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Italian Pages 224 [256] Year 2020
LIBRO VERITÀ
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GABRIELLA IZZI BENEDETTI intervista
RENZO ROSSELLINI
OLTRE IL NEOREALISMO Arte e vita di Roberto Rossellini in un dialogo con il figlio Renzo
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Libro Verità / nuova serie Tutti i diritti d’autore saranno devoluti alla Federazione Italiana Leniterapia (FILE)
In copertina: Roberto Rossellini con Ingrid Bergman
www.mauropagliai.it © 2020 LEONARDO LIBRI srl Via Livorno, 8/32 - 50142 Firenze - Tel. 055 73787 [email protected] - www.leonardolibri.com ISBN 978-88-564-0438-8
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In un mondo come il nostro, in cui si deve essere o bianchi o neri, le mezze tinte, le sfumature non esistono: ma il mondo, e gli uomini soprattutto, sono fatti solo di sfumature. Roberto Rossellini
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PREMESSA
A quarant’anni dalla scomparsa di Roberto Rossellini, un regista mai dimenticato, la proposta di un amico1 comune a Renzo, figlio di Roberto e Marcella De Marchis, e me, mi appassiona: programmare in Firenze un convegno su di lui. Presso il Consiglio regionale toscano trovo piena collaborazione. Piace l’idea di riproporre questa figura impareggiabile del cinema di ogni tempo, coerente con se stesso e il concetto della finalità culturale e morale della comunicazione visiva: rendere l’essere umano migliore. Rossellini è un personaggio rimasto nel cuore di tutti; elaborando un nuovo linguaggio cinematografico, ha qualificato e definito la stagione neorealista; superandola ma anche acquisendola come base espressiva non contrattabile sul piano etico. E, fattore importante, la sua narrazione ha evitato di cedere a ovvietà che l’espressione realista può produrre. Senza di lui il cinema italiano e non solo, non si concepisce. Non a caso il regista austriaco Otto Preminger diceva: «Il cinema si divide in due ere: una prima e una dopo Roma, città aperta». Rossellini è stato il primo a trasformare il clima di una ri-
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Federico Gentilini, avvocato.
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trovata libertà in un racconto dove la tensione antifascista raggiunge una formula alta e completa. Roma città aperta è un film scritto e girato sotto la spinta di un’adesione interiore totale e che diviene una delle migliori espressioni rivoluzionarie del film come arte. Ugualmente Paisà, realizzato con maggiore distacco emotivo, si colloca quale testimonianza civile ricca di un senso poetico che, come nel film precedente, unisce storia ed emozione. Rossellini ha avuto la percettibilità massima nell’assorbire il clima di tragedia e di riscossa, divenendo una sorta di «cantore» dell’epica di un tempo antiepico. Acuto osservatore di fatti pregressi e immediati, ha creato storie e immagini di forza straordinaria. Niente risulta mediocre, anche nel trattare e addentrarsi nella mediocrità, in quanto qualunque situazione proposta è filtrata attraverso una verifica culturale, un ritmo, un’armonia, e il rifiuto di sentimentalismi; appare costante la sua esigenza di razionalità. Il percorso del regista, molto legato alla concezione storicistica, prosegue con altri modelli d’indagine, l’apologo, l’analisi della figura femminile, la ricerca mistica, quella più esistenziale e privata, fondata sulla crisi d’identità di coppia o, più ampiamente, della collettività. È tra i primi a vedere le potenzialità didattiche del piccolo schermo, la possibilità di diffondere cultura ad ampio raggio. Un aiuto concreto per la giustizia sociale e la libertà che si ottengono attraverso la crescita culturale, l’istruzione. Così come attraverso di essa si raggiungono eguaglianza e fraternità. È questo il mondo che il figlio Renzo incrocia fin dall’infanzia. E che è alla base della sua formazione umana e intellettuale. Il mondo del cinema (e della comunicazione) come,
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e più di altri, è popolato di rampolli, discendenti; che spesso si affannano nella conquista di una quotazione paritaria, se non superiore a chi li ha preceduti. Non succede quasi mai. Può essere invece, com’è avvenuto per Renzo Rossellini, che una dimostrazione di valore nella diversificazione, seppur in similitudine, trovi una via preferenziale di collocazione nel mondo cinematografico, in formula differente. Renzo cerca spazi propri. Mentre il mondo usciva dall’incubo della guerra e dall’angoscia della Resistenza, dalle quali prendeva le distanze, cercando un alleggerimento, naturale e comprensibile, ma anche pericoloso per una troppo veloce damnatio memoriae, e dunque distorsione dei fatti, gli spiriti più attenti si sono dedicati all’analisi, alla rievocazione, partendo da un affondo immediato nel clima recente, e già memoria. Il piccolo Renzo ha respirato quel clima; diversamente da altri bambini che sicuramente hanno ascoltato racconti, vissuto in adesione al momento, percependolo però come condizione superata, o comunque estranea, lui ha rivissuto sequenze, si è calato all’interno di un processo di revisione storica, dal vivo. Quanto tutto questo ha influito sulla sua formazione, legandolo a una sorta di assunzione di responsabilità, di urgenza partecipativa? Influendo sulle sue scelte? Mi viene da riflettere sulla differenza tra lui e il padre, che visse pienamente il gusto della ricerca della realtà nella sua essenza primaria, per poi trasformarla in racconto, favola, epica, dramma. Una narrazione che partendo dal particolare raggiunge dimensioni universali. Comprendere, vivere il proprio tempo e da esso spiccare il volo. Questo in sostanza hanno fatto e fanno i grandi registi, neorealisti o
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no: la trascendenza della propria arte. Negli anni del neorealismo la vita nella sua semplicità era più autentica, piena di aspettative e speranze. Il neorealismo italiano nasce dalle ceneri della disfatta bellica e diviene la rivelazione di una realtà che coinvolge e sconvolge il mondo, riabilita l’immagine dell’Italia, in quanto non più vista come un covo di nazifascisti, ma un popolo sottomesso a una dittatura di cui non ha intuito in tempo la gravità. In questo senso il cinema acquista una dignità mai vissuta prima; la critica più perspicace ne è cosciente. Rossellini è indicato universalmente come il padre del nuovo corso cinematografico. Il regista Truffaut sosteneva la derivazione della Nouvelle Vague (nata nel ’59) dal Neorealismo che per lui s’identificava in Rossellini. Ciò non toglie poi che Rossellini abbia sperimentato nuove formule espressive. È uno sperimentatore, sente l’evoluzione intrinseca alla società o addirittura la precede. Ma rimane connesso a temi etici. La sua è una narrazione in cui l’ipotesi di un mondo dove solidarietà, etica e riscatto sociale, giustizia, possono da utopici divenire realtà, prende corpo. Per Renzo invece (oltre ad avere un padre che, raggiungendo vette altissime, diviene irraggiungibile), non è sufficiente il raccontare; vuole divenire l’interprete. E così gli ideali di giustizia e solidarietà, l’autonomia di pensiero e di evoluzione sociale che il padre lancia come straordinari e suggestivi messaggi, sono quelli che Renzo intende vivere in concreto. Non che non conosca, non ami e non utilizzi la macchina da presa. Non è questo. La sua è aspirazione a partecipare. Raggiunge i suoi obiettivi fondendo militanza politica e racconto visivo. Macchina da presa, e kalashnikov.
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Una partecipazione articolata. Infine l’amore paterno ha la meglio, lo riporta a casa. Molto importante sarà la realizzazione di Radio Città Futura. Scrive a riguardo Gaither Stewart: «Renzo Jr era molto all’avanguardia, in fatto di battaglie intellettuali europee, e lavorava per evitare il declino del cinema italiano. Nel 1974 organizzò a Roma la prima radio privata di sinistra, Radio Città Futura. Era l’emblema di una nuova generazione di registi italiani, meno artistici, più terra-terra e interessati a problemi immediati»2. Nel progetto si propone di far confluire le risultanti, almeno in parte, del suo pensiero: condivisione sociale e politica stemperata nell’esercizio del dialogo che non si ottiene senza confronto. Ha successo. Da quando, nell’assecondare il desiderio del padre, ne ha ritrovato una più profonda sintonia, collaborerà con lui fino alla sua scomparsa, portando a termine a volte film da lui iniziati. Non è l’ideatore, ma è così forte l’intesa fra loro che può tranquillamente prenderne il posto. Tanto che chi vede il film non nota differenze di sorta. D’altra parte ripete spesso: «tutto quello che sono, tutto quello che so, lo devo a mio padre». Però, non sviluppando una personalità propria come regista, opta per una svolta che ne produce altre. Diventerà editor, docente. Produttore. Scrive ancora Stewart: «Renzo divenne produttore; che non fu un radicale cambiamento di carriera. Il produttore cinematografico è una figura paterna; il regista, suo fi-
2 G. STEWART, Il cinema italiano e la sinistra; riscoprendo il regista Roberto Rossellini (www.onlinejournal.com, 23 settembre 2009).
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glio. Quel rapporto invertito padre – figlio rifletteva la protezione di cui la genialità di Roberto Rossellini aveva bisogno. Lo lasciava libero di creare il suo cinema»3. *** Il dialogo con Renzo, includente la sua famiglia, è divenuto una conoscenza a tappe, con aperture e chiusure, con alla base da parte mia un totale rispetto, non dico nei riguardi di una intimità che mai mi sarei permessa di scalfire, ma di una descrizione di vita, una panoramica, in cui orientarmi. Il rapporto con i genitori, il suo mondo di affetti, di lavoro, di impegno sociale è venuto fuori a frammenti, schegge, scampoli. La vita di Renzo che ha da sempre viva l’immagine del padre, quale esempio di vita, sembrerebbe quasi un concretizzarsi della lezione paterna «mostrare, non dimostrare». L’elaborazione di questo libro ha avuto tempi lunghi, dovuti a vari impegni di Renzo Rossellini e anche al fatto di abitare in città diverse. Le moltissime mail e i moltissimi allegati intercorsi fra noi stanno comunque a dimostrare che, lavorando in sintonia, molti ostacoli si superano. La costante approvazione di Renzo riguardo alla struttura e all’impianto da me dati al testo, alla tipologia delle domande, agli accorgimenti stilistici e, se necessario, analitici, ha fatto sì che abbiamo superato le difficoltà. Confrontandoci, anche, spesso. La sintonia è un grande alleato del rendimento, in ogni campo.
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Ibidem.
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*** – Buongiorno Renzo, tutto bene? – Tutto bene, Gabriella, buongiorno a te. – Ho ricevuto le documentazioni che mi hai inviato: molto interessanti. Se vuoi possiamo iniziare il percorso come da te indicato. Sarà un discorso articolato. – Bisognerà mettere in luce innanzitutto la personalità e produzione di mio padre. Avrò più o meno tempo da dedicarti, a seconda degli impegni che vengono a presentarsi, non sempre agevoli. – E allora mettiamoci comodi, il viaggio è lungo. – Sarà un viaggio fondamentale per me. – Hai un’idea su come programmarlo? – In forma lineare: partire dall’infanzia e prima giovinezza, inquadrare il tempo vissuto, ed espresso artisticamente da mio padre, proseguire con episodi interagenti con l’ambiente vicino alla mia famiglia, oltre che con il complesso momento storico. Concludere con più specifiche vicende. – Molto bene. Perché hai voluto che fossi io a realizzare questo percorso? – Perché sentendoti parlare e leggendo i tuoi scritti mi sono reso conto che sei la persona giusta per sensibilità e intelligenza. – Grazie Renzo, spero di non tradire le tue aspettative. – Sono certo di no.
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I ROBERTO E MARCELLA I PRIMI PASSI DA CINEASTA
La famiglia Rossellini proveniva dalla Toscana, da dove un prozio di Roberto, Zefiro, si era trasferito a Roma all’indomani della Breccia di Porta Pia e dove con la tipica concretezza toscana, unita al gusto del fare e del bello che contraddistingue quella regione, aveva messo a frutto i suoi non pochi averi, come costruttore. Non avendo avuto figli crebbe quasi fosse suo il primogenito del fratello Luigi, Angelo Giuseppe. All’epoca avveniva sovente che questo accadesse. Quindi il padre di Roberto godé di una buona educazione e di una vita agiata e seguì lo zio nella gestione dell’impresa di costruzione. Non è chiaro se fu architetto o no; ma poco importa: ne aveva tutte le credenziali. Era inoltre un giovane amante della musica, dell’arte, delle lettere, e i suoi amici furono prevalentemente intellettuali, e intellettuali di livello. Dal matrimonio con Elettra Bellan, veneta, nacquero i primi tre figli in tempi piuttosto ravvicinati: Roberto, Renzo, Marcella. Come avveniva per le classi altoborghersi i ragazzi ebbero governanti straniere, tedesca la prima, francese la seconda, tutt’e due da loro molto amate. La scelta paterna di costruire il primo cinema in Roma, il cinema Corso, e poi il Barberini, introdusse Roberto alla frequentazione e all’amore per il cinema che si rivelerà la sua forma creativa privilegiata
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quando la vita gli indicherà l’esigenza di un impegno concreto, dopo un periodo di disimpegno che la situazione familiare gli aveva consentito. Ottenuta la maturità classica, deciso a non proseguire negli studi, continuò a coltivare con passione gli studi filosofici, storici, letterari, e non solo. Roberto si accorse presto del suo ascendente sul mondo femminile, facendo innamorare di sé tutte le amichette della sorella. In seguito ebbe molte avventure; la più famosa fu con la star del cinema, Assia Noris. Scoprì prestissimo anche la sua passione per le macchine. Non essendoci all’epoca l’obbligo della patente, prese a guidare a 9 anni e intorno ai 15 anni, il padre gli comprò una Bugatti! Partecipò a molte gare delle Mille Miglia. L’amore per le macchine veloci gli fu inculcato prevalentemente da una sorella della madre, la bellissima zia Antonietta Avanzo, famosa in tutto il mondo per la sua partecipazione alle gare automobilistiche; ammirata da D’Annunzio che la soprannominò Nerissa per la chioma scura e gli occhi neri. Intanto qualche nube incomincia ad addensarsi: fra i genitori di Roberto avviene una rottura insanabile. Per troppo tempo Elettra ha tollerato il tradimento del marito ed è giunta a un punto di non ritorno; da pochi anni è nata Micaela; con l’ultima nata lei lascia il marito e torna a Varese. È il 1926. Pochi anni dopo la crisi del 1929 darà uno scossone all’economia. Nel ’31 il padre di Roberto muore. La situazione non è più così rosea. Intuendo la necessità di entrare nel mondo reale, del lavoro, del rendimento, Roberto non ha difficoltà a scegliere il suo personale cammino orientato verso la forma di creatività a lui più congeniale, quella del linguaggio visivo. E inizia questa esperienza partendo dal
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ruolo di montatore, impadronendosi di volta in volta di tutte le tecniche inerenti la cinematografia. Che poi userà in base a suoi criteri critici e molto spesso innovativi. Inizieranno in tal modo le sperimentazioni, i primi documentari. *** La narrazione, o conversazione che ci accingiamo a intraprendere, interseca i ricordi di Renzo, ma va oltre analizzando scelte, motivazioni attraverso le quali il protagonista, Roberto, dà conto della sua personalità e del suo ingegno. Ma altri personaggi si affacciano alla ribalta; Marcella, Ingrid, Isabella per nominarne alcuni. Sicché diviene come un piccolo fiume con i suoi affluenti, defluenti, il suo prosciugarsi e ripartire. Una storia che non saremmo qui a raccontare se un giorno due giovani non si fossero incontrati e innamorati; nel mese più splendente e favorevole al richiamo dell’amore, maggio. Era il 1936. Sulla spiaggia di Ladispoli, dove la famiglia di lei aveva l’abitazione estiva, e una zia di lui anche; lei intenta a preparare l’esame di abilitazione all’insegnamento, lui a scrivere un soggetto cinematografico che da un pezzo aveva in mente, s’incontrarono. Da anni frequentavano la stessa spiaggia, e quel giorno un gruppo di amici comuni li presentò l’uno all’altra. Roberto Rossellini e Marcella De Marchis provarono immediatamente attrazione reciproca. Entrambi appartenenti alla migliore borghesia romana, già trentenne lui, e con fama di playboy, appena ventenne lei, dovettero superare le diffidenze dei futuri suoceri, convinti che il giovane in questione non offrisse garanzie di serietà sentimentale. Come da copione, sfuriate paterne, chiusura in camera, fuga, rifugio
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dalla sorella sposata, partenza per altri lidi, in questo caso Chianciano. Guardata a vista. Ma l’amore trionfa, sempre. O forse no; ma in questo caso sì. E tramite amici Marcella sa dell’arrivo segreto di Roberto che nel buio del giardino delle Terme accende una sigaretta. Quella piccola luce nel buio di un giardino è di una suggestione enorme. Sa di Shakespeare e Rostand. In realtà Roberto Rossellini è un incantatore, un affabulatore. Affascinerà i suoceri con la stessa abilità con la quale conquisterà produttori, sponsor. E il pubblico. Il matrimonio si rivelerà un ossimoro, breve nel tempo, in senso ufficiale, ma con una vitalità solidale resistente ad ogni intemperie, fino alla fine; anticipazione di un superamento di convenzioni che dal secondo novecento in poi con crescente velocità ha modificato l’ottica sociale. Il matrimonio, i primi tempi passati nell’abitazione a Ladispoli della zia di Roberto, la zia Fortù, con le sue idee originali e l’oca a guinzaglio, vestita con abiti a quadrettini, tutto di quei primi tempi è di straordinaria solarità. Il matrimonio è benedetto dalla nascita di due bambini, Romano nel ’37, Renzo nel ’41. Romano avrà vita breve e sarà oggetto di un rimpianto infinito, Renzo ancora oggi ne soffre la perdita. Un dolore che non inaridisce, ma fortifica. Tradurre l’esistere in accoglimento e creatività diviene la forza di questo gruppo familiare. *** – Pur continuando in lodevole solidarietà e affiatamento, i tuoi genitori si separarono. In che modo ha influito questo sulla tua personalità, le tue scelte? Come hai vissuto la mancanza del contatto quotidiano con tuo padre?
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– Non ho memoria della quotidianità fra i miei genitori. Smisero di vivere insieme quando io avevo solo 11 mesi perciò non ho vissuto il trauma dell’abbandono. Mio padre, sentendo la responsabilità della famiglia, pur impegnato nel lavoro di regista in giro per l’Italia, veniva a trovarci appena poteva. Trovava modo di far sentire la sua presenza anche attraverso il telefono; e all’epoca l’iter era piuttosto complicato. Ho ricordi di quando eravamo un po’ più grandi, e aspettavamo che nostro padre ci venisse a prendere per portaci sul set. Tutti vestiti bene e pettinati, per fare bella figura, in attesa. Alcune volte le attese mi sembravano interminabili. – E dunque sbaglia chi attribuisce alla precoce scomparsa di Romano la fine dei rapporti fra i tuoi genitori. – Il sentimento fra i miei genitori, con questo terribile lutto comune, a differenza di quanto a volte si è sostenuto qua e là, si è cementato ed è durato tutta la vita, al di là del divorzio che ne seguì anni dopo. La perdita di Romano non è stato il punto di partenza di una crisi coniugale. Le crisi coniugali avvengono per motivi insondabili, perché a un sentimento se ne sovrappone un altro, per una curiosità di vita. Le motivazioni sono tante. Ma raramente avviene com’è successo ai miei genitori, che siano rimasti così amici e solidali. Mio padre è morto fra le braccia di mia madre. E mia madre ha vissuto questi due lutti fino all’ultimo respiro. – Nel crescere, la presenza saltuaria di tuo padre, il suo lavoro insolito, direi privilegiato rispetto a quello dei genitori di altri ragazzi, cosa hanno prodotto in te? Emularlo, consapevole che da te lui si aspettava molto, per un rapporto più stretto con lui e per avere la sua approvazione? O al contrario dimostrare di valere indipendentemente, essere altro?
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– Devo dire la verità, trovavo impossibile emulare mio padre, mi era più facile emulare mia mamma donna coraggiosa e piena d’amore. – Il libro autobiografico di lei fa fede di una saggezza ed energia non comuni. Ha avuto la forza d’animo di superare l’orgoglio ferito. Comprese che il debole per le donne avrebbe prodotto altre e altre “scappatelle”. E con la sua rinuncia divenne per lui un’icona, una presenza inclusiva andata oltre la coppia in sé; e di cui sicuramente tu hai rappresentato la componente essenziale. – Mia madre ha avuto l’intelligenza di capire che la vitalità di mio padre necessitava di spazi più ampi, all’interno dei quali lei avrebbe continuato ad avere un ruolo primario. Ed è infatti molto probabile che la sua presenza abbia operato quella spinta vitale indispensabile per un creativo come lui, impedendogli forme dispersive. Inoltre, certo, credo di essere stato l’asse portante. Ho avuto dei genitori che mi hanno molto amato. – Questo amore, salvando loro, oltre che te, ha offerto stabilità alla tua formazione. Una situazione di per sé scomoda, se ben vissuta, può divenire vincente. È questo il senso che tua madre dà alla sua autobiografia: «Un matrimonio riuscito»1. – Il titolo deriva da una valutazione di mio padre. Infatti fu lui a pronunciarla un giorno in cui, fra amici, si parlava di crisi matrimoniali. Disse: se c’è un matrimonio riuscito è
1 M. DE MARCHIS: Un matrimonio riuscito. Autobiografia, Il Castoro, Milano 1996.
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quello mio con Marcella. Allo stupore degli astanti spiegò: Siamo separati da tanti anni eppure stiamo sempre insieme, lavoriamo insieme, siamo amici, siamo solidali. Ci vogliamo bene. Se non è un matrimonio riuscito questo! – Un’affermazione che unita alla regola seguita sempre da tuo padre d’iniziare la lavorazione dei film il giorno compleanno di tua madre, 17 gennaio, conferma la validità indiscussa attribuita a questa unione. Gli amori, grandi, grandissimi che siano stati, come per la Bergman, venuti in seguito, anche se formalizzati per esigenze etiche, sentimentali, opinione pubblica, sono altro. E poi l’unica unione celebrata con rito religioso è stata quella e tuo padre, ateo suo malgrado, alla ricerca di verità di fede, non credo ne abbia mai sottovalutato il senso. Oggi è molto meno importante; la mentalità è cambiata. All’epoca era determinante. – Mio padre aveva un rapporto con la religione molto condizionato da sua madre, nonna Cine (Elettra), la quale era una fervente credente, anche se lasciava liberi di pensiero i figli come voleva mio nonno paterno, nonno Angiolo Giuseppe. Mio padre pur dichiarandosi ateo ha dedicato una gran parte del suo lavoro al grande valore che ha avuto nella storia dell’umanità il Cristianesimo. Il matrimonio religioso con mia madre avrà sicuramente avuto un’importanza particolare nel loro rapporto, ma credo che la loro unione fosse un incontro tra due anime che si sono trovate e che hanno scoperto valori fondamentali l’uno nell’altra. – Durante l’incontro fiorentino presso la Regione Toscana, per commemorare tuo padre a quarant’anni dalla scomparsa, il tuo essere partecipe indicava un forte recupero emozionale.
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E parlare con te significa includere tuo padre come presenza implicita nella dimensione non solo affettiva, ma intellettuale, umana, sociale, che alla fine è il vostro comune terreno di appartenenza. – Mio padre è sempre presente nella mia vita, non solo come ricordo. È il mio punto di riferimento. E questo è sempre stato, fin dalla prima infanzia. Ripercorrere quei tempi lontani, è tornare magicamente alla vita. – Dell’infanzia cosa ricordi? – I miei primi ricordi di vita sono il suono delle sirene d’allarme e le fughe verso i rifugi antiaerei dove, più che altrove, era tangibile la paura che si materializzava in lamenti, grida, invocazioni, pianti di bimbi e lo stringersi tutti l’uno all’altro come a proteggersi. Erano più che altro sensazioni che in seguito ho compreso nel loro vero significato. Ma la paura non ci lasciava neanche fuori dai rifugi, così come un ricordo molto tangibile è quello della fame. Percepivo intorno un pericolo costante che i discorsi degli adulti, le loro ansie, benché coraggiosamente nascoste, non riuscivano a celare del tutto. Gli adulti erano comunque la vera forma di sicurezza per me. Le figure che dominano i miei ricordi sono mia Mamma e mio fratello Romano, di quattro anni maggiore; erano il mio punto di forza, di certezza. Queste figure vengono a intersecarsi con altre immagini, tra esse quelle relative allo sfollamento in Abruzzo, a Tagliacozzo, dove ho vissuto atmosfere per me insolite. Era un mondo nuovo con un suo fascino, che mio fratello e io andavamo esplorando. Al rientro in casa, tra le presenze costanti c’era, oltre mio padre, quella di Luchino Visconti ch’era un parente. La sorella minore di lui, Uberta, aveva sposato un cugino di primo
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grado di mio padre, Renzo Avanzo, anche lui regista. Luchino Visconti era stato destinato dai tedeschi a fare lo spazzino. Per fortuna non ne conoscevano l’identità, altrimenti la sua fama di antifascista gli avrebbe procurato grossi problemi. Fu lui che un giorno, continuando a ramazzare, si avvicinò a mia madre per avvertirla dell’imminente arrivo degli alleati. Dandoci così agio di organizzarci e passare le linee in tempo. Rifugiati anch’essi a Tagliacozzo, il rapporto fra noi era frequentissimo. Luchino e mio padre passavano ore a parlare di cose che non capivo davanti a un caminetto. Probabilmente il neorealismo nacque davanti a quel caminetto. – Sono ricordi belli, ricchi di poesia, come in genere avviene per le reminiscenze infantili. – Devo confessarti che molti dei miei ricordi sono quelli che mia madre mi ha raccontato per tutta la vita. Essendo piccolissimo ho più che altro vaghe sensazioni. Rammento però, quando siamo tornati a Roma dall’Abruzzo, privi di casa com’eravamo, che fummo ospitati in un convento di suore vicino a Piazza di Spagna. Ricordo nitidamente che quando suonava la sirena scappavamo verso il traforo sotto la collina del Quirinale, adibito a rifugio antiaereo, io in braccio a mia madre che teneva mio fratello per mano. Più che paura il sentimento che provavo era simile a quello che provano i bambini quando vanno al luna-park perché all’interno il traforo era pieno di bambini e bambine bionde di cui mi innamoravo. – Di quel tempo tua mamma ha lasciato memorie. Vogliamo inserirle? – Certamente.
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Marcella De Marchis2: – Il Convento di San Sebastianello era proprio sotto il giardino di Villa Borghese, così io potevo portare Romano e Renzino a respirare un po’ d’aria buona e a giocare con tranquillità. Certo c’era ancora il rischio che Roma venisse bombardata, c’era il coprifuoco e spesso suonava l’allarme antiaereo. Al primo fischio delle sirene io prendevo i bambini e correvo al rifugio più vicino che era dentro il grande tunnel di via del Tritone. Il tunnel era diventato la casa di tanti sfollati, i più poveri o più sfortunati, quelli che non avevano potuto trovare riparo altrove. Questi poveretti vivevano in condizioni disumane: anche a starci poco tempo ci prendemmo la scabbia e i pidocchi. Quando scappavamo verso il tunnel, Renzino che era fissato con le ragazzine bionde, correva sempre avanti e indietro e appena ne vedeva una voleva andare da lei, anche se era dall’altra parte della strada: «Voglio pupa bionda, voglio pupa bionda». E io sotto le sirene a spiegargli che non ci potevamo andare, a convincerlo a stare calmo, e a infilarsi nel tunnel. Romano, che era un ragazzino intelligente e sensibile, in queste occasioni mi diceva: «Mamma, non ne posso più, lo sai che ci ha fatto tornare indietro tre volte con la tata perché vedeva le bambine bionde?» – Ma in quel convento di via San Sebastianello, dove peraltro attraverso il racconto di tua madre veniamo a sapere
2 M. DE MARCHIS: Un matrimonio riuscito. Autobiografia, Il Castoro, Milano 1996, p. 41.
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che molte donne ebree sono state salvate, tu hai assistito a qualcosa di brutto, a cui nessuno ha mai voluto credere. – Te lo narro attraverso la lettera che scrissi a mia mamma. Non fu la sola lettera; avrai notato che l’autobiografia di mia madre è corredata da mie lettere e puntualizzazioni. Ecco dunque: «I primi vaghi ricordi che ho di te risalgono al tempo del nostro sfollamento nel convento di San Sebastianello. Mi rivedo in braccio a te che corri verso il rifugio mentre risuona l’allarme antiaereo… Dentro era pieno di fumo; c’era un sacco di gente che ci viveva e accendeva fuochi e bracieri improvvisati per cucinare. Era una bolgia, ma anche gioiosa, perché tu ci raccontavi le favole. Per essere ricordi del periodo della guerra non sono poi così terribili. Uno brutto però mi è rimasto, uno di quegli incubi che da bambino ti tengono sveglio tutta la notte a fissare la luce del comodino. Nella cucina del convento, in un angolo buio, c’era un grosso tagliere di legno dove la suora cuciniera batteva con solerzia dei pezzetti di carne per ricavarne altrettante fettine che avrebbero sfamato noi poveri sfollati. Un giorno vidi una monaca arcigna, che non conoscevo, trascinare per le orecchie un bambino piagnucolante verso quel ceppo. Nessuno mi ha mai voluto credere, e tu, mamma: meno che mai. Eppure io l’ho vista la monaca antropofaga»3. – Ma cosa hai visto in particolare? Chiami la monaca “antropofaga”, e dunque niente, purtroppo, può essere escluso. In quel periodo di fame nera molte cose brutte sono accadute.
3
Ivi, p. 44.
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Sei certo, però, che la tua immaginazione infantile non abbia ingigantito un episodio di per sé inquietante? – È passato tanto tempo. Devo fare anche i conti con il reiterato scetticismo di mia madre. E’ possibile che la fantasia abbia ingigantito e dunque preferisco non rievocare un episodio di cui alla fine non ho più certezza assoluta. A noi bambini era proibito in modo tassativo entrare in cucina, ma noi cercavamo sempre di entrare per farci dare qualcosa da mangiare. Ricordo con certezza che un giorno una monaca, stufa di vederci in giro, ci ha detto che se continuavamo così ci avrebbe fatto fare la stessa fine del pezzetto di carne che stava battendo. Forse da lì è partita la fantasia. O forse no. Chi può dirlo a questo punto. – Hai definito tua mamma donna coraggiosa e piena d’amore; qualche episodio particolare? – Un episodio la descrive bene nel suo essere risoluta, sempre presente a se stessa; un modo, il suo, di trasmetterci sicurezza. Nello stesso tempo ci spronava a renderci responsabili. Finito il periodo da sfollati in Abruzzo, tornati a Roma, ricordo che entrammo nel cortile di un palazzo e vidi mia madre controllare le finestre affacciate sul cortile. Finita questa analisi salimmo al quarto piano, dove c’era una finestrella che si affacciava sul cortile. Mamma vi si affacciò, guardò, poi uscì dalla finestra e la vidi strisciare su un cornicione fino a raggiungere un’altra finestrella, vi entrò e pochi secondi dopo ci aprì la porta sul pianerottolo, perché potessimo entrare nell’appartamento. Una donna molto coraggiosa, quindi che mi ha educato ad affrontare le situazioni più difficili con coraggio. Quella casa non l’ho mai dimenticata. La sentivo protettiva. Apparteneva a un amico di mio padre,
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il poeta Diego Calcagno che, andato come partigiano nel nord Italia, era rimasto bloccato, essendo ancora l’Italia divisa in due. Conoscendo la nostra difficile situazione abitativa ci offrì la sua casa in Viale Liegi. Nessuno a Roma aveva le chiavi ed è così che mia madre dovette coraggiosamente introdursi attraverso la finestrella di cui ho parlato e che affacciava sul cortile, strisciando su di un cornicione. Occupammo l’appartamento per un anno finché mio padre con i proventi di Roma città aperta ne comprò uno tutto nostro, ai Parioli, in via Caroncini, dove ho vissuto con mia madre per tantissimi anni. – In un’intervista fatta a te e tuo fratello Robertino, rievochi con affetto la villa delle vostre vacanze a Santa Marinella. – La villa di Santa Marinella, cittadina a 70 km da Roma, sul mare, è stata la casa delle vacanze mia e dei miei fratelli, nati dal matrimonio tra mio padre e Ingrid Bergman, Robertino, Isabella e Ingrid; ma anche Raffaella (ora si chiama Nur, Luce in arabo da quando si è convertita all’Islam), nata dalla compagna indiana Sonali che aveva già un figlio, Gill, che mio padre adottò. Era un luogo molto bello, e in quel periodo ho imparato ad essere fratello maggiore, con tutte le responsabilità, come mio padre e Ingrid volevano che io fossi. – Esercitarti a essere il fratello maggiore immagino ti abbia aiutato a superare quella gelosia che nei bambini si crea verso i fratelli più piccoli. Ne accenna tuo padre in un’intervista del febbraio ’51 con Francis Koval4, ma nel contempo
4 Cfr. R. ROSSELLINI, Il mio metodo. Scritti e interviste, a cura di A. APRÀ, Marsilio, Venezia 1972, p. 83.
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parla di te con affettuoso orgoglio. «Ci siamo lasciati» dice Koval «che Rossellini parlava della famiglia, mi descriveva divertito gli scherzi del figlio decenne, il cui atteggiamento verso il piccolo fratellastro Robertino sembra quello di un forte affetto mescolato a diffidenza e gelosia. ‘E’ molto ricettivo ed è un diavoletto dalla mente sveglia’ ha detto Rossellini. “L’altro giorno è venuto a casa dal cine e mi ha detto: Papà ho appena visto un tuo film. Non era affatto male, ma continuavo a chiedermi perché mai cerchi sempre di mostrarti così terribilmente abile”». – Ammiravo mio padre, ma è tipico dei figli l’atteggiamento critico; così come avviene per tutti i bambini, che per quanto possano amare i fratelli più piccoli, ne sono un po’ gelosi. Ma col tempo questo sentimento passa e rimane un grande legame. *** – Tua madre nella sua autobiografia5, narrando della realizzazione dei primi lavori di tuo padre riferisce di come lui seppe, grazie al suo carisma, avere la meglio nell’oscuro periodo dittatoriale, sui dictat del regime; anche se il rapporto con Vittorio Mussolini ha suscitato malintesi. Vittorio aveva una mentalità diversa da quella paterna? – Vittorio Mussolini voleva bene al padre, ma aveva idee sue, più aperte. Forse anche controcorrente, non saprei. Una vera amicizia tra lui e mio padre non ci fu. Per forza di cose
5
M. DE MARCHIS, Un matrimonio riuscito, cit., p. 36.
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c’era frequentazione poiché Vittorio Mussolini aveva fondato una rivista cinematografica “Cinema” alla quale hanno collaborato vari intellettuali come mio padre e anche comunisti come Carlo Lizzani ed i fratelli De Santis. Mio padre è sempre stato antifascista, anche nei lavori che ha realizzato durante il fascismo. È riuscito attraverso allegorie a sfuggire alle censure del regime: i primi documentari che precedettero i film veri e propri descrivevano sempre le vittime delle sue prepotenze; usò in essi metafore orwelliane e, attraverso le comunità di pesci e pollaio, rappresentò prepotenti e vittime, riuscendo così a sottrarsi alla propaganda fascista. In Fantasia Sottomarina, un saraghetto vittima di una murena, ne Il Tacchino Prepotente, il tacchino nel pollaio con la sua cresta che sembrava un orbace di gerarca, esercitava prepotenze su gli altri abitanti del pollaio. – Tua mamma racconta come si concretizzarono alcune scene di Fantasia sottomarina nel terrazzo della vostra casa di Ladispoli. Divertente la forma artigianale della realizzazione con perfino i capelli di lei utilizzati come invisibili fili per creare movimento tra i pesciolini. Interessante la sua frase su Vittorio Mussolini: «Vittorio non era solo il figlio del Duce, ma anche l’uomo la cui passione fu decisiva per tutte quelle attività ed istituzioni che permisero al cinema italiano di sopravvivere e di rimanere nel dopoguerra. Vittorio si occupava del Centro Sperimentale di Cinematografia e aveva fondato la rivista “Cinema”. Attorno a lui si raccoglievano tutti quegli artisti che sarebbero diventati famosi dopo la Resistenza: Giuseppe De Sanctis, Carlo Lizzani, i fratelli Puccini, Antonello Trombadori e altri. La presenza di Roberto all’interno di questo gruppo era piuttosto saltuaria ma l’amicizia con Vittorio e i
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film che girò in seguito su commissione della Marina, dell’Aereonautica e dell’Esercito gli costarono il sospetto di una passiva adesione alla politica di regime. Vorrei dire una parola definitiva su questo argomento, dato che le sue dichiarazioni e l’evidenza della sua opera cinematografica non sono bastate. Roberto non fu mai considerato dai fascisti come uno di loro. Il fatto di non aver mai preso la tessera del partito unico gli ha sempre creato molti problemi e discriminazioni. Roberto non è stato mai stipendiato dal regime, come lo erano, in pratica, altri uomini di cinema. Anzi, si è sempre dovuto barcamenare e ha sempre dovuto lottare per ogni suo lavoro. Vittorio Mussolini aveva la possibilità di far lavorare le persone indipendentemente dalla loro appartenenza o meno al P.N.F.»6 Ho riportato questo brano che, pur contenendo dati già espressi, aggiunge alcune specifiche. Queste valutazioni, assieme alla tipologia del suo percorso artistico, escludono che tuo padre abbia abbracciato l’ideologia fascista. Il fatto che i film realizzati durante il fascismo La nave bianca; Un pilota ritorna; L’uomo della Croce siano stati definiti Trilogia della guerra fascista, è solo indicazione di una fase storica. Ma, in quanto a trilogie, sembra che Roberto Rossellini segua un ritmo specifico a riguardo. Infatti avremo poi la Trilogia della guerra antifascista con Roma, città aperta; Paisà; Germania anno zero. E in seguito la trilogia della solitudine. – Il Pilota Ritorna descrive la Grecia vittima dei bombardamenti nazifascisti con le popolazioni obbligate a vivere nelle baracche; ne L’Uomo dalla Croce c’è il cappellano mili-
6
Ivi, pp. 28-29.
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tare che si dibatte tra estreme unzioni a moribondi e battesimi. Mai nei suoi film Eroici Combattenti Fascisti. Perfino in un film di guerra voluto dal Ministero della Regia Marina in pieno fascismo, papà che era senza ombra di dubbio contrario alla guerra, riuscì a realizzare un film contro la guerra. – E dunque già nei primi lavori sono in nuce gli atteggiamenti anticonvenzionali, nei limiti consentiti da una dittatura. – Sì, quello che tu hai definito carisma, e lo era, finiva per aver la meglio sugli altri. Sicché, come accade per le personalità mentalmente libere riuscì, anche in pieno regime, a ricavarsi degli spazi propri. Solo che questi spazi andavano gestiti con abilità, in modo da non offrire il fianco a contestazioni e censure. – Il secondo lungometraggio, Un pilota ritorna del ’42 che, come hai già detto, descrive il dramma della belligeranza in Grecia, pur privo di retorica, piacque a pubblico e critica, non solo per l’antiretorica, ma per l’umanità con la quale sono ritratti gli ambienti del nemico. Ad esempio fu molto apprezzato da Guido Piovene7 che nota come lui tentasse di far riflettere il pubblico, non compiacerlo. Invece le recensioni riguardo a L’uomo della croce dell’anno seguente non furono favorevoli. La stroncatura maggiore venne da Giuseppe De Santis, amico di tuo padre. Tu eri troppo piccolo, ma in che modo in seguito lui te ne ha parlato? – Per L’Uomo della croce del 1943 mio padre aveva scelto quale collaboratore Alberto Consiglio, mentre De Santis, data l’amicizia fra di loro, era certo che avrebbe scelto lui.
7
Cfr. G. PIOVENE, in «Corriere della sera», 18 aprile 1942.
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La cosa lo adontò e ne nacque uno screzio che durò molti anni. Il fatto è che mio padre non era malleabile e, per la sua “creatura”, tirava dritto secondo quel che gli pareva più giusto. Nei venti anni che ho collaborato con lui non gli ho mai visto accettare compromessi o fare di un suo film una “merce”. Credo che sia l’unico regista della sua generazione a non aver mai fatto un film simile a quelli precedenti. Il rigore e la ricerca espressiva lo obbligavano ad esprimersi attraverso nuovi linguaggi. Diceva «la mia estetica non è l’estetica del bello ma l’estetica del giusto e di ciò che è utile alle teste degli esseri umani per liberarli dalla retorica e dal banale». Questo rigore lo ha portato a subire insulti dalla critica cinematografica. Devo confessarti che una volta vedendolo leggere una critica, l’ho visto piangere, e alla mia domanda «perché piangi?» mi rispose «Sono un essere umano e gli insulti mi feriscono e mi addolora scoprire la stupidità di chi i film li dovrebbe capire». – Spesso si pensa, sbagliando, che la qualità non paghi. Un regista, in questo caso, che tenta vie nuove, e di qualità, crea sconcerto nel mondo dell’industria cinematografica. – È così. Mio padre si era rassegnato a subire attacchi e critiche senza lasciarsi “dirottare”, cioè livellare, non a livello più alto, a quello più basso. E alla fine, e a fatica, la avuta vinta lui. Anche se non tutti lo compresero. Devo anzi confessare che certi “rosselliniani” professionisti erano da lui disprezzati perché credevano di sapere meglio di Rossellini cosa un film di Rossellini significasse. – Risale sempre al 1943 il progetto di realizzare il film Scalo merci o Rinuncia, tra i ferrovieri dello scalo di San Lorenzo. Ho letto da qualche parte che Rossellini nel ’43 scrisse
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una nota introduttiva per un servizio fotografico sul film di Alfred Hitchcock L’ombra del dubbio, ambientato dal vero in California e che confermava la sua vocazione al realismo scenico. Intese applicarlo al film drammatico Scalo merci. Iniziò le riprese… – Iniziò; ma i bombardamenti terribili di quel luglio distrussero il set della lavorazione. Ci mettemmo in salvo con l’intera troupe in Abruzzo. Il protagonista sarebbe stato Massimo Girotti che si rifugiò anche lui con la moglie a Tagliacozzo. Qualche anno dopo, nel ’46, il film venne recuperato con la regia di Marcello Pagliero e prese il nome definitivo di Desiderio. – Tua madre si è spenta nel 2009. Un coinvolgente profilo di lei è di Domenico Moretti, tuo amico d’infanzia, che ne descrive la simpatia, l’equilibrio: “Marcella ha attraversato il cinema e la società italiane con una saggezza e prontezza di spirito che da sempre hanno contraddistinto la sua personalità. Si sposa il 26 settembre 1936 e dal matrimonio nascono due figli… Il matrimonio ha vita breve… ma Marcella… non smetterà di voler bene al celebre cineasta, diventando ben presto l’approdo sicuro e fedele di quell’insieme composito, sempre vitale e caotico che era la famiglia di Roberto Rossellini… Marcellina è, per tutte le famiglie allargate Rossellini, “la guardiana del faro”. Così la chiamava il Maestro Roberto. Marcella ci ha lasciato due magnifici libri di memorie… rappresentano dei veri propri viaggi, delle immersioni su volti, corpi, paesaggi di un’Italia che tentava di ricostruirsi coraggiosamente sulle rovine della guerra. Leggendo tutto d’un fiato i due preziosi volumi si sentono riecheggiare i bicchieri sulle lunghe tavolate delle varie riunioni familiari con il patron di casa Roberto e i
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suoi numerosi figli e nipoti che si rincorrono, gridando allegramente come se quelle corse alludessero, in un’ipotetica dissolvenza incrociata, all’alternarsi delle stagioni, degli anni, delle generazioni, delle vite… il ritratto che fa del suo ex marito è commovente perché così vero da farcelo sentire un parente vicino: «Roberto era un uomo forte, generoso, intelligente, cocciuto, geloso, ironico, spiritoso e amante delle donne. Questo è stato; tutto il resto è leggenda»8.
8 Cfr. D. MORETTI, “Marcellina” De Marchis Rossellini, la prima moglie, in “Cinemonitor”, 5 marzo 2009.
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II IL DOPOGUERRA E IL NEOREALISMO
Dopo l’8 settembre Rossellini si trova, non diversamente dal resto degli italiani, a dover gestire una situazione di emergenza. Allontanati Marcella, Romano e Renzo da una Roma caotica e poco sicura, vivrà, nella Capitale, alla giornata, in una ricerca di luoghi riparati in cui rifugiarsi e soprattutto passare la notte. È in una fase di fuga dal pericolo che da ogni parte assediava, che fossero bombe o la polizia, fascista e nazista, le guerriglie, le retate, le fucilazioni. Cambiava ogni sera abitazione, grazie ad amici e all’aiuto del movimento clandestino, e continuava a elaborare una sceneggiatura traendola «dal vivo», dalla realtà che lo circondava, dagli umori, le ansie, i drammi che quotidianamente si agitavano nella comunità. Si dedicava anche alla stesura di un romanzo. Correva appena possibile a Tagliacozzo e, tenendosi in contatto con le formazioni resistenziali (che a Roma, ma soprattutto in Abruzzo, erano molto attive e numerose), poteva anticipare qualche strategia in modo da muoversi, e far muovere i suoi cari, entro un margine di sicurezza, compatibilmente con la situazione. E intanto prendeva corpo il film, figlio di quel clima. Talmente aderente a esso che, quando, in seguito, lo illustrò agli amici, non fu compreso. In un contesto del genere una delle uscite di sicurezza risiede in
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una qualità che non tutti posseggono: il senso dell’umorismo, che mette l’individuo in grado di affrontare ciò che per altri sarebbe insormontabile. «In queste condizioni – scrive – si può sopravvivere solo se si ha il senso dell’umorismo, sennò muori. Se non riesci a distaccarti un po’ dalle cose, e vederle con umorismo, rischi di suicidarti. L’umorismo diventa una forma di difesa. Il mio scopo era… anche un po’ guardarmi indietro e prendere coscienza delle cose. Cioè avere una posizione morale sul passato, del quale eravamo tutti più o meno responsabili; capire, capire fino in fondo»1. Questi e altri ragionamenti Roberto Rossellini li espone in Il mio dopoguerra, dal quale traggo un’altra interessante nota: «Nel 1944, alla fine della guerra, tutto era distrutto in Italia. Il cinema come ogni altra cosa. Quasi tutti i produttori erano spariti. Qua e là fiorivano alcuni tentativi, ma le ambizioni erano estremamente limitate. Si poteva godere di un’immensa libertà, l’assenza di un’industria organizzata favoriva le iniziative più eccezionali. Qualsiasi progetto andava bene. Fu questo stato di cose a permetterci di intraprendere lavori a carattere sperimentale: ci si accorse ben presto, d’altronde, che i film, malgrado tale carattere, divenivano opere importanti tanto sul piano culturale che su quello commerciale. È in condizioni simili che cominciai a girare Roma città aperta di cui avevo scritto la sceneggiatura con alcuni amici, al tempo dell’occupazione tedesca»2.
