costrutti spaziali ne Il maestro di setticlavio di Camillo Boito ........................
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Annarita Zazzaroni L’elemento sonoro e il Femminile nei racconti di Camillo Boito Vade retro, Satana e Il maestro di setticlavio ......................................................................
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Indice
Elisabeth Braunshier Camillo Boito e la messa in scena de La battaglia di Legnano di Giuseppe Verdi al Teatro alla Scala .............................................................. 107 Monica Biasiolo ‘Scolpire la carta come il marmo per formare un corpo’: scienza, arti visive e letteratura a dialogo in Camillo Boito ............................................................ 113 Luca Mendrino Sulla scrittura pittorica di Camillo Boito .......................................................... 129 III LA RICEZIONE DI BOITO LETTERATO Alessandro Scarsella Il Camillo che non ti aspetti. Dopo Senso: presenza delle Storielle vane tra letteratura e cinema della seconda metà del Novecento con un’appendice sulla traduzione inglese della Macchia grigia ..................... 143 Friedrich Wolfzettel Senso fra Camillo Boito e Luchino Visconti. Dal cinismo ottocentesco a una teatralità tragica................................................................................................. 151 APPENDICE Giuliana Bertacchi Contributo allo studio di Camillo Boito. Tesi di Laurea Materie Letterarie Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano 1962 ...................................... 159 Chiara Cretella Bibliografia boitiana.......................................................................................... 239 Indice degli autori e dei curatori ....................................................................... 263
INTRODUZIONE Immacolata Amodeo / Caroline Lüderssen / Sandro Scarrocchia1 Le celebrazioni del Centenario boitiano (1914–2014) intitolate Camillo Boito moderno rappresentano l’impresa congiunta dell’Accademia di Belle Arti di Brera, del Dipartimento di Letterature Romanze dell’Universität Heidelberg e di Villa Vigoni, Centro Italo-Tedesco per l’Eccellenza Europea. Si sono articolate attraverso due convegni: il primo ‘Il corpo e l’anima dell’arte’ – l’opera letteraria di Camillo Boito in dialogo con le arti,2 ha avuto luogo dal 17 al 19 giugno 2014 a Villa Vigoni ed è stato finanziato dal programma Deutsch-italienische Dialoge del Deutscher Akademischer Austauschdienst (DAAD). Il secondo Camillo Boito moderno,3 si è svolto dal 3 al 4 dicembre 2014 presso l’Accademia di Belle Arti di Brera in cooperazione con il Politecnico di Milano. Questo volume raccoglie i risultati del convegno di Villa Vigoni. Attraverso questi due incontri di studio si è cercato di ricostruire una personalità tra le più variegate e poliedriche del XIX secolo; di conseguenza il lettore dovrà aspettarsi, piuttosto che saggi specialistici unitari, un dialogo fra le parti, varie voci a confronto che dibatteranno su più argomenti in relazione alla multiforme produzione boitiana. Poiché tuttavia l’arte di Camillo Boito si muove in continuazione su livelli diversi, portando a esperienze sinestetiche, siamo dell’opinione che si possa continuare ad alimentare un dialogo fra filologi, storici, esperti di cinema e teatro, architetti, musicologi e storici dell’arte. Per questa ragione, abbiamo tentato di tenere costantemente presente il Boito in prospettiva, ossia di far emergere lo spirito di questo autore, che spazia fra discipline e campi così eterogenei. In questo volume sono raccolti contributi e riflessioni sull’opera letteraria di Boito in dialogo con le arti; il volume relativo al secondo convegno è interamente riservato al suo ruolo di architetto. Tuttavia, profondamente convinti della complementarietà dei due aspetti, vogliamo affrontare in questa Introduzione entrambe le
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Si ringrazia Carmelo Alessio Meli per la collaborazione alla stesura del testo. Organizzato da Immacolata Amodeo, Villa Vigoni, Caroline Lüderssen, Universität Heidelberg, Giovanni Meda Riquier, Villa Vigoni. Oltre agli autori presenti con un contributo in questo volume, al convegno hanno partecipato i seguenti studiosi: Claudia Caramel, Emanuele D’Angelo, Anselm Gerhard, Margherita Guarisco, Marco Sirtori. I contributi di Claudia Caramel e di Margherita Guarisco sono stati inseriti nel volume Camillo Boito Moderno, Milano, Mimesis Edizioni 2018. Durante il convegno svoltosi a Villa Vigoni si è tenuta una serata musicale e scenica dal titolo Un ricordo del Mefistofele e di due fratelli, a cura di Giacomo Agosti (in collaborazione con Paolo Redditi), con la partecipazione di Emanuele Servidio (tenore), Nina Saziyants (soprano), Emanuele De Filippis (pianoforte). Organizzato da Sandro Scarrocchia, Accademia di Belle Arti di Brera Milano.
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dimensioni – quella dell’architetto e quella dello “scrittore part time”4 – così correlate tra loro; utilizzeremo pertanto questo spazio come occasione per una prima riflessione sistematica e generale su Boito che, speriamo, possa rivelarsi utile anche per il lettore del volume successivo. I Se si prende in esame la rilevanza dell’opera letteraria di Boito in dialogo con le arti, emerge che, nonostante gli svariati studi recenti e una certa celebrità dovuta al cinema attraverso la trasposizione della novella Senso realizzata da Luchino Visconti5, la figura di Boito rimane ancora un po’ nell’ombra6. Per esempio, ci si potrebbe chiedere quale ruolo abbia saputo ricoprire, come fratello maggiore di Arrigo, il celebre librettista dell’opera matura di Giuseppe Verdi (Otello, 1887, e Falstaff, 1893) e compositore anch’egli (Mefistofele, 1868), o come membro del gruppo degli scapigliati, definito recentemente come movimento d’avanguardia avant la lettre.7 In che modo dunque immaginare lo stretto rapporto fra i fratelli, dotati di genio creativo in campi diversi? Se guardiamo le fotografie, per esempio quelle che li mostrano insieme a Verdi presso il cantiere della Casa di Riposo a Milano, possiamo vedere delle persone sicure di sé, a primo acchito sensibili e creative. Entrambi agiscono in quella stagione post-risorgimentale che non a caso Visconti nel suo film citerà attraverso icone della pittura come Il bacio (1859) di Francesco Hayez.8 L’Italia era pervasa da difficoltà politiche e sociali, ma anche pronta ad accogliere nuove idee, soprattutto nel campo delle arti e ad aprirsi verso l’estero – Francia, Germania, Inghilterra – fenomeno questo che se testimonia una crisi contemporaneamente indica anche un bisogno di progresso. In riferimento all’opera letteraria di Boito diremmo che questa si schiude in almeno tre spazi immaginari: il taccuino pittorico, lo studio psicanalitico e il teatro anatomico. 4 5
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R. Bertazzoli, “Introduzione a Camillo Boito” in: C. Boito, Senso. Storielle vane, Milano, Garzanti, 1990. Cfr. per un quadro generale introduttivo i contributi di M. Dillon Wanke, L. De Franceschi, G. Agosti, L. Capano e B. Conti nel volume Camillo Boito e il sistema delle arti. Dallo storicismo ottocentesco al melodramma cinematografico di Luchino Visconti. Atti degli incontri di studio promossi dall’Accademia di Brera, a cura di G. Agosti e C. Mangione, Padova, il Poligrafo, 2002. Per una prospettiva aggiornata cfr. F. Wolfzettel nel presente volume. Citiamo tra i lavori pubblicati negli ultimi anni, a mo’ d’esempio, C. Cretella, Architetture effimere. Camillo Boito tra arte e letteratura, Camerano, Dakota Press, 2013. S. Schrader, La Scapigliatura. Schreiben gegen den Kanon, Heidelberg, Winter, 2013, p. 7. Cfr. L. Capano, Iconografia dei Vinti, in: Camillo Boito e il sistema delle arti, cit., pp. 151–157. A proposito della figura di Francesco Hayez si ricorda la mostra monografica Hayez alle Gallerie d’Italia a Milano (6 novembre 2015 al 21 febbraio 2016), curata da F. Mazzocca e organizzata in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti e la Pinacoteca di Brera, di Milano, e le Gallerie dell’Accademia di Venezia. All’esposizione erano presenti circa 120 opere dell’artista veneziano tra cui due dipinti provenienti dalle collezioni di Villa Vigoni (Giulio Vigoni bambino e il Ritratto di Friederike Schnauss). Cfr. F. Hayez, a cura di F. Mazzocca, Milano, Silvana Editoriale, 2015 (catalogo mostra Milano 2015), pp. 152–153; 234–235.
Introduzione
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Sulla scia della lettura di Carla Ponti, rappresentiamo l’opera narrativa di Boito come appartenente a una sorta di diario pittorico.9 Quello che stupisce nella scrittura boitiana è la sensazione costante di esercitazione, di sperimentazione, il modo in cui le parole sembrano adeguarsi al pennello del pittore.10 La formula del diario, quasi fosse una specie di prima bozza, diventa rintracciabile quindi anche nella condizione di evoluzione psicologica ed emotiva insieme dei personaggi di Boito. Essi ci appaiono in questa forma per via di un loro essere quasi costantemente incompleti, bisognosi di protezione, di salvezza persino. La dimensione più interessante di questa tavolozza di personaggi, semplicemente schizzati nella loro individualità, è la capacità di connessione intima con il lettore che non si trova di fronte a un individuo pienamente presente a sé stesso, diremmo compiuto. Il lettore quindi, coinvolto dallo spaesamento dei protagonisti, si trova davanti l’immagine, persino misteriosa, di qualcuno che è già e non ancora. Ad esempio nel maestro di musica Zen della novella Il maestro di setticlavio, è evidente per chi va oltre alla prima impressione, che il conflitto interno di questo personaggio non è un semplice problema che si dipana durante il racconto. La difficoltà perdura, è presente sulla tela dello scrittore e consegnata – come bozza – il lettore può interiorizzarla, commentarla o seguirla durante il suo percorso. Possiamo ragionevolmente supporre, infatti, che il maestro Zen acquisti una dimensione che va oltre il racconto, impersoni un’idea possibile, e contemporanea, di umanità. Egli è una sorta di riflessione in nuce, un’eventualità ancora in divenire. Il diario boitiano sotto molti aspetti ci testimonia uno scrittore senza dubbio moderno: il suo ‘laboratorio narrativo’ che in quanto tale è però aperto a tutti, leggibile e analizzabile, interroga direttamente chi si approccia al testo e lo estroflette verso la folta rosa di possibilità che le azioni di Camillo indicano. In relazione a due criteri ermeneutici citati sopra, il teatro anatomico e lo studio psicanalitico, fortemente interconnessi, Boito riesce a presentare dei personaggi tormentati da mali interiori, veri e propri demoni frutto di una certa tradizione letteraria e del gusto per la ripresa dei ‘misteri’ di un Medioevo scomparso ma affascinante. Questi personaggi non appaiono come semplici riferimenti storici a un’epoca e a tradizioni ormai perdute: essi rivivono in loro stessi il dramma archetipico dell’umanità ma, in buona sostanza, interiorizzandolo. I protagonisti di Boito sono pertanto eminentemente moderni e, come si è spesso notato, pre-psicanalitici. Questo concentrarsi sull’aspetto dell’individuale, del privato e – in ultima analisi – dell’interno, fa comprendere che per Boito la realtà psichica va conosciuta con precisione. Non basta descrivere un sentimento, alto o nobile che sia. Esso va analizzato sul tavolo di lavoro del patologo, va scisso nelle sue forme sociali più minute e, infine, va ricomposto nella narrazione. I suoi personaggi spesso sembrano sdraiati sul divano dell’ambulatorio dello psicanalista con le loro ampie confessioni di ansie, fantasie e immaginazioni mostruose. Pensiamo alle manie della cantante Nene ancora nel Maestro di setticlavio, immaginariamente colpevole di un amore 9 10
C. Ponti, “Introduzione a Camillo Boito” in: C. Boito, Senso e altre novelle, Perugia, Guerra, 1999, pp. 5–9: 8. Cfr. M. Dillon Wanke, “Boito narratore e paesaggista” in: Camillo Boito e il sistema delle arti, cit. (n. 5), pp. 61–74: 61.
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proibito; alla fissazione di Giorgio, protagonista di Notte di Natale, il quale spezza un dente a una bella ragazza per impossessarsi della sua bellezza e nello stesso tempo per distruggerla; oppure al simbolismo profondamente psicologico della Macchia grigia, malattia misteriosa da cui è affetto l’occhio del protagonista, irritato e confuso nella sua stessa percezione mutante a seconda del dramma fisico e psichico che egli crede di vivere. Sembra che Boito accolga a braccia aperte le deformazioni della mente dei suoi protagonisti, senza giudicarle, rifacendosi a Baudelaire e i suoi ritratti immaginari, Les Fleurs du Mal. Un aspetto tipico della prosa boitiana è la sintesi di questi elementi in un costrutto narrativo unitario. Non di rado, come alcuni saggi della presente raccolta testimoniano, si assiste ad una fusione dell’artistico e dello psichico in un mondo complesso di azioni che, fuor di metafora, corrisponde essenzialmente al contesto sociale e umano nei quali i personaggi di Camillo sono ‘costretti’ a vivere. Diciamo costretti perché dalla lettura dei suoi testi, tra i vari sentimenti, emerge spesso quello della costrizione del reale, del ruolo problematico – e a volte castrante – che il mondo esterno svolge sull’interiorità dei personaggi. Prendiamo ancora una volta come esempio Nene, la protagonista femminile del Setticlavio. Sebbene in molti passi i luoghi esterni sembrino corrispondere alle percezioni interiori, è chiaro che gli spazi dell’azione sono totalmente altro, rappresentano l’alterità, sovente causa di drammatiche incomprensioni, che gettano la protagonista in una cupa disperazione. A nulla serve l’atmosfera rassicurante della religione con i suoi spazi sacri: proprio in quel punto si consumerà la tragedia finale, come significazione di una radicale non-comprensione del mondo. La realtà, in altri termini, non appartiene al protagonista, non è da esso modellata in accordo con i suoi sentimenti; egli non è in nessun modo padrone di ciò che vive, ma si trova ad essere naufrago durante una tempesta. Tempesta spesso interna, alimentata dai numerosi ‘mostri’ che egli deve affrontare. Mostri che, per una sorta di ironia del destino, sono innanzitutto privati. Della realtà del ‘di fuori’ semplicemente non si cura, dando a volte la crudele illusione di un accordo insensato tra mondo e vita. Questo è anche il caso del terrore della morte che pervade la protagonista di Un corpo: un terrore interiore che si scontra con una città, Vienna, che è al contrario pulsante di vita – come a sottolineare l’alterità, la dimensione radicalmente emotiva e psicologica. La psiche, sempre in questa novella, è ciò che anima il dottor Gulz che, spinto dalla bellezza della ragazza morta, si rende conto di non provare più nessuna attrazione verso di lei una volta che ella giace sul tavolo dell’anatomista. È morta, semplicemente. Tutto ciò che la mente aveva creato si frange contro la realtà, riducendosi a disillusione. Questa prospettiva non deve però essere confusa con un pessimismo semplice e ingenuo. Al contrario, bisogna leggere in questa dinamica una sorta di consapevole realismo, una valutazione oggettiva dei casi esistenziali, senza confonderli con quelli interiori e psicologici. La scienza si fonde con l’arte, la medicina – con tutti i progressi che la tradizione positivista metteva quasi quotidianamente in evidenza – diventa una chiave per leggere la realtà, attraverso l’antitesi anti-romantica del reale contrapposto all’immaginario, inteso anche come dinamica interiore. In questa ultima prospettiva, che parla di fobia, nevrosi e disperazioni, Boito non presenta, come potrebbe sembrare, una svalutazione a favore del freddo empirismo. L’empi-
Introduzione
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ria è, da una certa visione, totalizzante, ma deve essere bene intesa: le dinamiche psicologiche dei personaggi non sono relegate all’immaginario o all’illusorio; al contrario, sono studiate attraverso la scienza. Per usare la fortunata metafora freudiana del disseccamento delle terre dei Paesi Bassi come esempio del compito dell’analista che porta al conscio ciò che apparteneva all’inconscio, i personaggi di Camillo si sottopongono a questo processo dettato dal narratore; essi cedono le armi del sentimento romantico a favore di una scienza che li analizza, li giudica e, in ultima istanza, li assolve. Non è più la religione con i suoi riti a fornire il criterio della salvezza (anzi, avviene il contrario: la fede alimenta i mostri interni); la scienza, l’analisi e l’osservazione – seguendo la rigida filosofia positivista del dottor Gulz – sono gli strumenti attraverso cui una conoscenza del mondo è possibile, dove con ‘mondo’ si deve, questa volta, intendere anche la vita del personaggio e la sua psiche. Questa sintesi profonda, nel teatro anatomico-psicologico di Boito non collide però con una fede acritica nella scienza con la S maiuscola. La scienza non prende il posto della religione, non è un criterio trascendente di verità. Essa deve essere concepita in unione con la vita, nel dramma del vivere, secondo ciò che in seguito sosterrà Freud. Nei brani più riusciti della scrittura boitiana si rivelano infatti le conoscenze premoderne sull’io precario e in crisi. L’orientamento profondamente europeo di Boito, che svolse parte dei suoi studi in Germania, si manifesta nel travaso del gusto del macabro e del fantastico di hoffmanniana memoria nel contesto italiano.11 Nei racconti di Boito troviamo personaggi geniali e tormentati, artisti che potrebbero figurare come alter ego dell’autore stesso nella lotta per trovare un nuovo modo d’esprimersi in un’Italia a stento unificata – fra italiani che hanno sacrificato la propria vita per essa. Si ha l’impressione che questi personaggi, ‘epigoni’ del tardo romanticismo, paradossalmente prefigurino l’identità dell’inetto sveviano. Ci sembra anche opportuno soffermarci brevemente sulla domanda circa l’attualità di Boito: perché leggere oggi le pagine delle sue opere letterarie? Cosa possono dire all’uomo moderno? Le risposte a questa complessa domanda potrebbero essere molteplici e non vogliamo in alcun modo tentare una risposta esaustiva. Cerchiamo soltanto di sottolineare ciò che, a nostro avviso, costituisce la particolarità dello scrivere di Boito come interlocutore per i nostri problemi odierni. La complessità che emerge dai suoi scritti può aiutarci a leggere in buona parte quella in cui siamo immersi oggi. Sebbene non vivesse in una società caratterizzata dal predominio della tecnologia, è chiaro che in lui è forte la sensazione di trovarsi a fare i conti con qualcosa che sfugge a una semplice ricostruzione ideale. Il mondo, in altri termini, non si fa interpretare secondo delle categorie dialettiche, quasi post-hegeliane, di necessità e di concretizzazione di un’Idea. Non vi sono Idee che governano la storia ma – al massimo – tentativi per comprenderla. Questa logica dell’insicurezza, della tensione perenne tra essere e dover essere, è ciò che caratterizza anche il nostro tempo. Gli scritti di Boito non offrono prospettive totalizzanti di salvezza, 11
Cfr. C. Scalet, Camillo Boito: le sue opere e l’influsso di Hoffmann, tesi di laurea in Letteratura italiana, Università degli Studi di Napoli Federico II, Dipartimento di Studi Umanistici, Corso di laurea in Filologia moderna, Relatore: Prof. M. Palumbo, Anno Accademico 2014/2015.
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ma si concentrano sulle contraddizioni del mondo così com’è. Come se volessero prevenire un male verso il quale la frammentazione esistenziale che viviamo potrebbe condurci: una sorta di fanatismo trascendente alla ‘tout est bien’, per parafrasare le parole del dottor Pangloss del Candido di Voltaire. Di contro a un principio dell’idea, è necessario – seguendo Boito – pensare e agire secondo il principio di realtà, conquista oggi così importante nel mondo della psicoterapia. La realtà non fornisce soltanto spaesamento e senso di estraneità; la realtà sgonfia le ferite dell’io attraverso la razionalizzazione e una sorta di sano relativismo delle emozioni. La realtà è in primo luogo logos, parola, che si intreccia con altre prospettive sempre diverse fino a creare diversi luoghi reali, che sono quelli delle emozioni non strettamente private ma condivise. Riconoscere di non appartenere a un mondo idealista e trascendente, dispotico nel suo assolutismo ideale, ma a un complesso liquido in continuo movimento, è ciò che fa sentire l’esperienza vitale esperienza comune. Far parte del mondo delle novelle boitiane, così diversificato e così in lotta con le idiosincrasie personali, nonostante l’iniziale ‘horror vacui’ che ispira, significa leggere la vita e la sua dinamica senza eccessiva attesa ideale, ma come semplice evento che accade – per acquisire più fiducia nelle relazioni comuni e abbandonare la pretesa di costruire una totalità secondo un’Idea, privata e incomunicabile. II È del 1962 una brillante tesi intitolata Contributo allo studio di Camillo Boito con la quale l’autrice Giuliana Bertacchi (1938–2014) si laurea in materie letterarie all’Università Cattolica di Milano. Si vedrà che, in appendice a questo volume, presenteremo, come documento storico e nello stesso tempo sintesi tutt’ora valida sull’opera di scrittore e artista e sulla personalità di Boito, il testo della Bertacchi dedicato alla figura Boito tout court. Questa tesi, corposa e ben argomentata, rappresenta un lavoro pionieristico sul corpus boitiano. L’autrice sostiene che per “inquadrare e godere” la parte migliore dell’opera letteraria di Boito è necessario unire “in un’unica considerazione i due aspetti fondamentali, che finora erano stati studiati separatamente, l’architetto e il narratore”. Il ragionamento si compone di cinque registri. Apre la rassegna della (s)fortuna critica, verso la quale la giovane studiosa non mostra alcuna soggezione nei confronti delle perplessità di Benedetto Croce e Luigi Russo; è critica rispetto alla trasposizione cinematografica di Senso di Luchino Visconti; riconosce in Piero Nardi e soprattutto in Giorgio Bassani l’inizio di una (ri) valutazione, pur non trovando “del tutto convincente” l’immagine boitiana da loro trasmessa. Segue il profilo biografico, che prende le distanze proprio dal Nardi critico del Boito architetto: “A me pare invece utile sottolineare il valore e l’importanza storica di quell’esperienza architettonica bistrattata, mi sia concesso dire, solo dagli incompetenti, e non solo per amore di verità, perché cioè la figura di Camillo non risulti in qualche modo incompleta e menomata, ma soprattutto perché è possibile trovare qui la ragione di un atteggiamento umano del Boito, che largamente influì sull’opera letteraria”, con chiamata a sostegno (degli studi coevi) di Liliana Grassi, Bruno Marangoni, Ambrogio Annoni, Bruno Zevi, Mino Borghi e Carlo Perogalli.
Introduzione
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L’analisi degli scritti d’arte viene divisa in due parti: la prima dedicata ai pensieri sull’architettura (soprattutto Introduzione sullo stile futuro dell’architettura italiana e Questioni pratiche di belle arti, ma anche la conferenza I restauratori), con l’intelligente e originale considerazione della teoria del restauro boitiana nella sua complessità, ben consapevole che “se la parte più viva riguarda ancora una volta l’architettura, anche le considerazioni sulla pittura e sulla scultura rimangono vive e attualissime”; la seconda rivolta a delineare la trama che unisce i valori stilistici (della critica operativa accennata) e quelli letterari de Le gite di un artista e L’anima di un pittore. Solo a questo punto giunge la disamina delle quindici Storielle vane e, in conclusione, della posizione di Boito nella narrativa del suo tempo. Per evidenziare il realismo, il razionalismo critico, lo sfondo umano, la modestia e l’ironia dello scrittore, lo specifico della sua marginalità e minorità, ma anche i suoi spunti paesaggistici e squisitamente visivi, il ragionamento ha racchiuso in un cerchio unitario l’impegno di una vita, d’arte e di studi, integerrima: un osservatorio che consente di scorgerne il respiro vasto ed europeo. La pubblicazione della tesi della Bertacchi, finora inedita, consente di recuperare una vivida e complementare immagine degli inizi della rivalutazione di Boito architetto e scrittore. Essa ha fatto da ispiratrice e motivo conduttore del Centenario Boitiano 1914–2014. III Il Camillo Boito di Liliana Grassi è Standardwerk della storiografia e della critica d’arte italiana. Rappresenta il convinto tentativo di riposizionamento di Boito nella schiera dei maestri che hanno spianato la strada all’avvento di una matura architettura contemporanea. In ballo c’è la via del moderno, che passa attraverso la riconsiderazione dell’architettura medievale e la polarità tutta boitiana di organico e simbolico, sempre argomentata con alto magistero, pacato e fiero, sottotono e antitrovata, riconducibile alla lezione semperiana di funzionale e simbolico.12 Trascorsi poco più di venti anni da questo studio del 1955, la Grassi, chiamata a riflettere sul rapporto del contemporaneo con l’antico e sul paradigma storiografico del pionierismo, ripropone ancora Boito come figura chiave: In Italia erano mancati […] movimenti di supporto come la propaganda funzionalistica dei pionieri dell’Art Nouveau, le catilinarie demolitrici e gli aspri e rigidi anatemi di un Adolf Loos, erano mancate, soprattutto, la lotta, di matrice socialista, di William Morris contro ogni sovrapposizione stilistica e quella cultura neogotica che aveva un fondamento più saldo del neoclassicismo e che la critica riconosce, oggi, come presupposto fecondo della prima fase del movimento moderno, per la coscienza di responsabilità morale sociale e tecnica che esso trasse dallo studio del Medioevo, teorizzata in Francia […] da Viollet-le-Duc, in Inghilterra da John Ruskin e, in Italia, ma in un diverso contesto, da C. Boito.13
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L. Grassi, Camillo Boito, Milano, Il Balcone, 1959. L. Grassi, “L’antico e i contemporanei: momenti del rapporto passato e presente nella cultura artistica dal Rinascimento all’Età moderna” in: G. Bontadini, L. De Nardis et al., Aspetti e momenti del rapporto passato – presente nella storia e nella cultura, Milano, Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere, 1977, pp. 53–82.
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Persiste, tuttavia, una malcelata riserva, che traspare in quel “ma in un diverso contesto”, un inciso altrimenti superfluo e, invece, indicante uno stereotipo: il (neo) medievismo italiano sarebbe ‘diverso’ da quello d’oltralpe, ma nell’opera precorritrice del moderno quello avrebbe fatto da battistrada; questo, nella fattispecie boitiano, no. Tant’è che il discorso prosegue sui binari dell’arretratezza, che guidano la storiografia italiana di tutto il dopoguerra, malata di un complesso di inferiorità che affonda le sue radici lontano nel tempo, nell’Ottocento per l’appunto, rinvigorito peraltro dalla complicata vicenda del periodo fascista. Con le parole della Grassi: “Si deve uscire, quindi, dall’Italia per ritrovare la genesi dell’architettura moderna”. In realtà qui, nel momento di considerare la lezione boitiana come arretrata e non parte della via italiana al moderno, permangono margini di riserva nei confronti dell’architettura dello storicismo in generale, cioè nella sua pluralità di espressioni nazionali. Anche se a spianare questa via in Italia saranno proprio allievi diretti di Boito, come Giuseppe Sommaruga, Ernesto Pirovano e, primo fra tutti, Gaetano Moretti.14 Il contributo della Bertacchi risulta consentaneo alla messa a fuoco di un compito che Aldo Rossi poneva in quegli anni all’interno della sua (ri)valutazione del realismo storico dell’architettura dell’illuminismo: Per l’architettura, nel periodo che va dalla seconda metà dell’Ottocento alla nascita del movimento moderno, questo processo di giudizio va ancora compiuto; essa, cioè, per un giudizio preciso e storicamente reale, ancora richiede di essere individuata appieno nelle sue caratteristiche storiche.15
In attesa di questa maturazione vale, anche per Rossi come per la Grassi, la critica di Boito all’architettura del suo tempo, all’edilizia abitativa speculativa, al primato della struttura a discapito dell’organismo, alle difficoltà di un’architettura alla scala urbana corrispondenti alla realtà dello sviluppo economico e sociale nazionale.16 La ricerca di una sincerità formale oltre che sentimentale è sicuramente al centro delle sue opere lombarde, soprattutto delle Scuole di via Galvani e del cimitero di Gallarate. E pertanto l’inserto di Senso che compare nell’aldorossiano Ornamento e delitto (XV Triennale, 1973) per quanto debitore nei confronti della scenografia viscontiana rivela anche un contenuto squisitamente boitiano: per l’esattezza quello che supera la tematica risorgimentale estranea al racconto. L’attenzione qui in gioco è condivisa allora da Vittorio Gregotti, Guido Canella17 e, insomma, la schiera degli allievi di Ernesto Nathan Rogers, alle lezioni del quale era stata ammessa anche la studentessa di lettere di cui sopra, che appassionata di architettura aveva dovuto ripiegare per studi più brevi, in grado di garantire una indipendenza ravvicinata.
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Moretti terrà il discorso nella commemorazione del 15 gennaio 1915. Cfr. Comitato alle onoranze alla sua memoria (a cura di), Camillo Boito, Milano, 1916, pp. 9–45. Cfr. “Il concetto di tradizione nell’architettura neoclassica milanese” (1956) in: A. Rossi, Scritti scelti sull’architettura e la città 1956–1972, Milano, Clup Edizioni, 1982, pp. 1–24. Vedi anche “L’influenza del romanticismo europeo nell’architettura di Alessandro Antonelli” (1957) e “I caratteri delle città venete” (1970) in: A. Rossi, op. cit., pp. 25–47 e 379–433. G. Canella, Il sistema teatrale a Milano, Bari, Dedalo Libri, 1966, al capitolo “Il sistema teatrale a Milano al 1911”.
Introduzione
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Il merito di aver dichiarato obsolete tanto l’interpretazione del pioniere del Moderno quanto quella dell’eclettico ancorato alla tradizione, dunque antimoderno, spetta ad Alberto Grimoldi: Anche Camillo Boito ha diritto di essere messo a riposo nella sua funzione di precursore-paravento. […] Se usò non di rado, per giudicare il presente, la misura severa dell’Antico Regime, cui lo legavano le sue origini e la sua educazione, non ne nasconde mai i pregiudizi e le miserie. Semplicemente, credendo, almeno in via di principio, alla possibilità di costruire un mondo migliore, non voleva illudere nessuno sulla sua vicinanza, né concedere a se stesso, nemmeno nel campo delle sue competenze, l’illusione di conoscerne la via, o di possederne le chiavi.18
La lezione più alta del suo magistero consiste pertanto nel dubbio sistematico, origine di quel razionalismo critico che caratterizzerà l’espressione moderna dell’architettura lombarda. Nel campo lungo della tendenza. IV Accanto alla ripubblicazione degli scritti, agli approfondimenti politecnici, e alle importanti rassegne monografiche capeggiate da Guido Zucconi,19 Gianni Contessi veniva proponendo l’organigramma critico per una rivalutazione scevra di riserve, parzialmente ripreso e sviluppato in un incontro di studi braidense dedicato a Camillo Boito e il sistema delle arti.20 Concludendo con uno strillo: “Vorrà l’accademia di Brera riappropriarsi con gli obiettivi e gli strumenti di oggi, di un padre nobile ancora vivace?”. In ultima istanza questa vivacità veniva ravvisata nella grande impresa da lui compiuta, che resiste ancora oggi, accanto alle grandi ed epiche inchieste nazionali, come quelle agraria che prende il nome dal senatore Stefano Jacini o quella sull’istruzione tecnica condotta dal senatore Emilio Morpurgo, oppure quella ventilata, rimasta purtroppo irrealizzata, da Fausto Bertinotti quando ancora era Presidente della Camera dei Deputati, sul mutamento delle condizioni del lavoro in Italia: la realizzazione e pubblicazione della rivista Arte Italiana Decorativa e Industriale, cioè l’organo del Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio
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A. Grimoldi, “A ciascuno il proprio Boito. Interpretazioni passate e recenti di un protagonista dell’Ottocento” in: M. Maderna, Camillo Boito. Pensiero sull’architettura e dibattito coevo, Milano, Guerini, 1995, pp. 11–34. C. Boito, Il nuovo e l’antico in architettura, a cura di M. A. Crippa, Milano, Jaca Book, 1989; A. Grimoldi (a cura di), Omaggio a Camillo Boito, Milano, Franco Angeli, 1991; G. Zucconi, L’invenzione del passato: Camillo Boito e l’architettura neomedievale, 1855–1890, Venezia, Marsilio, 1997; G. Zucconi e F. Castellani (a cura di), Camillo Boito: un’architettura per l’Italia unita, Venezia 2000 (Catalogo della Mostra, Padova nel 2000); G. Zucconi e T. Serena (a cura di), Camillo Boito: un protagonista dell’Ottocento italiano, Venezia, Istituto veneto di scienze, lettere e arti, 2002. Cfr. G. Contessi, “Tracce boitiane” in La città di Brera. Belle Arti in Accademia tra pratica e ricerca, Milano 1993, pp. 25–26; G. Agosti e C. Mangione (a cura di), Camillo Boito e il sistema delle arti, cit., 2002.
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per la conoscenza, promozione, presentazione e diffusione dell’industria artistica italiana.21 La storia e il significato editoriale di Arte Italiana Decorativa e Industriale (AIDI), l’organo a stampa di grande formato ed eccezionale pregio grafico sono stati tracciati con precisione da Ornella Selvafolta; il giudizio critico da Maurizio Boriani.22 Tuttavia gli approfondimenti conoscitivi del vasto e articolato panorama delle manifatture e maestrie italiane di qualità che vi trovarono spazio sono ancora in larga parte da compiere, in assenza, peraltro di istituzioni e/o iniziative museografiche dedicate e stabili. AIDI è il Werkbund italiano, rappresenta in modo magistrale il movimento per la valorizzazione e qualificazione di maestrie, opere e prodotti italiani di qualità a cavallo del secolo. Per noi oggi contiene un deposito prezioso di conoscenze sullo stato dell’industria artistica nel passaggio tra produzione artigianale e industriale, una testimonianza effettiva sull’aggiornamento italiano di quanto andava accadendo in Europa, nonché l’unico catalogo di pubblico dominio delle maestrie presenti sul territorio nazionale, sulla falsariga della topografia artistica rappresentata dalle Guide rosse del Touring Club Italiano. Sarebbe auspicabile che un eventuale rilancio del design italiano proiettato, dopo l’Expo 2015, in un orizzonte globale rappresentasse l’occasione per recuperare almeno la nozione di questa vicenda e tradizione ancora viva, così come accade per i primordi dell’industria artistica mitteleuropea, per esempio, al MAK di Vienna. Del resto anche lo sviluppo che partendo da AIDI si delinea attraverso riviste di tendenza come Architettura e arti decorative, Domus, fino a Stileindustria non viene ancora considerato tale, anche in iniziative importanti e studi recenti rivolti specificamente al lungo corso italiano della cultura progettuale e dello stile.23 Per questo il secondo convegno del Centenario Boitiano, organizzato congiuntamente dall’Accademia di Brera e dal Politecnico di Milano, ribaltando l’impostazione tradizionale del Boito principalmente architetto restauratore, ha posto al centro della riflessione la tematica dell’industria artistica e del movimento dei Musei artistico industriali nella loro interrelazione e rilevanza per la critica e il magistero, 21 22
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Industria artistica è il termine adottato da Sergio Bettini per la traduzione italiana della riegliana Kunstindustrie. Cfr. A. Riegl, Industria artistica tardoromana, Firenze, Sansoni, 1953 (diversamente da L. Collobi Ragghianti in: A. Riegl, Arte tardoromana, Torino, Einaudi, 1959). Cfr. O. Selvafolta, “Decoro e arti applicate nelle riviste italiane dell’Ottocento” in: C. Mozzarelli e R. Pavoni (a cura di), Milano fin de siècle e il caso Bagatti Valsecchi. Memoria e progetto per la metropoli italiana, Milano, Guerini, 1991, pp. 85–118; qui pure E. Bairati, “Il Museo artistico industriale: il museo della città” pp. 47–58; M. Boriani, “Artigianato, arti decorative e industriali, restauro nel pensiero di Camillo Boito” in: A. Grimoldi (a cura di), Omaggio a Camillo Boito, cit. (nota 19), pp. 169–181. Da A. Branzi (a cura di), Il design italiano 1964–1990 (Un museo del design italiano), Milano, Electa, 1996; A. Pansera, La formazione del designer in Italia. Una storia lunga più di un secolo, Venezia, Marsilio, 2014; M. Brusatin, “Origini N. N. del design italiano” in M. Panzeri (a cura di), L’intellettuale mal temperato. Scritti in onore di Paolo Fossati, Torino, Accademia University Press, 2015, pp. 45–56, fino alla recente rassegna Una dolce vita? Dal Liberty al design italiano 1900–1940 svoltasi nel 2015 al Musée D’Orsay e poi al Palazzo delle Esposizioni di Roma, curata da G. Cogeval e B. Avanzi con la collaborazione di I. de Guttry e M. P. Maino degli Archivi delle Arti Applicate Italiane del XX Secolo di Roma.
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in continuità con il convegno di Villa Vigoni dedicato al Boito letterario in dialogo con le arti.24 Aveva iniziato Françoise Choay fuori dell’Italia, ma con una intensità e una convinzione superiore a quella italiana, a rivalutare la funzione di battistrada svolta da Boito nel divenire della conservazione dei monumenti disciplina autonoma.25 L’esigenza della sincerità anche nel dialogo del nuovo con l’antico troverà un’epocale definizione con il voto conclusivo al terzo congresso degli ingegneri e architetti italiani del 1883, considerata la prima carta del restauro. Superate le “critiques exclusivement italiennes”, come raccomanda Jean-Marc Mandosio,26 e ricondotto il carattere dialettico delle formulazioni teoriche boitiane al complesso contesto in cui si cercava di fornire statuto disciplinare alla ricerca di un adeguato registro dei tempi sia nell’architettura che nel restauro, anche le sue indicazioni al Sindaco per la riparazione del campanile di Arsago Seprio del 1872 non appariranno più in contraddizione con i principi da lui fissati undici anni dopo, ma perfino anticipatrici di indicazioni che Alois Riegl detterà nel Progetto di un’organizzazione legislativa della tutela dei monumenti in Austria trentuno anni dopo, anche queste ultime a loro volta dialettiche nei confronti del postulato boitiano della sincerità, pure fatto proprio dal maestro viennese in tutta la sua opera di conservatore.27 In questa prospettiva gli ultimi venti anni di attività dedicati da Boito all’industria artistica indicano un ampliamento del concetto di patrimonio culturale e uno spostamento della valorizzazione dalle opere d’arte maggiori a quelle fino ad allora considerate minori: un rispetto per le opere della mano dell’uomo, che sarà merito del seguace viennese di Boito formulare compiutamente all’interno di una nuova disciplina, quale è la conservazione.28 Monumento, infatti, è per Riegl “ogni opera della mano dell’uomo” trascorso un certo lasso di tempo: la più poderosa definizione dell’oggetto della cura che sia mai stato pensato.29 24 25 26 27
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La scelta è stata di organizzare gli interventi dei due convegni con specifici call for papers. F. Choay, L’allegoria del patrimonio, a cura di E. D’Alfonso e I. Valente, Roma, Officina, 1992 e “Introduzione” in: C. Boito, Conserver ou restaurer? (1893), trad. di J.-M. Mandosio, SaintFront-sur-Nizonne, Édition de l’Encyclopédie des nuisances, 2013, pp. 9–20. J.-M. Mandosio, “La destruction des œuvres d’art à l’ère du tourisme de masse”, postfazione a C. Boito, Conserver ou restaurer?, cit., pp. 149–158. “Secondo rapporto sull’allungamento del campanile Arsago, con relativo disegno, dell’arch. Camillo Boito” in: C. Boito, Pensieri di un architetto del secondo Ottocento. Documenti e frammenti per una biografia intellettuale di Camillo Boito critico militante e architetto (trascrizione, note ai testi, saggi di commento di M. Maderna), Milano 1998; A. Riegl, “Progetto di un’organizzazione legislativa della tutela dei monumenti in Austria”, rad. di U. Layr, S. Scarrocchia, R. Trost, in: A. Riegl, Teoria e prassi della conservazione dei monumenti. Antologia di scritti, discorsi, rapporti 1898–1905 con una scelta di saggi critici, a cura di S. Scarrocchia), (II ed.), Bologna, Gedit Edizioni, 2003, pp. 171–236. Cfr. C. Bellanca, “Alois Riegl, la tutela e il restauro delle preesistenze tra Vienna e Roma” in Alois Riegl (1858–1905) un secolo dopo (Atti dei Convegni Lincei 236, Roma, 30 novembre 1–2 dicembre 2005), Roma 2008, pp. 285–304 e S. Scarrocchia, “L’arte industriale e il restauro in Camillo Boito” in: Ananke, 57, 2009, pp. 82–99. A. Riegl, Teoria e prassi …, op. cit. pp. 171–236 passim; A. Riegl, Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi, a cura di S. Scarrocchia, Milano, Abscondita, 2011.
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Dal canto suo Boito aveva progettato di conferire idonea veste scientifica a questa più comprensiva accezione di cura del patrimonio con una stazione dedicata nel 1912. Il progetto di sicuro rilievo nazionale ma rimasto curiosamente poco o nulla considerato, ad eccezione dei cenni isolati e meritori di Giuliana Ricci, vede un’ideale e dovuta continuità nella attuale Scuola di restauro dell’Accademia di Brera a lui dedicata nel 2009.30 Andreas Lehne al convegno dedicato al cinquantenario della Carta di Venezia organizzato a Vienna dall’Arbeitskreis Theorie und Lehre der Denkmalpflege, l’associazione delle cattedre tedesche di tutela, in collaborazione con Icomos Austria, Svizzera e Repubblica Federale Tedesca, che ha segnato un riposizionamento importante della lezione di Boito nella cultura europea, ha concluso invocando a gran voce: “leggete Boito!” V Prima di affidare le riflessioni ai testi pubblicati in questo primo volume, vogliamo brevemente ripercorrere i contributi qui presenti. Per comodità di analisi, abbiamo voluto offrire al lettore i testi divisi secondo le categorie utilizzate nel convegno su Boito svolto a Villa Vigoni. Le tre sezioni del volume sono dunque L’opera letteraria di Boito, Boito tra letteratura e le arti e, infine, La ricezione di Boito letterato. Per la prima sezione – L’opera letteraria di Boito – una interessante prospettiva unitaria, tendente a congiungere le varie anime di Boito, è presente nel testo di Matilde Dillon Wanke, Reversibilità dei ruoli in Boito viaggiatore. Prendendo in esame, tra l’altro, passi da Gite di un artista, viene analizzato il complesso rapporto di un autore che è, insieme, letterato e storico, musicista e artista. Chiara Cretella, nel suo Anatomie estetiche. Iconografie del femminile nella letteratura boitiana, si sofferma su uno dei temi centrali della produzione di Boito, quello dell’esplorazione delle dinamiche del femminile; l’esame di diversi testi permette di porre l’accento sul legame con la tradizione degli Scapigliati e, soprattutto, sugli elementi di novità. Nel contributo intitolato Fratelli d’Italia: il dialogo letterario fra Camillo ed Arrigo Boito, Ludger Scherer presenta, in maniera innovativa, il rapporto fra i due fratelli nell’ottica del comune interesse artistico. Di particolare rilievo è la compenetrazione artistica e di pensiero che funge da filo conduttore dell’interpretazione. Il testo di Corinna Scalet, Fra soprannaturale, psicologico e grottesco: il ‘demonio muto’. Tematiche ed influsso della novellistica scapigliata sulla scrittura di Camillo Boito, pone al centro della riflessione il particolare contesto storico-artistico-letterario: la Scapigliatura. Queste riflessioni ci aiutano a comprendere più esattamente la natura di quel movimento e cosa di esso ha potuto affascinare Boito nonché di sollevare la questione sulla possibilità di definirlo ‘scapigliato’. Una ri-
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“Rileggere Camillo Boito oggi” numero monografico di Ananke, 57, 2009, in particolare S. Perindani, “Brera, 1912 e 1923: documenti per la Scuola di restauro”, pp. 155 sgg.; S. Scarrocchia, “Brera, 2009: per la Scuola dedicata a Camillo Boito”, pp. 160 sgg.
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flessione comparativa è svolta da Dagmar Bruss in Fratelli annebbiati e sorelle angeliche. Notte di Natale di Camillo Boito e Senilità di Italo Svevo. Attraverso l’accostamento con una figura di prima grandezza della letteratura italiana, si scopriranno interessi ed aspetti dello scrivere boitiano che, ancor oggi, meritano – per profondità ed estensione tematica – il più grande interesse. Un’altra doppia riflessione è condotta da Laura Staiano in Camillo Boito e il genere fantastico: analisi comparativa della novella Macchia grigia e del racconto Claire Lenoir di Villiers de l’Isle-Adam. Il contributo analizza, attraverso il confronto con il testo del narratore francese, temi collegati con la classica novella fantastica mettendo in risalto la natura per molti versi innovativa della prosa di Camillo Boito in riferimento soprattutto al legame corpo-anima. La seconda sezione – Boito tra letteratura e le arti – si apre con il saggio di Viola Stiefel la quale propone, in Costrutti spaziali ne Il maestro di Setticlavio di Camillo Boito, una interpretazione convincente nell’ottica di Pierre Bourdieu di questa importante novella che unisce psicologia, sociologia ed arte. Dedicato ugualmente a Il maestro di setticlavio è il contributo di Annarita Zazzaroni, L’elemento sonoro e il Femminile nai racconti di lamillo Boito Vade retro, Satana e Il maestro di setticlavio. Grazie al confronto di temi e strutture narrative fra diverse novelle, l’autrice sottolinea l’ispirazione musicale e la natura misteriosa e profondamente stratificata della prosa boitiana. Elisabeth Braunshier dedica la sua attenzione al Camillo Boito esperto di teatro e opera. In Camillo Boito e la messa in scena de La battaglia di Legnano di Giuseppe Verdi, la studiosa espone un elemento decisivo nel contesto degli studi boitiani, ossia il suo collegamento col mondo dell’arte scenografica. L’analisi delle multiformi ispirazioni e della creatività polivalente di Boito è affrontata anche da Monica Biasiolo nel suo ‘Scolpire la carta come il marmo per formare un corpo’: scienza, arti visive e letteratura a dialogo in Camillo Boito. A partire dalla novella Un corpo viene affrontata l’interessante prospettiva, in dialogo con la poetica del tempo, che unisce arti visive e corporeità in un unico atto letterario. Luca Mendrino in Sulla scrittura pittorica di Camillo Boito presenta un’analisi declinata al linguaggio boitiano della pennellata artistica che, come su una tela, è in grado di descrivere i caratteri dei personaggi con particolare forza espressiva. La terza ed ultima sezione – La ricezione di Boito letterato – viene aperta dalle considerazioni di Alessandro Scarsella, Il Camillo che non ti aspetti. Dopo Senso: presenza delle Storielle vane tra letteratura e cinema della seconda metà del Novecento, che, con notevole acribia analitica, presenta una panoramica esaustiva della fortuna dell’opera di Camillo Boito senza esimersi da un giudizio letterario complessivo sull’autore. Col testo di Friedrich Wolfzettel, Senso fra Camillo Boito e Luchino Visconti. Dal cinismo ottocentesco a una teatralità tragica, si entra nel campo del cinema, in particolare quello di Luchino Visconti che ha riadattato per il grande schermo il fortunato racconto Senso. Vengono messe in risalto le analogie, le strategie narrative dello scrittore e del regista e, soprattutto, si analizza l’interpretazione originale proposta da Visconti. Il volume si conclude con un Appendice che comprende la tesi di laurea di Giuliana Bertacchi e una bibliografia boitiana molto vasta ed articolata curata da Chiara Cretella, a cui va il nostro più sentito ringraziamento. Essa presenta in modo
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chiaro lo stato dell’arte su Boito – ponendosi come imprescindibile riscontro a nuovi contributi originali. RINGRAZIAMENTI Ringraziamo tutti coloro che con la loro partecipazione ai convegni di Villa Vigoni e dell’Accademia di Belle Arti di Brera e con il loro impegno successivo hanno contribuito alla realizzazione di questo volume. Si ringrazia il Deutscher Akademischer Austauschdienst (DAAD) e la Dr. Ernst Heinrich Heimann Stiftung per il generoso sostegno finanziario per il convegno a Villa Vigoni e per la pubblicazione del presente volume. Grazie al programma DAAD “Deutsch-italienische Dialoge” è stato possibile mettere in dialogo non solo scuole scientifiche di due Paesi, Germania e Italia, ma anche varie generazioni di studiosi. Il nostro volume raccoglie infatti anche, come previsto dal programma del DAAD, i contributi di molti giovani studiosi (Nachwuchswissenschaftler/Innen). Il convegno a Villa Vigoni è stato sostenuto anche dalla Frankfurter Stiftung für deutsch-italienische Studien. Ringraziamo inoltre la Deutsch-Italienische Vereinigung e. V., Francoforte sul Meno, e la rivista Italienisch per la cooperazione. Ringraziamo infine Kristine Harthauer per l’attenta revisione redazionale e Viola Usselmann per il prezioso supporto all’editing.
I BOITO E I VIGONI Giovanni Meda Riquier Una serie di brevi lettere e biglietti di Arrigo Boito a Pippo Vigoni presenti nell’archivio del Centro Italo-Tedesco di Villa Vigoni a Loveno testimoniano una consuetudine tra i due che appare molto stretta. Tuttavia messaggi flash del tipo “Amabilissimo amico, non mancherò mercoledì al simpatico invito…” anche se non permettono di ricostruire in dettaglio fatti accaduti oltre un secolo fa, consentono in ogni caso di delineare i contorni del rapporto tra i fratelli Vigoni e i fratelli Boito. A voler approntare un quadro non troppo distante da una presumibile veridicità storica, conviene procedere, parafrasando il titolo di una celebre raccolta gaddiana, attraverso una serie di accostamenti giudiziosi in un percorso che alterna – senza differenza di sorta – i due fratelli Boito e i due Vigoni, e si sposta da Milano al Lago di Como tra luoghi reali o simbolici, capaci di restituire ancora oggi l’eco di quelle frequentazioni ormai lontane nel tempo. Tappa di partenza assolutamente obbligatoria è il più celebre dei salotti della Milano di metà Ottocento: quello di Clara Carrara-Spinelli, sposata Maffei, e del suo amante/convivente, il letterato e patriota, Carlo Tenca. È l’indiscusso re del gossip di quella lunga stagione milanese, risorgimentale e post-unitaria, Raffaello Barbiera, giornalista e scrittore di aneddoti curiosi, a trasmetterci l’informazione preziosa da cui possiamo partire: il giovane Giulio Vigoni era un habitué delle stanze alla moda della contessa ricolme di ninnoli, chincaglierie e souvenir vari.1 Qualche notizia in più arriva sui Boito: Camillo “aperto e brillante ingegno” (p. 209) e Arrigo “presentato alla Maffei, nel ’63 [presumibilmente nel 1862, n. d. a.], dal fratello Camillo, architetto, novellista e critico d’arte” (p. 257) e ancora “… è curioso il vedere come nel salotto della più antica e più devota amica di Giuseppe Verdi, le idee wagneriane abbiano preso radice: Filippo Filippi le predicava fra una barzelletta e l’altra nelle conversazioni del salotto e nelle appendici della Perseveranza; Franco Faccio e Arrigo Boito, per tacere d’altri minori, le adottarono con trasporto. Il Mefistofele (prima edizione) non nacque in casa Maffei; ma il suo autore vi primeggiava fin d’allora fra i musicisti” (p. 252). E da ultimo “Arrigo Boito e Franco Faccio, volendosi recare a Parigi, domandarono alla contessa Clara Maffei una commendatizia per Giuseppe Verdi che, in quel tempo, si trovava in quella capitale; e la ottennero tosto. Appunto dall’anno 1863 [verosimilmente dall’1862, n. d. a.], data la conoscenza d’Arrigo Boito col Verdi, il quale lo accolse benevolo e lo elesse a suo poeta per le parole dell’Inno delle nazioni ch’egli doveva musicare per la mostra mondiale di Londra” (p. 258). Che il salotto Maffei possa 1
R. Barbiera, Il salotto della contessa Maffei e la società milanese (1834–1886), Milano, Treves, 1895, p. 214.
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quindi essere il luogo dove, verso l’inizio degli anni Sessanta, potrebbe essere avvenuto un primo incontro tra i Boito e i Vigoni – rapidamente trasformatasi in amicizia – sembra un’ipotesi più che sostenibile anzi, potremmo dire, molto probabile. Un’altra preziosa informazione che proviene dalle pagine di Barbiera riguarda due celebri testate di quegli anni: Il Crepuscolo e La Perseveranza, sulla prima delle quali – diretta dal già citato Tenca –, non per caso Camillo aveva pubblicato i suoi articoli di esordio sull’architettura, all’inizio del 1859. Torniamo comunque al nostro informatore, Barbiera: “Perseveranza, giornale serio e ascoltatissimo, in cui scrivono parecchi amici del salotto e quasi tutti i collaboratori del Crepuscolo” (p. 247). La Perseveranza era stata infatti fondata verso la fine del 1859 da un gruppo di patrizi milanesi, moderati di stampo liberale e conservatore vicini alla politica cavouriana e alla monarchia. Con questi pochi elementi è già possibile individuare la comune appartenenza “sociale” e soprattutto quel medesimo sentire politico e culturale che accomunava i frequentatori della contessa Maffei e, per quanto ci interessa, i Boito e i Vigoni. Una volta chiarite tali coordinate non ci stupiremo più di leggere nel 1860, proprio sulle pagine della Perseveranza, il giovane Camillo di nuovo alle prese con questioni di architettura ma anche, qualche anno dopo, Pippo Vigoni polemizzare, sempre dalle medesime colonne, contro la politica coloniale di Depretis dopo la sconfitta di Dogali e, tanto per voler rimanere nella cerchia degli illustri ‘lovenesi’, Alfonso Garovaglio tra il 1878 e il 1896 pubblicare una lunga e impegnativa serie di articoli a soggetto archeologico. Se poi ci spostiamo da Milano verso Nord e precisamente sul Lago di Como, in Tremezzina, troviamo a Griante, impreziosita dalle sculture allegoriche della musica e della poesia, la splendida Villa Margherita, edificata e appartenuta per molti anni a Giulio Ricordi, amico ed editore di Giuseppe Verdi e di Arrigo Boito. Le cronache locali tramandano dei due spesso presenti alle ‘serate divine’ che lì si svolgevano e che animavano la vita musicale e letteraria del lago. Sui registri degli ospiti di Villa Vigoni il nome di Giulio compare più volte e dato che non c’è motivo di dubitare che non venisse rispettata l’usanza signorile di scambiarsi gli inviti, diventa quindi legittimo comprendere anche questo luogo tra i possibili scenari dell’amicizia tra i Boito e i Vigoni. A pochi chilometri di distanza dopo aver salito qualche balza in direzione Lugano arriviamo finalmente alla Villa Mylius-Vigoni di Loveno: qui non è stato possibile rintracciare indizi della presenza dei Boito. Per ritrovare nuove tracce bisognerà tornare a Milano presso i prestigiosi ambienti di palazzo Vigoni ex Firmian, dove sono indirizzati i biglietti da cui siamo partiti,2 residenza di Giuseppe Vigoni, sindaco di Milano per sette anni dal 1892 al 1899. Come spiegare altrimenti quell’ “Amabilissimo amico” e “simpatico invito” con cui Arrigo si rivolge alla prima autorità cittadina se non in virtù di una grande e lunga amicizia?
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In realtà manca sulle lettere l’indicazione del luogo di invio e sulle buste quello di destinazione; proprio questo tipo di assenza tuttavia permette d’integrare con la parola “Città”.
I L’OPERA LETTERARIA DI BOITO
REVERSIBILITÀ DEI RUOLI IN BOITO VIAGGIATORE Matilde Dillon Wanke Un appuntamento di studi che si propone di celebrare la figura di Camillo Boito, a cento anni dalla morte, non può non mobilitare competenze diverse e particolari ambiti di approfondimento. Chiunque abbia frequentato l’opera complessa dell’architetto, dello storico dell’arte e critico militante, e infine del novelliere, avverte il senso di un’indispensabile riflessione, di una rilettura equilibrata intesa a restituire un ritratto a tutto tondo che non perda di vista le esperienze differenti e gli aspetti non componibili. Va detto che tra gli estimatori dell’ingegno di Camillo Boito non vi è chi sia riuscito ad essere profeta nel prevedere in che direzione sarebbe andata la sua maggior fortuna, dopo che Arrigo, a un anno dalla morte, s’impegnò a consacrare la memoria del fratello nell’aula magna dell’Accademia di Brera, puntando sul ridimensionamento della sua pur notevole e fortunata avventura di scrittore.1 È possibile ripristinare una gerarchia dei ruoli? Tra essi, certo, vi era un’innegabile contraddizione già evidente, allora, ai più attenti e acuti lettori della letteratura scapigliata, come quel Felice Cameroni, il Pessimista del “Sole”, che in una Rassegna bibliografica firmò en passant una memorabile segnalazione delle Storielle vane: Non mi so spiegare, come mai il Camillo sappia conservarsi novelliere brillante ed originale sino alla stramberia in mezzo alle cure della vita materiale e mi rallegro di sì rara specialità, fra i tanti mummificati uomini seri.2
Così dopo le letture di studiosi e autori come Pietro Pancrazi, Giorgio Bassani, Piero Nardi e i non pochi altri che seguirono, la sorte giocò a distanza di soli venti anni, e poi nei successivi cinquanta, a favore dello scrittore lasciando più in ombra l’architetto e il teorico e critico d’arte, quasi che lo snodo fosse tale che l’attenzione dei letterati non potesse coesistere con quella degli architetti e l’una dovesse elidere l’altra.3 1
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Mi si consenta il rinvio a M. Dillon Wanke, Introduzione a Camillo Boito, Senso e altri racconti, a cura di M. D. W., Milano, Mondadori, 1994, pp. V–VII: “la volontà testamentaria del Maestro erigeva, con la bibliografia d’arte e il prestigio degli studi severi, un argine all’interesse per gli ‘episodi isolati’ delle novelle” (p. VII). Ibidem, p. VI, con riferimento alla nota di F. Cameroni, Rassegna bibliografica, in: Il Sole, X, A. XIII, n.177 (29 luglio 1876), p. 2 e Id., Cronaca letteraria, a firma il Pessimista in: L’arte drammatica, V (5 agosto 1877); notevole anche la recensione di Sylvanus (Ugo Angelo Canello), uscita sul Corriere della sera (C. Boito, Storielle vane, in Corriere della sera, V, 26–27 luglio 1876). P. Pancrazi, in: Racconti e novelle dell’Ottocento, Firenze, Le Monnier, 1938, p. 239: Pancrazi scelse per la sua antologia ottocentesca il racconto Meno di un giorno, G. Bassani Il maestro di
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Da sempre viene ricordata la lettera ad Arrigo del 16 dicembre 1861, di un giovane Camillo di venticinque anni, pubblicata da Nardi, dove l’insoddisfazione di sé, il “pesantissimo masso … legato ai piedi”, il riconoscersi nell’“assenza di volo”, nel difetto di fantasia e di “volontà prepotente, ardita, disprezzatrice” che gli vieterà “opere grandi e durature”, attestano l’incresciosa autocertificazione che sta all’origine di irrisolte connivenze.4 Del resto, occasionalmente, egli ebbe a ripetere che né la scrittura, né la rappresentazione dell’artista avrebbero mai potuto esprimere l’aspirazione profonda e struggente al bello ideale o al profondo ordine del mondo quanto la musica: […] il cielo si rallegrava di luce tanto nuova e bella che ci pareva di non avere mai visto l’eguale. Non v’ha che un’arte capace d’indicare codesti risvegli solenni e lieti della natura: e infatti anche l’anima dell’ignorante, contemplandoli, canta dentro certe melodie indeterminate, ma sublimi, e sente per un attimo in sé qualcosa del genio di Beethoven. L’arte della parola val poco, quella del pennello niente.5
Ciò non toglie, e anzi spiega meglio, il paradosso di Cameroni. Poiché, girando le carte, tutto questo porta a non perdere di vista la testimonianza di Boito di non voler abbandonare la scrittura narrativa almeno fino al 1883, l’anno di Senso – come si può leggere tra le righe delle lettere a Ferdinando Martini conservate nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze: Caro Amico, tu mi rinnovelli il disperato dolore di non poterti mandare niente, almeno per ora. Ò tirato fuori dal cervello appena appena due articoli magri stecchiti per la Na Antologia sulla Esposizione di Torino e non potevo mancare all’impegno. Spero, non ostante che mi riesca nel settembre di scrivere qualcosa per il tuo Fanfulla, una storiella, un bozzetto.6
Una volontà che si ostina a inseguire l’avventura del narrare intrecciata al groviglio dei lavori serî e degli altri impegni concomitanti.7 Senza cercare difficili equilibri il concorso di studi di questo centenario riporterà in luce gli ambiti disciplinari del
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setticlavio (G. Bassani, Introduzione a C. Boito, Il maestro di setticlavio, Roma, Colombo, 1945, pp. 5–23); P. Nardi, Camillo Boito narratore in: Lettere italiane, XI, 2, (aprile–giugno 1959), pp. 217–223; Id., Introduzione a C. Boito, Senso e altre storielle vane, Firenze, Le Monnier, 1961, pp. 7–26; per Gite di un’artista Pancrazi accosta Boito a Soffici, Nardi a Panzini. P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, Milano, Mondadori 1942, p. 96. C. Boito, Una salita, in: Id., Senso. Storielle vane, introduzione e note di R. Bertazzoli, Milano, Garzanti, 1990, p. 138. Cito dalla prima (13 luglio 1880) delle dieci lettere a Ferdinando Martini, direttore del Fanfulla della domenica, poi della Domenica letteraria, tra il 1882 e il 1883, pubblicate in appendice alla mia edizione di Senso e altri racconti (C. Boito, cit., p. 301); il fondo dei manoscritti conservati nella sezione carteggi della BNCF (cassetto 5, nn.10/14) contiene 49 documenti epistolari indirizzati al Martini da Camillo e Arrigo. Ricordo, per fare qualche esempio, che nella lettera del 21 ottobre 1880, nel consegnare la ‘storiella’ Il collare di Budda per il Fanfulla della domenica (esce il 7 novembre 1880, nel n. 15, p. 4) Boito promette in concomitanza una recensione al libro La vita di Andrea Palladio che Giacomo Zanella ha appena pubblicato a Vicenza: la recensione (doveva uscire, ed esce in effetti, senza la sua firma) di seguito al Collare di Budda si trova nello stesso numero e nella stessa pagina; per la Domenica letteraria, il 7 giugno 1883, Boito sceglie di scrivere un articolo su Antonio Canova (su cui si vedano le lettere pubblicate in Appendice a C. Boito, Senso e altri racconti, cit., p. 303 e pp. 306–307); e ancora, nella lettera del 2 gennaio 1881, occupatissimo
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ruolo professionale e della tenacissima azione dell’architetto-professore di Brera accanto all’opera del narratore con l’effetto finale di rendere giustizia al suo ingegno poliedrico e ai tratti della sua eclettica personalità. Già il titolo ‘reversibilità dei ruoli’ in rapporto all’opera del viaggiatore coniuga i motivi di ambiguità dello statuto del reportage: l’ampiezza d’orizzonti la dà, da sempre, la letteratura di viaggio che per sua natura e per i suoi codici fortunati può essere referenziale, oggettiva (storico-scientifica, documentaria), ma in quanto racconto di esperienze vissute anche narrativa, avventurosa, autobiografica e persino ‘fantastica’. Ora sappiamo che i primi passi di Camillo novelliere si esercitarono proprio sul terreno di un racconto di viaggio che ebbe uno sviluppo successivo, trasformandosi in “storiella vana” predisposta a muoversi verso altre direzioni narrative. Boito ha ventiquattro anni quando diventa professore d’architettura e restauro e presidente di Brera. Alla letteratura sembrò arrivare più tardi. Si credé anzi, e per molto tempo, che esordisse come narratore addirittura dieci anni dopo, nel 1870, con Un corpo. Storiella di un artista uscita su La Nuova Antologia.8 La serie dei racconti che usciranno sulla Nuova Antologia e su Le prime letture o in Strenna, e più tardi sul Fanfulla della domenica di Ferdinando Martini, avrà in tutti i pezzi, dal secondo in poi, il sottotitolo di “storiella vana”, dove scompare lo stigma dell’artista in una rimodulazione del sintagma che accentua, con l’aggettivo petrarchesco, la valenza ironica e minimizzante dei racconti.9 Boito andò avanti nella scrittura delle ‘storielle’ con un ritmo discontinuo, che si fa più fitto, quasi metodico, tra il ’76 e il ’77, nella fase in cui l’autore tende a ricompattare le sue novelle in raccolte editorialmente impegnative, con l’editore Treves. Le raccolte saranno due, Storielle vane, del 1876 e Senso. Nuove storielle vane, del 1883, destinate a rappresentare il nucleo più cospicuo della produzione dei racconti e a ricomporsi variate o accresciute in successive ristampe. Se è utile chiederci come e quando l’“avventura” di Camillo Boito narratore abbia avuto inizio, intendendo parlare di “opera prima” a stampa val la pena ricordare la retrodatazione del suo esordio al 1868, e segnatamente l’ipotesto Gita di un artista, uscito in nove capitoli a puntate, a firma Jacopo Cosmate nell’Appendice del Pungolo, in undici numeri dell’appendice letteraria tra l’8 aprile e il 1° maggio, che si presentò come un taccuino di memorie di viaggio e di letture particolarmente
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a finire il progetto per il barone Franchetti, l’architetto si giustifica per non avere “il tempo per pigliare la penna in mano” per il Fanfulla (Ibidem, p. 304). La Nuova Antologia, V, 14 (giugno 1870), p. 313. Non sarà superfluo ricordare che fin dal 1856, a vent’anni, già professore aggiunto alla cattedra di architettura, Camillo entrò prontamente nel dibattito culturale degli storici dell’arte come allievo di Pietro Selvatico scrivendo su Lo Spettatore di Firenze, diretto da Celestino Bianchi. Maria Cecilia Mazzi, nel paragrafo intitolato L’artista della Nota introduttiva all’edizione Camillo Boito, Gite di un artista, nota introduttiva e apparato iconografico a cura di M. C. M., Roma, De Luca Edizioni d’arte, 1990, p. XXIX, dà una sua particolare lettura della scelta dei titoli ‘minimi’, ma sottolinea che nelle note di viaggio (“lo sfogo di un artista, non la fatica di un erudito”) l’autore si riconosceva per la prima volta “artista”, dimenticando il sottotitolo della storiella Un corpo della Nuova Antologia, sopra citato.
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intrigante: racconto ibrido, pseudo autobiografico, vero crogiuolo di altri racconti.10 Con la stessa firma Jacopo Cosmate aveva siglato altre pagine, in particolare un saggio sulla scultura di Giovanni Dupré, comparso sul Figaro il 28 giugno 1864, impegnato a deprecare la tendenza al realismo dell’arte moderna e la perdita dei valori del bello ideale.11 L’avventuroso pupillo di Pietro Selvatico Estense in viaggio-studio, allievo nel primo racconto a stampa – di fatto, a soli diciannove anni, già professore della scuola di architettura all’Accademia di Venezia12 – e il critico d’arte in erba sono già la stessa persona ed il primo è la proiezione a personaggio del giovane studioso. Quando poi, nel 1884 il professore Boito pubblicò con l’editore Hoepli di Milano, l’editore del suo più importante lavoro su L’architettura del Medioevo in Italia, un libro dal titolo Gite di un artista, mise insieme sedici pezzi di diversa natura per ricucire tante esperienze di lavoro e di viaggio,13 e recuperò curiosamente anche scritti giovanili inediti davvero aurorali, a cominciare dal primo racconto di un viaggio in Baviera compiuto nell’ottobre 1863, stando alla data indicata dall’autore.14 Allora non volle cancellare i segni dell’esordio. Così, in sequenza cronologica, i sottotitoli della produzione narrativa di Camillo Boito, Gita di un artista, Storiella di un artista, Storiella vana, contrassegnano l’iter che con Gite di un artista, nel 1884, si conclude in una ricucitura tra inizio e fine delle più diverse occasioni. L’ultimo titolo che riguarda l’ampio palmarès di articoli, cataloghi d’arte, esperienze e ricordi vuol smussare idealmente le differenze o azzerare le distanze tematiche e temporali. Curiosa, per non dire bizzarra, l’indulgenza verso un tipo di raccolta disomogenea giocata sul doppio ruolo del narratore-viaggiatore e del critico d’arte. In forma di lettera a un’amica la prefazione esibisce infatti una sorta di forzato minimalismo teso a riportare il lettore indietro, ai “lavorucci […] manoscritti” o tratti dalle “Riviste”, vecchi di diciotto o vent’anni, come se non li avesse accorpati, 10
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Si veda tutta la questione nell’introduzione alla citata edizione di Senso e altri racconti (M. Dillon Wanke, Introduzione, cit., pp. X–XII e pp. XLVIII–XLIX nota 11); va da sé che la collaborazione di Boito a Il Politecnico con le Riviste delle arti belle è precedente alla data del 1868. J. Cosmate, Giovanni Dupré nel Figaro, 28 giugno 1864 (un ampio regesto dell’articolo si può leggere in: G. Farinelli, Pubblicistica nel periodo della Scapigliatura, I. P. L., Milano, 1984, pp. 407–408). In quella che diventerà la storiella Baciale ’l piede e la man bella e bianca, Boito si riferisce al viaggio di ritorno da Roma compiuto alla fine del 1856. Nell’edizione da cui citiamo, priva dell’indice, cfr. l’ordine dei capitoli: L’ossario (Custoza); Il Tiepolo (Vicenza); Il Palazzo Ducale (Venezia); Sant’Elena e Santa Marta (Venezia); Trieste (Trieste); Il castello (Cracovia); Le saline (Cracovia); L’architettura (Vienna 1873); Il mosaico nel monumento alla Vittoria (Berlino); Da Milano a Ulma (Baviera 1863), Augusta, Norimberga, Ratisbona, il Walhalla (Baviera II); Monaco: i Musei, l’Arte archeologica (Baviera III); Pittura e scultura (Baviera IV); Scultura e architettura (Baviera V); La mostra nazionale di Belle Arti (Torino); La mostra internazionale di Belle Arti (Roma). Cito da C. Boito, Gite di un artista, cit., che risulta essere una seconda edizione (mentre parrebbe piuttosto un’edizione anastatica), p. [193].
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in silloge, con pezzi seriori e di diversa natura.15 Tant’è che il libro non è strutturato sull’ordine cronologico dei pezzi, ma su un ipotetico itinerario che da Custoza segue per Vicenza, Venezia, Trieste, Cracovia, Vienna, raggiunge Berlino e ridiscende in Baviera, con quattro grossi capitoli, per concludersi con le rassegne delle mostre, la nazionale di Torino, 1880, e l’internazionale di Roma, 1882. I ruoli di Boito s’intrecciano inestricabilmente e per contro è interessante, secondo la cronologia, estrarre dall’itinerario proprio la data alta del viaggio Da Milano ad Ulma, 1863. L’architetto di ventisette anni è un esordiente nella scrittura di viaggio tradizionale, ma per un verso intona le note di un nuovo Reisebilder misurandosi fin d’ora coi modelli dell’ironia di Sterne e di Heine, dall’altro – in un viaggio che si sovrappone ad un altro di tre anni precedente – tende a glissare sveltamente sulle tappe, sui più vari mezzi di trasporto, lo scopo del resoconto, per stabilire un dialogo intermittente, non importa se elettivo (per addetti ai lavori) o casuale, col lettore comune: Di Monaco v’ho a dire questo e non altro? Posso io passare d’accosto a tanti edifici moderni, a tante opere grandiose di pittura e di scultura, narrandovi solo ciò che mangiai alla Stazione della via ferrata? Fra le impressioni che ricevetti dalle opere della umana fantasia le più vive, le più profonde, dopo quelle provate a Roma, furono le impressioni, che mi si destarono in petto ne’ molti giorni passati, tre anni addietro e quattro anni addietro, nella moderna capitale della Baviera.16
Così la minuta descrizione e il commento critico delle opere della Gliptoteca, i capitoli su pittura, scultura e architettura di Monaco, trascritti dagli appunti ordinati del primo viaggio, del 1860, sono recuperati e poi superati dalle diverse suggestioni di un racconto rapido e brioso: Torno a dirvi che tutte queste cose io non le vidi e non le pensai questa volta, bensì tre anni addietro, quando visitavo la Baviera placidamente, con il solo fine di guardare le opere d’arte; ma è ora di riprendere le note sul mio ultimo e rapidissimo viaggio, e di smettere presto.17
Alla partenza il futuro critico d’arte intende ragionare disinvolto dei canoni del bello coi quali si confronta l’antico e il moderno, il bello di natura e il bello dell’arte: Il bello artificiale può, connettendosi al bello della natura, pigliare da questa occasione a nuovi ardimenti, a gentilezze novelle. Che fonte inesauribile di varietà! […] Ma nelle ville che popolano le rive, la vera originalità la varietà opportuna e armoniosa si cercherebbe invano, benché sia in esse evidente, massime in quelle alzate questi ultimi anni, la libidine del nuovo. […] Ma il lago tanto è povero di bella roba moderna quanto è ricco di bella roba vecchia. Nell’isola Comacina sta forse la culla di quell’arte lombarda, che i maestri comacini recarono in tanti paesi di Europa.18
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Si vedano le due citate rassegne per le mostre nazionali e internazionali di Belle Arti, rispettivamente di Torino e di Roma del 1880 e del 1882 (Ivi, pp. [XLI]–XLII). Ivi, p. 244. Ivi, pp. 330–331. Ivi, pp.194–195.
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“La libidine del nuovo” nasce dall’“umore bizzarro del proprietario ed il vano e pettegolo genietto dell’artista”. Un altro viaggiatore arrivato a Ginevra, dopo aver rivisto il “bel lago” e la casa di nascita di Jean-Jacques Rousseau, commentò allo stesso modo la ricostruzione della “bella casa a sei piani, come quelle con cui imbruttiscono continuamente Parigi”.19 Il riferimento è alle Memorie di un turista di Stendhal, che ebbero enorme e immediato successo nel 1838;20 riferimento quasi obbligatorio se l’opera di Stendhal è individuata come un punto di partenza memorialistico distante dalle concrete modalità della letteratura di viaggio settecentesca. Inoltre Le memorie di un turista spaziano in una geografia francese e tedesca per arrivare a Vienna ed hanno sempre, nella sordina, il controcanto del viaggio in Italia, la passione per l’Italia e per l’antico; e ciò non toglie che la stessa comune “germanofilia” sia il segno di una appartenenza “regionale” condivisa. Il “diario manoscritto del signor L.”, anonima controfigura di Stendhal, ha qualcosa in comune soprattutto con i primi lavoretti manoscritti del giovane Boito: il signor L. detesta lo stile accademico e scegliendo percorsi non scontati, né banali, annota non il paesaggio pittoresco, come è d’uso nella letteratura del Grand Tour, ma il brutto, prima del bello, senza riserve e mezze misure. A Fontainebleau, ad esempio: La regione che sto percorrendo è d’una bruttezza estrema; non si vedono all’orizzonte che grandi linee grigie e uniformi. In primo piano assenza d’ogni fertilità, alberi intristiti e tagliati fino al vivo per far fascine […] e questo è quel che chiamano la bella Francia! […] bisogna confessare, a rischio di urtare il lettore, che la natura non ha messo in queste anime del nord della Francia una fonte troppo vivace di felicità.21
Il quale Stendhal poi sa bene che: la grande fondamentale differenza fra Parigi e una cittaduzza come la Charité (sulla Loira), è che a Parigi si vede tutto attraverso il giornale mentre il borghese della Charité vede con i suoi occhi e per di più esamina con una curiosità profonda quel che succede nella sua città.22
Questa ricerca di visione diretta e disincantata è una delle tante tangenze tra i due scrittori: un’eccentrica passione per l’antico e per l’autentico genius loci, l’attenzione per gli aspetti minori, per modeste chiese scelte tra romanico e gotico, e tra ‘cittaduzze’, paesi e località nascoste; il culto della letteratura antica e latina; le citazioni o i segni delle letture annidate nella memoria quando attraversano città e confini per scrivere i loro resoconti e quando la “cosa vista” è sempre correlata ad un quadro più generale di riferimenti d’arte e di cultura. Colpisce in queste prime pagine di Boito l’assenza di orpelli, lo stile asciutto e deciso, anche dove il diario di viaggio si prende la libertà di mutare passo, fermarsi sul paesaggio e somigliare sempre di più ad un racconto come nei testi più tardi. È il caso di Ossario. Agosto 1877, dove la prosa spigliata è anche accurata, corposa, icastica. Si rilegga la forte percezione sensoriale nella allucinata resa dell’atmosfera 19 20 21 22
Ho citato dall’edizione antologica italiana dei Mémoires d’un touriste: Stendhal, Memorie di un turista, a cura di Alberto Cento, Torino, Einaudi, 1977, vol. II, p. 462–463. M. C. Mazzi, Nota introduttiva a C. Boito, Gite di un artista, cit., p. XXVII. Stendhal, Memorie di un turista, cit., p. 14; cfr. anche la descrizione dell’unico paesaggio che merita di essere guardato, prima di arrivare a Fontainebleau a p. 16. Ivi, p. 24.
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e del paesaggio in “quella campagna tra Villafranca e Custoza” che ha “ancora il tanfo acre del campo di battaglia”: Il sole pareva la luna. Era piccolo e tondo, e si poteva guardarlo in faccia con gli occhi spalancati. Aveva, come si dice della luna, i raggi d’argento. Il suo lembo inferiore toccava la linea quasi retta dei colli; e l’intiero disco sembrava bagnato in un’atmosfera trasparente, ma vaporosa, la quale, invadendo tutto il campo del cielo, dava al sereno un certo candore innocente, dolcissimo. Non si vedeva una nuvola volare per l’aria; non c’era un colore in quel tramonto biancastro. Solo, quando la strada, sulla quale correvo in carrozzella, piegava a un tratto, e innanzi al cerchio mezzo nascosto dal sole passavano in un attimo i rametti fitti, nodosi, nudi di un olivo morto, quel sole scialbo prendeva nelle rifrazioni della luce un colore strano rossigno, come di fiamma pallida o di sangue annacquato.23
Boito è già uno scrittore di vaglia che sa poi sempre intrecciare (e stemperare) il tocco delle sensazioni nella concretezza della rappresentazione diretta e dei ricordi storici. Ciò anche quando ripropone l’eterno dilemma tra bello di natura e bello dell’arte nel pezzo su Trieste (gennaio 1866), la città cara a Mercurio: Dinanzi all’aperta superficie del mare, in questa regione della bora, fra i monti aridi di codeste alpi, che cosa diventa mai il fiorellino delicato che si chiama arte? In mezzo al via vai dei marinai e dei facchini, che spingono a terra e sacchi e balle e casse e botti e barili di ogni maniera; in mezzo al frastuono dei carri ferrati, al cicaleccio ora stridulo, ora tumultuoso di gente affaccendata d’ogni terra, col turbante turco, con la gonnella albanese, con la lunga tunica dell’ebreo tedesco, che cosa diventa mai quella gentilezza della fantasia e del cuore che si chiama il bello? […] Quanto al commercio, non ridete s’io dico ch’egli ha in sé una bellezza sua singolare. La sensazione del bello viene talvolta dalla sensazione del grande: e quando io penso che questi uomini con il volto abbronzito e volgare, ne’ quali m’imbatto a Trieste, han girato forse mezzo il globo, capisco che guardino con occhio indifferente un pezzo di marmo lavorato o un ritaglio di tela dipinta. L’arte è sovente l’occupazione degli sfaccendati. […] Ma non è a dire che Trieste respinga con ruvida mano le carezze delle arti, e talvolta non se ne compiaccia, e anzi non le chieda spesso qua e là dove le può trovare.24
È la Trieste di un osservatore di grande lucidità, geniale nel modo di guardare ambienti uomini e cose in un brano che appare una sorta di anticipata parafrasi della poesia di Umberto Saba, segnatamente dei versi centrati sulla concentrazione luminosa di alcune annotazioni di assoluta memorabilità: Trieste ha una scontrosa Grazia. Se piace, è come un ragazzaccio aspro e vorace, con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore; come un amore con gelosia.25 23 24 25
M. C. Mazzi, Nota introduttiva a C. Boito, Gite di un artista, cit., pp. 3–4. C. Boito, Trieste, in: Id., Le gite di un artista, cit., pp. 90–92. Trieste dalla sezione Trieste e una donna (1910–1912), da U. Saba, Antologia del “Canzoniere”, introduzione di C. Muscetta, Torino, Einaudi, 1963, p. 29.
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E in Città vecchia di Saba la portata di un sentimento sociologico, che tende a farsi assoluto, passa attraverso la stessa aderenza alla realtà e l’uguale, acuta, intensità dello sguardo: Qui tra la gente che viene e che va Dall’osteria alla casa o al lupanare Dove son merci ed uomini il detrito di un gran porto di mare, io ritrovo, passando, l’infinito nell’umanità. Qui prostituta e marinaio, il vecchio che bestemmia, la femmina che bega, il dragone che siede alla bottega del friggitore, […].26
Nel confronto chiunque vede il rilievo che merita il paesaggio umano nella caratura dei registri diversi del poeta e dell’artista viaggiatore. Ora queste considerazioni c’inducono a dire che pagine a firma Boito, in generi e circostanze mutate e cronologicamente distanti, ammettevano requisiti narrativi inconfondibili che avrebbero presagito l’autore delle Storielle vane e di Senso. Ho già avuto modo di indicare nella prima gita, del ’68, le due diverse facce della personalità dell’autore.27 Da allora in poi, nei racconti successivi, la struttura è mutata: i luoghi sono diventati circostanze ed eventi che segnano percorsi di emozioni/sensazioni eccentriche; il dettato accoglie, in piena affabulazione romanzesca, collaudati modelli di finzione narrativa. Rispetto alla gita altro è il ritmo, altri i tempi e i modi, tant’è che nella più autentica avventura che sarà la storiella sdoppiata dalla gita di Jacopo Cosmate, per un’apparente eterogenesi dei fini, Baciale ’l piede e la man bella e bianca, persino lo scopo del sopraluogo di studio inteso alla trascrizione dell’epigrafe del duomo di Civita Castellana, nel secondo capitolo, è lasciato al caso e relegato ai margini del racconto a fronte dell’emergenza di nuove emozioni sentimentali intrecciate a raffinati intarsi letterari da Petrarca, Foscolo e Sterne.28 Ma nel passaggio restano da sottolinearne alcune tangenze tra la gita/storiella e i primi testi di Gite di un artista. In primo piano il tema del viaggiare col libro. Nel capitolo Da Milano ad Ulma Boito leggeva e trascriveva intere pagine di Montaigne: Avevo insieme con alcuni altri libri, il Journal du voyage de Michel de Montaigne. Il Montaigne viaggiava nel 1580 e nel 1581 in Germania e in Italia: andava ai bagni per il mal della pietra […] ma che sottigliezza di osservazione, che spirito largo, che occhio pronto! […] In viaggio si ha l’occhio, la mente, la fantasia distratti così che non si può leggere; bisogna rileggere. Andavo dunque rileggendo qua e là nella mia vecchia edizione codeste pagine, dalle quali voglio cavare, dopo quasi trecent’anni, qualche fresca notizia.29
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Ivi, p. 30. M. Dillon Wanke, Le ragioni di Corinna. Teoria e sviluppo della narrativa italiana dell’Ottocento, Modena, Mucchi, 2000, p. 299. Per queste indicazioni mi sia consentito il rinvio al luogo sopra citato (Ivi, pp. 302–306). C. Boito, Da Milano a Ulma, in: Id., Le gite di un artista, cit., pp. 202–203.
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Poco più avanti il protagonista entra in dialogo con sufficiente ironia e distacco con i libri che gli sono familiari. Legge, annota e trascrive (in citazioni anche eccessivamente lunghe) affinché l’esercizio di immedesimazione, molto scoperto, stimoli ragionamenti e riflessioni in grado di restituire differenze, tempi, pause e traiettorie sfasate tra il viaggio di carta di Montaigne e il suo viaggio reale: Si sviò il Montaigne d’un dì per vedere Lindau, dove io appunto dovevo tosto approdare; gli piacque la cittaduzza tutta circondata dal lago, e la chiesa cattolica alzata, dice lui, nell’866. […] Giungevo col Montaigne a Trento, quando la vaporiera entrava nel piccolo porto di Lindau.30
Anche al novello viaggiatore sentimentale di Baciale ’l piede e la man bella e bianca, tra Valcimara e Camerino, torna in mente “Michel de Montaigne, gentiluomo francese” che “si lasciò andare, quasi tre secoli addietro, poco in là di Serravalle, a percuotere sonoramente la guancia destra del suo vetturino”, con la variante che il Diario del viaggio in Italia non è più una guida ma una fonte aneddotica.31 Inoltre, fin d’allora, dal 1863, nel pezzo Da Milano ad Ulma, l’autore ambiva all’autocertificazione del viaggiatore artista: Oh, dolce cosa il pigliarsi un grande albo, alcune matite, una fettuccia metrica, e in ispalla un piccolo sacco da viaggio, e in mano un grosso bastone, e andare passo passo lungo le rive del lago e un poco sulle coste, fermandosi a schizzare una rovina di castello, una vetusta basilica, dove mostri, uccelli, sirene, goffi santi scolpiti conversano insieme simbolicamente, una vasca battesimale, una pila d’acqua benedetta, la cresta o il dorso d’un monte, poiché le vecchie montagne e i vecchi monumenti vivono in fraterna armonia!32
Anche questa volta la citazione corrisponde, in prima battuta, all’autoritratto di Baciale ’l piede e la man bella e bianca: Nella mano destra impugnavo una grossa mazza ricurva e nodosa, col puntale di ferro quasi acuminato; nella mano sinistra tenevo un grande albo dove stavano già disegnati alcuni degli antichi ruderi romani; ora sull’un braccio, ora sull’altro portavo piegato un grande scialle a quadretti bianchi e neri, destinato a ripararmi dal fresco, quando pizzicasse un tantino.33
Ma mentre è difficile sottrarsi alla suggestione di ricondurre questo profilo al canonico prototipo pittorico di Gustave Courbet,34 assistiamo alla trasformazione dell’architetto viaggiatore in personaggio:
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Ivi, pp. 204–205. C. Boito, Baciale ’l piede e la man bella e bianca, in: Id., Senso e altri racconti, cit., p. 33 (ricordo che da questo testo Tre romei sono stati tagliati ed hanno formato una storiella autonoma già nella prima raccolta, Storielle vane, Milano, Treves, 1876). Ivi, pp. 195–196. C. Boito, Baciale ‘l piede e la man bella e bianca, cit., p. 4. Cfr. il mio capitolo ‘Camillo Boito racconta il paesaggio’ in M. Dillon Wanke, Le ragioni…, cit., p. 247, dove mi riferisco alle due tele “Bonjour Monsier Courbet” (1855), olio su tela, Montpellier, Museo Fabre, e all’autoritratto detto “Courbet col cane nero”, olio su tela, Parigi, Museo del Petit-Palais (tavole 1 e 2 del volume).
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Matilde Dillon Wanke A Baccano devo aver mangiato, ma dove e che cosa non lo saprei dire. La memoria è labile, e voi dovete scusarmi. Dall’altro canto gli eroi – ed io sono l’eroe del mio racconto – non hanno bisogno di rifocillarsi lo stomaco.35
Boito è un protagonista ‘scapigliato’ che al vento della scapigliatura allude esplicitamente: Il vento non ha creanza: appartiene all’arte scapigliata e discinta: non legge il galateo, non ha misura, non ha ordine, non ha delicatezza. […] Rotolava trenta passi lontano il mio cappello, e svolazzavano i fogli dell’albo, che avevo aperto con la intenzione di schizzarvi un ricordo del paese.[…] Nel fondo lontan lontano, scoprivo ancora la cupola di San Pietro: pareva il vertice di un tumulo enorme.36
A distanza di cinque anni il vento scapigliato è entrato a sconvolgere le pagine dell’albo del viaggiatore che da una stringente e concreta pertinenza alla cosa vista si abbandona alle variabili dell’avventura e a nuove forme di evasioni citazionali e narrative. La scrittura le asseconda a partire dal patto col lettore che, grazie al modello di Yorick, promette trasgressioni alle norme del narrare, divagazioni, interruzioni metanarrative esterne all’intreccio della recherche culturale e sentimentale. Gli studi sugli aspetti dell’“effetto Sterne”37 inducono a dar conto di rapporti e varianti che la storiella di Boito riesce a esibire anche rispetto al Viaggio di un ignorante di Giovanni Rajberti o a Un suicidio all’Inglese di Iginio Ugo Tarchetti, del 1865. Resta il fatto che lo stile ‘didimeo’, in questo ricercato ‘falsetto’, dà prova di un gusto antiquario e puristico di poco precedente alle sperimentazioni linguistiche di Dossi, Faldella, Imbriani.38 In seguito la corrosione delle certezze della generazione romantica e il disagio degli Scapigliati si esprimerà in Boito in una nuova ricerca che si può riassumere nella formula semplificativa dell’arte per l’arte alla luce di nuovi valori estetici e in inchieste, non sistematiche, sul rapporto arte/scienza, innovazione/conservazione, parola/immagine, piuttosto che nello sperimentalismo stilistico.39 Così Boito, col ‘petrarchino’ alla mano e l’incontro con la Donna-angelo vista come un’apparizione sullo sfondo dello stallo della cattedrale di Spoleto, con lo stilnovismo rarefatto e l’italianità dei luoghi, si rappresenta in tono minore come un rampollo della tradizione del Grand tour europeo. Non è un caso che scelga qui un percorso che ignora la ferrovia (simbolo nell’Ottocento del moderno progresso)40 e 35 36 37 38
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C. Boito, Baciale ‘l piede e la man bella e bianca, cit., p. 5. C. Boito, Baciale ‘l piede e la man bella e bianca, cit., pp. 4–5. Mi riferisco al volume Effetto Sterne. La narrazione umoristica in Italia da Foscolo a Pirandello, saggi diretti da G. Mazzacurati, Pisa, Nistri-Lischi, 1990. Cfr. M. Dillon Wanke, Le ragioni…, cit., p. 245; il Nardi ricorda che mentre nelle osterie Arrigo tuonava contro lo strapotere verdiano in campo musicale, fu invece uno dei più assidui frequentatori del salotto Maffei e Litta (P. Nardi, Arrigo Boito, cit., p. 22); riguardo al salotto di Clara Maffei altrettanto controversa appare la posizione di Camillo, desunta, sempre, da una lettera di Camillo al fratello (Ivi, pp. 18 e 50–51). Cfr. M. Dillon Wanke, Le ragioni…, cit., p. 259. Come ricorda M. Cecilia Mazzi, precisando anche la dimensione circoscritta, riduttiva, se non minimale, della “gita” rispetto al viaggio, giacché nella seconda metà dell’800 il viaggio per gli artisti ha ormai come meta l’Oriente, l’Africa, l’Egitto, il Marocco: se i nomi sono quelli di
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cerchi un avventuroso viaggio a piedi e in carrozza, come negli autori prediletti Goethe e Heine. Ma colpiscono le differenze. Nell’Italienische Reise, in particolare, Goethe aveva viaggiato in vettura di posta, in carrozza, in barca, in battello, sul mulo e a piedi41 e diretto a Roma, il 27 e 28 ottobre 1786, aveva toccato alcune tappe che Boito percorre in senso inverso; era salito a Spoleto (“sull’acquedotto che fa anche da ponte tra una montagna e l’altra”) e aveva visto Narni e Otricoli decidendo di osservare il più possibile gli aspetti della geologia e del paesaggio, onde reprimere gli slanci dell’immaginazione e del sentimento, e salvaguardare una visione chiara, imparziale, di ciascun luogo: ché allora la storia vi si riallaccia con vivezza così singolare, da lasciare sconcertati e increduli.42
Si direbbe dunque che Boito nella sua prima ‘storiella vana’ giochi proprio le carte opposte dell’immaginazione e del sentimento, non in dissenso ma in alternativa, per approcciare la differenza specifica del genere narrativo. Tra Terni e Civita Castellana, dove prima di arrivare a Roma Goethe aveva fatto tappa alloggiando all’albergo dei “Tre re”, in una bella serata, ventosa, il pupillo diciottenne del Selvatico Estense senza fermarsi, costruisce la compiutezza di un racconto che dall’episodio dell’iscrizione epigrafica del Duomo punta all’incontro di Otricoli e scioglie ad Ancona il voto del verso petrarchesco, Baciale ’l piede e la man bella e bianca, sublimando le esperienze e i valori del viaggio di formazione. In definitiva la disomogeneità di cui si diceva circa la raccolta delle Gite di un artista è segnata da tempi e viaggi diversi. Ma i pezzi scritti a far data dal 1877, nel dar conto ormai degli studi ‘severi’ del critico d’arte, dell’impegno e la responsabilità civile del suo ruolo, contestualizzabili in diverse occasioni professionali, sono ancora dei vasi comunicanti delle Storielle vane. Conservano una collaudata e semplice struttura narrativa e l’inconfondibile marchio del Boito esordiente, se le ambientazioni veneziane di Senso, del Collare di Budda, del Maestro di setticlavio, hanno il loro ‘rovescio’ nei capitoli Venezia e Sant’Elena e Santa Marta delle Gite. Si potrebbero leggere come facce di una medaglia dello stesso conio.43 Inoltre Un corpo. Storiella di un artista (1870) e Senso (1883) nel genere del racconto lungo a fronte dell’Ossario (Agosto 1877), hanno la forza dell’anticipazione, l’una, e della conseguenza, l’altro, di ciò che può riuscire nel narrare di Boito il genere del reportage sui luoghi delle sconfitte di Custoza, un vis-à-vis struggente ed atroce, capace di guardare la bellezza, la morte, la guerra (e il tema del Risorgimento lontano o tradito) attraverso il diaframma cinico dell’impassibilità. Per un ultimo confronto con le pagine veneziane dell’Italienische Reise occorre ricordare che Goethe arrivò a Venezia il 28 settembre 1786 e vi soggiornò una quin-
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Flaubert e Delacroix (M. C. Mazzi, Introduzione a C. Boito, Gite di un artista. L’artista, cit., p. XXVI), in Italia si dovrà pensare a De Amicis. “Viaggiare coi vetturini è noioso; meglio è seguirli comodamente a piedi. Da Ferrara a qua mi sono sempre fatto rimorchiare a questo modo” (cfr. l’edizione italiana J. W. Goethe, Viaggio in Italia, Prefazione di R. Fertonani, traduzione di E. Castellani, Milano, Mondadori, 1983, p. 131, e circa i mezzi di trasporto, pp. 3, 21, 23, 28, 35). Ivi, pp. 132–136 (in particolare p. 134). Alcuni particolari raffronti si trovano nelle mie pagine su Boito racconta il paesaggio in Le ragioni…, cit., pp. 252–260.
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Matilde Dillon Wanke
dicina di giorni. Visse da veneziano, frequentò i teatri, osservò la laguna, l’erosione del mare e il lavoro dell’uomo; dovette lasciarla il 14 ottobre per seguire il suo programma, sapendo di aver “fatto il prezioso carico” di “un’immagine ricca, singolare, unica” da portare con sé.44 Autenticamente ‘veneziana’, e cioè interna all’orizzonte conoscitivo della sua giovinezza, si direbbe invece l’esperienza raccolta nei due capitoli che Boito riunisce sotto il titolo Venezia.45 Di qui l’intarsio di una storiella pittoresca, data per “veridica”, “inedita e pressoché sconosciuta”, su un Garibaldi che, insensibile ai valori dell’arte nel palazzo dei Dogi, consente a riconoscerli specchiandosi nel volto a lui somigliante di Sebastiano Veniero, nella Battaglia di Lepanto di Andrea Vicentino. Riconoscere i gusti individuali e la sconfinata libertà del giudizio non impedisce allo studioso d’insistere a spiegare valori indiscussi e rispondere al problema della conoscibilità dell’arte: Il palazzo ducale di Venezia è dunque, ve lo giuriamo, il più bel palazzo del mondo. Già lo dicono tutti e italiani e stranieri: né importa di aver fatto il giro del mondo, né di avere esaminato i disegni o le fotografie di tutti i palazzi della terra per consentire nella universale sentenza. Non può esserci cosa più solenne e varia, più robusta e ardita, più ragionevole e più singolare. Innanzi ad esso tutte le facoltà del cervello e dell’anima restano paghe: la fantasia vola, il raziocinio si contenta, […]. Questo edificio è un essere organizzato e vivo: ha un cuore che palpita; il sangue gli scorre per le vene, e nelle estremità più lontane, nei meandri più nascosti si sente il battito del polso forte. S’incarna in esso la Repubblica di tanti secoli, un passato di splendori e di glorie; e non è un libro di marmo, non è uno specchio e insieme, quasi a dire, un fonografo de’ tempi andati, non è neanche una evocazione visibile di grandi fantasmi e di grandi eventi: è una vera e propria transustanzione – il corpo e il sangue della Venezia antica. Come si fa a misurare la frase quando l’ammirazione trabocca, come si fa a non parere secentisti?46
L’anno dopo, in Senso, la natura e i colori veneziani (“quella musica dipinta con tanto ardore di amor sensuale”), e ancora la deliziosa isoletta di Sant’Elena che le Gite difendevano come in un cahier de doléance per l’invasione dei “nuovi fabbricati industriali orribili”,47 offriranno altre risorse alla sensibilità del narratore. In ogni caso Boito non ha mai fini esplicitamente didascalici, non vuole farci da guida, ma l’estensione delle sue competenze e passioni, anche politiche, lo inducono a irretire sempre il lettore nel ragionamento dei suoi miti e modelli e a discutere e collegare gli opposti bello/brutto, natura/arte a supremi valori estetici e morali.
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J. W. Goethe, Viaggio in Italia, cit., pp. 67–107. Il primo è Il palazzo ducale (1882), il secondo Sant’Elena e Santa Marta (1882) in: C. Boito, Le gite di un artista, cit., pp. 41–85. Ivi, pp. 43–44. Ivi, pp. 57–58.
ANATOMIE ESTETICHE. ICONOGRAFIE DEL FEMMINILE NELLA LETTERATURA BOITIANA Chiara Cretella Le donne rappresentano il trionfo della materia sull’intelletto, proprio come gli uomini rappresentano il trionfo dell’intelletto sulla morale. Oscar Wilde
Cosa rimane a cento anni dalla morte della figura di Camillo Boito? La critica, a cominciare da suo fratello Arrigo, non è mai stata molto clemente con questo artista polimorfo. Arrigo non volle concedere i diritti della novella Senso ad una casa di produzione cinematografica per trarne un film, liquidando l’attività letteraria del fratello come marginale, occasionale, vana per usare un termine caro al nostro.1 Occasionali infatti, sono state anche le incursioni della critica verso questa figura così eclettica ma non certo sovversiva per la cultura italiana: per questo c’era dunque da aspettarsi che, proprio per le sue caratteristiche intrinseche, questa poetica così ottocentesca, profondamente espressione del suo tempo, non scevra dalle retoriche dell’apparato istituzionale e ideologico degli anni che seguirono l’Unità d’Italia, sia stata poco celebrata dai fasti della storia ufficiale che è paradossalmente più spesso incline a concedere ai morti quello che ha negato ai vivi. È così che la storia giudica l’opera, al vaglio del tempo, ed oggi, si concede più udienza a un Tarchetti che a un Boito; perché i testi del primo reggono alla prova del tempo, le novelle del secondo cominciarono a scricchiolare già dopo pochi anni dalla loro pubblicazione, con l’avvento delle avanguardie. In fondo Tarchetti, col suo destino tragico, con la sua vita bohémien e i suoi afflati antiautoritari, aveva messo realmente in discussione lo schema di potere di una società divisa tra il monopolio della guerra maschile (Una nobile follia) e l’idealizzazione della bellezza femminile (Fosca); Boito si era spinto solo a parodiare modi scapigliati che gli interessavano più per il gusto pittoresco che per la portata rivoluzionaria.
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“La proposta della Casa Cinemo-Dramma di rappresentare con la cinematografia una novella del mio rimpianto fratello non ottiene il mio consenso. La vita artistica di Camillo ebbe i suoi confini ben tracciati dalle pareti del suo studio e della sua scuola; egli non pensò mai che un’opera della sua mente potesse trovarsi a contatto col pubblico degli spettacoli. Nella sua vasta bibliografia di arte, di storia d’arte, di critica, di pedagogia, d’estetica, le sue novelle appaiono come episodi isolati. L’affetto che mi lega alla sua memoria mi impedisce di permettere ch’egli si manifesti in modo diverso da quello che gli era consueto e che gli valse onori e fama. Prego quindi il mio caro amico Sabatino Lopez di comunicare all’egregia Casa Cinemo-Dramma questa risposta”, lettera di Arrigo Boito a Sabatino Lopez, citata in: P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, Milano, Mondadori, 1942, p. 728.
