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Italian Pages 430 [215] Year 2010
Michael Hardt Antonio Negri
Comune Oltre il privato e il pubblico
R!:_zzoli
Proprietà ktterari4 riservata © 2009 by Michael Hardt and Antonio Negri © 2010 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-17-0.3841-6 Titolo originale del!'opera COMMONWEAL1H
Prima edizione: settembre 2010 Traduzione e cura di Alessandro Pandolfi
Realiuazione editori4k a cura delle studio MacchiaVmana
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Prefazione Il Divenire Principe della moltitudine Gli uomini hanno la libertà che il loro coraggio ha sottratto alla paura. Stendhal, Vita di Napoleone Power to the peaceful Michael Franti, Bomb the World
Guerra, sofferenza, miseria e sfruttamento caratterizzano sempre di più il mondo globalizzato. Ci sono troppe ragioni per cercare rifugio in un'altra dimensione, «al di fuori», in un luogo lontano dalla disciplina e dal controllo dell'Impero, in principi e valori trascendenti o trascendentali capaci di indirizzare le nostre vite e di fondare l'azione politica. La prima conseguenza della globalizzazione è la creazione di un mondo comune, un mondo che, bene o male, ci riguarda tutti, un mondo rispetto al quale non c'è alcun «fuori». Insieme ai nichilisti, dobbiamo renderci conto che, per quanto lo si giudichi con intelligenza critica e radicalità, siamo destinati a vivere in questo mondo, non solo perché siamo sottomessi al suo dominio, ma anche perché siamo contagiati dalla sua corruzione. Abbandoniamo dunque i sogni di una politica incontaminata e i «grandi valori» che ci permetterebbero di restarne fuori! Questo rilievo di sapore nichilistico per ora ci fornisce comunque uno strumento, un punto di passaggio verso la costruzione di un progetto alternativo. In questo libro cerchiamo per l'appunto di atticolare un progetto etico, un'etica dell'azione politica democratica all'interno e contro l'Impero. Analizziamo quali sono stati i movimenti e le pratiche della moltitudine e cosa possono diventare per animare le relazioni sociali e le forme istituzionali di una possibile democrazia globale. «Divenire Principe» è il processo attraverso cui la moltitudine apprende l'arte del1'autogoverno e crea forme durature di organizzazione sociale. La democrazia della moltitudine è concepibile e possibile nella misura in cui tutti condividono e partecipano insieme al comune. Con il termine «comune» intendiamo, in primo luogo, la ricchezza comune del mondo materiale -1'aria, l'acqua, i frutti della terra e 7
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tutti i doni della natura - che nei testi classici del pensiero politico occidentale è sovente caratterizzata come l'eredità di tutta l'umanità da condividere insieme. Per comwie si deve intendere, con maggior precisione, tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale, che è necessario per l'interazione sociale e per la prosecuzione della produzione, come le conoscenze, i linguaggi, i codici, l'informazione, gli affetti e cosl via. La cognizione del comune non presuppone la separazione dell'umanità dallà natura, come se l'umanità fosse il suo sfruttatore o il suo custode, bensì essa mette in evidenza le pratiche dell'interazione, della cura e della coabitazione in un mondo che è oltremodo comune, pratiche che contribuiscono a incrementare gli aspetti e le forme più feconde del comune e a limitare quelle più nocive. Nell'età della globalizzazione, i temi della conservazione, della produzione e della distribuzione del comwie, in entrambi i significati che abbiamo indicato, divengono sempre più centrali.' Con i paraocchi delle ideologie dominanti è difficile vedere il comwie, anche se è ovunque intorno a noi. Negli ultimi decenni, le politiche di stampo neoliberista hanno cercato in tutte le parti del mondo di privatizzare il comune e di trasformare i prodotti culturali, l'informazione, le idee, persino le specie animali e vegetali, in proprietà privata. Sosteniamo, in sintonia con molti altri, che occorre resistere a queste privatizzazioni. Di solito si ritiene che l'unica alternativa al privato sia il pubblico, che è l'insieme di tutto ciò che è amministrato e regolato dagli Stati e da altre agenzie governative, come se il comune fosse irrilevante o si fosse dissolto. Non c'è dubbio che nel corso di wi lwigo processo di appropriazioni la superficie della terra sia stata quasi completamente spartita tra la proprietà pubblica e quella privata, al pwito che le strutture agrarie, come quelle delle civiltà autoctone delle Americhe o dell'Europa medioevale, sono state distrutte. Nonostante tutto, tanta parte del mondo è ancora comwie, accessibile a tutti e arricchita da un'attiva partecipazione. Il linguaggio, gli affetti e le espressioni umane sono per la maggior parte comuni. Se il linguaggio fosse privatizzato o reso integralmente pubblico - se le parole, le frasi o intere parti dei nostri discorsi fossero sottomessi alla proprietà privata o ai pubblici poteri - esso perderebbe la sua espressività, la sua creatività e la capacità di comunicare. Questo esempio non ha lo scopo di rassicurare i lettori che i guasti provocati dal controllo della proprietà privata e pubblica non sono così gravi come sembrano, quanto di sollecitarli a riqualificare il loro giudizio al fine di riconoscere l'esistenza e la potenza del co-
mune. Questo è il primo passo di un progetto per la riconquista e l'espansione della potenza del comune. L'alternativa tra pubblico e privato è simmetrica all'alternativa, altrettanto politicamente perniciosa, tra capitalismo e socialismo. Si dice spesso che l'unica cura per i mali della società capitalistica sia la regolazione pubblica e un governo dell'economia di tipo keynesiano e/o socialista, mentre, allo stesso modo, i mali del socialismo possono essere curati soltanto dalla proprietà privata e dal controllo capitalistico. Il socialismo e il capitalismo, che talvolta si sono amalgamati e altre volte si sono aspramente combattuti, sono entrambi dei regimi della proprietà che escludono il comune. Il progetto politico di istituzione del comune che sviluppiamo in questo libro, proprio perché taglia trasversalmente queste false alternative - né privato, né pubblico, quindi né capitalista ma neppure socialista - apre un nuovo spazio per la politica. Le attuali forme della produzione e dell'accumulazione capitalistica, nonostante la loro sistematica tendenza a privatizzare le risorse e la ricchezza, rendono paradossalmente possibile e persino esigono l'espansione del comune. Il capitale non è soltanto una forma di comando, ma una relazione sociale. Per questo il capitale dipende, sia per la sua sopravvivenza sia per il suo sviluppo, dalle soggettività produttive che sono al suo interno, ma che sono allo stesso tempo antagoniste. Con i processi della globalizzazione, il capitale non solo riduce tutta la terra sotto il suo comando, ma crea, investe e sfrutta tutte le società imponendo alla vita di ognuno le gerarchie della valorizzazione economica. Nelle forme di produzione attualmente predominanti, in cui sono integrati le informazioni, i codici, le conoscenze, le immagini e gli affetti, i produttori hanno bisogno sia di una notevole libertà sia del libero accesso al comwie, in particolar modo alle reti della comunicazione, alle banche dati, ai circuiti culturali. L'innovazione e la comunicazione in rete dipendono direttamente sia dall'accesso a codici comuni e alle risorse dell'informazione sia dalla capacità di connessione e interazione collettiva in un sistema di partecipazione comunicativa libero e aperto. Le forme di produzione che operano in rete, anche se non sono direttamente incorporate in sofisticate tecnologie informatiche, hanno bisogno di libertà di accesso al comune. I contenuti della produzione -le idee, le immagini e gli affetti - sono riprodotti sempre più facilmente, e cosl tendono a diventare comuni, resistendo in modo energico a tutti i tentativi giuridici ed economici di privatizzarli e sottometterli al con-
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trollo pubblico. La transizione è ancora in corso. Le esigenze della produzione capitalistica rendono possibile la creazione delle basi di un ordine economico e sociale fondato sul comune. Se passiamo a un altro livello di astrazione, osserviamo che il nucleo della produzione biopolitica non è tanto la produzione di oggetti per il consumo dei soggetti, come la produzione di merci, ma la produzione della stessa soggettività. Questo è il terreno su cui deve essere edificato il nostro progetto politico ed etico. Ma come è possibile radicare la costituzione di un'etica su un terreno cosl sdrucciolevole come quello della produzione della soggettività, in cui le stesse soggettività e i valori sono in continuo mutamento? Riflettendo sul concetto di dispositivo formulato da Miche! Foucault (i procedimenti e le strutture materiali, sociali, affettive e cognitive della produzione di soggettività) Gilles Deleuze scrive: «Apparteniamo ai dispositivi e agiamo al loro interno». Se effettivamente agiamo all'interno dei dispositivi, allora l'orizzonte etico non è più quello dell'identità, ma del divenire e della creazione dell'attuale. «I.:attuale» prosegue Deleuze «non è ciò che siamo, ma piuttosto ciò che diveniamo, ciò che stiamo divenendo, cioè l'Altro, il nostro divenire altro.»2 Da questo punto di vista, il terreno attualmente più risolutivo dell'azione politica è quello su cui si svolgono le lotte per il controllo o per l'autonomia della produzione di soggettività. La moltitudine diviene tale ricomponendo nel comune le singolarità prodotte in questo processo. Siamo consapevoli che il nostro lessico politico è spesso insufficiente per cogliere le nuove condizioni e le possibilità del mondo contemporaneo. Per affrontare questa sfida talvolta siamo costretti a inventare nuovi concetti, ma, perlopiù, ci adoperiamo per rianimare dei concetti politici in disuso, sia perché possiedono un notevole indice storico sia perché destabilizzano i luoghi comuni permettendoci di vedere la realtà sotto una nuova luce. In questo libro ci sono due concetti di questo genere che giocano un ruolo assai significativo: povertà e amore. La povertà è un concetto molto importante nella storia europea tra il Medioevo e il XVII secolo. Tuttavia, benché sia estremamente utile ricavare degli insegnamenti dalla storia della povertà, siamo più interessati a capire che cosa è diventata oggi la povertà e chi sono attualmente i poveri. In primo luogo, asswnere il punto di vista della povertà produce il potente effetto di mettere in questione le tradizionali distinzioni di classe; significa riuscire ad analizzare con uno sguardo più acuto i mutamenti della composizione di classe e descrivere l'inconsueta tipologia delle attività produtti-
ve ancora caratterizzate dalle relazioni salariali o a esse irriducibili. In secondo luogo, da questa prospettiva, la povertà non appare sinonimo di mancanza, ma di possibilità. I poveri, i migranti e i lavoratori precari sono spesso considerati degli esclusi. In realtà, nonostante siano dei lavoratori subordinati, sono completamente all'interno dei ritmi globali della produzione biopolitica. Le statistiche economiche possono continuare a presentare le condizioni della povertà in termini negativi, ma non possono fare altrettanto con le forme di vita, i linguaggi, i movimenti e la capacità di innovare generati dalla povertà. La nostra sfida sarà quella di trovare il modo di trasporre la produttività e le possibilità dei poveri in potere. Con la consueta eleganza e intelligenza, negli anni Trenta Walter Benjamin ha colto il mutamento del concetto di povertà. Certo, in un'ottica nichilistica, Benjamin lo scova nell'esperienza della generazione che aveva visto e subito le distruzioni della Prima guerra mondiale. Dalle ceneri delle rovine del passato Benjamin vede nascere una nuova e positiva forma di barbarie. che msorgono alla morte della filosofia e che può respingere i tent~tivi assoggettare il pensiero. Derrida, sulla scia di 9uesto Kant «ill~nato», restituisce alla ragione la forza del dubbio ed esalta la passione rivoluzionaria della ragione che si afferma sui margini della storia.6 Questa forza intellettuale, se è indubbiamente necessaria per superare il dogmatismo e il nichilismo, va tuttavia integrata co~ la forza fisica e l'azione politica. Per poter creare un nuovo mondo Imperniato sulla ricchezza comune, l'amore ha bisogno della forza _P~ sconfiggere i poteri dominanti e per smantellare le loro corrotte 1SUtuzioni. Il progetto etico cui ci siamo dedicati in questo libro inizia tracciando il cammino della costruzione politica della moltitudine all'interno dell'Impero. La moltitudine è Wl insieme di singolarità costituite dalla povertà e dall'amore nella riproduzione del comune. Questo non è tuttavia sufficiente per descrivere le dinamiche e i dispositivi del divenire Principe della moltitudine. Dai nostri cappelli non usciranno principi trascendentali o nuove defmizioni della volontà di potenza da imporre alla moltitudine. Il divenire Principe della moltitudine è Wl progetto che si fonda interamente nell'immanenza dei processi decisionali che si svolgono all'interno della moltitudine. Ciò che in tal senso occorre definire è il passaggio dalle rivolte alle istituzioni rivoluzionarie che la moltitudine può mettere in moto. Il titolo di questo libro, Comune, è indicativo del rit?rno ~ una serie di tematiche dei classici trattati sul governo con cw esammare la struttura istituzionale e la costituzione politica della società. Dopo aver determinato la relazione tra i due termini che compongono questo concetto (Common Wealth) è necessario pensare un mondo caratterizzato dalla ricchezza comune, in cui le nostre capacità di generare Wla produzione collettiva e di r~zare forme ~ aut~gove~no siano messe in luce ed esaltate. La prona parte del libro e cosutuita da Wl'indagine storica e filosofica in cui sono focalizzati in successione i temi della repubblica, della modernità e del capitale, in quanto rappresentano le strutture che maggiormente limitano e cor-
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rompono lo sviluppo del comune. Su ognuno di questi terreni abbiamo messo in evidenza le alternative che emergono dalla moltitudine dei poveri e dai circuiti dell'altermodemità. La seconda parte del libro contiene un'analisi economica e politica di ciò che è attualmente il comune. Nella seconda parte ci occupiamo anche delle strutture della govemance globale dell'Impero e degli apparati del comando capitalistico che vogliono catturare le condizioni e la potenza della moltitudine. La ricerca finisce con una riflessione sulle possibilità odierne della rivoluzione e sui processi istituzionali che essa esige. Alla fine di ogni parte del libro ci sono delle sezioni che riprendono da una prospettiva caratterizzata in senso più marcatamente filosofico il tema nodale che è emerso nel corpo del testo. (La funzione di queste sezioni è simile a quella degli Scoli dell'Etica di Spinoza.) Insieme all'Intermezzo, queste sezioni possono essere lette una dopo l'altra come parti di un'unica ricerca. Jean-Luc Nancy, muovendo da premesse simili alle nostre, si chiede «è plausibile una lettura o una riscrittura "spinoziana" di Essere e tempo?». 7 Ci auguriamo che il nostro lavoro vada in questa direzione, e che sia capace di capovolgere la fenomenologia del nichilismo e di rivelare i processi della produttività e della creatività della moltitudine che possono rivoluzionare il mondo e istituire una ricchezza condivisa in comune. Non ci limitiamo a definire un evento, vogliamo afferrare la scintilla che manderà a fuoco la prateria.
Prima parte Repubblica (e la moltitudine dei poveri) Sono stanco che il sole resti in cie-
lo, non vedo l'ora che si sfasci la sintassi del mondo.
