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Italian Pages 352 Year 2009
biblioteca del/11 fenice
Aldo Giannuli L'ABUSO PUBBLICO DELLA STORIA Come e perché il potere politico falsifica il passato
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Per tutti coloro che volessero discutere i contenuti del libro, segnalarmi errori o temi da approfondire, mi farà piacere ricevere loro messaggi, e rispondere sul mio sito personale, www.aldogiannuli.it A.G.
L'ABUSO PUBBLICO DELLA STORIA
Dedico questo libro ,a Pavel e Giulia giunti da pochissimo fra noi: Benvenuti: e scusateci del Mondo che vi abbiamo /atto trovare. Lo zio Aldo
INTRODUZIONE
1. Qualche chiarimento iniziale
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Nel dibattito storico-politico degli ultimi venti anni, si sono affacciate espressioni spesso usate impropriamente come sinonimo una dell'altra: revisionismo, negazionismo, uso pubblico della storia. In realtà si tratta di cose diverse fra loro anche se, in parte, incrociate. Chiediamo scusa per questa puntualizzazione che ad alcuni parrà ovvia, ma che forse è opportuna per il lettore non specialista. Il revisionismo storico è un indirizzo di studi che ha iniziato a manifestarsi in Europa verso la fine degli anni Sessanta e che ha avuto in Renzo De Felice, François Furet ed Ernst Nolte i suoi maggiori punti di riferimento; esso propone una particolare rivisitazione del Novecento che, nel caso di Furet, si spinge indietro sino alla Rivoluzione francese. Il negazionismo, invece, riguarda un aspetto specifico: lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, negato, appunto, o quantomeno ridimensionato, da autori quali David Irving, Robert Faurisson, Paul Rassinier, Pierre Guillaume, Carlo Mattogno, Cesare Saletta ecc. che talvolta si sono definiti storici « revisionisti». Va detto, tuttavia, che la gran parte dei « revisionisti doc » respinge questa parentela e non mette minimamente in discussione la verità storica della Shoa. « Uso pubblico della storia» è una espressione coniata nel 1986 da Jurgen Habermas, durante un dibattito fra i maggiori storici tedeschi del periodo sul tema delle rèsponsabilità tedesche nell'Olocausto (lo Historikerstreit cui parteciparono fra gli 9
altri Ernst Nolte, Klaus Hildebrand, Joachim Fest, Hans Mommsen oltre che Habermas). 1 Di essa diremo fra breve, della sovrapposizione fra « uso pubblico della storia» e revisionismo proprio perché quel dibattito si svolse in parte su organi di stampa come «Die Zeit» e «Frankfurter Allgemeine Zeitung», cosi come, peraltro, anche De Felice e Furet hanno divulgato le proprie tesi attraverso quotidiani. L'estensione al negazionismo, poi, viene sia dalla confusione fra esso e il revisionismo di cui dicevamo prima, sia a causa del clamore giornalistico intorno alle loro tesi.
2. V uso pubblico della storia e il suo abuso Per la verità, Habermas, in occasione dell' Historikerstreit disse molto meno di quello che in seguito gli si è attribuito. Unò dei suoi interventi nella polemica si intitolava, appunto, « L'uso pubblico della storia>> e conteneva questo passo: Noi conduciamo la discussione alla ricerca di una giusta risposta, parlando in prima persona. Non bisogna confondere questa arena, in cui siamo tutti in causa, con la discussione degli studiosi che, nel corso del loro lavoro, devono !lssumere il punto di vista della terza persona. La cultura politica della Repubblica federale viene certamente influenzata dal lavoro comparativo di storici e di altri studiosi; ma solo grazie alle paratoie e agli intermediari dei mass media i risultati del lavoro scientifico [. .. ] affluiscono nel pubblico alveo in cui ci si appropria della tradizione [. .. ] Non si tratta, infatti, di [. ..] confronti teoricoscientifici o di questioni sulla libertà dei valori; si tratta dell'uso pubblico della storia.2 1
I vari interventi sono raccolti in Gian Enrico Rusconi (a cura di), Germania, un passato che non passa: i crimini nazisti e l'identità tedesca, Einaudi, Torino, 1987. 2 Gian Enrico Rusconi, op. cit., p. 106.
Habermas introduceva questa distinzione fra il lavoro scientifico dello storico e il dibattito pubblico sui mezzi di comunicazione di massa, ovviamente avvalorando il primo rispetto al secondo. Ma, come si vede, il giudizio appariva abbastanza sfumato .e, se pur forzato (in fondo, neanche nel lavoro scientifico la finalizzazione politica è assente), non conteneva quella valutazione così negativa del fenomeno che il dibattito successivo finirà per attribuirgli, formando un pregiudizio incondizionatamente sfavorevole verso la divulgazione storica connessa al dibattito politico. Questa valutazione sfavorevole suscitò diverse perplessità fra gli storici italiani che, già in un incontro svoltosi a Pisa il 29 gennaio 199.3, avanzarono diverse critiche. In particolare Nicola Gallerano sostenne che Fuso pubblico della storia non era una pratica da rifiutare pregiudizialmente non esistendo nessuna opposizione di principio fra esso e l'attività scientifica. Conseguentemente, propose di distinguere fra « uso pubblico della storia» riguardante la trattazione storica da parte di giornali e Tv, arte, letteratura, scuola, musei, toponomastica, monumentalistica ecc., e «uso politico della storia» che coincide con la ricostruzione polemica di eventi a partire dalla memoria di un gruppo. Da queste considerazioni sorse, qualche tempo dopo, l'espressione« abuso pubblico della storia» inteso come ricorso surrettizio a essa da parte di esponenti politici e a fini di consenso. Qualche altro propose di parlare di « populismo storiografico»: una prospettiva di indagine più interessante che tuttavia non è stata raccolta da molti (vi torneremo). Di fatto il nodo restava quello del valore scientifico di tesi affermate per via giornalistica. Proprio questo è stato spesso rimproverato agli storici revisionisti: di essere dei pamphlettisti di nessun rigore scientifico e· di avere successo proprio perché superficiali. Insomma, giornalisti che improvvisano qualche articolo di storia, mentre la Storia (quella con la S maiuscola) è di casa solo nelle stanze dell'Università. Questo rivela la difficoltà degli storici accademici ad adattarsi al mutamento delle condizioni in cui si forma il« canone storico» . . 11
Sino agli anni Sessanta (e forse sino ai Settanta) questo aweniva attraverso il seguente procedimento a cerchi concentrici: a. al centro stava l'Accademia dove, con gli strumenti propri . della metodologia storica, si confrontavano le varie tesi per conquistare la prevalenza. L'affermarsi di una scuola sulle altre o la convergenza degli orientamenti prevalenti intorno a un nucleo centrale condiviso, faceva di questo il canone ufficiale, cui si conformava tanto l'insegnamento, quanto il calendario delle feste nazionali, la toponomastica, la monumentalistica ecc.; b. nel primo anello immediatamente successivo stavano gli studenti (in genere dèlle facoltà di Storia e Filosofia) che, diventati insegnanti, trasmettevano quel canone ai propri studenti di ogni ordine e grado; c. nel secondo anello c'erano quanti ricevevano questa formazione e che, diventati professionisti, operatori culturali ecc., formavano l'ossatura dell'opinione pubblica. Va detto, peraltro, che sarebbe pura mitologia immaginare che la formazione del canone prevalente nell'accademia awenisse solo attraverso il più puro dei confronti scientifici: a segnare la prevalenza di una scuola su un'altra contribuivano anche altri fattori, quali il controllo dei fondi e del reclutamento, la conquista dei posti di comando nelle istituzioni universitarie, il rapporto con le case editrici ecc. E non è detto che la conquista di una direzione di istituto o una migliore performance concorsuale, o il favore dell'editore più importante premiasse necessariamente la scuola più agguerrita scientificamente. Quando si tratta di concorsi o di elezione di presidi, anche gli scienziati « parlano in prima persona» e del « punto di vista della terza persona» non sanno che farsene. Questo sistema di formazione del canone storico è andato in crisi con la contestazione dell'Università, come autorità deputata ad affermare una verità scientificamente provata, operata dal Sessantotto. Poi è sopraggiunto il rapido sviluppo dei mezzi di 12
informazione e il loro progressivo emanciparsi dall'Accademia, anche in riferimento all'informazione scientifica. Questo ha creato una situazione per cui una parte del corpo docente, magari minoritaria al suo interno, ha scavalcato il meccanismo tradizionale, trovando nei quotidiani, prima, e nella Tv, dopo, una tribuna per rivolgersi direttamente all'opinione pubblica. In un secondo momento, la posizione di vantaggio acquisita in sede mediatica si è ribaltata sullo stesso mondo universitario, mettendo in difficoltà gli orientamenti prima prevalenti. · Non è difficile individuare il disorientamefit'o di una corporazione accademica di fronte ai ritmi e ai linguaggi della comunicazione di massa che, peraltro, spesso semplifica troppo o incorre in svarioni di ogni sorta.3 Forse - ma la cosa è assai dubbia - il sistema precedente dava garanzie di maggiore affidabilità scientifica, ma lamentarsi in nome del buon tempo antico non ha molto senso. · L' « uso pubblico», inteso come informazione giornalistica su temi a contenuto scientifico, non riguarda solo la storia e ogni giorno leggiamo esilaranti fesserie in materia di economia, fisica, biologi~, linguistica ... Ma, a meno di non pensare di sottoporre Tv e giornali alla correzione preventiva di una apposita commissione d'esame o di proibire per legge ai media di occuparsi di argomenti di rilievo scientifico, occorre rassegnarsi all'idea che imprecisioni, errori e anche autentiche bestialità, sono un aspetto della libertà di stampa. D'altra parte, insieme ad articoli sciatti, sui quotidiani ne compaiono anche altri dignitosissimi (e non sempre a firma di docenti universitari) e altrettanto vale per Tv, cinema o radio. Più semplicemente, è necessario che gli accademici prendano atto della situazione ed entrino nell'ordine di idee di adeguare la 3
Un quotidiano (che caritatevolmente non ricordiamo) affermò essere storicamente esistito lo scienziato « Archimede Pitagorico», mentre un altro sostenne che Mazzini fu il mandante di Br~sci e un terzo inserì, in tutta serietà, Lotta Continua fra i gruppi politici protagonisti dell'impresa fiumana ... 13
loro capacità di comunicazione a essa, coltivando il terreno della divulgazione. In fondo, per essere scientificamente corretti, non è indispensabile scrivere in modo noioso e incomprensibile. E questo è ancora più vero se la disciplina in questione è la storia e, segnatamente, la storia politica. La storia è il suo uso pubblico, coincide perfettamente con esso. Le scienze naturali possono anche essere utili senza un loro « uso pubblico»: si porrebbero problemi di natura politica, ma potrebbero ugualmente avere una ricaduta tecnologica. Ma la storia, al di fuori della comunicazione più ampia delle sue acquisizioni, a cosa serve?
3. Il successo del revisionismo Come è noto, la letteratura revisionista ha avuto un forte successo: libri che sono diventati casi editoriali con centinaia di migliaia di copie, ampia audience televisiva, forte presenza sui quotidiani ecc. Quindi, si pone innanzitutto il problema di capire le ragioni di questo successo, prima di entrare nel merito delle tesi sostenute. In primo luogo i revisionisti hanno goduto del vantaggio assegnato dai meccanismi stessi dell'informazione: ogni giornale o Tv è alla ricerca di «notizie» ed è ovvio che qualsiasi tesi innovativa soddisfi più facilmente questa esigenza che non la riproposizione di un canone consolidato. « Garibaldi vinse a Palermo perché era un grande generale» non è una notizia e nessun direttore di giornale accetterebbe un pezzo del genere, mentre « Garibaldi vinse a Calatafimi perché Cavour corruppe i generali borbonici» è uno scoop. Ovviamente, occorre vedere il fondamento documentale di questa affermazione; e qui sta l'insidia della divulgazione giornalistica: il documento può essere scarsamente significativo o di dubbia credibilità, ma una buona capacità suggestiva gli conferirà il peso che non ha. L'eventuale risposta dei sostenitori della tesi avversa parte già svantaggiata e lo sarà ancor più se scenderà su un terreno puramente tecnico e, magari, con tono professorale: i professori sono naturalmente antipatici al grande
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pubblico, che simpatizza istintivamente per l' «innovatore». Corollario: chi prende l'iniziativa è in vantaggio su chi la subisce. Per la stessa ragione per cui « una smentita è una notizia data due volte» (Churchill), una risposta polemica equivale al rilancio della tesi avversaria. Agli occhi dei lettori più attenti, l'autore del primo articolo acquista autorevolezza proprio perché le sue tesi sono dibattute; quelli meno attenti, cui l'articolo era sfuggito, se ne accorgeranno proprio grazie alla risposta e, magari, andranno a leggerselo. , 1 I «revisionisti» semplicemente hanno capito questi meccanismi e li hanno sfruttati a loro vantaggio. In secondo luogo, il revisionismo storico - ce ne occuperemo diffusamente ha alimentato il vento culturale necessario alla svolta neoliberista degli anni Settanta-Ottanta e ne è stato a sua volta sostenuto (ci torneremo ampiamente), attraverso le campagne editoriali, l'apertura ancor più accentuata delle pagine dei quotidiani e degli studi televisivi, i finanziamenti di fondazioni e istituti ecc. Ma a contribuire in modo definitivo è stata la reazione antirevisionista.
4. L'« antirevisionismo » Come si intuisce facilmente, le tesi dei revisionisti hanno suscitato un vivace dibattito che ha attraversato la storiografia di diversi paesi soprattutto europei, dalla Germania all'Italia, alla Francia, alla Spagna. Sul fronte « antirevisionista » le posizioni sono state molto differenziate (~ome del resto erano differenziate anche quelle di parte opposta) e, all'estremo di esso, si è formato una sorta di « antirevisionismo intransigente» che è stato il miglior alleato del revisionismo, del quale ha finito per essere il rovesciamento speculare del suo antagonista. Gli schieramenti hanno ben presto assunto una netta coloritura politica e questo ha spinto il grande pubblico a dividersi in due grandi schieramenti:
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quello di chi pensa che il revisionismo-negazionismo è una grande truffa basata su continui falsi storici per «sdoganare» il fascismo e attenuare la condanna del nazismo; e quello di chi, al contrario, è convinto che la truffa sia stata perpetrata precedentemente (in genere a opera dei comunisti e dei loro alleati) e che i revisionisti siano gli storici coraggiosi che stanno riscoprendo la verità. E questo soprattutto in un paese tradizionalmente diviso come l'Italia. Ovviamente schematizziamo al massimo, per sottolineare la sommarietà del giudizio. L' antirevisionismo intransigente ha reagito con una orgogliosa rivendicazione del canone consolidato che è spesso apparsa come un riflesso condizionato, un atteggiamento dogmatico poco convincente. Peraltro, in questa difesa ex cathedra, spesso la polemica filologica faceva premio sulla comprensione dei moventi politici meno evidenti dell'operazione avversaria. Altro punto debole dei professionisti dell' antirevisionismo è stata la banalizzazione dell'avversario. In effetti, nella letteratura revisionista non mancano elementi suggestivi, ragionamenti forzati, errori più o meno voluti e anche veri e propri falsi, ma non tutto può essere ridotto a questo. Il revisionismo ha anche segnalato problèmi storici reali, scoperto documenti veri e rilevanti, formulato obiezioni che non è possibile ignorare; Gli antirevisionisti hanno spesso pun'tato tutte le loro carte sulla denuncia dei falsi e delle debolezze metodologiche dei revisionisti, ma la strategia argomentativa più «forte» non è quella che distrugge il ragionamento «avversario» colpendolo nei suoi punti deboli, errori, imprecisioni, ma quella che è capace di coglierne gli aspetti forti, le intuizioni più acute, le scoperte più originali e farle proprie assimilandole nella propria sintesi. Infine, particolarmente letale è risultato l'arrocco celebrativo: spesso gli antirevisionisti si sono rifugiati nel celebrativismo come estremo riflesso della «ufficialità» del loro canone. Ma gli anniversari, le parate, le corone di allÒro ai caduti, i tronfi di16
scorsi ufficiali sono cose che potevano avere una efficacia persuasiva mezzo secolo fa, quando essi erano veicoli di pedagogia civile, ma in una società innervata dai mass media e attraversata da apatia politica sono solo grottesche liturgie sopravvissute alla storia. Quanto di più efficace per avvalorare il carattere « innovativo» delle tesi revisioniste. E, dunque, l'atteggiamento «difensivo» degli antirevisionisti ha finito per assegnare un vantaggio strategico definitivo ai loro antagonisti. , «.La parte che resta dentro il suo campo è destinata a perdere» diceva Napoleone e la cosa resta vera se si passa dal confronto militare a quello scientifico. La polemica si è stancamente avvitata sul confronto fra revisionisti e antirevisionisti (e questo si è sostanzialmente ridotto alla stucchevole polemica sull'Olocausto). Ma i processi in atto sono molto più complessi e rilevanti e meritano ben altro approfondimento.
5. Storia e politica
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Da più di mezzo secolo, la scuola francese degli Annales ha messo seriamente in discussione il primato della storia politica su ogni altra storia (sociale, econòmica, culturale ecc.). Un tentativo salutare di riconsiderare l'intera disciplina, ma, nonostante ciò, la storia politica è quella che continua a tenere banco soprattutto sui mass media. Ed è essenzialmente di essa che parleremo. Si è talvolta rimproverato agli storici revisionisti una eccessiva politicizzazione. Appunto non infondato - come vedremo - ma, tutto sommato, poco efficace. Lo storico ha sempre agito in vista dell'uso politico del suo lavoro: Tucidide scrive le sue Peloponnesiache a pochi anni dalla loro conclusione e non come un disinteressato cultore di storia patria, ma con il preciso intento - tutto politico di spiegare le ragioni del fulgore e della decadenza di Atene. E non scrive un'opera per il diletto degli ascoltatori-verso il quale manifesta 17
uri infastidito disinteresse - ma per lasciare un « acquisto durevole» nel tempo, qualcosa che renda le generazioni successive più consapevoli delle loro scelte. Fra lo storico e la politica esiste un'attrazione reciproca e inevitabile che può tradursi in un rapporto elettivo fra lo storico e il potere. L'esempio più celebre è proprio quello di Machiavelli, che usa le sue ampie conoscenze storiche per fornire consigli al «Principe» e non solo. Fa molto di più: egli «inventa» la figura del Principe, lo emancipa da ogni tutela morale e rivela la nuda sovranità del potere politico a sé stessa. Al suo storico, il Principe chiede due cose: fornirgli un' adeguata legittimazione e dargli gli strumenti concettuali per un progetto di espansione o conservazione del suo potere. Nessuna strategia politica è pensabile senza una base storica. E tuttavia, questa prassi può rovesciarsi (e storicamente si è rovesciata) nel suo contrario: delegittimare e sovvertire il potere del Principe. Gabriel de Mably, ispirandosi a Livio, propose un modello di storia altrettanto realistico e finalizzato di quello di Machiavelli, ma finalizzato a scopi opposti: coltivare le virtù repubblicane dei suoi lettori, orientandone le scelte politiche:
L..] lo storico deve esercitare una sorta di magistratura; e volerlo ridurre a cucire fatti a fatti e a raccontarli in modo piacevole per divertire la nostra curiosità o piacere alla nostra immaginazione, significa avvilirlo e non farne che un insipido gazettiere [. . .] [lo storico insegni] ad amare il bene pubblico, la patria, la giustizia; smascheri il vizio per far trionfare la virtù.4 Nell'altra sua opera di metodo storico, De l'étude de l'histoire, Mably compie una vera e propria ricognizione di storia comparata fra i sistemi politici di Svizzera, Polonia, Genova, Venezia, Impero Germanico, Province Unite, Inghilterra e Svezia per 4
Gabriel Bonnot de Mably, De la mant"ère d'écrire l'histoire, Fayard, Paris, 1988, pp. 280 e 287-288.
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ricavarne indicazioni generali, ma così facendo rivela l'origine umana e non divina del potere politico. È proprio il metodo storico che consente questa epifania del potere e dei suoi fondamenti, ponendo le premesse per la sua critica, ed è da essa che nasce ogni ordinamento repubblicano. E, d'altra parte, nella sua comparazione, pur rigorosa, Mably non nasconde affatto le sue simpatie per gli ordinamenti repubblicani come quello olandese. La consigliera d~l Principe metteva il berretto frigio. La storia ebbe, quindi, un ruolo determinante nel processo di secolarizzazione, portando a terra le radici del potere politico che il pensiero della tradizione collocava in cielo. Il re fu per volontà della nazione e non più per grazia divina, anche sulla base di una più nitida consapevolezza storica delle vicende del potere politico a fondamento della moderna democrazia. Resta, tuttavia, la contrapposizione fra la « storia del Principe» e quella « repubblicana». Che il potere politico cerchi di usare la storia ai propri fini (creare consenso interno, definire identità e soglie di inclusione e di esclusione, giustificare le proprie pretese sul piano internazionale, delegittimare avversari interi o esterni ecc.) è moneta corrente in ogni epoca e paese. Cosa altro sono strumenti come le cerimonie pubbliche, la monumentalistica, la toponomastica, gli indirizzi nell'insegnamento della storia, la definizione delle materie storiche specialistiche a livello universitario, le scelte di finanziamento di una ricerca storica piuttosto che di un'altra, la regolamentazione dell'accesso pubblico ai documenti storici ecc., se non il modo attraverso cui il potere politico ufficializza un canone storico, sollecita certi studi e ne scoraggia altri, contribuisce a determinare la cultura storica di base, occulta le pagine meno presentabili del proprio passato? Tuttavia, questo condizionamento non è sempre stato invasivo allo stesso modo: le democrazie liberali hanno assegnato ben diversi margini alla libertà di ricerca di quanto non accadesse nella Prussia guglielmina, nell'Italia fascista, nella Germania nazista o nell'Urss staliniana. E,. a ben vedere, anche fra questi quattro esempi le differenze sono notevoli: nell'Italia fascista 19
uno storico come Nello Rosselli poteva operare, e se cadde sotto il pugnale dei sicari non fu per le sue opere storiche, mentre non si registra alcun caso paragonabile nella Germania nazista. La ricerca storiografica ha contribuito in modo determinante alla conquista delle libertà repubblicane - tanto individuali che collettive e, a sua volta, ne è stata nutrita e protetta. Questa tensione, fra storiografia del Principe e storiografia repubblicana, si ripropone oggi in termini ben più sofisticati: ancor più di ieri, il controllo della storia assume un ruolo di risorsa strategica e ha assunto forme molteplici e in parte diverse dal passato. Alla storia si chiede di ridefinire identità, giustificare interessi e legittimare aspettative, fondare senso comune, motivare strategie, di qui la necessità per il potere politico di « controllare» la produzione storica e il senso comune che da essa deriva. E que- · sto anche nelle democrazie liberali dove, per la prima volta, si approvano leggi che stabiliscono cosa si possa o non si possa scrivere in materia storica e una parte del dibattito finisce nelle aule dei tribunali, nascono Commissioni parlamentari che si arrogano il diritto di stabilire una verità storica con il timbro dello Stato, servizi segreti fanno vere e proprie operazioni storiografiche a supporto di questa o quella tesi, si inverte la tendenza ali' apertura degli archivi. E dunque, quello che sta accadendo è molto di più della polemica revisionismo-antirevisionismo, della polemica con i pochi e screditati negazionisti del genocidio nazista o della citazione sbagliata fatta da un politico tanghero in cerca di momentanea pubblicità. Stiamo mettendo mano a uno dei fondamenti della nostra dèmocrazia. È questo il vero e più preoccupante « abuso della storia».
Milano, 10 ottobre 2008
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PRIMO CAPITOLO UN MONDO CHE CAMBIA
1. I mutamenti degli ultimi venti anni e i tentativi di un nuovo ordine mondiale j
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Da un trentennio la storia ha alzato il passo. Il regime comunista in Urss è caduto e siamo passati da uno stabile bipolarismo a un precario monopolarismo, mentre è sorta una trentina di nuovi stati (di cui circa venti nella sola Europa). La Cina ha mantenuto il regime comunista, ma subendo profonde trasformazioni socio-economiche, e si accinge a diventare la seconda potenza mondiale. L'Unione Europea, pur senza fare passi significativi verso l'unificazione politica, ha dato vita a una moneta comune che ha modificato sensibilmente l'ordine monetario internazionale. Il mondo islamico sta conoscendo-una fase di profonda turbolenza sia all'interno che all'èsterno, attraversando una fitta serie di guerre civili (dall'Algeria all'Iraq, dal Sudan alla Palestina e alla Somalia, mentre forti turbolenze investono Pakistan, Turchia, Indonesia) e quattro dei principali conflitti di questo periodo (prima e seconda guerra del Golfo, Afghanistan, Palestina). Alla frammentazione statuale e alla fine dell'equilibrio bipolare, si è accompagnato un inedito « ritorno della guer21
ra » come strumento ordinario di regolazione delle controversie internazionali, pur se nella forma di interventi« umanitari» o di « polizia internazionale» (Golfo I, Somalia, Kossovo, Afghanistan, Golfo II), che abbatte la pregiudiziale antibellicista del secondo dopoguerra da cui era sorta l'Onu. Le spese militari che, con il tramonto dell'equilibrio bipolare avrebbero dovuto decrescere, si sono moltiplicate a livelli mai toccati precedentemente. In parallelo a questa « rinascita della guerra» si è manifestata una virulenta crescita di guerriglie e forme di guerra irregolare, sia per numero di casi che per livello dì potenzialità offensiva (ed è appena il caso di richiamare 1'11 settembre). La popolazione mondiale sembra essersi attestata su un tasso di crescita dell'l,3 % (contro il picco del 2,1 % del 1970), ma su una base che, già all'inizio del trentennio, superava i 5 miliardi dunque con valori assoluti senza precedenti. Inoltre, a causa dell'ineguale distribuzione della ricchezza, delle condizioni igienico-sanitarie, delle politiche demografiche, si sono verificati tassi di crescita molto difformi, causa non ultima dei forti flussi migratori (circa 111ezzo miliardo di persone nel periodo considerato). La piena affermazione dì un regime liberoscambista a livello planetario ha prodotto intensi fenomeni di riallocazione industriale fra Europa occidentale e Usa da un lato e paesi asiatici dall'altro. Tutto questo ha stravolto la carta geografica dell'economia: mondiale: se gli Usa restano la potenza finanziaria dominante, già nei prossimi mesi la loro produzione industriale - secondo le previsioni - sarà sopravanzata da quella della Cina. E non sembra neppure lontano il giorno del sorpasso industriale fra India ed Europa. Gli accelerati processi di deindustrializzazione, incrociandosi con la crisi del wel/are, con la speculazione finanziaria 22
e con le turbolenze monetarie ha, a sua volta, causato una ràpida decadenza delle condizioni divita delle classi medie sia in Europa sia, soprattutto, negli Usa. La pratica del low cast (al di là della sua proiezione ideologica) riflette una tendenziale spaccatura dicotomica della società senza sfumature intermedie. Il sistema delle telecomunicazioni ha dato vita a una rete .che copre l'intero globo e, combinandosi c,on il fortissimo sviluppo dell'elettronica, ha modificato radicalmente abitudini di vita e forme di organizzazione sociale, soprattutto nei paesi economicamente più sviluppati (si pensi a Internet, alla comparsa della moneta o della posta elettronica, ai sistemi di videosorveglianza o di intercettazione, alla crescita degli archivi elettronici ecc.). La liberalizzazione mondiale del mercato e degli spostamenti di capitale ha moltiplicato la velocità di circolazione e ha posto le premesse per una crescente fragilità del sistema finanziario. L'impetuosa crescita dei paesi a recente sviluppo non meno che il dispendioso stile di vita di quelli che li hanno preceduti - sta sovraccaricando l'ambiente di pressioni sempre meno sostenibili. Problemi come la desertificazione di intere aree, il surriscaldamento planetario, la scarsità d'acqua e di fonti energetiche fossili ecc., che all'inizio del trentennio erano ipotesi di studio per un futuro ancora ragionevolmente lontano, sono oggi problemi attuali e molto prima di quanto non si pensasse. La velocità delle trasformazioni in atto non ha riguardato solo la « pagina superiore» della società, quella legale e alla luce del sole, ma anche quella inferiore: il XX secolo ha segnato una rivoluzione con la nascita di vaste e potenti organizzazioni criminali, in gràdo di influenzare la ·politica e l'economia nazionale (Usa, Italia, Giappone, Cina, Co-
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lombia, in parte Spagna, sono gli esempi più evidenti). Negli ultimi trenta anni non solo il fenomeno si è esteso a nuovi paesi o ha rivitalizzato e modernizzato antiche organizzazioni (dalle Triadi in Cina alla mafia russa, dal « cartello di Medellin » in Colombia alla mafia turca per fare solo esempi limitati), ma ha dato luogo a un vero e proprio network mondiale del crimine e a una sua crescente compenetrazione con il capitale finanziario. Oggi parlare di criminalità in termini di« devianza» o, peggio ancora, di «marginalità» non ha molto senso, trovandoci in presenza di vasti processi sociali saldamente interconnessi ai processi sodo-economici di maggiore portata (ad esempio: sino a che punto il risorgere della pirateria nel Mar Giallo è estraneo alla straordinaria performance dell'economia cinese?). La totale liberalizzazione dei movimenti di merci e di capitali, lo sviluppo delle telecomunicazioni, le massicce ondate migratorie, il moltiplicarsi degli scambi culturali, ma soprattutto l'intreccio e il sovrapporsi di questi fenomeni, ha prodotto quello che viene definito con il termine « globalizzazione», polisemia tutta da approfondire e che qui ci limitiamo solo a segnalare come tale. Centrale fra gli aspetti della globalizzazione, si è imposto il dominio della finanza sull'intera economia. Il mondo comprese le aree più remote - è totalmente compreso nella rete di un mercato finanziario ormai emancipato dell'economia reale. L'> (Usa, Ue, Cina, Russia, India, Brasile e Giap-
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pone) riuniti in un organismo che riassorba le funzioni di Onu, Nato e Wto e c'è chi pensa a un ordine internazionale a « geometria variabile» che si compone e scompone in blocchi provvisori sulle singole crisi e questioni. Progetti e alleanze durano lo spazio di una stagione per cadere rapidamente nel dimenticatoio. Nei giorni ealdi~della seconda guerra del Golfo - quando Francia e Germania si contrapposero agli Usa - si parlò di« rottamare» sia l'Onu che la Nato, sostituendole con la Wtlli'ng Coalition: chi se ne ricorda più? , 1 Nell'estate del 2006 le manovre congiunte russo-cinesi fecero paventare la nascita di una nuova grande alleanza antioccidentale fra i due paesi, poi la cosa non sembra aver avuto grande seguito. Allo stesso modo, si è parlato di un blocco sino-indiano nel nome di un mercato comune asiatico (c'è chi ha parlato di Cindia) ma anche qui la cosa non ha dato eccessivi risultati. Sino a pochissimo tempo fa la partnership fra Russia e Nato sembrava, tutto sommato, abbastanza solida, poi, nell'estate del 2008, è bastata la crisi georgiana per tornare a parlare di nuova guerra fredda («Mai più come prima... »). La crisi birmana ha affiancato India e Cina contrapponendole all'Occidente, ma quella tibetana ha riaccostato l'India all'Occidente. La crisi iraniana spinge nuovamente Israele verso gli Usa contro i quali si schierano Cina e Russia ma, nello stesso tempo, sembra esserci un processo di avvicinamento fra Israele e Russia e non è affatto detto che gli sviluppi della crisi pakistana avranno effetti convergenti fra Russia e Cina. La scena mondiale, dopo il naufragio del bipolarismo, sembra quella di un mare scosso sul quale galleggiano relitti sparsi che cozzano, si avvicinano e si allontanano, mossi dal capriccio delle onde più che per una qualche rotta deliberata. La globalizzazione ha prodotto un mondo fortemente integrato («un solo mondo» se vogliamo riprendere l'espressione rooseveltiana) ma anche un mondo almeno apparentemente ingovernabile. Né la « mano invisibile» del mercato, né la « volontà di potenza» della politica sembrano più in grado di dirigere gli avvenimenti secondo una qualche razionalità. 27
Tutto ciò è spesso presentato come un processo ineluttabile e indipendente dalla volontà dell'uomo, una tappa necessaria e inevitabile del cammino della storia e spesso - molto più di quel che non si creda - quel che è auspicio ideologico viene servito come dato indiscutibile e indisponibile. Ma la globalizzazione non è solo processo oggettivo, è anche e soprattutto ideologia. Il nuovo ordine mondiale resta ancora da costruire, ma nessuno sembra sapere come.
2. T ras/ormazioni e crisi della politica Questi mutamenti rapidi, molteplici e interdipendenti hanno fortemente disorientato la politica. In primo luogo si è posto un problema di ordine cognitivo: non c'è dubbio che oggi abbiamo a disposizione un numero incomparabile di dati a nostra disposizione, il che, però, non significa automaticamente che siamo in grado di analizzarli in modo corretto e, soprattutto, che questo sia fatto in tempo utile. La nostra capacità di raccolta informativa e di elaborazione è considerevolmente cresciuta e diventata più veloce, ma i fatti si sono messi a correre ancora più in fretta. È come se la nostra capacità di analizzare la realtà crescesse con progressione aritmetica, ma la massa di dati da implementare crescesse con progressione geometrica e la velocità degli accadimenti con progressione esponenziale. Chi si ricorda più della Sars e dell'aviaria, della situazione in Darfur, dello tsunami o della crisi economica argentina? Tutti avvenimenti assai recenti, che campeggiavano sui giornali solo di cinque o sei anni fa - o anche meno - e per i quali si sprecavano espres sioni come «epocale», « emergenza senza precedenti», « punto senza ritorno». Alcune erano semplici «bufale» mediatiche, come l'aviaria, altri erano davvero eventi straordinariamente drammatici ma sono stati ugualmente sepolti da altre evenienze, di pari o maggiore gravità, in successione sempre più rapida. Questo disorientamento ha prodotto una sorta di « contrazio0
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ne del pensiero», quello che Yves Michaud5 chiama « pensiero breve». La politica naviga a vista o produce disegni implacabilmente vanificati nel breve volgere di qualche stagione. · Il problema principale è rappresentato dalla presenza di molti più attori che in passato e dall'intrecciarsi dei loro disegni che si eliminano rapidamente a vicenda; trasformando la politica in un gioco a somma zero. Per restare sul piano della politica internazionale: Usa, Cina, Russia, Giappone, Europa (a sua volta composta da una mezza dozzina di attori _di rilievd)' giocano il ruolo delle grandi potenze, ma già dietro la porta premono l'India e il mondo islamico (dilaniato al suo interno da una feroce lotta intestina che mescola stati e associazioni transnazionali come al-Qaeda) e poi, man mano, il Brasile, l'Argentina, il Sudafrica. Per di più, le dinamiche reali intrecciano sempre più strettamente il politico con il sociale, l'economico e il culturale. Tutto questo produce di continuo effetti controintuitivi delle decisioni assunte. Probabilmente siamo di fronte alla prima grande crisi del mondo globalizzato o, se si preferisce, alla « prima crisi globale», intendendo per essa una crisi insieme economica, sociale e politica, oltre che una crisi che attraversa quasi tutto il pianeta. Ma chi l'aveva prevista solo tre anni fa, immaginando come avrebbero interagito la crisi finanziaria, quella energetica, quella ambientale e quella alimentare? La politica sembra sempre meno in grado di governare gli eventi e di mantenere le sue promesse di crescita, stabilità, sicurezza, progresso. Soprattutto progresso. Come ci ha dimostrato Massimo L. Salvadori, 6 quello che è andato definitivamente in crisi è proprio l'idea di progresso, vera religione secolare dalla fine del Settecento agli anni Settanta del secolo scorso. Proprio il XX secolo ha riservato molte disillusioni a proposito delle « magnifiche sorti e progressive» dell'umanità: lo sviluppo scientifico e tecnologico è stato impetuoso e ha doppiato 5
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Il futuro non brilla più, « la Repubblica», 3 dicembre 2005, p. 55. L'idea di progresso, Donzelli, Roma, 2006.