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Questo per quanto riguarda la fama di Camillo, ma una sorte diversa è toccata ad Arrigo, ben più noto e ricordato forse anche per l’arte prescelta. Il librettista di Verdi infatti, scelse un medium che seppe sopravvivere al proprio tempo: l’opera lirica ancora oggi riesce a parlarci di quell’epoca e a tramandare opinioni, sentimenti, amori e morti di un secolo che ha visto in questa espressione la condensazione della sensibility romantica. Una categoria, quella del Romanticismo, divenuta universale, destinata dunque, come ogni forma di pensiero cristallizzata in una poetica, a divenire movimento transdisciplinare, stile di vita, forma d’arte, e a risorgere ciclicamente dalle proprie ceneri in successivi revival che ne riattualizzano la spinta propulsiva. In fondo si tratta solo del nuovo della tradizione, lo stesso motivo, a pensarci bene, per cui oggi ricordiamo Camillo Boito. Anch’egli infatti, più che inventare, ha traslato in Italia il revival neogotico che si era diffuso in Inghilterra e in Europa, riuscendo a tradurre questa poetica nell’immaginazione di una lingua architettonica comune per l’Italia unita. Ma la traduzione, come il revival, è sempre un atto di creazione, quando è una buona traduzione: l’originalità creatrice di un revival sta nella riattualizzazione in chiave contemporanea di qualcosa di antico, nella ricerca di un punto di vista differente, che per divenire avanguardia deve avere l’ardire di passare dal ‘nuovo della tradizione’ alla ‘tradizione del nuovo’. Ma per attuare questo scarto bisogna avere il coraggio di distruggere l’esornativo per riportare alla luce il nucleo generativo di una poetica, che è poi nient’altro che una weltanschauung, e così spogliandola, rimetterla al mondo pronta a vestire abiti nuovi, ad abitare nuovi spazi: la distruzione come causa della nascita.2 Credo che Boito non si prefiggesse tale obiettivo, in quanto ciò avrebbe significato non solo una forma nuova, ma anche sconvolgimento, rivoluzione, perdite di posizione, rimessa in discussione delle istituzioni, della politica, dei rapporti tra i sessi, della religione; in una parola, di tutto quel piccolo mondo antico di cui anch’egli faceva parte: “Cosa m’importa che i miei compatrioti abbiano vinto oggi una battaglia in un posto chiamato Custoza? Quando so che perderanno la guerra… e non solo la guerra… e l’Austria fra pochi anni sarà finita… e un intero mondo sparirà quello a cui apparteniamo tu ed io”.3 Così parla Remigio nel film di Visconti rivolgendosi a Livia nel momento dello svelamento finale della sua viltà, smascherando l’intima battaglia tra l’istinto di conservazione e la pulsione di morte. A Boito questo dilemma stava a cuore nella misura in cui il nuovo sarebbe potuto diventare memoria culturale, restauro, conservazione; l’etica di una morale artistica che avrebbe dovuto illuminare con la sua luce il disfacimento della deca2
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Una teoria della psicoanalista Sabina Spielrein, Die Dekonstruktion als Ursache des Werdens, in: Jahrbuch für Psychoanalytische und Psychopathologische Forschungen, vol. IV, pp. 465– 503, 1912. La distruzione come causa della nascita, in Comprensione della schizofrenia e altri scritti, Napoli, Liguori, 1986, pp. 77–114. Senso, film diretto da Luchino Visconti, soggetto e sceneggiatura di Luchino Visconti; Suso Cecchi D’Amico con la collaborazione di Carlo Alianello; Giorgio Bassani; Giorgio Prosperi. Musica: Anton Bruckner. Interpreti: Alida Valli, Farley Granger, 115 minuti, CVC, Roma, 1954.
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denza e della guerra. Ma il decadentismo gli successe e così anche la guerra mondiale. Quelle chiese, quelle memorie e quelle architetture che voleva preservare sarebbero state messe a fuoco dopo pochi anni dalla poetica futurista. Inoltre quel Medioevo fantastico a cui Boito s’ispirava, generò, nel ‘sonno della ragione’, tutti i suoi mostri: fantasmi e truculenze, cripte e castelli, dame e cavalieri, santi e prostitute, diavoli e tentazioni, inquisizioni e streghe, bene e male, lascivia e castità, povertà e opulenza, uomini e donne che vivono nelle Storielle relazioni binarie, dicotomiche, a cui non è lasciato altro spazio che la morte come punizione della trasgressione. Un codice ancora cavalleresco, che la piccola borghesia italiana, sonnacchiosa e non uscita vincitrice sulla storia da nessuna rivoluzione francese né da illuminismi radicali, ancora conservava come intatto retaggio dall’epoca moderna. Non stupisce dunque che Marziano Guglielminetti in un saggio scritto poco dopo il ’68, liquidi Boito semplicemente come un “neofita dell’ideologia di classe”.4 Ma un giudizio così tranchant non giova all’inquadramento di questa figura e la riduzione ad uno schema puramente ideologico non dà conto della ricchezza dei suoi interessi e delle sue battaglie (percorsi di formazione, repertori di modelli antichi, restauri, riforma delle accademie…) – seppur condotte tutte dentro le istituzioni –, per cambiare qualcosa di quel sistema farraginoso e ancien régime che era il portato più evidente di un Risorgimento incompiuto, tutto modellato sulla tradizione sabauda. In questo quadro di riferimento politico-culturale, non deve stupire dunque l’attenzione di Boito verso l’indagine sul femminile, un interesse traslato dal grande romanzo borghese d’oltralpe che vedeva proprio nella donna il punctum focale del sistema sociale. La donna come corpo di quello scarto tra il reale e l’immaginario, incarnazione di poetica, visione del mondo, oggetto di scambio, apparizione perturbante e ambiguamente affascinante, ma proprio per questo da rimuovere descrivendole addosso una natura dicotomica, un exemplum da seguire, un sistema cui conformarsi, pena l’anarchia interiore/esteriore. D’altronde, proprio da quella rivoluzione che in Francia aveva cambiato le carte della storia intellettuale europea, non erano di fatto usciti diritti femminili ma solo un modello universalista fondato sul maschile. È facile dunque comprendere il perché la borghesia in ascesa avesse focalizzato i suoi interessi su questa tematica: in un momento di crescente industrializzazione le donne rappresentavano anche lo scambio simbolico, metafora dell’oggetto/merce su cui si basava tutta la nascente economia capitalista. Soggetta dunque a protezionismi e compravendite, la donna
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“Si pensi ai Tre romei; essi sono, innanzi e soprattutto, la parabola del galeotto convertito, esposta dal vecchio alla fanciulla per istillare prima il “ribrezzo” e lo “schifo” dei prigionieri, poi la lieta fiducia che basta una contadinotta di nome Maria per iniziare uno di essi alle gioie del matrimonio e dell’agricoltura, sì da farne, in conclusione, la figura vivente dell’intatto valore politico dell’idillio agricolo di stampo rousseauiano-paternalistico […] Un cuore e una capanna insomma […] il giovane Boito è […] un neofita dell’ideologia di classe”, M. Guglielminetti, Introduzione, in: Camillo Boito, Storielle vane, a cura di M. Guglielminetti, Roma, Silva, 1971, pp. 7–8.
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rimane la base su cui costruire la discendenza economica e culturale di una classe per la prima volta al potere della storia europea. Strega o angelo? Nessuna unificazione al corpo femminile poteva esser concessa da una società fondata sulla rimozione puritana tipica dell’epoca vittoriana, inoltre, rimaneva fondante provare la certezza della progenie, una necessità giustificativa di limitazioni spaziali e ginecei culturali come anche i famosi salotti femminili (spazi chiusi per eccellenza). La modernizzazione dei costumi, il nascente movimento femminista della prima ondata, l’urbanizzazione e il proletariato che portò uomini e donne (lavoratrici definite da Marx come esercito di manodopera di riserva) a lavorare a stretto contatto nelle fabbriche, la centralità del sintomo isterico5 nella scoperta freudiana dell’inconscio, rappresentano alcune delle chiavi di lettura per comprendere la rimozione/elevazione del femminile, poetica che muove le sue direttrici lungo tutta la cultura europea del periodo. Dal Simbolismo al Liberty la donna, divisa tra angelo e vampiro, attraversa col suo volo estetizzante le arti e le scienze, unite da una comune sessuofobia.6 Il progredire della medicina, dell’anatomia, delle scienze del corpo e della psiche, l’eredità dell’illuminismo, sono solo alcuni punti che non permettono più agli intellettuali del secondo Ottocento di credere cecamente nella morale cattolica/piccolo-borghese; essi dunque, si dividono tra spiegazioni razionaliste e suggestioni gotico-spiritiste: tutto pur di non concedere al femminile il ruolo di soggetto autonomo e non di oggetto manipolabile. Potremmo dire, parafrasando la celebre tesi lacaniana sull’inesistenza del femminile nel simbolico, che tutta la poetica letteraria di quel periodo lavori affinché La Donna esista, perché emerga una categoria universale astratta del femminile come ideologia, ancorata alla tradizione mariana/stregonesca, dunque ancora pienamente stilnovista-medievale: un universale in cui liquidare le differenze, in cui annientare le singolarità soggettive delle donne reali, con le loro aspirazioni, debolezze, contraddizioni, sessualità, pensieri, diritti, in una parola, con le loro esistenze. Questa donna parlata, non ancora in grado di parlare, sussunta dentro il maschile (Madame Bovary c’est moi), rimane il luogo privilegiato della vivisezione interiore, perché ridotta a quel dato di natura opposto alla cultura, impeto da tenere a bada, da rimuovere come tentazione, pena la caduta verso l’abisso della lascivia e della degradazione. Essa viene dunque paragonata al diverso, al migrante, al folle, all’infante e infine ridotta a esser tutto corpo (Un corpo) anche quando la sua nevrosi è tutta mente (Fosca).
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S. Freud, Opere vol. 1. Studi sull’isteria e altri scritti 1886–1895, a cura di C. L. Musatti, Torino, Bollati Boringhieri, 2003. Gli Studi sull’isteria furono pubblicati da Freud, in collaborazione col medico Joseph Breuer, nel 1895. Sull’argomento cfr. J.-M. Charcot, P. Richer, Le indemoniate nell’arte, Spirali, Milano, 1980; La donna nelle scienze dell’uomo: immagini del femminile nella cultura scientifica italiana di fine secolo, a cura di V. Babini, F. Minuz, A. Tagliavini, Milano, Franco Angeli, 1986; B. Dijkstra, Idoli di perversità, Milano, Garzanti, 1988; B. Dijkstra, Perfide sorelle. La minaccia della sessualità femminile e il culto della mascolinità, Milano, Garzanti, 1997.
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Fuori da questa dicotomia, alla donna rimane solo la morte, con la cui iconografia cimiteriale viene infatti a coincidere (La belle dame sans merci). Boito non è esente da questa visione della differenza di genere anche nella sua vita privata: scelse due donne, la prima moglie, una cugina che doveva tenere unita la famiglia assurgendo al ruolo di madre simbolica nel morboso rapporto col fratello che mai si emanciperà da lui; e poi Madonnina Malaspina, una nobile veneziana con aspirazioni poetiche tutte esaltazioni campestri, floreali e purezza mariana, come d’altronde il suo nome le imponeva. Alla letteratura, come è ovvio immaginare da questo panorama esistenziale, Boito lasciò le fantasticherie del passeggiatore solitario, i desideri inespressi e le trasgressioni incompiute: gli incontri alla Sterne con giovani e selvagge contadine (Macchia grigia); i viaggi sentimentali alla ricerca della bellezza primigenia della natura (sempre paragonata al corpo della donna); l’alterigia delle dame che si concedono amanti indiscreti (Dall’agosto al novembre; Senso); le crestaie simbolo del guasto del nuovo proletariato urbanizzato (Notte di Natale); le Olympia e Nana che attentano alla castità del singolo come simbolo di una intera comunità sotto il pericolo dell’industrializzazione (Vade retro, Satana); le apparizioni angelicate in stile quattrocentesco dal sapore peruginesco, preraffaellita e petrarchesco (Baciale ’l piede e la man bella e bianca). Tutti questi cliché hanno in comune la stessa sinopia, anzi, per dirla con Boito, lo stesso schema architettonico – non a caso paragonato dal nostro a un corpo vivo: l’iconografia dicotomica e stereotipica del femminile. A mio avviso, l’unico personaggio caratterizzato da Boito con profondità interiore è proprio Livia di Senso, considerato giustamente il suo capolavoro, scandaloso già dal titolo e per la tematica trattata: che una donna potesse avere degli amanti era concesso alle classi alte, ma che fossero anche degli invasori, dei gigolo, dei vili, dei disertori, che potessero passare senza nessun problema dal letto delle contesse alle alcove sordide delle prostitute, questo non era ancora stato descritto dalle labbra di una donna nella nostra letteratura. Così Livia, oltre a dare la morte, splende in tutte le sue contraddizioni ergendosi come Venere in pelliccia, come Lupa verghiana, come sanguinario angelo vendicatore, ma è capace di incarnare anche l’umiliazione, la degradazione, lo squallore, e insieme la forza della sessualità e del senso: è una donna che sceglie l’altro solo per l’avvenenza fisica e per il cinismo morale, ma è capace di conservare nella sua infatuazione la dolcezza della protagonista di Chéri di Colette e la spietatezza di Wanda di Sacher Masoch. Livia è una donna reale con tutte le sue ambiguità, debolezze, meschinità: antipatriottica, egoista, lasciva, opportunista come l’uomo che sceglie, mette in discussione dunque tutta la retorica patriottarda e la morale del suo tempo, fino ad usare lo stesso spregio del codice d’onore maschile. Nel duello tra i sessi sarà lei a uscire insieme vincitrice e sconfitta, a sussumere in sé dunque, quello che – per dirla con Pavese – ogni amore, qualunque amore, ci svela come miseria, inermità, nulla: e forse in questo sta la sua grandezza. Livia ha imparato la lezione della Justine sadiana: somiglia, la sua vittoria, a una caduta, esattamente come quella della libertina Marchesa de Merteuil ne Le relazioni pericolose. Per quanto riguarda invece la struttura della trama, considero Un corpo il miglior racconto di Boito. Un corpo potrebbe esser preso come la sintesi di tutta la
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poetica scapigliata, e già il titolo, esattamente come Senso, dà conto della portata rivoluzionaria di questo testo. L’articolo indeterminativo rende la protagonista nient’altro che una statua di carne, un’esercitazione stilistica su cui ammaestrare la penna come il pennello, il pennino come il bisturi. La suggestione anatomica, condivisa col fratello Arrigo (si pensi a La lezione d’anatomia),7 viveva un revival dopo l’exploit rinascimentale: Federico Ruysch era stato eternato dalle Operette leopardiane, l’imbalsamatore Paolo Gorini lavorava spesso a Milano, Gaetano Strambio, collega di Boito, insegnava anatomia artistica presso l’Accademia di Brera: tale pratica era infatti considerata un percorso utile agli artisti sin da tempo immemorabile (si pensi agli studi di Leonardo da Vinci).8 Che i due campi si fossero da sempre influenzati appariva oramai un dato storico, in più a fine Ottocento cominciarono a fiorire i musei didattici e le preparazioni anatomiche facevano parte del gusto del tempo. L’eredità del Settecento è evidente nell’uso della ceroplastica, ancora in auge come materiale artistico (si pensi a Medardo Rosso) e le imbalsamazioni di personaggi famosi erano pratica comune (Mazzini e Rovani ad esempio). Così Milano, che progetta il suo cimitero illustre, il Famedio (in cui verrà coinvolto anche Boito, autore tra l’altro di opere cimiteriali a Gallarate), si raccoglie attorno ai fasti di una storia da scrivere per l’Italia unita. La morte è dietro le spalle, se ne sente ancora l’odore di sangue da cui è uscita la nazione dopo le innumerevoli guerre, molti scapigliati sono caduti sui campi di battaglia, mentre il decadentismo d’oltralpe sparge la sua aura di morgue nella Milano che si avvia a divenire capitale cosmopolita. Un corpo è la metafora del dilemma dell’artista: provare a chiudere ciò che la natura ha lasciato aperto. Divisa tra un pittore e un anatomista nella Vienna laccata di nero fin de siècle, Carlotta dal nome wertheriano sarà alla fine eternata da quest’ultimo, immolando il suo corpo alla ricerca della perfetta anatomia estetica. La metafora sessuale è evidente fin dal titolo e le manipolazioni sul corpo della protagonista rappresentano pratiche erotizzate di una vera e propria vivisezione estetizzante quasi stuprante, si pensi alla scena finale della donna nuda e senza vita, impudicamente offerta allo sguardo pietrificante e demiurgico della scienza maschile. Che la scienza abbia da sempre utilizzato il corpo femminile per i suoi esperimenti sul campo, di fatto rimuovendone le specifiche diversità non funzionali alla cultura maschile, è dimostrabile anche guardando i modelli dei gabinetti d’anatomia del periodo, icone cui Carlotta viene di fatto ricondotta: le Veneri scomponibili custodiscono sempre un piccolo feto, come nella lirica di Arrigo, perché la funzione 7
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Sul rapporto tra Scapigliatura e scienza cfr. A. Carli, Anatomie scapigliate. L’estetica della morte tra letteratura, arte e scienza, Novara, Interlinea, 2004. Sullo specifico della novella di Boito cfr. ancora A. Carli, Letteratura, arte e scienze anatomiche. Su Un corpo di Camillo Boito, in: Otto/Novecento, XXIV, 2 (2000), pp. 27–84. Sull’argomento cfr. M. Bucci, Anatomia come arte, Firenze, Il fiorino, 1969; La medicina nell’arte, a cura di J. Rousselot, Milano, Silvana editoriale d’arte, 1970; AA. VV., Rappresentare il corpo. Arte e Anatomia da Leonardo all’Illuminismo, Bologna, Bononia University Press, 2004; Anatome: sezione, scomposizione, raffigurazione del corpo nell’età moderna, a cura di G. Olmi e C. Pancino, Bologna, Bononia University Press, 2012.
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riproduttiva è l’unica specificità loro concessa, il loro reale motivo di esistenza. E che il corpo femminile rappresenti la categoria del perturbante,9 che da lì a poco sarebbe stata teorizzata da Freud in quella stessa Vienna in cui è ambientato il racconto, è la caratteristica che rende questo corpo il perfetto materiale umano per incarnare la finitudine della vanitas. Così La donna trova il suo posto di monstrum tra gli scaffali e le formaline del Dottor Gulz. Alla morte sono destinate quelle donne cadute, quelle guaste, per dirla con le parole di Boito (che fa sue le parole di Dumas ne La moglie di Claudio),10 quelle donne che si sono concesse amanti o hanno avuto relazioni prima del matrimonio: questa morale barbarica perdura fino ai primi del Novecento (anche se il delitto d’onore verrà abolito in Italia solo nel 1981), ma comincia a scricchiolare già in questi anni, sotto le spinte dei movimenti femministi e dell’emancipazione dei costumi; anche la psicoanalisi, nonostante alcuni assunti fortemente maschilisti, concede per la prima volta nella storia europea uno spazio d’esistenza alle parole e alla sessualità delle donne. Perciò non è più possibile ignorare questa diversità, e gli sforzi per rapportare questo continente sconosciuto al binomio razionalismo/irrazionalismo, rappresentano l’ennesimo tentativo di rimozione della differenza di genere da parte di un universo ancora pienamente fallologocentrico. Il fascino esotico del femminile rimane dunque, per autori come Boito, proprio questa sua classificazione nell’irrazionale, la sua epifania come mistero dell’indicibile: che sia venato di religioso misticismo angelicato (Maria di Santuario) o di denigrazione verso la lascivia (Livia di Senso), la sua cifra è segnata. L’aspirazione, per dirla con Rilke, all’esistenza di un’umanità femminile di là da venire, rimane foriera di morte e proprio per questo, esorcizzata.
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Per Freud il perturbante è “qualcosa di familiare che si nasconde in casa”, esso causa gravi turbamenti se disvelato, provoca cioè angoscia di morte: l’angoscia del perturbante è dunque propriamente l’angoscia di morte. Per Freud il perturbante risiede proprio nel continente oscuro della sessualità della donna ed è collegato con l’organo genitale femminile. S. Freud, Il perturbante, (1919), in: Opere 1917–1923, vol. IX, Torino, Bollati Boringhieri, 1977, p. 79. Cfr. C. Boito, L’anima di un artista (Memorie postume di Francesco Mosso, pittore), in: Nuova Antologia, LXXIX, Roma, Direzione della Nuova Antologia, (1885), p. 223; il pezzo è analizzato in C. Cretella, Architetture effimere. Camillo Boito tra arte e letteratura, Camerano, Dakota Press, 2013, p. 142.
FRATELLI D’ITALIA: IL DIALOGO LETTERARIO FRA CAMILLO ED ARRIGO BOITO Ludger Scherer I fratelli Camillo (1836–1914) ed Arrigo (1842–1918) Boito occupano un ruolo decisivo all’interno della Scapigliatura milanese1 e la loro relazione fraterna si può considerare molto stretta. In questa sede ci limiteremo ad analizzare il dialogo letterario, l’intertestualità delle loro opere. Il titolo del contributo, Fratelli d’Italia, che allude evidentemente all’inno di Mameli (1847), rimanda al Risorgimento e alla partecipazione di entrambi alle guerre d’indipendenza, di Camillo all’età di dodici anni alla prima guerra del 1848, di Arrigo alla terza guerra del 1866.2 Al centro della nostra interpretazione – come anche del convegno tenutosi alla Villa Vigoni – sarà Camillo Boito,3 al centro però di una rete intertestuale che mostra l’autore in dialogo con altri scapigliati come il fratello Arrigo, Emilio Praga, Gio1
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Cfr. M. Arcangeli, La Scapigliatura poetica milanese e la poesia italiana fra Otto e Novecento. Capitoli di lingua e di stile, Roma, Aracne, 2003; G. Farinelli, La Scapigliatura. Profilo storico, protagonisti, documenti, Roma, Carocci, 2003; A. Ferrini, Invito a conoscere la Scapigliatura. Milano, Mursia 1988; E. Gara e F. Piazzi, (a cura di), Serata all’osteria della Scapigliatura. Trent’anni di vita artistica milanese attraverso le confessioni e i ricordi dei contemporanei, Milano, Lampi di Stampa, 2004 (1945); E. Gennarini, La Scapigliatura milanese. Con app. di testi commentati, Napoli, Scalabrini, 1961; E. Ghidetti, Tarchetti e la Scapigliatura lombarda, Napoli, Libreria Scientifica Editrice, 1968; E. Gioanola, La Scapigliatura. Testi e commento, Torino, Marietti, 1975; G. Mariani, Storia della Scapigliatura, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1967; J. Moestrup, La Scapigliatura. Un capitolo della storia del Risorgimento, Copenhagen, Munksgaard, 1966; P. Nardi, Scapigliatura. Da Giuseppe Rovani a Carlo Dossi, Milano, Mondadori, 1968 (1924); F. Ogliari e S. Federici, La Milano della Scapigliatura. Letteratura, arte, storia e costume, Pavia, Selecta, 2006; S. Schrader, La Scapigliatura. Schreiben gegen den Kanon. Italiens Weg in die Moderne, Heidelberg, Winter, 2013; C. C. Secchi, La Scapigliatura milanese, Milano, Motta, 1970; R. Tessari (a cura di), La Scapigliatura. Un’avanguardia artistica nella società preindustriale, Torino, Paravia, 1975. Per informazioni biografiche sui fratelli Boito cfr. G. Miano, Boito, Camillo, in: Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 11. Roma, Treccani 1969, sub voce e E. Giachery, Boito, Arrigo, in: Dizionario Biografico degli Italiani. Vol. 11. Roma, Treccani, 1969, sub voce; P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, Verona, Mondadori, 1942; C. Cretella, Vita e opere di Camillo Boito, in C. Boito, Storielle vane, a cura di C. Cretella, Bologna, Pendragon, 2007, pp. 67–73; G. Zucconi e T. Serena (a cura di), Camillo Boito. Un protagonista dell’Ottocento italiano, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2002. Su Camillo Boito cfr. G. Agosti e C. Mangione (a cura di), Camillo Boito e il sistema delle arti. Dallo storicismo ottocentesco al melodramma cinematografico di Luchino Visconti. Atti degli incontri di studio promossi dall’Accademia di Brera, Padova, Il Poligrafo, 2002; C. Cretella, Architetture effimere. Camillo Boito tra arte e letteratura, Camerano, Dakota Press, 2013; A. Grimoldi (a cura di), Omaggio a Camillo Boito, Milano, Angeli, 1991; P. Nardi, Camillo Boito narratore, in: Lettere Italiane 11 (1959), pp. 217–223.
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vanni Camerana e Bernardino Zendrini. Dalle numerose opere narrative di Camillo Boito verrà esaminato in fattispecie la ‘storiella vana’ Un corpo (1870), concentrandosi sulla relazione fra anatomia e poesia nel contesto della Scapigliatura.4 Evidentemente, il tema centrale del racconto Un corpo è il confronto fra arte e scienza all’occasione di una lezione di anatomia sul cadavere di una bella donna giovane. In modo congruente con la ‘multimedialità’ degli scapigliati che deliberatamente si estendeva a varie arti, il tema anatomico evoca relazioni intermediali con più di un’opera d’arte. Prima di tutto il celebre dipinto di Rembrandt van Rijn (1606–1669) La lezione di Anatomia del Dottor Tulp (1632), commissionato al pittore dalla corporazione dei Medici di Amsterdam.5 Nel chiaroscuro del teatro anatomico viene illustrata la dimostrazione del funzionamento dei tendini del braccio sinistro di un cadavere. La pittura funge da valorizzazione dell’arte anatomico-chirurgica dei medici dell’epoca e gioca sulle similitudini fra medicina e pittura. Se questo parallelismo potrebbe da una parte rimandare alla omologa discussione ottocentesca, la sua ambientazione è però del tutto seicentesca e ogni conflitto fra arte e scienza, fra romanticismo e positivismo, nonché ogni erotismo ne è completamente assente. Il quadro Lezione di anatomia (1873) di Giacomo Favretto (1849–1887) viene messo esplicitamente in relazione con il racconto di Camillo Boito e con la poesia Lezione d’anatomia del fratello Arrigo.6 Evidentemente, le opere del pittore veneziano erano piaciute all’autore di Un corpo, soprattutto il realismo del quadro ‘anatomico’ esposto all’Accademia di Brera nel 1873. L’insolita rappresentazione verticale (che non si trova in Boito) di un cadavere circondato da studenti faceva riferimento alle discussioni contemporanee all’interno dell’Accademia di Belle Arti di Milano sullo studio dal vero del cadavere, studio sospeso provvisoriamente proprio in quegli anni. Come si vede nel quadro e nel dibattito collegato, la relazione fra arte e medicina, fra lo studio di pittura e la formazione dei medici, subisce una crisi nella seconda metà dell’Ottocento.7 A questo conflitto fra poesia e scienza si dedicano appunto i fratelli Boito nei due testi analizzati in questa sede.
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Altri aspetti interessanti si debbono tralasciare in questa sede, cfr. le letture di D. La Penna, Aesthetic Discourse and the Paradox of Representation in Camillo Boito’s Un Corpo, in: Forum For Modern Language Studies 44,4 (2008), pp. 460–479; C. Mazzoni, Is Beauty only Skin Deep? Constructing the Female Corpse in Scapigliatura, in: Italian Culture 12 (1994), pp. 175–187 e Gazing at the Veil, Unveiling the Fetish: The Case of Camillo Boito’s Short Stories, in: Italian Quarterly 33,129–130 (1996), pp. 29–43; E. Scarano, L’anatomia del corpo in una storiella vana di Camillo Boito, in: Linguistica e letteratura 6,1 (1981), pp. 37–85. Cfr. A. Carli, Anatomie scapigliati. L’estetica delle morte tra letteratura, arte e scienza, Novara, Interlinea, 2004, p. 69; A. Gipper, Una scienza ai tremendi diritti: Il corpo femminile e l’esautorazione dell’arte nel racconto Un corpo di Camillo Boito, in: P. Ihring e F. Wolfzettel (a cura di), La tentazione del fantastico. Narrativa italiana fra 1860 e 1920, Perugia, Guerra, 2003, pp. 50–52. Cfr. A. Carli, Anatomie, cit., p. 68–69 e Id., Letteratura, arte e scienze anatomiche: Su Un Corpo di Camillo Boito, in: Otto/Novecento 24,2 (2000), p. 43. Cfr. anche F. Wolfzettel, Il medico scientista di fronte al fantastico, in: La tentazione del fantastico, cit., pp. 27–41.
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Per finire il brevissimo percorso figurativo si accenna ad altri due quadri in relazione con il tema della bellezza morta, oppure in questo primo caso anestetizzata: Le Docteur Péan enseignant à l’Hôpital Saint-Louis sa découverte du pincement des vaisseaux ou Avant l’opération (1887) del pittore Henri Gervex (1852–1929). In dialogo con la pittura di Rembrandt l’artista francese mostra l’interesse degli scienziati per l’anatomia femminile durante un’operazione chirurgica, un soggetto che rimanda evidentemente anche all’interesse degli uomini per il bel corpo della donna morta, analizzato già tempo fa da Elisabeth Bronfen.8 Il pittore tedesco Gabriel von Max in fine, nel quadro Der Anatom (1869)9 coglie il momento malinconico prima della dissezione anatomica, il momento dell’esitare, del fremito dello scienziato davanti alla bellezza femminile morta in un contesto di vanitas barocca. Se questi elementi di sottofondo, come il teschio, potrebbero rimandare all’epoca di Rembrandt, l’atmosfera dipinta da von Max è ben diversa. Nel centro del quadro figurano lo scienziato e la donna morta in una composizione intima, lui è seduto nel suo studio pieno di libri e manoscritti che conferiscono a questo luogo scuro, ma non lugubre, un aspetto caldo, molto diverso dalla solita sala anatomica fredda. Lo sguardo tenero dell’anatomista riposa sulla ragazza avvolta in un velo bianco e sdraiata su una tavola di legno. Nell’intimità di questo studio tranquillo lo scienziato sembra fermarsi un attimo per meditare su domande estetiche ed etiche prima di svelare del tutto il corpo della bella morta e di studiarlo. L’erotismo appena velato di questa scena manifesta, seppure in modo subdolo, il tema del conflitto fra osservazione e dissezione, fra arte e scienza. I due temi presenti in questi quattro quadri della vasta tradizione della pittura ‘anatomica’ e presentati qui solo brevemente, cioè la relazione (possibilmente conflittuale) fra arte e scienza anatomica e il fascino della bellezza morta, erano molto di moda all’epoca e si combinano in modo emblematico nella ‘storiella vana’ di Camillo Boito. Nel racconto Un corpo, ambientato nella pittoresca Vienna ottocentesca del Prater e del Danubio, la relazione fatale fra il pittore ambizioso, che funge da io narrante, e la sua bellissima modella Carlotta raggiunge il suo punto culminante nella scena finale nel laboratorio anatomico del lugubre dottor Gulz. La morte di Carlotta viene prefigurata però già nella sua paura folle della morte, del corpo morto per essere precisi,10 inoltre la fine tragica della ragazza, annegata nel Danubio, è preannunciata già dal suo nome d’arte Aretusa.11 La bella ninfa della mitologia antica che viene trasformata in un ruscello dà anche il titolo al quadro che il pittore boitiano esegue con l’aiuto di Carlotta, usandola come modella: “L’Aretusa del mio
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Cfr. E. Bronfen, Over her dead body. Death, femininity and the aesthetic, Manchester, Manchester University Press, 1992; il quadro figura per esempio sulla copertina dell’edizione Camillo Boito, Storielle vane, a cura di C. Cretella, Bologna, Pendragon, 2007. Si rimanda anche al contributo, contenuto in questo volume, di M. Biasiolo, ‘Scolpire la carta come il marmo per formare un corpo’: scienza, arti visive e letteratura in dialogo in Camillo Boito. Cfr. A. Gipper, cit., p. 52, 54. Cfr. Un corpo, in: Storielle vane, a cura di C. Cretella, cit., pp. 88–89. Cfr. Ivi, p. 99, 100, 106, 119.
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dipinto rappresentava tale e quale Carlotta”.12 Durante il lavoro pittorico, racconta il protagonista, il tema originalmente triangolare del mito si era concentrato sul personaggio della ninfa, tralasciando la dea Diana e l’amante insistente Alfeo, “e a un po’ per volta la favola si ridusse a un nome. Intorno a quel nome io posi per altro tutto il mio affetto e tutto quanto il mio ingegno. Invocavo Aretusa come Faust aveva invocato Elena.”13 Con l’accenno al mito di Faust, nominato già prima citando il dramma di Goethe durante la conversazione col dottor Gulz,14 il pittore evoca la sua ricerca della bellezza femminile, della quale la mitica Elena di Troia era l’emblema classico. Nello stesso tempo però conferisce a questa ricerca ambiziosa un carattere ‘satanico’, visto che lo studioso rinascimentale invocava prima di tutto il diavolo. Inoltre, gli incontri di Faust con le figure femminili finivano sempre male: nel terzo atto della seconda parte della tragedia il connubio ‘fantastico’ con Helena non durò oltre la morte del figlio comune Euphorion; nella prima parte del dramma Faust non riuscì a salvare Gretchen, la giovane ragazza ch’egli aveva sedotta e poi lasciata, dalla pena della morte.15 Queste relazioni intertestuali accennate conferiscono alla storia di Carlotta, segnata fin dall’inizio dalla morte, un ulteriore elemento funesto che preannuncia l’abuso della ragazza da parte del narratore. In questa sede ci concentreremo poi su due aspetti centrali del racconto: la caratterizzazione del pittore, protagonista e io narrante del racconto, e il conflitto fra arte e scienza. In quanto pittore e vittima di un destino tragico, cioè la perdita della sua modella e amante, il protagonista sembra attirare le simpatie del lettore: la sua arte pregiata e la sua disperazione davanti al corpo morto dell’amante vengono contrastate però dal suo egoismo, dalla sua ambizione e dal suo amor proprio, come si vede fin dall’inizio. La prima frase del racconto, “La mia compagna non so se fosse ninfa o folletto”,16 dimostra già l’indecisione dell’artista nei confronti della bella ragazza infantile e divina allo stesso tempo.17 La bellezza inafferrabile di Carlotta ispira il pittore ad avvalersene come modella per creare i suoi quadri e lavorare alla propria fama artistica. Oltre alla sua funzione di musa, però, non va l’interesse dell’artista per Carlotta. Anzi, una relazione umana personale gli sembra meno attraente rispetto al suo amore per l’arte, per la sua arte e la sua carriera artistica precisamente. “Carlotta m’innamorava anche più nel mio quadro che in sé stessa”,18 ammette appunto l’io narrante. Il dipinto di Carlotta nella veste di Aretusa 12 13 14 15
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Ivi, p. 99. Ivi, p. 100. Cfr. “– Già, la madre che piange sul figliuolo malato, la donna che abbraccia l’amante, Goethe che scrive il Faust, l’Alighieri che detta la Divina Commedia…” (Un corpo, cit., p. 95). Cfr. le ultime parole di Helena nel terzo atto della seconda parte: “Ein altes Wort bewährt sich leider auch an mir: / Daß Glück und Schönheit dauerhaft sich nicht vereint” (Goethe, Faust. Der Tragödie erster und zweiter Teil. Urfaust, a cura di E. Trunz, München, Beck, 1989, p. 300). Un corpo, cit., p. 87. Cfr. anche: “L’anima era da fanciulla, ma il corpo era da Dea” (Un corpo, cit., p. 89). Un corpo, cit., p. 98. La citazione continua con un accenno di un’autoanalisi critica dalla parte del pittore: “la mia vanità m’aveva tanto ubbriacato [sic] che in qualche istante quella donna mi sembrava la copia viva dell’opera delle mie mani” (pp. 98–99). Sul mito di Pigmalione cfr. il
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viene descritto, in conseguenza, come “la prima pietra dell’edificio della mia gloria”.19 Meditando sull’arte il protagonista penserà più tardi: “Il dolore fa il poeta, ma la gioia fa il pittore”,20 frase rappresentativa di una visione edonistica e abbastanza superficiale della vita d’artista. Nel corso della storia, l’artista viene dipinto dall’autore implicito in modo sempre più passivo e negativo. L’idiosincrasia artistica del protagonista trova il suo punto culminante nella facilità con la quale il pittore perde ogni interesse per il corpo di Carlotta, una volta che la ragazza è morta. “Niente! Più niente!”,21 mormora poco dopo averla scoperta sulla tavola di marmo del laboratorio. “Quel corpo non mi diceva più nulla”,22 riprende più tardi, confermando con queste parole il giudizio del medico Gulz sul carattere caduco dei sentimenti.23 Significativo in questo contesto anche il finale della storia: Nel passare sul ponte del Danubio trassi dal portafogli quel fiore di gelsomino, che avevo, il giorno prima, spiccato dalla pergola nella villetta di Teufelsmühle, e, fermandomi al parapetto, lo lasciai cadere. Dopo un istante, il punto bianco era scomparso nel fosco verde dell’acqua.24
Con l’atto di lasciar cadere il fiore, simbolo dell’amante, nel fiume sparisce anche l’interesse del pittore per la ragazza, giacché gli rimane l’immagine artistica e artificiale nel suo quadro che aveva riacquistato dall’anatomista.25 Il punto importante di questo simbolo dell’eternità dell’arte rispetto alla caducità della vita umana è appunto l’uso che fa l’arte della vita per rendere le proprie opere eterne, un uso idiosincratico che sfrutta la vita e gli esseri umani in mera funzione della propria carriera artistica. L’interpretazione negativa dell’artista sentimentale ‘romantico’ che si rivela invece una personalità debole, un unreliable narrator e un parassita egocentrico che usa la bellezza femminile solo per estrarne opere d’arte senza curarsi troppo della persona umana,26 rimanda al secondo aspetto della nostra analisi, alla relazione fra arte e scienza. Al di là del solito antagonismo fra l’arte romantica e idealista da una parte e la scienza positivista, fredda e lugubre dall’altra parte, si vede in Un corpo la loro profonda similitudine nel modo di guardare gli esseri umani. Il dottor Gulz afferma lo scopo estetico della sua ricerca scientifica: “ricerco la bellezza del corpo
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commento della curatrice a p. 123; cfr. anche La Penna, cit., pp. 469–475; P. Pellini, Camillo Boito, Luigi Capuana e il tema fantastico del quadro animato, in: Problemi: Periodico Quadrimestrale di Cultura 112 (1998), pp. 236–260. Un corpo, cit., p. 100. Ivi, p. 102. Ivi, p. 117. Ivi, p. 119. Cfr. ivi, pp. 94–95. Ivi, p. 120. Cfr. “– Vorrei ricomprare questo dipinto, dottore – mormorai, cavando dalla tasca il danaro, che l’Herzfeld mi aveva consegnato la mattina e ch’io non avevo toccato. – Bene; mi basterà oramai la memoria – rispose il Gulz con un sospiro, e mi stese la mano”. (Ivi, pp. 119–120.) Il vampirismo dell’artista rimanda in una inversione insolita al romanzo Fosca (1869) di Iginio Ugo Tarchetti (1839–1869) nel quale è invece la protagonista femminile ad attaccarsi al militare Giorgio succhiandogli l’energia vitale.
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umano”,27 e ugualmente l’idea dell’arte del pittore boitiano consiste nel “desiderio della bellezza”.28 Ma mentre il medico giura di rilevare “il segreto della sua bellezza”,29 parlando di Carlotta, e ribadisce che “la morte è la vita”,30 il pittore rimane inorridito davanti al cadavere. Lo scienziato ama anche il corpo morto e ricerca, in modo positivista, “le ragioni nella sostanza”,31 là dove il pittore non vede e non sente “più niente”.32 Alla fine della storia si rivela, malgrado l’arroganza dell’anatomista sicuro di sé e del suo metodo scientifico, un certo umanesimo delle scienze, un interesse sincero – pure materialistico – del medico per il corpo bello al di là della morte in opposizione all’idiosincrasia dell’arte. Il loro scopo comune, la ricerca della bellezza femminile, si esprime in due approcci diversi, materialista ma profondo e perdurante quello dello scienziato, idealista ma superficiale e egoista quello dell’artista. La presunta simpatia del lettore per il punto di vista ‘romantico’ del pittore viene decostruita nel corso del racconto dall’autore implicito che smaschera abilmente l’egoismo dell’artista. Il racconto Un corpo presenta dunque la relazione fra arte e scienza in un modo molto più complesso di quanto poteva sembrare all’inizio. Questa complessità intricata e inaspettata si trova anche nella poesia famosa Lezione d’anatomia (1865/1874/1877) del fratello Arrigo Boito.33 Similmente il confronto fra arte e scienza vi viene messo in discussione in modo inconsueto. Le 14 strofe da sei quinari rispecchiano già nel metro, con l’uso frequente di versi sdruccioli senza rima, le tensioni antitetiche della poesia. La metrica appare inquieta pur essendo regolare, una combinazione tipicamente scapigliata di elementi trasgressivi e convenzionali che si riflette anche sul contenuto della poesia. Nel chiaroscuro della sala “lugubre”34 si sviluppa il contrasto fondamentale fra idealismo romantico e materialismo positivista che forma la struttura della poesia. A guidare e influenzare lo sguardo del lettore si impone un io lirico che si stilizza da poeta romantico. Il cadavere della solita bella ragazza, in questo caso “un’etica”,35 morta cioè di tubercolosi, ‘malattia romantica’ per eccellenza, viene descritto dal poeta scandalizzato nella situazione profanante della dissezione anatomica. La descrizione fisica si serve però di immagini tradizionali della bellezza femminile: Ed era giovane! Ed era bionda! Ed era bella!36
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Un corpo, cit., p. 93. Ivi, p. 101. Ivi, p. 105. Ivi, p. 117. Ivi, p. 118. Ivi, p. 117. Cfr. A. Boito, Lezione d’anatomia, in: C. Mariotti (a cura di), Il libro dei versi, Modena, Mucchi, 2008, pp. 101–105. Ivi, v. 1, p. 101. Ivi, v. 7, p. 101. Ivi, vv. 22–24, p. 102.
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Nonostante ciò la bella morta diventa l’oggetto di una idealizzazione poetica con elementi religiosi. A questa “vergine”37 vengono conferiti gli elementi consueti della caratterizzazione della madre di Dio, il poeta attribuisce alla fanciulla le stesse qualità di “pia, / dolce, purissima”38 che compaiono nell’Ave Maria. Il climax blasfemo culmina nell’apoteosi della ragazza anonima come metafora della “poësia”.39 Il linguaggio patetico del poeta romantico contrasta con il brutale realismo linguistico del medico positivista che distrugge urlando e senza riguardi sentimentali il corpo della morta e le taglia il cuore. L’anatomia viene dipinta in modo completamente negativa, la scienza serve solo a profanare il corpo umano con il suo materialismo senza nemmeno trarne conoscenze utili: Con quel cadavere (Steril connubio! Sapienza insana!) Tu accresci il numero Di qualche dubio, Sciënza umana!40
Conseguentemente l’io lirico condanna le scienze positiviste, chiamate ‘umane’ solo con ironia amara, in modo enfatico: “Sciënza, vattene”.41 Eppure le strategie retoriche servono solo a costruire un’immagine illusoria della bellezza verginale, cioè della poesia romantica, giacché lo scienziato alla fine “scopre un feto / Di trenta giorni”42 nel cadavere. Sorprende soprattutto questa svolta finale che distrugge volutamente l’illusione romantica che l’io lirico ha costruito nel corso della poesia. Il feto che il medico antipatico svela nel cadavere della bella ragazza morta dimostra il carattere completamente illusorio dell’apoteosi della bellezza defunta: non musa vergine e simbolo della poesia ma ragazza incinta morta di tisi. La distruzione dell’ideale poetico riguarda però soprattutto gli stereotipi collegati convenzionalmente con la poesia cosiddetta romantica di sottofondo cristiano. Dissacrando un idealismo stereotipato dell’arte borghese, la poesia scapigliata non nega né l’esistenza della bellezza né la possibilità di rappresentarla nell’arte. Inoltre la svolta finale non toglie neanche vigore all’atteggiamento critico nei confronti del riduzionismo materialista della scienza positivista. Come si è visto, il testo boitiano è caratterizzato fin dall’inizio da tensioni intrinseche di tipo metrico, ideologico e tematico, tensioni che lo trasformano in un gioco ironico con le aspettative del lettore. In questo senso Lezione d’anatomia rappresenta un testo scapigliato esemplare.43 La poetica dualistica della Scapigliatura non è da confondersi, come si è visto, con un sentimentalismo anti-scientifico tardo-romantico. 37 38 39 40 41 42 43
Ivi, v. 49, p. 103. Ivi, vv. 75–76, p. 104. Ivi, v. 78, p. 105. Ivi, vv. 25–30, p. 102. Ivi, v. 67, p. 104. Ivi, vv. 83–84, p. 105. Cfr. la poesia notoria Dualismo (1863) di Arrigo Boito, in: R. Carnero (a cura di), La poesia scapigliata, Milano, BUR, 2007, pp. 179–184.
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Neanche gli scapigliati intendevano superare il romanticismo con un realismo crudo e macabro. Erano invece al corrente dei progressi scientifici del positivismo e esponevano questo dualismo dell’arte fra tradizione e innovazione, fra idealismo e realismo in quanto qualità intrinseca e imprescindibile dell’arte stessa. Nel caso della Lezione d’anatomia di Arrigo Boito il dualismo scapigliato viene presentato come una coincidentia oppositorum che procura una nuova dimensione alla poesia.44 I testi dei fratelli Boito di solito si mettono a confronto con altre poesie scapigliate contemporanee che, ad analizzarle da vicino però, presentano caratteristiche ben diverse. La poesia A un feto di Emilio Praga (1839–1875), stampata nella sua raccolta Penombre (1864),45 tratta, anche essa, di reperti anatomici, ma questa volta dentro un museo delle scienze. L’io lirico vi scopre “un bel dì di luglio”46 fra i cadaveri imbalsamati “una cosa orribile”,47 cioè “di un uomo il feto”,48 portando così la riflessione sulla precarietà della vita umana. Contemplando le curiosità anatomiche esposte nel museo il poeta mette a confronto la bellezza della natura con il destino mortale degli esseri umani. “Iddio”,49 il creatore del mondo, viene confrontato con l’imperfezione della sua creazione. Il tema della poesia di Praga è appunto la teodicea, la giustificazione di Dio rispetto all’esistenza del male nel mondo. E l’espressione chiave del “dubbio”50 che rimanda al “dubio” nella poesia di Arrigo Boito,51 in Praga si riferisce a Dio, non alla scienza. Si trova, certo, una critica esplicita alla medicina, personificata dal personaggio di “Ippocrate”,52 che si limita a studiare i cadaveri e a catalogare i mali umani invece di curarli.53 L’io lirico rinuncia però alla disperazione e alla blasfemia (“gli anatèmi frenatemi / del cuore e del cervello”)54 e decide di cambiare prospettiva: “l’orribile mio canto / posso mutare ancor…”.55 Dopo la ripetizione della quarta strofa con la sua atmosfera estiva, che questa volta però non funge da amaro contrappunto ironico agli orrori del museo, l’ultima strofa sembra indicare, pure in modo macabro, con i citati “spirti color di rosa, / ali spiegate al vol!”56 l’esistenza dell’anima che è in grado di superare la 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53
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Cfr. L. Scherer, Vivisektion der Romantik: Arrigo Boitos Lezione d’anatomia, in: Italienisch. Zeitschrift für italienische Sprache und Literatur, 69 (2013), pp. 93–100. Cfr. E. Praga, A un feto, in: La poesia scapigliata cit., p. 120–129; messo in relazione con la poesia boitiana per esempio da Carli, Letteratura, arte e scienze anatomiche, cit., p. 27. E. Praga, A un feto, cit., v. 17, p. 121. Ivi, v. 13, p. 121. Ivi, v. 14, p. 121. Ivi, v. 48, p. 123. Ivi, v. 59, p. 123. A. Boito, Lezione d’anatomia, cit., v. 29, p. 102. E. Praga, A un feto, cit., v. 105, p. 126. Cfr. le due strofe rispettive: “E chiederem l’Ippocrate / che insanguinò le mani, / palpando nelle viscere / i patimenti umani; / e ascolterem vocaboli / di desinenza achea, / e la superna Idea / al fango aggiogherem. // Saprai che, da quest’orride / burle della natura, / tutto un sistema eressero, / tutta una legge oscura; / che multiformi eserciti / di mostri in lunghe serie / espongono miserie / al prossimo che vien”. (Ivi, vv. 105–120, p. 126.) Ivi, vv. 155–156, p. 128. Ivi, vv. 159–160, p. 129. Ivi, vv. 175–176, p. 129.
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miseria del mondo.57 La fine positiva della poesia esprime la speranza umana e accenna ad un vita eterna possibile nel potenziale dell’arte poetica – pure dentro un museo degli orrori. Il ‘sogno fantastico’ di Giovanni Camerana (1845–1905) nella sua poesia Io sognai. Fu il mio sogno fantastico (1865)58 tratta il tema del bel cadavere femminile in combinazione con la precarietà della poesia. La bella ragazza morta, descritta con parole auliche che ricordano i parnassiens francesi, viene identificata esplicitamente con la poesia: “La mia Musa, oh segreti d’Iddio! / era quella defunta”.59 Il “garzon genuflesso”60 che piange “accanto alla povera esamine”61 è il poeta stesso: “quel gemito / ahi sventura! era il gemito mio”.62 La musa morta e il suo poeta piangente rimandano solo in senso vago al pericolo positivista, giacché nell’atmosfera fantastica tardo-romantica da “tramonto”63 della poesia non si trova l’ambientazione ‘anatomica’ boitiana, nessun medico materialista minaccia di profanare il bel cadavere e di disturbare l’intimità erotica nella tomba. La morte della poesia nel sogno di Camerana rimanda al cambiamento della sua funzione nel mondo moderno e la disperazione del poeta – non più poeta, come annunciava già il motto del testo tratto da Musset64 – accenna, malgrado le differenze, allo stesso concetto scapigliato del dualismo poetico. Infine, la poesia Una lezione di anatomia di Bernardino Zendrini (1839–1879), apparsa nella raccolta Prime poesie (1871),65 nonostante il titolo quasi omonimo e le similitudini metriche del quinario si può leggere piuttosto come un rifacimento in chiave tardo-romantica della poesia Lezione d’anatomia di Arrigo Boito. Al “professore”66 di medicina anatomizzando il cuore di “una povera / ricamatrice”67 l’io lirico contrappone i sentimenti collocati tradizionalmente nel cuore: “l’odio”,68 “l’amore”,69 “gioie e tristezze”,70 “delicatezze”,71 “illusïoni”,72 “passioni”73 e 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73
Cfr. il contesto della strofa: “Come una freccia argentea, / dalla mesta vetrina, / la man sottile e candida / dell’etica bambina / parea segnar nell’aria / qualche invisibil cosa: / spirti color di rosa, / ali spiegate al vol!” (Ivi, vv. 169–176, p. 129). Cfr. G. Camerana, Io sognai. Fu il mio sogno fantastico, in: R. Carnero (a cura di), La poesia scapigliata, cit., pp. 397–399. Ivi, vv. 22–23, p. 399. Ivi, v. 20, p. 399. Ivi, v. 19, p. 399. Ivi, vv. 23–24, p. 399. Ivi, v. 2, p. 398. Cfr. “Hélas! vous n’êtes plus poète. A. de Musset” (G. Camerana, cit., p. 397). Cfr. B. Zendrini, Una lezione di anatomia, in: La poesia scapigliata, cit., p. 294–298; messo in relazione con la poesia boitiana per esempio da Carli in Letteratura, arte e scienze anatomiche, cit., pp. 77–78. B. Zendrini, cit., v. 2, p. 294. Ivi, vv. 85–86, p. 297. Ivi, v. 63, p. 296. Ivi, v. 64, p. 296. Ivi, v. 66, p. 296. Ivi, v. 68, p. 296. Ivi, v. 70, p. 296. Ivi, v. 72, p. 296.
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“cari affanni”.74 A confrontare il materialismo scientifico dell’anatomista si trova un poeta “meditabondo”75 ed idealista che si limita però a ripetere in ritornello: A professore, ella è in errore: codesto muscolo no, non è il cuore.76
La dissezione del solito cadavere di una bella ragazza, in questo caso “morta, dicono, / di crepacuore”,77 rischia di sconvolgere l’immagine idealizzante che il poeta conserva del cuore: “Lungi da un alito / di cataletto, / che mi falsifica / il cuore in petto”78 sfugge il teatro anatomico per riguadagnare l’aria profumata dai fiori primaverili.79 Questi stereotipi senza ironia e senza doppio senso scapigliato rappresentano una semplificazione parecchio banalizzante della problematica trattata invece in modo complesso da Arrigo e Camillo Boito. In conclusione si può dire che nel dialogo letterario fra i fratelli Boito il confronto complesso e conflittuale fra arte e scienza viene elaborato in modo molto più differenziato rispetto ad altri testi contemporanei della Scapigliatura. Il racconto Un corpo di Camillo e la poesia Lezione d’anatomia di Arrigo rappresentano in modo esemplare il dialogo intenso fra le arti all’epoca. In quel secondo Ottocento segnato, appunto, da svariate crisi nell’ambito della politica, delle scienze e della cultura che si rispecchiavano nella poetica scapigliata contemporanea. Lontano da fungere solamente da fenomeno transitorio, gli artisti di questa prima avanguardia italiana80 producevano opere rappresentative che meritano tutt’oggi l’interesse approfondito degli studiosi. I due testi boitiani analizzati in questa sede sono testimonianze del dualismo intrinseco dell’arte, ‘opere aperte’ che pongono abilmente e in forma poetica domande estetiche ed etiche esistenziali, invitando in questo modo i lettori alla riflessione e alla discussione.
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Ivi, v. 74, p. 296. Ivi, v. 10, p. 294. Ivi, vv. 16–20, 37–40, 57–60, 77–80, 97–100, 116–120, pp. 295–298. Ivi, vv. 91–92, p. 297. Ivi, vv. 105–108, p. 297. Cfr. “di fuor m’ammiccano / le prime viole”, “un fior d’aprile” (Ivi, vv. 103–104, 116, p. 297, 298). Cfr. anche S. Schrader, L’Umorismo è la letteratura dello scetticismo (Dossi) – Humor, Parodie und Absurdes in der Literatur der Scapigliatura, in: L. Scherer e R. Lohse (a cura di), Avantgarde und Komik, Amsterdam-New York, Rodopi, 2004, pp. 37–54.
FRA SOPRANNATURALE, PSICOLOGICO E GROTTESCO: IL DEMONIO MUTO Tematiche e influsso della novellistica scapigliata nella scrittura di Camillo Boito Corinna Scalet Camillo Boito è uno scrittore difficilmente inquadrabile in categorie che risultano essere riduttive, se non errate, dato l’eclettismo e la modernità della sua figura. Bistrattato dalla critica primonovecentesca, fu liquidato in maniera sommaria dal Russo che sottolineò solamente la “consanguineità artistica col fratello Arrigo”.1 Dal Croce e dal Pancrazi rivalutato solo in minima parte,2 la sua figura di scrittore viene riscoperta finalmente negli anni del secondo dopoguerra grazie a Giorgio Bassani, che, nella sua prefazione a Il maestro di setticlavio, lo esalta come uno dei migliori scrittori dell’Ottocento italiano.3 La poca fortuna critica che ha accompagnato per lungo tempo la carriera letteraria di Camillo rende ancora oggi problematica una sua sistemazione precisa nel panorama letterario italiano di fine Ottocento, poiché, se da un lato non è possibile sostenere la tesi del Russo, che tende a sminuire la grandezza del Boito scrittore, dall’altro lato non si può supporre una sua totale estraneità al contesto letterario e sociale in cui visse. Se lo scrittore infatti, borghese di nascita ma soprattutto di indole, rifiutò la vita da bohémien e ‘maledetta’ degli scapigliati milanesi seguendo, al contrario, un percorso accademico e lavorativo lineare, nella sua narrativa si riscontra un influsso notevole del movimento milanese. Deve essere quindi scartata l’idea di una sistematica adesione alla Scapigliatura lombarda, di cui Boito mai diventerà membro e che conoscerà solo attraverso la mediazione del fratello Arrigo o grazie alla comune frequentazione del salotto di Clara Maffei.4 D’altro canto, l’architetto-scrittore sembra aver interiorizzato la lezione scapigliata, sebbene non in modo pedissequo ma personale ed in questo senso può essere importante un confronto tra il corpus di novelle boitiane e la letteratura del gruppo milanese. Ad un’analisi più profonda ed alla luce della sua eterogenea maniera di narrare, Camillo Boito risulta essere infatti “l’unico scrittore ottocentesco capace di offrire della società e dei problemi di allora quel ritratto che gli scapi1 2 3 4
L. Russo, I narratori, Roma, Fondazione Leonardo, 1923, p. 43. Si vedano: B. Croce, Aggiunte alla “Letteratura della Nuova Italia”, in: La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da B. Croce, vol. 35, (1937); P. Pancrazi (a cura di), Racconti e novelle dell’Ottocento, Firenze, Sansoni, 1954. Cfr. G. Bassani, Introduzione a C. Boito, Il maestro di setticlavio, Roma, Colombo editore, 1945. Per un quadro esaustivo sulla situazione della Milano dell’epoca e sul famoso salotto della contessa Clara Maffei si rimanda a: R. Barbiera, Il salotto della contessa Maffei e la società milanese (1834–1886), Milano, Treves, 1895; C. Cretella, Architetture effimere: Camillo Boito tra arte e letteratura, Camerano, Dakota Press, 2013.
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gliati avrebbero voluto tracciare”.5 Impadronitosi delle tematiche, delle figure e delle forme del narrare scapigliato, Boito ha il merito di aver portato questa letteratura ai massimi livelli, riuscendo spesso ad eliminare la patina provinciale che la opprimeva, dando profondità psicologica ai personaggi, descrivendo luoghi ed emozioni con un linguaggio semplice ma d’effetto. Se è vero che le Storielle vane sono tasselli di un corpus variato e non uniforme e che, in questa varietà, la tipologia di “novella scapigliata” gioca un ruolo fondamentale, è tanto più vero, come si vedrà in seguito, che in Boito si riscontra “il dono d’una intelligenza lucida e precisa”6 che lo rende immune dagli errori in cui spesso caddero i narratori scapigliati. Un primo indizio di ciò che si sta dicendo lo danno le novelle boitiane in cui la musica e le arti visive giocano un ruolo non secondario: se lo stesso scrittore incarna pienamente la figura dell’artista poliedrico e versatile, realizzando in prima persona quella fusione delle arti che, teorizzata dal Rovani, è alla base della poetica scapigliata,7 anche nelle Storielle si ritrova spesso una sorta di ‘sinestesia letteraria’. Stimolando la vista e l’udito del lettore Camillo riesce a rendere il turbinio di sensazioni dei personaggi che popolano i suoi racconti, poiché, come ha giustamente sottolineato il Mariani, egli “piega […] musica, evidenza plastica, colore al servizio del suo realismo sempre sfumato in un segreto disegno e recupera il personaggio proprio sulla strada del rapporto tra le sensazioni lungo la quale esso aveva trovato, nella pagina di Tarchetti, la sua estrema dissoluzione”.8 Non è un uso della sinestesia fine a se stesso, non si tratta di un semplice espediente narrativo, bensì di un modo ulteriore per descrivere la realtà complessa che circonda i protagonisti delle sue novelle. La musica che risuona ne Il maestro di setticlavio è un mezzo per rappresentare “la voce dei sentimenti”9 dei personaggi, così come le luci rossastre di una Venezia miserabile rendono la lussuria e l’inganno che spingono Mirate a conquistare il cuore della povera Nene. Paesaggi contrapposti e differenziati, poiché nelle Storielle nulla appare ripetitivo e scontato, ma tutti asserviti ad uno scopo comune, quello cioè di descrivere i sentimenti provati dai personaggi, i loro differenti caratteri. Si va così dalle viuzze desolate di verghiana memoria,10 in cui si svolge il dramma della solitudine di Giorgio, il protagonista di Notte di Natale, all’ambientazione lugubre e barocca di Santuario, novella della follia e della perdizione, passando per il verde turchino dell’acqua del lido, in cui l’anonimo protagonista del racconto Quattr’ore al lido si immerge beatamente, in una sorta di comunione con la natura e con Dio. Non è, tuttavia, questo l’unico punto di contatto tra Camillo e il movimento milanese, dal momento che tematiche scapigliate quali quelle della morte e della follia, il gusto dell’orrido, l’interesse per il soprannaturale, la bellezza come elemento ‘demoniaco’ e, non ultima, l’analisi introspettiva dei personaggi, sono fre5 6 7 8 9 10
R. Tessari (a cura di), La Scapigliatura: un’avanguardia artistica nella società preindustriale, Torino, Paravia, 1976, p. 51. G. Bassani, cit., p. 10. Cfr. P. Nardi, Scapigliatura: da Giuseppe Rovani a Carlo Dossi, Milano, Mondadori, 1968. G. Mariani, Storia della Scapigliatura, Roma, Salvatore Sciascia editore, 1967, p. 580. Ivi, p. 581. Cfr. ivi, p. 577.
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quenti anche nell’opera letteraria boitiana. Del resto, che Boito cercasse un posto nell’alveo degli scrittori di quel periodo è confermato anche dallo stesso uso della novella che proprio nell’Ottocento sembra subire una sorta di vera e propria rinascita.11 Lo scrittore si incanala quindi, con le sue Storielle, in un percorso già solcato da molti, ma lo fa rielaborando il materiale che ha a disposizione, filtrando gli influssi derivanti dall’esterno e sottomettendo il tutto ad una scrittura chiara e lineare: in questo modo egli riesce a portare la ‘novella scapigliata’ ai massimi livelli di perfezione formale e contenutistica, come si vedrà più in dettaglio dall’analisi delle sue novelle (in particolare del penultimo racconto contenuto in Senso. Nuove storielle vane, Il demonio muto). Il demonio muto è una novella esemplare, quasi un manifesto dell’influsso della novellistica scapigliata sull’opera letteraria del maggiore dei fratelli Boito. Il racconto viene compreso nella seconda ed ultima raccolta di novelle, Senso. Nuove storielle vane, pubblicata nel 1883, sebbene fosse già apparso nel 1877 sulle pagine della rivista letteraria Nuova Antologia.12 Siamo nelle fasi finali della Scapigliatura che, almeno a Milano, può dirsi conclusa da qualche anno, ma gli echi del movimento sembrano farsi ancora sentire. La novella, che insieme a Vade retro, Satana, a Santuario, a Macchia grigia ed a Il collare di Budda è tra le novelle più scapigliate della raccolta, ha affinità sia formali che contenutistiche con la novellistica del gruppo milanese.13 Oggetto della narrazione è il testamento di un vecchio novantenne all’amato nipote:14 il ricordo del passato e di vari episodi connessi con una chitarra miracolosa, che il protagonista intende lasciare al nipote in eredità, sono motivo di ripen11
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Sulla ‘rinascita’ della novella si sofferma Raffaella Bertazzoli: “non sarà, tuttavia, inutile sottolineare, per quanto riguarda la scelta del genere, che sono proprio questi gli anni in cui si assiste ad una ripresa e rifondazione del racconto-breve, proposto in una infinita varietà di sotto-definizioni, come testimoniano esemplarmente le riviste del tempo, assunte quale sede ideale di divulgazione del genere rinnovato. La tendenza boitiana a sperimentare sul piano tematico si conferma, dunque, con l’uso della forma letteraria a quel tempo più percorsa: la novella, restituita di dignità, proprio in quegli anni, dalla produzione scapigliata e alla quale si affianca qualche, più o meno illustre, precedente. Un genere che ben si adattava ad un modulo di scrittura non univoco, strutturato su una vasta campata tematico-ideologica, definibile nei poli estremi del vero e del fantastico, dell’ideale e del positivo”. (R. Bertazzoli, Introduzione e note a C. Boito, Senso. Storielle vane, Milano, Garzanti, 1990, p. XII.) Cfr. C. Cretella, cit., p. 48. Definire queste novelle scapigliate non significa considerarle negativamente, come ebbe a fare il Bassani, secondo il quale le novelle in questione (a cui egli aggiunge anche Un corpo) “possono nuovamente far pensare […] agli errori più soliti degli scapigliati”. (G. Bassani, cit., p. 11) Queste novelle, al contrario, sono l’esempio mirabile di come Boito riesca a non ricadere proprio nei suddetti errori, pur riuscendo a riprendere temi ed ambientazioni del gruppo milanese. In quasi tutte le sue novelle Boito utilizza l’espediente della scrittura (manoscritto, diario, scartafaccio, testamento). Come spiega Roberto Bigazzi, “il distacco emotivo dunque funziona, e così, grazie al ‘manoscritto’ o alla neutralità della lingua che evita interventi surretizî dell’autore, il personaggio è sicuro di poter raccontare le cose a modo suo, senza accorgersi che proprio il montaggio della sua confessione mette in luce il vero risultato (e questo avviene anche nei racconti in terza persona)”. (R. Bigazzi, Introduzione a C. Boito, Storielle vane: tutti i racconti, Firenze, Vallecchi editore, 1970, p. 8.)
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samenti e di riflessioni sull’animo umano e sull’attaccamento alle cose terrene, in una sorta di redenzione in extremis. Come spiega Raffaella Bertazzoli, “il racconto si sviluppa […] su due livelli temporali: il presente della scrittura su cui si innesta il racconto del passato”.15 La divisione in due livelli temporali connessi tra loro ed il continuo ricorso all’analessi è una costante nella narrativa scapigliata. Basti pensare a due novelle che sono tra le più rappresentative del movimento, L’alfiere nero di Arrigo Boito e Storia di una gamba di Iginio Ugo Tarchetti, dove l’uso del flash back è continuo e funzionale alla narrazione. In Camillo, però, il ricordo del passato sembra rivestire un ruolo più complesso che nei racconti degli scapigliati. Se infatti, in questi ultimi, la memoria è un espediente narrativo utile ai fini della vicenda, pur non stimolando una riflessione di tipo morale, nelle novelle boitiane (si pensi ad esempio anche a Macchia grigia o a Notte di Natale) il ricordo diviene “memoria-rimorso”16 ed in questo senso modifica la narrazione, aggiungendo un quid di introspettivo che negli scapigliati tende a mancare. All’affinità formale si affianca poi l’affinità contenutistica, come si può notare sempre ne Il demonio muto. La novella presenta, infatti, tre tematiche fondamentali e ricorrenti nella poetica del gruppo scapigliato: il gusto per l’orrido e per il demoniaco, l’interesse per il soprannaturale e lo studio delle passioni umane. È infatti la Scapigliatura a portare in Italia il gusto per l’orrido e per il demoniaco, riprendendo da un lato tutto il “repertorio orrido, mortuario e sepolcrale, che se rimanda a tutta la poesia ossianica del pre-Romanticismo nordico, ha anche addentellati più nostrani in certo Barocco marinista”17 e dall’altro i grandi maestri del romanzo nero, quali Edgar Allan Poe e E. T. A. Hoffmann. In tal modo anche in Italia si aprono le porte alla grande letteratura straniera ed alle mode del tempo. Un vasto repertorio di creature soprannaturali e spaventose, un macabro sottobosco che, se non impaurisce il lettore, quantomeno lo incuriosisce. Sono creature, “lemuri, fantasmi, diavoli, megere e streghe”,18 che nel caso della novella boitiana popolano i sogni del protagonista, impedendogli un riposo tranquillo. Una situazione simile si ritrova nella tarchettiana novella Un osso di morto, dove le ripetute apparizioni di due defunti rendono spaventose le notti del protagonista. Tuttavia la grandezza di Boito sta nel non rendere questi elementi puro contorno al testo, poiché diversamente da Tarchetti, nella novella boitiana le figure mostruose che appaiono in sogno al protagonista sembrano generate dalla sua stessa coscienza, in una sorta di rappresentazione letteraria del famoso dipinto di Goya, Il sonno della ragione genera mostri (1797). Inoltre, la poetica del macabro e del mortuario, così come la poetica del demoniaco ad essa connessa, non ha in Camillo l’intento di boicottare i canoni borghesi, Bellezza compresa, come invece accade negli scrittori scapigliati:19 essa serve, al contrario, per rendere la scissione dell’animo umano, la 15 16 17 18 19
R. Bertazzoli, cit., p. XXIX. R. Bigazzi, cit., p. 13. R. Carnero (a cura di), La poesia scapigliata, Milano, Rizzoli, 2007, p. 17. C. Boito, Il demonio muto, in: Id., Senso. Storielle vane, cit., p. 334. “A livello di temi […] la Scapigliatura tenta la difesa d’un inattuale sogno di Bellezza provandosi a disegnare le ultime conseguenze del cinismo borghese: non già per fortificarlo, ma per destare un risentimento e uno scandalo capaci di negarlo”. (R. Tessari, cit., pp. 23–24.)
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continua lotta tra razionalità e passione, tra vanità e realtà, su cui lo scrittore si concentra. Se anche sulle vite dei personaggi boitiani aleggia l’ombra di una tarchettiana fatalità, essi sembrano reagire, analizzando il male che li attanaglia ed allontanandolo, in un processo catartico di auto-riappropriazione di sé stessi. Gilberto Finzi ha giustamente sottolineato come il demoniaco scapigliato sia “insieme inquietante e casalingo, produce grotteschi più che angosce”.20 Per certi versi non si salva da quest’accusa neanche Camillo Boito, che attinge al repertorio scapigliato riprendendone le modalità descrittive. Le sue novelle sono costellate di figure demoniache, vampiresche, grottesche: donne fatali come l’Olimpia di Vade retro, Satana, donne perdute come la Maria di Santuario, donne bestiali come l’Irene di Il collare di Budda e uomini fatali come il dottor Karl Gulz, l’anatomista di Un corpo. Ne Il demonio muto le figure principali rispettano i canoni scapigliati e Boito, nel descriverle, non è avaro di dettagli. Si parte dal vecchio protagonista, il quale ricordando la malattia che mise a dura prova il suo fisico,21 si descrive come “un coso allampanato, con le guance smunte, gli occhi spenti”,22 per arrivare alla figura della vecchia, la “megera”, la “strega” proprietaria della chitarra: Una vecchia, tanto curva che il suo mento giungeva appena all’altezza delle panche, passava abbastanza lesta da un altare all’altro, mettendo innanzi ad ogni passo il suo bastoncino, su cui poggiava il peso del corpo cadente. Mentre uscivo, ell’era accanto alla pila dell’acqua santa. Le diedi qualche soldo: mi ringraziò tremolando.23
In una sorta di climax descrittivo, la vecchia viene paragonata ad un “cadavere ischeletrito”24 di cui il protagonista avverte il nauseabondo ed acre odore.25 La 20 21
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G. Finzi (a cura di), Racconti neri della Scapigliatura, Milano, Mondadori, 1980, p. 10. Anche in questo caso, come già avvenuto per Macchia grigia, per Notte di Natale e soprattutto per Il collare di Budda (dove il tono dello scrittore si fa ironico quando riporta il discorso tra i quattro medici della Farmacia Santa Fosca sul virus della rabbia e sulla possibilità di una trasmissione del virus da uomo ad uomo), Boito riprende il motivo dell’incapacità della scienza medica. Il protagonista infatti racconta della sua lunga malattia, considerata incurabile: “Prima che tu nascessi, i medici di Brescia e di Milano mi avevano spacciato. Una maledetta malattia nervosa del ventricolo s’era ostinata a volermi spingere al mondo di là, ed ero ridotto, per tutto pasto, a nutrirmi di pezzettini di cacio lodigiano che tenevo in bocca, e di cui a poco a poco succhiavo la sostanza” (C. Boito, Il demonio muto, cit., p. 320.). Scrive Edwige Comoy Fusaro, nella sua analisi sulla novella Il collare di Budda (ma il concetto può essere riferito anche a Il demonio muto), che “da parte dello scrittore, vi è in questo brano una satira dell’incapacità terapeutica della medicina (un Leitmotiv della letteratura scapigliata) ma ciò che più conta qui è la molteplicità delle ipotesi interpretative di un medesimo fenomeno, un procedimento ricorrente della narrativa scapigliata per suscitare perplessità ed esitazione”. (E. Comoy Fusaro, Forme e figure dell’alterità: studi su De Amicis, Capuana e Camillo Boito, Ravenna, Giorgio Pozzi Editore, 2009, p. 210.) C. Boito, Il demonio muto, cit., p. 321. Ivi, p. 328. Ivi, p. 330. Un personaggio molto simile si ritrova nella novella Una salita: “Si ferma alla fontana una vecchia, e tenta di bere. A guardarla di dietro non le si vedeva il capo, nascosto dalla curva del dorso; a guardarla davanti non le si scorgeva altro che il cucuzzolo, circondato da capelli grigi arruffati. Aveva forse il becco delle Arpie e puzzava come queste. Camminando a passi corti, solleciti, picchiava per terra il bastone con cui reggeva a stento il piccolo corpo tremante, spez-
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donna, che sempre nella letteratura scapigliata è figura sinistra e diabolica, in questo caso, come ha sottolineato Chiara Cretella, è la raffigurazione stessa del Demonio, con cui ella si è simbolicamente unita in un amplesso.26 Bellissima in gioventù, ella ha lasciato corrompere la sua anima ed il suo corpo: la sua figura grottesca rappresenta appunto la decadenza dell’uomo che si abbandona alle passioni, invece di intraprendere un cammino di purificazione. Come si può vedere, anche in questo caso, la penna di Boito descrive i personaggi usando gli schemi scapigliati, ma queste figure hanno un significato più nascosto, più profondo. Le figure boitiane non muoiono alla fine del racconto, poiché esse rappresentano il tipo umano, il peccato o la virtù, come dimostrano le due figure contrapposte del vecchio e della megera. Se il sostrato della scrittura boitiana è ampio e differenziato, sicuramente molti spunti derivano dalle novelle della Scapigliatura lombarda, come emerge dal confronto tra la figura del Beato Antonio,27 un novello Savonarola la cui religiosa figura è a metà tra santità e demonismo e quella di Paw,28 protagonista della novella Il pugno chiuso del fratello Arrigo. Figure grottesche per eccellenza, essi ricordano (come la vecchia strega) dei cadaveri, i loro occhi sono infossati, la bocca contorta in una smorfia, i capelli irti sul cranio, trasformandosi così in veri e propri fantasmi del terrore. Un terrore che però, nelle novelle di Camillo, va oltre il semplice elemento corporale, divenendo terrore interiore dell’uomo che non sa se incedere o meno mentre percorre la strada della perdizione. Connesso al demoniaco è il soprannaturale, il grande protagonista ne Il demonio muto. Manifestazioni inspiegabili, poteri non terreni si ritrovano in tutta la novellistica del gruppo milanese e da questa anche il Boito prende ispirazione, ma gli esiti a cui tende sembrano portare, più che al comico, al drammatico ed al grottesco. Il paragone tra un brano de Il demonio muto ed uno tratto dall’incompiuto romanzo di Emilio Praga, Memorie del presbiterio, rende chiaramente visibili differenze ed
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zato in due; eppure non mi sarei stupito di vederla a un tratto mettersi la mazza fra le gambe e cacciar fuori dalle spalle due ali da pipistrello, volando via in cerca di un luogo dove sgozzare bimbi appena nati, e, lessati nella caldaia, ingoiarseli. Quella vecchia deve avere cent’anni: non parla con nessuno, sembra che non conosca anima nata. Quando le si dà un soldo, lo caccia in tasca con la rapidità nervosa di una cattiva scimmia. Non alza gli occhi, continua a borbottare non so se giaculatorie o bestemmie”. (C. Boito, Una salita, in: Id., Senso. Storielle vane, cit., pp. 137–138.) Cfr. C. Cretella, cit., pp. 166–169. “Il Beato Antonio, il Santo Missionario, il grande onore della Val Trompia, che ti faceva scappar via. E pallido come un fantasma, magro stecchito, con gli occhi infossati e un sorriso sulle labbra da far ghiacciare il sangue. In mano ha due cilicii spaventosi, l’uno a scudiscio pieno di terribili punte, l’altro a ruote dentate”. (C. Boito, Il demonio muto, cit., p. 318). “In quel momento […] sorse dal suolo un uomo lungo, nervoso, giallastro, magrissimo. Il suo balzo fu tale che tutti coloro che gli stavano sopra percuotendolo, stramazzarono a terra in un lampo. I capelli di quest’uomo erano più orrendi degli altri per la loro tinta rossastra e per la loro smisurata lunghezza; parevano sulla fronte di quel disgraziato una mitria sanguinosa, alta e dura. Forse per ciò lo chiamavano il patriarca. Non avevo mai visto un caso più spaventoso di plica. […] Paw co’ suoi capelli irti, coi suoi occhi spalancati, cadaverico, tremante, pareva il fantasma del Terrore”. (A. Boito, Il pugno chiuso, in: R. Reim (a cura di), Racconti neri e fantastici dell’Ottocento italiano, Roma, Newton e Compton, 2002, pp. 197–198.)
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affinità tra le due scritture. Nella novella boitiana si racconta, attraverso il ricordo del protagonista, un episodio soprannaturale riguardante il Beato Antonio. Giovanni mi raccontava, ed io tremavo di spavento, che una mattina, essendo entrato all’improvviso nella nuda camera del Santo, vide in un angolo una camicia, che stava in piedi da sé sola e ch’era di color pavonazzo. Guarda, tocca: il sangue, di cui appariva inzuppata, raggrumandosi e indurando, aveva ridotto la tela rigida come un legno.29
Un episodio del tutto simile si ritrova nel romanzo di Praga: Cominciavo a sentirli di soverchio stanchi, e già anche la faccia del cadavere si scioglieva: non ne restavano che due scintille sotto le palpebre; ma quelle due scintille (mi toccai per accertarmi che non sognavo) quelle due scintille non erano una illusione, quelle due scintille esistevano, quelle due scintille erano occhi veri, due occhi oscuri che mi guardavano, che mi guardavano fissi fuor da quel berretto infernale!30
L’orrore in questo secondo caso svanisce presto e, scoperto il topolino che si nasconde sotto il “berretto infernale”, il lettore si trova a fare i conti con una situazione che risulta comica.31 Al contrario, nel caso delle Storielle vane, il soprannaturale non è mai un fattore di comicità, bensì un elemento ulteriore di drammatizzazione della vicenda. Il soprannaturale non spaventa i protagonisti, ma li porta ad un’analisi approfondita dei loro sentimenti, delle loro esperienze e dei loro drammi interiori. La macchia grigia “mutabile, informe”32 dell’omonima novella è la stessa che sporca la vita, vissuta in odor di santità, del protagonista de Il demonio muto (“Non ho rimorsi, eppure un certo stringimento di cuore mi dice forse che c’è una macchia nella mia vita”33). Che si manifesti a livello fisico-patologico o a livello mentale (di coscienza), in entrambi i casi la macchia ha lo scopo di portare l’uomo alla riflessione, è spia dei processi mentali inconsci che l’uomo deve analizzare per salvarsi dalla follia. Ne Il demonio muto è una piccola ma preziosa chitarra, “oggetto di profano piacer”,34 a svolgere la funzione soprannaturale-demoniaca.35 Lo strumento, promesso in eredità all’amato nipote, è un dono ricevuto in gioventù. Simbolo del Male che si impossessa dell’animo umano e dell’attaccamento alle cose terrene, la chi29 30 31
32 33 34 35
C. Boito, Il demonio muto, cit., p. 318. E. Praga, Memorie del presbiterio, in: G. Finzi (a cura di), Racconti neri della Scapigliatura, Milano, Mondadori, 1980, p. 77. Le parole che Neuro Bonifazi usa per descrivere la lirica scapigliata sono perfettamente riferibili anche alla prosa: “Quell’orrendo vento funebre che è nelle poesie degli Scapigliati, che apre le fosse o i ventri delle madri (facendo apparire tutta una serie di cimiteri o camposanti, scheletri, di funerali, di feti, di vermi, di fantasmi, di mummie, di suicidi, ecc. ecc.), malgrado il suo sostanziale carattere di sadismo e di dolore, potrebbe ormai farci sorridere, o deluderci proprio per inefficacia”. (N. Bonifazi, M. Petrucciani, Poeti della Scapigliatura, Urbino, Argaglia, 1962, p. 13.) C. Boito, Macchia grigia, in: Id., Senso. Storielle vane, cit., p. 243. C. Boito, Il demonio muto, cit., p. 337. Ibidem. Come sottolinea Edwige Comoy Fusaro nelle novelle di Boito è ricorrente il collegamento oggetto-demoniaco: in generale sono oggetti preziosi (così ne Il collare di Budda) ma allo stesso tempo banali. Infatti “nei testi tragici l’alterità perturbante riguarda un oggetto apparentemente banale che si rivela poi straordinario”. (E. Comoy Fusaro, cit., p. 212.).
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tarra boitiana ricorda l’alfiere nero dell’omonima novella, poiché entrambi sembrano esercitare “l’ipnotismo che proverebbe l’influenza magnetica delle cose inanimate sull’uomo”.36 L’influsso negativo che essa emana condanna colui che la possiede ad un destino misero e rovinoso, come dimostra il racconto della vecchia: Quella sera sentivo dentro un diavolo: ero ubbriaca di peccato. A un tratto vidi il mio amante traditore accanto a me, il quale stava per gettare nel fuoco la mia chitarra. Sentii ribollirmi il sangue. Nel baccano e nella confusione, appena la chitarra fu sul rogo, io, al rischio di bruciarmi le vesti, mi scagliai sulle fiamme e la trassi fuori intatta. Qualche giorno appresso Angelo fu appiccato in Brescia. Mi ammalai: restai povera e sola.37
Il suo suono melodico la rende maledetta, la sua bellissima fattura la rende simbolo di lussuria. Anche in questo caso, la musica gioca un ruolo fondamentale, poiché scandisce i momenti narrativi e, allora, alle “antiche melodie”,38 capaci di corrompere l’animo del vecchio protagonista, si sostituiscono nel finale i sibili sinistri emessi dallo strumento che brucia, in un rogo catartico di forte impatto emotivo. Oggetto straordinario e sinistro, la chitarra, in una sorta di zoomorfizzazione, prende vita nell’epilogo della novella. I demoni maligni che avevano trovato nel prezioso strumento la loro dimora, sembrano allora fuoriuscire, ormai sconfitti. La chitarra è animata, sembra soffrire, dimenarsi, invocare il protagonista con strazianti sibili. Al lume del fuoco le perlette e l’oro brillavano, e la figuretta di Apollo sorrideva. Il demonio mi tentò e toccai le corde. Un suono rauco e terribile uscì dallo strumento scordato. Allora feci aggiungere molta legna sul fuoco, e quando la vampa toccò la cappa altissima del camino, fatto un supremo sforzo, gettai la chitarra sul rogo, seguendola attentamente con gli occhi. Le corde si contorsero come serpi, mandando un sibilo di dolore; il legno sottile della cassa armonica diventò nero, si spaccò in più luoghi e, senza infiammarsi, si ridusse a carbone; le perlette sparirono; il manico durò un gran pezzo a bruciare, e le figurette della caccia, staccandosi ad una ad una, caddero nella brace.39
È innegabile che Boito riprenda il topos scapigliato della fatalità, intesa come invincibile influenza negativa, catastrofica ed inevitabile. La chitarra boitiana, in questo senso, ricorda le figure del giovane barone di Saternez e del conte della novella tarchettiana I fatali. È un’aura sovrannaturale e malefica quella che li circonda; personaggi apparentemente normali, di bella presenza e di modi gentili, essi sono in realtà manifestazioni terrene del Male: Chi di voi ha sentito nominare il conte Corrado di Sagrezwitch? – Nessuno. È strano, giacché egli si è formato in quasi tutti gli Stati d’Europa e in molte delle provincie degli Stati Uniti una terribile reputazione. Egli è considerato come l’uomo più fatale di cui si abbia memoria, la sua presenza segnala dovunque una sventura immancabile, egli si è trovato sempre sul teatro delle calamità più terribili, ha assistito ai disastri più spaventosi.40
36 37 38 39 40
A. Boito, L’alfiere nero, in: G. Rosa, G. Cenati (a cura di), Racconti della Scapigliatura milanese, Milano, Università degli Studi di Milano, 2007, p. 15. C. Boito, Il demonio muto, cit., p. 331. Ivi, p. 323. Ivi, p. 338. I. U. Tarchetti, I fatali, in: G. Rosa, G. Cenati (a cura di), cit., p. 153.
Fra soprannaturale, psicologico e grottesco: Il demonio muto
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Tuttavia bisogna anche in questo caso fare delle precisazioni poiché, mentre nelle novelle scapigliate i personaggi soccombono alla fatalità, sottomessi dalle forze del Male, le figure boitiane cercano in tutti i modi una via d’uscita. Non c’è ombra di rassegnazione nei personaggi di Boito, bensì c’è un sentimento di combattività introvabile nella narrativa del gruppo milanese. Al Male, raffigurato nelle sue forme più diverse (la chitarra preziosa de Il demonio muto, la sensuale Olimpia di Vade retro, Satana), i personaggi boitiani si oppongono ostinatamente, e lo fanno attraverso un’auto-analisi dei loro sentimenti, ricercando i germi del peccato e della perdizione ed estirpandoli alla radice. In questo sta la grandezza del Boito scrittore, che inaugura una stagione narrativa in cui protagonista diviene lo studio delle passioni umane e della psiche. Anche in questo caso, è innegabile, Boito sembra aver subito l’influsso della letteratura scapigliata, in particolare di Tarchetti. Maestro nella rappresentazione ‘psicologica’ dei personaggi, lo scrittore la utilizza come espediente narrativo sia in Fosca che nei Racconti fantastici. Se in Lo Spirito in un lampone anticipa il tema della scissione interiore (e riprende lo scapigliato topos del doppio), in Storia di una gamba la descrizione della difficile situazione psicologica del protagonista in seguito all’amputazione di un arto è funzionale alla narrazione e, anzi, ne rappresenta il fulcro: Non era il dolore fisico che mi opprimeva in quel momento, non il dolore morale: era una sensazione nuova, orrenda, profonda, inesplicabile. Credo che tutti coloro che subirono una tale mutilazione abbiano sentito per metà che cosa è il morire, ne abbiano indovinato per una parte il segreto.41
Negli scapigliati, però, l’analisi ‘psicologica’, quando c’è, si rivela poco analitica e molto sentimentale, con esiti tendenti al patetico, se non al comico. Nelle Storielle vane, al contrario, Boito si sofferma sull’analisi psicologica che diviene così l’elemento centrale della narrazione e lo fa con un approccio quasi scientifico. Lo scrittore scava nell’animo umano alla ricerca della causa del malessere che affligge i protagonisti: attraverso il racconto-ricordo, egli riesce a far luce sul livello più inconscio della mente umana, al fine di dare una motivazione a quelle manifestazioni (anche patologiche, come nel caso di Notte di Natale e di Macchia grigia) che altrimenti rimarrebbero inspiegabili. Come si evince dal titolo, anche ne Il demonio muto la riflessione sull’animo umano, scisso tra passione e razionalità, sembra trovare gran spazio. Rappresentazione del lato più negativo ed irrazionale della nostra psiche, il demonio muto è simbolo della vittoria delle passioni sulla razionalità: Nell’animo nostro (egli diceva) noi nascondiamo quasi sempre, spesso senza volerlo, qualche volta senza saperlo, la memoria o il desiderio di un peccato. Come non lo confessiamo al prete, così non lo confessiamo a noi stessi. E pure quel punto, quella piccola ulcera venefica un po’ alla volta s’allarga, si estende e incancrenisce via via l’anima intera.42
Il cuore umano, le sue passioni inconfessabili e distruttive, sono terreno fecondo per questo demone malefico, per questa malattia difficile da estirpare. Solo con un “supremo sforzo”43 della ragione risvegliata finalmente dal suo torpore, l’uomo può 41 42 43
I. U. Tarchetti, Storia di una gamba, in: G. Rosa, G. Cenati (a cura di), cit., p. 210. C. Boito, Il demonio muto, cit., p. 332. Ivi, p. 338.
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purificarsi, allontanando da sé i simboli del Male. La modernità boitiana sta nell’approccio che egli ha quando si trova a fare i conti con la descrizione, non parca di particolari, della ‘malattia’. Il termine ‘coscienza’, introdotto per spiegare gli effetti drammatici del demonio muto sull’animo umano, oltre a rendere la descrizione parascientifica, sembra anticipare quello che sarà l’interesse per la psiche nella narrativa novecentesca: Nella più remota e angusta cameretta del cuore alloggia il Demonio muto. Egli se ne sta lì accovacciato, arrotolato, silenzioso; ma poi, quando gli pare che l’uomo sia più distratto o più fiacco, stende le membra, s’adagia, s’impadronisce di una stanza, dell’altra, e riesce ad occupare tutta quanta la casa della nostra coscienza. La nostra coscienza diventa allora un inferno.44
A questo proposito si leggano le parole di Giuseppe Farinelli sul romanzo psicologico nella letteratura scapigliata, le quali sembrano descrivere ed elencare le caratteristiche della narrativa del maggiore dei fratelli Boito: Parallelamente al romanzo contemporaneo sociale […] germogliò e si ingigantì, con tappe nel romanzo domestico, di carattere e di costume, il romanzo psicologico, che ebbe profonde radici in terreni non solo scapigliati. Tale romanzo per sua natura […] delimitò i personaggi nella sfera del privato, li ridusse di numero […], e diresse la sua attenzione sui flussi dei ricordi e delle emozioni fino ad arrivare con ben altra pregnanza alle soglie dei flussi di coscienza, ai contrasti tra ragione e sentimento, ai tormenti esistenziali, contribuendo nel caso a modificare e ad alterare la tradizionale struttura stilistica del più diffuso genere letterario.45
Camillo Boito, in un certo senso, coglie il fiore della novellistica scapigliata e riesce a impiantarlo e a farlo germogliare nuovamente. La lingua tersa,46 la prosa lineare e chiara, sulla quale si innesta una trama ben intagliata e comprensibile, in cui si sovrappongono due livelli, uno palese, l’altro più nascosto, rende il Boito scrittore uno tra i migliori prodotti della letteratura italiana dell’Ottocento. Ancora oggi scrittore attuale ed interessante, i suoi personaggi hanno un respiro universale, le sue riflessioni sull’animo umano (si veda la meravigliosa dissertazione pseudo-filosofica di Dall’agosto al novembre) sono un esempio della grandezza della sua narrativa. Se è giusto, quindi, ricercare l’influsso della novellistica del movimento milanese nella sua prosa, tanto più giusto è notarne le differenze, al fine di poter rivalutare la figura del Boito scrittore, “che probabilmente piacerebbe oggi più di ieri”47, come ebbe giustamente a dire il Pancrazi.
44 45 46 47
Ivi, p. 332. G. Farinelli, La Scapigliatura: profilo storico, protagonisti, documenti, Roma, Carocci, 2003, p. 19. A proposito della lingua cfr. R. Bigazzi, cit., p. 8. P. Pancrazi (a cura di), cit., p. 271.
FRATELLI ANNEBBIATI E SORELLE ANGELICHE Notte di Natale di Camillo Boito e Senilità di Italo Svevo Dagmar Bruss In una lettera del 17 giugno del 1900 Italo Svevo scrive alla moglie Livia Veneziani: È evidente che io non avrei dovuto sposarti. […] Penso con Tolstoi (anche lui arrivò a questa convinzione da vecchio) che i rapporti più facili sieno quelli fra fratello e sorella. Confessa che almeno per un buon fratello a me non mancherebbe nessuna buona qualità.1
Per poter valutar meglio queste parole, va tenuto conto che Svevo in quella lettera propone alla moglie di concederle la piena libertà, casomai lei lo ritenesse necessario per la propria felicità. Rispetto al sentimento della gelosia che gli era ben familiare e che riguardava una moglie giovane in termini di anni, e da lui sentita molto più giovanile ancora, a Svevo il rapporto tra fratello e sorella poteva sembrare relativamente facile. Che le cose non stiano proprio così si rivela al più tardi durante la lettura del secondo romanzo sveviano, Senilità, apparso nel 1898. Seguendo la nota biografia su Svevo di Enrico Ghidetti,2 la trama di questo romanzo traccia le esperienze fatte nel corso di una passione per la giovane e fiorente ragazza del popolo Giuseppina Zergol, che Svevo aveva incontrato nel 1892. Secondo l’autore, molti dei capitoli di Senilità furono scritti nel periodo di quell’incontro con l’intenzione di educare la ragazza ritenuta sia intellettualmente sia moralmente inferiore a lui. Ci vuole però poco affinché Emilio – il protagonista – si accorga che in realtà le parti sono invertite; è lui il ridicolo mentre diventa superiore Giuseppina-Angiolina. Angiolina riveste il ruolo della classica amante che suscita la gelosia di Emilio infinite volte. La parola “amante”, da Svevo tanto odiata, come egli scrive a Livia in una lettera all’indomani del suo fidanzamento, gli ricorderà sempre la sua passione per Giuseppina. Contrariamente all’abominio che prova nei confronti di quella storia, l’affetto per Livia è chiamato “un sogno tanto puro”.3 All’interno di questo schema dicotomico, Amalia, la sorella di Emilio, viene avvicinata al polo della purezza, una purezza però nel senso di una castità descrivibile soltanto in termini di grigiore, di pallore e di una vecchiaia prematura. La capacità d’introspezione psicologica che Svevo dimostra rispetto alla rappresentazione della relazione tra fratello e sorella mi sembra tanto più notevole se si tiene conto del fatto che l’unico fra i quattro personaggi-protagonisti a non coin1 2 3
I. Svevo, Epistolario, in: Opera Omnia, a cura di B. Maier, vol. I, Milano, dall’Oglio, 1966, p. 210. E. Ghidetti, Italo Svevo, La coscienza di un borghese triestino, Roma, Editori Riuniti, 1980. I. Svevo, Epistolario, cit., p. 117.
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cidere con il suo ruolo corrispondente nella vita reale è proprio quello della sorella Amalia. Mentre, oltre ad Angiolina e Emilio stesso, anche il personaggio dell’amico-pittore Stefano Balli coincide con una persona reale, e cioè con Umberto Veruda, amico e testimone del matrimonio di Svevo, Amalia non è stata ispirata da una delle sorelle di Svevo ma dalla sorella dell’amico-scrittore Cesare Rossi. Stupisce ancora di più, se si considera la relazione carica di gelosie fra Amalia e Emilio, che sarebbe opposta alla convinzione di Svevo di un rapporto facile tra fratello e sorella, mostrata dalla citazione all’inizio. Non appena Amalia scopre il forte interesse del fratello per Angiolina, s’ingelosisce come Emilio, a sua volta, diventa geloso in occasione di un pranzo con Amalia e l’amico Balli: La gelosia, nel suo animo, crebbe in modo ch’egli ne provò persino per l’ammirazione che al Balli dedicava Amalia. Il pranzo divenne molto animato perché anche lui vi collaborò. Lottò per conquistarsi l’attenzione di Amalia.4
Una tale messa a fuoco del rapporto tra fratello e sorella, tutt’altro che “facile”, non è unica nella letteratura della fine dell’Ottocento. In termini più generali, c’è da constatare un maggior accento sui rapporti di tipo orizzontale; processo che va di pari passo con l’erosione, seppure lenta, delle autorità patriarcali e della rottura di genealogie in una società in cui i criteri di differenziazione incominciano a non essere più tanto quelli verticali dello strato sociale. C’è da rintracciare questo sviluppo nel Verga, con il culmine in Mastro-don Gesualdo (1889), più tardi compaiono i tre fratelli protagonisti in Tre Croci di Tozzi. Delle tendenze paragonabili si riscontrano nella letteratura francese con Pierre et Jean (1887/88), e, soprattutto, in quella tedesca, seppure con certe anticipazioni e con un focus leggermente diverso.5 Considerando ora la costellazione dei protagonisti in Senilità, in particolare il rapporto intricato di responsabilità e di desideri non corrisposti tra fratello e sorella – il disegno dai contorni sfumati di questo rapporto appare piuttosto originale –, possono sorprendere tanto più certi paralleli fra il romanzo di Svevo e una delle Storielle vane di Camillo Boito, pubblicata più di vent’anni prima, nel 1875. Oltre alla costellazione dei personaggi, stupisce il disegno differenziato sia dello stato psichico-mentale sia della percezione, talvolta offuscata, del protagonista stesso. Essendo inoltre ben noto che, quanto a formazione letteraria, Svevo era stato influenzato, oltre che dai classici tedeschi, da Shakespeare e dai romanzi francesi (mentre l’influenza italiana era piuttosto scarsa), partirei dal presupposto che non ci sia filiazione immediata tra Boito e Svevo. In Notte di Natale un ventiquattrenne di nome Giorgio si trova in quell’omonima notte a vagare per una Milano solitaria, immersa completamente nella nebbia. 4 5
I. Svevo, Senilità, in: Id., Romanzi e “Continuazioni”, a cura di N. Palmieri e F. Vittorini, Tutte le opere, Milano, Mondadori, 2004, pp. 397–621; p. 464. In merito al rovesciamento dai rapporti di tipo genealogico-verticale a quelli cosiddetti orizzontali, in particolare da Giovanni Verga e Robert Walser, vedi D. Bruss, Zwischen Geschwistern und Geschwisterlichkeit. Giovanni Verga und Robert Walser: Vom Umschlagen des Genealogischen in die Horizontale um 1900, Heidelberg, Winter, 2016. Come altri esempi di testi carichi di aspetti psicologici nella relazione di due sorelle vedi L’illusione (1891) di F. De Roberto e, di fratello e sorella, la novella Il maestro dei ragazzi (1887) nella collezione Vagabondaggio di Verga.
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Sentendosi solo al mondo e con un grave disturbo allo stomaco, incontra una modista che gli ricorda Emilia, la sorella gemella, morta appena un mese prima. La invita in albergo. Dopo essersi goduta la cena abbondante, la modista si diverte a scherzare su dei ritratti della sorella di Giorgio che lei ritiene mostrino la sua amante. Facendo ciò provoca una tale rabbia che Giorgio incomincia a strapparle di mano i ritratti stringendole violentemente il polso. Dopo poco, complice un orologio d’oro in regalo, lei abbandona quel tono scherzoso e vagamente denigratorio. I due si mettono a parlare dei bellissimi denti della ragazza la quale accetta per scherzo l’offerta di Giorgio di acquistarne uno al prezzo di cinquecento lire. Una volta che la ragazza ubriaca si addormenta sulle sue ginocchia, Giorgio le spezza un dente col coltello e la manda a casa in carrozza lasciandole un biglietto da cinquecento lire. Fino a questo punto la storia è raccontata interamente in prima persona. Dopo il suo ritorno a Torino, Giorgio ne consegna il manoscritto alla vecchia bambinaia. Essa riferisce come lui, dopo essersi ripreso un po’ durante il soggiorno a Milano, incomincia a peggiorare di colpo. È già in fase di delirio quando gli arriva in casa la modista che si dichiara essere sua creditrice. Convinto di vedersi davanti “la sua Emilia” si rasserena e le regala una collana di perle. Nel momento stesso in cui la ragazza, ridendo, gli mostra i suoi denti, Giorgio scopre la lacuna nera in mezzo ai denti e, stravolto dallo spavento, muore. Su vari aspetti si possono tracciare analogie fra il racconto di Boito e Senilità. La somiglianza che colpisce di più in assoluto riguarda la costellazione dei personaggi: La trama di Notte di Natale ruota attorno alla coppia di gemelli Giorgio – Emilia, di cui Emilia, pur essendo morta, rimane bensì vivissima nella mente e nei ricordi del fratello. Sono frequenti i brani in cui la richiama alla memoria insieme a sua figlia Giorgetta. Infatti, Giorgio è sconvolto dall’apparenza della modista proprio perché essa gli pare somigliante all’amata sorella: Il sorriso della crestaia mi aveva suscitata una gran tempesta nell’anima. L’Emilia mi guardava così quando, nel ritornare da un viaggetto le portavo un bel regalo […]. Poi mi sbalzava accanto, e mi appuntava sulla cravatta uno spillone (questo che porto sempre) con la sua perla magnifica […] o mi cacciava nella tasca un portafogli di pelle, ornato con disegnini di argento, che ella aveva inventati. Una volta […] mi volle cavare, sebbene io non volessi, con le sue mani rosee e delicate gli stivaletti per mettermi un paio di pantofole ricamate da lei, tanto belle, tanto belle. Io allora le stringevo le due mani e le davo un bacio sulla fronte, la quale raggiava di contentezza.6
Tutta questa tenerezza, quest’attenzione, questa felicità raggiante nel rapporto tra fratello e sorella, non mancano di evocare un rapporto tinto di incestuosità. Anche il comportamento di Giorgio, dopo la morte di Emilia, assomiglia piuttosto a quello di un marito rimasto vedovo che a quello di un fratello: Quante volte mi fermai delle mezz’ore a guardare le vetrine dei fotografi! E pure tenevo nel portafogli quattro diversi ritratti dell’Emilia, e tre anche della Giorgetta, i quali parevano tre immagini dell’Emilia fanciulla.7
6 7
C. Boito, Notte di Natale, in: Id., Storielle vane, a cura di P. Stoppelli, Bologna, Zanichelli, 2011, pp. 113–126; p. 116 s. cit. C. Boito, cit., p. 116.
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La nostalgia della defunta amata viene potenziata inoltre dal ricordo della nipote Giorgetta, morta anche lei, che sembra essere una mera copia della sorella come questa, a sua volta, pare quasi una copia femminile del protagonista. Né in alcun momento del racconto si fa menzione del padre della nipote, né c’è alcun cenno a un altro contatto con il mondo esterno, oltre a quello con la vecchia bambinaia. Nel loro relativo isolamento, nella mancanza di rapporti appaganti con l’altro sesso, la coppia Giorgio – Emilia assomiglia a quella di Amalia – Emilio in Senilità. Ecco qui un esempio tratto dal romanzo: Dopo aver raccontato alla sorella con entusiasmo la conoscenza appena fatta di “una donna”, “[f]ratello e sorella entravano nella medesima avventura”.8 Se, con Lévi-Strauss, il tabù dell’incesto s’intende come proibizione dell’endogamia e quindi come incoraggiamento a stabilire dei rapporti sociali con persone esterne alla famiglia,9 tutte e due le coppie possono essere chiamate, in questo senso, incestuose. All’interno del quadrilatero Stefano Balli – Angiolina – Emilio – Amalia, quest’ultima rappresenta il riflesso fiacco di un fratello debole e passivo, mentre l’Angiolina e il Balli si assomigliano per la loro forza e la volontà di vivere. Di conseguenza, il ruolo di Emilio nei confronti di Angiolina si trova in analogia a quello della sorella Amalia nei confronti del Balli: Anche se in maniera diversa, entrambi sono vittime della loro inettitudine. Essendo Senilità un romanzo e quindi più esteso, non sorprende se il campo dei personaggi è più ampio rispetto a Notte di Natale. Non lo è però di tanto se si considera il solo quadrilatero centrale dei personaggi già nominati, di cui il Balli svolge il ruolo complesso da catalizzatore fra i rapporti degli altri tre. Esiste però, pure rispetto a lui, una somiglianza con il racconto boitiano, in quanto Balli, fra l’altro, viene considerato come una specie di padre da tutti e due: Era stato lui l’unico uomo a varcare la soglia della casa dopo la morte del padre di Amalia e Emilio. Una bambinaia maschile si potrebbe dire, anche se di certo più come desiderio dei due che non nella realtà. Abbiamo dunque lo schema di due coppie fratello e sorella, ciascuna delle quali confinata al polo del doppione di se stesso e quindi identico; in più, per mancanza di riferimento genitoriale, entrambe le sorelle si contraddistinguono per il loro atteggiamento particolarmente materno nei confronti del rispettivo protagonista: l’Amalia sveviana come “madre dimentica di se stessa”10 di Emilio, l’Emilia boitiana come sorella a cui rincresce dover morire dato che il fratello Giorgio ha “bisogno di molte cure e […] di molta saggezza”.11 Abbiamo poi una terza persona – nel caso del racconto boitiano la modista e in quello del romanzo sveviano Angiolina – che a sua volta rappresenta sia il mondo esterno sia il pericolo legato a una sessualità divorante. Se ne fa cenno, nel racconto, tramite il peso che si dà alla bellissima dentatura della modista:
8 9 10 11
I. Svevo, Senilità, cit., p. 412 s. Sul tabù dell’incesto in generale vedi C. Lévi-Strauss (1968), Les structures élémentaires de la parenté, Paris, de Gruyter Mouton, 1968, pp. 14–29 e, riguardo all’endogamia e l’exogamia, pp. 49–60. I. Svevo, Senilità, cit., p. 403. C. Boito, Notte di Natale, cit., p. 124.