Italo Calvino, Il castello dei destini incrociati
1.1. La repubblica della proprietà I due grandi argomenti, la libertà e la proprietà (per cui si battono tanti uomini) sono opposti come il fuoco e l'acqua e non possono stare insieme. Robert Filmer, Observations upon
Aristotle's Politiques Al culmine dd suo sviluppo, la costituzione politica è la costituzione della proprietà privata. Karl Marx, Critica della /i!-Osofia hegeliana del din'tto pubblico
Di un tono apocalittico recentemente adottato tn politica Una sorta di visione apocalittica domina le concezioni contemporanee del potere che ci mettono in guardia nei confronti dell'avvento di nuovi imperialismi e di nuovi fascismi. Tutto è spiegato ricorrendo alla sovranità e allo stato di eccezione, e cioè a una sospensione generale dei diritti e all'imporsi di un potere che trascende la legge. Le prove di questo stato di eccezione sono sotto gli occhi di tutti: il predominio della violenza come strumento cui si ricorre, non in ultima, ma in prima istanza per risolvere i conflitti nazionali e internazionali; l'uso generalizzato e persino legittimato della tortura; il massacro indiscriminato dei civili nel corso dei combattimenti; la soppressione del diritto internazionale; la sospensione dei diritti fondamentali, la messa a repentaglio della sicurezza interna, e la lista potrebbe continuare. Questa visione del mondo assomiglia alle rappresentazioni medioevali dell'inferno, con i dannati bruciati in un fiume di fuoco, altri con le membra straziate, e al centro Satana che ingoia un corpo dopo l'altro. Il punto debole di questo quadro è che in esso la trascendenza della sovranità e la violenza oscurano e mistificano le reali forme di potere che dominano effettivamente la nostra vita - il potere incorporato I7
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nella proprietà e nel capitale, il potere immanente al diritto e sostenuto dal diritto. Le visioni apocalittiche sono ossessionate dall'avvento di nuovi fascismi. Molti, sotto Bush, ritenevano che l'amministrazione americana fosse fascista e a questo riguardo citavano Abu Ghraib, Guantanamo, Falluja e il Patriot Act. Altri definiscono fascista il governo israeliano per le continue occupazioni di Gaza e del West Bank, per l'uso che esso fa dell'assassinio e dei bulldozer come strumenti diplomatici e per i bombardamenti del Libano. Per altri, il «fascismo islamico» è il regime che caratterizza i governi teocratici e i movimenti del mondo musulmano. Parecchi usano il termine «fascismo» in modo generico per indicare i regimi e i movimenti politici che detestano. In questi casi, con il termine «fascismo» si vuole denunciare il volto autoritario del potere e il suo ricorso alla forza, ma ciò che viene oscurato e mistificato è l'esercizio quotidiano dei processi giuridico-costituzionali e la pressione costante del profitto e della proprietà. I violenti bagliori di una serie di eventi di estrema gravità rendono ciechi di fronte alle strutture di potere che operano quotidianamente. 1 La declinazione colta dei discorsi apocalittici è caratt~rizzata da un'eccessiva sottolineatura del concetto di sovranità. Alcuni autori affermano che il sovrano è chi decide dello e sullo stato di eccezione. In tal modo egli si trova, a un tempo, all'interno e all'esterno del diritto. Secondo questa interpretazione, la sovranità moderna è ancora fondamentalmente teologica, non tanto perché l'accezione divina dell'autorità sia stata secolarizzata, ma in quanto la sovranità occupa una posizione trascendente da cui sovrasta la società restando al di fuori delle sue strutture. Se per certi aspetti questa linea di pensiero rappresenta un ritorno alla filosofia politica di Hobbes e al Grande Leviatano, essa si riallaccia più profondamente ai dibattiti filosofici degli anni Trenta, svoltisi soprattutto in Germania e animati da Cari Schmitt. Come nei discorsi quotidiani, anche a quel livello, le strutture economiche e giuridiche si perdono nella nebbia, dato che sono considerate elementi secondari o al massimo degli strumenti a disposizione della sovranità. In questo modo, mentre le forme politiche sono assorbite nella sovranità o nel fascismo, il campo di concentramento, il limite estremo del controllo entro e al di fuori dell'ordine sociale, diventa il topos paradigmatico della modernità.2 Queste visioni apocalittiche - sia i discorsi filosofici sulla sovranità sia la denuncia dell'avanzare del fascismo nei discorsi di tutti i giorni - ostacolano l'impegno politico contro il potere. Di fronte a 18
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un potere di questa natura non ci sono forze di liberazione che benché sconfitte o bloccate siano in grado di risollevarsi. Non c'è alcuna speranza di trasforma re un potere di questa natura con metodi democratici. Di fronte a un potere di questa natura non c'è altro da fa. re che contrastarlo in modo incondizionato e distruggerlo. La tonalità spiccatamente teologica che pervade questa immagine della sovranità si fa sentire nella distinzione manichea tra due opposte alternative: o ci si sottomette a questa sovranità trascendente o la si combatte senza quartiere. A questo proposito occorre ricordare che i gruppi terroristici di sinistra degli anni Settanta sostenevano che lo Stato era diventato fascista e che la lotta armata era la sola prospettiva praticabile. Oggi, chi a sinistra parla di un nuovo fascismo ne parla con rassegnazione o con indignazione morale, ma non invoca certo il ricorso alle armi. Nondimeno, il nucleo logico dei ragionamenti è lo stesso: non c'è impegno politico possibile nei confronti di una sovranità fascista dal momento che l'unico linguaggio che conosce è quello della violenza. La principale forma di potere con cui abbiamo a che fare oggi non è così drammatica o demoniaca, ma molto più terrena e prosaica. Basta confondere politica e teologia! La forma al momento predominante della sovranità - se vogliamo ancora definirla così è del tutto immanente, sostenuta dai sistemi giuridici e dalle istituzioni della govemance, è cioè una forma politica repubblicana caratterizzata dalla sovranità della legge e della proprietà. Detto altrimenti, il potere politico è del tutto immanente alle strutture economiche e giuridiche. Non c'è nulla di straordinario o di eccezionale in tutto questo. La pretesa normalità del potere, il suo silenzioso esercizio quotidiano, rendono estremamente difficile riconoscerlo, analizzarlo e contrastarlo. Il nostro primo compito sarà allora quello di chiarire le relazioni immanenti tra la sovranità, il diritto e il capitale. Nei confronti del pensiero politico contemporaneo sarebbe necessaria la stessa operazione compiuta da Evemero nei confronti della mitologia greca nel IV secolo avanti Cristo. Evemero sosteneva che i miti, in realtà, erano racconti storici di azioni umane i cui contenuti, a forza di essere narrati, erano stati amplificati, impreziositi e proiettati verso la volta celeste. Allo stesso modo, oggi ci sono dei fedeli che immaginano che la sovranità se ne stia lassù come sulla vetta di una montagna, mentre le forme predominanti del potere sono totalmente immanenti e rasoterra. Un evemerismo politico potrebbe 19
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aiutare costoro a non cercare più la sovranità nei cieli, ma a riconoscerne le strutture qui sulla terra.i Dopo essersi sbarazzati delle pretese teologiche e delle visioni apocalittiche di cui sono imbevute le teorie contemporanee della sovranità e dopo averle riportate dentro la società, occorre analizzare più da vicino il modo con cui il potere agisce socialmente. In termini filosofi.ci, possiamo raffigurarci questo passaggio come un movimento da un'analisi trascendente a una critica trascendentale. Con la «rivoluzione copernicana» di Kant in filosofia finiva la speculazione medioevale con i suoi tentativi di ancorare la ragione e l'intelletto, insieme alle cose stesse, nelle essenze trascendenti. Per Kant, la filosofia deve sforzarsi di enucleare le strutture trascendentali immanenti al pensiero e all'esperienza: «Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupi non di oggetti, ma del nostro modo di cono4 scenza degli oggetti in quanto questa deve essere possibile a priori». Secondo Kant, il trascendentale, sebbene sia irriducibile all'esperienza immediata, non è completamente esterno a essa. Il trascendentale è il termine che designa le condizioni di possibilità dell' esperienza e della conoscenza. Mentre la critica trascendentale kantiana riguarda soprattutto la conoscenza e la ragione, la nostra critica è rivolta al potere. Come Kant si è sbarazzato delle inquietudini della filosofi.a medioevale per le essenze e le cause divine, allo stesso modo, occorre lasciarsi alle spalle le teorie della sovranità fondate sullo stato di eccezione che somigliano tanto alle riproduzioni delle antiche dottrine sulle prerogative reali della monarchia. La trascendentalità del potere esige obbedienza non con il comando di un sovrano, e neppure prevalentemente con la forza, ma perché organizza le condizioni di possibilità della vita sociale. La scoperta della natura trascendentale del diritto ha spinto il costituzionalismo, da Kelsen a Rawls, a declinare la concezione del diritto nei termini del formalismo kantiano.s La proprietà, intesa come un attributo naturale del pensiero e dell'azione, diventa l'ideale regolativo del diritto costituzionale e dello Stato di diritto. Non ci troviamo di fronte a un fondamento storicamente determinato del1'ordinamento giuridico, ma a un'obbligazione di natura etica, alla forma costitutiva dell'ordine morale. Il concetto di individuo non è definito dall'essere, ma dall'avere; piuttosto che rimandare a un'unità metafisica di natura trascendentale, il concetto di individuo è di natura superficiale, l'individualismo possessivo e proprietario, la cui
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versione contemporanea e «patrimoniale» è il proprietario azionario. Attraverso l'individuo, la figura trascendente della legittimazione della proprietà è incorporata nel formalismo trascendentale della giuridicità. Con ciò, si può dire che l'eccezione è inclusa nella costituzione. Anche il capitale costituisce una forma di dominio impersonale che impone norme sui generis, e cioè leggi economiche che organizzano la società e che trasfigurano le gerarchie e le forme di subordinazione fino al punto da renderle naturali e necessarie. Le pietre angolari della società capitalistica - il potere della proprietà concentrata nelle mani di pochi, la necessità da parte della maggioranza di vendere la forza lavoro per sopravvivere, l'esclusione di gran parte della popolazione mondiale persino dai circuiti dello sfruttamento, e cosl via - sono come degli a priori. È difficile riconoscere tutto ciò come espressione della violenza dato che è perfettamente normalizzata, e la sua efficacia si manifesta in modo del tutto impersonale. Il controllo e lo sfruttamento capitalistico non sono manifestazioni di un potere sovrano, ma si dispiegano attraverso una serie di norme pressoché invisibili e interiorizzate. Nella misura in cui il sistema finanziario assume dimensioni sempre più ampie, la determinazione capitalistica delle condizioni di possibilità della vita diventa sempre più generale e compiuta. Se per un verso la natura astratta del capitale finanziario è apparentemente aliena nei confronti della vita quotidiana della maggioranza degli individui, dall'altro, questa stessa astrazione conferisce al capitale finanziario il potere di un a priori e lo dota di una presa pressoché universale anche su chi non si rende conto del proprio coinvolgimento nei mercati finanziari - mediante il debito pubblico, mediante i debiti privati, attraverso gli strwnenti finanziari che influiscono su tutti i tipi di produzioni, dalla soia ai computer, con la manipolazione delle valute e dei tassi di interesse. Seguendo il filo della metodologia kantiana, la nostra critica trascendentale dovrà impegnarsi a mostrare in che misura il capitale e il diritto, saldamente intrecciati nella repubblica della proprietà, determinano e dettano le condizioni di possibilità della riproduzione sociale in tutti i suoi aspetti e momenti temporali. La nostra è un'appropriazione indubbiamente eretica e tendenziosa di Kant, un'appropriazione che si muove in maniera trasversale attraverso la sua opera. In particolare, se abbiamo fatto nostro il criticismo kantiano rilevando che il suo schema epistemologico corrisponde a quello del potere della proprietà e a quello del diritto, invece di riconoscere 2I
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la r,pubb/i> imposto in Bengala dalle autorità coloniali britanniche e dagli amministratori della East India Company alla fine del Settecento per garantire la sicurezza della proprietà, in particolare quella agraria, e per emarginare il ruolo degli Zamindar, il ceto dei proprietari agrari locali, incrementando in questo modo gli introiti fiscali e le rendite dei colonizzatori. Ranajit Guha, nel suo studio dei dibattiti che precedettero l'istituzione del «Permanent Settlement» in Bengala è colpito dal fatto che un dominio agrario quasi feudale sia sta· to approvato dai borghesi britannici, alcuni dei quali erano sinceri ammiratori della Rivoluzione francese. Guha sostiene che la borghesia europea accettava di accantonare gli ideali repubblicani quando si trattava di governare delle terre di conquista, soprattutto nel momento in cui occorreva consolidare la base sociale della sua sovranità. In realtà, in Bengala la borghesia non stava facendo altro che stabilire il principio cardinale delle repubbliche borghesi: il potere della proprietà. La sicurezza e l'inviolabilità della proprietà è così saldamente fondata nella mentalità repubblicana che le autorità coloniali si sono ben guardate da mettere in discussione i benefici della sua propagazione. 17 Infine, nella costruzione del Welfare State, a metà del XX secolo,
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la proprietà pubblica acquista un'importanza ancora più rilevante nella Costituzione repubblicana. Questa trasformazione del diritto di proprietà era correlata alla trasformazione capitalistica dell'organizzazione del lavoro e rifletteva il crescente rilievo che iniziavano ad asswnere le politiche pubbliche nei confronti dei rapporti di produzione. Nonostante i cambiamenti, il vecchio detto rimaneva sempre valido: l'esprit des lois c'est la propriété. Evgenij Pasukanis, che scriveva negli anni Venti, aveva anticipato questa svolta con straordinaria lucidità: «È del tutto evidente che la logica dei concetti giuridici» scrive Pasukanis «corrisponde alla logica dei rapporti sociali di una società che produce merci e che proprio in tali rapporti e non nella permissione di un'autorità, va ricercata la radice del sistema del diritto privato. La logica dei rapporti di dominio e di subordinazione rientra così solo in parte nel sistema dei concetti giuridici. Perciò la concezione giuridica dello Stato non può mai diventare teoria e resterà sempre un'alterazione ideologica dei fatti». 18 Per Pasukanis, in effetti, il diritto è interamente diritto privato mentre il diritto pubblico è una mera figura ideologica immaginata dai teorici borghesi del diritto. La cosa più importante per il nostro lavoro è che il concetto di proprietà e la sua difesa si confermino come il fondamento di tutte le Costituzioni politiche moderne. In tal senso, la repubblica, dalle grandi rivoluzioni borghesi fino ai giorni nostri, è una repubblica della proprietà.
La valorizzazione dell'immanenza non è giustificata da un atto di fede nelle capacità spontanee e immediate della società. Il piano di immanenza che caratterizza la società deve essere organizzato politicamente. La nostra critica è irriducibile a un mero rifiuto dei meccanismi che regolano il potere e a un'invocazione della violenza. Il rifiuto è certamente una reazione potente e sempre necessaria all'imposizione del dominio, ma da solo non è altro che un atteggiamento negativo. La violenza può essere eventualmente una risposta cruciale e necessaria, una sorta di effetto boomerang che riporta al punto di origine la violenza che si è abbattuta sui nostri corpi. Anche questo genere di violenza è tuttavia un mero fenomeno reattivo che non crea nulla. Occorre educare le reazioni spontanee; occorre trasformare il rifiuto in resistenza e la violenza nell'uso della forza. Le risposte immediate devono essere seguite da un confronto con la realtà e da una messa in forma degli istinti politici, dell'immaginazione e dei desideri. La resistenza e l'uso ponderato della forza trascendono le reazioni negative verso l'elaborazione di un programma organizzativo per costruire delle alternative sul piano di immanenza. L'esigenza di animare in modo creativo un'organizzazione ci riporta paradossalmente a Kant, o meglio a una voce in tono minore che risuona negli scritti di Kant e che ci offre un'alternativa al comando e all'autorità della sovranità moderna. Questa alternativa sale limpidamente in superficie nel breve testo dal titolo Risposta alla domanda: che cos'è l'llluminismo?. 19 La leva per uscire dallo stato di minorità, dalla soggezione nei confronti di chi, esercitando l'autorità, parla e pensa per noi, e dunque per riuscire a pensare e ad agire autonomamente, per Kant, che cita a questo proposito il motto di Orazio sapere aude, è riassumibile nell'espressione «osa pensare». Questa concezione dell'Illuminismo diventa parecchio ambigua nel seguito del testo di Kant. Da un lato, nel momento in cui Kant chiarisce il tipo di consapevolezza che occorre acquisire, è evidente che essa non ha nulla a che fare con il coraggio. Essa infatti ci impone di assolvere doverosamente i ruoli sociali, e cioè pagare le tasse, fare il servizio militare, essere un funzionario integerrimo, e infine, obbedire all'autorità dd sovrano, Federico II. Questo è il Kant la cui vita era così ordinata che i suoi concittadini potevano regolare i loro orologi tutte le volte che vedevano passare il filosofo durante la sua passeggiata mattutina. In altre parole, la linea predominante dell'opera di Kant è parte integrante della robusta tradizione razionalista se-
Sapere aude! Kant è un profeta della repubblica della proprietà in modo indiretto, cioè non tanto per le sue concezioni politiche o in senso lato economiche, bensì per la forma del potere che egli rileva nelle sue ricerche epistemologiche e filosofiche. Seguiamo dunque la linea della critica trascendentale kantiana ancora da eretici, rileggendo il suo pensiero contro le sue stesse intenzioni. La prospettiva politica che proponiamo non è soltanto un attacco (condotto insieme a Kant) alla trascendenza della sovranità, è anche una critica volta a destabilizzare il potere trascendentale della repubblica della proprietà (in questo caso contro Kant) ma è soprattutto (oltre Kant) un'affermazione della potenza immanente del sociale, giacché l'immanenza è l'unico terreno sul quale può essere costruita la democrazia. 28
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condo cui l'illwninismo è un processo di «emendazione della ragione» che intende preservare l'ordine sociale. Dall'altro lato, Kant ci autorizza a intendere il mandato dell'illuminismo contro le sue stesse intenzioni: «osa pensare» significa infatti allo stesso tempo anche «conosci come osare». Questa semplice inversione è indicativa del tipo di coraggio e di audacia richiesti, insieme ai rischi che bisogna correre, quando si agisce, si pensa e si parla in modo autonomo. Questo è il Kant minore, il Kant coraggioso e audace che è spesso nascosto nei suoi testi e che di tanto in tanto salta violentemente fuori dalla rigidità del presente per svelare il nuovo. La ragione non giustifica più il dovere di obbedire al potere costituito, bensì libera una potente disobbedienza. Perché mai dovremmo osare pensare e parlare liberamente se queste possibilità sono subito messe a tacere e fatte abortire con la museruola dell'obbedienza? Il criticismo kantiano agisce in due direzioni: da un lato, la critica detta il sistema delle condizioni trascendentali della conoscenza e dei fenomeni; dall'altro, esso si distacca occasionalmente dal piano trascendentale per concettualizzare la potenza e la creatività umana, la chiave di una libera costruzione biopolitica del mondo. Il Kant maggiore fornisce gli strumenti per consolidare l'ordine trascendentale della repubblica della proprietà mentre il Kant minore fa saltare le sue fondamenta, aprendo la strada al mutamento e alla libera creazione sul piano di immanenza biopolitico.20 Lo slittamento del pensiero di Kant ci permette di distinguere due prospettive politiche. Le linee del Kant maggiore giungono sino al cuore del pensiero politico dei filosofi socialdemocratici i quali parlano sempre di illuminismo e ragione, ma non si spingono mai fi. no a tematizzare l'identità tra il coraggio di conoscere e la consapevolezza di come osare. Per costoro, l'Illuminismo è un progetto inconcluso che esige l'approvazione dell'ordinamento sociale vigente e che comporta una concezione accomodante dei diritti e della democrazia, ergo, l'accettazione passiva del male minore. Gli intellettuali socialdemocratici non mettono mai in discussione la repubblica della proprietà sia perché fingono furbescamente di non rendersi conto del suo potere sia perché danno ingenuamente per scontato che può essere riformata per rianimare una società democratica e ugualitaria. Le dottrine di ispirazione socialdemocratica di Habermas e di Rawls, ad esempio, fondano l'ordine sociale su uno schema trascendentale e formale. All'inizio delle loro ricerche, Habermas e Rawls
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hanno elaborato programmi teorici dinamici volti a suscitare una trasformazione sociale. Habermas si è confrontato con il concetto hegeliano di intersoggettività come matrice concettuale della potenza produttiva della soggettività; Rawls ha coniato il «principio di differenza» in base al quale le istituzioni devono assumere la precedenza dei cittadini più svantaggiati come criterio prioritario delle decisioni politiche e amministrative. Questi assunti, seppur in modi diversi, sono indicativi di una dinamica della trasformazione sociale. Nella prosecuzione della loro ricerca, queste prospettive sono state edulcorate o completamente abbandonate. Le nozioni habermasiane di ragione e di azione comunicativa qualificano un processo di mediazione sistematica di tutti gli aspetti della realtà sociale con cui si legittimano e si confermano gli assetti dell'ordine costituito. Rawls ha formulato uno schema trascendentale e formale del giudizio che, neutralizzando le potenzialità soggettive e i processi di trasformazione, consolida la conservazione dell'equilibrio del sistema. Le declinazioni della socialdemocrazia di Habermas e di Rawls echeggiano l'immagine dell'illuminismo del Kant maggiore e, malgrado la retorica sull'emendazione della ragione, esse rinsaldano l'ordine sociale vigente mediante gli schemi del formalismo trascendentale. 21 Anthony Giddens e Ulrich Beck propongono una versione della socialdemocrazia più empirica e pragmatica. Mentre Rawls e Habermas focalizzano un punto di appoggio della mediazione che è in un certo senso esterno al sociale, Giddens e Beck muovono dall'interno del sociale. Adottando un punto di vista scettico, Giddens cerca di articolare a un livello empirico e fenomenico una rappresentazione adeguata di un processo di riforma, risalendo, per così dire, dal sociale al piano trascendentale. Quando la società si mostra indocile, quando i ghetti in rivolta e i conflitti sociali rendono impossibile una mediazione riformista ricavata direttamente dal sociale, per portare a termine il processo riformistico Giddens ricorre alla sovranità. Paradossalmente, dopo aver introdotto un programma trascendentale, Giddens è poi costretto a disattenderlo appellandosi alla trascendenza della sovranità. Più di quella di Giddens, e di tutti gli altri intellettuali socialdemocratici, la ricerca di Ulrich Beck è saldamente iscritta nelle trame del sociale e per questo può misurarsi con l'ambivalenza delle lotte, l'incertezza, la paura e le passioni che caratterizzano la società contemporanea. Beck riconosce con chiarezza le dinamiche delle lotte operaie contro il regime della fabbrica e poi contro la crisi dd sistema industriale. Benché Beck abbia analizzato
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in modo corretto il dissolvimento del sistema sociale fondato sul modello industriale, incontra grosse difficoltà quando deve riconoscere l'emergere di nuove forze sociali. La sua riflessione si scontra con la rigidità della struttura trascendentale che, anche per lui, è il criterio guida dell'analisi. Se per Beck la modernità è seguita dall'ipermodernità, quest'ultima non è altro che una prosecuzione delle strutture portanti della modernità.22 Punti di vista socialdemocratici del tutto analoghi sono espressi dai teorici contemporanei della globalizzazione come David Held, Joseph Stiglitz e Thomas Friedman. In questi casi, le risonanze kantiane non sono così chiare. Tuttavia, anche questi studiosi sostengono dei progetti di riforma del sistema globale senza mettere in discussione le infrastrutture della proprietà e del capitale." Il punto focale della socialdemocrazia è definito come un programma di riforma sociale volto a incrementare l'uguaglianza, la libertà e la democrazia, ma che non mette in discussione e in certi casi finisce per consolidare le strutture della repubblica della proprietà. In questo modo, il riformismo socialdemocratico finisce per combaciare perfettamente con il riformismo capitalistico. I socialdemocratici sono soliti caratterizzare la loro idea di modernità come un che di incompiuto, come se con più tempo e con maggiore detemùnazione le sospirate riforme potessero finalmente realizzarsi. Questa aspirazione è del tutto illusoria: il processo che questi intellettuali hanno in mente è bloccato sul nascere per il fatto che le strutture trascendentali del diritto e della proprietà non sono mai problematizzate. I socialdemocratici sono dei fedeli epigoni del criticismo trascendentale del Kant maggiore, fautori di uno sviluppo dell'lliuminismo in cui tutti gli elementi dell'ordine costituito restano saldamente in piedi. Riformare e perfezionare la repubblica della proprietà non produce più libertà e più uguaglianza, ma si traduce sempre nella perpetuazione delle strutture della disuguaglianza e della mancanza di libertà. Robert Filmer, il lucido reazionario del XVII secolo, nell'epigrafe di questo capitolo riconosce perfettamente che la libertà e la proprietà sono tra loro contrarie come il fuoco e l'acqua e non possono stare insieme. Queste varianti del neokantismo possono sembrare impotenti e persino illusorie, e tuttavia, in diversi momenti storici hanno prodotto effetti nefasti, in particolare, nell'epoca dell'avvento del fascismo. Sebbene, quando accadono queste tragedie, nessuno possa dirsi innocente, a onor del vero occorre ricordare che dalla fine del XIX secolo fino agli Trenta del Novecento, il neokantismo ha rappresenta32
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La rtp11bblica dtlla proprietà
to il nucleo centrale dell'ideologia borghese e del pensiero politico europeo e poi l'intelaiatura e la premessa filosofica del riformismo socialdemocratico. Innanzitutto a Marburgo (con Hermann Cohen e Paul Natorp) e a Heidelberg (con Heinrich Rickert e Wilhelm Wmdelband) ma anche a Oxford, a Parigi, a Boston e a Roma si sono moltiplicate un gran numero di interpretazioni di Kant. Raramente un concerto ideologico è stato di così ampie proporzioni e la sua influenza è stata tanto profonda sul sistema delle Geisteswissenschaften. Il grande padronato e i sindacalisti, i liberali e i socialisti si sono divisi lo spartito, alcuni suonando in orchestra, altri nel coro. C'era però qualcosa di profondamente dissonante in questo concerto: una fede dogmatica in un'ineluttabile riforma della società correlata alla riforma dello spirito, il che, in altre parole, significava il progresso della razionalità borghese. Questa fede non aveva però alcuna intenzione di avviare una trasformazione sostanziale con il rischio di impelagarsi in una spirale di conflitti. Quando i fascismi conquistarono il potere, la coscienza trascendentale della modernità fu immediatamente spazzata via. Dobbiamo affliggerci per questo? Non sembra che gli intellettuali socialdemocratici contemporanei, con tutte le loro illusioni trascendentali, forniscano risposte più efficaci di quelle dei loro predecessori nei confronti dei pericoli e dei rischi del presente che, come abbiamo già avuto modo di dire, sono molto diversi da quelli degli anni Trenta. La fede illusoria nel progresso nasconde e ostacola altre f onne più risolutive di azione politica. Essa non fa che riaffermare i dispositivi trascendentali del potere che continuano a esercitare la violenza su chiunque abbia il coraggio di conoscere, e ripropone un'immagine dell'Illuminismo che è diventata una mera routine. Nelle pagine che seguono intendiamo sviluppare il metodo dd Kant minore per il quale il coraggio di conoscere richiede, nello stesso tempo, che si sappia come osare. Anche questo è un programma illnministico, fondato però su un'altra razionalità in cui una metodologia innervata dal materialismo e dall'idea di metamorfosi anima la potenza di esistere, di creare e di innovare. Mentre il Kant maggiore fornisce gli strumenti atti ancora oggi a sostenere e a difendere la repubblica della proprietà, il Kant minore ci aiuta a comprendere come rovesciarla e come costruire una democrazia della moltitudine.