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la massa di conoscenze· prodotte in tutto il passato, ma ha portato con sé armi tali da poter distruggere molte volte l'intero pianeta; lo sviluppo dello Stato moderno ha prodotto il wel/are state, ma anche spaventosi regimi totalitari capaci di un controllo del territorio e degli uomini onnipervasivo e neppure il trionfo della ragione è stato definitivo e incontrastato, perché si sono affacciate sulla scena mondiale ondate di irrazionalismo di virulenza senza precedenti. Il XX secolo si era aperto all'insegna del disincanto che, travolgendo ogni fede e credenza non razionali, avrebbe reso l'uomo più libero e padrone del proprio destino, ma si è chiuso con la constatazione che neppure il disincanto ha mantenuto questa promessa di maggiore libertà: il disincanto del disincanto. Soprattutto l'esplodere dell' emergenza ambientale ha messo in crisi uno dei pilastri del paradigma progressista: quello della crescita senza limiti della produzione. Abbiamo scoperto che anche la Terra ha dei limiti oltre i quali non sopporta forzature. È sopraggiunto un « senso del limite» che ha tacitamente modificato i comportamenti dei governanti: oggi più che mai il controllo delle risorse (petrolio, acqua, metalli pregiati, risorse alimentari) ha assunto centralità strategica. Per i governi dei paesi avanzati garantire di non scendere sotto certi standard di vita e di consumi è condizione irrinunciabile per mantenere la stabilità sociale e politica. Per i paesi in via di espansiòne (Cina in particolare) garantire un costante miglioramento delle condizioni di vita è la premessa ineludibile sia per la crescita del mercato interno che per il mantenimento del consenso. Per i paesi meno sviluppati si tratta di ottenere le risorse per mantenersi sulla soglia di sussistenza. D'altra parte, questo si accompagna a un vento culturale - di cui riparleremo - per il quale la politica si accontenta di conservàre e gestire l'ordine vigente, affidando ali' economia il compito di « cambiare il mondo». Ma questo si scontra proprio con il problema della gestione dell'attuale regime di scarsità. In queste condizioni, anche la stabilità dei mercati finanziari è 30
influenzata come non mai dalla minima variazione dei rapporti di forza sul piano del controllo delle risorse strategiche. E, come sempre, i rapporti di forza si stabiliscono, prima di tutto, sul piano militare. Questa fusione fra militare ed economico per l' accaparramento dei mercati non è nuova e, pur se in termini ancora più drammatici, ricorda molto da vicino la situazione dei primi anni del XX secolo. Per quel che le analogie storiche possono ilhµ:ninare, è come se il mondo addormentatosi nel 1917, si fosse risvegliato, 72 anni dopo, alla vigilia della Prima guerra mondiale. E da questo che nasce il successo della «geopolitica», la parola magica della politica mondiale dell'ultimo quarto di secolo.
3. Il successo della geopol#ica Il termine geopolitica è ormai diffusissimo, ricorre nei titoli di quotidiani, nei dibattiti politici, nei saggi storici e persino nei videogiochi, ma, il più delle volte, è usato impropriamente come sinonimo più sofisticato di « politica internazionale» o di « geografia politica», a dire dell'aggiornamento specialistico di chi parla. In realtà, la geopolitica non è nata di recente neppure come termine. A usarlo per primo - agli inizi del secolo scorso - fu il politologo svedese Rudolf Kjellén per indicare una nuova disciplina che studiasse il rapporto fra decisioni politiche e condizioni geografiche e, più in particolare, le costanti delle politiche statuali in relazione alla loro collocazione di geografia politica. Que. sto indirizzo ebbe grande successo nei decenni successivi, dando origine a div_erse scuole di pensiero riducibili essenzialmente a due indirizzi: [. ..] una anglo-americana, che indaga sopratt~tto le relazioni terra-mare, e una tedesca1 che si dedica prevalentemente agli spazi continentali. · 31
Per entrambe, la fondamentale posta in gioco, tra le collettività umane, è il controllo dello spazio; entrambe vogliono capire come tale controllo può essere raggiunto ed entrambe sono attraversate da forti venature prescrittive e deterministiche.7
Per l'indirizzo «marittimo» (Alfred Thayer Mahan) il modello di grande potenza era quello dell'Inghilterra, orientato al con-' trailo dei punti di passaggio obbligato fra i diversi mari (come Gibilterra o Suez); quello« continentale» (Friedrich Ratzel, Karl , Haushofer) teorizzava la maggiore efficacia di un dominio basato sul controllo delle grandi masse territoriali. Una singolare contaminazione dell'indirizzo marittimo e di quello continentale fu teorizzato da'HalfordJohn Mackinder che individuò una massa centrale della zolla euroasiatica, non raggiungibile dalle potenze marittime, denominata Heartland (grosso modo identificabile con l'area della ex Urss): chi tiene l'Europa orientale comanda l'Heartland, chi tiene l'Heartland tiene l'isola del mondo, chi tiene l'isola del mondo comanda il mondo
In parziale dissenso, un altro autore di indirizzo marittimo, Nicholas Spykman, sostenne invece che un contrappeso efficace poteva venire dal Rimland (i territori periferici della zolla, Europa peninsulare ed Estremo Oriente) in ragione della loro densità abitativa e ricchezza economica. Dopo la guerra il termine cadde in disuso, sia perché identificato con la base teorica dell'espansionismo hitleriano, sia perché la sottolineatura degli interessi invarianti dei singoli paesi avrebbe attenuato il carattere di scontro ideologico fra i due blocchi e la guerra fredda.fu eminentemente guerra ideologica. 8 7
Marco Cesa, Geopolitica, in Enciclopedia del pensiero politico, a cura di Roberto Esposito e Carlo Galli, Laterza, Roma-Bari, ed. aggiornata 2005. Ad vocem. 8 Carlo Jean, Manuale di geopolitica, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 5. 32
Beninteso, anche se il termine venne messo al bando per alcuni decenni (spesso sostituito con quello di « geostrategia », più adatto a una guerra di posizione e simulata come fu la competizione nucleare della guerra fredda), le sue categorie continuarono a influenzare largamente la politica internazionale. In particolare, la politica internazionale degli Usa attinse abbondantemente alle teorie di Mackinder e Spykman: il sistema di alleanze occidentale (Nato-Cento-Seato) descriveva una cintura intorno all'Unione Sovietica e i suoi alleati, che in larga parte coincideva con l'alleanza fra gli Usa e i paesi del Rimland. Il celebre « lungo telegramma» di George Kennan, che fornì la base alla politica del containment, era totalmente imbevuto di quelle dottrine e, due decenni più tardi, Henry Kissinger teorizzerà la centralità strategica dell'alleanza fra Usa ed Europa occidentale sostenendo che « senza l'Europa, l'America rischierebbe di diventare un'isola al largo dell'Eurasia». Dunque, non ha torto Carlo Jean a dire che nei tardi anni Ottanta ricompai;ve il «termine» ma n,on la «geopolitica» in quanto tale. 9 E, tuttavia, quel « bando » non fu privo di conseguenze. In qualche modo, contribuì a moderare le spinte verso la militarizzazione della politica e fu un aspetto della pregiudiziale antibellicista maturata dopo il 1945. Non è uri caso che la rimozione di quel bando si sia manifestata in concomitanza con quel « ritorno della guerra» di cui dicevamo. Oggi si tende a presentare la geopolitica come una disciplina autonoma, a cavallo fra geogr~fia, politologia e storia della politica internazionale, dotata di una sua « neutralità scientifica ». 10 E si provvede a «mondare» il termine dalle trascorse contaminazioni con il Terzo Reich presentandola come una scienza indebitam~nte strumentalizzata dal regime che, peral9
Carlo Jean, op. cz't., p. 6. Molto interessante a questo proposito è. la lettura di Gianfranco · Lizza, Geopolitica. Itinerari del potere, Utet, Torino, 2001. 10
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tro, ne disattese le indicazioni. 11 E anche questo è un uso assai disinvoho della storia. Carlo Jean - dopo aver riconosciuto che non esiste una defi-. nizione di geopolitica accettata universalmente né, tantomeno, una sua chiara collocazione disciplinare - scrive: Alcuni sostengono che la geopolitica non esiste in natura ma solo in letteratura e che si identifica con la storia del pensiero geopolitico [... ] Gli studiosi di geopolitica non sono mai stati neutrali: lo stesso ricorso al concetto ha espresso storicamente il desiderio dei geografi di proporsi quali « consiglieri del principe». La geopolitica, in tal senso, non è che la « geografia del principe», cioè una « geografia volontarista », con cui si vogliono individuare gli interessi e definire le politiche per modificare gli assetti geografici e di potere esistenti. 12 Va da sé che le scienze sociali (ivi comprese la storia e la politologia), per quanto ci si sforzi di osservarne una impostazione avalutativa, non possono mai essere «neutrali», come potrebbero esserlo quelle naturali; ma esiste pur sempre un confine fra una scienza - che non è mai « volontarista » - e una ideologia. La geopolitica non è la prima cosa, ma la seconda, anche se fa · largo uso di conoscenze scientifiche, essa non è un sinonimo abbreviato di geografia politica, ma la geografia politica messa al servizio di un progetto imperiale. Dunque, non una disciplina ma una ideologia, che presuppone la- storia come lotta fra nazioni per l'accaparramento delle risorse naturali e la conquista della primazia politica. Conseguentemente, essa ha come suo principale (anche se non esclusivo) soggetto lo Stato nazione, perché suppone che esso sia la sede privilegiata dell' aggregazione degli interessi. Il punto merita di essere sottolineato e sviluppato: le teorie geopolitiche più recenti non ignorano affatto 11
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Gianfranco Lizza, op. cit., Introduzione, p. X. Carlo Jean, op. cit., pp. 7 e 9.
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la presenza di soggetti geopolitici non statali (Chiese, multinazionali, mafie, movimenti sociali transnazionali, aggregazioni terroristiche ecc.), ma le assume come soggetti parziali, inidonei a rappresentare il;iteressi generali o anche, più semplicemente, più ampi del proprio particolarismo. Questa capacità apparterrebbe solo allo Stato per la sua capacità di aggregare un vasto arco di interessi sociali, etnici, economici ecc. e, nello stesso tempo, perché esso è l'unico, in quanto soggetto dotato di sovranità (cioè dotato di autonomia politica e ;nilitare), a poter garantire l'azione più efficace. . In questo quadro, al conflitto sociale resta solo uno spazio residuale: esso è ammesso (quantomeno dalle teorie geopolitiche di ispirazione liberale), ma deve subordinarsi alle esigenze complessive dello Stato strettamente identificato con i suoi apparati politici, burocratici e militari. Infatti, se si pensa che l'interesse principale da tutelare è quello - ad esempio - di assicurarsi l'approvvigionamento di petrolio alle condizioni più favorevoli possibili, ne deriva che la conseguente azione diplomatico-militare non deve essere ostacolata dalla conflittualità interna. E ciò suppone una stretta cooperazione fra potere economico e potere politico e, dunque, il consolidamento di un blocco dominante che la conflittualità sociale non deve rimettere in discussione. Il che comporta una secca subordinazione della società civile allo Stato. Un precursore della geopolitica come Otto Hintze teorizzò nel 1911 che il grado di libertà politica all'interno di uno Stato è inversamente proporzionale alla pressione esercitata ai suoi confini. Non esiste geopolitica al di fuori di questo recinto ideologico. Invece, è interessante notare come il termine « geopolitica» sia usato anche da settori della sinistra più insospettabile (basti leggere «Liberazione» o « il manifesto » per constatarlo), come sinonimo di geografia politica o di politica internazionale (come si diceva) e senza molta consapevolezza delle sue implicazioni. Questa disinvolta prassi linguistica è spesso giustificata con il rifiuto di quella che appare una pedanteria: dato che il linguaggio è convenzione, la parole mutano senso in base all'uso che se ne fa 35
e «migrano» da un concetto ali' altro, per cui la «geopolitica» avrebbe perso la primitiva carica ideologica per diventare un termine più neutro per cui, in definitiva, i contenuti della geopolitica dipendono da chi ne scrive. Argomento assai fragile: intanto, per l'ottima ragione che altri (e dotati diben maggiore peso istituzionale e mediatico) continuan,o a usare quel termine nel suo senso più proprio, imponendone tutte le implicazioni che ne derivano, e, in secondo luogo, molte operazioni politiche passano attraverso l'uso surrettizio di una qualche polisemia. Infatti, il controllo delle polisemie, in politica è una risorsa di primaria importanza che non è lecito sottovalutare. Se è vero che le parole prendono il senso che l'uso dà loro, è anche vero che le parole « modellano il pensiero » e lo condizionano: è sempre possibile chiamare «candeggina» una limonata, ma rischiando qualche spiacevole equivoco al bar. D'altra parte, lo «sdoganamento» del termine geopolitica anche da parte di ambienti di sinistra consolida e rafforza la vittoria culturale dei fautori della «geopolitica», che usano il termine in senso proprio. Ma, prima d'ogni altra cosa, esso è uno dei prodotti del «vento culturale» portato dalla globalizzazione: Questa aumentata attenzione [per la geopolitica] non è casuale, ma deriva dalle profonde trasformazioni in corso nel sistema delle relazioni internazionali e dalle incertezze e turbolenze che dominano l'attuale fase storica, nonché dal moltiplicarsi del numero e del tipo degli attori geopolitici. 13
E questo successo va posto in relazione al fenomeno parallelo e interagente della Rivoluzione Marziale in atto.
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Carlo Jean, op. cit., p. 4. 36
4. La Rivoluzione Marziale Negli anni Novanta, il futuro segretario alla Difesa nell'amministrazione di George Bush jr, teorizzò la« Rivoluzione negli affari militari». In realtà, la «rivoluzione» era iniziata già una quindicina di anni prima e aveva una portata sociale e politica ben più ~mpia dei soli affari militari. Dopo la sconfitta americana in Vietnam, è iniziata una nuova « rivoluzione militare», ancora più ampia e profonda di quella che segnò il gassaggio ali' epoca moderna fra il XVI e il XIX secolo, 14 soprattutto molto più concentrata nel tempo. L'avvio coincise con la riflessione sui motivi della sconfitta vietnamita, spiegata in primo luogo con la sua durata, che aveva comportato costi umani ed economici assai elevati. Gli Usa non avrebbero più dovuto farsi intrappolare in una simile guerra di logoramento. Il primo segnale venne il 25 marzo 1981, con la pubblicazione dottrinale dell'esercito statunitense (TRADOC 525-
Military Operations. Operational Concepts /or the At'rLand Battle and Corps Operations - 1986 pensata essenzialmente per lo scenario europeo, in caso di scontro con il Patto di Varsavia. Il 5)
testo immaginava una battaglia con un fronte molto fluido, nel quale l' aviazion~ avrebbe impegnato le truppe di seconda linea avversarie sino a 150 km (pari a 72 h del movimento carri) oltre le linee, realizzando così uno schema di « difesa in profondità » ma, a differenza del passato, in avanti e non indietro. 15 La novità - al tempo non valutata con l'attenzione sufficiente - segnava la « conversione » della dottrina militare americana a una forma di blitzkrieg, opposta a quella sin lì seguita. Infatti, tradizionalmente, gli Usa, protetti dalla loro insularità, avevano affrontato i conflitti giocando il fattore tempo a proprio vantaggio: la difesa 14
Vedi Geoffrey Parker, La rivoluzione militare: le innovazioni militari e z'l sorgere dell'Occidente, il Mulino, Bologna, 1999, II ed. 15 Centro Siciliano di Documentazione « Giuseppe Impastato» (a cura di), Airland Battle. La strategia di guerra Usa 1984-2019, Satyagraha editrice, Torino, 1985.
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« in profondità» prevedeva l'arretramento molto in dentro scenario europeo (in alcuni piani Nato era previsto sino alla dei Pirenei), per poi buttare sul campo le enormi riserve pn)t1tn- , te, nel frattempo, dall'apparato industriale, quando l'avversario avesse esaurito il suo slancio offensivo e le linee dei r1t1:)rrurr1ent1 si fossero allungate al massimo. Dopo gli anni Settanta, i mutamenti tecnologici avevano persuaso lo Stato maggiore Usa che una simile difesa non sarebbe stata più praticabile. Inoltre, la lezione vietnamita sulla durata del conflitto la rendeva ulteriormente sconsigliabile. Di qui un modello di combattimento aggressivo, spostato in avanti, orientato a scompaginare rapidamente le linee di comunicazione avversarie e a risolvere in breve il conflitto. Questo sarebbe stato reso possibile attraverso una forte integrazione fra forze di aria e di terra grazie al nascente sistema satellitare che, insieme ali' aviazione, permetteva di monitorare in tempi rapidissimi il campo di battaglia, anche per distanze assai rilevanti. Su questa strada il segretario alla Difesa Caspar Weinberger avviò la totale revisione della dottrina militare americana 16 che troverà il suo completamento nella Rivoluzione degli Affari Militari (Rma) teorizzata dal suo successore Donald Rumsfeld un decennio dopo e che rappresenta il pendant militare di quello che la National Security Strategy of the United States (Nss) del settembre 2002 è sul piano politico.17 · La Rma ha il suo necessario presupposto negli sviluppi della tecnologia che ha consentito un'assoluta superiorità americana nel settore satellitare, aereo e missilistico. Anche nel settore delle armi individuali, l'applicazione di dispositivi elettronici ha assicurato una netta supremazia americana. Ma la Rma non si è limitata solo ali' aspetto delle armi: ha 16
Caspar Weinberger, Fighting/or Peace: Seven Criticai Years in the Pentagon, New York, 1990. Dello stesso autore The Next War, Washington, 1996. 17 Thierry Balzacq e Alain De Neve, La révolution dans /es a/faires militaires, Institut de Stratégie comparée, Paris, 2003.
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investito anche la struttura stessa dell'esercito dilatandone considerevohnente la componente tecnocratica - e lo stesso rapporto fra esercito e società. Nel nostro caso, uno dei problemi più delicati che gli strateghi del Pentagono hanno dovuto affrontare è stato_ quello del reclutamento. E qui torna la lezione vietnamita: gli Usa furono costretti a ritirarsi a causa delle proteste interne causate dalle troppe perdite umane (58.000 morti) e il movimento crebbe soprattutto perché si trattava di coscritti, Negli Usa la coscri,zione obbligatoria ha sempre trovato fortissime resistenze culu{rali che la lontana guerra vietnamita rese irresistibili e, infatti, all'uscita dalla guerra si accompagnò anche l'abrogazione del servizio militare obbligatorio. Questo aprì il problema degli organici militari coperti solo a fatica dall'arruolamento volontario. Per di più, se la pregiudiziale antibellicista è stata quasi accantonata nella prassi della· politica internazionale, è ancora forte nell'opinione pubblica occidentale almeno sotto il profilo della disponibilità individuale a vestire una divisa e, anzi, riceve ulteriore alimento dalla svolta culturale iperindividualista della quale parleremo fra poco. La Rma ha imboccato innanzitutto la via dell'automazione, per ridurre il bisogno di uomini e recentemente è stato avviato il primo impiego esteso di droni e robot sul campo di battaglia dell'Iraq, 18 ma senza che esso si sia rivelato risolutivo, ahneno sino a questo punto. D'altra parte, la stessa Rma crea problemi che non possono essere risolti solo dal ricorso alla robotica. Infatti, è facile intuire che l'intervento umano possa essere sostituito solo in parte da quello di macchine. Peraltro, l'adozione di sistemi d'arma così sofisticati e costosi (anche sul piano dell'armamento individuale) implica nuovi metodi di combattimento estremamente professionalizzati. 19 Quel che mal si concilia con le retribuzioni che qualsiasi esercito può dare. Infatti, un soldato 18
« la Repubblica», 5 agosto 2007, p. 15. Cfr. il numero speciale di« Conflitti globali», La metamorfosi del. guerriero, n. 3, 2006; Vito Altobello, Avanza uno strano soldato: il mercenario businessman, in «libertaria», luglio-settembre 2004, anno 6, n. 3. 19
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costa anche quando non è impiegato in scenari di guerra e riconoscere stipendi particolarmente alti farebbe crescere insopportabilmente il volume di spesa dell'esercito. Inoltre, stipendi particolarmente alti anche a soldati semplici o graduati di susciterebbero forti resistenze culturali dell'opinione che difficilmente ne accetterebbe l'equiparazione al rectd.lto un professionista di livello medio-alto. La « quadratura del cerchio» è stata trovata nella rinascita del mercenariato. Nel giro di un decennio sono sorte Private milìtary companìes (Pmc) e Prì- 1 vate securìty companìes (Psc) che offrono servizi nel campo della formazione militare, del supporto logistico alle operazioni militari, dello sminamento, ma che, all'occorrenza, sono disponibili anche a essere ingaggiate direttamente in combattimento. Anche nel recente passato sono esistite società private che offrivano soldati mercenari (è appena il caso di ricordare il loro intervento nelle guerre postcoloniali nell'Africa degli anni Sessanta e Settanta) ma si trattava di un fenomeno, tutto sommato, marginale e · residuale;:. Al contrario, assistiamo oggi a un'espansione che va ben oltre questi limiti: il fatturato dei principali contractors raggiunge ormai una cifra pari al 25 % del budget della difesa degli Stati Uniti. Questo processo di ri-privatizzazione della guerra .è prodotto, appunto, dai processi messi in atto dalla Rma tanto sul piano della ibridazione della dimensione civile e di quella militare, quanto su quello dell'esigenza di un nuovo « guerriero hì-tec » adeguato alle nuove forme di combattimento. E qui ci tocca fare una precisazione sui rapporti fra Rma e Rivoluzione Marziale che, anche a causa della forte somiglianza fra le due espressioni, potrebbero sembrare una sinonimo dell'altra. In realtà la prima non esaurisce la seconda, ma ne costituisce solo una componente, anche se ·quella di maggior rilievo. La Rivoluzione Marziale va ben al di là del processo di ristrutturazione di un singolo esercito, investe la natura stessa della guerra e coinvolge anche gli altri soggetti della scena mondiale. Essa porta alle· estreme conseguenze la tendenza novecentesca alla guerra totale assumendo forme molteplici e dai confini non sempre ben definiti. Ad esempio siamo in presenza di forme di guerra economi40
ca2° (di volta in volta, finanziaria, monetaria, commerciale) che vanno molto al di là del passato e che sfuma e si confonde con la guerra informatica,21 con lo spionaggio industriale22 e la guerra cognitiva23 attraverso un ruolo crescente dell' intelligence, data la natura necessariamente coperta di questo genere di guerre. Ne deriva uno stato di conflittualità permanente, non dichiarata e multiforme che travolge la consueta distinzione fra tempo di pace e tempo di guerra e rende sostanzialmer:ite inoperante il 1 diritto internazionale. 24 D'altra parte, questa tendenza è determinata anche dalle reazioni degli altri soggetti statuali alla preminenza militare americana che ha assunto la forma di guerra asimmetrica, la cui più coerente teorizzazione è stata formulata dagli strateghi di Pechino: La guerra, nell'epoca dell'integrazione tecnologica e della globalizzazione, ha privato le armi del diritto di caratterizzare la guerra e, introducendo un nuovo punto di partenza, ha riallineato il rapporto tra armi e guerra, mentre la comparsa di nuovi concetti di armi ha gradualmente reso indistinto il volto della guerra. 25 20
Jean Pichot-Duclos, Les guerres secrètes de la Mondialìsation. Guerre économique, guerre de l'in/ormation, guerre terroriste, Lavauzelle, Panarol, 2002; Jérome Dupré, Renseignement et entreprises, Lavauzelle, Panarol, 2002. 21 Ferrante Pierantoni e Margherita Pierantoni, Combattere con le informazioni, Franco Angeli, Milano, 1998. 22 Nicolas Moinet, Les batailles secrètes de la science et de la tecbnologie, Lavauzelle, Panarol, 2003. 23 Christian Harbulot e Didier Lucas, La guerre cognitive. L'arme de la connaìssance, Lavauzelle, Panarol, 2005. 24 Nicola Labanca (a cura di), Guerra e strategia nell'età contemporanea, Marietti, Genova-Milano, 1992; Alessandro Colombo, La guerra ineguale. Pace e violenza nel tramonto della società internazionale, il Mulino, Bologna, 2006. 25 Qiao Liang e W ang Xiangsui, Guerra senza limiti. L'arte della guerra asimmetrièa fra terrorismo e globalizzazione, Libreria editrice Goriziana, Gorizia, 2001, p. 47.
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Partendo da questo assunto, Qiao Liang e W ang Xiangsui teorizzano una conduzione della guerra che opera « allontanandosi'. dal punto dell'attacco nemico » e basata sui principi di: onnidirezionalità (orientando l'azione indifferentemente verso tutti i campi, da quello politico a quello economico, rale, psicologico ecc.); sincronia (colpendo in mondo simultaneo in spazi e campi diversi); obiettivi limitati (nel senso di obiettivi scelti in base tiva efficacia dei mezzi a disposizione e delimitati nel tempo e nello spazio); misure illimitate (adozione di tutte le misure possibili verso ciascun obiettivo limitato individuato); asimmetria (vi torneremo); consumo minimo (secondo la ben nota regola del minimo sforzo); coordinamento multidimensionale (finalizzato a coordinare le azioni militari con quelle in campo non militare, che riprende ed estende i principi della cooperazione civile-militare della « guerra rivoluzionaria»); correzione e controllo dell'intero processo (che presuppone la centralità strategica dei servizi informativi per correggere la condotta in corso d'opera, sulla base del maggior numero di informazioni raccolte nei tempi più brevi). Il centro di questo ragionamento è il concetto di asimmetria: [.. .] il suo suggerimento fondamentale è quello di seguire la linea di pensiero opposta ali' equilibrio della simmetria e, seguendo tale linea, di sviluppare un'azione di combattimento. Dalla dislocazione e l'impiego delle forze, dalla scelta dell'asse principale di combattimento e del centro di gravità dell'attacco, sino a giungere alla distribuzione delle armi, in tutti questi aspetti occorre considerare in modo bilaterale l'effetto dei fat42
tori asimmetrici e utilizzare l'asimmetria come mezzo per con. l' ob.1ett1vo. . 26 seguire Sostanzialmente l'idea è quella di concentrare le proprie forze dove il nemico-è più debole ed eludere il confronto dove egli è più forte. Sin qui non si tratta di idee nuove: riprendono sostanzialmente le teorizzazioni formulate da Raimondo Montecuccoli già nel XVII secolo,27 la novità è che i due cinesi inseriscono queste idee nel quadro di guerra illimitata, propria del nostro tempo, e sviluppano il loro discorso in direzione della guerra non ortodossa: La parte più debole combatte piuttosto il suo avversario utilizzando la guerriglia (principalmente urbana), la guerra terroristica, la guerra santa, la guerra prolungata, la guerra in rete e altre forme di combattimento. Nella maggior parte dei casi, la parte più debole sceglie come asse principale della battaglia quelle zone e quelle linee operative ove il suo avversario non si aspetta di essere colpito e il centro di gravità dell'assalto è sempre un punto che provocherà un profondo shock psicologico nell'avversario. 28 Cons1derato che il libro è stato scritto ben prima dell'l 1 settembre 2001, si comprende come i due autori abbiano avuto ottimo fiuto nel capire quale evoluzione avrebbero avuto i conflitti internazionali. · E, infatti, ben presto il terrorismo era assunto come principale nemico degli Usa, come si legge nel terzo capitolo del documento sulla National Security Strategy of the United States del settembre 2002. Una evoluzione che portava fatalmente a una fusione fra am26
Ibid., pp. 183-184. Raimondo Montecuccoli, Opere, a cura di Raimondo Luraghi, Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito, Roma, 2002. 28 Ibid., p. 184. 27
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bito militare e ambito poliziesco: nella lotta al terrorismo il problema del contendente più forte non è quello del confronto militare ma quello dell'individuazione del nemico, quello che è essenzialmente un problema di ordine poliziesco. Dunque, il_ concetto stesso di guerra ha subito una doppia torsione divaricante: dal punto di vista di fatto, essa è divenuta stabilmente totale, attraverso l'uso combinato di forme di guerra coperta, destabilizzazione monetaria e finanziaria, embargo, sabotaggio . informatico, ingerenza negli affari interni, campagne mediatiche ecc.; dal punto di vista giuridico, invece, ha espunto da sé ogni forma non militare di ostilità; e questo ha avuto come conseguenza logica la criminalizzazione del soggetto che resista alla pax imperiale. Come scrive Ilari: 29 La ricostruzione nazionale (national building) dell'Afghanistan, e dell'Iraq e le « rivoluzioni arancione» in Serbia, nelle ex-repubbliche sovietiche e in Libano hanno fatto evolvere la dottrina della guerra preventiva contro gli « stati canaglia» che cercano di dotarsi delle « armi di distruzione di massa», in quella della« esportazione della democrazia» contro « gli ultimi bastioni della tirannia». Come già ai Romani, toccherebbe ora agli americani parcere subiectis et debellare superbos (risparmiare chi si sottomette e disarmare gli irriducibili). Quel che ci riporta al tema della geopolitica come progetto imperiale. D'altro canto, il processo di Rivoluzione Marziale in atto non è separabile dall'affermazione dell' « ipercapitalismo finanziario» che, per esercitare compiutamente il suo dominio, ha bisogno di un adeguato supporto militare che garantisca (o cerchi di assicurare) il controllo delle zone periferiche di turbolenza e la sta29
Virgilio Ilari, aggiornamento Enciclopedia Treccani voce Guerra.
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bilità del quadro politico interno. D'altra parte, le spese militari sono uno dei principali meccanismi di formazione del profitto, così come sarebbe impensabile lo sviluppo del sistema delle telecomunicazioni senza il suo intreccio intimo con gli apparati militari. Tutto questo non significa che gli apparati militari siano meri esecutori della volontà del potere finanziario (come inclinano a credere Negri e Hardt nel loro Impero): così come la modernizzazione dall'alto della Germania guglielmina fu guidata dal blocco sociale « della segale e dell'acciaio», l'attuale modernizzazione autoritaria trova il suo Stato maggiore nell'alleanza fra la « spada e la moneta». Un blocco sociale nel quale i militari surrogano talvolta le funzioni del potere politico.
5. Antz'politica e neopopulismo Questa alleanza fra il potere finanziario e quello militare, spesso scavalcando quello politico, è una ulteriore conferma della crisi della politica· negli ultimi venti anni. Se la politica rinuncia a ogni progetto di ingegneria sociale, per limitarsi a essere la custode dell'ordinamento vigente, va fatalmente incontro alla sua decadenza: essa appare ai cittadini come scarsamente rilevante - quando non dannosa - e, pertanto, un costo sproporzionato che serve solo ad alimentare un ceto parassitario. E peggio ancora se, come accade oggi in Europa, ciò si accompagna a una proliferazione abnorme degli apparati po-· litici, a retribuzioni scandalosamente alte e a privilegi ingiustificabili.30 Negli ultimi venti anni, movimenti di tipo neopopulista hanno avuto ripetuti successi in Francia (con il Fn di Le Pen), in Austria 30 Per quanto riguarda l'Italia ci basti richiamare il libro La Casta di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, Rizzoli, Milano, 2007, che ha venduto oltre 600.000 copie ip un anno.
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(con Jorg Haider e soci), in Italia (soprattutto la Lega di Bossi, ma anche Forza Italia e Alleanza Nazionale non sono immuni da accenti populisti, mentre, in passato, un generoso contributo in . questo senso è venuto dal Pr di Marco Pannella), in Polonia Gt Pis dei fratelli Kaczy:6.ski), in Olanda (la lista di Pim Fortuyn). Per certi versi possiamo assimilare a questo fenomeno anche ' l'effimera fortuna di Ross Perot in Usa nel 1979 e, in parte, anche il movimento di Zhirinovski in Russia. Come si vede, si tratta di un fenomeno abbastanza composito sia culturalmente che socialmente: la lista di Pim Fortuyn non è certo assimilabile al Pis dei fratelli Kaczy:6.ski o ai i movimenti xenofobi di Bossi, Haider e Le Pen. Peraltro il populismo è una categoria politica insidiosa che indica cose assai diverse nel tempo. Il populismo attuale ha ben poco in comune con quello originario dei democratici russi del XIX secolo e, piuttosto, ha punti di contatto con il qualunquismo italiano del secondo dopoguerra, con il maccartismo negli Usa degli anni Cinquanta, con il coevo poujadismo francese o con il movimento antifiscale di Mogens Glistrup in Danimarca, nei primi anni Settanta. Movimenti per lo più effimeri con cause e dinamiche spesso differenti, ma accomunati dal tratto ricorrente dell'antipolitica. Nonostante la vicinanza terminologica (entrambii termini si richiamano al «popolo») il populismo è cosa diversa e, anzi, contrapposta alla democrazia: questa postula un popolo che si fa soggetto politico e gestisce - direttamente o per delega - il potere politico, al contrario, quello è espressione di un popolo che rifiuta di costituirsi in soggetto politico e riduce la politica alla sola dimensione amministrativa da affidare (come diceva il leader dell'Uomo qualunque) « a un ragioniere, che duri in carica un anno e non sia rieleggibile per nessuna ragione e che il 31 dicembre di ogni anno presenti i conti». Tutto il resto è inutile complicazione voluta da intellettuali venditori di fumo: caratteristica di ogni movimento populista è la polemica antintellettuale. Il populismo è la mobilitazione delle fasce meno colte e meno interessate alla sfera pubblica, il popolo crasso che pensa che i 46
problemi - anc~e quelli più complessi - abbiano_ sempre una soluzione semplice, per trovare la quale basterebbe il buon senso e il richiamo alla tradizione. Se questo non accade è perché a esse si oppone una coalizione di profittatori e incapaci che occupano indebitamente i posti di potere: I populisti esaltano il« popolo», la gente comune, spedalmentè per il fatto che i suoi valori contrastano con que}li delle élite [. . .] La demonizzazione dei gruppi sodali, in particolare l' avversione per le élite, da una parte fornisce ai populisti un nemico da combattere, ma dall'altra è anche una componente fondamentale del tentativo di costruirsi una propria identità [. .. ] Il tutto è sintomatico della tendenza dei populisti a caratterizzarsi in contrasto con quei gruppi sociali che essi definiscono sgraditi. I termini usati dalla retorica populista rivelano un immaginario negativo e demonizzante popolato da intellettuali cervellotici, burocrati, politicanti, nababbi, magnati, ladroni, capelloni e plutocrati.31
Beninteso, la protesta non è solo il prodotto dell'azione di pochi mestatori o dell'improvviso e inspiegabile attivarsi di un immaginario che giace nelle menti meno politicizzate, ma parte anche da elementi reali e dall'effettiva esistenza di « intellettuali cervellotici», burocrati ostili, politicanti corrotti e plutocrati speculatori. Ma il populismo, nella sua ripulsa, va oltre, negando il valore della politica in quanto tale e respingendo ogni intervento della cultura in essa. Il populismo non è democratico ma oclocratico. Date queste premesse, si comprende come ogni movimento populista abbia una base ideologica assai fragile e forti problemi di autoidentificazione. L'una e l'altra cosa trovano un rimedio nell'identificazione con il leader. E, infatti, tutti i movimenti populisti che abbiamo citato si sono regolarmente raccolti intor31
Paul Taggart, Il populismo, Città aperta, Troina, 2002, pp. 151 e
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no a un leader carismatico (Le Pen, Haider, Bossi, Glistrup, Poujade, Giannini, McCarthy, Kaczy.6ski, Fortuyn, Perot, Zhirinovski). In altri casi (il gaullismo francese, Forza Italia, Alleanza Nazionale, o i successi elettorali di Reagan o Collor de Mello) · abbiamo partiti o movimenti politici non identificabili come populisti tout court ma capeggiati da leader carismatici che hanno utilizzato frequentemente temi antipolitici, solleticando gli umori dell'elettorato populista.32 Un discorso che, mutat;s mutandis, potrebbe essere applicato anche al nazionalsocialismo (una delle cui componenti culturali base era, appunto, l'ideologia nazionalpopulista del movimento volkisch) ò al fascismo. E, infatti, una caratteristica abbastanza ricorrente nei movimenti populisti è il richiamo alla « terra patria» come elemento costitutivo del proprio immaginario, come dice Taggart:
il concetto di « terra patria » è diverso sia dalle società astratte che dalle utopie, perché con esso i populisti richiamano nel proprio immaginario un tempo passato, tentando di ricostruire ciò che è stato perso con il presente. Mentre le società ideali e ancor più le utopie sono opere della mente e del pensiero, la « terra patria» deve il suo potere al cuore, ali' evocazione di sentimenti che non sono necessariamente né razionalizzati né razionalizzabili. 33
Infatti, l'attuale ondata neopopulista si è concentrata in particolare in Europa, miscelando la protesta fiscale dei lavoratori autonomi alla reazione xenofoba contro gli immigrati. Ma l'esame della reazione antipolitica nelle attuali società occidentali non sarebbe completo se ci limitassimo alla protesta populista. Esistono anche altri due fenomeni contrapposti e sim32
Donatella Campus, L'antipolitica al governo. De Gaulle, Reagan, Berlusconi, il Mulino, Bologna, 2006; Enrico Caniglia, Berlusconi, Perot e Collor come politica! outsider. Media, marketing e sondaggi nella costruzione del consenso politico, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2000. 33 Paul Taggart, op. cit., p.,158.
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metrici: il pacifismo non violento e la protesta antistituzionale di tipo operaista o neoanarchìco. Il pacifismo non violento rappresenta un fenomeno di antipolitica speculare rispetto al neopopulismo: dove quello riduce la politica alla pura amministrazione, questo la sostituisce con la predicazione morale, dove il primo fa appello alla protesta identitaria nazionalista e xenofoba, il secondo manifesta ideali universalistici certamente più nobili e accettabili, ma ugualmente sforniti di strumenti di analisi politica del feno111eno; dove l'uno identifica il realismo politico con la rimozion~ di ogni orizzonte che vada oltre l'esistente, manifestando una grande fragilità pro- · grammatica, l'altro proietta le sue aspettative in una prospettiva utopica che ignora ogni elemento di realismo politico; dove i populisti non disdegnano soluzioni autoritarie confidando nell'uso della forza e ignorando ogni ipotesi basata sulla persuasione morale, i pacifisti respingono come moralmente inaccettabile qualsiasi uso della forza e propongono soluzioni esclusivamente basate sulla conversione morale, ma la politica non può fare pregiudizialmente a meno né della persuasione morale né dell'uso della forza. Entrambi inclinano verso soluzioni che rimuovono la complessità della politica. La cultura operaista e neoanarchica svolge una « critica della politica» (come essa stessa la chiama) partendo dall'assunto che il soggetto sociale è in grado di farsi soggetto politico senza mediazione culturale e organizzativa. Pertanto, nega la politica che, come attività specialistica, segnata da differenze che attraversano e dividono i gruppi sociali, è da respingere come dannoso espediente di ceti parassitari. 34 In questo contesto ideologico, l'unica soluzione auspicata è quella della democrazia diretta che ha come suo necessario pendant il rifiuto di qualsiasi pratica 34
La polemica fra Lenin, che postulava la necessità di costituire partiti comunisti accanto ai consigli operai, e consiliaristi come Herman Gorter o Anton Pannekoek che teorizzavano l'autosufficienza dei consigli operai respingendo ogni ruolo guida del partito, contenevano già molti elementi di questo dibattito.