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I denti della ragazza mi affascinavano. […] Erano tutti uguali, tutti piantati regolarmente; quelli di sopra un poco più grandi e tanto sottili che parevano trasparenti.12
A confronto vediamo un passo in Senilità: Ella [Angiolina] stette un istante pensierosa e parlò di un dente che le doleva. – Qui, – disse e fece vedere la sua bocca purissima, le gengive rosse, i denti solidi e bianchi, uno scrigno di pietre preziose legate e distribuite da un artefice inimitabile, la salute. Egli non rise e baciò la bocca che gli si era offerta.13
Pur non essendo qui la connotazione sessuale esplicita, il significato della dentatura generalmente oscilla fra il simbolo di purezza, di salute e capacità di affrontare la vita e quello della femmina-vampiro con le caratteristiche ‘vorace’, ‘intrigante’ e ‘volgare’.14 Tanto più notevole il fatto che ciascuna delle due donne viene ravvicinata alla casta sorella del rispettivo protagonista. E, altro parallelo fra il romanzo e il racconto, in ambedue i casi questo processo si svolge tramite una specie di offuscamento mentale. In qual modo e attraverso quali meccanismi narrativi il processo è messo in atto, lo vorrei mostrare di seguito. In Notte di Natale ci si trova di fronte ad un’oscillazione fra i momenti in cui Giorgio percepisce la modista come somigliante alla defunta sorella e quelli, invece, in cui gli pare volgarmente brutta, del tutto estranea al suo universo intimo. Nel suo manoscritto, steso durante i giorni successivi al suo ritorno da Milano, Giorgio sente “una profonda vergogna nel confessar[e]” che “quella crestaia mi aveva attratto perché somigliava all’Emilia.”15 Questa somiglianza presentata qui, in retrospettiva, come fatto incontestabile, viene subito messa in dubbio dall’asserzione dello stesso io narrante, che “l’istinto [l]’obbligava irresistibilmente a fare, certe minute somiglianze, anche fuggevoli”16 fra la sorella e le donne che incontrava per strada o che vedeva in fotografia. Un giorno dopo il sorriso della crestaia gli suscita “una gran tempesta nell’anima”,17 ricordandogli il sorriso della sorella al ritorno di uno dei suoi viaggi – sono, in effetti, i denti perlacei a costituire l’unico nesso fra le due donne. Ma dopo aver cenato nell’albergo milanese e appena dopo la modista si è messa a raccontargli delle storie amorose passate che la smascherano come una persona poco perbene, nella mente di Giorgio si svolge uno scatto percettivo ulteriore: “Era brutta. La personcina non c’era male, ma il volto aveva de’ lineamenti triviali, la pelle ruvida chiazzata di macchiette gialle, le occhiaie verdastre, la fronte solcata di sottili rughe parallele”.18 12 13 14
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C. Boito, cit., p. 123. I. Svevo, Senilità, cit., p. 415. Per Notte di Natale questa polisemia della dentatura viene presentata da Comoy Fusaro, sulla base di Gilbert Durand (1984), secondo il rapporto che le parti in relazione con la bocca rappresenterebbero l’emblema regredito del lato sessuale: E. Comoy Fusaro, Les névroses littéraires, laboratoires d’écriture. Camillo Boito, Notte di Natale (1876), in: Cahiers de Narratologie [online], 18, messo online il 5.1.2011, consultato il 18.4.2014. URL: http://narratologie.revues. org/5991; DOI: 10.4000/narratologie.5991, p. 5. C. Boito, Notte di Natale, cit., p. 116. Ivi, p. 116. Ibidem. Ivi, p. 121.
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Sono frequenti i passi del testo nei quali si trovano dei riferimenti allo stato psico-fisico turbato di Giorgio. Che non si tratti soltanto di una malattia causata dalla morte recente dei suoi cari, bensì di un disturbo nevrotico profondo che comprende l’intera vita familiare chiusa del protagonista, l’ha sottolineato già Comoy Fusaro nella sua dettagliata analisi narratologica.19 Mentre essa si concentra sul ruolo materno che Emilia ricopre nei confronti di Giorgio – prospettiva che s’inserisce perfettamente in un’interpretazione (pre)freudiana –, vorrei invece dar risalto alla dimensione laterale, trascurata non da ultimo dalla teoria freudiana stessa. Ciò non equivale al negare una funzione materna delle due sorelle, bensì al dar rilievo al fatto che non sia un puro caso, se nei testi si tratta appunto di sorelle invece che di madri. Un tale approccio prende in considerazione non solo lo spazio letterario apertosi per via del vasto campo delle nevrosi; focalizza invece, in termini sociologici, la svolta dal XIX al XX secolo, periodo caratterizzato da una tendenza ai rapporti orizzontali, estendendosi essi, da un lato estremo, dalle relazioni tra fratelli e sorelle,20 attraverso quelle amicali fino al polo diametralmente opposto, rappresentato dalla figura dell’estraneo come viene descritta da Georg Simmel. Quest’ultima si costituisce lungo l’asse di lontananza – vicinanza, essendo l’estraneo definito come soggetto lontano in quanto appartenenza al proprio gruppo identitario, nonostante sia vicino in termini spaziali.21 Un altro argomento in favore di questa prospettiva sociologica sta, a mio avviso, nel fatto che il racconto presenta una descrizione degli spazi minuziosa e densa di significati: una Milano tanto nebbiosa quanto priva di rapporti umani rende perfettamente lo spirito generale della scena, che riesce ad anticipare l’isolamento dell’individuo nella moltitudine amorfa all’inizio del Novecento. Analogamente, Enrico Ghidetti, per descrivere l’effetto prodotto dallo scontro delle illusioni di Ettore Schmitz alias Italo Svevo con la realtà, cioè con il reale comportamento di Giuseppina Zergol, usa l’immagine della nebbia che si dissolve al sole.22 Lo stesso vale per la premessa iniziale alla relazione di Emilio con Angiolina: “Mi piaci molto, ma nella mia vita non potrai essere giammai più importante di un giocattolo”.23 Dissolvendosi man mano, essa fa strada a una sempre più “morbosa gelosia 19 20
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E. Comoy Fusaro, Les névroses, cit., in particolare p. 4. Quanto alla necessità di stabilire una dimensione orizzontale nella teoria psicoanalitica oltre a quella verticale, rappresentata dal complesso di Edipo, vedi lo studio approfondito di Juliet Mitchell. All’interno della dimensione laterale, la differenziazione non è di tipo oppositivo come nei due sessi opposti uno all’altro (del padre e della madre), è invece di tipo graduale. Trovandosi su una linea tra la massima distanza da un lato e l’identificazione perfetta dall’altro, la distinzione tra fratelli o sorelle è più vicina al polo dell’identità: “Brothers and sisters represent the minimal distance between people that must be preserved if incest is to be avoided”. Per Mitchell, “the minimal difference that needs to be set up between sisters and brothers” rappresenta la condizione sine qua non per uscire dalla cosiddetta logica del raddoppiamento (“to turn replication into seriality”). Cfr J. Mitchell, Siblings. Sex and Violence. Cambridge, Polity Press, 2003, p. 111, 151 e passim (sottolineature D. B.). Cfr. G. Simmel, Soziologie: Untersuchungen über die Formen der Vergesellschaftung, hrsg. v. O. Rammstedt, Gesamtausgabe, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1992, p. 764. E. Ghidetti, cit., p. 116 I. Svevo, Senilità, cit., p. 403.
Fratelli annebbiati e sorelle angeliche
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e umiliazione”24 da parte di Emilio. A differenza, però, che il protagonista di Senilità, in massima parte, permane nell’annebbiamento mentale, mentre Svevo come autore riesce a riflettere la “passioncella” passata tramite la stesura del romanzo. Come accennato sopra, in Notte di Natale il riferimento alla nebbia è molto più esplicito. Un primo cenno all’offuscamento della capacità percettiva di Giorgio si trova nella descrizione dello spazio: Nella via si vedevano uno alla volta i lumi rossastri, quasi cupi dei fanali; ma la nebbia fittissima era circonfusa di un chiarore scialbo, bianchiccio, che si faceva più vivo e insieme più denso accanto alle lampade […] le vie […] erano quasi deserte […]. Tutto diventava misterioso e vasto. Si perdeva la bussola. Ci si trovava di botto all’angolo di una via, credendola ancora distante, o pareva di essere giunti a un crocicchio, che era ancora lontano. Si navigava nella nube, bagnati, intirizziti, sospettando di essere diventati ciechi e sordi.25
Una maniera di rappresentare la realtà che evoca già la percezione policentrica, disordinata dello spazio dei personaggi tozziani.26 Sembra esserci però, nel racconto di Boito, una coesistenza di annebbiamento e chiaroveggenza, quando, in retrospettiva, lo scrittore-protagonista del manoscritto riflette sul suo stato mentale dopo il finire del banchetto con la modista: Non ero ubriaco, poiché mi rammento oggi per filo e per segno le più minute cose di quella notte; ma vivevo in uno stato strano di orgasmo fisico e morale, che, senza scemare punto la memoria, toglieva la responsabilità delle azioni. Avrei potuto uccidere un uomo, così per giuoco, con un coltello da frutta.27
Ci si può certamente domandare quanto sia affidabile questo sguardo retrospettivo dell’essere nevrotico su di sé. Abbiamo con la bambinaia un’istanza che rende possibile la verifica dell’enunciato tanto labile di Giorgio. È lei che, nel racconto cornice, ci presenta la modista come “donna abbietta”, con le parole e le “maniere sfacciate”.28 “Mai una così svergognata femmina aveva messo il piede in questa casa”.29 La valutazione incerta dello stato fisico e morale della modista da parte del narratore interno è quindi corretta dalla visione esterna della bambinaia. Quella della modista come donna abbietta ci si presenta come versione autorizzata del racconto. Ha mostrato Comoy Fusaro come, al di là di questa versione più ‘oggettiva’ della bambinaia, quella del protagonista stesso, pur essendo messa in dubbio, rappresenti una variante più arricchita del cosmo delle potenzialità percettive e quindi ottiene un notevole valore per il lettore.30 Mentre per Giorgio lo scontro finale con la realtà è causa della sua morte – egli si spegne nel momento stesso in cui si rende finalmente conto dell’allucinazione 24 25 26
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E. Ghidetti, cit., p. 117. C. Boito, Notte di Natale, cit., p. 113 e sgg. In merito alla dissoluzione del soggetto epistemologico forte e a una radicalizzazione del discorso realistico-naturalistico nel romanzo tozziano Con gli occhi chiusi vedi M. Föcking, Autismus und Moderne. Federigo Tozzis Roman Con gli occhi chiusi und die Krise des Subjekts um 1900, in: Italienisch 53 (2005), pp. 12–27. C. Boito, Notte di Natale, cit., p. 122. Ivi, p. 126. Ibidem. E. Comoy Fusaro, cit., p. 3.
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che consiste nell’aver sovrapposto l’immagine della sorella angelica con quella della brutta modista –, Emilio Brentani continua a persistere nell’autoinganno. Invece di provocare la propria morte, in Senilità è quella della sorella che causa la fusione delle immagini delle due donne, talmente contrarie nella vita: Anni dopo egli s’incantò ad ammirare quel periodo della sua vita, il più importante […]. Nella sua mente di letterato ozioso, Angiolina subì una metamorfosi strana. Conservò inalterata la sua bellezza, ma acquistò anche tutte le qualità d’Amalia che morì in lei una seconda volta. […] Egli la vide dinanzi a sé come su un altare, la personificazione del pensiero e del dolore e l’amò sempre, se amore è ammirazione e desiderio.31
Ci si trova di fronte a una fusione totale di bellezza e virtù. Mentre in Boito, Giorgio aveva oscillato, a seconda dello stato mentale, fra idealizzazione e disinganno, fra la connotazione di purezza dei denti a quella della voracità, per il meccanismo di fusione esposto alla fine di Senilità si potrebbe adoperare addirittura il termine della dissolvenza incrociata. Una simile osservazione si può fare riguardo alle tecniche narrative: nel racconto boitiano rimane accennata, persino all’interno del manoscritto, una bipartizione fra i momenti sani e quelli malati del protagonista. Questo stato epistemologico incerto del racconto-manoscritto in complessivo viene inoltre verificato – almeno in parte – dal racconto cornice della bambinaia. In Senilità una simile istanza verificatrice non esiste più. Essendo raccontato il romanzo in terza persona, con focalizzazione prevalente su Emilio, sono relativamente rari gli interventi del narratore. È proprio l’ambiguità di esso il fatto più caratteristico. Viene lasciato spesso in sospeso il giudizio sulla percezione o sul comportamento di Emilio. Il confronto con Senilità, romanzo apparso più di vent’anni dopo Notte di Natale, già rivela un alto livello d’introspezione psicologica in Boito. Oltre a ciò, con il contrastare l’isolamento dell’essere in una Milano anonima con il rapporto intimo e morboso tra fratello e sorella, Camillo Boito mostra una notevole sensibilità, sia per i sorgenti fenomeni di massa nei grandi centri urbani e sia per le corrispondenti reazioni, che consistono nell’appallottolarsi all’interno del ristretto universo familiare. Di fronte a una mancanza quasi assoluta di radicamenti familiari e d’istanze sociali stabilizzanti, Giorgio, per evitare lo scontro doloroso con il mondo esterno, prende rifugio nell’unico espediente accessibile, l’identificazione morbosa con la sorella gemella, percepita come puramente angelica. Invece di stabilire una distanza ragionevole tra se stesso ed Emilia, egli riduce le differenze sentite nei confronti della sorella quasi a zero, per poi ingrandire tanto più quelle nei confronti del mondo estraneo, rappresentato dalla modista. È solo la malattia nevrotica a fungere in modo inverso, sovrapponendo le immagini delle due donne e offuscando del tutto le differenze. Non solo in termini di una scrittura che mette in dubbio le certezze di un modo di raccontare tradizionale, ma anche come sismografo dei rapporti orizzontali a venire, Boito dimostra una notevole intuizione già più di vent’anni prima del capolavoro sveviano. 31
I. Svevo, Senilità, cit., p. 620 s.
CAMILLO BOITO E IL GENERE FANTASTICO Analisi comparativa della novella Macchia grigia e del racconto Claire Lenoir di Villiers de l’Isle-Adam Laura Staiano Questo articolo, come si evince dal titolo, vuole mettere in luce la nuance fantastica della produzione letteraria di Camillo Boito, attraverso uno studio comparativo della novella Macchia grigia e del racconto Claire Lenoir dello scrittore francese Auguste de Villiers de l’Isle-Adam,1 uno dei più importanti esponenti della narrativa fantastica. Dopo alcuni brevi cenni sulla genesi dei due racconti e sulle rispettive trame, saranno individuate analogie e dissomiglianze di due opere lontane, in quanto frutto dell’immaginazione di due autori provenienti da paesi diversi, di formazione differente, con frequentazioni e influenze proprie che, senza alcun contatto reciproco,2 hanno fatto riferimento ad un ambiguo fenomeno legato al senso della vista, unendo nei loro rispettivi testi medicina e finzione, e ottenendo entrambi risultati tendenti a l’inquiétante étrangeté freudiana, quel perturbante che destabilizza il lettore e genera angoscia e timore. Pubblicata sulla rivista fiorentina La Nuova Antologia nel dicembre 1877, col titolo La macchia grigia. Storiella vana, e inclusa nel 1883 nel volume Senso. Nuove storielle vane, la novella di Camillo Boito testimonia dell’originalità e della modernità di uno dei primi scrittori italiani ad aver arricchito i suoi testi letterari con nevrosi e malattie. Architetto, restauratore, professore all’Accademia di Belle Arti di Milano, consigliere comunale e consulente ministeriale, Camillo è un uomo di grande cultura e un lettore onnivoro che, tuttavia, si dedica alla letteratura solo per diletto, forse intimidito anche dalla maggiore fama di suo fratello Arrigo. Annoverato, tradizionalmente, come uno scrittore minore della Scapigliatura, l’autore di Senso (1883) riprende in maniera ingegnosa e disordinata i temi principali del movimento, quali il gusto per il macabro e l’occulto, l’attenzione alla corporeità, senza curarsi di dare ai suoi testi un disegno unitario. Inoltre, partendo dal tema dell’amore tormentato o maledetto (metafora sociale di una civiltà in decadimento), rie1
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La carriera letteraria di Auguste de Villiers de l’Isle-Adam (Saint-Brieuc, 1838 – Parigi, 1889) inizia negli anni 1860–1870 ma la fama, tanto ricercata, arriva nel 1883, con la pubblicazione dei Contes cruels (Racconti crudeli), e con la sua opera più famosa, L’Ève future (L’Eva futura), la cui versione integrale fu pubblicata in volume nel 1886. Non sappiamo se Boito abbia letto il racconto di Villiers in francese, in quanto la prima traduzione in italiano di Claire Lenoir, di S. Papetti, è stata pubblicata nel 1991 da Theoria (Roma). Seguono la traduzione di G. Aleo per Edizioni Cuecm (Catania) nel 1995, e quella di I. Landolfi edita da L’Argonauta (Latina) nel 1999. Diverso è, invece, il caso della novella di Boito: Macchia grigia non è mai stata tradotta in francese.
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sce a fornire profonde analisi psicologiche e psichiche dei suoi personaggi. Il tutto è ambientato sempre in precisi contesti storici e sociali, con descrizioni minuziose della classe borghese e, in generale, delle dinamiche dell’Italia del secondo Ottocento (caratteristica che sembra avvicinarlo ad un altro scrittore francese più noto, Honoré de Balzac). Tutti questi elementi caratterizzanti la poetica boitiana si ritrovano in Macchia grigia, novella incentrata sui temi della colpevolezza e della malattia. Il protagonista, infatti, racconta ad un medico, sotto forma di una lunga lettera, la storia di un disturbo della vista che lo tormenta, ed alcuni episodi significativi legati, a suo dire, al suo problema di salute. La novella somiglia dunque ad una lunga confessione, nella quale l’uomo affida ricordi e rimorsi ad una figura che è al di sopra di lui non in ambito morale, ma in quello conoscitivo. Tuttavia, la decisione di scrivere e di raccontare minuziosamente le cause del suo male, prima di un imminente consulto presso lo specialista, sembra celare il bisogno del malato di liberare la sua anima prima della sua vista, ostacolata da tempo da una macchia ingombrante e spaventosa. L’uomo è affetto da ‘scotoma’, un difetto lacunare nel campo visivo dovuto all’assenza di percezione in una zona della retina. Nel racconto, il termine scientifico è utilizzato una sola volta, esattamente nel capitolo I, quando il protagonista, rivolgendosi in maniera diretta al medico che dovrà occuparsi del suo caso, scrive: “Certo (dottore mio, non ridete) è offesa la retina: v’è qualche punto cieco, un piccolo spazio paralizzato, uno scotoma insomma”.3 Il narratore preferisce ricorrere alla locuzione macchia grigia, meno rigorosa dal punto di vista medico-scientifico, ma più efficace sul piano della narrazione. Tale locuzione evoca perfettamente il senso di mistero che avvolge la patologia descritta, e – più in generale – l’intero racconto. Nel testo diverse espressioni perifrastiche denotano lo scotoma: il narratore parla di “una macchia color cenere, mutabile, informe”,4 “squarcio chiaro a lembi irregolari”, “cosa volgare”, “orrore”,5 utilizzando così una tecnica di scrittura che tende a mascherare la reale identità degli oggetti o delle persone descritte al fine di aumentare sentimenti e stati d’animo quali l’incertezza e l’angoscia, predominanti nella novella. Dopo aver parlato degli effetti e dei sintomi della macchia che altera le sue capacità percettive così come il suo equilibrio psico-fisico, il narratore autodiegetico racconta la passione vissuta con Teresa, la figlia di un pastore, sedotta e abbandonata durante un soggiorno in montagna. Teresa è l’antitesi delle tradizionali eroine, belle e angeliche, alle quali la letteratura ci ha tradizionalmente abituati. Lo si deduce subito dalla descrizione fatta dalla voce narrante, ben lontana dall’evocazione di un uomo innamorato: La Teresa, certo, non somigliava alle ragazze di città: la sua pelle era ruvida, la sua passione quasi ferina. Nei primi giorni amava tre cose: il suo padre, le sue capre e me; dopo una settimana non parlava più del padre, non badava più alle capre, mi aspettava sull’uscio del casolare a cominciare dall’alba, spesso mi veniva incontro sino ad Idro, mi trascinava, mi violentava, mi buttava in terra come se volesse sbranarmi. Certe volte dal suo corpo esalava un odore acre e 3 4 5
C. Boito, Macchia grigia, in: Senso e altri racconti, Milano, La Biblioteca di Repubblica, 2004, p. 135. Ivi, p. 171. Ivi, pp. 171–172.
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inebriante di erbe selvatiche, certe volte un puzzo di capra nauseabondo, e non di rado un fetore di strame, che ammorbava.6
Si tratta di un personaggio femminile insolito, a tratti vampiresco: Teresa non emana alcun profumo, bensì un cattivo odore; i suoi baci non sono delicati, ma animaleschi; i suoi sentimenti non sono puri, ma carnali. Il narratore risveglia nella ragazza un bisogno d’amore smisurato, selvaggio e vive con lei una passione puramente fisica. Intimorito però dagli “abbracciamenti suoi, furiosi e disperati”7 e divenuto vittima della sua preda, decide all’improvviso di fuggire via, dando origine così al suo tormento. In seguito all’addio del suo innamorato, infatti, Teresa muore in preda alla disperazione: siamo dinanzi al primo lutto del racconto. Il secondo è il suicidio di suo padre che, affranto dal dolore per la perdita di sua figlia, si annegherà nel fiume Chiese. Il caso vuole che il narratore incontri l’anziano qualche istante prima del gesto fatale, senza riconoscerlo, e che cerchi di distoglierlo dalle sue intenzioni suicide. Tentativo vano, poiché, in seguito, l’uomo vedrà galleggiare nel fiume un’enorme macchia destinata a diventare la sua ossessione. Solo alla fine del manoscritto, egli svelerà l’origine del suo malessere; quella macchia che altera la sua visione: “È il mio vecchio, il mio terribile vecchio!”8 Già da queste primissime battute, si intuisce come in Boito il problema relativo alla vista e la tematica medica rappresentino una sorta di trasvalutazione in senso morale/etico. I personaggi che lamentano un problema fisico, infatti, ben presto saranno intesi come malati morali, individui che hanno in qualche modo “sodomizzato” un male corporeo in ragione di uno, morale, più profondo. Lo stesso accade in Claire Lenoir, racconto di Villiers de l’Isle-Adam apparso per la prima volta nei primi otto numeri della Revue des Lettres et des Arts, pubblicati dal 14 ottobre al 1 dicembre del 1867. Dopo 20 anni, nel 1887, la novella – rivisitata e ampliata – fu inclusa nella raccolta Tribulat Bonhomet, che unisce racconti pubblicati precedentemente su riviste diverse, tutti accomunati dal sinistro dottore positivista che dà il titolo all’opera. In Claire Lenoir, Bonhomet è il personaggio-narratore: medico, filantropo e grande appassionato di strumenti ottici, egli racconta gli eventi straordinari riguardanti la vita, gli amori e le pene di Claire, moglie di Césaire Lenoir. Il medico si sofferma a lungo sulle diatribe filosofico-scientifiche che allietavano i suoi incontri con la coppia, e solo dopo varie digressioni, racconta di quando, ad un anno dalla morte del signor Lenoir, ritrova sua moglie Claire, cieca e morente, in un albergo di periferia nel sud della Francia. Prima di morire, la donna svela al medico il segreto del tradimento consumato col tenente inglese Henry Clifton e la vendetta che suo marito sta attuando da un anno nei suoi confronti attraverso i suoi occhi, ciechi di giorno e testimoni di visioni 6 7
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Ivi, p. 138. Ivi, p. 139. Alcuni aspetti di Teresa ricordano la protagonista de Il collare di Budda, Irene, la prostituta che si prende sanguinosamente gioco di Gioacchino e lo morde per infettarlo. Sembra quasi che Boito, nel descrivere la società del suo tempo, si lasci andare ad una certa misoginia, così come il suo collega d’oltralpe che, però, sostituisce alle perfide donne-amanti, che mordono e avvelenano il maschio, la donna-robot de L’Ève future, nell’aspetto identica a quella reale, ma incapace di compiere il male. Ivi, p. 152.
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terrificanti di notte. Spinto da una curiosità morbosa, Bonhomet decide di scrutare gli occhi della donna defunta con il suo oftalmoscopio e scopre così una realtà che lo destabilizza: sulla retina di Claire è impressa l’immagine di un selvaggio della Polinesia che ha le sembianze del signor Lenoir e che tiene tra le mani la testa mozzata e sanguinante del tenente Clifton. Villiers de l’Isle-Adam fa qui riferimento a un fenomeno molto discusso negli ambienti scientifici della seconda metà del XIX secolo, noto in francese come phénomène du dernier regard (fenomeno dell’ultimo sguardo), secondo cui gli occhi di un defunto conservano impressa, come su una lastra fotografica, l’ultima scena osservata in vita. Tale teoria nacque in concomitanza con lo sviluppo delle tecniche fotografiche, nel 1863 circa, quando un fotografo inglese, Mr. Warner, riprodusse con il collodio l’occhio di un manzo, poche ore dopo la sua morte, e affermò di aver rilevato sulla retina dell’animale le linee del pavimento del mattatoio, l’ultima cosa percepita dal manzo prima di morire.9 Sembra che Villiers sia stato il primo scrittore a far riferimento a questo fenomeno, seguito da Jules Claretie che pubblicò, nel 1897, L’Accusateur (L’accusatore), e da Jules Verne che scrisse Les Frères Kip (I fratelli Kip) nel 1902. Il critico Joseph Bollery cita, come possibile fonte di ispirazione dell’episodio descritto in Claire Lenoir, un articolo su Warner, pubblicato il 26 settembre 1863 su Le Publicateur des Côtes-du-Nord, rivista alla quale Villiers collaborava occasionalmente.10 Lo ‘scrittore fantastico’ aggiunge però qualcosa di ancor più inquietante e paradossale, in quanto la scena impressa negli occhi di Claire non rimanda alla realtà terrena che la circonda, ma è un’immagine d’oltretomba. Tutto questo contribuisce a rendere ancora più misterioso l’episodio descritto e a portare a termine l’obiettivo di Villiers: demistificare il positivismo, attraverso la figura di Bonhomet che, d’improvviso, vede crollare tutti i suoi punti di riferimento e i suoi dogmi scientifici e si chiede: “Mais… alors, où sommes-nous?”11 Anche Boito, in Macchia grigia, allude alla teoria della persistenza delle immagini retiniche: Ho letto come sulla retina, nell’occhio dei condannati a morte, s’è trovato, dopo recisa la testa, il ritratto degli ultimi oggetti, in cui i disgraziati avevano ficcato lo sguardo. La retina dunque, non solo rimane fuggevolmente dipinta: in certi casi resta veramente scolpita.12
Il riferimento di Boito al fenomeno ‘dell’ultimo sguardo’ ha una duplice valenza: sul piano narrativo, esso fortifica la supposizione del narratore, il quale crede che la sua retina sia stata scolpita dall’immagine del cadavere del vecchio, come quella dei condannati a morte – ai quali si sente molto vicino poiché lo scotoma rappresenta per 9
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Il primo riferimento alla teoria della persistenza delle immagini retiniche si ritrova nel supplemento al dizionario Larousse, posteriore al 1876: vengono qui riportati i risultati degli esperimenti condotti su animali dai fisiologi Franz Boll e Willy Kühne che avevano mostrato che, messa in una soluzione di allume, la retina poteva conservare le immagini che le erano state presentate poco prima o immediatamente dopo la morte. J. Bollery, La Bretagne de Villiers de l’Isle-Adam; histoire, généalogie, biographie, tourisme et littérature, Saint-Brieuc, Presses Bretonnes, 1961, p. 110. A. de Villiers de l’Isle-Adam, Claire Lenoir, in: Claire Lenoir et autres récits insolites, Paris, GF-Flammarion, 1984, p. 121 (trad. mia). C. Boito, Macchia grigia, cit., p. 135.
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lui una vera condanna. In relazione all’autore, invece, quest’allusione testimonia la varietà delle conoscenze e competenze di Boito, nonché un interesse nei confronti del dibattito scientifico dell’epoca. Oltre alla sua ampia cultura in ambito architettonico e alle importanti teorie innovative sul restauro, Camillo era difatti dotato di solide conoscenze mediche (così come si evince anche da novelle quali Il collare di Budda, Un corpo) per via dell’assidua frequentazione del collega medico epidemiologo Gaetano Strambio, come lui insegnante all’Accademia di Brera. La cultura e le innovazioni del suo tempo, dunque, affascinano e incuriosiscono lo scrittore italiano, proprio come avviene per il francese Villiers de l’Isle-Adam. Questi dimostra, in tutta la sua produzione letteraria, un forte interesse per le arti, le scienze e la filosofia; in alcuni casi sembra addirittura anticipare alcuni studi e scoperte scientifiche degli anni seguenti (in La pubblicità celeste, ad esempio, Villiers immagina il cielo notturno trasformato in uno schermo su cui proiettare le inserzioni pubblicitarie dei commercianti). Con Villiers, invenzioni recenti sono al servizio di enigmi misteriosi (abbiamo già precisato che Bonhomet, per scrutare gli occhi di Claire, utilizza l’oftalmoscopio, e cioè uno strumento ottico ideato da Hermann von Helmholtz solo nel 1851); scienziati veri o fittizi diventano protagonisti di romanzi (in L’Ève future, pubblicato nel 1886, l’inventore del fonografo, Thomas Edison, costruisce un automa elettrico dalle forme femminili, la prima ‘andreide’ di tutti i tempi). Dunque, sia in Boito che in Villiers, la scienza – reinterpretata in modo personale e originale – è al servizio delle dinamiche narrative e legata al tema della malattia fisica che, come abbiamo avuto modo di sottolineare in precedenza, dona una prospettiva nuova ai due racconti. In entrambi i casi la patologia visiva, legata al senso di colpa derivante da una passione amorosa (il narratore di Boito collega il suo scotoma alla morte di Teresa e al conseguente suicidio di suo padre, episodi dei quali si sente profondamente responsabile; le visioni terrificanti della cieca Claire sono invece frutto del progetto vendicativo del marito che ha tradito), costituisce una porta per l’interiore, una sorta di primo ingresso verso l’invisibile, quel “buco della serratura” attraverso il quale il dottor Bonhomet riesce, alla fine del racconto francese, a scrutare “l’Infinito”.13 Il male corporeo (strettamente legato al male dell’animo) apre dunque a una realtà ultraterrena ed ha una forte ripercussione non solo sulla fisicità dei protagonisti, ma anche sul loro status psicologico ed emotivo. Entrambi i testi, infatti, offrono ritratti di personaggi intelligenti e consapevoli, ma inermi dinanzi a situazioni patologiche inspiegabili. È il caso di Claire, l’eroina villeriana, affetta da deficit visivi degenerativi sin dalla giovinezza, come raccontato da Bonhomet nella descrizione della donna: “La sua vista, già debole di natura, si era profondamente alterata, e presto il verdetto unanime dei medici l’aveva condannata ad una precoce cecità.”14 A differenza di Boito che parla di scotoma, Villiers non fornisce nessun termine scientifico per denotare questa malattia. Tuttavia, già l’ossimorico nome, Claire 13
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A. de Villiers de l’Isle Adam, Claire Lenoir, cit., p. 119: “Il me semblait que, seul entre les vivants, j’allais, le premier, regarder dans l’Infini par le trou de la serrure” (“Mi sembrava che, solo tra i viventi, stavo per guardare, per primo, nell’Infinito attraverso il buco della serratura”, trad. mia). Ivi, p. 41 (trad. mia).
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Lenoir, che dà anche il titolo al racconto, è esplicativo dei disturbi visivi di cui la donna soffre: Claire vive nell’oscurità, nel buio, in francese dans le noir, proprio perché privata a poco a poco del senso della vista. È però una donna colta e illuminata (‘Claire’ in francese significa appunto chiara) e ha, tra l’altro, il dono di vedere oltre, di percepire quello che gli altri non vedono. La malattia, che cerca di celare con dei grandi occhiali azzurri, sembra dunque averle donato una sensibilità maggiore. Questo aspetto si manifesta anche nel modo stesso in cui Claire si rapporta al suo malessere: a differenza del narratore di Boito, ossessionato e inquieto a causa della sua macchia grigia, la protagonista di Villiers sembra accettare serenamente il progredire della sua cecità. La malattia, infatti, si impossessa di lei dolcemente, senza tormentarla (essa diventerà insopportabile solo dopo il decesso di suo marito, il quale strumentalizza i disturbi visivi della donna per punirla del tradimento consumato e attuare la sua crudele vendetta personale). Ciò accade perché in Claire la fisicità non è predominante né devastante, come lo è, al contrario, per Teresa. Claire Lenoir è una donna spirituale, colta e sognatrice, la cui fragilità interiore si riflette nel suo sguardo, specchio della sua anima: Aveva i capelli castani; la fisionomia bella; il colorito di un candore di giada e di una trasparenza talvolta quasi luminosa. […] Gli occhi erano di un verde pallido. Delle passeggiate tra le montagne e le rocce avevano esposto le sue pupille – le sue grandi pupille! – al vento sabbioso e ardente che viene dal Sud. […] Claire, la bella Claire, era […] una donna di raccoglimento e di studio: una metafisica […]. Una saggia! Una creatura impossibile! Un’estatica! Un’argomentatrice! Brava con le parole! Una sognatrice.15
Siamo dunque al cospetto di un personaggio mediano che oscilla tra la salute e la menomazione, tra la bellezza fisica e quella dell’animo, un animo puro, che tuttavia si macchierà col peccato dell’adulterio. Il suo sguardo, sempre più spento, sarà rapito dal tenente Clifton che riuscirà a distogliere la donna dalla fedeltà coniugale (si può parlare, relativamente a questo episodio, di una prima forma di accecamento metaforico: Claire è accecata dalla passione per il tenente e, quindi, tradisce il suo sposo). In seguito, il marito tradito rapirà i suoi occhi malati, mettendo in pratica la sua vendetta dall’aldilà, con visioni e immagini inquietanti che tormenteranno a lungo la donna, fino alla morte (siamo dinanzi alla seconda forma di accecamento, molto complessa in quanto si tratta di una cecità visionaria: realmente cieca rispetto alla realtà che la circonda, Claire può vedere cose che i vedenti non possono percepire né comprendere). Villiers riesce, in questo modo, a collegare il mondo reale con quello ultraterreno, a far irrompere l’irreale in un tranquillo idillio familiare, ad unire il tema della malattia a quello delle visioni, a scrivere una delle più belle pagine della letteratura fantastica. Gli occhi malati aprono a Claire le porte del trascendente e fanno entrare questo personaggio nella lunga tradizione dei ciechi visionari, che trae le sue origini nel mito omerico. Occhi malati, ma immortali: due lacrime, infatti, scorrono sul viso di Claire quando la donna è ormai morta, simbolo dell’avvenuto pentimento, della sofferenza provata e di un animo profondo che tenta ancora di palesare la sua fragilità attraverso quegli occhi tanto speciali, che delineano la tensione drammatica lungo tutta la novella. Bonhomet resta impietrito 15
Ivi, pp. 40–41 (trad. mia).
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dinanzi a queste lacrime che sgorgano e scorrono “lentamente, pesantemente, sulle guance livide” nel momento in cui la morte comincia “ad avvolgere con le sue ombre profonde questi Occhi”.16 Il particolare delle lacrime ci permette un ulteriore accostamento con il personaggio femminile di Boito, di cui abbiamo già in precedenza delineato i tratti principali. Claire e Teresa sono due donne molto diverse: l’una colta e raffinata, la cui bellezza sembra spuntare timidamente dietro agli occhiali usati non solo per correggere i suoi disturbi visivi, ma come una sorta di maschera, un modo per isolarsi dal mondo terreno e proiettarsi in un universo spirituale (quando la sua completa spiritualizzazione giungerà al termine, Claire distruggerà quegli occhiali, con le sue stesse mani); l’altra fisica e passionale, assetata d’amore vero e carnale. Nel momento triste dell’abbandono, Teresa “continuava a guardare con gli occhi senza lagrime” il suo innamorato; la donna non manifesta il suo dolore attraverso il pianto, ma in una triste cantilena: Lo so che non torni più, lo so che non torni più. […] Non torni più; lo sento qui nel cuore che non torni più.17
La passione ha trasformato la donna in una ‘veggente’ (come Claire, Teresa vede oltre la realtà e intuisce che, a dispetto delle sue promesse, il narratore non tornerà più da lei) e, solo quando il suo presagio si avvererà, gli occhi di Teresa esprimeranno il suo reale stato d’animo, tuttavia non attraverso le lacrime, ma in absentia. Diventeranno, infatti, occhi vuoti, senza vita, ciechi come quelli di Claire, occhi che non riescono più a percepire la realtà (“gli occhi spenti fissavano innanzi senza vedere”18): la donna, a distanza di un mese, non si accorge del ritorno del suo amato che, vigliaccamente, scappa via per la seconda volta. Il narratore, nel racconto di Boito, interpreta il ruolo del tombeur de femmes: seducendo Teresa, egli sconvolge la vita solitaria e laboriosa che la ragazza conduceva insieme a suo padre e provoca ad entrambi la morte. Lo stesso binomio seduttore/donna sedotta si ritrova nel racconto francese: qui il seduttore è il tenente inglese Henry Clifton, che stravolge l’idillio familiare dei coniugi Lenoir. Accecata metaforicamente dalla passione, Claire cade nella trappola dell’adulterio e sarà poi letteralmente resa cieca dal senso di colpa, dal dolore e dalle mire vendicative di suo marito. Nelle due storie l’amore induce ad un duplice tormento, dell’animo e della vista: gli occhi, gli organi sensoriali che svelano la presenza dell’altro, che fanno sì che colei che vede e poi si innamora, percepisca la fisionomia e il fascino del suo seduttore, sono in entrambi i racconti veicolo di dolore e di pentimento, di tormento e di punizione, e più volte vi si fa riferimento nella descrizione di personaggi e stati d’animo.19 16 17 18 19
Ivi, p. 122 (trad. mia). C. Boito, Macchia grigia, cit., p. 139. Ibidem. Molti racconti di Villiers insistono sul ruolo simbolico della vista e sulla sua funzione metafisica, in particolare il racconto crudele Vox Populi con il suo mendicante cieco che invoca instancabilmente la pietà dei passanti; così come alcune riflessioni metafisiche di Edison ne L’Ève future (il capitolo XII, Les yeux de l’esprit, si oppone a quello successivo, Les yeux
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La cecità e il senso di colpa sono, dunque, due tematiche strettamente legate nelle due opere oggetto della nostra analisi. Se vi è una colpa, una malattia, diventa indispensabile la figura di colui che ha il compito di fornire delle cure e di individuare le cause del degrado psico-fisico della persona affetta da tale patologia. La sfida narrativa consiste nel vedere, in che misura, una sorta di voce autorevole di una scienza che è diventata adesso scienza dell’umano riesca a individuare una soluzione al male. Per questo motivo, entrambi i racconti introducono la figura chiave del medico, il curatore, il liberatore dal male. Prima di concludere vogliamo dunque riferirci a questo personaggio quasi come sintesi della dialettica malattia-sforzo-guarigione. Il medico, una delle figure più emblematiche della letteratura del XIX secolo,20 è il destinatario dell’anamnesi spontanea del paziente-narratore in Boito; autore, invece, della lunga testimonianza immaginata da Villiers. Sul medico di Boito, al quale l’autore della lettera si rivolge più volte in maniera diretta, si hanno pochissime informazioni. Si sa che è un esperto di oftalmologia e che, proprio come Bonhomet, utilizza strumenti scientifici sofisticati. Si legge infatti nell’incipit del racconto: Questa macchia grigia, ch’io vedo dentro ai miei occhi, può essere la cosa più comune della vostra scienza oculistica; ma mi dà gran fastidio, e vorrei guarire. Esaminerete con i vostri ordigni eleganti, quando verrò costà tra una quindicina di giorni, cornea, pupilla, retina e il resto.21
Abbondano, invece, le informazioni su Bonhomet che, nelle prime pagine del racconto francese (il cui sottotitolo è, significativamente, Memorandum del dottor Tribulat Bonhomet membro onorario di diverse accademie professore di filologia riguardante il misterioso caso della discreta e scientifica persona signora vedova Claire Lenoir), descrive in maniera dettagliata la sua professione, il suo aspetto fisico, le sue attitudini morali e l’essenza della sua natura. Tra le tante informazioni, nel pomposo autoritratto che il medico fa di sé, autocelebrando le sue doti e le sue virtù, c’è un particolare molto rilevante che anticipa, nel primo capitolo, tematiche e conclusioni dell’intero racconto: Ciò che è importante constatare, è che lo spirito di analisi, di ingrandimento, di esame minuzioso è la vera essenza della mia natura, a tal punto che tutta la mia gioia di vivere confluisce nella precisa classificazione degli esseri viventi più fragili, dei grovigli più strani, simili ad un
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physiques). Anche il tema della cecità ritorna in più racconti, come in Les filles de Milton, in cui il poeta, vecchio e cieco, detta alle figlie il suo testamento spirituale (vedi F. Cipriani, Villiers de l’Isle-Adam e la cultura del suo tempo. Il poeta, la donna e lo scienziato, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2004). In Macchia grigia, invece, la parola ‘occhi’ apre e chiude il racconto: “Questa macchia grigia, ch’io vedo dentro ai miei occhi […]”, p. 133; “O guarisco o mi strappo gli occhi”, p. 188. Il personaggio del medico gode in letteratura di una duplice essenza: in alcuni casi rappresenta l’incarnazione umana della saggezza, ovvero una figura quasi idealizzata di onnipotenza e grandezza; in altri è un ciarlatano, oggetto di critica o satira virulenta a causa del suo essere pretenzioso, della tendenza ad abusare della sua autorità, della formulazione di diagnosi errate o di operazioni fallite. Nel XIX secolo, momento di trionfo assoluto per la scienza, il medico è un personaggio colto, che utilizza il più delle volte moderni strumenti d’indagine e una precisione terminologica sconosciuta ai suoi colleghi del secolo precedente. C. Boito, Macchia grigia, cit., p. 133.
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sistema di scrittura antico, che si trovano nei nervi dell’insetto, nel fenomeno della percezione degli orizzonti, che risultano immensi a seconda delle proporzioni della retina in cui si riflettono! La realtà diventa dunque visionaria – e io sento che, con il microscopio in mano, entro a piè pari nel mondo dei Sogni!…22
Artefice del matrimonio tra i coniugi Lenoir, narratore e testimone oculare di tutti gli ‘eventi tenebrosi’ raccontati, Bonhomet si vanta dunque di possedere doti percettive straordinarie: le sue innate capacità sono inoltre state perfezionate da anni di studi e ricerche, che gli permettono, tra l’altro, di utilizzare vari strumenti ingegnosi con destrezza e facilità. In realtà, questo dio della scienza è il vero personaggio cieco del racconto, colui che non riesce a vedere al di là delle sue convinzioni e dei suoi dogmi, un saggio tenebroso, ottuso, testardo, che arriva a profanare il cadavere di una donna-amica perché spinto dalla sua brama di scoprire le cause di tutto ciò che accade nel mondo, e di voler dare una spiegazione logica ad ogni evento. Vittima del suo masochismo intellettuale, Bonhomet incarna angosce e ossessioni tipiche del XIX secolo, periodo in cui la scienza ha perso il suo primato assoluto e deve soccombere dinanzi all’irruzione di una realtà spirituale (personificata nel personaggio di Claire) nel mondo positivo. La sua scelta di mettere per iscritto quanto ha vissuto, raccontando così una storia capace di turbare anche i vecchi uomini di legge, nasce da due motivazioni: la prima è la richiesta di amici, desiderosi di conoscere tale racconto; la seconda è il bisogno di attenuare il malessere insolito e soffocante che lo opprime in seguito a quanto accaduto. Per Bonhomet la scrittura ha, dunque, un fine terapeutico: egli non attende una risposta alla sua testimonianza, come il narratore di Boito, e non è affetto da nessuna malattia a livello fisico. Ciò che l’affligge è la caduta dei suoi ideali e delle sue certezze; ciò che si aspetta è una guarigione morale e spirituale, attraverso la liberazione della sua mente e del suo animo da un peso troppo grande e lacerante. Alla fine del primo capitolo, il medico dichiara che comporrà uno scritto breve e veritiero, e che il lettore è libero di interpretare la sua opera come meglio crede. Tale premessa però non sarà affatto rispettata: il racconto, infatti, si compone di 20 capitoli, ricchi di riflessioni filosofiche, e tende ad assomigliare ad un romanzo breve, piuttosto che a un conte (malgrado la sua particolare estensione, la critica letteraria francese tende a considerare l’opera una novella). Dopo tante digressioni, testimonianze e particolari che, talvolta, non hanno nessuna influenza nell’intreccio, l’opera giunge al suo termine senza alcuna spiegazione logica: difatti, l’unico punto di vista noto è quello del narratore, il dottor Tribulat Bonhomet. Il pubblico dovrà interpretare liberamente quanto letto, secondo uno dei topoi tipici della letteratura fantastica.23 22 23
A. de Villiers de l’Isle-Adam, Claire Lenoir, cit., p. 29 (trad. mia). Tzvetan Todorov, uno dei maggiori esponenti dell’analisi critica sulla letteratura fantastica del XIX secolo, scrive che la prima condizione del fantastico è l’esitazione del lettore il quale, dopo aver letto il racconto o romanzo, tituba nel riconoscere quanto accaduto e raccontato come reale o soprannaturale (il fantastico dura solo il tempo di tale esitazione). La seconda ipotesi presuppone che il personaggio del racconto possa provare la stessa esitazione; la terza (non obbligatoria) prevede che l’esitazione sia rappresentata nell’opera (T. Todorov, Introduction à la littérature fantastique, Paris, Editions du Seuil, 1970). Affinché si possa parlare di
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Osservando, a questo punto della nostra analisi, la prospettiva architettonica dell’opera di Boito, ci accorgiamo di alcune analogie con la novella francese che, a nostro avviso, sono importanti per completare lo studio comparativo, finora condotto soprattutto in relazione all’aspetto contenutistico. Numerose digressioni e lunghe descrizioni di paesaggi tendenti al lirismo rallentano il ritmo di Macchia grigia, così come avviene in Claire Lenoir soprattutto in virtù del lungo dibattito ideologico tra i tre personaggi principali. Il narratore di Boito, tuttavia, appare più onesto di Bonhomet in quanto, all’inizio del suo scritto, annuncia apertamente un racconto ricco di dettagli, che possano permettere al medico di comprendere bene le cause del suo problema e di guarirlo: Vi dirò dunque in quali circostanze mi si è manifestata la malattia, che dovete guarire. E, abbiate pazienza, lo dirò nei più indifferenti particolari, giacché so come da una di quelle inezie, le quali sfuggono all’attenzione dei profani, voi scienziati potete cavare la scintilla, che rischiara poi le verità più riposte.24
Diverse sono anche le motivazioni che lo hanno indotto alla scrittura; egli dichiara di aver scritto le sue confessioni di getto, una sera, prima del tramonto, e di non aver avuto né il tempo né la luce necessari per poterle rileggere: Il sole è già tramontato, e la scrivania rimane in una penombra, che mi basta a gettare sulla carta in furia queste parole, ma che non mi lascerebbe rileggerle. Volevo finire prima di accendere il lume, e la macchia si giova della mezza oscurità per lacerarmi il cervello.25
Come Claire e Bonhomet, anche il narratore di Boito è costretto alle tenebre, il che fa nascere in lui un malessere sempre più profondo e una rabbiosa voglia di riscoprire la luce, luce che simboleggia la verità, e il candore di un animo ripulito dalla macchia del peccato. Manca però anche qui, come nel racconto insolito di Villiers, un finale esplicativo e il lettore non scoprirà mai se la vista e la coscienza dell’‘assassino’ di Teresa e di suo padre sono state smacchiate. Abbiamo, dunque, rilevato in questo studio comparativo numerose analogie tra due opere che abbiamo inizialmente definito lontane, accorciando così le distanze tra i due racconti e i rispettivi autori. Il trait d’union principale è che il male, in entrambe le storie narrate, nasce da una coscienza sporca, macchiata da un peccato di tipo passionale. La colpa, inoltre, si manifesta attraverso disturbi visivi che svelano ai protagonisti universi misteriosi, che si situano oltre la realtà visibile e scrutata dalla scienza. Spetta al lettore l’interpretazione degli avvenimenti narrati, in entrambi i manoscritti; sarà colui che legge a decidere se credere o meno a colui che racconta, rispettivamente il malato nella novella italiana, e il medico nel conte francese. In entrambe le opere, dunque, la deficienza fisica deriva dalla malattia dell’animo; il reale si fonde e si confonde con il surreale e la colpa si espia attraverso gli occhi, sulla cui retina resta scolpita l’immagine del peccato commesso.
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fantastico è necessaria, inoltre, la presenza del reale, in quanto il fantastico si manifesta d’improvviso in situazioni banali e tranquille (R. Caillois, Anthologie du fantastique, Paris, Gallimard, 1966). C. Boito, Macchia grigia, cit., pp. 135–136. Ivi, p. 152.
II BOITO TRA LETTERATURA E ARTI
COSTRUTTI SPAZIALI NE IL MAESTRO DI SETTICLAVIO DI CAMILLO BOITO Viola Stiefel Situato nello “scenario d’eccezione”1 di Venezia, l’ultimo racconto di Camillo Boito, Il maestro di setticlavio (1891), gioca abilmente con le immagini e le atmosfere della città2 servendosi di descrizioni dettagliate di ambienti ed emozioni. Talvolta il lettore ha perfino l’impressione di trovarsi lui stesso in mezzo all’animata città lagunare, per esempio durante la rappresentazione figurativa della sagra del Redentore. Questa maniera di scrivere, l’arte di poter suscitare immagini mentali vive, fa direttamente pensare all’architetto Boito, secondo il quale, per citare una fortunata espressione di Chiara Cretella, “scrivere è costruire”.3 Facendo riferimento a tale tipo di scrittura architettonica, questo saggio è dedicato all’analisi dei costrutti spaziali all’interno del Maestro di setticlavio. Oltre l’importanza dei concetti ‘classici’ in relazione allo spazio letterario, anche la portata di quello sociale è considerevole. Visto che il racconto, malgrado l’ambientazione nella scena artistica, contiene una componente economica di natura particolarmente considerevole, presenteremo un’analisi della situazione attraverso il modello dello spazio sociale secondo il sociologo francese Pierre Bourdieu. La domanda che ci porremo sarà dunque se la situazione economica dei protagonisti e il loro posizionamento nello spazio sociale determini, sul piano narratologico, non solo il reddito materiale, ma anche la vita in generale. In linea con questo schema teorico, esamineremo dapprima i concetti spaziali evocati da Boito, cioè la strutturazione del racconto insieme allo sviluppo psicologico dei personaggi principali, ed in seguito ci concentreremo sull’opposizione ed il reciproco concatenarsi di spazi chiusi e aperti. Nella seconda parte del nostro intervento, tratteremo la teoria dello spazio sociale di Bourdieu e la sua applicazione nel racconto di Boito. Partendo dal modello del sociologo francese, riteniamo infatti che le strutturazioni dei modelli interpersonali nello scritto boitiano meritino una lettura adeguata alla luce di questa prospettiva teorica.
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M. C. Mazzi, Nota introduttiva, in: C. Boito, Gite di un artista, Roma, De Luca Edizioni d’arte, 1990, p. XXXI. Cfr. R. Bertazzoli, Introduzione, in: C. Boito, Senso. Storielle vane, Milano, Garzanti, 1990, p. XVIII. C. Cretella, La struttura architettonica della narrativa boitiana, in: S. Costa, M. Dondero, L. Melosi (a cura di), Le forme del narrare. Atti del VII Congresso Nazionale dell’ADI, Macerata, 24–27 settembre 2003, Firenze, Edizioni Polistampa, 2004, p. 782.
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1 IL CONCETTO SPAZIALE DI BOITO NEL MAESTRO DI SETTICLAVIO Struttura del racconto ed evoluzione psicologica Il racconto è suddiviso in otto parti che seguono una struttura quasi drammatica. Le parti I e II presentano da un punto di vista introduttivo i protagonisti e la situazione economica rispettiva, il che ci consentirà in seguito di tracciare un parallelismo con le teorie di Bourdieu. In queste due prime sezioni il racconto verterà su alcuni eventi chiave come, ad esempio, la proposta di matrimonio che il severo nonno della protagonista Nene, il Maestro Chisiola, seccamente rifiuta. Già in questi primi passaggi sarà possibile intravedere quel concatenarsi di situazioni sfortunate e di affetti disordinati che condurranno al tragico finale della morte di Nene. Le parti III e IV rappresentano la crescita morale ed esistenziale dei personaggi: ha luogo il primo concerto della giovane Nene ed il maestro di musica Luigi Zen, disperatamente ancorato alla tradizione musicale passata ed al metodo del setticlavio che la incarna, verrà dipinto nella sua crisi professionale ed umana iniziale; crisi che – nel racconto – andrà ad assumere connotati sempre più violenti fino a portare lo stesso maestro Zen alla rovina.4 La parte V, la prima grande svolta narrativa, ci introduce nella scena della ‘sagra del Redentore’, grande festa durante la quale incomincia a costruirsi la drammatica relazione tra Nene ed il tenore Mirate. Le parti VI e VII, ossia il ritorno nel dramma, mostrano il cambiamento interiore della protagonista femminile che giunge al suo apice nella scena della Messa per musica nella Basilica di S. Marco, evento esterno calato nel dramma interno di Nene che, vedendo il suo amato fuggire per sempre, subisce un colpo che si rivelerà poi mortale. L’ultima parte corrisponde infine alla catastrofe: la morte di Nene ed il fallimento materiale e spirituale del maestro del setticlavio paiono congiunti in una spirale che, ormai, si è risolta nel peggio. Per mezzo di quest’arco del racconto, ispirato alla forma aristotelica, vien costruendosi una certa suspense drammatica fin dall’inizio. Tuttavia, l’azione è così anche prevedibile di modo che, seguendo sempre i principi poetici di Aristotele, il lettore possa a sua volta inserirsi in maniera partecipe all’interno della vicenda. Presentando una vera e propria costruzione delle sue parti, a cui precede un intento sistematico preciso di pre-comprensione della struttura drammatica, possiamo identificare qui una tipica modalità narrativa di Boito che è quella di anteporre un progetto effettivamente architettonico che, seguendo uno schema determinato, può esser letta come progetto di costruzione narrativa in vari strati e livelli. Il fatto che l’insieme delle azioni dei personaggi sia artisticamente intrecciato rende possibile seguire le parti drammatiche parallelamente, come per esempio lo sviluppo e la caduta, simultanee agli eventi intorno a Nene e a Zen. L’azione principale non è, tuttavia, la descrizione della relazione dei giovani cantanti Nene e 4
Il personaggio dello Zen potrebbe essere un riferimento a Luigi Plet, maestro di musica dei fratelli Boito. Cfr. per esempio R. Bertazzoli, Introduzione, cit., p. XVIII.
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Mirate, ma quella di cornice del maestro Zen, già segnalato dal titolo del racconto e che porta, come filo conduttore, alla comprensione di una sorta di annichilimento parallelo, per molti tratti diverso, di Nene e del maestro del setticlavio. Il secondo ricoverato in un manicomio, ormai folle per aver perso il suo capitale materiale e, insieme, la sua reputazione artistica; la prima morendo in seguito alla relazione travagliata con il tenore Mirate. Si potrebbe considerare questa specie dell’azione come “motivo di predominio dell’entità fisica”,5 o, come sostiene Chiara Cretella, sottolineare l’aspetto soprannaturale della narrativa boitiana: In Boito il soprannaturale alberga nel cuore dell’uomo, con i suoi vizi e le sue contraddizioni. Nel suo mondo è possibile morire di una febbre fulminante o consunti dal dolore di una perdita (le malattie sono solo la punizione che l’uomo s’infligge per autopunirsi) […].6
Un altro elemento centrale per la strutturazione del racconto è l’evoluzione psicologica e comportamentale dei personaggi, che serve anche a ribadire il carattere drammatico dell’intreccio. L’evento si sostanzia attraverso il ricorso ad un motivo di cambiamento, questo in larga parte dovuto ad una prospettiva tutta intima ai personaggi, che impone loro di confrontarsi e subire l’influenza di tensioni, inganni, rivelazioni e, in ultimi, di relazioni (fisiche o morali) fallite. Mirate, il giovane tenore, è nato in condizioni modeste: “Figlio d’un gondoliere e d’una lavandaia, era stato egli pure barcaiuolo di traghetto. Cantava a orecchio […]”.7 Nonostante non sia un profondo conoscitore della teoria musicale, mostra già dall’inizio del racconto un atteggiamento superbo e baldanzoso – spesso a scapito dei genitori: Il padre e la madre del futuro grand’uomo, per soccorrerlo di qualche soldo, raddoppiarono il lavoro: quegli al traghetto, assumendo spesso il servizio dei compagni, questa al mastello, ove stava a lavare anche buona parte della notte.8
Questo comportamento si ripete e si aumenta in itinere; Mirate si rappresenta ormai come un cantante celebre e, spinto dalla vanagloria, si lascia andare ad atteggiamenti e modi di fare moralmente discutibili: Egli [Mirate] di giorno in giorno gonfiava sempre più, e diventava nervoso. […] Lo stanzino, ch’egli occupava accanto alle due cameracce terrene dei genitori, non era più sufficiente alla sua voce ed alla sua persona […]. Si trovò dunque una buona stanza nel centro […]. Da allora in poi andò tre volte la settimana dal barbiere, desinò all’osteria, mutò compagni, frequentò donne galanti, si vergognò della madre e del babbo, che faceva passare per la propria stiratrice e per il proprio lustrino, e che andava di tempo in tempo a vedere con la speranza di spillare qualcosa.9
È di particolare interesse notare che, in questo passaggio, Mirate sembra scegliersi modi di vivere che vanno palesemente al di là delle sue possibilità materiali e che, come il lettore stesso già intuisce, saranno la causa principale dei suoi problemi futuri. Questo accenno al legame fra situazione economica da un lato e progetto 5 6 7 8 9
A. Ferrini, Invito a conoscere la Scapigliatura, Milano, Mursia, 1988, p. 89. C. Cretella, Struttura architettonica, cit., p. 784. C. Boito, Il maestro di setticlavio in: Id., Senso. Storielle vane, Milano, Garzanti, 1990, p. 154. Ivi, p. 155. Ivi, p. 156 (corsivo mio).
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esistenziale dall’altro, costituisce a nostro avviso un importante riferimento – che più avanti espliciteremo – alla teoria sociologica di Bourdieu. Per ciò che concerne Nene, il suo cambiamento si manifesta esclusivamente in rapporto con Mirate oppure dopo i loro incontri. Prima di conoscerlo personalmente, gli occhi del tenore “neri insolenti […] le facevano abbassare lo sguardo con un senso di strano timore.”10 Dopo un primo nervosismo, questa ragazza di natura spensierata e poco incline alle passioni eccessive, arriva a provare sentimenti a sé stessa persino oscuri: “ardori ancora vaghi ed oramai irresistibili.”11 Il segno più evidente dell’inizio del cambiamento della ragazza causato dal giovane tenore è reso manifesto, da una parte, da un’irascibilità brusca e minacciosa nei confronti del nonno12 e, dall’altra parte, dal suo comportamento nel privato del proprio giardino di casa: Passeggiava nell’orto, anche durante le ore più infuocate di quell’estate caldissima, sbadigliando, aspirando con le larghe narici del naso leggermente camuso gli effluvi acri e salsi del vicino canale, ed i profumi dei fiori, mezzo disseccati nei loro vasi, perché ella non si curava più di mondarli né di adacquarli. Non le piaceva l’olezzo delicato della vaniglia, dei gerani, dei pelargonii, dei gelsomini, degli amorini; preferiva, da poco, l’odore inebriante della gardenia, del garofano, della tuberosa.13
Insieme al fatto che non pensa più al lavoro manuale in giardino, anche il suo olfatto sembra essere cambiato, che, quasi allineandosi ai suoi sentimenti percependo odori ugualmente acri, forti e sgradevoli, fa pensare alla percezione sensuale e decadente della lirica baudelairiana oppure più generale della fin de siècle. Anche le corrispondenze dell’ambiente e delle emozioni14 rientrano in questo campo: di ritorno dalla sagra del Redentore che, ricordiamo, costituisce il momento apicale in cui in Nene viene risvegliata una strana passione per Mirate, non soltanto si ascolta il nonno di lei suonare una marcia funebre al pianoforte, ma i segni di un imminente temporale già preannunciano un futuro sommovimento interno di pari forza e distruttività.15 In senso contrario a questo sviluppo preoccupante, Nene conosce nello stesso tempo un sentimento di apparente felicità e affidamento. Prigioniera della propria illusione ingenua, sogna sé stessa in un mondo soltanto immaginato, ove ai suoi sentimenti corrisponde una gioia ormai piena che la sognatrice interpreta come una lieta vita matrimoniale prossima; dopo il primo concerto e dopo il primo vero incontro con il tenore, Nene emana “quella sua nuova espressione di fermezza e di
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Ivi, p. 159. Ivi, p. 161. Cfr. ivi, p. 173. Ivi, p. 162 (corsivo mio). V. anche C. Cretella, Struttura architettonica, cit., p. 783: “La natura e l’ambiente, con le sue sfumature architettoniche sono, nelle novelle di Boito, specchio dell’anima di chi le abita. Riflettono i loro cambiamenti, i turbamenti, le loro sensazioni”. Cfr. C. Boito, Il maestro di setticlavio, cit., pp. 178–180. Questa corrispondenza è ancora visibile dopo la gita notturna allo scopo di vedere la camera di Mirate, la quale non piace a Nene. Di seguito, tutto il giardino sembra afflitto insieme con la ragazza (p. 182).
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contentezza”,16 e la mattina dopo la sagra del Redentore, malgrado tutti i presagi negativi, ha ormai lasciato da parte il nervosismo passato.17 Lo sviluppo psicologico dei personaggi di Zen e del personaggio del soprano, ancora più di quello di Mirate, è strettamente legato alla loro situazione economica. Poiché questa è analizzata nel capitolo dedicato a Bourdieu, anche lo sviluppo di Zen e del soprano sarà in quel luogo evidenziato. Spazi centrali e secondari, spazi chiusi e aperti Tenuto da parte il ruolo eminente della città di Venezia come scenario e impressione generale, gli spazi centrali del racconto sono la basilica di San Marco e la casa di Annibale Chisiola e della sua bisnipote Nene. La città fa già parte dello scenario di apertura dell’azione, durante la quale non sono soltanto menzionate la Piazza e la Basilica di San Marco per rendere chiaro dove ci troviamo, ma lo stesso maestro Zen viene caratterizzato a partire dall’immagine della città; ed è quasi in relazione intima con essa quando viene definito un “veneziano puro e pretto”.18 Nella Basilica, naturalmente emblema per eccellenza della Serenissima, hanno luogo diverse prove d’orchestra e, al termine della storia, la prima esecuzione della nuova Messa per musica, che farà da contesto drammatico per il finale dell’azione. Un ruolo centrale è rappresentato dalla cappella di San Clemente, luogo denso di significati per Nene, quasi un ritiro, descritto sovente con tratti psicologici tendenti alla cupezza e alla rassegnazione. Luogo emblematico dell’attesa e della chiusura, è lì che Nene aspetta il nonno impegnato nella cantoria, di solito sedendosi “in un angolo buio […] e rimanendo con gli occhi bassi”.19 Gli spazi secondari che compaiono sono la scuola di canto dello Zen, la stanza di Mirate nel centro e infine qualche calle o caffè di Venezia. Questi luoghi sono per lo più soltanto menzionati e non descritti. Vale la pena menzionare il fatto che la stanza di Mirate è l’esempio in cui psicologia dei personaggi e spazialità si uniscono; infatti è questa stanza ad essere giudicata con sospetto e generale, negativo riserbo da Nene, dopo la sua gita notturna.20 Nene, al contrario degli altri personaggi, come ragazza vissuta sempre tra le eccessive cure parentali, ha un rapporto estremamente diverso con lo spazio dell’azione e con la città in quanto tale. La vediamo spesso rifugiata in spazi chiusi e angusti, come ad esempio il giardino di casa oppure la cappella in S. Marco. Solo due volte si mostra in pubblico senza l’accompagnamento del maestro Chisiola:21 16 17 18 19 20 21
Ivi, p. 167. Benché il suo aspetto denoti ancora un’altra cosa: mentre un “triste pallore” (ivi, p. 178) è già visibile dopo l’appuntamento amoroso con Mirate durante la festa, la mattina seguente anche i suoi occhi sembrano “infossati” (ivi, p. 180). Ivi, p. 148. Ivi, p. 153. Cfr. ivi, p. 182. V. anche ivi, p. 160: “Non usciva con altri che con lui […]”.
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la prima durante la sagra del Redentore, la seconda nella notte in cui fa visita al suo amante nel suo appartamento. Questi spostamenti autonomi di Nene, questo suo girovagare in una realtà non più protetta dalle braccia familiari, rappresentano, nella prosa di Boito, i momenti dove – alla desolazione del personaggio vuoto nello spazio – corrisponde lo smarrimento a cui la ragazza andrà incontro. Se durante la sagra del Redentore, infatti, la giovane sentirà per la prima volta quel senso di spaesamento, di mancanza di equilibrio interno, causata dalla vista del tenore Mirate (ossia il senso di un innamoramento repentino e violento), nel secondo momento il senso di estraneità e di negatività esplode anche all’esterno; la visita amorosa al compagno, non passando inosservata, proietta a di fuori le paure e le oscurità di una relazione – giungendo fino al nonno di Nene sotto forma di dicerie, voci e pettegolezzi che amplificano il senso, ormai quasi comune, di confusione nell’anziano signore, scosso nelle sue fondamenta.22 Al contrario, Mirate, precedentemente barcaiolo, vive e agisce liberamente nello spazio. Abita in una camera in centro, è spesso invitato a mangiare “in grazia delle serenate, dei concerti di famiglia o delle orgie musicali tra scapoli”;23 occasioni, queste, che tramite la loro indeterminatezza spaziale conferiscono allo stesso personaggio un senso quasi di frenesia sfuggente, un sentirsi slegato da contesti e situazioni e che, come il mare – appartenente alla sua vita precedente, provoca un destino di allontanamento e di distacco. Questo punto rappresenta così quasi il destino di Mirate, un’allusione alla sua fuga finale e definitiva. Lo spazio sacrale è parimenti presente nel racconto boitiano, sia nella forma della solenne liturgia della Basilica di San Marco che in quella, più intima e rarefatta, del rifugio religioso e sepolcrale di Nene, una cappella che – in modo assai interessante – fa tuttavia parte di uno spazio unico, a tratti inseparabile. L’ambiente buio e stagnante di questo rifugio, ove Nene attende l’inizio della nuova Messa cantata, fa presagire e, per un verso, concretizza il sentimento di colpa che la protagonista sente come irrimediabilmente a sé legato. Nello spazio del sacro ciò acquisisce, a un tempo, significato e forma: tremende visioni bibliche e pensieri religiosi inquietanti fanno da cornice ad un disonore ormai ritenuto palese ed invincibile.24 Come abbiamo visto, la ragazza descrive per sé un altro luogo fortemente simbolico, un orto circoscritto dalle mura domestiche. Un hortus conclusus, luogo in senso proprio di purezza, rappresenta quel desiderio inestirpabile, in una certa misura in collegamento con la dimensione sacrale precedente, di trovarsi al riparo dal mondo esterno; un luogo ove i suoi pianti possono trovare consolazione e riparo, dove la sua coscienza ferita può finalmente trovare un ristoro morale efficace. Giardino che è, però, anche riferimento al vizio, al vizio capitale della vanagloria – quella concupiscenza di sé stessi che induce la ragazza a bearsi inerme al solo pensiero della relazione col tenore che, come mano a mano si avverte dalla lettura,
22 23 24
Cfr. ivi, p. 183, 189 e sgg. Ivi, p. 157. Cfr. ivi, p. 184.
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è più presupposta che reale, più rinchiusa – come il giardino25 – all’interno delle sicura muraglie della sua immaginazione.26 2 LO SPAZIO SOCIALE DI BOURDIEU NEL RACCONTO DI BOITO In questa seconda parte vogliamo illustrare la teoria dello spazio sociale del sociologo francese Pierre Bourdieu (1930–2002).27 Bourdieu sviluppa in essa un modello relazionale che raggruppa gli attanti secondo il loro capitale. Il modello permette, tramite una, a nostro avviso, valida analogia interpretativa, il posizionamento anche dei protagonisti boitiani nel campo sociale all’interno del racconto attraverso la loro situazione economica e il loro capitale culturale. Il grafico,28 che qui presentiamo limitato agli elementi essenziali, mostra il modello di Bourdieu in riferimento alla distribuzione relazionale del capitale economico e di quello culturale sull’asse delle ascisse, mentre l’asse delle ordinate specifica il volume del capitale in totale. L’insieme di tutti i tipi di capitale è, secondo Bourdieu, il capitale simbolico, cioè il prestigio legittimato di un attante.29 volume del capitale (+)
capitale culturale (+) capitale economico (–)
capitale economico (+) capitale culturale (–)
volume del capitale (–)
Lo spazio sociale secondo Bourdieu
La situazione economica di base nel Maestro di setticlavio è la seguente: gli artisti non possiedono capitale economico – Mirate, Zen e il soprano vivono in ambienti 25 26 27 28 29
Vedi anche C. Cretella, Struttura architettonica, cit., p. 784. Nella discussione sullo spazio sacrale s’inserirebbe anche il dibattito a proposito della nuova musica (religiosa) per la messa alla fine del racconto. (C. Boito, Il maestro di setticlavio, cit., pp. 182 e sgg.) Il modello è sviluppato nell’opera Leçon sur la leçon, Paris, Éditions de Minuit, 1982. Per una versione più dettagliata cfr. p. es. P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, il Mulino, 2001, p. 132 e sgg. Cfr. P. Bourdieu, Sozialer Raum und Klassen – Leçon sur la leçon, a cura di B. Schwibs, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1985, p. 11. Il grafico qui riportato è una mia rielaborazione di quello che si trova in M. Schwingel, Pierre Bourdieu zur Einführung, Hamburg, Junius, 62009, p. 108.
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molto semplici e solo il maestro Chisiola e Nene rappresentano un ambiente piuttosto artistico-borghese – mentre il loro capitale culturale è, ovviamente, grande. Nel grafico si trovano dunque sul lato sinistro dell’asse delle ascisse. D’altra parte ci sono parecchi possibili mecenati che possiedono un grande capitale economico – tra questi ottantasei, vi sono i presunti “azionisti”30 della scuola di canto dello Zen. Essi tuttavia non si mostrano mai nel corso del racconto, né mostrano interesse reale. Oltretutto solo una parte si mostra effettivamente disponibile a prestare un concreto soccorso economico.31 I due campi del grafico, quello con dominanza economica e quello con dominanza culturale, non hanno inoltre un rapporto tra loro predefinito o invariabile,32 elemento di straordinaria importanza ne Il maestro del setticlavio, poiché qualche artista (in questo racconto la figura inquietante del soprano) si è costruito una seconda fonte di reddito attraverso l’usura. Effettivamente, questo personaggio è situato dalla parte degli artisti, cioè ancora sul lato sinistro dell’asse delle ascisse. Ma transitoriamente si ritaglia una posizione sull’altro campo economico attivandosi come usuraio.33 Così acquista un certo capitale simbolico o, detto altrimenti, un certo potere simbolico,34 reso evidente dal suo desiderio di rendersi “indispensabile”:35 Questi [il soprano] non aveva nulla di comune con i rotondi soprani di cappella Sistina e di alcuni drammi di Metastasio: misero, verdastro, rachitico, era riuscito a produrre sei figliuoli brutti e cachetici, proprio il ritratto suo, e per i quali avrebbe coniato moneta falsa. Poco mancava in realtà che non ne coniasse: faceva di tutto. […] Ma la paga era magra, ed i figliuoli, benché mezzi storpi, avevano un appetito da lupi. S’appigliò alle anticaglie […]. Risparmiati un po’ di quattrini, li cominciò a prestare senza rischio a certi impiegati imperial-regi, o previo deposito di vecchi oggetti, che gli restavano spesso pel decimo del loro valore. Finalmente rischiò l’affare con Mirate, perché lo strozzino era lui.36
La situazione economica della famiglia del cantante, sempre in lotta per la sopravvivenza, è quindi disastrosa. Per guadagnare di più e acquistare un potere simbolico 30 31 32 33
34
35 36
C. Boito, Il maestro di setticlavio, cit., p. 164. Cfr. ibid. Cfr. J. Jurt, Bourdieu. Stuttgart, Reclam, 2008, p. 93 e sgg. In merito allo scenario boitiano, interessante anche il passo seguente: “On a ainsi des enjeux qui sont, pour l’essentiel, le produit de la compétition entre les joueurs; un investissement dans le jeu, illusio (de ludus, jeu): les joueurs sont pris au jeu, ils ne s’opposent, parfois férocement, que parce qu’ils ont en commun d’accorder au jeu, et aux enjeux, une croyance (doxa), une reconnaissance qui échappe à la mise en question (les joueurs acceptent, par le fait de jouer le jeu, et non par un ‘contrat’, que le jeu vaut la peine d’être joué, que le jeu en vaut la chandelle) et cette collusion est au principe de leur compétition et de leurs conflits.” (P. Bourdieu e L. Wacquant, Réponses. Pour une anthropologie réflexive, Paris, Éditions du Seuil, 1992, p. 73). Cfr. anche G. Göhler e R. Speth, Symbolische Macht. Zur institutionentheoretischen Bedeutung von Pierre Bourdieu, in: R. Blänkner, B. Jussen (a cura di), Institutionen und Ereignis. Über historische Praktiken und Vorstellungen gesellschaftlichen Ordnens, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1998, p. 17 e sgg. “Il concerto ebbe luogo in una sala offerta allo Zen per mezzo del famoso soprano, che tutti maledivano, ma che, lesto e ficchino com’era, o per via di prestiti o per altri servizi, si rendeva quasi sempre indispensabile”. (C. Boito, Il maestro di setticlavio, cit., p. 166.) Ivi, p. 154 e sg. (corsivo mio).
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maggiore, quale è quello dell’usuraio, il soprano stabilisce relazioni, a suo avviso fruttuose, con il maestro Zen e il tenore Mirate. Saranno queste relazioni, a nostro avviso interessanti per la nostra ricerca, quelle che getteranno una luce ancor più comprensibile sui personaggi e che, per tale ragione, ci apprestiamo ora ad analizzare. Due modelli di relazioni interpersonali La relazione fra il soprano e Zen corrisponde alla situazione classica dell’usura: un usuraio (il soprano, “lo strozzino”) sfrutta l’altro e approfitta della miseria e dell’ingenuità del debitore. Sempre più verso la fine, il racconto ci informa che i mezzi del maestro del setticlavio scarseggiano sempre più ma lui, appassionato della pura arte e per nulla preoccupato per questi affari materiali che, spera, si risolveranno da soli, lascia correre la questione. A tal proposito, si legga il dialogo di questo personaggio con il maestro Chisiola: – Bastasse almeno a pagare i tuoi debiti! – soggiunse il maestro Chisiola, sorridendo con tristezza. – Debiti ne ho parecchi, maestro; ma, per dire il vero, ci penso poco. A me basterebbe poter pagare la pigione delle due stanze ove tengo la scuola, e il nolo del pianoforte e della musica. Continuerei volentieri, come faccio da due mesi, a mangiare una volta al giorno pesce comperato dal friggitore e polenta annaffiata di un solo quartuccio di vino.37
È ancora il Chisiola a trovare le parole giuste per descrivere la peculiarità centrale del personaggio Zen, vale a dire la sua vita come “vittima del setticlavio”38 o più tardi come “martire della propria convinzione”.39 Il maestro Zen si dimostra soprattutto un idealista: La sua scuola è gratuita, ma lui non possiede niente, e alla fine rifiuta perfino un’offerta di lavoro perché non avrebbe potuto insegnare il suo metodo.40 Idealismo che confina con l’illusione: in questo modo possiamo sintetizzare la personalità esistenziale ed estetica di questa vittima della musica tradizionale. Ormai costretto a vendere i suoi beni per pagare i debiti, nel caso specifico il suo pianoforte, nemmeno quest’ultima situazione drammatica sembra interessarlo. Rintanato in una rappresentazione astratta della vita in vantaggio di una lotta per dei principi in cui nessuno più crede, si affida ingenuamente e senza difese al suo strozzino, senza avanzare alcuna obiezione anche di fronte alle scelte più radicali: “Di questi affari non capisco niente. Salvami la scuola: ti domando soltanto questo. Mi fido di te”.41 In questo modo, il fallimento dello Zen, già visibile in anticipo, è definitivo: 37 38 39 40 41
Ivi, p. 164 (corsivo mio). Ibidem. Ivi, p. 192. Cfr. ivi, p. 164 e p. 191 e sg. Ivi, p. 171.
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Viola Stiefel Non aveva più né pianoforte, né scuola, né casa, né un soldo in tasca; gli allievi lo scansavano, gli amici lo sfuggivano; viveva rintanato nel Caffè della Gloria, scrivendo il suo Trattato sul setticlavio, e mangiando quel poco che gli era offerto spontaneamente dagli avventori.42
Nondimeno, il racconto non si conclude solamente con il fallimento (o meglio sarebbe dire: la conferma del fallimento annunciato) dell’antico metodo del setticlavio e del suo tenace sostenitore, ma anche con quello del creditore, come adesso vedremo. Il secondo rapporto da approfondire nel contesto economico-sociale è quella tra il soprano e Mirate. Si tratta di una situazione ambivalente, influenzata in modo atipico da emozioni dell’usuraio nei confronti del debitore. Queste emozioni si manifestano nella dipendenza quasi unilaterale della relazione: […] [il] soprano, il quale, dopo avere snocciolato parecchie centinaia di svanziche, si sentiva incatenato al suo debitore assai più di quanto il debitore credesse di rimanere legato a lui.43
Benché Mirate sia la persona moralmente e finanziariamente legata nel rapporto di dipendenza, è solo il soprano che si sente legato, perfino “incatenato”. In un dialogo esemplare che segue, Boito descrive in modo ironico il decorso quasi rituale delle suppliche del tenore, mostrando la destrezza e “l’enfasi melodrammatica”44 del medesimo, alle quali il soprano non ha niente da opporre. Anzi, reagisce piuttosto in modo genitoriale e si arrende al giovane, considerandolo perfino, in buona fede, come una sorta di figlio: Ma nell’animo dell’altro [del soprano] era cresciuto un affetto quasi paterno e indulgente ed ansioso verso quel giovine, nel quale in principio non aveva veduto altro che l’utile vittima dell’usuraio […].45
Questo ‘figlio’, tuttavia, riesce a sfuggire senza pagare i suoi debiti – una situazione sicuramente non tradizionalmente riscontrabile nei rapporti creditore-debitore e che qui, diventata ingestibile data la forza emotiva che la sostiene, provoca il fallimento dell’usuraio.46 CONCLUSIONE Il maestro di setticlavio è un’opera fortemente caratterizzata da costrutti spaziali molto diversi. Mentre a Mirate, al soprano e a Zen è associabile una dominanza dello spazio economico / sociale, a Nene, unica protagonista femminile, è legato quello chiuso e sacrale.
42 43 44 45 46
Ivi, p. 190. Ivi, p. 156. Ivi, p. 157. Ivi, p. 159. La risposta del direttore di polizia alla denuncia che il soprano tenta portare avanti è laconica e inequivocabile: “So da un pezzo ch’ella è uno strozzino. La Polizia non farà niente per lei. Vada” (ivi. p. 188).
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Letto come rappresentazione della situazione economica degli artisti dell’epoca,47 il racconto dimostra che la posizione nello spazio sociale determina non solo il reddito o la carriera, ma anche la vita quotidiana e privata dei protagonisti. Alcuni dipendono fortemente da beni economici, sia perché ne hanno bisogno per vivere o mantenere una famiglia (come il soprano), sia perché fanno parte dello stile di vita dei personaggi (nel caso di Mirate). Il modello di Bourdieu offre in questo contesto una possibilità di classificare i protagonisti in diversi strati sociali e più esattamente nel campo del loro capitale economico e culturale, nonché di analizzare le relazioni e le dipendenze tra i personaggi del racconto. La rappresentazione dei mezzi degli artisti e soprattutto la descrizione dettagliata della rovina della ‘coppia di protagonisti’ Nene e maestro Zen richiamano inoltre l’attenzione su un certo influsso veristico, secondo Raffaella Bertazzoli perfino caratterizzabile come “tratti di un verismo riconoscibile, anche sul piano narrativo”.48 Infine, anche la strutturazione narrativa del racconto, cioè la costruzione secondo il modello drammatico aristotelico, rappresenta una spiccata particolarità dell’opera, il che ci rimanda al fatto che “[i]n realtà l’interesse letterario di Camillo Boito per ambienti e atmosfere ripete in altra forma i suoi studi di arte e architettura […]”.49
47 48 49
Il termine tedesco Milieustudie sembra molto appropriato in questo contesto. R. Bertazzoli, Introduzione, cit., p. XIX. G. Finzi (a cura di), Novelle italiane. L’Ottocento, vol. I, Milano, Garzanti, 1985, p. 445.
L’ELEMENTO SONORO E IL FEMMINILE NEI RACCONTI DI CAMILLO BOITO VADE RETRO, SATANA E IL MAESTRO DI SETTICLAVIO Annarita Zazzaroni L’affermarsi del Sublime nella letteratura e nell’arte comporta un maggiore ricorso all’indeterminatezza e a quanto per sua natura è inesprimibile e vago. La musica, in questo cambiamento di estetica e di sensibilità, viene ad assumere un ruolo sempre più significativo: non solo la musica intesa come forma artistica codificata, ma anche la musica come suono della natura e canto umano; elementi, questi, ricchi di suggestioni fin dall’antichità e che a partire dal Settecento vengono investiti di nuovi richiami simbolici e stilistici. In Leopardi, ad esempio, il tema del canto e della voce femminile si lega a fitti rimandi ai suoni della natura; i ricordi sonori e la trama acustica sono infatti fondamentali per la creazione della sua poetica. Gli scapigliati riprendono quest’idea dell’indeterminatezza del suono e della musica associandola al Sublime; molto spesso vengono evocati l’elemento demoniaco e l’aspetto dionisiaco della musica, non di rado incarnati dal mito di Paganini. Ne è un chiaro esempio il racconto di Ghislanzoni Il violino a corde umane,1 in cui il maestro di musica si suicida e si immola perché il suo allievo tedesco possa così disporre di fibre, di corde davvero umane, in grado di formare un violino “sensibile” che possa competere con quello di Paganini. Dietro questa sfida, che finisce ancora una volta con la vittoria di Paganini, si legge in modo chiaro la polemica tra musica tedesca e musica italiana, ma soprattutto si ritrova il topos del musicista come essere oscuro, demoniaco e legato al sacrificio umano o alla perversione. In Camillo Boito l’elemento sonoro è sempre presente: note di strumenti, canti, voci umane o suoni della natura sono funzionali alla creazione della descrizione del paesaggio e alla caratterizzazione del personaggio. I riferimenti sonori e musicali spaziano dal registro basso e popolare a quello alto e specialistico, in quanto Boito, da esperto conoscitore di musica, inserisce spesso nella sua pagina metafore e riferimenti tratti da composizioni sinfoniche o operistiche. Dovremo quindi, in senso più generale, parlare di sonorità, in quanto ciò che ci interessa qui considerare è il trattamento che Boito riserva all’elemento sonoro, che può essere rappresentato dalle voci umane o della natura, dalla musica popolare della banda, dai riferimenti colti a musicisti passati e contemporanei, ma anche dai simboli e dagli oggetti che richiamano e rinviano in modo chiaro alla sfera del suono e della musica.
1
A. Ghislanzoni, Il violino a corde umane, in: E. Ghidetti (a cura di), Notturno italiano. Racconti fantastici dell’Ottocento, Roma, Editori Riuniti, 1985, pp. 99–106 (18471).
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L’elemento acustico in Boito si lega solitamente alla figura femminile ed è usato per renderne più completa la descrizione, soprattutto psicologica e comportamentale, o per commentare, e talvolta precorrere, il senso delle azioni che la protagonista compie. In questi casi, il riferimento sonoro si lega solitamente al Sublime e alla perversione. L’ispirazione boitiana non si ferma a questo livello estetico e tematico, ma può guardare alla musica anche come perno e centro della narrazione. Questo è quanto accade nel racconto Il maestro di setticlavio dove i protagonisti e l’ambiente sono quelli dei musicisti e dei cantanti della Venezia, in cui i due fratelli Boito avevano preso lezioni di musica. Questa prosa permette a Boito di recuperare fonti musicali alte e di inserirsi nel fervente dibattito di quegli anni sul melodramma e sulla riforma del libretto, temi tanto cari al fratello Arrigo. Nel Maestro di setticlavio i riferimenti musicali si legano a una meditata trama di citazioni letterarie che fanno della protagonista Nene una vera eroina tragica. In Boito, quindi, la sonorità è sempre legata alla rappresentazione del Femminile, sia quando l’autore guarda al Sublime che la musica suscita ed esprime, sia quando ricorre a fonti musicali e a moduli narrativi ripresi dal melodramma. “La mia compagna non so se fosse ninfa o folletto”: questo è il noto incipit di Un corpo, in cui Boito consacra la bellezza di Carlotta alla scienza e all’arte. Carlotta è descritta attraverso i suoi movimenti veloci, la flessuosità del corpo, il paragone con l’arte greca. È quindi presentata come una delle ninfe tanto care all’Ottocento, in cui l’elemento del movimento diviene centrale, come ricorda Aby Warburg nei suoi studi su Botticelli.2 Non a caso Carlotta viene chiamata “ninfa”, ma soprattutto essa funge da modello per la pittura di una ninfa antica: “l’Aretusa del mio dipinto rappresentava tale e quale Carlotta”. La sovrapposizione tra la donna e la ninfa, che ricorre nel corso di tutta la narrazione con metafore e giochi di parole, avverrà poi nella rappresentazione della morte di Carlotta: per entrambe è infatti l’acqua a togliere la vita per ridarne una nuova; nel caso di Carlotta la vita data dalla scienza, per la ninfa la trasformazione in fonte. Anche in questo racconto, in cui l’arte pittorica ha il ruolo di protagonista, non manca il riferimento musicale. Infatti, quando il pittore si sveglia a Teufelsmühle, nella valle di Brühl, è presente l’elemento sonoro: l’uomo si sveglia cantando (“mi svegliai come un usignolo, cantando”)3 e si sente pieno di gioia di vivere. Percepisce l’arte e la musica come un’unica realtà perfetta da porre a confronto: “nel verde di una foglia, nell’oltremare liscio del cielo, nelle macchie de’ muri sentivo un’arte compiuta, la quale mi produceva dentro gli stessi effetti della musica di
2
3
A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico, Firenze, La Nuova Italia, 1966. Su questo si vedano anche R. Kirchmayr, L’enigma della ninfa da Warburg a Freud, in: Engramma, n.100, (settembre–ottobre 2012); G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta: Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Torino, Bollati Boringhieri, 2006 e Ninfa moderna: saggio sul panneggio caduto, Milano, Il Saggiatore, 2004; R. Fenu Barbera, La donna che cammina: incanto e mito della seduzione del passo femminile nella poesia italiana del primo Novecento, Ravenna, Longo, 2001. C. Boito, Un corpo, in: Storielle vane, Bologna, Pendragon, 2007, p. 102.
L’elemento sonoro e il Femminile nei racconti di Camillo Boito
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Beethoven”.4 Per spiegare la meraviglia dell’artista di fronte alla perfezione della natura, Boito non utilizza metafore riprese dall’arte visiva, ma dalla musica. Al ritorno da questo momento estatico prodotto dalla contemplazione, il protagonista trova la missiva angosciante di Carlotta, che gli narra la minaccia di Gulz. L’elemento della perfezione musicale di Beethoven, che serve da termine di paragone per spiegare la contemplazione del pittore di fronte alla natura, introduce il punto di massima gioia, ma al tempo stesso anticipa la Spannung, il punto di massima tensione, quasi ad indicare che la totalità dell’arte richiede sempre un sacrificio: il sacrificio della bellezza e della fanciullezza. Fanciullo di cuore e di spirito è don Giuseppe di Vade retro, Satana, che incontra la forza distruttiva del Femminile. In Boito la presenza della donna è spesso legata alla morte:5 o muore lei stessa, come succede alla Nene del Maestro di setticlavio, o causa la morte dell’uomo, come avviene a don Giuseppe o al Remigio di Senso. La Fosca di Tarchetti è sempre un modello di riferimento. Pare di scorgere dietro queste figure femminili, spesso paragonate da Boito all’arte greco-pagana, la presenza di quegli dei in esilio di cui aveva parlato Heine in Elementargeister e in Die Götter im Exil. Heine teorizza che con l’affermazione del cristianesimo gli dei pagani non sono stati cancellati e dimenticati, ma continuano a vivere con le vesti di figure che abitano il mondo fantastico delle credenze e del folclore. Descrivendo la vita delle divinità pagane Heine commenta: Tutto questo diletto, tutte queste risa gioconde sono estinti da lungo tempo, e la credenza popolare vuole che nelle rovine degli antichi templi continuino a dimorare le antiche divinità greche, le quali, tuttavia, con la vittoria di Cristo, hanno perduto ogni potere, sono diavoli malvagi che di giorno si tengono nascosti tra le civette e i rospi nei ruderi tenebrosi del loro trascorso splendore, mentre di notte se ne vengono fuori in leggiadre sembianze per allettare e sedurre qualche viandante ingenuo o qualche giovanotto temerario.6
In un passo successivo, Heine chiarisce che gli dei in esilio non possono essere confusi con gli spettri, dal momento che, a differenza di questi, essi non sono mai morti. Le divinità pagane, secondo Heine, non sono scomparse, ma vivono in altra forma e si presentano seducenti al mondo contemporaneo. È questo il caso di Olimpia di Vade retro, Satana: essa è una divinità prepotente, infera, seducente, che porta distruzione e morte in don Giuseppe, ponendosi in netta contrapposizione con la sua vita cristiana e presentandosi come una chiara tentazione demoniaca sia nella realtà della storia, sia nell’allucinazione che per due volte si impadronisce della mente dell’uomo. Continuando ad evocare l’immagine classica della ninfa già descritta nella lettura di Un corpo, Olimpia ne incarna una nuova manifestazione, che si lega all’immagine della femme fatale. Nel 1929 Warburg spiegherà e illustrerà bene questa duplice funzione della ninfa.7 Nella tavola 46 di Mnemosyne. L’atlante delle immagini, tavola intitolata appunto La ninfa, a 4 5 6 7
Ibidem. Per la galleria dei personaggi femminili di Boito ottima è la lettura di C. Cretella, Architetture di carta, in: C. Boito, Senso. Nuove storielle vane, Ravenna, Allori, 2005, pp. 7–43. H. Heine, Gli dei in esilio, a cura di L. Secci, Milano, Adelphi, 2000, p. 11. Cfr. A. Warburg, Mnemosyne. L’atlante della memoria di Aby Warburg, a cura di I. Spinelli e R. Venuti, Roma, Artemide, 1998.
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Warburg diventa chiara la duplicità della ninfa: da un lato figura portatrice di vita e di doni, come le Grazie, dall’altro lato menade o baccante, nella doppia raffigurazione di Salomè e di Giuditta, in grado di togliere la vita agli uomini. Quando don Giuseppe entra nella stanza della donna, la vista è colpita da un tripudio di rosso, di ori e di disegni che richiamano le fiamme. La metafora del fuoco della passione che brucia e consuma è qui ben sottolineata. Olimpia si presenta in una posizione statuaria, che ricorda da vicino l’Olympia di Manet:8 “era sdraiata sopra un sofà nel solo angolo ombroso della stanza, lungo il lato delle finestre, in fondo, lì dove le pieghe delle ampie tende scemavano sui fianchi la luce e lasciavano come una insenatura fra il parato ed il muro”.9 La caratterizzazione di Olimpia come demone tentatore non è costruita solo attraverso l’elemento visivo e il paragone con un noto quadro, ma anche attraverso uno studiato riferimento sonoro: “la donna lo chiamò con voce soave come un liuto lontano”.10 La voce femminile è sempre uno strumento importante di seduzione e rivela la psicologia del personaggio. La donna in questo caso è una sirena tentatrice e Boito lo sottolinea anche grazie alla citazione del liuto, strumento che nella pittura del Seicento è collegato alla donna lasciva, mentre il pianoforte e la spinetta sono simbolo della donna virtuosa.11 È significativo anche il fatto che per due volte compaia il maestro di pianoforte: in casa della donna, durante il primo incontro con don Giuseppe, e alla Messa insieme a lei. Egli è un personaggio secondario, un aiutante, ma non viene mai descritto nell’atto di suonare il pianoforte, né tanto meno lo suona Olimpia; questo avviene probabilmente perché l’immagine della donna al pianoforte non era in linea con l’iconografia che Boito voleva creare descrivendo la figura di Olimpia. Gli strumenti musicali sono spesso simbolo di perdizione, com’è evidente nel Demonio muto, in cui la chitarra che la donna salva dalle fiamme diventa il simbolo dell’oggetto infernale e stregato. Questo è sottolineato dalla predica del Beato Antonio: “Distruggete, fratelli, disperdete gli strumenti del vizio. Quegl’infami oggetti sono del diavolo. Regalateli a me, ch’io li dono a Dio”.12 In Vade retro, Satana, Olimpia, dopo aver tentato una prima seduzione ai danni del povero curato, cambia tono di voce. Ancora una volta la voce è indispensabile per sottolineare la caratterizzazione della protagonista: “la voce non aveva più la stanchezza e la dolcezza di prima. Vi dominava un timbro secco, strozzato, rabbioso, quando disse al prete: ‘Mi dica un po’, Don Giuseppe, ‘perché mi sfugge?’”.13 Olimpia non è solo il simbolo del diavolo tentatore, ma anche del progresso tentatore; è quindi un’immagine più moderna di quello che potrebbe essere la sola rappresentazione della femme fatale. Il compagno di Olimpia è infatti l’imprenditore che vuole portare le miniere, e quindi l’industrializzazione, nel piccolo paese trentino. E come sottolinea più volte don Giuseppe, il progresso e l’industrializza8 9 10 11 12 13
Cfr. C. Cretella, Architetture di carta, cit., p. 15. C. Boito, Vade retro, Satana, in: Senso, cit., p. 97. Ibidem. L’osservazione su liuto e pianoforte è di C. Cretella, Architetture di carta, cit., p. 14. C. Boito, Il demonio muto, in: Senso, cit., p. 206. Ivi, p. 98.
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zione coincidono con la dissolutezza dei costumi e della morale, e per questo vanno combattuti.14 Ancora una volta, l’elemento sonoro serve a rafforzare quanto descritto. Gli aspetti antitetici di contrasto tra il mondo rurale e quello industriale, così come tra don Giuseppe e Olimpia, sono infatti sottolineati anche dai richiami acustici. Quando don Giuseppe decide di recarsi con il medico a casa dei baroni, in paese si sta svolgendo una festa per la caccia di un’orsa: predominano le musiche popolari della banda, “frastuono di trombe, di corni, di cornette e d’altri strumenti d’ottone […] sul dorso del monte, rispondevano gli spari dei mortaletti”.15 A questo clima semplice, di folclore popolare, si contrappone, qualche pagina dopo, la voce da sirena della baronessa, come si è visto. Il liuto raffinato e mellifluo, che predomina all’interno della stanza silenziosa, si contrappone al chiasso festoso della banda. La stessa immagine di festa popolare, con la ripresa di una terminologia quasi identica, è presente anche nel Demonio muto, in cui si ritrova lo stesso tema della contrapposizione tra donna infernale, che viene rappresentata come una strega, e sacerdote santo, il Beato Antonio: “Mortaletti da tutte le parti, come cannonate d’una finta battaglia; la banda musicale di Salò, che soffiava e batteva a tutto andare; il popolo, che riempiva le piazze e le vie, ilare, chiassoso, vestito da festa”.16 La festa popolare e il suono della banda si collegano sempre alla serenità, al momento di quiete e di distacco dalla furia della tentazione e quindi sono sempre elementi positivi, che vengono a costituire quasi una pausa tra le premesse negative iniziali e la tragedia seguente. Quando don Giuseppe riesce a tornare a casa, nella sua Chiesa sta iniziando il concerto delle campane.17 Questo suono lo riporta con forza alla devozione verso il suo ministero. Le campane, simbolo della vita della Chiesa, sono di nuovo un elemento popolare che si contrappone alla mollezza della casa della baronessa. La stessa sottolineatura del suono delle campane, con identico valore oppositivo, si ritrova, ancora una volta, nel racconto Il demonio muto. Proprio sul suono delle campane giunge a don Giuseppe la lettera di Carlina, la moglie del medico, che chiede aiuto, in pena per la seduzione che Olimpia sta mettendo in atto su suo marito. A Carlina, donna semplice, moglie devota che preferisce la chiusura e la pace della sua casa, ben si addice come sottofondo il suono semplice e popolare delle campane. La voce di Carlina è infatti: “la voce tranquilla, soave della poverina”,18 in netto contrasto con quella di Olimpia. Si può notare come l’aggettivazione che Boito usa nella descrizione dei personaggi femminili sia sempre molto misurata e calcolata. Oltre all’antitesi tra Olimpia e Carlina, cioè tra la femme fatale e la femme fragile, per usare le parole di Nike Wagner,19 si nota anche la contrapposizione tra santità e sessualità. La statua della Santa che don Giuseppe prega uscendo dalla 14 15 16 17 18 19
C. Boito, Senso, cit., pp. 85–89. Ivi, p. 89. C. Boito, Il demonio muto, in: Senso, cit., p. 211. Ibidem. Ivi, p. 110. N. Wagner, Spirito e sesso. La donna e l’erotismo nella Vienna fin de siècle, trad. di M. Torre, Torino, Einaudi, 1990.
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casa di Carlina si trasforma nel corpo di Olimpia: “gli parve che fosse uno scherzo del diavolo”.20 E ancora, in modo più forte, alla fine della novella, quando don Giuseppe è sul letto di morte, il Crocifisso che tante volte aveva pregato trovando forza e conforto nella lotta contro la tentazione e che egli aveva voluto portare via con sé quando era stato cacciato dalla Parrocchia perché aveva sobillato il popolo contro l’industrializzazione e il progresso, quello stesso Crocifisso diventa ancora una volta diabolicamente sostituito dalla visione di Olimpia. Quando Carlina, pietosamente, riesce a spostare gli occhi dell’uomo morente sul suo Crocifisso, “a poco a poco una influenza benefica agì dentro di lui; si andò calmando; le labbra cominciarono a biascicar preghiere; il viso bianco si rasserenava, riprendeva la sua tranquilla, dolce, innocente, quasi eterea espressione”.21 Ma il marito di Carlina, il medico che frequenta Olimpia, quasi come messaggero mortale e infernale della donna, rientra in casa ubriaco e sbattendo la porta fa vibrare le pareti, causando così la distruzione del Crocifisso che va a pezzi, sotto gli occhi di don Giuseppe che “mandò un urlo che gli spezzò il petto”.22 Don Giuseppe muore e, come spesso avviene nella prosa di Boito, non ci sono vincitori veri, né veri vinti, ma un sistema binario di antitesi continue che rispecchiano i contrasti dei salotti e i cambiamenti che stavano investendo la cultura e la visione antropologica di quegli anni. Freud, nel suo studio sulla Gradiva, porta l’esempio di un’acquaforte di Félicien Rops, pittore e incisore belga: la Tentazione di Sant’Antonio, del 1879.23 L’acquaforte dimostra il meccanismo della rimozione. Freud spiega che la repressione avviene quando l’energia psichica del soggetto viene convogliata verso un oggetto sostitutivo di quanto era stato investito libidicamente. Ciò a cui accenna Freud, in breve, è il funzionamento del rimosso come elemento essenziale per l’ascesi e l’instaurazione dei suoi valori. Ecco la breve descrizione della Tentazione di Sant’Antonio di Rops data da Freud: Un monaco asceta – certo per sfuggire alle seduzioni del mondo – si rifugia ai piedi di un’immagine del Redentore crocifisso. Ma questa croce scompare come un’ombra, e al suo posto sorge invece radiosa, l’immagine di una voluttuosa donna nuda nella stessa posizione crocifissa. Altri pittori, con minore acume psicologico, in analoghe rappresentazioni della tentazione hanno posto il peccato, insolente e trionfante, in qualche posizione a lato del Redentore in croce. Solo Rops gli ha lasciato prendere il posto stesso del Redentore sulla croce; egli sembra aver saputo che quando il rimosso ritorna, sorge dallo stesso elemento rimovente.24
La raffigurazione di Rops è veramente vicina a quella di Camillo Boito e al suo inquietante finale. Questo sottolinea la modernità psicologica dell’invenzione e della scrittura di Boito.
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C. Boito, Vade retro, Satana, in: Senso, cit., p. 110. Ivi, p. 121. Ivi, p. 122. Cfr. S. Freud, Delirio e sogni nella Gradiva di Jensen, in: Id., Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, trad. di R. Colorni, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, pp. 457–539. Ivi, p. 485.