1 R. ROSSELLINI, Il mio dopoguerra, a cura di G. FOFI, Edizioni dell’asino, Roma 2017, p. 33. 2 Ivi, p. 9.
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In Qualcosa di me, Isabella ci lascia un’immagine piena di nostalgia per quel padre così speciale: «Vorrei che la memoria potesse anche restituirmi il modo in cui papà si esprimeva. Era leggero, brillante, fantasioso e pieno d’umorismo. Inventava frasi, insulti e paragoni assurdi e divertenti»3. *** – Torniamo alla nostra conversazione, con una nota in più, l’umorismo. – Effettivamente mio padre sapeva essere divertente, aveva senso dell’umorismo, che lo aiutava a sopravvivere nel mondo complesso e difficile della cinematografia. Era curioso di tutto, vedeva il cinema come un microscopio che, assieme al romanzo e alla poesia, riesce a penetrare e offrire all’attenzione dello spettatore le pieghe più segrete dell’essere umano e dell’ambiente che lo circonda. Ciò che oggi può sembrare prassi acquisita, al tempo era di una novità assoluta. – La macchina da presa che inquadra figure umane e poi esplora ambienti spesso in penombra, luoghi spogli; il suo sganciarsi da formule epico-trionfalistiche o foto romanzesche, tipiche della filmografia degli anni ’30-’40… tutto è innovativo. Effettivamente ci propone una storia al microscopio. È ciò che affascinò Ingrid Bergman e affascina noi ogni volta che torniamo a vedere Roma città aperta, Paisà, e non solo. Avviene per ogni opera d’arte che va oltre il gusto del tempo.
3
I. ROSSELLINI, Qualcosa di me, Milano, Mondadori, 1996, p. 131.
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– Parliamo di un periodo molto diverso da tutti gli altri. È stato molto audace decidere di raccontare un passato talmente prossimo da essere avvertito come presente. Per esempio la stessa Anna Magnani, protagonista, riferisce della sua totale immedesimazione nel personaggio e nell’atmosfera; il suo racconto è drammatico: per un attimo le sembrò che la realtà fosse ancora quella; e non fu solo lei a percepirne la presenza reale. I tempi erano troppo a ridosso e avrebbero consigliato chiunque a soprassedere. – Si temeva forse di rinfocolare negli animi sentimenti di odio. – Può essere. Mentre al contrario l’obiettivo era il messaggio di conciliazione. Il film voleva far riflettere sulla nostra posizione di vittime, sul fatto che moltissimi italiani erano stati antifascisti indipendentemente dalle classi sociali, dalla cultura, dal censo. Che l’Italia era piena di gente perbene. – Del resto non funziona le tecnica dell’oblio, senza prima aver chiarito, sviscerato, elaborato. Un transfert, che relega l’emozione in una dimensione obiettiva, distaccata. Se da un lato ci pare d’impoverirci, dall’altro raggiungiamo una sorta di sublimazione, liberazione. È questo obiettivo di fondo che, penso, alcuni non compresero, perfino tra suoi collaboratori. – Lui voleva restituire alla propria vita e a quella altrui la dimensione di normalità. Sembrava un’utopia. Ma lui, dopo aver vissuto esperienze così traumatizzanti, dopo aver respirato il vento della liberazione dal nazifascismo, aveva con maggior convinzione accantonato l’ottica della narrazione filmica come passatempo. L’obiettivo era collaborare al risveglio della nazione. E come capita quando fortemente si crede, avvengono miracoli. Ne ho sentito parlare tante
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volte. Tra le difficoltà, non certo marginale fu quella di reperire fondi. Lui e Sergio Amidei, ma anche Federico Fellini, ne ripercorrevano i particolari. C’era unicità, un clima di attesa e speranza, li guidava un entusiasmo che convinse perfino un produttore commerciale come Peppino Amato, all’inizio. In seguito, dopo aver assistito alla proiezione delle prime scene con immagini crude di torture e di nefandezze dei tedeschi, si spaventò; gli parve un lavoro insensato. Al suo posto ci furono altri finanziatori. Apparve come meteora la contessa Chiara Politi che in teoria si era proposta, ma poi si dileguò. Ci fu quindi Aldo Venturini che all’epoca commerciava in tessuti; infine Rod Geiger, un americano che, per caso, avendo assistito a delle riprese del film, si entusiasmò, chiese aiuto a uno zio, Joseph Burstyn, che gestiva una sala cinematografica in New York. Ma i veri finanziatori furono tutti loro, mio padre e la troupe che lavorarono senza compenso, impegnarono tutto l’impegnabile, soprattutto gioielli, al Monte di Pietà per comprare la pellicola. I fratelli Genesi di Tecnostampa stampavano e sviluppavano a credito. Fu una impresa temeraria. – E i personaggi come nacquero? Di fantasia o dal vero? – Parlando fra loro, ma anche ascoltando i racconti legati a quel periodo terribile, venivano idee, prendevano corpo episodi e personaggi. Alberto Consiglio, amico di mio padre, raccontava di un prete fucilato, don Pappagallo, il cui reato era stato quello di falsificare i documenti per la Resistenza. Si parlava di donne fucilate, di rastrellamenti. Sergio Amidei ispirò una scena del film narrando del modo in cui riuscì a sfuggire a una retata tedesca: si nascose sul terrazzo dell’ambasciata spagnola che confinava con il loro terrazzo. La realtà
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si univa alla fantasia. Ma reali rimangono le figure di Teresa Gullace, la popolana Pina interpretata magistralmente dalla Magnani, e don Morosini (don Piero Pellegrini nel film) a cui dà il volto Aldo Fabrizi, alla sua prima interpretazione di un personaggio drammatico. Don Morosini fu ucciso dai nazisti per il suo appoggio alla Resistenza. La fuga sui tetti di Amidei venne immortalata attraverso l’interpretazione di Marcello Pagliero. Per comune opinione, nessuno, a parte mio padre, aveva compreso l’organicità dell’opera. E questo fu, a detta di Fellini e Amidei, una folgorazione, un’emozione totale. Un fatto straordinario. – E questa volta il pubblico, per primo, comprese il film, si riconobbe in esso. Invece Roma città aperta, abbiamo già detto, creò perplessità nella critica. In Italia un così lungo periodo dittatoriale, la impossibilità di crescere nell’analisi, nel giudizio, attraverso il dibattito e la libera espressione, avevano intorpidito, se non addirittura atrofizzato, le menti. Quando poi fu consacrato in Francia e negli Stati Uniti, la critica lo osannò; ed è divenuto uno spartiacque che ha cambiato la storia del cinema. – All’estero esistevano maturità mentale e libertà di giudizio, mentre in Italia bisognava attendere che si ricostituissero. C’è poi da dire che dopo la Liberazione si erano create due correnti ben distinte che facevano capo a opposte militanze: la Cattolica atlantica e la Comunista russa. Un film che voleva porsi come scavalcamento degli opposti schieramenti, in un clima di rispetto reciproco, con un messaggio di accettazione dell’individuo al di là della sua ideologia, prevedeva una maturità e un’obiettività critica non facili da recepire.
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– Mi chiedo: l’abbiamo mai raggiunta del tutto questa maturità? A prescindere, se con Roma città aperta entriamo nella produzione definita «Neorealismo rosselliniano», lui, per quel che tu stesso dici, non ne era del tutto convinto, così come aveva dei rimpianti riguardo alla stesura del film. Passando il tempo, lo vedeva poco «asciutto». – Mio padre credeva di essere cresciuto da Roma città aperta in poi, e sentirsi continuamente nominato come creatore del Neorealismo e regista di quel film e non per quello che era diventato nel tempo gli faceva sentire stretti questi panni. Non l’ho mai visto partecipare a una retrospettiva dei suoi film neorealisti. Mi diceva: «Nel 1945, quando con Sergio Amidei ci siamo messi a scrivere il progetto di Roma città aperta, appena usciti dalla Seconda Guerra Mondiale e da una guerra civile, ci sentivamo come due sartine che dovevano rammendare un’Italia tutta lacerata e strappata. Anche decidere di mettere come protagonisti e martiri un partigiano e un parroco significava mostrare al mondo che l’Italia non era stata solo fascista e pro-nazista, ma che l’antifascismo era stato trasversale nell’anima popolare italiana, anche nei bambini e nelle donne». – Questo racconto rafforza quanto già detto sulla crescita apparentemente individuale e viceversa collettiva delle forme d’arte, e spiega il senso civico, di riscatto di un popolo, dal quale erano investiti questi giovani registi, la troupe, tutto l’insieme. Un risorgimento attraverso le strette vie del dolore e dell’umiliazione. Sarebbe oggi possibile questa dimensione eroica? – Se ci fossero eroi, quelli che hanno il coraggio di dire, di pensare quelle cose. Mettersi in gioco. Mi vergogno di
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come vengono gestiti i film oggi. Tutto è basato sul business. – E tutto si fa in base al gradimento del pubblico. Si sono invertiti i ruoli. Non è il regista che invia un messaggio costruttivo, critico, di responsabilità civile, sembra che vogliano solo compiacere. – I problemi ai quali i registi possono dare una soluzione, offrire spunti di crescita, sono tanti perché i problemi sono tanti. Metti quello economico. Oggi ci sono 35.000 società che vanno all’estero. Il che vuol dire che esiste un problema di fallimenti, ai quali il governo non mette mano. Se ci fosse un rapporto più stretto fra il mondo della comunicazione e quello politico, delle soluzioni si troverebbero. I registi del cinema passato, anche la commedia all’italiana, vedi Monicelli, ma soprattutto il cinema impegnato, vedi Scola, ma anche Nanni Moretti, hanno creato maturità intellettuale negli italiani. Abbiamo insegnato agli americani a fare dei film, a Martin Scorzese per dirne uno. – Certamente uscire da un periodo come quello della guerra, della dittatura, ha impresso al cinema una forza morale venuta a sfilacciarsi con il sopravvenire di strutture sociali via via più distaccate da una storia scomoda… Ma tornando al discorso sul Neorealismo, esso non appare un movimento monolitico; né potrebbe, essendo parte di un più ampio quadro che investe altre forme d’arte quali la letteratura e la pittura. Anche come espressione cinematografica è sfaccettato. Riguardo alle opere di Rossellini c’è chi le inquadra in una realtà avulsa da preclusioni morali. A me al contrario pare che il tipo di verismo rosselliniano sia lontano dal nichilismo, in quanto nel Neorealismo di Rossellini esiste un costante ten-
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tativo di recupero, di riscatto. Ciò non toglie che sia a volte una realtà molto cruda e perfino inesorabile. – Ma, appunto, i personaggi non si arrendono alla fatalità, viceversa cercano soluzioni. Anche tragiche, ma soluzioni, non imposizioni. Se parliamo del Neorealismo in quanto tale direi che si tratta di un movimento legato a tematiche sociali e che domina nella forma e nella sostanza il racconto per immagini. – Mescolando dramma e commedia, aderisce alla variabilità dell’esistenza, al rapporto fra i vari componenti animati e non animati, come il paesaggio. Una “corale” connessa il più possibile con la dinamica quotidiana. Per quanto attiene al neorealismo di tuo padre, lo vedo soprattutto di tipo morale e non estetico. E dunque è difficile dare una definizione rigida del film neorealistico, così come mi sembra sterile la tendenza, a distanza di tanti anni, di voler stabilire la paternità di questo movimento. C’è però la suggestione di Rossellini e Visconti a parlare fitto accanto al caminetto della tua infanzia. E forse sì, qualcosa di nuovo lì è nato. Si va per gradi. Negli anni ’30, il disagio e l’esigenza di un affondo nel clima reale, era già percettibile. La voglia di andare oltre un mondo fittizio e improbabile. Abbiamo detto che il neorealismo permeava le varie forme d’arte. La rottura con gli schemi, voluta dai futuristi, le propaggini del verismo, le rivendicazioni sociali che si affacciavano e intensificavano, coinvolgendo Stato e Chiesa, tutte le problematiche di superamento di regole obsolete, non potevano non coinvolgere il mondo dello spettacolo. Ma certo una cosa è parlarne, un’altra è realizzare. – Non ci fu un manifesto, non ci fu quindi nessuna rivendicazione da parte di nessuno. C’è chi dice che fu Vi-
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sconti con Ossessione, chi Rossellini con La nave bianca, chi De Sica con Sciuscià. Certamente senza Visconti, Rossellini, De Sica, Lizzani, De Santis le cose sarebbero andate diversamente, o più a rilento o senza quella genialità che ha reso il Neorealismo un fenomeno d’interesse globale. – E però, convenzionalmente il film che viene indicato come il Manifesto del Cinema Neorealista è Roma città aperta. La tua affermazione che non ci fu manifesto, non ci fu rivendicazione da parte di nessuno è vera e si colloca in ciò che attiene all’arte che sembra esplodere motu proprio, mentre ha una crescita sotterranea e direi unitaria, legata ad esigenze evolutive. Di volta in volta come per incanto sorgono voci a interpretarne l’anima. A fare da caposcuola. E poi anche loro crescono, rendono più matura la loro opera. Finendo per divenire critici verso loro stessi, senza riflettere che opere più mature sono possibili talvolta solo se ce ne sono state di precedenti, quelle che hanno creato una rottura con il passato permettendo un nuovo corso. Alla luce di queste osservazioni è opportuno un accenno a Paisà che vide come produttore lo stesso Rod Geiger grazie al quale Roma città aperta ebbe dei finanziatori. Paisà parve a tuo padre un prodotto più maturo. In esso la costruzione a episodi crea un filo conduttore che unisce tutta l’Italia nel dramma comune e mostra l’attualità storica nella sua dinamica. Molti vedono in questo film l’anticipazione della linea didattica, televisiva, della storia che divenne in seguito l’obiettivo primario di tuo padre. Non a caso Paisà è consacrato tra i film di più alto valore formativo. E, a questo riguardo mi pare importante riferire un pensiero di tuo padre: «Fin da Roma città aperta, Paisà, Germania anno zero, sentivo il bisogno di essere orientato
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a capire le cose; ecco, quest’è il punto, questo è quello che mi muove ancora oggi: partire dal fenomeno ed esplorarlo e far scaturire da questo liberamente tutte quante le conseguenze anche politiche; non sono mai partito dalle conseguenze e non ho mai voluto dimostrare niente, ho voluto soltanto osservare, guardare, obiettivamente, moralmente alla realtà e cercare di esplorarla in modo che da essa scaturissero tanti dati dai quali si potevano poi trarre certe conseguenze». – Se si pensa che oggi tutto parte dalla statistica per comprendere da che parte tira il vento del successo! In quanto a Paisà in sostanza “paesano”, era questo il saluto degli americani, in gran parte italo-americani, incontrando la gente. Un legame con la lunga storia della emigrazione. Il termine diveniva per se stesso affratellante. – Ma anche denuncia. Molto vero ciò che disse riguardo al film il poeta francese, il surrealista Paul Eluard, sulla sua immersione nella quotidianità, dell’eroismo di essa, sulla forza del racconto su ingiustizie, miserie, ma anche della gioia e la capacità, al di là di tutto, dell’eroismo. Paisà ottenne nel 1950 una nomination all'Oscar per il soggetto e la sceneggiatura. – Soggetto e sceneggiatura furono scritti da mio padre e alcuni collaboratori come Amidei, Fellini, lo scrittore Pratolini. – Di Paisà ho letto i tuoi ricordi4 del periodo di riprese avvenute a Firenze. Affermi che le memorie tue e quelle di tua madre divergono. Perché?
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Cfr. M. DE MARCHIS, Un matrimonio riuscito, cit. p. 52.
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– Perché spesso gli occhi di un bambino captano cose che un grande non vede e viceversa. Il soggiorno a Firenze per le riprese del film mi ha regalato dei ricordi molto intensi. La città era piena di soldati, ognuno con un uniforme differente. Scozzesi con l’immancabile gonnellino, marocchini col turbante, indiani, e poi militari con la fascia MP. Erano sempre a girare con le jeep, salvo scendere per infierire su soldati con altre uniformi. La confusione era grande. Ne approfittai per sgattaiolare con l’idea di visitare Firenze da solo. Sicuramente ho creato un gran subbuglio. Ricordo papà sul set e Romano accanto a lui che mi sorveglia da fratello maggiore. Belle immagini che mi accompagnano nel tempo. – Quelle immagini sono le tue ultime con Romano? – Il film è del ’46. Pochi mesi dopo Romano ci ha lasciati. Puoi immaginare quanto quelle foto e quel film abbiano significato per me.
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III ELABORAZIONE DI UN LUTTO. LA PIETÀ. LA SANTITÀ
La madre di Roberto Rossellini si era risposata e viveva in Spagna. Nell’estate del 1946 Roberto propose all’ex moglie di portare i bambini dalla nonna. Lei era titubante, temeva che il caldo potesse rivelarsi eccessivo, ma Romano e Renzo mostrarono un tale entusiasmo, che la partenza fu decisa. Quella vacanza, come sappiamo, finì in tragedia. Ma il dolore che ne seguì a differenza delle tante crisi familiari derivanti da una perdita, di cui ci si ostina a responsabilizzare l’altro (e le cronache ne sono piene), con il risultato dell’inaridirsi affettivo, ha la singolarità di acquisire un valore aggiunto, mutando la sofferenza in comprensione, tenerezza, tutela. Non c’è bisogno che Marcella e Roberto tornino a vivere insieme, come auspicano gli amici, questo dramma li separati definitivamente e insieme li ha uniti in modo particolare, ha sublimato l’idea stessa dell’amore. Marcella è divenuta la pietra d’angolo e senza di lei Roberto si sentirà perso. Avrà altre storie, altri amori, ma lei sarà sempre qualcosa di privilegiato, un porto sicuro. Lei non se ne rende conto subito, ma a distanza di molti anni, scrive «credo… che la morte di nostro figlio ci abbia uniti in un modo del tutto speciale che ha mutato e impreziosito la qualità del nostro amore facendolo durare per tutta la vita. Io ho preso
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nel cuore di Roberto il posto di Romano; sono diventata l’oggetto di tutto l’affetto, la tenerezza, la protezione che aveva per quel figlio tanto amato. La stessa cosa è accaduta a me. La nuova situazione mi ha permesso di vedere Roberto per quello che era realmente e di amarlo sempre, nonostante tutto… Dopo la morte di Romano cominciai ad assumere il ruolo della moglie nell’ombra. Non avrei mai fatto nulla per intralciarlo»1. Nella lettera inclusa nel testo autobiografico della madre Renzo spiega lo speciale rapporto che è venuto a crearsi con lei dopo questa grave perdita: «Ricordo la tua disperazione e so che in quel momento il nostro rapporto cambiò in maniera radicale. Quando sono rimasto figlio unico tu hai concentrato su di me tutto il tuo amore, tutta la tua attenzione, totale e totalizzante… Questo dramma è all’origine della particolare solidarietà che ci lega. Un rapporto di protezione reciproca che non si è mai spezzato… non ho di te il ricordo di una madre “piagnona”. Ricordo invece una madre allegra e giocherellona, soprattutto durante i periodi di vacanza. Eri giovane, appena trentenne, bella e corteggiata. Io ero molto orgoglioso di poter beneficiare di tutte le attenzioni di cui eri l’oggetto»2. *** La morte di Romano raccontata da Renzo – Finita la guerra, nel 1946, siamo partiti in una nave da Genova, per Barcellona, mamma, io, Romano e un cuginetto,
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M. DE MARCHIS, Un matrimonio riuscito, cit., pp. 56-57. Ivi, pp. 58-59.
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Franco Rossellini, figlio di zio Renzo fratello minore di papà, per andare a rivedere mia nonna paterna, Nonna Elettra, che era rifugiata in Spagna, perché paese non belligerante. Era con lei la figlia minore, Zia Micci (Micaela). Lì mio fratello Romano ebbe forti dolori che furono attribuiti a un’appendicite; l’operarono e, per successiva peritonite, morì in poche ore; a quel tempo gli antibiotici erano dati solamente ai militari e non ai civili. Fu terribile. Da quel momento assistetti al dolore lacerante di mia mamma e di mio padre. E la nostra vita cambiò; passavamo giornate al cimitero del Verano, di Roma, accanto alla tomba di Romano; un lutto che ha accompagnato per tutta la vita i miei genitori. Il Verano è vicino alla stazione di San Lorenzo, che fu bombardata, come tutte le stazioni, e alcune bombe caddero anche nel cimitero, sventrandolo in parte. C’erano tombe distrutte, scheletri umani visibili, e uno dei miei giochi era radunare le ossa, ricomporle, ricoprirle con pezzi di marmo e rifare delle “tombette”. Avevo trovato una piccola lapide con la fotografia ancora intatta di una signora. Una foto color seppia. E allora recuperai pezzi di travertino sui quali sistemai vasi di fiori trovati in giro. La realizzai con tanta cura nel giardino della cappella di famiglia, che perfino i guardiani del cimitero la presero per buona e la tenevano pulita. Mia madre vedendomi così appassionato, quando comprava i fiori per Romano ne dava anche a me per la mia tomba. Per fortuna la mia tenerissima età, 5 anni, mi impediva di vedere il lato macabro della situazione. I miei genitori furono bravissimi nel non crearmi complessi di sorta. Anzi, m’insegnarono una forma di pietas verso quei poveri morti, e di condivisione. In quel periodo mio papà aveva finito il film Paisà
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ed era in preparazione di Germania anno zero. Per non allontanarsi da Romano, fece installare dalla compagnia telefonica, l’allora TETI, un telefono a gettoni davanti alla cappella che ne conteneva la salma. La grande tomba di famiglia, immersa nel verde, divenne una specie di seconda casa. – La nostra conversazione va evidenziando il tipo di educazione che ti è stata impartita, volta a superare stagnazioni. Esorcizzare il dolore attraverso la partecipazione. È un bellissimo messaggio. – La perdita di Romano, un dolore lungo una vita, alla fine, è vero, ha determinato una svolta. È divenuto un punto di forza. Mio padre, che aveva avuto una formazione atea, dopo la perdita di Romano, ha vissuto una metamorfosi interiore che lo ha portato a porsi domande di tipo spirituale. E questo atteggiamento si rileva seguendone il percorso produttivo. Io divido i film di mio padre in quelli prima e quelli dopo la morte di Romano. Il primo film successivo è stato Germania anno zero. Mio padre così si esprime: «… è un film freddo come una lastra di ghiaccio. Documentazione cronachistica di una certa realtà, quella arida e disperata del dopoguerra tedesco, con la sua fame, le sue perversioni, i suoi delitti. Certo non è uno spettacolo, a vederlo non ci si diverte. Ma non si poteva fare diversamente». Il film si conclude con la morte, per suicidio, di un bambino, e a mio fratello Romano è dedicato il primo cartello dei titoli di testa. – Ci sono due motivi narrativi differenti di un autore che stava vivendo il lutto per la morte del figlio: il primo, l’epilogo con la morte del bambino protagonista, è una sintesi drammaturgica. Un invito agli spettatori, schioccati dalla morte del piccolo Hans, a soffrire per tutti i morti provocati dalla Germania
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nazista. Il bambino ha ucciso il padre e si sente colpevole e sceglie di morire, suscitando pietà negli spettatori. L’altro è la «pietà», quale premessa per il perdono anche nei confronti della Germania. «Perdono» come presupposto della «Pace». – Appena usciti da una guerra terribile, stanchi di essa, mio padre ha vissuto, all’interno del dramma universale, il suo lutto specifico che di conseguenza si è fuso con quello di tutta l’umanità. Odio e rancore non avevano più senso. Questo è lo spirito del film non a caso dedicato a Romano. – Critica e il pubblico hanno dimostrato maturità nella comprensione del film assai toccante pur nella lucida distanza dalle emozioni. I tanti riconoscimenti lo confermano. Nel ’48 Germania anno zero ha vinto due primi premi al Festival di Locarno: miglior film e miglior soggetto originale. Lizzani, che ha collaborato al film, dice di aver seguito scrupolosamente l’ottica neorealista dell’oggettività. Tra le molte valutazioni positive importante fu quella di Massimo Mida: «Germania anno zero ha innanzitutto un grande merito: quello di far conoscere a tutto il mondo, attraverso il grido straziato e sincero di un autentico poeta, il duro destino e la realtà di un paese, il calvario materiale e spirituale dei suoi abitanti. Cogliendo con estremo rigore il dramma di un popolo in profonda crisi umana e sociale, Rossellini suggerisce indirettamente a tutti gli uomini un messaggio di pace e tolleranza»3. La passeggiata finale del piccolo Hans, che si conclude con la sua morte viene vista dal critico Guido Aristarco4 come un vero capolavoro
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M. MIDA, in «Bianco e Nero», marzo 1948. Cfr. G. ARISTARCO, in «Cinema», 15 dicembre 1948.
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per le notazioni psicologiche e la forza espressiva e drammatica. Egli nota come il sonoro abbia una funzione rigorosissima poiché i rumori, la musica e le pause di silenzio, si fondono perfettamente con la parte visiva. Questa fusione è molto presente anche in altri film di tuo padre. – La musica di questo film come di altri è di zio Renzo, fratello minore di mio padre. E non è mai fine a se stessa, ma perfettamente integrata nel contesto di cui esalta lo spessore. Questa fusione mio padre la cercava sempre ed era molto attento agli effetti sonori. Faceva parte della sua esigenza di ritmo, all’interno del quale l’equilibrio di ogni componente era essenziale. Con il fratello ha lavorato in grande accordo. Zio Renzo, pur essendo più giovane di mio padre, pareva il maggiore, il più saggio. Tanto mio padre era esuberante quanto lui riflessivo, serioso in apparenza; in realtà spiritoso e gaudente. È stato un musicista di valore, un compositore, ha musicato tantissimi film non solo del fratello. Ha scritto opere liriche, balletti, è stato autore di musica da camera, soprattutto compositore di colonne sonore. Non ha potuto però fare il concertista, come avrebbe voluto, per un malaugurato incidente: da bambini, giocando a farlo cadere dalla sdraio, mio padre gli aveva provocato la perdita della falange di un dito. Di questo zio Renzo ha sempre sofferto. Mio padre ci teneva molto a farlo lavorare. Con me zio Renzo era affettuoso ma si seccò quando, avendo firmato io la regia dell’Età del ferro, un lavoro televisivo da me realizzato, gli si chiese di musicarlo. Infine si decise, ma volle che io scrivessi Renzo Rossellini jr. Forse proprio questa omonimia lo infastidiva, nel senso che temeva che si potesse attribuire a lui una regia che, a suo avviso, essendo mia, avrebbe potuto essere di qua-
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lità inferiore a quella di mio padre. E invece tutte le volte che mio padre e io abbiamo realizzato insieme qualcosa, nessuno ha mai capito ciò che era stato suo e ciò che era mio. – Un dialogo così fitto e quotidiano ha creato fra te e tuo padre un’empatia proficua sul piano creativo oltre che umano. Il dialogo fra genitori e figli è importantissimo, e per niente scontato, e credo che alla fine il tuo dialogo con lui continui. – Direi di sì. La sua è una presenza costante all’interno di me. Durante i tanti viaggi in macchina in giro per l’Europa parlavamo molto. E può essere chiarificatrice questa intervista tra me e mio padre. Non si tratta di una vera intervista, piuttosto una rivisitazione ideale dei dialoghi fra noi. Quando mio padre era vivo, gli facevo domande da figlio. Ho cominciato nell’età dei «pecché?», quando ancora avevo problemi con le «r», e ho finito il 2 giugno 1977, il giorno prima della sua morte. Mio padre era paziente e rispondeva sempre in modo esauriente. Credo di ricordare tutte le sue risposte o quasi. Di due di queste sono sicuro e penso che aiutino a capirlo meglio. La mia domanda: «Come sei riuscito a fare dei film durante il regime fascista e perché li hai fatti?» La sua risposta: «Essendo nato nel 1906, ho vissuto e sofferto due guerre mondiali, sono sempre stato contro le guerre e per la Pace. Quando, durante la Seconda Guerra Mondiale, il mio vecchio amico e produttore Franco Riganti, per Scalera film e Ministero della Marina, mi propose nel 1941 di collaborare come sceneggiatore e regista della seconda unità, con Francesco De Robertis, a La nave bianca, accettai perché trattandosi di un film su una nave ospedaliera potevo aggirare le pretese di fare un film di propaganda spo-
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stando il tema del film sulla “Pietà” per i marinai feriti, vittime della guerra. Il regista titolare del film doveva essere Francesco De Robertis e io avrei dovuto girare solo scene documentarie della vita dei marinai sulla nave bianca, la nave ospedale, mentre De Robertis girava con attori a Taranto le scene tra un marinaio e una crocerossina che la guerra aveva separato. Ma alla fine il film fu montato utilizzando le scene da me girate e del racconto del marinaio e la crocerossina rimase solo l’ombra. Francesco de Robertis levò la firma alla regia e volle che a firmarla fossi io [il primo film lungometraggio firmato Roberto Rossellini]. Il film, a sorpresa, vinse al Festival di Venezia la coppa del partito fascista 1941. Dopo questo successo Franco Riganti mi propose di realizzare per la ACI (Anonima Cinematografica Italiana) un soggetto scritto da Tito Silvio Mursino (pseudonimo di Vittorio Mussolini), lasciandomi la libertà di scegliere gli sceneggiatori. Scelsi i miei co-redattori della rivista «Cinema» diretta da Vittorio Mussolini: Michelangelo Antonioni, Gianni Puccini e suo fratello Massimo Mida. Insieme scrivemmo ancora un film sulla “Pietà” per un pilota abbattuto e per le popolazioni greche vittime della Guerra. Un film che creò cattivi umori nel partito fascista per lo scarso contenuto apologetico della guerra e mi misero in frigorifero per terribili mesi, finché la Continentalcine-Cines mi propose di realizzare un film su un cappellano militare durante la campagna di Russia tratto da un soggetto del gerarca fascista Asvero Gravelli. Questa volta senza possibilità di scegliere i miei collaboratori e con il gerarca anche come sceneggiatore e censore sul set». «E come facesti con un supervisore così?».
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Mio padre sorrise: «Il gerarca era abbastanza coglione da non capire molto di riprese cinematografiche e trattare le vicende di un cappellano militare mi permetteva, tra estreme unzioni e battesimi di bambini nati sotto le bombe, di fare il mio film sulla “Pietà” con agio. A film finito, al montaggio, sono riuscito a censurare in parte scene volute da Gravelli a condizione di lasciargli le battute di dialogo dei Commissari del popolo sovietico. Così, sono riuscito a scansare le imposizioni del regime fascista facendo tre film sulla “Pietà” e non apologetici del fascismo». La seconda domanda che ricordo assai bene di avergli fatta è questa: «Perché nel 1947, a guerra appena finita, sei andato a Berlino a girare Germania anno zero?». «Quando nel 1946, a soli 9 anni, è morto tuo fratello Romano, improvvisamente, nella sofferenza del lutto, tutto mi è sembrato sfocato e lontano e ho cominciato a sviluppare sentimenti diversi, anche il rancore si è dissipato. Ho cominciato a progettare un film su un bambino e la guerra. Da qui l’idea di fare un film su di un bambino nella Berlino distrutta, un film che toccasse ancora il tema della «Pietà», Pietà come premessa essenziale del perdono, per uscire da rancori e spiriti di vendetta e inaugurare una nuova epoca di pace tra le genti. La Seconda Guerra Mondiale era stata il frutto di revanscismo e voglia di vendetta che ha generato il fascismo e il nazismo. Educare a pietà e perdono era per me un’urgenza. Per contribuire con il Cinema a educare alla Pace! Affinché il Cinema potesse essere un’arte utile agli esseri umani». Credo che queste due risposte rappresentino mio padre, Roberto Rossellini.
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– Dunque i concetti di pietà e perdono già presenti nell’ottica di tuo padre, offuscati dalle atrocità del momento storico, divengono sempre più incalzanti e Romano ne diviene il punto di forza. Un’assenza fisica che lui cerca di rendere figura simbolo e immanente. Tua mamma racconta che molti episodi di Germania anno zero, come quello del bambino che si serve come di una rivoltella di un pezzo di coccio trovato fra le macerie, sono ispirati ai gesti di Romano. E anche il piccolo protagonista somiglia fisicamente a Romano. Rossellini lo cercò per tutta la Germania e alla fine trovò un bambino che aveva qualcosa di suo figlio5. – Anche in Europa ’51 si parla del suicidio di un bambino. Il film inizia con il suicidio. Mio padre intende in questo modo denunciare la sofferenza per la perdita degli affetti familiari che la guerra ha prodotto. Il bambino si uccide perché il dopoguerra non gli fa più vivere quell’intimità famigliare e si sente abbandonato. La madre vive il lutto per la sua perdita abbandonando il suo mondo borghese e dedicandosi ai poveri come ha fatto San Francesco. La differenza è che San Francesco, nel Medioevo, grazie a quella scelta diventa santo; Irene nel 1951, invece, con le sue scelte finisce ricoverata in manicomio. Europa ’51 è quindi un film di riflessione sulla «santità». – Pietà, perdono, santità. È questo il percorso. L’aspirazione alla spiritualità deve fare i conti con problematiche legate ai conflitti sociali, all’incapacità umana d’innalzarsi oltre il proprio piccolo utile. Le situazioni non sono mai disgiunte dal condizionamento di una società inadeguata o immatura.
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M. DE MARCHIS, Un matrimonio riuscito, cit., p. 55.
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– Arida, direi. Questo suo itinerario dove sacro, profano, personale e collettivo convergono è un refrain che percorre la sua opera. È presente in un apologo come La macchina ammazza cattivi, in opere come L’amore, dove fede, ignoranza, cattiveria s’intersecano; lo porta in India e sfocia nel Messia. – Tuo padre era ben consapevole di un itinerario spirituale, tradotto in arte visiva. Se Germania anno zero era per lui il mondo arrivato ai limiti della disperazione per la perdita della fede, Terra di Dio, implica il ritrovamento della fede. «Andando oltre, veniva spontanea la ricerca della forma più compiuta dell’ideale di Cristo e io l’ho trovata nell’ideale francescano»6. E Dario Zanelli all’indomani della sua scomparsa scrive: «Portato dalla sua natura spiritualistica ad affrontare spesso temi religiosi, non senza rivendicare tuttavia un’ampia autonomia nei riguardi dell’ortodossia cattolica, Rossellini compì con Francesco giullare di Dio un affascinante tentativo di tradurre in immagini lo spirito ineffabile dei Fioretti, anticipandovi ricerche che avrebbe poi sviluppato in successive opere televisive e cinematografiche dagli ispirati Atti degli Apostoli al forse sottovalutato Messia»7. Realizzato nel 1950, l’anno del primo Giubileo del Dopoguerra, ben si adattava a tradurre il messaggio francescano in immagini. – In quel periodo Ingrid aspettava Robertino, il primo dei figli nati dalla storia d’amore con mio padre, per cui non
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R. ROSSELLINI, Il mio metodo, cit., p. 76. D. ZANELLI, Dal vero, in «La Nazione», 4 giugno 1977.
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poté partecipare al film. Lui voleva coniugare la figura di un santo, forse il più amato, con una realtà sociale che non era poi tanto diversa da quella di secoli prima, proponendo una meditazione sulla falsità di chi speculava sulla miseria, di chi alterava l’ideale cristiano. Quindi un approfondimento critico sull’opulenza della Chiesa, la sontuosità giubilare, opponendo l’ideale primitivo e autentico di una Chiesa povera e spirituale. Scrisse testualmente: «Riproporre oggi certi aspetti del francescanesimo primitivo mi pare che sia la cosa che meglio risponde alle aspirazioni profonde e ai bisogni dell’umanità che, per aver dimenticato la lezione del poverello, schiava dell’ambizione di ricchezza, ha perduto perfino la gioia di vivere». E padre Antonio Lisandrini che, con padre Félix Morlion e altri frati, aveva collaborato alla sceneggiatura del film, rimarcò, il giorno della prima proiezione dello stesso, in Assisi, gli obiettivi del regista che intendeva attraverso questo film veicolare messaggi di tolleranza, giustizia sociale, pace. Il film, per la limitatezza di alcuni, trovò la Chiesa diffidente perfino più che la sinistra marxista. Per i comunisti mio padre, visto come uomo di sinistra, non avrebbe dovuto parlare di un santo, mentre per i cosiddetti benpensanti cattolici un film realizzato da un uomo di sinistra era per se stesso irriverente. In più occasioni mio padre subì critiche e tagli da parte della censura. In Europa ’51 la censura cancellò una frase tratta dal Vangelo e in Francesco giullare di Dio venne tagliato il prologo, un montaggio delle immagini di Giotto, perché si accennava alla Chiesa corrotta che il Santo voleva combattere. Per ritrovare quelle scene ho dovuto fare un lavoro da detective negli archivi Kodak degli Stati Uniti.
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– Questo tipo di ottusità favorisce l’insorgere di demagogie o populismi che siano. È possibile che il film abbia disorientato per quel tanto di informale che lo percorreva? Tuo padre sosteneva di non essere credente, anche se la sua narrazione finiva per contraddirlo. Ma non così palesemente. Ci vuole al solito, per comprendere, un’acutezza che non tutti posseggono. – Mio padre non era credente ma avrebbe voluto esserlo. Riteneva la fede un dono dal quale era stato escluso. Criticava altri contesti, la grande ricchezza di alcuni, l’ingiustizia sociale, ma aveva stima di chi aveva fede. E poiché la fede è un mistero e il mistero si esprime anche attraverso l’arte, non vedeva perché non si potesse esprimere anche attraverso l’arte cinematografica, nella sua essenza, priva di quegli orpelli legati al mondo devozionale come le levitazioni o altre forme di miracolo. La sceneggiatura del film fu realizzata a più mani; dei frati ho detto. Aggiungo che c’erano altri collaboratori, Fellini e Amidei, personaggi lontani dalla fede, perlomeno Amidei, poiché Fellini possedeva un retaggio cattolico, anche se per natura era eccentrico. In ogni caso il film ebbe ottime critiche, per esempio da parte di Luigi Chiarini8, ma anche molti insulti. Quanti insulti si è preso! Lo insultarono perfino per aver fatto pronunciare da Ingrid, nel finale di Stromboli, la frase «Oh, Dio mio!». Quasi che Dio abbia un’appartenenza. Per me questo film è uno dei più belli di mio padre, espressione del suo anticonformismo. Affrontava vie nuove, per cui non era sempre compreso.
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Cfr. L. CHIARINI, in «Filmcritica», gennaio 1951.
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– È accaduto più volte che i film di Rossellini non siano stati compresi, come avviene in genere per i pionieri. In seguito buona parte della critica ha fatto mea culpa. Ed è illuminante ciò che lui spiega nell’intervista di Edgardo Macorini «Il caso Stromboli». «… il boicottaggio effettuato contro il mio film penso sia dovuto innanzitutto ad un’assoluta incomprensione di ciò che esso significa e del linguaggio cinematografico con cui le mie idee sono state espresse»9. E infatti Stromboli è una proposta molto interiorizzata: la lotta impari contro la solitudine senza speranza, dovuta alla stupidità degli uomini e alla ostilità della natura. Con un Dio che la protagonista si ostina a ignorare e che accetterà o meglio in cui cercherà di rifugiarsi al culmine della disperazione. Non fu facile accettarlo, ma a molti piacque. – Il boicottaggio fu prevalentemente da parte della critica americana. – C’era da aspettarselo; non aveva digerito che la sua storia d’amore con la Bergman avesse privato il cinema hollywoodiano di un’attrice di prima grandezza. E poi, per dirla con tuo padre: «… non mi perdoneranno mai le opere che ho realizzato se non riusciranno a farle dimenticare al pubblico. Non è una lotta contro di me soltanto: il caso della cinematografia inglese spazzata via da Hollywood, insegni… Quello Stromboli che è stato presentato negli Stati Uniti con il mio nome non lo riconosco come mio film»10. – Il produttore del film fu il miliardario Howard Hughes, degli Studios RKO, che accettò su richiesta di Ingrid Ber-
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R. ROSSELLINI, Il mio metodo, cit., p. 71. Ivi, pp. 72-73.
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gman. Nacquero varie controversie tra le quali che il film venisse montato a Hollywood. Soprattutto pretendevano di modificare il finale del film. Se hai in mente il cinema americano, specie di quegli anni, capirai che per loro l’indefinito era impensabile. E allora Karin avrebbe dovuto suicidarsi lanciandosi nel vulcano. Ci fu una vertenza che vide a confronto due tribunali, di Los Angeles e di Roma e le sentenze avvennero in base alle differenti giurisprudenze. In America avrebbe deciso il produttore, in Italia il regista. Ma la scena del suicidio non è stata mai girata. – E ci fu anche il tentativo di bloccarne la diffusione. In America il livore fu incredibile. E un gruppo di senatori tentò d’imporre la censura. Uno di essi, il democratico Edwin C. Johnson, tacciò tuo padre di fascista e personaggio da manicomio. Di contro c’erano quelli, soprattutto McCarty, che asserivano che tuo padre e Ingrid erano agenti comunisti. Questa campagna diffamatoria trovò l’appoggio della Lega del buoncostume facente capo alla Chiesa Metodista e della Associazione Madri di famiglia. Si consigliava di tenersi lontani dalla visione del film. – Naturalmente andò all’incontrario. Tutti si precipitarono a vederlo. E comunque la versione americana, più breve dell’italiana, è un gran pasticcio. – Questi suoi film si presentano asciutti, scabri, molto intellettuali. Torna l’idea del «verismo» che ne è alla base. Se buona parte del pubblico non era pronta, la critica che dovrebbe essere patrimonio di gente colta avrebbe dovuto comprenderne il valore. Tua sorella Isabella in un’intervista dice di vostro padre: «Lui non avrebbe potuto essere popolare fra le masse».
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– In vari momenti mio padre stesso esprime il dubbio che la gente si adagi in formule comode, prive di senso critico; non aiutano ad affrontare il cambiamento. Un’opera come la sua volta a stimolare, alimentare dibattiti, è di per sé scomoda. – E dunque torniamo al grado intellettuale di comprensione. Questo film è quello da cui scaturisce l’idea di Europa ’51? – No. L’idea di Europa ’51 gli era venuta girando Francesco. Si era chiesto: e se Francesco tornasse oggi come verrebbe trattato? Lo piglierebbero per pazzo? Anche l’impostazione mentale di Simone de Beauvoir gli fu d’ispirazione. Ma poi il film va oltre questi aspetti e vuole investigare la realtà sociale e culturale europea di quel momento. – In che modo Simone de Beauvoir gli fu d’ispirazione? – Era amico sia di Simone de Beauvoir che del compagno di lei, lo scrittore e filosofo Jean Paul Sartre. Li incontrava spesso a Parigi. Mio padre amava molto la Francia, Parigi, e vi passava lunghi periodi. Negli ultimi anni, in pochi lo sanno, vi aveva preso residenza. Con Simone de Beauvoir discuteva di problemi sociali e filosofici ed era affascinato dalla sua intelligenza. La giudicava più intelligente dello stesso Sartre. Lui ha sempre avuto grande stima dell’intelligenza femminile. Era questa qualità ad attrarlo soprattutto. Le pupattole non destavano il suo interesse. Per questo le sue storie sono state con donne intelligentissime, in modo particolare Ingrid. – Non meraviglia in un uomo che ha fatto della cultura e della conoscenza il suo punto di riferimento. Ed è innovativo anche in questo. Per quanto tempo noi donne ci siamo sentite dire di non mostrarci intelligenti perché gli uomini erano intimoriti dall’intelligenza femminile? Tornando alla sua idea di
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linguaggio cinematografico, in risposta a Claude-Jean Philippe, conduttore della trasmissione televisiva L’invité du dimanche (24 maggio 1971), lui afferma: «Credo fermamente che l’immagine deve essere utile». Utilità come valore culturale. Su Germania anno zero dice: «Per me l’importante era scoprire l’uomo; scoprire in particolare com’era arrivato a praticare o accettare simili orrori». E ancora: «Quello che m’interessa è la meccanica dell’evoluzione umana. È da lì che possiamo scoprirci. Siamo sempre costretti ad adottare delle formule per capirci. Tentiamo di farlo con la psicologia ma non è con la psicologia che ci si capisce; ci si capirebbe meglio penetrando in noi stessi ed esplorando il mistero e lo slancio che da sempre ci ha assillato». La ricerca delle stratificazioni più complesse dell’animo umano lo porta alla concretizzazione di un film di stampo bergmaniano, che suscitò forti polemiche, e che rimane un’importantissima tappa della sua produzione, Viaggio in Italia. In esso il disagio di una coppia di coniugi stranieri in viaggio a Napoli anticipa il senso di mistero, di nichilismo, che ispirerà alcuni registi, anche della Nouvelle Vague. In Europa ’51 e Viaggio in Italia lui punta al linguaggio dei gesti, delle espressioni, diversamente dalla produzione cinematografica dell’epoca. Seppur in forma differente la componente mistica è presente anche qui come in gran parte del suo percorso. – Questo lavoro del ’53 che lui definì “amarissimo” e anche “un film sull’alienazione”, parte da un affondo contro le regole borghesi molto duro, e come spesso avviene in lui, c’è uno spirito di ricerca realistico riguardo alla società spesso impreparata e credulona per mancanza di cultura. – Il miracolo, vero o presunto, appartiene a quella sua inclinazione a lasciare interrogativi.