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istituzionale. Quel che, nelle condizioni storicamente date, non può tradursi che in una proiezione utopica che si allontana dalla pratica politica. Pacifismo non violento; operaismo e neoanarchismo hanno trovàto una convergenza nell'attuale movimento no global iniziato a Seattle e ben preso chiusosi in un arrocco morale che implica · l'abbandono delle categorie politiche. Molte delle critiche rivolte alla globalizzazione appaiono fondate e mosse da ragioni pienamente condivise da chi scrive queste pagine, ma tale critica, sin qui, non ha trovato sbocco progettuale che in un accentuato onirismo evidente sin dagli slogan che spesso si traducono in titoli di libri, come « Cambiare il mondo senza prendere il potere >>35 oppure «Armati di sogni siamo invindbili». 36 Ma la politica non è sogno e non può prescindere dai rapporti di forza. Scrive Ilari: L'Occidente moderno ha creduto di abolire la guèrra prima attraverso il trasferimento della sovranità dalle dinastie alle nazioni e poi attraverso la limitazione della sovranità nazionale. Ma un'autorità che non può esercitare l'autotutela decade di fatto da politica ad amministrativa. L'ordine sovranazionale sovverte le costituzioni; sopprime la sovranità popolare, contrappone e surroga le libertà individuali alla libertà politica. Plutarco comprese che le assemblee popolari delle città greche non avevano più ragion d'essere, dato che Polemos (padre della democrazia!) era « fuggito e svanito» dal mondo. Lo storico sa che lo scopo della sovranità e delle frontiere fondate sul sistema westfalico (1648) non era di produrre la guerra, ma di tenerla fuori. Sa anche, però, che la guerra ha sempre finito per travolgere quegli argini.3 7 35 John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere, Intra Moenia, Napoli, 2004. 36 Aa.Vv., Armati di sogni siamo invincibili, Piemme, Casale Monferrato, 2005. 37 Virgilio Ilari, art. cit.
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Forse è possibile evitare che la guerra travolga ancora una volta gli argini che cerchiamo cli opporle, di sicuro possiamo dire che èssa fa parte del nostro orizzonte politico dal quale, nelle condizioni storicamente date, non può essere espunta più cli quanto lo possano essere le epidemie o i terremoti, possiamo solo cercare di contrastarla. Ma, se l'umanità riuscirà a circoscrivere o meglio ancora - a evitare questo rischio, ciò non accadrà grazie ad argini cli sogni e di desideri, ma a indovinate misure politiche assunte sul terreno della realtà. , 1 Viceversa, un approccio utopico oggi è il miglior alleato dei progetti imperiali.
6. L'eclissi del sociale D'altro canto, l'ondata antipolitica si rispecchia nella parallela crisi del sociale. 38 Contrariamente a quanto sperato dall' antipolitica cli sinistra, la crisi della politica non apre la strada al protagonismo dei movimenti sociali spontanei, ma, al contrario, si accompagna al loro deperimento. Basti un confronto - anche sommario fra la stagione dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta e il movimento no global per constatarlo: l'attuale movimento mostra forte discontinuità e scarsa capacità cli incidere, lì dove i movimenti seguiti al Sessantotto dimostrarono ben altra vitalità, durata ed espansione. 39 In realtà, la crisi della politica si alimenta reciprocamente con una prolungata eclissi del sociale. La società civile, come insieme contrapposto allo Stato, non è sempre esistita: in epoca feudale essa era solo mero oggetto dell'azione governante, salvo che per occasionali e disperate jac38
Alain Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale, il Saggiatore, Milano, 2008. 39 Non solo in ·Italia, dove essi proseguirono ininterrottamente per ben un decennio, ma anche in Francia, Usa o Giappone, dove continuarono a manifestarsi per almeno un lustro e in modo abbastanza continuo.
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queries. La società civile inizia a formarsi nei comuni e raggiunge la maturità, dopo un lungo processo di urbanizzazione e di sviluppo economico, solo nell'Ottocento. Essa fu un prodotto dei processi rivoluzionari del XVII e XVIII secolo, che aprirono la strada alla modernità e, con essa, all'esplosione della « questione sociale». La nascita dello stato sociale, sul finire dell'Ottocento, fu il necessario prodotto della crescita della società urbanizzata di massa e della necessità di governo di essa: impiegare una parte della ricchezza prodotta, per rendere sopportabili le disuguaglianze sociali, fu il prezzo che le classi dominanti pagarono per la sopravvivenza del sistema. Nel Novecento questa tendenza si affermò definitivamente in tutti i sistemi politici dell'emisfero settentrionale: dalle democrazie occidentali ai regimi fascisti e a quelli del« socialismo reale». In particolare il wel/are state fu la risposta specifica delle democrazie capitalistiche, tanto alla spinta rivoluzionaria della classe operaia quanto alla deriva fascista delle classi medie. La formula specifica del wel/are, rispetto agli altri modelli di stato sociale, prevedeva: la creazione di una robusta fascia di ceti medi, tanto attraverso lo sviluppo dei servizi e della burocrazia, quanto attraverso la parziale assimilazione di una parte dei ceti inferiori (sopratutto tecnici e fasce superiori di classe operaia) in un blocco lavo rista; · una pur contenuta mobilità sociale verso l'alto, attraverso l'allargamento delle funzioni dirigenti ai vari livelli e l'espansione delle professioni, accompagnata da un sistema di crescente scolarizzazione di massa; l'integrazione di questo« ceto medio allargato» nei meccanismi delsistema politico di cui diventava la principale base di massa attraverso la combinazione dello scambio neocorporatista con il meccanismo elettorale (per il quale la questione decisiva di ogni elezione era appunto la divisione delle quote di plus prodotto sociale fra i diversi attori, attraverso le politiche redistributive dello Stato);
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_ salari crescenti per tutti i livelli dei lavoratori, utili tanto ad allargare la base di consenso al sistema, quanto ad allargare il mercato interno; _ la funzione anticiclica dell'intervento statale secondo le teorie keynesiane -, come elemento di stabilità economica. Questo è stato il « grande compromesso socialdemocratico» sui cui si sono retti i sistemi politici dell'Europa occidentale e degli Usa per circa mezzo secolo. Esso creava u1n meccanismo di « aspettative crescenti» che, d'altra parte, comportava un parallelo aumento della pressione fiscale, nonostante la quale si produceva un costante disavanzo statale, colmato dall'emissione crescente di titoli di debito pubblico e da politiche inflazionistiche. A partire dai tardi anni Sessanta iniziò a profilarsi con nettezza la crisi di questo modello, ormai esteso anche all'Europa continentale e al Giappone, dopo la caduta dei rispettivi regimi fascisti. Lo scambio neocorporatista e la competizione elettorale aveva spinto a politiche sociali allargate sempre più dispendiose, ma soprattutto si era prodotta una crescita massiccia degli apparati burocratici sia in sede amministrativa che politica e sindacale. Còn la pesante ricaduta economica della guerra in Vietnam il meccanismo divenne palesemente disfunzionale e la decisione di Nixon di dichiarare la. non convertibilità del dollaro in oro ( 15 agosto 1971) ne scaricò i costi sull'Europa. Due anni più tardi lo shock petrolifero, causato dalla guerra del Kippur, pose definitivamente le premesse politiche della svolta neoliberista, mentre quelle premesse teoriche erano state poste da qualche anno dalle scuole economiche di Friedrich von Hayek e di Milton Friedman. Ed è significativo che il primo abbia ottenuto il premio Nobel nel 1974 e il secondo nel 1976. vittorie elettorali di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan, combinandosi con la caduta del mondo sovietico, hanno innescato la «rivoluzione» neoliberista. A distanza di quasi un quarto di secolo, constatiamo che il 53
pt;incipale esito, nei paesi dell'Europa occidentale e del America, è stato quello di un gigantesco spostamento di ricchezze dalla remunerazione del lavoro alla remunerazione del capitale: dovunque i salari reali sono calati, si sono avviate forme di precarizzazione di massa, lo stato sociale ha cessato ogni funzione redistributiva, mentre emerge una classe dirigente ristrettissima e globalizzata: la superclass, come la definisce David Rothkopf. 40 La pressione fiscale è complessivamente diminuita, ma in misura decisamente inferiore al taglio delle prestazioni del wel/are state. Il differenziale è andato a coprire le crescenti spese militari e a operazioni di salvataggio in occasione dei grandi crac finanziari, secondo il consolidato modello del « liberismo zoppo» che privatizza i profitti e socializza le perdite. Questa pressione si è scaricata sulle fasce medio-basse e, più in particolare, ha provocato lo sgretolamento di quel « ceto medio allargato» che era stato insieme il prodotto e il pilastro del compromesso socialdemocratico, reso ormai obsoleto dalle politiche monetariste e dalla delocalizzazione industriale nei paesi in via di sviluppo. Tale evoluzione, ovviamente, ha comportato ardui problemi di consenso al sistema, che mantiene le forme della democrazia liberale, ma senza più i margini redistributivi e di mobilità sociale del passato. Si sono rese necessarie tanto operazioni politiche di disarticolazione del« blocco lavorista », quanto sofisticate operazioni ideologiche che riformulassero le basi della legittimazione. All'area del lavoro dipendente è stata contrapposta, da un lato, una crescente area di precariato, dall'altro, quella del lavoro autonomo. Le garanzie acquisite dai lavoratori dipendenti negli scorsi decenni sono spesso vissute dai precari - giovani, immigrati e lavoratori a bassa qualificazione come privilegi il cui costo ricade, appunto, su chi, come loro, non godrà mai del contratto a tempo indeterminato e forse non maturerà mai alcu40
David Rothkopf, Superclass, Mondadori, Milano, 2008.
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•%a pensione. Sull'altro versante, i «privilegi» dei dipendenti J sono stati presentati ai lavoratori autonomi come la principale ·· , ·ragione della costante pressione fiscale su di loro e, viceversa, ai primi gli altri sono stati additati come evasori recidivi su cui ricade la responsabilità dei tagli alla spesa sociale. Mentre l'inimicizia, fra area del precariato e le altre due, è meticolosamente coltivata da ricorrenti campagne securitarie tese a presentare immigrati e giovani come classi socialmente pericolose e agenti di disgregazione sociale. 1 , È interessante notare come simili dinamiche sociali si presentino, mutatis mutandis, non solo in Italia, ma in tutti i paesi dell'area considerata, pur se con intensità variabili. Si pensi, ad esempio, al conflitto fra gli studenti di Parigi, in lotta contro i progetti governativi di precarizzazione dei rapporti di lavoro, e i giovani immigrati della banlieu parigina, nell'autunno del 2006. A tutto questo si è accompagnato un « vento culturale» che ha reso obsoleta ogni etica del lavoro, ha incoraggiato l' autopercezione dei ceti popofari come consumatori e non come produttori, ha dissimulato la caduta dei salari reali attraverso gli espedienti del low cast, e, soprattutto, ha contrapposto le libertà collettive e politiche a quelle individuali, uno dei capisaldi della proposta politica di Friedman. Tutto questo implica processi di disarticolazione del tessuto sociale: sindacati sempre più deboli, una contrattazione sempre più individuale e sempre meno collettiva, partiti« leggeri» ridotti a meri apparati propagandistici di gruppi dirigenti inamovibili, scarsa partecipazione politica, repressione selettiva dei focolai di opposizione sociale, una quota crescente di consenso passivo rispetto a quello attivo, ma, soprattutto, modelli culturali iperindividualistici. In questo modello neofunzionalista, che esalta l'unicità dell'individuo e la sua irriducibilità a qualsiasi soggetto collettivo (etnico, religioso o di classe non importa), non esiste spazio per le « comunità intermedie». All'individuo si riserva una illusoria libertà di scelta fra prodotti, offerte economiche, stili di vita. È
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una sorta di grande sloanismo sociale. Negli anni Trenta, Alfred Sloan, per uscire dalla crisi, propose un modello basato sulla più ampia diversificazione dell'offerta: prodotti diversi per modelli, colori, funzionalità e, soprattutto, prezzi, per stimolare la domanda. Come è noto, prevalse il fordismo basato sulle economie della larga scala, che presupponeva la stal)dardizzazione dei prodotti («potete scegliere la macchina che volete, purché sia una Ford, del colore che volete, purché sia il nero» amava ripetere Ford). Poi, negli anni Ottanta, l'applicazione dell'informatica all'automazione (e la conseguente nascita di strumenti per la produzione quali il Cam e il Cad) ha dato la possibilità di realizzare la ricetta di Sloan e questo, man mano, è andato oltre la produzione per affermarsi come un modello sociale generale. cittadinoconsumatore occupa una buona parte della sua giornata per decidere quale sia la più conveniente combinazione fra le 96 offerte delle Fs per il suo viaggio, per rispondere al telefono alle continue promozioni commerciali, per studiare i diversi pacchetti di servizi offerti dalle diverse compagnie telefoniche, per assistere all'allusione di spot pubblicitari, per valutare la più interessante fra le 27 banche che si propongono alla sua attenzione... E quando ha finito, ricomincia con le nuove proposte, telefonate, spot, dépliant, messaggi web, alla ricerca di offerte ancor più convenienti..È interessante notare, ad esempio, come tutto questo impiego di tempo si accompagni simmetricamente alla riduzione del tempo destinato alla lettura dei quotidiani o di libri, alla partecipazione politica, alle relazioni interpersonali... Peraltro, questa sorta di shopping onnipervasivo ha avuto la conseguenza imprevista di un accentuato« stress decisionale »: 41 la scelta infinita non coincide con la libertà, ma con lo svuotamento di essa. La scelta ha un senso se avviene fra un ventaglio di proposte sufficientemente diversificato ma non eccessivo perché,
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Raffaella Misuraca, Barbara Fasolo, Maurizio Cardaci, I processi
decisionali, il Mulino, Bologna, 2007.
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in questo secondo caso, la scelta non può che divenire casuale e suggestiva. E tuttavia, questo modello di consumo e di vita ha supportato egregiamente i processi iperindividualistici della attuale società «liquida» che si accompagna necessariamente a una diffusa apatia politica e al deperimento della dimensione pubblica.42 Ma, se la società diventa «liquida», il potere - politico ed economico resta solido. Solidissimo. E l'individuo è solo davanti al potere e meno libero davanti a esso. 1 , È interessante notare come questo scambio fra libertà personali e libertà politiche sia stato la base del nuovo « contratto sociale» offerto ai suoi cittadini dal Partito comunista cin~se: ampie libertà sul piano dei consumi, della sessualità, delle abitudini di vita, ma nessuna concessione sul piano delle libertà politiche (di sciopero, di organizzazione, di pensiero e di parola), il tutto nel quadro di una crescita economica assecondata dalla più spregiudicata accumulazione primitiva che la storia ricordi, che non esita a nutrirsi di ogni forma di pirateria e che comprime qualsiasi diritto dei lavoratori.
7. L'autunno della democrazia Questa eclissi del sociale, insieme ali' ondata di antipolitica, è insieme causa ed effetto del deperimento degli istituti della democrazia. Fra le principali cause di questa corrosione della democrazia viene comunemente indicata - come principale e determinante la crescita delle multinazionali le cui enormi ricchezze sopravanzano quelle di molti stati e sono sottratte al dominio di qualunque di essi. 43 Una sorta di ennesimo stato che preleva tributi da 2
Zygmunt Bauman, La società individualizzata: come cambia la nostra esperienza, il Mulino, Bologna, 2002; Richard Sennett, Il declino dell'uomo pubblico: la società intimista, Bompiani, Milano, 1982. 43 Noreena Hertz, La èonqui'sta silenziosa, Carocci, Roma, 2001. "
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tutti e non ne versa a nessuno. Su questa strada, diversi autori si sono spinti a parlare di « postdemocrazia ». 44 In realtà, quello delle multinazionali è l'aspetto più appariscente, ma non certamente l'unico di questo climaterio della democrazia. E non ne è nemmeno il principale responsabile. Ci sono anche altri fonomeni che è opportuno approfondire. Ad esempio i due fenomeni correlati del deperimento dello stato nazionale e del formarsi di grandi tecnostrutture interna- · zionali sganciate da ogni controllo democratico. Sulla crisi dello stato-nazione torneremo più avanti, qui ci limitiamo a osservare come, allo stato dei fatti, la democrazia sia strettamente correlata allo stato nazionale e non sembra praticabile a breve un modello democratico sovranazionale. Ma, nello stesso tempo, è andata creandosi una serie di organismi sovranazionali: l'Onu, il Fmi, la Banca mondiale, la Nato, la Fao, la Bee, il Wto e così via. I trattati internazionali sono sempre esistiti così come le alleanze militari o gli accordi monetari e commerciali, ma tutto questo non aveva mai dato luogo alla formazione di organismi permanenti dotati, per di più, di una propria autonomia dagli stessi stati sottoscrittori. Dopo la loro prima timida comparsa, negli anni Venti e Trenta, essi hanno conosciuto una incontenibile crescita nel secondo dopoguerra e, se fino al 1990 erano in qualche modo contenuti dalla divisione del mondo in blocchi, con l'affermarsi del sistema monopolare essi hanno avuto il loro sviluppo più pieno. Tali organizzazioni non hanno nessuna sostanziale legittima. zione democratica. Infatti, in parte esse sono composte da rappresentanti di stati non democratici, in parte da rappresentanti di stati democratici ma designati dai rispettivi governi e, dunque, con una legittimazione riflessa e di secondo o terzo grado. La cosa è ancora più evidente nel caso di organismi come la Bee o il Fmi, che non godono neppure di questa legittimazione indiretta, 44
Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari, 2003.
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essendo espressi da banche nazionali i cui gruppi dirigenti non sono di formazione elettiva. Per di più, in questi enti le decisioni sono assunte attraverso intese negoziali - ovviamente sulla base .dei rapporti di forza esistenti - e in forme del tutto opache. Le discussioni avvengono nel più assoluto riserbo e quel che se ne sa è solo quello che passa attraverso i rispettivi uffici stampa. D' altra parte, i mezzi di informazione di massa non dedicano alcuna particolare attenzione a tutto questo, salvo che per grandi avvenimenti come i summit del G8 o alcune riunjoni Nato in momenti di emergenza. Non solo: si consideri che nella stragrande maggioranza dei casi, nessuna di queste strutture ha previsto la formazione di propri archivi storici aperti al pubblico o, tanto meno, versa la propria documentazione pregressa ad altri archivi. Ad esempio, la corrispondenza classificata della Nato non è versata dal ministero degli Esteri di nessuno dei paesi membri ai propri archivi pubblici. È strano come nessuno storico abbia sin qui lamentato la cosa. Infine, non è secondario che una parte rilevante delle deliberazioni non sia assunta sulla base di criteri politici, quanto di criteri tecnici o pretesi tali. Dunque, organismi non elettivi, decisioni non a maggioranza, assoluta mancanza di trasparenza e prevalenza di criteri asseritamente tecnici su quelli politici. Ebbene, .una quantità sempre maggiore di decisioni viene spostata dagli stati nazionali a questi organismi. Il che, per quanto appena detto, sostanzialmente, significa che una massa crescente di risoluzioni viene sottratta alla decisione democratica, con le conseguenze che è facile immaginare. E si pensi, per tutte, alla determinazione del costo del denaro, deciso dalia Bee al di fuori di qualsiasi influenza dell'elettorato e a quanto questo condizioni l'azione dei singoli governi nazionali. Già questo costituirebbe di per sé un fattore di svuotamento della democrazia ben più cogente deli' azione delle multinazionali. Ma il fenomeno diventa ancor più rilevante ove si consideri l'intreccio fra l'una e l'altra cosa. L'alleanza della spada con la moneta si ripropone a livello planetario e passa attraverso l'interazione fra enti sovranazionali, società multinazionali, apparati 59
militari, organismi di intelligence. Associazioni private come il Bildberg, la T rilateral Commission, l' Aspen Club - i « partiti orizzontali» delle classi dirigenti - ecc. assicurano le opportunè sedi di incontro fra i rappresentanti dei vari enti e, ovviamente, nel modo più riservato possibile. A tutto questo, in sede politica, si somma la sempre più ricorrente affermazione di capi carismatici. Fenomeno assecondato anche dalle tendenze del diritto costituzionale: nella stragran, de maggioranza dei casi, le Costituzioni delle nuove democrazie adottano modelli presidenziali o semipresidenziali tesi a rafforzare al massimo l'autonomia dell'esecutivo dal legislativo. Quel che implica una crescente decadenza dell'istituto parlamentare e,· con esso, dei partiti politici, sempre più ridotti a comitati elettorali di supporto a gruppi dirigenti autonominatisi e resi inamo-' vibili dal controllo dei mass media e della pubblica amministrazione. E riferendoci ai mass media, non parliamo del solo -, scontato - caso di Silvio Berlusconi, perché il fenomeno è, da 1 un lato, di ordine internazionale, dall'altro investe anche le forze I politiche di centro-sinistra o dell'Internazionale socialista che, in 1 forme diverse, godono dello stesso accesso monopolistico for1:1azione. · J E dall'incrocio di questi fenomeni che nasce l'autunno della) democrazia. ii .
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SECONDO CAPITOLO IL VENTO CULTURALE DEL NEOLIBERISMO
Preméssa Come si è detto, nella seconda metà degli anni Settanta, maturò
· la svolta che avrebbe portato alla « rivoluzione neoliberista». A innescarla furono la crisi fiscale del wel/are state, la decadenza del mondo sovietico, ormai conclamatamente incapace di autoriforma, l'improvvisa consapevolezza dei limiti ecologici, l'urto della crisi petrolifera, il deludente evolversi delle società postcoloniali e anche l'esaurirsi della « stagione dei movimenti». A cavallo fra i Sessanta e i Settanta, tutte le società occidentali furono attraversate, in varia misura, da una ondata di movimenti di protesta: la generazione nata dopo la guerra metteva in disc:ussione tanto gli equilibri sanciti dalla guerra fredda quanto la stessa legittimità del sistema sociale e politico. A questa si aggiunse, in molti paesi, una ondata di rivendicazioni salariali senza precedenti e poi una serie di movimenti di genere, di dissenso religioso, di ceti marginali ecc. Questo magmatico ribollire di istanze, affermazioni di identità e proteste non riuscì a darsi un progetto politico. Glielo impedì soprattutto il prevalere di aspirazioni utopiche che lo fuorviarono, in alcuni paesi sino alla deriva terroristica. La « stagione dei movimenti» si concludeva definitivamente nella seconda metà degli anni Settanta: già nel 1975, il movimento era in pieno riflusso Germania, Inghilterra, Usa, Francia, dopo qualche anno seguì l'Italia. Nello stesso 1975, si svolse un importante convegno di studi organizzato dalla Trilatera! Commission (nata due anni prima, come raccordo fra i circoli dirigenti finanziari, industriali e politici occidentali). 61
I tre relatori principali (il francese Michel Crozier, l'americano Samuel Huntington e il giapponese Joji W atanuki) 45 si trovarono concordi nel diagnosticare la crisi come prodotta dal « sovraccarico del sistema decisionale» - che rendeva lo Stato facile preda del ricatto dei più diversi gruppi sociali - e dal conseguente indebolimento dell'autorità governativa. Da tale diagnosi discendeva la prescrizione di una riforma complessiva che riducesse il campo di intervento statale e, contestualmente, ridesse funzionalità decisionale e prestigio ali' esecutivo, in modo da consentirgli di agire come riaggregatore della domanda sociale. In questo . quadro, rafforzamento dell'esecutivo a scapito del parlamento, «raffreddamento» degli istituti di democrazia diretta (come il referendum), regolamèntazione legislativa dei conflitti di lavoro, erano altrettanti passaggi necessari sul piano istituzionale. Questa analisi basata sul « sovraccarico e anarchia della domanda politica» e sulla « crisi dei meccanismi della decisione» venne ripresa anche dal sociologo tedesco Niklas Luhmann è dallo storico italiano Giuseppe Are. 46 Questa interpretazione fu variamente contestata da autori che proponevano modelli ben più sofisticati: da Alain Touraine a Samuel Eisenstadt, da Seymour Lipset ad Alessandro Pizzorno, da Sidney T arrow ad Alberto Melucci. E, in effetti, si trattava di un modello scientificamente molto debole: sovraccarico della domanda rispetto a quali parametri? Quelli della ricchezza prodotta? Ma perché non prendere in considerazione la curva della distribuzione? Che tale crescita della doma:qda fosse in eccesso rispetto alle esigenze dell'accumulazione era dato ma non dimostrato. Né, per la verità, è chiaro cosa si intendesse per« crisi dei meccanismi della decisione» se non l'esigenza di sottrarre una quantità di decisioni alla procedura democratica per portarle 45
Michel Crozier, Samuel Huntington, Joji Watanuki, La crisi della democrazia: rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, Franco Angeli, Milano, 1977. Prefazione di Gianni Agnelli. 46 Giuseppe Are, Serenella Pegna, Gli anni della discordia, Longanesi, Milano, 1982.
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all'interno di quello che Pizzorno chiama « il nucleo cesareo del potere». Ma la debolezza teorica del modello era largamente compensata dalla sua sintonia con gli umori del ceto politico e del potere economico, sia europeo che americano. In breve, questa lettura della stagione dei movimenti come sorta di « scapigliatura» più ricca di eccessi e di aspettative irragionevoli, di ideologismi esasperati e d'inaudita violenza politica che di reale aspirazione a un diverso modello di democrazia, divenne la principale vulgata. Si avviava, in questo modo, una sorta di « controrivoluzione culturale» tesa a restaurare quel che la contestazione aveva intaccato. In particolare, i movimenti del Sessantotto avevano immaginato un capitalismo alla sua ultima stagione, privo di ogni residua legittimazione, con meccanismi definitivamente inceppati, che sopravviveva solo grazie al brutale sfruttamento neocoloniale dei paesi del Terzo mondo ma, ormai, stretto fra l'ondata di proteste sociali all'interno e le lotte antimperialiste al suo esterno. Su alcune riviste (come la «Monthly Review») comparivano articoli che prevedevano il collasso del sistema negli Usa entro la fine del decennio. Una descrizione scarsamente realistica che non teneva assolutamente conto delle capacità di recupero del sistema capitalistico, dell'approssimarsi di una nuova rivoluzione industriale basata sull'elettronica e l'automazione, della sfavorevole evoluzione del quadro politico internazionale e di molti altri fattori. Ma, per quanto tali aspettative fossero destinate a una rapida smentita, tuttavia esse avevano sedimentato un giudizio abbastanza diffuso sull'esaurimento del capitalismo come sistema vitale e sulla sua sostanziale ingiustizia sociale. La rivoluzione neoliberista, che già era in gestazione a W all Street e nella City, non avrebbe potuto decollare senza il necessario consenso sociale che esigeva una profonda ri-legittimazione del sistema. D'altro canto, non era difficile prevedere che lo smantellamento dello Stato sociale, per quanto graduale, avrebbe potuto 63
riaccendere quella conflittualità che si era appena sopita. E, dunque, accanto a una decisa opera di scomposizione del blocco sociale lavorista che lo sosteneva, si imponevano adeguate riforme istituzionali che ddessero al sistema « capacità di decidere»; E anche qui l'operazione richiedeva adeguati supporti culturalij tanto nella fase della progettazione quanto in quella della successiva raccolta di consenso. Occorreva rimuovere quelle premesse culturali che avevano retto il compromesso socialdemocratico del welfare, prodotto lo« stato sociale di diritto» emerso dopo la guerra, riconsacrare il potere profanato dalla contestazione sessantottina. La storia fu il principale terreno sul quale awenne questa battaglia culturale e il revisionismo storico fu il ferro di lancia culturale del neoliberismo. Non si trattava solo di liquidare l'eredità culturale di Marx o Lenin, ma bisognava andare molto più in là, disfacendosi anche di Kelsen e di Keynes e poi, via via, cancellarè anche il liberalsocialismo di Rosselli, il riformismo di Kautsky e Bernstein, la democrazia radicale, sino alle origini, identificate nel fantasma del giacobinismo.
1. La rivincita di Edmund Burke , La Rivoluzione francese - e in particolare i giacobini - ebbero un implacabile accusatore nel deputato wigh Edmund Burke, che, invece, si era dimostrato molto aperto verso le istanze dei coloni americani, arrivando a proporre l'estensione della Costituzione a tutto l'Impero. Nelle sue Riflessioni sulla rivoluzione in Francia, Burke si scagliò contro la sua enfasi democratica che minacciava le basi stesse della tradizione e della civiltà. La rivoluzione era il prodotto dell'azione di alcuni intellettuali non possidenti e frustrati (i gueux plumés, i « pezzenti della penna») che avevano aizzato la canaglia contro le classi dominanti per puro rancore. La rivolu64
zione non aveva non poteva avere - alcun progetto politico e non poteva che produrre una catastrofe della civiltà, come le invasioni barbariche. La rivoluzione era solo un atto di pazzia, come i suoi massacri dimostravano ampiamente. ntema della rivoluzione come morbo, manifestazione di irrazionalismo, se non delirio, pur con diverse accentuazioni, diverrà un tema fisso in tutti gli autori antirivoluzionari da Benjamin Constant ad Alexis de Tocqueville, da Hippolyte-Adolphe Taine a François-René de Chateaubriand, a Joseph 1de Maistre. Alle esaltazioni della rivoluzione parigina, Burke contrappone la saggezza della Costituzione inglese scaturita dalla sua « gloriosa rivoluzione» del 1689, che non sparse sangue. Iniziava in questo modo il mito della «rivoluzione incruenta» del 1689, definitivamente consacrato, nel secolo successivo, da George Macaulay Trevelyan. Di fatto si tratta di un mito totalmente infondato. Infatti, è vero che il trapasso di poteri da Giacomo II a Guglielmo III d'Orange ·avvenne senza spargimento di sangue, ma come isolare quell'avvenimento dalla sua premessa, la guerra civile del 1640 che non fu affatto esente da spargimento di saD;gue? D'altra parte, la repressione delle rivolte giacobite che ne seguirono fu sanguinosissima, soprattutto in Scozia dove essa proseguì sino al 1746. Né è possibile rimuovere la coeva guerra di sterminio contro gli irlandesi (il termine genocidio non era ancora comparso) dove i massacri indistinti della popolazione civile, la distruzione dei raccolti, la pratica della tortura furono moneta corrente ancora per molto tempo. La tradizione liberale ottocentesca, tuttavia, operò questa rimozione proprio in funzione della polemica antirivoluzionaria. In questo quadro, della critica burkiana alla rivoluzione si enfatizzarono la denuncia delle violenze e la saggezza dell'ordinamento inglese, facendo di Burke un antesignano del liberalismo utilitarista, ma passando sotto silenzio altri più rilevanti aspetti del suo pensiero come l'individualismo proprietario. Nel 1795 Burke scrisse Pensieri sulla scarsità, occasionato da una decisione dei giudici di pace dello Speenhamland che obbligava i datori di 65
lavoro a pagare un salario proporzionale al numero dei componenti della famiglia di ciascun lavoratore e ali' andamento del prezzo del pane. 47 Contro tale pronuncia insorgeva il deputato wigh sostenendo che essa avrebbe turbato l'andamento naturale del mercato, perché a garanzia del giusto salario sta l'interesse· stesso del proprietario ad avere dei lavoranti ben nutriti e in buona salute, per poterne trarre il maggior profitto. L'avidità di guadagno del singolo imprenditore è, per Burke, la base del progresso e, ·di conseguenza, del benessere generale, D'altra parte, distribuire i beni dei ricchi, oltre che provocare il crollo della civiltà stessa, non risolverebbe affatto il problema dei poveri perché essi sono per definizione numerosi e i ricchi, invece, pochi. Uccidendo i ricchi e redistribuendone le fortune• non ci sarebbe di che servire « una sola cena di pane e formaggio» per tutti. E dunque, la povertà - e la sofferenza che ne deriva - è un dato naturale e ineliminabile della condizione umana, éhe so_lo il profitto dei pochi può indirettamente alleviare. D'altra parte, il lavoro è una merce come un'altra e la fissazione del suo prezzo non può essere stabilita al di fuori dell' andamento del mercato. Ma nonostante l'interesse conclamato dell'imprenditore ad avere dipendenti« ben nutriti», che fare se il salario del lavoratore è molto al di sotto della sussistenza minima e le avversità del momento sono tanto grandi da minacciare veramente la fame? [. ..] La mia opinione in questo caso è la seguente: tutte le volte che un uomo non può pretendere nulla sulla base delle leggi del commercio e dei principi della giustizia, egli esce da tale ambito ed entra nella giurisdizione della pietà. In questo territorio il magistrato non può fare assolutamente nulla: il suo intervento è una violazione di quella proprietà che ha il compito di proteggere.48
47 48
C.B. Macpherson, Burke, il mdangolo, Genova, 1999, pp. 86 sgg. Burke, Pensieri sulla scarsità, rip. in Macpherson, op. cit., p. 94. 66
Per non lasciare nessun dubbio, Burke precisa che il dovere 1ello Stato è
[.. .J opporsi coraggiosamente all'idea speculativa o pratica che sia tra le competenze del governo, preso come governo, o anche del ricco in quanto ricco, fornire ai poveri quanto la Divina Provvidenza ha voluto momentaneamente negare loro [.. .] non è nella rottura delle leggi del commercio, che sono leggi di natura e quindi di Dio, che va riposta la speranza di mitigare lo scontento divino per rimuovere le éalamità sotto cui • 49 patiamo. Dunque, quello che fa inorridire Burke è l'idea egualitaria della Rivoluzione francese, che minaccia di estendersi all'Inghilterra. Una idea perniciosa e contro natura, perché le disuguaglianze umane sono legge di Dio. Burke non ha il suo nemico tanto nel terrore giacobino, quanto nella teorizzazione dei « presunti diritti dell'uomo» e della assoluta eguaglianza degli uomini a prescindere dalla razza o dalla condizione sociale. Il Terrore non è che una inevitabile appendice fenomenica di tutto questo. Su questi temi si consumerà gran parte del dibattito fra sostenitori e avversari del principio democratico e rivoluzionario per gran parte del XIX secolo: ancora nel 1870 Jacob Burckhardt, in polemica tanto con le filosofie della storia idealistiche quanto contro quelle positivistiche, sosteneva che la natura e la condizione umana non sono suscettibili di miglioramento e, dunque, il «progresso» è solo inganno portatore di sciagure.50 Il XIX secolo si concluse con la sconfitta di queste idee e con la definitiva affermazione degli indirizzi storiografici ispirati al canone progressista, che assumeva la rivoluzione come momento di passaggio a una fase superiore alla precedente, come necessità 49
Ibzd., p. 96. Jacob Burckhardt, Considerazioni sulla storia universale, Mondadori, Milano, 1996. 50
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storica, nonostante i costi umani - pur evitabili - che esse hanno comportato. Ed è da sottolineare che a questo indirizzo aderì anche un liberale come Benedetto Croce che, peraltro, distingueva molto bene fra liberalismo politico e liberismo economico. Al principio del secolo seguente, Burke era poco più che una curiosità bibliografica. · Ma a volte le idee possono risvegliarsi anche a distanza di molto tempo, dopo un sonno che era parso morte ma che tale non era. Spesso le idee sono fiumi carsici che riemergono in punti ·imprevedibili molto distanti da quelli in cui erano sprofondati. Con la crisi del paradigma progressista, cui abbiamo fattci cenno, il vecchio filone antirivoluzionario si ripresentava, pur in attualizzate e, significativamente, al pensiero di Burke si richiameranno quasi tutti gli autori dell'ondata revisionista di cui ci occupiamo: da von Hayek a Furet, da Pipes a Nolte.