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Se Vade retro, Satana, così come Il demonio muto, rientrano in una perfetta cornice scapigliata,25 tutt’altro clima e temi si respirano in una delle prose più tarde di Boito, Il maestro di setticlavio, dove evidente e conclamato è il ricorso ad elementi sonori e all’ambiente musicale, che concorrono alla creazione della trama e del ritratto femminile di Nene. Già Mariani ha colto nella storia di Nene “una trasposizione musicale dell’ingenuità della fanciulla: la musica […] diventa la voce dei sentimenti […] per Il maestro di setticlavio basterà ricordare il brano in cui è descritta la preparazione di Nene al concerto e quel rondò del Cimarosa, rinzeppato di agilità e di trilli che rappresenta la trasposizione musicale dell’agile figura della protagonista”.26 Non solo: la novella è il modo con cui Boito rende conto in modo ironico delle discussioni musicali sul nuovo melodramma; discussioni che imperavano nei salotti contemporanei. Nella Venezia di Zen è in corso il contrasto tra la vecchia maniera, il setticlavio, e la novità portata da Verdi; nella realtà di Boito è invece la storica contrapposizione tra Verdi e Wagner. A questo proposito sono indicative le parole che l’anziano maestro Chisiola rivolge al cocciuto Zen, che darà la vita per il suo setticlavio e per la vecchia maniera: – il canto è quale la musica lo vuole e lo fa. Passa il tempo dei gorgheggi; entriamo nell’età della passione e del dramma. Quel giovine, che tu detesti, autore dell’Ernani e del Rigoletto… – Ha corrotto il canto – Come vuoi che abbia corrotto il canto se ha dato un nuovo impulso alla musica? Tutto muta quaggiù. Tu sei vecchio e caparbio; ma quando diventerai ancora più vecchio, quando giungerai alla mia età, in cui ci si distacca dal mondo, allora l’animo imparziale ti lascerà vedere le virtù del presente come gli errori del passato.27
Già all’inizio della novella, Chisiola si era fatto portavoce della nuova musica dicendo: “Tu vorresti – continuava il maestro – che il mondo si fosse fermato agli anni della tua giovinezza, quelli degli amori e della presunzione; ma, vedi, fra noi e la musica c’è questa differenza, che noi abbiamo una sola maniera di essere onesti, mentre la musica ha infinite maniere di essere bella; e noi invecchiamo e siamo mortali […] mentre la musica è eterna”.28 E ancora: “Il basso Zen era conservatore arrabbiato. Per esempio, non poteva soffrire le opere del Verdi: ne diceva un mondo di male, specialmente del Rigoletto, allora fresco fresco; resisteva, finché poteva, al desiderio dei giovani, quando volevano studiarle”.29 È il Boito inserito nei dibattiti sul melodramma del suo tempo a parlare; il Boito che ha sempre seguito e spronato il fratello nella sua carriera musicale. Egli sinte25
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Come scrive Giorgio Bassani: “Vade retro, Satana, Macchia grigia, Santuario, Il demonio muto, Il collare di Budda, tutti racconti databili attorno al 1880, possono nuovamente far pensare […] agli errori più soliti degli scapigliati” (G. Bassani, Introduzione a C. Boito, Il maestro di setticlavio, Roma, Colombo, 1945, p.11) G. Mariani, Storia della Scapigliatura, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1967, p. 581. C. Boito, Il maestro di setticlavio, in: Storielle vane, cit., p. 280. Ivi, p. 239. Ivi, pp. 238–239.
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tizza il suo pensiero dicendo che non ci può essere regressione nelle nuove forme, se la musica, al contrario, ne esce con una vita rinnovata: tutto cambia e bisogna adeguarsi alla modernità e al cambiamento delle arti, senza giudicarle. Notiamo quindi che il contesto è totalmente diverso rispetto alle novelle analizzate in precedenza. Nel Maestro di setticlavio infatti la musica e il suo mondo sono i protagonisti della storia e la terminologia musicale diviene più specifica. Le citazioni dei nomi dei compositori sono ricorrenti: non solo Verdi, ma Rossini, Cimarosa, Furlanetto, Metastasio, Donizetti con Lucrezia Borgia e L’elisir d’amore, Guido d’Arezzo sono ricordati come autori prescelti, ascoltati, studiati ed eseguiti dai protagonisti.30 Il maestro di setticlavio è impregnato di un tono e di un carattere a sé stante all’interno della produzione di Camillo Boito. Come ben rileva un lettore d’eccezione quale Giorgio Bassani, “l’inconsueta molteplicità dei personaggi, […] non porta mai il Boito a venir meno al suo classico bisogno di euritmia. Il campo del quadro è affollato ma armonioso in ogni sua parte come un microcosmo perfettamente organizzato […]. Come per ogni schietta opera d’arte siamo anche qui, in sostanza, in presenza d’un miracolo di stile”.31 Nell’istante in cui Chisiola proclama le sentenze finali, i due maestri perdono ciò che hanno di più caro: Zen perde la fiducia nell’incontrovertibilità del setticlavio e questo lo porta alla pazzia; Chisiola perde Nene che muore, in un certo senso, a causa della musica perché la corruzione è entrata nella sua vita attraverso il canto e la relazione con il tenore Mirate. Nene è infatti l’esempio del sacrificio richiesto dall’arte ed è una vera eroina da melodramma. A quest’immagine, però, si unisce il richiamo all’arte classica, tanto caro a Boito: anche Nene, infatti, è una sorta di ninfa, che canta e raccoglie i fiori nel suo orto chiuso, chiaro simbolo edenico che richiama anche la Matelda dantesca:32 “da quattro anni divideva la sua giornata fra lo studio del canto […] ed i fiori del piccolo orto, chiuso da alti muri di cinta, in uno dei quali s’apriva verso il canale l’arcata della riva d’approdo”.33 Anche Nene vive un profondo legame con l’acqua, al punto che, quando scopre che Mirate se n’è andato, resta fissa e inebetita a guardare l’acqua verde che le scorre sui piedi; il legame tra la morte e l’acqua, già sottolineato per Carlotta di Un corpo, richiama una lunga tradizione che trova il suo apice iconografico nel quadro della morte di Ofelia di John Everett Millais. Il tenore Mirate, coprotagonista maschile, rinnega la sua famiglia povera per piaggeria e vanto, credendosi un grande cantante; è spavaldo, superbo, sciupone. Mirate è il prototipo di chi usurpa l’arte e la piega al suo interesse. Il suo atto di violazione nei confronti dell’arte richiede miticamente un sacrificio, che in questo caso è offerto, come in ogni buon melodramma, dalla vita di Nene. 30 31 32 33
I nomi di questi compositori sono citati nel Maestro di setticlavio, cit., pp. 239, 243, 251, 279. G. Bassani nell’Introduzione in: Senso, cit., pp. 19–20. Per una descrizione sull’importanza del ruolo di Boito, in particolare di Senso, nelle letture di Bassani rimando a F. Villa, Il cinema che serve. Giorgio Bassani cinematografico, Torino, Kaplan, 2010, pp. 73–89. Purgatorio, Canto XXVIII. C. Boito, Il maestro di setticlavio, in: Storielle vane, cit., p. 248.
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Tante volte è stato stabilito il confronto con Senso, e non solo per l’ambientazione veneziana, ma soprattutto per la diversità di Livia e di Nene, a partire dalla loro classe sociale. Livia è la vendicatrice, la personificazione della Bellezza che richiede il sacrificio di chi l’ha oltraggiata; Nene è la vittima, colei che deve sacrificarsi per le convenzioni di una classe umile e per un’arte che non tollera di essere piegata ai pretesti e ai capricci umani. Durante il primo concerto con Mirate, viene messa in evidenza la duplicità del carattere di Nene: puro, remissivo, ma al tempo stesso proteso verso la curiosità e la passione, di cui sono simbolo i suoi capelli rossi: “Nene sembrava propriamente bella. I capelli rossi abbondanti, tirati alti sul capo e ornati di fiori candidi; il roseo fine del volto, in cui spiccavano le labbra coralline e gli occhi celesti; il collo di neve”.34 In un crescendo, man mano il canto di Nene si dispiega e trova consensi, vengono lentamente segnate le tappe della sua fine, in uno stretto connubio tra musica, richiami alla letteratura e all’arte, e descrizione della psicologia femminile. Prima che Mirate e Nene lascino la compagnia e inizino così la loro storia d’amore, Boito inserisce nella descrizione della fanciulla un ultimo elemento ripreso dalla tradizione letteraria: il vento, chiamato con il termine “auretta” tanto caro a Petrarca; “il canto e gli applausi avevano aguzzato l’appetito persino della fanciulla nei capelli rossi della quale l’auretta scherzava”.35 Il tema della seduzione dei capelli, molto presente in Marino e nel barocco, trova nuova forza nel simbolismo, da Baudelaire (La chevelure) a Pierre Louys (con titolo identico: La chevelure), e trova in questo caso anche in Boito un interessante interprete. Altro topos fondamentale è quello dei fiori.36 Proprio il giorno in cui i due maestri discutono del suo futuro, Nene recide un giglio, simbolo della sua purezza e della sua volontà di uscire dall’hortus conclusus della sua casa e della protezione del Chisiola. E quando Nene rientra triste dopo aver visto lo squallore della stanza di Mirate, i fiori sembrano animarsi e condividere la sua malinconia. In tutto l’Ottocento, e soprattutto nel Liberty, si assiste all’intenso utilizzo della simbologia floreale per parlare della donna.37 Come sottolinea Giovanna Rosa, non c’è spazio per la famiglia nell’universo della prosa scapigliata38 e così anche per Nene non può esserci il coronamento del sogno delle nozze con Mirate, ma solo la freddezza dell’abbandono, la vergogna del disonore e la morte. E potrei chiosare aggiungendo che nel melodramma non può esserci spazio per le nozze e per la famiglia. Anche per Nene si consuma la tragedia che era stata quella delle eroine che aveva cantato.
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Ivi, p. 254. Ivi, p. 263. Si veda il commento di C. Cretella, Il fiore del peccato. ‘Il maestro di setticlavio’, in: C. Boito, Storielle vane, cit., pp. 51–56; G. Bassani nell’Introduzione, cit., pp. 21–22. Rimando al catalogo della mostra Fiori. Natura e Simbolo dal Seicento a Van Gogh, a cura di D. Benati, F. Mazzocca, A. Morandotti, Milano, Silvana Editoriale, 2010, in particolare al contributo di Marco Antonio Bazzocchi. Cfr. G. Rosa, La narrativa degli Scapigliati, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 141–146.
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Nel contrasto tra carne e spirito e tra morte, vita e arte si muovono i personaggi di Boito; per loro si potrebbero usare le parole che Baudelaire dedicò ai personaggi delle opere di Richard Wagner:39 Egli [Wagner] possiede l’arte di tradurre, per sottili gradazioni, tutto quanto vi sia d’eccessivo, d’immenso, di ambizioso nell’uomo naturale e spirituale […]. Tannhäuser rappresenta la lotta dei due principi che hanno scelto il cuore umano come loro principale campo di battaglia, vale a dire la lotta della carne con lo spirito, dell’inferno col cielo, di Satana con Dio. […] Come il peccato è dovunque, la redenzione è dovunque, e così anche il mito. Non vi è nulla di più cosmopolita che l’Eterno.
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Ch. Baudelaire, Richard Wagner e Tannhäuser a Parigi citato da D. Della Porta, Il fenomeno Wagner, Torino, Fogola, 1983, pp. 90, 99, 106.
CAMILLO BOITO E LA MESSA IN SCENA DE LA BATTAGLIA DI LEGNANO DI GIUSEPPE VERDI AL TEATRO ALLA SCALA Elisabeth Braunshier Grazie alla sua poliedrica attività dall’architettura al restauro, dalla letteratura alla critica d’arte, Camillo Boito può vantare un ruolo non del tutto trascurabile anche in relazione alla storiografia artistica del secondo Ottocento.1 Da questo punto di vista un aspetto ancora poco noto è la partecipazione alla Commissione di valutazione degli allestimenti delle due case dell’opera reale: del Teatro alla Scala e del Teatro alla Canobbiana.2 L’architetto e scenografo Alessandro Sanquirico, consulente della direzione teatrale e consigliere dell’Accademia delle Belle Arti di Brera a Milano dal 1828, su istanza della stessa direzione del teatro, aveva creato la Commissione nel 1843 con il preciso scopo di migliorare il livello qualitativo delle scenografie e dei costumi in quegli anni oggetto di pesanti critiche3 a causa di una ridotta aderenza storica, di una eccessiva ripetitività e trascuratezza nell’uso dei costumi,4 “[…] dei figurini nel vestiario delle decorazioni sceniche, onde questi riescono conformi ai tempi e luogo, cui si riferisce lo spettacolo […]”.5 Nel biennio 1861–2, il solo periodo in cui Camillo Boito ne fece parte, la Commissione operò alla messa in scena de La battaglia di Legnano di Giuseppe Verdi,6 rappresentata per la prima volta alla Scala il 15 novembre 1861 senza i vincoli della censura austriaca.7 1 2 3
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Fondamentale filo conduttore per le nostre riflessioni presenti è stato l’ormai classico testo di B. Pauls, Giuseppe Verdi und das Risorgimento, Berlin, de Gruyter, 1996. Il Teatro Lirico oppure Teatro alla Canobbiana era, come anche il Teatro alla Scala situato molto vicino, un teatro di corte e serviva in prima linea da teatro lirico fino al 1998, quando fu chiuso per ristrutturazioni. Cfr. G. Agosti, P. L. Ciapparelli, La Commissione Artistica dell’Accademia di Brera e gli allestimenti verdiani alla Scala alla metà dell’Ottocento, in: P. Petrobelli (a cura di), La realizzazione scenica dello spettacolo verdiano, Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, 1994, p. 216. Cfr. M. R. Corchia, Sanquirico e il Teatro dell’Aquila di Fermo. I fondali conservati, in: M. Viale Ferrero, M. I. Biggi, M. R. Corchia (a cura di), Alessandro Sanquirico: il Rossini della pittura scenica, Pesaro, Fondazione Rossini, 2007, p. LXXVIII. Il documento si trova a Milano, nell’Archivio Storico Civico, Spettacoli pubblici, 96/5, p. 3. Cfr. G Agosti, P. L. Ciapparelli, cit., p. 218. Dopo le rivolte nell’Italia del 1848, nel 1849, all’epoca della prima rappresentazione dell’opera, nella maggior parte dei regni italiani la rivoluzione era finita (soltanto a Roma dominava ancora un clima rivoluzionario) e la restaurazione era pronta a cominciare. Per evitare che l’opera sia interpretata come affronto politico, Verdi e il suo librettista Salvatore Cammarano compongono una seconda versione dell’opera intitolata L’assedio di Arlem e ambientata nella
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L’ambientazione e i costumi furono esaminati a fondo dai membri della Commissione per verificare la loro “storicità”. È opportuno a questo proposito sottolineare come non si trattasse di una verifica su basi storico-filologiche quanto piuttosto di una valutazione di coerenza rispetto all’idea romantica di Medioevo e Rinascimento ancora ben diffusa nell’Italia immediatamente postunitaria. Sempre vive le suggestioni della letteratura della prima metà del XIX secolo, pittori storici e compositori ricorrevano senza preclusioni di sorta sia a romanzi sia a volumi di storia raccontata con toni romanzati; lo stretto rapporto tra storia e contemporaneità che nell’Italia del Risorgimento generava quella saldatura tra la grandezza e la libertà del passato e le guerre per l’indipendenza dell’Ottocento, costituiva di fatto l’elemento di continuità per esaltare la gloria, il prestigio e la forza morale della neonata Italia unita. Il ruolo di Boito in questa Commissione è documentato dai verbali delle singole scenografie conservati nell’Archivio del Teatro alla Scala. Dal Processo Verbale per la revisione dei figurini e schizzi delle scene per l’Opera La Battaglia di Legnano,8 si può dedurre che per la Commissione erano fondamentali soprattutto la valutazione dei figurini (disegni di costumi) e la scelta dei materiali da utilizzare. Tra i membri si trovavano, oltre a Camillo Boito, il celebre pittore Francesco Hayez, il vedutista Luigi Bisi e l’architetto Carlo Renzanigo, come risulta dalle firme in calce agli stessi verbali. I primi tre membri della Commissione erano professori o assistenti all’Accademia di Brera mentre Renzanigo, insegnante di architettura, ne era socio; è chiaro quindi che i membri venissero scelti in base non solo alle loro conoscenze storiche ma anche in ragione di specifiche competenze tecniche necessarie all’allestimento della scena come, ad esempio, le questioni relative alla corretta impostazione prospettica. È quindi evidente che la Commissione svolgesse un ruolo per nulla marginale nella produzione dell’opera lirica; in pratica soprintendeva e in qualche modo dirigeva il lavoro anche degli scenografi. L’aspetto quindi più rilevante della Commissione consisteva di essere nei fatti una sorta di istituzione che anticipava lo studio della scenografia, insegnamento all’epoca non ancora presente nel corso di studi all’Accademia di Milano.9 Il fatto che Boito abbia partecipato alla Commissione soltanto in occasione della messa in scena de La battaglia di Legnano di Verdi può forse segnalare, oltre alla nota vastità di interessi tecnico-artistici, una piena e completa adesione alle istanze della nuova Italia unita. Infatti, anche se nel letterato autore delle novelle non sembra così palesemente riscontrabile l’espressione di un sentire patriottico, ad esempio in Senso,10 racconto ambientato a Venezia nel 1866, anno della annes-
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Spagna del ’500 sotto il regno di Filippo II. Cfr: M. Grempler, La battaglia di Legnano, in: A. Gerhard, U. Schweikert (a cura di), Verdi Handbuch, II ed., Stuttgart, Metzler, 2013, p. 416. Archivio del Museo teatrale della Scala (COST 2201–2202). La materia di studio Scenografia non esisteva all’Accademia di Milano prima del 1924. Cfr. M. Viale Ferrero, M. I. Biggi, M. R. Corchia (a cura di), Alessandro Sanquirico: il Rossini della pittura scenica, cit., p. 28. La novella Senso apparsa per la prima volta nel 1883 tratta in prima linea della tragedia di un’amante tradita che si vendica del suo amante. L’azione è ambientata a Venezia nel 1866,
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sione del Veneto al Regno, il Boito architetto è indubitabilmente tra i più attivi esponenti di coloro che tentarono di produrre una nuova architettura nazionale all’indomani dell’indipendenza italiana.11 Questa specie di cesura tra il romanziere e l’architetto resta uno snodo critico ed esegetico in attesa ancora di un’interpretazione pienamente convincente; in questa sede interessa soltanto sottolineare, attraverso alcuni riscontri cronologici, come la partecipazione alla Commissione possa essere interpretata anche come segno di una nuova consapevolezza nazionale. La battaglia di Legnano è la più importante opera di Verdi in cui il significato patriottico è esplicitamente dichiarato. Per motivi di censura da parte degli Asburgo la versione originale, messa in scena per la prima volta a Roma nel 1849, poté essere rappresentata al Teatro alla Scala soltanto dopo l’unificazione dell’Italia nel 1861. La trama dell’opera in quattro atti è abbastanza semplice e tratta della guerra tra i comuni lombardi e l’imperatore Federico Barbarossa il cui esercito, nel finale, viene sbaragliato dalla alleanza delle singole città lombarde. Motivo unificante del dramma è parimenti l’intreccio amoroso fra Lida, Arrigo e Rolando e il sacrificio della vita per la patria. Verdi aveva scritto quest’opera nel 1848 a Parigi seguendo in dettaglio le rivolte delle Cinque giornate di Milano12 che si conclusero con la momentanea cacciata degli occupanti austriaci; per questo la famosa battaglia di Legnano, del 29 maggio 1176, fungeva da topos ideale per portare in scena un evento di strettissima attualità come quello della liberazione dal potere dispotico di un oppressore straniero. La musica rappresentava pertanto il tramite ideale dove forma, parola e significato potevano assumere concretamente il ruolo di messaggio politico dalle precise istanze patriottiche e risorgimentali.13 Conviene qui aprire una breve digressione per sottolineare come anche Hayez, il membro più celebre della Commissione, sia tra i principali animatori di questo intreccio tra musica, opera lirica e arti figurative – evidentemente i mezzi di più ampia diffusione – e si fosse già lasciato coinvolgere dalla messa su tela di opere liriche ispirate a fatti storici reinterpretati in chiave patriottica. I Foscari (1844), Marin Faliero (1844) e Caterina Cornaro (1842) sono soltanto alcuni dei dipinti legati a questa stagione del pittore che, ricordiamo, sulla spinta di committenti di vedute liberali e progressiste14 aveva spesso trattato soggetti dall’incontrovertibile significato civile e poli-
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tuttavia la tensione politica di quei mesi si trova soltanto in secondo piano, mentre i difetti della vanità, della lussuria e della vendetta sono al centro dell’attenzione. Cfr. C. Boito, L’architettura della nuova Italia, in: Nuova antologia di scienze, lettere ed arti, XIX, Firenze, 1872, pp. 755–773. Cfr. M. Grempler, cit., p. 412. Cfr. I. Skokan, Germania und Italia. Nationale Mythen und Heldengestalten in Gemälden des 19. Jahrhunderts, Berlin, Lukas, 2009, pp. 204–248. Il tema è trattato con particolare riferimento ai committenti tedeschi da F. Mazzocca, Per una mappa ragionata del collezionismo degli imprenditori nella prima metà dell’Ottocento: Mylius un caso esemplare, in: La tradizione rinnovata. Da Enrico Mylius alla Sesto San Giovanni del futuro, a cura di G. Oldrini e A. Venturelli, Como, Villa Vigoni, 2006, pp. 125–143 e da G. Meda Riquier, All’origine della pittura civile in Italia: il contributo tedesco, in: Vie lombarde e venete: circolazione e trasformazione dei saperi letterari nel Sette-Ottocento fra l’Italia settentrionale e l’Europa transalpina, a cura di H. Meter e F. Brugnolo con la collaborazione di A. Fabris, Berlin – Boston, de Gruyter, 2011, pp. 207–217.
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tico. Tornando al tema oggetto della nostra ricerca il bozzetto hayeziano I consoli di Milano lacerano e calpestano il decreto dell’Imperatore Barbarossa15 attualmente nelle collezioni dell’Accademia di Belle Arti di Brera è la replica tarda della versione eseguita nel 185216 e rappresenta non una scena della battaglia di Legnano ma un episodio del 1153, quando il Barbarossa con un decreto ordina ai consoli di Milano di restituire agli abitanti di Lodi i diritti di commercio17 ma i milanesi che – vistisi calpestati nei propri diritti – decidono per la disobbedienza e stracciano pubblicamente il decreto dando così avvio alla mobilitazione per la libertà per la loro terra. In primo piano il pittore illustra il momento nel quale il decreto di Barbarossa, portato da un messo, è calpestato dai consoli; i gesti e l’interazione delle figure ricche di plasticità e di dinamismo sembrano dipinti come se lo spettatore fosse a teatro e la scena si realizzasse così davanti ai propri occhi. Ora, se confrontiamo il quadro con le figurine proposte dalla Commissione per l’opera verdiana di cui stiamo parlando, emergono degli evidenti parallelismi. È interessante sottolineare come la pittura di Hayez, dal 1843 membro di questa Commissione, risulti influenzata dal ruolo che lo stesso pittore svolgeva in relazione alla scenografia; dall’altra parte risulta anche vero che gli scenografi non di rado si ispiravano ai dipinti e alle architetture di matrice storica per rendere al meglio l’azione. Pertanto è ragionevole sottolineare la contaminazione nella produzione di questi due generi di opere d’arte. Il lavoro di Hayez, la cui portata (anche in relazione con il suo impegno nel contesto della Commissione) è stata ormai lungamente presa in considerazione, ha costituito per Boito un costante riferimento culturale e, si potrebbe dire, stimolo per le sue ricerche. Lo stesso Boito riconosce all’opera di Hayez un ruolo di rilievo nella formazione della sua cultura storica e iconografica. Nonostante la notevole differenza di età, Boito apprezzava a fondo l’arte di Hayez come dimostra l’analogia con Paul Delaroche: “[…] ha tentato di fare in Italia ciò che il Delaroche ha fatto in Francia: voleva condurre l’arte alla verità della storia. È corso dalla storia sacra alla profana, dall’antica alla moderna: dall’italiana alla straniera; ma più volentieri si è fermato ai fasti della repubblica di Venezia”.18 “Condurre l’arte alla verità storica” per Boito appare come una linea fondamentale anche nella sua opera di architetto. Negli anni 60 dell’’800 Boito sembra ancora vicino alle idee del suo mentore Pietro Selvatico; di par modo realistica e connessa a eventi reali doveva essere anche la scenografia, che avrebbe dovuto avere il compito di condurre lo spettatore verso epoche passate, cariche di insegnamenti per la vita del presente, che diventavano così in una sorta di luogo teorico idealizzato da cui erano scaturite alcune virtù sacre anche per la Patria presente. 15
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Il titolo completo del quadro è I consoli di Milano lacerano e calpestano il decreto dell’Imperatore Barbarossa recato loro dal ministro di lui Sichero, con che era intimato ai cittadini milanesi di cessare alle offese di Città di Lodi. Il messo non poté sottrarsi al furore del popolo, che fuggendo di notte tempo, cit. secondo Skokan, cit., p. 242. Oggi in collocazione ignota, cfr. F. Zeri (a cura di), Pinacoteca di Brera. Dipinti dell’Ottocento e del Novecento. Collezioni dell’Accademia e della Pinacoteca, volume 1, Milano 1994, p. 353. Il soggetto è tratto da Sismondi, Storia delle repubbliche italiane nel Medioevo (1807–08). C. Boito, Scultura e pittura d’oggi, ricerche, Torino 1877, cit. secondo G. Nicodemi, Francesco Hayez, Milano, Ceschina, 1962, p. 146.
Camillo Boito e la messa in scena de La battaglia di Legnano di Giuseppe Verdi
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In conclusione si può sostenere che l’attività di Boito nella Commissione artistica, pur riguardando un breve momento della sua vita, mostri un aspetto molto interessante della sua personalità e ci fornisca una prospettiva in più, quella dell’interesse intorno al concetto di nazione e, soprattutto, la ricerca sulle cause dell’origine e dell’applicabilità di tale concetto, per analizzare il percorso artistico boitiano. La prima messa in scena dell’opera La battaglia di Legnano nel 1861 al Teatro alla Scala sembra quindi dimostrare la volontà di poter ambire a una politica che sappia realmente porre in essere la libertà tramite un nuovo senso di auto-consapevolezza della nuova nazione.
‘SCOLPIRE LA CARTA COME IL MARMO PER FORMARE UN CORPO’: SCIENZA, ARTI VISIVE E LETTERATURA A DIALOGO IN CAMILLO BOITO Monica Biasiolo Soft you, now! The fair Ophelia. – Nymph, in thy orisons Be all my sins remember’d Shakespeare, Hamlet, atto III, scena I
Intorno all’anno di uscita di Un corpo (1870), la novella forse più letta e più studiata di Camillo Boito, il tema della contemplatio mortis, in particolare quello dell’anatomopatologo davanti al corpo privo di vita di una bella e giovane fanciulla, trova una delle sue forme espressive più coinvolgenti ed intense nel dipinto Der Anatom di Gabriel von Max (1840–1915).1 Esposta per la prima volta nel 1869 alla Internationale Kunstausstellung di Monaco di Baviera e ora facente parte delle opere conservate presso la Neue Pinakothek della stessa città, la tela si distingue da altre per soggetto a lei affini, come ad esempio dall’opera Anatomía del corazón (1890) dell’artista spagnolo Enrique Simonet Lombardo (1866–1927),2 per tipologia di rappresentazione. Sebbene accostabili per ambiente e protagonisti, Gabriel von Max sceglie di ricoprire il corpo privo di vita della donna ritratta quasi interamente con un lenzuolo e di raffigurare quello stesso corpo non come oggetto di un’indagine autoptica già avvenuta, richiedendo così un diverso e nuovo approccio da parte dello spettatore che, alla pari del lettore del testo di Camillo Boito, si trova di fronte a una mummificazione visiva, a una Illusion der Kunst: il corpo è anche in Gabriel von Max infatti pezzo da esposizione, oggetto più di arte che di scienza, non diverso dagli altri preparati anatomici e corpi imbalsamati che popolano il laboratorio-atelier del medico viennese Karl von Gulz, il deuteragonista di Un corpo.3 Esso è artefatto puramente contemplato, quindi differente dal corpo rappresentato da Simonet, dove l’estrazione di almeno un organo, quel cuore di una giovane prostituta giacente su un tavolo di obitorio davanti ad un dottore vecchio e 1
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G. von Max, Der Anatom, 1869. München, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Neue Pinakothek. Sull’artista cfr. Gabriel von Max. Malerstar, Darwinist, Spiritist, a cura di K. Althaus e H. Friedel, Ausstellung Städtische Galerie im Lenbachhaus und Kunstbau München (23. Oktober 2010 bis 30. Januar 2011), München, Hirmer Verlag, 2010. E. S. Lombardo, Anatomía del corazón, 1890. Malaga, Museo de Bellas Artes. È un luogo questo, che “ricorda anche il mito faustiano e l’inferno dantesco”, come ha notato F. Wolfzettel in: Il medico scientista di fronte al fantastico, in: P. Ihring e F. Wolfzettel (a cura di), La tentazione del fantastico. Narrativa italiana fra 1860 e 1920, Perugia, Guerra Edizioni, 2003, pp. 27–41, qui p. 38.
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barbuto che tiene fra le mani e osserva quello stesso organo, ha già avuto luogo. A indicarlo nella tela dello spagnolo non solo il cuore estratto, su cui nel momento della rappresentazione il dottore, simbolo della società borghese benpensante che a quella donna negava un’anima e degli affetti, concentra lo sguardo interrogandosi, ma anche altri elementi: il sangue alla base del collo e sul torace (solo in parte coperto da un lembo di stoffa) e alcuni strumenti di lavoro appoggiati sui due tavoli anatomici posti di fianco a quello su cui giace il cadavere. Raffigurati su un altro tavolo, quello ritratto nella parte sinistra della tela di von Max, gli oggetti rappresentati sono invece carte e libri, in parte posti uno accanto all’altro, in parte accatastati gli uni sugli altri, “testimonianze delle origini e dello sviluppo della vita”,4 alla pari della coppia di teschi messi in bella mostra e indicanti – nel loro contrasto con la sensualità del corpo nudo della fanciulla – l’antitesi di un binomio indissolubile, quello di ἔρως e θάνατος, su cui anche Freud si soffermerà in Jenseits des Lustprinzips (1920).5 Non è da escludere che Boito conoscesse il dipinto di Gabriel von Max: oltre a diverse caratteristiche comuni6 e alla data della prima esibizione del dipinto (che precede solo di un anno la prima edizione della novella), quest’ipotesi potrebbe essere avvalorata anche dalla presenza dello scrittore nel capoluogo bavarese dove l’artista praghese operava dal 1869, così come dalla conoscenza di Boito dell’arte di area tedesca e mitteleuropea, per altro dallo stesso più volte dichiarata.7 Indicherebbero, inoltre, il supposto possibile legame altri elementi: l’estetica della morte 4 5
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K. Althaus, S. Böller, Die Tote als Bild, in: K. Althaus e H. Friedel (a cura di), Gabriel von Max. Malerstar, Darwinist, Spiritist, cit., pp. 93–98, qui p. 93 [orig. ted.: “Zeugnisse der Ursprünge und der Entwicklung des Lebens”]; trad. mia. S. Freud, Jenseits des Lustprinzips, Leipzig/Wien/Zürich, Internationaler Psychoanalytischer Verlag, 1920. Interessanti osservazioni a proposito della trattazione della tematica sessuale a livello di sostrato linguistico in Boito si trovano in E. Scarano, L’anatomia del corpo in una storiella vana di Camillo Boito, in: Linguistica e letteratura 1 (1981), pp. 37–85, qui p. 56. Ad esempio la postura degli arti che ripete quasi in maniera totale (la posizione della mano della fanciulla nel quadro di G. von Max non è infatti riconoscibile) l’allineamento statuario della rappresentazione boitiana e la resa del carnato. Il roseo della pelle isola le spoglie, contrapponendole anche sulla pagina al nero (si ricorderà qui la scena a inizio novella del turbamento di Carlotta alla vista dell’oscura figura filiforme dell’anatomista) e sottolineandone il ruolo ascrittogli. Per la postura da essi riprodotta, A. Carli individua in tre preparati anatomici, realizzati dalla scuola di Felice Fontana e ancora oggi conservati al Museo della Specola di Firenze, altrettante sicure fonti che Boito avrebbe utilizzato nel ritrarre il corpo inerme della giovane protagonista, nonostante i corpi dei primi due modelli non corrispondano al disegno boitiano né nella resa degli arti inferiori né in quella dell’integrità dell’insieme. Non anatomizzato risulta invece il terzo preparato, rappresentante una Venere scomponibile, di cui una copia si trovava, già al tempo di Boito, al Josephinum di Vienna. A. Carli, Anatomie scapigliate. L’estetica della morte tra letteratura, arte e scienza, prefazione di G. Langella, Novara, Interlinea, 2004, pp. 89–90. Si veda ad esempio C. Boito, Gite di un artista, Milano, Hoepli, 1884, pp. 139–170, 243 e sgg. Cfr. anche V. Cantoni e A. Ferraresi (a cura di), Ingegneri a Pavia tra formazione e professione. Per una storia della Facoltà di Ingegneria nel quarantennio della rifondazione, Milano, Cisalpino, 2007, p. 156; Lettera di Camillo Boito a Carlo Tenca. Venezia, 9 settembre 1859, in: Archivio Carlo Tenca [Cart. 1, f. 19], riprodotta in: C. Cretella, Architetture effimere. Camillo Boito tra arte e letteratura, Camerano, Dakota Press, 2013, pp. 298–299, qui p. 299.
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tra arte e scienza, la convivenza forzata e il dibattito/connubio tra le due discipline, la presenza di eredità romantica e pensiero positivista, il soggetto dell’azione (il medico), diverso dal soggetto tematico del dipinto (il cadavere della bella morta),8 l’oggettivazione del corpo, nonché l’analogia “not only […] between corpse and art object, but also […] [that] between deanimated human body and text as a body of dead letters”,9 una relazione di somiglianza quest’ultima, alla base della quale sta il fatto che, in quanto oggetto dello sguardo medico, “a corpse poses a ‘hermeneutic task’”.10 Carlo Dossi, confrontandosi anche lui con il tema della bella defunta e svelando un principio di gioco dialogico con Boito,11 scriverà in apertura del breve episodio Un amore perduto, tratto Dal calamaio di un medico del 1873: Vieni a vedere il bel pezzo – dissemi allegramente il dottore Martini,12 di sulla porta del luogo, che, sì temuto dai poveretti, noi chiamiamo il teatro, un teatro in cui spesso meriteremmo i fischi e le risa, quando arriviamo a capirci le malattie di chi fu nostro ammalato ed a guarirle perfettamente in teoria – e, traendomi seco mi addusse a una marmorea tavola sulla quale giaceva, nudo e bianchissimo, il corpo di una giovine morta.13
In Boito l’anatomista, cadavere lui stesso (si rammenti il suo aspetto spettrale e sinistro14) seduto accanto al cadavere di Carlotta, è, come nella tela di von Max, un artista che, invece di ammirare le singole parti anatomiche del corpo, gode della vista dello stesso come Gesamtkunstwerk nel senso di intero, di tutto, di corpo ancora intatto. Tale non è il corpo dipinto da Rembrandt in De anatomische les van 8
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Cfr. E. Bronfen, Over her dead body. Death, femininity and the aesthetic, Manchester, Manchester University Press, 1992, p. 5 (“while the corpse is positioned as the thematic subject, the anatomist is the subject of the action, because he functions as the internal focalisor of the picture, who guides the spectator’s view of the depicted object”). Ivi, p. 6. Ibidem. Per l’espressione da lei citata Bronfen fa riferimento a M. Higonnet, Speaking Silences: Womens’ Suicide, in: S. Rubin Suleiman, The Female Body in Western Culture. Contemporary Perspectives, Cambridge, MA & London, Harvard University Press, 1986, pp. 68– 83, qui p. 68. L’applicazione di tale principio sembra riscontrabile anche in altri testi, come ad esempio nel racconto Il Matrimonio di Maria (in: Rassegna Nazionale XIII/1 (giugno 1883), pp. 666–687) e nella romanza Povera Maria! di Madonnina Malaspina, seconda moglie di Camillo Boito, che contengono storie molto affini a quella della protagonista di Santuario. Cfr. C. Boito, Santuario, in: Id., Senso. Storielle vane, introduzione e note di R. Bertazzoli, Milano, Garzanti, 1990, pp. 281–297, e C. Cretella, Architetture effimere, cit., p. 94 sgg. Lo stesso vale anche per il componimento Lezione di anatomia di Arrigo Boito (in: Rivista minima, 17 maggio 1874) che sembra costituire quasi il seguito di Un corpo, rendendo così manifesto il possibile cosciente gioco intertestuale intrapreso da entrambe le parti. Il richiamo, in questa figura di Dossi, è quello al medico e scienziato pavese-lodigiano Paolo Gorini (1813–1881). C. Dossi, Ritratti umani. Dal calamaio di un medico, Roma, Sommaruga, 1883, pp. 23–24 [prima edizione: Milano, coi tipi di E. Civelli, 1873]. Si faccia attenzione alla descrizione del suo “volto giovanile”, che suscita in Carlotta “l’impressione del viso di un morto”, aspetto questo da ricondursi certamente anche al fatto che lo stesso trascorre in media dieci ore di studio al giorno in mezzo ai cadaveri. C. Boito, Un corpo. Storiella di un artista, in: La Nuova Antologia 14 (1870), pp. 313–343, qui p. 330.
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Dr. Nicolaes Tulp (1632),15 dove la scena ritratta è popolata da più persone e il cadavere – qui espressione della morte come puro fatto biologico –16 è quello di un uomo, nonostante il nome del fiammingo così come la sua opera non fossero sconosciute a Boito che, con tutta probabilità, gioca anagrammando nel nome di Gulz anche quello del medico olandese.17 Come l’artista nato a Praga, Boito si concentra più su un momento in cui il corpo, arrestato alla temporalità del disfacimento, mantiene ancora un’integra bellezza grazie all’artificio di un liquido iniettatovi:18 l’arte abbraccia dunque la scienza e, attraverso di essa raggiunge il risultato voluto, la conservazione post mortem, che è qui resa eterna dell’attimo estetico. OSSERVAZIONE, CREAZIONE E SCRITTURA A fine Ottocento il rapporto tra anatomia e letteratura, come ben descritto in La scienza del romanzo di Annamaria Cavalli Pasini,19 è molto stretto. Il positivismo e il naturalismo giocano in tale contesto un ruolo fondamentale: il soggetto è l’uomo “fisiologico”, che “per Zola è l’uomo totale, espressione insieme‚ di un cuore e di una carne […]. La fisiologia, dunque, vera scientia scientiarum della cultura ottocentesca, e il fatto, con la sua forza cogente e imprescindibile, diventano i poli entro cui giostrano le esperienze letterarie e scientifiche del periodo”.20 Il metodo di osservazione, come di nuovo insegna Zola, è quello minuzioso dell’indagine clinica: in Boito tale analisi si lega all’osservazione estetica. 15 16 17
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Rembrandt van Rijn, De anatomische les van Dr. Nicolaes Tulp, 1632. The Hague, Mauritshuis. Il dipinto rappresenta il professor Nicolaes Tulp, presidente della Gilda dei chirurghi ed anatomisti di Amsterdam, intento a spiegare, davanti alla dissezione dell’avambraccio sinistro di un famigerato criminale, il funzionamento dei tendini. Secondo Cretella il nome di Gulz potrebbe fungere, infatti, da punto di convergenza di più riferimenti. Oltre a quello relativo al celebre dipinto rembrandtiano, confluirebbero in esso altre suggestioni: la scelta dell’iniziale ‘g’ viene interpretata come un possibile omaggio a Paolo Gorini, mentre la lettera finale ‘z’ fornirebbe un “suono misterioso e austriaco”. C. Cretella, Introduzione, in: C. Boito, Storielle vane, a cura di C. Cretella, Bologna, Edizioni Pendragon, 2007, pp. 7–66, qui pp. 25–26. Da chiedersi rimane, tuttavia, se non sia da integrare a questa confluenza o, come ha fatto La Penna, da sostituire a tale lettura, il probabile riferimento ad un altro nome, ovvero a quello dello specialista di anatomia oculare Ignaz J. Gulz. Cfr. D. La Penna, Aesthetic Discourse and the Paradox of Representation in Camillo Boito’s ‘Un corpo’, in: Forum for Modern Language Studies 44/4 (October 2008), pp. 460–479, qui p. 478 (nota 11). Per una ricostruzione del profilo biografico e scientifico di Ignaz J. Gulz si consultino F. Krogmann, Ignaz Gulz – ein Wiener Augen- und Ohrenarzt vor 150 Jahren auf einer Studienreise nach Europa, in: Würzburger Medizinhistorische Mitteilungen 12 (1994), pp. 29–35, e id., Ignaz Gulz. Doktor der Medizin und Chirurgie, Magister der Augenheilkunde, Ritter des Franz-Joseph-Ordens, Erster Dozent für Ohrenheilkunde an der Universität Wien, k. k. Stadtarmen-Augenarzt der Haupt- und Residenzstadt Wien, Thüngersheim, Selbstverl. des Verf., 1996. C. Boito, Un corpo [1870], cit., p. 341. A. Cavalli Pasini, La scienza del romanzo. Romanzo e cultura scientifica tra Ottocento e Novecento, Bologna, Patron, 20062. Ivi, pp. 19, 21. Il corsivo è presente nell’originale.
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Osservare e scrivere o osservare per scrivere costituiscono i perni su cui fa leva la scrittura boitiana che, oltre al fantastico, aderisce al fatto, in questo caso specifico inteso come citazione, come frammento del tutto. La citazione è in Boito immagine ripresa in parola, ma anche immagine trasformata in parola. A molte di queste immagini, presenti nell’opera boitiana, ha dedicato più di un eminente studio Alberto Carli, di cui si vuole qui ricordare almeno il volume Anatomie scapigliate. L’estetica della morte tra letteratura, arte e scienza (2004),21 nel quale viene condotta anche un’analisi dettagliata del tessuto intermediale presente in Un corpo. L’UNO, IL DOPPIO E IL MOLTEPLICE Un corpo, racconto pubblicato nel giugno del 1870 sulla Nuova Antologia e inserito nel 1876 nella raccolta Storielle vane,22 si snoda su dualità in parte solo apparenti, poiché vita e morte, arte e scienza, ideale e reale nelle sue pagine si compenetrano e attingono gli uni dagli altri fino a diventare unità, coppia di opposti in tensione ed in attrazione, come Boito sembra voler riassumere anche nel titolo scelto per la famosa pubblicazione (Anatomia estetica) del dottor Carlo Gulz.23 È tuttavia nella bella Carlotta o meglio nel suo corpo, che è puro ideale estetico e, una volta privo di vita, materiale duro da scolpire e da tagliare, che l’autore concentra l’uno e il duale (se non il plurale), in quanto somma del molteplice.24 Come evidente già dalle prime pagine, i principali filtri di questo molteplice provengono dall’arte figurativa, dalla quale Boito può attingere senza riserve e limiti in quanto di essa profondo conoscitore; e similmente può agire anche il giovane artista viennese di ventiquattro anni,25 legato a Carlotta da un rapporto d’amore e di cui l’autore non svela il nome.26 Di lei, il protagonista non solo riproduce il corpo in una sua tela dedicata al tema mitologico di Alfeo e della ninfa Aretusa, ma, con una particolare aggettivazione e numerosi paragoni, plasma anche la perfetta e flessuosa fisicità, ricorrendo al vigore e al sublime delle “Amazzoni”, “delle Diane cacciatrici di Scopa e di Prassitele”, “delle Veneri callipigi, delle Veneri accoccolate, delle Ninfee sdraiate” e “di Psiche quando stringe Amore”, solo per menzionare alcune 21 22 23 24
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A. Carli, Anatomie scapigliate, cit. Di Carli cfr. anche Letteratura, arte e scienze anatomiche. Su Un corpo di Camillo Boito, in: Otto/Novecento XXIV/2 (2000), pp. 27–84, e Ritratto di Carlotta. I fratelli Boito e altri scapigliati, in: Trasparenze 13 (2001), pp. 73–82. C. Boito, Storielle vane, Milano, Treves, 1876. C. Boito, Un corpo [1870], cit., p. 318. Il molteplice è il principio compositivo che Boito adotta per delineare i suoi personaggi. Si veda a questo proposito tra gli studi pubblicati anche M. Mattana,‘Fatale fu il ritratto’: una mediazione tra realismo e fantastico in Un corpo di Camillo Boito, in: G. Caltagirone e S. Maxia (a cura di), “Italia Magica”. Letteratura fantastica e surreale dell’Ottocento e del Novecento, Cagliari, AM&D Edizioni, 2008, pp. 285–295. Che i protagonisti boitiani si muovano con un “highly educated aesthetic eye” nella percezione della realtà è stato già notato da D. La Penna in: Aesthetic Discourse and the Paradox of Representation, cit., p. 461. Si tenga presente il fatto che nel testo boitiano il rapporto tra l’artista e la sua musa è un rapporto di convivenza.
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delle figure archetipiche e simboliche utilizzate.27 Il rapporto tra modello e opera non è qui paritario: come quanto enunciato in alcuni versi di un sonetto di Michelangelo del 1550, riguardo alle opere non solo pittoriche di Giorgio Vasari,28 anche in Un corpo la perfezione della resa permette al prodotto dell’arte di superare quello della natura, con un’“inversione del rapporto consueto tra la realtà fisica del corpo e la sua riproduzione artistica”.29 In modo analogo sono superati inoltre anche i modelli artistici di riferimento: la musa Euterpe fornisce la fisionomia del volto, calibrata su elementi, figure e strumenti della geometria che indicano il disegno e l’armonia delle parti, la loro misura e proporzione; il volto di Carlotta risulta però privo “di quella freddezza un po’ disdegnosa e solenne, ch’è quasi sempre il carattere de’ volti greci”.30 Seguendo il metodo dell’anatomista,31 Boito procede nella descrizione di Carlotta per minuziosa osservazione delle parti: la figura della giovane fanciulla è,
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C. Boito, Un corpo [1870], cit., p. 315. Altri, come ad esempio quello ad Anfitrite, vengono aggiunti dalla voce di Carlotta. Si ricordi che la figura mitologica di Anfitrite trova esplicita citazione anche in C. Boito, Gite di un artista, laddove l’autore nomina le opere viste alla Gliptoteca del capoluogo bavarese (cit., p. 261). Le pagine di questo testo, che raccolgono impressioni e note di viaggio, si rivelano estremamente importanti anche per la decifrazione di altri racconti boitiani, in quanto in parte ivi riprese o anticipate. Si veda a questo proposito M. Dillon Wanke, Boito narratore e paesaggista, in: G. Agosti e C. Mangione (a cura di), Camillo Boito e il sistema delle arti. Dallo storicismo ottocentesco al melodramma cinematografico di Luchino Visconti, Atti degli incontri di studio promossi dall’Accademia di Brera, Padova, Il Poligrafo, 2002, pp. 61–74, qui p. 62 e sgg. Altri importanti testi con riferimenti simili a quelli contenuti in Gite di un artista sono ad esempio Camillo Boito, Scultura e pittura d’oggi. Ricerche, Torino, F.lli Bocca, 1877, e id., I principii del disegno e gli stili dell’ornamento, Milano, Hoepli, 1882. Michelangelo Buonarroti, Sonetto XI [A Giorgio Vasari per l’opera delle Vite de’ pittori, scultori ed architettori], in: Id., Rime, pubblicate da C. Guasti, Firenze, Le Monnier, 1863, p. 167. A Michelangelo, Camillo Boito aveva dedicato numerose pagine ad esempio in un volume pubblicato nel 1879 presso l’editore milanese Hoepli (Leonardo e Michelangelo. Studio d’arte, Milano, Hoepli, 1879), affiancandogli dapprima Leonardo, poi anche Andrea Palladio (Leonardo, Michelangelo, Andrea Palladio. Studii artistici, Milano, Hoepli, 18832). Punti di contatto con l’artista fiorentino, oggetto di studio e di ricerca, Boito sembra tuttavia averli, oltre che per la fama legata al mondo sia dell’arte sia della letteratura, per la maestria di resa delle forme corporee raggiunte nel personaggio femminile di Carlotta, che ritornerà, dopo eccellente cesellatura, inerme pietra. Le Storielle vane sono considerate nelle parole di risposta di Arrigo Boito a chi gli aveva allora richiesto il permesso di adattamento cinematografico di una di esse, nella “vasta bibliografia di arte, di storia dell’arte, di critica, di pedagogia, d’estetica […] come episodi isolati”. Cfr. il passo relativo nella corrispondenza di Arrigo Boito con Sabatino Lopez citata in P. Nardi, Camillo Boito narratore, in: Lettere italiane 11 (1959), pp. 217–223, qui p. 217. In secondo piano, rispetto agli studi sulle sue opere d’arte, sono rimasti anche quelli sui componimenti letterari di Michelangelo. E. Scarano, L’anatomia del corpo in una storiella vana di Camillo Boito, cit., p. 65. C. Boito, Un corpo [1870], cit., p. 315. Come Michelangelo, Boito è scultore di corpi. Come scultore, ma soprattutto come scrittore – in modo analogo all’equazione formulata da Zola nel 1866 in Le Figaro – Boito è inoltre anatomista. Boito, infatti, similmente al “romancier analyste” zoliano, osservando e descrivendo, si fa in parte anche scienziato. Émile Zola, Un roman d’analyse [Hector Malot: Les Victimes
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come quella dell’Olimpia di E. T. A. Hoffmann32 (ma anche la protagonista femminile di L’Ève future (1886) di Auguste de Villiers de l’Isle-Adam33), insieme di frammenti (genere, questo, caro ai romantici, primo fra tutti a Friedrich Schlegel), convergenza di mitologia, natura e artificio, composizione alchemica (alla pari della formula del profumo meraviglioso creato da Jean-Baptiste Grenouille di Patrick Süskind),34 creazione dell’uomo più che di Dio (“[…] tu sei uscita dal mio cervello”,35 dirà il protagonista all’inizio della terza parte del racconto). La generazione, nel senso di creazione, riguarda non solo la natura, ma altresì l’arte: il gesto artistico, su cui si era soffermato anche Michelangelo nel sonetto sopra citato, dà vita a un’opera, a un corpo; rendere quest’ultimo eterno, come aveva fatto nelle sue Vite il Vasari, spetta al gestante, ossia all’artista. In Boito l’artista è anche l’anatomista Carlo Gulz: non è un caso, infatti, che per derivazione onomastica Carlotta sia sua creatura e suo doppio, come suo doppio è lo stesso protagonista che, analogamente al primo, attua sul corpo della giovane, seppur verbalmente, una “prima serie di operazioni anatomiche”;36 un suo doppio, Carlotta lo trova inoltre nell’Aretusa del dipinto che, a ragione del suo splendore, un critico d’arte del quotidiano Glocke commenta come assemblaggio di parti anatomiche diverse: Dimostrava che il corpo di Aretusa, così perfetto, che certissimamente la natura non avrebbe potuto mostrare il simile, doveva essere stato composto come le api fanno il miele co’ fiori, o come Zeusi fece l’Elena con le fanciulle di Crotone.37
Con il riferimento a Zeusi, pittore greco vissuto nella seconda metà del V secolo a. C. e, come vuole una leggenda diffusa in epoca rinascimentale, autore di un dipinto di Elena nel tempio di Hera Lacinia a Crotone, somma della bellezza di cinque fanciulle, Boito fornisce la chiave di lettura del suo testo: quella dell’addizione delle parti. A quest’ultima è già stato però affiancato il suo contrario, ossia la sottrazione della materia, tipica del procedimento di modellamento adottato dallo scultore. Lo scrittore toglie, riduce, lima al fine di far emergere la figura a cui sta dando forma.38
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d’amour. Texte important sur la méthode du romancier analyste], in: Le Figaro (18 décembre 1866), t. X, p. 700. In Der Sandmann di E. T. A. Hoffmann (Berlin, Realschulbuchhandlung, 1816) Olimpia è la creatura ad un primo sguardo di ‘celeste bellezza’ foggiata dalle mani di Spalanzani. La stessa si rivelerà poi agli occhi di Nathanael nient’altro che una Holzpüppchen, un artificio costruito attraverso l’assembramento di diversi pezzi e privo di anima. A. de Villiers de l’Isle-Adam, L’Ève future, Paris, M. de Brunhoff, 1886. P. Süskind, Das Parfum. Die Geschichte eines Mörders, Zürich, Diogenes, 1985. Non può non essere ricordato, inoltre, il romanzo Mademoiselle de Maupin (1835–1836) di Théophile Gautier in cui la donna viene definita come “une essence idéale à parfumer une vie”. T. Gautier, Mademoiselle de Maupin, Paris, Charpentier, 1864, p. 127. C. Boito, Un corpo [1870], cit., p. 323. Interessante è qui il richiamo al mito di Atena, nata già adulta dalla testa di Zeus, a cui Boito fa esplicito riferimento poco più avanti (ivi, p. 332). E. Scarano, L’anatomia del corpo in una storiella vana di Camillo Boito, cit., p. 64. C. Boito, Un corpo [1870], cit., p. 332. Si noti per inverso l’uso della descrizione anatomica in riferimento all’architettura e alla scultura in Gite di un artista.
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La perfezione raggiunta nella resa dell’incarnato della ragazza,39 una visione angelica pari alla Lotte wertheriana, come sembra indicare il nome,40 è fissata sulla pagina e sulla tela con precisione insieme artistica e anatomica, e ripetuta anche in conclusione attraverso le parole dell’anatomista che può godere di questa stessa bellezza (sebbene ormai priva di vita, ma compiuta e incomparabile proprio per questo motivo) sul suo tavolo di lavoro. Similmente a Gulz, l’artista usufruisce di una superficie sulla quale condurre la sua spogliazione anatomica: Le membra erano modellate a cesello. Dove le ossa, non ravvolte nel fermo involucro di muscoli e di carne, lasciavano sotto la pelle trasparire, come nella rotula e tra il cubito e l’omero e all’ileo ed alla clavicola e sul frontale, la loro tinta di avorio; dove le arterie sottili e leggermente azzurrognole s’intrecciavano sul colore di rose, la mia tavolozza aveva, dopo un’ardua ma dolcissima fatica, raggiunto tal perfezione che mi faceva andare in visibilio.41
Come in Santuario, testo pubblicato il 5 giugno 1881 sul Fanfulla della domenica,42 l’occhio trapassa anche qui l’oggetto.43 Si ricordi che l’antropologo e scrittore Paolo Mantegazza ripeterà il procedimento in Epicuro II. Dizionario delle cose belle (1892) davanti alla trasparenza vitrea dell’epidermide delle statue greche, una trasparenza, questa, che non permette al suo occhio di scrutare, ma lo “invita a penetrare nel santuario della vita, dove”, dice l’autore, “vedo vibrare i tendini contratti o riposare i muscoli, fremere i nervi”.44 La penetrazione dello sguardo sostituisce in parte in Boito quella fisica: in parte, poiché il corpo di Carlotta, attraverso l’iniezione di quel “liquido colorato, spinto ne’ tessuti” e atto a garantire il mantenimento della sua bellezza,45 è stato già oggetto di penetrazione e di possesso. ἔρως e θάνατος scandiscono in un termine, quello dell’attraversamento con l’occhio e della carne, il rappresentato. Collocato orizzontalmente e in posizione passiva, il corpo della donna si contrappone a quello maschile, sia esso posto verticalmente o raffigurato in posizione seduta accanto al primo. In posizione passiva il corpo di Carlotta è rappresentato anche nel dipinto che la vede trasfigurata nella ninfa Aretusa, dove chiaro è un richiamo anche all’Ophelia del pittore preraffaellita John Everett Millais:46 Il boschetto di tamarisci lasciava vedere tra le fronde ed i rami un lembo di cielo azzurro; ma chiudeva nell’ombria diffusa e quasi lucente il dinanzi del terreno, dove tra i verdi trifogli e le 39 40 41 42 43
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C. Boito, Un corpo [1870], cit., p. 316. La Lotte wertheriana, inoltre, condivide con il personaggio femminile boitiano la bella figura, così come i lineamenti pieni di grazia. C. Boito, Un corpo [1870], cit., p. 324. C. Boito, Santuario, in: Fanfulla della domenica 23 (5 giugno 1881). Il testo esce per la prima volta in volume nel 1883 nella raccolta Senso. Nuove storielle vane (Milano, Treves). In Santuario il narratore attribuisce questa facoltà alla protagonista femminile, una giovane ragazza dal passato e dal destino infelice che, accolta tra le Figlie di Gesù, viene ritratta in una scena in ammirazione davanti a un dipinto rappresentante un santo e un bambino, in cui crede di riconoscere l’amato e il suo figlioletto, entrambi ormai morti. Camillo Boito, Santuario, cit. [ed. 1990], p. 290 e sgg. L’occhio e la vista giungono al punto di massima trattazione in La Macchia grigia, novella pubblicata nel dicembre del 1877 sulla Nuova Antologia (12, pp. 857–875). P. Mantegazza, Epicuro II. Dizionario delle cose belle, Milano, Treves, 1892, p. 115. C. Boito, Un corpo [1870], cit., p. 341. J. Everett Millais, Ophelia, 1851/52. London, Tate Gallery.
‘Scolpire la carta come il marmo per formare un corpo’: scienza, arti visive e letteratura 121 tenere mortelle e le vermiglie rose – qual avvi al mondo cosa – bella senza la rosa? – tra le rose e le mortelle e i trifogli scorreva, blando ruscello, il corpo della ninfa.47
La citazione (nel passo sopra riportato sono inseriti anche due versi dall’Ode LIII (Sopra la rosa) del poeta greco Anacreonte48) risulta in Boito medium, in quanto tassello del tutto. Il tutto è rappresentato dalla tela dipinta in cui si compie la sintesi: l’immagine di Aretusa, ninfa sfuggita al dio Alfeo e tramutata in fonte dalla dea Artemide, riproduce quella di Carlotta fino ad arrivare a sostituirla agli occhi del pittore che, come Pigmalione nel mito narrato da Ovidio, si innamora della sua creatura;49 allo stesso modo sono ripetute da Boito la fuga dalla bramosia di possesso del cacciatore Alfeo (che assume le sembianze dell’innamorato, ma anche quelle dell’anatomista Gulz) e il motivo della metamorfosi nell’elemento acquatico50 (anch’esso moltiplicatore intertestuale e intermediale e rappresentante, insieme al lunare, del femmineo per eccellenza), così come della successiva appropriazione del corpo. L’unità della dualità si realizza in un nome, quello di Aretusa, con cui Carlotta stessa nella sua lettera all’amato si firma. Al mito della ninfa della mitologia greca allude anche il luogo del primo incontro della ragazza con chi violerà il suo corpo, la Diana-Saal di un caffè viennese che, per il nome e le caratteristiche che lo contraddistinguono, acquista il significato di luogo di caccia.51 Il motivo della caccia è suggerito inoltre dalla descrizione di Carlotta nell’incipit della novella che, nella dinamicità di movimento, analogo a quello di una gazzella (simbolo di una femminilità arcaica e istintiva, ma anche di dolcezza e vulnerabilità), cerca di sfuggire per gioco all’innamorato:52 di fronte al cacciatore, principio attivo, sta l’animale, elemento passivo, in quanto – nonostante la fuga – essere che subisce la caccia. L’ambiente scelto è in tale sequenza quello del Prater di Vienna all’ora del crepuscolo, città, questa, che sarà luogo di soggiorno dell’autore anche nel 1873, anno che vedrà impegnato Boito come giurato all’Esposizione universale.53 Ma la 47 48
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C. Boito, Un corpo [1870], cit., p. 324. Il corsivo è presente nell’originale. Anacreonte, Ode LIII (Sopra la rosa), in: Odi di Anacreonte volgarizzate da P. Costa e da G. Marchetti, Bologna, Dalla Tipografia Nobili, 1823, pp. 62–63, qui p. 63. Da un’altra ode del poeta greco, la XX, Boito cita poco più avanti, dopo aver ricordato il mito di Alfeo ed Aretusa: “Monile al tuo bel collo vorrei farmi, / O zona al colmo seno; / O in socco pur cangiarmi / Sì che il tuo piede mi premesse almeno.” Id., Ode XX (Alla sua donna), in: ivi, p. 30. C. Boito, Un corpo [1870], cit., p. 324. La scultura in candido avorio realizzata da Pigmalione, anche lui, come il pittore boitiano, abilissimo artista, rappresenta una figura femminile di bellezza superiore a quella di qualsiasi donna vivente, un modello perfetto, il suo ideale di donna. Si ricordi la presenza dell’elemento indicante la trasformazione (la farfalla posta sulla tavola di legno sottostante a quella su cui giace il corpo della fanciulla) anche nel quadro di Gabriel von Max. C. Boito, Un corpo [1870], cit., pp. 329–330. Un’analisi del mito di Aretusa e dei riferimenti al mondo della caccia rispetto al testo boitiano qui analizzato si trova già in A. Gipper, Una scienza ai tremendi diritti: il corpo femminile e l’esautorazione dell’arte nel racconto Un corpo di Camillo Boito, in: P. Ihring e F. Wolfzettel (a cura di), La tentazione del fantastico. Narrativa italiana fra 1860 e 1920, cit., pp. 43–60. C. Boito, Un corpo [1870], cit., p. 313. Cfr. C. Boito, L’architettura all’Esposizione universale di Vienna, in: Nuova Antologia 25 (febbraio 1874), pp. 362–379. Il testo sarà poi inserito nel 1884 nella raccolta Gite di un artista. Un precedente passaggio di Boito nella capitale dell’impero austro-ungarico era già avvenuto nel 1867 durante un viaggio di ritorno dalla Polonia.
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scelta dell’ambientazione fornisce oltre al legame con la città asburgica anche un importante indizio di lettura, indicando la relazione della scrittura boitiana con quella di autori di lingua tedesca, in primis con l’opera di E. T. A. Hoffmann, “il maestro ineguagliato del perturbante in poesia”, come lo definirà Freud.54 In Un corpo das Unheimliche (‘il perturbante’55) assume in apertura, alla pari di Hoffmann e di Chamisso, sembianze fisiche: concentrato di esso è la figura del dottor Gulz, compagno, anticipatore e complemento dei tanti apostoli della scienza che in quegli stessi anni popolano la letteratura europea,56 figura mefistofelica e quasi un doppio – per fare uso della figura del Doppelgänger hoffmanniano – del vecchio avvocato e venditore di barometri Coppelius del celebre racconto Der Sandmann57 (ma anche dello strano uomo deciso ad acquistare l’ombra del giovane Peter Schlemihl di Adalbert von Chamisso),58 nonché folle demiurgo del male. Ciò che perturba Carlotta è il ritorno del rimosso, per usare ancora una volta la terminologia freudiana. Il perturbante fa capolino d’improvviso e la reazione che esso genera è descritta chiaramente nelle pagine boitiane: la comparsa di colui che viene descritto come “[u]n signore smilzo e lungo, vestito di nero”,59 che poi si rivelerà essere l’anatomista, davanti al quale Carlotta prova angoscia, è inattesa e fulminea. La fuga della fanciulla davanti al percepito pericolo ottiene solo in parte il fine prefissato: la rappresentazione al casotto dei burattini a cui il giovane pittore e la sua amata assistono in un angolo del Wurstel-Prater è, seppur divertente, anticipazione del reale e matrice generativa di paura, o meglio fattore moltiplicatore dell’ossessione da cui la giovane è assalita, poiché prelude alla sua fine.60 La maschera è una porta sulla realtà, ma anche il distacco da essa. È annullamento e fusione di identità e, insieme, nascondiglio. Della maschera si serve anche E. T. A. 54 55 56
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S. Freud, Das Unheimliche, in: Id., Gesammelte Werke, chronologisch geordnet, a cura di A. Freud et al., Frankfurt a. M., Fischer Taschenbuch-Verlag, 1999, vol. 12, pp. 229–268, qui p. 246. Questa è la traduzione italiana più diffusa del termine, che rende il significato solo a metà, in quanto in tedesco il prefisso privativo un- nega lo heimlich (da Heim = casa), ossia ciò che si conosce e in cui ci si riconosce (il familiare, il domestico, l’intimo). Si pensi ad esempio agli scienziati verniani. Interessante, nel testo boitiano, risulta anche la solennità e il misticismo della figura di Gulz che, innanzi alla Scienza, si alza in piedi e assume, attraverso la sua espressione e i suoi gesti, il ruolo di sacerdote di questo campo del sapere. C. Boito, Un corpo [1870], cit., p. 321. Cfr. E. T. A. Hoffmann, Der Sandmann, in: Id., Sämtliche Werke, vol. 3 (Nachtstücke. Klein Zaches. Prinzessin Brambilla. Werke 1816–1820, a cura di H. Steinecke e G. Allroggen, Frankfurt a. M., Deutscher Klassiker Verlag, 1985, vol. 3, pp. 11–49). Il racconto esce nel 1816 come testo d’apertura della raccolta in due volumi Nachtstücke pubblicata presso la Realschulbuchhandlung di Berlino. A. von Chamisso, Peter Schlemihls wundersame Geschichte, a cura di Friedrich Baron von La Motte Fouqué, Nürnberg, Johann Leonhard Schrag, 1814. C. Boito, Un corpo [1870], cit., p. 314. La stessa rappresentazione offre la chiave di lettura di Carlotta come burattino, quindi come donna ridotta ancora una volta a mero oggetto. Una funzione del tutto simile di prefigurazione la svolge anche l’inserto che il lettore incontra successivamente, ossia la lettera di Carlotta, documento dell’ossessione che stravolge la psiche della fanciulla.
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Hoffmann in Prinzessin Brambilla (1820),61 in cui viene intessuto un continuo gioco di specchi che permettono la duplicazione (se non la moltiplicazione) e la scomposizione dell’Io, procedimento a cui ricorre anche Boito. Anche l’atmosfera del Wurstel-Prater, data dai diversi gruppi di persone che lo popolano, dal festoso e sguaiato abbandono all’eccesso, dagli addobbi delle birrerie e dalla varietà di spettacoli rappresentati, sembra emulare in parte quella carnevalesca che fa da sfondo all’opera hoffmanniana, in cui, nel subbuglio di percezioni, vortice e vertigine assalgono ed “essenza e apparenza, metafora e verità” coincidono.62 Situata lontano dal chiasso e dalla calca è invece la tipica birreria d’Oltralpe, nella quale si svolge il dialogo-disputa tra anatomista e protagonista, confronto in cui la coppia apparente di opposti arte e scienza trova più di un punto di fusione: nell’innamorato che, in quanto artista, ha condotto i suoi studi anche su trattati anatomici e, da quando frequenta Carlotta, quasi per effetto diretto, è disgustato da tutto ciò che riguarda la disciplina scientifica corrispondente; nell’anatomista che, nella sua già citata pubblicazione, ha fatto progredire arte e scienza e trascorre dieci ore al giorno in mezzo ai cadaveri63 per ricercare sulla sua tavola di marmo bianco la bellezza del corpo umano. L’artista e lo scienziato sono alle prese con la stessa materia, il corpo di Carlotta. Sia il narratore che Gulz lo trattano infatti esclusivamente come tale:64 per il primo Carlotta, sebbene anima e corpo, è puro oggetto di rappresentazione, modello da utilizzare, riutilizzare e dipingere e in cui fare convergere differenti suggestioni; per il secondo, in quanto inerme, è pura materia artistica da contemplare e studiare sul freddo tavolo del suo laboratorio. Di sola materia, con riferimento al corpo di Carlotta, si parla in particolare nella scena finale, dove l’atteggiamento dell’artista e quello dello scienziato subiscono davanti al cadavere della fanciulla un’inversione di ruolo rispetto alle possibili aspettative del lettore: la bellezza ideale del corpo della giovane, che il narratore ha dichiarato per tutto il testo, lascia qui spazio ad una descrizione anatomica di un cadavere immobile, di un corpo – almeno così agli occhi dell’innamorato – che, nella sua fissità, non è nulla di più di un corpo muto: Mentre il dottore parlava io tenevo gli occhi fissi nella morta. Le braccia diritte lungo i fianchi, le mani poggiate sul marmo col rovescio, le gambe unite, la testa un po’ indietro, la bocca socchiusa, gli occhi spalancati, i capelli cadenti giù dalla metà del lato posteriore del tavolo: simmetria lugubre e ghiacciata.65 61 62 63 64
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E. T. A. Hoffmann, Prinzessin Brambilla. Ein Capriccio nach Jakob Callot, mit 8 Kupfern nach Callotschen Originalblättern, a cura di Wolfgang Nehring, Stuttgart, Philipp Reclam, 1971. C. Magris, “La Principessa Brambilla ovvero il teatro dell’identità”, in: P. Chiarini, C. A. Mastrelli, P. Scardigli e L. Zagari (a cura di), Filologia e critica. Studi in onore di Vittorio Santoli, Roma, Bulzoni, 1976, pp. 395–414, qui p. 400. Il ricordo va, tra gli altri, a Leonardo e a Paolo Gorini. Cfr. a questo proposito A. Carli, Anatomie scapigliate, cit., pp. 203–204. Da mettere in evidenza è anche l’uso dell’articolo indeterminativo nel titolo del racconto che indica al lettore un corpo ancora da lui non conosciuto, ma allo stesso tempo permette all’autore una prima riduzione di tale corpo ad elemento generico, privandolo così di una specifica identità. Cfr. C. Cretella, Architetture effimere, cit., p. 103. C. Boito, Un corpo [1870], cit., p. 343.
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Per l’anatomista, strenuo difensore della concezione materialista,66 al contrario, la morte di Carlotta funge da conditio sine qua non del processo estetico, laddove l’artista ha ‘generato’ la stessa, trasformando in Kunstwerk l’amata, quindi riducendola a mero riflesso del suo quadro, e dando così vita a un suo doppio, dal quale – senza possibilità di alternative – la giovane viene sostituita. La sua identità è stata trasferita. Con il trasferimento del dipinto alla mostra a cui si reca, e quindi esponendone il corpo, il protagonista fa di più: lo abbandona alla mercé del pubblico.67 Il dipinto, e con lui il corpo, viene venduto. L’alienazione del corpo ridotto a merce (completamento della sua resa oggettuale) coincide dal punto di vista temporale con la morte fisica di Carlotta.68 IL GESAMTKUNSTWERK BOITIANO La fitta rete di elementi e di suggestioni della creazione boitiana conduce, per il carattere che le è proprio, cioè per essere punto di convergenza e di interazione di arte, letteratura e scienza, e superficie di riflessione dei dibattiti in auge all’epoca della sua stesura e di altri allora ancora in fieri,69 a parlare di Gesamtkunstwerk, ovvero di opera d’arte totale, concetto indicante la fusione sinestetica di diversi mezzi di espressione artistica e su cui si era soffermato a riflettere più volte anche il compositore tedesco Richard Wagner.70 Contenitrice e/o generatrice di un Gesamtkunstwerk, in quanto moltiplicatrice di se stessa, è anche la singola citazione, come 66 67
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Si veda il lungo dialogo sul rapporto materia e spirito tra Gulz e il protagonista alla presenza di Herzfeld (ivi, pp. 320–321). L’abbandono dell’amata da parte dell’artista, insieme al tema dell’ossessione, tema ricorrente in Boito, ricorda qui il racconto The Oval Portrait (dapprima intitolato Life in Death, 1842) di Edgar Allan Poe, in cui la protagonista femminile, moglie di un pittore e di salute cagionevole, dopo essersi prestata a posare per lungo tempo come soggetto per un ritratto del marito, all’ultimo tocco di quest’ultimo alla sua opera, muore. Simile al destino di questa figura femminile sarà quello di Elizabeth Siddal, moglie di Dante Gabriel Rossetti, che poserà per il dipinto Ophelia di John Everett Millais e che, di salute già cagionevole, si aggraverà a causa del lungo periodo di immersione in acqua a cui era stata costretta dal pittore. Al racconto di Poe fa anche riferimento una nota di Scarano relativa alla seguente affermazione: “Dipingendo la ninfa sul modello di Carlotta, il pittore ha operato un’azione mortale analoga a quella compiuta da Parrasio per figurare Prometeo: come l’artista antico ha ucciso il modello vivente per rappresentare il personaggio mitico, così l’artista moderno, rappresentando incompiutamente la metamorfosi della ninfa, ha prefigurato la morte e la trasformazione di Carlotta”. E. Scarano, L’anatomia del corpo in una storiella vana di Camillo Boito, cit., pp. 77–78. Per la nota ivi, p. 78 (n. 34). L’articolo di giornale riportato nel racconto presenta la morte di Carlotta come incidente. A ragione della particolare condizione psicologica vissuta dalla giovane, la sua reazione improvvisa davanti al convoglio funebre della contessina di Bardach potrebbe tuttavia essere anche interpretata come suicidio. Insieme a questi, confluiscono nelle pagine anche alcuni nomi legati in maniera diretta e indiretta ad esempio all’ambiente dell’Accademia di Brera, presso la quale Boito operò per molti anni. R. Wagner, Die Kunst und die Revolution, Leipzig, Verlag von Otto Wigand, 1849; Id., Das Kunstwerk der Zukunft, Leipzig, Verlag von Otto Wigand, 1850; Id., Oper und Drama, Leipzig, Verlagsbuchhandlung von J. J. Weber, 1852.
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dimostra ad esempio il passo in cui Gulz dichiara con orgoglio di aver “ritrovato il secreto di Ruysch di Leida”.71 Indipendentemente dal riferimento diretto, voluto senza dubbio da Boito, per un lettore versato in storia dell’arte e in letteratura, la figura storica del botanico ed anatomista olandese Frederik Ruysch, celebre per l’invenzione della preservazione anatomica dei cadaveri, umani ed animali, crea una rete di richiami: quello a Giacomo Leopardi e al suo Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie ad esempio,72 così come quello alla trasposizione pittorica di Ruysch eseguita da Adriaen Backer e al dipinto di Jan van Neck, rispettivamente del 1670 e del 1683.73 Ruysch, a sua volta, è matrice di associazione e di sovrapposizione di altre figure, anche loro legate a tecniche di conservazione di cadaveri, prima fra tutte quella di Paolo Gorini (personaggio ricordato anche da Carlo Dossi) che, davanti al cadavere di Giuseppe Mazzini, si era prefisso “la trasformazione di questo in una statua incorruttìbile”, un’opera che avrebbe avuto “il mèrito di conservare con fedeltà l’espressione dell’uomo vivente”.74 Boito costruisce sì plurime asimmetrie e contrappunti, ma anche simmetrie e corrispondenze, facendo della digressione un evento epifanico, in quanto non da ultimo rivelazione e manifestazione di quello che non è ancora, ma che accadrà. Simmetrica all’incipit è ad esempio sia l’autodefinizione di Carlotta nella lettera all’amato in cui viene usato l’epiteto di “bizzarrina”,75 sia la scena posta – almeno 71 72 73 74 75
C. Boito, Un corpo [1870], cit., p. 341. G. Leopardi, Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, in: Id., Operette morali, con la prefazione di P. Giordani, edizione cresciuta e corretta da G. Chiarini, Livorno, pei tipi di Francesco Vigo Editore, 1870, pp. 207–215. A. Backer, Anatomische les van Dr. Frederik Ruysch, 1670 e Jan van Neck, Anatomische les van Dr. Frederik Ruysch, 1683. Entrambe le tele sono conservate all’Amsterdam Museum. P. Gorini, La conservazione della salma di Giuseppe Mazzini, Genova, Tipografia del R. Istituto Sordo-muti, 1873, pp. 42–43. C. Boito, Un corpo [1870], cit., p. 341. Nell’incipit il narratore aveva chiamato Carlotta “[l]a bizzarrina del campo de’ fiori” (ivi, p. 313, il corsivo è presente nell’originale), ossia utilizzando un verso di un vecchio stornello dal titolo Lassatela passar che fa la brava, contenuto in Canti popolari toscani, corsi, illirici, greci raccolti e illustrati da Niccolò Tommaseo (Venezia, Stab. Tip. Enciclop. di Girolamo Tasso, 1841). Il riferimento a questo testo, come già notato da La Penna, suscita interesse non solo per la presenza del tema della metamorfosi della fanciulla in acqua che, insieme alla punizione inflitta ai suoi inseguitori, riprende il mito di Aretusa, ma anche per un’interpretazione di Carlotta al di là di quella che è la sua immagine romantica, in quanto caricata, attraverso i versi successivi del componimento, di chiari elementi sessuali (D. La Penna, Aesthetic Discourse and the Paradox of Representation, cit., pp. 467–468). Tale lettura sembrerebbe trovare giustificazione – sempre secondo La Penna – anche nella citazione fatta dall’Eunuco di Terenzio, in cui il verso in questione (“Color verus, corpus solidum et succi plenum”, si veda C. Boito, Un corpo [1870], cit., p. 324, il corsivo è presente nell’originale) viene pronunciato da Chèrea. La consuetudine per l’anatomista del tempo dell’uso di cadaveri di prostitute per le autopsie si trova segnalato ad esempio in C. Mazzoni (Is Beauty Only Skin Deep? Constructing the Female Corpse in Scapigliatura, in: Italian Culture 12 (January 1994), pp. 175–187, qui p. 176, 183). Interessante è inoltre l’immagine della donna vampiro inserita nel passo in cui il narratore descrive la reazione avuta davanti al corpo inerme della fanciulla: “Sentivo sulla guancia due labbra fredde, che mi mordevano; e due braccia, due braccia scarnate, due ossa, che mi strangolavano in un amplesso mostruoso”. C. Boito, Un corpo [1895], in: Id., Storielle vane [2007], cit., p. 117. Il passo non è presente nella versione pubblicata in rivista.
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nell’edizione del 189576 – a suggello del racconto, dove Boito fa uso del colore per riassumere e ripetere nella brevità di un enunciato l’intera narrazione:77 quel bianco del fior di gelsomino78 (Carlotta), raccolto dal protagonista il giorno prima della tragedia dalla pergola della villetta di Teufelsmühle79 (idillio amoroso – tragedia) e, dopo l’ultimo incontro con l’amata, gettato nel fiume in cui la stessa ha perso la vita (morte della giovane), scompare nel fosco verde delle acque del Danubio80 (metamorfosi). Ancora una volta lo scrittore opera con rimandi che, se da una parte sembrano annunciare alcuni versi trakliani,81 dall’altra sono atti a chiudere – nella versione della terza edizione – il cerchio che Boito, anche qui come architetto, ha tracciato: artificio e natura, vita e morte sono di nuovo fianco a fianco. Così come Aretusa, trasformata in fonte, Carlotta si confonde con il fiume: il punto (quel fiore gettato da un ponte del Danubio), elemento di massima concisione ed elemento materiale, in quanto dapprima visibile, a contatto con lo scorrere dell’acqua svanisce. L’acqua, che dona la vita e mantiene la vita, come per l’Ofelia di Rimbaud,82 ninfa (e si ricordi qui l’incipit boitiano) e giglio galleggiante (nella scena finale è il gelsomino gettato nelle acque), ma anche, come per la sconosciuta della Senna,83 bella fanciulla dal destino infelice e le cui spoglie saranno esposte al pubblico per renderne possibile il riconoscimento, diventa per la giovane protagonista elemento di dissolvimento, di metamorfosi. La bella e giovane donna morta “non viene uc-
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C. Boito, Storielle vane, terza edizione completamente riveduta dall’autore coll’aggiunta di due storielle, Milano, Treves, 1895. Nella versione pubblicata in rivista e poi riprodotta in Storielle vane (Milano, Treves, 1876) la novella termina infatti con la lacerazione del quadro da parte dell’artista, che elimina le singole parti tagliate bruciandole con il fuoco. Il capoverso manca invece nella versione del 1895, che viene fatta concludere con la scena del fiore bianco di gelsomino che si perde nelle acque del Danubio. Questo può essere considerato non da ultimo un omaggio a Madonnina Malaspina, sposata dall’autore in seconde nozze nel 1887 e che aveva pubblicato in: La Rivista Europea (III/IV 1, 1 settembre 1872, pp. 85–86) il componimento Ad una pianta di gelsomini. Un intreccio intertestuale con la produzione del marito è anche dato dalla presenza in una delle romanze della donna del tema della morte “come un fior” in acqua di una giovane fanciulla. Cfr. Povera Maria! Elegia popolare abruzzese, parole di Madonnina Malaspina, musica di Francesco Paolo Tosti, Milano, Ricordi, 1886. Sia notato, inoltre, come il gelsomino non sia l’unico elemento floreale scelto per la caratterizzazione di Carlotta che, più volte, per l’abito così come per il suo aspetto acquista le sembianze di una rosa. C. Boito, Un corpo [1870], cit., p. 343. Cfr. anche ivi, p. 328. Si vedano a questo proposito le diverse trasposizioni pittoriche e fotografiche esistenti su Ofelia che hanno come tratto caratteristico, oltre punte di rosso, l’uso di entrambi i colori qui citati. L’uso del colore è uno degli elementi precipui della poesia di Georg Trakl (1887–1914). A. Rimbaud, Ophélie [1891], in: Id., Œuvres complètes, a cura di Rolland de Renéville e Jules Mouquet, Paris, Gallimard, 1954, pp. 51–52. Si ricordi qui la possibile suggestione anche dal libretto di Arrigo Boito per l’Amleto di Franco Faccio, che fu rappresentato al Teatro Carlo Felice di Genova il 30 maggio 1865. Come per Ofelia, anche per la Carlotta di Boito il corso degli eventi, indipendente dalla sua volontà, determina il cambiamento che porta all’esito finale. Sull’episodio avvenuto poco prima del 1900 e sulla sua rielaborazione come motivo si veda ad esempio E. Bronfen, Over her dead body, cit., p. 205 e sgg.
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cisa dalla forza bruta, ma da un eccesso di devozione”.84 Il mito originario si ripete e con lui la metamorfosi che esso racconta. Per la descrizione dell’esame autoptico fatto dall’anatomista l’autore sembra cedere la parola al fratello, autore, negli stessi anni, dei versi Lezione di anatomia85 e, in quanto librettista e compositore, oltre che letterato, anche lui fonte di suggestioni per la scrittura di Camillo Boito.86 Il corpo di una giovane donna, un’etica, nel componimento sopra menzionato, è ridotto a puro materiale didattico, oltre che a materiale artistico in quanto utilizzato dal poeta. Sottolineano nei versi l’aspetto dottrinale i nomi di alcuni grandi del sapere (Vesalio, Ippocrate, Harvey, Bacone, Sprengel e Koch), che il professore, figura centrale del componimento, cita prima di procedere con il sezionamento del cuore, di cui mostra al suo pubblico avido di conoscenza le parti (valvole, celle e aorta) per poi passare ad istruirlo sulla circolazione sanguigna, quindi sul concreto meccanismo fisico di tale organo. Dipinto dal poeta come metafora dei sentimenti e degli affetti quel cuore di una giovane defunta, descritta dapprima in modo del tutto idealistico (vv. 22–24), viene considerato dalla scienza moderna un puro oggetto di interesse scientifico. Sul soggetto scelto rimane da notare ciò che già nel 1846 nel suo The Philosophy of Composition lo scrittore americano Edgar Allan Poe, in cui tanta letteratura scapigliata (e non) avrebbe trovato uno dei suoi padri,87 aveva affermato, ossia che “the death of a beautiful woman is unquestionably the most poetical topic in the world”.88 Di tale affermazione Elisabeth Bronfen fornirà la seguente chiave di lettura: [b]y dying, a beautiful Woman serves as the motive for the creation of an art work and as its object of representation. As a deanimated body, she can also become an art object or be compared with one. Not without reason does the word corpus refer both to the body of a dead human or animal and to a collection of writings. Because her dying figures as an analogy to the creation of an art work, and the depicted death serves as a double of its formal condition, the ‘death of a beautiful woman’ marks the mise en abyme of a text […].89
È così che, oltre al corpo femminile inscenato – anatomizzato e fattosi prima pittura e poi marmo a contatto con la lastra fredda dello stesso materiale su cui è stato adagiato –, anche il testo scritto, attraverso la rappresentazione di quello stesso corpo, diventa opera d’arte. In fondo “senza spose cadaveri mummificate nella loro bel-
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F. Serra, La morte ci fa belle, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, seconda di copertina. Nel 1870, data della prima uscita della novella, i versi erano già stati terminati. Il componimento, infatti, porta la data del 1865. Analogo a quello boitiano è anche lo spunto tematico in Una lezione di anatomia di Bernardino Zendrini, pubblicata nella raccolta Prime poesie (1859– 1871), Padova, Premiata Tipografia Giammartini, 1871, pp. 37–41. È bene qui precisare che i prestiti sono reciproci. Al rapporto tra la scrittura boitiana e quella dell’autore americano si riferisce ad esempio C. Melani in Effetto Poe. Influssi dello scrittore americano sulla letteratura italiana, Firenze, Firenze University Press, 2006, p. 39 e sgg. E. A. Poe, The Philosophy of Composition [1846], in: The Works of Edgar Allan Poe, London, J. Shiells & Co/Philadelphia, J. B. Lippincott & Co., 1895, vol. 5 [Poems, Essays on Poetry and Eureka], pp. 180–194, qui p. 187. E. Bronfen, Over her dead body, cit., p. 71. Il corsivo è presente nell’originale.
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lezza, senza femmine nude e mercificate nella carne, che cosa resterebbe della storia letteraria e artistica occidentale?”90 Lo stesso Poe aveva fatto ruotare molti dei suoi racconti intorno a personaggi femminili, donne eteree ed idealizzate, come ad esempio Berenice e Ligeia, storie d’amore e di morte. Similmente opera Boito che, servitosi dell’ekphrasis e ampliandone allo stesso tempo il concetto, parla nelle sue pagine in maniera autoreferenziale anche proprio di quel suo testo, del corpo da lui doppiamente generato appunto, in parte conducendo in prima persona l’autopsia di quest’ultimo, ossia fornendo indizi sulla logica e sul calcolo che stanno dietro al suo racconto. Al lettore, al termine del suo lavoro da anatomista estetico, con una certa complicità e divertimento, Boito avrebbe quindi forse potuto far notare, riprendendo un passo dell’autore americano, che “no one point in its composition is referable either to accident or intuition” e “that the work proceeded, step by step, to its completion with the precision and rigid consequence of a mathematical problem”.91 Così, tuttavia, avrebbe scelto di non tacere nulla, non lasciando al suo pubblico alcun margine di interpretazione. Al lettore che, come l’anatomista del dipinto di Gabriel von Max, sembra immaginare intento in un gesto di riflessione su un corpo Boito affida invece il compito di scoprire per intero la sua creazione, di determinare, alla pari dell’anatomista, quelle proporzioni a cui lui, autore, in parte ha scelto solo di accennare. Il corpo del testo, come quello della fanciulla, “body of signs in relation to and in comparison with […] other texts”,92 sarà quindi sezionato da chi, leggendolo, con esso ha deciso di confrontarsi.
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M. Onofri, Belle da morire le donne nell’arte, in http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/donnenell-arte-saggio-francesca-serra-la-morte-ci-fa-belle.aspx (data di accesso: 17 ottobre 2013), parafrasando la domanda posta da Francesca Serra in La morte ci fa belle, cit. (si vedano in particolare le pagine introduttive dal titolo La sposa cadavere). E. A. Poe, The Philosophy of Composition [1846], cit., p. 182. E. Bronfen, Over her dead body, cit., p. 6.
SULLA SCRITTURA PITTORICA DI CAMILLO BOITO Luca Mendrino Alla memoria di Maria Silvana Perrone
È noto come la prosa di Camillo Boito sia spesso impreziosita da accuratissime descrizioni di paesaggi1 e di figure femminili.2 Nella sua Storia della Scapigliatura Gaetano Mariani denunciava un “descrittivismo petulante e minuzioso che mortifica tante pagine di Camillo Boito”, ma elogiava subito dopo la “trionfante coscienza pittorica che tutto investe e dimensiona in chiave coloristica”.3 Proprio sull’individuazione di questa “coscienza pittorica” e sui suoi esiti in “chiave coloristica” una conferma notevole, anche sull’uso e funzione del colore, viene dalla lettura della novella Quattr’ore al Lido (1876). Assecondando “quel gusto per l’analisi comparata”4 che, come ha fatto notare Camerino, caratterizza le pagine della Storia della Scapigliatura e più in generale il metodo critico del suo autore, Mariani paragonava “l’ardita scomposizione del linguaggio tradizionale che ha come centro focale la sensibile individuazione dei rapporti tra parola e colore”5 dei Bozzetti di Giovanni Camerana alla “scrittura pittorica di Camillo Boito”.6 In realtà l’assimilazione della prosa boitiana ai modi e alle tecniche della pittura era già stata ravvisata dai contemporanei dell’autore. Non è stata fatta mai notare la sorprendente conformità delle recensioni alla prima edizione delle Storielle vane che si leggono nei periodici del 1876. Sembra quasi impossibile per i recensori definire lo stile compositivo di Boito senza ricorrere al paragone con la pittura. Il 10 luglio Filippo Filippi su La Perseveranza elogiava la “radiante tavolozza con cui Boito, meglio che scrivere, pare che dipinga”.7 Il 16 luglio su Illustrazione Italiana Leone Fortis, sotto lo pseudonimo di Doctor Veritas, definiva Boito un “pittore efficacissimo”, un “robusto coloritore”, 1
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Cfr. P. Zambon, Il “realismo estetico” di Camillo Boito, in: Id., Letteratura e stampa nel secondo Ottocento, Alessandria, dell’Orso, 1993, pp. 5–46; M. Dillon Wanke, Boito narratore e paesaggista, in: G. Agosti, C. Mangione (a cura di), Camillo Boito e il sistema delle arti. Dallo storicismo ottocentesco al melodramma cinematografico di Luchino Visconti, Padova, Poligrafo, 2002, pp. 61–74. Cfr. C. Cretella, Architetture effimere. Camillo Boito tra arte e letteratura, Camerano, Dakota, 2013. G. Mariani, Storia della Scapigliatura, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 19712, p. 579. La prima edizione risale al 1967. G. A. Camerino, “Saper leggere”. Ricordo di Gaetano Mariani, in: Id., Primo Novecento. Con analisi specifiche su Pascoli, d’Annunzio, Saba e Montale, Avellino, Sinestesie, 2015, p. 169. G. Mariani, cit., p. 556. Ivi, p. 542. F. Filippis, Appunti bibliografici. Le Storielle vane di Camillo Boito, in: La Perseveranza (1876).
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osservando ancora: “che delicatezza di chiaroscuri, che morbidezza di pennello, che impasto di colorito!”.8 Nelle recensioni nel 26 e 27 luglio sul Corriere della Sera Sylvanus presentava Camillo Boito come “un pittore in potenza, uno che non sapendo o non volendo dipingere col pennello, dipinge colla penna”.9 Nel Bollettino Bibliografico del fascicolo di ottobre della Nuova Antologia si legge che “Il sig. Boito è un colorista; con pochi tocchi di pennello ritrae al vivo un paese, un interno, una persona”.10 Il 1876 è pure l’anno in cui viene pubblicata, sempre sulla Nuova Antologia, Quattr’ore al Lido,11 che poi entrerà nel volume Senso. Nuove storielle vane (1883), con l’aggiunta del sottotitolo Schizzo dal vero.12 La collocazione all’interno della Rassegna Artistica della rivista e l’assenza di un sottotitolo che la qualifichi come un’opera di prosa creativa – quasi sempre Storiella vana – trovano giustificazione nella struttura compositiva del testo, in cui è individuabile un’unica sequenza, un unico personaggio, peraltro privo di una qualsivoglia caratterizzazione, e nessun dialogo. La totale assenza di trama, anzi di narrazione, in favore della pura rappresentazione, la rende effettivamente maggiormente comparabile ad una delle numerose rassegne artistiche che Camillo Boito curò sulla rivista piuttosto che ad una novella, a maggior ragione in questa prima versione, in cui è presente una lunga premessa teorica sul tema dell’“arte nella natura”13 che poi verrà espunta nella pubblicazione in volume. Per gli stessi motivi il testo si rivela territorio d’indagine privilegiato per comprendere quel modello di prosa sensibile agli effetti della luce che l’autore elaborò senza pretese di metodo o sistematicità, ma soprattutto per illustrare le più comuni strategie cromatiche adoperate nelle descrizioni; strategie non dissimili da quelle utilizzate da un pittore sulla sua tela, come già avevano intuito i primi recensori delle Storielle. Si badi: intuito, non illustrato attraverso degli esempi. Successivamente la questione è stata solo abbozzata negli studi critici, come se altri, in passato, avessero già fatto chiarezza, quando in realtà ciò non è mai avvenuto. Non è stato mai spiegato con esattezza, ossia attraverso dei puntuali riferimenti testuali, in 8 9
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Doctor Veritas, Conversazione, in: Illustrazione Italiana, 38 (1876), poi in: L. Fortis, Conversazioni, Milano, Treves, 1877, pp. 343–356: 351, 355, 356. Sylvanus, Storielle vane di Camillo Boito, in: Corriere della Sera (1876). Si veda ora in G. Farinelli (a cura di), La pubblicistica nel periodo della Scapigliatura. Regesto per soggetti dei giornali e delle riviste esistenti a Milano e relativi al primo ventennio dello Stato unitario: 1860–1880, Milano, Istituto propaganda libraria, 1984, p. 109. Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti, s. II, XXXIII, 10, Firenze, Le Monnier (1876), p. 444. Cfr. C. Boito, Rassegna artistica. Quattr’ore al Lido, in: Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti, s. ii, xxxii, 8, Firenze, Le Monnier, (1876), pp. 860–867. Cfr. ora C. Boito, Quattr’ore al Lido. Schizzo dal vero, in: Id., Senso. Storielle vane, a cura di R. Bertazzoli, Milano, Garzanti, 1990, pp. 298–305. Salvo i casi in cui si citano le parti omesse, presenti nella versione apparsa sulla Nuova Antologia, faremo sempre riferimento a questa edizione per tutte le novelle dell’autore (d’ora innanzi: C. Boito, seguito dal titolo della novella e dalla pagina in cifra araba). Da segnalare in questa e in molte altre edizioni moderne l’inesatto utilizzo della minuscola nel titolo della novella. Il titolo filologicamente più corretto vorrebbe invece Lido con la maiuscola, così come compare nella versione in rivista del 1876, nella prima edizione in volume del 1883 e soprattutto in quella del 1899, l’ultima rivista dall’autore. C. Boito, Rassegna artistica. Quattr’ore al Lido, cit., p. 860.
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che cosa consistette a livello pratico la “scrittura pittorica” di Camillo Boito, neppure dallo stesso Mariani. Anche in un recente studio di Chiara Cretella, che vorrebbe essere un primo tentativo d’indagine sulle influenze artistiche della prosa di Camillo Boito, il problema non è affrontato e l’indagine si focalizza principalmente sull’individuazione delle radici iconografiche delle novelle, sebbene non manchino alcune considerazioni sul valore simbolico assunto dai colori nelle descrizioni. La studiosa cita raramente Quattr’ore al Lido, presentandolo però come “un esperimento d’avanguardia”.14 E Quattr’ore al Lido è effettivamente un esperimento letterario, nella misura in cui radicalizza l’applicazione di un precetto pur classicistico come l’“ut pictura poesis” oraziano. La novella, nella versione del 1876, iniziava con una vera e propria dichiarazione di poetica: “Guardiamo questa volta, se non vi spiace, l’arte nella natura. Si ha diritto anche noi di dipingere, per nostro conto, de’ quadri senza pennello”.15 Al narratore è lecito tentare di “dipingere” attraverso la scrittura. Del resto cinque anni prima, in un’altra Rassegna artistica, Boito aveva scritto che letteratura e pittura si propongono entrambe lo stesso fine: “ricercare con tenace puntiglio la realtà delle cose”.16 Una realtà che possiede simultaneamente una dimensione morale e una materiale: “La letteratura, la poesia, l’arte drammatica, l’arte figurativa inclinano alla imitazione minuta, ma ardita e, per così dire, anatomica della natura morale e della natura visibile”.17 Questa doppia natura è caratteristica pure del colore, come l’autore dichiara in uno dei primi periodi della novella Il colore a Venezia (1875):18 “Il colore nel doppio suo senso morale e materiale è un gran tormento dell’artista d’oggi”.19 Ciò basterebbe a considerare il colore come una forma di linguaggio appropriata a rappresentare una realtà con cui condivide la medesima dualità strutturale. Ma la dimensione comunicativa del colore verrà espressa esplicitamente da Boito: “I colori sono per i fanciulli e per i grandi una lingua viva: parlano senz’altro aiuto alla immaginazione ed al cuore in parole arcane”.20 Il passo è tratto da I principii del disegno e gli stili dell’ornamento (1882). Si tratta di uno scritto finora trascurato dalla critica, che tuttavia si rivela illuminante per comprendere e motivare l’uso del colore nelle descrizioni delle Storielle. Con intento puramente didattico sono esposti i fondamenti del disegno, fra i quali rientra l’uso del colore, approfondito nel settimo capitolo: Il colore negli intrecciamenti geometrici. Alcuni dei principi espo-
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C. Cretella, cit., p. 244. C. Boito, Rassegna artistica. Quattr’ore al Lido, cit., p. 860. C. Boito, Rassegna artistica, in: Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti, xvii, 6, Firenze, Le Monnier (1871), p. 424. Ibidem. Cretella sostiene che la novella sarebbe stata pubblicata per la prima volta nel 1873 sulla “Strenna Veneziana”, dunque due anni prima della sua pubblicazione sulla Nuova Antologia. Cfr. C. Cretella, cit., p. 47. C. Boito, Il colore a Venezia. (Queste annotazioni sono tolte dall’albo di un artista pedante), p. 386. C. Boito, I principii del disegno e gli stili dell’ornamento, Milano, Hoepli, 19257, rist. anast. Milano, Cisalpino-Goliardica, 1988, pp. 74–75.
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sti, fra i più comuni accorgimenti adoperati nella pittura, sono palesemente identificabili nella novella. In Un corpo (1870) il protagonista, un pittore, accenna ad un’esperienza sensoriale molto particolare: Non ebbi mai come in quell’ora l’intelletto del colore. Nel verde di una foglia, nell’oltremare liscio del cielo, nelle macchie de’ muri sentivo un’arte compiuta, la quale mi produceva dentro gli stessi effetti della musica di Beethoven. Le mille gradazioni delle tinte, ciascuna in se stessa, mi rivelavano qualche cosa di nuovo, mi suggerivano una idea, mi suscitavano un affetto. Il senso della vista, assottigliandosi, aveva trovato una segreta serie di relazioni con l’anima.21
Questo “intelletto del colore” è per l’appunto la capacità – si cita dalla parte poi espunta da Quattr’ore al Lido – di “vedere nella natura i quadri belli e dipinti, unendo così in una sola gioia la vista del vero e quella dell’arte”.22 Già Croce nella sua fugace disamina della narrativa di Camillo Boito aveva messo in risalto “il suo contemplare con occhio di pittore luoghi e paesaggi”, il suo osservare “tutte le cose con occhio di pittore”.23 Osservare l’”arte nella natura” fa sì che “gli oggetti più insulsi e volgari pigliano una cert’aria di novità saporita e fragrante” e diventa addirittura possibile “Nella stessa laida bruttezza scoprire un lato pittoresco”,24 come pure si leggeva in Il colore a Venezia.25 Scrive Boito, concludendo la premessa di carattere teorico della novella: Io che scrivo, ebbi queste virtù giorni addietro, per sole quattro ore pur troppo! E in un momento e in un luogo dove non c’è animetta, per piccola che sia, che non le abbia. Venezia da una parte, il mare dall’altra: il tramonto.26
In questa fase Boito ambisce ad una prosa capace di rappresentare il reale più compiutamente probabilmente della stessa pittura. Poiché ritiene possibile “dipingere […] de’ quadri senza pennello”, il narratore tenterà ora di riprodurre con la scrittura il “lato pittoresco” di quanto ha osservato in un pomeriggio trascorso al Lido di Venezia. Ma è facile ipotizzare un ulteriore proposito: dar sostanza ad un sentimento paragonabile a quell’”intelletto del colore” non attraverso l’osservazione diretta del reale, come per il protagonista di Un corpo, non attraverso la contemplazione di un quadro, ma attraverso le parole di un testo. In questo consistette a livello teorico l’esperimento di Quattr’ore al Lido. Un proposito che negli anni Settanta Boito riteneva ancora possibile, pur consapevole che la via della trasposizione letteraria attraverso il filtro della memoria non è sempre percorribile, poiché – si cita da Il colore a Venezia – “ci sono delle impressioni che, mentre rimangono vaghe nella mente, paiono potenti di novità e di forza, e quando si trasmutano in corpo, sia 21 22 23 24 25 26
C. Boito, Un corpo, p. 21. C. Boito, Rassegna artistica. Quattr’ore al Lido, cit., p. 861. B. Croce, Camillo Boito, in: Id., La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, v, Roma, Laterza, 1974, pp. 293, 296. C. Boito, Rassegna artistica. Quattr’ore al Lido, cit., p. 861. Cfr. C. Boito, Il colore a Venezia. (Queste annotazioni sono tolte dall’albo di un artista pedante), p. 386: “abiezioni e splendori […] hanno la somma virtù, l’unica virtù, la quale importi all’artista, quella di essere pittoreschi”. C. Boito, Rassegna artistica. Quattr’ore al Lido, cit., p. 861.