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– Lasciare interrogativi era per lui il modo di contribuire a una crescita mentale. Far riflettere. La scena finale con un miracolo da intuire visivamente, in realtà in grado di determinare una «ricaduta miracolistica» sui due protagonisti (Ingrid Bergman e George Sanders), coniugi sull’orlo del divorzio, e che ritrovano un’intesa, appartiene a quel suo modo di finali indefiniti, che si prestano a più chiavi di lettura. – Cioè per lui la storia diveniva pretesto per una indagine psicologica e sociale. – Proprio così. – Un altro film girato poco dopo Viaggio in Italia dal titolo La paura, riprende il tema della crisi matrimoniale. Superata anch’essa, alla fine. Tratto da un romanzo di Stefan Zweig è un film dominato da inquietudine e sospetto. È una coincidenza o tuo padre attuava una sorta di esorcismo dal suo disagio crescente nel rapporto fra lui e Ingrid? – Certamente in questi due film, specie nella Paura, lui proiettava l’ansia per una crisi di coppia, alimentata da un contorno ostile. Affievolitosi il grande amore, Ingrid mal digeriva i limiti ai quali era costretta proprio da questo contorno. Rimpiangeva Hollywood e volle tornarci da star. In una normale coppia molto sarebbe stato superato. Ma quando i personaggi sono pubblici di questa grancassa di risonanza devono rispondere, devono prendere il bello e il brutto. Si appartengono un po’ meno. – In ogni caso è innegabile che il periodo passato con Ingrid fu per tuo padre molto efficace sul piano creativo. Dall’episodio Napoli 1943 per il film Amori di mezzo secolo, a Dov’è la libertà, alle due trasposizioni, una scenica e una fil-
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mica, di Giovanna d’Arco, a Invidia, episodio per I sette peccati capitali, tanto per citarne alcuni, è un susseguirsi di sue produzioni. Una grande vitalità, forse una sfida. – Tra lungometraggi e partecipazione a episodi (uno gustoso, in Siamo donne, vede Ingrid in veste di casalinga), mio padre portava avanti la sua esplorazione della variegata umanità. Satira. Apologhi, come in Dov’è la libertà, unico film con la partecipazione di Totò; grandissimo, come sempre. Una riflessione su quale sia la vera libertà. Soprattutto una sottile analisi su come tante speranze maturate durante la dittatura e la guerra e appena assaporate nel dopoguerra fossero state presto tradite. Per molte sue realizzazioni la partecipazione di Ingrid fu essenziale. Lei aveva grandi doti di attrice. Recitava con assoluta spontaneità; nessuno percepiva quanto studio del personaggio e dell’ambiente ci fosse alle spalle.
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IV L’UOMO ROBERTO ROSSELLINI
«“Sto combattendo una battaglia veramente grossa, sto compiendo uno sforzo da gigante per sopportare la concorrenza, il peso dell’industria, l’amoralità delle imposizioni private, per rompere il cerchio che minaccia di soffocarci tutti, ed ecco come mi si ricompensa. Lavoro e combatto per tutti e tutti si ostinano a non capirmi. Ma è possibile, mi dica lei, è possibile continuare a questo modo, in queste condizioni?”. Si piantò davanti a me in atteggiamento di sfida e mi fissò a lungo con quei suoi occhi vivi e penetranti, come se io fossi il colpevole, l’unico colpevole dell’incresciosa situazione. Come se le ingiustizie di cui si sentiva vittima, e che lo ferivano profondamente, fossero opera mia. Se vi dico che rimasi interdetto dovete credermi. Non conoscevo Rossellini e non mi sarei atteso di sentirlo parlare con tanta foga. Aggiungo che questo mi piacque. Mi sbalordì e mi piacque immensamente. Rossellini non polemizzava con i freddi argomenti della ragione e nemmeno voleva difendersi dalle critiche che gli erano state mosse. Né mendicava scuse o accettava la discussione. Precise e vibranti le sue parole sembrava volessero abbattere, con pochi colpi assestati al punto giusto, lo schermo creatosi fra lui e me, vincere la mia resistenza, piegarmi alla forza delle sue convinzioni. Perché re-
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sistere, d’altronde? Avevo sentito parlare del “fascino” personale di Rossellini e ora mi trovavo sul punto di subirlo io stesso. Pensavo, guardandolo, a tutto ciò che mi aveva detto prima di giungere a quella fremente invettiva contro i critici che non lo vogliono (o non lo possono) comprendere, pensavo alle sue inattaccabili professioni di fede, pensavo ai suoi ultimi film»1. *** – È una delle tante testimonianze sul fascino che esercitava tuo padre. Un particolare carisma. – Sicuramente esercitava fascino, e anche su di me lo esercitava, il che non toglieva niente alle sue grandi capacità paterne. Mi parlava per ore di argomenti che reputava fondamentali per il mio futuro da adulto, e suo erede. Mi parlava e sollecitava commenti, mi trasmetteva contenuti anche con frasi brevi tipo: «Renzo, ricordati, nella vita, tra prepotenti e loro vittime, schierati sempre al lato del più debole». E fu così che a scuola, alle elementari dalle Suore Dorotee, per difendere una bambina, Paoletta, da un bulletto, Maurizio, gli saltai addosso e gli versai in testa un calamaio d’inchiostro. Risultato? Fui espulso dalla scuola e finii le elementari da privatista. – Come definiresti tuo padre? – Difficile definirlo. Alcune sue frasi sono indicative: «L’unico mestiere che, quotidianamente, cerco di imparare,
1 F. DI GIAMMATTEO, Rossellini si difende, in «Il Progresso d’Italia», 9 dicembre 1948.
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è il mestiere d’uomo». E l’altra: «L’unica nostalgia che ho è per il futuro». Pur parlando del passato, non ne viveva la dimensione nostalgica, determinato com’era ad andare avanti. *** Aurelio Andreoli in “Paese sera”2 ci trasmette il pensiero di Roberto Rossellini: “Temo sempre di non aver nulla di me stesso da proiettare in un racconto. Detesto osservarmi, descrivermi. Non sono un virtuoso del dialogo. Non sono un artista, e neppure un intellettuale. Né mi sono ridotto a essere solo un regista. Vivo una vita pienamente umana, niente di più. Vivo una vita comune: sono stato marito, sono padre pieno d’orgoglio, nonno. Ma non sono contento di me. Non sono contento neppure del mio tempo. Vivo a Roma, solo, sono povero, ma ho quanto è necessario. Non sono mai andato a caccia di soldi. Ho vissuto con coerenza. Ho dieci, venti libri sul tavolo, li leggo alternativamente, con brevi pause. Sono curioso di tutto. Cerco il rifugio adatto a me; me ne sto a leggere per ore. Mi affascinano la meditazione, la severità personale, la ragione. Ma lo studio della filosofia, la storia, la saggistica non mi bastano. Talvolta ho bisogno di distrazioni. Il tempo passa, passa. Immagino luoghi, avvenimenti, persone, fatti della vita. Certe sensazioni forti e limpide: Ingrid appoggiata sui gomiti in una sera estiva a Roma; uno dei miei figli che stringe in una
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Cfr. R. ROSSELLINI, Il mio metodo, cit. p. 3.
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mano un grappolo di uva nera. Ricordo la casa del quartiere Ludovisi, a Roma, dove nacqui. Intorno a noi c’erano appezzamenti vuoti e giardini, ampi tratti di mura aureliane. Eravamo in trecentomila a Roma. Al Pincio c’erano ancora caprari, vigne, vacche e latterie. I vecchi quartieri, case color mattone e arancio, non erano stati ancora sventrati dal piccone. Ricordo sempre il racconto di quegli anni. Sfoglio e risfoglio nella memoria l’album della Roma inizi secolo: i caffè storici, piazze dove sostavano i vetturini, ciceroni, ciociare. Mio padre che era costruttore aveva costruito il cinema Corso, a Roma, e io avevo la tessera per andare a vedere tutti i film. È sorto così il mio interesse per le cose del cinema. Mio padre rispettava i miei sentimenti, i miei pudori… La domenica riceveva la cerchia dei suoi amici: Massimo Bontempelli, Alfredo Panzini, Gori, gli uomini della sinistra, alcuni borghesi illuminati. E ognuno rifletteva sulle proprie speranze, un tempo verdi, poi andate deluse. Era appena finita la prima guerra mondiale… si ritrovavano tutti insieme, una trentina, per discutere di crepuscolarismo, poesia e non poesia, ritmo, poesia narrativa. Mio padre viveva per la letteratura senza preoccuparsi né del denaro né della gloria… Mi parlava di vecchi socialisti: Prampolini, Turati, Bissolati, Enrico Ferri… Sono un uomo di 71 anni. Ho acquisito alcuni principi indispensabili. Avverto le preoccupazioni del secolo. Mi affascina tutto. Sono curioso di tutto. Non mi innamoro di nulla. Detesto raffinarmi. Sono libero di fare quel che voglio. Non ho ispirazione, che trovo una cosa bestiale. Resto lucidamente critico. Non ricordo il male che ricevo… Credo nella tenerezza. La tenerezza: una vera posizione morale. Non accetto una forma d’arte che sia priva di dolcezza. La
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società oggi è inutilmente crudele… Ho continuato sempre a preoccuparmi dell’uomo, per questo ho iniziato la mia attività cinematografica… Sono stato felice. Ho dovuto ben esserlo in certe circostanze. Ricordo Parigi in una tardiva primavera, e Ingrid fine e dolce. Sì, dolcissima. Ricordo l’amore, la perfezione, la gioia di quei tempi. Già prima della seconda guerra frequentavo la vecchia Parigi animata da caffè, gallerie d’arte, mostre retrospettive, ristoranti, antiquari, librai. Amavo i camini rossi, neri o grigi, i colori stinti… I miei amici si chiamavano Jean Cocteau, Jean Renoir, Marcel Pagnol, Jacques Maritain, Edgar Faure, André Malraux. Il mio film migliore? Non so. Non m’interessa. Non vedo i miei film passati. Come nasce un mio film? dalla documentazione… Imparo molto dai giovani. Oggi mentre la civiltà che abbiamo babelicamente costruito si sfascia, ci resta la possibilità di risorgere umanamente. La nostra civiltà, basata sul lucro, dominata dalla logica dell’avidità, è ormai allo stato pre-agonico. Una civiltà crolla, ma la vita continua. Quando una cultura si sfalda, v’è urgenza di creare nuove strutture sociali per una civiltà di ricambio»3. – È un brano che esprime nettamente la presa di distanza dalla mediocrità. Tua sorella Isabella nel suo libro Qualcosa di me cita una frase che vostro padre ripeteva spesso: «La stupidità non mi diverte»4. E aggiunge: «Il cinema di mio padre,
3 R. ROSSELLINI, Roberto Rossellini parla di Roberto Rossellini, in «Paese sera», 12 giugno 1977. 4 I. ROSSELLINI, Qualcosa di me, Mondadori, Milano 1997, p. 47.
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così rigoroso, si basava sul principio della conoscenza. Per papà imparare era un bisogno umano come mangiare, bere o fare pipì. Con i suoi film fedeli ai fatti, cercava di essere il più possibile obiettivo. “Cerco di mostrare, non dimostrare” diceva»5. Il libro di Isabella, simpatico e vivace, non perde di vista il rapporto e l’amore per i suoi genitori. Scrive: «Ho amato mio padre troppo, esageratamente… da bambina non ero mammona, ma babbona»6. E dunque vostro padre è stato un padre molto amato. Questo amore presumo sia divenuto un collante per tutti voi, creando un forte sentimento di appartenenza. – Mio padre, come ho già detto, amava discutere con noi di problematiche legate al mondo del sapere. Ci voleva socraticamente in grado di dedurre. – Socrate è stato un suo punto di riferimento e su di lui ha fatto un film. Penso che si riconoscesse in qualche modo nella figura di Socrate; si sentiva affine, con quella vocazione costante alla ricerca della verità a volte così scomoda da renderlo, come avveniva per il filosofo greco, un bersaglio da parte dei critici e di quegli individui che, non comprendendolo, lo sminuivano. Mi sbaglio? – No, affatto. Socratico era anche il suo senso di dignità dell’essere umano, da valorizzare, e l’idea didattica del rapporto con il pubblico. Possedeva una personalità legata alla visione speculativa che dal classicismo procede rinnovandosi nell’umanesimo. Un umanista, però, non avulso dalla realtà.
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Ibidem. Ivi, p. 14.
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– L’esigenza di partecipazione sociale mi sembra abbia a che fare anche con l’Illuminismo. Così la funzione didascalica del «mostrare». «Mostrando» cerca di sviluppare capacità razionali e di analisi. E questo mi pare si evidenzi anche attraverso altri sui lavori. – L’esigenza didascalica è stata la spinta maggiore che ha operato il suo convergere verso realizzazioni televisive. La televisione dell’inizio indirizzata al sapere, al miglioramento della società. – E perciò penso che fu tra coloro che per primi compresero il valore e le finalità dell’Unesco; e fu vicino a tanti intellettuali con i quali aveva un dialogo costante. Tuo padre, però, non era solo questo, era un uomo che amava vivere. – Molto. Amava la vita, le donne, le macchine veloci. Ne ha avute tante. Avrebbe voluto essere un corridore delle Mille Miglia. Ci provò, ma Ingrid lo riportò alla ragione. Ci sarebbe tanto da dire. Inquadrare la figura di mio padre non è facile. – So che amava inventare. – Amava inventare, creare. Per il Pancinor inventò un telecomando ante litteram, molto utile. Interessantissima fu la creazione di un apparato per inserire, sovrapporre, modificare immagini grazie a giochi di specchi e cristalli. Inventò un sistema di registrazione su videocassetta ottica, non magnetica. Ideò anche un sistema di illuminazione dei fotogrammi (illuminazione stroboscopica) e obiettivi in grado di ingrandire i fotogrammi da 8 mm che venivano proiettati all’interno di uno schermo grande come un televisore di 20 pollici. Purtroppo la sua macchina da presa assieme allo zoom venne da lui portata a Parigi per le ri-
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prese del documentario su Le centre Georges Pompidou. Poiché aveva in mente di tornare presto nella capitale francese per iniziare il lavoro su Karl Marx, aveva lasciato macchina da presa e zoom in custodia a una persona che poi negò di aver alcunché. Mio padre era morto, non c’erano testimoni a contraddirlo, avrei dovuto comunque denunciarlo, ma ero talmente distrutto dalla perdita di mio padre, che non me la sentii.
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V IL PADRE, ROBERTO ROSSELLINI
Roberto Rossellini è stato un uomo di successo in qualunque campo si sia cimentato. Ma credo che il successo più grande l’abbia raggiunto in qualità di padre. Un padre amatissimo. L’amore di Renzo per lui è l’elemento di forza di tutto il suo percorso di vita. Una sua frase ne diviene il compendio: «Tutto ciò che sono, tutto ciò che so lo devo a mio padre». L’amore di Isabella è esplosivo, privo di riserve. Il suo libro Qualcosa di me, ricco di una briosità tutta italiana, racconta, fra l’altro, la straordinaria empatia che l’ha legata al padre: «Ho amato mio padre troppo, esageratamente… Quando ho avuto mio figlio l’ho chiamato Roberto e per secondo nome Robin, perché amo gli animali [in inglese robin vuol dire pettirosso], e perché non voglio che venga chiamato in nessun modo che non sia il nome di papà»1. In Qualcosa di me l’affinità con il padre è palese, nel tipo d’’umorismo, nella sdrammatizzazione che non è superficialità, al contrario, è proprio la consapevolezza di una sensibilità dalla quale prendere le distanze, a difesa di sé. C’è una forte ricerca di autonomia e superamento di schemi, insieme a un ancoraggio
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I. ROSSELLINI, Qualcosa di me, cit., p. 14.
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alle tradizioni. E poi l’immaginazione, la fantasia, il gusto di un racconto ai limiti del fantastico. Del resto, pur nella grande somiglianza con la madre, l’espressione di Isabella, alcune linee del volto, ricordano Roberto Rossellini. Sono mie percezioni, forse inesatte, forse no. Con lei si era deciso di creare uno spazio di ricordi. Ma il nostro dialogo si è bloccato sul nascere. Solo una domanda e una risposta sulle estati passate nella villa di Santa Marinella: Isabella - Renzo era il nostro fratello più grande e si divertiva tanto con noi più piccoli. Ci organizzava come fossimo soldatini e si inventava storie e avventure pazzesche tipo andare a caccia di animali pericolosi nella giungla o fare la guerriglia per non so quale giusta causa. Solo con la fantasia noi lo seguivamo e ascoltavamo affascinati le sue strategie di guerra, guerriglia e battute di caccia. Aveva messo su una tenda davanti alla casa di Santa Marinella e a volte ci dormivamo invece che starcene a casa. Ci sembrava pericolosissimo. E Renzo aveva stabilito turni di guardia di notte. Ognuno di noi doveva fare la sentinella e anche avere la parola d’ordine prima di entrate in tenda. La parola d’ordine era Yes of course. Nessuno di noi parlava ancora l’inglese e questa frase suonava affascinante alle nostre orecchie. Io ho sempre avuto una predilezione per mio fratello Renzo. Era il più giocherellone di tutti i miei fratelli e sorelle e a me piace ancora oggi divertirmi. Ero anche molto vicina a sua madre Marcellina con cui ho fatto i miei primi passi professionalmente. Avevo studiato per diventare costumista e Marcellina mi portava con sé sul set di papà ad aiutarla. Il mio
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ruolo principale era quello di far attenzione che le comparse riportassero tutti i vestiti indietro e non se ne andassero a casa loro con le scarpe o la camicia del film. Renzo era anche lui sul set, ma occupatissimo perché papà gli delegava moltissimo. Tutti lo rispettavano e amavano. Era giovane, diligentissimo, lavoratore infaticabile ed era molto gentile e affettuoso, mentre papà si arrabbiava spesso e non aveva pazienza. Il set lo annoiava. Dopo la prima risposta Isabella ha intrapreso una tournée molto impegnativa. E il nostro dialogo rischia di avere tempi troppo lunghi, essendo ormai il libro agli sgoccioli. Il ricordo principale che lei desidera trasmettere, non a caso, riguarda suo padre. «Ho molto pubblicato su di lui, – mi fa notare – sarebbe il caso di rifarsi a quanto ho scritto». Sicché, sollecitata anche da Renzo, ho ripreso in mano l’unico dei tre libri reperibile (e già citato in questo testo) e da esso traggo piccoli flash a volte suggestivi, a volte divertenti o nostalgici. Sempre interessanti. «Mio padre era una chioccia» scrive Isabella. «Era più madre che padre… Quando eravamo bambini uno dei nostri giochi preferiti era buttarci su papà. Lui disteso sul fianco faceva la scrofa e noi i maialini»2. Roberto Rossellini era un uomo robusto e «le persone che gli consigliavano diete mi irritavano – non volevo perdere neanche un po’ di papà mio. Era morbido da abbracciare, era tanto, e io lo volevo tutto. Una delle passioni di papà era guidare – in gioventù era
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Ivi, p. 16.
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stato pilota della Ferrari. Spesso ci caricava tutti in macchina e ci portava a visitare località e paesini italiani. Guidava veloce suonando il clacson ininterrottamente, fischiettando canzoni napoletane e raccontandoci storie fantastiche che infiammavano la nostra immaginazione. Mi ricordo le sue mani coperte di lentiggini, afferrare il volante saldamente, proprio come un campione di Formula 1. Le sue mani mi sembravano così belle»3. Roberto Rossellini a un certo punto rinunciò a partecipare alle corse automobilistiche: «Fu mio fratello Roberto a prendere in mano la situazione e a soli tre anni di età: schiaffeggiare mio padre, per convincerlo a lasciar perdere le corse automobilistiche. Aveva assistito all’angoscia di mamma in attesa che papà tornasse sano e salvo a casa dopo aver partecipato a una Mille Miglia»4. A differenza del padre che mostrava una certa pigrizia durante il tempo passato in casa, «mia madre aveva una grande energia fisica. Camminava svelta e quando non era impegnata sul set a girare un film, puliva e riordinava la casa me-ti-co-lo-sa-men-te. Mamma amava recitare e pulire. Recitare più di qualsiasi altra cosa al mondo. Mi ci è voluto un po’ di tempo per rassegnarmi. Avrei voluto essere io al primo posto. Quando si chiedeva a mamma quale fosse la cosa più importante per lei, arrossiva e diventava nervosa, ma non sapendo mentire, né essere diplomatica, rispondeva “recitare”, sebbene io sapessi che, per il nostro bene, avrebbe voluto poter rispondere “la mia
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Ivi, p. 18. Ivi, p. 19.
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famiglia”»5. Isabella era affascinata (come del resto tutti) dall’intelligenza del padre: «Papà aveva una maniera tutta sua di farsi prestare i soldi dalle banche. Quando gli venivano chieste le garanzie per il prestito, papà attaccava uno dei suoi lunghi discorsi, spiegando che se avesse potuto procurarsi i soldi diversamente lo avrebbe fatto, e che l’assoluta certezza di non avere alternative lo aveva spinto a rivolgersi alla banca, unico luogo con soldi sicuri. Aveva un’intelligenza che poteva disarmare ogni regola e legge. I suoi ragionamenti così convincenti, portavano a seguire logiche tutte sue e… aveva uno charme irresistibile. Il più delle volte usciva dalle banche con i soldi che voleva»6. Per Roberto Rossellini fare soldi sarebbe stata una maniera facile ma noiosa di vivere la vita, dice in sostanza Isabella. Poiché i suoi film neorealisti ebbero tanto successo, sarebbe bastato farne altri. Avrebbe guadagnato moltissimo. Ma non era nella sua natura: «Era un pioniere: ripetere qualcosa lo annoiava»7. La sua capacità di rendere logico l’illogico è ben espresso da Isabella in questo brano: «Riportò il suo più straordinario successo nello sconfiggere regole, leggi e logica comune, quando riuscì a ottenere il riconoscimento di mio fratello Roberto come figlio suo e “di madre sconosciuta”, sfidando addirittura le leggi della natura. Quando nacque mio fratello, nostra madre era ancora sposata col primo marito. Questo all’epoca causò un enorme scandalo e per la legge italiana
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Ivi, p. 20. Ivi, p. 57. Ivi.
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di allora Roberto sarebbe stato automaticamente figlio di Petter Lindstrom (il marito di mamma), se mio padre non fosse riuscito a sovvertire la logica della natura»8. Roberto Rossellini era rigorosissimo nel realizzare ogni scena, ogni dettaglio. «Una volta mio fratello Renzo collocò la cinepresa un po’ più in alto del livello degli occhi, durante le riprese del film firmato da mio padre La presa del potere di Luigi XIV. La collocò in quella maniera per sottolineare lo splendore regale dei bizzarri pasti di corte. Mio padre diversamente da tutti gli altri registi che ho conosciuto, non veniva sempre sul set, che credo lo annoiasse, lasciando a mio fratello maggiore rigide istruzioni su come riprendere la scena. Renzo tremava di paura quando il giorno successivo quelle scene vennero visionate, ma fortunatamente mio padre non si è mai accorto della sua disobbedienza. Altrimenti avrebbe senz’altro tuonato: “Che tecnica di regia è mai questa?” È inaccettabile una tecnica che influenzi subliminalmente il pubblico come per le pubblicità TV»9. «Soltanto nella vita privata mio padre dava libero sfogo alla sua meravigliosa immaginazione, lasciando che si esprimesse al massimo dei giri, come la sua Ferrari. Nel lavoro invece la limitava, valendosene solo un pochino. «Le storie che racconto nei miei film cosiddetti neorealisti, non sono del tutto reali, né del tutto inventate – sono verosimili» ha dichiarato in un’intervista. Utilizzava la sua immaginazione solo per creare questa verosimiglianza. E se ne serviva anche
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Ivi, p. 57. Ivi, p. 128.
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per i suoi film storici, quando doveva ricreare l’atmosfera del tempo. Ma i suoi film erano basati sulla realtà ed erano estremamente rigorosi dal punto di vista storico»10. Isabella sottolinea più volte il senso di rigore, il fondo morale che ha sempre riscontrato nel padre. Come del resto nella madre. Isabella ama gli animali ed è aperta alla varietà del mondo. Bellissimo atteggiamento. Per cui spero mi perdoni se riporto anche il suo discorso antirazziale, contro i pregiudizi che ogni tanto vorrebbero coinvolgerla: «Io provengo da una famiglia multirazziale e non ne ho sofferto affatto. Anzi, l’ho sempre considerato un privilegio. In me vi è un misto di sangue dell’estremo nord e del profondo sud dell’Europa, sangue scandinavo e mediterraneo. Mia madre era per metà tedesca e per metà svedese. Mia sorella Raffaella è per metà italiana e per metà indiana, e Gil, che geneticamente è tutto indiano, è stato adottato da mio padre. C’è Alessandro, mio nipote, figlio di mio fratello maggiore, la cui madre è afroamericana. Ora ci sono anche i figli più piccoli di Renzo che sono ebrei. E c’è ancora altro sangue, irlandese e russo. A vederci tutti insieme non si direbbe certo che apparteniamo alla stessa famiglia. Crescendo consideravo la mia famiglia all’avanguardia, più evoluta di tante altre ancora alle prese con pregiudizi razziali»11. «Mio padre è morto – scrive Isabella – e quattro anni dopo è morta pure mia mamma. Papà è morto d’infarto, improvvisamente. Come disse mia madre in una lettera a
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Ivi, p. 132. Ivi, p. 161.
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Jean e Dido Renoir, “è morto velocemente, proprio come guidava la sua Ferrari”. Mia madre invece morì lentamente di cancro, ma “with her boots on” (con indosso gli stivali), come diceva lei e come aveva sperato. Fu la mia sorellastra Pia infatti che dovette ritirare l’Emmy Award, il più importante premio americano per la televisione, che le assegnarono postumo come interprete di Golda Meir. Quando papà morì non riuscivo a immaginare la vita senza di lui… ero ancora troppo giovane per conoscere il potere della fantasia, dei sogni e dei ricordi. Se dovessi dividere la mia vita nello stesso modo in cui è divisa la storia tra a.C. e d.C., sceglierei come data divisoria il 3 giugno 1977»12. *** Trascrivo questo breve capitolo dopo che Isabella mi ha comunicato l’apprezzamento per la scelta di brani tratti dal suo libro.
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Ivi, pp. 30-31.
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VI OLTRE IL NEOREALISMO
Tullio Kezich, all’indomani della scomparsa di Roberto Rossellini, mette in risalto due aspetti ricorrenti nella sua biografia: l’uomo galante, dotato di fascino e il regista d’avanguardia, padre, non padrone. «È strano: non è il ricordo recentissimo di Cannes con Rossellini ancora una volta vincente nella battaglia per un cinema diverso, felice di aver consegnato il premio ai fratelli Taviani per Padre padrone, non è quest’immagine che ci torna subito alla memoria. Ci ricordiamo invece un Roberto di mezza età, a passeggio nelle vie di Milano con Mario Soldati; e lo scrittore che gli confidava, come abbozzando un suo tipico racconto, di averlo sempre invidiato, ancora prima di conoscerlo, prima di sapere che si chiamava Rossellini. C’era in ballo una diva degli anni ’30, pare corteggiata da Soldati; ma lei parlava sempre di un certo Roberto, un uomo affascinante che veniva a trovarla di notte, un personaggio non estraneo all’ambiente del cinema. E Soldati, senza averlo mai incontrato, ne invidiava il fascino, la sicurezza, il modo trionfale in cui era entrato nella vita di questa bellissima donna. A questo sfogo, nel buio, Rossellini sorrideva sornione, negava da gentiluomo di aver mai conosciuto la signora in causa, attribuiva l’intero episodio alla fantasia di
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Soldati. E proclamava naturalmente d’invidiare lui l’amico, lui che si sentiva soltanto un occhio, e non avrebbe saputo inventare un intreccio così affascinante. Per tutta la sua lunga, operosa e multiforme esistenza, Rossellini ha sempre camminato davanti a noi. È stato un maestro che ci ha preceduto, incurante se il nostro passo non era in sintonia con il suo, ogni tanto scomparendo al di là di una cantonata, ogni tanto ricomparendo di sorpresa, ogni tanto voltandosi verso di noi per aspettarci con un sorriso che esprimeva affetto e fiducia. Se è stato il padre di un paio di generazioni di cineasti lo è stato nella maniera meno autoritaria possibile… ma Roberto aveva anche in massimo grado le caratteristiche dell’avventuriero italiano del ’700: oltre al fascino che gl’invidiavano Soldati e tanti altri, la furberia, l’ingegno pronto, la battuta risolutiva. Considerato irresponsabile dai produttori perché non capiva le loro ragioni, avvertì sempre le sue responsabilità profonde; e per anni ha pilotato un clan in cui le vecchie e le nuove mogli, i figli, i nipoti e i parenti tutti trovavano un punto di riferimento. Ma l’arcipelago Rossellini è stato qualcosa di più vasto, che è andato ben oltre i confini delle sue pur numerose famiglie. In ogni parte del mondo, dove un giovane ha impugnato una cinepresa, là c’era e ci sarà Rossellini. Non c’è cineasta che non si sia rivolto a lui con fiducia, per consiglio o aiuto, su cui la personalità di Roberto non ha riverberato in maniera visibile»1.
1
T. KEZICH, in «La Nazione», 4 giugno 1977.
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*** – Verso la fine degli anni quaranta, come già detto, Roberto Rossellini comincia a sentirsi sempre più stretto nei panni del Neorealismo. In un’intervista rilasciata al quotidiano «Il progresso» il 9 dicembre 1948 afferma che il tipo di realismo inaugurato con Roma città aperta e Paisà «oggi non serve più… Oggi credo si debba trovare una nuova e solida base tra poesia e realtà, tra desiderio e azione, tra sogno e vita. Per questo ho fatto Amore e La macchina ammazzacattivi». Mi sembra di dedurre che vivendo a fondo i mutamenti della società, cercava una sintonia con l’esterno, in quella continua ricerca che è propria dell’intellettuale. Sicché sentiva il bisogno di cambiare passo, stile. E Amore e La macchina ammazzacattivi sono stati la porta con la quale è uscito dal Neorealismo, trovando ridicolo che i critici dessero dei punteggi di Neorealismo ai film suoi e di altri, imponendo valore solo all’improvvisazione e non alla ricerca. Questi due film rappresentano un passaggio necessario per arrivare alla fase creativa successiva di film con attori professionisti come Ingrid Bergman (Stromboli, Viaggio in Italia, Europa ’51) o Vittorio De Sica (Il Generale Della Rovere). Il film Amore, con il quale Anna Magnani vinse il Nastro d’argento come migliore interprete femminile, non fu compreso dalla critica, a parte Gian Luigi Rondi e pochi altri. In realtà i critici non erano maturi per recepire la novità insita nella nuova avventura rosselliniana volta al superamento del Neorealismo, in tensione simbolica e metafisica; e che, nella Macchina ammazzacattivi, trova una formula volutamente favolistica. Un apologo sociale e politico. La lunga tradizione classica propone da sempre la
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favola in qualità di apologo. Pensiamo ad Apuleio, Esopo. Molto attuale del resto una favola che presenta i cattivi come i distruttori della natura. Una sensibilità ambientale ante litteram. Non dimentichiamo il suo interesse per Francesco d’Assisi. Anche lo stile, più teatrale, è in linea con questa volontà evolutiva, questa voglia di nuove indagini che attraversa tutta la sua opera. – C’è un filo conduttore che lega questi film ai successivi. Sia ne La Macchina ammazzacattivi che in film posteriori come Stromboli e Viaggio in Italia uno dei motivi ricorrenti è la sofferenza che riesce a far percepire, proponendo l’intolleranza che la collettività di continuo è capace di manifestare di fronte a diversità culturali, sociali, etniche. Un messaggio anch’esso molto attuale. – Veramente molto attuale. Si tratta poi di film differenti fra loro, ma animati da un tipo di scansione che diviene una sorta di imprimatur del suo stile. Forse grazie alla sensibilità musicale. Si dice che c’era molto accordo fra lui e Carlo Rustichelli, che musicò molti suoi lavori, sul nesso dialogo-musica. È questione di ritmo, diceva, e lui l’aveva molto accentuato. – La musica fu per mio padre un elemento determinante. In questo suo fratello e lui erano molto affini. La suggestione musicale, il rapporto musica-immagini l’accompagnerà fino alla fine, e volersi misurare con questo rapporto lo entusiasmò quando, proprio l’anno della sua morte, 1977, RAI 2 gli chiederà di realizzare un documentario su tutto il lavoro di Michelangelo in San Pietro. Il Concerto per Michelangelo, documentario girato in Vaticano esprime tutta la sua stupefazione di fronte alla bellezza. Inoltre farlo lo riportava indietro nel tempo, quando da ragazzo aveva vi-
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sitato la terrazza della Basilica con le sue enormi statue, scoprendo che lassù avevano nidificato dei falchi. Era curiosissimo di tornare a vedere se ci nidificassero ancora. – Fu l’ultimo suo documentario? – Il penultimo. L’ultimo fu Le centre Georges Pompidou. *** – Tuo padre ha avuto la fortuna, perché tale mi sembra, di aver avuto accanto donne eccezionali. Tua mamma non era un’attrice, ma ha avuto una forte incidenza su di lui come persona e sulle sue scelte. Anna Magnani e Ingrid Bergman in che modo hanno influito sulla sua personalità e il suo lavoro di cineasta? – Per Ingrid ti ho in parte risposto. Più che aver influito, queste donne eccezionali sono state in grado di captare le esigenze creative e dinamiche di lui, attuando una sorta di simbiosi con la necessità di evoluzione di schemi. In questo Anna fu la voce della passionalità pura; Ingrid dimostrò una professionalità superiore. – Questa professionalità, questo stile, hanno creato un rapporto di amicizia speciale fra tua mamma e Ingrid, e anche con i suoi figli. – Molto è avvenuto grazie alla tolleranza di mia madre e alla capacità di Ingrid di tenere tutti insieme. Ricordo una bella vacanza ad Amalfi con tutti noi bambini, mamma, Ingrid e Sonali, la terza moglie di mio padre. – È un fatto raro. – Sì, è così. Quando mio padre morì, Ingrid telefonò a mia madre per dirle che la morte più bella che lui avrebbe
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potuto desiderare era proprio quella di trovarsi fra le braccia di lei, Marcella, come infatti avvenne. – E qual è stato l’ultimo amore di tuo padre, conclusa la storia con Sonali? – Credo che l’ultimo amore, direi matrimonio, di mio padre sia stato con Silvia d’Amico. Papà ha assistito Anna Magnani, è stato al capezzale di lei fino al suo ultimo respiro. E fu lì, in ospedale, che ha conosciuto Silvia che con Anna aveva lavorato ed erano diventate amiche. Tra Silvia e mio padre fu un colpo di fulmine. Mio padre restò affascinato dall’intelligenza e cultura di Silvia. Ed ebbe inizio una relazione d’amore e di lavoro che durò anni. La relazione tra mio padre e Silvia d’Amico era offuscata dal fatto che Silvia aveva un precedente rapporto sentimentale con lo sceneggiatore Alfredo Giannetti che non volle interrompere quando iniziò la sua storia d’amore con mio padre. – E quale spiegazione dette? Alla fine la interruppe? – Penso che non la interruppe mai, fino alla morte del Giannetti. Diceva che la relazione con lui era approvata dai suoi genitori, quella con mio padre no. Questa situazione, al di là della passione che li legava, creava agitazione in mio padre. Il quale decise di fare chiarezza e chiedere la mano di Silvia, mandando me a domandarla per lui ai genitori di lei, Suso e Lele d’Amico, e così feci, ma i genitori obiettarono che tra Silvia e mio padre c’era una eccessiva differenza d’età. Nel ’73 quando si conobbero lui ne aveva 67, lei 31. In risposta alle perplessità dei genitori argomentai che c’era una maggiore differenza di età tra Chaplin e Oona O’Neil. Mentre ero a colazione a casa d’Amico, aspettando il momento giusto per chiedere la mano di Silvia per conto di
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mio padre, lui, che mi aveva accompagnato e aveva parcheggiato vicino a una cabina telefonica, telefonava in continuazione domandandomi: «Hai chiesto? Come hanno risposto?» non riuscendo a controllare la sua ansia. Naturalmente le telefonate arrivavano in casa d’Amico ed erano passate a me, e Lele e Suso erano divertiti dal fatto che un figlio, cioè io, andasse a chiedere la mano della loro figlia per il proprio padre. Malgrado questa proposta non andasse in porto, anni dopo, durante un loro viaggio in America, Silvia e mio padre si sposarono in Messico. Così racconta Silvia. – La stampa ha però espresso dei dubbi su questo matrimonio messicano. – Lei lo sostiene. – Anche con lei il rapporto fu sentimentale e insieme professionale? – Sì. Il loro rapporto includeva anche il lavoro. L’ultimo film di mio padre è stato Il Messia scritto anche da Silvia la quale ne curò la produzione. L’ultimo progetto che mio padre voleva realizzare era Lavorare per l’Umanità (Carl Marx Giovane). Silvia scrisse la sceneggiatura. Purtroppo questo progetto già arrivato alla pre-produzione non si concluse perché mio padre morì prima. Il rapporto professionale tra mio padre e Silvia era condizionato dal loro comportamento da «giovani innamorati», fatto da brevi liti e appassionanti riappacificazioni. C’era da parte di Silvia una profonda ammirazione per mio padre. – Infatti l’intervista che le fu fatta, realizzata dall’Adnkronos, nel 30 maggio 1997, è una conferma a riguardo: «Anzitutto» dice Silvia «basta con le frivolezze rosa e il mito di un Rossellini seduttore che passava da una donna all’altra. Non
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vedo oltretutto a chi possa fregare questo aspetto della sua personalità. È una cosa talmente priva di interesse rispetto ad un uomo così straordinario, un autentico uomo del Rinascimento, un talento rispetto al quale ogni definizione, ogni parola risulta limitativa». Alla osservazione che in Italia lo capirono in pochi, visto come lo trattò la critica di casa nostra, risponde: «Peggio per loro; va tutto a loro svantaggio, mi sembra. Roberto poi non se ne curava più di tanto. Ci rideva sopra. Pensi che girava portandosi in tasca un ritaglio di giornale che stroncava Roma, città aperta definito un bruttissimo e banalissimo film. “Lo considero come il mio portafortuna» mi diceva. «È morto con quel pezzo di giornale ancora in tasca». E dunque, come spiegavi, tuo padre era attratto molto dalla personalità di una donna. Penso a tua mamma, alle sue raffinate doti di costumista e alla sua grande generosità. In quanto a Ingrid Bergman doveva possedere un forte intuito e certamente era di una sensibilità eccezionale. Queste doti furono alla base dell’incontro con tuo padre che fu lei a chiedere, attraverso una lettera. Mi piacerebbe conoscere i dettagli da una fonte diretta, la tua. – Un pomeriggio Ingrid insieme a un’amica, Irene Selzinck, moglie del produttore di Via col vento e altri film, si trovò a vedere Roma città aperta (Open city) e ne rimase molto impressionata. Mesi dopo, all’uscita di Paisà (Paisan), corse a vederlo, ne subì uguale fascino, e decise di conoscere il regista e lavorare con lui. Da qui la famosa lettera: «Signor Rossellini, sono una ragazza svedese che vive in America da dieci anni, che parla bene l’inglese, un poco il francese e sa dire solo “ti amo” in italiano. Ho visto il vostro film Paisà, ne sono entusiasta e sarei onorata di avere una particina nel
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vostro prossimo film». Poiché non aveva l’indirizzo, inviò a «Roberto Rossellini – Minerva film – Rome – Italy». Questa lettera è l’espressione di come le cose, quando devono andare, vanno nonostante tutto; perché lo stesso giorno dell’arrivo della lettera il palazzo della Minerva prese fuoco e distrusse tutto. A incendio spento gli impiegati tornarono per vedere se qualcosa si era salvato e fra la cenere, in parte bruciacchiata, c’era la lettera, che venne così recapitata a mio padre. Lui si trovava all’hotel Excelsior ed era il giorno del suo compleanno, l’8 maggio. Compiva 42 anni. In quel periodo mio padre stava completando le riprese dell’episodio Il miracolo per il film Amore. Le scene si svolgevano sulla costiera amalfitana; la protagonista era Anna Magnani. Con Ingrid aveva deciso di incontrarsi a Parigi e mio padre aspettava impaziente la data dell’incontro. Ovviamente voleva tenerlo segreto, ma Anna Magnani ne venne a conoscenza in modo del tutto fortuito e, fedele al suo temperamento, reagì in forma irrazionale. Fu l’inizio della fine. – Se me lo consenti, trascriverei un episodio divertente che tu stesso hai narrato in una delle lettere che corredano l’autobiografia di tua mamma e che lei ti dedica, A mio figlio Renzo, compagno di viaggio in queste memorie2. Tu racconti che tuo padre e Ingrid «… decisero d’incontrarsi a Parigi. Ingrid doveva comunicargli la data del loro incontro e lui aspettava impaziente il telegramma. Avvenne che una mattina, mentre Anna era già al trucco, papà disse al portiere dell’albergo: “Pasquale, aspetto un telegramma da Londra, è cosa
2
M. DE MARCHIS, Un matrimonio riuscito, p. 5.
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della massima importanza, non lo mettere nella nostra casella, lo devi tenere tu e quando mi vedi solo me lo dai. Hai capito bene?” “Certo, Commendatore, ho capito bene, non devo metterla nella casella e quando la vedo solo glielo do”. Papà gli rifilò una mancia e uscì. Federico Fellini mi raccontò che durante la pausa per il pranzo, mentre Anna stava mischiando gli spaghetti al sugo, apparve il portiere sventolando il telegramma e dicendo a mezza bocca: “Dotto’, eccolo, non l’ho messo nella casella, l’ho tenuto io e glielo do appena sta solo”. “Che dici, bestia” lo fulminò papà. Ma lui rincarò la dose: “Ma come, Commendato’, è stato proprio lei stamattina, appena la signora è uscita a dirmi: ‘Pasca’, aspetto un telegramma da Londra, dammelo appena mi vedi solo’. Ma lei non è mai solo!”. Anna, senza approfondire, rovesciò con un gesto rapido tutta la zuppiera di spaghetti al sugo sulla testa di papà. Fu l’inizio della fine di un grande amore»3. Ho letto da qualche parte che la Magnani condì ben bene la pasta, perfino con il parmigiano, e la scena fu di ispirazione a parecchie gag cinematografiche. Penso però che l’amore fosse già incrinato. – Magari sì. Certo non era ancora iniziata la relazione fra Ingrid e mio padre. Iniziò a Hollywood e mia madre al solito fu straordinaria poiché con il clamore che si era scatenato e con l’esigenza di regolarizzare l’unione fra mio padre e Ingrid fu proprio lei che propose al marito, essendo la loro separazione consensuale, di formalizzarla. All’epoca il divorzio era di là da venire. Esistevano solo le Leggi Riparatorie che permettevano di sciogliere i matrimoni di guerra
3
Ivi, pp. 74-75.
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fra cittadini italiani e tedeschi o austriaci. Fu così che partii con mia madre per una lunga vacanza a Badgastein, vicino Vienna, dove lei prese la cittadinanza austriaca. In questo modo la separazione fu trasformata in annullamento civile. Con questo nuovo matrimonio e con i nuovi fratelli ebbi una vita piuttosto movimentata. Ma mi sentivo amato, dai miei genitori soprattutto, ma anche da quella meravigliosa creatura che era Ingrid. Dava un tocco d’amore a tutto, aveva un gran rispetto per ogni forma di vita. Si era creato fra noi una grande empatia, che è durata tutta la vita. – Immagino come la conclusione del rapporto fra tuo padre e la Bergman, con il ritorno di lei negli Stati Uniti, ti abbia lasciato un vuoto. Ma restano di lei film importanti. Di Stromboli, Viaggio in Italia, Europa ’51 si è sempre parlato molto. Meno di altri, come La paura. E questo mi porta a riflettere come, indipendentemente dalla partecipazione della Bergman, ci sono film come Il Generale Della Rovere che abbiamo il piacere di vedere ancora con una certa frequenza e altri di cui si è persa quasi traccia come India. Eppure sono molto importanti. In India poi si prosegue un percorso e nello stesso tempo si innova. Riguardo a questo film Jean-Luc Godard ebbe a scrivere: «Oggi la menzogna, più nel cinema che altrove, circola in maniera straordinaria. Ma la menzogna presuppone la verità. Io l’ho compreso arrivando in India. Le maschere vanno bene, sono favorevole, ma sono favorevole nella misura in cui bisogna togliersi le maschere. Per me, l’India fu… come la soluzione di un problema. Uno cerca giorni e giorni senza trovare; poi all’improvviso ecco la soluzione. Ti fora gli occhi. India è un po’ come una parola che avevo sulla punta della lingua da molti anni. Questa parola si chiamò Paisà, Europa ’51 o La paura.