2. Carl Schmitt Per la verità Carl Schmitt non è stato uno storico, quanto un filosofo della politica e un giurista. E, tuttavia, il suo pensiero ha sensibilmente influenzato il dibattito storico. Per Schmitt il concetto di sovranità è coessenziale allo stesso principio di civiltà ed è fondato divinamente: i suoi studi di filosofia politica e quelli di teologia confluiscono organicamente nel suo edificio teorico. La sovranità è sovraordinata rispetto alla società e non dipende da essa. Non è la società a costituirsi in soggetto ed esprimere la sovranità, ma, al contrario, è questa, con il suo principio Ordinatore, a dare forma alla società e a consentirgli di esistere. Di qui la sua critica al principio democratico e alla sua fondazione rivoluzionaria. Schmitt, avendo occhi per vedere e orecchie per sentire gli umori del suo tempo, non ignora che una rivoluzione possa riuscire ad abbattere il potere c9stituito, e che, dunque, il principio democratico possa vincere e imporsi. Ne nega la legittimità e sostiene che una parabola fatale
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lo obbligherà a ridare vita a una sovranità ugualmente sovraordinata rispetto alla società, anche se meno preferibile alla precedente. Come scrive Losurdo: ilBurke del ventesimo secolo è Schmitt [ ... ] Solo in lui troviamo una critica complessiva dell'ideologia rivoluzionaria in tutte le . · · 51 sue conf1gurazion1. Una critica che corre in tutta la sua opera, da
Nomos della terra,
La dittatura52 a Il
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passando per le sue considerazioni sulla guerra rivoluzionaria e sulla correlata nozione di « guerra civile fredda». La riscoperta di questo pensiero, negli anni Ottanta, fu determinante per il dispiegarsi di quel vento culturale di cui parliamo. Come si sa, Carl Schmitt ebbe grande fortuna durante il Terzo Reich, di cui fu il Kronjurist, quel che, dopo il 1945, gli valse l'identificazione con il nazismo e, per poco, non lo portò sul banco degli accusati a Norimberga. In realtà, la sua opera ha una notevole complessità e originalità che non consentono una piena identificazione con quella ideologia. Certamente Schmitt fu espressione di una cultura dichiaratamente antidemocratica, antiparlamentare e nazionalista, ma si distaccò in diversi punti dal nazismo. Era la cultura della Konzervative Revolution (cui appartennero anche altri autori come Armin Mohler, Ernst Jilnger, Arthur Moeller van den Bruck o Oswald Spengler) che certamente influenzò il nazionalsocialismo, ma che mantenne una sua caratterizzazione distinta ed ebbe fortune alterne nel rapporto con il regime. Lo stesso Schmitt nel 1936, accusato di opportunismo dalla rivista teorica 54
51
Domenico Losurdo, Il revisionismo storico. Problemi e miti, Laterza, Roma-Bari, 1998, p . .32. 52 Carl Schmitt, La dittatura, Settimo Sigillo, Roma, 2006. 53 Carl Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi, Milano, 1991. 54 Carl Schmitt, Teoria del partigiano, il Saggiatore, Milano, 1981.
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delle SS, subì un netto ridimensionamentò, che gli impedì assurgere alle alte cariche politiche cui sembrava destinato. D'altro canto, l'opera di Schmitt fu un grande edificio filos fico, giuridico, politologico, non riducibile solo alle sue opzio politiche e lo dimostrano le ampie relazioni scientifiche eh anche dopo il 1945, continuò ad avere non solo con pensato più affini (come Martin Heidegger, Karl J aspers o Ernst J tinger ma anche con altri assai meno omogenei (come Hanna Arend Jacob Taubes o Alexandre Kojève). Ciò non di meno, per oltre trent'anni, il suo nome fu bandit dalla comunità· scientifica europea: ancora sul finire degli ann Sessanta, la decisione del direttore di una rivista filosofica tede. sca, di ospitare un suo saggio, provocava una massiccia protest; di redattori e collaboratori che preferivano dimettersi piuttosto che condividere le stesse pagine con l'ex Kronjurist di Hitler. Il mondo del diritto gli volse le spalle per guardare al suo grande antagonista, Hans Kelsen, la cui dottrina pura .del diritt fu posta a base tanto della Carta dell'Onu quanto delle Costituzioni approvate in quel peridodo. Le case editrici più affermate si guardavano bene dall'ospitar-. lo nei propri cataloghi55 e gli istituti universitari dall'invitarlo ai loro convegni. Con la sola eccezione della Spagna franchista che, al contrario, lo ebbe sempre in grande considerazione e lo insignì del titolo di membro dell'Accademia nazionale. Questo marcato ostracismo, paradossalmente, gli giovò, preparandone una nuova stagione di fortuna editoriale e scientifica, dagli ultimi anni Settanta in poi. Per quanto si possa dissentire dalla posizione politica e anche dal suo impianto metodologico, Schmitt è uno dei classici del pensiero europeo del XX secolo (come dimostrano i continui studi di autori anche di sinistra come Massimo Cacciaci, Giacomo Marramao, Danilo Zolo, Angelo Bolaffi, Carlo Galli, per restare solo in Italia). Un grande classico si può combattere, ma non rimuovere e quel lungo silenzio servì solo a rendere più dirompente la sua nuova fortuna. 55
In_ Italia, per la verità, Giuffrè pubblicò numerosi suoi libri. 70
Senza la sua riscoperta, molte delle cose cui abbiamo accennato o di cui parleremo (il ritorno dello « stato d'eccezione», la ~entralità del momento decisionale e il connesso rafforzamento dell'esecutivo a scapito del parlamento, il tramonto della pregiudiziale antibellicista, la rivalutazione dell'Impero) non si comprendono pienamente senza prendere in considerazione questa . nuova fortuna di Schmitt. · In particolare, è rilevante il nesso fra questo ritorno e la Ri< voluzione Marziale di cui si è detto e della qmµe abbiamo sottolineato l'aspetto della guerra totale e asimmetrica. Ad aver pre·•··•.·· parato il terreno in questo senso furono le teorie sulla « guerra rivoluzionaria » (dottrina ufficiale della Nato· negli anni Sessanta)56 cui Schmitt dette un contributo essenziale con il ciclo di conferenze presso l'università di Saragozza (Catedra de cultura militar General Palafox), poi raccolte sotto il titolo Teoria del partigiano. Da questo testo traspare limpidamente la filiazione di questa teoria dalla critica alla rivoluzione di cui dicevamo. E, con maggiore o minore evidenza, vedremo riaffiorare questo tema nelle opere degli storici revisionisti.
3. Von Mises, van Hayek, Friedman Una tappa fondamentale di questo cammino di restaurazione culturale è stata segnata dalla scuola di Ludwig von Mises - un economista austriaco emigrato negli Usa -, fierissimo sostenitore del liberismo per il quale «l'economia è una branca della prasseologia », ovvero la scienza dello studio a priori delle azioni .umane. E, pertanto, l'economia non si basa sullo studio della storia (e della storia economica in particolare), ma, al contrario, è la storia ad aver bisogno delle categorie economiche per interpretare gli eventi che studia. 56 Giorgio Galli, La democrazia e il pensiero militare, Libreria editrice Goriziana,· Gorizia, 2008. · 71
Cardine principale dell'ideologia liberista di von Mises (ed suo allievo von Hayek) è l'individualismo proprietario, che fon da il principio stesso di civiltà (è evidente l'eredità di Burke): l'arricchimento del singolo che consente l'accumulazione necessaria allo sviluppo culturale. Un dogma eterno e indiscutibile, per il quale la ricchezza individuale è stata e sarà sempre la premessa necessaria dello sviluppo di scienze e arti. Ne consegue che il socialismo è di per se stesso negatore del principio di civiltà e, dunque, il principale (ma forse unico) nemico da combattere. E, infatti, nella sua campagna contro il socialismo, von Mises si dimostrò assai comprensivo verso lo squadrismo fascista e nazista che, se non altro, aveva fronteggiato una situazione di. eccezione, impedendo un male maggiore e questo merito del fascismo « vivrà in eterno nella storia ».57 Questo non impedirà, tuttavia, che l'Anschluss rendesse la vita assai difficile anche al1'aristocratico professore viennese che si affrettò a emigrare in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove ebbe come allievo prediletto Friedrich August van Hayek, a sua volta docente a Chicago negli stessi anni in cui vi insegnò Milton Friedman. Alla ricetta keynesiana che proponeva l'aumento degli investimenti per combattere la disoccupazione, van Hayek contrappose una sua terapia basata sul rigore monetario e l'austerità dei· consumi, così da sanare gli squilibri causati da una politica creditizia scorretta e troppo lassista. Convinto che occorresse basare lo studio delle grandezze economiche sull'analisi dei comportamenti dei singoli attori (consu~ matori, imprese;risparmiatori, mediatori finanziari ecc.) giunse a teorizzare la microfondazione della macroeconomia. La sua intransigenza lo portò a polemizzare con Milton Fried-· man, accusandolo in maniera immeritata di essere un campione dello statalismo. 57
Cit. in Domenico Losurdo, op. cit., Laterza, Roma-Bari, 1998, p.
28.
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·."'·..... Da un punto di vista politico non c'è dubbio che le teorie di "Friedman ebbero maggiore successo, trovando sostenitori del · calibro di Margaret Thatcher, Ronald Reagan, del generale Augusto Pinochet, di Menachem Begin o Yitzhak Shamir, ma gli . effetti dell'azione di von Mises e von Hayek prevalsero sul piano culturale di cui qui d occupiamo. Infatti, la scuola viennese · rappresentò là più coerente antitesi del keynesismo e, in quanto tale, la base culturale della « rivoluzione neolibepsta » degli anni 1 Ottanta e Novanta. /"> Basta sfogliare i programmi di esame adottati nelle facoltà di Economia o di Scienze politiche - sia in Italia che nel resto d'Europa - per rendersi conto di quanto sia stata profonda la loro influenza culturale e basta citare Paul Samuelson per una . .e 58 comerma. Se F riedman fu essenzialmente un tecnico della moneta, Hayek si spinse molto oltre, costruendo un sistema filosofico di riferimento. Teorizzò l'esistenza di un .terzo ordine·- oltre quello naturale dato e quello artificialmente prodotto dall'azione deliberata dell'uomo prodotto dal comportamento spontaneo dell'uomo, non predeterminabile, ma basato appunto sulla convenienza. Questo comportamento, riconducibile all'azione individuale, crea un ordine involontario che è quello del mercato, così come accade per la morale o la convenzione linguistica. E il linguaggio del mercato è quello dei prezzi espressi in valori monetari. La somma dei comportamenti microeconomici crea le regolarità necessarie all'ordine del sistema. Queste regolarità non sono né determinabili né influenzabili da interventi« razionalizzatoti» dall'alto. In altri termini, l' ordine sociale ha un fondamento economico e non sopporta interventi di ingegneria sodale che possono solo produrre danni (e qui si risente con chiarezza l'influenza di Burke). La stessa fu.formazione dei consumatori non può essere fornita dall'esterno, 58
Samuelson: i sette errori dei liberisti senza regole, in« Corriere della
Sera», 20 ottobre 2008, p, 9.
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perché la conoscenza dei consumatori è frammentaria e prodott dall'autoapprendimento indotto dallo stesso mercato. Ogni ten. tativo di modificare le leggi del mercato non può che fallire immettere sulla strada del totalitarismo.59 Naturalmente tutto questo ha anche un corollario: l' ordin sociale, inteso come formazione delle gerarchie sociali, è a s volta prodotto da quelle regolarità e, pertanto, produce gerarchie «naturali» che sarebbe controproducente voler sovvertire. Privata della sua funzione di agente di trasformazione sociale, fa politica deve ridurre la sua azione a mera custode dell' ordin «spontaneo» creato dal mercato. La legge. deve in primo luog fissare i limiti entro cui può svolgersi l'azione dello Stato, gar tendo al massimo le libertà individuali. Già qui si coglie quella contrapposizione fra libertà individua li (essenzialmente economiche) e libertà politiche che, in quest visione, hanno scarso senso. E, infatti, sia in questi autori che · altri come Furet, si risente la polemica antintellettuale di Burk E anche di queste idee si è nutrita l'ondata antipolitica di e dicevamo in precedenza.
4. Il revisionismo sulla Rivoluzione francese e François Pure Come si diceva, nella seconda metà del XIX secolo si afferro' come prevalente il punto di vista degli storici repubblicani (' particolare Alphonse Aulard), che sostenevano il carattere pr gressivo della rivoluzione, nonostante i suoi costi umani. Quest peraltro non impedì che sopravvivesse, pur minoritaria, un corrente storiografica antirivoluzionaria che, al contrario, fac · leva proprio sul tema dei massacri per indicare la rivoluzion come una catastrofe da condannare. In un secondo momento., sopraggiunsero nel filone repub 59
F.A. von Hayek, The Road to Ser/dom (1944), University of Chi cago Press, Chicago, 1994.
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;blicano anche gli storici marxisti (Jean Jaurès e poi, via via, · • Albert Mathiez, Albert Soboul e gli annalisti come Georges >Lefebvre o Ernest Labrousse). Venne così formandosi il cosid. detto canone giacobino-marxista che leggeva la rivoluzione come antifeudale e borghese, dunque come un momento di passaggio necessario del cammino storico verso forme sociali più evolute. Questa lettura risentiva certamente della teoria del materialismo storico, sottolineandone fortemente il tratto finalistico delle filosofie storiciste e aggiungendoci; strada facendo, . qualche influenza positivista. Cosicché, questa qualificazione . borghese e antifeudale della rivoluzione, pur essendo per diversi aspetti fondata, presentava limiti di determinismo economico e forzature che, più tardi, ne produrranno una ossificazione · dogmatica. Tuttavia, questa lettura della rivoluzione ebbe grandi meriti, come la scoperta della storia sociale: ancora Aulard aveva privilegiato una impostazione tutta «dall'alto», che guardava solo ai grandi personaggi e ai processi al livello della statualità. Dunque, essa rappresentò un momento di notevole sviluppo della storiografia, anche se questo si accompagnò a una certa dose di strumentalità politica, tesa a sostenere la legittimità storica della Solidarité républicaine, il mito fondativo della sinistra francese alla base delle alleanze del Front Populaire o della Um'on de la Gauche. L'uso politico della storia, dove per esso si intenda una forzatura dell'analisi storica in funzione di obiettivi politici, non è nato con il revisionismo storico e non è una sua esclusiva. La storiografia influenzata dai partiti comunisti non di rado ha avuto cadute di questo genere. François Furet si formò in questo contesto. Fu allievo di Er-. nest Labrousse (coautore con Fernand Braudel di una importante storia sociale ed economica di Francia). E, del suo maestro, Furet condivise, per alcuni anni, anche l'impegno politico nel Partito comunista francese. Sino ai primi anni Sessanta le sue opere furono sostanzialmente interne al solco del canone storiografico giacobino-marxista. II suo distacco da esso iniziò à manifestarsi con un'opera del 75
1965, scritta con Denis Richet60 nella quale rimetteva in discus sione il carattere borghese della rivoluzione. Per Furet il cors iniziale della rivoluzione era determinato dalla spinta di un nuova èlite politica di indirizzo riformista, trasversale ai tre stati. A far deragliare la rivoluzione (Furet usa proprio l' espression ' dérapage) sarebbe stata l'irruzione sulla scena delle masse pop lari nel 1792. Questa tesi suscitò la reazione dei sostenitori d canone giacobino-marxista, cui Furet rispose ulteriormente co altre opere6 1 che radicalizzarono ancor più la polemica. In particolare si denunciava l'insuccesso della rivoluzione ri. spetto agli stessi programmi dei rivoluzionari: Fra il bilancio della rivoluzione e le intenzioni dei rivoluzionari c'è un abisso incolmabile. 62
Furet (e altrettanto farà Daniel Pipes) operava una forte rivalu tazione dello storico cattolico tradizionaljsta Augustin Coch' dal quale mutuava in particolare l'analisi « sociologica» del fe nomeno rivoluzionario, per la quale la radice sta nel « fanatism · societario ». 63 Influenzato anche dallo storico russo Moise Ostrogorski, Furet ne assumeva la critica dei moderni partiti sindacati giungendo alla conclusione che è l' « uomo sociologi zato », cioè organizzato in partiti, il fondamento sociologico dell patologia rivoluzionaria, perché esso si «chiude» all'interno una società artificiale - il partito - perdendo il contatto co · quella reale e naturale (ma questa valutazione non vale per l'ap partenenza a una Chiesa ... chissà perché). A supporto delle sue tesi, Furet recuperava il mito storiogr fico della Glorious Revolution del 1688-89, creato da Treve
°
6
François Furet, Denis Richet, La Rivoluzione Francese, Laterz. Roma-Bari, 1974. 61 Soprattutto François Furet, Critica della Rivoluzione Francese, terza, Roma-Bari, 1981. 62 François Furet, op. cit., p. 19. 63 Domenico Losurdo, op. cit., p. 28.
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lyan64 che vantava come maggior gloria di essa il suo carattere· incruento (la « Rivoluzione del buon senso » come egli stesso la definiva nell'introduzione). Giustamente, peraltro, Furet metteva in guardia dall'interpretare le rivoluzioni solo attraverso le lenti dell'ideologia e delle autorappresentazioni dei loro protagonisti, cogliendo, in questo senso, uno dei punti deboli del canone giacobino-marxista. Ma a 'quèsta intuizione faceva seguire l'individuazione della causa dello svolgimento particolarmente violento dellst ,rivoluzione francese nelle caratteristiche ideologiche del giacobinismo e nel loro · patologico estremismo. , E sulla stessa linea di sviluppo, Furet proseguiva esaminando le vicende del comunismo e gli esiti totalitari della Rivoluzione russa attribuiti, anche essi, all'ideologia bolscevica che altro non era che la prosecuzione logica del giacobinismo. 65 Tornava così il tema ben noto dell'insanìa dei rivoluzionari sostenuta, more solito, dal confronto con la Glorious Revolution (che, in realtà, fu una « rivoluzione dall'alto » e non andò m~lto . al di là di una congiura palatina con debole appoggio esterno alle mura) e con la Rivoluzione americana, che si pretendeva essere stata assai meno sanguinosa. Giustamente, Losurdo66 fa rilevare la scorrettezza metodologica di Furet che compara l'intero ciclo rivoluzionario francese . (1770-1880) con il solo momento della rivoluzione di febbraio e con la prima parte della Rivoluzione americana, trascurando il ciclo rivoluzionario in cui ciascuno dei due termini di paragone è inserito. E infatti, il ciclo inglese ha un primo avvio nella rivoluzione del 1628-29 e nella guerra civile del 1640 che non fu affatto esente da spargimento di sangue. Occorre anche considerare la guerra di sterminio contro gli irlandesi (il termine genocidio non 64
George Trevelyan, La rivoluzione inglese del 1688-89, il Saggiatore, Milano, 1976, con traduzione di Cesare Pavese. 65 Franç:ois Furet, Il passato di un'illusione. L'idea comunista nel XX secolo, Arnoldo Mondadori, Milano, 1995. 66 Domenico Losurdo, op. cz't., pp. 45-55.
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era ancora comparso) e la repressione sanguinosissima delle rivolte giacobite in Scozia che proseguì sino al 1746. Quanto poi alla Rivoluzione americana, anche essa si estende per diversi decenni, dal 177 6 alla fine della guerra di secessione, e passò per processi tutt'altro che indolori come la persecuzione dei sudditi unionisti leali a Londra, costretti a emigrare in Canada, la guerra di sterminio contro i pellirosse (fra i quali venne deliberatamente diffuso il vaiolo), la seconda guerra angloamericana (1812) e, infine, la guerra di secessione che concluse il ciclo rivoluzionario. Come si vede, anche nel caso americano abbiamo la dinamica di una rivoluzione che epura se stessa man mano che prosegue, con processi di guerra civile anche fra i rivoluzionari. Losurdo, inoltre, segnala l'uso sbilenco delle fonti fatto da Furet che, per documentare le atrocità giacobine, usa come fonti solo testi dei nemici della Rivoluzione, mentre per la Rivoluzione americana usa solo le testimonianze dei vincitori. 67 Altri, come Luciano Guerci, rimproverano a Furet di non dare alcun peso agli aspetti sociali, economici e demografici, E più ancora, di chiudersi in una dimensione pariginocentrica, trascurando completamente la popolazione rurale che, all'epoca, rappresentava circa 1'85% del totale. 68 Potremmo proseguire indicando anche altre notevoli pecche metodologiche dell'opus furettiano, ma ci sembra che basti per indicarne i non pochi punti deboli, che si sommano anche al carattere non originalissimo delle sue tesi. In effetti, molte di esse hon erano affatto originali: la critica al sostitutismo giacobino (per il quale i giacobini identificavano il popolo con se stessi) era stata avanzata da Jacob T almon già trent'anni prima, 69 la stessa critica dell'interpretazione giacobi67
Domenico Losurdo, op. cit., pp. 52-3. Luciano Guerci, Ra/freddare ed inveire: a proposito del bicentenario del 1789, in «Passato e Presente», n. 19, 1989. 69 Jacob Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, il Mulino, Bologna, 1967. 68
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no-marxista che individua la Rivoluzione fra9-cese come rivoluzione borghese e antifeudale non era nuova, essendo stata già anticipata ampiamente da Alfred Cobban nel 1955.70 E allora come spiegare il suo successo, che, invece, era- mancato sia a Talmon che a Cobban? La ragione principale è probabilmente da rintracciarsi proprio in quel « vento culturale» di cui parlia mo. Un vento che Furet ha contribuito ad alimentare, ma dal .quale è stato anche sostenuto. Cobban e T almon avevano scritto opere scientificamente più fondate, ma nel momento sbagliato. Nell'Europa degli anni Cinquanta, quando il blocco antisovietico aveva bisogno di recuperare la socialdemocrazia e le sinistre liberali, la polemica sulla continuità fra i giacobini e i bolscevichi non era funzionale, anzi avrebbe regalato ali' avversario il vantaggio di riconoscerlo come erede legittimo di una rivoluzione, che era ancora il principale . mito fondativo dell'Europa moderna. Furet, invece, anticipa di pochissimo la svolta della metà anni Settanta. In secondo luogo, il suo successo è stato largamente determinato proprio dall' « uso pubblico » della storia, per il quale la polemica si è abbondantemente svolta sui mezzi di comunicazione di massa. E lo storico francese se ne è servito in modo eccel- · lente, grazie alla sua innegabile verve polemica: invitava a « raffreddare il tema», assumendo un distacco storico dai fatti ormai lontani («La Rivoluzione francese è finita» è stata una delle sue formule più efficaci), ma nello stesso tempo, attaccava con veemenza e assai scarso distacco i suoi critici. 71 A dare vigore alla sua polemica fu proprio il taglio esplicitamente politico della sua operazione. Nel decennale della sua morte, egli è stato presentato come uno storico che:
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Alfred Cobban, The Myth o/ the French Revolution (1955), tr. it. La società/rancese e la Rivoluzione, Vallecchi, Firenze, 1967. 71 Luciano Guerci, art. cit. 79
Anziché proiettare sul passato le passioni del presente, indagava il passato per chiarire il mistero del presente. 72
È vero esattamente il contrario: Furet era mosso da un disegno politico che supportava con una critica storica metodologicamente molto disinvolta. In una nota intervista, 73 lo storico dichiarava apertamente di « auspicare di tutto cuore» un grande partito socialdemocratico e moderato (dove l'accento cade nettamente sul secondo aggettivo). Così come egli ha sempre dichiarato il suo orientamento filoamericano e filoisraeliano (due « civiltà europee costruite fuo:d d'Europa» amava ripetere). La sua ricerca storica era apertamente finalizzata a fornire a questi orientamenti politici un adeguato supporto culturale, allo stesso modo in cui il canone marx-giacobino era funzionale al disegno della Solidarité républicaine. L'ex comunista Furet aveva mutato linea, ma conduceva una operazione assolutamente speculare. Questo metodo può apparire discutibile su un piano scientifico, ma ha una efficacia ineguagliabile in una polemica stampa. . Peraltro, l'impatto dell'operazione furettiana fu esaltato dalla reazione anì:irevisionista. Scrive Guerci:
È innegabile che il revisionismo storiografico [.. .] abbia avuto effetti salutari, e bisogna dire che certi micidiali fendenti la storiografia marxista-giacobina, viste le secche in cui si era incagliata, se li è andati proprio a cercare. Di fronte alla perentoria riapertura del dossier rivoluzionario promossa dai revisionisti, essa a lungo non ha trovato di meglio che arroccarsi nel dogmatismo e aggrapparsi a consunti clichés. In questo senso le responsabilità dell'ultimo Soboul [.. .] sono state gravi. R~spinto ogni dialogo con gli avversari, bollati come « Fils ingrats ou renegats de nostre mère a tous », Soboul e alcuni pedissequi 72
Marina Valensise, Il presente di una rivoluzione. Che cosa resta del metodo storico di Furet a dieci anni dalla sua morte, in « Il Foglio», 13 luglio, 2007, p. II. ' 73 «La Stampa», 5 marzo 1986. ·
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scolari hanno continuato a riproporre l'immagine della Rivoluzione francese come rivoluzione borghese-capitalista L..J e a esaltare il giacobinismo dell'anno II. Occorreva rinnovarsi e non fulminare scomuniche, bandire crociate, gemere sulla nequizia dei tempi, richiamare all'ortodossia. Ciò non è stato fatto o è stato fatto solo tardivamente. La conseguenza è stata che la polemica revisionista è via via aumentata d'intensità[ .. .] Auspice il vento favorevole del liberalismo e del liberismo [ .. .] i revisionisti hanno conquistato una posizione egemonica e hanno costruito una nuova ortodossia dalla quale non ci si può azzardare a dissentire senza attirarsi l'accusa di nutrire patetiche nostalgie stataliste e populiste (nel migliore dei casi) o inconfessabili simpatie totalitarie e staliniste (nel peggiore). 74
Gli storici antirevisionisti hanno pensato che bastasse irrogare la scomunica maggiore per fermare gli eretici. Ma, come si sa, le scomuniche hanno una efficacia quando l'eretico non è assistito da rapporti di forza favorevoli: quel che valse contro John Wyclif o Jan Hus non servì contro Lutero. Quando il clima politico cambia, la difesa dell'ortodossia è sempre una scelta perdente, perché non esiste un canone storiografico eterno. Ogni canone si forma sulle domande che il presente pone al passato e che, ovviamente, cambiano nel tempo. L' antirevisionismo dogmatico ha ripetuto l'errore di buona parte della sinistra radicale (con la quale spesso si intrecciava) che ha ritenuto di opporsi al « vento liberale e liberista» in termini di « guerra di posizione» lì dove si era in piena « guerra di movimento». Occorreva capire in cosa il vecchio canone non era più adeguato ai tempi e formulare una ipotesi alternativa a quella avanzata dai revisionisti. In mancanza di. questo, la difesa rigida dell'esistente si trasforma fatalmente nella subalternità all'offensiva revisionista che risulterà vincente. Il caso Furet è l'esempio da manuale di queste dinamiche.
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Luciano . G·uerc1,. op. at., . p. 4. 81
5. Nolte e la guerra civile europea Insieme a Furet e a Renzo De Felice (di cui parleremo nel contesto italiano) Ernst Nolte è il maggior referente del revisionismo storiografico europeo. Allievo di Martin Heidegger, raggiunse la· fama internazionale nel 1963 con Der Faschismus in seiner Epoche,75 uno dei primi studi comparati sul fascismo dedicato, oltre che al fascismo italiano, al nazismo e ali' Action Franç:aise di Charles Maurras. Il libro era costruito intorno a una intuizione: pur nella profonda diversità dei casi nazionali, il fascismo è stato un fenomeno epocale tendenzialmente unitario, caratterizzato da una contaminazione di elementi ideologici nazionalisti con elementi socialisti e destinato ad avere successo solo nei contesti in cui operi un forte movimento marxista. Nolte proseguì lungo questa linea di ricerca per circa un ventennio, pervenendo gradualmente a conclusioni assai divergenti dalla storiografia corrente in materia di nazismo. Abbiamo già ricordato l' Historikerstreit che, a metà degli anni Ottanta, lo vide impegnato sul tema della « colpa» del popolo tedesco per l'Olocausto e i cri..1nini nazisti. La sua ricerca culminò nel saggio sulla guerra civile europea76 nel quale spiegò il fascismo come reazione alla Rivoluzione russa, individuando nell' antibolscevismo il vero nucleo centrale del pensiero nazionalsocialista. Lungo questo indirizzo, Nolte perveniva alla conclusione che i crimini nazisti erano da relativizzare in quanto da porre in relazione a quelli del comunismo: il gulag sarebbe una sorta di prius del lager. Nolte si spinge molto più in là di Furet nel teorizzare la continuità fra giacobinismo e bolscevismo, risalendo man mano agli anabattisti di Thomas Muntzer, alle jacqueries, alle rivolte degli schiavi come Spartaco, persino ad alcune pagine della Bib-
75 I tre volti del fascismo, Arnoldo Mondadori, Milano, 1971.
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Ernst Nolte, Nazionalismo e bolscevismo. La guerra civile europea 1917-1945, Sansoni, Firenze, 1988.
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bia. È quello che definisce « 1'eterna sinistra»77 che identifica con un atteggiamento sostanzialmente pauperista incapace di comprendere che la diseguaglianza sociale è la base del progresso civile (e qui è evidente la parentela ideologica con l'individualismo proprietario di Burke). E, dunque, i bolscevichi sono proposti come antagonisti della civiltà europea e assimilati all'islamismo (come peraltro Burke aveva assimilato i giacobini all'islamismo). È curioso notare che, invece, Pipes fa l'operazione contraria facendo discendere l'Islam radicale da ½enin. Di rilievo, nel modello esplicativo noltiano è la caratterizzazione dell'Ottobre russo come rivoluzione non partecipata, essendosi trattato sostanzialmente di un colpo di -Stato con una base assai esigua di consenso, che, in qualche modo, poneva le premesse per la successiva repressione. Stranamente, questo stesso carattere di rivoluzione non partecipata non è individuato nella Rivoluzione inglese del 1689 che, invece, è indicata una volta di più come modello positivo. Nolte riprende da Schmitt la nozione di « nemico assoluto» riferendola ali' appello di Lenin sulla trasformazione della guerra imperialista in guerra rivoluzionaria che avrebbe dato il via alla guerra civile europea. Giustamente, Losurdo fa notare che anche le potenze occidentali rivolsero frequenti appelli al popolo tedesco a insorgere contro il proprio governo - accusato di essere assolutista e sanguinario - e il presidente W oodrow Wilson presentò l'entrata in guerra degli Usa come una crociata per la democrazia e la liberazione di tutti i popoli « compresi quelli germanici>>. E, infatti, la propaganda degli imperi centrali insistette molto sul tèma della « congiura internazionale massonica» ai propri danni. Peraltro, il debito intellettuale di Nolte verso Schmitt si evidenzia anche nel concetto di « guerra civile fredda» che si sarebbe conclusa con il 1989.78 Come nel caso di Furet, anche Nolte manifesta una notevole disinvoltura metodologica sulla quale non è inutile soffermarsi. 77
78
Ernst Nolte, Controversie, Corbaccio, Milano, 1999, pp. 77 sgg. Domenico Losurdo, op. cit., p. 124; Ernst Nolte, 1994.
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A proposito del tema della rivoluzione mondiale, osserviamo che si trattò del progetto di Lenin e T rockij che pensavano la situazione matura per la vittoria rivoluzionaria nell'Europa occi• dentale soprattutto in Germania nel giro di pochi anni. Non è questa la sede per entrare nel merito della fondatezza di quella ipotesi e delle ragioni del suo insuccesso, di fatto essa andò rapidamente incontro alla sconfitta e, ·già nell'ottobre 1923, con il fallimento dell' « ottobre tedesco», usciva definitivamente di scena. Dopo un brevissimo interludio durato meno di due anni, la prospettiva della rivoluzione mondiale venne abbando. nata dai comunisti russi - salvo che per il maldestro tentativo cinese del 1927 - e gli interessi del nuovo stato sovietico si affermarono come prevalenti e, per riflesso, l'Internazionale CO· munista e i suoi partiti divennero una appendice della politica estera sovietica. Come comprese subito Trockij, il« socialismo in un solo paese» non era la momentanea accettazione di uno stato di fatto sfavorevole, ma il definitivo abbandono della prospettiva internazionalista. Man mano, il gruppo dirigente stalinista concepì l'eventuale espansione del socialismo come la progressiva estensione della sfera di influenza sovietica. Quello che. accadde . dopo il 1946, con l'emergere di due blocchi reciprocamente demarcati, era la prosecuzione logica di quell'impostazione. Dunque, la vittoria dei vari movimenti fascisti e l'affermarsi di regimi autoritari di destra (Italia 1922, Germania 1933, Portogallo 1926-32, Spagna 1936-39) sostanzialmente segue la fine del tentativo rivoluzionario leninista e va ben oltre il limite della reazione a essi. Anche in Italia, il fascismo vinceva 'dopo la sconfitta dell'occupazione delle fabbriche e spiccava il volo, non dopo un nuovo assalto rivoluzionario, ma dopo il fallimento dello « sciopero legalitario» dell'agosto 1922. Ma, se nel caso italiano si può anche ipotizzare una sorta di movimento inerziale, per cui il fascismo giungeva al potere sullo slancio di quanto accaduto due anni prima, questo non può essere decentemente sostenuto nel caso tedesco, dove i nazisti dettero l'assalto a un regime democratico, in assenza di qualsiasi tentativo insurrezionale comunista. Semmai, in occasione del « plebiscito rosso »
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godettero dell'appoggio dei comunisti tedeschi (una macchia indelebile del Kpd sulla quale si sorvola troppo facilmente). Tanto meno la teoria di Nolte risulta idonea a spiegare il caso portoghese, dove non c'è mai stata una congiuntura rivoluzionaria (ma Nolte il Portogallo non lo prende neppure in considerazione). E, notiamo incidentalmente, il caso portoghese contraddice anche l'idea che il fascismo sorga da una contaminazione fra cultura politica nazionalista con elementi di socialismo, ché, di socialismo, nel fascismo salazarista non c'è nj:ppure l'ombra. Soprattutto l'ipotesi di Nolte non funziona nel caso spagnolo, dove il Fronte popolare (di cui facevano parte due partiti« borghesi», è bene ricordarlo) andò al potere grazie a una regolarissima vittoria elettorale e su un programma che non prevedeva alcuna « guerra di sterminio» della borghesia. La guerra civile fu scatenata da Francisco Franco su istigazione del fascismo italiano, che temeva un peggioramento della propria posizione nel Mediterraneo. Come documenta per la prima volta e molto convincentemente Morten Heiberg, 79 le origini del colpo di Stato falangista erano molto precedenti ali' assassinio di Calvo Sotelo (invocato come motivo scatenante) e addirittura alla stessa vittoria elettorale del Fronte popolare. D'altra parte, i comunisti erano del tutto minoritari nello schieramento di sinistra e videro ere. scere il loro peso proprio grazie allo scatenamento della guerra civile da parte franchista. Peraltro, essi non spinsero mai verso un esito rivoluzionario e, anzi, si impegnarono sino all'ultimo a preservare l'« alleanza antifascista» con settori della borghesia. Dunque, non sembra che la tesi di Nolte resista a una verifica storica fattuale. Ma non resiste molto neppure dal punto di vista della filologia ideologica; come documenta lo storico israeliano Zeev Sternhell,80 il fascismo trova le sue radici nella crisi ideologica a cavallo fra l'Ottocento e il Novecento, molto prima della 79
Morten Heiberg, Emperadores del Mediterraneo. Franco, Mussolini
y la guerra civil espaiiola, Editoria! Critièa, Barcelona, 2003. 80 Zeev: Sternhell, Nascita dell'ùleologia fascista, Baldini & Castoldi, Milano, 1993.
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Rivoluzione russa. D'altro canto, anche Furet mosse critiche analoghe a Nolte (nonostante i cordialissimi rapporti intrattenuti per oltre venti anni) segnalando come i fascisti non avevano alcun bisogno delll:"J. rivoluzione bolscevica per il loro dichiarato antiparlamentarismo. Infatti, il fascismo non fu solo reazione antirivoluzionaria ed ebbe caratteri primari originali. che vanno ben oltre la semplice reazione anticomunista. Peraltro, come Furet, neanche Nolte è stato del tutto originale nelle sue tesi. La riduzione del fascismo a mero movimento di opposizione al comunismo è già presente nell'elaborazione di Maurice Bardèche (ideologo del fascismo francese, cognato di Robert Brasillach) che, già nel 1962, aveva iniziato a sottolineare l'assenza di un minimo comun denominatore teorico dei vari fascismi. 81 Successivamente, in una sua opera dedicata ai fascismi sconosciuti (dalla Guardia di Ferro di Codreanu ai Lupi d'Acciaio lituani, dal movimento del norvegese Quisling alle Croci Frecciate ungheresi), 82 valutatene le rimarchevoli differenze, l'autore concludeva:
In realtà, i regimi che si chiamano fascisti sono regimi di salute pubblica che hanno preso forme differenti seguendo la forma e l'imminenza del pericolo, cioè seguendo le circostanze, e solo alcuni tra loro hanno un contenuto politico che tutti i popoli possono adattare al proprio carattere. Dovremmo dunque studiare, da una parte, le reazioni di salute pubblica attraverso le quali i popoli hanno cercato di difendere la loro libertà dal bolscevismo e, dall'altra, l'umanesimo politico sul quale si sono appoggiati in quell'occasione, ciò che costituisce propriamente il messaggio culturale che questi regimi hanno trasmesso a tutti gli uomini.
81
Maurice Bardèche, Che cosa è il fascismo?, Volpe, Roma, 1963, nuova ed. 1980. 82 Maurice Bardèche, I fascismi sconosciuti, Ciarrapico, Roma, 1969.