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pure in prosa od in verso, diventano cose fiacche e vietissime”.27 Boito tornerà a riflettere sulle potenzialità rappresentative della scrittura anche in altre occasioni. Nella sua ultima novella, Una salita (1895), il tentativo di descrivere lo splendore delle Dolomiti diventa l’occasione per asserire i limiti della scrittura e della pittura: Non v’ha che un’arte capace d’indicare codesti risvegli solenni e lieti della natura; e infatti anche l’anima dell’ignorante, contemplandoli, canta dentro certe melodie indeterminate, ma sublimi, e sente per un attimo in sé qualcosa del genio di Beethoven. L’arte della parola val poco, quella del pennello niente.28
Si noti ancora il riferimento a Beethoven. Resta dunque solo la musica e difatti dopo il 1895 Boito non si cimenterà più con la scrittura creativa. Ma nel 1876 egli persegue ancora la via della sperimentazione e come lui tanti altri. Si era infatti nel pieno di quella “bozzettomania” che “piglia ogni giorno più serie proporzioni”29 denunciata da Federico De Roberto negli Arabeschi (1884). Nel 1876 Ambrogio Bazzero pubblicava su La Vita nuova i suoi Acquerelli, bozzetti in prosa poi confluiti in volume negli Schizzi dal mare. Acquarelli (1885). Si pensi anche alle Figurine (1875) di Giovanni Faldella e soprattutto al colorismo pittorico della prosa di Emilio Praga negli Schizzi a penna (1865), che inaugurano il filone.30 Si è detto che nelle Storielle la parte introduttiva di Quattr’ore al Lido viene omessa, ma in realtà sarebbe meglio dire surrogata dall’emblematico sottotitolo Schizzo dal vero, che, oltre a riassumerne il senso generale, pone il testo all’interno di questo sottogenere della narrativa scapigliata, almeno nelle intenzioni del suo autore. In cosa consiste a livello pratico l’esperimento letterario di Boito? La narrazione, come spesso accade nelle Storielle, è in prima persona. Camillo Boito (che è dunque il protagonista della novella) sta nuotando sotto un cielo azzurro. Il mare, come viene ribadito più volte, è di colore verde ed egli prova grande piacere ad immergersi “nell’ampio verde”31 della laguna: Mi pareva di entrare nell’infinito. Cacciavo sotto il capo con gli occhi aperti per vedere il verde diafano, di una gradazione così delicata, così gentile, che avrei voluto sprofondarmici dentro, sicuro di trovare al fondo del colore smeraldino una sirena bionda.32
Nei Principii del disegno Boito accenna alla dimensione comunicativa che possiede la “lingua viva” del colore, fornendo alcuni esempi di significazioni morali possedute dai colori. Si legge, per esempio, che “Nell’azzurro e nel verde l’animo si 27 28 29
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C. Boito, Il colore a Venezia. (Queste annotazioni sono tolte dall’albo di un artista pedante), p. 386. C. Boito, Una salita, p. 138. F. de Roberto, Novelle, in: Id., Arabeschi, Catania, Giannotta, 1883, p. 144. Poco prima De Roberto scriveva: “Si nota in Italia, da qualche anno a questa parte, un sensibile aumento nella produzione di novelle, e bozzetti, e scenette, e schizzetti, e raccontini, come se tutti i poetastri che hanno infestato il bel paese andassero finalmente comprendendo che la poesia non è pane per i loro denti e cercassero di far passare la loro merce quasi di contrabbando, rivestendola in una forma diversa” (ivi, p. 141). Cfr. G. Rosa, La narrativa degli scapigliati, Milano, Unicopli, 20122, pp. 95–98. La prima edizione risale al 1997. C. Boito, Quattr’ore al Lido. Schizzo dal vero, cit., p. 299. Ivi, p. 298.
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quieta”.33 E difatti il protagonista della novella, collocato a metà fra l’azzurro del cielo ed il verde delle acque di Venezia, si abbandona ad un momento di profondo rilassamento psico-fisico: “[…] facevo il morto. Mi coricavo sul mare come sopra il più morbido dei cuscini, immobile, con le braccia aperte e con le gambe unite. Il mare mi dondolava placidamente, cantandomi la ninna nanna”; e più avanti: “mi gustavo di nuovo la dolcezza di quel giaciglio soffice e fresco”.34 Leggiamo ancora nei Principii del disegno: “Nel linguaggio di essi [dei colori] la significazione ha talvolta il suo fondamento nella natura fisiologica dell’uomo o nella ragione reale delle cose”.35 È probabilmente poco noto che una copia del volume Fisiologia dei colori (1873)36 era presente nella biblioteca personale di Camillo Boito. In quest’opera, che precede nel tempo la maggior parte delle novelle e soprattutto I principii del disegno, è sostenuta per l’appunto la medesima tesi su basi scientifiche: la significazione morale del linguaggio dei colori ha origine nella natura fisiologica dell’uomo. Il suo autore, il medico bergamasco Filippo Lussana,37 fu una delle personalità accademiche più rilevanti dell’Italia postunitaria. Professore di fisiologia umana nell’Università di Parma prima e di anatomia e fisiologia sublime nell’Università di Padova poi, fu autore di oltre duecento pubblicazioni. Figura più rinascimentale che ottocentesca, anche grazie ad una formazione giovanile nutrita di studi classici, Lussana ebbe pure qualche ambizione letteraria, se è vero che pubblicò delle Poesie scientifiche38 (1852) e che fu anch’egli tentato dalla “bozzettomania” di derobertiana memoria, come provano dei Bozzetti medici (1887). Fra i suoi scritti in qualche modo collegabili alla letteratura si ricorda pure Una lezione fisiologica di Dante sulla generazione (1878), in cui l’esegesi del canto xxv del Purgatorio diventa l’occasione per fare di Dante un improbabile precursore della teoria darwiniana. Lussana non rinuncia ai riferimenti letterari anche in alcuni dei suoi studi scientifici. In Fisiologia dei colori il suo discorso parte per l’appunto dai versi di un’ode, All’armi! All’armi! di Giovanni Berchet: Allorquando noi contempliamo il vessillo tricolore della nostra Italia, ci ricorrono sempre dolcemente alla memoria i versi del nostro Bardo: Il verde la speme tanti anni pasciuta, Il rosso la gioia d’averla compiuta, Il bianco la fede fraterna d’amor.
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C. Boito, I principii del disegno, cit., p. 75. C. Boito, Quattr’ore al Lido. Schizzo dal vero, cit., pp. 298–299. C. Boito, I principii del disegno, cit., p. 75. F. Lussana, Fisiologia dei colori con incisioni intercalate nel testo, Padova, Sacchetto, 1873. All’interno del Fondo Camillo Boito della Biblioteca dell’Accademia di Brera la segnatura del volume è N vii 27. Per delle sintetiche informazioni sul contenuto del Fondo, che fu donato dallo stesso autore all’Accademia nel 1914 cfr. G. Agosti, Cenni sulla biblioteca di Camillo Boito, in: Camillo Boito e il sistema delle arti, cit., pp. 95–99; C. Cretella, cit., pp. 257–267. Ringrazio Giacomo Agosti per avermi fornito la sua catalogazione del Fondo. Cfr. G. Bock Berti, voce Filippo Lussana, in: Dizionario biografico degli italiani, LXVI, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, 2006, pp. 669–672. Cfr. L. Premuda, Le “poesie scientifiche” di Filippo Lussana (1820–1897), fisiologo padovano, in: Scritti in onore di Adalberto Pazzini, Roma, Istituto di storia della medicina, 1968, pp. 460–474.
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E nel ripetere questi versi patriotici, ditemi! Non vi spuntò nell’anima talvolta curioso un pensiero, una domanda: Perché mai noi abbiamo attaccato alcune morali significazioni ai diversi colori?39
Partendo dai versi di Berchet, egli arriva a teorizzare l’esistenza di una “fisiologia morale dei colori” basandosi sull’interpretazione di diverse mappe frenologiche, in cui nota come gli organi del colorito e del linguaggio siano contigui, per la precisione entrambi collocati nella parte anteriore del cervello. Se le sezioni del discorso di Lussana riguardanti la localizzazione encefalica poterono interessare ben poco Camillo Boito, altrettanto non può dirsi delle conclusioni a cui arrivò il fisiologo bergamasco: “Io credo in una fisiologia morale dei colori. Più volte ho detto, che i colori hanno un linguaggio, e che questo linguaggio risponde ai nostri diversi sentimenti; e che questo linguaggio non è convenzionale, ma risiede nella nostra stessa organizzazione, […]”.40 Sono esattamente i concetti espressi pochi anni dopo da Boito nei Principii del disegno. Anche Lussana fornisce degli esempi di significazione morale di colori. Rammenta “le impressioni benefiche e soavi, che sull’animo nostro vengono arrecate dalla luce azzurra e verde”,41 similmente a quanto farà Boito. Ricorda pure l’effetto benefico del colore verde sulla vista,42 come pure Boito nelle battute iniziali de Il collare di Budda (1880), dove il protagonista, abbagliato dal sole mattutino, riposa la vista fissando le acque verdi della laguna di Venezia.43 Ma si torni nuovamente al testo di Quattr’ore al Lido. Dopo il “verde del mare” sono descritti i colori del sole che tramonta, che sono quelli delle gradazioni dell’arancio e del rosso, che si mischiano all’azzurro del cielo e somministrano una nuova luminosità al quadro ‘dipinto’ da Boito. Nei Principii del disegno si accenna in chiave didattica alla teoria dei colori complementari e si fa l’esempio per l’appunto dell’arancione e dell’azzurro: Non è prezzo dell’opera lambiccarsi il cervello intorno alla teoria dei colori complementari: meglio mostrare con la pratica, per esempio, come l’azzurro e il ranciato (il ranciato è complementare dell’azzurro) posti accanto l’uno all’altro si rinvigoriscano a vicenda, […] e così il rosso con il verde, il giallo con il violetto.44
La teoria dei colori complementari è oggetto di ampia trattazione in Fisiologia dei colori, dove si fornivano esattamente i medesimi esempi fra i tanti possibili: “torna di buon gusto e ci fa bene all’occhio un rosso che bordeggi il verde, l’azzurro accanto al ranciato, il giallo al violetto”.45 L’accostamento di colori complementari è ravvisabile in molte descrizioni boitiane. In Un corpo il protagonista ha dipinto un 39 40 41 42 43 44 45
F. Lussana, Fisiologia dei colori, cit., p. 5. Ivi, p. 109. Ivi, p. 17. Cfr. ivi, p. 19: “[…] solevasi qualche anno addietro dare la esclusiva preferenza agli occhiali verdi e alle tende verdi, ogniqualvolta si voleva diminuire l’effetto di una luce troppo viva”. Cfr. C. Boito, Il collare di Budda, p. 263 “[…] fermò lo sguardo all’estremità della calle, sul ponte storto e su quel caro verde dei rii veneziani, che riposa la vista. Gioacchino trovò infatti un istante di requie nel bel colore di smeraldo oscillante”. C. Boito, I principii del disegno, cit., pp. 77–78. F. Lussana, Fisiologia dei colori, cit., p. 64.
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quadro, il cui soggetto è il mito di Aretusa. La ninfa ha le sembianze dell’amata Carlotta, il cui triste destino sarà quello di finire sul tavolo mortuario del sinistro dottor Gulz. Lo sfondo bucolico in cui è inserita la ninfa è ‘dipinto’ giocando sugli effetti cromatici generati dalla vicinanza di rosso e verde, come pure la descrizione del prato della casa del calderaio di Vade retro, Satana (1879). Dopo una prima, fugace rappresentazione del tramonto Boito torna a scrivere del “verde nel mare”, che “è di una varietà, che gl’impasti dei più raffinati colori e le più sottili velature non possono imitare neanche di lontano”.46 E continua: Non parlo delle spiagge e dei mari diversi; lo stesso mare, la stessa spiaggia nella stessa stagione non ha mai la stessa tinta l’un giorno e l’altro. Ad ogni moto dell’acqua corrisponde una gradazione differente di verde, di azzurro, di tinte neutre, e i moti dell’acqua sono innumerevoli, dalla impassibile calma ai furori ciechi della tempesta.47
Nella descrizione dei moti delle onde – molto simile a quella presente in Macchia grigia (1877) – si ravvisa l’utilizzo di un’ulteriore strategia compositiva della pittura. Leggiamo: “le ondette piccole […] sono verdoline con un pizzico di giallo”.48 Vi è l’accostamento di un colore freddo, il verde, con un colore caldo, il giallo, similmente a quanto lo stesso Boito suggeriva nei Principii del disegno.49 Accostamenti cromatici di questa tipologia sono frequenti e sono impiegati pure in alcune descrizioni di volti umani. Si pensi a come viene presentato il dottor Herzfeld in Un corpo: “piccoletto, grassoccio, rosso in viso, con due occhietti cerulei, da cui schizzavano scintille”.50 Dopo una lunga digressione sui bagnanti che popolano il Lido di Venezia, Boito riprende la rappresentazione del tramonto: Il sole baciava quasi l’orizzonte, […] I suoi raggi orizzontali non toccavano più la superficie della marina, che era diventata scura e azzurrastra; ma andavano a ferire dritti due vele lontane di due barche da pescatori, facendole brillare d’un colore giallo dorato, fiammelle fantastiche. […] E le due vele splendevano; e il cielo pigliava una tinta brunetta ancora cilestra […].51
La scena ricorda una veduta che l’autore scriveva di aver rinvenuto appuntata su un taccuino ne Il colore a Venezia,52 aggiungendo subito dopo: “E noi ci rammentiamo che quel tramonto, dal quale non potremmo cavare né un quadro decente, né un
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C. Boito, Quattr’ore al Lido. Schizzo dal vero, cit., p. 299. Ibidem. Ibidem. Cfr. C. Boito, I principii del disegno, cit., pp. 78–79: “[…] un colore freddo, tirante cioè all’azzurro o al violetto, si affratella volentieri ad un colore caldo, cioè tirante al rosso o al giallo”. C. Boito, Un corpo, p. 8. C. Boito, Quattr’ore al Lido. Schizzo dal vero, cit., p. 302. Cfr. C. Boito, Il colore a Venezia. (Queste annotazioni sono tolte dall’albo di un artista pedante), p. 387: “Io scrivo queste righe abbarbagliato dal sole cadente. Poi: ‘Il sole […] Manda nell’acqua il suo risplendore di fuoco giallo […]. Quando le barchette passano in quel giallo incandescente sfumano, come nelle fornaci di Murano i vetri che si fondono; quando entrano nel colore azzurro dell’acqua, i remi fanno ancora sgocciolare oro fuso. I piccoli vetri dei bastimenti riflettono scintillando i raggi del sole, e gli alberi dei vascelli staccano in luce d’oro sull’oltremare della laguna’”.
Sulla scrittura pittorica di Camillo Boito
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onesto periodo di novella, ci era parso memorabile”.53 Vengono asseriti nuovamente i limiti di pittura e scrittura, ma un anno dopo, per l’appunto con Quattr’ore al Lido, Boito riuscì a dar forma compiuta a quel tramonto. A livello cromatico si rileva una veduta totalmente differente dalla precedente, poiché le condizioni di luce iniziano gradualmente a mutare. Ora “la superficie della marina” non è più di color verde, ma “scura e azzurrastra”, e il cielo si colora di una gradazione di azzurro differente, “una tinta brunetta ancora cilestra”. In questa veduta risaltano le “due vele lontane di due barche da pescatori”, che gli ultimi raggi del sole fanno “brillare d’un colore giallo dorato”. Un’immagine, quella delle due vele dorate, che ricorda un quadro di Francesco Paolo Michetti che Boito recensirà quattro anni dopo, nel 1880, alla mostra torinese di Belle Arti: Un’impressione sull’Adriatico. Si tratta di una marina con due grandi vele dorate in primo piano. Contrariamente alle sue abitudini – Michetti è fra i pittori maggiormente elogiati nelle rassegne artistiche – Boito criticherà il dipinto: “Abbiamo durata una gran fatica ad avvezzar gli occhi al giallo d’oro di due vele, che si riflettono con un giallo anche più dorato nell’oltremare cupo dell’acqua, […]. È un Adriatico di lapislazzuli a sprazzi di luce che abbacinano”.54 Il motivo di questa disapprovazione, ma soprattutto il motivo che induce Boito a posizionare le due vele dorate in lontananza nella rappresentazione in prosa, si legge ancora una volta in un passo di I principii del disegno: “dell’oro non conviene abusare […] bisogna che paia proporzionato alla ricchezza e alla destinazione dell’opera, se no riesce volgarmente pomposo, ingenera sazietà e ottunde il gusto”.55 Prima di fornire la rappresentazione della marina con condizioni di luce mutate per la terza volta, Boito abbozza un gruppo di turisti inglesi. In questa descrizione colpisce l’attenzione riservata ad una madre: La signora vestiva di seta colore perlino, col cappello a larghe tese della medesima stoffa; […]. Ella era la regina del terrazzo: una regina dolce, sicura di sé, com’è sicura l’innocenza, e disinvolta, com’è disinvolto il pudore. Codesta madre pareva il simbolo della verginità: credetti in quel momento al mistero della Immacolata Concezione.56
La scelta del bianco non è casuale. Nei Principii del disegno si legge che il bianco è il colore “del candore, dell’innocenza, della purità, della verginità”;57 esattamente le virtù che il narratore conferisce alla donna. E in Fisiologia dei colori Lussana aveva scritto che “[…] nelle nostre lingue, candore, purezza ed innocenza diventarono vocaboli sinonimi”, per poi aggiungere che “Il bianco è la purezza per eccellenza”.58 Ma non è questo certo l’unico caso in cui Boito si serve della valenza simbolica dei colori. Leggiamo, per esempio, che “è giusto […] che il rosso sia 53 54 55 56 57 58
Ibidem. C. Boito, Gite di un artista, nota introduttiva e apparato iconografico a cura di M. C. Mazzi, Roma, De Luca, 1990, p. 352. La prima edizione risale al 1884. C. Boito, I principii del disegno, cit., pp. 79–80. C. Boito, Quattr’ore al Lido. Schizzo dal vero, cit., p. 303. C. Boito, I principii del disegno, cit., p. 75. Sulla perla come simbolo di purezza e virtù nella narrativa di Boito cfr. E. Comoy Fusaro, Forme e figure dell’alterità. Studi su De Amicis, Capuana e Camillo Boito, Ravenna, Pozzi, 2009, p. 167. F. Lussana, Fisiologia dei colori, cit., p. 20.
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quello della passione ardente, e il nero quello delle tenebre, della mestizia, della morte”.59 Si pensi allora allo scenario in cui appare per la prima volta la sensuale e passionaria mantenuta di Vade retro, Satana: […] la camera sembrava un grazioso incendio, e gli occhi restavano abbacinati. Le tappezzerie, i canapè, le poltrone, tutto era di stoffa rossa, d’un rosso roseo brillante, con certi disegni gialli sinuosi, come a fiamma; e il sole del tramonto, caldo, vivo, d’oro, entrava dalle due finestre spalancate, gettando sul rosso e sul giallo della stanza certi lumi incandescenti e certi lustri, che somigliavano a fuochi e a scintille.60
Il narratore agisce da grande pittore, avrebbe sostenuto Filippo Lussana, secondo il quale “Lo sfondo dei quadri dipinti dai grandi pittori suole ritrarre la tinta morale delle scene rappresentate”, per poi aggiungere: “con una rossa atmosfera per le passioni amorose […]”; e ancora più esplicitamente che il rosso è il “colore più appropriato alle dominanti passioni”.61 La netta prevalenza del colore preannuncia per l’appunto la passione peccaminosa che tormenterà don Giuseppe durante il corso di tutta la novella. E non sono casuali neppure i disegni “gialli sinuosi”, poiché così come “Nell’azzurro e nel verde l’animo si quieta; nel rosso e nel giallo s’eccita”.62 Analogamente l’abito di colore nero con cui compare per la prima volta il macabro anatomista di Un corpo preannuncia la triste fine di Carlotta e il legame dell’uomo con la morte.63 Con la scomparsa del sole dietro l’orizzonte, sopraggiunge la sera sulla laguna. Per descriverla Boito utilizza le note cromatiche più scure di tutto il testo. […] e già i colori perdevano la loro vivacità nell’oscurarsi crescente della sera […] Io intanto, assottigliando quanto più potevo la vista, fissavo ancora quelle due vele lontane, le quali, da fiammeggianti che erano quando il sole mandava loro gli ultimi suoi raggi, diventarono grigie, e poi via via più scure, finché si dipinsero nere sull’aria già lugubre, e a poco a poco mi sfuggivano dallo sguardo. Già si riducevano ad una pennellata quasi impercettibile. Un minuto dopo non si discernevano più. […].64
Il racconto si conclude all’insegna del colore nero: “L’aria e il mare si confondevano nel buio. […] La notte era nera, la laguna era cupa”.65 L’operazione compiuta dal narratore è paragonabile a quella, frequentissima a Venezia in quegli anni, di un pittore che dipinge lo stesso soggetto più volte, ma in orari differenti della giornata. L’attenzione per i cambiamenti di luce è costante in tutto il corpus delle diciassette Storielle, al pari di quella per gli effetti della rifrazione della luce nell’acqua. Descrizioni di tramonti si leggono in Dall’agosto a novembre (1871) e in Macchia grigia. In alcune novelle si nota una certa attenzione per i cambiamenti di luce prodotti da altre tipologie di fonti luminose. Si pensi alla descrizione dei fuochi di bengala rossi durante la Sagra del Redentore ne Il maestro 59 60 61 62 63 64 65
C. Boito, I principii del disegno, cit., p. 75. C. Boito, Vade retro, Satana, p. 215. F. Lussana, Fisiologia dei colori, cit., pp. 27, 10. C. Boito, I principii del disegno, cit., p. 75. Cfr. C. Boito, Un corpo, p. 4: “Un signore smilzo e lungo, vestito di nero, ci passava dinanzi. Carlotta, nel vederlo, tremò tutta, soffocò un grido e si avvinghiò al mio corpo”. C. Boito, Quattr’ore al Lido. Schizzo dal vero, cit., p. 304. Ivi, p. 305.
Sulla scrittura pittorica di Camillo Boito
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di setticlavio (1891) o alle ombre irregolari generate da un camino nella stanza del rettore in Santuario (1881). In tutte queste descrizioni il lessico di Boito è molto limitato e le immagini a cui ricorre sono spesso le stesse, quelle del fuoco e dell’oro fuso su tutte. Se questi riscontri aiutano a fare una maggiore chiarezza sul nesso strettissimo tra gusto pittorico e prosa narrativa in Camillo Boito sorgono spontanee alcune domande. Ci si potrebbe chiedere, per esempio, se Camillo Boito fu influenzato dalla teoria della fusione di musica, arte e letteratura proposta da Giuseppe Rovani in Le Tre Arti (1874), come hanno dato per scontato alcuni studiosi. Permangono peraltro ancora dubbi sulla paternità della teoria da parte di Rovani; teoria in un certo senso già anticipata da quella del Wort-Ton-Drama di Wagner, compositore molto apprezzato dai fratelli Boito e sul quale Camillo possedeva ben due monografie.66 Che Boito conoscesse le teorie di Rovani è comunque molto probabile, anche in considerazione del fatto che l’autore di Le Tre Arti lavorò come impiegato nella Biblioteca di Brera e Camillo fu presidente dell’Accademia. Non bisogna dimenticare che Rovani era molto noto negli ambienti milanesi frequentati dai fratelli Boito. Carlo Dossi, per esempio, lo considerava un maestro. Per tornare invece a una fonte sicura (ancorché finora ignorata) come il già citato saggio scientifico di Filippo Lussana, il fisiologo si diceva certo “che negli animali e specialmente nell’uomo, esiste un linguaggio complesso e multiforme, il quale, comunicando idee diverse e sentimenti diversi, può esprimersi sia colla parola, sia colla musica, sia coi colori”; e poco prima si diceva altrettanto certo dell’esistenza di “un rapporto naturale e fisiologico […] fra queste armonie dei colori e dei suoni, e perfino con quelle della parola”.67 Si tenga presente che il testo di Lussana veniva pubblicato un anno prima di quello di Rovani. E Camillo in L’anima di un pittore (1882) invitava a non confondere in modo indiscriminato letteratura e pittura: “Non confondete l’arte con la letteratura e la poesia. I mezzi e gli ideali delle arti figurative sono diversi da quelli delle arti della parola”.68 Un’affermazione che se sembra negare la fusione rovaniana delle arti, non esclude però la possibilità che l’una possa influenzare l’altra. Si tenga a mente infine la doppia natura dello ‘strumento’ colore per Boito: non soltanto quella di mezzo materiale, ma soprattutto morale e pertanto simbolica. Certamente però è ravvisabile nella narrativa boitiana un significativo utilizzo di lessico proveniente dalla pittura. In Quattr’ore al Lido si legge di “impasti dei più raffinati colori”, di “come dicono i pittori”, di “errore di tavolozza”, di “tinte intiere”, di “pennellata”.69 Molto frequenti sono pure i riferimenti alla musica in relazione con le altre arti, alcuni dei quali già individuati in questo contributo. In Senso (1883) l’osmosi fra pittura e musica si realizza attraverso il racconto della
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T. O. Cesardi [Eugenio Sacerdoti], L’opera di Riccardo Wagner. La nuova scuola italiana. Saggi critici, Bologna, Zanichelli, 1885; J. Marsillach y Lleonart, Riccardo Wagner. Saggio biografico critico, versione dallo spagnolo e prefazione di D. Rubbi, Milano, Dumolard, 1881. F. Lussana, Fisiologia dei colori, cit., pp. 121–122. C. Boito, L’anima di un pittore, Milano, Hoepli, 1885, p. 105. C. Boito, Quattr’ore al Lido. Schizzo dal vero, cit., pp. 299, 303, 303, 304, 304.
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contessa Livia, che parla di “sonorità” di colori e di “musica dipinta”70 riferendosi a quanto osservato nell’Accademia di Belle Arti di Venezia. In Baciale ’l piede e la man bella e bianca, composto nel 1867 e dunque molti anni prima di Le Tre Arti, il protagonista paragona la sue scelte compositive a quelle dei pittori e dei musicisti, per giustificare l’ennesimo cambiamento di scenario nel racconto.71 E nei Principii del disegno il colore dell’oro veniva paragonato, attraverso una riuscita metafora, ad un “gran maestro di cappella” che dirige “un’orchestra di colori” capace di generare “una novella musica di colorito”.72 Ma ancora una volta di “musica cromatica”73 Boito poteva leggere in Fisiologia dei colori. Partendo dalle teorie di Newton, Lussana studiò le relazioni fra colore e suono, riportando i rapporti matematici esistenti fra le vibrazioni sonore e le vibrazioni di colori e concludendo che l’armonia dei suoni ha corrispondenze con l’armonia della gamma dei colori. Anche in questo caso le sue teorie si appoggiavano scientificamente sulla localizzazione encefalica.74 Nella sua trattazione egli forniva addirittura un esempio di cronografia musicale su un aria della Norma di Vincenzo Bellini. L’interesse simultaneo per la fisiologia positivistica (la conoscenza delle teorie di Lussana ne è un chiaro sintomo) e per la teoria della fratellanza fra le arti che in Italia rispondeva – in modo confuso, ma diffuso – soprattutto alle spinte che venivano dal simbolismo francese, fanno di Boito un narratore difficilmente catalogabile all’interno del panorama letterario di quegli anni. Anche i veristi, per esempio, non disdegnarono il ‘bozzetto’ narrativo ed alcune novelle – si pensi a Il collare di Budda o al Il maestro di setticlavio – appaiono maggiormente avvicinabili ai modi e alle tecniche veristiche piuttosto che scapigliate. Il difficile equilibrio tentato con la sua “scrittura pittorica” – ristretto a sole diciassette novelle e non esente da alcuni limiti dovuti all’impossibilità di conciliare due paradigmi artistici diversissimi – rappresentò comunque un fattore di novità, come colse già nella prima metà del Novecento Pietro Pancrazi, secondo il quale il modello di prosa proposto da Camillo Boito “anticipa (almeno tra noi) il diario-pittorico che verrà poi di moda i primi del ’900 (alla Soffici)”.75
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C. Boito, Senso, p. 344. Id., Baciale ’l piede e la man bella e bianca, pp. 88–89: “Usano i pittori ne’ loro quadri scegliere, come i musicisti, un tono fondamentale, al quale accordano la varietà degli altri colori: talvolta l’intonazione è calda, talvolta fredda, quasi a dire in maggiore od in minore, in diesis od in bemolle. Io ho pigliato – e non l’ho fatto apposta – il minore in bemolle: devo quindi tornare ogni tantino al vento, alla pioggia, al buio”. C. Boito, I principii del disegno, cit., pp. 79. F. Lussana, Fisiologia dei colori, cit., p. 115. Cfr. ivi, pp. 122–123: “[…] nella organologia frenologica cerebrale, linguaggio, colorito, melodia sono la continuazione di una circonvoluzione, la quale si diffonde dall’indietro all’avanti ed all’esterno sul bel mezzo della parte inferiore del lobo sovrorbitale”. P. Pancrazi, Camillo Boito, in: Racconti e novelle dell’Ottocento, Firenze, Sansoni, 21939, p. 239. La prima edizione risale al 1938.
III LA RICEZIONE DI BOITO LETTERATO
IL CAMILLO CHE NON TI ASPETTI Dopo Senso: presenza delle Storielle vane tra letteratura e cinema della seconda metà del Novecento con un’appendice sulla traduzione inglese della Macchia grigia Alessandro Scarsella Alla scadenza di un anniversario scocca l’ora dell’interpretazione. Indicare a distanza di un secolo ciò che è vivo e ciò che è morto in Camillo Boito e, nella fattispecie, nelle Storielle vane è indubbiamente un impegno interpretativo. Per evitare la soggettività del giudizio, soprattutto quando si tratta di un autore a cavallo di più estetiche e non presente nel canone, occorrerà basare l’istruttoria sulle più solide, per quanto esigue, basi ermeneutiche a disposizione. L’autore in questione però si è affermato nei ristretti idiocanoni sia della letteratura scapigliata e del racconto fantastico italiano da una parte, come dimostra la sua presenza nelle antologie, sia del rapporto tra letteratura e cinema, dall’altra e in forza della trasposizione cinematografica di Senso da parte di Luchino Visconti (1954). L’azione critica preliminare consisterà quindi nell’acquisire e riordinare i dati relativi alla produzione e alla ricezione dell’autore e dei suoi testi, riducendo il focus ai cento anni compresi tra la prima edizione delle Storielle vane (1876) e l’edizione tascabile di Senso curata da Enzo Siciliano nel 1975.1 Nell’arco cronologico prescelto si succedono prima le edizioni controllate dall’autore quindi, a partire dal 1945, scelte antologiche ed edizioni integrali o critiche della raccolta di Camillo. DA CROCE A BASSANI La pubblicazione dell’antologia Il maestro di setticlavio a cura di Giorgio Bassani e la definizione di Camillo Boito come “un caso letterario”,2 mettono a nudo il debito dei narratori italiani nati nel primo ventennio del secolo con la narrativa scapigliata, anche con quella ritenuta relativamente più trascurabile
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Le edizioni invece più recenti di cui si tiene conto nella presente indagine sono: Senso. Storielle vane, introduzione e note di R. Bertazzoli, Milano, Garzanti, 1990; Senso e altri racconti, a cura di M. Dillon Wanke, Milano, Mondadori, 1994; Senso, a cura di C. Bertoni, Lecce, Manni, 2002; Storielle vane, a cura di C. Cretella, Bologna, Pendragon, 2002. Prefazione a C. Boito, Il maestro di setticlavio, Roma, Colombo, 1945. Ripubblicata in G. Bassani, Opere, Milano, Mondadori, 2001, pp. 1004–1018 (1005).
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dalla critica crociana.3 Nel tardo contributo del 1937, Croce aveva inteso infatti sottolineare la centralità dei ritratti femminili e dei paesaggi, in cui sostanzialmente il Camillo artista e conoscitore di cose d’arte non giunge, consapevolmente, a una sintesi superiore tra motivazione letteraria e rappresentazione artistica: Né gli è estranea, in quegli anni di trionfante pittura storica e sociale, la consapevolezza che l’idea morale o l’idea storica sono una cosa, e l’idea pittorica è un’altra, onde di un dipinto che ritrae una scena passionale di adulterio e di morte nota che “quel dipinto non derivò direttamente da una sensazione o meditazione pittorica, ma venne certo da una sensazione o meditazione letteraria o teatrale, e ad onta dei suoi meriti, porta la pena dell’origine sua”. Dico ciò perché ci ha gente che ora immagina che l’avversione alla ‘letteratura’ in pittura, in poesia e in ogni altra arte, sia una novità dei giorni nostri, laddove si ritrova in ogni tempo, presso tutti gl’intendenti.4
Con piena evidenza queste conclusioni (derivate dalla lettura della monografia di Camillo sul pittore torinese Francesco Mosso5) testificano l’interesse strumentale di Croce e a regolare conferma dei propri principi estetici. Sfuggono ovviamente a tali principi quelle intersezioni tra testo e immagine che possano articolare una prospettiva creativa analoga al rapporto tracciabile tra biografia e scrittura. Del resto lo stesso Camillo sembra essere andato oltre una concezione rigida, proponendo con Senso una narrazione fortemente anomala in cui romanzo storico, scrittura privata, suggestione iconografica (tra paesaggio, fotografia, documentazione), danno luogo a un unicum le cui potenzialità sarebbero state intuite da Bassani e quasi pienamente attuate solo dal linguaggio cinematografico. D’altra parte anche la componente didascalica ed ‘esemplare’ quale si manifesta nella struttura di ogni ‘storiella vana’ e in Senso, se fuori luogo nel duplice spirito del realismo e del simbolismo, dominanti e concorrenti all’epoca, recupera interesse nel Novecento dal punto di vista di una crescente tolleranza formale e di minore diffidenza per la scrittura a programma, in un clima dunque favorevole al profilo medio e alle contaminazioni di generi e di stili. Composte tra il 1876 e il 1895 le edizioni utilizzate da Croce, sono quelle6 in cui si poteva leggere la narrativa di Camillo fino all’antologia di Giorgio Bassani, che apre una nuova stagione non solo nella ricezione delle Storielle vane ma, come già accennato, anche nella valutazione dell’eredità scapigliata e secondo-ottocentesca in generale. Limitato nel suo criterio, il corpus proposto da Bassani (costituito da Senso, e Meno d’un giorno dalle Nuove storielle vane; quindi dalle due Storielle vane, Notte di Natale e la novella eponima Il maestro di setticlavio) era preceduto da 3 4 5 6
“Occasionale autore di novelle fu anche, in certo senso, Camillo Boito, architetto e scrittore di critica d’arte, fratello del poeta e compositore”; cfr. B. Croce, in: La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia, 35, (1937), pp. 286–290. Ivi, p. 290. C. Boito, L’anima di un pittore, Milano, Hoepli, 1885; la rappresentazione dell’adultera postillata da Camillo corrisponde al dipinto di F. Mosso, La femme de Claude (L’adultera, 1877). C. Boito, Storielle vane, 7a edizione (Milano, Treves, 1913); Senso. Nuove storielle vane (ivi, 1883; seconda edizione 1899).
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una prefazione abbastanza lunga, in cui si mostra di tener in debito conto la valutazione positiva formulata da Croce e quindi sottoscritta da Pancrazi7 del racconto Meno d’un giorno. Con non minore rispetto Bassani sottolinea l’apprezzamento rappresentato dall’inserimento della Macchia grigia, esclusa dalla personale scelta, nell’antologia scapigliata curata congiuntamente da Colombo e da Linati.8 Per la scelta del Maestro di setticlavio, Bassani ne sottolinea la dipendenza dall’esperienza di Senso e rammenta l’inserimento significativo da parte dell’autore nella terza edizione delle Storielle vane del 1895: un libro in parte ripensato nel suo assetto e nel suo spirito, tale da lambire territori della Scapigliatura meno consueti, ma forse non percepito nella sua novità se non a distanza di cinquant’anni. Una riflessione di Giacinto Spagnoletti del 1967, in apertura di un volume di autori scapigliati, aiuta a comprendere l’orientamento impresso da Bassani, senza escludere la sporgenza di elementi neri meglio corrispondenti al genere del racconto fantastico: “Delle sette Storielle vane, solo due [Un corpo e la Notte di Natale] rispondono pienamente al canone; le altre cinque se ne distaccano, richiamandosi a gusti diversi”,9 ovvero sentimentale e impressionistico. Essenzialmente le Nuove storielle vane rappresentano anche per Spagnoletti un passo in avanti rispetto alle precedenti, anche se racconti come Vade retro, Satana, Macchia grigia, Santuario, Il demonio muto, Il collare di Budda, “rispecchiano con immutata coerenza il demonismo borghese di Un corpo”;10 mentre il Maestro di setticlavio rappresenta a sua volta un registro storico diversamente nostalgico e alla maniera di Nievo. L’eclettismo è un fattore indissolubile dall’estetica di Camillo che non poteva non trovare corrispettivi nel suo corpus narrativo. IL TESTO E IL FILM Sebbene dotate di un’attenzione particolare e posizionate in un’angolazione orientata su singoli dettagli suscettibili di riuso e di adattamento, le professioni del cinema vanno considerate a stretto contatto con la produzione letteraria. Ma l’aspetto più interessante della fortuna cinematografica delle Storielle vane è come costringa a rileggere l’intera raccolta quale macrotesto connotato da motivi ricorrenti e collegati, nonché come sistema improntato dall’ossessione del corpo femminile e del feticismo delle sue parti separate. Il carattere vano e privo d’importanza, determina invece una struttura narrativa a catastrofe, in cui alla fine della storia si rompe sempre qualcosa, come il crocefisso in Vade retro, Satana. E sono simboli o sono idee fisse o illusioni che cadono in frantumi, cedendo il passo alla disillusione, stato d’animo compreso 7 8 9 10
Racconti e novelle dell’Ottocento, scelte da Pietro Pancrazi, Firenze, Le Monnier, 1938. E. Colombo, C. Linati (a cura di), Racconti della Scapigliatura (1860–1910), Milano, Bompiani, 1942. G. Spagnoletti (a cura di), Camillo Boito, Achille Giovanni Cagna, Remigio Zena. Opere scelte, Milano, A. Mondadori, 1967, p. XX. Ivi, p. XXIV, quest’ultima accanto alle due novelle o romanzi brevi di ambiente veneziano sarà antologizzata da G. Spagnoletti.
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nel campo semantico della vanitas, a ben vedere correlato alla fonte d’ispirazione del paratesto, ossia alle Memorie inutili di Carlo Gozzi (1797) e pertanto a una radice autobiografica nascosta nella prosopopea della propria umiltà o basso profilo. Questo aspetto autobiografico, che concilia il divertimento narrativo con la natura di exemplum di ogni singola novella, risulta altresì velato dalla brillante disinvoltura praticata da Camillo nell’acquisizione di fonti, registri e generi eterogenei ma comunque sottoposti a una rifunzionalizzazione esemplare. A questo punto si tratta di rileggere per intero le novelle di Camillo e sottoporle a un tipo di analisi modellizzante che darebbe risultati certamente consistenti, giacché l’autore detiene competenze notevoli e si dimostra lettore troppo attento per non calcolare l’effetto d’insieme del suo lavoro narrativo. Il compito si rimanda a successive occasioni di studio, quantunque appaia certo che Camillo non intese, ripubblicando nel ’13 le Storielle vane, né unificare la raccolta, né escluderne Senso come un corpo estraneo. Se si ha l’impressione che Senso sia collocato separatamente e non come una “storiella vana” per la sua lunghezza, per l’impegno di romanzo storico, per l’impianto a respiro più ampio della narrazione, tuttavia l’impatto novecentesco di Senso sulla ricezione complessiva della narrativa del Nostro appare tale da riassumere, e non da spaccare in due, il suo lascito come narratore. La valorizzazione della lettura cinematografica ai fini della ricezione di un autore o di un testo dovrebbe essere basata su un metodo, che si mostra al momento ancor acerbo, di correlazione tra iconografia letteraria e documentazione filmica.11 Quello che segue è solo un tentativo che si ritiene promettente, sebbene assolutamente non esaustivo, di individuazione di tracce insospettate ma in definitiva giustificabili delle Storielle vane nel cinema del Novecento. La pubblicazione dell’antologia di Bassani avveniva dunque a Roma in un clima di acceso neorealismo; è contemporanea all’uscita del film Roma città aperta ma, progettata probabilmente da tempo, sembra andare à rebours. Bassani si occupa di cinema prima e dopo quella data, e sarà lui a suggerire a Visconti la produzione del film Senso (1954), alla cui sceneggiatura collaborerà attivamente.12 La riscoperta di Boito compiuta da Bassani non è casuale o episodica, nel quadro dell’influenza degli scrittori di secondo Ottocento, siano essi scapigliati o veristi, su autori della generazione nata tra l’inizio del secolo e la fine della Grande Guerra. Si pensi alla presenza esplicita di Calandra o di Fogazzaro in Mario Soldati, che del secondo proporrà la trasposizione di Piccolo mondo antico con sceneggiatura di Emilio Cecchi. Considerato come sia Cecchi, sia Soldati, sia lo stesso Bassani simpatizzino in misura diversa ma analoga con la critica d’arte, manifestando una versatilità rilevante sebbene attualmente quasi incomprensibile, si può ben arguire come la sotterranea validità della posizione di Camillo potesse giungere fino a Bassani e quindi, con Visconti, poter riuscire clamorosamente allo scoperto. La personalità di D’Annunzio rappresenta un limes di tale imponenza per cui gli scrittori che l’hanno preceduto cronologicamente divengono per il Novecento una riserva di materiale stimolante di per sé e comunque degno di attenzione. Da Bassani proviene quindi l’incitamento che induce Visconti a 11 12
Cfr. come riferimento L. Cannavacciuolo, Camillo Boito e l’immaginario iconografico delle Storielle vane, in: N. Tedesco (a cura di), L’Italia e le arti, vol. II, Firenze, Cesati Editore, 2014, pp. 89–96. Cfr. F. Villa, Il cinema che serve. Giorgio Bassani cinematografico, Torino, Kaplan, 2010.
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fare il film che rende noto in tutto il mondo Camillo, non l’architetto e scrittore e storico di cose d’arte, bensì proprio il narratore. La letteratura su Senso di Visconti è ampia e a essa si rinvia, cercando piuttosto di rintracciare, come preannunciato, la continuità dell’influenza sotterranea delle Storielle vane nel cinema, anche dopo la cesura costituita dal film.13 DA VISCONTI A MALLE Nel 1967 la partecipazione di Louis Malle al film Tre passi nel delirio, con il suo William Wilson, evidenzia l’indubbia e perdurante influenza di Visconti; la cornice storica e l’atmosfera del film del ’54 riemergono con prepotenza nel contesto di un riuso radicalmente fantastico. Di produzione italo-francese, la pellicola era stata prodotta da Raymond Eger (1911–1982), figura oggi misconosciuta ma di assoluto spessore nell’ambito della cinematografia europea fino e oltre gli anni Sessanta. Il film prevedeva tre episodi desunti dai racconti di Edgar Allan Poe, affidati rispettivamente registi di diverso talento ma tutti e tre sulla cresta dell’onda: Roger Vadim, Louis Malle e Federico Fellini. Secondo il progetto di Raymond Eger i registi avrebbero ricevuto già un copione dettagliato con indicate le location di ripresa predefinite. Per il William Wilson però Louis Malle, non del tutto soddisfatto, ma subliminalmente condizionato da Visconti, suggerì una variante, prevedendo di situare storicamente le scene in una città italiana occupata dall’esercito austriaco nella seconda metà dell’Ottocento.14 Evidente il riferimento a Senso, di cui si condividono i motivi ambientali dell’erotismo, del gioco d’azzardo, del disonore militare, e si valorizza la citazione ammaliante delle divise dell’esercito asburgico, bianche con le mostrine gialle, che caratterizzano l’icona del protagonista maschile, associando i fotogrammi che ritraggono quasi sovrapponendoli i ritratti di Farley Granger e di Alain Delon. Girato interamente in Italia, il film si conclude con un volo suicidario dall’alto del campanile del Duomo di Bergamo, indicando in questo gesto finale non presente nel racconto di Poe una contaminazione non dichiarata della sceneggiatura con il racconto di E. T. A. Hoffmann, Der Sandmann, ma confluente nell’area di genere fantastico questo sì, dichiarato, nel progetto del film. La sequenza centrale contiene una perturbante lezione di anatomia a vivo, analogamente assente nel testo 13
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Nell’ampia letteratura secondaria sulla trasposizione cinematografica di Senso, cfr. G. Padoan, Senso da Camillo Boito a Luchino Visconti, in: Quaderni Veneti, n. 4 (1986), pp. 121–153; C. Partridge, Senso. Visconti’s Film and Boito’s Novella: A Case Study in the Relation Between Literature and film, Lewiston, Mellen Press, 1992; R. Eugeni, The Lateral Glance From Boito To Visconti: The Structure of Vision in the Incipit of Senso, in: Iris, 30 (2004), pp. 99–111. “C’erano per me due punti fermi da rispettare: il nome che ero tenuto a conservare tale e quale, e il fatto, voluto dalle norme della coproduzione, che si doveva girare in Italia. Ne ho volontariamente aggiunto un terzo: l’epoca, intorno al 1840, che è quella in cui è stato scritto il racconto. Nell’Italia settentrionale verso il 1840 c’era l’occupazione austriaca. Ho immaginato quindi che Wilson fosse un ufficiale austriaco di stanza in una cittadina italiana” (L. Betti, O. Volta, B. Zapponi (a cura di), Tre passi nel delirio di F. Fellini, L. Malle, R. Vadim, Bologna, Cappelli, 1968, p. 107).
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di Poe e svolta nel Teatro anatomico dell’Università di Roma, finendosi con la morte di una donna assai giovane e bella, come nella novella: […] lo splendor di Tiziano e la finezza del Van Dyck non sarebbero bastati. In quel candido si notavano de’ passaggi ammirabili quasi dall’azzurro al cinabro: sotto la pelle liscia, fresca, trasparente scorreva la vita fervida. Quella donna era il simbolo della grazia, della forza, della salute.15
Da Senso quindi a Un corpo, narrazione viennese, però ancora al centro del campo semantico delle Storielle vane, senza soluzione di continuità. Che Un corpo non sia stato tradotto in francese fino al 1995,16 è questa un’osservazione la quale, se intesa a porre fine a ogni possibile supposizione del modello di Un corpo sul copione del William Wilson di Malle, rischia di non tener conto della peculiarità del contributo collettivo e transnazionale all’opera cinematografica in generale e della relativa impossibilità di ricostruire aspetti anteriori del processo produttivo del film. Perciò, mentre è impossibile nominare con precisione i collaboratori alla stesura dei copioni affidati dal produttore ai registi e ai loro sceneggiatori, lo scavo archeologico relativo non può basarsi solo su testimonianze dirette o indirette, bensì in loro assenza sulle evidenze più degne di analisi. DARIO ARGENTO E LUCIANO TOVOLI Per quanto detto non deve essere altresì considerata probante la disponibilità di testi, edizioni e commenti sulle Storielle vane, nella possibile genealogia dei frammenti presenti nel film di Dario Argento del 1971, Quattro mosche di velluto grigio, come spunto derivato da le dernier regard,17 motivo presente nella Macchia grigia. Il colore grigio di una percezione visiva alterata accomuna il thriller di Argento e la storiella di Boito, fermo restando che nel racconto il fenomeno risulta essere l’effetto o, meglio, il sintomo del rimorso del giovin signore protagonista che ha sedotto e abbandonato una fanciulla incontrata durante una passeggiata in montagna. La macchia è il cadavere del padre della ragazza che galleggia sull’acqua del fiume in cui si è buttato per la disperazione e che s’imprime nella retina del protagonista narrante alterandone la percezione visiva. Nel film di Argento una donna viene uccisa da un killer seriale e quattro macchie grigie si individuano sulla retina della vittima. Questi indizi vengono studiati dalla scientifica come tracce che porteranno all’assassino. Questa non è una convergenza unicamente tematica, ma vale come 15 16
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C. Boito, Un corpo, in: Id., Storielle vane, a cura di C. Cretella, cit., pp. 89–90. C. Boito, Un corpo, trad. da I. Violante Picon, Paris, Alfil, 1995. L’editore italiano, ma di residenza e con stabilimento a Parigi ‘L’imprimerie Cino Del Duca de Maisons-Alfort’, aveva pubblicato la novella di Camillo nel volume n. 49 della collana Club degli Anni Verdi, con Grazia Deledda, La volpe, Furio di Edmondo De Amicis, e Fosca di Iginio Ugo Tarchetti (Milano, Cino Del Duca, 1964). Scelta antologica ardita, soprattutto se proposta a un pubblico di adolescenti; pista interessante, ma che si interrompe nella produzione italiana del grande imprenditore editoriale, limitando a un’ipotesi la ricezione francese di Un corpo. Si veda, a tal proposito, il contributo di L. Staiano presente in questo volume.
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indicazione terminale di un percorso aperto dalla versione cinematografica di Senso con le ricadute positive sulla ricezione delle Storielle vane, negli anni che conoscono le edizioni delle “storielle” di Camillo curate da Nardi, di Bigazzi e di Guglielminetti. Anche qui alla sceneggiatura collabora uno scrittore, ma della generazione successiva, Nanni Balestrini18 di quel ‘Gruppo 63’ che non disdegnava di osservare con attenzione quella temperie, Tra liberty e crepuscolarismo (Sanguineti), attraversata indubbiamente anche da Camillo. Dobbiamo ritenere il testo della Macchia grigia come disponibile e presente nell’idiocanone della narrativa scapigliata e fantastica italiana; si tratta tra l’altro dell’unica ‘storiella vana’ tradotta in inglese prima di Senso: The Gray Spot, 1909. Si può supporre quindi che nel color grigio del film di Argento e Balestrini ci sia qualcosa del vecchio racconto scapigliato. Con questo s’intende proporre una riflessione a partire dalla ricezione, affiancandola ai contributi che intendono illuminare aspetti della produzione attraverso l’iconografia letteraria. Sono indizi che aiutano a vedere come il Camillo Boito narratore sia sopravvissuto a se stesso nel Novecento. Analogo rilievo spetta a un episodio del film di Luciano Tovoli, L’armata ritorna (1983), basato sul romanzo di Ismail Kadare, Il generale dell’armata morta: una contessa accoglie in accappatoio il generale e il sacerdote presso la piscina del proprio palazzo. L’intreccio connesso al recupero in Albania della salma del conte caduto durante la guerra esula da questo dettaglio che sembra provenire piuttosto da una delle Storielle vane del 1876, Dall’agosto al novembre: Or fa otto giorni diedi alla marchesa a leggere il manoscritto di un mio piccolo poema mezzo patetico, mezzo satirico, pregandola di dirmi schiettissimo il suo giudizio. La signora mi raccontò il dì seguente che, preso il fascicolo mentre sbalzava dal letto e infilzava l’accappatoio, coi capelli ancora sciolti dietro le spalle, non poté smettere che all’ultimo verso, un’ora dopo e la cameriera aspettava.19
In che misura il tocco di erotismo aristocratico possa derivare a Tovoli, facitore dell’adattamento, dalla lettura di Camillo è impossibile stabilirlo con precisione. Resta tuttavia la pregnanza della pagina delle Storielle vane, la loro cifra asciutta nella restituzione dell’immagine, il talento iconografico di Camillo, resistente all’usura e passibile di riscritture efficaci per quanto talora involontarie. Il fatto che nel 1916, in pieno tempo di guerra, Soffici scrivesse a Papini: “Ho scoperto un libro italiano discreto che ti consiglio di leggere: Storielle vane di Camillo Boito. È strano che scopro qui quel po’ di letteratura italiana discreta che esiste” e che le datate novelle fossero citate da Soffici dopo la menzione a Le poète assassiné di Apollinaire,20 attesta e preconizza per Camillo un’attualità inopinata tra i lettori del secolo breve. 18 19 20
D. Argento, N. Balestrini, Profondo thrilling, Milano, Sonzogno, 1975, adattamento narrativo di Nanni Balestrini dei film L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code, Quattro mosche di velluto grigio. C. Boito, Dall’agosto al novembre, in: Id., Storielle vane, a cura di C. Cretella, cit., p. 141. G. Papini – A. Soffici, Carteggio. 3. 1916–1918: La Grande Guerra, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2002, p. 610.
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APPENDICE: LA TRADUZIONE INGLESE DI MACCHIA GRIGIA Il volume XIV della collana “The Continental Classics” era dedicato alla narrativa spagnola, italiana e orientale.21 Alla scelta di autori italiani tutti viventi (il poligrafo Italo Mario Palmarini era nato a Rieti nel 1865 e scomparirà negli anni Trenta) si aggiunge l’unico racconto di Pedro de Alarcón (The Nail: El Clavo, 1853) a indicare l’indissolubilità della ricezione internazionale della narrativa italiana dalla letteratura spagnola a un certo livello di ricezione anglosassone. I testi italiani presenti nella silloge sono: J. M. Palmarini – Shadows Camillo Boito – The Gray Spot Giovanni Verga –The Stories of the Castle of Trezza Antonio Fogazzaro – The Imp in the Mirror Luigi Capuana – The Deposition Alfredo Oriani – The Moscow Theater Plot.
Per quanto concerne gli scrittori sono tutti autori dell’idiocanone e vanno a costituire una selezione attendibile di racconti di genere. Si tenga conto che il taglio specifico, fantastico e insolito, sarebbe divenuto attuale in Italia solo a partire dagli anni Settanta con le antologie di Gilberto Finzi, di Enrico Ghidetti, di Monica Farnetti, di Leonardo Lattarulo. Un dato interessante è l’affiancamento di scapigliati e di veristi, nonché di un inclassificabile come Oriani, di cui si individua un brano dal singolare romanzo ‘russo’ Il nemico (1894). Di Fogazzaro si proponeva invece Il folletto nello specchio (fiaba per Marina), dalla raccolta Idilli spezzati. Racconti brevi, 1902; di Capuana il parapsicologico Ofelia, da Fausto Bragia e altre novelle (1897). Infine Le storie del castello di Trezza di Verga, pubblicato in volume con Primavera e altri racconti nel 1877. È possibile che nella scelta abbiano inciso le competenze e i contatti del Palmarini, autore prolifico e di buon successo, che apre significativamente l’antologia. Storico dell’arte, vicino anche ai futuristi, Palmarini precede in ordine di apparizione Camillo, del quale si traduce Macchia grigia (1877; ed. Treves 1883, 1899) e risulta come Camillo corrispondente di Adolfo Venturi (Archivio della Scuola Normale, Pisa).
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AA.VV, The Continental Classics Volume XIV: Spanish, Italian and Oriental Tales, New York-London, Harper & Brothers, 1909.
SENSO FRA CAMILLO BOITO E LUCHINO VISCONTI Dal cinismo ottocentesco a una teatralità tragica Friedrich Wolfzettel Nel periodo definito, secondo Pio Baldelli, “impropriamente, del moralismo di Visconti”,1 Senso (1953), tratto dall’omonima novella (1883) di Camillo Boito, segna, ancora secondo il rinomato critico, “una svolta o meglio un passaggio di rilievo nell’opera del regista”.2 Ma questo film storico, che fa parte di un periodo contrassegnato dal “tentativo di superamento del neorealismo”,3 si riallaccia tuttavia agli inizi della produzione cinematografica del regista, a Ossessione del 1942, come se si trattasse di trasferire il tema dell’ossessione e del ‘vagheggiamento sensuale’ in un telaio storico, di ingrandire il dramma personale nell’ambito di un dramma nazionale, la terza Guerra d’Indipendenza e la sconfitta di Custoza. Senso funge così da ponte fra due stili e due periodi, prefigurando il dramma siciliano del Gattopardo del 1963 e inaugurando il nuovo tema dell’estraniamento, dallo Straniero (1967) fino all’Innocente (1976). È il tema dell’uomo al margine dello svolgimento storico. La scena finale di Senso, qualche minuto prima dell’esecuzione dell’amante austriaco Franz Mahler, ha difatti una funzione chiave: ci fa vedere l’eroina ingannata dall’amante, la contessa Livia Serpieri, nel buio di una strada di Verona, rasentare il muro sudicio, “sopravvivendo a stento al suo dolore. Forse è impazzita”, come annota il testo della sceneggiatura.4 La scena prefigura ovviamente un’altra scena analoga, quella del principe Fabrizio solo nel buio della strada dopo la grande festa, mentre si odono i colpi di fucile dell’esecuzione dei garibaldini nella caserma vicina; la scena prefigura allo stesso modo quella dell’imperatrice Elisabetta che esce sola dal sinistro palazzo di Lodovico re di Baviera e che non può più far nulla per l’amante stravagante della sua giovinezza. Sono delle scene patetiche che debbono suggerire l’impotenza dell’uomo in vista della Storia e forse anche la nullità dei grandi sentimenti, il tema futuro dello Straniero. Ma come inserire questo tema nel complesso storico del film? Sappiamo che Pio Baldelli ha severamente criticato l’ambizione di Visconti di “far grande” e di ampliare la vicenda privata della novella boitiana: “si ha l’impressione che il regista abbia messo troppa carne al fuoco, caricando la vicenda e i personaggi di pesi che essi non
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P. Baldelli, Luchino Visconti, nuova edizione riveduta e ampliata, Milano, Mazzotta, 1982, p. 11. Ivi, p. 12. Ivi, p. 159. L. Visconti, Senso, a cura di G. B. Cavallaro, Bologna, Nuova Casa Cappelli, 1977 (NUC Cinema, 4), p. 195.
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riescono a reggere, e lasciando le cose poi a mezza strada.”5 Il critico ha deplorato l’assenza di “un assunto compositivo” e “il carattere frammentario di Senso”.6 Una critica giusta? Forse Baldelli non ha voluto vedere come l’incompiutezza dei personaggi, la loro debolezza in vista degli avvenimenti storici e la loro irresponsabilità addirittura ridicola, tendano ad allargare l’abisso che è al centro dell’estetica dal regista. Se a Visconti, come nota Baldelli, “la novella di Boito parve troppo scheletrica”,7 è giustamente perché la novella psicologica di Boito è semplice, coerente, severamente moralista, sì, ma senza le ambiguità del film che, forse appunto per le sue debolezze, è rimasto uno dei più grandi film di Visconti. In altri termini, Visconti ha trasformato una vicenda privata in un ‘romanzo storico’ fallito perché questo fallimento costituisce il nucleo estetico dell’impresa. Pur conservando il titolo della novella, il regista ha dunque profondamente cambiato il significato di un concetto un poco enigmatico: Senso. Che vuol dire? Direzione, sentimento, sensualità?8 Esempio di sensualità e di una falsa direzione del sentimento? Magari “Sehnsucht”, come indica il titolo tedesco? Nel film di Visconti vediamo un caso drammatico, tragico, un caso sviluppato sulla scorta di una lunga tradizione realista soprattutto in Francia: la letteratura dei casi tipici della generazione di Goncourt, di Maupassant, di Daudet fino al primo modernismo.9 Del caso fa sempre parte lo straordinario, l’eccentrico, lo stupendo, magari il perverso. Concetti estetici che ricordano d’altronde l’estetica barocca dello stupire, e forse non è fortuito che l’opera viscontiana, pur filmando una sceneggiatura di tipo realista, faccia delle concessioni al barocchismo dei colori e delle pitture citate. Camillo Boito, invece, racconta una piccola “storiella vana”10 il cui il Leitmotiv, la tematica chiave, è proprio la vanità che è la radice della “cieca passione”11 e della crisi posteriore. Forse è una storia triste, ma non è affatto una storia tragica. Il racconto alla prima persona, copiato dallo “scartafaccio segreto della contessa Livia”, ci presenta una donna estremamente vana, ma anche estremamente cosciente di sé stessa, altera e indipendente, un’eroina quasi stendhaliana che gode il sentimento della sua superiorità, della sua libertà: O che gioia, confidarsi unicamente a sé, liberi da scrupoli, da ipocrisie, da reticenze, rispettando nella memoria la verità anche in ciò che le stupide affettazioni sociali rendono più difficile a proclamare, le proprie bassezze.12
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P. Baldelli, Luchino Visconti, cit., p. 141. Ivi, p. 140. Ivi, p. 141. Per un primo saggio dell’autore su questo tema veda F. Wolfzettel, Senso. Von der psychologischen Novelle zum historischen Melodram, in: F.-J. Albersmeier e V. Roloff (a cura di), Literaturverfilmungen, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1989, pp. 437–465. Cfr. M. Föcking, Pathologia litteralis. Erzählte Wissenschaft und wissenschaftliches Erzählen im französischen 19. Jahrhundert, Tübingen, Gunter Narr, 2002. Tutte le citazioni secondo l’edizione di E. Siciliano, Camillo Boito, Senso, Milano, Rizzoli Editore,1975. Si veda anche l’Introduzione di Siciliano. C. Boito, Senso, cit., p. 29. C. Boito, Senso, cit., p. 16.
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Non lontano dalla Scapigliatura del fratello Arrigo e dai decadenti francesi, Camillo Boito combina il tema della vanità con quello perverso e della voluttà della bassezza. La modernità del racconto sta in questa voluttà narcisistica e masochistica che sembra annunciare l’era di Freud e della psicanalisi. Con le parole dell’eroina: “Così il mio spirito nell’umiliarsi si esalta. Sono altera di sentirmi affatto diversa dalle altre donne”.13 Basta pensare alla scena dell’esecuzione dell’amante Remigio a Verona alla fine della novella. In contrasto alla scena patetica del film, di cui ho già parlato, qui viene descritta una profonda umiliazione che sembra essere anche una umiliazione voluttuosa dell’eroina. Sola nella strada notturna, Livia incontra l’ufficiale austriaco, che aveva già conosciuto in un ristorante, il quale è venuto a sapere del suo tradimento dell’amante fucilato. L’eroina si sente “strappare il velo dal volto” e si lascia sputare sulla guancia.14 Il Senso boitiano è dunque il racconto di una donna per cui la passione costituisce una specie di umiliazione piacevole e voluttuosa. Il vagheggiamento erotico è anche un gioco. Niente lo dimostra in un modo più indubbio della fine della novella. Subito dopo l’esecuzione dell’amante, di cui Livia aveva scritto: “senza quell’uomo io non potevo vivere”,15 ella riallaccia la relazione sospesa con l’avvocato Gino, pur sempre disprezzato, rallegrandosi che questi “ha piantato quella bamboccia della sua sposa una settimana innanzi al giorno destinato del matrimonio”.16 La presenza dell’avvocato Gino, il rivale ridicolo di Remigio, mette in risalto l’atmosfera turpe e irresponsabile in cui si svolge la vicenda boitiana. Facciamo attenzione alla pesante ironia dell’ultima frase della novella, dove Livia parla di Gino: “[…] e va ripetendo ogni tanto, stringendomi quasi con la vigoria del tenente Remigio: ‘Livia, sei un angelo!’”17 In un certo senso, questa storia d’amore non è dunque un caso quasi incredibile nel senso viscontiano; è, al contrario, un semplice episodio della vita dell’eroina che non solo racconta le avventure amorose antecedenti in giovinezza, nella vita matrimoniale o nel lusso del suo ruolo nell’alta società, ma segnala anche che la vita continua dopo la catastrofe. Non si tratta di pentirsi, anzi, al contrario. “Riandando nella memoria i casi di tanti anni or sono”, l’eroina osserva una volta, “il cuore torna a palpitare e sento un’aura calda di gioventù, che mi spira d’intorno”.18 Riguardo alle analogie del titolo di Boito e di Sense and Sensibility di Jane Austen, anche tenuto conto del fatto che la Austen non aveva usato la prima persona femminile, si direbbe addirittura un racconto anti-Austen, se non vogliamo risalire agli esempi inglesi di una letteratura femminile libertina nel Settecento. È la prospettiva femminile diaristica di una osservazione continua di sé stessa che dà il tono a quella novella cinica in cui una donna rende conto della propria vita, in cui una voce femminile serve a scrutare gli abissi della sua psicologia perversa. In questo senso, Boito ha ben imparato la lezione degli autori francesi, da Stendhal ai fratelli Goncourt. Il diario scartafaccio dell’eroina conferisce alla novella l’oggettività parados13 14 15 16 17 18
Ibidem. Ivi, p. 55. Ivi, p. 29. Ivi, p. 55. Ibidem. Ivi, p. 29.
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sale della prospettiva soggettiva, l’autenticità del narcisismo esibizionista. L’eroina osservando e scrutando sé stessa non è quasi mai la vittima della vicenda, anzi è l’autrice e la commentatrice della sua vita amorale. Noi la vediamo con i suoi propri occhi, mentre nel cinema di Visconti vediamo la vittima del destino tragico dal di fuori, con gli occhi, per così dire, della cinepresa. È vero che Visconti non ha completamente eliminato l’effetto intimo della prospettiva della prima persona; infatti, ogni tanto, le scene descritte vengono accompagnate dai commenti di una voce femminile nell’Off, la “Voce Livia”. Ma questo stratagemma abbastanza debole non basta per restituire il senso della lucidità crudele e compiacente dell’io novellistico, il cui racconto delle vicende è necessariamente anche un commento continuo che non lascia dubbi sulla mentalità di una donna osservatrice e al tempo stesso regista del suo destino. Inoltre, il cinema può creare una presenza diretta che il racconto diaristico non raggiunge mai o non vuole raggiungere perché c’è sempre la distanza della retrospettiva. Mentre l’eroina di Camillo Boito, meditando sui suoi trentanove anni, racconta un episodio “di sedici anni addietro”, la storia di un amore folle incominciato nell’anno 1865, il film di Visconti, che prende spunto dalla famosa rappresentazione del Trovatore interpretata in chiave patriottica, ci presenta una vicenda contemporanea. Gli spettatori sono testimoni della tragedia sentimentale di una donna sulla trentina, interpretata da Alida Valli, che ricorda il tipo della femme de trente ans di Balzac, d’altronde il vero tipo dell’eroina dell’Ottocento francese.19 Da ciò una intensità del desiderio e un’amarezza che non troviamo nella ‘confessione’ cinica dell’eroina boitiana. La drammaticità e la teatralità mettono in risalto il destino futuro della protagonista che è lungi dall’incarnare la giovane donna senza scrupoli del personaggio boitiano. Anzi si direbbe che certi motivi della vicenda teatrale citata all’inizio, nel duetto di Leonora e Manrico dove si tratta delle “gioie di casto amor”, e del tema della salvazione della “Madre infelice”20, sono intimamente e ironicamente legati al problema della Livia della vicenda cinematografica, al suo bisogno, al suo desiderio d’amore, di redenzione e alla prontezza con la quale lei si lascerà “salvare” dal giovane tenente austriaco che, come sostiene nel testo, non pare sia nemmeno un vero ufficiale. Questa Livia del film detiene una presenza imponente che non ha niente a che fare con una qualsiasi lucidità amorale, ma è giustamente legata alla sua vulnerabilità, alla sua suscettibilità. La “Voce Livia” del film: “[…] e adesso io provavo quasi un senso di vergogna […]”21 – dopo l’incontro con il tenente a Venezia – non è più la stessa “voce” della Livia boitiana, anzi il suo gesto simbolico di velarsi con lo scialle è contrario all’esibizionismo dell’eroina. Questa Livia è una Livia già invecchiata, già delusa, una vittima del destino che non riesce a comprendere, che capisce, come dice la “Voce Livia”, “che non ero più padrona dei miei sentimenti”,22 per la quale non si tratta di realizzare un progetto amorale esistenziale, di rendere conto di tutta la sua vita, ma, al contrario, di scordare il passato e di ignorare le 19 20 21 22
Cfr. F. Wolfzettel, Senso, cit., p. 446. C. Boito, Senso, cit., p. 76. L. Visconti, Senso, cit., p. 105. Ivi, p. 111.
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conseguenze del suo agire nel futuro. Citiamo la conversazione con Franz Mahler: “per la contessa Serpieri il passato non esiste”, osserva Franz “C’è solo ‘ora’ …, solo ora, senza domani”.23 E così ancora una volta prima della separazione degli amanti. In contrasto al messaggio storico del suo film basato sulla temporalità, pare che Visconti abbia volutamente troncato la dimensione temporale di questa storia di un amore impossibile che non per caso si riferisce alla ‘tragedia’ romantica delle Ultime Lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo.24 Quindi l’amore della Livia del film viscontiano non è affatto l’amore sensuale della Livia boitiana per un ufficiale che, “se non era un grand’uomo, era almeno un vero uomo”.25 Si veda l’uomo quasi nudo che, una mattina, va a presentarsi alla contessa nel bagno di Venezia. Il commento della eroina: “Mi parve fatto di marmo, tanto era candido e bello”;26 l’uomo il cui “torace ancora palpitante e bianco più del marmo” abbaglia la “fantasia” della sua amante.27 Impossibile immaginare questa fantasia sensuale nella Livia del film viscontiano. Impossibile anche immaginare la suprema spensieratezza della Livia boitiana nella scena del bagno veneziano nel film tormentoso di Visconti, quell’innamoramento narcisistico dell’eroina con il suo proprio corpo – “Oh la bella acqua smeraldina, ma limpida, sotto alla quale vedevo ondeggiare vagamente le mie forme sino ai piedi sottili!”28 ‒, quel tuffarsi quasi mitico nell’acqua, quella sensualità atemporale dell’eroina contenta di sé stessa. Il Boito esalta il corpo, ma non la frustrazione; Visconti, invece, fa rilevare la frustrazione senza il corpo. La Livia viscontiana è l’immagine della “Sehnsucht” che il titolo tedesco del film suggerisce forse a ragione; poiché il suo amore è in realtà l’incarnazione di un sogno. La Livia viscontiana: “Tu puoi pensare di non rivedermi mai ma io continuo ad aspettarti…”;29 è un sogno paradossale il cui significato si svela nell’ultimo addio. La dimensione onirica di questa storia di un incontro fatale e la realtà si allontano sempre di più l’una dall’altra e ne rimane soltanto una immensa delusione irraggiungibile, una distanza tragica dalla vita vera e dalla Storia. Livia potrà malversare la cassa di Ussoni per aiutare il suo amante ‒ questo rappresentante di una milizia nazionale non esiste d’altronde nella novella –, perché si è persa in questo universo onirico e non si sente più legata alla realtà storica. Nel momento dell’addio nella villa di campagna: Voce Livia: Mi ero indissolubilmente legata a lui. Per lui avevo dimenticato … tradito tutti colori che in quel momento combattevano … Poi il commento del regista: Ritorno sui suoi passi, lungo il corridoio, appoggiandosi al muro. …tentando di realizzare dei sogni lungamente sofferti.30
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Ivi, p. 109. Cfr. ivi, p. 106. C. Boito, Senso, cit., p. 30. Ivi, p. 26. Ivi, p. 55. Ivi, p. 22. L. Visconti, Senso, cit., p. 109. Ivi, p. 175.
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Friedrich Wolfzettel
La somiglianza della scena con quella finale dopo l’esecuzione forse non è totalmente casuale. In questa prospettiva onirica e intimamente disperata la grande Storia non ha più nessuna funzione. Resta al margine di una vicenda risolutamente privata di un viaggio fino in fondo alla notte. Visconti lo ha ovviamente voluto così; ha ovviamente voluto filmare l’impossibilità di un film storico e l’assenza di qualsiasi messaggio storico in vista della tragedia personale. L’inadeguatezza dell’intreccio, di cui ho parlato all’inizio, pare sia stata un’inadeguatezza voluta. La Livia “appoggiandosi al muro”, la Livia rasentando il muro di una strada notturna di Verona, “forse impazzita”, rappresenta l’immagine emblematica di questa visione della vita. Come Franz indica nell’ultimo incontro dei due amanti a Verona: “È troppo tardi” – per lui, la commedia tragica del “romantico eroe”31 è finita. La frase chiave: “è troppo tardi”, di tanti drammi romantici ci fa capire che, dopo La Terra trema e Ossessione, Visconti ha voluto fare un altro film sul tema della delusione, persino della disperazione – a costo di sacrificare il messaggio femminista moderno di Boito. Conclusione un tantino paradossale. A prima vista l’amoralità femminile, la mancanza di elementi patetici dell’autore ottocentesco ci sembrano più moderni della teatralità baroccheggiante dell’affresco storico mancato del grande regista del dopoguerra. Ma la vera modernità di Visconti forse risiede nella scissione fra l’individuo e la Storia, nell’innestare il tema dello straniero nella tessitura del film storico. Non si tratta di tematizzare una volta di più l’impotenza dell’individuo di fronte alla Storia; si tratta, al contrario, di illustrare il grande tema dello Straniero, l’indifferenza dell’io e la presenza di due sfere parallele, l’una accanto all’altra, senza contatto e senza rilevanza mutua. La solitudine tragica dei personaggi messi con le spalle al muro rende il contrasto più cospicuo del cinismo divertente della protagonista boitiana.
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Ivi, p. 191.
APPENDICE
CONTRIBUTO ALLO STUDIO DI CAMILLO BOITO Tesi di Laurea Materie Letterarie Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano 1962 Giuliana Bertacchi CAPITOLO I STORIA DELLA CRITICA I giudizi dei contemporanei Il nome di Camillo Boito risuona più familiare che celebre agli orecchi dei moderni lettori per la immediata e spontanea associazione con quello dell’illustre fratello, a cui lo accodano, in posizione di umile satellite, i giudizi ingiustamente stereotipati dell’opinione comune. Eppure fu proprio Arrigo ad essere tributario del nostro a questo rispetto: infatti Camillo gli aprì le vie della celebrità, sia in senso astratto, illustrando per conto suo, quando Arrigo era ancora fanciullo, l’inconsueto cognome veneto, destinato ad una così vasta notorietà, sia direttamente, offrendo al futuro compositore del Mefistofele ricchezza di amicizia e vastità di legami negli ambienti culturali e nelle sfere influenti del tempo. Anche quando l’astro di Arrigo brillò ormai di luce propria, non fu perciò oscurata la fama di Camillo, architetto e maestro di architettura, che esercitava con entusiasmo ed onestà una sorta di intelligente ‘dittatura di competenza’ in taluni campi del mondo artistico nazionale.1 Ma per ciò che riguarda l’attività letteraria, venuta ad affiancarsi a quella artistica quando ormai Camillo era un architetto celebre, egli fu quasi subito, frettolosamente, accodato al carro del fratello, in una posizione che non giovò né allora né in seguito alla comprensione della sua opera. Eppure non si può negare che le Storielle vane conobbero il successo se, dopo essere apparse alla spicciolata sulle pagine della Nuova Antologia, furono raccolte in due volumi (intitolati appunto Storielle vane e Senso ̶ Nuove storielle vane) e se, in questa nuova veste, raggiunsero rispettivamente la settima e la quinta edizione; tuttavia esse, in linea di massima, furono accolte come un frutto gradito, ma scontato, dell’atmosfera letteraria di casa, come il prodotto di una garbata emulazione in famiglia. 1
In virtù di questa priorità della formazione culturale di Camillo, mi sembra ci si debba porre anzi il problema dell’influsso che egli dovette per necessità di cose esercitare sul più giovane fratello, a cui, per testimonianza concorde dei biografi, fece da padre.
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La pubblicazione delle novelle di Camillo fu quindi seguita con occhio benevolo dai critici e dai letterati del tempo, ma con interesse più mondano che sostanziale e con quella affettuosa condiscendenza con cui si suole considerare una nuova intelligente esperienza letteraria di una persona già affermata in altro campo. Sentiamo le voci della critica contemporanea:2 Camillo Boito è un professore, un architetto […] un artista. Non fa della letteratura per professione. Fratello di Arrigo, gli assomiglia nel tipo artistico, come nel tipo fisico. La bizzarria pensosa e un po’ altera è il loro carattere di famiglia […] e lo amano, lo coltivano, un po’ anche lo ostentano, entrambi ad un modo. Come scrittore, Camillo è accurato, ma senza affettazione – è lindo, ma senza smancerie – robusto, ma senza durezze […]. Il fondo dei suoi quadri è un po’ buio come quello dei quadri fiamminghi che, come critico di pittura, preferisce, ma le figure che se ne staccano, sono vive. Esse campeggiano nel quadro, vi respirano, ne escono fuori – e vi costringono a vivere con loro, almeno per tutto quel giorno.
Le parole sono del doctor Veritas e cioè di quel Leone Fortis, animoso scrittore e patriota triestino, fondatore e direttore del Pungolo che, buon amico dei due Boito, trova modo di rendere grazioso omaggio all’uno e all’altro, ma fa involontariamente cattivo servizio alle autentiche qualità narrative di Camillo, mostrando di considerarle occasionali e esornative. L’anonimo articolista del Corriere della Sera scrive invece: “[Le Storielle vane] sono un pochino vane, ma tanto belle, tanto graziose che anche i più severi critici saranno costretti a far loro buon viso”. Persino l’illustre e austero Cesare Guasti ‘console della Crusca’ (lo stesso che si opponeva all’inclusione dei Promessi Sposi fra i testi citati dall’Accademia) ammirava lo stile del Boito: “Egli sa essere moderno col salvare la proprietà della lingua, col temperare i traslati, col farci sentire di tanto in tanto un’aura del buon tempo antico”. Ma qualcuno avvertì un intrinseco valore nell’opera di Camillo e gridò persino al miracolo, pur senza andare più al di là del semplice entusiasmo, senza arrivare cioè a un ponderato giudizio critico. Scriverà infatti il Nencioni: “Boito è un grande artista. Narra stupendamente; è brioso, è profondo, è nuovo. Quel suo Corpo è un gioiello: e quando, parecchi anni or sono, io lo lessi nell’Antologia, perdetti la bussola e per un momento proclamai Boito il più geniale scrittore d’Italia. E m’era piaciuto anche Tra l’agosto e il novembre e ora ho letto con avidità La notte di Natale”. Contemporaneamente appariva sul Fanfulla la recensione del Navarro della Miraglia: “Le ho lette con avidità e con piacere. Io non so perché l’autore scriva così di rado e così poco. Egli ha tutte le qualità volute per pigliare senza stento uno de’ primi posti in mezzo alla piccola falange de’ nostri romanzieri”. 2
Mi è stato impossibile ritrovare i giudizi nei giornali del tempo (e apparvero sul Sole, la Perseveranza, il Fanfulla e anche, pare, sulla Nuova Antologia) per l’assoluta mancanza di precise indicazioni bibliografiche. Occorre accontentarsi, come già fecero il Nardi (Camillo Boito narratore, in: Lettere italiane, aprile–giugno 1959) e il Bassani (prefazione a Il maestro di setticlavio, Roma, 1945), delle citazioni riportate nella premessa alla terza edizione delle Storielle vane (1895). La “congiura del silenzio” di cui parla Giorgio Bassani a proposito delle Storielle vane comincia proprio di qui.
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Si avverte in queste righe una sfumatura di delusione e di implicito rimprovero verso il nostro, che, dopo i primi felici assaggi, non aveva intrapreso la via della letteratura e aveva tradito l’aspettativa di coloro che ‘credevano’ in lui. Ma la posizione schiva di Camillo3 che non volle mai scendere nel vivo dell’agone letterario, la silenziosa ma decisa ostilità di Arrigo, che non dovette mai tenere in gran conto le Storielle vane, smorzarono ben presto gli entusiasmi sinceri, ma superficiali, e anche eccessivi, dei sostenitori, raffreddarono la cortese simpatia degli amici. Non ci dobbiamo perciò meravigliare se, alla morte dell’autore, le novelle furono citate nei necrologi e nella commemorazione ufficiale solo per aggiungere una modesta fronda ai già folti allori di Camillo architetto, oratore, maestro e scrittore d’arte;4 così esse caddero rapidamente nell’oblio, anche per la volontà di Arrigo, ormai decisamente contraria a ogni ulteriore diffusione. Il Nardi cita infatti una ‘curiosa’ lettera di quest’ultimo, fattagli conoscere da Sabatino Lopez, al quale la casa Cinemo-dramma si era rivolta quand’era direttore della Società degli Autori: La proposta della Casa Cinemo-dramma di rappresentare con la cinematografia una novella del mio rimpianto fratello non ottiene il mio consenso. La vita artistica di Camillo ebbe i suoi confini ben tracciati dalle pareti dello studio e della scuola; egli non pensò mai che un’opera della sua mente potesse trovarsi a contatto col pubblico degli spettacoli. Nella sua vasta bibliografia di arte, di storia dell’arte, di critica, di pedagogia, di estetica, le sue novelle appaiono come episodi isolati. L’affetto che mi lega alla sua memoria mi impedisce di permettere che egli si manifesti in modo diverso da quello che gli era consueto e che gli valse onori e fama.5
Il netto rifiuto di Arrigo non fu motivato, come già disse giustamente il Nardi,6 da una giustificabile sfiducia nelle possibilità espressive della cinematografia d’allora, ma da una sfiducia, più preoccupante, nelle qualità narrative del fratello. Ma la posizione di Arrigo non sembra poi tanto ingiusta se pensiamo che egli fu critico spietato anche della propria opera7 e in modo particolare di quella narrativa (Iberia, Il trapezio, L’alfier nero) tanto che il Croce, che indicò per primo le novelle di Arrigo all’attenzione degli studiosi, confessa di averne avuto notizia da un’enciclopedia tedesca e di aver creduto ad un equivoco, poiché era stato impossibile ritrovarle. Fu proprio Camillo a confermargliene a viva voce l’esistenza, ma dalle sue parole il critico aveva avuto anche l’impressione che Arrigo avesse fatto
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Tale posizione non fu né casuale né secondaria ed ha radici più profonde del naturale riserbo di una persona ‘modesta’, ma il problema si vedrà meglio nel capitolo seguente. Gaetano Moretti in: Comitato per le onoranze alla memoria (a cura di), Camillo Boito, Milano, 1914, p. 213: “Ma ciò non bastava ancora: il letterato voleva la sua parte, ed ecco apparire i deliziosi Bozzetti, le delicate composizioni, la gentile novella Baciale ‘l piede e la man bella e bianca.” Già prima della morte del Boito, nel 1909, Raffaello Barbiera (Onoranze a Camillo Boito, ne L’illustrazione italiana, 1 gennaio 1909) scriveva: “È un artista gagliardo anche come scrittore […]. Era un osservatore spregiudicato, un ironista della vita […]. Ma poi disse addio alle fantasie della penna per rimanere tutto fido alla fantasia delle pietre”. P. Nardi, Camillo Boito, cit. Ivi. Il Nardi giunge a dire: “Credo che se fosse stato in suo potere distruggere il proprio passato di artista, l’avrebbe fatto.” (Vita di Arrigo Boito, Milano, Mondadori, 1942, p. 312).
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di tutto perché quelle novelle fossero dimenticate.8 Non è allora da escludere che lo stesso Camillo avesse espresso un simile desiderio nei riguardi delle proprie Storielle vane e infatti questa singolare, mutua dimostrazione di solidarietà fraterna troverebbe la sua ragione nella grande riservatezza, nell’estremo pudore di sé che fu comune ai due Boito. La riscoperta di Camillo Boito Ma l’evoluzione del gusto e la rivoluzione del funzionalismo dovevano spodestare per un certo periodo di tempo Camillo anche da quel trono di arbitro dell’architettura che era sembrato inoppugnabile ad Arrigo; dopo gli elogi, i plausi e anche le polemiche dei contemporanei, il silenzio fino al 1950,9 fino a quando, cioè, si scoprì che Camillo Boito “aveva capito e scritto quanto legione di contemporanei non era ancora pronta a comprendere né ad intuire”,10 aveva cioè avvertito il problema dell’antinomia ‘utilità – bellezza’ (da cui scaturirà tutta l’architettura moderna), meritando che, finalmente, la sua opera non seguisse gli ingloriosi destini del l’eclettismo fin de siècle, nel quale era stata ingiustamente risolta. Come il vero significato della non vastissima ma acuta e singolare produzione architettonica boitiana si rivelò solo quando fu impostato in sé il problema artistico di Camillo e ricollegato all’uomo (perché infatti spesso egli non riuscì a tradurre concretamente in opera le sue intuizioni critiche e perché non si può prescindere dalla sua instancabile attività di maestro ‘suscitatore d’ingegni’), così le sue autentiche qualità di narratore si rivelarono solo a quegli studiosi che, superando inizialmente il pregiudizio di un Camillo Boito scapigliato,11 intuirono o delinearono, sia pure frettolosamente, un problema umano, strettamente intrecciato a quello poetico. Il primo ad affrontare in questo modo l’opera del nostro, fu Pietro Pancrazi (nell’antologia sansoniana di novelle dell’Ottocento);12 ci voleva un critico così estroso, ma anche così concreto e balenante, come ebbe a dire Manara Valgimigli, per considerare Camillo Boito con la freschezza di un contatto immediato e simpatico. Il primo merito del Pancrazi consiste nell’averne chiaramente affermato la disparità dal fratello Arrigo e nell’aver colto la caratteristica essenziale del procedimento analitico del narratore: “Fu soprattutto un dilettante di sensazioni, un analitico squisito: amava cogliere i sentimenti e i moti dell’animo più sottili, con un 8 9 10 11
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Vedi la prefazione di Gioachino Brognoligo nel volume Novelle e riviste drammatiche di Arrigo Boito, Napoli, Ricciardi, 1920. Cfr. A. Annoni, Tre Architetti dell’Ottocento (Moretti, Boito, Beltrami), estratto da: Metron 37 (1950); L. Grassi, Camillo Boito, Milano, Il Balcone, 1959; M. Borghi, Camillo Boito, in: Da Fattori a Modigliani. Galleria di artisti italiani, [Roma], Rivista delle province, 1959. L. Grassi, Camillo Boito, cit., p. 18. I contemporanei non inquadrarono mai la produzione e la figura di Boito nella Scapigliatura. È veramente singolare notare come questo pregiudizio, così radicato (si veda in proposito il giudizio anche delle buone storie letterarie, quali quelle del Flora, del Sapegno e del Momigliano) dovette essere all’inizio proprio del tutto gratuito e cioè dovuto più alla suggestione del cognome che alla superficiale lettura di alcune novelle, di argomento macabro e ‘orroroso’. P. Pancrazi (a cura di), Racconti e novelle dell’Ottocento, Firenze, Sansoni, 1938.
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gusto acuto (un po’ francese) del chiaro e del distinto”. Il critico mostra anche di apprezzare le Gite di un artista e le novelle della stessa atmosfera e dello stesso procedimento “che tengono [cioè] del diario e del viaggio”; queste ultime gli paiono raccostabili al diario impressionista e pittorico, alla Soffici, che verrà di moda ai primi del Novecento; ma invero l’asserzione mi pare, come già sembrò al Nardi13, inaccettabile: il procedimento analitico boitiano è lontanissimo, nella sua immediatezza e incisività, dalle pagine morbide e immediate di Soffici. L’impressionismo è escluso dal ‘taccuino – tavolozza’, dalla tecnica narrativa del Boito, che non indulge mai alle morbide e sfumate fusioni di linee e di colori, all’abbandono languido e al facile contrasto nella materia psicologica e umana, per la continua e vigile presenza dell’intelligenza indagatrice.14 L’inserimento nella Scapigliatura Ezio Colombo, che fu il secondo in ordine di tempo a ‘riscoprire’ Camillo Boito,15 eleva la sua protesta per il discredito in cui furono lasciate le prose dei due Boito, più giustificate per Arrigo, ma per Camillo “tale trascuratezza può essere presa per insensibilità”. Ma, tutto preso dal tentativo di inserire l’esperienza del nostro nell’ambito della Scapigliatura (e ad essa lo accosta, se pure in posizione nettamente superiore al Praga e al Tarchetti), considera le sue prove più impegnate sulla linea del realismo come il frutto di una stanca acclimatazione dell’artista all’ambiente esteriore e alla moda d’oltralpe, pretendendo di scoprire un Boito funereo e splenetico “che nel bacio della crestaia sente lo scricchiolio dello scheletro e in fondo ad ogni esperienza di vita lo scontento e l’insoddisfazione”, quello scontento e quell’insoddisfazione che si sarebbero non decantati e risolti poeticamente, ma addormentati nei racconti successivi.16 Per questo propone all’attenzione dei lettori solo la prima novella del nostro, Un corpo. Ma questa stessa novella, con cui il Colombo pretende di dimostrare una dipendenza di Camillo Boito dalla prosa macabra e ossessiva del Tarchetti, rivela invece con essa una consonanza puramente tematica, distaccandosene per la disposizione del narratore, lucida, sottile, spietata, per il mira13 14
15 16
P. Nardi, Camillo Boito, cit. “È uno scrittore, probabilmente, che piacerebbe oggi più di ieri (se oggi si leggesse)”: così conclude Pietro Pancrazi. E la parentesi, avverte il Nardi, non è puramente pleonastica, perché svela l’intento di riproporre al pubblico la lettura delle Storielle vane; infatti il Pancrazi nutrì il proposito (che la morte gli impedì di attuare) di curare una ristampa nella Collezione in ventiquattresimo per i tipi di Le Monnier. È toccato proprio al Nardi il compito di realizzare questo progetto, nell’estate del 1961 egli ha appunto pubblicato presso l’editore fiorentino: Senso e altre storielle vane (la raccolta, oltre a Senso, comprende Baciale ‘l piede e la man bella e bianca, Un corpo e Il maestro di setticlavio). Introduzione e presentazione, in: C. Linati, E. Colombo (a cura di), Racconti della scapigliatura, Milano, Bompiani, 1942. Il critico giungerà più tardi a definire morbose alcune novelle del nostro raccostandole a quelle di Luigi Gualdo (Appendice biobibliografica, in: G. Ferrata (a cura di), Racconti lombardi dell’ultimo ‘800, Milano, Bompiani, 1949, p. 277).
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bile gusto degli sfondi paesistici, insieme precisi e magici, per la nuova realistica dimensione dei personaggi. Tuttavia non sfuggirono al Colombo le novità e la forza dello stile del Boito. Egli, infatti, osserva acutamente: “Non è più uno stile liscio e lemme, inficiato dal purismo accademico; è presente la coscienza di spezzare lo schema comune per sostituire, attraverso una tecnica nuova, una maggiore scioltezza e un più immediato senso di vita”.17 Nello stesso volume, Carlo Linati tratteggia con vivacità, ma con scarsissimo intendimento critico, la figura di Camillo “simpatizzante, più che milite della Scapigliatura”18 e ricorda certe prosette satiriche (ora irreperibili) “che egli buttava giù in margine alla sua attività di ingegnere e nelle quali amabilmente canzonava la campagna socialista d’allora e che piacquero tanto allorché apparvero sul Corriere della Sera”,19 ma nelle Storielle vane egli non sa vedere altro che “una limpida compostezza di stile”. L’ormai consueto equivoco di un Camillo Boito scapigliato inficia anche l’esattezza e la validità del giudizio di Giansiro Ferrata, critico acuto e lucido, esente da quella posizione affettiva che portò tanti letterati lombardi ad una rievocazione nostalgica piuttosto che ad un’indagine critica della Scapigliatura, e lo costringe ad una valutazione del nostro quanto mai improbabile e gratuita. Già in un saggio del 194120 aveva inserito Camillo nella parabola della Scapigliatura accanto a Praga, Tarchetti, Camerana; nell’introduzione alla sua pur pregevole antologia di racconti lombardi21 ribadisce la parentela spirituale del nostro con i tre suddetti in nome di un tardivo romanticismo interiore “in cui sono passati Dickens e Baudelaire e grandi illusioni, dure tristezze metropolitane con uno sfondo provinciale”; in ultima analisi il carattere comune sarebbe la “nevrosi del male”, ma, come si è già accennato e come si dimostrerà in seguito, nel Boito non vi è mai compartecipazione, ma studio attento, rigoroso e anche spietato della psicologia anche morbosa o viziata. Il Ferrata esclude per questi scrittori la possibilità di riuscita di un racconto rigorosamente narrato, col suo sviluppo organico di oggetti, quindi rifiuta aprioristicamente il vero grande Boito, che è quello di Senso e de Il maestro di setticlavio, per presentarne, dichiarandola una dei pezzi migliori della raccolta e l’unica in cui il nostro diede sufficiente prova di sé, la novella Demonio muto. A giudizio del Ferrata, il risultato migliore si ebbe proprio qui, poiché l’autore “tenne con maggior cura il contatto con un luogo determinato anche in geografia”. Ma una simile valutazione, che si basa esclusivamente su una certa somiglianza di argomenti e che non si cura di esaminare direttamente e concretamente la posizione 17 18 19 20 21
Introduzione e presentazione, in: C. Linati, E. Colombo (a cura di), Racconti della scapigliatura, cit., p. 43. Ma anche questa presunta simpatia del Boito, come si vedrà più avanti, è più favoleggiata che dimostrata. Non ho trovato altre notizie a questo proposito: forse queste “prosette” furono pubblicate sotto uno pseudonimo non più ricollegato in seguito alla persona del Boito, ma, conoscendone il franco ardore polemico, il chiaro e generoso spirito battagliero, la cosa mi pare poco probabile. G. Ferrata, Parabola della scapigliatura in: Primato, 16, 17, 18 (1941). G. Ferrata (a cura di), Racconti lombardi, cit., p. XIII.
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del narratore, mi pare mostri chiaramente la sua inconsistenza e mi pare inoltre avvertibile la latente contraddizione con lo svolgimento logico del proprio assunto: la coerenza “geografica” non è forse essa stessa un elemento del racconto “rigorosamente narrato” che l’autore aveva rifiutato persino di prendere in considerazione? Il Ferrata ha cercato di comporre in quadro unitario una molteplice produzione novellistica ottocentesca, secondo la linea ideale di un paesaggio ‘psicologico’ lombardo; il tentativo è senza dubbio intelligente e suggestivo, ma non esente da forzature, perché abbastanza spesso anche i cosiddetti minori male si prestano ad essere inseriti e risolti in un simile mosaico e, a un più attento esame, reclamano la loro parziale o totale indipendenza: Camillo Boito è appunto fra questi. La discutibile posizione di Giansiro Ferrata è ripresa in un recente articolo di Elio Luoni,22 che riporta l’opera di Camillo Boito a una “rielaborazione interiore della scapigliatura”; Senso viene rappresentato come il capolavoro mancato, la Contessa Livia, la protagonista, è concepita come un’intellettuale perversa, l’ambiente “vago e allusivo” mostra “l’errore prospettico dei minuti particolari”,23 l’unico momento di equilibrio è visto ancora nel Demonio muto, dove, secondo il Luoni, si ha la piena rappresentazione di quell’ ‘eccezionale’ che egli considera elemento fondamentale dell’ambiente scapigliato. I giudizi del Croce e del Russo Benedetto Croce24 parve invece ignorare le novelle di argomento macabro e ossessivo del presunto scapigliato, ma per rilevare l’immagine, altrettanto frettolosa e lontana dal vero, di un Camillo Boito teneramente idillico, “con sospiri e malinconie d’amore”, intento a delineare graziose figure femminili “con tocchi amorosi e gentili”. E mi pare veramente strano che il Croce abbia potuto esprimere un giudizio così superficiale, scambiando per affettuosa leggiadria l’analisi lucida e implacabile, se pur continuamente dissimulata e smorzata e aliena da esasperazioni, con cui il Boito fruga nell’anima delle sue eroine. Giustamente il Nardi ribatte che il tocco amoroso e gentile entra qualche volta nelle Storielle vane, ma a scopo d’ironia, come “carezza d’artista, la quale si prepara a divenir artigliata”.25 Purtuttavia si legge nel fiacco studio crociano una notazione di indubbio interesse, che mi pare opportuno rilevare, proprio perché trascurata dallo stesso Nardi, che sostanzialmente la sviluppa: il critico abruzzese si è accorto di uno ‘sdoppiamento’ dell’ani22 23
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E. Luoni, Camillo Boito e la scapigliatura, l’arte e la vita, l’eccezionale e la morte, in: La provincia, Como, 10 giugno 1960. È assurdo parlare di errore prospettico se un autore isola alcuni aspetti del paesaggio in una analisi più attenta e minuta; e appunto il Boito mette a fuoco i particolari (che sarebbero, secondo il Luoni, la villa, il caffè, il teatro, i bagni) quando questi servono a puntualizzare uno stato d’animo, un conflitto psicologico: è la stessa contessa Livia che, ripensando con “acre voluttà” ai suoi casi, getta una luce spietata sui momenti di maggiore intensità della sua vicenda e sull’ambiente in cui di volta in volta si sono maturati e svolti. B. Croce, Camillo Boito, in: La letteratura della Nuova Italia, 5 (1939), pp. 320–330. P. Nardi, Camillo Boito, cit.
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mo boitiano, riflesso in quello del protagonista di Dall’agosto al novembre, da cui cita questo passo significativo: “Ciascun individuo ha da contenere due esseri, sinceri entrambi, l’attore e lo spettatore, l’uno deve stare sempre separato e distinto dall’altro, perché l’attore non distrugga lo spettatore e lo spettatore non impacci l’attore. Insomma tutti gli uomini, noi stessi compresi, non sono altro ed al più, che la materia prima di opere d’arte”. Al Croce si riallaccia il Camerino,26 che, nel recensire la nuova raccolta del Nardi, insiste nel rilevare la delicata leggiadria delle figure femminili delle Storielle vane, le quali (ad eccezione della protagonista di Senso) gli sembrano “non soltanto accarezzate dal Boito […] ma addirittura coccolate, come creature vive che egli commemorasse con vero rimpianto”. Lo stesso Camerino però restringe questo giudizio alle novelle accolte nell’antologia (e del resto è impossibile pensare di estenderlo a tutta la produzione dell’autore, dove vi sono figure di donne spietatamente descritte, come quelle del Collare di Budda, Notte di Natale o Vade retro, Satana), ma ciononostante esso non è accettabile: infatti, come l’analisi mostrerà più diffusamente, anche la Carlotta di Un corpo e la Nene de Il maestro di setticlavio sono continuamente scrutate dall’autore con occhio implacabile e spietato. Di “tocco amoroso e gentile” si può parlare forse soltanto per la gentildonna di Baciale ‘l piede e la man bella e bianca, che però non assume una fisionomia realistica e compiuta, ma rimane un elegante e leggiadro motivo letterario. Anche Luigi Russo27 si limita a constatare nel nostro vivaci qualità di scrittore e consanguineità artistica con il fratello Arrigo, ed è già sembrato strano che due critici, altre volte così attenti e sensibili a mettere in risalto la personalità dei minori, si siano accontentati del giudizio corrente. Il ‘riconoscimento’ del Bassani e del Nardi Di questo appunto si rammarica Giorgio Bassani nella sua bella introduzione a una raccolta di novelle boitiane, che rimane la più convincente e la più acuta fra le non molte dedicate al Boito.28 Spetta all’autore delle Storie ferraresi, attento e, almeno a giudicare da un recente e clamoroso caso letterario, fortunato scopritore e riesumatore di testi e manoscritti, il merito di aver proposto all’attenzione dei lettori una scelta delle Storielle vane così varia e intelligente, atta a illustrare nella sua complessità il non vastissimo ma intenso significato dell’esperienza narrativa boitiana e soprattutto comprensiva del racconto più bello, Il maestro di setticlavio, in cui il personalissimo realismo del Boito raggiunge l’espressione più alta e complessa. Il Bassani si sforza anche di additare i motivi per cui le Storielle vane furono tenute per tanto tempo in posizione secondaria rispetto alle altre attività di Camillo, mostrando però di fermarsi a quelli più esterni e cioè all’operosità eccezionale del Boito nel campo dell’architettura e al suo diuturno magistero d’arte. Il problema 26 27 28
Camerino, Senso, in: Stampe vecchie, Il Gazzettino, Venezia, 9 agosto 1961. L. Russo, I narratori, Milano – Messina, Principato, 1958. G. Bassani, prefazione a: Il maestro di setticlavio e altre novelle, cit.
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merita, a mio giudizio, un’attenzione maggiore: per inquadrare e capire il Boito narratore, occorre richiamarsi all’umanità del personaggio: l’atteggiamento schivo di Camillo nei confronti di ciò che, probabilmente, gli stava più a cuore, offre una chiave non del tutto trascurabile per entrare nel mondo boitiano. Il Bassani afferma decisamente l’indipendenza sia umana che letteraria del nostro dalla Scapigliatura, in virtù di un convincimento personale più che di una dimostrazione; il critico riconosce cioè che alcuni racconti (come Macchia grigia e Vade retro, Satana) possono far pensare alla Scapigliatura, ma afferma che il Boito più autentico è quello di Senso e de Il maestro di setticlavio (di queste novelle propone un’analisi precisa e brillante), anche perché qui abbiamo piena misura del realismo boitiano, che non può essere considerato un frutto gratuito dell’influsso transalpino dei Flaubert e degli Zola, ma che ha una sua più alta giustificazione “in un’amara e risentita esperienza umana”.29 Più prezioso di riferimenti, di ricordi eruditi e biografici, anche se forse meno deciso nel porre in rilievo il valore poetico delle Storielle vane, appare l’articolo Camillo Boito narratore di Pietro Nardi.30 In ogni modo il contributo del Nardi rimane fondamentale e insostituibile perché proprio a lui, amoroso e attento biografo di Arrigo, dobbiamo le notizie più sicure anche sulla vita di Camillo. Lo studioso dichiara apertamente l’accordo sostanziale col Bassani (“io sto col Bassani”) e pone Camillo al di fuori del ‘limbo’ della Scapigliatura, e cioè del dominio della ribellione alle formule, delle antinomie inquietanti, riconoscendo che occorre distinguere tra la materia e la disposizione del narratore: “pur splenetica e funerea che sia Notte di Natale, come lo è Un corpo, altro è l’argomento, funereo appunto e splenetico, e altro è la disposizione del narratore di fronte ad esso, né funerea né splenetica, ma distaccata e controllata: forma di quell’autodominio che restò aspirazione di Arrigo e fu realtà costante di Camillo”. Per il procedimento narrativo, il Nardi si richiama al famoso e discusso principio dell’affinità delle arti (“sia che ti delinei i connotati di una figura, sia che ti colorisca il paesaggio, senti sempre la parola in gara con la plastica, il disegno, la pittura, non escluso il ricorso al paragone con i capolavori della statuaria e del colore”), riconoscendo però una genesi autonoma, come riflesso di una vasta esperienza d’arte, e acconsentendo alla definizione del Pancrazi, che vede messo in opera in tanta parte della produzione boitiana un taccuino – tavolozza da pittore. Ma respinge il davvero improbabile accostamento al Soffici, proponendo invece un richiamo al Panzini: “Ma se avete l’occhio appunto a quelle pagine narrative di lui che più tengono del ‘diario e del viaggio’, scoprite nei modi di trar partito anche dall’erudizione una specie di doppio fondo: come se l’artista guardasse, da una sua ima specola, al professore che si palesava in superficie e gli desse un tantino la berta: mediatrice tra i due è l’ironia, in forma di umorismo, in cui si riscatta tutto il professorale, sicché meglio che a Soffici vien fatto di pensare a Panzini”. Ed è osservazione importantissima ed esatta.
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G. Bassani, cit., p. 21. P. Nardi, Camillo Boito, cit.