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Oggi si chiama India»4. Come giudichi queste parole e il film? C’è in esso un prolungamento della Nouvelle Vague? – Il film India Matri Bhumi è a episodi, in questo simile a Paisà; sicché dimostra coerenza nel modo di veicolare i messaggi e anche nella indagine sociologica. Che mio padre in quel periodo avesse molti contatti con i giovani della Nouvelle Vague è un dato di fatto. Cito anch’io Jean-Luc Godard che scrisse riguardo a questo film: «India, c’est la création du monde». Inoltre cresceva in lui l’esigenza di una narrazione come scienza dell’insegnamento che col tempo diventerà la sua vera inclinazione. Il mezzo televisivo gli offriva verifiche più agevoli sui tempi relativi alla realizzazione dell’opera e si sentiva più libero nell’espressione delle sue idee, venendo a potenziare l’aspetto didattico. – Certo, il film è lontano da formalismi ed estetismi. C’è chi lo amò molto come Truffaut che lo definì una meditazione sulla vita, sulla natura, sugli animali. Truffaut era molto legato a tuo padre e lo vedeva come il suo mentore. Questa frase è indicativa: «Ogni volta che (Rossellini) arrivava a Parigi ci incontrava e ci faceva proiettare i nostri film da dilettanti, leggeva le nostre prime sceneggiature»5. Invece in Italia alcuni giornalisti, ad esempio Pio Baldelli, trovarono il film carente di messaggi sociali nella scarsa attenzione alla povertà, all’analfabetismo, alla divisione in caste, insomma a problematiche legate alla reale situazione.
4 J.-L. GODARD, Un cinéaste c’est aussi un missionnaire, in «Arts», aprile 1959. 5 F. TRUFFAUT, I film della mia vita, Marsilio, Venezia 1975.
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– Fare un film non è scrivere un trattato di sociologia. O dedicarsi alla politica. Nel fare un film si fa una scelta, si privilegiano alcuni aspetti e l’emozione che ne deriva porta anche a interrogarsi su altre pieghe nascoste dell’argomento. È arte. India Matri Bhumi fu presentato al Festival di Cannes nel 1959, l’anno della nascita della Nouvelle Vague. I quattro episodi vogliono sondare l’anima del popolo indiano attraverso storie che ne definiscono gli ambienti sociali, le limitazioni, la cultura. Un quadro generale nel bene e nel male. In quel periodo la frequentazione con Nehru gli aprì degli spazi. Girò una serie tv trasmessa dalla RAI nel 1959. In seguito realizzò in undici episodi L’India vista da Rossellini. – Il soggiorno di tuo padre in India non produsse solo i lavori cinematografici di cui abbiamo parlato, ma dette l’avvio a una importante svolta sentimentale. – La storia con Ingrid era conclusa. Dopo la partenza di mio padre per l’India la sua corrispondenza divenne sempre più sporadica fino a interrompersi. Contemporaneamente la stampa prese a parlare di un suo amore indiano. Sicché gli scrissi per sapere direttamente da lui come stessero le cose e lui mi propose di raggiungerlo a Parigi dove arrivò con la nuova compagna, la sceneggiatrice Sonali Das Gupta, che divenne la sua terza moglie. Ma inizialmente Sonali risultava invisibile in quanto, per sottrarla a pettegolezzi, lui l’aveva fatta ospitare nell’attico di un suo amico, il fotografo Henri Cartier Bresson. Mio padre come al solito era di stanza all’Hotel Raphael. In quel periodo anche Robertino, Isabella e Isotta erano a Parigi. Mi trasferii da Sonali della quale ricordo i momenti di sconforto per il figlio Raja che aveva lasciato in India. Alla fine dell’anno ci fu anche l’arrivo di mia
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madre e così si ricostituì, come ogni tanto accadeva, il nostro nucleo familiare. Una famiglia allargata, allegra e in armonia. In quel periodo lavorai alla Cinematheque Française con Tinta e Tinto Brass per il montaggio del documentario su Marc Chagall di Joris Ivens. – Con i Cahiers du cinéma Fereydoun Hoveyda e Jacques Rivette realizzarono un’intervista a Roberto Rossellini di ritorno dall’India che chiarisce molti suoi perché e obiettivi; e cioè che è partito dall’idea di realizzare un documentario per la televisione, prima di girare il film, per entrare in contatto vero con l’India. Osservare senza preconcetti. Egli era attratto da Gandhi e dalla capacità dimostrata dal popolo indiano di vincere una straordinaria battaglia sociale senza usare la violenza. Mentre noi occidentali non ne siamo capaci. Siamo intolleranti. Non cerchiamo di conoscere l’altro e i suoi perché. Questo era un suo cruccio. Una frase di quell’intervista mi è rimasta impressa: è quando lui dice di non aver voluto fare un documentario in senso tradizionale perché ciò che gli importava era l’uomo in se stesso. Ammettendo in seconda battuta di essere ripartito dagli inizi del neorealismo. – Ma con un bagaglio diverso; più maturo e orientato verso altri parametri. L’aver voluto esprimere l’anima, la luce che era in quegli uomini, la loro realtà all’interno di una realtà in cui ciascuno si rispecchia e ne diviene in un certo senso il narratore, fa sì che ci troviamo con lui a esplorare il cuore degli uomini. Una simbiosi molto suggestiva. – Questa riflessione che tuo padre diede in risposta a François Tranchant e Jean-Marie Vérité come la commenti? «Il mio lavoro sull’India è una reazione difensiva… Non si può pretendere che il pubblico abbia un acuto senso critico; è abi-
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tuato allo stesso piatto di spaghetti, se gli dai un’altra cosa non la vuole. La moda è la forza di un’industria… Per questo ho cambiato politica. Ho tentato di indirizzarmi al pubblico secondo un discorso conseguente, utile. Non per me, ma per portarlo a capire certe cose»6. – La commento con questa sua analisi che esprime una estrema intuizione poetica, sociale, che cercava di trasmettere: «Ahimè, abbiamo l’abitudine di avvicinare con disprezzo quello che noi non siamo, e l’India è certamente un mondo diverso dal nostro. Mi è sembrato tuttavia di trovarci delle cose familiari… un po’ come la casa paterna alla quale si ritorna per Natale. Ho avuto l’impressione di ritrovare Napoli… lo spirito è tollerante, gli uomini hanno orizzonti senza limiti, mentre noi siamo sempre più limitati dalle nostre preoccupazioni economiche. L’europeo vede dei mendicanti ovunque… ma si tratta solo di una prima impressione. È il caso di parlare invece del meraviglioso clima tropicale. Si ha l’impressione di trovarsi in una vasca di acqua troppo calda… La vegetazione? L’India è il regno delle palme e dei bambù… Dalla finestra guardi volare gli avvoltoi, le aquile, i pappagalli. Un fiore in un interno è ancora un segno della presenza della natura nella vita quotidiana, è un vero fiore. In Francia un fiore è già un prodotto sintetico, cresciuto in serra, direi artificialmente»7. – Da India al Generale Della Rovere, sulla cui realizzazione, intervistato da Jean Douchet, così si esprime: «Vorrei
6 7
R. ROSSELLINI, Il mio metodo, cit., pp. 183-184. Ibidem.
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continuare ciò che ho iniziato con “India”: scoprire gli esseri e le cose così come sono, nella loro estrema semplicità»8. Ma poiché India è in sostanza uno svolgimento seppur indiretto di Paisà, si può ragionevolmente supporre che lui percepisse una continuità in tutta la sua produzione, pur rifiutando l’etichetta di neorealista. E però non è un caso che critici importanti, André Bazin ad esempio, definissero Viaggio in Italia un’opera neorealista. La ricerca del vero sembra attraversare tutta la sua opera. – Infatti. L’esigenza del reale è assai presente. Ma questo non significa Neorealismo che è un momento storico e dunque va inquadrato in quel contesto, un contesto legato a una società che esce da un dramma, ma psicologicamente, moralmente, economicamente ne è ancora coinvolta. – Il Generale Della Rovere è un film che ti riguarda molto più da vicino poiché ne fosti in buona parte il regista. – Sono stato aiuto regista e regista nel Generale Della Rovere, primo film successivo a India Matri Bhumi, che ebbe come produttore Moris Ergas, il quale propose a mio padre un racconto di Indro Montanelli, di cui aveva opzionato i diritti, mettendo una condizione: il film doveva essere pronto per il Festival di Venezia del 1959. Questa proposta avveniva nel maggio del ’59 e in tre mesi bisognava scrivere la sceneggiatura, ricostruire l’intero carcere di San Vittore, effettuare le riprese e montare il film. Una corsa incredibile. Mio padre accettò la sfida, facendo accettare a Ergas il fatto che per poterlo realizzare avrebbe dovuto organizzare il film con
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J. DOUCHET, Rossellini, il mio metodo, 1959.
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me come regista della seconda unità. Avrei dovuto realizzare tutte quelle scene del film senza Vittorio De Sica. Giravamo con orari terribili di giorno e la notte mio padre stava in moviola a montare il girato. Mio padre era attratto e insieme dubbioso sul tornare a fare un film sulla Seconda Guerra Mondiale, ma il contatto con Indro Montanelli, che dette la giusta chiave interpretativa al racconto, lo intrigò e lo convinse a realizzarlo. Anche il progetto di restare con il suo amico e complice Vittorio De Sica, per qualche mese, lo indusse ad accettare la scommessa. Il film fu terminato in tempo e andò a Venezia dove vinse il Leone d’Oro ex equo con La Grande Guerra di Mario Monicelli. E il Leone d’oro è ora sulla mia scrivania perché mio padre, facendo il minutaggio del film, si era accorto che io avevo girato qualche minuto più di lui, e volle darlo a me. – Il film fu salutato con entusiasmo dalla critica e anche dal pubblico. Dopo dieci anni tuo padre tornava ad affrontare temi legati alla Resistenza e alla guerra, allontanandosi dal periodo definito della solitudine, cioè quello della trilogia Stromboli, Europa ’51, Viaggio in Italia. A proposito dei quali vorrei chiederti se anche tu pensi, come alcuni, che la formula dell’alienazione portata alle estreme conseguenze da Michelangelo Antonioni e non solo, si sia ispirata a questa così particolare essenzialità, al clima reso suggestivo dal talento di tuo padre. – Molti si sono ispirati a mio padre. Aveva ragione lui quando si ribellava alla definizione che fosse una specie di Attila capace di far terra bruciata intorno. – Resistenziale è anche il film che girò immediatamente dopo: Era notte a Roma. Su di esso tuo padre dice che nacque da una reazione all’atteggiamento del maresciallo Montgomery,
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critico verso gli italiani. Lui volle dare un quadro della grande disponibilità e apertura degli italiani, di come seppero superare rancori verso chi era il nemico del giorno prima e cercava ora protezione e come per questo sfidassero la morte. – Il film è come un proseguimento di Roma città aperta, segno che quella tragica epopea era rimasta ben viva in lui a distanza di anni. Non a caso c’era stato Il generale Della Rovere. Anche di questo film sono stato aiuto regista e lo stesso è avvenuto per Viva l’Italia, Vanina Vanini, Rogopag. La stampa d’ispirazione comunista lo criticò per una visione a suo dire clerico-centrica. Ma il giudizio in generale fu favorevole cogliendone la capacità di esprimere profondamente l’anima del popolo. Durante le riprese mio padre adottò per la prima volta un pancinor, un obiettivo fotografico di lunghezza focale variabile, precursore dello zoom, potendo così fare riprese senza stacchi, limitando moltissimo il montaggio. – Hai nominato un gruppo di film che evidenziano il suo crescente interesse per la ricerca delle fonti. Abbiamo detto che le varie componenti della sua opera sono presenti più o meno tutte, dall’inizio del suo cammino di cineasta. Ma con differente spessore. Intorno agli anni ’50 sembra orientato verso esplorazioni di carattere morale e mistico, intorno agli anni ’60 sente la suggestione della storia nella sua dimensione evolutiva e patriottica. Ci avviciniamo al primo centenario dell’Unità d’Italia. Questa data ha avuto un ruolo? – La sua passione per la storia parte da lontano. Ciò che saltava ai suoi occhi era il modo in cui la storia era stata esposta al pubblico, in genere da personaggi che gravitavano intorno ai potenti. E dunque verità parziali. Verità cortigiane. La verità storica, era convinto, va affrontata attraverso fonti
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varie e affidabili, tenendo conto delle sfaccettature delle situazioni. La storia è di tutti, e sono spesso gli umili a farla. Ma per rispondere alla tua domanda, certamente gli anni a ridosso del centenario esercitarono una suggestione. Ne viene fuori Viva l’Italia che è il suo primo film dedicato al Risorgimento. Si tratta di un documentario che vuole leggere la storia oltre la solita epica, vedere i personaggi nella loro peculiarità. Si tratta di un tipo di film già televisivo. Una specie di prolungamento di Viva l’Italia è il documentario che realizzò dietro richiesta della RAI per l’esposizione Italia ’61, Torino nei cent’anni. Il documentario mette a fuoco, fra vari problemi politici e culturali, la realtà migratoria da Sud a Nord dell’Italia. – Sull’onda risorgimentale, Vanina Vanini, film tratto dall’omonimo racconto di Stendhal, ma realizzato con un insieme di elementi estrapolati da fonti diverse, alla fine riuscì a mettere in luce episodi storici, relegando in secondo piano la vicenda d’amore della principessa Vanina, interpretata da Sandra Milo. Parve a tuo padre più interessante soffermarsi sul clima dell’epoca, le cospirazioni, lo scontro fra la retriva aristocrazia romana e la carboneria. Da lui dovevamo aspettarcelo. – Il film poi ebbe vari incidenti di percorso a cominciare dalla Milo che mio padre non giudicava adatta al ruolo, e che fu imposta dal produttore Moris Ergas innamoratissimo di lei. Ci furono problemi di doppiaggio poiché la Milo volle doppiare lei per aggiudicarsi la Coppa Volpi. E altre situazioni. Furono fatte due copie del film, ma quella che seguiva le direttive di mio padre fu distrutta da un incendio. – Fu, mentre si consolidava l’idea della capacità pedagogica della televisione, che prese corpo l’idea di un progetto
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culturale, indirizzato ad approfondire l’evoluzione dell’uomo nelle sue sfaccettature? Il progetto venne da lui chiamato «abbecedario delle idee fondamentali» e in seguito «enciclopedia audiovisiva». In esso di voce in voce si ricostruisce la storia dell’umanità. Lui pensava che se nel XVIII secolo la rivoluzione industriale aveva aiutato l’uomo a liberarsi dalle ristrettezze economiche e se nel XIX secolo gli enormi progressi nella medicina avevano affrancato l’uomo da molte malattie, nel XX secolo grazie alla nascita dei sistemi di irradiazione dell’audiovisivo l’uomo avrebbe potuto essere aiutato a liberarsi dall’ignoranza. – Sì certo; naturalmente bisognava che si creassero prodotti adatti. Con questo spirito nascono i lavori come L’età del ferro, La lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza e altri. – Dell’Età del ferro e della Lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza sei stato tu il regista. – Sono stato io il regista, ma restava lui il supervisore. – Sappiamo che era un supervisore rigoroso. Ed è simpatico immaginarlo in questa veste e nello stesso tempo immerso nel movimentato clima familiare che, secondo il ricordo di tua madre, esisteva sul set durante la lavorazione dei film. «I suoi set – scrive lei – erano a conduzione familiare, aveva una capacità tutta sua di mescolare lavoro e affetti; cinema e vita quotidiana diventavano una cosa sola. Lavorare con lui è stato come salire sul carro di Tespi: tutti sopra, prima Renzo, suo fratello, come musicista, poi Marcella, sua sorella, come sceneggiatrice, Renzino come aiuto regista e anche Isabella che, prima di partire per l’America, ha lavorato con me ai costumi. Ma su quel carro sono saliti anche tanti amici… E poi, con il passare degli anni, i figli dei figli. Roberto era felice di lavorare con tutti i suoi
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pulcini intorno»9. Un metodo di lavoro particolare che poteva esistere solo in ragione della sua genialità. – Sì, amava lavorare in un’atmosfera familiare. Mi ricordava i grandi maestri del Rinascimento con le loro botteghe ricche di voci, di apprendisti, di amici. Tutto questo non lo distraeva, non toglieva niente alla professionalità, alla cura dei dettagli, al ritmo che regnavano durante la lavorazione del film. La tensione sul set si alleggeriva durante le pause per il caffè e a mezzogiorno per un pasto frugale. Erano momenti per pochi intimi: la famiglia e qualche amico che passava a salutarlo. Queste cerimonie avevano i loro sacerdoti. Il più importante, Mandarino, il mio ex baby-sitter, passava le giornate fingendo di lavorare e girando per il set con il martello in mano. Custodiva religiosamente delle bottigliette di vetro sempre piene di caffè caldo che, anticipando misteriosamente i desideri di papà, correva a versare in un bicchierino di carta, sempre al momento giusto. Aveva anche il compito di apparecchiare la tavola a mezzogiorno. Per lui era un onore. Le scene per il giorno seguente erano già programmate da mio padre che convocava me e il direttore della fotografia per indicare il luogo dove intendeva collocare la macchina da presa e passo passo le varie direzioni e le combinazioni di movimento della macchina da presa. Mentre lui indicava il capo macchinista, piantava a terra delle zeppe per le scene esterne, segnava col gesso per quelle interne. A quel punto subentravo io che, con le idee chiare su quella che sarebbe stata la scena, calcolavo i tempi, programmavo arredi e scenografie. Biso-
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M. DE MARCHIS, Un matrimonio riuscito, cit., p. 85.
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gnava prevedere anche le più piccole necessità per non togliere ritmo all’azione e quindi la troupe era già preparata in tempo utile. Mio padre mi aveva insegnato a essere inflessibile con tutti e soprattutto con me stesso. In genere ci si svegliava prestissimo. Ho nostalgia di quelle levatacce e di quelle sfacchinate, anche se spesso finiva che non andavo nemmeno a dormire perché la sera uscivo con le ragazze. È stato quello un periodo di grande solidarietà familiare. – Da dove partisti per un lavoro impegnativo come L’età del ferro? – Mio padre volle che prima leggessi circa venti libri sulla sociologia del lavoro, ma anche romanzi sull’argomento. Dopo un’estate passata a leggere (avevo 21 anni), mi spedì in Europa assieme al braccio destro di un dirigente dell’Italsider, Savarese, a conoscere luoghi, miniere, metodi, questioni sociali come l’emigrazione, tutto quanto fosse relativo all’argomento. Prima di affidarmi la progettazione e la regia, voleva che mi formassi mentalmente e come approccio diretto, non solo a livello di conoscenza teorica. La RAI non comprese l’importanza del progetto, fu Ermanno Olmi a convincere la Edison a finanziarci attraverso una loro società, la «22 dicembre». – Ma poi venne un altro tormentone: La lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza. – Eh sì! Un film in dodici episodi, come fossero sei film. Un lungo lavoro. – Proseguendo nella ricostruzione, parziale che sia, della produzione legata all’indagine storica, importante è La presa di potere da parte di Luigi XIV, che in Francia ebbe un successo enorme.
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– Enorme; più di 20 milioni di spettatori. È stato un modo diverso di affrontare il tema inserendo tutto un contorno di usi e costumi. Riti di corte, alimentazione, medici e medicine, metodi di vita insomma. Mio padre avrebbe voluto includere molti aspetti culturali, artistici, ma per mancanza di fondi dovette rinunciare. – E poi monografie come Blaise Pascal, Agostino d’Ippona, L’età di Cosimo de’ Medici, Socrate, Cartesius. Tuo padre era di una vitalità creativa incredibile. – E non abbiamo detto tutto!
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VII ROBERTO ROSSELLINI E L’EDUCAZIONE PERMANENTE
Infatti. C’è ancora molto da dire. La cultura, per Rossellini, era la base di tutto. Una cultura olistica, in grado di abbracciare ogni aspetto dell’evoluzione dell’umanità. Nel ’900, ma con accenni evidenziatisi nel secolo precedente, si è fatto strada un nuovo metodo d’indagine storica che va oltre i grandi fatti, i grandi personaggi, e orienta l’attenzione degli studiosi verso un ampliamento delle fonti, una visione più corale dell’evoluzione, del progresso umano. Si diversificano le ricerche documentarie, sviluppandole e traendole dal quotidiano, visto in precedenza come banale cronaca, analizzandole all’interno delle condizioni socioculturali in cui si sono verificate. Questo insieme di informazioni, il complesso svolgersi della vita in una determinata società, forma un tessuto narrativo che il nostro immaginario può esprimere attraverso testimonianze musicali, figurative, narrative ecc…; in molteplici forme alle quali si è aggiunta quella audiovisiva che coniuga informazione e immaginario. L’immagine sintetizza molte e molte parole. L’uso storiografico delle fonti audiovisive ha un valore aggiunto: diviene un documento che aiuta a capire la storia. Roberto Rossellini è stato tra i primi a comprenderne l’importanza. Questa ricerca di testimonianze indirizzate a rendere il film una rappresentazione veritiera del suo tempo, è presente già nei pri-
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mi lavori del regista e prosegue come ricerca privilegiata nel momento in cui c’è nella sua arte una sempre maggiore volontà di formazione didattica. Gli audiovisivi, egli comprende, se opportunamente usati, possono permettere «di accumulare un gran numero di notizie facilmente comprensibili e continuamente disponibili. Potrebbero rappresentare un Eden di notizie nel quale ognuno potrebbe andare in piena libertà a cogliere, sorseggiare tutto quanto gli può occorrere nel momento per nutrire i suoi pensieri … un dovizioso giardino di dati, idee, pensieri, certezze, prove e curiosità e connessioni coltivabili da tutti e a disposizione di tutti. Se l’operazione di avviamento al pensiero sarà valida la nostra specie potrà arricchirsi sommando tutte le intelligenze possibili»1. Rossellini ha un sogno: far scaturire da tutti gli argomenti che appartengono alla storia dell’uomo una tale quantità di immagini da «abbeverare» tutti quelli che hanno sete di sapere. E si chiede: «Utopia? No. Se per apprendere qualcosa bastasse voltare le pagine dei libri scritti su un determinato argomento, una vita intera non sarebbe sufficiente. Invece, disponiamo di tecniche straordinarie per condensare con l’immagine tutto ciò che è stato pensato, confutato, dimostrato, da quando esiste l’uomo, e per metterlo a disposizione nella forma più facilmente assimilabile… Noi non siamo affatto identici. C’è chi apprende per le vie traverse della fantasia, chi possiede un’immaginazione Cfr. R. ROSSELLINI, televisione e storia, Centro Cinema Città di Cesena, 1990, p. 19. (da R.R. Roberto Rossellini, a cura di Edoardo Bruno, Bulzoni, 1979. Il testo è stato pubblicato per la prima volta in “Filmcritica” n. 264265, maggio-giugno 1976 con il titolo Riflessioni e considerazioni di dati scientifici per tentare di architettare un modo agevole di educazione integrale. 1
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poetica, chi afferma le cose per mezzo della matematica. L’immagine permette di poter creare un linguaggio abbastanza diversificato perché tutti vi trovino ciò che fa al caso loro, e che tenga conto di tutte le forme possibili d’intelligenza»2. Roberto cita3, le opinioni di alcuni personaggi che si batterono per l’istruzione: Auguste Blanqui (1805-1881): «l’ignorante è appena un uomo, lo si può guidare come un cavallo con le briglie e gli speroni». Engels (1820-1895): «ad ogni individuo bisogna dare l’occasione di sviluppare e mettere in opera in tutti i sensi, tutte le sue attitudini, tanto fisiche che intellettuali», Karl Marx (1818-1883): «…sollevando il popolo senza fondarne in pari tempo l’attività su basi solide lo si inganna. Far nascere speranze fantastiche non porta alla salvezza ma alla perdita di quelli che soffrono; rivolgersi agli operai senza avere idee strettamente scientifiche di una dottrina completa, significa trasformare la propaganda in un gioco senza scrupoli, che suppone un apostolo ardente di entusiasmo e degli asini che stanno a sentire a bocca aperta… in un paese civile non si può ottenere alcun risultato senza un insegnamento sicuro e completo…». Paul Robin (1837-1912): «bisogna innanzitutto operare l’esclusione di tutte le idee false, demoralizzanti, dei pregiudizi menzogneri, delle impressioni che spaventano, infine di tutto quello che può spingere l’immaginario dal vero nel torbido nel disordine: assenza di suggestioni malsane, d’eccitazione della vanità; un panorama
2 R. ROSSELLINI, Quasi un’autobiografia, a cura di Stefano Roncoroni, Milano, A. Mondadori, 1987, p. 36. 3 Cfr. R. ROSSELLINI, quasi un’autobiografia, cit. pp. 20-21.
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di visioni calme, ordinate, naturali». L’istruzione aiuta nell’uso graduale della libertà e responsabilità. Francisco Ferres (18191910) sogna la fondazione di una «Scuola emancipatrice»; e Lenin (1870-1924) parla di «Rivoluzione culturale». L’educazione integrale è l’obiettivo di Rossellini. È questo lo spirito con il quale realizza i film a partire da Viva l’Italia fino ad Anno uno e il Messia. *** – Quale fu il criterio di scelta degli argomenti che tuo padre seguì? – Il suo criterio fu quello di realizzare cose differenti dalle solite e di rappresentare momenti fondamentali della storia dell’uomo. Quelli dai quali, attraverso l’evoluzione tecnica o sociale, si diversificano e affinano modi di pensare. Una maggiore consapevolezza di ciò che noi siamo, e un’acquisizione di responsabilità a vari livelli. – Dispiaceva a Rossellini la distanza ch’era venuta a crearsi fra arte e vita nel senso di conquiste umane a carattere tecnico o scientifico. Giudicava l’arte del suo tempo avulsa dal reale. Ti cito una sua frase: «… nel momento in cui la tecnica e la scienza si sviluppano – e quando dico tecnica e scienza lo dico in senso vero, profondo, cioè di conoscenza, di affermazione piena di vibrazioni umane – l’arte si abbandona alla fantasticheria, che è la cosa più irrazionale che ci possa essere… un fantasticare sempre ripiegato entro se stesso perché diventa poi un lamento, cioè una limitazione perfino del fantasticare»4.
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R. ROSSELLINI, Il mio metodo, cit., p. 165.
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In altre parole rimpiange l’homo faber, l’uomo che scopre l’energia elettrica, la termodinamica, la trazione a vapore. Sono certa che, se ne avesse avuto il tempo, avrebbe realizzato un film su Leonardo da Vinci, il genio che ha coniugato arte, progettazioni architettoniche, invenzioni tecnico-scientifiche, intuizioni legate alla fisica ecc. Un talento universale. Che non mette in secondo piano la tecnica rispetto alla fantasia. Rossellini ammira l’ingegno umano nella sua espressione più tangibile. E dunque è normale che tra le più importanti messe in opera didattiche abbia scelto L’età del ferro, che è poi l’età che ci appartiene ancora. Tu dici che teneva moltissimo a questo lavoro, e fosti costretto a studiare molto prima di realizzarlo. E che ne hai dedotto? – Ho compreso come l’uomo è sopravvissuto riuscendo ad affrontare con la sua razionalità ostacoli tremendi. Ma sono stati proprio i pericoli, la necessità, le carenze, le paure, superati di volta in volta, ad aguzzare il suo ingegno, come dice il proverbio. E questo lo ha reso sempre più razionale, forte, in grado di optare per nuove conquiste. – In quanto a La lotta dell’uomo per la sopravvivenza, come si articola? – Parte dalla preistoria, civiltà matriarcale, agricola, incrocia la civiltà ellenistica e via via Roma, i barbari, il feudalesimo e tutti i passaggi storici fino all’avventura spaziale. Si ragiona di scienza, tecnica, religione; di macchine, opere manifatturiere. È ricco di personaggi, situazioni drammatiche, ma anche divertenti. È un insieme spettacolare, molto interessante. – Immagino. Gli Atti degli Apostoli è un film tratto dal Vangelo di Luca, un lavoro giudicato da alcuni lento nell’azione, e non sempre fedele al testo.
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– Ma ci sono delle scene spettacolari e molto riusciti sono gli episodi che si svolgono nell’intimità domestica. – Di Socrate la critica parlò positivamente, giudicandolo quasi alla pari con La presa del potere di Luigi XIV. – Per La presa del potere di Luigi XIV la critica parlò di un metodo semplice e didatticamente esemplare. – Il critico Aldo Bernardini fu entusiasta dell’intreccio fra pedagogia, fantasia, scenografia che determina una forma di comunicazione unica nel suo genere5. Dal ’70 tuo padre si dedica a grandi personaggi, eccetto che per L’età di Cosimo de’ Medici che gli è stato ispirato dalle letture di Machiavelli e Guicciardini. Un lavoro che la critica giudicò «mirabile» e che ci porta in un altro momento fondamentale della storia dell’uomo. L’Umanesimo. Attraverso questi grandi personaggi, Socrate, Blaise Pascal, Agostino d’Ippona, Cartesius egli recupera e approfondisce temi a lui cari. Pascal gli dà modo di tornare sul conflitto fra scienza e religione. Agostino, in un momento di crisi della società e del pensiero, proietta i valori del passato in una diversa ottica storica e teologica, Cartesius, opera giudicata di ottima qualità e maturità, indica come grazie a questo filosofo, il pensiero diventi più razionale e faciliti il tempo dello sviluppo tecnico-scientifico.
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Cfr. A. BERNARDINI, Cineforum, n. 62, febbraio 1967.
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VIII PERSONAGGI
«In qualsiasi cultura e in qualsiasi civiltà l’arte ha sempre avuto un ruolo importante: quello di dare il significato del periodo storico che si viveva, un significato accessibile a tutti»1. *** – La frequentazione con intellettuali, personaggi della cultura, che è stata molto viva nella tua famiglia, a partire già da tuo nonno Angiolo Giuseppe, immagino sia divenuta per te una palestra di vita. A proposito di tuo nonno, hai accennato alla sua modernità di pensiero. – Non l’ho conosciuto se non attraverso i racconti di mio padre. Quando sono nato era già morto. So che era un convinto antifascista. Non ne faceva mistero ed era divenuto talmente inviso al partito fascista che arrivarono a casa per arrestarlo. Lo trovarono composto sul letto di morte. Una polmonite. Così si salvò dal carcere. Di lui, narrava mio padre, gli era rimasta impressa una frase. Fu quando Mussolini si affacciò al balcone dell’Hotel Savoia, in via Ludovisi, pro-
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R. ROSSELLINI, in «Cahiers du Cinéma», 183, 1966, p. 19.
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prio di fronte a casa sua. La sera era illuminata da riflettori che illuminavano tutta la strada comprese le camicie nere postate sotto il balcone. Mussolini annunciava il primo governo fascista. Lui e i fratelli guardavano dal balcone, eccitati e festosi. Il padre entrò in casa e senza nemmeno guardare fuori si rivolse a loro: «Ragazzi – ammonì – ricordatevi che il nero nasconde bene lo sporco». – Nel dopoguerra, quando la nostra nazione andava riorganizzandosi, con il gusto di riappropriarsi dell’autogestione del destino, singolo e collettivo, quale contributo ti è stato offerto dalla varietà di pensiero e dalle discussioni anche a carattere politico? Fra gli interlocutori che hanno inciso nella tua formazione c’è qualcuno di cui vuoi delineare la figura? Sono personaggi che anche oggi hanno molto da dire alle nuove generazioni che appaiono piuttosto frastornate e non abbastanza documentate. – A casa di mio padre ho conosciuto molti intellettuali come Federico Fellini, François Truffaut e tanti altri fra scrittori, poeti, pittori, oltre che attori. E uomini politici. Federico Fellini ha iniziato a collaborare con mio padre nel 1945; lo ricordo fin da piccolo girare per casa, come un parente. L’ho anche chiamato zio Federico quando nel 1946 lo trovavo sul set di Paisà di cui è stato co-sceneggiatore e aiuto regista e poi ancora a Maiori durante le riprese di L’Amore nel 1948, in cui oltre a essere sceneggiatore e aiuto regista è stato anche attore in uno dei due episodi che compongono il film, il secondo, Il Miracolo. Da allora ho sempre mantenuto un’amicizia con lui del quale anni dopo, quando sono diventato presidente della casa cinematografica Gaumont Italia, sono stato produttore in Prova d’orchestra, La città delle
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Donne, Ginger e Fred, E la Nave va. Anche Truffaut giovane passava mesi a Roma come amico di famiglia, mio, di mio padre e di Ingrid. Con lui sono stato anche co-regista di un film a episodi, L’amore a vent’anni, che segna, credo, la nascita della Nouvelle Vague. Del resto François Truffaut ha sempre riconosciuto a Roberto Rossellini la paternità della grande svolta avvenuta, all’epoca, nel cinema: padre non solo del Neorealismo, ma della Nouvelle Vague. Quando gli fu chiesto cosa avesse lui in comune con altri registi di questa corrente, Truffaut rispose: «L’amore per i flipper e per Rossellini». – Oltre a personaggi di cultura e spettacolo che frequentavano la vostra abitazione hai accennato all’abituale rapporto con uomini politici. Penso siano stati formativi. – Sì. Assai stimolante è stato il contatto con uomini politici. Sicuramente ha influito sulla mia crescita morale e civile la presenza del responsabile della cultura del PCI, Antonello Trombadori. Durante le feste di Capodanno, da mio padre, ricordo anche Enrico Berlinguer e Aldo Moro; assistevo e bevevo le loro conversazioni, cercando d’inserire i miei «perché… perché…». – Immagino che avessero la pazienza di spiegare. – Erano anni meravigliosi in cui si vivevano le atmosfere piene dei valori del dopoguerra. Intanto erano iniziate le guerre anticoloniali e i Lumumba in Congo, Castro e Che Guevara e i Black Panthers erano i miei eroi e figure di riferimento. Uscivamo da una guerra armata di liberazione antifascista. I nostri eroi erano i partigiani che avevano combattuto nazisti e fascisti in montagna. I nostri martiri, gli antinazifascisti massacrati, fucilati nei paesi, di quei valori
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di ribellione, anche armata, sono divenuti l’espressione. Sono stati questi gli ideali che mi hanno fatto crescere. Il mio dopoguerra è stato questo, alimentato anche dai dibattiti che ascoltavo a casa di mio padre sui rimpianti di non aver fatto una vera pulizia, arrestando e fucilando i criminali fascisti che si ripresentavano in politica con nuove sigle politiche. Siamo usciti dal dopoguerra e dalla monarchia con la nuova costituzione repubblicana e antifascista: un portone che si spalancava verso un futuro radioso, che la politica internazionale, la Guerra fredda e interessi economici speculativi quel portone hanno tentato di chiuderci in faccia e che per decenni abbiamo provato a mantenere aperto o almeno socchiuso, combattendo contro nemici misteriosi come i Servizi segreti deviati che creavano stragi e altre strutture occulte come Gladio e la P2, oltre a bande armate di estrema destra o sinistra, rischiando anche di essere uccisi. Queste forze oscure ho tentato di capire e contro esse ho combattuto. Di Enrico Berlinguer, Aldo Moro e aggiungerei Giorgio Amendola ricordo soprattutto i capodanni a casa di papà e il loro parlare della situazione politica italiana. Quando mio padre morì nel 1977, Giorgio Amendola, che di mio padre era stato compagno di scuola, fece l’orazione funebre laica, e un po’ di mea culpa sull’atteggiamento critico del PCI verso alcuni film di mio padre. Disse: «All’epoca non eravamo maturi per capire». Aldo Moro venne alla messa funebre per farmi le condoglianze; si volle appartare con me dietro l’altare e mi parlò di come Roma città aperta, avendo come protagonisti due martiri antifascisti, un partigiano comunista e un parroco, prefigurasse già il Compromesso Storico e fosse stato un insegnamento per la loro generazione e per le
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politiche successive. A questo punto devo aggiungere alcuni particolari sul funerale di papà che è morto due giorni dopo il suo ritorno da Cannes dove era stato Presidente della Giuria e aveva decretato la vittoria di Padre Padrone dei fratelli Taviani. Per la prima volta nella storia di Cannes vinceva un film prodotto per la televisione. Arrivato a Roma, andò al funerale della prima moglie di Vittorio De Sica, Giuditta Rissone. Tornato dal rito funebre, gli chiesi che impressione ne avesse ricevuta e lui mi rispose: «Ho avuto la sensazione di essere stato per l’ultima volta a un funerale in qualità di amateur, di un dilettante». Allora gli dissi: «Già che ne stiamo parlando, dimmi, dato che sono il tuo figlio primogenito, come ti dovrò organizzare il funerale quando sarai pronto per andarci en professionel?» E lui: «Vorrei un funerale con le bandiere rosse per i laici e una messa per famigliari e amici credenti». La mattina dopo un infarto lo colse, di quelli fulminei. Io da casa sua chiamai la direzione del PCI alle Botteghe Oscure e chiesi di parlare con Giancarlo Pajetta che conoscevo, e quando mi rispose gli dissi della morte improvvisa di papà. Pajetta, dopo che gli fornii l’indirizzo, mi disse: «Aspettami lì, arrivo subito». Dopo un quarto d’ora arrivò, mi abbracciò e mi chiese come organizzare il funerale; gli raccontai ciò che proprio il giorno prima mi aveva detto mio padre. «Portiamo la salma alla Casa della Cultura a piazza Argentina e di bandiere rosse ce ne saranno tante sotto» propose Pajetta. Ma io, che al tempo ero un dirigente dell’organizzazione politica, Avanguardia Operaria, chiesi alle nostre sezioni del Centro di essere presenti al mattino seguente a piazza Argentina con le nostre bandiere. La mattina dopo la Casa della Cultura a piazza Argentina era piena di
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bandiere rosse del PCI e di quelle di Avanguardia Operaia; ma c’era anche, all’ingresso, la polizia in assetto antisommossa con gli scudi. Le persone che volevano salire a rendere omaggio a mio padre non sapevano cosa fare, non volevano infilarsi tra gli scudi. Riconobbi con la fascia tricolore un dirigente della Digos di Roma, il Dr. Fabrizio, responsabile dell’ordine pubblico. Andai da lui e gli spiegai che non c’era una manifestazione da contenere, ma si trattava del funerale di mio padre, la cui camera ardente era stata preparata presso la Casa della Cultura. Lui comprese l’equivoco: con il PCI ed extra parlamentari in piazza avevano pensato a una manifestazione non autorizzata. Spiegai al Dr. Fabrizio che erano le ultime volontà di mio padre e lo pregai di spostare gli agenti in assetto antisommossa in una strada laterale. Lui dette l’ordine e gli agenti liberarono il marciapiede davanti l’ingresso della Casa della Cultura. Tutto fu risolto e fui libero di salire per mettermi accanto alla salma del mio papà. Dopo qualche ora di camera ardente spostammo la salma alla Chiesa Nuova, Santa Maria in Valdicella, in corso Vittorio dove arrivarono parenti e amici per la Messa e io e Isabella all’ingresso a ricevere le condoglianze. Rispettammo in pieno le sue volontà e questo, al di là del dolore, mi diede un senso di pace.
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IX L’ETÀ DELLE SCELTE
Non immaginava Roberto Rossellini, quando volle iscrivere Renzo alla Sorbona per seguire corsi di Storia e Filosofia, che questa esperienza sarebbe andata oltre la questione culturale. I colleghi di studio algerini divennero per Renzo amici e compagni d’impegno politico. È interessante seguire l’intreccio fra cultura e politica, dapprima teorico, poi sempre più concreto, che ha segnato la vita di Renzo. I tentativi di Roberto, nel ricondurlo entro schemi creativi e didattici, ebbero anche successo, ma per il figlio la politica era diventata una ragione di vita. Scrive Marcella De Marchis: «Roberto non si è mai schierato apertamente per una parte politica anche se per tutta la vita e tutto il suo cinema stanno a testimoniare… il suo amore per l’umanità e soprattutto per i più deboli e umiliati. Comunque credo che il suo atteggiamento nei confronti di Renzo fosse motivato anche dalla preoccupazione paterna. In quegli anni fra loro ci furono spesso divergenze e polemiche; i loro contrasti si ritrovavano sulla stampa, diventavano pubblici. Roberto comunque seguì sempre con rispetto e interesse l’attività di Renzo. In quella delicata situazione io svolgevo il ruolo di mediatore e di paciere… Era una vera faticaccia, che veniva regolarmente premiata
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dalle riappacificazioni che avvenivano intorno alla mia tavola»1. *** – La frequentazione presso l’Accademia di Belle Arti a Venezia e quella del corso di Storia e Filosofia alla Sorbona di Parigi sono state scelte di tuo padre? E quale delle due esperienze reputi più importante? – Sono esperienze differenti. L’Accademia di Belle Arti è un percorso di conoscenza molto interessante che ho seguito con passione. È stata una frequentazione decisa di comune accordo. In quanto alla filosofia, è materia che mi ha sempre attratto, un’attrazione trasmessami da mio padre. Gli anni di studio in Accademia non sono stati solamente su un banco di scuola ma girare per musei, guardare, studiare le tecniche di rappresentazione visiva, come quando alla Cappella Superiore di Assisi ho scoperto che Giotto, nella sua Strage degli innocenti, per la prima volta nella storia delle arti visive ha rappresentato il dolore umano con una lacrima sul viso delle madri dei bambini vittime della strage. Da quelle lacrime la storia delle arti visive è diventata adulta: non più solo dei dell’Olimpo o episodi biblici, ma sentimenti umani, come nella Pietà di Michelangelo. È da qui che nasce la modernità dell’arte. – Oltre a essere un critico e storico dell’arte, immagino che tu sia un buon pittore.
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M. DE MARCHIS, Un matrimonio riuscito, cit., p. 117.
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– No, non credo di essere un buon pittore come non ho mai creduto di essere un buon regista, forse perché non riesco a paragonarmi a mio padre, da cui ho appreso tutto nella mia professione da cineasta, compreso il modo di costruire le immagini audiovisive. Il valore di un autore è la capacità creativa originale, non copiare. In quanto a questo, se si tratta di riprodurre un quadro, sono piuttosto bravo. – Per questo mi pare di aver letto che tuo padre avrebbe tenuto molto a che ti dedicassi alla pittura. Gli anni parigini, il clima che si respirava presso la Sorbona, in particolare gli studi di filosofia, oltre ad aver influito in quella che è stata la tua vicenda politica, hanno anche maturato in te l’attitudine al giudizio critico, alla logica, al confronto, cose che ti sono state utili nelle scelte future? – Certo, la filosofia aiuta nella dinamica mentale. La Sorbona, oltre alla filosofia e a una formazione didattica che mi era congeniale e si è sviluppata, mi ha fatto crescere, conoscere studenti impegnati politicamente. Parlando con loro, scoprendo i motivi che li portavano a scegliere di lottare, ho solidarizzato con le loro idee. Ho compreso tante verità e aspetti di civiltà diverse dalla mia, i problemi, le esigenze, le ingiustizie. Ci sono quelli che parlano tanto e poco agiscono. Io sono all’opposto. Se si crede di essere nel giusto, bisogna agire. E così all’interno della Sorbona, nel dialogo con gli studenti impegnati politicamente, è nata la mia esperienza in Algeria. – Hai detto: «Nei miei 78 anni di vita ho avuto tante avventure, tanto lavoro per la cultura e lavoro per liberare il mondo da dittatori e prepotenti. Per me le guerre sono durate fino ai miei 25 anni». Hai spiegato che la tua fanciullezza finisce
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con la partecipazione alla guerra in Algeria. Il tuo incontro con gli studenti dissidenti, a Parigi, è stato il punto di partenza. Ma è evidente che l’educazione ricevuta, le opinioni politiche da te assorbite durante i colloqui in famiglia hanno creato le basi per una determinazione nell’agire. I tuoi si aspettavano questo? – I discorsi sulla Resistenza ascoltati in famiglia hanno avuto un ruolo. Quando mio padre tornò dall’India nel 1958, ho già spiegato che mi volle con sé per aiutarlo e vivere con lui a Parigi. Parlucchiavo il francese, ma per farmene appropriare di più lui mi iscrisse a un corso di Storia della Francia e Cultura, Letteratura e Filosofia alla Sorbona. Erano gli anni della Guerra d’Algeria e lì conobbi molti studenti algerini che quella lotta sostenevano. Io, con il mito della Resistenza nell’animo, aderii alla loro organizzazione, l’FLA (Front de Liberation Algerienne) e cercavo di rendermi utile approfittando del fatto che, essendo italiano, non avevo addosso gli occhi della polizia francese e svolgevo lavoretti da staffetta. Tra gli studenti algerini conobbi Mohamed Lakdar-Hamina, che diventò in seguito direttore dell’OAA (Organisation des Actualitees Algeriennes), i cinegiornali algerini per i quali collaborava dalla clandestinità. – E dunque hai conosciuto questi giovani in pieno clima di rivolta. Si trattava di un momento storico determinante: l’Algeria aveva appoggiato lo sbarco degli alleati nel 1942. Nel ’43 ad Algeri fu fondato il Comitato Francese di Liberazione Nazionale, riconosciuto più tardi quale governo nazionale provvisorio con a capo il generale De Gaulle. La speranza era di affrancarsi dal colonialismo. Ma così non fu. Si aggiunse una situazione economica incerta che determinò un tale malcontento da portare ad azioni antifrancesi. Una guerriglia che il governo
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sottovalutò. I paesi arabi furono vicini all’Algeria con aiuti concreti e la ribellione dilagò in tutto il territorio. Nel ’58 l’insurrezione degli ultras, cioè i nazionalisti intransigenti, portò al potere Charles De Gaulle che cercò di risolvere il problema con varie iniziative tra cui un programma quinquennale, il «piano Costantina» di sviluppo economico. Sperava di indurre i rivoltosi ad abbandonare la lotta. Cosa che non avvenne. – Per quel che mi riguarda importante fu la conoscenza di Mohamed Lakdar Hamina che mi chiese di aiutarlo a cercare la pellicola per girare i cinegiornali. Pellicola che in Algeria non si trovava più e la Francia non vendeva. Comprai per lui dei lotti di negativo che portai in Tunisia e da lì, attraverso un deserto di frontiera, in Algeria. Poi si pose il problema di dove sviluppare e stampare il negativo. Riuscii a organizzarlo in un laboratorio romano, La Microstampa di Franco Jasiello. Dopo di che si pose il problema di come far rientrare i cinegiornali montati in Algeria ed è stato un altro rompicapo, poiché mi sono dovuto occupare anche di questo. Sempre dalla Tunisia, attraversando il terribile lago salato dello Chott el-Jerid, svolgendo queste attività, conobbi i comandanti della resistenza algerina che mi accolsero in Algeria, proteggendomi dai pericoli. Così, a 17 anni imparai, per la prima volta, a imbracciare un kalashnikov e a spiegare ai giornalisti americani che accompagnavo nella guerriglia come posizionarsi quando ci si trovava in mezzo a uno scontro a fuoco: non mettersi in mezzo a una sparatoria intercettando le pallottole; si trattava di un problema geometrico della posizione del corpo. I comandanti della guerriglia mi affidavano anche il compito di controllare chi entrava nella loro zona e scoprire che non fossero spie dei parà francesi.