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U fascismo perdeva ogni suo tratto distintivo per diventare una forma militante di antibolscevismo: una operazione tesa a rimettere in gioco, a un quarto di secolo dalla sconfitta, la .destra fascista in un più ampio fronte anticomunista. 83 Dunque una operazione dichiaratamente· politica non preoccupata delle esigenze dell'analisi storica che, al contrario, segnala il carattere originario dei movimenti fascisti. E se proprio di reazione a una rivoluzione si può parlare, a proposito del fascismo, non è della Rivoluzione russa che si deve parlare, ma·di quella francese di 128 anni prima. In fondo, la definizione del fascismo come « anti '89 » è venuta dallo stesso fascismo. La stessa varietà ideologica dei diversi fascismi (debitamente documentata sia da Nolte che da Bardèche o da altri autori) 84 non depone affatto su un « minimo comun denominatore» quali « Comitati di salute pubblica», ma conferma le remote radici nazionali di ciascuno a prescindere dalla Rivoluzione di ottobre.
6. Fernand Braudel , Non intendiamo certo assimilare Fernand Braudel, il massimo esponente della seconda generazione degli Annales, al revisionismo storico o ad autori come Schmitt, von Mises o von Hayek, ma, in qualche modo, anche la sua opera è stata parte dello stesso clima culturale. È possibile che le intenzioni dell'autore non fossero queste e che, in parte, sia dipeso dall'uso fattone da parte di allievi locali troppo acquiescenti e imitatori stranieri troppo zelanti, ma ciò non cambia il risultato. Il superamento del tradizionale modello storiografico - esclu83
Lo stesso prefatore all'edizione italiana, Giorgio Lacchi, lo rimarca, Earlando di minimalismo ideologico. 4 Stuart J. Wolff, Il fascismo in Europa, Laterza, Roma-Bari, 1984; Stein Ugelvik Larsen, Bernt Hagtvet eJan Peter Myklebust (a cura di}, I fascisti, Ponte alle Grazie, Firenze, 1996; Luciano Casali, Fascismi, Clueb, Bologna, 1995.
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sivamente politico - e la proposizione di un nuovo paradigma, di· storia globale o totale, resta la maggiore acquisizione teorica della scuola degli Annales rispetto alla quale è poco utile sognare una restaurazione del « tutto politico». Anzi, è auspicabile che la storiografia si spinga sempre di più verso modelli di storia globale. Braudel ne ha dato una particolare torsione che merita di essere considerata. Come è stato rilevato, i due concetti cardine della teoria braudeliana sono quelli - connessi - di « struttura» e di « lunga durata». 85 Infatti, Braudel ha cercato di trasportare in sede storiografica la nozione di struttura che, sorta in ambito linguistico per l'opera di Ferdinand de Saussure, si era poi estesa a gran parte delle scienze umane grazie ali' opera di antropologi come Claude Lévi-Strauss, o semiotici come Louis Trolle Hjelmslev o AlgirdasJulien Greimas. In questa operazione di trasferimento concettuale, Braudel ha spesso usato il termine struttura in modo ambivalente, come scrive De Fusco: [. .. ] La sua idea di struttura sembra oscillare fra le due interpretazioni con le quali generalmente è stato accolto il concetto: quella di un'organizzazione riscontrabile nei fatti e quella di un modello interpretativo di essi. Infatti, per un verso egli identifica la struttura con la lunga durata, cioè con qualcosa che è realmente riscontrabile nella storia [. .. ] Per un altro verso, intende per struttura un modello concettuale [. ..] Braudel precisa il significato del termine « struttura » per i sociologi e per gli storici. I primi intendono per struttura un'organizzazione, una coerenza dei rapporti stabiliti tra realtà e masse sociali; per i secondi « talune strutture, vivendo a lungo diventano elementi stabili per un'infinità di generazioni [. .. ] Altre si sgretolano più facilmente, ma tutte sono al tempo stesso dei sostegni e degli ostacoli [. ..] Anche i quadri mentali sono delle prigioni di lunga durata. 86 85
Fernand Braudel, Histoire et sciences socia/es: la longue durée, in
« Annales, Économies, Sodétés, Civilisations », XIII, n. 4, 1958. Tr. it. La
storia e le altre scienze sociali, Laterza, Roma-Bari, 1974. 86 Renato De Fusco, Storia dell'idea di Storia, Edizioni Scientifiche 88
Dunque, per un verso, struttura è quel che si determina e si modifica nel lungo periodo, per un altro, essa è un modello interpretativo che trova nella « lunga durata» il suo naturale prolungamento concettuale. Braudel spiegò il suo « strutturalismo storiografico» con una immagine suggestiva: la storia evenemenziale corrisponde all'increspatura superficiale delle onde, mentre i grandi mutamenti corrispondono alle correnti del mare, ben al di sotto del pelo dell'acqua. Ed è questo alla base del suo concetto di « storia quasi immobile», subito seguito dal suo allievo Emmanuel Le Roy Ladurie che si spinge a parlare di « storia immobile» tout
court. La brillante metafora delle onde è molto efficace, ma sostenere che le azioni politiche - per loro natura ,coscienti e intenzionali sono solo un brivido d' onde, apre la porta a un marcato determinismo sociale ed economico che annulla la capacità umana di disegnare la propria storia. E anche sul punto connesso della « lunga durata» conviene fare qualche riflessione. Non c'è dubbio che Braudel abbia avuto ragione ad alzarsi sulla punta dei piedi, per spingere lo sguardo il più lontano possibile e trarre il senso dei processi strutturali. Sin qui nessun problema; ma solo se si guarda all'indietro. Se lo sguardo si spinge in avanti la prospettiva muta: in che senso si può parlate di lunga durata nel Novecento? Le Roy Ladurie, studiando il paese di Montaillou fra il 1294 e il 1324 o i contadini di Languedoc fra il XV e il XVIII secolo, ci ha dimostrato quale fosse il grado di persistenza delle strutture sociali elementari (le relazioni parentali o i rapporti di produzione), quanto fossero lenti i cambiamenti nella mentalità, nello sviluppo demografico, nei metodi di lavoro, nella cultura popolare e nei suoi usi. Ma, se esaminassimo quelle stesse aree geografiche, per un periodo compreso fra i primi del Novecento e oggi, registreremmo cambiaItaliane, Napoli, 1998, pp. 364-365. Il brano di 13raudel proviene dal citato saggio sulla lunga durata. 89
menti altrettanto lenti? Il paragone semplicemente non si porrebbe. Agli inizi del secolo scorso, il vettore più veloce non superava i 60 km/h, oggi un aereo di linea è in grado di percorrere i circa 6500 km che separano Milano da New York in meno di 9 ore, a una media di circa 700 km/h. La popolazione mondiale, in proporzione, è cresciuta molto più che nei 5 secoli precedenti e, solo nell'ultimo trentennio, si calcola che mezzo miliardo di persone si sia spostato da un'area geografica all'altra; l'aspettativa di _;'.ita media è cresciuta molto più che nel millennio precedente. La popolazione urbana, che non superava il 5 % sul totale mondiale, è oggi più della metà. I metodi di lavoro sono incomparabilmente cambiati e più volte nel giro di un secolo. Tutto questo ha modificato abitudini di vita, strutture familiari, mentalità, costumi sessuali, modelli educativi in tempi a volte inferiori a una generazione. Il cambiamento è diventato percettibile, anzi, caratteristica della mentalità di un uomo del nostro tempo è l'idea della necessarietà e positività del mutamento continuo. In questo contesto, « lunga durata» che significa? In realtà la tripartizione di Braudel - tempo breve, congiuntura e lunga durata - ha una sua precisa funzione nella società di tipo tradizionale, caratterizzata da cambiamenti molto lenti, quasi impercettibili e da una conseguente mentalità orientata a « naturalizzare» le strutture societarie, pensate come eterne e non modificabili. Ma, man mano che si sviluppa la rottura della modernità, questa impostazione perde di efficacia esplicativa. Anche la struttura ha un suo inizio, un suo svolgimento e una sua fine. In una parola: una sua storia. E la storia è sempre scandita dagli avvenimenti. Essa può essere anche molto lenta, ma non è mai immobile e procede per soluzioni di continuità (tecnicamente: catastrofi). De Fusco segnala utilmente le contraddizioni in cui cade Krzysztof Pomian recensendo La Mediterranée di Braudel87 a 87
Fernand Braudel, Civiltà ed imperi del Mediterraneo nel!'età di Filippo II, Einaudi, Torino, 1953.
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proposito della battaglia di Lepanto che assume come« avvenimento unico» che, in quanto tale, non ha spiegazioni ed è solo constatabile:
[. .. ] la conclusione del brano contraddice l'inizio: gli avvenimenti sono sempre suscettibili di spiegazione, come dimostra tutta la trattazione del libro di BraudeL O La Mediterranée è indagine complessiva di tutto quanto caratterizzò la vicenda storica al tempo di Filippo II e la battaglia d,i Lepanto non rappresenta che un epifenomeno di quella ~icenda, oppure costituisce un evento tanto importante da ricondurre tutto il resto, almeno quella parte del libro che narra della battaglia, a una sua contestualizzazione; né è da escludere, nella maggioranza dei casi, che si possa in pari tempo descrivere un quadro storico e valorizzare uno o più eventi particolari. Comunque una storiografia che escluda ogni sorta di avvenimento [. .. ] è impossibile e rischia di essere un'indagine senza oggetto.ss Il problema è capire sino a che punto le catastrofi sono provocabili dal soggetto e sino a che punto ciò possa avvenire in forme coscienti e dirette. E, infatti, questo è, a nostro avviso, il punto debole del paradigma di Braudel: l'impossibilità di risolvere soddisfacentemente il rapporto fra storia evenemenziale e lunga durata, perché, immaginando l'azione politica deliberata come l'onda di superficie, esclude la possibilità che la struttura possa modificarsi a seguito di avvenimenti particolarmente rilevanti. E questo è il caso, in particolare, delle grandi rivoluzioni che, infatti, non sono molto presenti nell'analisi storiografica braudeliana, al contrario di quanto avvenne con la prima generazione degli Annales che alla Riforma protestante e alla Rivoluzione francese dedicò molta attenzione, pur rivisitandole con ottica nuova. È questo il tacito ma significativo punto di convergenza fra la 88
Renato De Fusco, op. cit., pp . .36.3-.364. 91
storiografia di Braudel e la polemica di un von Mises o un von Hayek contro l'ingegneria sociale. Lo sbocco di queste prç'.messe non può che essere una sostanziale depoliticizzazione della storia e una parallela esaltazione dei processi economici - ovviamente determinati dall'azione impersonale del mercato - come unico vettore di mutamento reale. È stato questo il contributo - forse involontario - di Braudel al vento culturale di cui diciamo.
7. Alcune considerazioni di insieme sul revisionismo storico Tirando le fila del nostro ragionamento, possiamo trarre qualche indicazione generale, ripartendo da quella « controrivoluzione culturale» iniziata nella seconda metà degli anni Settanta. Il clima politico era cambiato per la decadenza del modello sovietico, per. il manifestarsi della crisi fiscale dello Stato nei paesi del wel/are, per l'esaurirsi della « stagione dei movimenti», per il deludente esito della stagione postcoloniale e per altro ancora. Ed era cambiato anche per l'esaurirsi del canone storiografico progressista.. Non si trattava solo del crollo dell'ottimismo storicista, ma di una più generale eclissi dell'idea di progresso man mano che si faceva chiara la percezione dei limiti alla crescita. Il revisionismo storico è stato il prodotto di tutto questo ed è stato uno dei cardini dell'ideologia neoliberista. Su questo punto, non possiamo che dirci d'accordo con Losurdo. 89 E questa operazione ideologica ha avuto due perni: svincolare l'idea di libertà da quella di eguaglianza e depurare chirurgicamente la modernità dal principio rivoluzionario. Il sugo ristretto dell'ideologia liberista è l'individualismo proprietario, tutto il resto è non necessario contorno, e l'individua89
Domenico Losurdo, op. cit. Mentre non concordiamo con lo stesso autore sull'identificazione di questi autori come liberali, per le ragioni di cui diremo fra breve.
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lismo proprietario è scarsamente compatibile con il principio di eguaglianza, senza il quale non e'è democrazia possibile. Non a caso gli strali del revisionismo si sono indirizzati contro la Rivoluzione francese, il cui peccato maggiore (sulla scorta di Burke) non è stato tanto l'eccesso sanguinario, quanto il suo carattere democratico. Non c'è dubbio eh~ la Rivoluzione francese prima e quella russa dopo hanno avuto tassi di violenza non necessari e furori ideologici devastanti, ma la critica a questi aspetti è spesso il paravento della critica al prindpio democratico, attraverso il nesso fra irruzione popolare sulla scena e affermazione del terrore (come leggiamo in Furet). Il riferimento alla tradizione del liberalismo inglese più distante dalla tradizione democratica ha questa valenza e, infatti, il momento più esaltato del suo ciclo è quello del 1689, non certo il periodo cromwelliano. E, dato che il principio democratico si è affermato per via rivoluzionaria, questo porta a quel tentativo di cui dicevamo - di sradicare la rivoluzione dalla modernità. Ma la modernità, piaccia o no, nasce da rivoluzioni: non solo quella francese, ma anche quella americana e inglese (che non furono affatto incruente) e, prima ancora, quella olandese del 1572 della quale, chissà perché, non si ricorda mai nessuno, ma che è la prima rivoluzione dell'Europa moderna. peraltro, la stessa Riforma protestante può essere letta come l'avvio dei processi rivoluzionari moderni: lo splendido libro di Hugh Trevor Roper90 Protestantesimo e trasformazione sociale illustra nel modo più convincente la diretta discendenza dell'illuminismo dalla Riforma protestante. Persino da un punto di vista simbolico, il rapporto fra Riforma e movimenti rivoluzionari successivi è palese: la bandiera rossa, assunta come emblema dei movimenti 90
Hugh Trevor-Roper, Protestantesimo e trasformazione sodale, La-· terza, Roma-Bari, 1975. Trevor-Roper fu uno dei più brillanti storici europei a cavallo fra gli anni Cinquanta e Settanta, prima di essere tra~ volto dall'infausta vicenda dei falsi diari di Hitler, a seguito della quale non pubblicò più nulla.
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socialisti cli tutto il mondo, fu fatta propria, per la prima volta, dagli anabattisti di Thomas Muntzer. Dunque, risaliamo alle origini della modernità che nacque come momento di rottura della società tradizionale e non come graduale evoluzione di essa. Anzi, a volerla dire tutta, modernità e rottura rivoluzionaria coincidono in quanto soluzione cli continuità (catastrofe, appunto) dell'ordine tradizionale. Come dicevamo a proposito cli Braudel, « lunga durata» e « struttura» assumono significati diversi nelle società tradizionali rispetto a quelle moderne sorte da rivoluzioni, perché la. rivoluzione è, appunto, il tentativo di modificare la struttura sociale come atto cosciente e volontario e non come esito di lungo periodo, indipendente dalla volontà dell'uomo. L'ingegneria sodale è iscritta nel codice genetico della società moderna e trova nei processi rivoluzionari il suo momento di maggiore intensità. Queste considerazioni ci portano a un ulteriore punto. Il sue- • cesso del revisionismo storico cli Furet e Nolte (come le teorie di von Mises e van Hayek) sono presentate normalmente come la riscossa cli un canone storiografico liberale contro lo strapotere del canone storiografico marxista o giacobino. Ma questa collocazione «liberale» del fenomeno revisionista non è affatto convincente e ha più a che fare con l' autorappresentazione dei suoi autori che con la loro oggettiva collocazione nello spazio politico-ideologico. A ben vedere, von Mises, von Hayek, Nolte e anche lo stesso Furet (mentre terremmo fuori da questo gruppo De Felice che fa parte per sé) si collocano a destra . di Cesare Beccatia,91 di Voltaire, di Hermann Schulze-Delitzsch, cli Bertrando Spaventa, di Benedetto Croce, per non dire cli Max Weber. 92 I richiami a Burke, Taine, Donoso Cortés, Cochin, le 91
Che definì la propri~tà privata « terribile e forse non necessario·· diritto»: quel che suonerebbe come una bestemmia alle orecchie di Burke, di von Mises o di von Hayek. 92 Per convincersene basti rileggersi Guido De Ruggiero, Storia de liberalismo europeo, Laterza, Roma-Bari, 2003.
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parentele ideologiche con Schmitt o Heidegger, e i contenuti della loro critica alla modernità, li collocano, semmai, in uno spazio più prossimo a quello della Konzervative Revolution e, più in generale, a quello della« tradizione». In realtà, questa definizione dei revisionisti come liberali si basa su una indebita assimilazione fra liberismo e liberalismo: ma, come lo stesso Croce ci ha avvertiti, non tutti i liberali sono liberisti. E non tutti i liberisti sono liberali, come ci ha dimostrato il generale Augusto Pinochet. 1 ,
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TERZO CAPITOLO LA TRIBUNALIZZAZIONE DELLA STORIA
L L'ombra lunga di Auschwitz La premessa storica di Norimberga risale alla fine della Prima guerra mondiale, quando il presidente americano Wilson propose di processare il Kaiser per « suprema offesa contro la moralità internazionale e la santità dei trattati», cercando di giungere alla identificazione di un particolare reato, quale quello di « guerra di aggressione» di cui rispondere davanti alla comunità internazionale. Ovviamente un simile capo di accusa, come rileva Danilo Zolo, aveva carattere agiuridico. 93 Sulla scorta di questo primo tentativo, qualche anno più tardi, venne fatto un ulteriore tentativo, nella Società delle Nazioni, di istituire una Corte penale internazionale per casi del genere, ma per la prima realizzazione effettiva, occorrerà attendere la fine della Seconda guerra mondiale. Per la prima volta, a Norimberga, l'intero gruppo dirigente politico e militare di un paese veniva chiamato a rispondere in sede penale, davanti a una Corte internazionale, del suo operato. Emergeva, così, una fattispecie penale sino ad allora sconosciuta, il «genocidio». Ma questo ebbe anche altre ricadute di carattere sia giuridico che politico e culturale. Prima non era mai accaduto che un tribunale accettasse come prove dei filmati o delle foto. La requisitoria finale del procuratore Robert Houghwout Jackson fu tutta costruita con rigoroso metodo storico, non solo 93
Danilo Zolo, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 24.
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per l'ovvia successione cronologica degli avvenimenti esposti, rna. soprattutto per l'inquadramento generale e l'uso di categorie propriamente storiche inconsuete nella giurisdizione penale. Norimberga cambiò il modo di fare giustizia penale, ma forse, e ancor più, cambiò il modo di fare storia, determinandone una sorta di « tribunalizzazione »; il « paradigma di Norimberga» (che ebbe un pendant meno celebre a T okio) stabiliva « un legame pericolosamente solido fra giudizio storico e giudizio penale». 94 Sulla scia di quel processo, altri se ne svolsero nei paesi che avevano subito l'occupazione nazista - soprattutto in Polonia ma fu in Israele che questa tendenza si sviluppò, culminando nel processo ad Aldolf Eichmann, rapito in Argentina e tradotto a Tel Aviv per rispondere delle sue responsabilità nello sterminio degli ebrei. Quel processo raddoppiò il paradigma di Norimberga, amplificandolo grazie all'impatto della televisione - che nel frattempo era nata in Europa. Per comprendere l'impatto culturale di quel processo, basti leggere gli articoli che vi dedicò Hanna Arendt, poi raccolti in volume. 95 . Immediatamente dopo l'esecuzione di Eichmann (avvenuta il 31 maggio 1962) si apriva a Francoforte il processo a Rudolf Hoss, comandante di Auschwitz-Birkenau, il primo di altri che si estenderanno a suoi subalterni. Questo segnò un nuovo passaggio: infatti, questa volta i giudici erano connazionali degli imputati, quel che, al di là dell'aspetto giuridico, muoveva profonde emozioni nell'opinione pubblica. Infatti, non si trattava di una « vendetta dei vincitori» ma di un giudizio della Germania su se stessa. Molto più di un processo penale: una catarsi antropologica che doveva segnare la rottura netta della nuova Germania con il suo passato. I difensori cercarono di scriminare il comportamento dei loro assistiti, sostenendo che avevano solo 94
Odo Marquard, Alberto Melloni, La storia che giudica, la storia che assolve, Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 13. 95 Hanna Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano; 1964. 98
eseguito ordini e, anche quando si erano resi responsabili di delitti che nessuno aveva ordinato, questo era da comprendere come il frutto del « plagio » ideologico del regime. Il processo si concluse con sei ergastoli e pesanti pene detentive per gli imputati minori (in Germania la pena capitale era stata abolita). Ancora una volta, quella sentenza ebbe conseguenze politiche e culturali di grande rilievo: il tribunale aveva rigettato la richiesta della difesa di considerare come scriminante, o anche solo attenuante, l'aver eseguito ordini. Ne scaturiva un I dibattito sul dovere morale di resistere a ordini ingiusti: la premessa che porterà, nel giro di alcuni anni, ali' approvazione delle leggi sull'obiezione di coscienza. I processi tedeschi videro, per la prima volta, alcuni importanti storici in veste di periti (Hans Buchheim, Helmut Krausnick, Martin Broszat, Hans-Adolf Jacobsen) e non per integrare la base documentale a supporto dell'accusa, ma per fornire categorie interpretative propriamente storiografiche nel tentativo di avvicinare verità storica e verità processuale, risolvendo l'una nell'altra. Veniva così formandosi un canone storico, intorno alla Shoa, supportato, da un lato, da un corpus giurisprudenziale, dall'altro da clamorosi gesti politici come quello compiuto dal cancelliere Willy Brandt che il 7 dicembre 1970 riconobbe solennemente le colpe della Germania per la Shoa, inginocchiandosi sul memoriale del ghetto di Varsavia. E la tendenza si approfondì con il sopraggiungere dei processi francesi una ventina di anni dopo. Nel 1981 «Le Canard enchainé» pubblicò le prove della corresponsabilità di Maurice Papon nella deportazione degli ebrei francesi durante il regime &Vichy. La cosa era tanto più grave, in quanto Papon era un uomo politico di primo piano (era stato ministro del Bilancio sino a pochissimo tempo prima). Il lunghissimo processo che ne seguì ebbe termine nel 1998 con la condanna dell'imputato. La vicenda si intrecciò con il processo al « boia di Lione», Klaus Barbie, estradato nel 1983 dalla Bolivia e parimenti condannato a una pesante pena detentiva nel 1987.
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Più particolare fu l'affaire Touvier, esploso nel 1971, quando le associazioni della Resistenza protestarono molto duramente contro il presidente Georges Pompidou che intendeva concedere la grazia a Paul Touvier, miliziano di Vichy che, oltre che nelle retate _di ebrei, si era distinto nella lotta antipartigiana. A lungo · egli riuscì a sottrarsi alla cattura grazie alle protezioni ecclesiastiche. Nel 1989 venne catturato presso il priorato di Saint François a Nizza. Processato, cinque anni dopo verrà condannato ali' ergastolo. I tre a/faires giudiziari obbligarono la Francia a misurarsi sulla questione di Vichy, sino a quel punto sostanzialmente rimossa. La repubblica francese aveva sempre disconosciuto ogni conti nuità con il regime pétainista, ritenendo la questione chiusa con. il processo che aveva portato alla condanna a morte di Pierre • Laval e del generale Philippe Pétain (ma nel secondo caso la pena venne commutata nell'ergastolo). Sulla base di queste considerazioni, sia il presidente Pompiclou che il suo successore Franç:ois Mitterrand rifiutarono costantemente ogni riconoscimento di responsabilità della Francia, in quanto tale, nello sterminio degli ebrei. Ma le emergenze dei tre casi citati resero sempre meno sostenibile questa posizione. Anzi, si iniziò a polemizzare sul passato politico dello stesso presidente Mitterrand. Egli, infatti, aveva fatto parte dell'Osam96 cosa che l'interessato ammise - ma, per di più, aveva collaborato con il regime di Vichy. Il presidente - sostenuto da .diversi esponenti delle associazioni partigiane - sostenne di essere passato alla Resistenza sin dalla fine del 1941 e di aver mantenuto il suo incarico nell'amministrazione collaborazionista solo su indicazione della Resistenza. I processi francesi iniziarono a far emergere un problema imprevisto: il rapporto fra verità storica e verità processuale e su due versanti: sino a che punto lo storico è vincolato dalla 0
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Il gruppo di estrema destra, meglio noto come la Cagou!e, che compì vari delitti fra cui l'assassinio dei fratelli Rosselli. 100
decisione dei giudici e se sia deontologicamente accettabile il suo coinvolgimento in una istruttoria penale. Infatti; lo storico Henry Rousso (che se ne era a lungo occupato) pubblicò una serie di articoli sulle responsabilità francesi nella persecuzione degli ebrei e della loro successiva rimozione. I magistrati inquirenti, pertanto, sollecitarono una consulenza a Rousso che, successivamente, si dirà deluso dalla sentenza per la distanza fra i suoi contenuti e gli esiti della sua expertise, manifestando qualche pentimento per la sua partecipazione. 97 Altri storici fecero scelte diverse, come Pierre Vidal-Naquet che, pure in prima linea nella lotta contro i negazionisti, rifiutò la sua opera come perito giudiziario. Infatti il celebre storico francese ritenne che il quadro dell'inchiesta penale non si addice allo storico, che si troverebbe coinvolto nella decisione sulla libertà di un uomo, quel che creerebbe una costrizione morale incompatibile con la libertà della ricerca scientifica. Ci torneremo.
2. La grande colpa del Novecento Questo lungo sviluppo giudiziario è stato il riflesso dei più generali processi culturali e politici cui facevamo cenno poco prima. Intorno alla vicenda della Shoa si sono avviluppati comprensibile sdegno morale e interessi politici non sempre nobilissimi, sino a creare un nodo di torti e di ragioni, resi ancor più inestricabili dall'inevitabile partecipazione emotiva che il tema impone: e tuttavia lo storico deve cercare di distinguere una cosa dall'altra. Che lo sterminio degli ebrei operato dal regime nazista sia stato un crimine esecrabile è cosa che non può essere discussa, ma giudizio morale e analisi storica non devono essere confusi, anche se fra le due cose può darsi una forzata convivenza. Chiariamo il punto. La ricerca storica deve ricostruire le vicende del 97
Odo Marquard, Alberto Melloni, op. cit:, p. 26.
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passato, indagarne le cause e individuare il loro lascito e la loro influenza sul presente e questo a prescindere dal giudizio morale che si possa avere su di esse. Lo storico, nelle sue analisi, deve prescindere dai giudizi di valore, ma, essendo pur sempre un essere umano che scrive di vicende di esseri umani, e in considerazione della inevitabile ricaduta politica delle sue affermazioni, non può tradurre questo in indifferenza morale e, dunque, è chiamato a schierarsi. Due obblighi contrastanti fra loro, quello dell' avalutatività scientifica e quello della non neutralità morale, che convivono in un difficilè equilibrio che richiede, in primo luogo, una netta separazione delle due cose. Quel che, invece, è molto arduo nella vicenda della Shoa, dove spesso la pur giustificatissima indignazione morale invade il campo dell'analisi e vi si sovrappone. Entriamo nel merito. . La lettura prevalente dello sterminio ebraico è quella basata sul caposaldo dell'unicum: una vicenda unica e irripetibile che esige giudizi e conseguenze (politiche, culturali, giuridiche) altrettanto uniche. Ma che fondamento ha la teoria dell'unicum e a che esigenze risponde? Per decidere se davvero la Shoa sia stata o meno un evento unico ed eccezionalissimo occorre preliminarmente stabilire dei criteri di comparazione come, ad esempio, le dimensioni quantitative del massacro, i suoi scopi particolarmente ripugnanti (l'estinzione di un genus), l'efferatezza delle sue pratiche, le sue modalità di pianificazione scientifica di uno sterminio di massa ecc. Iniziamo dal numero dei morti. Ancora oggi è difficile valutare quale sia stato il numero di morti provocato dal colonialismo europeo: c'è chi parla di 200 milioni, considerando Americhe (sia nord che sud), Africa e Asia dal XVI al XIX sècolo, ma un simile termine di paragone appare poco calzante sia perché compara una vicenda concentrata in pochi anni e prodotta dall' azione di un singolo stato con la sommatoria delle azioni di diversi stati e soggetti privati diluiti in quattro secoli. Ma se comparassimo anche solo l'azione del colonialismo inglese durante la con102
quista dell'India, o quella del Belgio in Congo avremmo numeri non troppo distanti. Anche qui le stime sono assai variabili, ma alcuni fanno ammontare a 10 milioni in 23 anni le vittime della guerra colonizzatrice promossa da Leopoldo II del Belgio, per restare solo al Congo. Andando più indietro nel tempo, troveremmo massacri comparabili (tenendo conto della popolazione totale) per quanto riguarda gli irlandesi nel XVII e XVIII secolo, i pellirosse d'America nel XIX secolo, e altri ancora. Mentre nel XX secolo non possiamo dimenticare il massaçro di 2 milioni di armeni perpetrato dai turchi durante la Prima guerra mondiale. Ovviamente, non avrebbe alcun senso, ai fini della «unicità» dell'evento, discettare se gli ebrei trucidati nei lager siano stati un milione in più o in meno dei congolesi, degli irlandesi o dei pellirosse. Dunque, dal punto di vista del numero non si può parlare di un unicum, né la cosa cambia se passiamo alla natura del fenomeno, cioè il tentativo di sopprimere un popolo. Peraltro, i nazisti non riservarono le loro pratiche di sterminio ai soli ebrei ma vi assodarono anche zingari e slavi. Peraltro, anche i pellirosse, gli irlandesi, gli armeni o, più recentemente, i bosniaci o gli hutu rwandesi sono stati massacrati in quanto tali e in molti di questi casi le intenzioni genocidiarie sono talmente trasparenti da non meritare alcuna particolare illustrazione. Nel caso della Spagna franchista la pratica della « limpz'eza >> ebbe i caratteri di una « pulizia etnica» in chiave ideologica con le sue centinaia di migliaia di fucilati dopo la fine della guerra civile. Peraltro, la pratica dello sterminio non è stata riservata solo a gruppi etnici: i nazisti concentrarono anche testimoni di Geova e omosessuali, oltre, ovviamente, agli oppositori politici, per non dire del trattamento riservato agli individui con gravi malformazioni. A questo proposito è interessante fare una breve digressione sull'obiezione posta da Losurdo a Nolte che, come si è detto, assimila lo « sterminio di classe» praticato dai bolscevichi a quello su base etnica che ha caratterizzato i nazisti. Losurdo individua la principale causa efficiente dei massacri politici (fasi 103
di terrore postrivoluzionario o controrivoluzionario, genocidi, pulizia etnica ecc.) nel principio di despecificazione per cui il nemico è «espulso» dalla comunità umana e, pertanto, privato dello stesso diritto a vivere o al rispetto come simile. Ma egli distingue fra due diverse forme di despecificazione: quella morale (per la quale il nemico è il barbaro, il criminale) e quella naturale (per cui il nemico non è più nemmeno uomo, ma bestia, subumano, razza inferiore). 98 Non c'è dubbio che la seconda forma di despecificazione collochi il nemico a un rango inferiore e spinga a pratiche ancor più crudeli e disumanizzanti, ma ai fini pratici questo aggiunge poco, dato che, oltre a privare una persona della sua dignità e della vita, queste pratiche sono presenti sia nel primo caso che nel secondo. La despecificazione su base naturale è indice di una maggiore abiezione morale di chi la sostiene, ma dal punto di vista delle pratiche effettive aggiunge poco. E, dunque, dal punto di vista della critica storica, che non coincide con il giudizio sulla qualità morale degli individui e dei gruppi umani studiati, ma deve dare conto degli avvenimenti, delle loro cause e dei loro effetti, cosa cambia se la vittima è tale solo perché ebreo, kulak, cristiano, omosessuale, testimone di Geova o persona· con gravi patologie? In tutti questi casi abbiamo persone private della libertà, della dignità e della vita non per quello che fanno, ·ma per quello che sono. Dunque, anche da questo punto di vista non appare motivata la definizione della Shoa come unicum. Più raffinatamente, alcuni tentano la strada delle differenti modalità. Non tanto in ordine all'efferatezza delle torture ·(la storia dell'umanità ha un repertorio pressoché infinito da vantare, per cui non proveremo neppure ad addentrarci in questa comparazione di macellerie) quanto per l'applicazione di modelli burocratico-razionali e per l'organizzazione scientifica della macchina omicidiaria (la questione delle camere a gas). Questo aspet98
Domenico Losurdo,
1
op. cit., pp. 63 sgg. 104
to effettivamente presenta caratteri di sistematicità abbastanza originali rispetto ai casi considerati di irlandesi, pellirosse, armeni, bosniaci o hutu. L'unica cosa che, per vastità e sistematicità, può assomigliare all'universo concentrazionario dei lager è l' « arcipelago gulag» staliniano, ma esso, pur sempre con valori quantitativi diversi sia dal pùnto di vista della popolazione detenuta che da quello dei morti, non presenta caratteri specificamente genocidiari, non è pensato come sistema di sterminio di massa e - di conseguenza - non ha il livellp di « perfezione . amministrativa» del primo. Ma, pur dimostrando che questo aspetto possa rappresentare una originalità del fenomeno concentrazionario nazista, cosa ne ricaviamo? In effetti, qualsiasi processo storico, per definizione, è unico e irripetibile, per cui, v:olendo, un qualche aspetto che lo distingua da qualsiasi altro lo si trova sempre, ma, detto questo, cosa ne deriva? Forse che la « limpieza » del generale Francisco Bahamonde Franco è stata meno orribile per essere stata un po' più disorganizzata della teutonica precisione dei lager? E se al posto delle camere a gas, i nazisti avessero abbattuto i loro prigionieri legandoli alle bocche dei cannoni, come facevano gli inglesi con gli insorti indiani, cosa ci cambierebbe? Dunque, il dogma dell'unicum non regge a una analisi storica comparata condotta con il rigore scientifico necessario. Ovviamente, questo non significa affatto attenuare la condanna del nazismo. Anzi, la pratica di enfatizzare la pagina dell'Olocausto (o, più còrrettamente, degli Olocausti) finisce spesso per avere l'effetto paradossale di ridurre i crimini nazisti solo a essa, coprendo tutti gli altri. Anche se l'atroce pagina della Shoa non fosse stata scritta, ci sarebbero ugualmente molte ottime ragioni per sostenere la condanna più dura e irrevocabile del fascismo e del nazismo. E, d'altra parte, a cosa servirebbe questa sorta di macabra hit parade degli orrori della storia? Quando pure assegnassimo al1' unanimità il titolo di « Mister Ignominia» fra Hitler, Stalin,
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Leopoldo II del Belgio, Pol Pot, Pinochet, Crasso99 o il conte Vlad III 100 ecc., cosa ce ne faremmo? Questo affinerebbe il nostro giudizio storico e le nostre capacità previsionali? È evidente che la tesi dell'unicum non risponde a nessuna esigenza storiografica, ma a esigenze politiche peraltro diverse fra loro e legate da una momentanea convergenza, in totale eterogenesi dei fini. Questa tesi era funzionale in primo luogo al costituendo stato di Israele come mito fondativo e come principale fonte di legittimazione internazionale. Beninteso: gli ebrei avevano tutte le ragioni di volersi costituire in stato-nazione ed è comprensibile che l'orribile vicenda di cui erano stati involontari protagonisti fu una molla formidabile per l'emigrazione verso la Palestina. Tuttavia la questione ebraica non l'ha inventata Hitler, ma il cristianesimo (e la Chiesa cattolica in particolare). Da sant'Ambrogio a Lutero, tutti, quasi, i maggiori pensatori cristiani hanno portato il loro contributo all' antigiudaismo e, sino a mezzo secolo fa, l'anatema contro i « perfidi giudei» era parte della liturgia della Settimana Santa. E, infatti, .il disegno del « focolare ebraico» risale a Theodor Herzl - dunque a ben prima della comparsa di Hitler - e l'immigrazione in Palestina dei coloni ebrei era iniziata già nei primi anni del Novecento. · Si capisce quindi che la teoria dell'unicum trovasse sostenitori convinti anche fra cattolici, protestanti ecc. che, così, avevano modo di nascondere un po' di passato imbarazzante: i lager andavano benissimo per rimpicciolire comparativamente ghetti e pogrom. Anche le componenti liberali avevano qualche peccato minore da far dimenticare (come i pasticci combinati da Arthur James
o
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Che represse la rivolta degli schiavi (73-71 a.C.) facendone crocifiggere 6000 sulla via Appia. 100 Meglio noto con il nome di « Dracula »: usava impalare i suoi nemici e, per evitare che la morte sopraggiungesse troppo presto, faceva usare pali con la punta arrotondata e unti di grasso, così che l'agonia potesse durare anche molte ore e talvolta un paio di giorni.