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La posizione critica di Piero Nardi è rimasta praticamente immutata nell’introduzione alla raccolta edita da Le Monnier, se si esclude un più deciso distacco dal Bassani per la valutazione delle due novelle maggiori; lo studioso della Scapigliatura pone infatti Senso su un piano superiore rispetto a Il maestro di setticlavio, che invece era parsa al Bassani la cosa più bella del Boito. Inoltre nella recente opera del Nardi si nota una cura filologica assai maggiore di quella dimostrata dai precedenti compilatori di raccolte o antologie: lo studioso si è preoccupato infatti di attenersi al testo definitivo delle Storielle vane, così come lo volle l’autore dopo le ultime correzioni.31 L’invito alla rilettura e alla comprensione di Camillo Boito, così efficacemente e sapientemente formulato dal Nardi, è stato accolto con favore dalla critica, almeno a giudicare dalle recensioni apparse su quotidiani e periodici.32 La trasposizione cinematografica di Senso Vale la pena di considerare a questo punto la trasposizione cinematografica della più celebre novella di Camillo, che Luchino Visconti presentò nel 1955 e, se il film Senso non valse a portare il nome e l’opera di Camillo Boito alla capricciosa e effimera ribalta della moda, giovò tuttavia a suscitare una sottile polemica33 in margine alla quale, probabilmente, Pietro Nardi fu portato a ridimensionare il suo giudizio sul realismo del nostro: Visconti ha innestato i personaggi boitiani su uno sfondo sociale e patriottico,34 il Nardi proclama l’illegittimità di tale innesto, che altera la perfetta, anche se monocorde, compagine di Senso. Non sta a noi giudicare la riuscita dell’esperimento del celebre regista, certo che la tirannia del senso è l’unica
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Avvertenza, in: P. Nardi (a cura di), Senso e altre storielle vane, [Firenze], Le Monnier, 1961, p. 26. L’unico articolo polemico è quello, già citato, del Camerino; gli altri sono tutti sostanzialmente concordi col Nardi e mostrano un vivo interesse per l’opera del nostro, cfr. L. Baldacci in: Sosta in libreria, nel Giornale del mattino di Firenze, 23 giugno 1961; D. Biondi, Le novelle dell’architetto Boito, ne Il Resto del Carlino di Bologna, 5 luglio 1961; G. Nogara, Invito a rileggere Camillo Boito, ne Il popolo di Roma, 14 luglio 1961 (ma identico articolo era già apparso ne L’arena di Verona e ne Il giornale di Vicenza, entrambi del 4 luglio 1961); G. A. Cibotto, Luchino non sapeva, nella rivista Vita di Roma, 27 luglio 1961; F. Bernardelli, Le amanti crudeli, ne La Stampa di Torino, 9 agosto 1961. Il Camerino (nell’articolo citato) ci fa sapere che, durante un dibattito sul film in questione, un critico troppo severo negò ogni qualità di scrittore al Boito, giungendo a dire: “Come autore non esiste”. L’espressione, come ho potuto appurare da fonte sicura, è di Diego Valeri, ed è anche l’unico giudizio completamente negativo che sia mai stato pronunciato su Camillo Boito. È un vero peccato non conoscere le ragioni che hanno spinto il Valeri a una così netta stroncatura, che forse fu dettata più dalle necessità polemiche della discussione (e fu quindi in un certo senso improvvisata sopra un’imprecisa e superficiale conoscenza dello scrittore) che da una vera e meditata convinzione. Il critico cinematografico Giulio Cesare Castello (in: Luchino Visconti, Belfagor, 2 [1955] difende l’opera del regista affermando che la “perfetta” novella boitiana ha suggerito a Visconti la possibilità di applicare i criteri del realismo a un mondo troppo spesso abbandonato al gusto dell’oleografia e del cartellone.
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dimensione umana dei personaggi della novella, i quali sono del tutto estranei alla problematica storica e patriottica del momento. Conclusione Ma neppure il Bassani e il Nardi ci hanno proposto un’immagine del tutto convincente di Camillo Boito narratore che, per concedere piena comprensione del valore poetico delle novelle migliori, richiede l’impostazione di un problema umano prima che di un caso letterario, compito non certo ingrato, ma difficile, soprattutto per la scarsità di documenti diretti, per la congiura del silenzio svolta attorno alle Storielle vane ma, così almeno mi pare, non sproporzionato al risultato. Non si tratta cioè di collocare Camillo Boito su un piano più alto di quello in cui è stato posto dal Nardi e dal Bassani, ma di illuminarne in pieno la parabola umana e poetica. Egli è e rimane un autore minore della nostra narrativa ottocentesca, ma con un suo gruzzolo originale di verità umana e di bellezza poetica, tale da rifuggire dalle facili e improvvisate sistemazioni; la sua è sostanzialmente una posizione di isolato, almeno in quanto nelle novelle boitiane non c’è mai ripetizione passiva di temi in onore alla moda del realismo e alla reazione della Scapigliatura, ma l’ambiente letterario gli offre gli stimoli, che saranno svolti con indipendenza, e non le battaglie e la partecipazione diretta all’evoluzione del gusto. Per questo si presenta necessario uno studio complessivo della personalità e dell’attività boitiana prima dell’indagine e dell’analisi della produzione narrativa. CAPITOLO II LA VITA E L’ATTIVITÀ La figura e l’eloquenza di Camillo Boito Ti ricordi come parlava scelto e toscano quel caro vecchio signore di sangue polacco e bellunese nato a Roma, vissuto a Milano? Dalla prima volta che gli portai i miei disegni nel silenzioso appartamento che divideva col fratello Arrigo, mi volle bene, mi protesse, mi consigliò, mi dette lavoro […]. Si piantava sui due gran piedi, gittava indietro la testa, si sparpagliava con le due mani la barba bianca quadrata perché gli coprisse quel poco di gozzo e incominciava le lodi: ̶ Mi piasce, mi piasce questo giovine fabro che s’è genuflesso sulla soglia del Battistero fiorentino davanti alle ghirlande del Ghiberti… Me ne compiaccio […]. Sì, lo so, come architetto […] sapeva troppo, sapeva tutto. Ma, caro Boito, quanta letteratura e quanta bontà… e poi un signor!
Così appariva Camillo Boito agli occhi dei milanesi del suo tempo, secondo la testimonianza, pazientemente raccolta da Ugo Ojetti35 e acutamente riscoperta da Pietro Nardi, del fabbro Alessandro Mazzucotelli, singolare figura di artigiano ‘am35
U. Ojetti, Camillo Boito, in: Cose viste, tomo 1 (1921–1927), Firenze, Sansoni, 1951, p. 46. Il fabbro prosegue affermando che il nostro architetto credeva di inventare, ma alla fine “faceva un’insalata” e critica aspramente la ricomposizione dell’altare del Donatello “così fredda che
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brosiano di Lodi’, orgogliosissimo dei monumenti e degli uomini celebri della sua città. Il ritrattino è gustoso e vivace, venato di una ammirazione pittoresca e popolare, che non rinuncia a lumeggiare con un filo di benevola ironia il parlar scelto e toscano, la solennità un po’ voluta, l’erudita dottrina del Boito. Eppure coglie appieno in lui quell’atteggiamento da gran signore cordiale ed aristocratico a un tempo, in cui l’autore di Senso fu, per così dire, schematizzato dai contemporanei e che, pur corrispondendo a un reale dato di fatto, contribuì a lasciare inesplorate per lunghi anni le sue vere e non occasionali qualità narrative. All’estrema povertà sia di documenti diretti, riguardanti la genesi e la maturazione interiore delle Storielle vane, e il posto e l’importanza che ad esse assegna lo stesso Camillo, sia di testimonianze dirette, rivolte ad illuminare il giudizio dei critici del tempo, fa riscontro la ricchezza di notizie sull’uomo, il maestro, l’architetto, l’oratore. Raggiunse fama, oneri e cariche spesso assai importanti; ebbe la cattedra di architettura al Politecnico di Milano, fu presidente dell’Accademia di Belle Arti e del Collegio degli Architetti e Ingegneri della stessa città,36 ma le cariche non furono per lui fine a se stesse, bensì strumenti per l’affermazione di una più razionale metodologia degli studi artistici e per la lotta in favore della conservazione del patrimonio artistico.37 Dovette esercitare gli altri uffici con grande onestà e integrità se non esitò a dimettersi da essi, per richiamare l’attenzione sui problemi più scottanti e per denunciare abusi e storture, come nel caso, ai suoi tempi clamoroso, dell’abbandono della commissione per il monumento a Vittorio Emanuele II in Roma: quando incominciarono le nomine improvvise di consulenti inutili e inesperti, i concorsi e gli appalti si fecero poco ortodossi e i conseguenti sperperi sempre più scoperti, Camillo insorse e si dimise insieme al Croce, al Risci, al Pogliaghi, con una lettera assai più decisa e fiera di quelle dei compagni, denunciando chiaramente responsabili e responsabilità.38 Possiamo quindi credere di tutto cuore alle parole di Nello Tarchiani: “Nelle commissioni si diceva: – C’è Camillo Boito –, come si dicesse: – C’è un uomo che non ammette e sopporta disonestà –”.39 Non troviamo traccia di risentimenti attorno a lui, che pure fu uomo di polemiche e di battaglie:40 sappiamo anche
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pare di ghiaccio”, il che ci testimonia l’incomprensione verso l’opera di restauratore del Boito, che è invece riconosciuta importantissima dalla critica odierna, come si vedrà più avanti. E inoltre diresse il museo Poldi-Pezzoli, partecipò al consiglio direttivo dell’Istituto Tecnico Superiore e al Consiglio superiore per l’Arte applicata all’Industria. Si vedano i numerosi articoli e i coraggiosi interventi apparsi sul Politecnico, sul Pungolo, sulla Nuova Antologia, sull’arte italiana decorativa e industriale; la Proposta di una riforma negli Statuti della Regia Accademia di Belle Arti (Milano, 1861), la conferenza I restauratori (Firenze 1884), la Relazione intorno alle Scuole superiori d’Arte decorativa e industriale (Roma 1891), la Relazione sul nuovo Statuto per le Accademie (Milano, 1896), etc. U. Ojetti, Il Monumento a Vittorio Emanuele II e le sue avventure, Milano, Fratelli Treves, 1907. Ojetti riporta anche un’altra lettera del nostro del novembre 1905, e diretta a Carlo Ferraris (Appendice, pag. 94), che mi pare illumini in pieno l’onestà e la decisione del nostro, anche se entra in questioni troppo particolari, e minute, perché la si possa riportare in questa sede. N. Tarchiani, Camillo Boito, ne Il Marzocco, 5 luglio 1914. Corrado Ricci ne ricorda la “franca e talora irruente lealtà; che talora lo spingeva a investimenti che poi deplorava”, in: Arrigo Boito, Milano, Treves, 1924, p. 36.
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che la sua opera architettonica non sfuggì talvolta alla critica aspra, pungente e non sempre serena,41 ma la dirittura morale, associata alla modestia e all’onestà professionale, dovette in qualche modo disarmare gli avversari. La stessa figura di Camillo sembrava fatta per attirare le simpatie: era un bell’uomo, elegante; doveva dare subito l’impressione di un’anima generosa e viva, di un’intelligenza superiore, ma nello stesso tempo affabile, senza falsa condiscendenza. Dice Carlo Linati:42 “Niente affatto ambizioso, amò vagabondare e rimase sempre un po’ in disparte all’ombra del fratello, ancorché fosse bello ed elegantissimo uomo e vestisse all’inglese.” Ma “i fascini irresistibili” di Camillo Boito,43 (l’espressione è dell’anonimo articolista del Corriere della Sera e abbiamo ragione di credere non fosse dettata soltanto dalle necessità encomiastiche del necrologio), poggiavano soprattutto sull’eloquenza, certamente singolare, che piacque moltissimo ai contemporanei, tutti concordi nell’affermare che Camillo era uno splendido oratore e un brillantissimo conversatore; egli non cadeva mai nell’ampolloso e nel retorico perché, come dice il discepolo Giovanni Beltrami, la parola “abbondante e fiorita era severamente disciplinata dal pensiero lucido e conclusivo”.44 Nella “facile, spontanea, irresistibile” eloquenza boitiana, il critico d’arte Guido Marangoni vede un opportuno completamento delle doti straordinarie del professore e ad essa, applicata con intelligenza e generosità alle discussioni artistiche, riconosce il merito di aver “determinato favorevolmente le tendenze dell’opinione pubblica attorno a gravi questioni”.45 Qualcuno, dopo la morte del Nostro, pensò anche che valesse la pena di raccogliere e pubblicare i suoi discorsi: Pompeo Molmenti infatti, che aveva affermato di non aver mai conosciuto un oratore più semplice ed efficace, più vivido e fresco di lui, si rivolse ad Arrigo, perché cercasse tra le carte del fratello gli appunti dei discorsi e delle conferenze.46 Arrigo gli scriveva così: Prima di risponderti, dovevo frugar nelle carte di Camillo e non ne avevo il coraggio. Infine mi sono deciso e ho cercato invano. Della sua semplice vivace e colta e persuasiva eloquenza non rimane traccia. Lui stesso mi aveva detto che tutte le carte del passato le aveva gettate nel fuoco. Quando si ritirò dall’insegnamento47 bruciò tutti gli scritti che teneva nel suo studio al Politecnico. Del resto non scriveva se non gli schemi.
Il destino di Arrigo era dunque quello di rispondere negativamente alle richieste di chi voleva diffondere gli aspetti dell’attività di Camillo, estranei alla consueta e ufficiale operosità d’architetto: ma quanto diversa questa lettera da quella indirizzata a Sabatino Lopez! Se là il diniego era volontario e motivato, come s’è detto, da una vera e propria sfiducia nelle qualità narrative del fratello, qui il rifiuto è dovuto 41 42 43 44 45 46 47
Cfr. P. Molmenti, Un artista oratore: Camillo Boito, in: L’eloquenza, 1 settembre 1914. Introduzione e presentazione, in: C. Linati, E. Colombo (a cura di), Racconti della Scapigliatura, cit. Cfr. Corriere della Sera, 28 giugno 1914. Comitato per le onoranze alla memoria (a cura di), Camillo Boito, Milano, 1916, p. 115. G. Marangoni, Camillo Boito, in: Emporium, dicembre 1908, pp. 408–409; per l’eloquenza del Boito vedi anche A. Annoni, Tre Architetti, cit. Cfr. P. Molmenti, Un artista oratore, cit. Il fatto avvenne nel 1908.
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a cause ‘di forza maggiore’ e tra le righe, pur così rapide e succinte, si può leggere il sincero rammarico di Arrigo per la perdita del prezioso materiale: ciò significa che egli, rigoroso e spietato critico delle Storielle vane apprezzava invece e molto “la vivace e colta e persuasiva” eloquenza del fratello maggiore e non possiamo davvero dubitare della severità e raffinatezza del suo gusto. A noi importa mettere subito in luce come già nel gusto della parola di Camillo affiori la sua disposizione letteraria, e non tanto per la scelta delle immagini e la ricchezza delle citazioni, quanto per la creazione vivace, veristica, di scenette e personaggi: e se i discorsi di Camillo sono andati perduti, e forse non sono mai stati interamente scritti, ad appoggiare il nostro discorso giunge quanto mai opportuno un grazioso e significativo aneddoto, offertoci dal Ricci, amico e ammiratore dell’oratore “magnifico”. Narra dunque lo scrittore: Un giorno, in una discussione intorno a un restauro, egli dichiarò di sentirsi proclive a un certo ripristinio, ma poi egli stesso si mise a esporre tutti gli argomenti che potevano star contro quell’idea, e con sentimento tutto letterario, diede forma di dialogo al suo discorso dicendo, Tizio pensa questo, Caio risponde così… e così andò avanti animandosi e animando il dialogo dei suoi contendenti sino quasi al litigio. Poi ad un tratto s’arrestò, e, abbandonandosi a una grande risata, esclamò: Oh Dio! Non so più di che opinione fossi!48
La disposizione letteraria, alla quale si era accennato, è però da inquadrare in una più vasta disposizione culturale e artistica, che Camillo assecondò poi per tutta la sua esistenza. Vale quindi la pena di richiamare i fatti principali di una vita tanto semplice e lineare, per ciò che riguarda la personalità armonica e equilibrata dell’uomo, eppure così ricca di interessi e di attività, e tutta dedicata all’arte e ai suoi problemi. La vita Camillo Boito49 nacque a Roma il 30 ottobre 1836 dal bellunese Silvestro, pittore miniaturista, e dalla contessa polacca Giuseppina Radolinskj, di antichissima e nobilissima stirpe. La fanciullezza di Camillo non trascorse certo in un’oasi di tran48 49
C. Ricci, Arrigo Boito, cit., pp. 36–37. Le notizie biografiche sono in parte desunte dall’opera di Pietro Nardi, Vita di Arrigo Boito, Milano, Mondadori, 1942, che rimane fondamentale per la precisione e la diligenza delle ricerche. Altre notizie si possono ricavare dal volume Arrigo Boito di Corrado Ricci, dall’opera a cura del Comitato per le onoranze alla memoria di Camillo, e dai necrologi citati, apparsi sui principali periodici del tempo. Del tutto insignificanti invece quelle ricavabili dalle opere generali sulla Scapigliatura e sulla vita del tempo (R. Sacchetti, La vita letteraria a Milano 1880, Milano, 1881; P. Levi, L’Osteria del Polpetta, Corriere della Sera, 3 dicembre 1908; R. Barbiera, Nella gloria e nell’ombra, Milano, Mondadori, 1926; P. Madini, La scapigliatura milanese. Notizie e aneddoti, Milano, La Famiglia Meneghina, 1929; E. Gara, F. Piazzi, Serata all’osteria della scapigliatura, Milano, Bietti, 1945) dove si trova appena citato il nome di Camillo, accanto a quello di Arrigo. Anche nell’opera del Nardi, Antonio Fogazzaro, cit., il nome di Camillo Boito ricorre una sola volta (p. 526) in una lettera dell’editore Hoepli allo scrittore vicentino a proposito della presentazione ufficiale del romanzo Piccolo mondo moderno. Maggiore interesse offrono le Lettere di Arrigo Boito, raccolte e annotate da R. De Ren-
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quilla pace familiare: infatti il padre, scapestrato, donnaiuolo, amorale, sempre teso alla ricerca di nuove avventure, doveva ben presto rivelare l’incapacità di accordo con la schiva e aristocratica Giuseppina, e da Roma, dove era stato chiamato dal Papa Gregorio XVI, il bellunese Cappellari, passò presto a Padova, poi a Venezia; in seguito abbandonò definitivamente i figli, che rimasero affidati al maestro di cappella della Basilica di San Marco Luigi Plet; mentre la moglie era già da tempo ritornata in Polonia.50 La personalità di Silvestro, in cui l’unico elemento costante fu la vocazione per l’arte, influì su Camillo probabilmente in quanto gli trasmise l’attitudine e l’abitudine al mondo artistico e gli comunicò, in certo qual modo, quello spirito di ribellione, che nel padre era solamente incapacità di aderire a un qualsiasi impegno morale e nel figlio diventò invece la molla di un nobile magistero educativo e di disinteressate battaglie in nome dell’onestà professionale e del buon senso. Ma in definitiva non ci fu un vero e proprio legame affettivo. Ben altrimenti importanti furono i rapporti con la madre, che dovette amare moltissimo i figli, a giudicare dalle due sole lettere che ci sono rimaste di lei, e che fu ricambiata da Camillo con profonda devozione, se, tre anni dopo la morte della madre, egli scriveva ad Arrigo queste accorate parole: Forse ti sarò parso talvolta freddo e in alcune cose non ispiegabile ma gli è che io ho nelle espressioni dell’affetto vivo e profondo una tal religione che le parole parmi profanino e non trovo conforto che nel silenzio. La piaga aperta nel cuore dalla morte della nostra santa madre io non potei né posso lenire con le lamentevoli parole ma quasi provo una segreta consolazione a ricordarla nel silenzio continuo e col meditarvi nel profondo del cuore.51
Camillo rimase a Venezia dal ’44 al ’59; qui studiò canto corale e frequentò l’Accademia di Belle Arti; la città lagunare, in cui ritornò spesso per brevi soggiorni, rimase sempre nel suo cuore e gli offrì lo sfondo e l’ambiente per alcune novelle. La madre era ritornata in Polonia, per cercare di riavvicinare il marito ai figli: solo nel ’53, quando Silvestro abbandonò definitivamente la famiglia, tornò a Milano con Arrigo mentre Camillo rimaneva lontano.52 Il primo maestro di Camillo fu dunque Luigi Plet: era uomo di buoni studi, umorista personale e fresco, autore di versi e di memorie sopra “la vocale lettura della musica”, e si fece persino promotore di un Istituto per azioni, scuola gratuita
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sis (Roma, Novissima, 1932) e in particolar modo quelle indirizzate al musicologo francese Camille Bellaigue pubblicate solo in parte dal De Rensis, ma visibili presso il Museo della Scala di Milano. Purtroppo non sono più reperibili le carte di Camillo: il dottor Leonardo Albertini mi assicura che nei documenti boitiani conservati dagli eredi Albertini nella villa di Parella, già proprietà di Giacosa, non c’è più nulla che non sia stato già pubblicato dal Nardi. Inoltre dobbiamo tener presente che molti documenti furono distrutti dallo stesso Camillo. I soli inediti che ho potuto trovare riguardano alcune lettere di Camillo ad Arrigo, che mi sono state gentilmente fatte conoscere da Pietro Nardi. Le minuziose e diligenti ricerche di Pietro Nardi hanno fatto emergere dall’ombra le vicende di Silvestro, che morì il 17 agosto del 1856 a Montagnana (Padova) in seguito, come pare, a una rissa. Cfr. P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., pp. 22, 30, 32, 40. Lettera del 14 marzo 1863, in: P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., pp. 97–98. Lo stesso Plet ci attesta la diligenza e la “buona riuscita di Camillo”: “Posso assicurarla […] che Camillo si comporta nella maniera più lodevole e nella scuola e in società”, in P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., p. 39.
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per gli studenti poveri; era insomma una figura singolare, che dovette senz’altro rimanere viva nella mente di Camillo e infatti i lineamenti reali del maestro di canto, affievoliti nella prospettiva del ricordo e trasformati dalla fantasia, almeno così mi pare, ispireranno la figura del maestro di setticlavio nell’omonima novella. A Venezia gli studi di Camillo s’indirizzarono definitivamente all’architettura; in essi, il nostro fu amorevolmente seguito da Pietro Selvatico (aveva in un primo tempo studiato sotto la guida del Lazzari). L’erudito marchese estense gli inculcò la più schietta avversione per ogni convenzione accademica e gli fu maestro d’italianità.53 La figura del Selvatico è senz’altro degna d’interesse e di studio,54 non solo perché “primo dei nostri, vide l’organismo di una storia dell’arte e ne disegnò il complesso con giusto criterio”,55 ma anche perché alcune sue opere, ormai cadute nell’oblio, rivelano una vivacità stilistica e un interesse letterario, che probabilmente influì sul giovane Boito e lo spinse a conoscere e ad amare le opere della letteratura italiana e straniera: è significativo che un’opera didattica del Selvatico si intitoli appunto Pensieri intorno all’educazione letteraria conveniente a chi esercita le arti del bello. In questo libro e nella raccolta di racconti storici L’arte nella vita degli artisti (Firenze, 1860) si notano certe impennate del linguaggio, per l’improvviso guizzare delle idee, che trovano una linea di continuazione nel linguaggio critico di Camillo. Cominciarono anche i primi successi: nel ’56 il Selvatico cedette per qualche tempo la sua cattedra al diciannovenne scolaro, che parve subito spregiudicato continuatore della lotta contro le viete regole e i decrepiti moduli aritmetici del Vignola, che il giovane giunse a definire56 “un letto di Procuste, fatale a chi sortì da natura inclinazione per le arti, soffice letto per chi ha corti l’ingegno e la fantasia”. Da questo momento inizia la vita operosa, serena e sostanzialmente facile di Camillo, senza grandi crisi e grandi sconvolgimenti, con ricchezza di amicizie e di legami con gli uomini di cultura del tempo e discepoli, e l’affettuoso sodalizio col fratello. La giovinezza lo riempiva di speranze e di entusiasmi, che si velarono ben presto di disincantata ironia. Dal ’56 al ’59 il nostro interruppe frequentemente il soggiorno veneziano per intraprendere alcuni viaggi artistici in Germania, in Polonia, a Roma, dove cominciò alcuni importanti studi d’arte, come quello sui Cosmati, e a Firenze, dove preparò l’opera su Santa Maria del Fiore. In questi anni si andò formando la vasta cultura di Camillo, non solo specificamente artistica, ma anche letteraria nel senso più vasto, alimentata sia dall’amore per tutte le cose belle, sia dalle relazioni con tanti letterati del suo tempo; i viaggi, 53
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Ecco il passo di una lettera del Selvatico a Camillo, notevole per il fervore patriottico e commovente per la fiducia nel giovanissimo discepolo (lo scritto è del 1856): “Voi mi restate, amato figlio a lamentar con me questa misera terra italiana, sì in basso caduta che il destino le toglie i pochi giovani dai quali potrebbe ancora essere proclamata, almeno nell’arte, la forte voce del passato. La vostra voce, spero, rincalzi un dì la voce di un povero vecchio.” (in: P. Nardi, cit., p. 51). Cfr. G. Cittadella Vigodarzere, Cenni biografici del marchese Pietro Selvatico estense, Venezia, Tipografia di Marco Visentini, 1881. G. Mazzoni, L’Ottocento, Milano, Vallardi, 1953, p. 1146. Comitato per le onoranze alla memoria (a cura di), Camillo Boito, cit., p. 57.
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che furono sempre numerosi anche negli ultimi anni di vita, erano per lui continue occasioni di arricchimento culturale e spirituale, come ci viene attestato da quelle sue opere che “tengono del diario e del viaggio”,57 e dalle lettere inedite. Le sue peregrinazioni furono definite dal Boito stesso gite di un artista; a ben vedere, sono gite di un artista letterato, che gode dei nuovi spettacoli che gli si offrono davanti agli occhi, ma anche delle suggestioni, degli echi, delle immagini letterarie, in qualche modo connessi ad essi. Già nei primi anni di insegnamento a Venezia, Camillo rappresentava il massimo sostegno materiale e morale per la madre e il fratello; notiamo col Nardi la sollecitudine e la signorile discrezione con cui regolava la question d’argent dei familiari, leggendo la lettera del 14 luglio 1859: “Appena ricevuta la vostra lettera del 3 giugno, impostai all’indirizzo vostro undici napoleoni d’argento; non so quando vi potrò inviare altri denari, perciò voi terrete conto di questi come io tengo conto di quelli che mi rimangono”.58 E sempre da Venezia si preoccupava con molto tatto di annodare attorno ad Arrigo una fitta rete di relazioni per prepararne il debutto nel mondo musicale e culturale: “Enrico mi saluti il Mazzuccato, il Leoni, il Filippi, mi scriva se il Cantù è ancora a Milano e che cosa fa, e preghi il Filippi, per parte mia, di ricordarmi al Tenca”.59 Alla fine dello stesso ’59, Camillo, che già da tempo ambiva lasciare “la tomba sciroccale” di Venezia per venire alla “paneropoli lombarda”,60 soprattutto per l’ostilità delle autorità austriache e l’incombente minaccia d’arresto, si trasferisce a Milano succedendo allo Schmidt sulla cattedra di architettura all’Accademia di Belle Arti, che doveva rimanergli per trentasette anni. La società milanese, che già aveva guardato con simpatia e ammirazione le sue cronache artistiche, apparse sul Crepuscolo di Carlo Tenca e sullo Spettatore di Celestino Bianchi, lo accolse a braccia aperte e Milano diventò la sede fissa di Camillo, che qui realizzò le opere più importanti e in particolare pubblicò le novelle tra il 1876 e il 1885. Si spalancarono per lui le porte del salotto della contessa Maffei; ma all’irruente e battagliero Camillo non doveva andare a genio lo spirito ormai stantio e conservatore del celebre cenacolo: tuttavia l’appoggio del “poco ameno consorzio”61 era il primo indispensabile gradino per ogni carriera artistica nella Milano di allora, quindi egli vi presenterà Arrigo e Arrigo si trascinerà dietro l’inseparabile Franco Faccio ed Emilio Praga.62 57 58 59 60 61 62
La frase è del Pancrazi (Racconti e Novelle, cit., p. 32). Le lettere inedite sono riportate alla fine di questo capitolo. P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., p. 52. Il Mazzuccato era redattore della Gazzetta Musicale e critico musicale della Perseveranza, il Filippi, sempre del gruppo della Perseveranza, veniva considerato il maggior critico musicale della Milano del tempo (P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., p. 54). Lettera del 14 luglio ’53, in: P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., p. 55. L’espressione è tolta da una lettera di Camillo ad Arrigo del gennaio 1863 (in: P. Nardi, cit., p. 89). Ciò avvenne nel ’63, cfr. R. Barbiera, Il salotto della contessa Maffei e la società milanese, Milano, Treves, 1895, p. 257.
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Come si vede, continua l’affettuosa e paterna protezione di Camillo nei riguardi di Arrigo: per concorde testimonianza dei biografi e dei contemporanei i rapporti tra i due fratelli non furono mai turbati da ombra alcuna e, pur vivendo insieme, essi conservarono una grande indipendenza di spiriti e di opinioni. Gli aiuti finanziari, a cui si è accennato, continuarono anche nel ’62, quando Arrigo era a Parigi per ragioni di studio;63 ma anche Camillo si trovava in difficoltà tanto che fu costretto a chiedere denari in prestito:64 la solidarietà fra i due era davvero commovente. A ben vedere, l’unico vero e solido legame affettivo e familiare di Camillo fu proprio quello con Arrigo; fu un vero e proprio incontro di spiriti, che riannodava e rincalzava l’affinità di sangue. I due matrimoni invece diedero ben poca felicità e tranquillità al nostro: il primo, funestato anche dalla morte improvvisa del figlioletto Casimiro, si concluderà presto con una separazione, la seconda moglie, di grandi qualità morali, morirà nel 1898, dopo mesi di strazianti sofferenze. Camillo incoraggiò sempre il più giovane fratello e non solo nell’attività musicale, ma anche in quella più largamente letteraria; volle, infatti, che si cimentasse a comporre qualche Appendice sulle cose musicali per la Perseveranza65 e così nacque, all’inizio del ’62, la prima prosa di Arrigo, salutata e lodata dal fratello in modo commovente: “Il tuo scritto mi piacque oltremodo e piacque al Filippi. Sarà stampato religiosamente nel gran giornale, anche col sommario… Bravo, per Bacco! bravissimo: se continui così ti conquisterai un bel nome di critico”.66 Qualche volta i suggerimenti erano ancora più precisi e circostanziati (siamo nel 1863 e Arrigo si accinge a comporre un’altra cronaca): “Ti invio anche gli articoli su Menandro: ti potranno giovare. Potresti fare una corsa a Piacenza, dove credo che abbiamo una biblioteca che parla tutt’altro che di formaggi […] fa che le allusioni alle opere antiche e le citazioni si fondano bene col ragionamento”.67 I consigli di Camillo accompagnano puntualmente Arrigo anche durante la composizione del Mefistofele;68 egli con il suo appoggio affettuoso, lo conforterà poi nel triste momento del fiasco dell’o63 64
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Arrigo e Franco Faccio godevano di un sussidio straordinario che lo stesso Camillo si era adoperato per fare loro ottenere attraverso il De Sanctis e il Di Breme, allora ministro della Pubblica Istruzione (cfr. P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., pp. 74–75). Lettera del 17 marzo, Camillo ad Arrigo: “Fai di rimandarmi subito le 150 lire che ti spedii ultimamente [Arrigo doveva ormai aver riscosso la seconda rata della borsa di studio]: sono al verde e ho già dovuto chiedere in prestanza due napoleoni” (in: P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., p. 99). “Tu fa di scrivere e presto qualche Appendice sulle cose musicali di costì: conoscendo codesti luminari dell’arte (Gounod, Berlioz ecc.) non ti mancheranno gli aneddoti, le storielle, i frizzi singolari – e lardellando uno scritto con tali droghe, il sapore riesce più piacevole assai ai lettori. Un motto scappato dalla bocca del gran papà della musica, da quella del Filippi francese, del Carafa, dell’Auber e d’altri simili, riesce importante per ciò solo, che è detto da loro: alla celebrità, meritata e non meritata, la gente s’inchina e presta orecchio prestissimo” (lettera del 18 dicembre ’61, in: P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., pp. 82–83). Lettera senza data ma prima del 12 febbraio 1862, in: P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., p. 83. In: P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., pp. 136, 137. “Lacero da un mio antico libriccino di memorie que’ versi del Tommaseo che mi chiedi, ma avverti che il contare le sillabe lunghe e brevi non è cosa facile. Ti converrebbe far rivedere i versi da uno pratico di prosodia latina” (data imprecisata del ’67, in P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., p. 236).
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pera.69 Camillo credeva nel talento del fratello e voleva che Arrigo vi si affidasse incondizionatamente e dedicasse ogni sua energia all’attività puramente creativa, rifiutando ogni lavoro su commissione che pure gli avrebbe fruttato un utile immediato, e perché Arrigo non si lasciasse tentare respingeva qualche volta lui stesso le offerte: “Il Lucca mandò qui un plico. Si tratta di una certa composizione epico-lirica del Raff, intitolata: L’ultimo giorno di Angelica nel convento; e v’è premessa una cicalata senza costrutto. Ho già fatto avvisare il Lucca che tu non sei a Milano”.70 Ad Arrigo Camillo confidò apertamente le delusioni, le debolezze della sua anima e i limiti delle sue possibilità, indirizzandogli la pagina più intima e rivelatrice, quella lettera del 16 dicembre del ’61 che è la vera chiave di volta per capire la personalità dell’architetto.71 Intorno al ’62 Camillo aveva cambiato casa, soffriva di solitudine e provava una grande sfiducia di sé: “attraversava – come dice il Nardi – uno di que’ momenti che fanno l’uomo più facile preda della passione, e ne preparano l’avvento”.72 Ma forse Camillo smentì la regola e non alimentò in questo periodo una vera e propria passione: infatti la lettera del 14 marzo fa pensare soprattutto al desiderio della famiglia, della tranquilla e affettuosa convivenza familiare che era completamente mancata alla sua infanzia. (La scelta della compagna, che si rivelò presto infelice, era caduta sulla cugina franco-polacca Cecilia De Guillame): “Ormai di questa sciocca e solitaria vita d’uom libero era peggio che uggito […] Niuna donna poteva convenirmi meglio della Cecilia […] La venerazione per la memoria di nostra madre non fu l’ultima cagione ond’io mi risolvessi ad amar la Cecilia ed esserle marito; ella stessa il desiderava”73. Camillo e Cecilia si sposarono in Polonia forse nell’estate del ’62,74 a Mistki. Dal matrimonio nacque il piccolo Casimiro che morì a tre anni,75 assistito da Arrigo mentre i genitori erano lontani. Pare che Cecilia avesse subito dopo il matrimonio messo fuori il suo umore bizzarro e litigioso, per cui dopo la morte del figlio i coniugi si separarono definitivamente.76
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Cfr. P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., p. 236; vedi anche C. Ricci, Arrigo Boito, cit., p. 38. Nella stessa opera sono riportati i commenti più velenosi che accompagnarono il fiasco clamoroso del 1868: “[…] è uno scandalo dei più schifosi. La musica del Sig. Boito è il prodotto di una mente inferma, è un barbaro accostamento di suoni senza alcun significato […] è la stessa negazione dell’arte e del criterio”. (Le parole sono tratte con ogni probabilità dal Gazzettino Rosa.) Lettera del 2 agosto 1872, in: P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., p. 346. La lettera sarà tra breve riportata quasi integralmente (cfr. ivi, p. 97). P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., p. 97. In: P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., p. 96. La data del matrimonio è assai controversa: secondo il De Rensis (Lettere di Arrigo Boito, op. cit., p. 273) avvenne nel ’64; a questo proposito è determinante per la cronologia la collocazione nel tempo di una lettera in cui Arrigo annuncia al Faccio il matrimonio del fratello. Il Nardi la fa risalire al ’72, il De Rensis al ’64, il Ricci la pone invece nel ’68. “Toccava ad Arrigo provvedere alla tumulazione del povero corpicciuolo in un loculo del Cimitero Monumentale di Milano […] così si estingueva la linea del Boito, che Arrigo restava celibe, né Camillo aveva più figliuoli” (P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., p. 243). Ci avverte il Nardi che forti riserve sul carattere di Cecilia erano già state avanzate da Tecla Karniski, sorellastra di Camillo ed Arrigo (cfr. P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., p. 244; cfr. anche P. De Rensis, Lettere di Arrigo Boito, cit., p. 273).
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Essa andò a vivere a Venezia presso la sorella Paolina Lion: ne riparlerà lo stesso Camillo in una lettera del’71: “Da Venezia mi scrivono che la Cecilia e sua sorella sono lì lì per dividersi: pare che cerchino due appartamenti; ma non sembra che vogliano andare in Polonia. Sono arcimatte”.77 Camillo si risposava il 12 ottobre 1887 con Madonnina Malaspina e questa volta l’accordo tra i coniugi fu perfetto. In una lettera inedita del 10 agosto 1882 da Borca di Cadore, egli descrive ad Arrigo con insolito entusiasmo la grande solitudine dei monti trentini, resa ancora più preziosa e gradita dalla vicinanza di una persona che sta per diventargli cara: “La mia solitudine non è per mia fortuna completa […]. Sta qui a Borca la M. Malaspina con suo fratello, vuole provarsi a fare un libretto d’opera, sicché pregai il Ricordi di mandarmi quelli della Gioconda, del Mefistofele e dell’Ero e Leandro, che serviranno di modello. Ho già ricevuti i libretti sotto fascia”. Conoscendo il ritegno di Camillo per tutto ciò che riguarda la vita dei suoi sentimenti, non può sembrare troppo forzato il voler scorgere un segno particolare d’affetto nella premura con cui il nostro procura i libretti alla Signora: se avesse agito per pura convenienza, non avrebbe mancato di farlo notare al fratello con una punta ironica e scherzosa, com’era sua abitudine. L’unione con la Malaspina fu quindi felice e anche l’affiatamento di quest’ultima con Arrigo fu ideale: la morte della donna avvenuta nel ’98 dovette essere quindi grave motivo di angoscia per entrambi78 tanto che Giuseppe Verdi avrebbe voluto ospitarli presso di sé in quella dolorosa circostanza, e indirizzò loro questo scritto, così toccante e sincero nella sua essenzialità: “Se la mia povera casa di Sant’Agata potesse essere a entrambi di qualche sollievo, venite. Vi aspetto a braccia aperte”.79 Oltre queste testimonianze indirette, abbiamo due lettere inedite di Camillo al fratello che ci fanno intuire lo strazio del suo animo: il dolore è sopportato con virile fermezza e il consueto pudore dei sentimenti più profondi impedisce la facile effusione del dolore: ecco perché questi brevi cenni riescono tanto eloquenti per chi conosce un poco l’animo di chi li ha scritti: Pontebba 1 Luglio ’98 Queste montagne mi hanno fatto un gran bene […] non sento quasi […] voce umana […] Rispondo brevemente ai telegrammi e alle lettere che mi hai mandato. Ecco tutto. Così mi preparo di nuovo al consorzio umano […] Il 15 e il 18 passerò da Milano: desidero tanto di abbracciarti. Hai fatto tanto, povero Arrigo; hai dovuto entrare in tante tristezze!
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In: P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., p. 337. Arrigo risponde così alle parole di condoglianza di Camillo Bellaigue (la lettera, riprodotta in parte dal De Rensis, si trova al Museo della Scala): “Milano 21 Juillet 1898 Mon cher ami, Ce triste remerciement arrive très tard, mais vous savez que ce n’est pas froideur de coeur; les grands malheurs font des ravages des nos soins les plus chers. Votre mot compatissant m’a été bien doux; vous demeurez constamment dans mon affection. La maison où desormais il n’y aura plus de femme a été comme dévastée par la colère du ciel. Après la catastrophe, mon pauvre frère s’est sauvé jusque sur les montagnes du Cadore pour tromper par la fatigue du corps la dèsolation de l’âme. Il est fort comme sa douleur. Nous passerons une partie du mois d’août à Sant’Agata. J’ai vu le Maître; rien qu’a le voir on rattrape le vrai sens de la vie”. In: P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., p. 618.
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Roma, 11 agosto ’98 Oggi son tornato al museo delle Terme; ho bisogno di rivedere i musei del Vaticano e quelli della Villa di Papa Giulio. Qui non so perché, il mio animo è un po’ sollevato, e mi sento meglio.
Ancora una volta dunque Camillo era rimasto solo col fratello a continuare la sua dinamica operosità di artista. Negli ultimi anni però essa si limitò sempre più all’ambito critico: egli non costruiva più nuovi edifici (e non scriveva più neppure nuove novelle), ma proseguiva l’insegnamento e la partecipazione alle commissioni pubbliche. Camillo morì il 28 giugno 1914, stroncato da un carcinoma gastrico. Le sue ultime parole scritte sono con ogni probabilità quelle del testamento “espressione commovente del suo laconismo virile, dell’ultima volontà di un artista, il quale non pareva conoscere gesti d’addio che per oggetti d’arte e ideali d’arte”:80 Stanco di corpo ma sano di spirito, lascio al mio amato fratello tutto quel pochissimo che possiedo. Soltanto desidero che egli doni per me all’Accademia di Brera tutti i miei libri e al museo Poldi-Pezzoli, per la stanza della Direzione, i quattro quadretti del Fontanesi, del Favretto, del Palizzi e del Gargano che ora stanno vicini nella nostra camera da pranzo […]. Non sapendo come ringraziare della buona, indulgente, gentile amicizia che da molti anni mi porta Romilda Pantaleoni,81 vorrei ch’ella accettasse qualche ricordo a sua scelta […] poi attenderò nei loculi del Crematorio, che Arrigo, compiuto il debito suo verso l’Arte, mi raggiunga il più tardi possibile.
Finora abbiamo parlato dell’affetto quasi paterno di Camillo per Arrigo; ma quello di Arrigo per il fratello maggiore non fu certo meno profondo e assunse, come si vedrà meglio in seguito, una sfumatura di filiale reverenza. Le espressioni del dolore di Arrigo per la scomparsa di Camillo sono veramente toccanti. Ne ricorderemo alcune col Nardi:82 “Tu sai quale amico hai perduto” scriveva a Corrado Ricci, il 3 luglio “pensa che fratello ho perduto io”. E al Bellaigue, il 7: “Quam bonum, quam jucundum habitare fratres in unum!”83 Scrivendo a Vittoria Cima, il 5, si diceva stanco e sbalordito: “Avrei almeno seicento tra dispacci lettere e biglietti da ricambiare: è una tortura. Molti mi vorrebbero aiutare, ma ho questa maledizione addosso, che non posso essere aiutato da nessuno […]. Per ora non mi muoverò da Milano, voglio abituarmi alla casa che sarà sempre deserta e ai pranzi solitari”. E così al Molmenti l’8: “Io non voglio muovermi di casa, voglio abituarmi, temo, se parto, di ritrovarla al mio ritorno ancora più funesta”.
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P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., p. 699. Fu la più abile interprete femminile del Mefistofele assai apprezzata da Arrigo e amata da Franco Faccio: strinse con Arrigo e Camillo un’affettuosa e fedelissima amicizia, fino alla loro scomparsa. P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., pp. 699–700. La lettera al Bellaigue prosegue così: “rimarrò nelle stanze deserte tutto il luglio e l’agosto. Non credo sarò d’ora innanzi l’uomo che fui; l’età s’aggrava più assai colle sventure che con gli anni” (presso il Museo della Scala).
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La personalità, l’attività di maestro e di architetto La vicinanza di Camillo era sempre stata per il musicista uno sprone e un esempio di dirittura morale. Quando Arrigo era il giovane ‘scapigliato’ innamorato di Baudelaire (erano i tempi dell’incontro e dell’amicizia con il Praga, stretta tra la declamazione dei versi di Musset, Hugo, Heine ma soprattutto di Baudelaire) aveva ceduto ai fascini della droga; ma era stato una volta sorpreso dal fratello e bastò questo per troncare ogni rapporto coi paradisi artificiali. Lo confessa lo stesso Arrigo al Bellaigue:84 Quand j’étais jeune et baudelairien j’avais dressé mes nerfs aux joies du haschich; l’apprentissage avait duré une semaine et le divertissement quelques jours, mon frère m’a trouvé, une fois evanoui sur mon lit et je n’ai plus recommencé.85
Basterebbe questo documento a dipingere la fondamentale serietà morale del nostro, vero nucleo della personalità boitiana: la sua sola presenza aveva richiamato Arrigo al dovere e ai valori più veri e più retti della vita. Come già s’è detto, con le parole del Mazzucotelli prima e di tanti altri contemporanei anche più autorevoli, l’onestà rigorosa e pensosa è il carattere principale di Camillo, quello che meglio d’ogni altro ci può introdurre nel suo animo. Ma la serietà profonda e sentita, l’impegno morale non si traducevano mai in atteggiamenti pedanteschi e intransigenti; Camillo era soprattutto nemico dell’orpello, dei formalismi e della retorica, vuota e inutile (anche in questo si rivela indubbiamente il rigore morale di un uomo); questa costante del suo carattere si mostra, come già s’è accennato, in tutti gli interventi, nelle recensioni, nelle cronache artistiche, nella attività di architetto e di maestro; sono particolarmente interessanti al riguardo questi passi ricavati da due lettere inedite, in cui si sente l’offesa dell’uomo, abituato a considerare il valore sostanziale delle cose, di fronte alle inutili e stucchevoli esteriorità: 23 gennaio 1886 L’hanno gonfiata sì quella morte del povero Ponchielli! Tutto ormai nelle pubbliche manifestazioni è affettazione, menzogna e sciocco e vuoto e volgarissimo eccesso. Roma 25 gennaio (data imprecisata) Fui a Firenze per il giudizio del concorso al Monumento a Vittorio Emanuele secondo. Codesti monumenti mi capitano tutti sulle spalle. Qui si è appena finito dopo dieci giorni di adunanze. Tu avessi sentito il discorso di sua Eccellenza il Ministro […] Noi eravamo il Senato delle Arti? Le Arti erano le divine fanciulle, i monumenti erano il glorioso patrimonio lasciato a noi dai grandi artisti. Un uomo fatto di vento, il quale ha un certo sorriso ironico sulle labbra ma non ti guarda mai dritto in faccia: il sorriso e gli occhi formano un contrasto volgare. Lo vidi una sola volta e m’è bastato.
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La lettera è del 17 ottobre 1908 e si trova presso il Museo della Scala. È già stata riprodotta parzialmente dal De Rensis e integralmente dal Nardi (cit., p. 229). Il documento è interessante anche perché mostra il carattere transitorio e occasionale di certi atteggiamenti ‘maledetti’ di Arrigo: l’uso della droga non ha tanto il sapore di una bandiera di rivolta contro il costume borghese, quanto quello d’una scappatella del ragazzo che sente il fascino del proibito, ma che è pronto a vergognarsi di se stesso e a ravvedersi.
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Lo spirito di Camillo infatti era libero, spregiudicato, aperto a tutte le novità e pronto a scagliarsi contro i dogmi artistici, ma nello stesso tempo pensoso ed alieno da pose e da esagerazioni; e ribelle si era dimostrato fino dalla più giovane età, quando ancora quasi bambino, osò andar contro al suo primo maestro, Francesco Lazzari, il pedante restauratore della Loggia Palladiana. Costui comprendeva fra gli esercizi scolastici imposti ai suoi allievi quello di ‘purificare’ lo stile architettonico dei maggiori palazzi veneziani, spogliandoli di ogni soverchia libertà ornamentale86: e il fanciullo aveva rifiutato questa esercitazione e insieme la soffocante grettezza dell’eccessivo tradizionalismo. Forse memore di questo, Camillo volle sempre concedere agli innumerevoli allievi di Brera e del Politecnico (dove tenne la cattedra di Architettura dal 1865 al 1908) la più grande libertà, perché ciascuno seguisse e assecondasse la propria inclinazione. Afferma Gaetano Moretti: Bastavano pochi minuti d’analisi e discussione perché quella parola calda, quel ragionamento serrato, quella ricerca e quel collegamento di tutti i problemi minori che costituiscono il gran problema architettonico si tramutasse in noi in uno stimolo efficace a tentare nuove vie […]. Ma egli stesso escludeva l’accoglimento cieco dei suoi precetti. Egli mirava ad inculcare in noi il senso critico, caratteristica precipua della sua mente.87
Così la scuola del Boito, prosegue lo stesso Moretti, “era libera nel senso più ampio della parola; aperta indistintamente tutti i giorni dell’anno, dall’alba a notte, ricordava qualcosa delle antiche botteghe d’arte”. Ma nell’operosità architettonica, lo slancio verso un linguaggio più libero e più nuovo doveva sempre venire appesantito dall’eccessivo travaglio intellettualistico e dall’inerte bagaglio della cultura e della tradizione costruttiva del tempo (era infatti l’infelice stagione dell’eclettismo, delle logge moresche mescolate ai pinnacoli gotici, ai rosoni romanici, delle volute barocche sposate alle arcate neoclassiche). Ma Camillo Boito aveva piena coscienza della precarietà di un tale gusto e cercava di affermare il nuovo verbo dal quale scaturirà tutta l’architettura moderna: il funzionalismo. Gli studiosi d’architettura hanno già da tempo ‘rivalutato’ il nostro; hanno scoperto che nel suo ‘medioevalismo’ si cela uno dei momenti più profondi della coscienza architettonica moderna88, tuttavia quanti sinora si sono occupati del Boito letterato hanno creduto di rovesciare l’opinione corrente, come se le Storielle vane dovessero conferirgli quella gloria che le opere architettoniche, ormai irrimediabilmente ‘irrecuperabili’ non gli potevano più fruttare. Il Nardi ribadisce ancora l’equivoco nella sua recentissima introduzione alla scelta di novelle boitiane pubblicata da Le Monnier in questi ultimi mesi: fatt’è che il modo di manifestarsi ch’era più consueto a Camillo e che gli valse onori e fama, ha perduto oggi splendore, legato come ci si mostra alle tendenze e al gusto di un’epoca, la quale ha messo fuori tutte le sue rughe (mentre proprio quella ch’era parsa secondaria perché occasionale s’avvia ad apparire la più degna di considerazione).89
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Cfr. G. Marangoni, Camillo Boito, in: Emporium, cit., p. 407. Comitato per le onoranze alla memoria (a cura di), Camillo Boito, cit., p. 221. Come si vedrà meglio nel capitolo successivo. P. Nardi (a cura di), Senso ed altre storielle vane, cit., pp. 8–9.
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Il dissidio interiore e la ‘modestia’ A me pare invece utile sottolineare il valore e l’importanza storica di quella esperienza architettonica bistrattata, mi sia concesso dire, solo dagli incompetenti, e non solo per amor di carità, perché cioè la figura di Camillo non risulti in qualche modo incompleta e menomata, ma soprattutto perché è possibile trovare qui la ragione di un atteggiamento umano del Boito, che largamente influì sull’opera letteraria.90 Dunque quegli stessi studiosi91 che ci avevano illuminato sull’importanza degli edifici boitiani, ci avvertono anche che questa può essere pienamente avvertita soltanto se noi integriamo l’opera concreta creativa di Camillo con le sue intuizioni balenanti di critico, i pacati giudizi dello storico, la feconda attività del maestro, poiché infatti in lui l’intelligenza poteva più di ogni altra qualità. Ma il primo a rendersi conto di questa limitazione fu lo stesso Boito, che ne ebbe coscienza non solo nel ripiegamento riflessivo della vecchiaia, ma fino dalla gioventù, ci attesta la lettera già ricordata del 16 dicembre ’61: Questa strana condizione di spirito viene certo dall’indole mia, ma più di tutto dalla persuasione che al mio ingegno e al mio animo manca qualcosa per toccare alle altezze degli studi; qualcosa che mi terrà fra il gregge dei mediocri in sempiterno. Se tu mi chiedessi che cosa è questo pesantissimo masso che io sento legato ai piedi, ond’io batto le ali e mi dimeno senza poter volare, non ti potrei chiaramente rispondere; forse nella mente mi difetta la fantasia, forse nel cuore mi manca la volontà prepotente, ardita, disprezzatrice e vincitrice di ogni ostacolo, dalla quale possono uscire le opere grandi e durature. Sento la verità di una frase che mi capitò di leggere tempo addietro: forze svogliate, ma le forze sono svogliate appunto perché non sono compiute, perché nel camminare si zoppica, si capitombola, o almeno si incespica. Il mancar di fede in sé stessi è il più dannoso di tutti i mali; certo io capisco che ne so più di molt’altri e mi sento superiore a qualcuno che ha carpito facile rinomanza, ma dall’altro canto ho la sventura di scorgere con l’occhio della mente fin dove si dovrebbe andare e sento che per toccar quella cima le ali mie non bastano e non basteranno giammai […]. Forse il non aver trovato ostacoli nella via fu cagione della mia sfiducia eccessiva: io spero da un lato che tu non abbia a trovarne, ma se pure tu ne incontrassi, io non ne proverei gran dolore, perché gli è appunto l’intoppo che infiamma il desiderio e il desiderio infiammato rafforza la volontà, fa scattare l’ingegno come una molla d’acciaio e nell’anima ingigantisce quella fede in sé stesso che tutti gli uomini grandi hanno avuta. Io ti dico queste cose perché tu ti debba guardare dalla svogliatezza e dallo sconforto, ch’è la più sciocca e vergognosa malattia che un uomo possa lasciarsi cadere addosso e disgraziatamente inguaribile e quasi inguaribile. Tu hai facile, validissima, vigorosa fantasia e questa facoltà della mente è come il lievito di ogni altra; tu hai inoltre sano e acuto giudizio. Ma il sano e acuto giudizio senza la fantasia, mi dà l’immagine di una bella locomotiva con le caldaie piene d’acqua, ma senza il fuoco che le faccia bollire: la locomotiva se ne resta lì sulle guide fino alla consumazione dei secoli.
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Le opere architettoniche più importanti di Camillo Boito furono l’Ospedale e il Cimitero di Gallarate, le scuole di via Galvani a Milano, l’ingresso al museo di Padova, la Casa di riposo per musicisti Giuseppe Verdi di Milano. In particolar modo Liliana Grassi, Bruno Marangoni, Ambrogio Annoni, Bruno Zevi, Mino Borghi e Carlo Perogalli.
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Le parole non sono dettate soltanto da una momentanea crisi di sconforto, ma puntualizzano la condizione umana di tutta un’esistenza; questo è il sottile ma continuo dramma di Camillo Boito, destinato ad operare per tutta la vita con il preciso e segreto tormento di non poter pienamente concretizzare le intuizioni del pensiero. Il continuo auto-controllo dell’intelligenza impedisce le facili effusioni e può anche raggelare e rendere più faticosa l’ispirazione: nel campo narrativo è probabilmente la ragione della relativa esiguità delle Storielle vane; ma le rende in un certo senso più apprezzabili, in quanto esclude una genesi dilettantistica o gratuita. È vero, non sono questi i conflitti intimi che sconvolgono i consueti moduli di un’esistenza, ma son quelli che la possono inaridire nel culto spietato e sterile della propria intelligenza, respingendo la cordialità dei rapporti umani. Nel Boito invece prevalse la generosità: egli coltivò con trepidazione nel fratello “il genio spavaldo” e capace di auto-affermazione che gli era stato negato, e continuò coraggiosamente ad operare come maestro e arbitro d’architettura. La delusione e la lucida consapevolezza dei propri limiti determinarono la “strana modestia”92 del Boito, la sua posizione sempre schiva e umbratile, pur fra gli onori e i riconoscimenti ‘ufficiali’, che non si deve intendere come il riflesso di pavidità e di debolezza d’animo, ma come una sorta di difesa del proprio conflitto interiore, come l’estremo pudore di sé che caratterizza tanto spesso i temperamenti spiccatamente raziocinativi e volitivi. Nell’esercizio attivo della professione, nell’opera di maestro d’architettura dimostrò una grande riservatezza: anche gli amici più intimi come Alfredo D’Andrade, gli allievi più cari, come Gaetano Moretti,93 non lo intesero mai parlare dei suoi lavori costruttivi: fece eccezione solo quando si trattò di dare pubblico conto dei criteri seguiti nel ricomporre l’altare del Donatello nella Basilica del Santo di Padova, violentemente attaccato dalla critica.94 I detrattori dovevano essere parecchi, le polemiche attorno alle sue opere vivacissime, ma Camillo, così animoso nella lotta per i suoi ideali, non ‘scattava’, bandiva ogni reazione violenta, non voleva, per usare un’espressione del nostro tempo, farsi pubblicità e difendeva non tanto la sua opera quanto i principi di ordine, economia edilizia, razionalità; e qualche volta cercava di frenare persino le giuste ire dei suoi sostenitori, con una modestia che è segno di grande intelligenza e generosità. Il Molmenti soccorre al nostro ragionamento, facendoci conoscere un episodio e una lettera che, almeno così mi pare, illuminano a pieno il superiore equilibrio della sua personalità e l’assiduo controllo dell’intelligenza, a cui sono sempre ben presenti i limiti dell’opera. Scrive dunque il Molmenti:
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L’espressione è tolta da una lettera di Camillo ad Arrigo del gennaio 1863, in: P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., p. 89. Gaetano Moretti fu architetto e restauratore, operò molto anche all’estero (costruì fra l’altro i palazzi del Parlamento di Montevideo e di Lima). Il D’Andrade, architetto d’origine portoghese, restaurò molti castelli in Francia e in Piemonte. I principi boitiani resisteranno al tempo come si vedrà meglio più avanti.
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Giuliana Bertacchi Molti anni or sono il principe Odescalchi scrisse sull’Opinione un articolo violento, biasimando non ricordo quale edificio costruito dal Boito.95 Il critico mi parve aspro e ingiusto. Stavo per prenderne le difese, ma Camillo mi dissuase: “Lessi l’articolo e mi parve scritto con la sincerità dell’animo indignato, e tutte le cose sincere vogliono essere rispettate […] io poi, credilo, non sento alcun rancore verso l’Odescalchi. A lui piacciono le forme, consuete, nobili, talvolta gentili dell’architettura classica; e piacciono anche a me. Ma quelle forme hanno una ragione tutta artistica, la quale è diversa dalle fabbriche mie che, brutte o belle, intendono a servire, costruzione e distribuzione, con grandissimo scrupolo. A un edificio, come la mia scuola, giovano due ingressi alle estremità dei due lati, ed io li faccio; giova il terzo piano soltanto sugli ingressi e io lo faccio lì solamente e lo faccio basso perché il farlo alto non mi serve. Insomma il realismo dell’architettura ai classicisti (noi italiani siamo, dal più al meno, tutti un po’ classicisti) deve piacere poco. Figurati poi a un Romano! Deve sentirsi offeso quasi personalmente di questo abbandono di ogni tradizione antica e del Risorgimento – Lasciamolo dunque dire a suo beneplacito – Le villanie stesse son segno della sua buona fede e del suo amore per l’arte. E poi chi dice che non abbia torto io?”.96
Ma non sempre l’equilibrio fu perfetto e ogni tanto il tormento affiorava e si manifestava in forme che dovevano riempire di amaro stupore le persone che lo amavano.97 Così il fedele Gaetano Moretti confessa che qualche volta, quando aveva errato, il Boito sembrava provare un senso di voluttà98 nel castigarsi che metteva a disagio gli altri. E ancora: “[…] egli appariva talvolta stranamente impenetrabile, tale altra sembrava ostentare uno scetticismo che non era nella natura sua e, caso strano, questi sentimenti egli usava di preferenza nei riguardi di cose interessanti, e di persone a lui care (quasi temesse l’accusa di partigianeria)”. Una sola volta lo sconforto produsse un gesto di violenta ribellione: al momento di abbandonare la cattedra al Politecnico nel 1908 distrusse con la più spietata meticolosità i documenti nel suo studio. Il gesto parve allora in gran parte inesplicabile, ma alla luce delle nostre considerazioni mi pare acquisti un ben preciso significato e s’inserisca senza contraddizioni nella linea di un tormento interiore che accompagnò una vita generosamente e intensamente vissuta all’insegna dell’intelligenza.
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Sono certamente le scuole di via Galvani a Milano (1888) che per essere uno dei primi esempi di architettura, almeno in un certo senso razionale, suscitarono polemiche e risentimenti. P. Molmenti, Un artista oratore, cit. È significativa a questo proposito anche questa breve nota, tratta da una delle tante monografie del nostro (Discorso nel Terzo Centenario di Andrea Palladio, Vicenza Girolamo Burato 1880, p. 16): “Una sentenza, volgare nel doppio senso della parola, dice che la verità sta nel vino. È falso, poiché il vino, come il delirio febbrile, non esalta solamente le passioni, le sconvolge e altera. Io dico che la verità sta nell’ira; non quella s’intende che riduce l’uomo a una bestia: quella che gli fa abbandonare ad un tratto le convenienze sociali (le convenienze sociali che Napoleone I diceva a Madame di Rémusat ‘inventate dagli sciocchi per uguagliare ad essi nella vita quotidiana gli uomini singolari’). L’ira rompe le cateratte e la verità sgorga”. Comitato per le onoranze alla memoria (a cura di), Camillo Boito, cit., p. 223.
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Il significato dell’attività di narratore Nell’anima del Boito dunque, si celava una specie di doppio fondo: l’intelligenza e la sapienza morale dell’uomo superavano l’erudizione del professore brillante, dell’architetto celebre, con la precisa consapevolezza dell’impossibilità che tutte le forze si unificassero nell’opera prepotente del genio; il contrasto alimentò così quella vena di ironia che serpeggia in tutte le pagine del Boito. La riservatezza del Boito investì anche la produzione narrativa, il cui significato deve essere visto alla luce del suo sottile dramma umano poiché da esso scaturisce quella lucida e amara consapevolezza dei propri limiti, sempre presente nel nostro; proprio in una parte di tale produzione narrativa (quella più autobiografica e riflessiva) è espressa e svelata, attraverso il movimento ironico, la complessa condizione psicologica dell’autore, mentre nelle migliori novelle, e forse solo qui, Camillo conobbe una sorta di liberazione e giunse ad un suo piccolo, ma non per questo meno valido, gruzzolo di verità poetica nella creazione di figure vitali attraverso un gioco di intarsio, raffinato e interiore, e di rielaborazione di temi e di ricordi, al di fuori delle mode letterarie del tempo. Forse per questo Camillo fu ancora più restio a diffondere le sue Storielle vane e persino a parlarne: anche nelle lettere più intime e rivelatrici, quelle ad Arrigo, troviamo solo due rapidi accenni alle novelle. Il primo (“Mi sono messo a scrivere una storiella, ma sinora non mi pare gran cosa”) si trova in una lettera inedita senza data, inviata da Pejo, l’altro, ugualmente laconico, si legge in una lettera da Borca di Cadore del 10 agosto 1882: “Scriverò una storiella per sostituirla all’ultima nel volume Senso, che al Treves nelle bozze di stampa è parsa scandalosa e a ragione”. Lo stesso titolo di Storielle vane è significativo al riguardo: in esso il diminutivo e l’aggettivo dimessamente posposto vogliono, a mio parere, esprimere non la giustificazione dell’intenditore d’arte che si cimenta in un’attività diversa da quella che gli ha dato fama e onori (e nella quale si sente forse meno sicuro dei propri mezzi), ma l’umiltà dell’uomo e del letterato che, pur avendo colto ed espresso poeticamente nel tessuto letterario delle novelle alcune luminose scintille di realtà, sente di non aver realizzato di essa un’interpretazione salda e organicamente convincente. Le sue fantasie di artista e di professore, e le sue stesse novelle dal piglio realistico più amaro e profondo, gli paiono vane di fronte alla complessa realtà delle cose e, soprattutto, degli uomini, quasi impotenti, pur nella loro raffinata e lucidissima psicologia, a cogliere la sostanza della vita. Se ora, alla luce di questa considerazione, rileggiamo il titolo delle Storielle vane, ci accorgiamo che tale umanissimo e vorrei dire poetico smarrimento si esprime con quella intonazione lievemente ironica, riaffiorante nel mondo boitiano tutte le volte che Camillo riflette sulla sua opera: allora l’artista guarda, come dice il Nardi, “da una sua ima specola” al professore, affannato a irretire nella trama degli echi e delle suggestioni letterarie la svariatissima e fuggevole realtà. La produzione narrativa (Storielle vane, Senso – Nuove storielle vane e anche le Gite di un artista e L’anima di un pittore) abbracciò uno spazio di tempo di quasi un trentennio, dal 1870 al 1895, ma non fu mai un’attività esclusiva, venendo invece ad affiancarsi alle molteplici altre; però la stessa considerevole durata della
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creazione e della stesura delle novelle rende subito poco credibile il loro preteso carattere occasionale. Il fatto poi che essa sia stata bruscamente troncata a quasi vent’anni dalla morte dell’autore, proprio quando egli non solo non aveva ancor dato segni di stanchezza, ma con Il maestro di setticlavio aveva mostrato una perfetta maturità di creazione e di stile, si spiega non tanto per l’esaurirsi dell’ispirazione, quanto per un ripiegamento riflessivo di spietata autocritica, connaturata all’animo dell’autore. Anche nel campo dell’architettura venne a mancare, soprattutto per questo motivo psicologico, il ‘capolavoro’, cioè l’opera grande e nuova che il Boito sentiva e preconizzava nei suoi scritti. Le Storielle vane non furono dunque un episodio isolato né un tentativo: nacquero invece dall’esigenza di assecondare, decantandola e liberandola dai fini critici e divulgativi degli scritti storici ed artistici, quella disposizione letteraria che era stata sempre presente nel Boito e che si era rivelata persino nell’eloquenza, negli studi d’arte e anche in qualche passo delle poche lettere che si possono rintracciare.99
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È un vero peccato non conoscere la parte più interessante e sostanziale delle carte boitiane, ma anche dalle poche e brevi lettere inedite si può notare una certa sensibilità letteraria nella rapida descrizione dei paesaggi e soprattutto nel gusto vivace e icastico con cui sono fissati certi sapidi incontri (si pensi alla figura del ministro nella lettera già citata, vero ritratto morale, reso con pochissimi tocchi). Si leggano a questo proposito i seguenti passi, ricavati appunto da lettere inedite: “Borca 10 agosto 1882 Ero stufo delle ciacole di Venezia, avevo bisogno di questa gran solitudine di monti, dove, Dio volendo, non si vedono né alpinisti italiani né viaggiatori inglesi. Sento qualche arietta del Cimarosa e del Paisiello, suonata sul pianoforte – una specie di spinetta – dall’organista del villaggio, il quale è anche l’albergatore e anche il signor Sindaco. Pejo (senza data) Caro Fratello, questo paese è stupendo e poi si mangia molto e si dorme e si cammina e non si scrive e non si legge e si deve ingrassare. S’è avuto l’acqua del cielo di Trento sin qua; ma oggi il sole fa scintillare i ghiacci sulle punte delle montagne. A Trento vidi l’I. R. boia, che doveva appiccare la mattina dopo un assassino tedesco. È un omone robusto e severo con la lunga barba rossastra, livido in volto. Ha una macchia bianca sulla tempia sinistra […]. Madesimo 2 agosto 1880 Son qui a Madesimo da parecchi giorni, ma non so se mi fermerò… fa un freddo da gennaio, e tira un vento che non ismette mai. Il paesaggio è grandioso, ma un po’ monotono: pochi pini scuri e piccoli sui fianchi delle montagne tutte sparse di massi enormi, accavallati, che pare vogliano saltar sempre giù al soffio dei venti. (senza indicazione di data né di luogo) […] Taormina e Siracusa danno già una idea nobilissima delle ricchezze siciliane; ma Girgenti, Selinunte, Segesta, il monte Erice! Quel rivivere nella civiltà greca; quell’assistere alla costruzione dei templi, di cui si trovano i conci preparativi nelle cave, i pezzi abbandonati sulla via, i capitelli e le cornici, quali ricoperti di stucco e dipinti, quali soltanto abbozzati: quell’abbracciare con lo sguardo il principio e la fine della potenza di tanti piccoli stati, i quali fecero e lasciarono tante cose colossali, e poi quella natura degna dell’arte antica! Ora soltanto, a poco a poco, i ricordi e le sensazioni si vanno ordinando e comincio a vederci chiaro […].
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CAPITOLO III GLI SCRITTI D’ARTE. LE GITE DI UN ARTISTA. L’ANIMA DI UN PITTORE PARTE PRIMA – GLI SCRITTI D’ARTE I pensieri sull’architettura Si è già accennato all’importanza degli scritti d’arte boitiani per capire a pieno la novità e la portata della sua esperienza architettonica, e se a un profano può riuscire ben arduo scoprire le innovazioni e le originalità di pianta e di struttura tra i decorativismi del Palazzo delle Debite, ormai così lontani dal nostro gusto, e nella serietà dignitosa delle scuole di via Galvani, è assai più facile ricostruire il significato di tale esperienza attraverso le pagine dedicate ai problemi dell’architettura, alle funzioni, al significato dell’ ‘arte della sesta’, e infine al restauro dei monumenti antichi.100 L’eclettismo ottocentesco rappresenta quasi sempre una triste parentesi nella storia dell’architettura, tuttavia non bisogna dimenticare che in esso, alla fine del secolo, si realizza il connubio tra architettura e ingegneria, il quale caratterizza appunto gli sviluppi contemporanei. E dall’ambito dell’eclettismo non si toglie neppure il nostro Boito, ma a differenza di tanti accesi, intransigenti e miopi sostenitori del classicismo e del neogotico, egli ebbe sempre piena coscienza del carattere di transizione e di provvisorietà dell’eclettismo, ne additò i limiti, ne denunciò apertamente la crisi, delineando poi la nuova problematica moderna,101 tanto da essere annoverato, se pure in un piano minore, nella gloriosa schiera dei Morris, dei Berlage, dei Van de Velde.102 Nel 1880, commemorando le opere e la figura del Palladio nel terzo centenario, Camillo sosteneva: Certo, nessun secolo è andato tanto innanzi nella storia, nell’estetica, nella critica, quanto il secolo nostro; tutte cose buone per la cultura dei popoli: ma il secolo nostro ha questa miserabile particolarità al paragone di tutte le età trascorse: manca di uno stile d’Architettura. Ora una società senza uno stile d’architettura è priva della sua più solenne e più durevole manifestazione.103
Il nostro architetto non si limitava a notare con la lucidità del critico il grave problema, ma lo sentiva e lo soffriva: “E quando io penso a codeste cose, invidio il mio
100 Per questa rapida indagine dei valori concettuali più importanti ci atteniamo al nucleo essenziale del pensiero di Camillo Boito, lasciando quindi da parte tante riflessioni, pure assai significative per la storiografia artistica, e nella vastissima bibliografia isoliamo quindi l’Introduzione sullo stile futuro dell’architettura italiana premessa al volume Architettura del Medioevo in Italia, Milano, Hoepli, 1880 e le Questioni pratiche di Belle Arti, Milano, Hoepli, 1893. 101 Cfr. E. Crispolti, L’eclettismo, articolo dell’Enciclopedia Universale dell’arte. 102 Cfr. B. Zevi, Storia dell’architettura moderna, Torino, Einaudi, 1950, p. 556; L. Grassi, Camillo Boito, cit., pp. 22–23 e 24. 103 C. Boito, Discorso nel terzo centenario, cit.
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primo maestro dell’arte, quel vecchietto placido e prudente, che credeva soltanto nel suo dolce Palladio”.104 Alla fine del secolo quindi l’eclettismo aveva esaurite le sue forze, aveva largamente mostrato le sue mille facce, esteriormente così ricche di richiami del passato, ma intimamente povere di valori estetici e di utilità pratica. Era ora di guardare al futuro e di preparare il radicale rinnovamento: l’eclettismo era sostanzialmente irrazionale e, per questo, doveva ormai essere abbandonato: Le più importanti e ricche opere contemporanee, belle e grandiose se si vuole, non saranno monumenti della nostra età per i nostri nipoti. Nella scultura abbracciamo insieme il Donatello e il Bernini, nella pittura Giotto e il Tiepolo, nell’architettura, peggio, il re Cheope e il marchese Cagnola. Scrittori d’arte italiana consigliano di seguire ne’ nostri teatri lo stile moresco, nelle nostre chiese lo stile gotico, nelle nostre porte di città lo stile greco, nelle nostre borse lo stile romano, nei nostri palazzi pubblici lo stile inglese Tudor e quello italiano e francese del Rinascimento, e così via: per ogni genere di edifici un’architettura diversa. C’è chi per i nostri Cimiteri vuole lo stile egiziano, c’è chi si compiace di chiedere a’ Chinesi ed ai Turchi forme e concetti – Un poeta cantava con ragione: Toujours l’hônnete homme ouvrit / la fenètre des vieux âges / pour aérer son esprit. – Noi ci ventiliamo tanto, che una cortigiana, per dirlo con una frase dello Shakespeare, ne piglierebbe un reuma […]. Ora ci sono edifici e architetti; non architettura e, salvo rari casi, un trastullo della fantasia, una ingegnosetta combinazione di forma, uno sbizzarrimento di matite, di compassi, di righe e squadre. […]. Certo è uno stato di transizione questo dell’architettura, perché tutto il passato lo mostra falso – Già le altre nazioni s’avviano a ritrovare uno stile […] Ma, presto o tardi, bisognerà pure che un’architettura italiana ci sia, massimo ora che l’Italia s’è fatta nazione, ed ha una sua capitale. E dovrà essere uno stile, come nel Trecento, vario e pieghevole a’ bisogni, a’ climi, all’indole delle diverse provincie; e dovrà essere degno della civiltà raffinata, della scienza progredita di questo nostro secolo decimonono e del ventesimo, poiché noi discorriamo così per nostro diletto, delle cose di là da venire.105
Ho voluto citare quasi interamente questa pagina dello Stile futuro perché da essa risulta chiaro come il medioevalismo boitiano nasceva sia da motivi patriottici che da presupposti teorici moderni, tuttavia con un attaccamento profondo verso quella tradizione che si voleva superare: l’ispirazione alla tradizione non doveva quindi, secondo il Boito, esaurirsi nella riesumazione archeologica di uno stile, ma significava riscoprire un metodo, un’architettura organica, veramente nuova e moderna. E si noti anche l’andamento scanzonato e ironico del discorso, prova di uno scetticismo nei riguardi degli architetti del suo tempo e di se stesso, che con loro si ventila 104 Si tratta del Lazzari di cui s’è già parlato nel capitolo precedente, cfr. M. Borghi, Da Fattori, cit., p. 47. 105 C. Boito, Introduzione sullo stile futuro, cit., pp. XXXIII–XXXV. Le idee chiare e innovatrici del Boito non mancarono di suscitare un certo rammarico nei conservatori, attaccati rigidamente alla tradizione e il De Gubernatis cautamente glielo rimprovera: “Certo nelle sue idee, non vuol negarsi, il Boito vagheggia forse un po’ troppo nella cosiddetta arte dell’avvenire, e si lascia trasportare dalle idee de’ novatori assai più in là che non concederebbero i suoi dotti ed assennati studi sulla Storia dell’Arte” (A. De Gubernatis, Dizionario biografico degli scrittori contemporanei, Firenze, Le Monnier, 1879).
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tanto dell’aura del passato “che una cortigiana ne piglierebbe un reuma”; tale scetticismo è un riflesso della consapevolezza dei limiti e delle contraddizioni della società e del suo tempo e del superiore e lucido spirito d’indagine del nostro. Ma non bastava denunciare l’insufficienza e l’intima incoerenza dell’eclettismo, occorreva mostrare più da vicino i caratteri e la funzione dell’architettura. Per fare ciò, il Boito esamina con rapidità di sintesi ma con acutezza singolare le varie età e i vari stili; per condurre il ragionamento alla definizione della sostanza dell’architettura, che si caratterizza appunto dal rapporto dialettico tra organicismo e simbolismo. L’organicismo obbedisce alle leggi razionali della funzione, il simbolismo rispecchia i valori estetici, ideali del momento storico e della genialità artistica del creatore dell’opera: Se non rincresce al lettore, distingueremo l’arte architettonica in due parti: parte organica e parte simbolica – Non però l’una di esse può nell’effetto stare scompagnata dall’altra; ma ragionando, se garba, nessuno contende, per maggiore chiarezza di dividerle e definirle – l’Hegel classifica l’architettura così: simbolica e indipendente, classica e dipendente, romantica e dipendente e indipendente insieme: classificazione da filosofo – Noi ci contentiamo di una definizione più grossa.106
Eppure questa distinzione non è affatto “grossa”, e cioè empirica o imprecisa; basti infatti pensare che tutta l’architettura moderna è volta allo studio dei rapporti tra utilità e bellezza, e cioè, se vogliamo, tra organicismo e simbolismo, per capire l’attualità del discorso critico del Boito. Tra il Boito e noi c’è stato, e non dobbiamo in alcun modo sottovalutarlo, il rivoluzionario movimento del funzionalismo, eppure “tutte le discussioni e le polemiche intorno a questo termine e all’idea che esso racchiudeva, sono da considerarsi imperniate sopra il principio d’una sottomissione del lato artistico a quello tecnico, e quanto meno, dell’identificazione del ‘bello’ con l’‘utile’”107. E tralasciando le discussioni, le polemiche e le lotte tra la corrente razionale-funzionale di Gropius, di Le Corbusier e di Perret e quella organica di Wright, sappiamo che i grandi architetti e le correnti artistiche del nostro tempo, abbandonata la considerazione degli elementi costruttivi e meccanici quale fine supremo, si sforzano di adeguare i mezzi tecnici ai fini estetici, per rispondere alle esigenze dei nuovi materiali e soprattutto dei nuovi cittadini nella loro realtà sociale. E il Boito aveva già intuito questi problemi: L’architetto ha da essere interprete dei desideri: la perspicacia del suo spirito, l’uso della vita e della società civile, lo devono immedesimare così nelle idee e nelle usanze contemporanee, ch’egli possa porre a sé stesso il programma del suo edificio: alzare la fabbrica in modo che serva pienamente al proprio uso. Nel che si comprendono le tre scolastiche divisioni: costruzione, distribuzione, bellezza. Ma in queste tre divisioni sta il germe dei mali architettonici odierni, perché la bellezza considerata come cosa indipendente dal resto, va vagando senza principii effettivi, senza altro fine che l’allettamento vano degli occhi volgari. Quando gli architetti seguiranno con iscrupolo le esigenze dell’organismo architettonico, essi avranno messo la
106 C. Boito, Introduzione sullo stile futuro, cit., p. XXI. 107 G. Dorfles, Il divenire delle arti. Funzionalità dell’architettura, Torino, Einaudi, 1953, p. 136. Vedi anche pp. 137, 138.
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Giuliana Bertacchi base fondamentale dell’architettura italiana, anzi avranno per due terzi scoperto anche il simbolismo novello.108
È la chiara condanna del decorativismo inutile e vuoto e l’auspicio dell’interdipendenza tra funzionalità pratica e forma estetica, che sarà pienamente realizzata solo da Walter Gropius e dal suo Bauhaus.109 La teoria del restauro L’altro aspetto di modernità e, direi, di attualità del pensiero boitiano riguarda un problema che non spetta più soltanto agli intenditori d’arte, ma che interessa tutti coloro che amano le cose belle: il restauro. E se la parte più viva riguarda ancora una volta l’architettura, anche le considerazioni sulla pittura e sulla scultura rimangono vere e attualissime. Le osservazioni boitiane non mancarono di suscitare vivo scalpore, soprattutto quando passarono dal campo teorico a quello operativo: la ricostruzione dell’altare di Donatello fu infatti fieramente avversata da quasi tutti i contemporanei, e solo nei nostri tempi ne è stato chiaramente riconosciuto e affermato il valore. La teoria si può sintetizzare rapidamente così, con le parole dello stesso Boito: Per la scultura restauri niente e buttar via subito senza remissione, tutti quelli che sono stati fatti finora recenti e vecchi. […] Per la pittura: fermarsi a tempo – Contentarsi del meno possibile. […] Per l’architettura: bisogna fare l’impossibile, bisogna far miracoli per conservare al monumento il suo vecchio aspetto artistico e pittoresco. Bisogna che i compimenti, se sono indispensabili, e le aggiunte, se non si possono scansare, mostrino di non essere opere antiche, ma opere d’oggi.110
Camillo polemizza vivacemente con la teoria del Viollet-Le-Duc, mirante a un restauro integrativo, che cercando di entrare nella mentalità del costruttore, rendeva impossibile scernere l’originale dalle sovrastrutture e dalle modificazioni introdotte poi. Giustamente il nostro nota che “il metodo del francese è troppo esposto agli arbitrii, e l’arbitrio è una bugia, una falsificazione dell’antico, una trappola tesa ai posteri: quanto meglio il restauro è condotto, tanto più la menzogna riesce insidiosa e l’inganno trionfante”. E prosegue: “Che ne direste di un antiquario, il quale, 108 C. Boito, Introduzione sullo stile, cit., p. XXIV. 109 Di lui scrive il Rogers: “Nessun architetto della nostra epoca ha avuto maggior influenza di Gropius nel senso di aver favorito una sintesi formativa fra la teoria, le opere, la pedagogia”. Il Bauhaus è la celebre scuola che il Gropius fondò a Dessau nel 1919: qui architetti, tecnici, pittori, artisti di temperamento diversissimo cercavano sotto la guida di Gropius di trovare il miglior rapporto tra forma e funzione, forma e materia, forma e produzione. 110 C. Boito, I restauratori. Conferenza tenuta all’Esposizione di Torino il 7 giugno 1884, Firenze, Barbera, 1884, pp. 18, 27, 33; l’argomento è poi ripreso e ampliato nel volume Questioni pratiche di Belle Arti, Milano, 1893, dove il ragionamento si appoggia a molti esempi pratici (come i restauri del Palazzo Ducale a Venezia) e si estende anche alla conservazione e alla legislazione relativa alle opere d’arte.
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avendo scoperto, mettiamo, un nuovo manoscritto di Dante o del Petrarca, monco ed in gran parte illeggibile, si adoperasse a riempire di suo capo, astutamente, sapientemente, le lacune per modo che non fosse più possibile distinguere dalle aggiunte l’originale?”.111 Le nuove tecniche hanno potuto aggiungere ben poco a questi principii, che, pur nella loro scheletrica semplicità, colgono l’essenza del problema; quella per l’architettura è rivoluzionaria e addirittura ‘avveniristica’: l’architettura contemporanea ribadisce ancora una volta, e polemicamente, il rifiuto della teoria dell’integrazione: se l’integrazione è indispensabile, sarà nello stile del nostro tempo. Gli architetti studiosi dell’argomento ritornano quindi consapevolmente all’insegnamento del Boito, rendendogli pienamente giustizia;112 si tratta di studiosi italiani, perché “L’Italia è il paese dove, dopo l’opera teorica di Camillo Boito, la disciplina del restauro è all’avanguardia, così che il nostro paese occupa ora nel mondo il posto di preminenza già tenuto dalla Francia”.113 Una legislazione vera e propria, la Carta del restauro, si ebbe solo nel 1931, eppure il Boito l’aveva già anticipata con la relazione al congresso degli ingegneri ed architetti italiani, tenutosi a Roma nel 1883; Camillo Boito è da considerarsi ancora una volta un teorico precursore e non un vero e proprio iniziatore, tuttavia in lui troviamo un’evidente anticipazione del restauro di innovazione, che si suole considerare una conquista delle correnti più recenti. Di lui scrive ancora il Perogalli: L’espressione sua “Bisogna che i compimenti, se sono indispensabili, e le aggiunte, se non si possono scansare, mostrino di non essere opere antiche, ma opere d’oggi” assume quasi aspetto e valore di profezia, se si pensa che fu pronunciata nel lontano 1884, cioè in quel clima architettonico ancor romantico e stilistico, quando non era facile ̶ forse neppur possibile ̶ tradurre in realtà quanto Camillo Boito aveva felicemente intuito.114
Le monografie e gli studi particolari Ma ad eccezione di questi scritti sull’architettura e sul restauro, gli altri innumerevoli studi artistici del Boito hanno certamente risentito del tempo. I gusti sono ormai mutati; il lettore moderno chiede un preciso e sicuro riferimento estetico, come base che sorregga e giustifichi il paziente lavoro storico dell’erudito. Questo, since111 C. Boito, I restauratori, cit., p. 31. 112 Cfr. A. Barbacci, Il restauro dei monumenti in Italia, Roma, Libreria dello Stato, 1956: “Trascorsi tre quarti di secolo da quando Camillo Boito formulò per primo in Italia le moderne norme per il restauro dei monumenti, avvertiamo l’esigenza di ricollegarci a lui per impostare l’attività restauratrice su un più sicuro fondamento logico ed estetico”, Avvertimento, p. 7, e inoltre pp. 62, 67. 113 C. Perogalli, La progettazione del restauro monumentale, Milano, Libreria editrice politecnica Tamburini, 1955, p. 2. 114 C. Perogalli, cit., p. 84. Un completo e particolareggiato studio su Camillo Boito restauratore si trova in un’altra opera di Carlo Perogalli (Monumenti e metodi di valorizzazione, Milano, Libreria editrice politecnica Tamburini, 1954, pp. 56–81) che tralasciamo di prendere in considerazione per lo spiccato carattere tecnico della trattazione.
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ramente, manca alle pagine del Boito, che si limitano a descrivere personalità artistiche e monumenti, a presentare documenti accuratamente e diligentemente riesumati, a studiare, sia pure con finezza e rigore, i gusti artistici del passato. L’assenza di una vera e propria dottrina estetica rende ormai sostanzialmente superate anche le sue cronache artistiche, che apparirono per lo più sulla Nuova Antologia. I ponderosi studi sulla architettura medioevale, prediletti dal Boito (le pagine dedicate all’architettura lombarda, ai Cosmati, al Duomo di Firenze e di Milano, ai restauri di San Marco e ai palazzi veneziani, padovani e genovesi sono state per lunghi anni un sicuro e comodo repertorio per gli studi), le monografie su Leonardo, Michelangelo, il Palladio, le relazioni sui concorsi, sui restauri, sui problemi dell’urbanistica, che più nessuno ormai legge e che sono effettivamente invecchiate, hanno assolto ad una precisa funzione storica, così come gli innumerevoli interventi sui problemi della legislazione delle scuole d’Arte e gli articoli di critica militante rispondevano alla generosità combattiva dell’uomo, rivolto al bene dell’arte e della scuola. Nella seconda metà dell’Ottocento infatti non esisteva ancora una vera e propria storia dell’arte criticamente fondata (soprattutto l’architettura era rimasta particolarmente negletta): i pionieri furono appunto Viollet-Le-Duc, Morris, Ruskin115 e il nostro Camillo Boito, che continuò l’opera di Pietro Selvatico. Scrive di loro lo Zevi: Essi sono architetti moderni e storici. Questi storici non sono mai anonimi registratori; essi vivono con i poeti del passato e del presente; palpitano con loro, partecipano alle contese dell’arte. Si impegnano sul presente, prendendo partito non soltanto dai fatti e dai movimenti dell’ora, ma dai fatti del passato.116
Valori stilistici e letterari A noi però importa notare non soltanto l’amorosa e attenta partecipazione alle contese e ai fatti dell’arte, l’entusiasmo intellettuale che ravviva l’aridità della documentazione, ma il gusto tutto letterario con cui il Boito inserisce nel discorso critico e storico le parentesi e le digressioni, le curiosità, spesso scelte ed esposte con sottile e duttile ironia, i ricordi direttamente tratti dalla sua esperienza umana e quelli di erudito e di studioso (e in questo caso l’ironia si fa più scoperta, riappare l’artista, o meglio l’uomo, che per dirla col Nardi, “dà un pochino la berta al professore”); allora il tono diventa, per frustrazione cosciente e volontaria, più umile, più semplice, più dimesso. L’ironia si vela anche di malinconia, come in questo rapido appunto, in cui bene si nota il contrasto tra l’intelligenza scaltrita e insoddisfatta del Boito e la passione archeologica, severa fino alla miopia, del Guasti:
115 William Morris (1834–1896): fu un convinto e originale assertore del neogotico, sostenne l’arte applicata e gettò le basi per l’attività di Gropius. John Ruskin (1819–1900): sono notevoli le sue opere: Le sette lampade dell’architettura e Le pietre di Venezia. Eugéne Emmanuel ViolletLe-Duc (1814–1879): è forse il più noto architetto francese dell’Ottocento. Restaurò molti monumenti del Medioevo, tra cui le cattedrali di Amiens, Chartres, Évreux. 116 B. Zevi, Storia dell’architettura, cit., p. 556.
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Poi lavorò al campanile di Santa Maria del Fiore, è vero, Andrea Pisano, che il Pucci chiama solenne maestro; poi Francesco Talenti; ma se è vero il proverbio: Chi ben comincia è a metà dell’opra a Giotto si deve lasciare almeno la metà dell’onore. E il mio caro amico Cesare Guasti, il quale fu il più sincero amatore della verità, si sdegnava quando l’orgoglio delle scoperte critiche recava ingiuste offese alla fama degli uomini grandi. Povero Guasti! Mi rammento quasi trent’anni fa, quante sere si passavano insieme d’inverno, scaldandoci al veggio, e rischiarati pallidamente da una lucernina, leggevamo le vecchie carte sull’opera di Santa Maria del Fiore: i membranacei, i bastardelli, i quaderni.
Il Boito non deride affatto il “povero Guasti”, ma in un certo senso lo invidia, così come aveva dichiarato d’invidiare il suo primo maestro, il placido vecchietto che credeva soltanto nel suo dolce Palladio e che, come il Guasti, non conosceva inquietudini e contraddizioni. Il “placido vecchietto” era, come s’è detto, il Lazzari e, in altro luogo, Camillo ce ne offre il ritratto, che, pure essendo sommariamente schizzato, ci mostra il gusto vivace, icastico del nostro: Uno dei due, un ometto piccolo, tondo, sbarbato, sorridente, calmo, aveva purgato la facciata del palazzo Vendramin-Calergi secondo i precetti del Vignola […] e perché mi voleva bene, e io, confesso, ne volevo a lui, mi dava, senza che il Selvatico ne sapesse nulla, quel castigato modello a copiare.117
Assai piacevole è anche la digressione sul naso, in cui confluiscono le più varie reminiscenze, dai monelli del Pincio ai ritratti grotteschi di Leonardo, dal Cantico dei Cantici ai Pensieri morali del Tommaseo, in un andamento vivace e scandito, ma semplice e spontaneo, condotto sul filo di un’ironia che pare anticipare il Panzini.118 Qualche volta la citazione è introdotta per puro divertimento e in questo caso non rivela altro che il gusto particolare e un po’ salottiero del conservatore elegante che vuol provvedersi di leggiadre ‘curiosità’ con cui rallegrare e impreziosire il discorso: Dianzi ho citato Plinio. Non voglio lasciar sfuggire la buona occasione di porgervi un suggerimento igienico tolto dalla sua Storia Naturale e non alieno dalla statuaria, di cui discorriamo. Se dunque vi capita di avere il dolor di testa, pigliate l’erba nata sul capo di una statua e, con un filo rosso, legatela alla vostra: subito guarirete (libro XXIV, capo 18).119
Non c’è argomento che non risvegli nel nostro una concatenazione di citazioni, di richiami letterari, di suggestioni artistiche: commemora il Palladio e ricorda gli scritti e la vita del patrizio veneto Cornaro, l’intonazione ‘eroica’ dei tempi: le accademie e i versi latini vuoti e eleganti, Anton Maria Conti, che si mutò il nome in Marc’Antonio, per amore di classicismo; giunge poi al Trissino e infine all’architetto vicentino.120 Parla dei marmi di San Marco121 ed evoca i lunghi viaggi delle galere, le guerre, le rapine, il giudizio del Petrarca sulle “glorie lunghe e le sventure
117 118 119 120 121
C. Boito, I restauratori, cit., p. 17. Ivi, pp. 15–16. Ivi, p. 14. Ivi, pp. 20–22. Cfr. C. Boito, La basilica d’oro, nel volume Questioni pratiche, cit., pp. 91–95.
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brevi” della Serenissima, e poi ancora la Bibbia, là dove parla dello splendore degli alabastri, e Tibullo, e Ovidio e Svetonio. Il dialogo, o di pura invenzione, spesso inserito con lo scopo di illustrare con immediatezza varie teorie in contrasto tra di loro,122 o ricreato sugli antichi documenti, come quello particolarmente brillante e brioso che si ispira al famoso processo ‘dei mosaici’ della basilica di San Marco,123 ravviva con molta frequenza le opere boitiane. Non è il caso di cercare valori di drammatizzazione e di creazione letteraria, ci limitiamo ad accennare alla particolare scioltezza stilistica che la trattazione assume: non c’è mai sforzo e artificio nell’inserimento dei dialoghi, delle digressioni e riflessioni; ma il discorso fluisce brioso e vivace, senza bruschi trapassi e noiose aridità. Uno degli esempi più brillanti di dialogo è quello tra il restauratore e il committente, nella citata operetta I restauratori: – Dunque siamo intesi, ella, signor professore, non deve fare altro che togliere le gocciole di cera piovute dai candelotti dell’altare su questo povero Tiziano. Siamo intesi? – – Si figuri! S’ella, signor direttore, mi ordinasse di lavorare nel dipinto, direi di no. Morirei piuttosto di fame. Colle gocce di cera, s’intende, ho da spazzare la polvere. Veda qui, a toccare, come il dito rimane sudicio – – La polvere mi par giusto – – E anche l’affumicatura – – Ma, per carità! con l’acqua schietta – – Sicuro: l’acqua distillata… Io, veda, m’accosto a un quadro vecchio con più devozione di quando vado a inginocchiarmi all’altare… –
E mentre il direttore cerca di contrastare la nuova manomissione del dipinto in modo sempre più fiacco e poco convinto, l’illustre restauratore, tuonando contro i barbari colleghi e sempre proclamando l’assoluta devozione all’integrità del quadro, lo ‘spella’ e lo altera senza ritegno. Il dialogo (che abbiamo riprodotto solo in parte) è vivacissimo e sapientemente condotto: pur nella brevità, i caratteri risultano ben delineati, ed è facile al lettore ricostruire la psicologia dei personaggi: il direttore, che si disinteressa sostanzialmente del suo compito delicato e importante, si lascia vincere dalle chiacchiere senza opporre eccessiva resistenza, pur di lavarsene le mani il più presto possibile; il professore è invece in buona fede, ma è convinto di possedere il dono prezioso ed esclusivo di continuare l’opera dei sommi maestri, quindi procede con fanatismo intransigente e pericoloso. Persino nelle pagine polemiche, che sono quelle più legate all’occasione del momento e che quindi risentono di più del tempo, non è raro trovare il gusto della creazione di scene e di sfondi, come in questa, che vuole criticare ironicamente le teorie ruskiniane (quelle che i socialisti chiamano ‘romantico-ruiniste’): 122 Sono sotto forma di dialogo parecchie trattazioni nel volume citato Questioni pratiche. 123 Cfr. C. Boito, I restauratori, cit., pp. 133 e seguenti. I fratelli Francesco e Valerio Zuccato nel 1563 furono accusati di usare ritocchi a colori nei mosaici di San Marco. Al processo intervennero, in qualità di periti, Tiziano, il Veronese, il Tintoretto. All’episodio si ispirò anche un romanzo della [George] Sand che il Boito definisce mediocrissimo (si tratta di Les maîtres mosaïstes).
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Voi tutti conoscete Venezia. Non è una città di questa terra: è un miraggio divino. Io non di meno me la figuro più bella. Quando […] la belletta portata dai fiumi avrà cacciati via gli ultimi pitocchi abitatori e le case saranno tutte crollate, e sugli ampi spazi erbosi getteranno una breve ombra gli alberelli magri, si alzeranno tuttavia al cadere del sole sotto le nuvole d’oro, gli avanzi di alcuni vetusti edifici. La chiesa dei Frari mostrerà sventrate le sue navi enormi […] più distante il tempio di santi Giovanni e Paolo sarà un mucchio di rovine, […] e resterà intatto il Colleoni sul piedistallo informe […] La piazza di San Marco, che stupore! Tre cupole della Basilica, barcollanti, non saranno ancora cadute; i musaici delle volte interne si vedranno […] attraverso gli squarci delle muraglie smantellate, splendenti d’oro, e i marmi e i porfidi manderanno, in quella tristezza sepolcrale, degli strani scintillamenti. Quanto al Palazzo Ducale […] non sarebbe riuscito necessario, lasciandolo come stava, di aspettare mille e due mila anni, né forse cento o dieci innanzi di vederle ridotte all’indicato ideale di pittoresca bellezza.
PARTE SECONDA – LE GITE DI UN ARTISTA E L’ANIMA DI UN PITTORE Inquadramento dell’opera Dopo aver considerato rapidamente gli scritti di storia e di critica d’arte, e prima di entrare nel vivo della produzione narrativa, dobbiamo esaminare due opere, le Gite di un artista (pubblicate nel 1885)124 e L’anima di un pittore (apparsa a distanza di un anno dalla prima),125 che partecipano degli uni e dell’altra, perché le descrizioni della prima e la ricostruzione biografico-psicologica della seconda sono continuamente ravvivate dall’intervento creativo dell’autore, che vivifica la materia con rappresentazioni concrete di figure, di paesaggi, di situazioni umane. Le Gite di un artista si presentano come il diario di un viaggio italo-germanico, costituito da una serie di quadri giustapposti tra loro senza filo conduttore e senza ordine cronologico e che ci conducono a Custoza, Vicenza, Venezia, Trieste e poi a Cracovia, Vienna, Berlino, in Baviera e infine a Torino; i primi appunti di viaggio risalgono al 1866 (e sono le pagine dedicate a Trieste, alla Baviera, e probabilmente anche a Cracovia), quelli più recenti, sulla Mostra d’arte internazionale di Roma, recano la data del 1882. Le Gite abbracciano dunque uno spazio di sedici anni e obbediscono a una loro logica interna, che procede su un piano di indipendenza, anche cronologica, rispetto alla composizione delle Storielle vane: non ci è dato cioè di rintracciare una linea di evoluzione stilistica da queste pagine, di sapore artistico, riflessivo e autobiografico, a quelle più propriamente narrative. Ritorna però in alcune novelle il gusto della cronaca di viaggio, ma con un più libero gioco di riflessioni, di analisi venate di ironia, ora come sfondo e complemento (Dall’agosto al novembre), ora come motivo fondamentale (Baciale ’l piede e la man bella e bianca);126 quest’ultima anzi riassume in sé il significato delle Gite e rappresenta il frutto migliore dell’esperienza di diario e di viaggio del nostro.
124 C. Boito, Gite di un artista, Milano, Hoepli, 1884. 125 C. Boito, L’anima di un pittore, Milano, Hoepli, 1885. 126 E anche, ma su un piano minore, Tre Romei e Una salita.
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Nelle pagine del libro appaiono scorci di quadri celebri, disegnati con precisa e continua evidenza plastica, sagome di architetture, note storiche preziose ed erudite, osservazioni estetiche non raramente acute ed esatte, ma sempre mescolate, interrotte, smorzate da rapporti con la realtà umile e presente e tuttavia così briose nella loro voluta dimessità da reggere a una rilettura attenta e scaltrita. Di ciò si era già accorto il Pancrazi,127 che accomunava nel suo giudizio con ogni probabilità le Gite e le novelle da noi sopra citate: il loro pregio maggiore, come s’è detto, gli sembrava consistesse nel “taccuino-tavolozza da pittore e disegnatore impressionista”, che anticipava così il diario pittorico alla Soffici, destinato a venir di moda ai primi del Novecento. E il pensiero conclusivo (“È scrittore che probabilmente piacerebbe oggi più di ieri, se oggi si leggesse”) sembra poggiare in gran parte su un indubbio carattere di primizia letteraria: queste pagine del Boito si possono considerare infatti la prima realizzazione di una formula che avrà da noi successo e seguaci,128 e a cui i lettori moderni hanno ormai abituato il palato. Il Nardi, come già si diceva, critica il raccostamento a Soffici e non tanto per l’indubbia analogia del genere letterario, quanto per il carattere sostenuto e analitico dello stile boitiano, che non è mai impressionista e quindi assai lontano dalle pagine “morbide e immediate” dello scrittore toscano; il critico propone invece i nomi dello Sterne e del Panzini.129 Ma ancora prima di esaminare o accettare analogie e paragoni,130 osserviamo il netto divario di impostazione tra le Gite di un artista e le cronache e divagazioni degli autori del nostro secolo: esso sta soprattutto nel fatto che mentre i diari del nostro tempo raccolgono le osservazioni suscitate dall’occasione del viaggio e dalla visione dei monumenti, e si snodano con l’imprevedibile ricchezza di sviluppi della libera creazione narrativa, le Gite di un artista vogliono essere soltanto la cronaca fedele di un pellegrinaggio d’arte, nel quale le reazioni e le impressioni dell’autore sono pur sempre contenute nel fine pedagogico della divulgazione e dell’insegnamento. Del resto Camillo lo dichiara esplicitamente nella prefazione al volume: Milano, 10 maggio 1884 Cortese amica, La coscienza vi dovrebbe rimordere. Se questo libro vien fuori la colpa è tutta vostra. Non mi avete lasciato pace finché i lavorucci che lo compongono […] non furono messi insieme e 127 P. Pancrazi (a cura di), Racconti e novelle, cit. 128 Occorre però avvertire che un eventuale accostamento tra il nostro e il Panzini del Viaggio di un povero letterato, La lanterna di Diogene, I giorni del sole e del grano, rimane puramente ideale, perché non è possibile trovare una vera derivazione di questi dal Boito. 129 P. Nardi, Camillo Boito, cit. 130 Gli unici nomi che si possono fare sono quelli del Panzini, e anche, come antecedenti storici e modelli, dello Sterne e dello Heine (che il Boito poteva conoscere bene, dato il suo interesse per la letteratura tedesca) e l’unica vera analogia sta nel tono ironico di alcune parti delle opere. Ma nel Boito questo è il risultato di un movimento psicologico del tutto personale e non di un consapevole espediente letterario; per questo non mi pare assolutamente il caso di insistere nel confronto di opere tanto diverse per caratteristiche letterarie e storiche. Per quello che riguarda il Soffici poi, non c’è neppure affinità per l’atteggiamento dello scrittore nei confronti della materia: nel Boito esso è sempre controllato e distaccato, nel Soffici si manifesta un rapporto ben più immediato e semplice di partecipazione alle cose narrate.
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consegnati al garbato e liberale editore. A voi sembra che il volume non debba riescire, per chi vorrà leggerlo, senza qualche diletto, senza un poco di ammaestramento. A dirvelo in un orecchio, pare anche a me; ma che paia a me s’intende. Io, correggendo le bozze di stampa, confesso, mi ci sono divertito, massime negli scritti più vecchi […] i quali m’erano usciti tutti dalla mente. Quanti ricordi giovanili mi facevano ricantare in cuore e volare nel cervello! Per me sta bene; ma per gli altri? Quei paesi in diciott’anni non mutarono faccia? Che sugo c’è a cavar dalle loro fasce le mummie? […] Ripeto qui ciò che reputai onesto premettere a un altro mio libro: questi scritti sono lo svago di un artista, non la fatica di un erudito. Vengano dunque perdonati all’artista, massime nelle ciarle giovanili, gli sbagli, le dimenticanze, gli eccessi […]. È tanto difficile scansare gli errori, segnatamente a chi cerca meno le verità precise, che non le impressioni calde e varie!