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Ho imparato vari mestieri in Algeria, sono diventato un professionista della guerriglia. – E poi la situazione si è evoluta con il “complotto dei generali” che si è manifestata attraverso la ribellione di alcuni componenti dell’esercito. Il tentativo francese di riportare ordine anche in questo caso fallì. Il punto di riferimento dei ribelli divenne l’O.A.S. (Organizzazione dell’esercito segreto). Nel ’62 De Gaulle riconobbe l’indipendenza dell’Algeria e come capo del governo fu eletto Ben Bella. La tua è stata un’esperienza esaltante ma rischiosa. – E infatti mio padre non la prese bene, non per la decisione in sé, ma per i pericoli ai quali andavo incontro. – Tuo padre ti aveva educato all’azione generosa. Magari lui la intendeva in forma meno rivoluzionaria. Solo che alla spinta ideologica si è unito inevitabilmente lo spirito di avventura congeniale alla tua giovane età. – Già. E alle esperienze accennate se ne sono aggiunte altre. – La tua è una importante testimonianza. – Ero un ragazzino che odiava la guerra. Ho imparato che un documentario di descrizione della realtà e un discorso educativo sono più importanti delle pallottole. Ho vissuto guerriglie in tre continenti, ne sono uscito vivo, non ho ucciso mai nessuno e ho salvato molte vite. – Le vicende vissute in luoghi belligeranti ti hanno portato a conoscere personaggi di livello internazionale. Alcuni li hai nominati. Al di là dei momenti di partecipazione attiva, come si svolgeva la loro esistenza? Qual era il loro sistema di vita, la loro mentalità corrente, com’era il loro atteggiamento verso l’altro sesso?
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– Mi perdonerai di non entrare nelle vite private dei vip della politica e delle rivoluzioni perché ne so poco; su l’altro sesso ho visto rispetto, amore e passione. Anche nei paesi islamici le donne non sono le caricature di cui leggo e vedo in TV ora: la religione mussulmana mette al centro della famiglia la donna, con le sue fragilità e i suoi pudori, veli e foulard che sono parte del costume etnico; sono tollerati, non obbligatori. Sono uno dei pochi che ha letto e studiato il Corano e non dimentico che Maometto consiglia di salutare con la frase «Salam Aleikum» (La Pace sia con te) e dice che la parola Salam, pace, viene dall’ebraico Shalom, dallo stesso significato. – Da allora qualcosa dev’essere cambiato. Leggendo Oran Pamuk, premio Nobel turco, soprattutto il suo bellissimo romanzo Neve, si ha un’impressione più coercitiva della mentalità mussulmana riguardo alla donna, al punto da farle optare per il suicidio nella insopportabile scelta fra cultura e tradizione; ma non è su questo che vorrei intrattenermi, quanto su come oggi si sia evoluto o involuto il mondo mussulmano. Vorrei una tua valutazione soprattutto da persona che ha conosciuto un Islam diverso e ha un’esperienza in campo politico. – Neve di Oran Pamuk racconta del colpo di stato sulla città di Kars e affronta il problema dell’obbligo del velo nel mondo mussulmano. Ho una visione completamente differente da quella dettata dai pregiudizi predominanti sulle donne mussulmane. Ho visto soprattutto donne armate, giovani e nonne, difendere le loro famiglie, sempre senza velo, per non essere identificate dai loro nemici di turno, colonialisti o eserciti occupanti. Sono stato educato, da mio pa-
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dre, a identificare e combattere i pregiudizi nemici e assassini delle verità. Nessun uomo di cultura si esprime difendendo i pregiudizi. – Concordo. Ma la mia domanda si riferisce più al momento attuale piuttosto che al tempo in cui è avvenuta la tua esperienza nel mondo mussulmano. Io non ho pregiudizi. Credo però che la parte mussulmana non estremista (e noi sappiamo bene che gli estremisti nascono in tutte le culture) dovrebbe far sentire più forte la propria voce di dissenso. In sostanza Pamuk rimpiange il tempo di apertura avvenuta con Ataturk. Non sei d’accordo? Per il resto il bellissimo progetto che tuo padre non ha realizzato, purtroppo, e che ora è parte del testo Islam2, rende giustizia della grande e antichissima civiltà di quelle popolazioni. Hai ragione nel supporre che se avesse realizzato il progetto avrebbe apportato un bel contributo di riflessione e conoscenza. Riporto un brano che chiarisce il valore del suo pensiero: «Sono convinto che ci può essere salvezza se noi uomini troveremo il modo di vivere più coscienziosamente. Per arrivare a ciò bisogna che ognuno di noi sappia di più, sempre di più. Sviluppando il pensiero, potremo avvilire e dominare quello che ci suggerisce il nostro istinto. L’istinto è impulso, inclinazione non ragionata; il pensiero è ponderatezza, concezione, considerazione. Per pensare bisogna sapere»3. – Mio padre non ha mai smesso di credere che per capirsi, collaborare, bisogna conoscere: questa era la sua tesi.
2 R. ROSSELLINI, Islam. Impariamo a conoscere il mondo mussulmano, a cura di R. ROSSELLINI, Donzelli, Roma 2007. 3 Ivi, p. 4.
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Alla tua domanda rispondo con il prologo da me scritto per il libro di mio padre Islam. Impariamo a conoscere il mondo mussulmano: «Mio padre scriveva continuamente pagine e pagine a mano su blocchi di carta gialla, che fotocopiava e voleva che leggessi per dargli opinioni e giudizi. Nel 1975 o ’76 elaborò il progetto per un film per la televisione sulla storia dell’Islam. A differenza delle volte precedenti non mi consegnò una fotocopia del manoscritto, ma mi chiese di leggere direttamente lo scritto, lì, davanti a lui e di commentarlo subito: era ansiosissimo, quasi preoccupato. L’introduzione iniziava con la frase: “Ora che il mondo è ancora più lacerato da nuove incomprensioni e inusitati risentimenti, diventa urgente fare qualcosa di utile” e poi continuava con frasi come: “Una nuova frattura assai profonda si è creata tra il mondo occidentale, orgoglioso del suo preteso pragmatismo, e il mondo mussulmano che, finalmente risvegliato, ha il coraggio di rivalersi” e “La situazione obiettiva del nostro pianeta impone, attualmente, di stabilire un paziente lavoro di rammendo della specie umana”. A caldo mi venne da commentare: “Ma come, i paesi islamici sono ricchissimi, hanno il petrolio e possono mettere in ginocchio l’economia del pianeta!”. Papà con impeto mi rispose: “Ma questo è il problema: per impossessarci di quelle ricchezze creeremo pretesti, ritireremo fuori le armi del razzismo, come fu fatto contro gli ebrei e quel che è peggio potremo creare una nuova Shoah, e questa volta le vittime saranno l’Islam e i mussulmani”. Trent’anni fa queste parole mi sembrarono esagerate, oggi mi sembrano una lucida profezia. Se la sua Storia dell’Islam fosse stata realizzata, forse le cose sarebbero andate altrimenti, ma quel che è certo è che il
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suo progetto era ispirato da preoccupazioni poi rivelatesi molto fondate. Roberto Rossellini era anche questo: un polemologo, uno studioso del fenomeno guerra. Ricordando questo episodio sono andato a ricercarmi il manoscritto della Storia dell’Islam, dubitando della mia memoria. Ovviamente, del dialogo fra me e mio padre non è rimasta traccia, ma le frasi che ho riportato sono scritte e sono state scritte da lui più di trent’anni fa»4. – Mi ha colpito la frase «un paziente lavoro di rammendo della specie umana». È quello che sta facendo papa Bergoglio; si sarebbero intesi lui e tuo padre. E non solo lui, l’opera della Chiesa ultima, al di là delle chiusure conservatrici così diacroniche in questo contesto e che cercano di rallentare l’opera di svecchiamento, cerca di operare un rammendo. Purtroppo gli appetiti politici, di potere, di sfruttamento delle risorse planetarie sono tali, e tale confusione si fa tra religione e tutto il resto, che siamo arrivati a degli estremismi tremendi. Molti sono coloro che, anche a livello documentaristico e giornalistico, cavalcano l’onda dell’odio. Tu vedi qualche speranza, inversione di tendenza? – Sono certo che mio padre avrebbe ammirato papa Francesco, poiché alla fine attribuiva alla religione un valore etico, morale, quindi politico, pur essendo un non credente in cerca di fede. Ma la ricerca è la base. Ne sancisce l’indispensabilità. Al momento sono terrorizzato dal conformismo e dall’incoscienza dei politici. Il non capire che il fenomeno dell’immigrazione di esseri di razza umana dalla fame verso
4
Ivi, pp. VII-VIII.
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paesi dove sognano ci sia benessere è qualcosa che è sempre avvenuto nella storia dell’umanità. Non bisogna dimenticare che nel mondo ci sono più emigranti di origine italiana che italiani in Italia. Mi terrorizza pensare all’ipotesi che quando noi scappavamo dalla fame in America o in Australia lì ci fossero stati dei Salvini. Certamente la religione cristiana ha educato all’accoglienza. Abbiamo vissuto, recentemente, la guerra in Iraq che ha permesso agli Stati Uniti di trasferire 200.000 marines nelle zone del pianeta dove esistono enormi riserve petrolifere e va ricordato che la guerra dell’Iraq ha avuto come pretesto supporre che avessero delle armi di distruzione di massa, cosa mai verificata. Dimenticando che l’Iraq è stato armato dall’Occidente per la lunghissima guerra contro l’Iran degli Ayatollah.
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X CUBA
Negli anni sessanta del secolo scorso, l’avvicendarsi di episodi rivoluzionari, coinvolse e stravolse varie aree del mondo. Deflagrarono conflitti, disagi, in alcuni casi completando un percorso avviato nel decennio (o decenni) precedente, in altri facendo esplodere disagi, situazioni sedimentatesi nel tempo. Un insieme di cause ed effetti che alla fine ha modificato l’assetto mondiale. Inseguire il nuovo vento, affiancarsi all’opera di chi reclamava equità, autonomia, svecchiamento, ha voluto dire mettere in gioco quantomeno la propria comodità di vita. Renzo vuole partecipare. Sicché, dopo aver annusato il vento algerino, è pronto a vivere un’altra stimolante realtà, quella cubana. La storia di Cuba, Fidel Castro, Che Guevara è molto nota. L’azione di Fidel Castro che nel ’59 riuscì ad avere ragione del dittatore Fulgencio Batista e tra il ’62 e il ’64 consolidò il suo governo, fu affiancata particolarmente dal luogotenente Ernesto Guevara detto il «Che», un medico della buona borghesia argentina che poneva tra gli obiettivi primari riscattare i popoli da forme di dittatura e sfruttamento. Uomo colto, dal forte carisma, fu l’ideologo del gruppo. Uno dei suoi miti era Giuseppe Garibaldi. Le sue tesi imperniate sulla necessità di creare dei focolai di rivolta per raggiungere
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una vittoria sull’imperialismo e, nel contempo, l’urgenza di creare un impegno internazionale di solidarietà tra i paesi del Terzo Mondo, lo portarono a compiere viaggi nei paesi africani, tra cui l’Algeria, l’America Latina e quelli socialisti al cui credo sia Fidel che lui erano molto vicini, con legami anche politici. A conclusione di quei viaggi produttivi sul piano dell’intesa, Che Guevara programmò e attuò nel ’66 un’importante Conferenza internazionale che prevedeva la fondazione di un’organizzazione pertinente i movimenti di liberazione dei popoli dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina. Renzo Rossellini vi partecipò in rappresentanza dell’Algeria. *** – Che cosa legava le due realtà, l’algerina e la cubana? – A parte certe similitudini relative all’autonomia politica e alla situazione economica, il momento storico soprattutto. Io ero ormai dentro quell’atmosfera. E poi se si crede di essere nel giusto, bisogna partecipare. – Come avvenne che fosti tu il rappresentante algerino? – Come s’è detto, promotore fu Che Guevara. La Tricontinental si svolse all’Avana. Dopo la rivoluzione cubana, stesso anno della vittoria della Guerra d’Algeria, ho sentito il bisogno di andare a Cuba ad annusare una rivoluzione. Il presidente algerino Ben Bella, quando il Che è venuto ad Algeri per incontrarlo, mi ha chiesto di essere presente all’incontro come interprete perché sapeva che parlavo bene lo spagnolo. Così ho conosciuto il Che, il quale ha capito che io traducevo ma esprimevo anche mie opinioni e parlavo
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delle mie esperienze. Sicché quando preparò la Prima Conferencia Tricontinental a l’Avana e invitò Ben Bella, essendo l’Algeria in una situazione critica, Ben Bella non reputò prudente muoversi dal paese, e propose di inviare un suo delegato. Fu il Che a chiedergli: «Perché non Renzo Rossellini?». – Sappiamo poi quel che è successo in breve tempo: Ben Bella nel giugno del ’65 fu deposto con un colpo di Stato. Il Che, il quale già nell’autunno del ’65 era partito verso la Bolivia, per partecipare ad altre azioni rivoluzionarie, tornò alla fine dell’anno e rimase in gennaio del ’66 all’Avana proprio per la Conferenza Tricontinentale. – Io vi partecipai con lui e rimasi all’Avana per un mese, tra preparazione e svolgimento della Conferencia; conobbi i delegati rivoluzionari dei Tre Continenti. – Come si svolse questa importante manifestazione? – C’erano i rappresentanti di 82 paesi con delegazioni governative e non, partiti di opposizione legali e clandestini, movimenti di liberazione nazionale. Ci s’illuse con la creazione di un’Organizzazione di solidarietà dei popoli dell’Asia, Africa e America Latina con sede all’Avana di aver raggiunto un traguardo. L’obiettivo, probabilmente troppo ambizioso, non resse. – Secondo te di tutto questo non è rimasto niente? – Qualcosa resta, sempre. Una maggiore consapevolezza. Una presa di coscienza e comunque la dimostrazione che a volere si possono unire le forze, significare qualcosa. Era questo un principio del Che. Da soli non si è nessuno. Solo uniti si conta.
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– Com’erano l’ambiente, la gente e soprattutto lui? Se lui stesso ti ha proposto, vuol dire che fra voi si era creata sintonia. All’epoca tutto il mondo subiva il fascino del «Che». Era un’icona, l’eroe romantico. Ed è rimasto un mito, probabilmente lo sarà per sempre. – Ho ben presto scoperto che il Che era infastidito dagli adulatori e feci molta attenzione nel rispettare questo atteggiamento di modestia nel carattere. Nella modestia del Comandante Che Guevara ritrovai atteggiamenti di mio padre che fuggiva gli ammiratori e frequentava più volentieri le persone con le quali dibattere argomenti interessanti; in ciò anche io sono un loro allievo. – Di lui sono divenute celebri molte frasi, dei veri aforismi. Una lo definisce molto bene: «Per non lottare ci saranno sempre moltissimi pretesti in ogni circostanza, ma mai in ogni circostanza e in ogni epoca si potrà avere la libertà senza la lotta!».
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XI FRA CINEMA E TELEVISIONE
Nella società moderna l’uomo ha bisogno di conoscere l’uomo. La società e l’arte moderna hanno distrutto l’uomo. L’uomo non esiste più e la televisione aiuta a ritrovare l’uomo. La televisione, essendo un’arte agl’inizi, ha osato andare alla ricerca dell’uomo. Roberto Rossellini *** – Quando la televisione ebbe inizio le speranze erano grandi. Tuo padre ne intuì le potenzialità. Tanto da sostenere che il cinema aveva esaurito la sua funzione. Il fatto poi che molte speranze venissero disattese non toglie niente a questa intuizione; infatti, al di là di limiti, banalizzazioni, commercializzazioni, oggi la televisione risulta la più importante forma di comunicazione anche a livello educativo. Attraverso questa esperienza d’avanguardia, intendeva trasmettere il suo progetto culturale e voleva che tu l’aiutassi a realizzarlo. Lui ci credeva fortemente. C’è una lettera del 20 luglio 1972 diretta a Peter H. Wood, nella quale afferma che la conoscenza dell’uomo si sta espandendo a ritmo vertiginoso e per divulgarla ci vogliono nuovi metodi di educazione e comunicazione: «I metodi edu-
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cativi tradizionali quasi sempre stabiliscono dei modelli, e così facendo spingono all’imitazione. Di fatto, ciò castra le potenzialità della personalità umana, che ci porterebbe al “migliore” degli scopi…». Con questo criterio ha prodotto per la televisione un’opera di approfondimento culturale per vaste masse di pubblico. – E infatti, per questo, se non l’avessi seguito, oggi sarebbe terribile. – Tu confessi che inizialmente trovavi pesante assecondarlo. Succede che i genitori spingano i figli in una direzione che non sembra a questi ultimi la giusta. Lui puntava sul ruolo formativo, tu probabilmente la vedevi diversamente. – No, concordavo sulla sua tesi legata al valore didattico del mezzo televisivo. Allora c’era la speranza di un suo futuro culturale e dunque si lavorava con uno spirito diverso. – E allora perché eri riluttante? – Avevo altre aspirazioni, ma comprendevo il valore della proposta. E dunque non fu difficile per mio padre convincermi a collaborare al suo progetto di film e abbandonare la realizzazione dei documentari sui fronti di guerre di liberazione nazionale in giro per il mondo, con macchina da presa e kalashnikov, cosa che gli creava preoccupazione. E poi mi ci sono appassionato. – I documentari d’indagine sociopolitica che hai realizzato per il mondo non sono pochi. A quali realtà sono riferiti? Qual è il messaggio, la proposta? È importante che tu ci spieghi. – Tutta la mia attività dell’epoca, dedicata com’era a combattere i prepotenti e a proteggere le loro vittime, ha fatto sì che per affermare questo principio ho deciso di usare i mezzi di comunicazione di massa, come l’audiovisivo e ho
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dovuto viaggiare attraverso quattro continenti, Europa, Africa, Asia e America Latina. Palestina un altro Vietnam lo girai alla fine degli anni ’60. Vietnam 84 lo girai in Asia e in America Latina. In Brasile girai un documentario contro la dittatura militare; in Cile oltre al documentario sull’intervista a Salvador Allende, fatta da mio padre, girai anche un lungo documentario sulla situazione economica del paese; in Senegal, Algeria, Eritrea, Angola e Mozambico ho documentato le lotte di liberazione anticoloniali. L’ultimo documentario da me realizzato è stato Diritto di sognare un mondo senza Mafia. – E poi ebbe inizio il nuovo corso. La tua partecipazione da sporadica è divenuta continuativa. In seguito, prima di tornare a occuparti di cinema, hai operato solo per la televisione? – Praticamente ho seguito le scelte paterne. Il mezzo televisivo si presentava come formula di più ampia fruizione. Già dagli inizi degli anni ’60 egli sentiva l’esigenza di una maggiore immediatezza nel comunicare. – A tal proposito riporto un brano di Adriano Aprà che sottolinea come il cinema di tuo padre progressivamente si sia opposto a una «cultura scritta» per riconquistare la vivezza della «cultura orale»: «… si afferma con Viva l’Italia il cinema orale a cui Rossellini tende ormai incessantemente… La cultura orale di cui parla Rossellini è soprattutto quella dell’apparato che trasmette i suoi film: la televisione che “guarda lontano” e che è uscita dal ventre protettivo della sala oscura»1. Partendo da que-
1 R. ROSSELLINI, Il mio metodo. Scritti e interviste, a cura di A. APRÀ, Marsilio, Venezia 1987, p. XII.
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sto assunto, lui mise in atto una serie di rappresentazioni televisive come L’età del ferro. In fondo realizzando le serie storiche per la TV proseguivi nella indagine del vero. – Certamente studiare la Storia dell’Umanità, dal Neolitico alla conquista della Luna, e rappresentarla in audiovisivo per me è stato come prendere una laurea universitaria in Storia. Quando ho realizzato la regia delle 17 ore di queste due serie per la TV ero giovane, ma già con molta esperienza di vita. È stato durante le riprese dell’Età del ferro che è nato il mio figlio primogenito, Alessandro. – In varie occasioni tuo padre sottolinea il tuo ruolo di regista per questi documentari. Nell’intervista che realizzò con Maurizio Ponzi2 lui ritorna sul discorso: «Intendiamoci, io ho fatto poco o niente. Ha fatto mio figlio Renzo che è il regista del film»3. Lo stesso orgoglio paterno appare nell’intervista realizzata da Ugo Gregoretti. – Sì, fu una lunga intervista. Erano amici e avevano grande stima reciproca. – Trascriverla per intero non ha senso, ma la parte riferita a te è significativa: – GREGORETTI: Vorrei sapere le sue ultime opere, queste qui che hanno un carattere ciclico, storico, le gira interamente lei? Cioè lei ha conservato il ruolo del regista egemone?
Intervista pubblicata su «Filmcritica», 156-157, aprile-maggio 1965; ripubblicata in R.R. Roberto Rossellini, a cura di E. BRUNO, Bulzoni, Roma 1979 («Quaderni di Filmcritica», 7); sta in Conversazione sulla cultura e sul cinema, «Filmcritica», 131, pp. 131 sgg. 3 R. ROSSELLINI, Il mio metodo, cit. p. 349. 2
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– ROSSELLINI: No, no, no, no. Per esempio, intanto con mio figlio lavoriamo, ci scambiamo le parti. Per esempio il Luigi XIV. Mia figlia ha subito un’operazione alla spina dorsale a Firenze mentre facevo il Luigi XIV. Tutto quello che è il pranzo, le cucine l’ha girato mio figlio e nessuno se ne accorge. – GREGORETTI: Come avete fatto a raggiungere questa perfetta osmosi stilistica? – ROSSELLINI: È perché lavoriamo continuamente insieme. Però nelle cose che fa tutto lui c’è dentro un altro sapore, in fin dei conti, un sapore più dolce, ecco. Adesso non lo so, perché vedo con gli occhi di padre, ma le cose che fa lui sono più accurate e anche più dolci. Essendo poi, lui come uomo, infinitamente più violento di me. È una strana cosa. Ma ci ha questa maggiore dedizione. – GREGORETTI: Comunque c’è un’affinità di fondo fra i due modi di girare. – ROSSELLINI: Quello che è abbastanza straordinario, questo ragazzo che ha una vera grossa capacità professionale, ha avuto mille tentazioni. Tanti gli hanno offerto di andare a fare film. Lui crede fermamente a queste cose qui. Non è che crede perché la mia autorità paterna gliel’ha imposto. Perché si è convinto di questa utilità e quindi è proprio dedicato a questo. Per esempio, La lotta dell’uomo per la sopravvivenza l’ha girata totalmente lui. Io non ho mai messo piede sul set. Le cose man mano le vedevo in proiezione, quando lui me li fa vedere. – GREGORETTI: E gli Atti degli Apostoli, pure? – ROSSELLINI: No, gli Atti degli Apostoli li ho fatti soprattutto io, però certe cose le ha fatte lui. Quando io ho
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dovuto assentarmi o ci avevo problemi organizzativi ecc., andava avanti lui. Non se ne accorge proprio nessuno. – GREGORETTI: O magari un giorno che non le andava di girare. Le capita questo? – ROSSELLINI: No, non mi capita mai. Non mi capita mai perché se uno sta sul lavoro, così divertendosi, non può capitare. – GREGORETTI: Non si stanca. – ROSSELLINI: Non si stanca. Può capitare il giorno che ci hai mal di testa, ecco perché io non bevo vino, non mangio niente con aglio, cipolla, perché queste cose mi fanno venire mal di testa; soffro di emicrania, perciò evito le emicranie. Quando non ho le emicranie sono disponibile a fare qualunque cosa. – GREGORETTI: Comunque il critico, l’osservatore esterno non coglie la presenza di due Rossellini dietro la macchina da presa? – ROSSELLINI: No, no, assolutamente no. – GREGORETTI: Questo è un fatto straordinario. – ROSSELLINI: Lui ha cominciato così, come aiuto mio. Abbiamo talmente lavorato insieme. Abbiamo avuto momenti di crisi, lui ha avuto momenti di ribellione contro di me assolutamente drammatici. Delle volte io ho patito per settimane per queste cose qua. Ma le ritenevo assolutamente giuste. Lui doveva trovare se stesso ed era giustissimo quello che faceva. E poi quando lui viene a fare le cose alle quali ho messo le mani io, lui sa benissimo quello che deve fare per rimanere aderente a quello che faccio. Non è che viene lì a fare il suo pezzo. Viene lì a fare una cosa… così se io devo toccare una cosa che sta facendo lui, io la rifaccio,
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cerco di rifarla esattamente come fa lui. D’altra parte nelle botteghe dei pittori i garzoni di bottega… e delle volte faccio il garzone di bottega, se vado a fare le cose con lui, cerca di rifare esattamente quello che faceva il capo-bottega, l’artista4.
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Brano di un’intervista televisiva di Gregoretti a Rossellini.
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XII 1967. L’EGITTO E NON SOLO
Roberto Rossellini nel ’67 si mosse verso l’Egitto con la sua troupe per girare l’episodio La civiltà che nacque da un fiume. Purtroppo si trovò nel bel mezzo di una guerra. Parliamo della Guerra dei sei giorni (5-10 giugno 1967) combattuta tra Israele da una parte ed Egitto, Siria e Giordania dall’altra, all’interno delle ostilità arabo-israeliane e che si risolse con una rapida e totale vittoria israeliana. Dopo la crisi di Suez del 1956, l’Egitto aveva accettato che la Forza di emergenza delle Nazioni Unite, l’UNEF, venisse collocata nel Sinai per garantire il rispetto dell’Armistizio di Rodi sancito nel 1949. Ma gli scontri di frontiera, seppur di piccola entità, tra Israele e i confinanti arabi, proseguirono. Nel 1967, Nasser, da falsi rapporti dell’Unione Sovietica, fu informato che Israele stava concentrando truppe sul confine siriano e incominciò da parte sua a concentrare truppe nella Penisola del Sinai. Questo provocò la rottura con le Nazioni Unite e, in un crescendo di tensione, Nasser dichiarò gli Stretti chiusi alle navi israeliane. Il 30 maggio la Giordania e l’Egitto firmarono un patto di mutua difesa. Il 1º giugno Israele formò un governo di unità nazionale e il 4 giugno furono aperte le ostilità. Il giorno dopo Israele lanciò l’Operazione Focus, un attacco aereo a sorpresa, su larga scala,
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che decretò l’inizio della Guerra dei sei giorni. L’offensiva aerea fu completata da Israele nei primi due giorni, con tre vittoriose campagne terrestri nei giorni seguenti. L’attacco aereo colse gli egiziani di sorpresa, paralizzando le forze aeree egiziane, siriane e irachene; distrusse l’aeronautica militare giordana e stabilì rapidamente l’egemonia israeliana. La Guerra dei sei giorni rovesciò decisamente la situazione mediorientale, con conseguenze che durarono a lungo e che proseguono, in un certo senso, ancora oggi. *** – In Egitto andaste nel ’67 per realizzare dei documentari. E in quella occasione era presente anche tua mamma che era divenuta costumista a tempo pieno. – Sì, fu molto bello averla vicino. Inizialmente mio padre non accettava che mia madre si dedicasse a quest’attività, ma dovette ricredersi di fronte alla sua bravura e determinazione. Quale costumista oramai affermata lei non finiva comunque di stupirci per il grande gusto e la rapidità con la quale creava, decideva, realizzava. Questi documentari, come La lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza, erano ricchissimi di personaggi e figuranti dislocati in epoche storiche lontane fra loro, dalle origini ai nostri giorni. E in diverse realtà, civiltà, ubicazioni. Fu un gran lavoro da parte di lei. Fu un periodo felice, ma anche avventuroso per le riprese relative all’episodio La civiltà che nacque da un fiume, e che ci portò in Egitto. Si era nel 1967 ed Egitto e Israele erano ai ferri corti. La guerra era alle porte e dovemmo tornare in fretta in Italia, prima mia madre, poi noi. La lavorazione
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proseguì in prevalenza a Bucarest dove i costi erano più bassi. – Ne hai parlato più diffusamente nel libro di tua mamma. – D’accordo, te la racconto con maggiori dettagli. Le prime avvisaglie furono quando andando verso il set a Giza incontrammo una colonna di carrarmati diretta a Est. Al rientro la strada era bloccata, c’era stato un maxi-tamponamento di carrarmati. Questo fatto unito all’oscuramento delle finestre del nostro albergo e a simulazioni di allarmi aerei ci convinse che un conflitto era alle porte. L’allarme suonava a scadenze sempre più ravvicinate, ogni due ore o anche meno e convincemmo mia madre a ripartire, restando così mio padre, mia moglie Patrizia che non volle saperne di partire e io. Stavo radendomi una mattina quando un jet sibilò a bassa quota; poco dopo un susseguirsi di esplosioni mi fece schizzare fuori, sul terrazzo della stanza d’albergo, e vidi che mio padre era uscito anche lui dalla sua, anche lui con il rasoio in mano e il volto insaponato di schiuma da barba. Aerei quasi a pelo d’acqua volavano sul Nilo, riprendevano quota dirigendosi verso la cima dell’unica altura del Cairo, sulla quale c’erano numerose antenne, per bombardarle. Doveva trattarsi quasi certamente di un centro radar, che venne polverizzato. Un addetto dell’ambasciatore italiano che era diventato amico nostro ci raggiunse per avvertirci che il nostro Ministero degli Esteri aveva dato disposizione per far rientrare tutti gli italiani. Riuniti nella hall fummo divisi, da ufficiali in borghese, per nazionalità. Il giorno seguente il console ci raggiunse in albergo per dirci che il nostro governo, preoccupato per eventuali azioni xe-
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nofobe che in clima di guerra prosperano, aveva dato ordine di rimpatriare tutti gli italiani. Immagina quante furono le automobili che incontrammo, tutte dirette al porto di Alessandria. Pernottammo presso il Cecil Hotel da dove assistemmo al bombardamento del porto di Alessandria. Uno spettacolo tragico e insieme affascinante. All’alba del terzo giorno di attesa arrivammo sulla banchina d’imbarco, tra i rottami ancora fumanti delle navi bombardate. Si aggiunsero tremila italiani guidati dalla nostra delegazione diplomatica. Fummo fatti salire su di una vecchia motonave, l’Esperia, pigiati come sardine. Per tutto il tempo la radio egiziana ci informava della imminente vittoria egiziana. Appena fuori dalle acque territoriali il capitano ci comunicò che le truppe israeliane avevano occupato il Sinai e che Egitto, Siria e Giordania stavano per arrendersi. In quella situazione, in attesa di sbarcare, passammo tre giorni a giocare a scopone con gli altri passeggeri. Era un modo per alleggerire la tensione. Del resto non c’era altro da fare. Infine sbarcammo a Napoli. – La collaborazione di tua madre come costumista alla fine rese tuo padre molto felice. E lei per amore di tuo padre rinunciò a cooperazioni molto importanti. Ebbe proposte di partecipazione perfino dal regista Stanley Kubrick. Da un lato mi rattrista questa rinuncia (gli uomini non rinunciano per amore, in genere). D’altro canto i film dei Rossellini hanno avuto il privilegio del suo raffinato talento. – Il rifiuto di lei stupì anche mio padre. Ma per fortuna ci fu; la sua presenza è stata preziosa. Da un certo momento in poi, più o meno da Viva l’Italia, ha preso in mano le redini della situazione. Suoi sono i costumi degli Atti degli Apostoli,
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Socrate, Agostino d’Ippona, Blaise Pascal, Cartesius, Anno uno, Il Messia e ancora. – Il Messia, un film suggestivo, elegante, con i costumi di eccezionale finezza e armonia, la fotografia con chiaroscuri che suggeriscono modulazioni di superfici e spaziature. È un capolavoro in ogni senso. Ma tutti lo sono, ad esempio, L’età di Cosimo de’ Medici o La presa del potere di Luigi XIV. – Fu proprio dopo aver visto La presa del potere di Luigi XIV che Kubrick avrebbe voluto mia madre con sé per la realizzazione di Barry Lindon. Al diniego di lei cercarono di convincerla in tutti i modi anche attraverso Vittorio De Sica e la moglie Maria Mercader. Poi accettarono il consiglio di mia madre di rivolgersi alla sartoria Safas che era ricchissima di costumi settecenteschi. – Questa ulteriore avventura televisiva ha creato un’ottima base per quella che è divenuta in seguito la tua attività principale, quella di docente. Hai abbinato teoria e pratica. – L’avere collaborato al montaggio sia del film India Matri Bhumi (India grande madre), che dei documentari per la televisione L’India vista da Rossellini, in dieci puntate, e altri mi ha insegnato molte cose, fra le quali che il documentario è un racconto per immagini. Sono un professore di Cinema. Quando insegnavo a Cuba all’Escuela De Cine e Tv, scuola fondata da Gabriel Garcia Marquez, per spiegare la differenza fra il linguaggio cinematografico e quello televisivo, ho avuto bisogno di più di una settimana di lezioni, basandomi sul principio rosselliniano che «Il cinema si impara facendolo». Il periodo a Parigi, affiancando mio padre nel montaggio dei filmati girati in India, è stato molto formativo. In letteratura si mettono le parole in ordine per creare le
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frasi, per esprimere un’idea e sviluppare un racconto. Nel racconto audiovisivo si scelgono immagini e note musicali per trasmettere le emozioni che creano il racconto. – In qualità di esperto mi spieghi le differenze sul piano tecnico tra televisione e cinema? – Cinema e TV non sono distanti, sono due mezzi di comunicazione diversi, soprattutto per come vengono fruiti. Il Cinema è uscire da casa, parcheggiare la macchina, pagare un biglietto. Al cinema sei libero da ogni incombenza o sollecitazione familiare. La TV, stando davanti a un teleschermo a casa, ti offre la libertà di cambiare canale. Queste le uniche differenze; per il resto, salvo che per i TG, Cinema e TV sono un raccontare per immagini e hanno la stessa grammatica e la stessa sintassi, anche se spesso vedo che le TV fanno errori grammaticali da un punto di vista della comunicazione audiovisiva. – Cosa intendi per grammatica nella comunicazione audiovisiva? E quali sono gli errori grammaticali di questo linguaggio? – Grammatica e sintassi formano la struttura del racconto; come in letteratura, anche il linguaggio audiovisivo ha sue regole grammaticali e sintattiche. Se uno mette vicino un film a una fiction televisiva, fa commenti positivi alla fiction televisiva se questa usa grammatica, sintassi e linguaggio cinematografici. Un esempio classico è il Montalbano di Alberto Sironi che usa un linguaggio cinematografico e il racconto viene assimilato e compreso più chiaramente delle brutte fiction televisive. Considero sgrammaticato anche l’uso di salotti televisivi con conduttori impreparati che improvvisano argomentazioni su temi seri e delicati. Sarebbe
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più grammaticalmente corretto, come forma di comunicazione, usare il serio linguaggio documentaristico che può mostrare anche cose scomode. La grammatica della comunicazione audiovisiva consiste anche nel saper affrontare un tema con linguaggio appropriato. – Cinema e tv sono mezzi di comunicazione e dunque simili. Ma, con l’apparire della televisione, che seguiva dei canoni ben precisi, poiché entrava nelle case di tutti, con il fiorire degli spot, di una pubblicità a volte così banale e diseducativa, non credi che si sia dato il via a quel disimpegno che alla fine ha creato una regressione culturale, anche se può apparire il contrario? – Contrario come? – Beh, dalla televisione è partita la diffusione della lingua italiana, e dunque la conoscenza del lessico, che ha permeato tutte le classi sociali. E poi maggiori competenze tecniche, più informazione. Ma questo è il punto: la famosa infarinatura che fa ritenere di conoscere a fondo crea la presunzione di sapere senza possedere basi sufficienti. Tutto diviene orizzontale. Questa mancanza di supporto culturale crea spesso dei veri disastri. Non è possibile che tuo padre volesse contrastare proprio questo pericolo, col proporre lavori di contenuto storico, culturale? E, ultima considerazione, se altri registi si fossero dati da fare per migliorare la qualità dei prodotti televisivi, anziché preoccuparsi di «piacere» al pubblico, non avremmo oggi una società più preparata? – Un poderoso mezzo di comunicazione come la televisione, se utilizzato per liberare «l’umanità dall’ignoranza» (parole di mio padre), dimostrerebbe senso di responsabilità politica e civile. Se, invece, viene usato, come spesso accade,
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per diseducare, fare propaganda o solamente intrattenere, è un’attività criminale e criminogena non diversa da quella di lasciare morire le classi deboli di fame. Ciò mi ha insegnato mio padre ed è quello che ho tentato di fare e fatto in tutta la mia vita. – E dunque sarebbe bello se il mezzo televisivo recuperasse una qualità culturale più idonea. So bene che messaggi etici, formativi, si veicolano anche in altri modi, ma è la televisione che la fa da padrona in casa, in famiglia. Almeno finora, perché anch’essa sta perdendo terreno rispetto alla rete e a tutto ciò che è legato ad internet. – Che uno strumento di comunicazione incisivo come la TV sia stato usato male, ieri, e Internet usato male, oggi, è fuor di dubbio e ci lascia fragilmente vittime della propaganda e privi della capacità di difendercene. Il sapere e la conoscenza sarebbero le armi per rendere noi umani forti e capaci di partecipare alla democrazia che abbiamo conquistato con la lotta antifascista e la Resistenza. Mio padre ha tentato con le sue serie televisive di aprire l’importante strada alla «Diffusione della Conoscenza», contrapponendosi alla TV di quiz, varietà e rivista, tradendo la RAI di Non è mai troppo Tardi. Rimane il fatto di per sé positivo che per vedere la televisione non si paga un biglietto. Ciò che si paga è merce. La televisione non lo è e produce una parificazione di utilizzo. – Infatti tutti possono usufruirne allo stesso modo. Non è poco dare la possibilità a tutti, ugualmente, di accedere a documentari, alla diffusione della conoscenza. Oggi la gente grazie alla televisione è meglio informata, l’analfabetismo è praticamente scomparso. E molto ancora. Certo c’è sempre il
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rovescio della medaglia. E tra i pericoli abbiamo la tentazione di un benessere raggiungibile senza fatica, un insieme di messaggi a carattere egoistico, materialistico, che la televisione avalla… ancor di più può fare la rete. La rete poi porta con sé il pericolo di isolamento. Finora la televisione ha avuto il compito di riunire i componenti della famiglia, di promuovere scambio di opinioni, il che aiuta nei rapporti di amicizia, di affetto. Questo nuovo impianto porta, temo, al disimpegno. Il contrario di ciò che i registi cosiddetti impegnati, e tuo padre è stato tra i massimi, rivendicavano. A quell’epoca chi faceva della comunicazione visiva un’assunzione di responsabilità si sentiva socialmente responsabilizzato, divenendo voce collettiva di documentazione, crescita civile. Per molti anni questa caratteristica appartenne alla sinistra; il cinema d’impegno, di qualità, è stato di sinistra. Probabilmente lo è ancora. Secondo alcuni questa sorta di storia d’amore tra il cinema e la sinistra nasceva dalla capacità del cinema di sostenerne le battaglie sociali e politiche. Una capacità derivante da convinzioni radicate: la consapevolezza che insegnare valori come libertà, autonomia, senso critico, solidarietà fosse un obbligo, un’urgenza. I giovani fino ad allora erano cresciuti con idee imposte, era necessario metterli in grado di riflettere in forma meno univoca, confrontarsi con altre realtà e altri obiettivi. Gli adulti andavano anch’essi sensibilizzati su problematiche che per molto tempo erano state insabbiate. Verso la fine degli anni ’70 ci fu un allontanamento, una specie di divaricazione fra cinema e politica. Secondo alcuni, i partiti politici, essendo divenuti dei centri di potere, non avevano più necessità di un’alleanza con questo mezzo di comunicazione, e a farne le spese fu soprattutto il cinema di sinistra. Questo concetto è
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stato espresso ad esempio da Francesco Rosi che ne deplora il conseguente inflazionarsi. E forse non ha del tutto torto Giuliano Montaldo quando riflette sul condizionamento psicologico che ha operato nella società, l’associazione fra terrorismo e sinistra. In realtà c’era anche il terrorismo di destra, ma si sa, la destra sa assumere forme ambigue di populismo che paiono rasserenare gli animi da un lato (inculcando paure dall’altro). È per questo che mi domando, e ti domando: non si è trattato anche del fatto che la sinistra ha voluto troppo chiudersi in una torre d’avorio, una sorta di aristocrazia del pensiero che etichettava ogni altra forma, essa pure di sinistra, ma meno radicale, come fenomeno borghese, banale, inferiore? Alcuni eccessi non hanno ottenuto l’effetto contrario? Mi ha colpito anche la frase di Furio Scarpelli sull’incapacità della sinistra di fare satira su stessa. L’attitudine a prendersi troppo sul serio. – La tua domanda comporterebbe un lungo saggio dal titolo Cinema e comunicazione di massa. La risposta sintetica è: il cinema d’impegno è uscito dal dopoguerra come la guerra partigiana, con un fucile in mano. La pacificazione degli animi e il perdono che ne è seguito hanno fatto posare il fucile e fatto apparire un sorriso sul viso degli autori, così il Neorealismo è diventato Commedia all’Italiana. Non credo che la sinistra si sia chiusa in una torre d’avorio, ma ha tentato di far crescere coscienza politica e sociale in un’Italia dominata da poderosi mezzi di comunicazione usati come offensiva ideologica che hanno creato una cultura di controcultura nella società italiana. Mio padre odiava sentirsi imprigionato in schemi che falsassero il suo ragionamento, la sua ispirazione e i suoi motivi creativi. Per questo, non
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sopportava di essere qualificato come neorealista, in quanto non era solo quello, era anche altro, e l’attribuzione aveva un valore limitante. Allo stesso modo faticava a sentirsi definire come di sinistra, non perché non fosse dalla parte delle vittime del capitalismo, ma perché mi diceva: «La lettura di tanti libri di filosofia mi ha insegnato a rifuggire dall’essere prigioniero degli schemi restrittivi, e mi ha insegnato a essere libero». – E quindi mi dai un po’ ragione sull’arroccarsi di certi esponenti della sinistra, che ci si riferisca a intellettuali, politici o altri, su posizioni oltranziste, a volte iper-sarcastiche, talaltre superbiose. Erano queste le «restrizioni» dalle quali tuo padre rifuggiva? Lui era un intellettuale, ma di quelli ariosi, grazie a Dio. – Eh sì, grazie a Dio. – La sua insaziabile voglia di documentarsi lo aveva portato negli ultimi tempi ad approfondire la figura di Karl Marx; giudicava «impressionante» il suo Manifesto del Partito Comunista. E, ne abbiamo già fatto cenno, aveva iniziato la preparazione di un film su Karl Marx giovane. Tuo zio Renzo ne parla subito dopo la morte di tuo padre. Non avete mai pensato di completare e realizzare il documentario storico-biografico sul quale stava lavorando? – Mio padre aveva firmato il contratto con la Rai per il Carlo Marx giusto il giorno prima di morire. Sono comunque convinto che il Marx giovane che voleva realizzare mio padre avrebbe scontentato molti come ha scontentato Il Messia, ultima sua realizzazione; la ragione è che aveva descritto un Gesù, nato e morto ebreo. Nel realizzare la sceneggiatura Lavorare per l’umanità, che appunto era il titolo per il Marx
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giovane, trovò detrattori, perché non rispettava le ortodossie dei comunisti di quegli anni. Morto mio padre, ho pensato che sarebbe stato ancora possibile realizzare il film e lo proposi ai fratelli Taviani ma loro, dopo aver letto la sceneggiatura, rifiutarono dicendo che non si sentivano all’altezza. Ma forse le ragioni erano altre, di tipo ideologico. – C’è un inedito di tuo padre, La comunicazione dall’anno uno all’anno zero. Dovrebbe essere interessante leggerlo. Non hai mai considerato la possibilità di darlo alle stampe? – Anche in questo caso ti rispondo che si potrebbe. E non è escluso che mi decida a farlo. Ci sono molti importanti scritti di mio padre che dovrebbero essere pubblicati, uno tra questi è La rivoluzione americana. Ci aiuterebbe a capire come fare un’Europa che rispetti le varie culture che la compongono. – Mi chiedo spesso perché mai di Rossellini si proiettano in televisione sempre i soliti tre o quattro film, sempre loro. Dove sono finiti gli altri? – Intanto la TV tende a operazioni commerciali. Non vuole investire più di tanto in altro. Per l’ultimo periodo, che poi sul piano didattico è il più importante, sono sopravvenuti elementi che cercherò di sintetizzare. Per una decina d’anni, fra il 1967 e il 1977, i film di Rossellini furono prodotti dalla Orizzonte 2000 che venne dichiarata fallita per il mancato pagamento di 500,00 lire alla Ditta Rocchetti, società che noleggiava parrucche e alla quale negli anni la Orizzonte 2000 aveva fatto guadagnare centinaia di milioni. Ci fu un’asta e per i film di mio padre da questa prodotti ci fu l’unica partecipazione dell’Ente Gestione Cinema, ora Cinecittà Holding, che acquisì materiali
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e diritti. I film acquisiti sono gestiti da LUCE spa, che non ha nessuna intenzione di farli circolare, mentre se lo facesse, con videocassette, DVD e metodi più nuovi, magari vendendo presso le università e non solo, potrebbe ricavarne dei buoni profitti.