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Balfour). Peraltro, i partiti liberali e conservatori o cattolici dovevano far digerire al loro elettorato anticomunista l'alleanza con l'Urss. E, pertanto, la vicenda olocaustica si prestava a giustificare quella scelta eccezionale, proprio per la sua straordinarietà, così come essa tornava utile ai democratici americani per far accettare, a una opinione pubblica con forti venature isolazioniste, il coinvolgimento sul fronte europeo e i costi che ne erano derivati. Inoltre, la teoria dell'unicum era funzionale anche all'Urss e ai Partiti comunisti a essa collegati, perché permetteva un doppio risultato. Da un lato questo forniva un argomento a sostegno della politica di unità antifascista, tanto sul piano internazionale quanto su quello interno dei vari paesi non socialisti. Dall'altro, il tema dello sterminio ebraico permetteva di inficiare tutti i discorsi sui due totalitarismi (quello nazista e quello staliniano), perché, in effetti, questo era il punto di più evidente differenza fra i due regimi. Ancora molto recentemente, un autorevole intellettuale comunista respingeva l'assimilazione del regime cambogiano degli Khmer rossi al nazismo, sostenendo che la differenza stava nella vicenda dell'Olocausto che è un unicum. 101 Peraltro, cosa non secondaria, l'Urss era favorevole alla nascita di Israele (fu il primo paese a riconoscere il nuovo stato) anche e soprattutto perché si riprometteva, attraverso esso, un indebolimento della tradizionale influenza inglese nell'area del Medio Oriente. Dunque, una serie di interessi politici, anche contrastanti, confluiva nel sostenere l'unicità della Shoa. Beninteso: questo non significa che si trattasse solo di interessi inconfessabili o di invenzioni (come la propaganda negazionista sosterrà più tardi). In fondo, anche se la teoria dell'unicum è una forzatura, lo sterminio ebraico è pur sempre una delle più grandi tragedie della storia. E se oggi, a sessant'anni dal fatto, possiamo contestualizzarla storicamente (che non significa affatto sminuirne la portata 101
Luciano Canfora, « Corriere della Sera», 31 ottobre 2007, p. 44. 107
e il significato, ma solo tentare una analisi il più possibile oggettiva), è poco realistico pensare che un tale atteggiamento potesse affermarsi nell'immediatezza del fatto. Qui ci interessa comprendere quali siano state le conseguenze della cristallizzazione di questa lettura della Shoa sull'evoluzione della ricerca storica, ai fini del ragionamento che andiamo svolgendo. La prima e più evidente - conseguenza è stata quella di essersi affermata come il momento focale della storia del secolo: · se la Seconda guerra mondiale è il punto centrale della vicenda novecentesca, la Shoa si è affermata come il nucleo tematico più forte della guerra, la sua principale giustificazione, il suo lascito durevole più rilevante. La Shoa è la grande colpa del Novecento e la principale lente attraverso cui leggerlo. · La seconda conseguenza è il contributo indiretto che questa vulgata ha dato al fenomeno di cui ci occupiamo: l'abuso pubblico della storia.
3. Il negazionismo Già subito dopo la fine della guerra, alcuni autori americani (Francis Parker Yockey, Harry Elmer Barnes, cui succederà negli anni Sessanta David Hoggan e Austin J. App) iniziavano a sostenere che l'Olocausto non era mai avvenuto e che Norimberga era solo il prodotto di una gigantesca montatura degli ebrei. 102 Trattandosi di personaggi notoriamente simpatizzanti dei nazisti, le loro tesi ebbero un effetto circoscritto agli ambienti dell'estrema destra americana. Contemporaneamente, in Francia lo stesso orientamento era 102
Valentina Pisanty, I negazionismi, in Marina Cattaruzza, Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Enzo Traverso, Storia della Shoa, Utet, Torino, 2006, vol. II, pp. 331 sgg. 108
manifestato da Maurice Bardèche (il cognato di Robert Brasillach, del quale si è già detto) cui si aggiungeva poco dopo Paul Rassinier, un ex militante socialista già deportato a Dora Mittelbau e Buchenwald. Ovviamente, la testimonianza di Rassinier (uno dei cui libri sarà ripubblicato negli anni Settanta dalla casa editrice di estrema sinistra La Vieille Taupe di Pierre Guillaume) dava particolare peso alla polemica, proprio perché proveniente da un uomo di sinistra reduce dai lager. Inizialmente, la polemica di Rassinier aveva un taglio prevalentemente1anticomunista e puntava essenzialmente ad attribuire a Stalin Ìa responsabilità dello scoppio della· guerra, mentre il ridimensionamento dello sterminio nazista era sullo sfondo. Man mano che la polemica si sviluppava, il tema antiolocaustico diveniva centrale, con affermazioni sempre più nette, sino all'aperto negazionismo. Verso la metà degli anni Settanta comparve sulla scena Paul Faurisson, docente di Letteratura francese a Lione, che iniziava la sua campagna sostenendo che i diari di Anna Frank erano un falso di molto posteriore. L'affermazione, abbastanza forte, venne ripresa dalla stampa. Nella polemica che ne seguiva, il professore (subito sostenuto da Bardèche) si spingeva oltre, mettendo via via in discussione la stessa verità storica dell'Olocausto. Faurisson riceveva poi un insperato regalo dalla sua università che lo sospendeva dall'insegnamento: nasceva in questo modo il « caso Faurisson » subito moltiplicato dalla macchina mediatica. Poco dopo, nel febbraio 1979, Faurisson veniva citato in giudizio per aver manipolato alcune testimonianze (come quella del medico di Auschwitz) per sostenere le sue tesi. Vi si aggiungeva una ·dichiarazione di trentaquattro storici che lo accusavano di « oltraggiare la verità». Nella polemica interveniva anche Noam Chomsky, che protestava contro le censure nei confronti di Faurisson, pur non entrando minimamente nel merito della questione, ma solo in omaggio al principio della libertà di espressione del proprio pensiero. Faurisson non è uno storico e delle sue disinvolture metodologiche diremo fra breve, ma riveste una particolare importanza 109
nella storia della letteratura negazionista, perché costituirà il punto di contatto fra il negazionismo francese e quello degli Usa dove l'Institute for Historical Review organizzava (estate 1979) il primo incontro mondiale dei negazionisti, introdotto, appunto, dall'ex professore di Lione. Nel frattempo, si aggiungeva alla compagnia un altro autore: David Irving, figlio di un alto ufficiale della Marina britannica e autore di numerosissimi studi sulla Seconda guerra mondiale che, nel 1977, pubblicò Hùler's War. 103 Sulla base di una quantità di documenti inediti (ottenuti da reduci nazisti), egli proponeva una sostanziale riabilitazione di Hitler, attribuendo la responsabilità del conflitto agli Alleati e in particolare a Winston Churchill. Anche l'aggressione all'U rss del 1941 trovava una sua giustificazione come « guerra preventiva» nei confronti di una probabile aggressione sovietica. A proposito dello sterminio ebraico, Irving non lo negava ancora, ma sosteneva che esso sarebbe avvenuto all'insaputa cli Hitler volutamente tenuto all'oscuro da Himmler e Heydrich fino alla fine del 1943. Alcuni storici, comeJohn Keegan o Hugh Trevor-Roper, ac- • colsero favorevolmente questa rilettura della guerra, ma molti altri (fra cui Walter Laqueur, Martin Broszat, Lucy Dawidowicz,. Gerard Fleming, Charles W. Sydnor ed Eberhard Jackel, Gitta Sereny) pur dando atto della notevole ricerca documentale, criticarono aspramente il lavoro di Irving per l'infondatezza delle tesi espresse. Nel 1988 Irving pubblicava una nuova edizione de La guerra di Hitler dove iniziava a sostenere apertamente tesi negazioniste. Nel 1996, Deborah Lipstadt pubblicò presso la Penguirt Books Negare l'olocausto: il crescente assalto alla verità e alla memoria che conteneva un duro attacco ai lavori di Irving, accu- ·. sato di essere un « pericoloso rinnegatore dell'Olocausto», ace, cusa alla quale l'interessato rispose con una citazione in giudizio 103
La guerra di Hitler, Settimo Sigillo, Roma, 2001.
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per i danni alla sua fama accademica. Il processo si trasformò ben preso in una sorta di « giudizio di revisione» postumo di Norimberga, riaprendo la discussione sulla questione dell'intento sterminatore del nazismo, sull'esistenza delle camere a gas ecc. nel tentativo .di ottenere una pronuncia favorevole che avvalorasse le tesi negazioniste. Ma il processo si concluse con un risultato opposto: la sentenza definiva Irving un « attivo negatore dell'Olocausto [. .. ] associato con degli estremisti di destra che promuovono il neonazismo» e che egli aveva «,per le sue ragioni · ideologiche continuativamente e deliberatamente manipolato e alterato l'evidenza storica». Nel frattempo lo storico inglese iniziava a collezionare un discreto numero di denunce in diversi paesi europei a causa della sua partecipazione a convegni e raduni neonazisti, durante i quali aveva ripetuto le sue tesi negazioniste, nel frattempo divenute reato, in quegli stessi paesi. L'incidente più grave gli occorse nel novembre 2005 in Austria dove venne arrestato, processato e condannato a tre anni di reclusione per « aver glorificato ed essersi identificato con il partito nazista tedesco». Dopo una detenzione di circa un anno, Irving venne scarcerato dalla più mite sentenza della Corte d'appello. In Italia, le tesi negazioniste erano fatte proprie da autori quali Carlo Mattogno e Cesare Saletta. È interessante qualche considerazione sulle metodologie e le tecniche degli autori negazionisti. L'assunto base è il seguente: 1'onere della prova sta a chi afferma esserci stato l'Olocausto e non a chi lo nega. Sin qui il ragionamento è condivisibile: l'onere della prova ricade sempre su chi afferma l'esistenza di un qualsiasi fenomeno storico e non sir chi la nega. Dopo di che, la strategia argomentativa segue questo sviluppo: a. una parte delle prove non è accettabile perché proveniente dalle fonti alleate e, in quanto tale, sospetta di contraffazione; b. un'altra decade perché contraddittoria o smentita dai riscontri tecnici o di altre testimonianze, oppure proviene da testi111
mani dimostratamente falsi e dunque non ha valore; ogni· ' errore o falsità riscontrata diventa, a sua volta, prova dimostrativa della «montatura» ordita da ebrei e Alleati per screditare il Terzo Reich; c.· su altri piani, l'assenza di prove è di per sé significativa dell'insussistenza del fatto e, a sua volta, smentisce i pretesi testimoni che affermano il contrario; d. che le prove valide hanno un carattere frammentario ed episodico tale da riferirsi a singoli casi e non dimostrare l'assunto generale dello sterminio di milioni di esseri umani. Entriamo nel merito. Sul primo punto, osserviamo che, se è vero che l'onere della prova spetta a chi afferma un determinato evento storico, è altrettanto vero che, se viene esibita una prova, la dimostrazione della sua falsità spetta a chi la rigetta. Non basta dire che le foto o i filmati che attestano i massacri lager sono sospetti solo perché provengono dai vincitori: occorre dimostrare, con un esame della fonte contestata, la sua falsità. Ad esempio, se si tratta di foto occorre dimostrare o che si tratta di un fotomontaggio (attraverso opportuni esami tecnici) o che si riferiscono ad avvenimenti diversi da quelli in questione (e qui occorrerà procedere alla « lettura critica» del docqmento fotografico e dei suoi particolari - debitamente ingranditi per rettificarne la lettura) o, ancora, che la foto « dica meno» di quanto non le si attribuisca (e anche qui occorre una lettura critica del documento). Tutte operazioni saltate a piè pari dai negazionisti che si accontentano di dichiarare sommariamente queste fonti come di parte e pertanto dubbie, se non false. Quanto ali'eventuale acclaramento di falsità di alcune prove o di alcune testimonianze, va tenuto presente che lo sterminio nei campi di concentramento nazisti è in assoluto l'evento storico su· cui esiste il maggior numero di prove e testimonianze: molte · migliaia di fotografie, reperti di ogni genere, chilometri di pellicole e, soprattutto, centinaia di migliaia di testimonianze fra ex detenuti, militari dei tre eserciti vincitori, cittadini che hanno ' assistito alla deportazione,. ai rastrellamenti o a episodi connessi 112
alla vicenda e persino di ex ufficiali o soldati tedeschi (SS comprese). È dunque possibile, anzi fisiologico, che in una tale massa di testi e reperti ve ne siano di falsi: come evitare la presenza di mitomani e truffatori su una massa di centinaia di migliaia di perso~e? Notiamo, peraltro, che a riferire sulle circostanze che fanno parlare di campi di sterminio e non di semplice prigionia - non ci sono solo gli ex detenuti ebrei, perché anche i superstiti slavi, resistenti e oppositori politici, zingari è omosessuali riferiscono esattamente le stesse cose e senza c4e si osservi alcuna significativa variazione nei racconti fra gli appartenenti ai vari gruppi. Anche i testimoni tedeschi che hanno deciso di rendere testimonianza dicono cose del tutto convergenti e non basta dire che, in quanto prigionieri di guerra, sono stati costretti a dire certe cose perché, ancora una volta, l'onere della prova di falsità spetta a chi respinge quelle testimonianze. Dunque, scoprire trenta testimoni falsi, otto fotomontaggi e venticinque documenti contraffatti o interpolati, non significa nulla: è solo un espediente suggestivo, se si trascura tutto il resto. D'altra parte, è anche possibile che qualche testimone possa aver fatto confusione o essere caduto in errore, essersi contraddetto su un singolo punto: questo non significa che la sua testimonianza sia totalmente inficiata o che possa essere senz'altro ritenuta un falso voluto. Le fonti vanno esaminate in modo sistematico e non random. Ovviamente, si potrebbe osservare che nessuno storico è in grado di vagliare personalmente centinaia di migliaia di testimonianze, migliaia di reperti ecc. Verissimo. Ma a questo, lo storico che intendesse falsificare la tesi dell'Olocausto potrebbe ovviare attraverso opportune tecniche di campionatura. Ad esempio, individuato un determinato campo di sterminio e fatta la raccolta delle fonti a disposizione (ad esempio le testimonianze disponibili), si provvederà a dividerle per gruppi distinti (ex detenuti, militari alleati, cittadini liberi, ex nazisti), procedendo a una ulteriore suddivisione dei singoli gruppi (ad esempio prigionieri ebrei, slavi, omosessuali, resistenti ecc.) quindi si sceglierà un ulteriore criterio di campionatura in ogni singolo gruppo (età, 113
periodo di detenzione, diversa provenienza geografica ecc.). In questo modo si individuerà un numero di testimonianze congruo, ma non infinito, da sottoporre a verifica. Altrettanto si potrà fare con i reperti fotografici, cartacei, filmati, oggetti ecc. Se l'esame dovesse dare una percentuale significativa di falsità o di dubbia definizione (ad esempio un quarto del totale), si potrebbe procedere a una seconda campionatura. Dopo di che sarebbe possibile stabilire se la quantità di prove che hanno resistito all'esame sia tale da confermare o falsificare l'assunto che quello fosse un campo di sterminio o meno. Ma anche qui, gli autori negazionisti hanno dimostrato di avere ridottissimi scrupoli metodologici e si sono limitati a una argomentazione suggestiva e sensazionalistica su questo o quel testimone falso, su questa o quella prova contraffatta. Né le tesi dei negazionisti possono trovare conferma nella pretesa assenza di riscontri documentali (registri e altra documentazione amministrativa, corrispondenze ecc.) a quanto accaduto in molti campi, perché, come è noto, i nazisti provvidero a distruggere la maggior quantità possibile di prove e documenti prima dell'arrivo degli Alleati. Ora, se è vero che un documento distrutto non può essere« immaginato» e usato, è però vero che la sua assenza in nessun modo smentisce i testi che affermano certe cose. Anzi, tale assenza induce a porsi una domanda: ma, se si trattava di normali campi di prigionia, perché i nazisti si dettero tanto da fare a bruciare carte e cadaveri? Pertanto l'assenza di quei registri e di quella documentazione amministrativa che doveva necessariamente esistere suona, semmai, come una conferma indiretta alla versione degli ex internati. Decade, in questò modo, anche il pretesù carattere frammentario ed episodico della documentazione che, al contrario, mostra una impressionante univocità nel dimostrare le pratiche sterminatrici naziste. Ma, per uscire dalle genericità, ci sembra opportuno fare un esempio preciso per descrivere il modo di lavorare di questi autori. C'è un documento citatissimo nella letteratura negazioni114
sta, il «Rapporto Leuchter», la cui storia si presta come un esempio perfetto ai nostri fini. Nel 1985 un editore canadese, Ernst Zundel, venne condannato dal tribunale di Toronto per la pubblicazione di testi negazionisti. Zundel ricorse in appello, dove- nell'aprile 1988 - esibì una perizia di parte, che negava che ad Auschwitz fosse avvenuto uno sterminio di massa, sulla base di alcune considerazioni quali: le camere a gas non avrebbero potuto essere riscaldate 104 e areate con sufficiente rapidità, le tracce di acido cianidrico riscontrate sui campioni prelevati raschiando le pareti erano appena percettibili, le stanze erano troppo anguste per poter contenere tutte le persone che sarebbero dovute passarvi per essere giustiziate e, cosa più importante di tutte, il fatto che: [... ] coloro che avevano progettato queste presunte camere a gas non si siano mai ispirati o non abbiano mai tenuto conto delle tecnologie impiegate negli Stati Uniti, cioè nell'unico paese che allora giustiziava dei condannati con il gas.
E via di questo passo. Autore del rapporto era Fred Leuchter, 105 che si qualificava come ingegnere specializzato nella progettazione e allestimento di camere a gas per le esecuzioni nelle carceri americane. Il « Rapporto Leuchter » divenne immediatamente un cult della letteratura negazionista: la prova scientifica dell'impostura olocausti ca. Esso venne presentato a Londra con l' « autorevole» prefazione di David Irving. Ma, sfortunatamente per i tifosi di Leuchter, gli elementi su cui si basava la sua perizia, risultarono del tutto infondati. Infatti, la tesi, per cui non esisteva un adeguato sistema di riscal104
L'acido cianidrico contenuto nello« Zyklon B » passa allo stato aeriforme a una temperatura di 26 °C. 105 Sul « Rapporto Leuchter » vedi Till Bastian, Auschwitz; e la "menzogna su Auschwitz", Bollati-Boringhìerì, Torino, 1995, pp. 78 sgg.
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damento, non teneva conto del fatto che, a differenza dei penitenziari americani, dove si giustizia una persona per volta, nelle camere di Auschwitz erano stipate decine di persone il cui calore corporeo contribuiva a raggiungere la temperàtura necessaria. Le condizioni delle esecuzioni erano ben diverse da quelle delle camere americane, per cui il ritmo respiratorio delle vittime era molto più accelerato e, dunque, bastava una quantità inferiore di acido cianidrico. D'altro canto, la dose di cui parla Leuchter, usata negli Usa, è 11 volte superiore a quella letale e per ragioni «umanitarie» (uccidere rapidamente il con dannato abbreviandone l'agonia: scrupoli ignoti ai nazisti). E, peraltro, sappiamo da testimonianze degli stessi nazisti, che poteva accadere che, quando le camere venivano aperte, delle persone fossero effettivamente ancora in vita, quel che non ne impediva la sepoltura. Quanto poi ai calcoli sulla capienza delle camere di Auschwitz, essi si basavano su una unità di misura di 0,80 metri quadrati per persona, che, però, i nazisti non si sentivano affatto obbligati a rispettare. Stando ai calcoli di Leuchter, n~anche tram e metro potrebbero accogliere i viaggiatori che trasportano e, per di più, ad Auschwitz, le persone erano mediamente molto più magre ... Infine, i campioni su cui Leuchter aveva fatto le sue analisi chimiche erano stati prelevati senza l'autorizzazione dell'amministrazione del can;tpo e senza testimoni, per cui essi non avevano alcun valore probante. Ali' esame di merito, di quel rapporto non restò pietra su pietra. Inoltre, Leuchter ammise di non essere ingegnere ma laureato in filosofia, di essersi documentato solo sulle opere di Robert Faurisson, che l'editore Zundel era il committente e finanziatore del suo viaggio in Polonia. Insomma, Leuchter era solo un conclamato cialtrone. Tuttavia, il suo rapporto restò ugualmente uno dei testi base dei negazionisti. Le affermazioni di Leuchter suscitarono la comprensibile indignazione dei reduci dei lager, per di più la sua falsa 116
specializzazione attirò i riflettori dei mass media, mettendo relativamente in ombra le questioni di merito. D'altra parte questo è nella logica dei mass media: per dire che un tale è un truffatore che millanta titoli che non ha, basta un titolo di due righe, ma per dire che nelle camere di Auschwitz potevano entrarci cinque volte le persone conteggiate da Leuchter, un titolo non basta. E, paradossalmente, questo giocò a favore di Leuchter che divenne una sorta di martire calunniato per la sua fede negazionista, mentre se ne evitava di affrontare le affermazioni su un piano scientifico. Come dice Till Bastian citando Werner Wegner: [in alcuni casi gli argomenti politico-morali] danno soltanto l'impressione di una debolezza di argorrientazione. 106
4. La legislazione antinegazionista La diffusione delle tesi negazioniste fu alimentata anche dalla ricomparsa di gruppi neonazisti sia in Europa che negli Usa in larga parte connessi a reazioni xenofobe contro la crescente immigrazione dai paesi dell'Europa orientale, di Africa, Asia e America Latina. Tutto ciò causava la nascita di un arcipelago assai variegato nel quale si confondevano movimenti populisti assai diversi fra loro (come.si è già detto nel primo capitolo) uniti dalla presunta minaccia contro i diritti è l'identità culturale dei cittadini europei, movimenti cristiani integralisti ostili all'immigrazione islamica, settori della destra conservatrice e gruppi esplicitamente neonazisti a loro perfetto agio in ogni movimento razzista. È da notare che ad avere maggior fortuna - sia dal punto di vista elettorale che delle adesioni militanti - non erano certo i gruppi dichiaratamente neonazisti (che resteranno sempre una minoranza abbastanza sparuta) quanto i movimenti populisti che (con l'eccezione del Front National francese di Le Pen) rifiuta106
Till Bastian, . _op. czt., . p. 81 . 117
vano ogni parentela ideologica con il fascismo 107 e che si sono tenuti fuori della polemica fra negazionisti e antinegazionisti. L'ondata neorazzista produceva numerosissimi episodi di violenza ai danni degli immigrati che non potevano restare senza risposta da parte delle istituzioni che, in quasi tutti i paesi europei, varavano una legislazione antirazzista che penalizzava non solo gli atti di violenza, ma anche la diffusione di idee razziste. Si trattava, dunque, di un reato d'opinione, una eccezione al principio generale della libertà di pensiero prevista da tutti gli ordinamenti liberali, giustificata da un lato nella lesione di altri diritti costituzionalmente garantiti (il principio di eguaglianza senza distinzione di razza o religione, e il susseguente diritto di chiunque a essere rispettato come persona umana), dall'altro nella precedente normativa di molti paesi europei che dichiara illegittima la propaganda di fasciste. Questa legislazione antirazzista, in diversi casi, contemplava anche norme dirette a punire la negazione del genocidio ebraico, come manifestazione di odio razziale. Altri paesi approvavano specifiche leggi che penalizzano la negazione dell'Olocausto anche a prescindere dall'inquadramento antirazzista. Il tutto in un quadro abbastanza differenziato, per cui, in Austria (emendamento del 1992 al Verbotengesetz del 1947), Francia (legge Gayssot 13 luglio 1990 n. 90.615), Germania (legge 13 novembre 1998 e successiva 12 dicembre 2001) e Belgio (legge 23 marzo 1995 e successiva modifica del giugno 2005) è reato la negazione dell'Olocausto ebraico, mentre in altri paesi, come Portogallo, Israele (legge 5.746 del 1986), e Spagna (Codice penale 23 nov 1995), è sanzionata la negazione di qualsiasi genocidio e in altri ancora (come Svezia, Svizzera legge 19 dicembre 2006-, Slovacchia, Nuova Zelanda, Lituania - legge 16 luglio 1953 -, Australia, Polonia, Repubblica Ceca e 107
An che se questo non nnpe · dis ce 1·a presenza d'1 esponenti. non disdegnano rapporti con l'area neonazista o che hanno un passato di militanza in gruppi di questo tipo.
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Romania) il reato di negazionismo è configurato in modo differenziato e, a volte, include anche il« riduzionismo». Ovviamente diversa anche. la misura della pena che varia dai sei mesi ai dieci anni di reclusione. Così come la legislazione antirazzista aveva aperto la porta a quella contro ilnegazionismo olocaustico, questa, a sua volta, faceva da battistrada a una legislazione antinegazionista con altri obiettivi. La strada venne aperta da Israele, Spagna e Portogallo, con la · ]oro legislazione punitiva della negazione di qµalsiasi genocidio. Questo presuppone che, prima, si definisca con esattezza un genocidio e a quali casi tale fattispecie sia applicabile, stilandone· la lista oppure implica una pericolosa discrezionalità al limite dell'arbitrio: fu genocidio quello dei pellirosse? I pogrom russi sono configurabili come tali? E come giudicare il comportamento degli inglesi verso gli irlandesi fra XVII e XIX secolo? E che dire di albigesi, catari o valdesi? La categoria di genocidio è applicabile solo a etnie o anche a minoranze religiose? Come si vede, l'indeterminatezza della norma apre un ginepraio di questioni giuridiche creando i presupposti per una vasta ingerenza del potere giudiziario nella sfera di competenza degli storici. E con esiti anche paradossali. · Infatti l'autore negazionista è perseguibile penalmente, quello giustificazionista no. Se uno storico ammettesse la Shoa, ma giustificandola con l'esigenza dello stato nazionalsocialista di tutelarsi da una possibile quinta colonna (o qualsiasi altra ragione) e magari sfumasse questo giudizio sotto il velo di una apparente avalutatività, non sarebbe possibile invocare alcuna norma · contro di esso. Nonostante queste palesi incongruenze, questo indirizzo legislativo si sviluppò ispirando ulteriori norme, in diversi paesi. La tendenza assunse un tono particolarmente preoccupante in Francia: - legge 29 gennaio 2001 relativa al genocidio armeno, poi grata dalla legge 12 aprile 2006 e legge 12 ottobre 2006 che penalizza la negazione di tale genocidio; 119
legge Taubira 10 maggio 2001 sul riconoscimento della schiavitù come crimine contro l'umanità che proibisce la negazione di tale crimine. Nello stesso senso si iscriveva anche la legge Mekachera 23 febbraio 2005 che, al contrario, imponeva agli insegnanti di valorizzare il ruolo positivo del colonialismo francese in Africa del Nord e Indocina. Un caso illuminante è quello dello storico Olivier Pétré-Grenouilleau che, nel 2004, pubblicò Les traites négrières 108 nel quale negava che la tratta atlantica potesse essere considerata come genocidio. Per questo venne denunciato, sulla base della legge T aubira, dal Collectif des Antillais, Guyanais, Réunionnais che chiese anche la sua espulsione dall'università. La reaziòne della comunità degli storici indusse, dopo qualche mese, il Collettivo a ritirare la denuncia. Infatti, nel dicembre 2005, apparve una vibrata protesta di circa 1000 storici francesi che sottoscrissero l'appello « Liberté pour l'Histoire » promosso da storici di grande fama (e insospettabili di simpatie negazioniste o neocolonialiste) fra cui Jean-Pierre Azéma, Élisabeth Badinter, Alain Decaux, Mare Ferro, Jacques Julliard, Pierre Milza, Pierre Nora, Mona Ozouf, René Rémond,Jean-Pierre Vernant, Pierre VidalNaquet. Parallelamente nei paesi ex comunisti dell'Europa orientale (segnatamente nella Repubblica Ceca e in Polonia) iniziava a profilarsi una legislazione antinegazionista (che andrà effettivamente in porto fra il 2007 e il 2008) riguardante i crimini perpetrati durante il regime èomunista. Nell'aprile 2007, il Consiglio d'Europa, su proposta del ministro della Giustizia tedesco, Brigitte Zypries, emanava una deliberazione sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia orientata a estendere a tutti gli stati membri la punizione del razzismo e della 108
La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale, il Mulino, Bologna,
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negazione dei genocidi, in particolare della negazione dell'Olocausto e, più in generale, « la negazione o la minimizzazione grossolana» dei« crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra, quali definiti agli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale». Entro due anni dal1'adozione di questa decisione quadro ogni stato membro avrebbe dovuto adottare una legislazione conforme, comminando pene da 1 a 3 anni di reclusione. La nozione di « negazione o minimizzazionè grossolana» merita qualche considerazione in più. Non sappiamo se negazioni .o minimizzazioni raffinate siano da preferirsi a quelle grossolane, quasi si trattasse di una questione estetica, ma ci chiediamo dove corra il confine fra le due e sulla base di quali criteri un giudice possa stabilire se una certa affermazione è abbastanza grossolana da meritare una condanna. E, peggio ancora, torna la ·questione di cosa si debba considerare genocidio. Un criterio oggettivo potrebbe essere quello di considerare tale un episodio che sia stato dichiarato tale da una qualche sentenza giudiziaria. In questo caso, non ci sarebbero problemi per il genocidio ebraico, riconosciuto dalla sentenza di Norimberga, ma ne sorgerebbero - e molti - per gli altri. Infatti, la Corte penale internazionale, entrata in vigore il 1° luglio 2002, può giudicare solo casi posteriori a quella data e, pertanto, non per i casi del Rwanda e dell'ex Jugoslavia sui quali, probabilmente, dovranno decidere corti nazionali, con tutti i rischi che da questo possono derivare. Naturalmente, questo criterio esclude dalla possibile definizione tutti i casi storici (armeni, pellirosse, irlandesi, congolesi ecc.) per i quali non avrebbe senso istituire oggi alcun processo. E torniamo al punto di cui dicevamo prima. Inoltre, va detto che perché possa esserci una condanna per genocidio, occorre che gli eventuali accusati abbiano prima subito una sconfitta militare con conseguente debellatio della propria sovranità, essendo del tutto impensabile processare le autorità politiche e militari di uno stato sovrano. In procèssi di questo tipo, non si capisce mai sino a che punto la vera colpa degli 121
imputati sia quella dei crimini di guerra o quella di aver perso una guerra. Ovviamente, può benissimo darsi che i vinti siano del tutto meritevoli di condanna (come lo furono i gerarchi nazisti), ciò non di meno saremmo di fronte a una decisione che ha a che fare più con la politica che con il diritto o - più ancora - la morale. E, sul presupposto di una simile decisione, si legittimerebbero i limiti alla libera ricerca storica? La delibera del Consiglio d'Europa, peraltro, si concludeva con una postilla (fuori del contesto riferito a negazionismo e razzismo) che accennava ai reati commessi dai « regimi totalitari»: deplorandoli, prevedeva di estendere in futuro anche a essi questa normativa, dopo « una audizione pubblica a livello europeo» convocata dalla Commissione (p. 25). E qui era evidente la risposta alla sollecitazione posta dai paesi ex comunisti, come la · Repubblica Ceca. Altra decisione ancor più discutibile della precedente, che apre mille altri problemi: la definizione di totalitarismo e a quali regimi possa essere applicata, l'individuazione dei reati specifici di tali regimi sui quali non è consentita la negazione ecc. Ma, soprattutto, questo aspetto della deliberazione rimanda, una volta di più, alla necessità di parlare di regimi totalitari sconfitti. O qualcuno pensa di varare una normativa anche per i crimini eventualmente commessi dal governo della Repubblica Popolare Cinese? Si immagina che il Consiglio d'Europa abbia abbastanza senso del ridicolo da evitare un simile ordine del giorno. La deliberazione di cui riferiamo suscitò un intervento critico dello storico-politologo inglese Timothy Garton Ash che, su « The Guardian » del 18 gennaio, pur riconoscendo le buone intenzioni della proposta, ne constatava l'effetto di « limitazione della libertà di espressione, oggi già minacciata da più parti». Critiche cui si associava anche lo storico tedesco EberhardJackel. In effetti, nessuno discute le buone intenzioni della normativa antinegazionista, ma, come avverte il proverbio, sono proprio le buone intenzioni a lastricare la via dell'inferno.