Camillo mostra una certa riluttanza (“Per me, sta bene: ma per gli altri?”) a raccogliere in volume quelle note giovanili e quelle digressioni, come se, in un certo senso, tradissero il lettore, defraudandolo del diritto di avere notizie sicure, di natura storica e artistica, sui luoghi visitati, e facendogli invece sorbire in qualche parte dell’opera le gratuite e libere impressioni dell’autore.131 Non si tratta di una posa di leggiadra umiltà: conosciamo la ‘modestia’ del Boito e quella sua riservatezza che s’appunta soprattutto ai sentimenti, alle regioni segrete della sua anima, e quindi gli sembrava veramente di aver detto troppo di sé e troppo poco dei paesi e dei monumenti. Infatti le Gite non nascono come vera e propria produzione narrativa (solo il frammento L’ossario del 1877 pone in secondo piano la descrizione rispetto alle impressioni), ma come cronaca e storia, simili in ciò a tanta parte degli scritti d’arte, ma senza il continuo appesantimento del documento e della erudizione, con un tono più leggero e uno stile più duttile. Per questo non mi pare il caso di collocare il libro accanto alle novelle, come fa invece il Nardi,132 anche a rischio di ridurre ulteriormente la già esigua quantità della produzione narrativa di Camillo, ma con il vantaggio di capire meglio l’uno e le altre, di gustare in primo luogo il particolare sapore delle Gite nella ricchezza di riferimenti letterari e culturali, nella scioltezza del discorso, nell’acutezza e sobrietà delle riflessioni, spesso di tono ironico, e di inquadrare esattamente la novella Baciale ’l piede e la man bella e bianca di cui le Gite sono, come già si diceva, in un certo senso, la base, dove i ricordi di viaggio sono collocati in una trama delicata e preziosa, in cui l’erudizione artistica e letteraria, guardata con costante ironia, fa tutt’uno con la sapienza umana e psicologica dell’autore e la freschezza dell’invenzione narrativa, con un risultato originalissimo e nuovo, almeno per la nostra letteratura.
131 Quasi per risarcire il lettore dell’eccessivo spazio dato a quelle osservazioni che per noi costituiscono la parte più viva del libro e per mostrare che i suoi giudizi artistici si sono modificati, e cioè più rigorosamente approfonditi, Camillo aggiunse gli scritti recenti sulla Mostra artistica nazionale di Torino (1880) e su quella internazionale di Roma del 1882, che sono da considerarsi alla stregua di tanti articoli di critica militante del nostro, apparsi per anni sulla Nuova Antologia. 132 P. Nardi, Camillo Boito, cit.
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Il motivo artistico Ancora una volta, come è facilmente intuibile ed espressamente dichiarato dall’autore, il libro gravita attorno ai monumenti, ai personaggi, ai problemi dell’arte, ma, almeno nelle pagine migliori, interviene la disposizione letteraria dell’autore a vivificare le descrizioni, a creare una realtà narrativa. L’espressione stessa diventa più solare e più ricca, lo stile più festoso e smagliante o più alto e solenne, la parola vibra con particolare intensità quando si realizza la sempre bellissima e commovente comunione tra lo spettatore e l’artista, nella comprensione dell’opera d’arte. Solo alcuni capitoli, che sono stati inseriti, come si è già accennato, nelle Gite per motivi di convenienza e di utilità nei riguardi dei lettori, sfuggono a queste considerazioni e sono assai meno interessanti per chi ricerchi nell’opera valori e significati letterari. Essi sono, oltre ai già citati studi sulle mostre d’arte di Torino e di Roma, quelli dedicati alla pittura, scultura e architettura contemporanea all’autore in Baviera e le brevi monografie sui monumenti veneziani: Palazzo Ducale, Sant’Elena e Santa Marta. Neppure queste ultime si discostano sostanzialmente dai saggi di storia dell’arte, rapidamente presentati a suo tempo, ma in esse la consueta solida preparazione erudita è più che mai dissimulata dalla vivacità stilistica, dalla garbata ironia con cui i documenti vengono scelti e introdotti,133 dai frequenti richiami letterari. Il Boito tende a rendere in queste pagine una certa atmosfera veneziana, insieme poetico-musicale (e cita Giustinian e gli stornelli di Dall’Ongaro e le canzoni popolari) e pittoresca, ma questa volta l’interesse artistico pesa sulla narrazione e ne soffoca un più libero svolgimento; prova ne sia quest’immagine di Venezia antica, fiacca e stereotipata e superficialmente pittoresca, tanto lontana dai felici paesaggi lagunari delle Storielle vane e anche dai migliori momenti descrittivi delle Gite: Le casupole erano quasi tutte misere e cadenti, è vero, il popolo che vi abitava era per la massima parte pitocco e cencioso: ma in compenso quanta ricchezza pittorica! Alcune delle case mostravano i loro veroni, le loro finestre ad arco fiammeggiante, e sui tetti si rizzavano i più bizzarri fumaioli che si possono immaginare, e gli intonachi sgretolati lasciavano apparire il bel rosso, armonizzato tizianescamente con il verde di qualche alberello, e sugli usci piccoli delle case, o appoggiate ai davanzali delle finestre si vedevano le giovani popolane dai capelli arruffati, e le vecchie grinzose e pettegole, ma ridenti.134
133 Merita un cenno l’abilità con cui il Boito fa emergere dalle pagine polverose e ammuffite vivaci scene di vita quotidiana, quasi per smorzare il senso del meraviglioso di fronte agli eccelsi monumenti d’arte e insieme per capirne meglio la storia e per rapportarli a una più concreta e umile realtà; quindi, dopo aver rappresentato tutte le “astuzie della bellezza” che rendono tanto singolare e degno di ammirazione il Palazzo Ducale, propone questo passo (con altri del genere), stralciato dalle cronache del Sanudo: “Primo giugno 1526. Per certo buso aperto entrar due putti dentro in gran Conseio, sì che alla porta, lezendosi le lettere, dal Serenissimo furono visti: e fatto stalar di lezer fu mandato li secretarj a veder, e li putti scampono per il buso via, et si intese erano venuti per robar ballote. Ancora era in dita sala 2 cani picoli che baiva, facendo romor, né si poteva cazarli via…” (C. Boito, Gite di un artista, cit., p. 49). 134 C. Boito, Gite di un artista, cit., p. 78.
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Ma altrove l’interesse per l’arte anima pagine assai più vive e vicine al nostro gusto; in esse non dobbiamo ricercare profondità e continuità di riflessioni estetico-filosofiche, ma vi incontriamo la freschezza dei giudizi e delle impressioni di un uomo colto, sensibile e preparato, che ama l’arte e vive con essa, ma che non rinuncia alla libertà e alla spregiudicatezza del pensiero. Sono esemplari in questo senso le pagine sul Tiepolo; vivacissima testimonianza di una simpatia umana e artistica, che addita però anche limiti dell’opera considerata: Nel Tiepolo […] non c’è, alla stretta dei conti, né il suo tempo, né Venezia, né la imitazione effettiva della natura: manca l’ordine quasi sempre, quasi sempre la evidenza, spesso la grazia, spessissimo la dignità. Eccessivo, ma, guardandolo dentro, non è propriamente forte: mentre nei suoi muscoli v’ha dell’adipe, ne’ suoi concetti v’ha qualcosa di teatrale e anche qualcosa di derisorio. Le sue Veneri, in generale i suoi numi ricordano certe parodie della scena: le Dee hanno spesso la faccia da sgualdrina […] gli Dei hanno il volto e il fare delle comparse da commedia romana […]. E non di meno io ammiro il Tiepolo e lo amo svisceratamente. Quella sua insolenza di fantasia quella sua abbondanza miracolosa nel comporre e abilità prodigiosa nell’eseguire stupiscono; rallegrano e attraggono l’animo […]. La musica di quei dipinti vi beatifica per la sonorità dell’insieme: è una sinfonia a piena orchestra. Ancora non discernete nulla e già quell’armonia vi allieta e vi consola.135
Fino a questo punto notiamo l’entusiasmo dell’amatore e del competente, la spavalda vivacità dello stile, ma nella presentazione dei dipinti non c’è soltanto il professore, ma anche il narratore, che non si limita più alla descrizione, ma ricrea nella struttura del periodo l’architettura del dipinto tiepolesco, ne coglie insieme la bellezza eterna e la ridondanza: Oh, i bei colonnati ionici! Le prime colonne formano la decorazione della sala; le altre corrono indietro sorreggendo i lacunari del portico; e nell’ampio intercolunnio di mezzo, Calcante, col ferro de’ sacrifici in mano, mentre un uomo dinnanzi tiene fermo il bacino che dovrà ricevere il sangue spruzzante dalla mortale ferita della bella vittima, sta lì lì per colpire nel seno ignudo della giovane donna, la quale, poveretta! sembra che svenga sull’ara. Ma il sacerdote si ferma di botto, ed alza gli occhi alla volta aggrottando le ciglia come se un improvviso splendore lo abbagliasse. Ifigenia, languente, guarda in su anch’essa, e tutta quella gente curiosa, che s’agita di dietro, acconciata di turbanti e di berretti frigi, con picche e stendardi in mano, guarda pure nel cielo. Un uomo, tra le colonne, si caccia nella folla per meglio vedere in alto e non mostra che un po’ di schiena e una gamba e la mano sinistra, la quale aperta, ruvida, nervosa, si puntella al fusto rotondo. Codesta mano, spiccante bruna sulla bianchezza del marmo, compensa l’espressione del volto, che non si vede: è piena di febbrile curiosità […]. Che cosa guardano mai, nella volta, di tanto strano tutte quelle persone? Guardano a Diana, che dall’alto delle nubi fa segno con la mano a Calcante e scende a salvare la vergine Ifigenia. Alcuni putti volano qua e là […] e i nerboruti venti, con ali di farfalla, stringendo per lo sforzo i pugni, enfiando le gote, soffiano soffiano soffiano nelle vele della flotta che sta dipinta nella parete a sinistra.136
135 C. Boito, Vicenza – Il Tiepolo, in: Gite di un artista, cit., pp. 30–32. 136 Ivi, pp. 33–34. Anche qui è avvertibile una certa superficialità, soprattutto nella definizione del rapporto storico tra l’opera del Tiepolo e lo spirito del tempo e della società in cui essa s’è manifestata. Al solito Camillo Boito non si pone mai il problema della pittura come interpretazione di vita, ma come quadro di vita. Tuttavia anche le più recenti monografie, a parte la più approfondita prospettiva storica, riconoscono gli stessi valori pittorici messi in luce dal nostro
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L’argomento è drammatico, ma nella scena veramente non c’è dramma, bensì il trionfo del colore, della ricchezza compositiva, della fantasia, e le parole del Boito lo dipingono a pieno, rendendo evidente persino l’ariosità dell’affresco, pure così affollato di personaggi, e la sospensione dinamica della scena. Ma non c’è soltanto bravura stilistica nell’evidenza plastica della descrizione: quell’acuta osservazione della mano, “aperta, ruvida, nervosa”, puntellata al fusto rotondo, piena di febbrile curiosità, rivela l’attitudine a cogliere nel gesto una psicologia in atto, il che è dote appunto di narratore, come vedremo nelle novelle.137 Il linguaggio del Boito riesce particolarmente eloquente quando vuole rappresentare un monumento, che tocca in modo particolare il suo animo e i suoi interessi, come il castello di Cracovia, le cui pietre appaiono patinate dalla storia e dalle leggende, o il duomo di Ulma, vero ganglio d’arte, di civiltà, di vita medioevale. Sboccai ad un tratto dallo svolto di una via in faccia alla chiesa. Il primo aspetto è imponente: la massa bruna si stacca, sul cielo biancastro e s’alza sulle casupole che la circondano, come un’antica quercia isolata sui nani arbusti. A quella quercia manca la cima, quasi un fulmine l’avesse decapitata, e in verità il prospetto del Duomo, che tutto si concentra nella metà d’una gran torre, pare un albero enorme, ma senza fronde, a cui la vendetta del cielo […] abbia tolta la vigoria fiorente della vita. La corteccia nera sembra screpolata e rugosa: sembra che, caduti giù i rami, sia rimasto solo, maestoso, desolato il tronco in un freddo deserto. Si direbbe quasi il Geremia dei monumenti […] Nell’ala a destra […] si vede una casupoletta bassa, col tetto bucato di abbaini: pare un insetto che succhi l’alimento dal corpo martoriato del Duomo. Fra queste due ali si spinge in cielo il mozzicone della Torre. All’alto è come un corpo a cui abbiano troncato la testa: le guglie spezzate, contrafforti rotti, le creste, i pinnacolini puntuti, la copertura provvisoria delle scalette e del centro, sanguinano: que’ tendini, quelle vene, quei muscoli si raddrizzano e soffrono.138
La successione delle similitudini riesce a trasmetterci quanto c’è di forzato e drammatico nella massa complessa, frazionata in innumerevoli particolari, eppure potentemente unitaria, della celebre chiesa gotica: il periodo boitiano ricostruisce il ritmo interno del monumento e rivela con rapidi tocchi il carattere vagamente macabro dell’insieme, che colpisce e lascia sbigottito, non senza un senso di raccapriccio, il nostro gusto latino. Ma qualche rara volta l’ammirazione per gli immortali capolavori trabocca in forme di facile enfasi (“Oh la tetra e ghiacciata testa di Medusa! Oh la casta Venere, che forse un gentile scalpello imitò dalla famosa di Cnido”), ma subito l’autore riprende il controllo di sé e della materia, con una punta di garbato scetticismo:
(cfr. G. Delogu, Tiepolo, Bergamo, Istituto Italiano D’Arti Grafiche, 1951). Qui si tratta dell’affresco raffigurante il sacrificio di Ifigenia nella celebre villa Valmarana. 137 Ne Il maestro di setticlavio, ad esempio, il Boito ci presenta così il maestro Chisiola, mentre suona il pianoforte: “[…] e le bianche mani del vecchietto andavano sulla tastiera senza scosse, senza scatti, mentre le dita, incurvate sotto le palme, non pareva si muovessero affatto […]. Eppure […] i canoni, le imitazioni, i moti contrari assumevano sotto quei dorsi delle piccole mani una chiarezza lampante”. Il gesto, come già parve al Bassani, ci fa già presentire il carattere placido, senza scosse, sereno e rasserenatore dell’uomo. 138 C. Boito, La Baviera – Da Milano a Ulma, in: Gite di un artista, cit., p. 206.
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Oh finiamola con le espressioni degne di un frate predicatore. Scusate: le figure retoriche sono comode; e non ho tempo di intrecciare periodi circolari, anzi non ho neanche voglia di rileggere quello che scrivo.139
Altrove invece, là dove il monumento non può suscitare la scintilla del godimento estetico, ma rimane una semplice testimonianza di storia e di cultura, il Boito sorride ironicamente, come nella descrizione della tomba del Winckelmann a Trieste: Alla sinistra […] v’è un piccolo recinto […] ci sono delle iscrizioni romane, ornati, bizantini e gotici […] cose […] poste là alla rinfusa. È il museo Winckelmann. La tomba del Winckelmann sta dentro una edicola che all’interno contiene, oltre al monumento, le lastre di marmo, dove stanno scolpiti vanamente i nomi degli oblatori […] sotto c’è un bassorilievo, dove si vede la figura del Winckelmann, che con una face in mano addita la via a certe donne, le quali seguono attonite e curiose […]. Il tutto […] lascia il cuore in pace ed evoca sulle labbra un sommesso sbadiglio.140
Nell’andamento scandito ma placido e quasi sonnolento del periodo è avvertibile la particolare sfumatura ironica boitiana, quella specie di doppio fondo per cui l’uomo sorride del professore: il professore va a riscoprire i mille particolari eruditi e ne gode, ma l’uomo li sente ormai spenti, vuoti e polverosi. Il tema del paesaggio Il motivo del paesaggio delle Gite si intreccia spesso con l’interesse artistico culturale dell’autore, che vorrebbe addirittura uscire dal tempo e dalla stretta delle preoccupazioni per godere a pieno l’esperienza del viaggio e ricercare le connessioni reali e ideali tra il monumento creato dall’uomo e il paesaggio in cui è sorto: Oh dolce cosa il pigliarsi un grande albo, alcune matite […] e in ispalla un piccolo sacco da viaggio e in mano un grosso bastone, e andare passo passo lungo le rive del lago […] fermandosi a schizzare una rovina di castello, una vetusta basilica, dove mostri, uccelli, sirene, goffi santi scolpiti conversano insieme simbolicamente, una vasca battesimale, […] la cresta e il dorso di un monte poiché le vecchie montagne e i vecchi monumenti vivono in fraterna armonia!141
L’aspetto dei vecchi monumenti e delle vecchie montagne gli appare spesso arricchito dalla patina dei vecchi libri: Camillo gode del paesaggio stilizzato e immaginoso, che emerge dalla memoria dotta dell’appassionato lettore. Quindi, ascendendo verso i monti dello Spluga, ricorda che Leonardo parlò di quelle “montagne altissime con grandi scogli, dove nascono abeti, larici e pini, daini, stambecchi, camosci e terribili orsi”: e il paesaggio orrido e terribile, che ha dominato immutabile il succedersi di tanta forza di secoli, gli suggerisce pensieri sulla fragilità dell’uomo e sull’arco breve della vita umana.142 139 140 141 142
C. Boito, La Baviera – Monaco, i musei, l’arte archeologica, in: Gite di un artista, cit., p. 206. C. Boito, Trieste, in: Gite di un artista, cit., pp. 98–99. C. Boito, La Baviera – Da Milano a Ulma, in: Gite di un artista, pp. 195–196. Ivi, pp. 197–198: “Guardando quegli immensi ruderi, rovesciati dai vortici delle acque, prima che la bestia umana abitasse questa terra di vanità, la fantasia si smarrisce in vaghe visioni, l’animo si allarga”.
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Ma ogni tanto le dotte letture avevano già costruito nella mente del viaggiatore un’immagine ideale, letteraria e storica di un luogo, che contrastava con la realtà del momento, anzi lottava con essa; allora il Boito sorride garbatamente della sua “illusione”, come quando giunto ad Augusta, confessa: “Augusta Vindelicorum e Lutero mi frullavano nel cervello. Mi pareva che si avesse a trovarvi più torri merlate, più chiese brune, più archi rampanti, più monumenti gotici che in qualunque altra città tedesca: era una illusione”.143 Infatti, soprattutto nei viaggi in Polonia e in Germania, Camillo non tende tanto a descrivere direttamente scene e paesaggi, quanto a rivivere il passato attraverso le testimonianze costituite dai monumenti, dalle leggende, dalla storia: il paesaggio fa da sfondo ai ricordi della mente dotta, che richiama letture e citazioni, non già per sterile erudizione, ma per il gusto tutto particolare di godere insieme la visione diretta della realtà e l’immagine di quello stesso luogo, così come risulta dalla letteratura, dalla leggenda, dalla storia (e non per nulla il suo compagno di viaggio nel tragitto da Milano a Ulma è il Montaigne). In tal modo, ad esempio, il paesaggio di Cracovia è tutto permeato da un certo tono tenebroso, suscitato dalle leggende cupe e sanguinose,144 connesse con gli edifici più antichi della città. Il Boito non sorride di esse, ma le inquadra nell’atmosfera generale, triste e un po’ torva, della terra polacca, di cui presenta due soli quadri: la città e le saline di Wielicska. Ogni tanto la descrizione insiste su questi caratteri e li esaspera in modo troppo facile e gratuito, come in certi passi del capitolo dedicato alle saline. Leggiamo ad esempio un momento della discesa nella miniera: V’è una scala tagliata nel sale; e giù per quella. A poco a poco, sdrucciolando assai spesso, arrivai al suolo della caverna. La scena cambiò: de’ fuochi azzurri s’accesero sul ponte […] e mi parve di essere contornato da scheletri bianchi, da fantasmi avvolti in candidi lenzuoli. Sentivo aprire e chiudere i coperchi delle tombe.145
Sono questi i punti più infelici dell’opera: però ricordiamo che con ogni probabilità furono composti ancor prima del 1866 e notiamo subito che l’esasperazione macabra della descrizione si rivela compiuta a freddo, al fine di porre in rilievo l’eccezionalità del luogo, e non per una suggestione o sensibilità morbosa dell’autore. La rappresentazione del paesaggio trova invece il suo giusto tono nell’osservazione, assai più dimessa, realistica e sempre un poco ironica della realtà presente quotidiana: 143 C. Boito, La Baviera – Augusta, Norimberga, Ratisbona, in: Gite di un artista, cit., p. 218. 144 Forse la più caratteristica è quella legata alla cattedrale di Cracovia, che ha due campanili, l’uno dei quali è mozzato “simile al braccio di un amputato […] alzato verso il cielo per implorare misericordia”. Si vuole che essi siano stati edificati da due fratelli, venuti in discordia proprio per le due torri: l’uno, vedendo che l’opera dell’altro superava in bellezza la sua, uccise il fratello, ma poi, completato il suo campanile, non resse al rimorso e si slanciò dalla cima nel vuoto. Camillo presenta la leggenda con rapidità, ma senza trascurare gli elementi della narrazione popolare: il perfetto, meraviglioso accordo dei fratelli artefici, l’odio che sorge tra di loro, quasi soffiato da un demone, l’omicidio, l’orrendo spettacolo del corpo straziato, il misterioso e provvidenziale perdersi del nome dei due. 145 C. Boito, Cracovia – Le saline, in: Gite di un artista, cit., p. 135.
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Il sole, poveretto, si studiava di mandare qualcuno de’ suoi primi raggi alla terra polacca, ma era una fatica vana. Non gli riesciva di fare neanche un piccolo buco nella gran volta delle nuvole scure, le quali nascondevano, con una tinta uniforme, uggiosissima tutto quanto il cielo. Qualche pallido ebreo, avvolto nella sua palandrana lunga, lustra, nera come i parati da morto nelle nostre chiese di campagna, sbucava da un uscio piccolo di una casa sporca, ed entrava in fretta, guardandosi attorno, nella portina di un’altra casa sudicia. Qualche popolano, passando lento lento, mi fissava con i suoi occhi cerulei, melanconici. Qualche donna vecchia e curva, scivolava lungo le muraglie, inzaccherandosi le gonne, e borbottando tra i denti parole che non si capivano.146
Quasi sempre il Boito rifugge dal pittoresco: i suoi paesaggi migliori sono descritti con stile sostenuto e risentito, continuamente analitico. Ecco infatti una tipica notazione paesistica delle Gite: Il sole pareva la luna. Era piccolo e tondo, e si poteva guardarlo in faccia con gli occhi spalancati. Aveva, come si dice della luna, i raggi d’argento. Il suo lembo inferiore toccava alla linea quasi retta dei colli; e l’intiero disco sembrava bagnato in una atmosfera trasparente, ma vaporosa, la quale, invadendo tutto il campo del cielo, dava al sereno un certo candore innocente, dolcissimo […] quando la strada sulla quale correvo in carrozzella, piegava a un tratto, e innanzi al cerchio mezzo nascosto del sole passavano in un attimo i rametti fitti, nodosi, nudi di un olivo morto, quel sole scialbo prendeva nelle rifrazioni della luce un colore strano rossigno, come di fiamma pallida o di sangue annacquato.147
L’ironia Il gusto del paesaggio passa in secondo piano solo in una parte dei capitoli sulla Baviera, dove la descrizione delle cose d’arte è spesso interrotta da riflessioni non di rado assai precise sulla mentalità del popolo tedesco (“La birra è il Dio, ma la pipa è il suo profeta: fumare e bere, ecco il paradiso dei tedeschi”), e da gustose scenette di vita quotidiana, che ci richiamano assai da vicino lo Sterne e lo Heine: qui l’ironia diventa umorismo e riscatta ogni possibile banalità dell’argomento: Dopo tre anni mi rammento lo sguardo del sagrestano di San Bonifazio. Pioveva da parecchi giorni […] io ero inzaccherato fino alle ginocchia. Entrai in chiesa cavandomi il cappello, ma senza badare alle scarpe. Il sagrestano con tre aiutanti stava presso alla porta e avevano già raccolto all’uscita un monte di segature per merito delle quali il suolo marmoreo era diventato più netto della coscienza del giusto. Io nell’entrare avevo stampato cinque larghe orme di fango. Mi sentii bruciare. Era lo sguardo del sagrestano fisso sopra di me, che vibrava dalle pupille come la fiamma dal cannello dell’orafo. I capelli biondissimi gli giravano intorno alla faccia tonda formando un’aureola: pareva l’Arcangelo vendicatore del Giudizio universale. Non saprei somigliare quello sguardo se non a quello di una signora, che, avendo messo per la prima volta un magnifico abito di seta, senta sul lungo strascico posarsi, quasi monte di Pietrapiana o di Tambernicch lo stivale grave di un contadino, e l’orlo fare, come dice Dante, cricch.
Sempre in queste pagine, altre volte l’ironia rispecchia la ‘modestia’ del Boito, la sfiducia nella propria opera, come nel passo seguente (l’autoritratto che Peter Vi-
146 C. Boito, Cracovia – Il Castello, in: Gite di un artista, cit., pp. 124, 125. 147 C. Boito, Custoza – L’ossario, in: Gite di un artista, cit., p. 3.
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scher, celebre scultore del ’500, lasciò nel duomo di Norimberga, è riprodotto alla sommità di una cannuccia scolpita, che l’autore usa per vergare le sue note): Mentre io traccio questi scarabocchi, la figuretta mi danza davanti agli occhi, e mi dice in suo muto linguaggio: – Tutto è vanità, persino l’ingegno; eccomi, tre secoli dopo la mia morte, io, autore di tante opere insigni, condannato a riprodurre in aria col mio moto le vanità di un architetto pettegolo.
L’ossario di Custoza Il motivo della vanità di tutte le cose, questa volta intrecciato al senso della morte ritorna nel capitolo migliore delle Gite, quello dedicato all’Ossario di Custoza: i risultati più alti e più intensi dell’opera furono raggiunti dal Boito nella descrizione di un itinerario (che una volta tanto non ha nulla di artistico), attraverso i campi di battaglia di Villafranca e di Custoza. Lasciati da parte gli interessi critici, eruditi, l’autore procede in esso con l’animo pieno di una grande e pensosa tristezza per “le tre ire terribili, le tre bufere della morte” che si sono susseguite in quei luoghi nel 1848, nel 1859, nel 1866, e che hanno prodotto “tre stratificazioni di cadaveri l’una sopra all’altra, formanti una geologia nuova”. L’argomento poteva prestarsi a facili ed enfatiche effusioni patriottiche e celebrative: niente è più lontano da queste pagine, così sobrie e dimesse, in cui l’autore domina la materia con uno sguardo fermo e implacabile, tanto da apparire persino freddo. Ma la tragedia è nelle cose e nei fatti, che il Boito non accentua mai, ma registra con costante gravità: e il tono perfettamente unitario del brano, tutto immerso in una desolata atmosfera di tristezza, è segno della raggiunta maturità stilistica. Il paesaggio stesso è insieme grave e squallido, pieno di indizi di morte: si pensi al brano iniziale (già citato: “Il sole pareva la luna”), con quell’accenno ai rami nudi degli ulivi secchi e all’insistenza sui motivi della strada polverosa e del caldo soffocante nelle descrizioni successive di una campagna “che le migliaia di morti non hanno ingrassato”, che pare stata creata apposta per la guerra da un feroce Dio degli Eserciti, “che vive e si lamenta”, serbando in sé “come il rimorso bieco d’una complicità d’omicidii”. Procedendo dunque nel triste territorio, Camillo giunge all’Ossario di Custoza: è ormai scesa la sera e nella semioscurità gli appaiono i viali, ormai in rovina, di un parco settecentesco: e la rievocazione improvvisa di quel mondo di leggiadrie e di grazie, di amori e di piacevolezze è fatta soltanto per mettere in maggior rilievo la fragilità di tutte le cose di fronte al tempo e alla morte. L’Ossario viene visitato al chiaro di luna: “Ricominciava un nuovo crepuscolo azzurrino, poi s’accese come una nuova aurora d’argento; il pieno cerchio della luna uscì dalla vasta ombra dell’olmo. Ci si vedeva come di giorno, solo che la luce era fredda e fantastica”, ma l’autore è sempre attento e distaccato, al di sopra di ogni facile effetto, di ogni concessione all’orrendo e al macabro. Le pagine che descrivono i monti di ossa “lavate dall’acqua e calcinate dal sole, i cranii schierati […] in tre file e in ordine di parata”, tutti illuminati dalla luce della luna, hanno, se mai, un sapore un po’ ironico, ma l’ironia non è certo segno di insensibilità morale e di freddezza, bensì è prodotta dal senso della labilità e vanità di
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tutte le cose di fronte alla morte e al di sotto di essa noi sentiamo l’umana e palpitante considerazione per la debolezza e la caducità della vita: Il sagrestano conosceva tutti i cranii uno a uno, come se fosse loro amico da un pezzo. Avevamo finito la rassegna delle schiere illuminate dalla luna, e per vedere le teste, che stavano nella fitta ombra, il buon uomo accendeva uno zolfanello […]. Vidi il volto di una vivandiera uccisa nel 1848, vidi Tedeschi e Italiani, semplici soldati e ufficiali. Uno ha i suoi trentadue denti così belli, che sono un incanto: neanche un puntino bruno; non ne manca una scheggia; non ce n’è uno solo che non segua leggiadramente le perfette curve della mascella; […] vanno via via ingrossando […] simmetrici, graziosi, più candidi assai dell’avorio con il loro smalto niveo e lucido. Bocca da baci.
In queste frasi, così distaccate e apparentemente così fredde è tuttavia presente lo sbigottimento del Boito, e in fondo di tutti gli uomini, di fronte alla morte che cancella e annulla di colpo le realtà particolari degli individui, infinitamente diversi tra di loro: ogni uomo era una somma di vicende, d’affetti, di sentimenti, ora è un teschio tra gli altri. E la progressione finale, per cui lo sguardo del Boito isola uno di quei poveri resti e nota la perfezione di quella “bocca da baci”, è perfetta anche narrativamente. Anche per questo il brano mi pare degno in tutto e per tutto di essere ripubblicato e diffuso a fianco delle migliori Storielle vane. L’anima di un pittore Il volumetto L’anima di un pittore, pubblicato a Milano nel 1885, presenta, commentando e ricreando ambienti e personaggi, le memorie del pittore Francesco Mosso, morto immaturamente a ventinove anni.148 Più che per le qualità artistiche, che non erano tuttavia trascurabili (Domenico Morelli nutriva una grande fiducia nelle possibilità del Mosso, per la vivacità del temperamento e la fantasia), il giovane torinese interessa a Camillo per la sua personalità impetuosa e sincera, ma soprattutto per un insieme di scritti, che furono pubblicati da Marco Calderini sotto il titolo di Memorie postume (Torino, 1885), ma che il nostro doveva già conoscere da qualche anno attraverso il Calderini stesso.149 Alla psicologia tempestosa e mossa, all’animo perennemente inquieto, facile alle esaltazioni improvvise e ai repentini abbattimenti del Mosso, Camillo si sentiva spinto da un moto di simpatia umana: il pittore, così come appare dal suo diario, è romanticamente giovane e con tutta l’intransigenza delle convinzioni e dei giudizi, l’entusiasmo per la bellezza e i nobili sentimenti umani, l’insofferenza per le me-
148 Francesco Mosso, nato a Torino nel 1848, morì a Rivalta (Torino) nel 1877. La sua pittura, drammatica per i contrasti di luce e gli atteggiamenti dei personaggi, piacque molto ai contemporanei. Il Museo civico di Torino conserva tre sue opere, tra cui La femme de Claude, che fece molto scalpore per l’arditezza del soggetto. Camillo Boito aveva già presentato alcuni quadri del Mosso nel recensire la Mostra nazionale di Belle Arti di Torino del 1880 (cfr. Gite di un artista, p. 361). 149 Il pittore Marco Calderini pubblicò varie monografie su artisti suoi contemporanei, come Fontanesi, Vela, Cremona, Mosè Bianchi.
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schinità, il sarcasmo dettato dalle delusioni, la sottile tristezza suscitata dal presentimento della morte vicina. Anche da un punto di vista più particolarmente letterario queste pagine non dovevano riuscire del tutto indifferenti al nostro, soprattutto per le osservazioni sull’arte: nelle parole del pittore, Camillo trovava rispecchiate le esaltazioni, gli scoramenti, la continua insoddisfazione di colui che crea, e questi sentimenti non gli erano certo sconosciuti. In verità il diario del Mosso non riesce sgradevole neppure al lettore moderno: tuttavia il carattere troppo immediatamente autobiografico di una materia umana ancora, per così dire, incandescente e fluida, fa sì che si tratti di un puro documento, in cui tutte le osservazioni vanno riferite a una realtà storica, e a un momento psicologico, troppo particolari perché il libro possa acquistare un vero e proprio valore, non dico poetico, ma anche soltanto letterario. Il Boito riesce a utilizzare questo ricco ‘materiale’, dominandolo con la superiorità del suo equilibrio morale e artistico, della sua larga umanità: egli sorride con indulgenza di certe smanie fanciullesche, di un certo cinismo, puramente verbale, del nostro, purifica e decanta gli episodi più drammatici o passionali con la pacata e sempre un po’ ironica saggezza dell’uomo maturo, che comprende e giustifica l’animo impetuoso dei giovani.150 Nella narrazione, si nota anche la particolare abilità (che il Boito aveva già dimostrata negli scritti storici e artistici, nei riguardi dei documenti) a fondere le parti direttamente attinte al giornale intimo del pittore torinese con le osservazioni personali: il risultato è stilisticamente perfetto, anzi l’eleganza del discorso non è esente da un certo compiacimento che arrotonda la frase e diluisce un po’ troppo il concetto. L’ironia e la raffinata eleganza dello stile sono dunque le caratteristiche costanti del libretto, che si apre con una lunga prefazione, intitolata Divagamento e dedicata a una gentile signora, simbolo di tutte le lettrici, perché “in queste edizioncine tanto carine, ci si figura sempre che le paginette eleganti vengano sfogliate dalle dita rapide, morbide, tornite di una signora; anzi che i caratteri minuti e snelli siano letti soltanto dagli occhi freschi, celesti o neri, di ragazze da marito o di novelle spose”. Alla lettrice ideale Camillo si rivolge spesso anche durante la narrazione, immaginandone le reazioni, gli atteggiamenti leggiadri e anche un poco leziosi: e il tono confidenziale, ironicamente salottiero che egli assume allora, rende esplicito l’atteggiamento del Boito, sempre controllato e distaccato dalla materia. Gli amori del Mosso, prima quelli brutti (e cioè le facili avventure e le passioni che gli avvelenarono l’anima), poi quelli belli (e il commovente affetto per i genitori e i sentimenti più profondi ispiratigli da una donna) sono il filo conduttore dell’opera, il criterio di scelta degli episodi e dei frammenti. Ma non si tratta di una predilezione del Boito per il motivo amoroso: anche nelle Storielle vane infatti gli episodi erotici non sono mai introdotti per facile compiacimento, ma sono visti sotto l’aspetto più crudele e drammatico delle oscure e 150 Camillo riconosce che l’animo del Mosso è in fondo sano e schietto, al di sotto delle pose ciniche: “Con tutto ciò la verità scaturisce evidente dalle facce del giornale e brilla più limpida nelle pagine buone che non in quelle piene di sarcasmi e di dubbi”.
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ineluttabili forze del senso (e allora essi hanno una tragica risoluzione nella morte; si pensi alla Nene de Il maestro di setticlavio), oppure, in Baciale ’l piede e la man bella e bianca in questa stessa opera, il motivo amoroso, visto con garbata, ma implacabile ironia, è costruito per metterne in rilievo le illusioni, le vanità: le astuzie e le finzioni del gioco amoroso gli paiono recitate sulla scena del teatro della vita, ma le sente, in fondo, estranee al vero dramma della vita stessa. Inoltre il Boito era spinto a questa scelta anche da un’altra ragione: il giovane gli pareva tutta sincerità, quando nelle memorie scriveva dei suoi amori:151 ricercando i motivi di tale schiettezza in un tema “nel quale si riesce tanto facilmente bugiardi verso gli altri e verso sé stessi”, l’autore dimostra con vivaci paradossi l’inconsistenza dell’amore: Ora, una delle due: o noi crediamo di amare in una donna il buono, il bello e l’utile, amando in realtà una donna in cui tali qualità più o meno difettano, e allora noi inganniamo ingenuamente noi stessi; o noi sappiamo che quelle qualità mancano alla persona amata, e nonostante persistiamo ad amarla, e allora irragionevolmente è una prova che il senso cieco o l’assurdità della passione vincono il giudizio152.
Concludendo, L’anima di un pittore occupa un posto a sé nella produzione boitiana, soprattutto per il genere inconsueto a cui appartiene, ma ci rivela ancora una volta la ricca e vasta sapienza umana e morale dell’autore, suscettibile di commozione, ma sempre controllata dall’intelligenza, che la risolve in ironia. CAPITOLO IV ANALISI DELLE STORIELLE VANE Introduzione Le quindici novelle, costituenti l’intero corpo della produzione narrativa boitiana, si prestano ad essere suddivise in quattro gruppi, a seconda dei motivi e degli argomenti e anche della posizione del narratore nei riguardi della materia. La distinzione non rispetta generalmente l’ordine cronologico della composizione, ma questo fatto mi pare non alteri in alcun modo l’indagine critica; infatti non si presentano nel nostro caso problemi di avviamento e tirocinio stilistico, perché il Boito giunse all’attività narrativa quando già aveva sufficientemente saggiate le proprie possibilità letterarie ed espressive negli scritti d’arte già presi in considerazione. Anche le prime Storielle vane nascono, quindi, in un certo senso, mature: i maggiori o minori risultati sul piano poetico dipendono proprio soltanto dall’ispirazione e in linea di massima non sono condizionati dal più o meno perfetto adeguamento della struttura e dell’espressione alle intenzioni dell’autore. Quindi la nostra suddivisione non è soltanto dettata da motivi di comodità di studio, ma vuole suggerire anche una prima osservazione sul carattere particolare della produzione boitiana. 151 C. Boito, L’anima, op. cit., pp. 7–8. 152 Ivi, pp. 10–11.
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Nel primo gruppo di novelle prevale il carattere autobiografico e descrittivo: l’ambiente è quello borghese, visto però in posizione critica e dominato dalla sapienza morale e psicologica del narratore. Il secondo gruppo raccoglie invece quelle novelle che sembrano sviluppare i temi macabri della Scapigliatura, ma che in verità presentano uno studio di casi psicologici esasperati e abnormi, senza concessioni al mistero e con un preciso avviamento realistico. Senso e Il maestro di setticlavio fanno storia a sé, come completamento e coronamento di tutta la produzione. Stanno a sé infine anche i due soli pezzi delle raccolte che hanno il carattere di tentativi isolati e sono lontani dai veri interessi del narratore. Il primo gruppo Nella novella Baciale ’l piede e la man bella e bianca, svariati elementi (il gusto del pellegrinaggio artistico, il senso del paesaggio, l’affiorare continuo di una ricca messe di richiami dotti con il conseguente sdoppiamento tra la realtà diretta e l’immagine letteraria, il motivo amoroso) raggiungono un gradevole e freschissimo risultato, grazie alla fusione operata dall’ironia, che questa volta non indica solo il distacco dell’uomo dall’erudito professore, ma anche la separazione tra l’uomo, ormai provato e maturo, e il giovane di tanti anni prima. La ragione dell’affettuoso e ironico compatimento ci è rivelata soltanto dall’ultima frase del lungo racconto (“Avevo allora diciotto anni”) che, così collocata, non interrompe il fluire della narrazione, ma giustifica la posizione del narratore. Il racconto è in prima persona; quasi tutte le novelle boitiane hanno, è vero, questa impostazione, seguita probabilmente per rendere più agevole e ‘snello’ l’inserimento dell’indagine psicologica, volta a scrutare con sottile abilità i grandi sconvolgimenti delle coscienze, ma qui la prima persona ha proprio un sapore autobiografico, anche se lontano e come affievolito dalla ‘mediazione’ dell’intelligenza. La data della stesura (1867) ci riporta a un Boito appena trentunenne, ma già sicuramente affermato in quel ruolo di maestro di architettura che ben conosciamo: non è del tutto improbabile che, forse in occasione di un nuovo viaggio nell’Italia centrale, Camillo gettasse uno sguardo tra ironico e commosso al se stesso di tredici anni prima, allo studente che già viaggiava lungo la penisola alla ricerca di nuovi orizzonti e di vecchi monumenti. Il giovane protagonista, lasciando la capitale, si propone di raggiungere a piedi Milano, ma l’inclemenza del tempo lo costringe ben presto a passare dal caval di San Francesco alla carrozza; egli, attraverso l’Umbria e le Marche, giunge finalmente ad Ancona, tra i disagi della vettura lenta e malandata, la compagnia quasi sempre fastidiosa di strani e importuni compagni di viaggio, tra osterie poco ospitali e osti sornioni.153 153 Citiamo ad esempio l’oste della Sette vene, che “aveva le sopracciglia foltissime e in linea retta senza interruzione tra una tempia e l’altra” e che condusse il nostro “nella più bella camera, diceva
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Il paesaggio, sempre legato alla psicologia dell’autore, fluttua continuamente tra la realtà e il ripensamento letterario: Tra la Storta e Baccano mi coricai sull’erbetta pur mo’ nata, in mezzo ad un allegro tappeto di fiori primaverili. Ma sanno le vergini Grazie come mi piange il cuore nel dovere aggiungere che non l’Aura leggiera, bensì Eolo impetuoso andava ad intervalli soffiando. Il vento non ha creanza: appartiene all’arte scapigliata e discinta: non legge il Galateo, non ha misura, non ha ordine, non ha delicatezza. Invocavo Zefiro inghirlandato di fiori, con le ali agili di farfalla […]. Rotolava trenta passi lontano il mio cappello, e svolazzavano i fogli dell’albo che avevo aperto con la intenzione di schizzarvi un ricordo del paese. Le nubi di polvere nascondevano tratto tratto la campagna […] deserta e severa. Nel fondo, lontan lontano, scoprivo ancora la cupola di San Pietro: pareva il vertice di un tumulo enorme […] non ero triste, ma neanche sereno. Giacevo in quello stato di spirito inerte, che precede l’ombra della malinconia.154
Qui si procede dalla letteratura alla realtà e l’ironia si spegne nella pacata e verissima notazione psicologica. Parallela al rabbuiarsi del cielo è l’inquietudine nell’animo del viaggiatore, che diventa sempre più triste e ‘torbido’ con l’aumentare d’intensità della pioggia. Il tema non è nuovo, ma il singolare impasto di ironia trasognata e di gusto descrittivo, il sottile e continuo riferimento psicologico e insieme la scelta delle immagini lo salvano dalla banalità. Il Boito, qui e altrove, immerge assai volentieri i suoi paesaggi nella pioggia scrosciante, nei turbini del vento e della tormenta, non certo per un facile e tenebroso gusto romantico, bensì per una più raffinata e personale predilezione di artista e di letterato, per scoprire cioè nuove immagini e nuovi accordi cromatici e per richiamarsi ad una più umile e realistica dimensione quotidiana. È magistrale in questo senso la descrizione dell’alba a Serravalle, che ci riporta a certe atmosfere della pittura ottocentesca (basti pensare ai quadri del De Nittis): Aurora ben malinconica. Il vento era cessato; il cielo non diluviava, ma la pioggia cadeva sottile, monotona, increspando appena la superficie delle profonde pozzanghere, che rendevano impraticabile la via […]. Un torrentello pareva lì lì per straripare e, in mezzo a tanta acqua, le ruote di un pittoresco mulino stavano ferme, come prese da torpore. La natura non si svegliava; era assiderata […]. I due fanaletti, che erano stati posti la notte per annunziare al viandante la rottura della via, mandavano nelle mezze tenebre del crepuscolo qualche scintilla pallida.155
A dare unità alla narrazione, così ricca di figure, di scenette, di osservazioni è il motivo costituito dai frequenti, fuggevoli, insperati e pur vagheggiati incontri con una donna bella e gentile, più evocata che descritta. Si tratta di una gradevole figurazione letteraria (per cui il Boito poteva aver tratto ispirazione dallo Sterne o anche
lui, dell’albergo, augurando con voce sinistra: – Buona notte –”. Prosegue il Boito: “V’era nella stanza uno di quei letti immensi, che giovarono tanto ai novellieri italiani del Trecento”. 154 C. Boito, Storielle vane, III ed., Milano Treves, 1895, p. 107. 155 Ivi, p. 103.
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da Jean Paul Richter156) che risalta ancor meglio dalla connessione tra la serie delle rapide apparizioni della donna e la strana vicenda di un minuscolo Petrarchino, sul quale l’autore, al primo rapidissimo incontro con la dama (quando egli ne aveva potuto scorgere solo il piedino elegantemente calzato e le dita “mirabilmente tornite”), aveva segnato, “serrandolo tra due grosse linee”, il verso: “Baciale ’l piede e la man bella e bianca”. Il libriccino, smarrito dal protagonista, era venuto nelle mani di lei; poi era ritornato in possesso dell’antico proprietario, finché venne definitivamente donato alla donna leggiadra, in cambio di un guanto, “dolci spoglie della sua mano”. La gentildonna acconsente a rivedere per l’ultima volta il compagno di viaggio e gli dà convegno nel giardino della sua villa, presso un tempietto dedicato all’Innocenza (“simbolo – scrive il Boito – di quell’innocenza, la quale ardeva nei petti della signora e di me”). L’autore conta le ore che lo separano dall’atteso momento con una sottilissima e vibrante trepidazione, che pare essere irrisa dalla tranquillità del paesaggio. E infine ecco l’ultimo incontro, rapido come il primo: la donna è “un fantasma bianco, divino”, che prima di scomparire permette al giovane di deporle un bacio sulla mano e sulla punta del piede: “il [suo] voto era sciolto: Baciale ’l piede, e la man bella e bianca”. L’autore conclude con una finissima notazione psicologica (“In fondo in fondo non avevo la coscienza tranquilla, poiché non mi potevo acconciare all’idea di averla appunto troppo tranquilla”) che ‘scioglie’ la situazione e chiude veramente il racconto con un ultimo tocco di delicata ironia. Sono, concludendo, pagine di divagazione, ma non “sentimentali e tenere”, come parve al Croce,157 perché in esse il motivo amoroso è assai remoto e secondario e la figura femminile vive per la sua grazia petrarchesca, accanto alle cose belle dell’arte che il giovane protagonista ricerca e vagheggia. Il motivo amoroso, appena accennato e tutto risolto in ‘atmosfera’ leggiadra e letteraria nella novella precedente, diventa essenziale in Dall’agosto al novembre,158 che forse non a caso l’autore collocò accanto alla prima nella raccolta delle Storielle vane. Infatti anche qui il paesaggio ha grande rilievo sia psicologicamente che pittoricamente; anche qui notiamo la particolare attenzione ai trapassi e alle vicende del tempo (il titolo definitivo: Dall’agosto al novembre non è un’indicazione puramente cronologica, ma rende bene l’idea della viva e [un] po’ tormentosa connessione tra lo stato d’animo del protagonista e il fluire del tempo); ritorna il motivo del temporale, dei particolari incisivi e rapidi (“Appena fui sotto il portico vidi la strada di gialla che era cangiarsi da lontano in color bruno, e in un attimo essere tutta negra, con qualche luccichio qua e là. […] L’aria tiepida […] era diventata gelida e il vento soffiava soffiava”),159 riappaiono le scene affollate, con dinamismo di gesti e vivacità di suoni.160 156 Si veda la Storia del proemio alla seconda edizione del Fixlein (1796) e l’immagine della bella donna, che sparisce nel bosco e che poi l’autore ritrova. 157 Cfr. B. Croce, La letteratura della Nuova Italia, vol. 5, Bari Laterza, 1939, p. 327. 158 Composta nel gennaio del 1871, apparve sulla Nuova Antologia nel marzo dello stesso anno. 159 C. Boito, Storielle vane, cit., p. 64. 160 Ivi, p. 74.
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Ma soprattutto la vicenda psicologica e umana incomincia al punto in cui termina Baciale ’l piede, e la man bella e bianca: là v’era una passione non nata, una disposizione d’inerzia e d’attesa; qui il protagonista (che, in cerca di evasione dal mondo frivolo dell’alta borghesia cittadina, s’è rifugiato in un modestissimo albergo di Pallanza) parte appunto da uno stato d’animo d’inerzia e di attesa, che lo porterà alla passione per la marchesa Giulia. Ella, pur mostrandosi profondamente turbata, respinge l’amore dell’uomo in nome dell’onestà e della virtù. Questi, ritornato alla vita salottiera e mondana, viene però a sapere che la marchesa è ben nota a tutti per le sue basse e continue avventure amorose. La novella non è certo tra le cose migliori del Boito per certi virtuosismi stilistici della narrazione, che interrompono il fluire della vicenda; il dialogo tra i due protagonisti è spesso monotono e un po’ futile, l’intelligenza scaltrita e l’amarezza sofferta del protagonista si convertono qualche volta in pose di facile cinismo, ma il racconto vive per la sua novità e verità psicologica. Il narratore compie una vera e propria anatomia della passione amorosa, con uno sguardo spietato e gelido, con un’acutezza che poggia sul disinganno e sulla coscienza di come la vita sia tutta intessuta di illusioni: Perché soffro io se fra un anno (è dir troppo!), un mese, un giorno, talvolta un’ora, non soffrirò più? Il dolore è quindi una cosa vuota e fallace, poiché, restando ferma la sua cagione pur cessa […]. Conviene ridere e piangere, amare e odiare […] ma sempre dalla platea di noi stessi al palco scenico di tutti gli altri, senza eccezione.161
L’autore giunge così ad irridere la passione, come tutto ciò che ci agita e ci commuove e ci fa soffrire. La sofferenza deve sciogliersi nell’ironia, nell’amaro sdoppiamento di noi stessi, che è l’unico mezzo che ci permetta di vivere162. Con queste riflessioni la vicenda è conclusa, ma la rivelazione cruda del finale non aggiunge molto alla situazione, perché la passione era già stata distrutta dall’implacabile ragionamento dell’innamorato autotormentatore. Lo stesso tema della vanità delle passioni, dell’illusione che sta alla radice di esse, e che rende inutile ogni sforzo di sottrarsi al dominio ferreo della ragione, anima la novella Meno di un giorno, dove però esso è perfettamente risolto e assorbito nella narrazione: la riflessione è perfettamente unita agli sviluppi della vicenda, la psicologia è calata nei fatti e nei gesti, aderisce al ritmo interno del racconto. Due amanti (notiamo ancora l’uso della prima persona per l’uomo, dettato, come s’è detto, dal desiderio di immediatezza nell’indagine psicologica) si sono dati convegno alla stazione di Treviglio, per trascorrere insieme quindici ore, “un saggio del paradiso”; l’uomo attende impaziente l’arrivo di lei: il suo stato d’animo oscilla tra la lucidità e l’eccitazione esasperata, e allora la ragione sembra sopraffatta dalla passione e dalle inquietudini, ma poi si manifesta con singolare se pur discontinua acutezza; così il protagonista passa dal timore meschino di essere scorto da qualcuno, dalle supposizioni assurde all’intuizione dell’eternità: 161 Ivi, pp. 86–87. 162 Si veda il finale della novella, quando il protagonista cerca di difendere la marchesa: “Fu uno scroscio di risa. In un attimo mi passarono dentro nel cervello guanti di sfida […], feriti e morti, ma per fortuna, il mio io, diviso in due parti, mi salvò. La metà dello spettatore contemplò la metà dell’attore, e, […] seppi unire il mio riso a quello degli altri.” (Ivi, p. 102)
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Giuliana Bertacchi Tutt’a un tratto mi fermavo […] pauroso di vedere qualcuno che mi conoscesse, che conoscesse lei. Studiavo l’orario delle ferrovie […]. Lo sapevo bene, ma tornavo a leggere quei numeri con occhio intento, quasi che a ogni poco m’uscissero dalla memoria. Guardavo l’oriuolo. Questa frase del Re Giovanni: Veglio su voi come il minuto su l’ora, mi passò nel cervello. L’idea dell’eternità […] diventa chiara seguendo il cammino lento della lancetta dei minuti. Il polso batte disuguale, rapido; una irritazione convulsa invade tutte le membra; si sente l’attimo che, impassibile, crea l’infinito: e la caduta di questa stilla di tempo nel mare senza sponde pare meschina e immensa, ridicola e spaventosa come il picchiettare del tarlo nelle veglie di una lunga notte.163
Quando, finalmente, la signora arriva e si dimostra affettuosa e innamorata, la gioia dell’uomo pare colmare la misura; ma a ben vedere, si tratta del parossismo dell’esaltazione, di uno stato di orgasmo (“il mio cuore si scioglieva, si evaporava nella beatitudine: sentivo come le molecole volanti della mia anima diffondersi, diffondersi e sparpagliarsi […] Il mio pensiero non afferrava più nulla: invadeva tutto”), che non può durare. Infatti, non appena il protagonista, sforzandosi di dare una conferma razionale al suo amore, interroga la donna con le frasi consuete degli amanti, la ragione distrugge le nebbie della passione e svela la raggelante realtà: l’amore eccezionale, eterno, indissolubile è un’illusione.164 I baci e le carezze dell’amante gli restituiscono una beatitudine effimera, tutta fuoco e fiamme; ma all’indomani tutto è finito: “Quando la vidi entrare in vagone e, con i begli occhi pieni di lacrime sempre fissi su di me, allontanarsi e sparire, mi sentii come alleggerito di un peso. Avevo l’animo vuoto, ma il respiro più libero.”165 Dopo la febbrile descrizione psicologica iniziale, notiamo la pacatezza della conclusione, nella cui ‘medietà’ di tono si risolve la situazione esasperata: la vita continua il suo corso con estreme, irridenti risorse. Nel gruppo delle tre novelle testé considerate è possibile rintracciare una parabola breve ma significativa: si passa infatti dalla digressione autobiografica (Baciale ’l piede e la man bella e bianca) alla struttura vera e propria del racconto, con un più robusto impianto di personaggi e di vicende, che tuttavia non si mostra sempre atto a contenere l’intuizione psicologica (Dall’agosto al novembre), e infine a una più perfetta ed equilibrata narrazione (Meno di un giorno), in cui l’implacabile indagine psicologica e l’osservazione realistica si fondono senza residui intellettualistici nello svolgimento dei fatti. Notiamo dunque che lo ‘sdoppiamento’ tra il Boito artista e uomo e il Boito professore nella prima novella diventa quello del protagonista di Dall’agosto al novembre: al narratore che dimostra l’infondatezza della passione amorosa, la vanità dei giuramenti, delle promesse, non rimane che guardare con spietato realismo alle forze del senso, come avverrà appunto in Senso e ne Il maestro di setticlavio. Abbiamo quindi un procedimento psicologico di genesi autobiografica che ci dà la giustificazione del realismo boitiano; l’autore era troppo legato al mondo bor163 C. Boito, Storielle vane, cit., p. 192. 164 Ivi, p. 201. 165 Ivi, p. 206. Solo Benedetto Croce ha speso qualche parola per questa novella e nota il carattere “corrosivo” delle meditazioni del protagonista (La letteratura della Nuova Italia, cit., pp. 325– 326). Pare che anche di questa novella ci sia stata una trasposizione cinematografica, ma non ho potuto trovare notizie più precise, nonostante abbia interpellato due critici cinematografici.
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ghese per scoprire una realtà più umile, più drammatica, più vera in cui esprimere a pieno la sua esigenza stilistica; non fece alcun salto, come invece il grande Verga, ma si accontentò di illuminare alla luce dell’intelligenza e della sensibilità morale la società frivola e mondana in cui viveva, oppure cercò una sorta di evasione, nelle regioni più cupe della psicologia umana (si vedano le novelle apparentemente ‘macabre’) e nell’ineluttabile gioco dei sensi. Meritano appena un cenno i due pezzi: Una salita166 e Quattr’ore al lido167 (che porta il significativo sottotitolo di Schizzo dal vero) perché, nonostante la loro freschezza, si devono considerare solamente pagine di descrizioni, simili perciò alle Gite di un artista. Il primo è la cronaca garbata e ironica di una escursione sui monti del Cadore, ricca di notazioni paesistiche e di figure, schizzate con gusto icastico e macchiettistico; il secondo, già esaminato dal Croce, rivela la grande abilità stilistica del nostro, che anzi si compiace nella descrizione di gareggiare con la pittura, sbizzarrendosi nel fissare, con precisa sensibilità, le più minute sfumature di tinte, di luci e di ombre del mare e del cielo. I tentativi isolati Le due novelle Tre Romei e Il collare di Budda, che meritano senza riserve il nome di tentativi isolati e falliti, sono le uniche pagine di sapore ‘provinciale’ del nostro e si risolvono in una semplice esercitazione letteraria su qualche spunto o qualche situazione che il Boito aveva già trattato (o avrebbe trattato in seguito) con ben altra sensibilità e risultati assai diversi. Tre Romei, che risale al gennaio del 1867, è un raccontino edificante, narrato a una “figliuola” da un vecchio, anzi dal nonno, saremmo tentati di aggiungere, quando leggiamo il finale, costruito proprio come ‘la morale della favola’: Da questo racconto, figliuola mia, tu devi imparare tre cose: Che non c’è uomo al mondo perverso e abbietto, il quale non possa, all’occasione, farci un gran beneficio; Che non c’è uomo al mondo perverso e abbietto, il quale non possa rialzarsi e diventare migliore e più rispettabile di noi; Che, finalmente, bisogna trattare con umanità, […] anzi con bontà e cortesia anche i galeotti.168
La trama è banale: il protagonista, appassionato cultore di cose d’arte, amava disegnare “con pazienza da cinese” le anticaglie; in una di queste sue esercitazioni nella basilica romana di San Lorenzo al Verano era stato aiutato da un galeotto, che si trovava in quel luogo con altri forzati per eseguire certi scavi archeologici, e lo studioso aveva avuto per lui parole e gesti di conforto. A distanza di alcuni anni il
166 Ivi, pp. 207 e sgg. 167 C. Boito, Senso – Nuove storielle vane, Milano 1899, pp. 175 e sgg. (l’edizione è conforme alla prima). 168 C. Boito, Storielle vane, cit., p. 182.
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forzato, ormai prosciolto, salva l’antico benefattore da tre malandrini che, travestiti da romei, vanno assaltando i viaggiatori. L’amore per l’arte e il gusto del pellegrinaggio, così cari al Boito e ricorrenti nella sua opera, rimangono qui motivi astratti, anche il paesaggio di sfondo è insolitamente convenzionale e scolorito. La novella non riesce neppure a essere un documento del tempo non troppo lontano in cui i grassatori rendevano pericolosi i viaggi nella campagna romana: i briganti,169 come l’immancabile oste della povera locanda e le figure minori, non hanno consistenza né umana né storica, ma rivelano la loro origine libresca, come personaggi inseriti a freddo in un taccuino di viaggio alla Montaigne. E l’inserimento della scadentissima novella nella raccolta si spiega forse per l’attaccamento sentimentale dell’autore a questo suo pezzo, che, pure così infelice, era legato in qualche modo a quell’esperienza di pellegrinaggio artistico che aveva tanta parte nel suo mondo spirituale. Assai più complessa è la trama dell’altro racconto ‘occasionale’: Il collare di Budda;170 se tutte le novelle del nostro fossero di questo stampo, sarebbero giustificate le riserve del Ferrata e le sue osservazioni sulla genericità del paesaggio boitiano. La storia è ambientata a Venezia, ma questa volta la città lagunare rimane una pura indicazione astratta e convenzionale (si veda ad esempio la descrizione della bottega di Zaccaria). Il protagonista, Gioacchino, è un impiegatuccio di banca, che trascorre una vita sordida e monotona, sacrificata al pareggio tra le entrate e le uscite di tre lire giornaliere, purché non sia toccato un cospicuo gruzzolo, dedicato agli “imprevisti e matti dispendi”. I matti dispendi vengono a causa di una seducente fanciulla; per ottenere di rivederla, Gioacchino si lascia estorcere molti quattrini dalla vecchia che vive con lei. L’ardore della passione è tale che il giovane non sospetta neppure lontanamente le turpi attività della bella Irene. La brutale rivelazione avviene solo dopo una lunga vicenda, che obbedisce più alle leggi della stranezza che a quelle dell’evidenza e in cui entrano i morsi della donna all’innamorato, quelli di un cane, sospetto d’idrofobia, un collare smarrito, un aitante ufficiale, proprietario del cane del collare; egli finalmente apre gli occhi all’impiegato, mettendolo bruscamente di fronte alla realtà. Quest’ultima situazione potrebbe essere drammatica, ma la natura gretta e meschina del giovane non merita tanto: infatti egli non soffre tanto per l’offesa del sentimento tradito quanto per l’increscioso pensiero delle cento lire, che gli sono state estorte dalla vecchia: – E mi costa cento lire – ripeteva Gioacchino, e, mentre contava i danari allo sportello, andava ripensando alla pietra da legarsi al collo e al canale ove affogarsi.171
169 Il loro abbigliamento (il cappello a larghissime falde e la lunga cappa nera cosparsa di grosse conchiglie) ricorda quello del Griso, quando penetra nottetempo nella casa di Lucia. 170 C. Boito, Senso, cit., p. 113. Non si conosce la data esatta di composizione, ma è senz’altro anteriore al 1883; tuttavia, mi pare che la novella non si possa collocare troppo avanti nella produzione del Boito. 171 Ivi, p. 157.
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Oltre alla stravaganza un poco gratuita dell’intreccio, quello che rende inconsistente la novella è l’incerto rapporto dell’autore con i personaggi da lui creati. Certi tratti di ardito e spietato realismo, certe “artigliate” – direbbe il Nardi – impietose nei riguardi di Irene e di Gioacchino (quest’ultimo soprattutto provoca in noi un moto di repulsione e di disgusto), si mescolano a dei movimenti di vero e proprio scherno (come ad esempio nel finale), prova di una sostanziale freddezza dell’autore nei confronti della materia narrata. Qui il realismo è soltanto un capriccio di bravura letteraria; perché, a ben vedere, l’ambiente descritto è estraneo al Boito, né gl’interessa veramente la condizione umana dell’impiegatuccio, dell’ebreo, della prostituta, la sordida vita del bassofondo. Le novelle dell’eccezionale Per il gruppo di novelle che più s’avvicinano ai modi ‘orrorosi’ di certi scapigliati, non si può parlare di vero tema macabro, di excursus nel campo del soprannaturale e del meraviglioso, come avviene invece nelle novelle morbose e ossessive del Tarchetti e dei suoi compagni, e, in genere, nei racconti del terrore e del mistero che influirono su questi nostri prosatori (da Poe a Hoffmann, da Nerval a Chamisso); qui l’indole profondamente equilibrata e raziocinatrice dell’autore si pone subito su un piano superiore di osservazione e di distacco. I fatti misteriosi e orrendi non sono che corrispondenze casuali, le quali acquistano questo valore agli occhi allucinati dei protagonisti, turbati da un nodo oscuro di colpa e di rimorso, che agisce all’interno della loro coscienza.172 L’elemento nuovo di tali novelle è rappresentato appunto dallo studio di una psicologia esasperata, abnorme, visionaria, che propone un’interpretazione magica o misteriosa, diversa da quella razionale della scienza e del buon senso comune. Questa è la caratteristica sostanziale del maggior numero di novelle del Boito e l’indicazione più costante dei modi narrativi dell’autore. In Vade retro, Satana e in Santuario i risultati sono ancora modesti; mentre nelle altre (Notte di Natale, Macchia grigia, Il demonio muto) riscontriamo valori nuovi e originali. La vicenda di Vade retro, Satana173 si svolge in un villaggio sperduto tra i monti trentini: la tranquilla vita del paese è stata sconvolta dall’arrivo di una masnada di truffatori, che hanno fondato una fantomatica Compagnia siderurgica per spillare quattrini ai montanari e, con i loro costumi corrotti, seminano ovunque lo scandalo. Il giovane Don Giuseppe, che ha sempre vissuto esemplarmente nella più assoluta ed evangelica povertà, tenta invano di opporsi alle manovre degli avventurieri, e da quando essi si sono stabiliti nella valle, il suo cuore è roso da un’interna agitazione; ma oltre alla preoccupazione per la salute morale e materiale dei suoi 172 Solo Un corpo si sottrae a questa definizione, ma l’analisi mostrerà anche in questo caso il distacco, già notato dal Nardi, di questa novella da quelle simili per argomento della Scapigliatura. 173 C. Boito, Senso, cit., pp. 1 e sgg. Il racconto fu pubblicato sulla Nuova Antologia nell’ottobre del 1879.
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fedeli, c’è un motivo di pena più segreto e tormentoso, legato alla presenza nel gruppo di una donna infame e perversa, Olimpia, che cerca con arti sottili di ridurre in suo potere il prete. All’apertura del racconto, Don Giuseppe ci è presentato mentre osserva la tempesta che infuria ai suoi piedi nella valle e il turbamento di quell’animo è espresso insieme con sobrietà e intensità: il Boito è veramente maestro nel delineare queste sfumature psicologiche, che preludono a sviluppi drammatici. La donna non riesce nel suo indegno intento, soprattutto perché, quando le forze della volontà di Don Giuseppe stanno per cedere, appare nella sua mente, già sconvolta da uno stato angoscioso, esasperato dalla malattia, la figura di un grande Crocefisso, compagno delle veglie e delle affannose preghiere del sacerdote: Ma, mentre la femmina ripeteva le ultime parole, sembrò al curato che d’improvviso un soffio fresco gli passasse sul fronte; e di repente gli comparve davanti la figura tetra e sanguinosa del suo Cristo dell’inginocchiatoio, solo che il volto, anziché piegato e morto, era vivo e guardava minaccioso e fierissimo.
La psicologia turbata deforma l’immagine e la fa affiorare nei momenti di lotta delle forze contrastanti: il Cristo insanguinato e terribile è per Don Giuseppe testimonio della sua angoscia e simbolo della sua salvezza. Ormai il sacerdote, che ha proseguito la lotta contro i truffatori e contro Olimpia, è abbandonato da tutti (tranne che da Menico, il vecchio e generoso servitore), anche dai valligiani, che si sentono da lui richiamati alla realtà e all’onestà e strappati dal miraggio di una vita più ricca e più lasciva; viene poi definitivamente allontanato dalla parrocchia: la sua coscienza dovrebbe essere tranquilla, ma l’equilibrio è minato dall’onda dei ricordi, spinti avanti con nuove inquietudini dalla malattia che ormai lo divora. Il prete si incammina, recando il Cristo sulle spalle, ma poco dopo viene raccolto agonizzante: egli allora si abbandona nel delirio ai terrori, agli esaltamenti, alle immagini che per tanto tempo aveva tenuto lontano da sé. Solo quando gli collocano davanti il Crocefisso, il delirio lascia il campo alla pace interiore, perché esso ancora una volta gli ricorda la vittoria del bene sul male; ma la vecchia immagine, resa fragile dai tarli e dal tempo, malamente urtata, cade e va in pezzi. A quell’improvviso spettacolo di rovina, la forza dell’irrazionale prevale ancora sul precario equilibrio spirituale del moribondo; e, come se la distruzione del Cristo coincidesse con quella dell’anima sua, Don Giuseppe “invaso da uno spavento infernale, stravolto, contraffatto, orribile a vedersi, mandò un urlo che gli spezzò il petto”.174 Il prete aveva dato all’oggetto un profondo significato, quasi che nella rozza figura lignea si materializzasse, per così dire, la sua coscienza: il Cristo aveva riportato la pace nel tumulto dell’anima; quando la vecchia statua si spezza, egli ripiomba nell’angoscia, con lo spavento “infernale” di un crollo definitivo nel caos della morte. Nella prima stesura apparsa sulla Nuova Antologia, la storia è troncata al punto in cui Don Giuseppe, allontanandosi, getta l’ultimo sguardo al villaggio. Camillo
174 C. Boito, Senso, cit., p. 73.
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guarda con simpatia al sacerdote che ha vinto il demonio in sé e fuori di sé: la sua figura giganteggia. Nella rielaborazione, il Boito si accorge però che questo difensore della giustizia (una specie di fra Cristoforo in tono minore) ha in sé qualcosa di incompiuto, si accorge anche che il suo vero interesse di narratore è più rivolto alla vicenda psicologica che a quella morale, quindi modifica la struttura del racconto per frugare meglio nelle pieghe dell’anima turbata e delirante.175 La novella risente della composizione ‘stratificata’, l’azione si inceppa qualche volta nelle digressioni e negli episodi marginali, anche se in sé ben riusciti (come ad esempio l’arrivo del nuovo curato untuoso e ipocrita, o l’incontro tra Don Giuseppe e il barone della compagnia siderurgica). L’intreccio nel suo complesso è macchinoso, alcuni caratteri sono un po’ incerti (citiamo ad esempio Menico, il fedelissimo servitore che piange un po’ troppo spesso e si commuove troppo facilmente; anche Olimpia, la donna perversa, mostra certe pose di ‘maliarda’ stereotipata, col suo corteggio di abiti rossi, vestaglie rosse, profumi inebrianti, mantelli neri e tenebrosi e occhiate di fuoco). Purtuttavia la complessa e notevole costruzione del caso psicologico salva la novella. Nella novella Santuario176 assistiamo a un progressivo affinamento della produzione narrativa, il gioco psicologico è più smorzato e aderente al concatenarsi dei fatti, l’atmosfera, pur nei suoi disparati elementi, è unitaria e costante. L’intreccio si svolge in un clima di aspettazione piena di presentimento, di malinconia vagamente eccitata; la fusione delle parti è resa più salda dalla presenza del protagonista, il quale, nell’ultimo giorno di un anno “pieno di malinconie e di fastidi”, abbandona la città per trascorrere qualche ora presso l’ospizio di un santuario, isolato tra i monti.177 Il sole cadente picchiettava di ombrette e di scintille il fango della strada, il quale, schizzando a destra e a sinistra, pareva borbottasse pettegolo contro le ruote, che ne disturbavano la quiete molle. Su quella mota nerastra si distinguevano ampie striscie o s’alzavano grandi cumuli di neve, chiazzata qua e là di brutte macchie di melma […]. Si giunse nel primo cortile dell’ospizio. Le gradinate magnifiche erano scomparse; qualche pezzo di balaustro, le cimase, i vasi barocchi, non si vedeva altro. Le immense ali dell’edificio s’alzavano tetre, e gli archi aperti del vasto atrio, in quella luce notturna della neve, azzurrognola e pallidissima, sembravano l’ingresso d’un cimitero fantastico.178
Il paesaggio, reso con pochi toni, rende esplicito lo stato d’animo del protagonista, che era stato rapidamente annunziato dalla frase iniziale (“Era l’ultimo giorno dell’anno, un anno pieno di malinconie e di fastidii”); non ci sono intrusioni sentimentali nel brano descrittivo ma il lento andamento del discorso ci fa capire lo sguardo del viaggiatore, malinconicamente assorto e trasognato, eppure pronto a cogliere ogni particolare. In questo clima si colloca l’apparizione della sventurata 175 Anche fisicamente Don Giuseppe è mutato, non è più il gigante biondo, la sua figura è assai più fragile, la sua grandezza è solo morale. 176 C. Boito, Storielle vane, cit., p. 141. 177 Il Santuario è quello di Monte Vergine, presso Avellino, dove si trova un’immagine della Madonna, che la tradizione vuole dipinta da San Luca. Il Boito ne parla a p. 152. 178 C. Boito, Storielle vane, cit., pp. 143–144.
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donna, sulla cui vicenda di pazzia e di morte si svolge la novella: la giovane, abbandonata dal marito, s’era vista spirare tra le braccia il figliuoletto e la sua mente era rimasta ottenebrata. Accolta per pietà nel convento del Santuario, essa si presenta al forestiero durante la notte e, con tutta la sconnessione logica del suo triste stato, gli parla con straziante affetto del marito e del figlio che non vogliono tornare a lei e che la poveretta identifica nelle figure dei quadri sacri appesi alle pareti. La mattina seguente la signora è scomparsa; e la parte meno felice della novella è quella dedicata alle ricerche, per una eccessiva insistenza sugli oscuri presentimenti del protagonista e del vecchio custode, per certi compiacimenti nella descrizione del paesaggio; tuttavia la scena del ritrovamento è efficace nella sua macabra drammaticità: la bionda signora, bella anche nella morte, giace in una cappella, dove grandi figure in terracotta (“personaggi sacri e profani, animali e prospettive, tutto sembrava il vero tale e quale, un vero che stupiva e che disgustava”179) rappresentano l’episodio biblico della strage degli innocenti. Tutto era sossopra […]. Tutti i bimbi erano stati strappati dalle branche dei carnefici, e deposti regolarmente l’uno accanto all’altro sul gradino del parapetto. Ai manigoldi mancavano la testa, le mani o le braccia, e codeste membra si vedevano sparse sul suolo […]. Fra quelle sculture […] vidi finalmente una figura di donna stesa a terra con le mani insanguinate, con le vesti a brandelli, coi capelli biondi, ed un sorriso angelico sulle labbra bianche, e nel volto una espressione di beatitudine soprannaturale. Stringeva al petto uno dei putti di terra cotta, roseo e ricciuto. Era gelata, il suo cuore non batteva più, viveva unicamente nel suo sorriso.180
L’eccezionalità della vicenda è temperata dal motivo più cordiale e quotidiano dell’incontro col Rettore, vecchio pieno di vivacità, allegro e chiacchierone ma non volgare; la sua stanza, “che era un paradisetto”, di bellezza e di ospitalità, la lieta cena, le rapide e gustose rievocazioni dei ricordi di gioventù sono descritte per restaurare il senso della vita pacata e consueta. In Notte di Natale181 la psicologia alterata del protagonista, nel suo alternarsi di lucidità e di allucinazioni, è studiata con sguardo implacabile dalle sue prime manifestazioni fino al parossismo e alla morte, con perfetto ritmo narrativo, questa volta pienamente unitario e fluido, senza difetti di struttura e bizzarrie esasperate di impianto e di costrutto. Giovano al risultato la maggior semplicità della vicenda, inquadrata in un ambiente consueto (le vie nebbiose e deserte di Milano, rese ancora più squallide dalla solitudine e dalla sofferenza del protagonista,182 la camera triste anche se lussuosa del grande albergo) e l’ispirazione più direttamente realistica, che sacrifica le suggestioni artistiche e letterarie per seguire l’unica linea della vicenda. 179 Ivi, p. 169. 180 Ivi, pp. 170–171. 181 C. Boito, Storielle vane, cit., pp. 183 e sgg.; già pubblicata sulla Nuova Antologia nel gennaio del 1876. 182 C. Boito, Storielle vane, cit., p. 186: “Nella via si vedevano uno alla volta i lumi rossastri, quasi cupi dei fanali; ma la nebbia fittissima era circonfusa di un chiarore scialbo, bianchiccio, che si faceva più vivo e insieme più denso accanto alle lampade, e che lasciava appena scorgere un tratto del marciapiede bagnato e lustro, l’ombra scura di una persona […], la massa sfumata di una carrozza, la quale correva circospetta e senza romore […]. Il silenzio sembrava pieno di agguati. Tutto diventava misterioso e vasto […]. Si navigava nella nube, bagnati, intirizziti, sospettando di essere diventati ciechi e sordi”.
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Il corpo vero e proprio della narrazione (sempre in prima persona e sotto forma di diario intimo del giovane Giorgio) è chiuso da alcune pagine che costituiscono l’introduzione esplicativa e la conclusione del racconto. Queste si immaginano scritte dalla vecchia e fedelissima governante di Giorgio, la buona Maria, che corrisponde a un tipo di personaggio minore assai caro al Boito; essa, se pure su un piano superiore, è assai vicina al vecchio Menico di Vade retro, Satana e al custode di Santuario. Essi, nelle intenzioni dell’autore, quali esempi di umanità semplice, sana, rivolta agli affetti più spontanei, compiono la funzione di bilanciare il dramma di una coscienza profondamente turbata e alterata dal male; eppure il Boito non riesce in genere a dare una vera realtà poetica a questi personaggi, anche perché si allenta, per la loro stessa natura, quella spietata esigenza di osservazione psicologica, che pur nella sua crudezza, costituisce la verità dei personaggi boitiani. La buona Maria, che confessa: “Non v’è cosa del mio Giorgio che io non ami; ma questo manoscritto, che capisco poco, mi stringe il cuore e mi fa piangere. Non trovo pace che in chiesa, pregando Dio”, che continua a piangere torcendosi le mani, non riesce ad acquistare l’individualità del personaggio, ma rimane un tipo, una categoria astratta di bontà e di normalità nell’oscura vicenda. La morte improvvisa e tragica della sorella Emilia e della bambina di lei, la piccola Giorgietta, ha scosso profondamente Giorgio nel fisico e nell’animo. Emilia aveva detto al fratello sul letto di morte: “Mi rincresce di morire, mi rincresce per te. La tua salute è debole. Hai bisogno di molte cure e […] di molta saggezza”; il fatto è importante perché dimostra come l’autore rispetti la realtà anche nelle storie più ‘eccezionali’ e infatti studia la genesi, anche, per così dire, scientifica delle alterazioni, il suo interesse, come già s’è detto, non è rivolto all’eccezionale macabro in sé, bensì a un caso abnorme, ma pur sempre umano. Il Boito penetra nel mondo creato dal tormento interiore, acuito da un’alterazione fisiologica, egli è pronto a cogliere il momento in cui l’irrazionale vince la ragione, distrugge la volontà, detta le azioni; pronto anche a mettere in rilievo il risveglio della coscienza, quando quelle azioni acquistano il peso angoscioso di misfatti e la responsabilità morale viene percepita in tutto il suo terribile significato: questo è il dramma di Giorgio, che, nella notte di Natale, con l’animo ‘bieco’ per lo struggente rimpianto della calda intimità d’affetti della famiglia e il tormento della malattia, avvicina una crestaia e gozzoviglia con lei. Si tratta di una ragazza traviata, brutta, avida, volgare: ma il sorriso dei suoi denti perfetti, simile a quello dell’Emilia, gli “aveva suscitata una gran tempesta nell’anima”. Infatti dalla morte della sorella, egli, con un senso di angoscia e di rimorso, è spinto a cercarne le più minute e fuggevoli somiglianze nelle donne incontrate casualmente; in quest’esasperazione l’affetto fraterno è profanato e lascia il posto a uno strano e torbido stato di orgasmo fisico e morale, “che senza scemare punto la memoria, toglie la responsabilità delle azioni”. Mentre la donna gli dorme sulle ginocchia, preso da una febbrile umiliazione e da un furente spirito di vendetta, spezza con un coltello uno dei denti della crestaia. Poi fugge lontano, ma, svanito l’orgasmo e ritornata la lucidità della ragione, è preso da un terribile rimorso, che aumenta con la malattia. Il parossismo del delirio e la morte avvengono secondo lo schema che abbiamo già conosciuto in Vade retro,
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Satana, ma il momentaneo oblio e il risveglio della coscienza sono qui più rapidi e più drammatici: Giorgio rivede la crestaia, venuta a reclamare quattrini, e la sua rassomiglianza con l’Emilia lo rasserena; ma, quando la donna sorride, l’orribile spazio nero al posto del dente spezzato gli richiama bruscamente la responsabilità delle sue azioni, ormai insostenibile e il giovane muore. Assai notevole è anche la figura della crestaia, presentata con rapidità icastica nelle prime apparizioni (“La ragazza a un tratto si volta con gli occhi sfavillanti e con le labbra aperte ad un gaio sorriso, che mostrava i denti bianchissimi; poi, accortasi di me, si stringe nelle spalle e via come saetta […]. Il dì seguente […] la vidi entrare nella porta di una casa e perdersi tosto nel buio fitto di un andito. Indi un tocco di campanella, e addio”183); l’avidità sfrenata, la corruzione e la miseria della sua vita e insieme una certa penosa gioia, un anelito di spensieratezza (la sciagurata ha solo diciannove anni) sono perfettamente messi in rilievo con un’assolutezza espressiva che ci mostra le possibilità di Camillo sulla linea del realismo. Anche Macchia grigia184 si presenta come lo studio di una psicologia esasperata e visionaria, che propone un’interpretazione ‘magica e misteriosa’ della realtà, diversa da quella gelida e razionale della scienza. I due piani sono qui più che altrove nettamente distinti: ma solo apparentemente lo scetticismo è rivolto alla scienza; in realtà la novella non si chiude con una specie di ‘così è se vi pare’, bensì con un preciso dimensionarsi del macabro come parte del rimorso. Il protagonista confida al suo medico il nuovo malanno che tormenta i suoi occhi: una macchia grigia disturba la limpidezza della visione, una macchia strana e mostruosa, che ogni tanto “si agita, s’alza, s’abbassa, s’allarga, s’allunga, caccia fuori de’ tentacoli da polipo, delle corna da lumaca, delle zampe da rospo, […] si contorce e si rimuta indecifrabilmente. È una cosa laida, una cosa volgare. Se si potesse annasarla, puzzerebbe. Sembra una larga pillacchera di fango; sembra una chiazza animata, una lacerazione purulenta che viva. È un orrore!”185. Eppure essa non è tanto una lacerazione della retina, quanto una lacerazione della coscienza dell’uomo: nel suo lucido delirio essa diventa l’immagine del cadavere di un vecchio pastore suicida, ch’egli ha lasciato morire, dopo avergli sedotto la figlia. Ma la rivelazione giunge solo alla fine, dopo che il protagonista ha narrato minuziosamente l’ambiente e le circostanze dell’incontro con Teresa, la figlia del pastore, e di quello con il vecchio disperato. Egli, come la contessa Livia nella novella Senso, come il protagonista de Il demonio muto, sente il bisogno di riandare colla memoria al punto dolente, di ricostruire la storia del suo rimorso, con la segreta speranza di risolverlo e di vederlo svanire nello studio oggettivo del caso: anzi la presentazione, graziosamente ironica, lascia trapelare codesta fiducia, ma il tono del racconto va via via facendosi sempre più cupo e drammatico col procedere della narrazione. Particolarmente felice la figura della fanciulla: anch’essa, come la Nene de Il maestro di setticlavio, è schiava dei sensi che si sono improvvisamente risvegliati in lei; ma Teresa non ha neppure la percezione della colpa, vive allo stadio quasi 183 Ivi, p. 191. 184 C. Boito, Senso, cit., p. 75; già pubblicata sulla Nuova Antologia nel dicembre del 1877. 185 Ivi, p. 78.
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animalesco e ferino: l’umanità sembra manifestarsi in lei sotto l’unica fattispecie del presentimento, matura con la passione e la tragedia, infatti Teresa muore quando l’amante l’abbandona. Come s’è già detto, la novella Il demonio muto,186 è considerata dal Ferrata una delle migliori della sua raccolta e, dal momento che il critico rigetta tutte le composizioni del Boito non riconducibili a un’esperienza ‘macabra’ e a una vena allucinata, è naturale che questa gli sia apparsa la prova migliore del nostro, perché in effetti si tratta della più originale del gruppo. Il Boito rinuncia qui ai forti contrasti delle scene drammatiche, che sono allontanate nel tempo ed emergono come da una stampa precisa ma un po’ sbiadita: la vicenda ‘eccezionale’ si scioglie in un’atmosfera di placida calma senile, nel gusto pittoresco dei paesaggi montani (“Me ne sto qui da un pezzo a guardare le montagne ed il cielo. Le curve ripide e rotte del monte di San Gottardo alla destra e dell’altro, che gli sorge di contro, pare si tocchino a’ piedi, tanto è stretta la spaccatura del Chiese. In mezzo a quelle due chine brulle d’un colore cupo rossastro si vede quasi orizzontale il dorso celestino di un monte lontanissimo”187), quello prezioso e un poco ironico degli interni e degli oggetti del vecchio palazzo: Le cose più belle in questo polveroso palazzo, dove le finestre mostrano ancora i loro vetri tondi, ondulati dal centro alla periferia, come fa un sasso quando si butta nell’acqua, dove i pavimenti paiono un mare in burrasca, sono le cose più vecchie […]. Poi ho quegli otto grandissimi ritratti nelle loro massicce cornici d’un oro diventato nero. […] La dama, ti ricordi?, con il guardinfante verdone e con una piramide rossa per acconciatura, che pare una bottiglia sigillata; […] e poi il Beato Antonio, il santo Missionario, il grande onore della Val Trompia […]. È pallido come un fantasma, magro stecchito, con gli occhi infossati e un sorriso sulle labbra da far ghiacciare il sangue.188
Un vecchio gentiluomo, giunto ai novant’anni, scrive al nipote, descrivendo il semplice e tranquillo svolgersi della sua esistenza, ormai all’estremo tramonto (e accanto a lui c’è la moglie, “una cara vecchietta tutta linda”, che quando lo chiama gli “fa bollire nelle vene un sangue da giovanotto”; questa volta il Boito ha saputo veramente cogliere la poesia della vecchiaia che corona una vita buona e onesta), abbandonandosi ai ricordi. Ma c’è qualcosa di non perfettamente limpido nella coscienza del vecchio; ma egli tuttavia aggira più volte l’argomento, trattandolo con ironia e scetticismo, prima di affrontarlo. Egli possiede una preziosa chitarra antica, che è giunta nelle sue mani in modo assai strano: lo strumento era stato sottratto da un gigantesco rogo, sul quale tanti e tanti anni prima, per esortazione del Beato Antonio, la gente del paese distrusse gli “strumenti del vizio”, “gli infami oggetti” che costituivano le armi del Demonio muto nel cuore dei penitenti. Non ho rimorsi, eppure un certo stringimento di cuore mi dice forse che c’è una macchia nella mia vita. Quando sono seduto al fuoco […] e vedo sulla parete di contro il ritratto del Beato Antonio, smorto, severo, minaccioso, mi sembra ch’egli apra le labbra ed alzi la mano per rimproverarmi qualcosa […]. Forse quell’oggetto di profano piacere, che io vagheggiavo, e che può avermi distolto spesso dalla contemplazione di Dio! Sì, quel maledetto strumento rubato da 186 Ivi, p. 207. Pubblicata sulla Nuova Antologia nel febbraio del 1877. 187 Ivi, p. 223. Vedi anche a pp. 214, 225, 242, 243. 188 Ivi, pp. 210, 211, 213.
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Giuliana Bertacchi un sicario e destinato al rogo, poi di nuovo rubato da una femmina iniqua. Certo, a quello sguardo, che scintilla fuor della tela, ci deve essere una profonda cagione. Don Antonio, bisogna ch’io ti plachi.189
Eppure, anche dopo la distruzione della chitarra, lo sguardo del Santo segue il pronipote “tenace, torvo, implacabile”: e questa è la prova che l’elemento misterioso e soprannaturale è visto dal Boito come frutto del turbamento e del rimorso. Anche la stessa novella Un corpo,190 che più si avvicina per l’argomento ai modi funerei e ossessivi del Tarchetti, se ne distacca sostanzialmente per la disposizione del narratore, lucida, sottile, spietata, per il mirabile gusto degli sfondi paesistici insieme precisi e magici, per la nuova realistica dimensione dei personaggi. Carlotta è la modella viennese amata dal pittore, che narra in prima persona e che l’ha ritratta quasi riplasmandone la bellezza (“poi sbalzavo presso a Carlotta e, inginocchiandomi davanti a lei e baciandole le mani, le dicevo: – Tu mi hai rivelato a me stesso: o questo lavoro è tutto tuo, o tu sei uscita dal mio cervello –”191). Il suo bellissimo corpo, descritto con una minuziosità quasi esasperante (“L’anima era da fanciulla, ma il corpo era da Dea. Il paragone con le statue greche può solo dare un concetto di quelle membra snelle, vigorose, di acciaio temprato. Somigliava alle Amazzoni, alle Diane cacciatrici di Scopa e di Prassitele; aveva anche le movenze delle Veneri callipigi, delle Veneri accoccolate, delle Ninfe sdraiate, di Psiche quando stringe Amore”192), è destinato a finire sul tavolo anatomico di un tetro e misterioso dottore, accanito intorno alla dimostrazione della materialità del pensiero. La fatalità della sorte di Carlotta è resa macabra da una rete di oscuri presentimenti, di rispondenze segrete per cui la fanciulla prova un morboso irragionevole terrore per tutto ciò che, anche di lontano, può insinuarle un pensiero di morte; il dottore prevede che sarà proprio lui a sezionare quel corpo meraviglioso, lo squallido scienziato porta quasi in se stesso l’immagine della morte: “La fisonomia indicava una placidezza concentrata e triste. Vidi poi che, nel parlare, il naso, disegnandosi in leggiera curva aquilina, dava a quel volto certa strana espressione di fermezza rigida e quasi sinistra.”193 Il pittore, allontanatosi dalla città per cercare un’oasi di pace in cui rifugiarsi con l’amante Carlotta, legge su un giornale viennese la notizia della morte di una bellissima sconosciuta: ritorna precipitosamente in città, e, dopo aver cercato furiosamente e ovunque la modella, in un’alternativa di speranze e di disperazione, ne trova infine il cadavere sul tavolo anatomico del dottor Gulz. Ma anche nei punti più scopertamente macabri si manifesta il controllo acuto e aristocratico dell’autore sulla materia quasi essa fosse un pretesto all’indagine psicologica. Il pittore cerca nell’obitorio: “Entrai. La imposta si serrò con gran fracasso dietro le mie spalle […] Le muraglie di pietra, brune ed umide, luccicavano, riflettendo il cupo lume lontano; il pavimento era bagnato.”194 Vede il cadavere di un giovane che “con i lucidi capelli neri, con le labbra socchiuse, che lascia189 190 191 192 193 194
Ivi, pp. 243–244. Composta nell’aprile del 1870. C. Boito, Storielle vane, cit., pp. 1 e sgg. Ivi, p. 21. Ivi, pp. 6–7. Ivi, p. 13. Ivi, pp. 48–49.
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vano vedere la bianchezza dei denti, con la fronte alta e aperta, pareva tuttavia ancora piena di pensieri”. Così il Boito descrive un momento di sollievo del pittore: “il sangue tornava a scorrermi nelle vene, le membra si rianimavano, e nel cervello mi si accendeva una forza nuova, allegra, prepotente […] mi rizzai, credetti di diventare gigante. Le speranze piombavano entro il cavo dell’anima mia, come un torrente che precipiti dall’alto gorgogliando.”195 A ben vedere l’interesse dell’autore è assorbito dalla bellezza di Carlotta, così miracolosa da ispirare nell’amante e nella ragazza stessa l’oscuro presentimento del suo prossimo e inevitabile dissolversi: “Carlotta aveva mutato umore, sembrava preoccupata da qualche uggioso pensiero, guardava distrattamente, sorrideva poco.”196 Questa potrebbe essere una nota quasi elegiaca, se la spietata analisi boitiana non la inserisse in quel lucido e implacabile atteggiamento di distacco con cui l’autore avverte e considera la labilità di tutte le cose; così scompare la disperazione per la perdita della donna amata: Mentre il dottore parlava, io tenevo gli occhi fissi nella morta. Le braccia diritte lungo i fianchi, le mani poggiate sul marmo col rovescio, le gambe unite, la testa un po’ indietro, la bocca socchiusa, gli occhi spalancati, i capelli cadenti giù dalla metà del lato posteriore della tavola: simmetria lugubre, ghiacciata, vana. Quel corpo non mi diceva più nulla.197
La fragile ed effimera bellezza di Carlotta trae risalto dallo sfondo vivace e nello stesso tempo trasognato del Prater viennese: Di quando in quando si svincolava dal mio braccio per fuggire sull’erba verde di que’ bei prati del Prater. Talvolta le correvo dietro, ed ella mi scansava, girando intorno all’enorme tronco di una quercia, o sbalzando da ogni parte con salti da gazzella; talvolta la lasciavo andare, ed ella allora, vedendosi lontana, si fermava, si sdraiava sull’erba e m’aspettava ansando. […] Facendo puntello delle braccia, ella rovesciava indietro il corpo flessuoso, che s’incurvava come l’ansa di un vaso greco […]. Eravamo infatti soli soli in quell’angolo del parco, e i raggi della luna cominciavano a vincere la luce rossastra del crepuscolo. Di lontano s’udiva una grande allegria di suoni e di canti. […] Attraverso le frondi si vedeva accendersi un lume, poi un altro, poi un altro ancora, e via via, finché gli alberi disegnarono la loro forma nera sopra un gaio incendio di luce gialla.198
La figura di Carlotta ha la freschezza e la semplicità della creatura che vive della propria bellezza, con una divina sicurezza nell’incedere e negli atteggiamenti (Carlotta è in questo senso accostabile alla contessa Livia). Il Croce,199 che lesse questa novella, notò soltanto la gentile soavità della protagonista, ma in verità il Boito, pur esaltandone l’esteriore armonia, dipinge spietatamente in lei la creatura chiusa nel suo mondo di senso, attaccata alla vita, tesa ad un godimento puramente corporeo e destinata a diventare una simmetria lugubre, ghiacciata, vana, inutile e vuota anche per l’amante. L’attenta lettura della novella Un corpo rivela quindi che il realismo di Camillo Boito è ben diverso, anche se presenta affinità di argomenti, da quello della Scapigliatura, “orrendo” alla maniera di Arrigo (“e non trovando il Bello, ci 195 196 197 198 199
Ivi, p. 50. Ivi, p. 9. Ivi, p. 55. Ivi, p. 3. Cfr. B. Croce, La letteratura della Nuova Italia, cit., p. 327.
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abbranchiam all’Orrendo”), o spettrale, alla maniera del Tarchetti. Esteriormente il realismo di Camillo bene si accorda al positivismo allora imperante, per il distacco del narratore dalla materia trattata, per l’analisi continua, per l’attenzione fissa alla sensazione, considerata la chiave di tutta la vita spirituale, ma il suo significato più profondo va ricercato in un’amara esperienza umana; con essa, e non con l’esempio degli Zola, dei Flaubert, dei Maupassant, si giustificano certi tratti di crudo verismo delle Storielle vane. Senso e Il maestro di setticlavio Abbiamo notato, analizzando le Storielle vane, come la vera vocazione narrativa di Camillo Boito lo chiamasse al realismo, inteso come superiore e aristocratico controllo sulla materia trattata e come ricerca psicologica rivolta alle forze più elementari e ineluttabili della vita umana, quelle del senso. Anche gli oscuri drammi che sconvolgono le coscienze e creano le allucinazioni erano stati indagati con continua e precisa evidenza realistica e qualche volta i personaggi minori erano venuti alla ribalta con tutto il peso della verità e della concretezza (si pensi alla ragazza traviata di Notte di Natale, e a Teresa di Macchia grigia), in Senso i vari aspetti della sensibilità veristica del Boito si compongono in perfetta unità. Senso200 non è solo una delle più belle, ma è anche la più celebre novella del Boito (l’interpretazione cinematografica che di essa diede Luchino Visconti nel 1955, alla quale essa deve gran parte della sua popolarità, non ne diffuse certo, come s’è visto, un’immagine fedele, soprattutto per i significati patriottico-sociali che il regista ha creduto di far assumere ai personaggi, i quali invece vivono, soffrono e si agitano, tutti chiusi nel loro egoismo sensuale). La novella è la storia di una passione vergognosa e al tempo stesso il minuzioso studio di un caso psicologico. La bella contessa Livia, giunta ormai al trentanovesimo anno d’età, si abbandona a confessare a uno scartafaccio segreto i suoi casi di “sedici anni addietro”, ai quali va “ripensando con acre voluttà”, e cerca in tal modo di far tacere un oscuro nodo di rimorso, attorno al quale involontariamente gravita il suo pensiero. Essa guarda dentro di sé con spietato cinismo: Così il mio spirito nell’umiliarsi si esalta. Sono altera di sentirmi affatto diversa dalle altre donne […], c’è nella mia debolezza una forza audace; somiglio alle Romane antiche, a quelle che giravano il pollice verso terra, a quelle di cui tocca il Parini in una ode…, non mi rammento bene, ma so che quando la lessi mi sembrava proprio che il poeta alludesse a me!201
La figura di Livia è, come dice il Nardi,202 saldamente fusa in un metallo unico, aliena da qualsiasi interesse che non sia l’esigenza del senso, su cui si fonda la sua coerenza psicologica. Giovane e bellissima, aveva sposato un vecchio e ricco conte per puro calcolo (“Ce ne vollero delle occhiate per accendere il cuore nel gran ven-
200 Non si conosce la data esatta di composizione, ma essa si può collocare intorno al 1880–1881. 201 C. Boito, Senso, cit., p. 251. 202 P. Nardi, Camillo Boito, cit.
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tre del conte”203), ed era ben presto diventata il centro della società fastosa ed austriacante di Venezia negli anni precedenti alla seconda guerra di indipendenza. Livia come Carlotta viveva della sua bellezza, ma senza la giovanile ingenuità di questa, bensì con un fondo di torbida perversione: Perfino le donne mi fissavano in volto, poi mi ricercavano giù giù sino ai piedi, ammirando. Sorridevo come una regina, come una dea. Diventavo, nella contentezza della mia vanità, buona, indulgente, familiare, spensierata, spiritosa: la grandezza del mio trionfo mi faceva quasi apparire modesta […]. Venezia, che non avevo mai vista e che avevo tanto desiderato di vedere, mi parlava più ai sensi che all’anima; i suoi monumenti […] mi importavano meno dell’acqua verde, del cielo stellato, della luna d’argento, dei tramonti d’oro, e soprattutto della gondola nera, in cui, sdraiata, mi lasciavo andare ai più voluttuosi capricci della immaginazione. Nel calori gravi di luglio […] il ventolino fresco mi accarezzava la fronte […] quello zeffiro […] pareva che bisbigliasse nelle mie orecchie i misteri fervidi dell’amor vero. Cacciavo nell’acqua sino al gomito il braccio nudo […]; e guardavo poi cadere una ad una dalle mie unghie le gocciole somiglianti a brillantini purissimi.204
Essa s’innamora del Tenente Remigio Ruz: “forte, bello, perverso, vile, mi piacque.”205 Livia è consapevole della bassezza morale di Remigio, ma ne gode: “anzi la perfetta virtù mi sarebbe parsa scipita e sprezzabile al paragone de’ suoi vizii […]. Quanto più il suo cuore appariva basso, tanto più il suo corpo splendeva bello”. Anche nel ricordo, la contessa Livia si sente legata alla bassezza dell’amante, che diventa – come dice il Bassani – quasi un complice della sua abiezione. Ma Remigio l’ama soltanto perché può trarne quattrini; grazie ad un generoso donativo della donna può evitare il fronte, riuscendo a corrompere i medici, che dichiarano una fasulla inabilità per ragioni di salute. Remigio rimane a Verona, mentre la contessa è a Trento. Ma Livia non resiste alla smania di rivedere l’amante, corre a Verona e, dopo un terribile viaggio, sorprende il tenente tra le braccia di un’altra donna, che egli proclamava mille volte più bella di lei. La ragazza che Livia trova con Remigio è spietatamente rappresentata in tutta la sua sguaiataggine volgare, eppure anche lei, come e forse più della donna di Notte di Natale, suscita un senso di pena, perché la vita corrotta non ha spento del tutto la gioventù e le illusioni; essa vuole credere che l’ufficiale le sia legato almeno da un barlume di amore. La contessa si rifugia in un caffè e decide di denunciare Remigio affinché sia fucilato come disertore:
203 C. Boito, Senso, cit., p. 253. La bassa e volgare natura di quest’uomo è messa implacabilmente in rilievo dalle spietate parole di Livia: “Per mio marito, che avrebbe potuto essere mio nonno, sentiva una indifferenza mista di pietà e di sprezzo: […] si tingeva i radi capelli e i folti baffi con un unguento puzzolente, il quale lasciava sui guanciali delle larghe macchie giallastre. Del rimanente, […] inclinato alla crapula, bestemmiatore all’occorrenza, fumatore instancabile, aristocratico burbanzoso, violento verso i timidi e pauroso in faccia ai violenti, raccontatore vivace di storielle lubriche, che ripeteva a ogni tratto […]. Si pavoneggiava nel tenermi al suo braccio, ma guardava le donnette facili, che passeggiavano accanto a noi nella piazza di San Marco, con un sorriso d’intelligenza lasciva.” (p. 252). 204 Ivi, pp. 255–256. 205 Ivi, p. 256.
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Giuliana Bertacchi A queste parole l’idea [di uccidere Remigio], che già mi stava in nebbia nel cervello, splendette di vivissima luce; avevo trovato, avevo risoluto. […] Le vampe che mi salivano al capo m’obbligarono a togliere del tutto il velo dalla faccia; bruciavo: chiamai perché mi portassero dell’acqua. Gli ufficiali, che allora s’accorsero di me, mi furono tutti attorno. – O la bella donna! – Ha bisogno di qualcosa? – […] – Possiamo tenerle compagnia? […] – Occhi stupendi! – Labbra da baci!206
Essa vendica con la morte di Remigio più che il proprio amore tradito l’insulto che colui aveva fatto alla gelosa religione della propria bellezza. Il racconto rivela la maturità dell’arte boitiana anche per la solidità della struttura e l’esattezza delle proporzioni, per la prosa dimessa e parlata, aderentissima alla psiche complicata e torbida della protagonista. L’imparzialità assoluta dello scrittore tuttavia ci fa sentire tutto il peso della condanna morale per questa donna abbietta che, chiusa nel basso mondo dei sensi, cerca di addormentare l’oscuro rimorso, buttandosi tra le braccia di un ridicolo e meschino spasimante: L’avevo detto io che l’avvocatino Gino sarebbe tornato. Bastò una riga: Venite, faremo la pace, perché capitasse a precipizio. Ha piantato quella bamboccia della sua sposa una settimana innanzi al giorno destinato pel matrimonio; e va ripetendo ogni tanto, stringendomi quasi con la vigoria del tenente Remigio: – Livia, sei un angelo!207
La novella Il maestro di setticlavio208 rappresenta davvero il coronamento della carriera di narratore del Boito: in essa il gusto del caso psicologico, sempre scrutato con superiore sguardo indagatore, l’attitudine alla descrizione attenta e risentita, il rilievo dato alle forze trascinanti del senso, la vicenda d’amore, di morte e di pazzia, si compongono nel paesaggio di Venezia, che è insieme reale e fuori dal tempo, come quello che corrisponde più a una rievocazione che alla descrizione diretta. E infatti il Boito dovette qui trasfigurare artisticamente scene, atmosfere e personaggi della sua fanciullezza, quando nella città lagunare egli frequentava la scuola di canto corale tenuta da quel Luigi Plet, che forse rivive nella figura del maestro Chisiola. Osserva giustamente il Bassani: “Il campo del quadro è affollato ma armonioso in ogni sua parte, come in un microcosmo perfettamente organizzato e sufficiente a se stesso. A tutta prima, si prova un’impressione quasi macabra, come se assistessimo ad una rappresentazione di maschere.”209 Ma poi, avvicinandosi ad esse, ci accorgiamo che ognuna ha il suo peso, la sua verità. Meno bene il Bassani parla dell’insolita molteplicità di personaggi minori, infatti il Boito amò “affollare” le sue novelle di figurine, ritratte con vivace gusto icastico. La storia è ambientata nella seconda metà del secolo scorso: il paesaggio della città dei dogi, tanto cara al Boito, è colto e descritto nei suoi aspetti meno facili e consueti: l’orto del Chisiola, il giardino alla Giudecca, la squallida stanza di Mirate alla Frezzeria, le fondamenta delle Zattere sono immagini che non si dimenticano facilmente. Annibale Chisiola, un lindo e dolce vecchietto, vive con la gentile e 206 Ivi, p. 295. 207 Ivi, p. 302 208 C. Boito, Storielle vane, cit., p. 227. Fu pubblicata sulla Nuova Antologia nel dicembre 1891 ed è quindi, anche cronologicamente, l’ultima novella di Camillo. 209 G. Bassani, Introduzione a Il maestro di setticlavio, cit., p. 75.