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XIII IL SESSANTOTTO (DAL ’68 AL ’77)
Scrive Marcella De Marchis: «Il maggio del ’68 vide Renzo e Roberto in prima fila a seguire gli avvenimenti francesi. Roberto era più interessato al dibattito storico e ideologico, Renzo invece era fisicamente sulle barricate. Una ventata di radicalizzazione politica investì tutta la famiglia. Roberto fu chiamato dagli studenti che occupavano il Centro Sperimentale di Cinematografia e accettò con entusiasmo la presidenza, inaugurando una nuova fase di dibattito permanente. Sciolse di fatto il corpo docente e si mise alla testa di un esperimento di autogestione, provocando lo scandalo generale. Divenne il teorico di una didattica globale, che aveva come scopo quello di formare la società futura dando a tutti gli strumenti per la comprensione e il controllo del nuovo mondo che sarebbe nato dalle ceneri di quello vecchio, ormai al tramonto. Renzo inseguiva progetti rivoluzionari in Africa e in Sud America, intrecciando contatti e conoscenze con i leader di quei paesi. Il suo impegno con Avanguardia Operaia lo portava sul fronte della guerriglia in tutti i punti caldi della rivolta comunista»1.
1
M. DE MARCHIS, Un matrimonio riuscito, cit., p. 99.
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*** – Nelle parole di tua mamma viene a delinearsi ancora una volta la differenza fra tuo padre, che segue uno schema ideologico legato al dialogo, e te, legato all’azione; comprensibile anche per la differenza generazionale. Sono trascorsi cinquant’anni dal movimento sessantottino. Più o meno coinvolti ne siamo usciti diversi. I giovani sessantottini hanno dato vita a comportamenti anticonformisti, a modelli politici. Come lo vivi quel periodo nel ricordo? Nel bene e nel male cosa ne resta? – Una valanga di cose: il femminismo, le leggi sul divorzio e sull’aborto, la fine della guerra nel Vietnam, i lasciti delle sinistre extraparlamentari e molto altro. – Certo la fine della guerra del Vietnam è dovuta in buona parte ai movimenti giovanili, come il movimento studentesco, quello dei beat hippies che, sorto negli Stati Uniti, si diffuse rapidamente in Europa intersecando il movimento studentesco e divenne soprattutto la lotta contro il principio di autorità. In questo il movimento studentesco e quello operaio procedettero uniti. Da qui a mettere in discussione discriminazioni, disuguaglianze sociali, il rifiuto di ogni forma di oppressione sociale, il passo fu breve..., come la voglia di far pulizia di ogni forma di corruzione politica. In America decisa fu la sua azione contro la guerra nel Vietnam. I giovani contestatori contribuirono non poco al superamento della segregazione razziale. – Ma dovunque si creò attenzione verso i popoli del Terzo Mondo, verso le rivolte nel mondo arabo, in Asia e a Cuba. Noi giovani ci sentimmo moralmente coinvolti nel sensibi-
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lizzare verso il pericolo di sfruttamento dei popoli del Terzo Mondo da parte dei paesi avanzati. – Tra le valanghe di cose metti per primo il femminismo. Ma esso non è nato col sessantotto, parte da molto più lontano… – D’accordo, ma non puoi negare che nel periodo sessantottino ha avuto la sua reale investitura. La rivendicazione dei diritti, lo sdoganamento di una posizione minoritaria, non ultima la liberazione sessuale (io sono mia). Per quanto poi i corsi e ricorsi storici ne abbiano invalidate alcune conquiste, proprio perché le idee non si fermano, anche il lungo e faticoso cammino della donna per la parità dei diritti è proseguito. – Nel ’70 appare un manifesto su «Rivolta femminile», firmato da Carla Lonzi. Molte idee, sono più che condivisibili, come il fatto che la donna è altro rispetto all’uomo e l’uguaglianza può divenire un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli. Una frase come «La donna come soggetto non rifiuta l’uomo come soggetto, ma lo rifiuta come ruolo assoluto» dimostra come, rifiutando dell’uomo l’autoritarismo legalizzato, la donna apra una strada sua propria alla realizzazione di se stessa. Sembra passato molto tempo, ma sono soli pochi decenni dacché la donna si è sentita libera anche di non sposarsi. E non è stato un passaggio indolore poiché il concetto sulla giustezza della sottomissione all’uomo (demandare a lui decisioni, dipenderne) è stato duro a morire. Mi chiedo se sia morto del tutto. Tornando al testo della Lonzi, giuste sono le considerazioni sul trauma femminile di una minorità ufficializzata, di vedersi considerata inferiore da filosofi, scienziati, religiosi, politici anche di sinistra. La donna vuole
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partire da se stessa, dare valore al proprio vissuto uscendo dalla esclusione dalla storia, dalla politica, insomma dalla partecipazione attiva al progresso. Ma poi vedo forzature. E lo chiedo a te: al di là della sacrosanta parità dei diritti, un cammino ancora in salita, metti la disparità di stipendio per dirne una, non pensi che un eccesso di libertà sessuale sia stato una specie di autogol? Voglio dire che siamo stati creati paritari ma diversi. L’uomo è più legato alle sensazioni, la donna ai sentimenti. La ricerca del piacere in sé e per sé non ha finito per sminuirla? O quantomeno banalizzarla? L’ipocrisia di un tempo è finita, per fortuna. Se ci si ama, si sta insieme totalmente. Ma il sesso per il sesso ha creato nell’uomo una svalutazione della figura, del decoro femminile… l’idea del potersi permettere legalmente o quasi arroganze, stupri e così via, fino al femminicidio, non a caso in crescita. Per cui la stessa società più aperta e matura nel giudicare e condannare permette o addirittura genera simili comportamenti. Non ti pare una contraddizione in termini? – Sono stato sempre contrario al machismo e non credo che virilità e maschilismo coincidano. Anzi, queste forme di arroganza, violenza, questa ossessione di asservimento e possesso nascondono secondo me delle vere e proprie frustrazioni e un senso inconfessato di inferiorità. Per millenni l’eccitamento sessuale è stato considerato come voluto dagli dei perché generava la sessualità che permetteva la creazione di nuovi esseri viventi, quindi non solo si legittimava la soddisfazione sessuale, ma la si considerava divina. La cultura moderna e il femminismo hanno corretto ciò che una volta era permesso e tollerato. Il rapporto tra uomo e donna si è evoluto nei millenni. Nelle caverne esisteva il matriarcato e
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gli uomini obbedivano alle donne, loro madri e mogli. È con l’uscita dalle caverne e la creazione dei villaggi e delle palafitte che le donne hanno deciso di dare agli uomini la responsabilità del controllo e della protezione di questi primitivi nuclei umani. Ma l’uomo ha creato anche i primi nuclei militarizzati armati per combattere altre tribù, quindi la delega del potere agli uomini ha generato le prime guerre. Il ritorno al rispetto della donna e delle sue qualità portate dal femminismo nella fine degli anni sessanta ha ristabilito importantissimi valori etici, come il disprezzo per l’uomo armato nelle guerre. – E questo coincideva per molti aspetti con i dettami della sinistra. Ciò nonostante, e per altri versi, a quel tempo ci fu una frattura fra movimento femminista e sinistra italiana. I cortei tutti ricci, fiori, canti, balli, esclusivamente femminili, trovarono delle ostilità in seno alla sinistra vista con occhi maschili. Ci fu un conflitto fra i sessi. La nuova sinistra come la vecchia del resto non fu in grado di accettare quanto di radicale ed eterodosso sembrava portare le donne a uno spartiacque, al di là del quale il dominio maschile diventava nullo. È questo che avvenne e che determinò l’uscita delle donne da «il Manifesto» e da altri gruppi misti? Tu che opinione ti sei fatto? – Penso che non sia stato facile rompere il cerchio della dipendenza. Pur con tutta la buona volontà. Romperla sembrò insidiare quell’ordine di carattere generale, gerarchico che anche le organizzazioni politiche più avanzate alla fine avallavano, separando il privato dal politico, il controllo dalla sessualità, l’individuo dal collettivo. Inoltre gli uomini abituati al dominio (che è una sorta di schiavismo) si trova-
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rono spiazzati. Un conto è cambiare un sistema politico, economico. Un conto è cambiare un sistema «esistenziale», familiare, istituzionale come la scuola, per dirne una. E allora il fatto che le donne si siano organizzate in strutture diverse da modelli antecedenti, si siano automatizzate, incrinò l’idea di una lotta unitaria. Ogni movimento politico, crescendo, si smarrisce e può deviare verso estremismi: nel femminismo il separatismo assoluto è stato la forma di estremismo eccessivo. Ha avuto la responsabilità di distruggere nuclei famigliari e creare disordini sociali, anche se è stato all’origine di conquiste sociali come divorzio e aborto, maternità consapevole. Io credo che questa frattura, per quanto sanata, sia ancora, indipendentemente dai movimenti politici, un’«amputazione» che l’uomo non riesce ancora ad accettare del tutto; quantomeno un certo tipo di uomini; stupidamente, poiché invece dovrebbero vederne gli aspetti costruttivi. Come uomo sono stato e sono tuttora convinto che le donne abbiano ancora tanto da insegnarci. – Per alcuni il ’68 è stato un movimento utopistico che fondava il suo obiettivo sulla realizzazione di uno stato comunitario, idealizzato, appartenente sia all’idea cristiana che a quella comunista, e dunque senza sostanziale novità propositiva. Secondo altri è stata una protesta esistenziale e politica che ha contribuito alla modernizzazione del paese. Con la nascita del capitalismo sono nati nuovi motivi di riflessione, critiche, proposte, in ambito sociale. In particolare nel dopoguerra la società dei consumi e una sorta di gerarchizzazione della società avevano creato delle discrepanze sociali; problemi che si pensava la politica riuscisse a risolvere attuando la modernizzazione del paese. Ma non fu così o lo fu solo in piccola
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parte. Questa impossibilità di dialogo diede campo alla rivolta, ai movimenti di protesta. Probabilmente se le istituzioni fossero state più attente al rispetto e all’ascolto le cose sarebbero andate diversamente. E dunque il ’68 è il momento in cui le problematiche già presenti negli anni precedenti arrivano diciamo così a maturazione. Vengono a convergere varie forme di contestazione e di crisi sociale. Questo insieme ha creato nelle molteplici anime protestatarie una capacità d’intesa, una unione ideale che ha inciso nelle scelte future, ha cambiato il modo di vedere, di pensare, in una parola ha svecchiato la società. Non è tanto la rivolta in se stessa che riuscì ad attuare, creando focolai di ribellione che però non furono duraturi; è l’aver determinato un’esigenza, uno spirito rivoluzionario, dilagato ben oltre i confini nazionali, assumendo caratteristiche per un verso legate alle esigenze e storie locali, dall’altro con un fondo affine. Quindi un movimento universale e insieme specifico alle varie realtà ed etnie, coinvolgendo nazioni le più disparate; città e paesi, centri e periferie; ha intersecato tutte le fasce sociali; in altre parole c’è stata una presa di coscienza dell’appartenenza della umanità a uno stesso ceppo comune. E questo ha prodotto riflessioni, autocritiche, e la percezione dei limiti umani dovuti al razzismo, al conservatorismo, con il risultato di paletti condizionanti: sesso, religione, censo e così via. Questo è un aspetto di quel movimento, ma poi esso si è articolato in forme più complesse ed estreme. Non sempre giustificate. – Intanto la presa di coscienza di cui parli non è poca cosa. Anche perché, per quanto poi la storia, le resistenze e le ostilità portino indietro spesso le lancette dell’orologio, nel momento in cui un processo è innescato, evoluzioni av-
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vengono, a dispetto di tutto. In quanto poi a una visione più completa del movimento sessantottino, è difficilissimo formularla, ma una cosa è chiara: quella stagione fu provocatoria. Arrivò ad azioni e formule eccessive, anche perché una serie di urgenze di cambiamento, oramai nell’aria, oramai inderogabili, non vennero ascoltate. – Non ci fu dialogo fra differenti generazioni, differenti mondi sociali e culturali, fra esigenza di sincerità e arroccamento nell’orbita dell’opportunismo e della conservazione di benefici acquisiti. A dispetto di ogni richiesta di condivisione sociale. Nacquero tendenze e definizioni come «controsocietà», «controcultura», termini amati dalla contestazione giovanile, in pratica una critica all’immobilismo delle istituzioni, all’autoritarismo, ma anche all’ipocrisia borghese e ai suoi canoni standard, in un contesto di incitamento derivato dalla volontà di affermare un tipo di cultura meno istituzionalizzata e meno accademica. – E così molta parte dell’opinione pubblica si rivoltò contro e perfino azioni spiritose come offrire fiori ai poliziotti furono viste e trattate nel peggiore dei modi. I beat hippies furono descritti come portatori di un degrado morale pericolosissimo. Ed erano movimenti non violenti. La stampa gonfiò, la polizia attaccò. – Ma tu come hai vissuto questo momento, qual è la tua personale esperienza? – La Sorbona a Parigi, che ho frequentato, è stato un epicentro del fenomeno, un punto di riferimento basilare, e ha avuto valore formativo non solo per me. Le ambientazioni, le frequentazioni della mia famiglia, la visione di apertura, di riesame culturale e sociale, avevano creato già le premesse per la comprensione e la valutazione del fenomeno. Direi
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che il Sessantotto simbolicamente si strutturava con la mia personalità, non negli aspetti violenti, degeneranti, piuttosto nelle rivendicazioni di giustizia, nell’autonomia di pensiero, nella condivisione al mutamento. E il tuo Sessantotto com’è stato? – Soprattutto legato al mio ruolo di docente. Da non molto laureata, mi sono trovata a insegnare in una scuola media statale, in sostanza come fosse privata poiché le famiglie abbienti dei dintorni non mandavano i loro figli in una struttura frequentata da ragazzi provenienti da un convitto per famiglie disagiate. L’impatto è stato traumatico e ho compreso moltissimo delle frustrazioni, delle solitudini, dei complessi di quei ragazzi nei quali a volte cresceva una sorta di animosità, ma più spesso un atteggiamento rinunciatario. Non molto dopo il libro di don Milani, Lettera a una professoressa, è venuto a completare il mio percorso di sensibilizzazione. In seguito volli affiancare don Cubattoli che era il sacerdote delle carceri di Sollicciano. Ho fatto ben poco, ma lo ho aiutato in alcune pratiche per restituire alla società alcuni detenuti con a carico reati minimi, affrancati da un pezzo e che però non riuscivano a ottenere piena riabilitazione. Per il resto mi sono impegnata a creare negli alunni uno spirito critico, anticlassista, antirazzista, a formare coscienza sociale, educare alla tolleranza. Il Sessantotto a Firenze ha creato momenti di tensione e scontro sociale. L’Università era in ebollizione. Pur comprendendo che alla fine ci sarebbe stato un progresso a livello di assunzione di responsabilità e crescita civile, non ho mai condiviso esasperazioni ed estremismi. – Le esasperazioni non si possono evitare in periodi nei quali, come in quello che andiamo esaminando, si crea una
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specie di finale di partita, i nodi vengono al pettine. Ciò che è stato visto come una svolta storica, l’inizio della modernizzazione, è la conclusione di una crisi trasversale a molte e disattese esigenze sociali. Poiché molti diritti assicurati a parole o in leggi mai applicate andavano concretizzati, è stato necessario un formarsi di reazioni che alla fine sono confluiti nel Sessantotto. – C’era gran voglia di comunicare, allora; si cercava di divulgare idee attraverso i viaggi e il dialogo. C’era la diffusione di scritti, opuscoli. Il gusto del leggerli e del confrontarsi. E poi si tentava di coinvolgere per mezzo della radio e i mezzi audiovisivi. Con tutte le differenze del caso si riprese l’idea della «repubblica delle lettere» cara all’Illuminismo, nel senso proprio di realizzare una piattaforma comune di conoscenza e obiettivi da espandere. Certo una maggiore gradualità, ove fosse stata possibile, avrebbe creato una maturità psicologica e organizzativa capace di reggere nel tempo e rivelarsi meno traumatica e violenta. Molti studiosi lo sostengono. Volere tutto in una volta è stato come volere la luna. – Inizialmente cosa si chiedeva? Che gli ordinamenti istituzionali venissero modificati e che si desse spazio a formule comunitarie non dipendenti dal tipo di società elitaria in essere. Una diversa strutturazione delle gerarchie sociali, soprattutto il ridimensionamento di quelle accademiche. Il differente concetto di partecipazione politica, legata a formule più esistenziali, luoghi in cui s’inseriscono sentimenti, emozioni («mettete fiori nei vostri cannoni»; «fate l’amore non fate la guerra»), non più solo sistema di governo, diede vita a un nuovo tipo di approccio, di complicità sociale. Non dimentichiamo il clima che si era venuto a creare in
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quegli anni con l’assassinio di Bob Kennedy e Martin Luther King. Durante le Olimpiadi di Città del Messico gli atleti di colore americani salutarono col pugno chiuso. E poi la già citata questione vietnamita, con la strage americana. A differenza di queste notizie che sconvolsero il mondo (e aggiungiamo la rivoluzione culturale cinese), le proteste giovanili e specie studentesche ebbero scarsa visibilità. Vennero prese inizialmente sottogamba. E dunque questa indifferenza di fronte al problema, con poche eccezioni, alimentò l’insoddisfazione e l’esigenza di visibilità. Il riferimento degli studenti fu anche verso ciò che avveniva in Algeria, ma anche a Cuba. Si comprendeva, per rispondere al tuo interrogativo, che bisognava fare in fretta perché veniva il giusto sospetto che le richieste, viste come utopistiche (ricordiamoci dello slogan «siate realisti, chiedete l’impossibile»), se non si fossero irradiate velocemente, sarebbero state fagocitate dal sistema capitalistico. Un sistema poggiato sulla capacità di persuasione attraverso miraggi di benessere, di tutto quello che sappiamo senza dover aggiungere più di tanto, col pericolo di creare un’apatia assai deleteria. Per questo si cercò di diffondere velocemente il movimento di contestazione. Per questo, io credo, esso si allargò includendo, oltre a studenti e operai, anche marxisti-leninisti, filo-maoisti, anarchici, insomma una serie di movimenti extra-sistemici. – I fatti di valle Giulia, nel clima sessantottino sopraccennato, ebbero varie forme di interpretazione. Pier Paolo Pasolini non apprezzò la violenza dei giovani universitari benestanti contro una polizia inviata a bloccarli. Gli parve un sopruso all’incontrario. Tu come la vedi?
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– Ne discussi allora con mio padre e la vedevamo alquanto alla stessa maniera. Per cui affiderei questa risposta a un articolo che lui scrisse sul quotidiano «Paese sera» l’8 maggio 1969, come risposta alla posizione critica di Pasolini. L’articolo aveva come titolo Il regista Rossellini giudica (e assolve) la rivolta giovanile. Non posso fare la sintesi di un testo piuttosto articolato, ne accenno parzialmente. Mio padre nota che per alcuni la protesta giovanile è ingiustificata e ingiustificabile. In realtà se i giovani si agitano, al di là di motivi organizzativi e programmatici, vuol dire che vivono un disagio interiore molto più complesso di quello che riescono a esprimere. Se il progresso assicura un sempre maggiore dominio sulla natura, proprio l’ampliarsi della conoscenza dovrebbe essere di utilità generale; e invece spesso i governi lo rendono inefficace poiché più che una diffusione omogenea dei benefici si adoperano a produrre caste, privilegi, disuguaglianze. La crescita demografica legata a un maggiore benessere e ai benefici del progresso scientifico contro la malattia e la morte, proprio in quanto legata alle disuguaglianze, porta a conflitti sempre maggiori, comprese le guerre civili e alimenta sistematicamente la violenza. La quale nasce da distorte valutazioni dei valori umani e morali. Restringendo il campo all’analisi del problema giovanile, mio padre nota come l’essere giovane è stato da sempre ostacolato in quella che dovrebbe essere l’armonia della sua evoluzione psicofisica. Sembra che gli adulti temano a priori la ventata innovativa, spesso turbolenta, che proviene dai giovani. Sicché impone a essi dei gravami tremendi, sforzi, fatiche, forme coattive di apprendistato, limiti di ogni genere. Pur essendo lontani dai tempi in cui la patria potestà preve-
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deva anche l’infanticidio, o quando le iniziazioni erano torture e si esigevano prove terribili per essere ammessi nel mondo degli adulti, persiste anche oggi la pratica «punitiva» verso chi, per la vitalità tipica del tempo giovane, infastidisce il tran tran in cui gli adulti si sono acquattati. I giovani sono alla ricerca di saggezza e non la trovano. Dotati di maggiore cultura, hanno compreso che oggi la partita si gioca fra educazione e catastrofe e che la cultura è una forza, come le idee, che non si può fermare. Come non si è fermato il cammino delle rivendicazioni femminili. Se i vecchi non si arroccassero nelle loro posizioni, i giovani si esprimerebbero con minore violenza. Se le migliorate condizioni sociali e le conquiste della scienza venissero vissute non come conflitto ma collaborazione, si potrebbe affrontare insieme l’avventura delle scoperte scientifiche e di un sistema sociale più giusto. Ecco dunque che la rivolta giovanile ha un suo perché e non va soffocata, ma c’è bisogno di raffronto, proprio perché le idee pur calpestate proseguono per la loro strada. – C’è chi concorda con le tesi di tuo padre. Fra essi il sindacalista Vittorio Foa che nella valutazione di Pasolini verso i giovani dalle «facce di figli di papà» vide una concezione immobilistica della lotta di classe. Io ho i miei distinguo. Comunque le manifestazioni studentesche effettivamente sono il polso di una situazione, rivelando il volto di un disagio che esplode spesso grazie appunto all’irruenza dei giovani, in genere giovani dotati di istruzione, riconfermando il ruolo pilota della cultura. Detto questo vorrei osservare che il malessere era già in atto da anni e già nel luglio del ’60 a Genova gruppi studenteschi e anche operai si opposero con decisione a un congresso del Movimento Sociale Italiano: i famosi ragazzi
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«con le magliette a strisce» vendute sui banchi del mercato, e che volevano indicare l’uniformità delle idee indipendentemente dalle classi sociali. La generazione che manifestava era quella nata nel tempo di guerra o immediatamente dopo. Il disagio era trasversale alle classi sociali. C’erano state la seconda grande migrazione dal Sud al Nord e la difficoltà d’inserimento se non l’emarginazione di molti meridionali. I salari erano molto bassi, i sindacati poco presenti. Molti ex partigiani non si sentivano rappresentati, giudicando anche le forze di sinistra in combutta con gli industriali i quali, pur usufruendo di enormi finanziamenti dovuti al piano Marshall, non avevano creato condizioni favorevoli ai lavoratori. La classe borghese viveva paga del suo benessere. A questi giovani appariva corrotta, così come il governo appariva autoritario e poco aperto alle innovazioni e alle nuove esigenze democratiche. I giovani con le magliette a strisce si moltiplicarono, dimostrarono in molte città d’Italia al punto da ottenere la caduta del governo Tambroni, sorretto dai fascisti, che venne sostituito da Forlani. In quel periodo nacque a Genova una canzone: «Fascisti e missini / con a capo Michelini / appoggiati da Tambroni / la facevan da padroni. / E poi, poi / ci chiamavan teddy boys… ». I giovani ebbero un ruolo importante, contribuendo ad avviare una serie di riflessioni, confronti, che porteranno infine alla crisi del ’68. Mi sembrava giusto questo sguardo retrospettivo perché la storia è questa: una serie di concause. E a proposito di cause ed effetti, quale ruolo ebbe la televisione? – Un ruolo enorme di aggregazione delle varie realtà. Attraverso la televisione si realizzava l’unificazione della lingua italiana, ma anche lo sdoganamento di chiusure, mentalità. Un processo lento, ma inarrestabile. Fu a quel tempo
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che ancor più assiomatica parve a mio padre l’enorme funzione didattica, formativa, del mezzo televisivo. Fu veramente fra i primi, in quanto fin dall’inizio si tentava di usare questo potente mezzo di comunicazione a livello di passatempo, utilità commerciale, allineamento mentale. Uno dei pericoli veniva dalla cultura americana in gran parte edonistica. Lui se ne accorse subito. – Ci furono alcuni registi dell’epoca, oltre a tuo padre, che offrirono spunti critici di riflessione. Penso a La dolce vita di Fellini che è testimonianza del clima di denuncia del deterioramento del ceto borghese. – Questo ha determinato la crisi culturale della borghesia italiana che ha smesso di essere il ceto trainante delle trasformazioni sociali, poiché ne sono stati evidenziati il malcostume, lo scarso senso etico. Questa analisi critica veicolata da messaggi di vario genere (è stato quello il periodo di più grande diffusione di volantini, libri, riviste e radio libere), per quanto poi siano avvenute inversioni di tendenze in campo politico e sociale, è diventato un modo di essere, di pensare che non ha mai smesso di diffondersi e rigenerarsi. – Proseguendo in questa indagine storica e sociale, dopo il ’68 tu parli dei «lasciti» extraparlamentari. Cosa hanno prodotto? Certamente hanno avuto un ruolo determinante; oggi cosa ne resta? Se l’intreccio fra Terzo Mondo, i conflitti a esso inerenti (soprattutto il Vietnam), le rivendicazioni studentesche, i movimenti di liberazione nazionale sono alla base della formazione dei gruppi extraparlamentari, come poi la situazione si è evoluta? – Un fenomeno così complesso non si può esaurire in poche battute. Sul piano storico la nascita dei gruppi extra-
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parlamentari avviene nel ’69, che è l’anno definito dell’autunno caldo: autunno di scioperi, attentati, Mirafiori, piazza Fontana, una strage quella da cui parte la strategia della tensione. Molto diffusa è la «guerriglia di fabbrica». Una sinistra più radicale si sente meno rappresentata dall’URSS e si avvicina alla Cina di Mao, così come prosegue il fascino emanato da Che Guevara la cui figura e la cui azione rivoluzionaria divengono coincidenti con l’urgenza di cambiamento radicale della società che l’Occidente e l’Italia vivono. È una sinistra composta soprattutto di giovani. Tutta la penisola è percorsa da proteste studentesche e operaie. In questo modo si passa da una insubordinazione legata a richieste di svecchiamento a una forma che diviene progressivamente politica. Un nuovo «ceto politico». – Quali frutti portarono queste contestazioni? – La riforma universitaria, le contrattazioni aziendali e altro ancora. Se cambia la mentalità molte cose cambiano. La rivoluzione più incisiva è proprio quella di una nuova coscienza individuale. Nasce per esempio una visione molto più solidale e universalistica della società. – È questo che cercavi di raggiungere attraverso l’azione all’interno del movimento di Avanguardia Operaia che mi pare tendesse più di altri gruppi extraparlamentari a creare un ponte fra intellettuali, studenti e operai? – Avanguardia Operaia si formò intorno al ’68 e, da Milano, divenne un movimento nazionale. Confluendo in essa molti gruppi e circoli, si frazionò anche ideologicamente. Certo, sì, a una faccia più rivoluzionaria faceva da contraltare un atteggiamento che vedeva come possibilità il confluire dei movimenti studentesco e operaio all’interno di un pro-
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cesso costruttivo, propositivo più che di rottura e di opposizione. Massimo Gorla, uno dei suoi fondatori e responsabile dei rapporti internazionali, aveva sentito parlare di me e chiese di conoscermi. Mi cooptò nell’Organizzazione Comunista Avanguardia Operaia e mi volle al suo fianco nella Commissione Internazionale. Certamente allora la frantumazione della sinistra extraparlamentare mi faceva soffrire e spingevo per riunificare almeno le tre principali componenti: AO (Avanguardia Operaia), LC (Lotta Continua) e «il Manifesto». – E riuscisti a ottenere una qualche riunificazione? – «Settarismo e frazionismo malattie infantili del socialismo» e anche gli atteggiamenti divistici dei leaderini non aiutavano all’unità. E così io inventai, ispirandomi a Dario Fo, i Circoli Culturali La Comune di Roma, che divennero nazionali, dei quali entrarono a far parte Avanguardia Operaia, «il Manifesto» e altre piccole componenti della sinistra extraparlamentare; ma Lotta Continua no, creò i suoi Circoli Ottobre. Fu il massimo contributo che riuscii a dare all’unificazione delle sinistre. – E poi da Avanguardia Operaia la parte più moderata passò a Democrazia Proletaria: è stato il percorso tuo e di molti, mi pare anche di Pierluigi Bersani. – Chi di noi credeva in una partecipazione più concreta alla vita politica si adoperò in tal senso, fino ad arrivare nel ’75 a scegliere di entrare a far parte, come partito, delle attività parlamentari, dunque all’interno delle istituzioni. A quell’epoca i principali movimenti della sinistra italiana extraparlamentare erano Partito di Unità Proletaria per il Comunismo (PdUP per il Comunismo), Avanguardia Ope-
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raia (AO) e il Movimento Lavoratori per il Socialismo (MLS, già Movimento Studentesco, MS). Aderirono poi anche Lotta Continua e altri gruppi minori. Fu un bel passo avanti. Nel ’78 Democrazia Proletaria divenne un partito. – E quali istanze portò avanti? – Molte. A livello sindacale cercò di sensibilizzare a una maggiore equità nel rapporto dipendenti-datori di lavoro. Si adoperò perché i cittadini avessero il diritto di esprimersi su temi importanti come l’installazione di missili, l’equità fiscale. Si unì ad altre forze politiche nei referendum antinuclearisti, contribuendo all’abbandono del nucleare in Italia e altro ancora. – La locuzione «villaggio globale», che McLuhan usò per la prima volta nel ’64, parlando del passaggio dall’era della meccanica a quella elettrica, e poi a quella elettronica, vuole indicare un modo nuovo di essere del mondo. Effettivamente soprattutto grazie a Internet c’è stata una tale accelerazione e semplificazione del comunicare tra esseri umani che oggi questa locuzione da un lato sembra definire un mondo rimpicciolito ed esplorabile come un villaggio, dall’altro un intreccio di villaggi i cui confini sono stati abbattuti e dunque non ci sono più steccati di spazio; eppure non si possono ignorare gli steccati di idee, di tradizioni e molte altre cose che dividono. Dico questo perché quando si guarda a come, a livello emotivo e partecipativo, in quel tempo venne incluso esistenzialmente il vissuto di tante realtà politiche ed economiche mondiali, non pensi che il cosiddetto globalismo possa avere mosso allora i primi veri passi? Passi che poi sono stati deviati verso forme anche strumentali? Ma la ventata universalistica (che investe fra l’altro la dimensione filosofica e mistica per-
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fino), non proviene da lì anche se può sembrare un controsenso? – Il termine globalismo era in uso già ai primi del ’900, ma certo fra gli anni ’60 e ’70 prese piede e si diffuse nel linguaggio. Il fatto è che i metodi tradizionali atti a capire e risolvere i problemi politici, economici, culturali, in un mondo divenuto sempre più interdipendente, erano inadeguati. Dal ’68 al ’78, dieci anni così decisivi, che hanno sconvolto il mondo, il ruolo della TV e dei mezzi di comunicazione, che mostra in contemporanea realtà le più disparate: Stati Uniti, Cina, Giappone, Germania, Francia, America Latina, Medio Oriente e chi ne ha più ne metta, realtà comunque legate da esigenze comuni e richieste che per la prima volta rendono protagonisti sia il mondo giovane che quello della classe lavoratrice, è stato così determinante, che la teoria di McLuhan del nostro pianeta divenuto un «villaggio globale», è plausibile. Gli anni che vengono dopo il ’68 rendono sempre più consapevoli di un comune destino, e questo è dovuto alla circolarità della comunicazione. Che però non risolve i problemi, nel senso che c’è una tale diversità fra gli ordinamenti sociali, le risorse e le ripartizioni in economia, e poi differenze culturali, che il discorso è molto articolato. Ci porterebbe troppo lontano. – Sì, certo. E poi col passare degli anni anche il significato di questo termine muta dando origine a una serie di teorie contrapposte, tra i globalisti e gli scettici che vi scorgono una logica espansionistica a vantaggio dell’imperialismo occidentale. Ma rimanendo all’interno del nostro percorso storico riferito ai movimenti di protesta, l’importanza delle forme di comunicazione che si ramificano in ogni piccola o grande strut-
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tura e sono molto personalizzate producono una tale diversità di vedute, protagonismi, che il clima si arroventa e diviene sempre più violento. C’è in questo una responsabilità degli intellettuali? Il nuovo movimento che nasce nel 1975, e che vive questo clima così critico verso i modelli precedenti fortemente ideologizzati, le cui ritualità paiono superate, come la tradizione dell’internazionalismo, del volontariato, da dove trae origine e dove porta? – Sono le espressioni degli extraparlamentari a non convincere più. I «gruppi», le gerarchie, insomma l’insieme di strutturazioni su cui era basato il tipo di contestazione precedente, entrano in crisi. Gli intellettuali forse non hanno compreso come i loro eccessivi sofismi, gl’individualismi e le forti insofferenze concorrevano a produrre uno stato di notevole apprensione nel mondo imprenditoriale e questo determinò forme repressive e altre forme di contenimento che furono alla base di molti episodi tra il ’75 e il ’77. Contemporaneamente la lungimiranza, che non è piccola cosa, dimostrata da molti di loro, è divenuta una piattaforma di riflessione e crescita per quella parte di giovani e meno giovani più ricettivi e impegnati. È stato quello un periodo che nel bene e nel male ha cambiato la società. A mio avviso, esasperazioni a parte, più nel bene. Una scossa che come tutte le scosse parte da un sottosuolo in ebollizione. Se avviene vuol dire che c’erano le premesse e le esigenze. – - Certo ne siamo usciti diversi. In quanto ai risultati ottenuti qualcosa rimane comunque, anche se col tempo, favorita anche dal monopolismo televisivo commerciale, da forme edonistiche che negli anni ottanta si sono molto diffuse, sono stati assolti e riproposti egoismi e conservatorismi, rendendo vani
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molti risultati della stagione contestataria. L’interesse che oggi sentiamo per quel tempo, quella stagione di apertura mentale e sociale di 40-50 anni fa, dimostra però che le coscienze ne sono ancora turbate, coinvolte. Qualcuno dice che la memorialistica di quel tempo ha attualmente un effetto soporifero, ma si sbaglia. Non a caso sorgono studi, dibattiti, approfondimenti. C’è stato un momento di risveglio, ha avuto luci e ombre, ma rimane il fatto che a distanza di tanto tempo quell’anno è stato il punto di partenza per una reale trasformazione della società.
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XIV IL CILE E SALVADOR ALLENDE
– La tua attività di documentarista ti ha portato anche in un’altra parte del mondo in cui il tentativo di un governo democratico parve concretizzarsi. Tra fine anni ’60 e inizi ’70 avesti modo di frequentare Salvator Allende, medico, soprattutto un politico, personaggio tra i più rappresentativi del ’900. Figura di spessore morale. Con lui legasti in stima con la conseguente partecipazione attiva alla vita politica cilena. E Allende venne intervistato da tuo padre che all’epoca era docente presso l’Università di Houston, e che tu chiamasti per questo incontro. – Fra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, il mio progetto di Radio Libere Democratiche e la conseguente riforma dei Sistemi di Comunicazione di Massa ebbero una vasta eco. Ne avevo parlato in varie Università e in Congressi di partito di Democrazia Proletaria. La cosa giunse in Cile, all’orecchio di Salvador Allende in Cile che volle conoscermi. Un giorno mi giunse un invito dall’ambasciatore Cileno che mi diede un biglietto aereo Roma-Santiago del Cile e una gentile lettera di Allende che mi invitava a raggiungerlo. Partii e mi ritrovai in una riunione organizzativa della campagna elettorale di Salvador Allende, nella quale si discuteva di come presentare la nuova sigla, non di partito, Unidad Po-
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pular. Intervenni dicendo cose ovvie, come: essendo gli elettori in Cile di maggioranza femminile, avere una figura femminile da affiancare ad Allende avrebbe aiutato. Cosa per me del tutto scontata, ma alla quale loro non avevano pensato. Uscii da quella riunione come consulente di Comunicazione di Massa di Unidad Popular, come è ancora scritto al Museo della Tolleranza Salvador Allende, a Santiago del Cile; dove Allende mi dà parte del merito della sua vittoria elettorale. Da allora iniziai questa collaborazione che mi portò a chiedere a mio padre di venire in Cile a conoscere Allende e a lui venne l’idea di farne un’intervista. Io avevo una troupe che stava facendo un documentario su che Cile avessero ereditato Unidad Popular e Allende. Regista del documentario era Emidio Greco e direttore della fotografia Roberto Girometti, che vennero a Santiago del Cile a fare le riprese dell’intervista. Nel materiale non montato c’è un piccolo dialogo tra mio padre e Allende nel quale papà si sorprendeva che lui vivesse a calle Thomas Moro, famoso utopista di cui Allende non sapeva niente. Quando mio padre domandò ad Allende1 come avrebbero reagito le FA (Forze Armate), se lui avesse portavo avanti il progetto di nazionalizzazione delle miniere di rame, rispose che era una domanda da fare a loro. Convocò Augusto Pinochet, che all’epoca era il capo delle Forze Armate, e quando questi entrò dove si teneva l’intervista, alla stessa domanda rispose: «Noi siamo la più vecchia democrazia del continente latino-americano e difenderemo sempre le scelte del nostro governo».
1
Il ricordo di Roberto Rossellini su Allende è in fondo al capitolo.
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– Meno male che avrebbe difeso sempre le scelte del governo! – Quando apprendemmo la notizia del golpe, destituzione e infine morte di Allende fu un vero dolore. In questa intervista Renzo Rossellini ha modo di chiarire molto del suo pensiero e della rilevanza storica di quel periodo2. D.1 Come hai assunto il controllo del gruppo italiano Operazione Verità? Hai avuto altri legami con il governo di Unità Popolare in quel momento? Chiedo perché in un articolo sul Museo della Solidarietà Salvador Allende è menzionato riguardo al fatto che per la data di Operazione Verità «Renzo Rossellini era già in Cile a consigliare il governo in materia di comunicazioni». R.1 Unità Popolare mi ha scoperto quando durante le elezioni sono andato a Santiago del Cile per valutare la campagna elettorale, spiegando alcuni metodi semplici. 1: distribuire l’elettorato nei settori, uomini, donne, di quale gruppo etnico, in un paese multietnico; e concentrare la campagna elettorale senza dimenticare di comunicare con loro. In Cile, la maggioranza degli elettori è formata da donne e bisognava includerle nei progetti, considerandole interlocutori politici. 2: riferirsi al proletariato classico, ai lavoratori e ai contadini e ai nuovi proletari, borghesi di-
2 Il testo originale dell’intervista, in castigliano, si trova presso il Museo della Tolleranza Salvator Allende a Santiago del Cile.
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venuti tali per colpa delle crisi cicliche del capitalismo. 3: i nuovi giovani elettori: offrire loro programmi di lavoro futuri. Allende era entusiasta dei miei consigli e mi ha incaricato ufficialmente di assumere la funzione di assistente nel campo della comunicazione. Quando Allende e Unità Popolare hanno vinto, ero arrabbiato per il modo in cui il mondo fuori dal Cile non capiva cosa stesse succedendo e non era in grado di prendere iniziative idonee a dare un’immagine reale del nuovo processo rivoluzionario «Revolucion sin fuciles» (Rivoluzione senza fucili). Da queste considerazioni è nata Operazione Verità. E sono stato incaricato di creare la delegazione italiana. D.2 Ricordi in collaborazione con chi hai lavorato per Operazione Verità dal Cile? A parte Trelles, ad esempio, intendo che è stato coinvolto Drago Yankovic, un cameraman che in seguito ha svolto un ruolo importante nei media sensibilizzando alla resistenza alla dittatura. E anche Manuel Cabieses, che a quel tempo era direttore di «Punto Final», una rivista legata all’Unitá Popolare. R.2 Danilo Trelles era anche molto vicino al direttore di «Punto Final» Augusto Olivares, chiamato il Cane Olivares, che morì vicino ad Allende, a La Moneda, nel giorno del colpo di stato. D.3 Quale sarebbe, secondo te, il criterio per selezionare gli invitati di Operazione Verità? Ad esempio, Corrado Corghi ricorda che si trattava di «progressisti e non comunisti» e in fondo al di fuori dei tradizionali circuiti «marxisti-leninisti», che sembrano indicare persone non allineate, anche se tra gli invitati c’erano comunisti. [I nomi che sono riuscito a compilare finora sono: nel gruppo italiano Carlo Levi, Giorgio La
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Pira, Renzo Rossellini, David Turoldo, Luigi Nono, Marcella Glisenti, Alberto Filippi, Corrado Corghi; nel gruppo della Spagna Carlos Castilla del Pino, José María Moreno Galván, José Antonio Gurriarán, Alfonso Sastre e della Francia, Gilles Martinet, Claude Julien, Francois Mitterrand y Mikis Theodorakis (esiliato greco)]. R.3. Sono stato responsabile degli italiani tra i quali ho cercato di selezionare antifascisti e, tra i comunisti, quelli che erano più indipendenti dalla politica neocolonialista sovietica. E quelli che sostenevano la tendenza eurocomunista di alleanza politica tra il grande movimento popolare socialista e i cattolici come era l’Unità Popolare. Si è trattato di aprire a scrittori come Carlo Levi, a musicisti come Luigi Nono e a un prete che aveva partecipato alla lotta armata antifascista come David Turoldo D.4 C’era un programma di attività per gli invitati di Operazione Verità? Ne ricordi qualcuno? Qualcuno è diventato una guida locale? Ci sono state attività in comune oppure ogni gruppo ha esplorato il paese da solo? Secondo la stampa dell’epoca ci sono stati incontri con sindacalisti, lavoratori rurali, una visita all’Università di Concepción e alla zona carbonifera Lota, ma allo stesso tempo è stato segnalato che l’idea era di lasciare che gli stranieri «vagassero per il paese senza ostacoli o guide di opprimente gentilezza…» L’Operazione Verità ha aperto il paese all’occhio analitico dei visitatori. R.4 Tutte le delegazioni hanno partecipato a un incontro-conferenza organizzato da Salvador Allende, in cui ciascuno ha avuto l’opportunità di porre domande al presidente Allende. Rispondendo, lui ha condiviso le informazioni e nello stesso tempo ha indicato le cose che le
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delegazioni hanno da vedere e testimoniare. Alla fine di questa conferenza, tutti conoscevano gli obiettivi ed era facile organizzare il lavoro della delegazione. D.5 La lettura dell’intervista a Salvator Allende, La forza e la ragione, è incompleta [Non ho visto il documentario, ma attraverso una versione on-line dell’intervista, mi rendo conto di quel che è stato mostrato sulla televisione italiana nel settembre del 1973] e mostra solo l’intervista tra tuo padre e Allende avvenuta nel maggio del 1971. Cosa è successo al materiale che hai girato con il team di documentaristi con cui hai lavorato in Cile? Quel progetto di documentario, quindi, faceva parte del tuo lavoro per Operazione Verità? Ti ricordi se la squadra ha filmato qualcuna delle attività di Operazione Verità? R.5 Non dobbiamo dimenticare che contro Allende c’erano gli Stati Uniti e la CIA che controllavano i mezzi di comunicazione del pianeta. L’intervista di mio padre con Allende non fu mai mostrata in televisione fino al settembre del 1973 dopo il colpo di stato e dopo che Allende fu ucciso. Il materiale documentario girato dalla mia squadra sparì misteriosamente dal laboratorio dove c’era un film negativo di 16 millimetri. D.6 Durante la tua visita, hai avuto contatti con persone del mondo del cinema e della comunicazione in Cile? In seguito hai avuto contatti con persone legate al cinema politico in o sul Cile e alla resistenza alla dittatura cilena? [Ho letto, per esempio, la menzione del legame della San Diego con l’argentino Jorge Giannoni e la sua collaborazione nei film Palestina, Un altro Vietnam e Bolivia al tempo dei generali, ma sfortunatamente non ho potuto vederli].