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5. La fortuna del revisionismo olocaustico. Esiti e /unzione della legislazione antinegazionista A circa trenta anni dalle sue prime manifestazioni, il revisionismo ;locaustico resiste e sembra ormai essere diventato il« revisionismo storico» tout court. Infatti, per la maggioranza dell'opinione pubblica non specialistica, il termine revisionismo è sinonimo di negazionismo olocaustico. Al punto - come si è già detto - da indurre qualche autorevole. esponente del revi~ionismo storico a suggerire l'abbandono del termine per evitare di essere accomunati al negazionismo. In realtà, i negazionisti hanno volto a proprio favore proprio quei meccanismi mediatici che hanno fatto la fortuna dei revisionisti e di cui si è detto nel capitolo precedente. Dunque, sembra di dover constatare un notevole successo di tale indirizzo, nonostante la specifica legislazione penale in. merito. In realtà si tratta di un fenomeno del tutto minoritario. Se esso non è del tutto trascurabile, non è in ragione della sua consistenza numerica, in verità scarsissima, ma della «rumorosità» dei suoi seguaci. Di fatto si tratta di poche nicchie residuali di neonazisti e, all'estremo opposto, di qualche isolato personaggio più stravagante che pericoloso. Realisticamente, il seguito delle tesi negazioniste riguarda aree molto al di sotto dell' 1 per cento delle nostre società. Ciò non di meno, occorre spjegarsi come mai queste tesi possano ancora trovare credito, nonostante la loro palmare infondatezza. Come abbiamo detto ripetutamente, l'Olocausto è stato un fenomeno assolutamente macroscopico che ha sedimentato cataste di prove come in nessun altro caso. Forse si può discutere sull'entità delle soppressioni, ma è fuori discussione che si sia trattato di milioni di esseri umani volontariamente e barbaramente soppressi. E, se anche si dimostrasse che gli ebrei assassinati non sono stati sei o sette milioni ma cinque o anche solo tre, cosa cambierebbe? Se anche si dimostrasse che la maggioranza di essi non sia stata gasata o fucilata, ma sia deceduta per denutrizione, malattie non curate o maltrattamenti vari, cosa 123
cambierebbe? Le condizioni di detenzione non piovevano dal cielo ma erano quali le determinaro_no i nazisti. Dunque, la polemica sulla verità storica dell'Olocausto non avrebbe ragione di essere più di quella con qualche ostinato sostenitore del sistema tolemaico. Eppure, il fenomeno persiste al di là di ogni evidenza scientifica e costituisce esso stesso un caso di studio molto interessante per capire i meccanismi di funzionamento delle nostre società. La « società dell'immagine» produce effetti psicologici contraddittori: la «visione» diretta delle scene di un qualsiasi avvenimento si propone come la possibilità offerta a tùtti di essere testimoni diretti di esso e, quindi, come la certezza della verità. Ma, nello stesso tempo, essa è spettacolo, finzione, simulazione di realtà e una cosa sfuma nell'altra. Lo spettatore è inconsciamente portato a sovrapporre le immagini di un documentario a quelle di un reality show o a quelle di un film: tutto è vero e tutto è falso allo stesso tempo e questo esalta al massimo la decisione soggettiva di credere/non credere al messaggio. C'è, poi, una ragione politica più concreta che alimenta la campagna antiolocausticà, regalandole consensi insperati, ed è legata alle drammatiche vicende mediorientali. I campi in cui sono raccolti i palestinesi non sono certo paragonabili ai lager nazisti e ogni tentativo di avvicinare le due cose è un manifesto sproposito. Ma non è neppure possibile ignorare lo scandalo delle condizioni di vita imposte ai palestinesi da oltre 40 anni. E che i negoziati di pace si trascinino senza esito da oltre un ventennio non getta una luce favorevole su Israele che è il con~ tendente più forte. La stessa estrema sinistra, che avversa con ogni forza il revisionismo olocaustico, è poi attirata su posizioni anti-Israele (spesso sino a negarne irragionevolmente lo stesso diritto a esistere) per l'irrisolta questione palestinese e questo, ovviamente, indebolisce di molto la reazione culturale al negazionismo. D' ~tra parte, è evidente come le opinioni politiche (al pari di quelle religiose) non siano direttamente permeabili dalle verifiche scientifiche: l'ideologia è sovente refrattaria a dimostrazioni
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di tipo empirico ed è spesso autoconfermativa, proprio nella misura in cui determina un radicamento identitaria. Detto in termini meno paludati: la gente crede in quel che vuol sentirsi dire. E questo è ancora più vero nel caso della cultura politica neonazista che è irrazionalista e segnata dal pregiudizio antiebraico fondato su teorie cospirazioniste (si pensi ai « Protocolli dei savi anziani di Sion », vera Bibbia di ogni antisemita, dalla polizia zarista in poi). È del tutto consequenziale che questa area traduca ogni prova dell'Olocausto in una pro,va del suo contrario, cioè della costruzione cospirativa di un mito: ci sono montagne di testimonianze di ebrei reduci dai lager? « Certo: sono ebrei e dunque interessati a montare una campagna diffamatoria contro il Reich. » Ci sono foto e filmati? « Tutti falsi orchestrati dalla macchina di propaganda anglo-russo-americana in mano agli ebrei. » E le conferme testimoniali di ex SS? « Gente che si è venduta per ottenere la clemenza dei vincitori. » I documenti cartacei e i ruderi dei campi? « Altrettanti falsi costruiti ad hoc.» Le bugie e le millanterie di Leuchter? « Calunnie dell'infernale macchina di propaganda ebraica che controlla giornali e Tv. » Le ritrattazioni di Irving? « Un momento di debolezza di fronte alle violenze morali subite che provano il complotto ebraico che il nazismo ha cercato, senza fortuna, di sconfiggere. » E così all'infinito, senza che sia mai possibile falsificare le teorie revisioniste. È ovvio che, dal suo punto di vista, il revisionismo olocaustico considera la legislazione antinegazionista come la prova provata definitiva del complotto olocaustico: i sionisti hanno bisogno di un intervento repressivo per riaffermare una verità che non si regge più in piedi. Dunque, 1'area di consenso dei negazionisti non ne sarà minimamente scalfita (come, peraltro, dimostra la sua persistenza nei paesi che hanno adottato questo tipo di legislazione a un ventennio dalla sua approvazione). Né la mancata espansione di consensi al negazionismo può essere attribuita alla legislazione antinegazionista: infatti, nei paesi in cui essa non esiste l'andamento del fenomeno registra consensi ancora più modesti. Segno che l'improvvida scelta di trascinare nella gabbia degli imputati gli 125
autori negazionisti ha spesso conferito loro una immeritata aura di martirio, che gli ha regalato qualche simpatia in più, soprattutto fra i giovanissimi. E ci pare significativo che, spesso, sono stati proprio gli esponenti delle comunità ebraiche a esprimersi contro l'approvazione di leggi del genere, come nel caso dell'anziano rabbino capo della Sinagoga di Roma, Elio Toaff. 109 , In realtà, a circoscrivere in partenza il raggio di adesioni del negazionismo olocaustico è proprio il suo fondamento identitario: si può benissimo adottare un atteggiamento come quello appena descritto che non può essere fatto proprio che da una minoranza marginalissima. ,· Dunque, il bacino potenziale di adesioni per le campagne negazioniste ha in partenza un perimetro assai piccolo e non è certo l'adozione di norme penali che può ridurlo ancora o farlo spanre. Si pone quindi il problema di capire quale sia la reale funzione di tale legislazione. È possibile che la parte più naif dell'opinione pubblica antifascista creda realmente all'efficacia di queste misure, ma è del tutto irrealistico pensare che le élite dirigenti ci credano. In realtà, non è difficile capire che le motivazioni politiche di tale legislazione sono altre assai meno e poi fornisce la sua interpretazione. Ovviamente, anche nella storiografia esiste una dialettica fra le diverse tesi, ma non esiste un soggetto terzo (un giudice) che stabilisce quale sia la più credibile. La prevalenza di una tesi (il canone) si 135
forma nel tempo attraverso il confluire della maggioranza degli storici su determinati punti ed è sempre rivedibile. Si tratta di differenze non da poco, per cui, anche considerando l'ipotesi dèll'intervento di periti che siano storici di chiara fama, occorre tener presente che, per quanto il loro sia un parere pro veritate e abbiano obblighi di fedeltà al metodo della propria disciplina, esso si inquadra pur sempre in un procedimento a tesi, riel quale ciascuna delle parti assumerà quella che è funzionale alla prppria linea e, alla fine, a stabilire la «verità» sarà un soggetto terzo, il giudice che utilizzerà come crede i materiali processuali, fra cui la perizia dello storico. E, naturalmente, può accadere che lo storico non riconosca affatto nella sentenza le sue conclusioni. Quel che, in effetti, accadde nel caso del processo Papon, nel quale lo storico Henry Rousso prestò la sua opera, ma alla fine dovette registrare pubblicamente la forte distanza fra i contenuti della sua perizia e quelli della sentenza. E torniamo al caso concreto dei processi per negazionismo. Come si è detto, nellà maggior parte dei casi, i vari Irving, Faurisson, Saletta ecc. non negano in assoluto la vicenda della Shoa, ma contestano il numero delle vittime e l'intenzione di compiere un genocidio; dunque, tecnicamente, più che di negazionismo sarebbe corretto parlare di riduzionismo. E qui sorge un primo problema: perché possa configurarsi l'illecito, è necessario negare la Shoa in quanto tale o è sufficiente sostenere che il numero delle vittime effettive fu inferiore a sei milioni? O che una parte rilevante di esse fu vittima dei bombardamenti alleati? È evidente che fissare l'attenzione sulla questione del numero porrebbe a sua volta il problema di definire la soglia oltre la quale si configura l'illecito (una unità in meno di sei milioni? di cinque? di tre?), ma, per far questo, occorrerebbe preliminarmente trovare un accordo sul metodo con cui effettuare la stima, non essendo sufficiente sostenere che la cifra di sei milioni è accettata dalla stragrande maggioranza della storiografia. D'altra parte questo profilo comporterebbe una banalizzazione della questione del tutto controproducente. Dunque, l' atten136
zione dovrebbe essere necessariamente centrata sul giudizio nale; se si sostiene che si sia verificato un genocidio e che ciò era nelle intenzioni dei nazisti o meno. Qui, però potremmo trovarci di fronte a giudizi molto sfumati che renderebbero assai incerto il crinale fra lecito e illecito, assegnando, di fatto, al giudice una larghissima discrezionalità su quella che, nonostante tutto, resta una opinione, per quanto errata, infondata o in mala fede. Che tutto questo sia semplicemente incompatibile con qualsiasi principio di democrazia liberale è cosa così' evidente da non meritare alcun commento. Quello che qui preme è valutare l'effetto sul piano della ricerca storica. E l'effetto è proprio quello dellà « tribunalizzazione della storia» che determina due diverse dinamiche. In primo luogo, questo forza lo storico ad adottare moduli processuali, assimilando il suo lavoro a quello giudiziario, proprio in previsione di un possibile processo. Infatti, questa tendenza a portare le discussioni storiche in tribunale non riguarda solo le questioni normate in materia di negazionismo, ma in diversi paesi, tra cui l'Italia (come vedremo più avanti), ha assunto anche l'aspetto di querele o ricorsi in sede civile per danno all'immagine, da parte di diretti interessati (come abbiamo visto nel caso di Irving) o loro eredi. Così le case editrici spesso sottopongono le opere al parere preventivo dei loro legali che danno suggerimenti in funzione di una possibile linea difensiva.120 Il risultato è che allo storico resta la scelta di trovarsi un altro editore o accettare i suggerimenti proposti che, spesso, forzano i metodi di lavoro propri della storiografia. 120 A chi scrive queste pagine non è mai capitato di sentirsi chiedere modifiche da nessuna delle case editrici o riviste presso le quali ha pubblicato i suoi scritti, ma di sapere successivamente che qualche rivista o casa editrice aveva chiesto il parere ai propri legali che (bontà loro!) dichiararono che il testo aveva « superato l'esame». In altri tre casi è capitato invece il contrario: di essere chiamato da qualche casa editrice a esprimere un parere sulla corrispondenza di alcune opere (riguardanti la strategia della tensione) rispetto alle risultanze processuali. 137
E questo si somma agli effetti della «centralità» della Shoa nella vicenda novecentesca. Il punto merita qualche spiegazione. Come si è detto, lo storico deve astenersi da giudizi di valore, ma questo non è possibile in casi come quello della Shoa (o, se si preferisce, dei massacri operati dagli Khmer o del bombardamento di Hiroshima). Scrivere delle camere a gas in termini di efficienza tecnica ed economicità del processo senza esprimersi in sede etica sarebbe prova del pili ripugnante cinismo e, in qualche caso, suonerebbe come tacito giustificazionismo. La forte enfasi assegnata alla vicenda olocaustica ha avuto l'effetto imprevisto, ma logicamente connesso, di una forte torsione moralistica della ricerca storica per la quale troppo spesso lÒ storico ha preso a indossare la toga del pubblico ministero o dell' avvocato al posto del camice dello scienziato. Appunto: la storia che « giudica e la storia che assolve» ma non la storia che spiega e che capisèe. Chi scrive queste righe non intende minimamente sminuire la tragedia dei lager, ma il Novecento è un secolo troppo complesso e sfaccettato per essere ridotto solo a questo o a qualsiasi altro suo aspetto. Tale torsione della ricerca storica certamente non giova allo studio di questo secolo, ma ha l'ulteriore effetto di accentuare fortemente la dipendenza della storia dalla politica e, più in particolare, di premiare la partigianeria. E lo storico, da libero ricercatore della verità, si ritrova nel ruolo forzato di « avvocato» di una tesi precostituita. Certamente, può accadere (ed è anzi auspicabile) che lo storico possa avere sue idee politiche, ma « storico militante» non significa propagandista di regime (o di partito, fa lo stesso): la militanza politica'., per uno storico, significa prima di tutto svolgere il suo lavoro nel modo più laico per fornire gli elementi di giudizio più oggettivi possibile. Esattamente come un fisico nucleare non può « correggere» i suoi calcoli a seconda delle esigenze del partito di appartenenza. Al contrario, una dimensione della storia così strettamente legata alla dimensione del giudizio morale e così carica di tensione emotiva spinge naturalmente 138
verso ruoli avvocateschi propri del processo penale e, perciò stesso, più fa~ilmente spendibili in chiave propagandistica. E anche questo è un modo di abusare della storia. A proposito della delicata questione del coinvolgimento dello storico in una inchiesta penale e, dato che la questione riguarda direttamente chi scrivé queste pagine, ci sembra il caso di astenerci dallo scriverne in questo contesto, rinviando all'ultimo capitolo. 1 · •
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QUARTO CAPITOLO SCRITTURE POLITICHE DELLA STORIA: .L'IMPERO
1. VImpero L'Imperium per i Romani, che ne elaborarono per primi il concetto, conteneva una idea universalistica: esso era il comando unificato che, subordinando i regni locali alla volontà di Roma, garantiva ordine e pace al mondo civilizzato. Quel che presuppone anche la sua unicità: l'Impero, per definizione, non riconosce altri imperi. Con la svolta costantiniana, l'Imperium venne legittimato dalla Chiesa come strumento provvidenziale per la diffusione universale del Cristianesimo. E in questo senso andò il tentativo carolingio prima e quello del Sacro Romano Impero dopo, quali incarnazioni politiche della res publica christianorum. Lo scisma d'Oriente prima (X secolo), e la Riforma protestante dopo, incrinavano l'idea universalistica dell'Impero, riducendola ad aspirazione a un ordine perfetto da realizzare un futuro remoto. Questa tendenza fu accentuata con la contemporanea conquista del Nuovo mondo e dei continenti extraeuropei: quel che favoriva la nascita di più imperi, proiettandone i disegni egemonici al di fuori dell'Europa. Gli imperi coloniali di Inghilterra, Spagna, Portogallo, Olanda e Francia, pur continuando a combattersi occasionalmente in Europa, accettarono ben presto di riconoscersi vicendevolmente e, con ciò stesso, definivano una diversa idea di Impero sganciata da quel requisito di unicità di cui dicevamo. La pretesa universalistica si dileguava per lasciare il posto all'idea di particolari entità statali (grandi potenze, diremmo con il linguaggio del Novecento) che si limitano reciprocamente. Con la guerra dei Trent'anni, l'idea di Impero come ordi141
namento universalistico - perdeva ogni efficacia politica e, di conseguenza, ne dissolveva ogni residuo giuridico. Con la pace di Westfalia, che concludeva quella guerra (1648), l'Imperatore riconosceva a ogni singolo stato del Sacro Romano Impero la piena sovranità territoriale e la rappresentanza nella Dieta imperiale, unica a poter decidere delle leggi, dei tributi e dello stato di guerra. Di fatto, il potere imperiale veniva svuotato di significato politico e legittimità giuridica al di là dei domini diretti dell'imperatore. Il trattato di Westfalia stabiliva un nuovo ordine internazionale, nel quale gli stati si riconoscono tra loro proprio e solo in quanto stati, al di là della fede dei singoli sovrani. Infatti, con questo trattato si riprendeva, assumendolo definitivamente, il principio del « cuius regio, eius religio » sancito dalla pace di Augusta nel 1555. Nasceva così il moderno concetto di sovranità che è la premessa storica necessaria degli statinazione che si affermeranno fra il XVIII e il XIX secolo. Ed è significativo che la pace westfalica sia andata incontro alla condanna papale con la Bolla «Zelo Domini» (1648): l'ultimo rappresentante dell'universalismo imperiale non accettava di riconoscere il principio della sovranità declinata al plurale. Da quel momento, l'Impero divenne una modalità costituzionale di singoli stati nazionali, pur se di rango di grande potenza, dissodando del tutto il senso del termine da quello universalistico e unico che gli era proprio al suo sorgere. E questo ordine ha retto il mondo sino ai nostri giorni.
2. Il progetto del « nuovo secolo americano» Nei precedenti capitoli abbiamo accennato al processo di riallineamento mondiale dei diversi paesi indotto dai processi di globalizzazione. Ovviamente, tale ricollocazione non avviene in modo pacifico e spontaneo ma dà luogo allo scontro fra le diverse strategie dei singoli attori nazionali. Nei primissimi anni Novanta, il gruppo di intellettuali neo-
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cons legati alla destra del Partito repubblicano (Irving Kristol, Daniel Beli, Seymour Martin Lipset, Nathan Glazer) propose i] progetto del« nuovo secolo americano», dichiaratamente orientato a consolidare il ruolo di potenza unica globale degli Usa. E ciò nella previsione di non avere alcuno sfidante credibile, tanto sul piano finanziario, quanto, ancor più, su quello militare, almeno sino al 2025. È difficile dire se questo progetto sia ancora attuale o se la presidenza Obarna porterà a un suo abbandono. La crisi globale appena apertasi avrà c:siti largamente imprevedibili, ma non è difficile immaginare che da essa possa emergere un nuovo bipolarismo (ad esempio un blocco Usa-Ue contro un blocco Cina-Russia forse aperto all'India) o un nuovo equilibrio multipolare. In ogni caso, appare probabile che le aspettative americane dj mantenere un equilibrio monopolare siano destinate a un secco ridimensionamento e che di questo siano consapevoli gli stessi circoli dirigenti Usa. Ma non sappiamo né quale sia il grado di tale consapevolezza, né quali implicazioni ne verranno tratte sul piano strategico, perciò lasciamo la questione aperta. Quello che stiamo svolgendo è un ragionamento storico e la giurisdizione della storia si estende agli avvenimenti passati, non a quelli futuri, per cui restiamo aJ momento in cui gli Usa hanno elaborato la strategia del « nuovo secolo americano» e ai suoi riflessi in sede storiografica. Il piano del « nuovo secolo americano» si basa sull'ipotesi di giungere alla capacità di sconfiggere qualsiasi avversario tendenzialmente a« zero morti» (propri ovviamente), così da esercitare una deterrenza assoluta verso ogni sfida potenziale. Ottenere questo risultato presuppone che l'esercito americano sia in grado non solo di difendere il territorio nazionale e gli interessi americani nel mondo, ma anche di adempiere ai compiti di polizia internazionale, all'interno del sistema di sicurezza pianificato con gli alleati, quel che implica una capacità di combattere e vincere più guerre simultaneamente. Ma, siccome anche la capacità di impiego dell'esercito Usa non è illimitata, si impone che le guerre siano di breve durata e di 143
esito radicale, per evitare che si profilino nuove sfide mentre esso è già impegnato in uno o più scenari. Pertanto, gli Usa devono preliminarmente mantenere la superiorità strategica nucleare, riposizionare le proprie forze armate in relazione alle nuove aree di crisi, modernizzare selettivamente il proprio apparato militare, estendere il proprio dominio anche ai « nuovi territori internazionali» dello spazio e al cyberspazio. E qui torniamo alla « Rivoluzione negli affari militari» di cui abbiamo detto. La critica più calzante alla strategia americana è venuta dallo storico israeliano Maftin van Creveld, 121 che rimprovera a questa suggestione di supplire alla carenza di progetto politico con la forza militare, richiamando un significativo parallelo con il Blitzkrieg hitleriano (qui rimandiamo alle considerazioni fatte a proposito della dottrina della AirLand Battle). Infatti, sul piano politico, la strategia del « nuovo secolo americano» sottintende l'ininfluenza di ogni singolo alleato: gli Usa si pongono al centro di una vasta rete di alleanze che vanno da quelle più tradizionali (con i partner dell'Europa occidentale, il Giappone e i paesi anglofoni) a quelle più recenti (Russia, in una certa misura, Cina e poi Pakistan ecc.), ma senza assegnar~ a nessuno alcun potere di veto e riservando comunque a sé la decisione finale su ogni singola questione. Il comportamento americano nella seconda crisi del Golfo persico, del Kossovo e dell'Afghanistan è andato nel senso di una iniziativa sostanzialmente unilaterale che ha poi cercato convergenze con « chi ci sta», realizzando nei fatti un superamento dei principi westfalici nel senso di un ruolo egemonico imperiale degli Usa. Infatti, ancora in occasione della prima guerra del Golfo, gli Usa chiedevano all'Onu di autorizzare una guerra (ai sensi dell'art. 42 del suo statuto) per reagire all'invasione di uno stato 121
Martin van Creveld, Fz'ghting Power: German and U.S. Army Performance, 1939-1945, Greenwood Press, Santa Barbara (USA), 1982. Critiche riprese e approfondite nel suo successivo The Culture o/ War, Presidio Press, New York, 2008.
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sovrano. Dunque, da un punto di vista formale, l'iniziativa americana era ancora all'interno del sistema westfalico (l'azione era in favore del ripristino della sovranità dell'emiro del Kuwait) del quale si proponeva una integrazione attraverso un ruolo più incisivo dell'Onu. Ma questo accadeva ancora qualche mese prima del crollo dell'U rss e della fine conclamata dell'ordine bipolare. I casi di Somalia, Sudan, Kossovo e Afghanistan segnavano, da un lato, un crescente deperimento del diritto internazionale . basato sulla sovranità dei singoli stati, dall'altro la crescente di.pendenza politica degli organismi internazionali (primo fra tutti, l'Onu) dall'iniziativa americana. Infatti, l'assenso ottenuto dall'Onu in ·questi casi riflettev::i quegli specifici rapporti di forza che consentivano agli Usa di imporre la propria volontà agli altri. Infatti, siamo nel momento di massimo distacco fra il potenziale bellico americano e quello di tutti gli altri soggetti statuali: la Marina Usa equivaleva alla sommatoria delle principali altre otto Marine a livello mondiale e la flotta aerea alla sommatoria delle principali altre 19. E, sul piano satellitare, elettronico ecc. il divario era ancora più evidente. A questo si aggiungeva la centralità americana nel sistema finanziario mondiale. In queste condizioni, gli Usa erano in grado di intervenire da soli in qualsiasi contesto senza correre il rischio di trovare alcuna potenza sfidante in gradò di reggere il confronto. Di questi rapporti di forza dovevano tener conto le potenze minori che davano il proprio consenso nell'illusione di poter così limitare e contrappesare l'iniziativa americana. Ma con la seconda guerra del Golfo, la finzione del consenso Onu ebbe fine: di fronte al diniego delle altre potenze titolari del diritto di veto in seno al Consiglio di sicurezza, gli Usa decidevano di agire da soli con chi era disposto a seguirli. Si badi che, se nel caso afghano gli Usa agivano in risposta a una aggressione subita (pur senza aver dimostrato le responsabilità di Kabul nell'attentato), nel caso iracheno gli Usa intervenivano senza alcuna minaccia diretta nei propri confronti, ma in difesa di un interesse generale che sostenevano fosse in pericolo per il possesso di armi di distruzione di massa da parte di Sad145
dam Hussein. Armi, peraltro, mai trovate. Dunque, gli Usa si ponevano direttamente come garanti della pace internazionale sostituendo l'Onu della quale si sosteneva apertamente l'irrilevanza. Anzi gli Usa giungevano a prospettare una Willing Coalition destinata a rimpiazzare non solo l'Onu, ma forse anche la Nato. E, a questo punto, si è solo a un passo dalla proclamazione di un nuovo diritto internazionale basato su un nuovo impero di tipo universalistico. Un progetto che, ovviamente, trova resistenze tanto fra le vecchie potenze (e soprattutto quelle tradizionalmente alleate), quanto fra quelle emergenti, di cui diremo nel prossimo càpitolo. Qui ci interessa seguire la genesi culturale di questo progetto e le sue relazioni con il dibattito storico.
3. Veccezionalismo americano e l'Impero Spesso si è parlato degli Usa come di un «Impero», ma i diretti interessati hanno sempre rifiutato di considerarsi tali. Anzi, ancora in tempi recentissimi, il presidente Bush ha dichiarato: Siamo forse l'unica potenza della storia che ha avuto la possibilità di diventare [un impero] ma l'ha rifiutata.
Stessa cosa aveva dichiarato venti anni prima il presidente Richard Nixon e le citazioni in questo senso potrebbero spingersi anche molto oltre. Una reazione perfettamente comprensibile, ove si consideri che gli Usa sono nati dalla rivolta indipendentista contro un impero e questo ha lasciato tracce profonde nell'identità americana, iscrivendovi una « pregiudiziale antimperiale ». Per circa due secoli il termine «Impero» per gli americani ha avuto una connotazione fortemente negativa: esso non era conciliabile con lo spirito di una vera democrazia. Certamente, se gli Usa sono stati un impero, lo sono stati in modo assai diverso dal passato. E, in effetti, l'egemonia americana è sempre stata la risultante di un accorto dosaggio di pre146
dominio tecnologico e finanziario, forza militare e consenso. Forse nessun altro impero, nella storia, ha mai destinato tanta attenzione al consenso di clientes e Joederati e persino dei popoli avversari. Infatti gli Usa hanno sempre avuto cura di legittimare il proprio ruolo in funzione di una< 11 febbraio: giorno del ricordo delle vittime delle foibe >< 21 febbraio: giornata nazionale dell'alfabeto ~raille >< 1 marzo: giornata nazionale delle ferrovie dimenticate 15 marzo: giorno del ricordo delle vittime di Mafia ;, 28 marzo giornata nazionale della bicintreno 27 aprile: giornata nazionale del benessere dello studente 3 maggio: giornata del ricordo dei giornalisti vittime della Mafia e del Terrorismo ,., 4 maggio: giornata nazionale dell'epilessia 9 maggio: giorno della memoria delle vittime del terrorismo * 24 maggio: giornata nazionale del Sollievo 29 maggio: giornata nazionale del respiro 31 maggio: giornata nazionale dell'ammalato oncologico 28 giugno: giornata nazionale dell'incontinenza 5 ottobre: giornata nazionale dell'abbattimento delle barriere architettoniche seconda domenica di ottobre: giornata del ricordo delle vittime del lavoro '~ 31 ottobre: giornata del risparmio ;, 3 novembre: giornata per ricordare le persone decedute o rese disabili dai vaccini 6 dicembre: giornata nazionale del ricordo e dell'azione sulla violenza contro le donne;'
L'asterisco indica le giornate di cui abbiamo accertato esserci una legge istitutiva; dunque ben 20 giornate nazionali, della memoria o del ricordo, (di cui 10 istituite con legge nazionale), cui si sommano le proposte giacenti in parlamento per l'istituzione di altre 22 giornate nazionali (a cominciare dal 12 novembre, anniversario di N assirya, giornata del ricordo dei caduti 313
nelle missioni di pace). Dobbiamo riconoscere che alcune trovate sono geniali (le migliori ci sembrano le giornate dedicate alle ferrovie abbandonate, alla bicintreno e all'incontinenza), ma dobbiamo anche dire che questo è nulla in confronto alle 78 giornate istituite dall'Onu. Ci sembra interessante che a nessuno sia venuto in mente che una tale overdose di ricorrenze abbia come effetto reale quello dell'azzeramento reciproco, dato che neanche Pico della Miran-. dola riuscirebbe a tenere a mente un simile calendario liturgico. Ma sarebbe ingiusto attribuire gli sconfinamenti nel campo della storiografia alla sola irruzione del populismo storiografico. Anche nel caso italiano, l'uso politico della storia è passato attraverso la sua tribunalizzazione e in forme ancora più accentuate che altrove. E, come nel caso originario di Norimberga, questo fenomeno ha preso le mosse da una esigenza reale di giustizia e non da un disegno di indebita interferenza politica, questo, semmai, ne sarà l'esito posteriore e imprevisto Tuttavia, questo ricorrente uso di discutere nelle aule di giustizia le vicende politiche del nostro paese e di riflesso, della storia che ne scriverà - produce quasi inevitabilmente una serie di distorsivi di cui occorre tener conto. Ad esempio questa tendenza ha assunto anche l'aspetto di querele o citazioni civili per danno all'immagine. E questo ha dato la stura a una incredibile serie di pronunce giudiziarie. I figli del medico che stilò il certificato di morte di Mussolini hanno querelato il giornalista Luciano Garibaldi per aver scritto che il certificato non diceva la verità sull'orario della morte e, probabilmente, fu estorto al medico dai partigiani. Il tribunale di primo grado ha accolto il ricorso condannando l'autore. Altro magistrato (di cui una caritatevole amnesia ci impedisce di ricordare il nome) è andato più in là, accogliendo il riscorso di un cittadino che si lamentava di quel che era scritto su di lui un libro di storia. Non perché ciò fosse falso, ma perché, essendo stato amnistiato a suo tempo, egli rivendicava il« diritto ali' oblio» della sua colpa, tesi che il magistrato fece sua. In effetti la parola amnistia viene dal verbo mim.314
nesco e, in effetti, significa dimenticanza, ma per la legge ... non per la Storia. Né si tratta solo di pronunce di qualche modesto giudice di provincia in cerca di un quarto d'ora di celebrità: in qualche caso a dare man forte a questa tendenza anche la Suprema Corte di cassazione come di recente ha fatto la sua V sezione.318 Il processo di tribunalizzazione ha avuto uno sviluppo esponenziale dall'inchiesta Mani Pulite, che ha prodotto un circuito giudiziario-mediatico-politico che si è andato· autoalimentando, in particolare attraverso l'esperienza delle Commissioni parlamentari di inchiesta.
10. L'uso politico della storia: le Commissioni parlamentari
di inchiesta Infatti, già a partire dagli ultimissimi anni Ottanta, si era manifestata una particolare forma di commistione fra storia e politica spesso sconfinata in un uso assai disinvolto della storia da parte della politica. I precedenti immediati furono quelli delle Commissioni di inchiesta sul caso Moro e sulla loggia massonica P2, che ebbero vita nella prima metà degli anni Ottanta. Pur fornendo una cospicua massa di materiale documentario per le successive ri~ cerche, esse non dettero. luogo a particolari sovrapposizioni fra politica e storiografia, sia per l'oggetto abbastanza circoscritto della propria indagine, sia per l'uso mediatico abbastanza sobrio delle loro risultanze (salvo, ovviamente, la fase finale), sia per l'atteggiamento delle forze politiche ancora lontane dall'ingaggiare il « duello sulla memoria» che si manifesterà più tardi. Semmai, il /aìr play parlamentare rasentò spesso la reciproca reticenza. 318
La Cassazione timbra la storia: Prima Repubblica uguale intrallaz-
za, in « la Repubblica», 25 settembre 2008, p. 7. 315
· Anche la Commissione parlamentare antimafia, sino a quel-
1'epoca, seguì la stessa piega. Le cose iniziarono a mutare nella X legislatura. Nel 1983 il leader di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie rilasciò una intervista a Enzo Biagi, nella quale si diceva disponibile a tornare in Italia e dare la sua versione sulle stragi di piazza Fontana, Brescia e Bologna, ma a condizione di deporre davanti a una Commissione parlamentare di inchiesta. Inizialmente sostennero la proposta soltanto il radicale Massimo Teodori, il missino Tomaso Staiti di Cuddia e il socialista Gianni Baget Bozzo. Ma la strage di dicembre 1984, la conclusione dei lavori della Commissione P2, le deposizioni dell'autore della strage di Peteano Vincenzo Vinciguerra - spontaneamente costituitosi per poter dare la sua versione dei fatti a riscatto del proprio onore politico - spinsero in questa direzione. Nei primi mesi del 1987 veniva costituita una Commissione di inchiesta monocamerale presieduta dal Dc Gerardo Bianco. Immediatamente dopo, Delle Chiaie rimpatriava e, il 9 e 10 aprile, era audito dalla Commissione. La fine anticipata della legislatura provocava lo scioglimento di quella prima Commissione, ma essa venne ricostituita con legge n. 172 del 17 maggio 1988 che istituiva la « Commissione parlamentare di inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi» fissando in diciotto mesi la durata dei suoi lavori e le attribuiva (art. 1) gli scopi di indagare su: a) i risultati conseguiti e lo stato attuale nella lotta al terrorismo in Italia; b) le ragioni che hanno impedito l'individuazione dei responsabili delle stragi e dei fatti connessi a fenomeni eversivi verificatisi in Italia; c) i nuovi elementi che possono integrare le conoscenze acquisite dalla commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di via Pani e l'assassinio di Aldo Moro istituita con legge 23 novembre 1979, n. 597; d) le attività connesse a fatti di strage o a fenomeni eversivi 316
dell'ordinamento costituzionale e le relative responsabilità riconducibili ad apparati, strutture e organizzazioni comunque denominati o a persone a essi appartenenti o appartenute.
ma, a seguito di diverse leggi di proroga, la Commissione resterà attiva per 13 anni fino al 2001. Nella X e XI legislatura il presidente fu il senatore Libero Gualtieri (Pri), mentre. dal 1994 (XII, XIII legislatura) il sen. Giovanni Pellegrino (Pds). ' La ratio legis centrale era quella delle « ragioni della mancata individuazione dei responsabili delle stragi», mentre, sul merito delle diverse vicende la legge accennava alla raccolta di notizie sull'eventuale responsabilità di apparati di sicurezza, senza prevedere una organica narrativa di tutto ciò. Per la verità, il confine fra le due cose era abbastanza labile, soprattutto ove la « mancata individuazione» fosse stata prodotta dai depistaggi di apparati di sicurezza. Dunque, in qualche modo, era inevitabile che l'inchiesta andasse verso il merito dei fatti. A spingere nello stesso senso era anche l'evoluzione del quadro politico. Il Pci (poi Pds), spinto nell'angolo dalla coalizione di pentapartito (Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli), cercava un rilancio abba_ndonando la linea prudente - e quasi reticente - seguita al tempo del compromesso storico. Anche il Psi, alleato ma anche antagonista della Dc, era interessato a ciò. A imprimere la svolta decisiva fu il« caso Gladio». Nel quadro dell'inchiesta sui depistaggi sulla strage di Peteano, l'Autorità giudiziaria veneziana (Felice Casson), nel 1989, chiese l'accesso ali' archivio del Sismi, per stabilire se fosse davvero esistito un corpo di civili affiancato al servizio militare, dotato di propri depositi di armi, come quello scoperto anni prima ad Aurisina e dal quale si sospettava venisse l'esplosivo usato a Peteano. Il presidente del Cònsiglio Andreotti concesse l' autorizzazione e il magistrato scoprì in questo modo l'esistenza di un corpo denominato «Gladio» che avrebbe dovuto costituire il primo nucleo di resistenza in caso di occupazione da parte sovietica. 317
Nel luglio successivo, il deputato radicale Ambrogio Vivianiun ex generale del Sismi e membro della P2 - rilasciava una intervista a Radio Radicale nella quale parlava di quella organizzazione. Elio Quercioli e altri due deputati comunisti rivolgevano una interrogazione urgente al presidente del Consiglio Andreotti. Il dubbio che iniziava a serpeggiare era che Gladio fosse l' « anello di congiunzione» fra eversione nera e servizi segreti. E il dubbio divenne certezza quando, in ottobre, Andreotti prèsentò il suo rapporto al parlamento definendo Gladio come > i dati e selezionando le fonti a sostegno delle proprie tesi. Ma l'abuso della storia a fini politici non consiste solo nella 335
Tom Blickman, Tom Kramer, Pien Metaal, MartinJelsma, Riscrt~ vere il passato guardando al presente, in « il manifesto», 27 luglio 2008.
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produzione di una storiografia manipolata, a sostegno di una tesi precostituita. ·. C'è anche l'altra faccia della medaglia, quella dell'intervento censorio che« recinta» lo spazio entro il quale lo storico si deve tenere .. È il caso·delle leggi sul genocidio ebraico o armeno o sui crimini del comunismo che abbiamo visto disseminate in quasi tutte le democrazie liberali.
2. Il ritorno del Principe Ma una pura descrizione del fenomeno del crescente abuso della .storia non è molto utile se non se ne rinvengono le ragioni politiche. · Nelle pagine precedenti abbiamo cercato di dimostrare che siamo di fronte a un nuovo trionfo della storiografia del Principe. Ritorno, non novità assoluta, certamente. La storia così come venne formandosi nel XVIII secolo, a opera .di uomini come Gabriel Mably o Ludovico Antonio Muratori, fu parte integrante del processo di secolarizzazione del potere politico. Ma accanto a questa storia, continuò a esserci quella del Principe, finalizzata a legittimarne il potere all'interno e le mire espansioniste verso l'esterno. La storiografia indipendente dovette guadagnarsi la sua libertà e la ottenne partecipando al processo rivoluzionario che fondava la moderna democrazia. Il ritorno di cui parliamo non riguarda certamente le società autoritarie o totalitarie, dove la storia, al pari di ogni altra forma di libertà di pensiero, è normalmente conculcata, ma le società a democrazia liberale. Beninteso: anche in esse - e lo abbiamo già detto - il potere politico non si è mai astenuto dall'intervenire: direttive scolastiche, politica dei finanziamenti della ricerca, toponomastica, celebrazioni ufficiali, controllo degli archivi ecc. sono sempre stati i suoi strumenti di intervento. Ma, nel complesso, si era stabilito un equilibrio fra esigenze di autolegittimazione del sistema politico e libertà di ricerca. Questo equilibrio viene oggi infranto da 338
una inconsueta serie di forme di intervento: leggi.penali, giurisprudenza civile restrittiva, Commissioni parlamentari di inchiesta o di riconciliazione, operazioni dei servizi segreti che fanno sentire la loro presenza anche nel lancio editoriale di talune opere, norme sempre più restrittive nell'accesso agli archivi in nome della privacy, allungamento dei tempi del segreto di stato, ecc. Si badi che fra le forme di condizionamento politico della storia consideriamo non solo quelle rivolte a progetti imperiali, ma anche quelle finalizzate a progetti di pacificazione interna. Questo secondo scopo può apparire ed è più nobile dell'altro, ma comporta pur sempre delle forzature alla verità storica. La battaglia che, nelle società liberal-democratiche di oggi, si sta combattendo intorno alla storia è solo il riflesso della battaglia politica sul nuovo ordine mondiale e, ancor più, sulla natura del sistema politico. È in gioco il modello di democrazia che si affermerà nei prossimi.decenni. Infatti, abbiamo visto quanto sia evidente il nesso fra letture della storia e assetti costituzionali: la politica condiziona giuridicamente la storia anche perché la scrittura della storia influenza la formazione del diritto e di quello costituzionale in primo luogo. Ne abbiamo detto sia a proposito delle nuove democrazie quanto a proposito dell'anomalo caso italiano. Allo stesso modo in cui la forte insistenza sulla continuità della propria storia nazionale (dato molto evidente in Cina, Russia e, in forme particolari, negli Usa) non è funzionale solo ai progetti di politica estera, ma soprattutto a stabilire il principio per cui l'ordinamento politico dato è il custode di questa continuità e, pertanto, trae legittimità da essa. Il ritorno della geopolitica sancisce questa predominanza della proiezione esterna sulle dinamiche interne e, in definitiva, rende irrilevante il sociale. Si produce così una nuova forma di sacralizzazione del potere politico costituito che si contrappone e nega il potere costituente sociale. Per questa ragione l'abuso della storia attraverso le ingerenze dirette del potere politico nella ricerca (con leggi, pronunce 339
giudiziarie, operazioni dei servizi, Commissioni parlamentari ecc.) non è separabile da quello che abbiamo chiamato «il vento culturale del neoliberismo». I due fenomeni si sostengono a vicenda, anche se, apparentemente, alcuni interventi censori (come la legislazione antinegazionista) sono rivolti a tutt'altro scopo e possono, addirittura, sembrare orientati in senso antirèvisionista: quello che conta è legittimare il principio per il quale il potere politico può sindacare in questa materia. Di fatto, le leggi in materia di negazionismohanno fatto da apripista all'ingerenza del potere politico nel campo della libertà di ricerca. La motivazione nobile della difesa della verità del sacrificio degli ebrei e degli altri trucidati nei lager non muta la natura liberticida del1' atto. Ci sono cose che nessun fine può giustificare: come la tortura, che resta un crimine contro l'umanità anche quando è operata in nome della lotta al terrorismo. D'altra parte, come vedremo, esiste anche un uso diverso del discorso sull'Olocausto (ne parleremo fra breve) che rende molto più trasparente il nesso fra questo tipo di legislazione e i contenuti della storiografia revisionista. A ben guardare, la vera particolarità della situazione attuale sta nell'assenza del contraltare di una storiografia repubblicana a quella del Principe. Il canone progressista era stato, fra la fine dell'Ottocento e gli anni Settanta del Novecento, il punto di arrivo della storiografia repubblicana che accomunava tanto la Progressive History americàna, quanto il canone giacobino-marxista francese, quello gramsciano-azionista italiano ecc. Come abbiamo detto, il canone progressista è andato in crisi quando la modernità ha rivelato contraddizioni ed esiti che esso non era più in grado di spiegare. L'ottimistica fede nella capacità della modernità di conquistare sempre nuovi traguardi di libertà, sviluppo scientifico, benessere economico e giustizia sociale si è duramente scontrato con un corso dei fatti assai più accidentato e problematico di ogni previsione. Contrariamente a quello che qualche nostro Maestro pensava, non si è affatto verificata la previsione per la quale « i paesi più avanzati indicano la strada a quelli più arretrati». Le culture
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tradizionali non si sono affatto dissolte all'impatto con la modernizzazione, ma vi si sono intrecciate producendo esiti insospettati e molto diversi da caso a caso. Questo ha posto di fronte a processi la cui complessità sopravanzava di molto la capacità esplicativa delle tradizionali scuole progressiste (marxiste, liberali o giacobine che fossero). D'altra parte, le scuole di pensiero progressiste non hanno saputo fare molto di meglio di fronte alla caduta dei regimi comunisti. La degenerazione o (se si preferisce) il modo storicamente concreto con cui il comunismo ha trovato attuazione e la sua fine conseguente restano ancora temi con cui la storiografia progressista (forse con la sola parziale eccezione di Hobsbawm) non ha ancora cercato di misurarsi. La difesa dogmatica a oltranza del vecchio apparato concettuale ha peggiorato le cose, rendendo il canone progressista sempre più inadeguato a darè risposte a quell'insieme di dinamiche sodali, politiche ed economiche che abbiamo cercato di sintetizzare a premessa di tutto il nostro ragionamento. Nel varco è passato il revisionismo storico di questi anni. D'altra parte, il collasso del canone progressista ha privato la storiografia del Principe di ogni contraltare, che non fosse la falsa alternativa del populismo storiografico che ne è solo il riflesso speculare. La funzione reale di questo tipo di storiografia non è quella proclamata di « demolire le false verità» di una storia scritta da « intellettuali venditori di fumo» per« ridare la voce al popolo», ma quella di una sorta di « antipedagogia » destinata a rafforzare la subalternità culturale delle classi popolari. Quella populista è la variante della storia di corte scritta dalla servitù.