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1.2. Corpi produttivi
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In girum imus notte Et consumimur igni. {Abbiamo girovagato per tutta la notte e siamo stati consumati dal fuoco.)
GuyDebord
Dalla critica marxiana della proprietà... Nelle opere giovanili come La questione ebraica, la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico e i Manoscritti economico-filosofi~ ci, Marx articola un'analisi critica della proprietà privata come fondamento delle categorie e delle strutture giuridiche del capitalismo. Il legame tra il capitale e il diritto costituisce una forma di potere paradossale, estremamente astratta e a un tempo totalmente concreta. Da un lato, infatti, le strutture giuridiche sono delle rappresentazioni astratte del sociale, relativamente indifferenti ai contenuti socialmente determinati, dall'altro, la proprietà capitalistica definisce le condizioni concrete dello sfruttamento del lavoro. Entrambe rappresentano delle infrastrutture totalizzanti che si distendono sull'intero spazio sociale e che operano in modo coordinato per fare contemporaneamente presa su piani astratti e su piani concreti. A questa sintesi paradossale dell'astratto e del concreto Marx associa il riconoscimento del lavoro come il contenuto sostanziale della proprietà privata: «Il rapporto della proprietà privata» scrive Marx «contiene in sé latente il rapporto della proprietà privata come lavoro, così come il rapporto della stessa come capitale e la relazione reciproca di entrambe queste espressioni. La produzione dell'attività umana in quanto lavoro e quindi come attività completamente estranea a se stessa, all'uomo e alla natura, e perciò alla coscienza e alle manifestazioni vitali, l'esistenza astratta dell'uomo in quanto semplice uomo da lavoro, che può quindi quotidianamente precipitare la sua non-esistenza sociale e perciò reale dal niente adempiuto al niente assoluto, così come d'altra parte la p roduzione dell'ogget34
Corpi produttivi
to dell'attività umana in quanto capitale, dove si estingue ogni determinatezza naturale e sociale dell'oggetto e dove la proprietà ha perduto la propria qualità naturale e sociale (e di conseguenza ha perduto tutte le illusioni politiche e sociali e non è più congiunta con nessun rapporto apparentemente umano) [ ... ] questo contrasto, portato al suo vertice, è necessariamente il vertice, la sommità e la rovina dell'intero rapporto».2< La forma capitalistica della proprietà privata implica una relazione di sfruttamento nell'accezione più comprensiva del termine -la produzione dell'essere umano in quanto merce - escludendo dalla visibilità la materialità dei bisogni umani e la povertà. Nelle opere giovanili, l'approccio di Marx, sebbene sia molto potente, non coglie l'insieme degli effetti prodotti dalla proprietà sulla vita umana mediante il diritto. Molti autori marxisti del Ventesimo secolo hanno portato la critica della proprietà privata oltre il contesto giuridico per studiare le dinamiche materiali che sostanziano l'oppressione e lo sfruttamento nella società capitalistica. In particolare, Althusser ha interpretato questo mutamento di prospettiva enucleando i termini filologici e teorici di una rottura epistemologica che divide, nell'opera di Marx, l'umanesimo delle opere giovanili dal materialismo della maturità. Althusser mostra il passaggio operato da Marx da un'analisi dello sfruttamento implicito nella proprietà privata, condotta ancora in una prospettiva trascendentale, a una visione della proprietà articolata dal punto di vista dell'organizzazione materiale dei corpi nella produzione e nella riproduzione della società capitalistica. In questo passaggio la critica è innalzata fino al livello della verità e in un certo senso sostituita nella misura in cui la filosofia lascia il posto alla politica. Nello stesso periodo, Max Horkheimer e Theodor Adorno, insieme ad altri pensatori della Scuola di Francoforte, messi a confronto con le condizioni dello sviluppo capitalistico negli Stati Uniti hanno impresso un'altra svolta nella storia del marxismo. Adorno e Horkheimer hanno tematizzato il dissolvimento della distinzione concettuale tra struttura e sovrastruttura, hanno analizzato la funzione degli apparati ideologici nel1'esercizio del potere (in questa stessa prospettiva Althusser aveva parlato degli «apparati ideologici di Stato») hanno segnalato il compimento della sussunzione reale della società sotto il comando del capitale. L'esito di queste ricerche è una «fenomenologizzazione» della critica, vale a dire una dislocazione del modo di intendere la relazione tra la critica e i suoi oggetti come un dispositivo materiale 35
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interno alla dimensione collettiva dei corpi - un passaggio, in altre parole, dal livello trascendentale al piano di immanenza." Queste innovazioni teoriche sono indicative di una prospettiva piuttosto estranea al marxismo: il punto di vista dei corpi. L'attribuzione di queste svolte ad Althusser e alla Scuola di Francoforte è tuttavia parziale in quanto siamo convinti che la sostanza di questo passaggio, che è rilevante in questi autori solo a un livello intuitivo, è stata compiuta all'interno del patrimonio teorico elaborato dalla militanza e dall'attivismo politico. Le riviste «Socialisme ou Barbarie» in Francia e i «Quaderni rossi» in Italia sono tra le prime ad aver rilevato, agli inizi degli anni Sessanta, l'importanza teorica e pratica del punto di vista della corporeità nell'analisi marxista. Inoltre, insieme alle analisi delle insorgenze operaie e contadine elaborate nei Subat. tern Studies, nella cultura marxista, altre esperienze analoghe si sono mosse su linee parallele in molte parti del mondo. Il punto chiave è l'immersione dell'analisi nelle lotte dei subalterni, dei subordinati e degli sfruttati considerate come la matrice delle relazioni istituzionali e della totalità delle figure dell'organizzazione sociale. «Sino a ora abbiamo analizzato il capitale» scrive Mario Tronti nei primi anni Sessanta, «da questo punto in poi dovremo occuparci delle lotte come principio di qualsiasi movimento storico.»26 Raniero Panzieri, che insieme a Tronti è stato il principale protagonista dell'esperienza dei «Quaderni rossi», aggiunge che, sebbene il marxismo sia originariamente una sociologia, occorre dislocare il punto di vista sociologico non tanto in una scienza politica, ma in una scienza della rivoluzione. In «Socialisme ou Barbarie», per citare un altro esempio, Cornelius Castoriadis sottolineava che la ricerca rivoluzionaria doveva seguire i percorsi dei movimenti sociali da cui è continuamente ridefinita. Infi- · ne, Hans-Jiirgen Krahl, nello straordinario dibattito interno al movimento giovanile socialdemocratico che precedette gli eventi del Sessantotto, insisteva nell'affermare una rottura con qualsiasi concezione trascendentale del processo rivoluzionario e sosteneva che la concettualizzazione del potere costituente doveva essere radicata nell'esperienza concreta dei movimenti.27 A questo proposito è interessante rivisitare un manifesto situazionista del 1970 dal titolo Contributo alla presa di coscienza di una classe che sarà l'ultima. Quello che colpisce in questo testo di avanguardia non sono le stravaganti dichiarazioni dadaiste o i sofisticati paradossi del «Lettrismo», quanto il fatto che esso è un'inchiesta sulle condizioni reali del lavoro, uno dei primi documenti a descrivere 36
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chiaramente la separazione della forza lavoro dal controllo capitalistico nel momento in cui la produzione immateriale stava diventando egemone su tutti i processi di valorizzazione. L'inchiesta operaia condotta dai situazionisti anticipava con straordinario acume le trasformazioni sociali del XXI secolo. Il lavoro vivo produttivo di beni immateriali, proprio come il lavoro cognitivo e il lavoro intellettuale, eccede sistematicamente i vincoli che gli sono imposti e costituisce. una figura del desiderio che non può essere consumata e una forma di vita che si accumula. Quando la produzione immateriale diventa egemone, tutti gli elementi del processo capitalistico devono essere considerati in una nuova luce, talvolta in termini completamente rovesciati rispetto ai discorsi canonici del materialismo storico. Ciò che ad esempio era definita «la transizione dal capitalismo al comunismo» assume la figura di un processo di liberazione, la costituzione immediata di un mondo nuovo. In altri termini, grazie alla pratica dell'inchiesta operaia, la fenomenologizzazione della critica diventa rivoluzionaria - e questo ci fa ritrovare un Marx redivivo. L'introduzione della fenomenologia della corporeità nella teoria marxista, che comporta il rifiuto dell'ideologia dei diritti e della legalità, che consuma una separazione definitiva dalle mediazioni trascendentali e dalle relazioni dialettiche, deve essere organizzata politicamente. È in questa prospettiva che vanno compresi molti eventi del Sessantotto. Questa svolta teorica ricorda la rivoluzione scientifica del Rinascimento italiano del XVI secolo. Per conoscere gli animali e le città, i filosofi rinascimentali seppero concatenare la critica della tradizione scolastica con lo sperimentalismo e il naturalismo; per rivelare il funzionamento dei corpi usarono il bisturi e lo scalpello. Allo stesso modo, negli anni Cinquanta e Sessanta quando la modernità stava giungendo alla conclusione, molti intellettuali si resero conto che era venuto il momento di sottoporre il marxismo a una critica filosofica radicale per riportarlo all'esperienza militante e a tal fine usarono i loro scalpelli per mostrare, grazie alle inchieste sulle fabbriche e sulle lotte sociali, la nuova anatomia dei corpi collettivi. Nel marxismo europeo, questo passaggio si è dispiegato attraverso numerose traiettorie. La ricerca genealogica si era messa a studiare lo sviluppo delle lotte operaie dentro e fuori le fabbriche, ne seguiva cioè il tracciato dalle lotte per il salario alle lotte intorno ai bisogni sociali fino alla loro tracimazione su tutta la superficie del sociale. La dinamica delle lotte non era soltanto di natura antagonista, 37
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ma anche costitutiva, essa metteva in luce una nuova frontiera dell'economia politica entro la quale introduceva delle alternative. (Nella terza parte torneremo a parlare più diffusamente delle trasformazioni economiche e delle lotte costituenti di quell'epoca.) Ci furono altri impulsi culturali che sollecitarono gli intellettuali marxisti ad adottare il punto di vista della corporeità. L'opera di Simone de Beauvoir e la crescita della seconda ondata del pensiero femminista avevano energicamente posto all'ordine del giorno le gerarchie e le differenze di genere caratterizzate da un indice materiale e corporeo molto evidente. Ma la cultura e il pensiero antirazzista emersi nel corso delle lotte anticoloniali avevano contribuito in modo decisivo a far assumere al marxismo il punto di vista della corporeità, imprescindibile per analizzare le strutture di potere del mondo coloniale e per cogliere le prospettive di liberazione che si stavano delineando. Altri percorsi che hanno condotto verso la centralità della corporeità sono stati tracciati dal cinema di Alain Resnais degli anni Cinquanta. I film di Resnais Notte e nebbie e Hiroshima mon amour (scritto da Marguerite Duras) hanno segnato l'immaginario di una generazione di intellettuali con la loro lettura degli orrori dell'Olocausto e la devastazione atomica in Giappone. La spaventosa realtà dei genocidi del Novecento aveva trascinato il tema della vita stessa al centro della scena, di modo che qualsiasi discorso sulla produzione o riproduzione non poteva più omettere la questione della corporeità. Ognuna di queste prospettive - il pensiero femminista, il discorso antirazzista e anticoloniale, e la coscienza del genocidio - costringe gli intellettuali marxisti dell'epoca a riconoscere non solo la mercificazione dei corpi produttivi, ma anche le afflizioni cui sono sottoposti i corpi a causa delle differenze di genere e razziali. Non è in tal senso casuale che i classici sull'umiliazione della vita e sulla miseria dell'umanità - da Freud a Marcuse - siano stati letti come un'enciclopedia della violenza capitalistico-coloniale. Il paradosso è che, proprio nel momento del trionfo del capitalismo negli anni Sessanta, quando i corpi erano massicciamente investiti dal modo di produzione e la mercificazione della vita trasformava le relazioni umane in entità totalmente astratte, negli stessi processi della produzione industriale e della riproduzione della società, i corpi balzavano al centro della scena affermando la loro rivolta. Questo ci riporta alla primordiale necessità della società borghese che abbiamo già esaminato, e cioè al diritto di proprietà in quanto fondamento della repubblica. Il diritto di proprietà non è un'ecce38
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zione, ma una precondizione assolutamente necessaria per l'esistenza della repubblica che mette allo scoperto la condizione trascendentale e la fondazione materiale dell'ordine sociale. È solo assumendo il punto di vista dei corpi e della loro potenza che si possono sfidare la disciplina e il controllo esercitati dalla repubblica della proprietà.