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R.6 Mentre ero in Cile, in Brasile fu rapito l’ambasciatore americano di Brasilia e fu rilasciato dietro la liberazione di alcuni rivoluzionari brasiliani; erano 33, ma nessun paese desiderava ricevere e dare ospitalità a questi terroristi brasiliani e consigliai ad Allende di accoglierli in Cile. Arrivati in Cile, vi rimasero fino al colpo di stato. E al golpe si ritirarono nell’ambasciata italiana che li mandò in Italia dove li ho tenuti in una grande casa vicino a Roma. Lì rimasero per quasi un anno e a poco a poco poterono stabilirsi in altri stati europei che avevano cominciato a ospitare i cileni fuggiti dal Cile. *** Roberto Rossellini traccia un profilo di Salvador Allende in occasione della sua morte3. Un vero uomo. Nella primavera del ’71 Allende aveva promosso l’operazione che si chiamava verdad, l’operazione verità. Aveva invitato personalità da tutte le parti del mondo perché si recassero a Santiago a vedere e toccare con mano l’autentica realtà cilena e il tentativo democratico di sviluppo socialista in Cile. Mio figlio Renzo in quell’occasione andò laggiù e io lo pregai di farsi latore di una mia preghiera: avrei amato incontrare Allende e avere un’intervista con lui. Allende mi fece sapere che sarebbe stato lieto d’incontrarmi e così ai primi di maggio andai in Cile. I miei incontri con lui si sono sempre svolti nella sua casa
3
R. ROSSELLINI, in «Paese sera», 16 settembre 1973.
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privata. Egli abitava in via Tommaso Moro e, una sera a cena, gli ho parlato di Tommaso Moro l’utopista, gli ho parlato dell’idea generale di utopia. Allende era molto interessato. Conosceva Tommaso Moro, ma non ne aveva letto tutte le opere, non ci aveva ripensato su. Chiamò uno dei suoi segretari e gli chiese di prendere tutto quello che si trovava su Tommaso Moro. Gli premeva approfondire, sapere cosa avesse veramente detto l’autore di Utopia. Era un uomo così, intellettualmente curioso e mai pago. Si sentiva benissimo che questo non era un atteggiamento di civetteria, ma anzi l’affermazione di tutto quanto stava a fondamento del suo pensiero e del suo modo di vedere l’umanità; l’uomo conta per la sua intelligenza, per la sua capacità d’intendere, per la sua capacità di essere veramente cosciente: di lì il tentativo di uscire dalle passioni. Prendiamo per esempio il suo modo di vestire: egli era sempre molto curato, portava belle cravatte e belle camicie. Quel che si dice un uomo ben assestato. Secondo me è logico che il modo di vestire finisca per far trasparire quella che è la passione di un uomo: un uomo si veste da rivoluzionario, da conservatore, da raffinato, cioè si camuffa. In Allende il modo di restare legato ai dettami di una moda assolutamente tradizionale rappresentava la cancellazione della fantasia per esprimere invece tutto ciò che c’è e ci può essere di razionale. Alle pareti della sua camera da pranzo, per esempio, teneva due piccoli quadri di Matta, che è un pittore cileno ben noto in tutto il mondo, un pittore che dipinge nel suo modo le interiora, le vesciche, le budella, le reni e cose di questo genere. Gli ho chiesto di Matta: Matta non gli piaceva. Gli piacevano altri pittori cileni. Aveva difatti altri quadri ed erano quadri
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estremamente composti, estremamente realistici nei quali l’atmosfera, perfino la trasparenza dell’aria del paese erano accuratamente annotate. Cioè anche dai suoi gusti emergevano la sua idea e le sue radici socialiste. In questo particolare mi trovo facilmente d’accordo con Allende; perché io capisco, per esempio, Palizzi e non riesco a intendere, per scendere ad un altro esempio, Mirò. Con Allende ho conosciuto alcuni dei suoi collaboratori. Essi appartenevano proprio a quel tipo di uomini che si comprende subito che sono un pochino differenti da quelli che s’incontrano normalmente. Avevano tutti quanti questo aspetto, che ho detto, di borghesi, magari di piccoli borghesi normalissimi e tutti erano poi nei fatti animati da una grande passione, da un grande ideale. Io personalmente non credo affatto alla tesi del suicidio di Allende perché egli era troppo cosciente dei suoi doveri e delle speranze ch’erano riposte in lui. Egli sapeva benissimo – io ne sono convinto – che per poter arrivare all’affermazione delle proprie idee bisogna spingersi a tutti gli estremi dell’eroismo, compresa la morte violenta. L’ipotesi del suicidio è con ciò stesso da scartarsi. D’altra parte la versione dei militari desta immediatamente una quantità di sospetti. Il suicidio implicitamente può suggerire l’impressione che Allende si sia sentito in colpa ed invece era uomo che ha lottato fino all’ultimo secondo con la consapevolezza di essere non già in colpa, ma di svolgere un ruolo di grande importanza umana. E credo ancora che chi sostiene la tesi del suicidio voglia dire con ciò che l’eventuale successione di Allende si apre in un altro modo. Suicidarsi significa rinunciare; essere morto ammazzato significa qualcosa di ben diverso, cioè essere sparito in un incidente,
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talché l’eredità del movimento di Allende dovrebbe essere ripresa dalle persone a cui la Costituzione attribuisce questa funzione successoria. Si tratta di sospetti che si sentono da lontano, anche in mancanza di informazioni precise. Mi sembra che un giorno, parlando e distinguendo tra furberia e intelligenza – si fa sempre una gran confusione a questo proposito: si dice che un uomo furbo è molto intelligente, mentre il furbo non ha niente a vedere con l’intelligenza – chiesi ad Allende se sapeva perché Sisifo era stato condannato a portare quell’enorme masso che si sa in cima al monte dopo di che il masso ricrollava a valle. Andavo io sostenendo che la condanna di Sisifo era venuta dagli dei perché Sisifo era per l’appunto uno scaltro. Condannare Sisifo equivaleva a condannare la scaltrezza. Con la scaltrezza non si costruisce niente: si costruisce provvisoriamente, ci si crea delle illusioni, poi tutto crolla di nuovo a valle. Davanti a queste mie idee Allende sorrideva. Egli con la sua azione dimostrava di essere dall’altra parte e di voler agire in maniera che con l’esempio gli uomini potessero sviluppare la propria capacità di pensare e di discernere, cioè di essere coscienti e intelligenti.
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XV LA TRAGICA VICENDA DI ALDO MORO
– Tra le molte vicende tragiche che hanno sconvolto l’Italia del ’900, rimane una ferita particolare, un vulnus che ci riguarda tutti e crea sconcerto poiché da anni cerchiamo inutilmente di conoscere tutta la verità. Parlo del caso Moro. Di esso si è parlato tanto, e anche tu ne sei stato giornalisticamente coinvolto. Tre o quattro anni prima avevi fondato Radio Città Futura, la prima emittente libera italiana. Si associarono a te l’editore Giulio Savelli, i collettivi femministi, Avanguardia Operaia, il partito di Unità Proletaria per il Comunismo. Non molto dopo divenisti presidente delle Radio Emittenti Democratiche. Non eri un personaggio che passava inosservato. E dunque, quando la mattina del 16 marzo 1978 annunciasti via radio, con circa un’ora d’anticipo sul rapimento di Aldo Moro, che stava per verificarsi un avvenimento clamoroso, si pensò a un tuo coinvolgimento. Hai ripetutamente detto negli anni che avresti meritato di divenire socio onorario della Commissione Moro, per le tante volte in cui sei stato convocato. Vuoi raccontare ancora una volta? Tu stesso hai chiarito che non fu preveggenza. – Ricordo che RCF (Radio Città Futura) fu fondata nel 1975, tre anni prima del caso Moro. Le Commissioni avvicendatesi sulla strage di via Fani hanno molto indagato, si
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sono avvicinate alla verità, ma poi hanno seguito tracce sbagliate. Depistaggio? Mancanza di coraggio? In quanto a me, non si trattò di una soffiata, come qualcuno sosteneva, ma di un’analisi semplice e pura. Io aprivo la Radio ogni mattina con una rassegna stampa, ero il primo ad arrivare, i compagni erano meno mattinieri o meno disciplinati. Quel 16 marzo 1978 si votava in Parlamento un governo con l’astensione del PCI, di fatto nella maggioranza. Il giuramento di Moro, che sarebbe avvenuto, appunto, quella mattina, avrebbe determinato il concretizzarsi del compromesso storico. – Se permetti spiego di che si tratta. Il compromesso storico indica il tentativo in Italia, negli anni ’70, di cooperazione tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano. La proposta era stata fatta dal segretario del Partito Comunista Italiano, Enrico Berlinguer, alla Democrazia Cristiana per una collaborazione di governo (aperta ad altre forze democratiche), interrompendo l’esclusione di quello che era di fatto il secondo partito italiano. In questo tentativo c’era anche la volontà di superamento della deriva autoritaria che le tensioni politiche dal ’68 in poi avrebbero potuto determinare. Berlinguer tendeva inoltre a una sorta di autonomia da parte dei comunisti italiani nei riguardi dell’Unione Sovietica. C’era insita un’idea di eurocomunismo che creò scetticismo nell’area più estrema del partito. Il compromesso storico non piacque al Partito Socialista Italiano e in particolare a Bettino Craxi e Riccardo Lombardi, che temevano la marginalizzazione del PSI e la impossibilità di un’alternativa di sinistra che portasse il PCI al governo, ma con la guida dei socialisti. Al contrario favorevoli furono Aldo Moro, allora presidente della DC, e Beniamino Zaccagnini che ne era il segretario. Contrario rimase Giulio
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Andreotti, anche se poi alla fine un minimo compromesso venne raggiunto con l’appoggio esterno che il PCI assicurò al governo di Solidarietà Nazionale che Andreotti costituì nel 1976. Ma l’ala sinistra del PCI non accettò questa situazione. In quanto ai terroristi delle Brigate Rosse, il giorno del primo dibattito sulla fiducia al nuovo governo Andreotti IV, cioè il 16 marzo 1978, rapirono Aldo Moro. – Aldo Moro in quanto presidente della DC. Chi voleva impedirlo sapeva che, eliminato Moro, la situazione sarebbe entrata in fase di stallo. Al microfono dissi che quello era il giorno più pericoloso e adatto a una provocazione delle Brigate Rosse o dei Servizi. In precedenza lo avevo detto a Craxi che non mi diede retta. I fatti mi hanno dato, purtroppo, ragione; poiché le BR erano state sempre presenti in campagne elettorali o altri eventi politici con azioni terroristiche; ecco perché dissi che un’azione terroristica non era così peregrina. Ma non nominai per niente Aldo Moro, anche se un’ascoltatrice disse di avermi sentito dire: “Oggi le BR rapiranno Aldo Moro”. Da qui è nato l’equivoco. Ma poiché la trasmissione come tutte quelle di Radio Città Futura era registrata 24 ore su 24 dal Viminale e dalla Digos, fu ben chiaro che quella frase non era stata da me pronunciata. – In questi giorni, a ridosso della tragica ricorrenza dell’uccisione di Aldo Moro, è apparso su internet questo articolo: Storia della Radiotelevisione Italiana. 16 marzo 1978, Radio Città Futura e un giallo che dura da 35 anni. Veramente ora sarebbero 40 anni. Nell’articolo si ventila una tua qualche reticenza. Penso di sottoportelo. «Poco dopo le 8 del 16 marzo 1978 Renzo Rossellini (figlio del regista Roberto), conduttore e fondatore di Radio Città
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Futura (radio libera vicina all’Autonomia), lanciò dall’emittente un annuncio: “Forse rapiscono Aldo Moro”. E, mezz’ora dopo, Moro fu effettivamente rapito. L’inquietante episodio fu portato a notorietà a seguito di una segnalazione della signora Giannettino, domestica del senatore Vittorio Cervone, la quale dichiarò di avere ascoltato, circa 45 minuti prima dell’evento di via Fani, la notizia del rapimento dell’onorevole. Gli accertamenti di polizia vennero svolti dal dottor Umberto Improta, che ascoltò la signora alle ore 14 dello stesso 16 marzo e si conclusero negativamente per la “palese poca attendibilità della notizia, data verosimilmente in buona fede dalla Giannettino”, la quale, secondo gli inquirenti, nell’emozione del momento, aveva attribuito al comunicato “un orario diverso da quello che in realtà andava dato”. Tuttavia, anche altre due persone riferirono di aver sentito la (presunta) anticipazione del fatto criminoso: Rosa Zanonetti su una radio privata milanese e una donna, che volle mantenere l’anonimato, che chiamò Teleroma 56. Il giorno dopo, 17 marzo, alle 8.15, infatti, la stessa Radio Città Futura informò che era stata chiamata dai conduttori di Radio Onda Rossa di Roma (radio vicina al Movimento studentesco), alcuni dei quali il giorno prima avevano seguito una trasmissione di Teleroma 56 nel corso della quale un’ascoltatrice aveva telefonato sostenendo di aver sentito la notizia del rapimento di Moro alle 8 del mattino su RCF. A commento di questo episodio, Radio Città Futura parlò di “supposizione metafisica”. Purtroppo gli inquirenti poterono acquisire da Radio Città Futura soltanto la registrazione di una trasmissione delle ore 8.20, durata un paio di minuti, e relativa ad una manifestazione in programma a sostegno del popolo palestinese, nonché di una trasmissione
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iniziata alle ore 9.33 che, citando le notizie date dal GR 2, commentava gli avvenimenti di via Fani. Cosa davvero trasmise RCF intorno alle 8 del 16 marzo rimase e probabilmente rimarrà un mistero. Quel che incuriosisce è però il fatto che il Centro di ascolto dell’Ucigos (acronimo dell’Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali, organismo della Polizia di Stato che, tra l’altre cose, ascoltava e registrava le radio private con connotazione politica) interruppe la registrazione dalle 8:20 alle 9:33, cioè proprio a cavallo del rapimento, come in seguito fu accertato. Renzo Rossellini, venne interrogato a lungo nel corso di tre diverse sedute, ma restò sempre sul vago, ammettendo di aver solo accennato ad un’ipotesi che “circolava da più giorni negli ambienti vicini all’estrema sinistra” e cioè che le Brigate Rosse stessero “per tentare, prossimamente, forse lo stesso giorno, un’azione spettacolare”, per esempio “un attentato contro Aldo Moro”. Il 4 ottobre 1978 in un’intervista (poi smentita dallo stesso interlocutore) per il giornale francese Le Matin, Rossellini rimarcò: “Ero personalmente in onda il mattino del 16 marzo. Ho spiegato che le BR stavano, forse il giorno stesso, per tentare un’azione spettacolare. Fra le altre ipotesi annunciai la probabilità di un attentato contro Aldo Moro. 45 minuti dopo, Moro fu rapito. Io non affermavo. Era un’ipotesi. Preciso che questa ipotesi circolava negli ambienti dell’estrema sinistra. Noi sapevamo che il 16 marzo doveva presentarsi alle Camere il primo governo sostenuto dal Pci. Era evidente per noi che questa era l’occasione sognata dai brigatisti. Bisognava rapidamente, immediatamente marcare il nostro disaccordo, perché io temevo e temo sempre che una escalation della violenza abbia il risultato di criminalizzare l’insieme del movimento”. Ed an-
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cora dopo 27 anni, nel 2005: “Come andò lo ricordo abbastanza bene perché i giorni precedenti avevamo molto dibattuto su quello che stava succedendo in Italia: per la prima volta, proprio quel giorno si stava per votare un governo, il governo Andreotti, al quale il Partito Comunista avrebbe accordato l’astensione. Di fatto entrava nell’area del governo. Tutto ciò ci portava a pensare che le Brigate Rosse avrebbero avuto l’interesse e l’intenzione di manifestarsi in qualche modo. Nella rassegna stampa dissi più o meno questo”. L’altro conduttore di Radio Città Futura, Raffaele Striano, escluse la possibilità che potesse essere andata in onda una trasmissione avente i contenuti sopra riportati ed anzi precisò di avere egli stesso comunicato per telefono alla Radio la notizia, circa mezz’ora dopo il fatto, dalla redazione di Paese Sera. Da allora la radio romana è rimasta al centro di un “giallo” che dura da 35 anni. (R.R. per NL)». – L’articolo non dice tutta la verità che è emersa invece dalle commissioni stragi e dai processi Moro. Chi vuole approfondire può benissimo farlo andando alle fonti. – Si sono dette e scritte molte cose. La Relazione della Commissione Parlamentare d’inchiesta1 fa una lunga analisi delle frasi dette in quel contesto e anche di una certa discrepanza fra le tue affermazioni e quelle di Gianni De Michelis. Probabilmente una delle ragioni che crearono dubbi fu il fatto che tu all’epoca avevi una compagna, Francesca Chantal Per-
1 Cfr. Relazione sulla Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Legge del 23 novembre 1979 n. 597.)
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sonè, militante di sinistra, ritenuta vicina alle Brigate Rosse. E quindi si sospettò che potesse saperne più degli altri e averti informato. Del resto tu non hai fatto mistero delle tue supposizioni, che confidasti anche a un giornalista di «Le Matin» e cioè che nel tuo ambiente si parlava molto di un eventuale attentato delle Brigate Rosse in coincidenza con la votazione alla Camera del governo e con l’entrata del Partito Comunista nella maggioranza. Molto tempo è passato, e più di quello che si sa, non credo si saprà. Mi sembra più importante chiederti: al di là delle innumerevoli analisi di scrittori, storici, giornalisti, qual è a distanza di tanti anni la tua personale opinione? – I brigatisti uccisero tutti gli uomini della scorta e lasciarono incolume il presidente della DC. A mio avviso le Brigate Rosse erano infiltrate ed eterodirette. Dietro al caso Moro c’erano i servizi segreti deviati. Una mia fonte palestinese all’epoca, prima del sequestro Moro, mi aveva informato che, nella cittadina cecoslovacca di Karlovy Vary, luogo di produzione cinematografica e sede di un festival internazionale, dove io ero andato a presentare il mio documentario Palestina un altro Vietnam, alcuni palestinesi, che a Karlovy Vary stavano per addestrarsi in un campo militare creato dal KGB, avevano conosciuto lì un gruppo di brigatisti che si addestrava ad azioni terroristiche urbane. I terroristi delle BR, dunque, si erano preparati con i Servizi del KGB. Nel campo avevano ricostruito la strada, studiato le angolazioni di tiro e le possibili vie di fuga. L’attentato era stato preparato con troppa precisione di dettaglio per non essere una vera operazione militare. In pochi secondi più di 100 colpi sparati uccisero tutti gli uomini della scorta. Il sapere che le BR si addestrassero in un campo militare del KGB mi fece molto
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riflettere. In quanto ad Aldo Moro, l’ho già detto, lo conoscevo; l’ho incontrato più di una volta in casa di mio padre. Erano amici. Aldo Moro era presente al suo funerale e, nel farmi le condoglianze, si appartò con me parlandomi di mio padre e del suo lavoro. Era un suo grande ammiratore e mi disse che con Roma città aperta egli aveva contribuito a dare nel mondo un’immagine diversa dell’Italia. Due martiri antifascisti, un partigiano comunista e un parroco prefiguravano a suo avviso, ante litteram, il compromesso storico. – C’è chi sostiene che Moro venne portato presso l’Ambasciata cecoslovacca a Roma. – È possibile. Moro cercò di indirizzare le ricerche verso un luogo preciso. Nelle lettere dal carcere scrive di essere «sotto un dominio pieno e incontrollato». Parla non di un luogo generico, ma di un luogo come potrebbe essere un’ambasciata. – Con la creazione di Radio Città Futura quali idee, valori, volevi portare avanti? E quali esperienze sono le più memorabili? – In quel periodo tanti compagni erano tentati dalla lotta armata. Per questo volli formare una diversa mentalità giovanile. In fondo ero cambiato anch’io quando, associandomi al lavoro creativo di mio padre, smisi di essere un militante rivoluzionario che partecipava alle guerre anticoloniali. Entrando in sintonia con lui, scrivendo e realizzando serie televisive con lui, mi resi conto che non c’è un unico canale per portare avanti il nostro impegno civile. Sicché nel realizzare Radio Città Futura cercai di convogliare le tensioni verso la parola, il dialogo, e non l’azione violenta. Mi sono detto: «Perché non dare loro uno strumento per parlare,
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anziché una pistola?». Molti di loro sono divenuti ottimi giornalisti, li ritrovo nei TG Rai della notte, in politica. Anche Paolo Gentiloni, studente di Lettere presso La Sapienza, venuto da noi per raccontare i motivi dell’occupazione della facoltà, è divenuto un collaboratore. In seguito ci siamo presentati insieme alle elezioni per Democrazia Proletaria. Poiché le Brigate Rosse, per quanto mi è dato sapere, erano infiltrate dai Servizi Deviati, rientravano nello schema della strategia della tensione, ed erano legate al blocco dei Paesi dell’Est, non potevano certo amare questo mio atteggiamento. Io non ho mai fatto mistero di questa mia idea. – Le radio libere che sorsero in quel periodo, e furono molte, esprimevano quindi mentalità differenti? – Sicuramente; c’erano quelle più moderate, quelle vicine al sindacato, quelle più politicizzate, vicine ad Autonomia Operaia. Si creò una Federazione delle radio emittenti democratiche e ne divenni segretario nazionale. Un impegno che preoccupava molto mio padre e cominciò a preoccupare anche me quando mi resi conto della deriva verso la quale stava andando la parte più facinorosa. Ci furono addirittura frange estremiste di Autonomia Operaia che ci equiparavano, noi più moderati, ai poliziotti. E un giorno un gruppo armato occupò la radio e lesse un proclama dai nostri microfoni, mentre alcuni di loro ci puntavano contro le pistole. Riuscire a mettere d’accordo così diverse anime fu decisamente difficile. – Immagino. Ai facinorosi non piace la voglia di unità, di dialogo. In fondo, l’abbiamo detto, e per tua stessa ammissione, fu questo l’intento con il quale ti candidasti nel ’76 tra le file di Democrazia Proletaria, una lista unitaria delle diverse organizzazioni della nuova sinistra italiana.
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– Sì, per me un’organizzazione unitaria della nuova sinistra, come Democrazia Proletaria, è stato un sogno realizzato! Io, oltre a occuparmi della commissione esteri di Democrazia Proletaria, continuavo con la mia produzione di documentari politici. Al Festival di Karlovy Vary, in Cecoslovacchia, te l’ho già detto, portai il documentario Palestina un altro Vietnam. I palestinesi, che erano residenti lì, vennero alla proiezione e vollero conoscermi. Durante una cena con loro per festeggiare il fatto che il mio documentario aveva vinto il festival, mi parlarono dell’esistenza a Karlovy Vary di un campo d’addestramento militare del KGB, dove si addestravano loro e avevano conosciuto degli italiani delle BR che si addestravano a un’azione terroristica da compiere in una città. Questa informazione che metteva insieme BR e KGB mi fece riflettere su gli aspetti relativi a collegamenti internazionali del terrorismo italiano. Tornato in Italia ne parlai con compagni dell’area di Democrazia Proletaria e si produsse il Documento degli 11. – Qual era la struttura e quali gli obiettivi del Documento degli 11? – Con un gruppo di compagni che gravitava intorno a Radio Città Futura sentii il bisogno di stilare un documento che facesse il punto sulla situazione internazionale generata dalla Guerra fredda e dalla presenza in Italia di servizi segreti internazionali e questo documento fece scandalo perché considerava le BR un organo del KGB. – Hai analizzato, nel tuo documentario Palestina un altro Vietnam, che girasti a Beirut e presentasti qualche anno dopo al Festival di Karlovy Vary, le cause politiche più calde in quel momento di ribellione culturale e rivoluzione politica. Oggi
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vedi le cose allo stesso modo o sono avvenute modifiche sociali e politiche che ti portano a modificarne l’ottica? – Come si fa a non vederle allo stesso modo! È difficile cambiare opinione su questioni di questa portata. Tra prepotenti e le loro vittime non si può che essere schierati in difesa delle vittime. I miei documentari sono nati come strumento di informazione, come arma per difendere vittime; ho realizzato documentari con questa funzione in tre continenti.
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XVI ATTENTATI
– Una persona che non fa mistero delle proprie idee per forza di cose si espone. Sembra che gli esseri umani sappiano parlare di giustizia, di solidarietà, di tolleranza, ma poi all’atto pratico, se pensano che un qualche tipo di apertura può ledere i propri interessi, si chiudono a riccio. La tua partecipazione attiva all’azione politica, seppure mi pare in quel momento più a carattere giornalistico, doveva dar fastidio; e non meraviglia che tu abbia avuto esperienze traumatizzanti; fra esse una, il 9 gennaio del 1979. In quel giorno sei stato vittima di un agguato; per puro caso fosti risparmiato. I locali di Radio Città Futura furono presi di mira dai NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari) di matrice neofascista, che lanciarono bombe molotov e spararono colpi di mitra. Molte donne vennero gravemente ferite. – Sì, l’obiettivo ero io. Ma quella mattina, un collettivo di casalinghe gestite da Radio Donna ci aveva chiesto ospitalità per trasmettere, proprio nell’ora in cui io avrei dovuto fare la rassegna stampa. Mi fecero uscire dalla radio perché Radio Donna non ammetteva la presenza di un uomo durante le loro trasmissioni. Per questo motivo non mi trovavo nella Radio nell’ora in cui ci fu l’attentato, da me abitualmente usata per fare la rassegna stampa. Dopo questo at-
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tentato la polizia voleva mettermi sotto scorta, ma dirigere Radio Città Futura con la scorta diveniva un’impresa impossibile, perciò la rifiutai. La Digos accettò controvoglia questa mia decisione e mi fece avere un porto d’ armi. Giravo con la pistola, non in una fondina, ma nella cintura. La controllavo continuamente timoroso che scivolasse e cascasse per terra. – Gli estremisti, sia di destra che di sinistra, l’abbiamo detto, cercano la provocazione, non amano chi vuole il dialogo. Per questo fosti nel mirino anche dei brigatisti che progettarono un attentato nei tuoi riguardi. Qualcuno disse che volevano gambizzarti. O che volevano rapirti. – Mi avevano messo alle calcagna Germano Maccari con questo intento. Quando ebbi modo di incontrarlo in carcere, a Rebibbia, anni dopo, mi disse di aver desistito per essersi accorto che ero armato, perché mi giravo per controllare l’arma, ossessivamente. Mi raccontò che, fatta la relazione alla colonna romana delle BR, scoperto che ero armato, rinunciarono all’attentato. Sì, qualcuno ha parlato di rapimento. E dunque non è ben chiara la dinamica. – Alcuni commentatori osservano che è ben strano che persone come Germano Maccari e tutto il gruppo dei brigatisti, così bene addestrati, decisi, si siano preoccupati del fatto che tu fossi armato. Qual è la tua versione dei fatti, al di là della risposta di Maccari? Non credi che alla fine, in quella grande diramazione che a quel tempo presero le correnti di sinistra, finiva per esserci un territorio comune di appartenenza, un fondo di stima, che fece da deterrente? – Maccari mi disse una frase che ben ricordo: «Prima che un poliziotto reagisse, noi l’avevamo già colpito, ma un
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compagno armato poteva farci del male. E noi non volevamo rischiare». Dopo quell’incontro con Maccari, partii subito per gli Stati Uniti, quando tornai seppi che era morto in carcere. – Il protagonista dell’assalto alla Radio fu Giusva Fioravanti. Gli hai mai parlato? – Gli ho parlato, certo. E mi sono fatto l’idea che quasi tutte le azioni che sono state attribuite a lui e a Francesca Mambro, strage di Bologna compresa, sono effettivamente opera loro, anche se l’hanno sempre negato. Forse sono stati manovrati dai servizi, ma una traccia dei NAR e del neo-fascismo a Bologna c’è. – Si parla di un secondo attentato a Radio Città Futura. Qual è stata la dinamica e da chi è stato organizzato? – Il secondo attentato è stato contro un elettricista, Roberto Giunta La Spada, che usciva dal portone del palazzo dove c’era la Radio, a piazza Vittorio. Un vespone bianco con a bordo due persone gli si avvicinò e la persona sul sellino posteriore sparò tre colpi di pistola contro Roberto, che aveva l’unica colpa di somigliarmi e tutti attribuirono l’attentato diretto a me. Roberto sopravvisse, e i bossoli rinvenuti a terra erano simili a quelli ritrovati in precedenti azioni terroristiche dei NAR. Perciò anche questo tentato omicidio fu attribuito ai fascisti, Mambro e Fioravanti. – Il terzo attentato è stato devastante. – L’8 dicembre 1984. Un incidente d’auto, che anni dopo seppi essere stato un attentato, mi portò via mia moglie Lisa. Troncò un amore grandissimo. La morte di Lisa mi ha lasciato devastato. Un lunghissimo lutto che non ho ancora elaborato del tutto; vive nel mio cervello e nel mio cuore.
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Dell’incidente ricordo solo l’urlo di Lisa. Poi l’ospedale, i dolori atroci, l’infarto, le ossa rotte, le operazioni. Fui trasportato all’ospedale San Camillo con molte fratture e curato dal giovane consulente per ortopedia del reparto di Rianimazione, Gualtiero Montanari che prescrisse, per fermare l’emorragia, di mettere i femori in trazione, contro il parere del primario che sosteneva l’inutilità dell’operazione, quasi una crudeltà: «Perché metterlo a soffrire con le trazioni? Con la ferita che ha nel cuore non può avere più di due ore di vita». Montanari insisté e, mettendo in trazione i femori fratturati, mi salvò la vita! In tutta quella disperazione un po’ di conforto mi venne da un infermiere che, ascoltando la radio in guardiola, aveva sentito i compagni di Radio Città Futura che mi facevano gli auguri e me lo venne a dire. Da quel momento infermieri e portantini, che a quei tempi erano quasi tutti compagni, ebbero per me un occhio di riguardo. In quei giorni avvenne qualcosa di ignobile. Ero ancora al limite dell’incoscienza, quando il mio avvocato si presentò con un notaio e mi fece firmare delle carte. Con quell’azione venni privato, ma è senz’altro più esatto dire derubato, del frutto del mio lavoro dai miei stessi soci. A Roma ho rivisto Lisa una volta sola, in ospedale. L’ho baciata. Lei ha avuto un leggero sussulto e ha aperto un occhio. Eravamo vicinissimi, ma a me quello sguardo sembrò provenire da una distanza misteriosa e spaventosamente remota. Sono svenuto. Elisabetta, Lisa, era entrata in coma profondo e il giovane ortopedico che mi aveva salvato la vita consigliò di trasferirla al New York Hospital dove erano stati realizzati vari risvegli dal coma profondo. E così feci. Lisa venne trasferita nel reparto per comatosi e Gualtiero Montanari mi accompagnò
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dandomi la sua assistenza morale e medica. Ma dopo tre mesi sempre di coma profondo Lisa dimostrò di soffrire molto. Alla fine i medici hanno incominciato a somministrarle dosi massicce di morfina e io chiesi di aiutarla a morire, con l’accordo dei genitori di lei. Così l’aiutammo a lasciarci. Sono sicuro di aver fatto la scelta giusta! Non potevo saltare questo episodio della mia vita senza ricordare il dottor Gualtiero Montanari. Ho lasciato scritto ai miei figli di prendere la stessa decisione se mi trovassi nella stessa situazione di Lisa. Sono rimasto accanto a lei tutto il tempo. Ero certo che mi vedeva e mi ascoltava. Le parlavo del nostro amore, della nostra unione. Lisa vive dentro di me.
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XVII AFGHANISTAN
L’ impegno politico di Renzo, organizzatore e guida in Roma di cortei con bandiere rosse; cortei pacifici, dimostrativi di un’idea, erano tollerati dalla polizia che aveva rispetto per iniziative prive di spirito violento. Il piccolo Alessandro sfilava orgoglioso accanto al suo papà tutelato dal capo della polizia dottor Fabrizio. Il padre era preoccupato, temeva il suo esporsi. Ma dovette rassegnarsi. L’impegno di Renzo proseguì e quando gli si chiese di collaborare con Ahmad Shah Massoud condottiero afgano, non si tirò indietro. Era nota la sua abilità nel creare collegamenti di comunicazione; nella fattispecie dotare i gruppi di resistenza di strumenti radiofonici. Massoud era amatissimo dai combattenti islamici che lottarono contro l’invasione sovietica prima e in seguito contro il regime dei talebani. Massoud temeva la deriva dell’integralismo islamico. Non si sentiva compreso dai governi europei che pensavano lui combattesse solo per il suo Panjshir; in realtà la sua azione era rivolta a bloccare, appunto, l’espansione dell’integralismo islamico scatenato a Teheran da Khomeini. L’Afganistan era una terra divisa da contrasti etnici; l’invasione sovietica ne aveva minato l’unità; non aveva un leader e nemmeno un programma unitario. Massud, persona colta, amante della poesia, divenne attivista dei Giovani musulmani
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fedeli al professor Burhaddin Rabbani, che si opponeva all’influenza sovietica. Massud è ricordato come un formidabile giocatore di scacchi. Un uomo gentile insieme carismatico, uno stratega militare molto diverso dai condottieri che in seguito hanno operato in Afghanistan. Contrario a forme di violenza, a comportamenti scorretti da parte dei suoi soldati. Rispettoso delle donne. Non a caso fu rimpianto moltissimo. Certo che la sua morte a ridosso della tragedia delle Twin Towers, ha portato molti a pensare che non sia stata una semplice coincidenza, ma il risultato della stessa follia terroristica di Al Qaeda nell’intento di destabilizzare gli equilibri internazionali e rendere precaria quella specifica zona. *** – In Afghanistan sei riuscito in imprese difficili tra le quali creare collegamenti di comunicazione. Puoi raccontarci questa esperienza? – Massoud, il leone del Panjshir, capo della resistenza armata contro l’occupazione dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa, contattò Bernard Henry Levi, a Parigi, chiedendogli l’aiuto di intellettuali contro la brutale occupazione. Bernard gli raccontò di me e delle Radio libere e Massoud volle conoscermi. – E quando v’incontraste cosa ti propose? – Studiammo la situazione geografica per capire come dal Pakistan, a Peshawar, poter trasmettere su Kabul. Problema complicato perché le onde radio non avrebbero potuto traversare le alte montagne senza dei ripetitori, piccoli
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trasmettitori radio da almeno 1 KW, per superare gli ostacoli geografici. I ripetitori dovevano essere alimentati con elettricità ma, sopra i monti, dove li avrei dovuto posizionare, non esistevano collegamenti elettrici. Chiesi a Massoud di darmi un mese per trovare la soluzione. E così feci; trovai il modo di creare dei ripetitori alimentati da batterie di automobili. Feci costruire delle batterie che potevano ognuna alimentare un ripetitore per una settimana. Progettai di mettere 13 ripetitori ognuno fornito con quattro di queste batterie così da poter far funzionare la Radio Free Kabul (Radio Kabul Libera) per un mese. – Hai dei ricordi che vuoi trasmetterci, qualche riflessione su quel popolo? Sentire il resoconto di chi ha vissuto dal vivo un’esperienza presso realtà sconosciute ai più avvicina a esse. Conoscere agevola l’accettazione della diversità. Dev’essere stata una bella soddisfazione per il risultato raggiunto, destinato ad apportare una così concreta cooperazione. – Soddisfazione? Tra i monti afgani ho compiuto i miei 41 anni. Da ragazzo pensavo e vedevo i quarantenni come dei vecchi decrepiti e, vedendomi salire e scendere per dirupi con il peso del mio corpo e di un kalashnikov, la vera soddisfazione è stata di sentirmi ancora agile e vivo, anche se la cosa che più mi pesava del kalashnikov era il suo caricatore con 40 proiettili. Io, per liberarmi dal peso, come Pollicino li sgranellavo fuori dal caricatore e ogni volta un mujaheddin dietro di me li raccoglieva e me li rimetteva nel caricatore. Il 24 agosto 1982, giorno del mio compleanno, Massoud volle che inaugurassi la Radio con le parole: «Qui Radio Kabul Libera, oggi 90,20 della modulazione di frequenza; se la frequenza verrà disturbata dai nostri nemici ci ritroverete
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altrove sempre nella modulazione di frequenza». Dopo queste mie parole Massoud fece un suo comizio. – C’è un nesso fra la tua azione in Afghanistan e l’attentato che costò la vita a tua moglie Elisabetta Caracciolo e portò te fra la vita e la morte? Foste spinti fuori strada. Chi c’era dietro questo terribile fatto? – Che ci fosse una connessione mi fu chiaro quando seppi che le due Alfa Romeo Giulia che ci avevano spinto fuori strada erano guidate da due impiegati della residenza dell’ambasciatore russo a Roma e che un attentato simile era stato operato contro Berlinguer in Bulgaria nel 1973. E che attentati mascherati da incidente automobilistico erano un sistema utilizzato per far fuori avversari politici dell’Unione Sovietica.
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XVIII GAUMONT ITALIA, PRODUZIONE, DOCENZA
– La tua vita viene a incrociarsi nel ’78 con la prestigiosa casa di produzione francese Gaumont1. Sei divenuto presidente Gaumont Italia. Immagino sia stata un’esperienza impegnativa. – In quel periodo ho prodotto e distribuito oltre 100 film. Il primo è stato Prova d’orchestra di Federico Fellini, nel ’78, e ancora con Fellini La città delle donne e E la nave va. Ci furono poi Dimenticare Venezia di Franco Brusati, Chiedo asilo di Marco Ferreri, Don Giovanni di Joseph Losey, La morte in diretta di Bertrand Tavernier, Sogni d’oro di Nanni Moretti, Tre fratelli di Francesco Rosi (e nel 1984 la sua Carmen), La pelle di Liliana Cavani, Fitzcarraldo di Werner Herzog, Il marchese del Grillo di Mario Monicelli, Fanny e Alexander di Ingmar Bergman, La nuit de Varennes di Ettore Scola, Identificazione di una donna di Michelangelo Antonioni, Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada di Lina Wertmüller, Danton di Andrzej
1 La casa di produzione francese Gaumont, nata nel 1895 per opera di Lèon Gaumont, dominerà a lungo la scena. Si aprirà ad altre nazioni e nel 1978, per volere dell’allora presidente Seydoux, all’Italia.
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Wajda, Colpire al cuore di Gianni Amelio, Nostalghia di Andrei Tarkovskij, La casa del tappeto giallo di Carlo Lizzani, Pianoforte di Francesca Comencini, Enrico IV di Marco Bellocchio e tanti altri. Non sarebbe possibile citarli tutti. – La Gaumont Italia aveva qualche specifica rispetto alle altre? – Mi resi conto che con l’avvento della televisione a tutto campo (in altre parole crescendo il numero dei canali televisivi e dei programmi nei più svariati campi), veniva a diminuire il numero dei fruitori delle sale cinematografiche; pensai a una soluzione: creare sale più piccole e magari in maggior numero. Ho avuto per primo l’intuizione di trasformare le vecchie sale cinematografiche da migliaia di posti nelle moderne multisale. La differente capienza e diversi film trasmessi in contemporanea aumentano la presenza degli spettatori, che non di rado chiedono di assistere a due film anziché uno. Si arricchisce così l’offerta di film e la durata della loro programmazione. Questo ha fatto sì che la Gaumont Italia sia divenuta un’azienda cinematografica tra le più prestigiose, integrando produzione, distribuzione ed esercizio. – In seguito hai fondato la scuola di cinema legata alla Gaumont Italia. Fu una buona intuizione differenziarti dalla Scuola nazionale di cinema che però aveva accesso a fondi statali. – La scuola di cinema Gaumont è nata quasi come scommessa. Una mia conferenza sulla necessità di un ricambio generazionale, sull’esigenza di creare opportunità per giovani talenti sconosciuti, istradarli, fu l’ispiratrice. E iniziarono corsi di studio sperimentali grazie ai quali oggi abbiamo un
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gruppo di registi stimati. La Scuola nazionale di cinema, fondata nel 1935, era chiamata Centro Sperimentale di Cinematografia ed esiste ancora. Mio padre ne fu presidente per un certo periodo. Diversa è stata la scuola di cinema Gaumont che non ha mai avuto accesso a fondi statali. Essendo presidente della Gaumont Italia, mi trovai, appunto durante una conferenza, a lamentare il fatto che non esisteva una struttura, un habitat educativo dove i giovani, uscendo dal loro isolamento creativo, potessero confrontarsi, polemizzare se necessario, ma sviluppare il proprio talento e proporre idee in linea con la continua evoluzione socioculturale, nuove prospettive, esigenze, sviluppando così una nuova generazione di cineasti. L’idea piacque. Ci ritrovammo per continuare il discorso e la scuola prese forma. Si trattava di un corso sperimentale in parte autogestito. Gli allievi dimostrarono in molti casi una vera versatilità, divenendo, alcuni, nel decennio successivo autori di rilievo del cinema e della televisione. Registi come Daniele Luchetti, Carlo Carlei, Antonello Grimaldi, Giuseppe Piccioni, un produttore come Domenico Procacci, un direttore della fotografia come Alessandro Pesci e un montatore come Angelo Nicolini, tanto per fare alcuni nomi, probabilmente non avrebbero avuto modo di emergere. – Com’era programmata? – Distribuita tra lezioni teoriche e visioni di film, ma non solo. Alle lezioni venivano invitati professionisti legati alla casa di distribuzione e relativa casa di produzione Opera film. Prestavano la loro opera a titolo gratuito, parlavano del loro percorso lavorativo e creativo, della loro esperienza e questo appassionava i giovani. C’erano poi una sala proie-
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zione nella sede in viale Liegi a Roma e la possibilità di partecipazione sul set in svariati ruoli minori occasionati dalle diverse produzioni in corso, tipo gli studi di Cinecittà o il Centro Safa Palatino. A mio avviso era basilare che gli allievi sperimentassero in concreto il linguaggio cinematografico producendo corti. Questa esperienza comunitaria li portava a discutere fra loro, litigare se necessario, magari innamorarsi. Nascevano durature amicizie. In realtà è dal confronto e dallo scontro che si cresce, non esistono verità assolute, la divisione fra ragione e torto non è poi così netta e alla fine avviene una specie di amalgama fra le varie correnti di pensiero. Infine il corso si concludeva con un film a episodi girato con il contributo di tutti. Il film a episodi Juke-box fu presentato al Festival di Venezia del 1983. – Gli allievi, una volta diplomati, restavano nell’orbita della scuola? – Quelli che arrivavano in fondo al primo corso (perché poi non tutti ce la fecero) ebbero modo di selezionare gli allievi di un secondo corso, i quali seguirono lo stesso iter, comprese le lezioni teoriche, fecero visite sul set e lavori, realizzarono un ciclo di corti. Ma tutto ebbe termine prima della realizzazione del film finale. – Come mai? – La scuola operò per due trienni. E poi ci fu l’improvvisa chiusura della sezione italiana della Gaumont. Molti allievi avevano continuato a lavorare ai margini della casa di distribuzione. Avevano girato video promozionali, corti, collaborato a spot, all’ufficio stampa. A parte quelli già integrati e attivi presso altre case di produzione, questo gruppo di allievi che si trovò spiazzato dalla chiusura della scuola Gaumont
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si unì in una cooperativa fondando la Vertigo film. Un progetto che diede buoni frutti come, fra molti altri, il bel film di Giuseppe Piccioni Il grande Black. Un’esperienza che, una volta conclusa, diede origine alla Fandango su iniziativa di Domenico Procacci. Dalla scuola Gaumont, da me diretta, sono usciti registi, appunto, come Giuseppe Piccioni, Daniele Lucchetti, Carlo Carlei, Valerio Jalongo, il direttore della fotografia Alessandro Pesci e poi montatori, sceneggiatori e anche produttori di successo come Domenico Procacci. – Che spiegazione dettero? Per chiudere così da un momento all’altro avranno pur avuto un motivo. – Non saprei, posso solo dedurre. Ai vertici si erano orientati verso un cinema più commerciale, più vicino a come si proponeva il cinema americano. C’erano fra noi differenze di vedute, questo sì. Se ci fu dell’altro mi sfugge. Il fatto è che era iniziata la deriva, mai venuta meno, di basarsi più che sui contenuti, sui profitti. – Un vero peccato. Sarebbe interessante ascoltare una tua lezione di cinema. – 1: per imparare il cinema i libri di testo sono i film da vedere, tanti, dal cinema muto, via via, fino al cinema d’autore. 2: non esiste scuola migliore che fare il volontario su set di film o di serial TV. 3: imparare il lavoro dai tecnici di tutti i reparti della troupe del film, rubare con gli occhi e farsi spiegare. – Non è stata solo questa la tua esperienza quale docente. Molto importante è quella riferita a un’iniziativa di Gabriel Garcia Marquez. – Ho già accennato al fatto che Gabriel Garcia Marquez fondò a Cuba la EICV (Esquela Internacional de Cine y
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TV) e mi volle docente di Storia del Cinema e di Produzione Cinematografica e Televisiva. Cattedra che tenni per quattro anni. Si era nel 1986. – Nonostante il terribile incidente, la perdita, gli interventi chirurgici, fosti molto bravo a rimetterti in pista in breve. – È l’unico modo per superare. Fare. Gabriel Garcia Marquez negli anni cinquanta era stato allievo del Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma e nella Escuela Internacional de Cine e TV da lui fondata a Cuba, a Sant’ Antonio dos Banhos, una città a quaranta chilometri dall’Avana, aveva voluto che la piazza centrale del campus fosse intitolata a Cesare Zavattini e al cinema italiano. Lui insegnava Sceneggiatura cinematografica, mentre altri docenti insegnavano Regia cinematografica e televisiva e tecniche come fotografia e montaggio cinematografiche e televisive – Questa nuova attività ti ha portato in giro per il mondo. – Sì. A Roma ho insegnato Produzione cinematografica e televisiva presso la NUCT (Nuova Università del Cinema e della Televisione). Ma altre esperienze si sono aggiunte: presso la UCLA di Los Angeles ho insegnato Storia del cinema europeo, poi a Salerno, alla Federico II di Napoli. E ancora a Santo Domingo, a Montreal, presso la Université Quebec. Tra il 1987 e il 2000 sono stato anche responsabile del marketing internazionale di varie società di produzione americane a Los Angeles tra cui Pryllis Carlyle Productions, HKM Films e Shadow Hills Productions con l’incarico di president of International Affaires. E non credo che l’elenco si esaurisca qui. – Le varie realtà, tradizioni, mentalità ti hanno costretto, di volta in volta, a modificare metodi, programmi, allineandoti
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a esigenze specifiche? Voglio dire, le differenze ambientali e culturali si annullano di fronte a metodi univoci o è necessario una diversificazione di volta in volta? Anni fa partecipai a una discussione in cui si sosteneva che un asiatico non avrebbe mai potuto intendere la musica occidentale. Cosa secondo me falsa, come si può constatare vedendo l’abilità e l’empatia di direttori d’orchestra o musicisti orientali a contatto con la musica occidentale. Il cinema è diverso in questo senso, essendo di per sé narrazione, ritmo, percezione di spazi e cromie e, non ultimo, espressione in immagini più che suoni? O no? – Il cinema è una forma d’arte e pertanto universale. Ma non può esprimersi in formule omogenee. Nell’insegnamento alcune diversità vanno valutate. Ogni cultura darà un suo taglio, una sua visione, una sua interpretazione. Terrà conto del suo tessuto sociale. Ma le diversità si annullano in quella che è il fondo, l’essenza comune agli umani. E alla fine le diversità divengono un terreno di conoscenza, un arricchimento reciproco. Mi ripeterò, ma gli insegnamenti che mio padre negli ultimi anni della sua vita, come presidente del Centro Sperimentale, aveva utilizzato, sono stati alla base della mia didattica: 1. «In una scuola di cinema i libri di testo sono i film»; 2. «Il cinema si impara facendolo»; 3. «Imparare a fare film a basso costo per liberarsi dai vincoli imposti dal sistema capitalista che fa dei film una merce e non un prodotto artistico».