3. I nodi in discussione E dunque, occorre riprendere la distinzione, che abbiamo posto all'inizio di questo lavoro, fra revisionismo storico e negazionismo olocaustico.
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Come abbiamo cercato di dimostrare, il negazionismo non ha alcuna dignità storiografica, al pari di altri fenomeni paralleli come il populismo storiografico. Essi assolvono a una funzione di fiancheggiamento e diversione dalla manovra principale, ma questa ha altra portata e si muove ad altri livelli. Il vero revisionismo (quello che conta) è quello che oggi chiama sìtl banco degli accusati gli ultimi tre secoli di storia: il Settecento è chiamato a discolparsi per aver affermato il principio rivoluzionario, l'Ottocento per essere stato il secolo romantico dello stato-nazione, il Novecento perché secolo delle masse. Questa è la risposta del neoconservatorismo alla crisi della modernità: riproporla conservando alcun princìpi di libertà (soprattutto di mercato) e la capacità di innovazione tecnologica, ma scorporandone le origini rivoluzionarie, democratiche ed egualitarie. È un vero e proprio processo alla modernità per come si è venuta configurando quale rottura con la tradizione. Il Settecento è il primo imputato, per la fondazione rivoluzionaria della democrazia. Certamente, anche nel secolo precedente si era manifestata la rivoluzione democratica del 1640 ma essa era restata un fatto inglese e non aveva preteso di esprimere un principio universale; peraltro la Glorious Revolution del 1689 si era incaricata di riconciliare il principio liberale con quello monarchico e l'anomalia era stata riassorbita. Ma l'Ottantanove francese era ben altra cosa, aveva una portata ben più scardinante del principio di legittimità proclamando l'insopportabile principio di Égalité ponendolo in relazione necessaria con quello di Liberté, che così assumeva ben altro significato. E, infatti, ben più benevolo è il giudizio sulla rivoluzione del 1689 o quella americana che non esprimono alcuna particolare valenza egualitaria. E qui rimandiamo a quanto abbiamo detto sulla riscoperta di Burke, la nuova fortuna di Schmitt, il ruolo di pensatori come van Mises e von Hayek. L'Ottocento ha forse colpe meno gravi agli occhi della con-
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trorivoluzione storiografica in atto: deve discolparsi di essersi ribellato· al Congresso di Vienna, negando il principio ordinatore imperiale, prodotto dal concerto dei singoli imperi, in favore degli stati-nazione. L'ordine westfalico veniva a compimento con il riconoscimento generalizzato del diritto di ciascuna nazione (o ritenuta tale) all'indipendenza. Ma la rivalutazione del principio imperiale (tanto nella variante americana dell'impero universalista, quanto in quella delle altre potehze, del concerto fra imperi) non è compatibile con la persistenza di questo ordine sociale da archiviare. Nel complesso, l'Ottocento può sperare di cavarsela con una sentenza di non luogo a procedere per sopravvenuta prescrizione. Ma l'imputato su cui gravano le accuse più gravi è certamente il Novecento.
4. L'antinovecentismo Questo processo alla modernità trova il suo punto più intenso nel« processo al Novecento» perché il tentativo neoconservatore, di riformulare un'idea non egualitaria di modernità, deve necessariamente scontrarsi con quello che il Novecento ha rappresentato. L' antinovecentismo è la sigla inconfondibile del revisionismo antirivoluziònario, che conduce una serratissima campagna tesa a descrivere il Novecento come il « secolo maledetto» dal quale prendere velocemente le distanze. E basti leggere le definizioni del secolo contenute nel titolo di alcune storie di esso: «secolo della violenza» (Niall Ferguson), « delle idee assassine» (Robert Conquest), « del male» (Alain Besançon), « del genocidio» (Robert Gellately e Ben Kierman), e anche autori di orientamento non revisionista usano espressioni quali « secolo sbagliato» (Giorgio Bocca), «insostenibile» (Renato Monteleone), « della paura» (Carlo Pinzani), «doloroso» (Cesare De Michelis) e via proseguendo. Insomma il peggior secolo della storia. 343
La nota dominante, .a sostegno di questa condanna inappellabile, riguarda proprio i genocidi che si connettono al tema del totalitarismo nazista e, attraverso questo, a quelli sovietico e cinese ecc. Stranamente, quasi nessuno affianca ai genocidi Ie stragi atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Ovviamente, il dogma indiscutibile è quello dell'unicità della Shoa (in particolare Besançon) 336 che conferisce al secolo quella particolare aura demoniaca che ne fa il secolo maledetto per eccellenza (e qui si inizia a intravedere l'uso della Shoa in senso antiprogressista cui facevamo cenno poco prima). Anche Gellately e Kiernan, 337 che, pure, ricordano come pratiche genocidiarie si siano verificate anche in altre epoche storiche (popolazioni precolombiane, pellirosse del Nordamerica, stragi coloniali ecc.Y, tornano poi a spostare l'accento sui genocidi del Novecento, come eventi esclusivi per il loro carattere sistemico e la potenza dei mezzi impiegati. Davvero esiste una particolarità del Novecento come secolo dei genocidi? Del primo argomento (l'unicità della Shoa o, comunque, dei genocidi del Novecento) abbiamo già detto e ci limitiamo a ripetere che si tratta di un argomento di nessun valore scientifico, smentito da una conoscenza pur modesta della storia delle epoche precedenti. Apparentemente più fondato appare il secondo argomento dell'unicità dovuta ali' applicazione di mezzi di particolare potenza e criteri amministrativi razionali. Constatazione verissima che, però, non dimostra nulla: il Novecento è stato il secolo del più intenso sviluppo scientifico e tecnologico della storia e, esattamente come in ogni altra epoca, le risorse a disposizione sono state impiegate sia per fini moralmente nobili che ignobili. Dunque, l'uomo del XX secolo non ha espresso alcuna differenza 336
Alain Besançon, Novecento. Il secolo del male, Lindau, Torino,
2008. 337
Robert Gellately, Ben Kiernan, Il secolo del genocidio, Longanesi, Milano, 2003.
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apprezzabile, sotto questo profilo, rispetto a quelli degli altri secoli. C'è, invece una particolarità del Novecento in materia di ge• nocidi ma va in direzione diametralmente opposta a quella del « secolo maledetto»: è il secolo che ha creato la percezione del genocidio come crimine contro l'umanità, sancendolo nella Convenzione dell'Onu del 1948. La novità del Novecento non sono i lager che, mutatis mutàndis, hanno ripetuto pratiche genocidiarie di altre epoche, ma Norimberga che non ha precedente alcuno nella storia. E questo perché il Novecento porta alle estreme conseguenze il valore di Égalité risolvendolo nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. È solo la percezione dell'appartenente ad altra razza o etnia come soggetto pienamente umano a porre le pre• messe del rigetto del principio di despecificazione e, perciò, della percezione del genocidio come crimine. Lo sterminio dei pellirosse o degli aztechi non venne percepito come tale, semplicemente perché quelle popolazioni non erano percepite come umane. Dunque, una particolarità del Novecento che non va affatto nel senso del secolo maledetto, ma che, semmai, porta a .considerarlo come il secolo dell'affermazione universalistica della pari dignità di tutti gli uomini. Altro argomento normalmente usato in connessione a quello del genocidio è quello del totalitarismo: il Novecento avrebbe realizzato il sistema oppressivo più spaventoso della storia realizzando la concentrazione totale del potere in un'unica entità (il partito, lo Stato, il dittatore ecc.). Trovare esempi di società dispotiche e di sistemi oppressivi, in epoche precedenti, sarebbe tanto facile che ci esimiamo dal farlo; quanto poi alla pretesa originalità novecentesca di un potere« totale», forse le cose sono meno scontate di quanto non si creda. Ad esempio, leggiamo in una lettera di fra Paolo Sarpi: [ ... ] Ma questo cui ora aspirano, non è un primato ([ ... ] anzi il principato della Sede Apostolica) ma un « totato », se è lecito 345
inventare un vocabolo per indicare il fatto che, abolito ogni ordinamento, si attribuisce tutto a uno solo.338
Pertanto, la tematica della concentrazione «totale» del potere (e, pertanto, il fenomeno) non era ignoto ben tre secoli prima e Sarpi va molto vicino a coniare il termine «totalitarismo». Al solito, la particolarità novecentesca sarebbe rappresentata dalla più forte pervasività del potere dispotico, grazie alla maggiore disponibilità di mezzi tecnici e alla migliore ot:ganizzazione amministrativa. Valgono le stesse riflessioni fatte a proposito dei genocidi. Argomento affine e incrociato con i precedenti è quello dei tassi di violenza che assegnerebbero un primato al Novecento. ' Anche qui le cose sono più problematiche di questi giudizi sommari. Intanto occorrerebbe riconsiderare i termini impiegati per operare una corretta comparazione: ad esempio, le idee di pace e di guerra non hanno avuto sempre lo stesso significato nel tempo.339 Il Novecento è visto come un secolo particolarmente bellicoso, ma alcuni indicatori smentiscono questo assunto. Se consideriamo l'Europa, il periodo di pace più lungo che si sia mai verificato è proprio quello che va dal 1945 al 2000 con 55 anni di pace consecutivi, che superano i 44 anni dell'altra « grande pace», che va dalla fine della guerra di successione austriaca (17 48) alla guerra franco-austro-prussiana (1792). La Russia fu in guerra per 25 anni complessivi nel Novecento (guerra russo-giapponese, Prima guerra mondiale, guerra russo-polacca, Seconda guerra mondiale, invasione dell'Afghanistan), ma nell'Ottocento lo fu per 56 anni (partecipazione a guerre napoleoniche, guerre russo 0 persiane, russo-turche, russo-svedesi, Crimea, russo-afghana). 338
Lettera di Paolo Sarpi a Jacques Gillot (Venezia, 15 settembre 1609) in La Letteratura Italiana Storia e testi, Ricdardi; Milano-Napoli, 1969, vol. 35, tomo I, pag. 275. Debbo la segnalazione al mio amico Biagio Starita che qui ringrazio. 339 Considerazioni interessanti a questo proposito le svolge Marcello Flores, Tutta la violenza di un secolo, Feltrinelli, Milano, 2005. ·
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Similmente gli Usa sono stati in guerra per 66 anni nel XIX secolo e· per 35 nel XX. Potremmo proseguire ma ci sembra sufficiente a falsificare questo preteso primato del Novecento. Vero è che le guerre del Novecento hanno prodotto un numero di morti maggiore del passato: nessuna guerra precedente ha causato i 50 milioni di morti della Seconda guerra mondiale, ma questo rimanda, per l'ennesima volta, alla maggiore potenza tecnica dei mezzi impiegati e non a una maggiore ferocia degli uomini del Novecento. Queste considerazioni porterebbero a concludere che il« male del secolo» stia nello sviluppo scientifico e tecnologico, che ha consentito genocidi più sistematici, sistemi dispotici più invasivi e guerre più cruente. Ma questo implicherebbe una insostenibile condanna della scienza e della tecnologia che nessuno degli storici citati sottoscriverebbe. La via scelta è un'altra: la colpa maggiore dell'umanità del XX sècolo è quella di non aver saputo gestire la potenza tecnica conseguita, non limitandola a una applicàzione pacifica di essa, ma impiegandola anche a fini distruttivi e disumanizzanti. E ciò sarebbe dipeso dalla forte torsione ideologica del secolo in questione. Il Nocecento come « secolo delle ideologie» non è una definizione nuovissima (ci aveva pensato, già nel 1982, Karl Bracher)340 dove, ça va sans dire, il danno viene dalla predominanza di ideologie totalitarie, come il nazismo e il comunismo. L'uomo del Novecento tende al fanatismo perché è homo ideologicus e, in quanto tale, tende a conformare l'ambiente circostante al proprio universo ideologico, se necessario, con la forza. Ovviamente, questo presuppone che le ideologie siano solo quelle di natura politica. Leggiamo nei dizionari della lingua italiana più diffusi: ideologia= complesso di idee e princìpi propri di un'epoca, di un gruppo, di una classe sociale (De Mauro).
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Karl D. Bracher, Il Novecento. Secolo delle ideologie,· Laterza, Roma-Bari, 1985.
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ideologia [. .. ] l'insieme dei prirìcìpi e delle idee che stanno alla base di un movimento politico, religioso, e sim. (Zingarelli). ideologia= [. .. ] complesso di credenze e di valori propri di un gruppo sociale, di un popolo o di un paese (Dizionario di Italiano, l'Enciclopedia, La Biblioteca di Repubblica). Sostanzialmente, intendiamo per esso un sistema organizzato di idee per il quale l'una è logicamente concatenata con le altre. Ma se si tratta _di questo, anche le religioni sono sistemi di idee, magari nei quali influiscono forme di pensiero magico o mitologico, con elementi irrazionali, ma pur sempre ideologie. Né si può dire che l'ideologia religiosa si fermi solo alla sfera del rapporto con la divinità, perché normalmente da essa discendono indicazioni di carattere morale che investono necessariamente la sfera politica e sociale. Se assumiamo il termine ideologia come comprensivo anche della dimensione religiosa, automaticamente il ragionamento precedente cade, perché le ideologie religiose sono molto precedenti al Novecento e nessuno può sensatamente sostenere che esse siano state - e tuttora siano - esenti da fanatismi e dispotismi. Anzi, i conflitti religiosi sono caratteristicamente quelli più difficilmente mediabili e componibili. In realtà, la polemica contro l'ideologia (e dunque il Novecento) sottintende che ci sia « un retto modo di pensare», deducibile da una sorta di morale naturale, rispetto al quale giudicare i sistemi ideologici in quanto sistemi «artificiali», appunto, non naturali. Ma questo è esattamente il pensiero della tradizione, per cui la morale naturale è quella che si è sempre osservata e che trae la sua conferma proprio da questa pretesa continuità nel tempo. Ai suoi «sacerdoti» il compito di interpretare cosa è eterno e cosa caduco in questa morale. Un'ottima premessa per edificare un sistema teocratico e totalitario. In effetti, non appare puramente casuale la coincidenza temporale fra l' antinovecentismo e le polemiche antirelativiste.
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È invece notevole come i reali primati dd Novecento siano trascurati in questo tipo di analisi. Il XX secolo è stato il periodo storico con i più rilevanti mutamenti demografici, sia per incremento che per migrazioni; quello in cui si è registrato il maggior allungamento della vita media e nel quale la fame è stata sconfitta in larga parte del pianeta. Nel Novecento lo sviluppo della tecnologia e della scienza e la diffusione dell'istruzione hanno avuto uno sviluppo senza precedenti. Esso è stato indubbiamente il periodo di maggior benessere economico di tutta la storia, in cui si è sviluppato un sistema di trasporti e telecomunicazioni mondiale. Tutto questo ha profondamente cambiato la mentalità umana, creando l'aspettativa di un benessere in costante crescita grazie al continuo sviluppo della scienza. Anche in politica il Novecento ha registrato i più intensi cambiamenti mai verificatisi e non solo per la pretesa' nascita dei totalitarismi. Anche le democrazie liberali hanno conosciuto uno sviluppo senza precedenti e basti un dato a dimostrarlo: agli inizi del secolo la democrazia rappresentativa era diffusa in meno di 1/6 del mondo e il suffragio era spesso censitario, per cui il numero complessivo degli elettori era sotto i cento milioni di persone, mentre alla fine del secolo la democrazia rappresentativa è diffusa in più della metà degli stati riconosciuti e gli elettori sono diventati oltre 1 miliardo e mezzo. Più in generale il Novecento ha rappresentato la nascita della società di massa, con le sue specifiche modalità di partecipazione politica (in particolare i partiti, i sindacati e i movimenti di massa). Il Novecento è stato caratterizzato dalla presenza di fenomeni largamente contraddittori o speculari, come il contemporaneo sviluppo di intelligence e terrorismo, una straordinaria rivoluzione militare e una diffusa pregiudiziale antibellicista, una esplosione di criminalità organizzata senza precedenti e una massiccia diffusione della cultura della legalità, una vasta secolarizzazione di massa e la rinascita di fondamentalismi di vario indirizzo, del 349
declino dello stato-nazione e della persistenza di feroci guerre per l'indipendenza. Molti di questi fenomeni segneranno mutamenti definitivi dello scenario umano. Non pensiamo a nessuna « fine della Storia» ma è ragionevole supporre che il Novecento esèrciterà una influenza durevole sulle epoche successive, come sempre accade alle gradi svolte storiche. Pertanto, il problema storiografico che ci si para dinnanzi è proprio quello di intuire la portata della svolta storica che abbiamo appena attraversato, da dove sia sorta e dove ci sta portando. Si comprende come tutto questo vada molto oltre la retorica del « secolo del male». Ma, in realtà, agli antinovecentisti non interessa questo, quanto negare nel Novecento l'utopia dell'uguaglianza. Non a caso abbiamo parlato di una rivincita di Edmund Burke e di ritorno alla naturalizzazione delle gerarchie sociali e, con esse, delle sofferenze umane. Torna, così, il tema della modernità senza rivoluzione e senza egualitarismo: insomma la Cadill~c e il Bancomat, ma senza il principio della sovranità popolare. Beninteso, non la. sua astratta e innocua proclamazione, ma il suo reale esercizio. In questo' quadro va inserita la condanna del socialismo sia nella variante socialdemocratica (cui si rimprovera di essere stato il partito del welfare e, dunque, il fautore di una pressione fiscale insostenibile) sia - e ovviamente molto di più - in quella comunista che è il vero « grande accusato del secolo»' (abbiamo visto come von Mises, ad esempio, si dichiari più comprensivo verso il nazismo per« aver evitato una rivoluzione comunista»). Lo sforzo dei Nolte, dei Courtois341 o dei Pipes è dimostrare che il comunismo è stato solo « crimini; terrore, repressione», come recita sin dalla copertina il « libro nero del comunismo». 341
Stéphane Courtois e altri, Il libro nero del comunismo, Arnoldo Mondadori, Milano, 1997; Stéphane Courtois, Il libro nero del comunismo occidentale, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002. 350
E per questo il comunismo sarebbe stato solo un fenomeno criminale senza altro residuo, anzi il principale fenomeno criminale, quello che fa del Novecento il secolo maledetto. Beninteso: chi scrive queste pagine non nega affatto i crimini perpetrati dai partiti comunisti al potere {e non ha atteso il 1989 per sostenerlo). Né negà che le rivòluzioni comuniste abbiano dato luogo a regimi negatori delle più elementari libertà o che abbiano operato scelte economiche rovinose. E neppure che lo sviluppo industriale, dell'Urss prima e della Cina dopo, possa giustificare i costi umani che tutto questo ha comportato. Ma resta da dimostrare che ciò sia stato il prodotto necessario delle premesse ideologiche del movimento. Certamente tanto nel leninismo quanto nel marxismo erano presenti alcune premesse che avrebbero prodotto quell'esito, ma non si può dire chel'uno e l'altro siano riducibili solo quelle premesse. E, pertanto, sostenere che il marxismo o anche il leninismo (che noi riteniamo vadano debitamente distinti) siano in perfetta linea di continuità con Io stalinismo è esattamente quello che la macchina di propaganda staliniana ha sempre sostenuto. I Nolte, i Furet, i Pipes e i Courtois fanno proprio, senza alcun velo critico, questo argomento, per dimostrare che le colpe del comunismo .non dipendono.dalle scelte concrete fatte dalla dirigenza staliniana o maoista, ma sono la conseguenza inevitabile di una ideologia basata sull'utopia egualitaria. Conseguentemente, gli storici revisionisti rimuovono ogni distinzione fra movimento e regime che, invece, accettano normalmente nell'analisi del fascismo. Eppui;-e ci sarebbero più ragioni per applicare tale distinzione al comunismo di quante non ce ne siano per adoperarla nell'analisi del fascismo che (come regime) è durato un terzo del tempo dei regimi comunisti e ha avuto una irradiazione mondiale molto più ridotta. Il comunismo, infatti, ha rappresentato anche un movimento di emancipazione di decine di milioni di lavoratori, la part~ maggioritaria della Resistenza antifascista e, spesso, dei movimenti di liberazione nazionale dei popoli ex coloniali .. Una spinta 351
verso la realizzazione di un'ideale egualitario che non è stato un trascurabile accidente nella storia del Novecento. Ma proprio questa pulsione verso l'eguaglianza è il maggiore capo d'accusa rivolto al comunismo dai fautori dell'individuali smo proprietario che, non a caso, sono molto più comprensivi verso regimi e movimenti liberticidi, quando es~i non mettono in discussione il sistema capitalistico. Va detto che a sostenere questa identificazione senza residuo fra comunismo e stalinismo (un autentico « abuso della storia» per manipolazione) i Furet e i Nolte sono in paradossale compagnia tanto degli storici comunisti «ortodossi» (che riprendono senza ombra di dubbio la tradizionale lettura staliniana) quanto dei molti storici ex marxisti, che si sono dileguati avvolti in una nebbia di reticenze. ' Il comunismo ha bisogno di una rigenerazione che passi per un bagno di laicità e una spietata critica di se stesso. Sfortunatamente, sin qui esso non ha trovato nessun Woityla, ma solo diversi cardinal Biffi. 0
5. Elogio del revisionismo Se la legislazione antinegazionista e affine è stata il ferro di lancia dell'ingerenza del potere politico nella storiografia, il revisionismo storico ne è stato lo scudo ideologico e fra le due cose vi è · una obiettiva convergenza. Dunque, è chiaro il giudizio proposto sul revisionismo. E, tuttavia, sarebbe errato non riconoscerne il merito obiettivo di aver scosso antiche certezze e aver costretto il canone progressista a fare i conti con la propria crescente inadeguatezza. · Beninteso, nel revisionismo storiografico dell'ultimo quarto di secolo c'è molta spazzatura o testi assolutamente mediocri e metodologicamente zoppicanti come il « libronerame » che propone una versione scandalistica e moraleggiante della storia al livello del peggiore populismo e che ormai si estende anche ad argomenti non storici. Oltre che sul comunismo in tutte le salse,
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sono usciti lj.bri neri: sul cristianesimo, sul genocidio nazista nei territori sovietici, sul capitalismo, sulla caccia alle streghe, sul governo Berlusconi, sulla magia, sulla Prima repubblica, sugli Usa, su al-Qaeda, sulla Cina, su Cuba, sulla droga, sui serial killer, sul Medioevo, sulla guerra, sull'Inquisizione, sulla guerra in Iraq, sulla psicanalisi, sulla pedofilia, sulle società segrete, sui regimi islamici, sulle Brigate Rosse, sul calcio italiano, sul satanismo, sulle violenze contro le donne, sul petrolio, su Roma antica, sull'agricoltura italiana, su Stalin, sui fondi strutturali europei, sui nuovi inquisitori (e l'elenco è assai incompleto). E non è certo a questo revisionismo o a quello di Irving o Mattogno che intendiamo riconoscere una qualche funzione positiva. Ma il revisionismo storiografico non è stato solo questo. Per quanto i giudizi storici di Furet o di Nolte siano criticabili, non c'è dubbio che propongano obiezioni al canone progressista (nelle sue varie declinazioni) che non si possono liquidare scrollando le spalle. E anche se nei loro lavori non mancano punti deboli come la disinvolta applicazione della comparatistica (ci sembra di averne fatto ripetuto cenno) non si può ridurre la discussione a questo solo aspetto. La strategia argomentativa più forte non è mai quella che mira a colpire il discorso avverso nei suoi punti più deboli, ma quella capace di individuarne i punti più solidi e riscontrati e assorbirli nella propria sintesi. Se uno storico fa trenta errori, ma dimostra essere inoppugnabilmente vero un determinato avvenimento o fenomeno storico, chi gli si contrappone può contestare i trenta errori, ma non può rimuovere la pur sola acquisizione positiva e dovrà tenerne conto nella propria ricerca su quella materia. E, peraltro, fra gli storici revisionisti non mancano affatto quelli che hanno raggiunto risultati ormai largamente condivisi, come Renzo De Felice - di cui abbiamo detto -, anche se questo non significa necessariamente far propria e per intero la sua analisi del fascismo. Anche attualmente, peraltro, non mancano storici di orientamento revisionista (come è nel caso della «Rivista di Storia Contemporanea» diretta da Francesco Perfetti) o comunque critico verso il canone gramsciano-azionista con i quali sia possibile un confron353
to di alto profilo, pur nella distinzione delle rispettive posizioni. Anzi, questo può risultare molto utile. Se, ad esempio, Elena Aga Rossi e Victor Zavs Pasky ricostruiscono in un certo modo la formazione della « svolta di Salerno » su una solida base di do~ cumenti sin qui non noti, non ci si può coprire di ridicolo parlando di « ossessione documentaristica»: in fondo, la storia si scrive sempre consultando i documenti, mica i tarocchi! Dunque, la tempesta scatenata dal revisionismo storico è stata utilè a mettere gli storici di orientamento marxista, azionista, giacobino, laburista o comunque afferenti al canone progressista di fronte alla crisi dei propri modelli storiografici e, per ciò stesso, è stata un evento positivo, al di là del merito di molte loro· affermazioni. Proprio il tentativo di scorporare l'eredità rivoluzionaria dal1'idea di modernità - che abbiamo vivacemente contestato in queste pagine - obbliga gli storici di parte progressista a misurarsi sul tema, sin qui aggirato, della modernizzazione e dei suoi problematici esiti. Così come la necessità di contestare una serie di affermazioni impone un approfondimento della metodologia: dall'uso della comparatistica all'applicazione della categoria di complessità alle scienze storiche, si apre un confronto metodologico non più rinviabile e necessario alla riformulazione di un canone democratico. Se è vero che ogni grande idea sorge come eresia e muore come dogma, è anche vero che il canone progressista stava morendo ripiegato sulle sue granitiche certezze, sempre meno capaci di rispondere ai quesiti che questo presente pone al passato. E, quindi, occorre esser grati a chi ci obbliga a destarci dal nostro sonno dogmatico. Non stupisca, dunque, questo elogio finale del revisionismo, pur nella persistenza del suo rifiuto.
6. Per una nuova storiografia repubblicana Siamo partiti dalla considerazione che le particolarità della situazione presente stanno nelle nuove forme di ingerenza del potere 354
e nell'assenza del contraltare di una storiografia repubblicana.· E i due aspetti si rafforzano a vicenda: la crescente invadenza (soprattutto la censura tanto sulle fonti; quanto su quel che può esser detto o meno) si giova della deb6le reazione della storiografia indipendente e, nello stesso tempo, ostacola la formazione di una storiografia contrapposta a sé. Fatalmente, il Principe senza contraltare tende ad abusare del suo potere (e non solo in campo storico). Il canone progressista è andato in crisi per essersi rivelato inadeguato di fronte alla crisi della modernità ed è di qui che si deve ripartire. Fare le bucce al revisionismo e al populismo storiografico può anche essere doveroso, ma non è di nessuna utilità se non si accompagna a una rinnovata capacità di dare risposte ai quesiti che il ,presente ci impone. La storia-racconto è stata un segmento importante nello sviluppo della storiografia e resta un aspetto importante del lavoro dello storico, ma « sapere come è andata» è pur sempre necessario, ma non sufficiente. Non possiamo accontentarcene. La storia di cui abbiamo bisogno oggi è essenzialmente la storia-spiegazione: più che di Erodoto è di Tucidide che abbiamo di nuovo bisogno. La storiografia repubblicana deve rifondarsi tornando a essere eresia, se vuol essere spiegazione del presente. Occorre studiare, criticare l'attuale potere costituito, comprenderne i concreti meccanismi di funzionamento, rintracciandone i peculiari processi di formazione storica. Tutto questo implica un deciso mutamento di abitudini mentali, di premesse metodologiche, di modi operativi. Soprattutto occorre disfarsi dell'eredità dogmatica che, in varie forme, si riproduce e appesantisce il nostro lavoro. Ad esempio, l'ossessione analogica, per cui ogni cosa è la ripetizione di qualche altra cosa. Ogni fenomeno storico ha i suoi meriti, le sue colpe e i suoi errori e ha diritto. a essere giudicato per essi, non per il suo tasso di somiglianza o difformità con qualcosa che l'ha preceduto. Se esplode il movimento stu355
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dentesco dell'Onda, non è il «nuovo Sessantotto», ma, semplicemente, il 2008, un'altra cosa. Allo stesso modo in cui Berlusconi non è il nuovo Mussolini, Putin il nuovo Stalin e Obama il nuovo Roosevelt. A ciascuno il suo. L'analogia può aiutare a orientarsi ma occorre farne un uso assai parco per evitare che diventi una prigione concettuale. Tanto più se il compito più urgente è quello di fare un bilancio storiografico di un secolo come quello appena trascorso. Si pensi solo a un particolare: alla ricchezza e diversità di fonti da esaminare. Possiamo farlo applicando i metodi del passato? Resta ferma la prescrizione dell'acribia tucididea, ma essa deve. oggi applicarsi a una massa di fonti incomparabilmente diversa per quantità e qualità: la foto, il quotidiano, la registrazione di un colloquio, un filmato, un file, richiedono ciascuno procedure tecniche proprie per essere autenticati, letti, interpretati e trattati. Anche fonti più tradizionali come i documenti scritti o dati quantitativi come una statistica richiedono un trattamento meno ingenuo del passato: un volantino può essere usato per quel che dice, ma può esserlo anche per il « come» lo dice e l'analisi semiologica ne rivelerà potenzialità informative insospettate. Il documento interno a un servizio segreto non può essere letto come un qualsiasi documento di polizia perché ha propri modi di formazione, fini e linguaggio. E così, una statistica non vale solo per i dati ma anche per le metodologie con cui si è formata. Ma questo delle fonti è solo il minore dei problemi, restando invece assai più rilevante quello delle categorie interpretative e dei modelli interpretativi. Fare i conti con il Novecento implica prima di tutto misurarsi con il bilancio della modernità, ma siamo sicuri di sapere, in sede storiografica, cosa sia la modernità? Sin qui gH storici hanno lasciato volentieri ai sociologi, antropologi e politologi il compito di studiare la modernizzazione e, in maggioranza, se ne sono tenuti abbastanza lontani. Oggi, però, dobbiamo capire perché la modernizzazione non è stata l'applicazione di uno stesso modello per cui i paesi arretrati riproducevano, con poche varianti, ciò che era accaduto nei paesi che li avevano preceduti su quella strada. E questo impone 356
un approccio comparatistico sin qui non frequentatissimo dagli storici, in particolare italiani. Questo esame diventa tanto più rilevante se ci si pone il problema di studiare il trentennio finale, quello della rivoluzione neoliberista. Vero è che per una storia di questo trentennio ancora non abbiamo a disposizione la maggior parte dei documenti e che si tratta di qualcosa che è ancora in atto, per cui un esame generale di essa non è ancora maturo. Però, se è vero che ogni generazione ha diritto a essere la prima a scrivere la sua storia (pur se con le peculiari imperfezioni che questo comporta), considerando che siamo di fronte a un fenomeno ormai trentennale, non appare fuori luogo iniziare a porsi il problema. Ma analizzare pur solo le radici della rivoluzione neoliberista impone di misurarsi con un groviglio di problemi straordinariamente complesso. Sin qui gli storici - salvo poche lodevolissime eccezioni hanno girato intorno al problema della complessità, senza affrontarlo di petto. Ma l'esame dei diversi esiti della modernizzazione e una loro plausibile spiegazione non è possibile applicando i modelli esplicativi precedenti alla Seconda guerra mondiale. Come ben si sa, le reazioni di un organismo complesso a un determinato stimolo, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono descrivibili, matematicamente, con equazioni lineari. E le probabilità di una reazione di tipo lineare scendono quanto più è complesso il sistema che reagisce. Inoltre, è difficile prevedere entro quali tempi si manifesterà la reazione. Come scrive Alberto Gandolfi: [. ..] i sistemi complessi sono formati da reti di relazioni non lineari. Gli input che un sistema riceve si perdono in una palude di intrecci causali, si sovrappongono, si incrociano, si rafforzano, si cumulano, si annullano, si modificano. Morale: l'output perde la correlazione causale diretta con l'input. gli effetti di un input sul sistema possono manifestarsi su orizzonti temporali molto differenziati. Agli effetti immediati si sommano effetti a medio termine, e a questi si sovrappongono
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effetti a lungo termine. Morale l'output perde la correlazione temporale diretta con l'input. 342
Per misurarsi con tale groviglio, forse lo storico deve imparare a usare il computer non solo come fonte bibliografica, ma anche come strumento di .lavoro per formare e valutare le sue ipotesi. A sua volta, ciò esige l'applicazione di protocolli di logica formale che spesso non appartengono al bagaglio formativo dei nostri storici. Quindi si pone il problema di ripensare il modo in cui insegniamo la storia nelle nostre facoltà, il profilo professionale dello storico che i nostri corsi di laurea e i nostri dottorati continuano a produrre. Dunque, porre mano alla rifondazione di una storiografia repubblicana, che recuperi pienamente il nesso irrinunciabile fra Liberté ed Égalité non è solo un problema di riconsiderazione dei valori di riferimento nelle condizioni storicamente presenti, ma anche una radicale svolta metodologica. E, soprattutto, occorrerà molta, molta laicità, unico antidoto efficace a ogni abuso politico della storia.
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Alberto Gandolfi, Formicai, imperi; cervelli. Introduzione alla scienza della complessità, Bollati Boringhieri, Tòrino, 2008, p. 29.
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Avvertenze
Oltre che sulla stampa d'epoca, questa ricerca_ si basa essenzialmente sulla documentazione proveniente dagli: - Atti della Commissione parlamentare di inchiesta sulla Loggia Massonica P2 (sempre citata come CpiP2). - Atti della Commissione parlamentare di inchiesta terrorismo Moro (Cpt). - Atti della Commissione Parlamentare di Inchiesta sul terrorismo in Italia e sulla mancata individuazione dei responsabili delle Stragi (citata come Cps). - Atti della Commissione Parlamentare di Inchiesta Mitrokin (Cpm). - Atti del Procedimento penale contro Azzi Nico+ 25, 2643/ 84° Rgpm; n 721/88F Rggi (Salvini, l'eventuale lettera a si riferisce alla sentenza ordinanza del medesino Gi del 18 marzo 1995 e la lettera.b a quella del 18 marzo 1998). - Atti del Procedimento penale n. 1/94 Dda Perugia relativo ali' omicidio di Carmine Pecorelli (Pecorelli). · Atti del Procedimento penale n 349/95 mod. 21 Procura della Repubblica di Pavia dott. Vincenzo Calia (caso Mattei) contro Mario Ronchi (Calia). - Atti del Procedimento penale n. 2566/98 Rgnr Dda Palermo contro Licio Gelli + 13 detta « Sistemi Criminali» (Scarpinato).
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Ringraziamenti
Nell'impossibilità di ringraziare tutte le persone che a vario titolo hanno collaborato fornendo documenti, informazioni, ricordi, critiche, li ringrazio collettivamente, ma non posso esimermi dal citare tre persone che hanno dedicato molto tempo alla lettura e alla critica del brogliaccio di questo libro dandomi utili suggerimenti: Gigi Borgomaneri, Nico Ferrone, Marcino Iniziato. Non potendo più ringraziarlo, ricordo Biagio Starita che nel frattempo ci ha lasciati.
Indice
Introduzione
9
Primo capitolo. Un mondo che cambia
21
Secondo capitolo. Il vento culturale del neoliberismo
61
Terzo capitolo. La tribunalizzazione della storia
97
Quarto capitolo. Scritture politiche della storia: l'Impero
141
Quinto capitolo. Scritture politiche della storia: reazioni all'Impero, fra vecchie e nuove potenze
183
Sesto capitolo. Scritture politiche della storia: le pacificazioni interne
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Settimo capitolo. L'anomalia italiana
259
Conclusioni
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Avvertenze
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