... alla fenomenologia dei corpi La filosofia non sempre è simile alla nottola di Minerva che arriva al crepuscolo per illuminare retrospettivamente l'epoca storica che si sta concludendo. Spesso la filosofia sa anticipare i tempi - e non sempre è una buona cosa. In Europa, le filosofie reazionarie spesso hanno saputo anticipare gli eventi, compreso il fascismo e il totalitarismo del XX secolo, di cui hanno stabilito le basi ideologiche.28 Prendiamo ad esempio due autori che hanno dominato il pensiero europeo nei primi decenni del Novecento e che hanno anticipato la deriva totalitaria del secolo: Bergson e Gentile. Le opere di questi fi. losofi ci permettono di tracciare un'altra importante genealogia che ci riporta alla fenomenologia dei corpi attraverso una nuova e feconda prospettiva. L'anticipazione teorico-politica più importante di questo filone del pensiero primonovecentesco, che ha esercitato una profonda influenza sulle ideologie politiche reazionarie, è una filosofia vitalistica al cui centro c'è un'etica dell'azione radicale. n vitalismo, che ha attaccato con furia distruttiva il criticismo, le epistemologie trascendentali e l'ideologia liberale di ascendenza kantiana, è riuscito a esercitare un'influenza cosl vasta perché era in grande sintonia con alcune tendenze economiche e politiche del tempo. ll comando capitalistico era stato messo in crisi dalle prime grandi espressioni sovversive del movimento operaio: da quel momento, la stabilità dei valori capitalistici fu minacciata dal caos del relativismo. L'ideologia capitalistica aveva bisogno di tornare ai principi primi, doveva riaffennare i propri valori per poter avviare una verifica dei suoi poteri distruggendo gli ostacoli eretti dai vincoli della mediazione sociale. Questo era il contesto entro il quale riusci ad attecchire un cieco e arrogante volontarismo. Il vitalismo, che per Bergson è un flusso e per Gentile una dialettica senza negatività, forniva una potente ed efficace ideologia per giustificare una nuova egemonia. Nel momen39
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to in cui la teologia storica era stata fusa con la forza con la teleologia del potere, l'astrazione trascendentale pagava il prezzo più alto. Bergson, alla fine della sua vita diventò cattolico, Gentile si convertì al fascismo: in questo modo la storia ha ricompensato il loro pensiero. Quando si teme che la storia sia minacciata dal relativismo assoluto, i valori religiosi e le affermazioni volontaristiche sembrano le uniche alternative. I grandi pensatori storicisti caddero anch'essi nella morsa tra il relativismo e la via di fuga confessional-volontaristica. Le premesse erano già state definite nell'epistolario della fine del XIX secolo tra Dilthey e Yorck von Wartenburg. Per Yorck il relativismo significava cinismo e materialismo, mentre per Dilthey era indicativo di una vitale e singolare affermazione che si dispiegava attraverso il processo storico. 29 Questo dibattito prefigurava, in termini epistemologici e riguardo al nesso tra evento e storia, le tragedie del Ventesimo secolo in Europa. Nel corso della «Guerra civile europea» sia l'evento sia la trascendenza finirono per assumere le sembianze orribili del fascismo e del populismo, mentre lo storicismo si smarriva in un disorientamento politico totale. Nel caos in cui erano caduti in Europa i discorsi politici e il dibattito culturale, la distruzione del criticismo e del neokantismo era il prerequisito necessario per la conquista dell'egemonia da parte del vitalismo. In questo contesto, la fenomenologia si era riproposta di imprimere alla filosofia una svolta antiplatonica, antidealistica e soprattutto antitrascendentale. In primo luogo, la fenomenologia tentò di neutralizzare le derive relativistiche e scettiche provocate dallo storicismo posthegeliano. Mentre intraprendeva questa iniziativa, la fenomenologia in ogni concetto e in ogni idea metteva a fuoco le forme di vita in cui consiste la loro sostanzialità materiale. Riflettendo sulla complicata eredità del kantismo e sulle brutali conseguenze del vitalismo, la fenomenologia si congedava definitivamente dalle astrazioni trascendentali e le riformulava immergendole nell'esperienza vivente. L'immersione del trascendentale nella determinatezza del1'essere rappresenta il grande impegno della fenomenologia novecentesca correlato alla conversione del marxismo, di cui abbiamo parlato, dalla critica della proprietà alla critica dei corpi. Nonostante la profonda influenza esercitata sulla fenomenologia, il cammino di Heidegger non è giunto fino alla critica e all'affermazione della corporeità, e cioè al tema che ci interessa primariamente. Il suo pensiero è caratterizzato da un'ininterrotta meditazione sul
fallimento della modernità e sulla distruzione dei suoi valori. Heidegger riporta la fenomenologia agli inizi dell'ontologia class~ca non tanto per ricostruire l'essere a partire dalla potenza pr??utuva d~l'uomo, ma come un modo per disvelare la nostra condizione tellunca la nostra impotenza e la morte. Tutto ciò che può essere costruito: tutto ciò che può essere prodotto dalle lotte e dalle resistenze, è depotenziato dall'essere gettati sulla superficie dell'essere. Quello che la fenomenologia aveva cacciato dalla porta - il vitalismo bergsoniano, il volontarismo gentiliano e il relativismo storicista - H_eidegger lo fa rientrare dalla finestra trasfigurandolo come fabbrica della costituzione attuale dell'essere. La tematica heideggeriana della Gelassenheit, indicativa di una rinuncia totale a qualsiasi forma di impegno, non solo rimetteva in gioco il vitalismo e il volon~arismo confondendo la storia con il destino dell'Essere, ma li trasfigurava come altrettanti motivi di apologia del fascismo. «A leggere Essere e tempo» nota Reiner Schurmann
La rottura interna al capitale e l'emergente autonomia della forza lavoro biopolitica sono però indicativi di un'obiettiva apertura politica. Possiamo scommettere sulla rottura del rapporto di capitale e costruire politicamente qualcosa sull'emergente autonomia del lavoro biopolitico. La relazione sociale aperta implicita nella definizione del capitale costituisce un'opportunità, e tuttavia, un'organizzazione politica è pur sempre necessaria per oltrepassare la soglia. Quando l'abate Sieyès, all'alba della Rivoluzione francese si chiedeva quale fosse il rilievo del Terzo Stato - tutto, ma politicamente esso è meno di niente! - egli lanciava una polemica filosofica e politica giustificata dalla medesima posta in gioco che caratterizzava la situazione economica. Il Terzo Stato, che stava emergendo come attore principale della produzione sociale, non tollerava più la subordinazione politica e l'obbligo di pagare le tasse ai poteri costituiti dell'Ancien Régime. Ciò che ci resta da sviluppare, dopo aver abbozzato i lineamenti della produzione biopolitica, dello sfruttamento e del controllo sono i tennini della lotta di classe oggi. Su quali risorse si basa, quali sono le prime linee del conflitto, quali sono le forme di organizzazione politica adeguate per potenziare l'antagonismo? Iniziamo con alcune osservazioni preliminari. La crescente autonomia della forza lavoro biopolitica nei confronti del capitale, e cioè la condizione che mantiene aperto il rapporto di capitale, si fonda soprattutto su due elementi fattuali. In primo luogo, essa si fonda su un dato che abbiamo già parzialmente rilevato e cioè sull'inedito e crescente ruolo del comune come base e a un tempo come prodotto della produzione. In secondo luogo, sull'eccedenza della produttività della forza lavoro nei confronti del quadro istituito dal capitale per sfruttarla. La forza lavoro ha peraltro sempre potenzialmente ecceduto il rapporto di capitale nel senso che chi lavora ha la capacità di fare e di produrre molto più di ciò che produce quando è al lavoro. Nel passato, tuttavia, i processi produttivi, soprattutto nella grande industria, hanno duramente contrastato l' attualizzazione dei potenziali che eccedevano i limiti posti dal capitale. I lavoratori del settore automobilistico, ad esempio, possiedono delle capacità e delle conoscenze di prim'ordine che devono essere rigidamente territorializzate. Queste potenzialità possono essere attualizzate solo in fabbrica e dunque nei limiti del rapporto di capitale o al massimo riparando o truccando l'automobile nel garage di casa. I talenti, le attitudini intellettuali e affettive, la capacità di generare cooperazione e reti organizzative, l'abilità comunicativa insieme ad
altre innumerevoli competenze che caratterizzano il lavoro biopolitico non possono essere rigidamente territorializzate. Si possono inventare e creare relazioni non solo al lavoro, ma anche per strada, a casa, con i vicini e gli amici. Le capacità della forza lavoro biopolitica trascendono il lavoro e si dispiegano su tutto il tessuto della vita. A questo proposito, non amiamo impiegare il termine «eccesso», dato che, dal punto vista della forza lavoro, la misura non è mai colma. C'è eccesso solo dal punto di vista del capitale, dato che esso non è produttivo di valore economico e dunque non può essere catturato dal capitalista individuale - anche se, come vedremo tra breve, questa produzione produce valore economico che viene catturato dal capitale in una dimensione più ampia, e cioè, perlopiù, come esternalità. A questo punto possiamo azzardare una prima ipotesi: nel contesto biopolitico, la lotta di classe ha la forma di un esodo. Con la parola esodo intendiamo, in prima battuta, una sottrazione dal rapporto di capitale mediante l'attualizzazione dell'autonomia potenziale della forza lavoro. I.:esodo non è un rifiuto della produttività della forza lavoro biopolitica quanto un rifiuto degli intollerabili ostacoli imposti alla produttività del lavoro biopolitico da parte del capitale. I.:esodo è indicativo delle potenzialità produttive che eccedono il rapporto di capitale e che si dispiegano attraversando l'apertura del rapporto di capitale per oltrepassarne la soglia. In prima approssimazione, proviamo a pensare a questa forma della lotta di classe come una specie di maroonage, come una comunità di fuggiaschi. Come gli schiavi che fuggivano insieme dalle catene della schiavitù per costruire insieme dei quilombo indipendenti, allo stesso modo, la forza lavoro biopolitica, fuggendo dal rapporto di capitale scopre e costruisce nuove relazioni sociali, nuove forme di vita che le permettono di attualizzare le sue potenzialità. Ma, al contrario di ciò che è accaduto in altri contesti e in altre circostanze, questo esodo non ha alcun altrove dove dirigersi. Possiamo tracciare una linea di fuga stando fermi, trasformando i rapporti di produzione e le forme del1'organizzazione sociale sotto cui viviamo. La lotta di classe implica la resistenza al comando e l'attacco alle basi dd potere capitalistico, argomenti cui ci dedicheremo più avanti, ma essa comporta anche un esodo dal rapporto di capitale e dai rapporti capitalistici di produzione. Nonostante la necessità della resistenza si dia immediatamente per i lavoratori nello stesso rapporto di lavoro - i lavoratori hanno cioè sempre il potere di dire no,
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L,, '4tta di class, dalla crisi all'esodo
possono cessare di fornire il lavoro al capitale, e la loro capacità di destabilizzare i processi di produzione coesiste sempre con la loro capacità produuiva -l'istanza dell'esodo non è altrett~nto immediata. I:esodo è possibile solo sulla base del comune - sia sulla base dell'accesso al comune sia sulla base della capacità di usarlo. La società capitalistica sembra coattivamente spinta a eliminare o a mascherare il comune privatizzando i mezzi di produzione e, con questi ultimi, tutti gli aspetti della vita. Prima di tornare alla questione dell'organizzazione politica occorre esaminare più da vicino le forme del comune nella società contemporanea.
turali, di circuiti intellettuali, di reti affettive e di istituzioni sociali. Gli elementi del comune nella città non sono soltanto i prerequisiti della produzione biopolitica, ma anche i suoi prodotti. La città è la fonte del comune e il ricettacolo in cui fluisce (ci occuperemo con più attenzione delle dinamiche della metropoli biopolitica in De Corpore 2, nella quarta parte). Un osservatorio privilegiato per rilevare la ricchezza comune della città e per analizzare i tentativi di privatizzarla è rappresentato dalla proprietà immobiliare, un argomento che ha tremendamente bisogno di essere demistificato. A questo proposito è opportuno ricordare che la rendita fondiaria e il valore della terra hanno comportato grandi difficoltà per gli economisti classici. Se il lavoro è la fonte di tutto il valore, secondo l'assioma di Smith, allora, in cosa consiste il valore della terra, o più in generale, della proprietà immobiliare? Il lavoro è ovviamente incorporato nella terra tramite la coltivazione del suolo e l'edificazione, ma ciò che non è chiaro è come esso determina il valore della proprietà immobiliare e, in particolare, della proprietà immobiliare delle aree urbane. Il fatto che la natura della rendita sia monopolistica non risolve il problema. La natura del valore della proprietà immobiliare non può essere spiegata dall'interno, può essere compresa soltanto facendo riferimento a fattori esterni. 26 Gli economisti che si occupano di proprietà immobiliare sono perfettamente consapevoli che il valore di un appartamento, di un edificio o di un lotto localizzato in una città non è riducibile alle caratteristiche intrinseche della proprietà come la qualità e le dimensioni della costruzione. Nelle metropoli, il valore della proprietà immobiliare è determinato in prima istanza dalle esternalità - le esternalità negative come l'inquinamento, la congestione del traffico, il rumore provocato dal vicinato, alti livelli di criminalità, la discoteca che non ci fa dormire il sabato notte, e le esternalità positive come la prossimità con i campi da gioco, relazioni ed eventi culturali interessanti, circuiti di scambi intellettuali e interazioni sociali serene e stimolanti. Attraverso queste esternalità, incontriamo uno spettro del comune. La principale preoccupazione di questi economisti è che le esternalità fuoriescano dai limiti dei rapporti di proprietà e che siano refrattarie alle logiche dd mercato e dello scambio. Essi sostengono che in un libero mercato efficiente in cui le persone prendono delle decisioni razionali, se esso è perturbato da «distorsioni», e cioè quando le esternalità entrano prepotentemente in gioco in modo ta-
Spettri del comune Gli spettri del comune si aggirano ovunque nella società capitalistica anche se nascostamente e in forme mistificate. Malgrado l' avversione ideologica per il comune, il capitale non può fare nulla ~enza ~ esso e oggi in modo assolutamente esplicito. Per scovare gli spettn del comune dobbiamo seguire le trame della cooperazione sociale e le differenti modalità dell'astrazione che la rappresentano nella società capitalistica. La rilevazione delle forme del comune è il primo passo verso la costruzione dei presupposti dell'esodo della moltitudine dal rapporto di capitale. . Un grande bacino della ricchezza comune è la metropoli. La formazione delle città moderne, come ci spiegano gli storici dell'urbanistica e dell'architettura, è coeva del capitalismo industriale. La concentrazione geografica dei lavoratori, la prossimità delle risorse e di altre industrie, i sistemi della comunicazione e dei trasporti e altre infrastrutture della vita metropolitana, sono gli elementi e i prerequisiti necessari della produzione industriale. Nei secoli XIX e XX, la crescita delle città e le caratteristiche dello spazio urbano erano determinate dalla grande fabbrica, dai suoi bisogni, dai suoi ritmi e dalle sue forme di organizzazione sociale. Oggi siamo di fronte a un grande cambiamento: dalla metropoli industriale alla metropoli biopolitica. Nell'economia biopolitica si sviluppa una relazione intensa e diretta tra i processi produttivi e il comune, diventato la sostanza stessa della città. La città, beninteso, non è solo una costruzione ambientale costituita da edifici e strade, da metropolitane e parchi, da sistemi di smaltimento dei rifiuti e da una rete di cavi per le comunicazioni, ma soprattutto, essa è una dinamica vivente di pratiche cul158
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le che i costi sociali superano i costi privati, la razionalità del mercato è perduta provocandone il fallimento. L'aspetto più assurdo di questa faccenda è che, nelle aree metropolitane, il valore della proprietà immobiliare è determinato in primo luogo dalle esternalità. La crisi del mercato è la norma. Gli economisti neoliberisti più ortodossi impiegano tanto tempo a inventare schemi per «razionalizzare» la situazione e per privatizzare il comune in modo da renderlo commercializzabile e docile ai dettami del mercato, cercano dei modi per monetizzare l'inquinamento e il traffico al fine di allineare i costi sociali ai costi dei privati riuscendo così a ripristinare la logica di mercato.27 Osserviamo incidentalmente che il ruolo crescente delle esternalità ci permette di ripensare alcuni assunti canonici dell'economia politica. Così come, al giorno d'oggi, è in atto ,un rove~ciam~~to della progressione, che era data per scontata dall econonua polinca, dalla rendita al profitto, allo stesso modo rileviamo un rovesciamento del rapporto tendenziale tra rendita assoluta (fondata sulla mera appropriazione) e rendita relativa (fondata sul valore del lavoro addizionale rispetto al valore della proprietà). Nella misura in cui il lavoro incorporato nella proprietà è meno incidente sul valore rispetto al lavoro comune ricavato dalle esternalità - nei circuiti sociali della produzione e riproduzione biopolitica - la tendenza attuale è quella di una marcia indietro dalla rendita relativa alla rendita assoluta?' Gli agenti immobiliari, i professionisti del valore immobiliar: metropolitano, con i piedi saldamente piantati per terra e le maru che stringono avidamente il portafogli, non hanno bisogno di teorie complicate per comprendere l'importanza del comune. Il mantra degli agenti immobiliari - «occasione, occasione, occasione» esprime la loro strategia volta a minimizzare le esternalità negative e a massimizzare quelle positive. Occasione è un termine indicativo della prossimità e dell'accesso ai beni comuni - il termine non è solo indicativo della prossimità ai parchi, ma anche alla qualità delle relazioni di vicinato, alle infrastrutture della comunicazione, all'ambiente e alle dinamiche culturali eccetera. Gli agenti immobiliari non hanno alcun bisogno di privatizzare le esternalità e di razionalizzare il mercato. Con un occhio rivolto al comune, gli agenti immobiliari sono molto bravi a fare i soldi con la metropoli e con le sue «irrazionalità». Il nostro scopo non è certo quello di dare dei consigli su come dix6o
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ventare ricchi con la proprietà immobiliare, ma di seguire le tracce degli spettri del comune. Le dottrine economiche sulla proprietà immobiliare, insieme ai metodi degli agenti immobiliari, dimostrano in che misura la città sia un enorme serbatoio del comune costituito non solo da fattori materiali, ma soprattutto da fattori immateriali sia buoni sia cattivi. Quello che gli economisti non capiscono è come si forma la ricchezza comune. Il comune potrà anche essere esterno dal punto di vista del mercato e per i meccanismi dell' organizzazione capitalistica, ma esso è completamente interno alla produzione biopolitica. La ricchezza prodotta in comune è resa astratta, catturata e privatizzata in parte dagli speculatori immobiliari e dagli agenti finanziari la cui azione, come abbiamo già chiarito, è un grave ostacolo per lo sviluppo della produzione del comune. Il dilemma è esemplificato dalla dialettica, diventata ormai un classico, tra la caratterizzazione di un'area urbana da parte di un ambiente culturalmente e artisticamente dinamico e la sua successiva gentri/ication. Gli artisti poveri, dal momento che non hanno altra scelta si stanziano in un'area urbana con bassi valori immobiliari. Oltre ~ svolgere le loro attività artistiche, con il tempo trasformano l'ambiente e l'arredo urbano di quell'area. I valori della proprietà immobiliare salgono nella misura in cui la loro attività trasforma l'area in questione in un ambiente intellettualmente stimolante, culturalmente dinamico e alla moda. Alla fine, gli artisti non sono più in grado di continuare a vivere nel quartiere e se ne vanno altrove. Mentre i ricchi vi si trasferiscono il quartiere sta già perdendo il suo charme diventando noioso e sterile. Nonostante la ricchezza comune sia costantement~ esp~opriata e privatizz~ta dai mercati immobiliari e dalla speculazione, il comune sopravvive nella metropoli come uno spettro.29 La finanza è un altro grande ambito in cui possiamo seguire le tracce del comune. Simmel ha osservato che le condizioni per giudicare se una città è una grande città sono stabilite dal denaro: un'articolata divisione del lavoro, la possibilità di incontri impersonali, sincronismi temporali e così via.>0 La trama che unisce queste caratteristiche è la potenza dell'astrazione. Il capitale finanziario è un enorme propellente dell'astrazione con cui rappresenta e a un tempo mistifica il comune come se fosse riflesso da uno specchio deformante. 31 Il capitale finanziario è stato criticato come responsabile del!'amplificazione dei rischi economici e come un parassita che non produce nulla. In tal senso, dopo la crisi del 2008, il vilipendio delx6x