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modesta nipote Nene in una casa altrettanto linda e riposante. Egli è insegnante titolare del coro della cappella di San Marco e a questa attività si dedica con amorosa cura: la sua vita si svolge appunto tra l’insegnamento del canto e l’educazione della nipote, che il maestro circonda di un’adorazione gelosa. Ma il ‘soprano’ del coro, una losca figura di trafficante e di strozzino, la ritiene la sposa ideale del giovane Mirate (amorale e animalesco come il Remigio di Senso), promettente tenore, ex-barcaiolo, sfrontato dongiovanni, di cui il ‘soprano’ s’è improvvisato impresario, contando sui lauti interessi futuri. Perciò, convinto a fatica il Mirate dell’opportunità di tale matrimonio, incarica il basso Luigi Zen (allievo e collaboratore del Chisiola, fanatico sostenitore dell’antico metodo di lettura musicale detto appunto del setticlavio, di cui il Chisiola è l’unico insegnante rimasto) di chiedere al vecchio maestro la mano della nipote per conto del Mirate. Quando il vecchio rifiuta, Mirate, offeso nel suo basso amor proprio, decide a freddo di sedurre la nipote, che gli cede facilmente: la scena, che si svolge durante un temporale, è sapientemente orchestrata e potentemente drammatica, pur nella contenutezza del discorso. Il Boito non cede ai facili effetti, alle forti tinte; ma pur nel tono distaccato e controllato, ci fa sentire tutta la sua tristezza: Intanto Nene, che aveva le fiamme al viso, si era alzata, umida di sudore, e al braccio di Mirate, girando nei pergolati più tranquilli, s’allontanava. Uscirono dal cancello posteriore, che non metteva sulla via, ma in un campaccio disabitato. S’avanzarono nelle tenebre e nel silenzio sull’erba alta: Nene traballava. Il cielo s’era annuvolato […]. Un gatto si cacciò fra i piedi della fanciulla, scappando; ella cadde sull’erba. – Hai paura? – le domandò il tenore. – No – rispose Nene, e gli stese le braccia, perché la rialzasse. Il vento, che fischiava stava spegnendo le candele sui deschi […] e faceva scappar la gente, quando Nene, sul cui volto un triste pallore aveva sostituito il rosso acceso di prima, tornò alla tavola con Mirate.210
Mirate tuttavia non l’ama: ottenuto il suo scopo, non pensa che a disfarsi dell’incomodo legame e, di nascosto, si allontana da Venezia al seguito di un impresario spagnolo; la Nene, così cinicamente abbandonata, impazzisce e muore di dolore. Il dramma di Nene è ancora una volta determinato dall’esplodere della forza del senso, ma la ragazza, a differenza della contessa Livia, è una vittima inconsapevole che ispira pietà: solo quando viene abbandonata da Mirate, sente fino in fondo lo squallore della sua vicenda e non può sopravvivere a tanto strazio. Essa ha trascorso con limpida tranquillità quegli anni dell’adolescenza nell’atmosfera casta e placida, che la casa del nonno le offriva, pienamente appagata da quel genere di vita: Ella non mancava mai alle funzioni cantate di San Marco […]. Conduceva il nonno fino a’ piedi della scaletta, che sale alla cantoria; poi se ne andava dritta dritta, a passi corti e frequenti, nella cappella a sinistra dell’altar maggiore, e si metteva a sedere in un angolo buio, raccogliendo le vesti per occupare il minor spazio possibile, tenendo il libro di preghiere aperto sulle ginocchia, e rimanendo con gli occhi bassi, finché il nonno, dopo la messa cantata […] non andava a pigliarla, camminando tale e quale come lei a passetti solleciti e uguali.211
210 C. Boito, Storielle vane, cit., p. 273. 211 Ivi, p. 236.
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Notiamo come il Boito traduce, con sensibilità di narratore, la psicologia nel gesto e nell’atteggiamento: i “passetti solleciti e uguali” del vecchio e della Nene ci suggeriscono subito una condizione di vita limpida, calma, semplice. Ma il suo orizzonte spirituale è inevitabilmente chiuso e torpido: “era giunta fino ai diciott’anni senza avere mai guardato dentro nel proprio animo […]. La prima volta che Nene scrutò nel proprio petto, vi trovò una immagine d’uomo profondamente impressa, la quale non le ragionava rispettosa di matrimonio […], ma parlava sfacciatamente di ardori ancora vaghi e oramai irresistibili.”212
La fanciulla si ritrova mutata: Passeggiava nell’orto, anche durante le ore più infuocate di quell’estate caldissima, sbadigliando, aspirando con le larghe narici del naso leggermente camuso gli effluvi acri e salsi del vicino canale, ed i profumi dei fiori, mezzo disseccati nei loro vasi, perché ella non curava più di mondarli né di adacquarli. Non le piaceva l’olezzo delicato della vaniglia […] preferiva, da poco, l’odore inebbriante della gardenia, del garofano, della tuberosa.213
E compie un gesto che descrive pienamente la sua nuova situazione psicologica: “Una mattina di buon’ora, facendo fischiare in aria una sottile vermena di salcio, quasi volesse staffilare qualcuno, spiccò netto dallo stelo il grande fiore di un giglio.”214 Ma alla dolorosa vicenda di Nene e del vecchio nonno, travolto con lei, si mescolano e s’intrecciano quelle, descritte con un piglio amaro e ironico, del ‘soprano’, completamente rovinato dalla fuga del protetto, e del basso Zen, che si riduce in manicomio per la delusa passione del setticlavio: Due giorni appresso, chiuso nella camicia di forza, fu condotto al manicomio nell’isola di San Servilio. Lì a poco a poco riacquistò le maniere schiette di prima, il suo buon umore e la vecchia passione del setticlavio. Era incanutito, ma ingrassava […]. Aveva scelto fra i suoi compagni i meno malinconici, e s’affaccendava nell’insegnar loro a solfeggiare e a cantare. Le sale, i corridoi e il giardino echeggiavano spesso di voci, che ripetevano per ore ed ore: Do Re, Do Mi, Do Fa, Do Sol, Do Si. Il maestro […] batteva il tempo; e negli urli dei nuovi scolari udiva le più soavi armonie, i più stupendi cori, le più perfette fughe, una musica da paradiso. Non c’era uomo più felice di lui.215
L’esperienza letteraria di Camillo Boito si svolge quindi nell’ambito del realismo, ma ben diverso da quello ‘orrendo’ o ‘spettrale’ della Scapigliatura. Anche se esso può trovare un addentellato storico nel positivismo allora imperante, dobbiamo escludere per il nostro una passiva accettazione delle mode del tempo, perché, come è stato mostrato, lo svolgimento della sua esperienza umana e letteraria lo conduceva al verismo. Abbiamo infatti riscontrato nel Boito ‘riflessivo’ (quello dei diari di viaggio e della critica d’arte) una posizione di fronte alla vita tanto disincantata da apparire spesso ironica e qualche volta rinunciataria, e questo era l’atteggiamento e anche il problema dell’uomo; quando poi tale atteggiamento si oggettiva in pura narrazione, scompare il professore che, cercando di cogliere la realtà attra212 213 214 215
Ivi, pp. 247–248. Ivi, p. 250. Ibid. Ivi, pp. 301, 302.
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verso le squisitezze letterarie, faceva sorridere l’uomo, o meglio l’artista: rimane l’artista, che rappresenta la vita nelle sue forze più elementari e ineluttabili, salvo poi a immergere i personaggi, ridotti all’unica componente sensuale, in un’atmosfera ‘magica’ e trasognata quasi fuori dal tempo, di nuovo venata di una superiore ironia, che conferisce loro un suggestivo alone e ne ammorbidisce la struttura implacabilmente monocorde. È il caso de Il maestro di setticlavio, la più bella prova del nostro e una delle più belle dell’Ottocento minore. CAPITOLO V LA POSIZIONE DEL BOITO NELLA NARRATIVA DEL SUO TEMPO Scorrendo le notizie biografiche e le più varie testimonianze su Camillo Boito, si nota subito che amici, allievi, critici del suo e del nostro tempo, per parlare di lui, usano con molta larghezza l’aggettivo aristocratico, e non certo soltanto per i ricchi e vaghi blasoni di nobiltà della famiglia materna, ma soprattutto per lo spirito di Camillo, veramente nobile e superiore alla meschinità, per l’autodominio, raggiunto con una severa disciplina introspettiva, per l’indole schiva e ‘modesta’. Questo carattere, in un certo senso, si può riscontrare anche nella produzione letteraria che, come sì è detto, si svolge sotto il segno di una sostanziale indipendenza dai movimenti e dalle correnti dell’ultimo Ottocento: egli, attento e curioso osservatore del suo tempo, può al più trarre dalle contese letterarie echi e spunti, che svolge però secondo un procedimento personale e autonomo. I rapporti con la Scapigliatura È innanzitutto da escludere l’inserimento di Camillo Boito nella Scapigliatura: l’accostamento può venire fatto sulla base di una certa analogia tematica di alcune novelle, per ragioni esteriori di ambiente, di cronologia, di legami, perché Camillo visse e operò nella Milano degli scapigliati; ma la sua formazione mentale e artistica fu indipendente, al di fuori e al di sopra delle antinomie inquietanti, delle ricerche esasperate di forma e di linguaggio. La critica e la storiografia letteraria si trovano ormai d’accordo nel raggruppare gli scapigliati sulla base della somiglianza, spesso esaltata dall’amicizia, dagli atteggiamenti esteriori, polemici e antiborghesi, ancor prima di considerare l’affinità delle poetiche e delle opere; ora nella vita attiva e costruttiva di Camillo non è dato trovare alcun aspetto di reazione antiborghese o di sregolatezza, più o meno sentita; la sua stessa posizione critica, che lo conduceva alla demolizione di tanti idoli (soprattutto nel campo dell’architettura), non si esauriva nella negazione, ma era volta a difendere un nuovo contenuto, un ideale di intelligenza e razionalità costruttiva. Quindi in nessun modo la vita di Camillo Boito può richiamarci quella degli scrittori e degli artisti della Scapigliatura; lo stesso Arrigo, pure così staccato e estraneo allo spirito conviviale di una certa Scapigliatura ‘viscerale’ – come dice il Ferrata – non fu del tutto esente dagli atteggiamenti ribelli; basti pensare a qualche sua intemperanza giovanile, alla natura di certe amicizie e consuetudini, come quella che lo legò al Praga.
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Ancora una volta mi pare significativo sottolineare il fatto che Arrigo abbandonasse definitivamente il culto ‘baudeleriano’ della cannabis indica, quando venne sorpreso dal fratello nello stato di delirio. La sola presenza di Camillo era bastata a riportarlo a una sana e più sincera dimensione di vita. Infatti Camillo condannò direttamente il costume di vita di tanta parte della Scapigliatura, come leggiamo nell’Introduzione a L’anima di un pittore: L’uomo che, imitando il Musset o altri meno grandi e più dissoluti canta di donne infami, di lascivie, di vino, di crapule, di bordelli, comincia, un po’ perché vuole studiare al naturale gli argomenti suoi, un po’ perché si vergogna di sembrare ciarlatano di peccato, a lasciarsi andare alla vita lubrica, avvezzandosi lo stomaco ai liquori, appiccicandosi mille malanni, e morendo giovane, non per causa delle passioni, né di una brutta indole viziosa, ma per cagione di una affettata scostumatezza, presto, s’intende, diventata natura.216
Per una fondamentale esigenza di chiarezza e sincerità, il Boito rifugge dall’eccesso e dall’esaltazione anche nel campo letterario; non vuole che la posa letteraria diventi artificiosamente vita, ma che la vita diventi materia di letteratura e di poesia. La società e le consorterie di qualsiasi genere non attiravano certo la simpatia di Camillo, che temeva sempre gli artifici e i conformismi, capaci di soffocare le qualità dello spirito individuale, perciò giudicava con tanta severità le opinioni letterarie della pedantesca società raccolta attorno al salotto della contessa Maffei, ma non indulgeva certo neppure agli atteggiamenti ‘maledetti’, che poi finivano per diventare vere ma sterili e insensate sofferenze; e accomunava in un unico giudizio negativo le varie scuole letterarie che, in un senso o nell’altro, diventavano accademie, vuote di veri valori vitali. La pagina citata prosegue così: All’incontro ecco il Manzoniano biondo, Manzoniano così per modo di dire, ché non vorrei sembrare poco reverente alla memoria dell’insigne lombardo: si compiace di ripetere il sonettuccio alle comari di casa, ridice con garbo alla sua buona compagnia di parenti la lezione dettata il giorno innanzi in iscuola, canta il talamo, la culla, gli usignoli, i gigli, e se gli sfugge una parola audace, si batte il petto.
L’animosità contro i manzoniani poteva essergli suggerita dall’ambiente della Scapigliatura, ma non è da escludere che il giudizio negativo sia, come si diceva, dettato soltanto dalla diffidenza verso l’accademismo delle scuole letterarie; in ogni modo nell’inciso che esclude la presa di posizione contro il Manzoni, l’ironia non ha parte, infatti, se gli scapigliati scagliavano volentieri i loro strali contro il “casto poeta che l’Italia adora”, il nostro invece dovette stimare e studiare molto il modello manzoniano, il cui influsso si riflette nel carattere analitico dello stile boitiano. Escludere Camillo Boito dalla Scapigliatura non vuol dire però negare ogni rapporto con essa: in primo luogo l’esigenza di rinnovamento che sta alla base del ‘terzo romanticismo lombardo’ fu pienamente condivisa dal nostro che dovette guardare con simpatia i nuovi esperimenti letterari, ma tuttavia, evitando gli eccessi, egli giunse a un nuovo equilibrio, svolgendo le novità sulla linea di un reali216 C. Boito, L’anima, cit. pp. 19–20. Non si dimentichi che morirono alcolizzati il Rovani, l’Arrighi, il Praga; logorato dalla vita irregolare il Tarchetti, suicidi il Pinchetti e il Camerana. Sono noti i versi di Arrigo: “Torva è la Musa: per l’Italia nostra corre levando impetuosi gridi una pallida giostra di poeti suicidi”.
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smo sempre attento e controllato, capace di esprimere ogni sottile sfumatura psicologica. I temi macabri di certe novelle, come abbiamo mostrato nell’analisi, non sono dovuti alla vena allucinata o alla sensibilità esasperata, perché non si risolvono mai in una specie di racconto del terrore alla Poe, né di viaggio nel soprannaturale fantastico alla Hoffmann; il Boito parte da quei temi non per dimostrare “le réel du fantastique”, ma per indagare spietatamente e lucidamente la condizione abnorme, da cui nasce l’irrazionale fantastico. Non è vero che nei racconti dell’età giovanile, come in Notte di Natale, spunti lo scapigliato che “nel bacio della crestaia sente lo scricchiolio dello scheletro”,217 c’è invece lo scrittore dalla ricca e sottile esperienza psicologica, che mostra il progressivo allentarsi delle leggi della ragione e della volontà nel delirio della malattia morale e fisica. Il protagonista di Un osso di morto,218 la celebre novella del Tarchetti, dopo essersi illuso di aver vissuto soltanto in sogno l’incontro col fantasma inquieto in cerca della sua rotula, trova con orrore il nastro nero, lasciato dallo spettro, che sì è ripreso la funebre spoglia; e ciò significa che l’irrazionale demoniaco è rappresentato come entità sussistente, mentre nelle Storielle vane il soprannaturale è visto come prodotto della coscienza turbata e alterata: è il rimorso che crea la macchia grigia, che fa assumere un oscuro senso di terribile minaccia agli occhi del Beato Antonio, effigiato sulla vecchia tela, al dente mancante della crestaia. L’unica novella in cui il Boito si abbandona, almeno apparentemente, al macabro, è Un corpo, ma anche in questo caso l’analisi ha notato il distacco dell’autore dalla materia: in fondo l’interesse dell’autore è rivolto alla meravigliosa e effimera bellezza di Carlotta, alla ineluttabilità della morte e al rifluire incessante della vita, assai più che alle corrispondenze misteriose e agli oscuri legami tra la modella e il sinistro dottor Gulz. Anche da queste considerazioni si rivela il temperamento ‘classico’, fondamentalmente sano e equilibrato del nostro; se mai l’inquietudine sottile, l’ironia, lo scetticismo nascono da una condizione umana attuale e concreta, non da torbidi e ossessionanti conflitti romantici o decadentistici. Inoltre, per i procedimenti stilistici, come si vedrà in seguito, il nostro segue una linea personale, indipendente dalla Scapigliatura. Ma forse il motivo più profondo del distacco tra Camillo Boito e gli scapigliati è da ricercarsi sul piano della cultura: le Storielle vane meritano di essere studiate non solo per i loro effettivi valori narrativi e poetici, ma anche per il sostrato culturale sul quale appoggiano, esse vanno viste come il frutto dell’esperienza varia e cosmopolita del nostro, che supera per ampiezza di visione e di formazione il provincialismo ottocentesco.219 Nonostante le ancora incerte e spesso combattute posizioni critiche sul valore e la portata di novità e di modernità della Scapigliatura, è ormai acquisito che alla sincera ma vaga esigenza di europeizzare la vita letteraria del tempo corrispose una 217 La frase è di E. Colombo, in: Racconti della Scapigliatura, cit., p. 48. 218 Dai Racconti fantastici. Si trova anche a p. 29 nell’antologia del Ferrata. 219 Cfr. Sergio Rossi, Edgar Allan Poe e la scapigliatura lombarda, in Studi americani, 5 (1959).
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inadeguata base culturale ancora troppo legata all’ambiente provinciale e incapace di seguire gli stimoli di ribellione, di dare cioè un contenuto nuovo e positivo al movimento polemico e al fermento di novità. Leggendo le pagine di prosa e le liriche di questi scrittori e paragonandole ai grandi modelli a cui essi si ispirarono, anche a prescindere dai risultati effettivi sul piano della poesia (troppo grande è la distanza tra la ‘statura’, la qualità dell’ispirazione, la genialità insomma degli uni e degli altri perché si possa instaurare un confronto in questo senso220), noi possiamo apprezzare il gusto nuovo di certe immagini, di certe riflessioni, di certi impasti lessicali; ma percepiamo immediatamente un senso di ristrettezza, di occlusione, sentiamo il peso del provincialismo; il ‘maledettismo’ degli scapigliati è di seconda mano e la città del panettone (come dice argutamente il Gadda) trasforma il fischio di Mefistofele in una chiamata di brumista.221 Ora, salvo rare eccezioni, nella produzione narrativa di Camillo si respira un’aria ben più libera rispetto alle composizioni degli autori che in genere gli si accostano; la stessa novella che più si avvicina alla tematica della Scapigliatura, Un corpo, spicca proprio per la maggior larghezza di orizzonti, di ambienti, di elementi. Con questo non si vuol certo insinuare una importanza europea di Camillo Boito, si vuole soltanto additare una caratteristica della sua personalità e un non trascurabile elemento di differenza tra il nostro e gli altri minori dell’ultimo Ottocento. Ci sono scrittori che affrontano il mestiere letterario di petto, con il bagaglio vivo dei loro umori, dei loro risentimenti, delle loro passioni e solo in un secondo tempo filtrano il materiale umano in una più raffinata trama stilistica; in altri invece il gusto letterario, la suggestione per i motivi culturali è anteriore alla realizzazione pratica e originale del proprio ingegno (e anzi qualche volta la ritarda). Camillo Boito appartiene a quest’ultima schiera, così che si sente anche nella produzione narrativa vera e propria l’influsso della cultura, dei vasti studi, dei vasti interessi, influsso che ne alimenta il carattere europeo.222 220 Basta confrontare il principio di affinità delle arti, così come fu teorizzato e messo in pratica dal Rovani e come fu invece realizzato dai grandi decadentisti europei: “per il Rovani e gli altri scapigliati questo si esercita in una zona oggettiva e formale, con ingenui scambi di tecnica […] non sull’essenza misteriosa e onirica in cui affonda e si dissolve la vita dello spirito” (cfr. A. Romanò, Il secondo romanticismo lombardo e altri saggi, Milano, Fabbri 1958). 221 Cfr. C. E. Gadda, La scapigliatura milanese, in L’illustrazione italiana, 24 luglio 1949. 222 Il carattere europeo della cultura è comune anche ad Arrigo: non è pura congettura che il più giovane dei Boito sia stato spinto su questa strada dal fratello maggiore. Comunque si giudichino i risultati, sia nel campo poetico che in quello musicale, rimane ad Arrigo il merito di aver proposto all’attenzione della cultura italiana motivi di Byron, De Vigny, Hugo, Baudelaire e di aver fatto conoscere Saint-Saëns, Berlioz, Weber. Allo stesso modo Camillo entrò in corrispondenza polemica col Ruskin e il Viollet-Le-Duc e, sia pure in un campo specifico, quello del restauro architettonico, ebbe una funzione veramente europeizzatrice, tant’è vero che, come s’è mostrato, gli studiosi del nostro tempo proseguono ancora sulla linea del suo insegnamento. Le lettere di Arrigo al Bellaigue ci fanno entrare nel vivo degli avvenimenti musicali non solo d’Italia, ma anche d’Europa; forse le lettere di Camillo all’architetto italo-portoghese Alfredo D’Andrade, ora irreperibili, avevano lo stesso carattere per ciò che riguarda l’architettura (cfr. L. Angelini, Alfredo D’Andrade, in Emporium, 1916, p. 79).
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Il realismo Il carattere realistico delle Storielle vane risulta subito evidente, eppure anche qui non si può parlare di appartenenza a un gruppo o a una scuola, né di una chiara coscienza della nuova fede letteraria; dobbiamo limitarci a notare ancora una volta come il realismo fu per Camillo la ‘soluzione personale’ di un problema individuale. L’analisi delle novelle ha mostrato come il realismo delle Storielle vane sia indipendente dai modelli francesi (anche se probabilmente il nostro conosceva Zola, Flaubert, Balzac), ma sia venuto maturando direttamente nell’operosità letteraria, sia scaturito dalla posizione critica e disincantata nei riguardi della società borghese (e rimando per questo alle considerazioni conclusive sul primo gruppo di novelle). Non si trattò quindi di una moda, ma di una vocazione, che tuttavia non si manifestò subito con immediata spontaneità, bensì nacque dalla decantazione progressiva della complessa ispirazione boitiana di fronte a un più urgente problema psicologico e a un più drammatico caso umano. Il realismo del nostro non poteva essere applicato a una piena denuncia dei mali della società borghese, né poteva d’altra parte, come s’è visto, divenire illuminazione di un mondo umile e misero, agitato dai problemi più gravi e immediati dell’esistenza, rimane appunto una ‘soluzione personale’ di un uomo intelligente e di un letterato raffinato. La collocazione del Boito Ancora una volta dunque occorre ribadire il sostanziale ‘isolamento’ di Camillo Boito narratore, il che spiega in parte la difficoltà di intendimento e di studio della sua opera. Il mondo letterario e poetico del nostro è una specie di microcosmo a sé stante, dove anche i legami con la civiltà letteraria e il momento storico sono quasi sempre, per così dire, sotterranei e gli sviluppi riconducibili al problema umano dell’autore e non a un chiaro intento letterario. Per questo l’inclusione del nostro nelle correnti e nei movimenti del tempo è quanto mai incerta: tutt’al più possiamo collocare Camillo Boito in quel gruppo di scrittori di trapasso tra la Scapigliatura e il verismo, che trovano il rappresentante più significativo in Emilio De Marchi; ma mentre Salvatore Farina, Giuseppe Giacosa e Gerolamo Rovetta (forse ormai troppo ‘facili’ per i lettori moderni, ma assai interessanti per la storia della cultura) mettono in luce un mondo senza gloria, immerso nell’affanno e nella mediocrità della comune vita borghese, il nostro applica il procedimento realistico dell’osservazione spietata e implacabile non all’umile quotidiano, ma al caso psicologico, alla forza dei sensi nell’eterna vicenda delle passioni, alle illusioni e alla disperazione degli uomini. Una maggior complicazione intellettuale sta alla radice dell’opera boitiana e una ricchezza di elementi culturali, umani, artistici, ignota a questi altri minori, che però agirono in modo ben più sensibile e diretto sull’evoluzione del gusto letterario.
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Le pagine migliori del Boito, confrontate con quelle opache del Farina, languide e incerte del Giacosa, spregiudicate ma rozze del Rovetta, brillano per una maggiore concentrazione narrativa, una superiore intensità e coerenza stilistica, una profonda e sottile analisi psicologica, hanno un ‘sapore culturale’ più vasto e raffinato, ma tuttavia rimangono immerse nella luce un po’ immobile dell’‘isolamento’ di Camillo. Influssi e derivazioni Definire una linea di influssi e di derivazioni per il nostro autore è problema particolarmente delicato, soprattutto per l’isolamento in cui la sua opera, come si è dimostrato, venne a trovarsi, per le particolari condizioni umane e intellettuali del Boito. Per ciò che riguarda gli influssi, dobbiamo ancora una volta ricordare come nel Boito noi sentiamo sempre un sostrato dotto, una solida e vasta base culturale: essa, nelle Storielle vane, è particolarmente avvertibile nel gusto di certi paesaggi e di certi interni (pensiamo al vecchio palazzetto polveroso de Il demonio muto, con i quadri, le logge, i porticati, alla stanzetta del Rettore in Santuario), nella complessità di qualche carattere (si veda ad esempio il pittore di Un corpo). Ma si tratta di una disposizione generale e generica, sulla quale hanno influito vaste e disparate letture, la cui eco affiora più sensibilmente nelle pagine critiche, riflessive e autobiografiche. A proposito di esse abbiamo rilevato motivi che ci richiamano alla memoria Heine, Sterne, Richter e ricordiamo ancora il gusto boitiano di comparare l’immagine concreta e presente con quella ricavata dalle letture (e abbiamo a questo proposito citato il Montaigne, la Sand, lo Shakespeare e Dante, il Petrarca, Leonardo). Assai più arduo, anzi addirittura impossibile, è parlare di veri modelli, neppure nei riguardi degli autori cari agli scapigliati (Poe, Hoffmann, Chamisso, Baudelaire, De Musset) o ai veristi (Balzac, Flaubert, Zola); se mai essi, come i classici italiani, hanno concorso alla formazione mentale del nostro. Forse l’influsso più diretto fu quello del Manzoni, e l’avvertiamo nel procedimento analitico dello stile, nella minuziosità delle descrizioni del paesaggio e della psicologia umana e nel tono medio, smorzato, a cui l’autore aspira anche nei momenti più tesi e drammatici della narrazione. Ma anche qui non si tratta di imitazione passiva, bensì di un incontro tra un grande esempio e l’attitudine dello scrittore, che rifugge dalle avventure metafisiche e ‘iperboree’ del fratello Arrigo e dal linguaggio simbolico e astratto, ma tende sempre all’evidenza descrittiva. Il gusto boitiano del ‘chiaro e del distinto’, che era parso “un po’ francese” al Pancrazi, mi sembra invece riconducibile a questo influsso manzoniano, così presente, anche se contrastato, nella Milano letteraria della fine dell’Ottocento.223 223 Mi pare inutile ricordare che non per questo si giustifica un accostamento del nostro alla schiera dei manzoniani, ch’egli stesso giudicò in modo tanto severo.
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Anche nell’additare le eventuali derivazioni dall’opera di Camillo, bisogna procedere con molta cautela e premettere la forte riserva, già annunciata nelle pagine dedicate alla ‘fortuna’ del nostro autore attraverso la storia della critica: se le Storielle vane furono lette con vivo interesse al momento della pubblicazione, è anche vero che esse rimasero costantemente collocate in secondo piano rispetto all’attività di maestro e di architetto del nostro e furono considerate marginali e esornative. Certo il primo influsso di Camillo fu quello che egli esercitò su Arrigo, ma in senso vago e generico e non letterario, spingendolo a coltivarsi e ad affermare il suo talento; ma l’unico terreno sul quale si può riscontrare una certa dipendenza del musicista dall’architetto è quello, minore e documentario, delle cronache musicali di Arrigo, che risentono della vivacità spigliata e icastica, sempre presente negli articoli di Camillo (e sappiamo che i suggerimenti di quest’ultimo al fratello furono assai precisi e minuti).224 Una certa vicinanza di argomenti può far accostare alle Storielle vane le novelle di Luigi Gualdo225 che, buon amico di Arrigo, doveva probabilmente conoscere bene anche Camillo e la sua opera; l’attenzione del Gualdo è sempre rivolta ai casi psicologici più tormentosi e morbosi e la descrizione spesso si compiace di indugiare su vecchi palazzi e castelli, secondo un gusto che era condiviso anche dal nostro. Ma lo scrittore milanese si abbandona con partecipazione piena e spesso esasperata alla materia narrata, immedesimandosi in essa, così che la narrazione acquista il carattere di effusione romantica e sentimentale, dove le immagini vivono in un’atmosfera magica e sognante, nulla quindi di più lontano dall’atteggiamento e dallo stile del Boito. Le stesse considerazioni valgono anche per un eventuale accostamento al nostro di Ambrogio Bazzero, il Bazzero, s’intende, di Storia di un’anima (e pensiamo in particolare a Natale in famiglia);226 anche qui la consonanza si limita a un certo gusto ‘artistico’ di ambienti e di paesaggi, mentre l’accentuata morbosità romantica esclude un più preciso riferimento al Boito. Lo stile Lo stile di Camillo Boito, sia per il procedimento narrativo che per l’impianto sintattico e linguistico, rispecchia esattamente il carattere di esperienza personale, conclusa in sé, e in un certo qual modo avulsa dalle correnti del tempo, di cui abbiamo già trattato. Innanzitutto ancora una volta si riconferma il distacco dalla Scapigliatura, alla base del quale sta la diversa soluzione del problema del rapporto con la tradizione e con i classici. Mentre i seguaci del Rovani e dell’Arrighi si ribellano incondizio-
224 Si veda per questo il capitolo secondo. 225 L. Gualdo, Novelle, Torino, Bona, 1868. 226 Cfr. A. Bazzero, Natale in famiglia, in G. Ferrata (a cura di), Racconti lombardi, cit., p. 89.
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natamente agli esempi del passato, il nostro architetto realizza un felice connubio tra la tradizione e la modernità del linguaggio. Il risultato era piaciuto persino al Guasti, che sentiva nei discorsi boitiani “l’aura del buon tempo antico” (ma forse il console della Crusca prendeva un po’ troppo alla lettera certi particolari procedimenti del linguaggio boitiano, quando cioè l’immagine dotta e leggiadra viene vista con affettuosa ironia dal narratore, come in Baciale ‘l piede e la man bella e bianca). Il discorso è sempre saldo, contenuto, costruito, illuminato da una solida razionalità, consapevole di una lunga e raffinata tradizione, anche se volutamente dimesso. Siamo ben lontani sia dalle ricerche esasperate, ora sciatte ora preziose di Carlo Dossi, sia dagli ‘impasti’ di lingua aulica e di forme parlate del Rovani, e anche dagli effetti dialettali del Faldella, come dai raffinatissimi e ‘metafisici’ risultati di pura musicalità di Arrigo. Gli stessi procedimenti descrittivi, presi a prestito dal vocabolario delle arti, non sono tanto riconducibili al celebre principio rovaniano dell’affinità delle arti, quanto alla formazione mentale e all’attitudine artistica personale di Camillo, tanto radicata in lui da non venire mai meno, neppure nelle novelle più ‘impegnate’ sul piano del realismo. Quando Camillo presenta la bellezza di Carlotta, la modella di Un corpo, prendendo a prestito le immagini più seducenti della scultura greca, o quando, descrivendo un paesaggio, come il tramonto estivo sul mare di Macchia grigia,227 parla di toni, di tinte, di lineature, come per un quadro, l’intenditore d’arte il cui occhio è ben abituato a scorgere analogie, a percepire caratteristiche di natura tecnica, prevale sul narratore. Prova ne è il fatto che quando l’ispirazione dello scrittore è veramente potente e l’attenzione è del tutto assorbita dalla situazione creata dalla stessa fantasia, allora veramente il Boito lascia da parte gli echi artistici, le statue greche, i toni e le prospettive per aderire completamente al ritmo dell’immagine, come nella descrizione fisica della contessa Livia o nel notturno di Verona della novella Senso. Altre volte, e con risultati non spiacevoli, il nostro si ispira alla terminologia musicale e non solo per una specie di derivazione dal fratello, infatti egli stesso studiò la musica negli anni della sua infanzia e quei primi ricordi dovevano essergli rimasti particolarmente vivi nella memoria; leggiamo ad esempio questo passo de Il demonio muto: Tu sentissi che musiche sa comporre il vento in queste gole alpestri e in queste muraglie rovinose: sono tripudii o spaventi, fischi lieti o trilli o scale o accordi sonori e poi il finimondo, e sempre continua il pedale, come dicono gli organisti, del romore sinistro, che le acque del Chiese fanno nel loro letto sassoso ed erto.228
Il carattere essenziale della ‘tecnica narrativa’ del nostro, sta, come s’è più volte ripetuto, nel distacco dalla materia narrata; esso si traduce in ironia, quando entra in campo l’erudizione o l’autobiografia (come in certi passi degli scritti d’arte, delle Gite di un artista, e in Baciale ’l piede e la man bella e bianca) e anche quando la saggezza morale dell’autore giudica e compatisce gli eccessi giovanili e le eterne 227 C. Boito, Senso, cit., pp. 79–80. 228 Ivi, p. 214.
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illusioni degli uomini (come ne L’anima di un pittore); o diventa lo sguardo implacabile con cui l’autore fruga nelle coscienze, che non è però segno di freddezza, ma denuncia della colpa alla luce del superiore mondo morale a cui egli partecipa. Sul piano più strettamente stilistico, tale distacco si traduce nella calma precisa, minuziosa e incisiva del discorso, come (ma gli esempi sono innumerevoli) nella scena conclusiva de Il demonio muto, quando il vecchio brucia la preziosa chitarra: Allora feci aggiungere molta legna sul fuoco, e quando la vampa toccò la cappa altissima del camino, fatto un supremo sforzo, gettai la chitarra sul rogo, seguendola attentamente con gli occhi. Le corde si contorsero come serpi, mandando un sibilo di dolore; il legno sottile della cassa armonica diventò nero, si spaccò in più luoghi e, senza infiammarsi, si ridusse a carbone; le perlette sparirono; il manico durò un gran pezzo a bruciare, e le figurette della caccia, staccandosi ad una ad una, caddero nella brace. Chiamai la serva, che gettasse dell’altra legna sul fuoco.229 Sempre al superiore controllo dell’autore deve essere ricondotta la continua esigenza di attenuare ‘l’eccezionale’ e il ‘drammatico’ della storia narrata, il che si manifesta sia nel linguaggio, che egli cerca sempre di smorzare, rifiutando gli effetti più facili e clamorosi, sia nell’impianto delle novelle migliori; in Senso, ad esempio, la parentesi dedicata alle pene d’amore dell’avvocatino Gino ha questa funzione, ne Il maestro di setticlavio la vicenda dello Zen e del ‘soprano’ raggiunge lo stesso risultato, ne Il demonio muto e in Macchia grigia intervengono a rasserenare la storia le numerose descrizioni paesistiche. Per quello che riguarda più specificamente il linguaggio, il Boito ebbe sempre straordinaria facilità e scioltezza stilistica, se mai in alcuni casi, che non abbiamo mancato di sottolineare, egli si abbandonò proprio al gusto della parola per se stessa, giungendo a puri e vuoti compiacimenti descrittivi. La ricchezza e la duttilità del discorso furono raggiunti dal Boito sino dagli anni giovanili, grazie all’intensa attività di maestro e scrittore d’arte, cosicché egli giunse alla produzione narrativa vera e propria con un corredo linguistico e stilistico già perfettamente formato e maturo. Questo ci spiega la relativa immobilità dello stile boitiano, documentato anche dalle scarsissime varianti tra le prime edizioni delle novelle e quelle successive; anzi le uniche correzioni degne di osservazioni sono quelle operate dall’autore sul testo pubblicato dalla Nuova Antologia230 mentre le correzioni delle edizioni definitive delle Storielle vane rispetto alle prime, sono soltanto grammaticali (come “giovane” per “giovine” e simili). Confrontando dunque il testo primitivo con quello definitivo, e cioè la stesura sulla Nuova Antologia e l’ultima, in ordine di tempo, approvata dall’autore percepiamo immediatamente l’abbandono progressivo delle formule auliche e un po’ troppo letterarie che rallentavano il fluire del discorso, notiamo inoltre l’eliminazione di certe ridondanze del linguaggio e di certe minuzie un po’ troppo insistite: 229 Ivi, pp. 244–245. 230 L’edizione definitiva delle Storielle vane è la terza (1895); Senso – Nuove storielle vane non subì praticamente correzioni. Tutte le novelle pubblicate sulla Nuova Antologia (Un corpo, giugno 1870; Un autunno, marzo 1871; Notte di Natale, gennaio 1876; Il demonio muto, febbraio 1877; Macchia grigia, dicembre 1877; Don Giuseppe, ottobre 1879) appaiono invece corrette, ad eccezione de Il maestro di setticlavio (dicembre 1891).
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il risultato complessivo tende cioè a un tono più smorzato, più interiore e nello stesso tempo più intenso. Ad esempio, nella novella Un corpo “il convoglio funebre” diventa più semplicemente “un funerale”; “i giovani garzoni e le fresche serventi” diventano “le fresche e svelte ragazze”, l’espressione “professavo pittura” viene sostituita con la più dimessa e concreta “facevo il pittore”, “le esperienza”, “il fronte”, “il gravicembalo” sono rispettivamente sostituiti con i termini più correnti: “le esperienze, la fronte, il pianoforte”. Ne Il demonio muto, la già citata descrizione musicale del rumoreggiare del Chiese era così semplificata e diluita: “[…] e sempre il pedale continuo, minaccioso, interminabile, eterno delle acque rapidissime del Chiese, che si frangono spumeggiando ai sassi immensi, ond’è rotto il suo letto”. Nelle stesure definitive dunque il linguaggio del Boito riesce ad assestarsi in un organismo lessicale e sintattico coerente e perfettamente adattato al mondo poetico descritto, ma con una soluzione del tutto particolare e in un certo senso chiusa, cioè irripetibile, senza possibilità di sviluppi (se non forse per le pagine ironiche e autobiografiche), come si conviene a uno scrittore sostanzialmente isolato, qual è appunto il nostro. Conclusione Camillo Boito è, e rimane, un minore nella nostra narrativa dell’Ottocento e per di più un isolato, e quindi ‘tagliato fuori’ dagli interessi degli studiosi, che vogliono mettere in luce le correnti letterarie, i filoni di pensiero del momento storico in cui egli visse: e questo probabilmente contribuisce ad accentuare il distacco tra noi e lo scrittore, a rendere difficile il suo recupero. Ma la produzione più nuova e più ispirata del Boito (le due novelle maggiori, e anche le più belle tra le storie dell’‘eccezionale’, Baciale ‘l piede e la man bella e bianca, e, accanto ad essa, le pagine migliori delle Gite; sul piano della riflessione, il Divagamento de L’anima di un pittore) ha l’eterna giovinezza delle cose belle, soltanto che, per inquadrarla e per godere anche le parti migliori delle altre opere, dobbiamo entrare nel vivo del mondo boitiano, studiare il caso particolare sia umano che letterario. E innanzitutto, unendo in un’unica considerazione i due aspetti fondamentali di Camillo, che finora erano stati studiati separatamente, l’architetto e il narratore (e unendo anche il terzo aspetto, quello che ci permette di conoscere qualche notizia particolare della sua vita, e cioè il ruolo di fratello di Arrigo), risulta una personalità viva, ricca di intelligenza e di saggezza, una personalità che può avere ancora il suo fascino sopra di noi, quando pensiamo alla lucida e amara visione della vita e al coraggio con cui seppe superare il pessimismo e lo scoramento per gettarsi nell’azione disinteressata e onesta. Gran parte dei suoi scritti critici e eruditi sono effettivamente invecchiati, anche molte pagine delle Gite e qualcuna delle Storielle vane sono ormai lontane dal nostro gusto e dalla nostra sensibilità, ma quello che è rimasto ci compensa largamente e resiste perfettamente a una rilettura critica attenta e scaltrita.
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Bibliografia boitiana
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Meno di un giorno, Viareggio, Baroni, 1993 (contiene Meno di un giorno). Senso e altri racconti, introduzione di S. Petrignani, Roma, I Libri de L’Unità, 1993 (contiene: Macchia grigia; Il collare di Budda; Meno di un giorno; Il demonio muto; Senso). Il collare di Budda, Firenze, Passigli, 1994 (contiene Il collare di Budda). M. Dillon Wanke (a cura di), Senso e altri racconti, Milano, Mondadori, 1994 (contiene: Baciale ’l piede e la man bella e bianca; Un corpo; Dall’agosto al novembre; Macchia grigia; Vade retro, Satana; Il collare di Budda; Meno di un giorno; Senso; Il maestro di setticlavio). R. Reim (a cura di), Senso, Bologna, Grafica Editoriale, 1994 (contiene Senso). Senso. Storia di una torbida passione d’amore, Milano, Rizzoli, 1996 (contiene Senso). Senso, Vade retro, Satana, presentazione di L. Sartirana, Colognola ai Colli, Demetra, 1997 (poi Prato, Giunti, 1997) – (contiene le novelle citate). Senso, Macchia grigia di C. Boito, La lupa di G. Verga, Cuneo, Araba Fenice, 1998 (contiene le novelle citate). Senso e altre novelle, introduzione e note di C. Ponti, Perugia, Guerra, 2000 (contiene: Un corpo; Il maestro di setticlavio; Meno di un giorno; Senso). Senso ’45. Sceneggiatura di Tinto Brass, con un’introduzione-intervista di L. Codelli, Roma, Gremese, 2002 (contiene: Senso). Senso, racconto interpretato da C. Bertoni, Lecce, Manni, 2002 (contiene: Senso, seconda ed. aggiornata 2015). R. Reim (a cura di), I più bei racconti d’amore dell’Ottocento italiano, Roma, Newton Compton, 2003 (contiene: Senso). Senso e altri racconti, introduzione di S. Giovanardi, Roma, La Repubblica, 2004 (poi Roma, La Biblioteca dell’Espresso, 2013; contiene: Senso; Baciale ’l piede e la man bella e bianca; Un corpo; Santuario; Macchia grigia; Vade retro, Satana; Il collare di Budda; Il demonio muto; Il maestro di setticlavio). Senso. Nuove storielle vane, Milano, Peruzzo libri in miniatura, 2004. Senso. Nuove storielle vane, saggio introduttivo, annotazioni, commento e bibliografia a cura di C. Cretella, Ravenna, Allori, 2005 (contiene tutte le novelle). A. D’Elia, A. Guarnieri, M. Lanzilotta, G. Lo Castro (a cura di), La tentazione del fantastico: racconti italiani da Gualdo a Svevo, Cosenza, Pellegrini Editore, 2007 (contiene: Macchia grigia, con una introduzione di A. F. Gerace: Macchia grigia: una storiella fantastica di Camillo Boito, pp. 189–212). Senso, Milano, RBA Fabbri, 2005 (contiene: Senso). Storielle vane, saggio introduttivo, annotazioni, commento e bibliografia a cura di C. Cretella, Bologna, Pendragon, 2007 (contiene tutte le novelle, in Appendice: Pittore bizzarro e Il colore a Venezia). G. Rosa, G. Cenati (a cura di), Racconti della Scapigliatura milanese, Milano, CUEM, 2007 (contiene: Un corpo; Macchia grigia; Santuario). Senso: cortoromanzo d’amore, prefazione e note a cura di D. Laccetti, Milano, Leone, 2009 (contiene: Senso). Senso, Milano, Classica Italia, 2009 e 2010, in allegato DVD: A. Bruckner, Romantica. Sinfonia n. 4 (contiene: Senso). Senso, voce di D. Zuin, musiche di A. Bruckner, Milano, Alfaudiobook Audiolibri, 2010 (audiolibro di Senso). G. Iannaccone (a cura di), Natale scapigliato, testi di C. Boito, C. Dossi, E. Praga e altri, Novara, Interlinea, 2011 (contiene: Notte di Natale). Il maestro di setticlavio e altre novelle veneziane, Firenze, Franco Cesati, 2012 (contiene: Il maestro di setticlavio; Il colore a Venezia; Il demonio muto; Quattr’ore al lido). Il maestro di setticlavio, note introduttive di G. Zambelli, Bergamo, Dalla Costa, 2013 (contiene Il maestro di setticlavio). E. D’Angelo (a cura di), Il maestro di setticlavio, postfazione di A. Gerhard, Bari, Progedit, 2015 (contiene: Il maestro di setticlavio). C. Boito, P. Violi, La Vigilia di Natale, Perugia, Graphe.it, 2015 (contiene: Notte di Natale).
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SAGGI CRITICI, SCRITTI D’ARTE, REPORTAGE Albano Tomaselli pittore, Firenze, Bencini, 1857. Prolusione alle lezioni tecniche d’architettura per gli Ingegneri letta nell’Accademia delle Belle Arti in Venezia il dì 15 gennaio 1856, Milano, 1857. L’architettura cosmatesca (estratto dal Giornale dell’Ingegnere-Architetto ed Agronomo, anno VIII, Milano, Saldini, 1860, p. 7), Milano, Tip. di Domenico Salvi, 1860. L’Esposizione di Firenze, lettera in: Rivista Contemporanea, XXVII (1861), Torino. Proposta di una riforma negli statuti della Reale Accademia di Belle Arti in Milano. Letta nell’adunanza generale del Consiglio Accademico il dì 13 luglio 1861, Milano, Tip. Pirola, 1861 (poi Milano, Regia Stamperia, 1878). Relazione sul progetto di restauro per la basilica dei SS. Maria e Donato in Murano (estratto dal Giornale dell’Ingegnere-Architetto ed Agronomo, anno IX, Milano, Saldini, 1861), Milano, Tip. di Domenico Salvi, 1861. Relazione sui progetti pel grandioso Cimitero della città di Milano e su quelli per il piccolo Cimitero ad uso dello Spedale Maggiore. Letta dalla Commissione al Consiglio Comunale della stessa città nella seduta straordinaria del 4 luglio 1862, Milano, 1862. Al Consiglio Comunale della città di Milano. Relazione delle conferenze sulla nuova Piazza del Duomo tenute nelle sale della Società degli Artisti i giorni 16, 20, 22 e 27 luglio 1863, Milano, Guglielmini, 1863. Sull’avviamento delle Arti Belle in Italia. Discorso letto il giorno 31 agosto 1864 per la solenne distribuzione dei premi nella Regia Accademia delle Belle Arti in Milano, Milano, Tip. Pirola, 1864. Francesco Talenti. Ricerche storiche sul duomo di Firenze dal 1294 al 1367. Lettere di Camillo Boito a Cesare Guasti, Milano, Tip. degli Ingegneri, 1866. La Chiesa di Sant’Abbondio e la Basilica Dissotto. Lettere Comacine, Milano, Tip. degli Ingegneri, 1868. Sui portoni di Porta Nuova. Risposta alla Regia Accademia di Belle Arti alla Giunta Municipale di Milano, Milano, Società Cooperativa, 1869. Lettere sull’Insegnamento Primario del Disegno a C. Biscarra, Torino, Unione Tipografica, 1870. Provvedimenti sulle Arti Belle, Milano, Rechiedei, 1870. Sull’Insegnamento Primario del Disegno. Un rapporto ed una lettera, Torino, Unione Tipografica, 1870. Leonardo Scultore e Pittore in Saggio delle opere di Leonardo da Vinci, con 24 tavole fotolitografiche di scritture e disegni tratti dal Codice Atlantico, Milano, Ricordi, 1872. Leonardo scultore e pittore, Torino, Bona, 1873. Noterella intorno a Cracovia, in: Le prime letture, 4, 28 febbraio 1873. Con L. Tatti, Sulle tariffe delle operazioni degli architetti civili, rapporto della commissione centrale eletta nella seduta del 10 settembre 1872, Firenze, Crivelli, 1875. In morte di un fanciullo. Bozzetto, in: Museo di Famiglia, aprile 1877. Scultura e pittura d’oggi. Ricerche, Torino, Bocca, 1877. Con G. Franco e C. Ceppi, Sulla nuova Chiesa per l’Ospizio d’Oropa. Relazione, Biella, Amosso, 1877. Le saline di Wieliczka, in: Le prime letture, 3, 15 febbraio 1878. Leonardo e Michelangelo. Studio d’arte, Milano-Napoli-Pisa, Hoepli, 1879 (poi La Vergne, Nabu Press, 2012). Relazione agli onorevoli signori del Comitato Esecutivo per il monumento a Vittorio Emanuele II in Venezia, Venezia, Antonelli, 1879. Relazione del giudizio sul concorso per il monumento al Re Vittorio Emanuele II in Milano, Milano, Tip. Pirola, 1879. Riordinamento delle vie Bo’, Gallo, San Martino, Storione e San Canziano, Padova, Salmin, 1879. Architettura del Medio Evo in Italia, con una introduzione Sullo stile futuro dell’Architettura Italiana, Milano, Hoepli, 1880.
Bibliografia boitiana
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Terzo centenario di Andrea Palladio. Discorso letto nell’aula del Civico Museo per incarico del Comune di Vicenza il 29 agosto 1880, Vicenza, Burato, 1880. Conferenze sulla esposizione nazionale del 1881 tenute per incarico di S. E. il Ministro di agricoltura, industria e commercio dai signori Camillo Boito e altri, con una introduzione di F. Brioschi, Milano, Hoepli, 1881. Giudizio sul secondo concorso per il monumento alle Cinque Giornate, 20 maggio 1881, Milano, 1881. Il Duomo, in Mediolanum. Scritti vari in occasione dell’Esposizione di Milano del 1881, 1 (1881), Milano, Vallardi. Le Industrie Artistiche, conferenza tenuta il 17 settembre 1881, in Conferenze sulla Esposizione Nazionale del 1881, Milano, Hoepli, 1881, pp. 21–42. Ornamenti di tutti gli stili classificati in ordine storico. Trecentotre tavole incise dai migliori xilografi ad uso degli artisti delle Scuole di Disegno e degli Istituti Tecnici, con testo illustrativo e didattico, Milano-Napoli-Pisa, Hoepli, 1881. Introduzione a Appunti tecnici sull’Esposizione Nazionale di Milano (1881) fatti da una commissione del collegio degli ingegneri in Milano, Milano, Tip. degli Ingegneri, 1882. I principi del Disegno e gli stili dell’ornamento ad un Maestro Novello mandandogli le 303 tavole dell’opera ‘Ornamenti di tutti gli stili’, Milano-Napoli-Pisa, Hoepli, 1882 (poi La Vergne, Nabu Press, 2012). Architettura del Medio Evo in Italia, in: Archivio storico italiano, s. IV, vol. XII, Firenze 1883. Leonardo, Michelangelo, Andrea Palladio. Studii artistici, Milano-Napoli-Pisa, Hoepli, 21883. Gite di un artista, Milano-Napoli-Pisa, Hoepli, 1884. I restauratori. Conferenza tenuta all’Esposizione di Torino il 7 giugno 1884, Torino, Barbera, 1884. Il Castello Medioevale. Ricordo dell’Esposizione di Torino del 1884, Milano, Treves, 1884. Commissione reale per il Monumento Nazionale a Giuseppe Garibaldi sul Gianicolo in Roma. Relazione al Governo del Re, Roma, Forzani, 1885. L’anima di un pittore, Milano-Napoli-Pisa, Hoepli, 1885 (parzialmente edito in L’anima di un artista [Memorie postume di Francesco Mosso, pittore], in: Nuova Antologia, LXXIX, Direzione della Nuova Antologia, Roma, 1885). I principi del disegno e gli stili dell’ornamento, Appendice di A. Melani, L’insegnamento dell’arte decorativa nel suo vecchio e nuovo ordinamento, Napoli-Milano-Pisa, Hoepli, 1887, 1925. La mostra dei tessuti in Roma (estratto da Nuova Antologia, XCIII, fasc. IX, Direzione della Nuova Antologia, Roma 1887), Roma, Tip. della Camera dei Deputati, 1887. Relazione del Concorso per la facciata del Duomo, Milano, 1887. Relazione sul Terzo Concorso per il Monumento a Giuseppe Garibaldi in Milano, Milano, Rebeschini, 1887. Commissione Reale pel Monumento Nazionale al Re Vittorio Emanuele II. Relazione al Governo del Re, Roma, Tip. della Gazzetta Ufficiale, 1888. L’Esposizione di Firenze. Lettera alla Redazione della Rivista Contemporanea, in: Rivista Contemporanea, 25 ottobre 1888, Firenze. La Basilica di San Marco in Venezia, Venezia, Ongania, 1888. La facciata del nostro Duomo. Discorso pronunciato nella solenne distribuzione dei premi agli allievi della Reale Accademia di Belle Arti in Milano, 11 dicembre 1887, Milano, Faverio, 1888. Progetto dell’Architetto Giuseppe Brentano per la nuova facciata del Duomo di Milano scelto per la esecuzione e la relazione della Commisione aggiudicatrice dei premi, Milano, Saldini, 1888 (poi La Vergne, Nabu Press, 2012). Relazione sui progetti per la facciata del Duomo di Milano agli onorevoli signori amministratori della fabbrica del Duomo di Milano, Milano, Tip. Pirola, 1888. Ricordo della Esposizione della Società Veneta di Belle Arti 1887, Venezia, Tip. Emiliana, 1888. Venezia. Ricordo dell’esposizione artistica nazionale 1887, Venezia, Editori Zanco-Alzetta, 1887. La Basilica di San Marco di Venezia illustrata nei riguardi dell’arte e della storia da scrittori veneziani sotto la direzione di Camillo Boito, Venezia, Ongania, 1888/1893.
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Deputazione Provinciale di Verona: Sul Restauro della facciata del Palazzo della Provincia. Relazione, Verona, Franchini, 1889. Il Duomo di Milano e i disegni per la sua facciata, con 87 eliotipie, 11 litografie ed un saggio bibliografico di F. Salveraglio, Milano, Tip. Luigi Marchi, 1889 (La Vergne, Nabu Press, 2012). Relazione intorno alle scuole superiori d’Arte Decorativa ed Industriale al proposito della prima Mostra Comparativa dei loro saggi, Roma, Bertero, 1891. Monumento Nazionale al Principe Amedeo. Relazione della Giuria, Torino, Bona, 1892. Santa Maria del Fiore e il Duomo di Milano. I giudizii artistici nel secolo XIV, in La vita italiana nel Trecento, parte III: Arte, Milano, Treves, 1892. Giacomo Franco, architetto, Milano, Hoepli, 1893 (poi Milano, Tip. Bernardoni, 21897, poi Milano, Rebeschini, 31897). Questioni pratiche di Belle Arti: Restauri, Concorsi, Legislazione, Professione, Insegnamento, Milano, Hoepli, 1893 (poi La Vergne, Nabu Press, 2012). Arte utile: Decorazione policroma. Cinquanta cromolitografie illustrate da Camillo Boito, Milano, Hoepli, 1894. La ricomposizione dell’Altare di Donatello (estratto dall’Archivio Storico dell’arte, serie II, anno I, fasc. II, Pasqualucci, Roma 1895), Roma, Unione Cooperativa, 1895. Ornamenti di diversi stili: Greco e Romano, Bisantino, Arabo e Moresco, Romanzo Ogivale, Maniere italiane del Medioevo, Rinascimento italiano, Rinascimento tedesco e francese. Cent’otto tavole incise dai migliori silografi ad uso degli artisti, delle Scuole di Disegno e degli Istituti Tecnici, II. Edizione economica dell’opera completamente esaurita ‘Ornamenti di tutti gli Stili’, con una nuova prefazione dell’autore, Milano, Hoepli, 1895. Relazione sul Disegno di restauro per Porta Pila, Genova, Tip. dei Sordo-Muti, 1896. Relazione sul progetto di riduzione dell’interno del Palazzo della Loggia in Brescia, Brescia, Apollonio, 1896. Risposta della Reale Accademia di Belle Arti in Milano alla lettera Ministeriale del 30 luglio 1895, n. 2350, sul nuovo Disegno di Statuto per le Accademie di Milano e Torino e per gli Istituti di Belle Arti di Roma, Bologna, Firenze, Napoli, Palermo e Venezia, Milano, Tip. Manini Wiget, 1896. L’architetto Giacomo Franco, estratto da L’Edilizia Moderna, 4 (1895), 7, pp. 49–51. L’Altare di Donatello e le altre opere nella Basilica Antoniana di Padova compiute per il settimo centenario dalla nascita del Santo a cura della Presidenza della Veneranda Arca, Milano, Hoepli, 1897. Con C. Ceppi e Pulciani, Per il Santuario di Re. Relazione, Milano, 1897. Relazione della giuria pel conferimento dei premi ai migliori studi critici sulla II Esposizione internazionale d’arte della Città di Venezia, Venezia, Tip. Ferrari, 1897. La cattedrale di Nardo: la cascina Pozzobonello in Milano: rilievi e studi eseguiti dall’architetto Pier Olinto Armanini durante gli anni del suo pensionato artistico in Roma, Milano, Tip. Allegretti, 1898. Con L. Beltrami, G. Moretti e Mons. Ricciardi, In memoria di Pier Olinto Armanini, Milano, Allegretti, 1898. Introduzione al volume di R. Erculei, Oreficerie, stoffe, bronzi, intagli & all’esposizione di arte sacra in Orvieto, Milano, Hoepli, 1898. Relazione sul Concorso dei progetti del Manicomio della Provincia di Massa, Massa, Medici, 1898. Relazione della Giuria pel conferimento dei premi ai migliori studi critici sulla II Esposizione Internazionale d’Arte della città di Venezia 1897, Venezia, Ferrari, 1898. Giudizio della Commissione sul Concorso per le Opere di scultura nel nuovo Palazzo di Giustizia in Roma. Relazione a S. E. il Ministro dei Lavori Pubblici, Roma, Unione Cooperativa, 1899. Il Palazzo Ducale di Venezia. Relazione a S. E. il Ministro della Pubblica Istruzione (estratto dal Bollettino Ufficiale, Roma 1899), Roma, Cecchini, 1899. Giudizio della Commissione sul Terzo Concorso per le Opere scultorie nel nuovo Palazzo di Giustizia in Roma. Relazione a S. E. il Ministro dei Lavori Pubblici, Roma, Genio Civile, 1900. Prefazione al volume di V. Colombo, Letture d’arte. Scelte ed annotate ad uso delle Accademie e degli Istituti di Belle Arti e dei Licei, Milano, Albrighi e Segati, 1902, pp. VII–XII.
Bibliografia boitiana
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Testo illustrativo dei modelli d’Arte Applicata alle Industrie estratti dall’Arte Italiana Decorativa e Industriale. Periodico mensile pubblicato sotto il patrocinio del Ministero di Agricoltura Industria e Commercio e diretto da Camillo Boito, Bergamo, Istituto Italiano di Arti Grafiche, 1904/1906. Prefazione al volume: Giuseppe Piermarini Architetto. Pubblicazione del Comitato milanese per le Onoranze a Giuseppe Piermarini, a cura della Rassegna d’Arte, Milano, Alfieri & Lacroix, 1908. Con L. Pogliaghi, A. D’Andrade, G. Frizioni, Il restauro del Palazzo del podestà approvato dal Governo, in: Il resto del Carlino, XXV (1908), 77, p. 205, Bologna, Stabilimento Poligrafico Emiliano. Con P. Boubée, B. Leoni, Per l’Ufficio Regionale dei monumenti in Napoli, Napoli, Ruggiano, 1908. Commissione per la facciata del Duomo di Milano. Relazione all’On. Ministro della Pubblica Istruzione, Milano, Sonzogno, 1909. Modelli d’arte applicata alle industrie, estratti dall’arte italiana decorativa e industriale, Periodico mensile diretto da Camillo Boito, pubblicato sotto il patrocinio del Ministero di agricoltura, Industria e commercio, fasc. 1–2, Bergamo, Istituto Italiano D’arti Grafiche, 1909. Lodovico Pogliaghi, in: Duomo di Genova, Milano, Alfieri e Lacroix, 1910. Per la facciata del Duomo di Milano. Relazione all’Onorevole Ministro della Pubblica Istruzione, Milano, Sonzogno, 1910.
EDIZIONI POSTUME DEI SAGGI E DEGLI SCRITTI D’ARTE L. Patetta, Storia dell’Architettura. Antologia critica, Milano, Etas libri, 1975 (contiene degli estratti di C. Boito sull’architettura). I principii del disegno e gli stili dell’ornamento, ristampa anastatica dell’edizione del 1925, Milano, Cisalpino-Goliardica, 1988. Il nuovo e l’antico in architettura, a cura di M. A. Crippa, Milano, Jaca book, 1989. Gite di un artista, ristampa anastatica dell’edizione del 1884, nota introduttiva e apparato iconografico a cura di M. C. Mazzi, Roma, De Luca Edizioni d’Arte, 1990. I cimiteri di Trieste: un aldilà multietnico, a cura di R. Curci, con un testo di C. Boito e una poesia di C. Grisancich, Trieste, MGS Press, 2006.
PUBBLICAZIONI IN PERIODICI In: Nuova Antologia, Firenze, Le Monnier, dal 1878: Direzione della Nuova Antologia, Roma Un corpo. Storiella di un artista, giugno 1870, XIV, pp. 313–343. Un autunno. Storiella vana (poi in Storielle vane col titolo: Dall’agosto al novembre), marzo 1871, XVI, pp. 600–626. Rassegna artistica. L’arte è arte. L’arte è maestra di esperienza. Le preoccupazioni dei critici. Un bel programma di concorso d’un’Accademia di Napoli. Naturalisti; idealisti. Il Congresso di Parma, l’Esposizione ed i premi alle opere esposte. La ragione nell’arte. Paolo Veronese dinanzi al tribunale dell’Inquisizione. Come i filosofi definiscono l’arte. Come la definiscono gli artisti. La nostra definizione. Imitazione del vero, che è interpretazione. Verità; poesia. L’arte nella pittura di paese. L’arte nel ritratto. Una esposizioncella di arte comparata in Milano. La futura Esposizione italiana ed il futuro Congresso di artisti. L’apertura del Museo Etrusco; l’inaugurazione del monumento al Beccaria. Uno scultore morto mentre sbocciava, aprile 1871, XVI, pp. 955–970.
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Rassegna artistica. La Mostra di Belle Arti a Torino. Verità artistica c’è? Vediamo la Natura come i pittori ci avvezzano a vederla. La schiera dei giovani lombardi. Quella dei nuovi pittori piemontesi. Caratteri ed indirizzo dell’arte nuova. Il Gastaldi, il Gamba ed altri professori. L’Accademia Albertina e le Istituzioni Artistiche Torinesi, giugno 1871, XVII, 414–430. Rassegna artistica. La pittura d’oggi a Venezia. Come l’arte vecchia guasti la nuova. Sensualismo, splendore, eclettismo della vecchia arte veneziana. Pittori imitatori. Ricercatori di mestiche. Venezia è un’isola nell’arte. Una ventina di buoni artisti. Francesco Hayez, veneziano, agosto 1871, XVII, pp. 945–960. Le tre cuspidi sulla fronte di Santa Maria del Fiore, settembre 1871, XVIII, pp. 144–160. Rassegna artistica. La Mostra di belle arti a Milano. Come l’industria si vada cacciando nell’arte. Un premio mal dato, e la pittura di Girolamo Induno. Il Pagliano, il Vannutelli, qualche altro. Uno scolaro, maestro eccellente. La “Vanerella” del Barzaghi, e la scultura nuova di lui. L’arte storica, religiosa, monumentale è spacciata. Concordia delle arti perdute. Maestri e discepoli. Carattere delle nostre culture è di mancar di carattere. La porta trionfale dell’arte, ottobre 1871, XVIII, pp. 401–412. Rassegna artistica. Povero stato degli artisti a Venezia. I pittori giovani. Un nuovo pittore naturalista. Come i veneziani seguano i precetti del Corano. Il Ferrari, il Minisini ed il Borro, che sono i tre soli scultori in Venezia, dicembre 1871, XVIII, pp. 876–888. Rassegna artistica. Le Mostre ed i Congressi futuri a Milano. Bella concordia di Ingegneri e di Artisti. Quesiti per il Congresso architettonico: Lo stile italiano di là da venire; L’insegnamento, un giornale ed un vocabolario; La tariffa per gli onorari degli architetti. Caso di responsabilità delicato. Come il meglio dei Congressi sia ne’ brindisi e nelle strette di mano, febbraio 1872, XIX, pp. 413–429. L’architettura della nuova Italia, aprile 1872, XIX, pp. 755–773. Rassegna artistica. La scultura nuova in Firenze. Il Cecioni, il Grita, il Rivalta, il Fantacchiotti figliuolo. Come il guardatore debba meritarsi il diletto del bello con un poco del sudore della sua fronte. La critica è vanità e tormento di spirito, giugno 1872, XX, pp. 415–427. Rassegna artistica. Venezia ne’ suoi vecchi edificii. La logica dell’arte è relativa, come la bellezza. I rii, le calle, i ponti. Povertà delle fabbriche nuove: bontà dei restauri. Quelli, tra parecchi altri, della chiesa di San Marco e di una scala a bovolo, agosto 1872, XX, pp. 916–927. Rassegna artistica. La mostra nazionale a Milano, ottobre 1872, XXI, pp. 424–437. Rassegna artistica. Il costrutto della Esposizione nazionale. Come la critica d’arte vada innanzi e s’accordi, e l’arte vada innanzi e non si accordi. Caratteri dell’arte provinciale romana, lombarda, veneziana, fiorentina, napoletana, piemontese. Dove può darsi che stia il progresso dell’arte. In essa il transitorio s’insempra. Ciò che il Congresso degli artisti ha partorito, dicembre 1872, XXI, pp. 958–970. Rassegna artistica. La pittura nuova in Firenze, febbraio 1873, XXII, pp. 483–495. Rassegna artistica. I nuovi monumenti all’aria aperta in Milano. Come gli scultori sieno fortunati. Loro norma d’igiene e loro nutrimento di spirito. Leonardo troppo perfetto, e ciò ch’e’ narra de’ suoi discepoli. I casi del Cimitero milanese. Il Magni, lo Strazza, il Vela, aprile 1873, XXII, pp. 954–967. Rassegna artistica. Una antica famiglia veronese di Scarpellini che vive. I restauri e la ricchezza dell’arte vecchia a Verona e a Padova. Teorie scapigliate di un maestro. Come una scuola di disegno fruttifichi a Padova e come una germogli a Venezia, giugno 1873, XXIII, pp. 469–480. Rassegna artistica. La pittura all’Esposizione Universale di Vienna, settembre 1873, XXIV, pp. 28–49. La mostra annuale di Belle Arti a Milano, ottobre 1873, XXIV, pp. 407–418. La scultura all’Esposizione Universale di Vienna, novembre 1873, XXIV, pp. 517–533. Rassegna artistica. Il monumento al Cavour, e il Duprè, dicembre 1873, XXIV, pp. 914–926. L’architettura all’Esposizione Universale di Vienna, febbraio 1874, XXV, pp. 362–379. I nuovi decreti nelle Accademie di Belle Arti, aprile 1874, XXV, pp. 880–896. Rassegna artistica. Due architetti milanesi morti, e il Cipolla, agosto 1874, XXVI, pp. 1019–1030. La Mostra storica d’arte industriale a Milano, settembre 1874, XXVII, pp. 125–142. Rassegna artistica. La mostra di Belle Arti a Milano, novembre 1874, XXVII, pp. 729–740.
Bibliografia boitiana
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Rassegna artistica. I pittori che studiano Venezia. L’arte ch’essa può dare. Un quadro della Esposizione artistica. Monelli, donne, barcaioli, gennaio 1875, XXVIII, pp. 216–229. Rassegna artistica. Uno stupendo mosaico (di Antonio Werner, dello Stabilimento veneziano di mosaici), marzo 1875, XXVIII, pp. 744–755. Rassegna artistica. Uno scultore che è nato e uno che è morto: il Borro e lo Strazza, giugno 1875, XXIX, pp. 443–458. Rassegna artistica. Spavento delle grandezze di Roma. Ricerca vana d’uno stile futuro, settembre 1875, XXX, pp. 184–197. Il Centenario di Michelangelo: I. L’indole dell’uomo. II. Il carattere delle opere, ottobre (prima parte pp. 225–242), novembre (seconda parte pp. 453–476) 1875, XXX. Notte di Natale. Storiella vana, gennaio 1876, XXXI, pp. 197–210. Rassegna artistica. Di una grossa questione, che agita gli artisti, febbraio 1876, XXXI, pp. 418– 429. Rassegna artistica. Un grosso libro e un libretto del marchese Pietro Selvatico, aprile 1876, XXXI, pp. 860–872. Rassegna artistica. Quattr’ore al lido, agosto 1876, XXXII, pp. 860–867. Rassegna artistica. La mostra a Brera, ottobre 1876, XXXIII, pp. 415–428. Il Demonio muto. Storiella vana (poi in Senso. Nuove storielle vane col titolo: Il demonio muto), febbraio 1877, XXXIV, pp. 341–360. La mostra nazionale di belle arti in Napoli, maggio 1877, XXXV, pp. 85–102. Rassegna artistica. L’Ossario di Custoza, ottobre 1877, XXXVI, pp. 495–508. La macchia grigia. Storiella vana (poi in Senso. Nuove storielle vane col titolo: Macchia grigia), dicembre 1877, XXXVI, pp. 857–875. Rassegna artistica. Un concorso riuscito bene, aprile 1878, XXXVIII, pp. 567–578. Rassegna artistica. Un pittore poeta (Le 99 discussioni artistiche di E. Gasi Molteni), maggio 1878, XXXIX, pp. 173–182. Il futuro palazzo della Mostra artistica nazionale in Roma, giugno 1878, XXXIX, Direzione della Nuova Antologia, Roma, pp. 764–771. Rassegna artistica. I monumenti a Re Vittorio Emanuele, novembre 1878, XLII, pp. 328–337. I premi d’incoraggiamento ai giovani artisti italiani, febbraio 1879, XLIII, pp. 499–509. Il Monumento a Vittorio Emanuele in Torino, maggio 1879, XLV, pp. 51–59. Don Giuseppe. Storiella vana (poi in Senso. Nuove storielle vane col titolo: Vade retro, Satana), ottobre 1879, XLVII, pp. 666–699. I restauri di San Marco, dicembre 1879, XLVIII, pp. 701–721. La facciata di Santa Maria del Fiore dal 1490 al 1843, aprile 1880, L, pp. 672–685. La Mostra nazionale di Belle Arti in Torino, giugno (prima parte, pp.748–761), luglio (seconda parte, pp. 257–266) 1880, LI, LII. Notizia artistica. La Chiesa di Giotto nell’Arena di Padova; relazione al Consiglio comunale di Antonio Tolomei, Assessore, ottobre 1880, LIII, pp. 770–776. Notizia letteraria. Scritti d’arte di Luigi Mussini, pittore, gennaio 1881, LV, pp. 351–355. Pietro Selvatico nelle sue lettere, febbraio 1881, LV, pp. 596–611. Notizia letteraria. Tiepolo, la villa Valmarana. Studio di Pompeo Gherardo Molmenti, marzo 1881, LVI, pp. 145–149. L’arte all’Esposizione nazionale di Milano, giugno 1881, LVII, pp. 637–646. Le industrie artistiche all’Esposizione di Milano, ottobre 1881, LIX, pp. 493–509. Giovanni Duprè, gennaio 1882, LXI, pp. 330–335. Il monumento nazionale a Vittorio Emanuele, agosto 1882, LXIV, pp. 640–662. La Mostra di Belle Arti e la nuova Galleria Nazionale, maggio 1883, LXIX, pp. 211–239. Venezia che scompare. Sant’Elena e Santa Marta, ottobre 1883, LXXI, pp. 629–645. Il castello medioevale all’Esposizione di Torino, settembre 1884, LXXVII, pp. 250–270. Il bello nella Esposizione di Torino, novembre 1884, LXXVIII, pp. 25–45. L’anima di un artista. (Memorie postume di Francesco Mosso pittore, pubblicate da Marco Calderini), gennaio (prima parte, pp. 209–228), febbraio (seconda parte, pp. 439–458) 1885, LXXIX.
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Chiara Cretella
I nostri vecchi monumenti. (Sui marmi di San Marco), marzo 1885, LXXX, pp. 57–78. I nostri vecchi monumenti. Necessità di una legge per conservarli, giugno (prima parte, pp. 640– 662), luglio (seconda parte, pp. 58–73) 1885, LXXXI, LXXXII. I frutti dell’Esposizione di Anversa, novembre 1885, LXXXIV, pp. 53–71. I concorsi artistici, gennaio 1886, LXXXV, pp. 41–61. I nostri vecchi monumenti. Conservare o restaurare?, giugno 1886, LXXXVII, pp. 480–506. Il monumento a Vittorio Emanuele in Campidoglio, settembre 1886, LXXXIX, pp. 251–270. La Basilica d’oro. (A proposito dell’opera “Documenti per la storia dell’augusta ducale Basilica di S. Marco in Venezia dal IX secolo alla fine del XVIII”, Venezia, Ferdinando Ongania), novembre 1886, XC, pp. 267–285. La Mostra dei tessuti in Roma, maggio 1887, XCIII, pp. 64–79. Due processi artistici del secolo XVI, agosto 1887, XCIV, pp. 630–648. La Mostra nazionale di belle arti in Venezia, novembre 1887, XCVI, pp. 48–63. Le oblazioni per la fabbrica del Duomo di Milano dal 1386 al 1402, dicembre 1888, CII, pp. 530–543. Sulle antichità e le belle arti, dicembre 1889, CVIII, pp. 634–648. Condizioni presenti dell’Architettura in Italia, febbraio 1890, CIX, pp. 466–485. Il Palazzo di San Giorgio in Genova, marzo 1890, CX, pp. 119–129. Le scuole di architettura, di belle arti e di arti industriali, maggio 1890, CXI, pp. 41–59. La prima Esposizione italiana di architettura, gennaio 1891, CXV, pp. 47–74. L’ultimo dei pittori romantici. (Francesco Hayez), 1 maggio, (prima parte, pp. 60–88), 16 maggio (seconda parte, pp. 281–307) 1891, CXVII. Il maestro di setticlavio. Novella veneziana (poi in Storielle vane col titolo: Il maestro di setticlavio), 1 dicembre (prima parte, pp. 478–499), 16 dicembre (seconda parte, pp. 646–667) 1891, CXX. Delle questioni d’arte. La facciata del Duomo a Milano e le trifore del Palazzo Ducale a Venezia, ottobre (prima parte, pp. 649–663), dicembre (seconda parte, pp. 539–554) 1899, CLXVII, CLXVIII.
In: Giornale dell’Ingegnere, Architetto ed Agronomo, Milano, Saldini Prolusione alle lezioni tecniche d’architettura per gli Ingegneri detta nell’Accademia delle Belle Arti in Venezia il di’ 15 gennaio 1856, nel progetto inedito di architettura pubblicato col detto giornale, 1858. Descrizione di quattro progetti premiati nella Scuola d’Architettura degli Ingegneri all’Accademia di Belle Arti in Venezia l’anno 1856, nel progetto inedito di architettura pubblicato col detto giornale, 1858. L’architettura odierna e l’insegnamento di essa, VIII, 1860, pp. 269–380, 579, 638. Memorie originali: L’architettura cosmatesca, VIII, 1860, p. 7. Relazione sul progetto di restauro per la Basilica di S. Maria e Donato in Murano, con tavole, IX, 1861, p. 76. Sulla necessità di un nuovo ordinamento di studii per gli architetti civili. Considerazioni, IX, 1861, p. 724. Francesco Talenti. Ricerche storiche sul Duomo di Firenze dal 1294 al 1367. Lettere a Cesare Guasti, XIII, 1865, pp. 545–612, e XIV, 1866, p. 20. Due notizie su Francesco Talenti, XV, 1867, p. 166.
In: Il Politecnico, Milano, Pirola Rivista delle Arti Belle: L’architettura in Milano, voI. I, 1865, p. 98. Sulla possibilità e la convenienza di un nuovo stile nazionale di architettura in ordine alla condizione politica e sociale del Regno d’Italia. Studi e proposta del professore Pierluigi Montecchini (Torino 1865), vol. I, 1866, p. 274.
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Rivista delle Arti Belle – Trieste, 31 gennaio, vol. I, 1866, p. 452. Rivista delle Arti Belle. La Mostra a Brera. I. La Pittura. II. La Scultura, vol. II, 1866, p. 611, 729. Della facciata per Santa Maria del Fiore. Notizie, 1866, p. 369, 451. Di alcuni libri sugli edifici del Medio Evo in Italia, 1866, p. 557, vol. II, p. 132. Rivista delle Arti Belle. Artisti italiani contemporanei: Giuseppe Bertini pittore milanese, vol. II, 1866, p. 470–482. Rivista delle Arti Belle: Un po’ di politica, un po’ di guerra nell’arte. Girolamo Induno, Pagliano, Casnedi alla stazione della ferrovia. Il decreto che istituisce quattro premii per la Pittura, 15 settembre, vol. II, 1866, p. 470. Da Milano a Varsavia in tre giorni. Lettere architettoniche, vol. II, 1866, pp. 277–515, vol. III, p. 153, 433, 507. Vizii e virtù dei concorsi architettonici: Al proposito di un concorso fortunato, vol. III, 1867, p. 324. Rivista delle Arti Belle. La Mostra a Brera e all’Arcivescovado, I. L’Hayez, II. Le Statue pel Duomo, vol. IV, 1867, p. 431, 569. La Chiesa di Sant’Abbondio e la Basilica disotto. Lettere Comacine con undici tavole, 1867, p. 309–631. La Chiesa di Carrara S. Stefano presso Padova, con quattro tavole, 1879, p. 218. Progetto dell’Architetto Giuseppe Brentano per la nuova facciata del Duomo di Milano scelto per la esecuzione e la relazione della commissione aggiudicatrice dei premi, 1889, p. 51.
In: Illustrazione Italiana, Milano, Treves Giovanni Strazza, 1875, p. 275. Un quadro di Federico Pastoris, I° semestre, 1876, p. 86. Una scuola di disegno per gli Artigiani, I° semestre, 1877, p. 55. Relazione sui progetti di Monumento a Garibaldi a Roma, a Torino, a Venezia, I° semestre, 1884, pp. 42, 186, 231. Il monumento Garibaldi a Roma, I° semestre, 1885, pp. 7–338. Relazione sui progetti della facciata del Duomo di Milano, 2° semestre, 1887, p. 176. Il pittore Lodovico Pogliaghi e le sue scene romane, I° semestre, 1888, p. 193. Ricordo di Cesare Guasti, I° semestre, 1890, p. 239. Il Chiostro di Monreale, I° semestre, 1892, p. 23. Bozzetti del monumento al Principe Amedeo a Torino, I° semestre, 1892, pp. 71–114, 130–135.
In: La Perseveranza, Milano, Tipografia della Perseveranza La Mostra di Belle Arti a Torino. Fra Giovanni da Vicenza. Ezzelino Romano, 5 giugno 1860. La Mostra di Belle Arti a Torino. L’Innominato. Micca. Ferruccio. Eloisa ed Abelardo. Marco Visconti e la Bice. Pia Dei Tolomei, 12 giugno 1860. La Mostra di Belle Arti a Torino. Pittura Sacra. Episodi dell’ultime guerre d’Italia, 26 giugno 1860. La Mostra di Belle Arti a Torino. Mezze figure. Prospettiva. Paesaggio. Scultura, 27 giugno 1860. Milano di là da venire o la Mostra edilizia nelle sale di Brera, 15 e 27 agosto 1860. La nuova piazza del Duomo giusta il progetto della Commissione Municipale, 5 e 7 febbraio 1861. La Litografia in Milano, 20 marzo 1861. I modelli pel monumento commemorativo dell’annessione della Toscana e dell’Emilia al Piemonte esposti nelle sale di Brera, 28 aprile 1861. Sulla prossima Esposizione italiana in Firenze, 21 luglio 1861. Sulla necessità di un nuovo ordinamento di studi per gli architetti civili, 8,12,17 novembre e 2 dicembre 1861.
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I progetti per la nuova Piazza del Duomo. Tre lettere al sig. Filippo dott. Filippi, segretario della Perseveranza, 2, 4, 8 luglio 1862. Sulla condizione delle Arti Belle in Italia, 7, 11, 20 settembre 1863. La Mostra di Belle Arti a Brera. Pittura, 27, 29 settembre e 6 ottobre 1863. La Mostra di Belle Arti a Brera. Pittura di Genere. Ritratti, 8 ottobre 1863. La Mostra di Belle Arti a Brera. Paesi e Marine, 16 ottobre 1863. La Mostra di Belle Arti a Brera. Scultura, 26 ottobre 1863. La Chiesa di S. Abbondio. Tre lettere da Corno, 17, 24, 13 novembre 1865.
In: Lo Spettatore, Firenze Prelezione al corso di storia architettonica per ingegneri Laureati che assolvono gli studi architettonici recitata il 15 gennaio 1856, n. 15, 13 aprile 1856, pp. 172–175. La nostra Accademia di Belle Arti, n. 41, 12 ottobre 1856, pp. 498–501. Belle Arti. L’aritmetica nelle arti belle. Il setticlavio, n. 45, 9 novembre 1856, pp. 545–547. Il restauro del Teatro della Pergola, n. 2, 4 gennaio 1857, pp. 16–18. Le nuove opere di Giovanni Dupré, n. 4, 25 gennaio 1857, pp. 45–46 e n. 5, 1 febbraio 1857, pp. 58–60. La nostra Accademia di Belle Arti. La scuola di architettura, n. 7, 15 febbraio 1857, pp. 76–78. Intorno al metodo d’insegnamento adottato per gli Alunni dell’Accademia di Belle Arti di Venezia. Lettera al Direttore dello Spettatore, n. 29, 19 luglio 1857, pp. 341–343. Sull’architettura toscana del Medio Evo, n. 39, 27 settembre 1857.
In: Arte Italiana Decorativa e Industriale1 1892/1911– Direzione di Arte italiana decorativa e industriale: periodico mensile pubblicato sotto il patrocinio del Ministero di agricoltura, industria e commercio, 1890–1911, 20 voll. Dal 1890 al 1891 edito da Ferdinando Ongania, Venezia. Dal 1892 al 1893 edito da Fratelli Cattaneo, Bergamo. Dal 1894 luogo ed editore variano in Hoepli, Milano. Dal 1894 coeditore: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, Bergamo.
Anno 1892. Lettera agli editori, pp. 3–4. Terrecotte antiche nel Museo Kircheriano di Roma, p. 15. Ringhiere di bronzo nei pulpiti di S. Maria Maggiore in Bergamo, p. 27. Libri vecchi e nuovi per le scuole e per le officine, p. 28. Volte dipinte nella Certosa di Pavia, pp. 31–32. Un vaso e un vassoio del secolo XVI nel Museo Nazionale di Firenze, p. 44. Nimbi di santi in alcuni dipinti del secolo XIV, p. 44. 1
Boito scrive quasi mensilmente contributi a carattere altamente specialistico per il giornale da lui diretto: si tratta di articoli sulla storia dell’arredamento e sulle arti applicate. Un primo elenco di questi interventi si trova in L. GrassI, Camillo Boito, Il Balcone, Milano 1959, pp. 52–58, ma si tratta di un regesto incompleto con alcune indicazioni errate: questo presentato è invece l’elenco definitivo, si segnala che alcuni di questi articoli sono stati digitalizzati e catalogati nel progetto Partage Plus. Il Liberty in Italia del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e resi disponibili all’indirizzo: http://www.liberty. beniculturali.it/index. php?it/143/spoglio-riviste. La rivista Arte italiana decorativa e industriale è inoltre disponibile in formato digitale all’indirizzo: http://periodici.librari.beniculturali.it.
Bibliografia boitiana
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Anno 1893. Soffitto in una casa di Feltre, pp. 53–54. Mobili nella Pinacoteca e nel Palazzo Mansi a Lucca, p. 59. Imposte di porte nel Cinquecento, p. 68. Alcune opere di oreficeria nella Cattedrale di Lucca, pp. 75–76.
Anno 1894. Una casa del Cinquecento e un battitoio di porta in Feltre, pp. 13–14. Vetrate nella sagrestia di S. Anastasia in Verona, p. 18. I palazzi dei Gonzaga a Sabbioneta e a Luzzara, p. 20. Alcune opere italiane d’arte industriale nei musei stranieri, pp. 24–25. Una tribuna del Secolo XV, un cassettone del Secolo XVII, un bicchiere del secolo XVIII, pp. 33–34. Altri soffitti del secolo XVI, pp. 46–47. Camera da letto rococò in un palazzo di Lucca e stoffe di manifattura lucchese, pp. 48–49. Imposte delle porte nelle camere di Raffaello in Vaticano, pp. 54–55. Volte e camino nel palazzo Doria a Fassolo in Genova, pp. 93–94. Reliquiari nel tesoro della Basilica Antoniana in Padova, pp. 96–97.
Anno 1895. Alcune opere ornamentali in Trento, pp. 13–14. Seggioloni del Brustolon, pp. 14–15. Due imposte di porte e alcuni bronzi del secolo XVI, p. 19. Parete scolpita da Bartolomeo Bellano nella sagrestia della Basilica di S. Antonio a Padova, p. 33. La Cappella Portinari attigua alla Basilica di S. Eustorgio in Milano, pp. 75–76. L’Altare di Donatello, pp. 80–81. Imposte in bronzo della Porta Maggiore nella Basilica di S. Antonio a Padova, pp. 98–99.
Anno 1896. Un ottimo decreto, pp. 8–9. Croce e candelabri per l’altar maggiore del Duomo di Milano, pp. 10–12. Alcune opere d’oreficeria del Cinquecento, pp. 21–22. Ornamenti geometrici, pp. 61–63.
Anno 1897. Mobili archiacuti in vecchie sculture e pitture padovane, pp. 29–30. Dipinti ornamentali nei castelli di Pandino e Malpaga, pp. 42–44. La Scuola superiore d’arte applicata alle industrie in Venezia, pp. 53–56. Pavimento di mattonelle maiolicate nella Chiesa di S. Sebastiano a Venezia, pp. 59–60. Alcune opere d’arte industriale nella Galleria Estense di Modena, pp. 85–87. Lacunari dipinti da Domenico Campagnola nel 1531, pp. 90–91. Le scuole del Museo Artistico Industriale in Roma, pp. 93–98.
Anno 1898. L’arte italiana e l’ornamento floreale, pp. 3–5. Ancone e trittici, pp. 16–18. Tappeti orientali e loro imitazioni italiane, pp. 21–24. Alcuni mobili nel Museo d’Antichità di Parma, pp. 43–44. Le maioliche italiane della Collezione Spitzer ora dispersa, pp. 47–49.
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I due pozzi di bronzo nel Palazzo Ducale a Venezia, pp. 61–62. I pavoni nell’arte, pp. 65–67. La Certosa di Praglia, pp. 96–97.
Anno 1899. Il Belvedere di Praga: un edificio italiano del Cinquecento sconosciuto in Italia, pp. 21–25. La camera del Doge nel Palazzo Ducale di Venezia, pp. 26–27. Monumento al Generale Contarini nella Basilica Antoniana di Padova, p. 34. Il soffitto del Palazzo Chiaramonte in Palermo, pp. 37–39. Gl’intagli del Cambio a Perugia, pp. 45–46. La scuola fiorentina delle arti decorative e industriali, pp. 53–57, 71–74, 79–82. I vecchi disegni d’arte decorativa nella Galleria degli Uffizi, pp. 85–87.
Anno 1900. Un abile intagliatore in cuoio, pp. 29–30. Saggio delle opere esposte nel Palazzo d’Italia alla Gran Mostra di Parigi, pp. 41–42, 49–52. Uno stipo della fine del Risorgimento nel Museo Cristiano di Brescia, p. 76.
Anno 1901. La volta dipinta dal Parmigianino nella Rocca di Fontanellato, pp. 49–50. Il Prof. M. Meurer e i suoi studi sulle piante e sull’ornamento, pp. 53–56. Lo studio ornamentale della pianta, pp. 56–58. Cenni di recenti pubblicazioni sul nuovo stile e sullo studio della natura, pp. 83–84, 96–98.
Anno 1902. Note sull’arte dei tessuti Barocco, Rococò, Impero, pp. 16–20. La Loggetta di S. Marco, pp. 59–60. Un vecchio corso elementare di disegno più nuovo che mai, pp. 93–95.
Anno 1903. Le patere della Chiesetta di S. Francesco a Lugano, ora a Moncucco, p. 26. Serie di venti calchi in gesso da ornati del Rinascimento per cominciare lo studio dal rilievo, pp. 27– 28. Grata innanzi all’urna di S. Alessandro nella Chiesa di Pignolo a Bergamo, p. 36. La nuova decorazione della Sala pei matrimoni nel Palazzo Municipale di Bologna, pp. 57–58.
Anno 1904. La nuova serie dell’Arte Italiana, pp. 3–4. Due scuole di composizione decorativa, pp. 11–12. Un decoratore di sessant’anni addietro, pp. 25–27. Fiori, ortaggi e natura, pp. 29–32. Il cofano per la bandiera di battaglia della corazzata Regina Margherita, pp. 33–34. La facciata di una nuova casa in Milano, pp. 53–55.
Anno 1905. Pesci e insetti nella decorazione, pp. 3–6. Imposte gotiche di una porta nel Palazzo degli Odasi a Urbino, p. 12.
Bibliografia boitiana
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Ancora sull’arte del fabbro ferraio, pp. 37–40. Il Congresso Internazionale d’Arte Pubblica a Liegi, pp. 40–41. Un palazzo nuovo di stile vecchio: la sede della Cassa di Risparmio a Pistoia, pp. 65–68.
Anno 1906. Il pavimento di maiolica e le tarsie di legno nella Cappella De’ Vaselli in S. Petronio a Bologna, pp. 26–28, 35–36.
Anno 1907. In proposito di una scuoletta femminile, pp. 5–9. In proposito di una scuoletta femminile, pp. 45–49.
Anno 1908. Mobili ogivali nella Abbazia di Staffarda, pp. 41–44. Una recente pubblicazione sullo Style Louis XVI, pp. 83–84.
Anno 1910. Stoffe da parato nel primo Impero napoleonico, pp. 26–28. La scuola popolare di disegno e plastica in Vicenza, pp. 53–55. Questioni didattiche, l’interpretazione di un voto, pp. 77–79. Uno scultore secentista della Valle d’Intelvi, pp. 91–92. Alcuni soffitti nel Palazzo Ducale di Venezia, pp. 93–95.
Anno 1911.
Pellegrino Pellegrini in un bel libro del 1756, pp. 45–49. Un pilastro nella facciata di Santa Maria dei Miracoli a Brescia, pp. 59–60. Due nuove opere d’arte decorativa in Torino, pp. 74–76.
LETTERE P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, Milano, Mondadori, 1942, pp. 50–52 e p. 219. G. C. Rossi (a cura di), Tre lettere inedite di Camillo Boito a Graziadio Isaia Ascoli, in: Accademie e biblioteche d’Italia, XLI (1973), n.1, Roma, Palombi, pp. 36–38. D. Cutali, Due lettere di Camillo Boito a Carlo Tenca, in: Schede del bollettino dell’Istituto di Filologia Moderna dell’Università di Macerata, 1978, pp. 47–52. B. Zanenga, Per un ritratto di Camillo Boito, in: Archivio storico di Belluno, Feltre, Cadore, XLIX (1978), 224, Belluno, Stabilimento Tipografico Panfilo Castaldi, p. 94. M. Maderna (a cura di), Pensieri di un architetto del secondo Ottocento. Documenti e frammenti per una biografia intellettuale di Camillo Boito critico militante e architetto, Milano, Archinto, 1998. L. Rivi (a cura di), Lettere all’artista: testimonianze d’arte nell’Ottocento dall’epistolario di Adeodato Malatesta, Modena, Biblioteca Civica d’Arte Poletti, 1998, pp. 115–116. L’epistolario disperso, in: C. Cretella, Architetture effimere. Camillo Boito tra arte e letteratura, Camerano, Dakota Press, 2013, pp. 268–307.
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Chiara Cretella
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Non si ripetono qui le varie introduzioni alle ristampe delle novelle, già citate nelle opere di narrativa pubblicate postume, che costituiscono le principali fonti della critica letteraria sul nostro autore, sono stati invece indicati alcuni contributi utili alla ricostruzione della vita e delle opere di Camillo Boito. Inoltre si ricordano in questa sede i maggiori contributi saggistici sul movimento della Scapigliatura.
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FILM, SCENEGGIATURE E BIBLIOGRAFIE SULLE TRASPOSIZIONI CINEMATOGRAFICHE Senso, film diretto da L. Visconti, soggetto e sceneggiatura di L. Visconti; S. Cecchi D’Amico con la collaborazione di C. Alianello, G. Bassani, G. Prosperi. Musica: A. Bruckner. Interpreti: A. Valli; F. Granger, 115 minuti, a colori, Roma, Lux, 1954. Principali edizioni successive: VHS, Milano, Mondadori, 1987, 2002; VHS, Milano, De Laurentiis Ricordi Video, 1990; VHS, Segrate, Medusa Video, 1990; VHS, Roma, Vivivideo, 1992; VHS, Videoclub Luce, Roma, Videorai, 1995; VHS, Roma, Quotidiani locali Gruppo Espresso, 1998; DVD, Dolmen home video, 2004, 2007; DVD, Campi Bisenzio, Cecchi Gori home video, 2007, 2012; DVD, Milano, RCS MediaGroup quotidiani, 2012. Senso: un film di Luchino Visconti, a cura dell’Ufficio stampa e dell’Ufficio artistico della Lux-Film, Roma, Tip. Intergraf, 1954. F. M. De Sanctis, Sesso e coralità in una ‘Storiella vana’, in: Cinema, XII (1954), n. 136, p. 352. P. Baldelli, Mito e realtà dei film di Luchino Visconti, in: Società, XI (1955), pp. 620–46, pp. 842–68. P. Baldelli, Luchino Visconti, Milano, Gabriele Mazzotta, 1982.
M. Marcus, Visconti’s ‘Senso’: The Risorgimento According to Gramsci, in: Id., Italian Film in the Light of Neorealism, Princeton, Princeton University Press, 1986, pp. 164–87.
C. Partridge, ‘Senso’. Visconti’s Film and Boito’s Novella. A Case Study in the Relation between Literature and Film, Lewinston-Quenston-Lampeter, The Edwin Mellen Press, 1992. M. Lagny, Senso: Luchino Visconti, étude critique, Paris, Nathan, 1992. R. Eugeni, The Lateral Glance From Boito To Visconti: The Structure of Vision in the Incipit of Senso, in: Iris, 30 (2004), pp. 99–111. Senso ’45, film diretto da T. Brass, musiche di Ennio Morricone; soggetto e sceneggiatura T. Brass; liberamente ispirato al romanzo di C. Boito. Interpreti: A. Galiena, G. Garko, bianco e nero e a colori, Cine 2000, Italia 2002. Principali edizioni successive: VHS, Milano, Eagle pictures, 2002; VHS, Milano, Mondadori, 2003; DVD, Master, Milano 2004; DVD, Novara, De Agostini, 2008. Venezia e il cinema di Luchino Visconti: da Senso di Camillo Boito a Morte a Venezia di Thomas Mann, ideazione e cura di S. Toffolo, scritti di S. Toffolo, M. Rosin, P. Messina, P. Venturini, San Donà del Piave, Nattan, 2006. E. Del Tedesco, Il Risorgimento di Boito letto da Visconti, in: Studi Novecenteschi, LXXV (2008), pp. 21–42. P. Trivero, Da Remigio Ruz a Franz Mahler: considerazioni intorno a Senso, in: F. Mazzocchi (a cura di), Luchino Visconti, la macchina e le muse, Bari, Quaderni del Dams di Torino – Edizioni di Pagina, 2008, pp. 193–212. S. Acocella, Vorticoso e strisciante. Il falso movimento della Storia nel Gattopardo e in Senso, in: Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali, LXIX (2010), pp. 103–114. L. Caretti, Passioni in primo piano: Senso di Visconti, in: B. Peroni (a cura di), Leggere le camicie rosse, Milano, Unicopli, 2011, pp. 31–50. A. Martini, S. Micali (a cura di), Storia patria tra letteratura e cinema: Senso e Vanina Vanini, Torino, Kaplan, 2014.
OPERE ARCHITETTONICHE REALIZZATE DA CAMILLO BOITO Pusterla di Porta Ticinese, Milano, 1861. Cimitero, Gallarate, 1865. Sepolcreto Ponti, Cimitero di Gallarate, 1865. Ospedale, Gallarate, 1871. Palazzo delle Debite, Padova, 1873.
Bibliografia boitiana Edificio d’ingresso e scalone del Museo, Padova, 1879. Scuole elementari maschili e femminili alla Reggia Carrarese, Padova, 1880. Scalone in Palazzo Franchetti, Venezia, dal 1882 in poi. Scuole, Via Galvani, Milano, 1888. Cappella Occa, Cimitero Monumentale di Milano, 1889. Ricomposizione dell’Altare di Donatello, Chiesa del Santo, Padova, 1898. Portali di bronzo, Chiesa del Santo, Padova, 1898. Casa di Riposo per Musicisti Giuseppe Verdi, Milano, 1899.
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INDICE DEGLI AUTORI E DEI CURATORI Immacolata Amodeo, direttore Ernst-Bloch-Zentrum Ludwigshafen/Rhein, professore onorario presso la Johannes Gutenberg-Universität Mainz; 2012–2018 Segretario Generale del Centro Italo-Tedesco dell’Eccellenza Europea Villa Vigoni. Monica Biasiolo, docente di letteratura italiana e francese e di letteratura comparata presso l’Università di Angusta, progetto di abilitazione sulla letteratura utopica del periodo 1860–1910 in relazione alla “Querelle des sexes”. Elisabeth Braunshier, dottoranda di ricerca all’Università di Vienna con il progetto “L’opera lirica come programma iconografico. Studi sull’opera di Francesco Hayez”. Dagmar Bruss, già assistente postdoc all’Istituto di Romanistica dell’Università di Amburgo, ha concluso un dottorato di ricerca con una tesi sul rapporto fra Giovanni Verga e Robert Walser, editor freelance. Chiara Cretella, già assegnista di Ricerca presso l’Università di Bologna, lavora come organizzatrice culturale e formatrice a livello nazionale ed internazionale sulle tematiche di genere. Matilde Dillon Wanke, professore ordinario di Letteratura italiana nella Facoltà di Lingue e Letteratura straniere dell’Università di Bergamo e docente nel Dottorato di italianistica dell’Università di Trieste. Caroline Lüderssen, docente di letteratura italiana presso l’Università di Francoforte sul Meno, capo-redattrice della rivista Italienisch di Francoforte. Giovanni Meda Riquier, responsabile delle raccolte storiche di Villa Vigoni, co-curatore dell’edizione dei Carteggi letterari di Alessandro Manzoni per l’Edizione Nazionale delle opere. Carmelo Alessio Meli, dottore di ricerca in Etica all’Università “Sapienza” di Roma e docente di lingua e cultura italiana all’Università di Siegen; si occupa della tarda filosofia pratica kantiana. Luca Mendrino, ha conseguito il titolo di dottore di ricerca presso l’Università del Salento a Lecce con un progetto sulle Tragedie di Gian Vincenzo Gravina. Corinna Scalet, dottoranda di ricerca in Linguistica italiana all’Università di Heidelberg. Sandro Scarrocchia, docente di Teoria e Storia del Restauro e Metodologia della Progettazione all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, specialista di Alois Riegl e Max Dvořák. Alessandro Scarsella, professore ordinario di Letteratura comparata presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati dell’Università Ca’ Foscari di Venezia; redattore della Rivista di Ermeneutica Letteraria, Cives e Miscellanea Marciana.
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Indice degli autori e dei curatori
Ludger Scherer, docente di Filologia romanza all’Università di Bonn, professore supplente di Filologia romanza presso l’Università di Aquisgrana (RWTH Aachen). Laura Staiano, ha concluso un dottorato di ricerca in Letterature francesi comparate all’Università di Angers in cotutela con l’Università Federico II di Napoli con il progetto “Les aveugles entre le visible et l’invisible”, insegnante di lingua francese nella scuola secondaria e all’Università di Siena. Viola Stiefel, ha concluso un dottorato di ricerca in Letteratura francese con un progetto sulle strutture spaziali nell’opera di Michel Butor; ex-borsista della Friedrich-Naumann-Stiftung, attualmente assistente di letteratura francese e italiana all’Università di Heidelberg. Friedrich Wolfzettel, professore emerito di filologia francese e italiana presso la Goethe-Universität di Francoforte sul Meno. Annarita Zazzaroni, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Italianistica nel 2009 presso l’Università di Bologna; tutor didattico del Corso di Laurea in Lettere dell’Università di Bologna e docente di Scrittura e Lingua Italiana per la Scuola di Lettere e Beni Culturali dell’Università di Bologna.
Questo volume contiene i contributi del convegno, tenutosi nel giugno 2014 a Villa Vigoni, dal titolo “Il corpo e l’anima dell’arte” – l’opera letteraria di Camillo Boito in dialogo con le arti, in occasione del Centenario della morte del celebre architetto e scrittore Camillo Boito e inserito nel programma “Dialogo italo-tedesco” finanziato dal DAAD. I saggi trattano da un lato l’opera letteraria di
ISBN 978-3-515-11297-0
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7835 1 5 1 1 2970
Boito e la sua poetica, e dall’altro il suo rapporto con le altre arti dal cinema, alla musica e alla pittura. Boito, il principale rappresentante della Scapigliatura milanese, si rivela un narratore compiuto e originale che anticipa le tendenze moderniste. Nella seconda parte del libro viene pubblicata per la prima volta un’opera fondamentale della ricerca italiana su Boito.