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XIX IL MONDO DEGLI AFFETTI
– Dal 1977, venuto a mancare tuo padre, divenisti il referente principale di una famiglia composita. Una bellissima famiglia. – Nel 1977, quando è morto mio padre, ero già padre di due figli, Alessandro e Rossa, ero fratello di Robertino e di tre sorelle, Isabella, Ingridina (Isotta) e Raffaella; cugino di Franco, Gepy, Fiorella e soprattutto avevo mia mamma. Questa era la mia famiglia stretta; poi c’era una famiglia allargata di amici d’infanzia, collaboratori stretti di lavoro miei e di mio padre, le mie compagne e mogli; tutti coloro che amavo erano la mia larga famiglia di sangue e di stima. – Di questa tua famiglia Isabella è colei che ha acquistato la maggiore visibilità. Tra i figli di tuo padre e Ingrid è quella che più somiglia alla madre. Ma il suo carattere vivace ricorda quello paterno. Isabella è stata e continua a essere un’ottima attrice e modella. Testimonial di Lancôme per circa quindici anni. Il suo volto su «Vogue» è divenuto un’icona, fra i più familiari e affascinanti. E ora ho letto che Lancôme la reclama ancora come testimonial. Grande soddisfazione per una bellissima signora non più ventenne. Ma più o meno tutti, mi sembra, siete impegnati a livello scenografico-cinematografico, eccetto Isotta, Ingridina come dici tu, che ha scelto la carriera
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universitaria. Parliamo un po’ di loro, dei loro temperamenti e delle motivazioni che li hanno condotti verso scelte differenti. Ma poi, secondo te, sono veramente così diverse queste scelte? O si tratta di un diverso modo, ma pur sempre simile, di accedere alla conoscenza? La frequentazione fra i componenti del mondo dello spettacolo sembra, a noi che ne siamo fuori, un mondo a parte, ma è veramente così? – Le mie due sorelle gemelle, Isabella e Isotta (chiamata in famiglia e dai suoi amici Ingrid, perché questo è stato il desiderio dei genitori; le leggi dell’anagrafe italiana proibivano all’epoca di dare il nome di uno dei genitori, così Ingrid fu iscritta come Isotta e Robertino come Renato), tutte e due straordinariamente belle e intelligenti, sono diverse tra loro per temperamento. Isabella esuberante e Ingrid timida, riservata e riflessiva. Il mondo dello spettacolo comporta un talento, che mia sorella Isabella ha. Il mondo dell’insegnamento, per quanto a Ingrid, comporta tanto studio e tanta cultura ed è la strada che lei ha percorso, studiando tanto. Raffaella, figlia di mio padre e Sonali, ha scelto di seguire la sua passione che era la danza, studiandone le varie forme nelle tante culture ed etnie del mondo, fino a divenire coreografa. E così, studiando le coreografie dei Sufi turchi, ha scoperto la cultura mussulmana e si è convertita all’Islam ormai molti anni fa, cambiando il nome, da Raffaella a Nur (Luce). Ora vive in un emirato arabo, sposa di un medico patologo. – Cos’altro puoi dirci di Ingrid Bergman? Per noi resta un’icona del cinema, coniugando nella vita e nella scena l’immagine di donna coraggiosa, indipendente. Tra le migliori attrici che siano state. L’abbiamo molto amata.
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– Quando mio padre la sposò, Ingrid ebbe la grande capacità di tenere tutta unita la famiglia, stabilendo un ottimo rapporto con mia madre e facendo crescere i suoi figli, mio fratello e le mie sorelle nel rispetto del fratello maggiore che ero io. L’ultima volta che ho visto Ingrid era il dicembre che precedeva l’anno in cui morì. Durante la festa di Natale volle riunirci tutti a New York, noi quattro figli di nostro padre a casa della sua figlia primogenita Pia Lindstrom. Ingrid era un’attrice arrivata a Hollywood con la sua cultura europea e aveva sofferto molto durante il maccartismo, anche se non ne era stata vittima come tanti suoi colleghi. Mi confessò che questo fu uno dei motivi che la fecero scappare da Hollywood per tornare in Europa e accettare di lavorare con mio padre. – In un’autobiografia scritta con Alan Burgess Ingrid Bergman conferma l’effetto di stordimento che le procurò la visione di Roma città aperta. «Petter – disse al marito – voglio vedere come si chiama questo regista. Dev’essere una persona eccezionale per aver fatto un film come questo». E, nell’autobiografia di tua sorella Isabella, il racconto viene approfondito. «La visione di Roma città aperta – spiegò Ingrid alla figlia – e le conseguenze che ne derivarono è stato l’evento più importante della mia vita… Il realismo e la semplicità di Roma città aperta mi hanno sconvolto. Nessuno sembrava un attore, nessuno parlava come un attore, c’erano oscurità e ombre, non si riusciva a vedere tutto, proprio come accade nella vita, né si riusciva a sentire tutto il dialogo. Era come se avessero tolto le pareti delle case, permettendo di guardare all’interno delle stanze. Ma era più che guardare, era come essere lì, coinvolti in ciò che stava
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accadendo al punto da versare lacrime e sangue assieme a quei personaggi»1. – Il racconto di Ingrid spiega bene la sua scelta. È evidente che vedeva in mio padre il regista senza condizionamenti mentali e con un ritmo coinvolgente. Non a caso ancora oggi quel film è attualissimo nella sua totalità. – La storia d’amore fra tuo padre e Ingrid suscitò ostilità. Quest’atmosfera avvelenata quanto disagio produsse e quanto influì nella storia di tutti voi? – Come ho già detto, Ingrid, divenuta la moglie di mio padre, ebbe la capacità di tenere unita tutta la famiglia. Creò un dialogo vero anche con mia madre. Due donne molto intelligenti. E questo produsse un’atmosfera gaia e armoniosa, piacevole per tutti noi. Che poi il malanimo tentasse di condizionarci è un dato di fatto. Ingrid soffrì forse più di tutti, attaccata dai registi americani, che non le perdonavano di aver lasciato Hollywood, e dal mondo cinematografico italiano. C’era molta invidia. Io, per non subire questo clima avvelenato, fui ritirato da scuola e proseguii privatamente gli studi. Ma, nonostante tutto, grazie anche ai molti amici che aveva e alla stima di cui godeva (dopotutto era un regista di successo), mio padre proseguì nei suoi programmi, e la serenità in famiglia non venne intaccata. – Il tuo amore per Ingrid era una infatuazione infantile. L’avevi vista nel film Per chi suona la campana e te ne eri invaghito. Dici scherzosamente: «Me ne ero innamorato prima io di mio padre». L’ammirazione che avevi per lei più facilmente
1
I. ROSSELLINI, Qualcosa di me, cit., p. 113.
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ha favorito un rapporto armonioso fra voi. Ma, divenuto adulto, altra cosa sono state le donne della tua vita, quelle che hanno lasciato un segno nel tuo vissuto o che ti accompagnano nel prosieguo del vivere. Alcune di esse, madri dei tuoi figli. Come le hai conosciute, quali sono le ragioni del vostro perdervi, in che modo siete rimasti amici, i loro temperamenti? – Dalle donne ho imparato tantissime cose. Da mia madre e da tutti i miei amori. Kathy, madre del mio primo figlio Alessandro, era una giovane ballerina/coreografa afro-americana newyorkese che ho conosciuto quando ero solo un ragazzo, poco più che ventenne. Lei era venuta a Roma per lavoro, per partecipare alle riprese del film Cleopatra. L’ho conosciuta attraverso comuni amici, era bellissima e me ne innamorai. Kathy mi ha spiegato cosa significasse appartenere a una minoranza etnica in un’America ancora con le leggi razziali e cosa fu la battaglia per l’uguaglianza di tutti gli esseri umani. Il nostro era un rapporto tormentato, eravamo troppo giovani e immaturi. Dopo pochi mesi dalla nascita di Alessandro, Kathy tornò in America, lasciandomi. Come ragazzo padre ho dovuto imparare in fretta a fare il papà. In quel periodo potei contare moltissimo sull’aiuto di mia madre, la quale si sentiva mamma di Alessandro. Si sentì ringiovanire, prese un’espressione luminosa e i suoi quarantasette anni sparirono. Pareva una giovane mamma. Patrizia, la mia unica moglie ufficiale italiana, la conobbi a Roma. Anche lei era una bellissima ragazza, napoletana. Per motivi famigliari risiedeva in quel periodo a Roma. Mio padre scoprì che avevo cominciato a convivere con lei e una mattina mi convocò a casa sua e mi disse questa frase: «Con una donna, se non ne vale la pena, non convivi, se ne vale la pena la devi
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sposare» e in seguito, senza avvisarmi, invitò i genitori a Roma per un pranzo e in quell’occasione chiese la mano di Patrizia, per me. Con Patrizia sono stato sposato per circa cinque anni e reciproche infedeltà fecero naufragare il matrimonio. Siamo comunque rimasti amici anche con suo fratello, mio ex cognato. Chantal, la madre di mia figlia Rossa, l’ho conosciuta attraverso il comune interesse politico. Lei era femminista convinta e il femminismo è anche divenuto per me un grande insegnamento! Chantal mi aiutò a realizzare Radio Città Futura nel cui palinsesto era stato inserito lo spazio di un’ora riservata e autogestita da collettivi femministi, Radio Donna. Nel 1972 nacque nostra figlia Rossa la quale, ancora piccola, partecipava alle manifestazioni con noi e una delle prime parole che imparò a dire fu «Cile Rosso», senza pronunciare la erre, quindi «Cile Osso», facendo il pugnetto chiuso. Purtroppo anche questo rapporto finì dopo qualche anno. – Tua madre nella sua autobiografia parla di Chantal con molto affetto. «Chantal è stata la nuora cui sono stata e sono tuttora più legata. Tra noi c’era una complice amicizia. In una lettera scritta molti anni dopo mi ricorda come una suocera bizzarra, un po’ hippy, un po’ comunista, una donna libera da schemi e conformismi». Attraverso il racconto di Chantal tua madre accenna alla partecipazione alla tua attività politica, in forma molto simpatica: «Una delle prime manifestazioni alle quali ho partecipato fu nel ’73, Rossa era piccolissima. Mi ero offerta per organizzare a casa e accogliere il maggior numero di compagni possibili, che arrivavano da tutte le città d’Italia… I manifestanti si concentrarono in piazza Esedra e io andai con Rossa in braccio ad aspettare il corteo all’angolo di
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via dei Serpenti… Passò Renzo, alla testa del corteo, subito dopo le camionette della polizia. Insieme a lui c’era Alessandro. Mi faceva tenerezza vedere quel bambino così piccolo con quel piglio da guerriero in mezzo ai compagni del servizio d’ordine con i caschi, i bastoni, gli striscioni e le bandiere rosse. Renzo era sempre quello che doveva trattare con la polizia lo svolgimento pacifico dei cortei. C’era un commissario che aveva molto affetto per Alessandro e gli indicava sempre la camionetta della polizia sulla quale sarebbe dovuto saltare in caso d’incidenti. Questo episodio dà la misura del clima di quelle prime manifestazioni: è stato dopo che le cose sono degenerate. Roberto in quel periodo non era affatto contento, anzi era molto preoccupato per l’attività politica di Renzo»2. Scusa la digressione, mi pareva importante. Dopo Chantal? – Mia moglie Elisabetta, Lisa. L’ho già detto, grandissimo amore. Dopo tre mesi di coma morì a New York dove l’avevo trasferita nella speranza di una cura miracolosa. Lisa la conobbi sul set di La Città delle Donne di Federico Fellini, film nel quale si occupava del back stage. Lisa mi fu accanto in tutto il periodo della presidenza della Gaumont Italia, società cinematografica con la quale produssi e distribuii più di cento film. E mi fu accanto anche nelle difficili e coraggiose scelte professionali, tutte controcorrente. Controcorrente, perché tutte conseguenti agli insegnamenti di mio padre su cosa dovesse essere il cinema. E, con lo stesso spirito rosselliniano, creai la scuola di cinema Gaumont, per far emergere nuovi talenti cinematografici. La morte di Lisa
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Cfr. M. DE MARCHIS, Un matrimonio riuscito, cit., pp. 116-117.
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mi ha creato una tale devastazione che ancora non riesco a elaborare del tutto questa perdita. Come ti ho detto, continua a vivere nel mio cervello e nel mio cuore. L’incidente è avvenuto l’8 dicembre e per anni per me quello è stato un giorno di lutto. Poi per una strana coincidenza Giulia, la mia prima figlia americana, è nata in quel giorno. E lo stato d’animo si è mitigato. Io dall’attentato/incidente sono uscito tutto rotto; diciotto mesi su una sedia a rotelle. Ero completamente privo di autonomia e complicato da gestire. In questo periodo difficilissimo ho dovuto lasciare la società Artisti associati, che avevo creato. Ero quindi disoccupato e finanziariamente attraversavo un periodo difficile. Il mio avvocato americano, Victoria Kifferstein, sapendomi così in difficoltà e forse già innamorata di me, mi ha per così dire adottato, affrontando le spese di ben quattro operazioni ortopediche che mi hanno rimesso in piedi. Poi ci siamo sposati. Victoria è un’ebrea americana. I racconti che mi fece sui suoi parenti polacchi finiti in campo di stermino nazisti, e altri racconti, mi hanno insegnato molte cose. Ho approfondito la questione storica e sociologica di quel periodo. Da Victoria (Vicki) ho avuto due figli, una femmina, Giulia, e poi un maschio, Raphael. Figli che amo moltissimo. Di recente Raphael si è laureato in Economia e Commercio con il massimo dei voti e la lode.
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XX TELEVISIONE E CINEMA: SCELTE DIDATTICHE E CULTURALI
Nel testo Quasi un’autobiografia, Roberto Rossellini, in un’intervista del 1977, pochi mesi prima di lasciarci, affronta problemi fondamentali che suonano come profezia, quasi un testamento, lasciandosi andare a riflessioni amare sulle aspettative disattese; ma anche a proposte lungimiranti: «Per la prima volta nella storia dell’uomo possediamo un mezzo di comunicazione universale e immediato… E che cosa ne abbiamo fatto? Una specie di gioco da circo che corrompe tutto e tutti. Alla televisione per esempio gli uomini politici non comunicano: recitano, trasformati da attori. Truccati nell’anima… La civiltà del mondo occidentale è in crisi o no? Porre la domanda implica già una risposta. Se è in crisi bisogna cambiarla. Ma il solo cambiamento possibile è culturale, e deve essere preceduto da un approfondito esame dei comportamenti e delle idee. A questo dovrebbero servire i mezzi di comunicazione di massa. Ma fino ad ora sono stati impiegati a questo scopo? Evidentemente no. Essi sono stati utilizzati per fare dell’opinione pubblica una banchisa interamente pietrificata… Questa deviazione, come sempre, si spiega con la volontà dei privilegiati di conservare i loro privilegi di fronte alla possente spinta del sapere che li minaccia. Il sapere, in ul-
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tima analisi, è il potere. Un tempo coloro che detenevano l’uno e l’altro, in qualsiasi campo… potevano regolare a piacere il loro flusso culturale attraverso la parola e la scrittura, che sono modi di diffusione controllabili, perché limitati. Oggi costoro, o i loro discendenti, sono presi dal panico di fronte all’uguaglianza universale del sapere, resa teoricamente possibile dai mezzi audiovisivi e dalla televisione in particolare. Allora cercano disperatamente di limitare l’impiego dei mezzi tecnici verso lo svago. Ma non si può vivere solo di distrazione… Bisognerebbe elaborare un progetto d’insieme, non solo del cinema ma di tutti i mezzi audiovisivi. Nell’ambito di un simile progetto i film non dovrebbero mirare esclusivamente agli utili e almeno parte dell’investimento dovrebbe avere finalità sociali. Disgraziatamente il cinema è incapace di questo sforzo. Quanto alla televisione, essa pone il duplice problema della società dei consumi e del monopolio di Stato; quest’ultimo spesso diventa l’alleato naturale di quella. Eppure costi quel che costi, questo progetto dovrà essere realizzato. Esso solo, se attuato in tempo, può fornirci la conoscenza che salva, prima che l’umanità intera venga seppellita dalla lava. Nel mio piccolo, ho voluto posare la prima pietra di questo progetto e, quindici anni or sono, ho realizzato una serie di film “educativi”: Pascal, L’età del ferro, Il Messia, La presa del potere di Luigi XIV…»1.
1 R. ROSSELLINI, Quasi un’autobiografia, a cura di S. RONCORONI, Mondadori, Milano 1987, pp. 14-18.
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*** Le riflessioni di Rossellini, espresse con il ritmo trascinante che lo contraddistingue, toccano più temi, ma il più importante rimane il senso di responsabilità di cui la comunicazione visiva deve farsi carico, poiché la sua forza d’impatto emotivo ha il dovere di essere impiegata in messaggi etici e non estetici. «Niente è più pericoloso dell’estetica, sempre disponibile per legittimare il potere del denaro, perché essa stessa ha bisogno di denaro per fiorire. Gli esteti vivono sempre nella scalinata del palazzo»2. E però, riflette, anche alcuni registi, come quelli della Nouvelle vague che, grazie al suo esempio sono riusciti a liberarsi di film dettati da ragioni commerciali, ma non hanno compreso l’importanza didattica del mezzo audiovisivo. «… cosa hanno fatto i più dell’eredità che io ho lasciato loro? Cinema d’autore. Da vent’anni, ad eccezione di Godard che costituisce un caso a sé, essi raccontano instancabilmente i tormenti della pubertà. A che pro liberare il cinema dalla potenza del danaro se è per farlo poi cadere su quella del fantasma individuale, sperando che diventi collettivo e vi porti al successo? Questo malinteso è più grave di altri, perché devia dal suo scopo - tradisce quella che era una mia grande speranza, la conoscenza»3. - Come al solito vedeva più degli altri. – La lucidità delle sue osservazioni, la lungimiranza, ebbero per me un effetto stimolante. L’impegno per le serie storiche crebbe.
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Ivi, p. 19. Ivi, pp. 19-20.
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– La preparazione di una serie storica, che immagino molto impegnativa, era compito solo tuo o ti avvalevi di collaboratori? – Le riprese cinematografiche dei film e delle serie storiche per la tv erano precedute da mesi e a volte anni di ricerca, di letture di tomi, di migliaia di pagine. Il dialogo era fitto, di conseguenza. Mio padre mi affidava questo compito, sapendo che avevamo raggiunto una simbiosi, e io lo svolgevo con entusiasmo. A proposito, devo raccontarti un aneddoto esemplificante. Durante le riprese del film La presa del potere di Luigi XIV mia sorella Isabella dovette essere operata per scoliosi e mio padre volle essere accanto a lei a Firenze, lasciandomi il compito di girare alcune scene tra cui l’ultima del film, la cena del re. Per girare questa scena usai un mezzo tecnico che mio padre non aveva mai utilizzato in tutto il film, una gru. Sapendo che la cosa non sarebbe stata approvata da lui che non ne faceva uso, cercai di rendere quasi invisibile il movimento della macchina da presa sopra le teste degli attori. Vista la proiezione delle riprese da me effettuate, lui non si accorse di questa mia piccola trasgressione e io non ebbi il coraggio di confessargliela. – Come pensi che la sua lezione di cineasta possa incidere nel cinema attuale e in quello a venire? – Ci sono registi che possono dirsi suoi eredi. Quelli che hanno recepito il suo messaggio, per esempio Giuseppe Tornatore. Certamente non è un messaggio facile quello del cinema come arte matura, in grado di far riflettere. Quel che osservo attualmente è un eccesso di disimpegno. Sembra che questi giovani registi vivano sulla luna, insensibili ai problemi della società. Il cinema deve porsi un problema etico, anche in pellicole diciamo leggere, ariose. Anzi attraverso il
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sorriso spesso si veicola meglio un concetto, per esempio, di solidarietà, di tolleranza. La commedia all’italiana un tempo non disattendeva questo concetto. – Secondo gli storici del cinema ci sono varie stagioni che contrassegnano l’evolversi del linguaggio del cinema, il periodo classico, il moderno e il postmoderno. I primi cinquanta-sessanta anni del Novecento appartengono al classico, tra la fine degli anni ’50 e gli anni ’70 si sarebbe creato il cinema moderno, infine il postmoderno, che secondo alcuni inizia con Guerre stellari. Tu pensi che le differenze siano così nette? Puoi darci una definizione dei vari linguaggi, degli obiettivi, delle situazioni che sono state alla base delle scelte? Insomma in base a quale criterio si evolve il linguaggio cinematografico? – Come per ogni forma d’arte esiste un «prima di» e un «dopo di». Il cinema, che è la più moderna delle arti, si è evoluto di continuo, con salti in avanti; ma il cinema italiano ha avuto anche un’involuzione quando i film sono diventati merce, prodotti commerciali. E la merce deve avere sempre dei committenti che decidono come deve essere il prodotto. Cosi gli autori hanno perso libertà. – In che modo le nuove tecnologie incidono sulla realizzazione di un’opera cinematografica? – Il cinema è cresciuto con la tecnologia. Siamo nell’era del digitale che, secondo me, dovrebbe essere usata più e meglio. Perfezionata. Il digitale è molto più economico e ha liberato il cinema dal capitalismo. Non è poco. Con le cifre che si risparmiano ci si può dedicare meglio, per esempio, agli effetti speciali. Il montaggio ha modificato il linguaggio cinematografico, creando fra l’altro i primi piani. A suo tempo l’evoluzione avvenne nel passaggio dal muto al sonoro,
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dal bianco e nero al colore. Oggi la voce è perfezionata, i corsi di recitazione rendono l’attore sempre più seriamente consapevole e professionalmente completo. Tutto questo ha influito notevolmente sulla qualità della realizzazione visiva. Ma alla base rimane l’idea. La qualità della regia. L’originalità della sceneggiatura. – Il punto è questo: la tecnologia crea oggi possibilità impensabili un tempo. Ma in che modo sono produttive qualitativamente, quale il valore aggiunto del racconto, del messaggio, delle emozioni? In che modo incidono nella crescita culturale delle nuove generazioni? Anni fa si parlava di una rivoluzione grandiosa dovuta alla capacità d’interazione fra spettatore e spettacolo. Per quel che ho capito lo spettatore si sarebbe trovato all’interno dello spettacolo, con tutta la risposta emotiva che si può presumere. Non saprei spiegarmi meglio. Insomma s’inneggiava all’evoluzione del cinema che, con nuove tecniche ed effetti speciali, avrebbe surclassato i vecchi film, i loro metodi. Mi sembra però che gli effetti in sé siano povera cosa se manca una base di idee, di cultura, di obiettivi. Come del resto hai osservato tu. Esiste una superficialità sconfortante. La cosa più deprimente è che oggi non si usa il cinema per migliorare la società, ma si parla alla pancia dei fruitori, esattamente come fanno alcuni partiti politici. Si scade tutti. Mi chiedo, una scuola sul tipo della Gaumont Italia esiste ancora? La diffusa mancanza di cultura, cancro che corrode la società, si nota anche in campo cinematografico. Un tempo chi si avvicinava alla cinematografia lo faceva con motivazioni diverse, con una buona base culturale, che non deve essere per forza di tipo convenzionale. Tu hai raccontato che sulla costiera amalfitana, in una scuola media dove i ragazzi praticavano il bullismo gra-
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zie al cellulare, hai insegnato a realizzare ben altro, a scrivere e creare storie, proprio col cellulare. Un modo di fare cinema. – La tua domanda è perfetta ma meriterebbe come risposta un capitolo di questo libro. Per dovere di sintesi dico che la vera rivoluzione è la crescita degli spazi di fruizione di un film. Io sono nato quando si considerava un successo un film che avesse avuto 100.000 spettatori, oggi un film in TV ne può avere milioni che sommati a quelli che li visionano via internet diventano molti milioni. In quanto ai filmini dei ragazzi, erano molto carini, realizzati con intelligenza, perché i giovani sono cresciuti con la televisione e sanno raccontare per immagini. Il cinema si può insegnare con regole semplici e non burocratiche come fanno in molte scuole di cinema. Per parte mia le ho fatte perché mio padre, fra le sue ultime attività, era stato presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia, il cui statuto, che affondava nel periodo fascista, mio padre aveva cambiato, adottando nuove regole. Mio padre diceva: «Il cinema non s’impara dai libri, ma facendolo e i libri di testo sono i film. Bisogna vedere i film, cercare di interpretarli e capirli sia come racconto, sia come forma di racconto per immagini, sia partendo dalla tecnologia che c’è dentro ogni scelta di regia». Oggi il cinema si potrebbe realizzare con qualunque strumento digitale, diminuendo moltissimo i costi di produzione liberando gli autori dai vincoli di produrre una merce, rendendoli liberi di realizzare prodotti culturali, poetici e aggressivi politicamente, come furono il Neorealismo, la Nouvelle Vague e il Cinema Novo Brasiliano. – La Nouvelle Vague d’inizio, però. Mentre il Cinema Novo Brasiliano si avvale della esperienza del neorealismo
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italiano e lo porta a soluzioni anche più radicali. Come più radicali erano i problemi socioculturali di quella terra. Correggimi se sbaglio, il fondatore del movimento fu il regista Glauber Rocha e lo spirito che animava lui e altri giovani registi si può sintetizzare nello slogan che avevano fatto proprio «Una macchina da presa in mano e un’idea in testa». Insomma sposarono l’ottica rosselliniana «Mostrare, non dimostrare». Dunque situazioni contingenti della loro terra, tematiche legate alla povertà, endemica, all’economia arretrata, alla siccità, alle forti disparità sociali. Ti chiedo: ottennero attenzione? riuscirono a scuotere le coscienze? – Ce la misero tutta. Non solo Glauber Rocha, ma Nelson Pereira dos Santos, Joaquim Pedro de Andrade, Carlos Diegues e altri. Volevano fare del cinema un punto di riferimento sociale e culturale. Grazie a loro si è saputo molto di più della complessa situazione brasiliana. Poi nel ’64 il colpo di stato interruppe questo nuovo corso di idee ed espressione. Rocha e Diegues furono esiliati, gli altri dovettero sottostare alla censura. – Anni fa, in un’intervista per il TG1 News, hai confutato l’asserzione che le scuole di cinema sono scuole per disoccupati. La realtà sembra contraddire questa tesi, poiché la domanda del settore audiovisivo è in forte crescita. Pensi che la diffusione dei film sia avvantaggiata dalle piattaforme on line? – Certamente. In Netflix, in Youtube si possono vedere film interi; ce ne sono di mio padre, oltre a delle sue interviste. Se ben usato, Internet è un ottimo mezzo per la diffusione del sapere e della conoscenza. Le piattaforme on-line sono come un immenso sapere a disposizione: lo si raggiunge, lo si interroga. Si trova tutto se si hanno in testa idee che
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vanno completate con altro sapere. L’utilizzo della rete in modo disordinato non serve a niente. Bisogna sapere cosa si cerca, non assimilare tutto acriticamente, siamo sempre al discorso della base culturale, altrimenti si entra in approssimazioni fuorvianti. Certamente se ci si riferisce alla parte visiva, è chiaro che una cosa vista piuttosto che letta entra più facilmente in testa, in quanto provoca emozione, tocca altre cellule cerebrali. Sia il cinema che internet potrebbero servire a rendere l’uomo del futuro migliore. Però sono i governi e i ministeri che dovrebbero porsi il problema. Questi poderosi sistemi, come l’audiovisivo, dovrebbero essere messi a disposizione fin dalla prima elementare. – L’Europa sta attraversando grandi trasformazioni socioeconomiche, politiche o forse è meglio dire ideologiche. In questo quadro qual è il ruolo che ha o dovrebbe assumere il cinema? – Dare il polso della situazione. Ma per fare questo ci vuole coraggio, passione e rabbia. Io dico che un regista per fare un film di qualità deve essere arrabbiato, in altre parole deve sentire profondamente il problema e non guardare in faccia nessuno. Un tempo, film come Roma città aperta e altri hanno saputo dare al mondo un’immagine dell’Italia in grado di riscattarla, mostrare la dignità di un popolo, l’altro volto di una nazione che in minima parte si riconosceva nel nazifascismo. Il Neorealismo restituiva ai fatti la loro autenticità. Questa capacità di puntualizzazione storicistica sembra lontana oggi. Andrebbe recuperata. Ma, a parte questo, l’Europa è disunita anche per quanto riguarda la distribuzione. Non esiste una distribuzione europea. L’Europa ha più di 500 milioni di abitanti, il doppio degli Stati Uniti e del Canada messi
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insieme. Eppure in America un film è distribuito omogeneamente in tutti gli stati, qui non c’è collegamento. Le leggi che riguardano questo settore sono antiquate. Risalgono agli anni cinquanta del Novecento. Se l’organizzazione del mercato della distribuzione dei film fosse a dimensione europea, sarebbe la cinematografia d’Europa a dominare il mondo e non quella di Hollywood. Il vantaggio che ha il Nord America è la lingua comune, l’inglese. In Europa abbiamo 27 lingue diverse, ma siamo abituati al doppiaggio. – Riguardo al doppiaggio, che a me sembra una conquista, sento talvolta dire che un film perde in tal modo la propria identità. Secondo questa teoria bisognerebbe inserire sottotitoli con traduzione. Non riesco ad accettare l’idea, a mio parere si perde in emozione, in concentrazione. L’impegno ad associare azione e lettura crea distacco, è più difficile immedesimarsi. M’interessa molto la tua opinione a riguardo. – La recitazione è mimica, gestualità e vocalità di un attore. Il modo migliore per rispettare questo insieme di qualità sarebbe il sottotitolaggio. Lo spettatore andrebbe educato ad accettare i sottotitoli e i film andrebbero proposti con la possibilità di far scegliere allo spettatore se vedere il film in lingua originale sottotitolato oppure doppiato come avviene con Netflix. In tutti i festival internazionali o i grandi concorsi, il premio per il migliore attore viene assegnato ad attori di cui si può vedere il film in lingua originale. – Riguardo a ciò che pensava tuo padre sui limiti della Nouvelle vague, non credi però che da loro più a lungo l’eredità rosselliniana sia stata tenuta da conto? – Magari sì, ma con i limiti che nota mio padre: aver accolto alcuni degli aspetti solamente estetici dei suoi film ma
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poco dell’aspetto sociale e politico; e soprattutto si sono fermati ai film per il cinema trascurando che la TV apriva la strada all’utopia rosselliniana di usare i nuovi media per funzioni serie, liberazione dei cervelli da tutte le schiavitù materiali e culturali, cercare di farne cosa utile all’umanità. Credo che il Cinema francese abbia cercato di essere politico solamente nel periodo del Fronte popolare tra il 1936 ed il 1938. La Nouvelle Vague si era liberata dei vecchi schemi estetici. I registi che vi aderirono adottarono il cinema di Roberto Rossellini come modello. Ricordo anche la loro parola d’ordine «Le cinéma de papa est mort» (nel 1970 divenne il titolo del film del regista Claude Berri) e ricordo che all’epoca, nel 1962, io stavo lavorando alla sceneggiatura del film a episodi L’amore a vent’anni con alcuni registi, tra i quali Marcel Ophuls, figlio del regista Max Ophuls. Io e Marcel Ophuls rispondemmo a questa provocazione scrivendo un articolo su «Le Cahiers du Cinéma» dal titolo Le cinéma de nos pères est vivant. – La diffusione di serie tv, corti ma anche film veri e propri attraverso le piattaforme on-line va incontro al desiderio di tuo padre. Ma lui, oltre ad ampliare l’area di fruitori dei mezzi audiovisivi, si poneva come obiettivo l’eticità. Questo è un punto su cui bisogna molto riflettere. È vero che oggi l’umanità è assai più alfabetizzata di ieri. Ma proprio per questa capacità di più rapida e facile assimilazione, il linguaggio e il messaggio vanno vagliati attentamente. Tu che spesso hai avuto delle intuizioni geniali, perché non ne hai un’altra a riguardo? – Nei cinquantotto anni della mia professione come produttore cinematografico ho sempre adottato due principi etici: 1. decolonizzazione culturale; 2. controffensiva ideo-
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logica, per liberare i cervelli dall’aggressione di propagande colonizzatrici del pensiero dei mezzi di comunicazione di massa controllati dal potere politico. – Puoi spiegarti meglio? – Basta sedersi davanti alla televisione in questi giorni di campagna elettorale per capire che i mezzi di comunicazione di massa vengono usati in modo aggressivo per creare opinioni nei laboratori di comunicazione dei partiti con una tecnica che veniva usata anche durante il fascismo e il nazismo per far sì che la gente creda che quelle opinioni siano il frutto della propria riflessione e non dei manipolatori esterni. I mezzi di manipolazione dei cervelli erano, fino a pochi anni fa, la televisione e la stampa. Ora a questi si è aggiunto internet con tutti i suoi social che riescono ad entrare non solo nelle case ma anche nei cellulari, quindi nelle tasche di ognuno di noi. È questa riflessione che mi fa dire che è urgente usare i mezzi esistenti e accessibili per creare un’azione di controffensiva ideologica. – In interviste di qualche anno fa tu formulavi la differenza fra cinema europeo e americano che non giudicavi etico. Però non si può dire che non fosse didascalico. Anzi mi pare che un tempo il cinema americano si orientasse non poco in quel senso. Sì, si tratta anche di film a volte violenti, spesso auto-incensanti. Ma creando una storia in cui alla fine il buono vince sempre, si produce una situazione liberatoria. Un riconoscimento di superiorità diciamo così del bene sul male. Mi si dirà che questa formula di per sé può essere fuorviante poiché non realistica, col pericolo di adagiarsi in formule fittizie. Ma noi della vecchia Europa che più pessimisticamente, realisticamente, partendo da obiettivi culturali, abbiamo prodotto
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film di maggior spessore qualitativo, di più sofisticato scavo psicologico e sociale, abbiamo però immesso una sorta di fatalismo. Più veritieri, certo. Ma il masochismo che s’intravede non mi pare del tutto costruttivo. Il dolore, la tragedia vissuti come epica hanno in sé l’idea del riscatto. Ciò non sempre avviene. Questa caratteristica epica di contro appartiene a tuo padre che è riuscito a creare, ad esempio, anche in un film difficile come Stromboli, una figura complessa, all’interno di un disagio psico-sociale e arrivare a una sorta di catarsi. – Credo dipenda dalla qualità di un lavoro e di come viene proposto. Concordo che l’idea del lieto fine, come dato scontato, può anch’esso essere fuorviante e poco educativo, nell’ottica di una risoluzione del problema al di là e al di sopra di noi stessi. Non si incide così nella consapevolezza e nella partecipazione attiva alla risoluzione stessa. Certo, se poi il realismo muta in masochismo, in atteggiamento rinunciatario, in disimpegno, la faccenda cambia. Perciò, dico, dipende dalla qualità dei realizzatori e del tessuto narrativo. – La tua analisi sulla capacità d’impegno e di maturità socioculturale che ha contraddistinto e contraddistingue ancora in un certo senso l’Europa, la condivido. E però, intanto, una forma di banalizzazione è intervenuta. Cosa è successo? Perché siamo arrivati a questo punto? – Il problema è che tutti i prodotti culturali sono caduti in mano a mercanti e, salvo poche eccezioni, tutti i prodotti culturali sono diventati merce, anche la saggistica, i testi di storia e le poesie. – Liberarsi da queste catene per divenire più autonomi è possibile?
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– Facendo film a basso costo. Mio padre diceva: «Fare film a basso costo significa essere più liberi e non dipendere dal sistema capitalistico». Oggi sarebbe felicissimo nell’usare il sistema digitale che libera il costo del film dal prezzo della pellicola e dei laboratori di sviluppo e stampa. Più libertà dal sistema di mercato significa restituire maggior libertà all’ingegno dell’autore.
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XXI UNA LETTERA, PER CASO
Nel già citato testo Quasi un’autobiografia, abbiamo notato quanta preoccupazione esprima Rossellini per come, degenerando l’espressione audiovisiva, con il potere ad essa intrinseco, si contagi la società, ridotta in sostanza a società dello spettacolo. Se si pensa che questa sua intuizione è del 1977, dobbiamo ancora una volta ammirarne la lungimiranza. Cosa abbiamo fatto, si chiede, di una invenzione straordinaria, il mezzo di comunicazione audiovisivo, un mezzo globale e immediato? Per usarlo appropriatamente ci vorrebbe una pedagogia adeguata alle tecniche di cui si dispone. È dunque sempre il concetto dell’importanza della cultura alla base del suo pensiero. Con questo spirito cerca di programmare il piano di lavoro riguardo alla Enciclopedia Audiovisiva. Non una enumerazione di cose, ma una elaborazione di fatti e figure. Un progetto che lo avvicina per sua stessa ammissione a un umanista cecoslovacco da lui molto amato, Comenio, che vagheggiava la pansofia, cioè la scienza di tutte le scienze per poterla insegnare senza distinzione, a tutti. Comenio nel 1670 aveva già compreso l’importanza dell’immagine che aiuta fortemente la conoscenza. Ora, dice Rossellini «abbiamo l’immagine e la pansofia non è più un miraggio, se solamente volessimo riflettervi seriamente. A
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condizione, è chiaro… di non confonderla con l’illustrazione, semplice strumento visivo di un discorso che resta dialetticamente verbale»1. Rossellini portò avanti il suo progetto, tra il 1969 e il 1974, realizzando in brevissimo tempo per la televisione molti film sull’evoluzione della civiltà occidentale, grazie alla sua immensa cultura. Tornò al cinema nei due ultimi film; anch’essi fanno parte del progetto enciclopedico. L’Enciclopedia universale audiovisiva è stata una intuizione bellissima, un gran lavoro iniziato, da completare, che Roberto ha lasciato come eredità al figlio Renzo. *** – Tra le carte di famiglia hai trovato, del tutto inaspettatamente, una lettera di tuo padre, a te indirizzata. Dev’essere stato un momento di forte emozione. Si tratta dell’ultima che ti ha scritto, quasi un testamento. – Quella lettera mi ha indicato una via da seguire. La sua è stata un’intuizione geniale. E però dal suo ritrovamento mi accorgo di come lui fosse cosciente di avermi forzato. Questo mi dà sofferenza. E nello stesso tempo mi consolida ancora di più nella certezza di essere stato nel giusto a seguirlo. Avrei dovuto seguirlo ancor di più. Ho sbagliato. – Quando i nostri più cari affetti ci lasciano, c’è in tutti noi la tentazione di colpevolizzarci per qualsiasi cosa, anche
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Ivi, p. 36.
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minima. Escono fuori infiniti se… se… se… Credo, viceversa, che tuo padre fosse assai soddisfatto di come eri e di quanto andavi realizzando. Lo dimostra la richiesta di realizzare tu la sua amatissima Enciclopedia Audiovisiva, un grande incarico, un dato di assoluto valore, come tutta l’eredità di tuo padre. Che non a caso affida, attraverso i suoi film e te, al mondo. – Il modo come ha voluto strutturare l’Enciclopedia Audiovisiva dimostra l’importanza che dava a eventi e personaggi storici, alla cultura, quella vera. E, nel contempo, come intendeva incidere nel tessuto sociale e nel futuro del cinema attraverso una lezione di qualità espressiva. Mettendo in fila film per il cinema, quelli per la televisione e le serie televisive secondo l’epoca storica che stanno narrando, se ne ricava una narrazione della storia dell’umanità dal Neolitico all’epoca Moderna, che considero la prima e unica enciclopedia audiovisiva della Storia realizzata da un intellettuale umanista del secolo passato. L’incarico che mi ha lasciato, portare a termine la sua utopia, è divenuto il mio obiettivo primario. Sono nove anni che sto lavorando alla realizzazione di quest’opera. Scopro a ogni passo che per ogni film e serie televisiva gli argomenti narrati sono divisi in modo da arricchire ogni parola del testo enciclopedico, come con «la medicina ai tempi di…» per la parola medicina o «come si mangiava ai tempi di…» per la parola nutrizione, fino ad arrivare a temi più vasti come «il ruolo della donna ai tempi di…», usando immagini e dialoghi per narrare, mostrare, far capire scientificamente la storia dell’umanità. Il compito che si era dato mio padre (mostrare e non dimostrare, come spesso ho ripetuto) è stato una sua costante, essendo lui certo che le immagini sono più potenti delle parole scritte e che, se
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fossero usate correttamente per aprire i cervelli, per farvi entrare il sapere, formerebbero uomini con strumenti più potenti di autodifesa contro le manipolazioni esterne. Pensava che il sapere e la conoscenza correttamente diffusa fossero strumenti per difendere la libertà di ogni individuo. – Hai accettato un compito molto arduo e lo stai portando avanti con determinazione. Questa enciclopedia dovrebbe entrare in ogni istituto scolastico, in biblioteche, università, non solo mediateche ed essere diffusa il più possibile. Non è quello che tuo padre avrebbe voluto? Ci stai provando? – A Viterbo è stata aperta una mediateca all’interno della Biblioteca diretta da Paolo Pelliccia e in essa l’enciclopedia è presente. All’inaugurazione venne anche l’allora presidente della Regione Lazio, attualmente segretario del PD, Nicola Zingaretti, persona molto intelligente e preparata. Stiamo provando con altre strutture. Ma oltre alle biblioteche, la documentazione-narrazione della Storia dell’umanità con filmati e strumenti didattici audiovisivi dovrebbe essere usata, come ben hai detto, anche nelle scuole e nelle università. – Oltre a questo, quali sono i tuoi programmi? – In parte ti ho risposto: provare a pubblicare alcuni lavori di mio padre, realizzare una sua sceneggiatura. Ma la mia è un’età nella quale più che programmi si fa una revisione del proprio percorso di vita. – Rimpianti? Cosa avresti voluto dire, fare, realizzare e non hai fatto? Cosa è rimasto incompiuto? – Potrei scrivere pagine e pagine sui miei rimpianti. 1. Non aver fatto abbastanza per gli altri che, fragili, avrebbero avuto bisogno di me. 2. Non aver fatto abbastanza per mio
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padre, durante la sua vita. 3. Non essere morto per una missione che avrebbe meritato la vita invece di arrivare alla mia noiosa vecchiaia. Rimpianto di, come adesso, non aver nominato la mia compagna italiana, Gabriella Boccardo, con la quale convivo da diciotto anni a Roma. Sia lei che io siamo nonni, lei di tre nipotini, io nonno di due. Gabriella cura anche l’archivio di mio padre Roberto Rossellini e poco potrei fare senza la sua intelligenza e la sua cultura. La mia Gabriella mi tollera anche vedendomi invecchiare e sentendomi parlare di morte. – Mi rendo conto che il parlare di morte, il pensare alla morte è più frequente negli uomini che nelle donne. Forse perché alla fine noi l’accettiamo meglio di voi, ne abbiamo meno paura. Forse per esorcizzarla bisogna avere dei progetti, cercare di realizzarli. Oltre a quelli citati, ne hai altri? Non sei così vecchio come vorresti dare a intendere. In sostanza finché ci siamo, abbiamo dei compiti, esperienze da condividere, riparare a qualcosa di negativo, proseguire in ciò che di buono abbiamo realizzato. C’è un messaggio o una serie di considerazioni che vuoi esprimere a conclusione di questa nostra lunga chiacchierata? Qualche perla di saggezza da lasciare ai tuoi discendenti? – Vecchio? Attualmente sono il Rossellini maschio più vecchio mai esistito, il che mi fa spesso riflettere sulla morte di cui non ho nessuna paura. Compiti: continuare a essere arrabbiato verso coloro che cercano di cancellare il ricordo e avere un giusto rapporto con la gigantesca opera realizzata da mio padre. Io paragono l’opera di mio padre, che passa attraverso vari periodi stilistici, all’opera di Picasso. Un altro forte compito che sento di dover espletare è di occuparmi
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dei Rossellini che ho generato, anche se sono sicuro che non riuscirei a fare ciò che ha fatto mio padre con me, che spero di aver descritto in queste pagine. Ai miei figli voglio dire che la vanità è un peccato capitale come lo è l’indifferenza. Essere arrabbiati, invece, arrabbiarsi contro le ingiustizie è il nostro compito, che dovrebbe essere una ragione di vita. – Interessante e apprezzabile questa tua indignazione contro le ingiustizie e, di conseguenza, i soprusi verso i più deboli e indifesi; l’approfittarsi degli altri. Ma importante è rivolgere un ultimo sguardo a Roberto Rossellini, vero obiettivo della nostra conversazione. È doveroso essergli grati per l’eredità che lascia a tutti noi. Roberto Rossellini è un mito che ci affascinerà sempre per l’intelligenza acuta, la splendida e suggestiva creatività; affascina il coraggio di affrontare vie nuove. Quando venne inaugurata la televisione italiana il primo film trasmesso, non a caso, fu Roma città aperta. Rossellini rimarrà per sempre a raccontarci l’amore per la conoscenza, per l’umanità; il desiderio di vederla crescere, attraverso il sapere che rende liberi, che riscatta dalla dipendenza altrui. Inoltre è un personaggio di così forte spessore umano nella sua ricerca di fede, propria delle nature dotate di interiorità e passione. I personaggi a cui dedica attenzione non sono scelti in base a una loro capacità di piacere e compiacere, ma all’esigenza di comunicarne il messaggio, proporne il pensiero, come Socrate, Agostino, Pascal, Cartesio. Rossellini è parte dei grandi nomi di artisti, intellettuali, scienziati che hanno fatto grande la nostra terra. Il resto, come direbbe Marcella De Marchis, è leggenda.
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INDICE
Premessa I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV XV XVI
Roberto e Marcella. I primi passi da cineasta Il dopoguerra e il Neorealismo Elaborazione di un lutto. La Pietà. La Santità L’uomo Roberto Rossellini Il padre, Roberto Rossellini Oltre il Neorealismo Roberto Rossellini e l’educazione permanente Personaggi L’età delle scelte Cuba Fra Cinema e televisione 1967. L’Egitto e non solo Il Sessantotto (dal ’68 al ’77) Il Cile e Salvador Allende La tragica vicenda di Aldo Moro Attentati
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XVII XVIII XIX XX XXI
Afghanistan Gaumont Italia, produzione, docenza Il mondo degli affetti Televisione e cinema: scelte didattiche Una lettera, per caso
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Finito di stampre presso POLISTAMPA FIRENZE srl maggio 2020
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