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la finanza è diventato di moda. La finanza è la riduzione del capitalismo a un gioco d'azzardo, gridano i suoi critici, a qualcosa di molto simile a una lotteria senza alcuna utilità sociale. La dignità del capitale industriale, proseguono, consiste nel fatto che esso mobilita direttamente le forze produttive e genera valore producendo beni materiali, mentre i prodotti finanziari sono fittizi, sono denaro fatto con altro denaro, un astratto parassita che soffoca la produzione del valore reale. Queste critiche sono fondate solo in parte: gli strumenti finanziari sono infatti utilizzati nella stessa misura sia come capitale di rischio sia come opportunità speculativa e la produzione biopolitica è sempre più orientata alla produzione di prodotti immateriali. Soprattutto, queste critiche non colgono la vera natura del sistema finanziario. Se la speculazione finanziaria è stigmatizzata come un gioco d'azzardo, a ben vedere, si tratta di un gioco d' azzardo assai intelligente e ben informato in cui l'investitore, come fa lo scommettitore alle corse dei cavalli che prima di rischiare si accerta delle condizioni fisiche degli animali e dello stato del fondo della pista, deve valutare i rendimenti di un settore produttivo avvalendosi di una serie di indicatori estremamente astratti. Il capitale finanziario, nella sua essenza, è una macchina complessa per rappresentare il comune, e cioè le relazioni comuni e le reti che sono necessarie per la produzione di una determinata merce, un determinato settore merceologico, asset finanziari e altri fenomeni. La capacità della finanza di produrre e di lavorare con le astrazioni è iperbolica e questo è il motivo per cui i modelli matematici sono diventati così importanti. La condizione di possibilità dell'astrazione però risiede nella natura sociale della ricchezza che è rappresentata. Ogni livello dell'astrazione finanziaria è simmetrico a livelli più ampi e comprensivi della rete che direttamente o indirettamente è in gioco nella cooperazione produttiva. Il potere dell'astrazione si fonda e a un tempo mistifica il comune.'2 Nei confronti di altre forme del capitale, negli ultimi decenni, il potere della finanza è cresciuto enormemente. Giovanni Arrighi ha interpretato questo processo come un fenomeno ciclico che inizia con la nascita della finanza moderna in Inghilterra alla fine del XIX secolo.'' A nostro parere è ancora più importante collegare la crescita del sistema finanziario con la crescita parallela della produzione biopolitica. Nella misura in cui il lavoro biopolitico si fa sempre più autonomo, la finanza si afferma come lo strumento capitalistico più adeguato per l'espropriazione dall'esterno, e in una condizione di 162
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,ta,,, "'1/la , Malgrado la famiglia pretenda di portare gli afferti e gli ~teressi
Corruzione ed esodo Le istituzioni sociali si fondano slÙ comune. Le istituzioni sociali sono perciò le principali risorse per il programma dell'esodo. A questo riguardo è bene ricordare che non tutte le forme del comune sono positive. Così come, nella terminologia degli economisti, alcune esternalità sono positive mentre altre sono negative, allo stesso modo alcune forme del comune, come direbbe Spinoza, accrescono la nostra potenza di pensare e agire insieme, mentre altre la impoveriscono. Le forme positive del comune sono motori della generazione del comune, mentre quelle nocive diffondono la corruzione, tagliano le trame dell'interazione sociale e riducono la potenza della produzione. Per questo, l'esodo esige una selezione con cui massimizzare l'azione delle forme positive del comune e con cui minimizzare gli effetti di quelle nocive. L'esodo, in altri termini, impone di combattere la corruzione. Il capitale costituisce indubbiamente un potente strumento di corruzione che, come abbiamo visto, agisce mediante il controllo e l'espropriazione segmentando e privatizzando il comune. Ci sono però altre fonti della corruzione del comune che agiscono in modo relativamente indipendente all'interno delle più importanti istituzioni sociali. Le tre istituzioni principali della società capitalistica in cui il comune è sfigurato dalla corruzione sono la famiglia, l'impresa e la nazione. Tutte e tre sono delle vie d'accesso al comune che esse mobilitano, ma che a un tempo restringono, distorcono e deformano. Que164
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al di là dell'individuo verso il bene della comunità, essa incentiva alcune tra le forme più esasperate di narcisismo e individualismo. Molte persone credono fermamente che agire negli interessi della famiglia sia una forma di altruismo mentre in realtà è una delle forme più becere e cieche di egotismo. Quando la scuola decide qualcosa per il bene degli scolari che contrasta con gli interessi e i poteri della famiglia o di una determinata comunità, molti genitori reagiscono contrapponendo a quelli degli insegnanti argomenti ferocemente antisociali messi in scena con un'aura di virtù, argomenti con cui i genitori rivendicano di avere fatto, e di continuare a fare, tutto ciò che è necessario per il bene dei figli esprimendo con ciò il malcelato narcisismo di chi vede nei figli una protesi o una riproduzione di se stessi. I discorsi politici che incitano ad aver fiducia nel fu. turo con la logica della continuità famigliare - quante volte avete sentito dire che una certa politica pubblica è necessaria per il bene dei vostri figli? - riducono il comune a una specie di individualismo programmato mediante la proiezione sulla progenie, manifestando una grave incapacità di concepire il futuro in termini socialmente più lungimiranti.' 6 Infine, la famiglia corrompe il comune in quanto costituisce ancora l'istituzione cardinale per l'accumulazione e la trasmissione del• la proprietà privata. I:accumulazione della proprietà privata si interromperebbe a ogni generazione se non ci fosse la forma giuridica dell'eredità fondata sulla famiglia. Abbasso dunque la famiglia! non per diventare ancora più individualisti, ma per rendere possibile una partecipazione più larga e ugualitaria al comune che la famiglia da una parte promette e dall'altra nega e corrompe. !:impresa è un'altra istituzione sociale in cui il comune viene sia generato sia corrotto. La produzione capitalistica è un enorme apparato per Io sviluppo di reti comuni animate dalla cooperazione sociale e per catturare il loro prodotto nella forma dell'accumulazione privata. Per molti lavoratori, il posto di lavoro è l'unico luogo al di fuori della famiglia in cui possono cooperare con altri e partecipare a progetti collettivi. !:impresa è, in tal senso, l'unico luogo in cui molti lavoratori sfuggono l'individualismo e l'isolamento che caratterizzano la società contemporanea. Produrre insieme entro un piano concertato stimola gli «spiriti animali», come li chiamava Marx, così, nel!'ambito del lavoro si ottengono le gratificazioni e si godono i piaceri dello scambio produttivo e della socialità. Le imprese, dal canto loro, si adoperano affinché i lavoratori attribuisca-
no gli stimoli e le soddisfazioni che provano sul posto di lavoro all'impresa, il che induce nei lavoratori sentimenti di lealtà e di fedeltà. Il refrain ideologico suona così: ciò che è bene per l'impresa è bene per tutti. Non si può negare il fatto che nella società capitalistica il lavoro è in relazione immediata con il comune e che esso assicura e contestualizza, certamente in varia misura e spesso molto debolmente e ai livelli più bassi della forza lavoro, l'opportunità di cooperare. Come abbiamo detto più volte, il comune che è prodotto e che è in gioco nella produzione non solo è espropriato, ma è anche ostacolato e corrotto dall'imposizione capitalistica delle gerarchie e del controllo. Quello che ci preme sottolineare è che, da questo punto di vista, e cioè relativamente al modo in cui genera e corrompe il comune, l'impresa assomiglia alla famiglia. A un primo sguardo, le due istituzioni sembrano delle oasi del comune nel deserto della società contemporanea. Al lavoro e in famiglia, tuttavia, le relazioni sono soggette a un sistema gerarchico interno e a una serie di limitazioni esterne. La conseguenza è che chi cerca di f\iggire dagli orrori della famiglia corre verso il caldo abbraccio dell'impresa, e viceversa, chi fugge dall'impresa cerca rifugio nella famiglia. La tanto discussa oscillazione tra lavoro e famiglia, in realtà, è un'alternativa tra mali minori, tra due forme corrotte del comune. Malauguratamente, nella nostra società per troppe persone esse sono gli unici spazi che permettono un accesso, ancorché distorto, al comune.' 7 Infine, anche la nazione è un'istituzione in cui il comune viene dispiegato e corrotto. Per molti, far parte di una nazione è l'esperienza di un'appartenenza che implica le espressioni collettive della cultura, della società e della politica che caratterizzano una popolazione. La tesi secondo cui la nazione è il fondamento della vita sociale ricorre soprattutto in tempi di crisi e durante le guerre, quando la popolazione è chiamata a mettere da parte le differenze in nome dell'unità nazionale. Secondo l'influente formulazione di Benedict Anderson, più che una storia condivisa da una collettività cementata da tradizioni linguistiche e culturali, la nazione è una comunità immaginaria, che è un altro modo per dire che la nazione è una forma in cui si dispiega il comune. Il fatto che si dica che la nazione è diventata l'unica comunità immaginabile, l'unico modo per esprimere la solidarietà e per sfuggire l'individualismo, è una ben triste indicazione del miserabile stato delle nostre alternative politiche! Quanto è patetica la necessità della politica di giustificarsi or-
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mai solo in nome della nazione! Anche nella nazione, come nella famiglia e nell'impresa, il comune è sottoposto a una serie cli rigide misure restrittive. Sia internamente sia esternamente, la nazione è definita da gerarchie e da esclusioni. La nazione non può che costituirsi sul fondamento e sul consolidamento del «popolo» e cioè su un'identità, per l'appunto nazionale, che esclude e subordina chi è diverso. La nazione con il suo popolo, con il vortice centripeto che unifica tutti gli elementi e i fattori sociali, in alcuni casi, soprattutto nelle lotte antimperialiste e anticoloniali, sono state le forze cli un programma cli liberazione. E tuttavia, co?1e ha mostra!o Fr3;Dtz Fa: non, anche la nazione e la coscienza naztonale sono clissenunate cli trappole che vengono allo scoperto una volta cessato il furore della battaglia. Gli incitamenti al sacrificio per la gloria e l'unità della nazione e del popolo, per le nostre orecchie, hanno sempre avuto un'intonazione fascista. Li abbiamo sempre ascoltati, sia nei Paesi dominanti sia nei Paesi subordinati, come i ritornelli delle avventure militariste, autoritarie e totalitarie. Queste sono soltanto alcune delle cause della corruzione del comune che devono essere attribuite alla nazione/8 Nonostante la repulsione che la famiglia, l'impresa e la nazione suscitano in noi, occorre ribadire che esse mettono in gioco e mobilitano il comune anche se in fonne corrotte, e dunque predispongono una serie cli risorse importanti per l'esodo della moltitudine. Queste istituzioni sono infrastrutturate dalle reti della cooperazione, da risorse materiali e immateriali che sono potenzialmente accessibili, da circuiti comunicativi che stimolano e frustrano a un tempo il desiderio del comune. La moltitudine deve lasciare la famiglia, l'impresa e la nazione sapendo costruire qualcosa con le promesse del comune che fanno queste istituzioni. A questo proposito, ricordiamo che nell'ambito della produzione biopolitica, l'apertura e l'ampliamento dell'accesso al comune implicano la capacità cli tenere sotto controllo i mezzi cli produzione e cli riproduzione; che questo è il punto cli partenza cli un processo cli sottrazione dal ca pitale e della costruzione dell'autonomia della moltitudine; che la prospettiva dell'esodo costituisce la forma della lotta cli classe nel mondo contemporaneo. I lettori inclini alla lotta saranno probabilmente piuttosto riluttanti ad accettare una nozione cli lotta cli classe come esodo dato che, in un esodo, non c'è abbastanza conflitto. Non vi preoccupate. Molto tempo fa, Mosè apprese che chi ha il potere non vi lascia andare 168
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senza combattere. La cosa più importante è che per esodo non si deve intendere una condizione in cui siamo ridotti alla nuda vita, scalzi e senza un soldo. Non è cosi: dobbiamo riprenderci quello che è nostro, dobbiamo riappropriarci del comune - il prodotto del nostro lavoro passato e i mezzi per la produzione e la riproduzione del nostro futuro. Questo è il campo cli battaglia.
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3.3. Kairos della moltitudine Questo lento sbocconcellarsi che non alterava il profilo dell'intero viene interrotto dall'apparizione che, come un lampo, d'un colpo, mette innanzi la piena struttura del nuovo mondo. Georg Wtlhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito
Cosa può una moltitudine Ora abbiamo a disposizione tutte le condizioni oggettive: il lavoro biopolitico che eccede sistematicamente i limiti del comando capitalistico; la breccia nel rapporto di capitale che determina la possibilità da parte del lavoro biopolitico di rivendicare la sua autonomia; le condizioni di possibilità dell'esodo del lavoro biopolitico costituite dall'attualità e dalla ricreazione continua del comune; i dispositivi di sfruttamento e di controllo messi in campo dal capitale che contraddicono e ostacolano sistematicamente la produttività biopolitica. Ci sono però anche condizioni oggettive di segno opposto: nei dispositivi del capitalismo contemporaneo sono in funzione nuove modalità di espropriazione e privatizzazione del comune mentre le istituzioni tradizionali continuano incessantemente a corromperlo. Dove ci porta tutto questo? L'analisi delle condizioni oggettive ci ha fatto fare dei passi in avanti, ma non molti. La crisi del capitalismo non conduce automaticamente al crollo. La molteplicità delle singolarità che producono e che sono prodotte nel contesto biopolitico del comune non portano spontaneamente a compimento l'esodo e non sono in grado di costruire altrettanto spontaneamente la loro autonomia politica. È necessaria un'organizzazione politica per oltrepassare la soglia e per generare degli eventi politici. Il kairos - il momento opportuno che rompe la monotona ripetitività del tempo cronologico - deve essere afferrato da un soggetto politico. Riteniamo che la moltitudine sia un concetto adeguato per organizzare politicamente il programma dell'esodo e una prospettiva di 170
liberazione. Siamo convinti che nell'attuale contesto biopolltico, ancora più che in passato, le forme organizzative tradizionali fondate su una leadership unica e centralizzata e sulle gerarchie non siano né realistiche né desiderabili/9 Il tema della moltitudine è stato dibattu• to negli ultimi anni in svariati ambienti politici e intellettuali. Possiamo dunque approfittare di queste discussioni per vagliare e ridefinire il concetto. Le osservazioni e le critiche anche radicali che ci sono sembrate più produttive riguardano, in linea generale, due questioni fondamentali: da un lato, la capacità da parte della moltitudine di essere soggetto di un'azione politica coerente; dall'altro, la domanda su quanto il suo agire sia effettivamente liberatorio e progressivo. Le critiche più intelligenti che mettono in evidenza il primo aspetto assumono la nostra tesi secondo cui, soprattutto in un contesto biopolltico, la società è caratterizzata da un pluralismo radica• le, o meglio da un'irriducibile molteplicità ed eterogeneità di singolarità. Il problema è se e come queste singolarità sono in grado di agire politicamente. In gioco c'è, a ben vedere, il concetto del politico. Pierre Macherey spiega correttamente che la politica esige la capacità di prendere delle decisioni non a livello individuale ma su scala sociale. «Come fa la carne della moltitudine a diventare un cor• po?» si chiede Macherey. Questa è probabilmente la ragione per cui Kissinger ricorre al XIX secolo per illustrare il tipo di ordine che ha in mente. Il sistema internazionale che potrebbe sostenere un ordine multilaterale è venuto definitivamente meno. Le istituziorù e le orgarùzzaziorù internazionali fondate dopo il 1945 per sostenere l'ordine postbellico sono in crisi. Con la creazione delle Nazioni Unite era stata introdotta un'istanza normativa, un sollen giuridico, che doveva essere imposto agli Stati di tutto il mondo. Oggi, l'obbligazione morale multilaterale ha perso ogrù autorità. Questo non significa che nel mom.ento in cui furono fondate le Naziorù Urùte, lo sforzo dicostituzionalizzare alcurù aspetti fondamentali dell'ordine internazionale fosse vano. Malgrado le ingiustizie che sono state coperte dalle
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Nazioni Unite, e nonostante le continue r:nan!p?lazioni di cui _so~o state oggetto da parte delle pot:n~e doi:runau, 1~nu :~~olta e ":uscita a imporre uno standard _mu:111:10 di rapporti p_acific1. P!en~amo ad esempio, alcune situaz1om disastrose da cw e stato mmacoato Ì'ordine giuridico internazionale vigente all'epoca dell~ ~u~rra fredda sotto l'egida delle Nazioni Unite. Dur~~e due ~ra_Vl cns1 ~el 1956, a Suez e in Ungheria, l'orientam:nto ~oliu~o reali~uco ~ell Onu riusci a evitare che la tensione sfociasse ID ~ ~plos1o~e distruttiva per il mondo intero. L'or~e vig~te so~o 1egida d~ Onu n~:>n era W1a Santa Alleanza o W1a dittatura 1mpenale, ma un s1~te~a giuridico internazionale, contraddittorio e costantemer:t~ a nsch10, ma sostanzialmente solido, realistico e attivo. Le sue ~ad.io non son? nel XIX secolo, ma nel XX e, in particolare, nella disfat_ta del fascismo che fece fiorire una grande speranza nella democrazia. Q_ueste c~~dizioni, che hanno garantito l'efficacia del_sis~em~, non c1 sono p1~. Lo spirito e la lettera della Carta delle Naziom Unite sono ~datt distrutti. In breve, un ordine multilaterale, una nuova W~tfalia ca~a: ce di orchestrare gli accordi e la cooperazione internaz1on~e oggt e impossibile, soprattutto perché l'or~~ isti:uz!or~ale su CUI dovrebbe basarsi - dalle Nazioni Unite alle 1st1tuz1om di Bretton Woods non è più efficace. . Il fallimento dell'unilateralismo non può comportare la ~esumazione di ciò che per un certo periodo di tempo è parsa l'umca ~ternativa cioè il multilateralismo. Ciò che restava del precedente ~1stema in;emazionale non è sopravvissuto al fallimento del colpo di St!: to tentato dagli Stati Uniti. Morendo, Sansone ~a portat~ con se 1 suoi nemici. In realtà le istituzioni internazionali necessane_ per sostenere un sistema multilaterale stavano già trab~ando PI1:111a che l'unilateralismo sferrasse il colpo di grazia. In ogru caso, ia e variegata sc~era di studiosi impiegano il termine governance, m contrasto con il governo, per definire la novità di queste autorità e di questi assemblaggi che si stanno formando all,'inter-
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no e all'esterno degli Stati. Il termine «governance globale» è normalmente impiegato per indicare le strutture della regolazione che producono e applicano le norme spesso dettate da una logica occasionalistica, in assenza di un'autorità politica sovraordinata, sia esso un potere sovrano o un sistema internazionale.2' Ci sono due genealogie del termine governance che concordano su alcune questioni ma, a un tempo, ne declinano il significato in modi molto diversi. La prima accezione del termine governance è ricavata dal lessico del1'amministrazione aziendale. Il termine sarebbe indicativo delle strutture di autorità, delle regole e dei meccanismi dell'amministrazione e delle responsabilità specifiche dell'impresa capitalistica a dif. ferenza di quelli delle strutture burocratiche dello Stato. L'allusione all'amministrazione d'im{>resa ha la funzione di concepire l'ordine globale come un che di irriducibile alla statualità e cioè come un sistema ibrido che comprende lo Stato, le imprese e altre potenti organizzazioni.26 La seconda accezione del termine govemance è ricavata dai discorsi filosofici e, in particolare, è attribuita al pensiero di Foucault e di Luhmann che in modi molto diversi hanno analizzato la genealogia di un nuovo concetto di governo focalizzando la loro attenzione sulla creatività nelle relazioni tra gli attori e sul tipo di regolazione e normatività che emergono dai processi amministrativi. Luhmann e Foucault hanno iscritto la categoria e le prerogative della sovranità in una rete di strutture più flessibili in cui si attuano processi decisionali e processi negoziali aperti. In questo contesto teorico, la governance segna un'inversione della direzione della comunicazione politica: un movimento ascendente sostituisce la linea verticistica e gerarchica; procedure di tipo induttivo rimpiazzano quelle deduttive; il centro di gravità del sistema si sposta verso modalità collaborative tra attori statuali e non statuali all'interno di una rete decisionale che si dispiega su molteplici livelli.27 Queste genealogie del concetto di governance, l'aziendalistica e la filosofica, ci permettono di inoltrarci in due prospettive da cui analizzare la situazione contemporanea. La governance globale è irriducibile a un modello di gestione fondato sull'unità del comando e della legittimazione derivanti da un unico centro di potere. Si tratta piuttosto di un processo negoziale, un'orchestrazione di strumenti per la pianificazione e il coordinamento consensuali in cui una molteplicità di soggetti statuali e non statuali dotati di poteri disuguali lavorano di concerto. Nella dimensione globale, il processo della decisione politica può svolgersi solo mediante l'intesa tra questi attori. 228
Dopo l',g,monia am,ri0 Questo modello ci sembra assai più utile e interessante degli altri per comprendere la govemance nell'Impero. Esso postula la costituzione di un'oligarchia composta da differenti corpi politici ed econonùci tra cui le istituzioni internazionali, i principali Stati, le imprese multinazionali, le alleanze regionali e continentali e così via, i quali collaborano in vista della creazione di un processo costituente aperto. Alla luce di questo modello, il capitale globale sembra nùscelare ecletticamente la «costituzione gotica» anglosassone e il «modello di Pufendorf>> di origine tedesca, per costruire un'architettura della regolazione in cui articolare gli interessi capitalistici e le forze sindacali mediante nuovi strumenti di mediazione. «Tutina Statuum» così lo chiamava il duca di Rohan nel Seicento - una bilancia tra Stati, o meglio, un dispositivo che costituisce e decostituisce gli assemblaggi della regolazione tra soggetti statuali e non statuali.>' Tutto ciò è molto lontano dallo Stato hegdiano che nell' econonùa ddla filosofia dello spirito dettava i tempi e i modi del corso della storia. Le strutture e le pratiche contemporanee della govemance globale mettono in gioco un processo straordinariamente flessibile e pluralistico. Questi modelli propongono il concetto di govemance come forma di regolazione essenzialmente pluralistica costruita dal basso e iscritta in una rete a geometria variabile e policentrica e che si dispiega su numerosi livelli. Gli Stati (alcuni più di altri) continuano a essere i centri strategici in cui si consolida il nesso tra le diverse infrastrutture del processo politico globale, così come le grandi imprese nazionali e multinazionali talvolta offrono (e impongono) un livello nùnimo di standard di redistribuzione sociale che gli Stati devono mettere in pratica. Le differenti accezioni del concetto di govemance condividono tutte una comune istanza di decostituzionalizzazione e di govemamentalizzazione di una serie di dispositivi di produzione di norme la cui efficacia si realizza al di fuori della sovranità, attivati da una pluralità di attori che devono essere funzionali alle esigenze dei mercati.l2 La govemance non va confusa con la democrazia. Non c'è alcun dubbio che nella govemance sono in gioco una pluralità di attori, che essa è relativamente flessibile e aperta e che nasce dal basso perlomeno rispetto alle strutture statuali. E tuttavia, questa molteplicità è rigidamente ristretta a un piccolo numero di privilegiati e di aventi
diritto, uno strato oligarchico di poteri gerarchicamente concatenati tra di loro. L'apertura dei processi di govemance è rigidamente condizionata dalle istanze del potere e della proprietà. Il pluralismo e l'apertura sono declinate nei termini dettati dalle logiche, dalle strutture e dalle pratiche del mercato. In tal senso, la govemance globale è impregnata da pratiche di comando «postdemocratiche». Questa ricognizione nella govemance globale ci aiuta a chiarire ulteriormente che l'inefficacia delle strutture unilaterali e multilaterali non lascia dietro di sé un vuoto di potere e il caos. Per certi aspetti, dopo il fallimento del colpo di Stato degli Stati Uniti, il capitale collettivo ha preso in mano le redini del governo della crisi. A questo punto l'Impero che si sta formando nel mondo globale sembra effettivamente essere caratterizzato dalla non polarità, per tornare al termine che abbiamo utilizzato in precedenza. E tuttavia, se abbiamo l'accortezza di inforcare un altro tipo di occhiali vedremo che, in realtà, c'è una pluralità di poli e una corrente continua di attività svolte da attori statuali e non statuali finalizzate alla costruzione di nuovi assemblaggi, a sperimentare nuove forme di potere, a determinare norme, pratiche di regolazione, procedure di gestione. Da questo punto di vista si potrebbe dire che, ancora una volta, Davos, la sede del World Econonùc Forum, sta diventando più importante di Washington. Nonostante ciò, il sistema globale è sicuramente in crisi dato che le sue strutture di potere e i meccanisnù di regolazione sono parziali, spesso inefficaci e applicati irregolarmente. E tuttavia, questa crisi è sintomatica dell'interregno nel corso del quale la governance globale sta costituendo le infrastrutture del nuovo Impero. Una nuova zuffa intorno all'Africa
La fine dell'imperialismo e il consolidamento del nuovo ordine imperiale non segnano la fine o l'attenuazione delle disuguaglianze e delle gerarchie tra le società e di quelle al loro interno. La tesi avanzata da alcuni apologeti della globalizzazione capitalistica secondo cui il mondo sta diventando piatto e l'economia globale può essere raffigurata come uno spazio liscio in cui le opportunità econonùche stanno diventando più accessibili e ugualitarie, è una pura e semplice nùstificazione ideologica. La continuità della divisione globale del lavoro e del potere si è dislocata e non corre necessariamente più
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lungo i confinì nazionali - quelli che dividevano ad esempio la Cina dal Vietnam, la Francia dall'Algeria o la Gran Bretagna dalla Nigeria - e questo anche se, in passato, la rappresentazione della centralizza. zione delle gerarchie e del potere da parte dello Stato nazione si è dimostrata più e più volte fallace. Il punto decisivo è che, nell' orizzonte imperiale che si sta delineando, le divisioni non vengono meno, anzi, in molti casi diventano ancora più dure. Numerosi studiosi, soprattutto antropologi e geografi, hanno mostrato che lungi dall'essere piatto, il mondo globale è drammaticamente irregolare, scabroso e striato da vecchie e nuove linee che determinano differenze e gerarchie.'' Un aspetto particolarmente significativo per il nostro lavoro è il modo in cui la divisione del potere e del lavoro fungono da meccanismi di controllo sociale. Le divisioni e le disuguaglianze geografiche funzionano ancora, come nell'età dell'imperialismo, come strumenti di conservazione delle gerarchie e di spostamento (e dunque di controllo) dei conflitti sociali. Il grande imperialista Cecil Rhodes conosceva bene queste funzioni: «La mia grande idea è quella di risolvere la questione sociale, cioè di salvare i quaranta milioni di abitanti del Regno Unito da una micidiale guerra civile. Noi, politici colonialisti, dobbiamo perciò conquistare nuove terre, dove dare sfogo all'eccesso di popolazione e creare nuovi sbocchi alle merci che gli operai inglesi producono nelle fabbriche e nelle miniere. L'impero - io l'ho sempre detto - è una questione di stomaco. Se non si vuole la guerra civile, occorre diventare imperialisti».'' Naturalmente non ci sono più né le amministrazioni né i territori coloniali che definiscono e riproducono le divisioni geografiche. Ciononostante, le asimmetrie geografiche non sono mai state così necessarie per il capitale e per i meccanismi della governance globale come mezzi per imporre le gerarchie e per dislocare i conflitti sociali. Spesso oggi le asimmetrie riguardano aree più compatte come le fratture che ritagliano una città. Le divisioni geografiche, soprattutto in Europa, tra i centri urbani dove vivono i ricchi e i privilegiati e le periferie oscure e povere sono diventate un modello per riprodurre le asimmetrie. Le grandi megalopoli americane, come Los Angeles o Rio, mostrano un modello diverso con una tendenza a strutturare le asimmetrie in termini meno concentrici. Le immense megalopoli in altre parti del mondo, come Lagos eJakarta, sono strutturate da altri criteri della distribuzione e della divisione. La divisione del lavoro e del potere possiede anche altre funzioni che si dispiegano su differenti scale di riferimento, ad
esempio, come cursori delle divisioni gerarchiche nord-sud, est-ovest o di traiettorie trasversali. Non siamo intenzionati a esaminare dettagliatamente la cartografia di queste asimmetrie, nonostante sia un compito della più grande importanza. Quello che vogliamo sottolineare è che queste divisioni sono costitutive nella formazione dell'Impero. A volte esse sono riorganizzate e ridislocate ma, perlopiù, vengono intensificate, dato che sono ancora necessarie per esercitare il controllo, come aveva capito Rhodes, mediante la conservazione delle gerarchie e lo spostamento dei conflitti sociali. Per chiarire ulteriormente questo punto, occorre ritornare a rimarcare la differenza tra il processo della globalizzazione capitalistica e l'analisi di Marx del passaggio storicamente graduale dalla sussunzione formale alla sussunzione reale del lavoro sotto il comando del capitale. Per Marx, la sussunzione è formale quando denota il fatto che le pratiche lavorative e i rapporti sociali che si sono costituiti storicamente prima e al di fuori della produzione capitalistica sono integrati, così come sono, sotto il suo comando. Prendiamo ad esempio il modo in cui i metodi della produzione artigianale sono stati integrati e conservati nella produzione manifatturiera, oppure il modo in cui le pratiche dell'agricoltura non capitalistica sono state conservate nelle forme della produzione agraria capitalistica. La sussunzione formale, da questo punto di vista, è indicativa di una serie di processi che si trovano sia all'interno sia all'esterno del capitale. La sussunzione diventa reale quando è il capitale a creare direttamente nuovi processi lavorativi non più legati alle forme precapitalistiche e quindi definibili come propriamente capitalistici. Le forme dd lavoro industriale in funzione nelle fabbriche sono, per Marx, il primo esempio di sussunzione reale. Il lavoro sussunto realmente dal capitale non è più collocato su un limite, tra l'interno e l'esterno del capitale, ma ora si trova integralmente al suo interno. I grandi teorici dell'imperialismo del XX secolo, come Rosa Luxemburg, hanno esteso le analisi di Marx al di là del loro contesto storico sociale per comprendere l'imperialismo come il processo della sussunzione formale delle economie non capitalistiche sotto il dominio delle economie capitalistiche. In questa ottica, la sussunzione formale segna il confine tra il capitale e il mondo esterno, una divisione che le potenze imperialistiche hanno usato per imporre le gerarchie e per dislocare i conflitti sociali. Il processo della globalizzazione è determinato dal passaggio dalla sussunzione formale alla sussunzione reale, e cioè dall'assorbimento di tut. 2_;3
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te le società nei circuiti dell'accumulazione capitalistica. Secondo la famosa asserzione di Marx ed Engels, il capitale costringe tutte le nazioni e tutte le società, minacciandole di estinzione se si rifiutano, ad adottare il sistema capitalistico di produzione. Il capitale crea un mondo a sua immagine e somiglianza. Se il mondo è effettivamente entrato nello stadio della sussunzione reale, e se è diventato un intero integrahnente capitalistico, è facile che si diffondano immagini come quelle del mondo piatto e liscio senza divisioni geografiche del lavoro e del potere. Quello che dobbiamo mettere in luce è il movimento incrociato che, nel processo della globalizzazione, va dalla sussunzione reale alla sussunzione formale, un movimento che non determina nessun nuovo mondo esterno rispetto al capitalismo, ma nuove divisioni ancora più dure. Non c'è alcun ritorno al passato: i movimenti dalla sussunzione formale alla sussunzione reale coesistono con quelli che vanno dalla sussunzione reale alla sussunzione formale determinando così un intreccio tra vecchi e nuovi confini e segmentazioni/' Il movimento incrociato tra sussunzione reale e sussunzione formale corrisponde per certi aspetti alla recente riesumazione di alcune forme di appropriazione capitalistica antiquate e parassitarie. I.:unica cosa che oggi è tornata in auge dal XIX secolo, come se lo immagina K.issinger, è una «nuova zuffa per l'Africa». Con questo termine intendiamo la rivalità tra le potenze europee alla fine dell'Ottocento per il controllo imperialista del territorio africano e la conseguente spartizione del continente in colonie. Le potenze coloniali europee della fine del XIX secolo erano assetate delle ricchezze che si immaginavano di poter saccheggiare in Africa, come l'avorio e l' oro. Oggi assistiamo a un ritorno di una simile forma di saccheggio in tutte le parti del mondo. David Harvey ha definito «accumulazione tramite spoliazione» una forma di appropriazione che non prevede la generazione della ricchezza mediante la produzione, ma la presa di possesso della ricchezza esistente, sottratta perlopiù ai poveri o al settore pubblico, mediante mezzi legali e illegali, spesso in una zona grigia in cui i limiti della legalità non sono chiari.)6 In questa competizione generale tra i potenti per accumulare spossessando gli altri riappaiono i vecchi elementi della sussunzione fonnale. La zuffa per l'appropriazione è sistematicamente supportata e facilitata dalla violenza extraeconomica. Naomi Klein chiama «capitalismo del disastro» il paradigma in cui l'accumulazione mediante spoliazione e l'imposizione delle politiche economiche neoliberiste
iniziano con degli shock che possono assumere la forma di un colpo di Stato militare, un'invasione o un disastro ecologico. Il capitale ha sempre tratto profitto dalle catastrofi utilizzandole come leve per la concentrazione della ricchezza e della produzione. Naomi Klein osserva che dagli anni Settanta, e poi sistematicamente durante la fase di interregno con tutti i suoi disordini, i mutamenti economici tramite i disastri e l'appropriazione mediante spoliazione sono diventati il modello dominante.>7 Ciò che abbiamo chiamato «una nuova zuffa per l'Africa» sta accadendo in tutte le parti del mondo, ma in Africa assume tratti particolarmente intollerabili e brutali. Dai diamanti della Sierra Leone ai pozzi di petrolio in Uganda, le forme del capitalismo estrattivo, spesso nelle mani di capitali stranieri e sotto la protezione di una proliferazione di milizie irregolari, sono giunte a dominare le economie locali. James Ferguson ha osservato che, contrariamente alle rappresentazioni in voga, in questi Paesi la crescita economica non comporta la stabilità, la pace e lo Stato di diritto. In tal senso, Ferguson scrive che «i Paesi che per i riformatori della Banca mondiale e per il Fondo monetario internazionale sono i più "fallimentari" sono invece tra quelli che hanno avuto più successo nell'attrarre investimenti stranieri».>S Mentre erano gli europei ad azzuffarsi più di un secolo fa, oggi sono soprattutto le grandi imprese multinazionali a spartirsi le spoglie dell'Africa sotto la copertura della complessità dei dispositivi della governance globale. Non c'è da sorprendersi se per descrivere le segmentazioni e le divisioni indotte dal processo della globalizzazione capitalistica è tornata in auge una vecchia batteria terminologica. Un esempio lampante è costituito dalla riesumazione, iniziata negli anni Ottanta da parte di certa storiografia, della nozione marxiana di «modo di produzione asiatico». Marx utilizza questo termine mutuato dalla filosofia della storia di Hegel per indicare un apparato di produzione antidiluviano e immobile, dominato da uno Stato dispotico che si appropria del surplus prodotto dalle comunità contadine autosufficienti. Per Marx, la categoria di «modo di produzione asiatico» è la sostanza di contrasto per evidenziare il dinamismo della produzione capitalistica in Europa. Come abbiamo rilevato nella seconda parte, la nozione di «modo di produzione asiatico» è stata radicalmente criticata dai marxisti e dai non marxisti sia per la sua sommarietà sia per il suo eurocentrismo. Gli storici cinesi che hanno disseppellito questa categoria marxiana dopo la fine del maoismo, come ci ha
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spiegato Rebecca Karl, non intendono subordinare nuovamente l'Asia in un nuovo schema di storia mondiale, bensì intendono valorizzare la ragione dell'eccezionalismo cinese nel sistema capitalistico globale. Essi si rappresentano l'eterno presente del «modo di produzione asiatico» come un punto di forza: la stabilità del potere in Cina, durata per migliaia di anni, si ripropone oggi nel modello dello sviluppo capitalistico saldamente diretto dallo Stato.}9 Se tralasciamo la questione dell'utilità della categoria di «modo di produzione asiatico» che, come abbiamo detto, ci sembra molto problematica, l'argomento che gli storici cinesi vogliono focalizzare è nondimeno assolutamente reale. A noi pare però che essi, lungi dal riuscire a giustificare una realtà esterna, abbiano rilevato delle linee di divisione e delle asimmetrie gerarchiche all'interno della formazione imperiale che sta emergendo. Il disordine e la complessità della globalizzazione - con l'annessa riapparizione di svariate forme vetuste di violenza, di appropriazione economica e di dominio politico - spingono molti a rivalutare vecchie soluzioni per risolvere il problema dell'ordine globale, come l'egemonia unilaterale e il concerto multilaterale. Anche se i fantasmi continuano ad aggirarsi nell'epoca dell'interregno, pensiamo che i lineamenti di un nuovo ordine mondiale debbano essere affrontati con strumenti del tutto nuovi. «Il bastone del comando» così nota William Robinson «presumibilmente non sarà trasmesso dagli Stati Uniti a un nuovo Stato o a un blocco regionale incaricati di esercitare l'egemonia, ma a una configurazione transazionale.»40 Una volta che siano stati chiariti gli assemblaggi e le nuove forme di autorità che si sono costituiti nell'ambito della govemance globale, possiamo finalmente renderci conto che una nuova formazione imperiale sta nascendo la quale può esistere solo sul presupposto di una intesa tra forze e poteri nazionali, sopranazionali ed extranazionali. La politica del futuro dovrà fare i conti con questo Impero.
4.3. Genealogia della ribellione Odio la folla, odio il gregge. Mi sono sempre sembrati così idioti o responsabili di infami atrocità ... Non mi è mai piaciuta la folla eccetto durante una sommossa... In quei giorni si respirava una grande forza - era come essere pervasi da una poetica grande quanto la natura, ma più incandescente. Gustave Flaubert a Louise Colet, 31 marzo 1853
La rivolta scuote la storia con il suo soffio vitale
In questo capitolo abbiamo descritto i principali lineamenti dell'Impero, la sua composizione da parte di poteri statuali e non statuali, gli assemblaggi della govemance, le contraddizioni interne, le gerarchie geografiche e le linee della divisione globale del lavoro e del potere. Quando sentiamo parlare tutti i giorni dell'instabilità e dell'incertezza dell'ordine globale, abbiamo il sospetto che quelle che abbiamo descritto non siano delle condizioni oggettive quanto le risultanti di conflitti e di antagonismi non facilmente percepibili dal punto di vista di chi ha il potere. Se vogliamo far avanzare la comprensione dell'ordine globale dobbiamo affrontarlo passando dall'altra parte, asswnendo il punto di vista delle rivolte e della resistenza. Questo ripropone il principio metodologico che abbiamo esaminato nella seconda parte e cioè l'assioma della libertà che possiamo riassumere in questi termini: il potere si esercita solo su soggetti liberi e dunque la resistenza di questi soggetti non è posteriore al potere, ma in quanto espressione della loro libenà, è prioritaria; la rivolta è un'espressione e un esercizio della libertà che non solo precede, ma anzi prefigura le forme che il potere metterà in campo nel momento della reazione. Se il nostro problema è capire meglio la natura dell'Impero che sta emergendo, allora occorre analizzare l'antagonismo, le rivolte e le ribellioni che lo pressano da 237
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vicino. Le lotte per la libertà determinano lo sviluppo delle strutture di potere." Da questo principio segue la conclusione che un impero cade, innanzitutto, per ragioni interne. L'Impero romano cadde, ad esempio, non tanto a causa delle invasioni barbariche, ma per il de~o interno della sua legit~tà, per le lotte di classe e sotto la pressione delle forze che contrastavano la sovranità imperiale dall'interno. Allo stesso modo, il crollo dell'Unione Sovietica non è stato tanto determinato dalla pressione politica e militare della Guerra fredda, ma dalle rivolte interne contro la mancanza di libertà e, in particolare da un'insanabile contraddizione tra l'amministrazione burocratica delle grandi industrie di Stato associata a una severa disciplina e l'autonomia richiesta dalle forme emergenti della produzio.ne biopolitica.42 Il nostro compito sarà allora quello di esaminare le strutture organizzative delle soggettività antagonistiche che sorgono dal basso, fondate sull'indignazione manifestata dai soggetti di fronte alla mancanza di libertà e alle ingiustizie del potere, e che si battono contro la violenza del controllo e delle gerarchie, contro la crudeltà dello sfruttamento e dell'espropriazione nel mondo disordinato della govemance globale. L'indignazione, come ba osservato Spinoza, è il grado zero, il materiale da costruzione con cui si edificano i movimenti della rivolta e della ribellione. Perché mai, qualcuno potrebbe obiettare, è proprio necessario tornare alle origini? Ci sono dei partiti di opposizione istituzionalmente consolidati, ci sono in varie parti del mondo dei governi di sinistra che combattono il militarismo e che contrastano la globalizzazione capitalistica e altre ingiustizie. Ci sono i sindacati che hanno trattato per oltre un secolo in nome dei lavoratori. Infine, ci sono organizzazioni non governative di ogni genere che si impegnano ad aiutare e a proteggere chi è privo delle risorse più elementari. Perché dovremmo reinventare la ruota? Perché non ci limitiamo ad analizzare le forme istituzionali di opposizione sociale e politica? Questo è un compito talmente importante che, nel libro precedente, abbiamo dedicato molte energie a redigere un'ampia rassegna dei movimenti della moltitudine contro il comando imperiale e, in quel contesto, abbiamo messo a confronto l'entità della trasformazione che deve essere realizzata con il mutamento prodotto dai modi convenzionali della contestazione e della ribellione. Abbiamo ricostruito il modo in cui, ad esempio, i sindacati, nel contesto della produzione biopolitica, sono chiamati a svi-
luppare nuove strategie per rappresentare i poveri e i lavoratori precari. Poi abbiamo rilevato la necessità da parte dei movimenti sociali di costruire delle reti che trascendano i confini nazionali e così via.•' Nei primi capitoli di questo libro ci siamo occupati del nesso tra lotte intorno al lavoro e lotte contro il razzismo nei movimenti della moltitudine nell'altennodernità. ln questa sede intendiamo impostare questo problema da un punto di vista prettamente filosofico, muovendo da un punto di partenza estremamente elementare e, a un tempo, estremamente astratto per poi tornare, grazie a un costruttivismo logico, a considerare con maggiore lucidità la questione della costituzione della moltitudine. Questo approccio filosofico risulterà allora un complemento della ricerca empirica. Cominciamo dall'indignazione come materia prima della ribellione e della rivolta. Spinoza ci ricorda che è con l'indignazione che scopriamo il potere di agire contro l'oppressione e dunque la forza di sfidare le cause della sofferenza. Manifestando indignazione la nostra natura più intima si ribella. 44 L'indignazione implica dunque una certa dose di violenza. Questo rilievo riconferma quanto abbiamo già scritto a proposito del fatto che la resistenza al potere che l'espressione della libertà contro la violenza del potere mette sempre in qualche modo in gioco la forza - questo succede ogniqualvolta i lavoratori sono contro i padroni, i colonizzati si scontrano con i colonizzatori, i cittadini si confrontano duramente con lo Stato. Le forze della resistenza sprigionate dall'indignazione contro gli abusi e i diktat del potere possono sembrare troppo spontanee, immediate e dunque ingenue (ma non per questo meno potenti). Il carattere di fondo dell'indignazione è che essa è sempre occasionale, è una risposta singolare che contrasta una determinata violazione. Possiamo allora parlare di una strategia dell'indignazione? L'indignazione può generare un processo di autodeterminazione? 0 Nella storia dei movimenti politici moderni i grandi momenti di ribellione autorganizzata fondati sull'indignazione spesso sono stati chiamati jacqueries. Il termine si riferisce alle feroci insorgenze dei contadini tra il XVI e il XVII secolo, alle rivolte spontanee degli operai del XIX secolo, alle lotte anticoloniali, ai disordini razziali eccetera. Di solito, nella storiografia politica questi eventi sono giudicati negativamente. Le interpretazioni che si danno ordinariamente del fenomeno riconoscono che esso è suscitato dalla sofferenza e da una giusta causa. Detto questo poi si stigmatizza lo spontaneismo come responsabile della brutta fine che tocca sempre a queste iniziative. Da
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un lato, la violenza della jacquerie oltrepassa sempre la misura distruggendo gli obiettivi della collera popolare in modo indiscriminato. Basta citare i coloni bianchi trucidati a Haiti o le immagini di Detroit in fiamme durante i disordini dell'estate del 1967. Dall'altro, sempre secondo le interpretazioni più convenzionali, la spontaneità delle jacqueries non residua alcuna organizzazione né esse producono delle istituzioni con cui consolidare un'alternativa nei confronti del potere che è stato rovesciato. La jacquerie esplode e poi si spegne. La grande poesia di François Villon celebra le improvvise fiammate e i tragici destini della jacquerie. E tuttavia occorre ricordare che la diffusione epidemica e la costante presenza di queste insorgenze costellano la storia moderna dall'Europa alla Russia fino all'India e la Cina, dall'Africa alle Americhe e oltre. 46 Nonostante la brevità e la discontinuità, la puntuale riapparizione delle jacqueries condiziona profondamente non solo i meccanismi della repressione ma le strutture stesse del potere. Prima di occuparci di quale sia il problema politico sollevato dalle jacqueries, occorre rilevare che esse sono incisivamente caratterizzate dai rapporti di produzione contro cui si battono. Da questo punto di vista, i disordini sono assai meno generici e molto più intelligenti rispetto a quanto viene detto solitamente. Una jacquerie può essere nei termini di Weber zweckadequat (razionale rispetto allo scopo) e in qualche modo opportunamente organizzata, non malgrado, ma in virtù della sua stessa spontaneità. Durante la modernità, le rivolte contadine hanno attaccato la rendita fondiaria e hanno individuato con grande precisione i luoghi simbolici dell' aristocrazia e del potere coloniale. Con il sabotaggio, le ribellioni operaie si sono scagliate contro il capitale fisso e i macchinari. Infine, aspetto che per noi è di grande interesse, le lotte contro il regime biopolitico della produzione sociale, come quelle che hanno avuto luogo nelle periferie parigine nel novembre del 2005, si sono mosse con intelligenza concentrandosi sulle scuole, sui mezzi di trasporto pubblici e privati e cioè, in altri termini, sulle condizioni della mobilità sociale e delle disuguaglianze che sono essenziali per lo sfruttamento metropolitano della forza lavoro sociale.'7 La rivolta, con le distruzioni della ricchezza e il sabotaggio dei punti di applicazione del potere, è sempre stata una scuola di organizzazione. Il terrore delle jacqueries è sempre stato proporzionale alla spinta verso la liberazione che le animava - contro i signori feudali, il potere coloniale, i regimi razzisti. Benché nelle jacqueries
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l'organizzazione sia sempre stata determinata da singoli bisogni e da singole istanze, esse sono sempre state spinte da una tensione alla realizzazione di azioni comuni da parte della moltitudine. Queste forme organizzative, perlopiù, hanno assunto la fisionomia di reti informali. Nel passato, le forme organizzative espresse dalle jacqueries erano considerate come fenomeni insurrezionali se erompevano nelle realtà urbane o dei fenomeni nomadici se esplodevano nelle aree rurali. Nella storia moderna, questa differenza può essere riscontrata, ad esempio, nella rivolta dei Ciompi a Firenze nel XIV secolo, nella rivolta di Masaniello a Napoli nel Seicento, nelle guerre dei contadini tedeschi tra XVI e XVIII secolo e nelle varie ondate di jacqueries contro l' Ancien Régime in Francia. A questo riguardo, la Rivoluzione russa può essere considerata come un modello urbano di jacquerie (che si è coordinata con un'ondata di rivolte contadine) mentre la Rivoluzione cinese, soprattutto nel corso della Lunga Marcia, ha i tratti del modello nomadico delle jacqueries contadine. Nella prosecuzione della nostra analisi emergerà chiaramente che oggi le jacqueries, specie quelle che esplodono sul terreno metropolitano, combinano questi due modelli in una nuova fi. gura organizzativa. I filosofi politici reazionari, soprattutto quelli riconducibili alla tradizione antirivoluzionaria in Spagna e in Germania come Carl Schmitt, si sono interessati vivamente alle jacqueries cui hanno però attribuito un diverso significato leggendole come espressioni di una volontà di conservazione, a difesa di poteri e autorità costituiti dalle minacce provenienti dai movimenti rivoluzionari.48 Il limite di questa interpretazione è che essa vede soltanto la legittimazione popolare delle tradizionali strutture e figure di potere da parte delle jacqueries, mentre non si rende conto di una legittimazione più fondamentale di una nuova forma organizzativa creativa e nomadica. In tal senso, le jacqueries sono indicative dello scontro tra due ordini di poteri: un potere che insorge contro l'ordine costituito, una nuova forma di vita contro lo sfruttamento, una volontà di liberazione che si scontra con una figura del comando. Più i modelli urbani e rurali di jacqueries si fondono nel mondo contemporaneo e più questi due ordini di poteri si mostrano con chiarezza. Nelle nostre indagini, sia in questo libro sia nei precedenti, abbiamo spesso messo a fuoco il fenomeno della rottura dell'ordine costituito da parte del rifiuto dei rapporti di produzione espresso dai produttori e per questo ci siamo interessati all'organizzazione
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delle condizioni materiali a partire dalle quali si sono proposti di rovesciarli. Nel marxismo e nella storia del comunismo rivoluzionario, che rappresentano tra i principali punti di riferimento del nostro lavoro, il processo rivoluzionario è inteso come un evento che accade innanzitutto, sul terreno della produzione economica. Oggi, anche per chi non intende rinunciare a questi riferimenti, la prospettiva dell'azione rivoluzionaria è iscritta nell'orizzonte biopolitico. Come abbiamo ribadito più volte nella terza parte, i luoghi della produzione economica sono disseminati ormai dappertutto, ragion per cui la produzione del valore è sempre meno distinguibile dalla produzione dei rapporti sociali e delle forme di vita. La rivoluzione dei lavoratori non è più sufficiente; a noi serve una rivoluzione nella vita e della vita. Georges Sorel aveva intuito qualcosa di simile anche se non riuscì a individuare il nesso materiale tra le lotte contro lo sfruttamento e l'indignazione nei confronti della corruzione della società. Sorel formulò il mito della grand soir - un mito che Sorel riteneva necessario. Ciò che è per noi davvero necessario, come ha correttamente rilevato Lenin, è un legame tra l'indignazione etico-politica e la serie di atti di violenza, di espropriazione e di sabotaggio contro i simboli e contro le istituzioni del potere scatenati dalle jacqueries.49 A questo proposito, secondo Lenin il problema principale, e siamo perfettamente d 'accordo con quest'impostazione, è come tradurre ogni singola insorgenza in un momento di governo, vale a dire come stabilizzare e consolidare l'insurrezione, come rendere efficace la jacquerie. In parecchie parti del mondo e in diversi momenti storici, la stabilizzazione dell'antagonismo fu compiuta tramite la sua traduzione nella lotta di classe il cui obiettivo primario era il salario (sia a livello individuale sia a livello collettivo, inclusa la lotta per i servizi sociali e il welfare). Nel contesto della produzione biopolitica è pressoché impossibile tradurre la lotta contro lo sfruttamento, per il welfare e la sopravvivenza in rivendicazioni salariali e, più in generale, monetarie. Nell'orizzonte biopolitico, come si possono stabilizzare le azioni insurrezionali? A questo riguardo, le risposte della tradizione socialista e del comunismo rivoluzionario non hanno più senso. Per trovare delle risposte dovremo chiamare in causa un'antropologia politica della resistenza. Siamo infatti convinti che se è vero che da un lato l'indignazione e le rivolte espresse dalle jacqueries sono imprescindibili, è però altrettanto vero che senza organizzaziqne esse non possono realizzare alcuna trasforma-
zione. Nonostante non siano sufficienti, le jacqueries restano nondimeno necessarie.
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Antropologia della resistenz.a Ora il nostro compito è quello di elaborare una «biopolitica rivoluzionaria». Detto in altri termini, ci occorre un pensiero della rivoluzione adeguato al contesto biopolitico. Per indagare i termini della questione, occorre analizzare le strutture antropologiche della politica contemporanea e cioè la condizioni dell'obbedienza e della resistenza. Nell'Intermezzo abbiamo criticato il pessimismo antropologico da Hobbes a Schmitt. Ora dobbiamo fare i conti con il pensiero liberale, da Locke a Kant, in cui c'è una grande apologia dell'ordine sociale capitalistico, le cui basi sono saldamente piantate nel terreno dell'individualismo possessivo, mentre il vertice è rappresentato da un sofisticato schema trascendentale. Prima che lo facessimo noi, questo impianto ideologico è stato destrutturato criticamente e con grande efficacia dal giovane Marx e da C.B. Macpherson.'° Per i nostri scopi, occorre mettere in evidenza in che modo l'antropologia politica delle ideologie neoconservatrici e neoliberiste contemporanee ba amalgamato queste due linee. In questo caso abbiamo a che fare con un individualismo possessivoche si presume illimitato che si muove in un mondo della vita caratterizzato da una cronica insicurezza e dalla paura. Si tratta di una clamorosa mistificazione di una società integralmente capitalistica che si trova sotto il tallone del biopotere/1 Contro questa mistificazione occorre ribadire che lo sfruttamento è ancora il fondamento della società, che il lavoro vivo è il suo asse di sostegno e che il consenso ricercato dal potere capitalistico è dato dalla moltitudine. Questa è la struttura sovrana contro cui insorge l'indignazione e contro cui è diretta la rivolta. Se nella società contemporanea il fondamento dell'antropologia è costituito da un biopotere compiutamente capitalistico, allora è piuttosto ovvio che le forme della disobbedienza, della rivolta, dell'insorgenza siano simmetricamente biopolitiche e cioè espressioni di singolarità completamente immerse nella realtà del comune. Secondo la definizione spinoziana, l'indignazione è «l'odio contro colui che ha fatto male a un altro».'2 Questo è il modo in cui la rivolta è radicata nel comune. L'indignazione, la disobbedienza e la rivolta, da un lato, sono figure di una rottura nella fabbrica antropologica della società, dal243
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l'altro sono paradossahnente anche condizioni della sua continuità. Come abbiamo visto a proposito delle jacqueries, esse riappaiono di continuo e determinano le condizioni della riproduzione dell'ordine sociale. Foucault ha messo in luce entrambi gli aspetti, e cioè sia la natura singolare e locale della rivolta sia la continuità dei suoi effetti. «Nessuno ha il diritto di dire: "Rivoltatevi in mio nome, è in gioco la liberazione finale di ogni uomo". Ma non sono d'accordo con chi dice "è inutile sollevarsi sarà sempre la stessa cosa". Non si detta legge a chi rischia la vita di fronte a un potere. È giusto o no rivoltarsi? Lasciamo aperta la questione. Ci si solleva, questo è un fatto; è in questo modo che la soggettività (non quella dei grandi uomini ma quella di chiunque) si introduce nella storia e le trasmette il suo soffio vitale.»'> La rottura provocata dalla rivolta non è ascrivibile soltanto a una continuità in senso antropologico - «ci si solleva, questo è un fatto» - la sollevazione è soprattutto il modo in cui la moltitudine fa la storia, il modo in cui trasmette il suo soffio vitale a ciò che altrimenti sarebbe un cadavere. Nel movimento operaio rivoluzionario, l'essere «dentro e contro» aveva formato l'immaginario dell'azione operaia: dentro la fabbrica e contro il capitale. Dall'epoca dell'operaio professionale a quella dell'operaio massa, la posizione del «capitale variabile» dentro e contro il «capitale fisso» ha assunto molteplici forme soprattutto in relazione alla composizione tecnica del lavoro e alla composizione politica del proletariato organizzato. Oggi, nel contesto alla produzione biopolitica, quando la fabbrica non è più il luogo deputato alla produzione del capitale, questo immaginario vive ancora anche se si è incisivamente trasformato: il proletariato produce dentro tutta la società e per questo si oppone a tutta la società. Questo segna una nuova condizione antropologica della politica e dell'antagonismo. Oggi, il rifiuto dello sfruttamento e dell'alienazione è direttamente rivolto contro la società del capitale nella sua totalità e dunque è indicativo di un processo di esodo, di una specie di separazione antropologica (e ontologica) dal dominio del capitale. Oggi, l'antropologia politica della resistenza è caratterizzata da una nuova temporalità che riorganizza i rapporti tra passato, presente e futuro. Possiamo cogliere un primo tratto di questo passaggio se guardiamo al modo in cui è cambiata la temporalità del lavoro e dello sfruttamento capitalistico. Marx e il marxismo si sono concentrati soprattutto su due distinzioni temporali: da un lato, la distinzione tra il tempo di lavoro necessario (in cui è prodotto il valore della for-
za lavoro) e il tempo di lavoro eccedente (in cui è prodotto il valore espropriato dal capitalista), dall'altro, la distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita. Come abbiamo visto nella terza parte, nella produzione biopolitica entrambe le distinzioni sono venute meno. Oggi il tempo di lavoro necessario e il tempo di lavoro eccedente non sono più in un rapporto sequenziale, bensl sono contemporanei e si sovrappongono; allo stesso modo, il tempo di lavoro tende a impregnare il tempo di vita investendolo con le sue logiche di sfruttamento e comando. La temporalità capitalistica della valorizzazione e dell'espropriazione non può più essere intesa come una successione di fasi temporali discrete, bensì come una sorta di simultaneità generale che, rispetto alla temporalità lineare, ha lo statuto di un'eccezione permanente. Nella nostra precedente analisi della produzione biopolitica, per comprendere la fine della divisione capitalistica del tempo cui è seguita la sovrapposizione tra produzione e sfruttamento, tra lavoro e vita, siamo tornati più volte sulla figura dei poveri. Mettendoci dal punto di vista dei poveri abbiamo rilevato un'altra caratteristica di questa nuova temporalità. La produttività biopolitica dei poveri eccede sistematicamente qualsiasi misura le venga imposta, dunque, essa trascende i meccanismi dello sfruttamento capitalistico. Ci troviamo allora di fronte a due temporalità che eccedono entrambe le vecchie misure del tempo: lo stato di eccezione capitalistico e la temporalità multitudinaria dell'eccedenza. Mentre in tempi passati, il capitale e il lavoro configgevano secondo temporalità non sincroniche e asimmetriche - con la temporalità capitalistica ben piantata nel presente, come ha mostrato Ernst Bloch, e la temporalità del proletariato proiettata verso il futuro - ora essi pongono due alternative sul medesimo orizzonte temporale.s. Oggi la rivoluzione non è più immaginabile come un evento separato da noi dal futuro, ma vive totahnente nel presente, come un'eccedenza del presente che in un certo qual modo contiene il futuro. Il movimento rivoluzionario insiste sullo stesso orizzonte della temporalità del controllo capitalistico e la sua posizione ontologica dentro e contro si manifesta con l'esodo che pone la produttività eccedente della moltitudine contro lo stato di eccezione del comando capitalistico. Le lotte del 1968 hanno rivelato per la prima volta questa coincidenza tra i piani e le temporalità su cui configgono il capitale e la rivoluzione sociale. Nel Sessantotto, il movimento operaio, che era ancora socialista, è entrato nella fase terminale della sua storia. Il movimento operaio recitava l'ultimo atto del rapporto dialettico tra
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lo sfruttamento e le istituzioni della contrattualizzazione del lavoro. Questo dualismo dialettico è stato distrutto: un sindacato separato dal processo lavorativo non aveva più senso, cosl come non aveva più senso un padrone separato dall'intelletto sociale che caratterizza la produzione. Questa è la ragione per cui la borghesia odia il Sessantotto. Quando le condizioni dialettiche del movimento operaio furono spazzate via, nello stesso tempo furono rimossi i dispositivi istituzionali della mediazione su cui si fondava in gran parte il potere del capitale. Questa è la situazione in cui la governance capitalistica deve mettere ordine - un compito molto arduo e, per certi versi, impossibile. Le strutture di comando, come abbiamo visto in precedenza, non possono più sovrastare la società per dettare il processo dello sfrut- . tamento, ma ora devono disporsi al suo interno. Questo è il motivo per cui l'ordine globale della governance è necessariamente caratterizzato da instabilità e insicurezza. Questa è la situazione in cui dobbiamo ripensare la jacquerie. Che cos'è la jacquerie in questa nuova condizione antropologica, alla luce di queste nuove basi ontologiche del comune e di fronte alla tendenza all'esodo? Come si organizza il furore dell'indignazione in rivolta, come si organizzano la sua urgenza e la sua aggressività? In questo contesto, quale traiettoria dalla spontaneità ali'organizzazione? Oggi, come abbiamo visto, le condizioni antropologiche della resistenza sono completamente cambiate. È curioso notare che, mentre nelle nostre precedenti ricerche ci siamo affannati a distinguere la moltitudine dalla folla, dalla plebe e dalle masse, qui abbiamo la possibilità di recuperare queste fonnazioni sociali nella misura in cui la loro indignazione e la loro rivolta sono dirette e organizzate. La ricomposizione delle classi subalterne, degli schiavi, degli oppressi e degli sfruttati, è sempre stato il compito della lotta di classe. Potremmo dire, riecheggiando l'epigrafe di Flaubert, che odiamo la folla eccetto che nei giorni in cui si ribella, quando esprime una sorta di poetica. Questa poetica del futuro è ciò che occorre creare per fare la moltitudine.
Geografie della ribellione Dopo esserci occupati delle coordinate temporali delle trasformazioni biopolitiche del lavoro, passiamo a esaminare quelle spaziali. 246
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A questo proposito possiamo iniziare dall'osservazione fatta nella terza parte, secondo cui la metropoli è la sede primaria della produzione biopolitica. Con ciò vogliamo dire che la fabbrica non è più il centro della produzione capitalistica che si è diffusa ovunque sull'intero corpo sociale. Le caratteristiche tradizionalmente associate alla metropoli come la comunicazione, l'imprevedibilità degli incontri, la differenziazione sociale, l'accesso ai beni e ai servizi comuni, e la produzione di forme di vita collettive, oggi appartengono ugualmente alla città e alle aree rurali, ma soprattutto, queste caratteristiche sono diventate le condizioni della produzione biopolitica. Nel territorio metropolitano il sociale produce ed è ininterrottamente riprodotto. La flessibilità e la mobilità imposti al lavoro biopolitico insieme alla pressione delle migrazioni creano una straordinaria dinamica di deterritorializzazione. Quando parliamo di rottura dei confini e di nomadismo, deve essere chiaro che non è la rottura dei confini a provocare il nomadismo, ma è quest'ultimo che travolge i confini minacciando la stabilità territoriale del controllo capitalistico.ss Inoltre, la produzione biopolitica segna la fine dello sviluppo della pianificazione capitalistica che si proponeva di coordinare l'urbanizzazione, l'industrializzazione e la formazione degli Stati. Ora il capitale collettivo si trova di fronte a una moltitudine flessibile e mobile. Dal punto di vista del comando e dello sfruttamento, la moltitudine è un'entità disordinata e caotica. Questa è la ragione per cui il capitale è costretto a continuare a tracciare dei confini, a riterritorializzare la forza lavoro e a ricostituire un rigido inquadramento territoriale dello spazio sociale. In altri termini, il capitale deve ridefinire nuove gerarchie sociali localizzate territorialmente proteggendole con dei confini necessari all'esercizio del comando e alla gestione dell'ordine. La creazione di nuove linee di divisione e di nuove gerarchie è un esempio di quel processo generale, che abbiamo descritto in precedenza, che inverte il movimento concettualizzato da Marx dalla sussunzione formale alla sussunzione reale. A questo riguardo, occorre sottolineare che la costruzione dei confini e il movimento verso la sussunzione formale non significano un ritorno alle vecchie gerarchie come se la distinzione tra lavoro contadino, artigianato e lavoro industriale o quella tra società capitalistiche e società coloniali fossero ricomparse. Non si tratta di un'inversione di una linea evolutiva, ma di un'innovazione storica.'6 Questo riguarda anche le figure del247
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l'autorità politica e del potere. Anche quando sembra che ricompaiano delle figure datate, in realtà, esse sono del tutto nuove. La differenza, in questo caso, sta nel fatto che le figure del potere non sono le cause, ma gli effetti del processo di trasformazione. I sistemi politici, che nel linguaggio del marxismo erano defuùti sovrastrutturali, conservano un'autonomia relativa nei confronti dei ritmi e delle caratteristiche della trasformazione sociale. Torneremo a esaminare i nuovi dispositivi politici nelle restanti parti del libro. La caratteristica saliente del lavoro che deriva dalla flessibilità e dalla mobilità che sono imposte nella produzione biopolitica è la precarietà, e cioè la mancanza di garanzie contrattuali, di stabilità di orari e scadenze e della sicurezza dell'occupazione. Nello stato di precarietà, il tempo di vita e il tempo di lavoro sono mescolati sotto la pressione degli impegni e dei rischi connessi a forme di occupazione mutevoli e informali. In Europa, lo spazio emblematico del lavoro precario sono le povere periferie metropolitane, le banlieue. Ogni giorno, i banlieusards attraversano le frontiere della metropoli per tirare a campare. Molti di loro hanno fatto esperienza di massicce migrazioni continentali e transcontinentali. Il loro movimento è soggetto a un gran numero di ostacoli, bloccato continuamente dalla polizia e sbarrato dalle protezioni che difendono le proprietà, nella metropolitana, per la strada, nei centri commerciali, e attraverso le città. I banlieusards sono degli esclusi e allo stesso tempo sono completamente interni ai processi della produzione. Per queste ragioni sono un emblema dei modi di sfruttamento e di controllo del lavoro precario.~ Nel mondo del lavoro precario, in cui vengono continuamente meno le divisioni tra dentro e fuori, non c'è più posto per un'avanguardia politica che pretenda di guidare o di rappresentare le masse. C'è solo la rete delle soggettività che cooperano e comunicano. La rete comprende molti elementi contraddittori, specie quando la banlieue e il ghetto da dato fenomenologico si trasformano in un dispositivo politico.'8 Abbiamo sostenuto che oggi lo sfruttamento richiede una rimodulazione dello spazio e un'ininterrotta costruzione di con.fini per mantenere la precarietà e la povertà del lavoro. In queste condizioni, arriva il momento in cui l'indignazione e l'esplosione delle jacqueries diventano inevitabili ed essenziali. I problemi nascono quando i precari, i poveri e gli sfruttati vogliono riappropriarsi dello spazio e del tempo della metropoli. Ancora una volta, il centro del programma politico è il passaggio dalla resistenza alla 248
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proposta e dalla jacquerie all'organizzazione. Si tratta di un passaggio arduo e complesso le cui difficoltà saranno oggetto delle prossime riflessioni. La contraddittorietà della spazialità e della temporalità della produzione biopolitica racchiude grandi potenzialità e grandi aperture. Come è possibile passare, all'interno di questo fittissimo reticolo produttivo, dalla resistenza alla formulazione di proposte che permettano alle soggettività di accumulare forza? La questione si potrebbe defuùre in questi termini: non si tratta di favorire e moltiplicare le occasioni di rivolta, ma di identificare le basi dell'accumulazione del potere e le condizioni per la maturazione delle lotte. In questo modo, le differenti temporalità esploderanno nell'evento e le molteplicità delle figure spaziali si concateneranno nella jacquerie. Come la govemance capitalistica, anche la jacquerie riformula lo spazio sociale muovendosi però dall'altra parte e cioè distruggendo le gerarchie, aprendo nuove traiettorie per il movimento e creando nuove relazioni territoriali. In che modo avrà luogo l'evento della ricomposizione? In che modo la forza diventerà l'anima di un programma con cui articolare l'amore che nutre l'indignazione? In primo luogo, occorre segnalare che le lotte intorno alla riproduzione sociale, al reddito, al welfare e all'esercizio dei diritti di cittadinanza sono modi di riappropriarsi i tempi e gli spazi di vita da parte della moltitudine. Questo non è certamente sufficiente per detenninare un programma organizzativo, ma è nondimeno una determinazione positiva, un indice di potere. Quando le rivendicazioni economiche e politiche sono intrecciate all'esercizio della forza della moltitudine e detenninano con successo un evento, questo è il momento in cui la forza di un'insorgenza si misura con la storia ed è il momento in cui rinasce un programma rivoluzionario. Contro questo programma e contro i suoi potenziali si scatena il terrore- terrore contro ogni forma di resistenza paradossalmente etichettata come «terrorismo». Le jacqueries, le lotte per la riappropriazione e le insorgenze metropolitane diventano il nemico numero uno del biopotere capitalistico. Le forme di rivolta sociale nate sul terreno della produzione biopolitica sono congruenti con la metropoli, così come le lotte della classe operaia erano congruenti con la fabbrica. Come accadeva in fabbrica, anche in questo caso rileviamo una doppia relazione: i banlieusards stanno dentro e fuori. Vogliono riappropriarsi della metropoli e a un tempo vogliono distruggerla, voglio riappropriarsi della sua ricchezza, delle reti della comunicazione e 2 49
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dell~ ~~p~razione, dist~gendo contemporaneamente le gerarchie, le divts1oru e le strutture di comando. Questa è una pervicace e fondamentale contraddizione. Questo stato di cose richiede che qualsiasi soluzione o programma poli~ico si~o messi a punto ali'altezza dello spazio globale. Come ~bb1amo rilevato, le ~ovranità nazionali non sono in grado di or• g~~are da s?le I~ spazio globale, ma non lo sono neppure le istitu~o~ mternaz10nali? le grandi imprese multinazionali e le organizzaz1~ru n?n. govemauve. Anche gli assemblaggi ibridi di questi poteri nei reg1m1 della global govemance non sono in grado di strutturare I~ configur~ioni d~_o spazio globale. Le basi e le sole forze per realizzare questi comp1t1 sono rappresentate dai movimenti globali delle popolazioni e dal loro rifiuto delle norme e dello sfruttamento. Portare_!~ rib~?ne al livello dello spazio globale con un respiro cosmopolinc~ s~~ca approfondire le resistenze locali nelle reti produtnve soClali, nei soc1al network, nelle banlieux, nelle metropoli e in tutto il reticolo di comunicazione e di cooperazione che concate• na il proletariato nel suo farsi moltitudine. La costruzione di uno spazio pubblico globale esige che la moltitudine crei, nel corso del1'esodo, le istituzioni con cui consolidare e fortificare le condizioni antropologiche della resistenza dei poveri. Nella quinta e sesta parte dovremo occuparci dell'organizzazione e della rivoluzione in termini assai più concreti di quanto abbiamo fatto finora. Prima di arrivare a questo appuntamento, dovremo rip~en~ere a lavorare intorno alla critica dell'economia politica, quindi, s~uppare ':111a t~!1a delle_ isti~ioni politiche. Prima di congedarci d~ questi t~1 e beri:e nb~dire che, senza la ribellione degli sfru~au e ~enza ~e. Jacquenes dei poveri, non c'è alcuna possibilità per il pensiero cnuco e per un progetto di organizzazione.
De Corpore 2: metropoli Costruirò città inseparabili, con le braccia l'una al collo dell'altra, con l'amore dei compagni, con il vigoroso amore dei compagni. Walt Whitman, Per te, democrazia
La metropoli è lo scheletro e la spina dorsale della moltitudine l'ambiente materiale che sostiene le sue attività e l'ambiente sociaÌe che costituisce il deposito e il repertorio degli affetti, dei rapporti dei costumi, dei desideri, delle conoscenze e dei circuiti culturali. Nella metropoli non è soltanto iscritto e riattivato il passato della moltitudine - la sua subordinazione, le sue sofferenze e le sue lotte - ma essa determina, soprattutto, le condizioni positive e negative del suo futuro. Queste metafore organiche possono fuorviare se sono associate a rapporti d'ordine funzionalistico o caratterizzati gerarchicamente, del tipo la testa comanda, la mano obbedisce e cosl via. La nostra me~pli è un corpo inorganico, essa è il corpo senza organi ?~a moltitudine. «La natura» scrive Marx in un passaggio che ha isp1rato Deleuze e Guattari «è il corpo inorganico dell'uomo, precisamente la natura in quanto non è essa stessa corpo umano.»59 Lanatura costituisce la ricchezza del comune e cioè il fondamento della prassi umana, dice Marx, e a sua volta, l'attività passata dell'uomo è iscritta e regist_ra~ dalla natura. Nell'era della produzione biopolitica la metropoli giunge a svolgere questo ruolo come corpo inorganico della moltitudine. L'analisi della produzione ci introduce a un'analogia rigorosa quanto affascinante: la metropoli è per la moltitudine >."° La costituzione della moltitudine e l'evento insurrezionale accadono in occasione di un par• tage che divide e a un tempo produce la condivisione del comune. Fare moltitudine, lo ripetiamo ancora una volta, non è un processo fusionale o di unificazione, come pensa Sartre. Essa mette in moto una proliferazione di singolarità costitute dalla corrente continua degli incontri nel comune. 41 Il processo decisionale democratico deve determinare e sostenere in maniera simultanea questa articolazione e questa composizione. A questo punto dovrebbe essere ormai chiaro che il concetto di rivoluzione che abbiamo elaborato si distacca notevolmente da qudli concepiti e praticati dai movimenti comunisti del Ventesimo secolo. La corrente maggioritaria del comunismo rivoluzionario concepisce l'insurrezione e la rivoluzione come strumenti per la creazione di una nuova identità: un soggetto politico d'avanguardia separato e per questo capace di guidare la società. L'articolazione dei soggetti sociali in lotta va sottoposta all'egemonia del partito che costituisce un contropotere che per certi aspetti rispecchia l'identità del potere centrale cui si oppone. Trotskij, nella sua ricostruzione della Rivoluzione russa, mette significativamente in guardia nei confronti dello spontaneismo delle masse. L'insurrezionalismo delle masse, egli af.
ferma, ha bisogno di una leadership rivoluzionaria fatta di cospiratori di professione che si assume la responsabilità della pianificazione degli eventi e della guida del p rocesso decisionale. Le concezioni trotskiste e leniniste possedevano il realismo e il pragmatismo adeguati per affrontare le condizioni della Russia della ftne del XIX e dell'inizio del XX secolo e dunque avevano gli strumenti più efficaci per determinare l'azione rivoluzionaria dei partiti e dei movimenti socialisti di quell'epoca. In quanto teorie della soggettività rivoluzionaria e della decisione rivoluzionaria essi sono totalmente inappropriati nei confronti dei problemi del nostro mondo. Sicuramente oggi siamo molto lontani dalla costruzione di una figura politica adeguata al processo rivoluzionario, ma in qualunque modo si mostrerà, essa dovrà seguire una linea radicalmente diversa da quella della tradizione comunista. Ciò di cui c'è bisogno è un processo organizzativo capace di sostenere una decisione rivoluzionaria per la destabilizzazione del potere costituito, che non sia esterno o superiore, ma totalmente interno ai movimenti della moltitudine.42 La storia del comunismo rivoluzionario ci offre un metodo assai proficuo con cui analizzare i nuovi potenziali del processo decisionale democratico contemporaneo mediante l'indagine delle trasformazioni del lavoro e della produzione. In precedenza, nella terza parte abbiamo esaminato i mutamenti nella composizione tecnica del capitale (che in realtà è la composizione tecnica della forza lavoro) in rapporto alla composizione organica del capitale (il rapporto tra capitale costante e capitale variabile). Ora dobbiamo scandagliare la composizione tecnica del proletariato in rapporto alla sua composizione politica. La terminologia può sembrare piuttosto oscura, ma le sue premesse di fondo sono semplici. Il modo in cui i lavoratori lavorano, insieme alle abilità e alle competenze che essi mettono in gioco nel processo lavorativo (la composizione tecnica) contribuiscono a determinare le loro possibilità e le loro capacità politiche (composizione politica). Se, come abbiamo sottolineato più volte, la composizione tecnica del proletariato è cambiata molto profondamente con l'egemonia della produzione biopolitica le cui prerogative si sono imposte in tutti i settori produttivi, allora diventa correlativamente possibile una nuova composizione politica corrispondente alle capacità specifiche del lavoro biopolitico. Le trasformazioni della composizione tecnica non determinano in modo meccanico e spontaneo una nuova figura politica pronta per la ribellione e la rivoluzione - questo richiede un lungo lavoro politico e organizzativo -
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ma indicano una nuova possibilità che deve essere colta. Sosteniamo perciò che oggi la natura e le qualità della produzione biopolitica rendono possibile un processo di ricomposizione politica definita da un processo decisionale democratico. Impostare in questo modo la relazione tra composizione tecnica e composizione politica storicizza la questione delle organizzazioni politiche di avanguardia in una luce del tutto diversa. Questo punto può essere chiarito ricorrendo a una periodizzazione molto grezza e schematica. All'inizio del XX secolo, quando la produzione industriale era caratterizzata dall'aristocrazia operaia dei lavoratori professionali, il Partito bolscevico, i Rate in Germania e il movimento dei consigli in varie parti d'Europa costituivano le soggettività politiche d'avanguardia che interpretavano quella composizione tecnica: il partito di avanguardia corrispondeva all'avanguardia professionale in fabbrica. A metà del XX secolo, quando la produzione industriale era caratterizzata dalla presenza di grandi masse di lavoratori e operai dequalificati, i partiti di massa - il Partito comunista italiano riuscì talvolta a svolgere quel ruolo - costituivano una soggettività politica adeguata a quella situazione che presupponeva la subordinazione del sindacato come «cinghia di trasmissione» dd partito e che agiva ora bloccando la produzione industriale ora incentivando le rivendicazioni salariali e la richiesta di redditi e di servizi erogati dal welfare. Questo modo di problematizzare la relazione tra composizione tecnica e composizione politica legittima (o perlomeno spiega) queste organizzazioni politiche nella misura in cui fa risaltare il loro radicamento in una serie di situazioni storicamente determinate e chiarisce le loro strategie per interpretare politicamente l'organizzazione e le capacità dei lavoratori nel processo produttivo. La comprensione di queste organizzazioni politiche in una prospettiva storica non toglie che siano irrimediabilmente relegate nd passato. Oggi che la composizione tecnica del lavoro è cambiata così profondamente, riproporre un'avanguardia politica simile a queste è perlomeno anacronistico.4i La preminenza della produzione biopolitica oggi comporta nuove potenzialità e capacità democratiche. A questo proposito è cruciale la sovrapposizione fra tre fenomeni di cui abbiamo già parlato nella terza e nella quinta parte. In primo luogo, mentre nell'età della produzione industriale i capitalisti provvedevano, nella maggioranza dei casi, a fornire ai lavoratori i mezzi e gli schemi della cooperazione che infrastrutturavano la produzione, nella produzione biopolitica il la350
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voro è sempre più responsabile della creazione della cooperazione.
Di conseguenza, il lavoro biopolitico diventa sempre più autonomo dal comando capitalistico che tende a bloccare la produzione e a ridurre la produttività ovunque e in ogni momento in cui interviene. Infine, a differenza delle modalità e delle forme verticistiche e gerarchiche della cooperazione dettate dal comando capitalistico, il lavoro biopolitico tende a creare organismi in rete dispiegati in orizzontale. Queste tre caratteristiche del lavoro biopolitico - cooperazione, autonomia e organizzazione in rete - costituiscono dei solidi presupposti per un'organizzazione politica democratica. Ricordiamoci della tesi di Lenin secondo cui finché gli uomini sono abituati ad avere bisogno di un capo mentre lavorano, essi hanno anche bisogno di un capo politico.... La produzione biopolitica contemporanea ci mostra come è cambiata la natura umana. Non c'è più così bisogno di un capo mentre si lavora. C'è sempre più necessità di una rete che si allarga, popolata dagli altri con cui si comunica e si collabora: per portare a termine il lavoro, il capo appare sempre più come un ostacolo. La focalizzazione sulla composizione tecnica del lavoro ci pennette di iniziare una panoramica sulle capacità democratiche che le persone sono in grado di esprimere nella vita quotidiana. Le capacità democratiche del lavoro non si traducono immediatamente in organizzazioni politiche democratiche e tuttavia esse costruiscono un terreno molto solido su cui immaginarle e crearle. Per prima cosa vanno sottolineati gli straordinari avanzamenti di cui sono state protagoniste le organizzazioni democratiche contemporanee nei confronti delle avanguardie politiche del passato. Storicamente, l'avanguardia aveva la responsabilità di destabilizzare il sistema capitalistico per mettere in moto il processo rivoluzionario. Negli anni Settanta, i movimenti comunisti e autonomi in Europa occidentale, che erano a un tempo ostili sia allo stalinismo sia ai partiti comunisti che sedevano nei parlamenti, hanno riformulato e ampliato questi contenuti. Le tattiche volte a destabilizzare il sistema capitalistico erano abbinate a una profonda destrutturazione della società capitalistica e allo smantellamento generale delle gerarchie di comando.0 Le forme organizzative democratiche suscitate dal lavoro biopolitico aggiungono un ulteriore elemento per perfezionare l'attività rivoluzionaria. Al fuoco delle tattiche di destabilizzazione e alle strategie della destrutturazione esse associano la costruzione di un nuovo genere di potere con cui la moltitudine diventa capace di gestire il comune. Lo scopo della rivoluzione ora è la costruzione di 35 1
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una nuova società. Questo compito richiede un processo decisionale di tipo nuovo. Sul terreno biopolitico, la conoscenza e la volontà necessarie per avviare un processo decisionale sono così profondamente e integralmente incorporate nella storicità dell'essere che decidere assume un senso compiutamente performativo e si riverbera, in prima istanza, nelle reali trasformazioni antropologiche dei soggetti che vi sono coinvolti o, come ha detto Jean-Luc Nancy, in un mutamento ontologico delle condizioni stesse della decisione.46 È probabile che alcuni lettori si siano sentiti a disagio per il metodo con cui abbiamo trattato insieme l'economia e la politica e che, per questo, ci sospettino di economismo attribuendoci la convinzione che le forze economiche determinano tutti gli aspetti della realtà. No, non è così. Quando diciamo, con una certa enfasi, che l'analisi delle attitudini, delle competenze e delle capacità espresse nel lavoro è un modo per comprendere la generalità delle capacità possedute dalla moltitudine nella vita quotidiana siamo altresì consapevoli che è un modo tra altri che nondimeno riteniamo molto importante! Come abbiamo già ricordato, Hannah Arendt ha sottostimato il rilievo dell'economia per la politica in quanto riteneva che le capacità messe in gioco nel lavoro (la monotona ripetizione dei compiti, l'obbedienza al comando e così via) non fossero rilevanti per la vita politica che esige autonomia, cooperazione, comunicazione e creatività. Il lavoro biopolitico è caratterizzato costitutivamente da capacità prettamente politiche. Queste capacità che si stanno imponendo. nella sfera economica rendono possibile la costruzione di nuove organizzazioni democratiche e dimostrano quanto si è consolidata la sovrapposizione tra le due sfere. A questo riguardo, le nostre idee si iscrivono in una lunga linea di istanze rivoluzionarie volte a concatenare le rivendicazioni politiche e le rivendicazioni economiche. Nel XVII secolo i sostenitori della moltitudine di cui abbiamo parlato nella prima parte hanno contrapposto la libertà alla proprietà. Il grido di lotta che risuonava durante la Rivoluzione russa era