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Italian, Latin Pages 152/153 [153] Year 2009
GERI D’AREZZO Lettere e Dialogo d’Amore Introduzione, traduzione e testo critico di
Claudia Cenni con la collaborazione di
Patrizia Stoppacci
Scrittori latini dell’Europa medievale quattro
Pacini Editore
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Con il sostegno del Programma Cultura (2007-2013) dell’Unione Europea With the support of the Culture Programme (2007-2013) of the European Union
In copertina Aristotele e Fillide. Tavola, XIV sec. (Firenze, Museo Stibbert, foto privata) Direzione scientifica Francesco Stella Collana del Centro di Studi Comparati I Deug-Su (Sezione Medievistica) dell’Università di Siena in Arezzo © Copyright 2009 by Pacini Editore SpA ISBN 978-88-6315-144-2 Realizzazione editoriale
Via A. Gherardesca 56121 Ospedaletto (Pisa) Rapporti con l’Università Lisa Lorusso Responsabile editoriale Elena Tangheroni Amatori Fotolito e Stampa Industrie Grafiche Pacini La fonte delle illustrazioni, salvo diversa indicazione, è Internet. L’editore resta a disposizione degli eventuali aventi diritto che non sia stato possibile rintracciare. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org
Indice
Premessa
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Prefazione
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Geri e il contesto aretino
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Il punto sugli studi
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Struttura dell’edizione
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La tradizione manoscritta (di Patrizia Stoppacci)
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Criteri di trascrizione
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Geri d’Arezzo Lettere e dialogo d’amore
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Le epistole familiari Geri d’Arezzo a fra Bernardo d’Arezzo Geri d’Arezzo a Donato Guadagni Geri d’Arezzo a Berardo D’Aquino Geri d’Arezzo a Cambio da Poggibonsi
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Epistole e dialogo d’amore Epistola metrica (di Cambio da Poggibonsi?) a Geri d’Arezzo Epistola metrica di Geri d’Arezzo in risposta alla precedente Dialogo indirizzato a Francesco da Barberino
» 85 » 100 » 102 » 106
L’epistola a Gherardo e il modello di lettera Geri d’Arezzo a Gherardo da Castelfiorentino Geri d’Arezzo, modello di lettera
» 121 » 124 » 128
Appendice. Testimonianze su Geri d’Arezzo
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Bibliografia
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SCRITTORI LATINI DELL’EUROPA MEDIEVALE Nelle biblioteche mentali dei cittadini europei il Medioevo è quasi sempre il grande assente. Specialmente il Medioevo latino, specialmente in Italia. Scuole e università ci abituano da secoli a riconoscere, alle radici di ogni nostra espressione linguistica e letteraria, la presenza dei grandi autori classici e moderni. Ma l’oscuramento della memoria testuale del Medioevo dai programmi scolastici e da gran parte dei curricula universitari lascia inesplorato un patrimonio immenso di invenzioni, racconti, cronache, meditazioni, favole, trattati, visioni, liriche, fatti, luoghi ed emozioni: questo patrimonio sta dietro la Commedia e il Decamerone, ed è coerente e complementare al Medioevo architettonico e artistico che invece tutti frequentiamo e che tuttora individua l’identità culturale dell’Europa. Dietro le cattedrali di Firenze e di Köln, Notre Dame di Parigi e il Minster di York, Santa Sofia di Kiev e la Cappella degli Scrovegni, l’Alcazar di Siviglia e Piero della Francesca, dietro e prima della corona di Stefano d’Ungheria e le leggende di Artù, le storie di Shakespeare e le saghe fantasy c’è un immaginario che la scuola storica francese ha cominciato a esplorare sui pochi documenti accessibili ma che non apparterrà alla coscienza europea finché i testi che lo trasmettono non saranno leggibili nelle lingue attuali dei cittadini europei. La conoscenza del latino, radice unificante dell’istruzione novecentesca, perde progressivamente terreno perfino fra i professionisti della medievistica, e anche i pochi cultori di questa lingua troverebbero difficoltà a reperire un testo mediolatino nella rarità delle pubblicazioni specialistiche, a stampa o in rete, che ne custodiscono le edizioni critiche. Contribuire a rendere disponibile qualche frammento di questo tesoro diventa dunque necessario per salvare una parte della nostra coscienza storica e per far emergere l’isola inabissata sulla punta della quale abbiamo costruito i nostri paradisi turistici e i nostri esotismi storici e cinematografici. La medievistica ha finora dedicato scarsa attenzione a questo obiettivo proprio perché il testo medievale è stato finora oggetto di interesse prevalentemente accademico, e dunque presentato nella migliore delle ipotesi in veste filologica o interpretativa. La sacrosanta libertà della ricerca di base ha esentato finora gli studiosi dalla necessità di un dialogo con la cultura contemporanea, affidato spesso solo all’ini-
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francesco stella
ziativa personale di intellettuali in grado di cogliere i nessi fra epoche e culture come – dopo Auerbach e Curtius – Zumthor, Jauss, Leonardi, Oldoni, Rico, Koch, Boitani, Dronke, Ziolkowski e pochi altri. Ma il grado di scollamento ormai prodottosi fra cultura specialistica e cultura diffusa, fra ricerca individuale e rapporto delle istituzioni formative con il contesto locale e sociale richiede ora un nuovo sforzo di collegamento, di scavo e di ricostruzione. La conoscenza di questo patrimonio è stata affidata a iniziative occasionali e discontinue: esistono infatti sedi editoriali anche prestigiose dove si pubblicano già traduzioni italiane di autori mediolatini, ma non esiste ancora una collana in distribuzione libraria dedicata esclusivamente a scrittori mediolatini in traduzione italiana. Scrittori latini dell’Europa medievale, nata dalla felice esperienza di una pluriennale collaborazione fra Dipartimenti universitari e Pacini Editore presenta invece, almeno in prima istanza, opere mediolatine mai tradotte in italiano, come peraltro impone il programma europeo Cultura 2007-2013/ EACEA che ne ha approvato e finanziato il progetto. Non avremo dunque per ora le lettere di Abelardo ed Eloisa, già consultabili in più versioni italiane grazie al fascino della storia che raccontano e a una sorta di inerzia editoriale che facilita il ritorno sul già fatto anziché l’esplorazione dell’ignoto. Ma avremo comunque autori e testi di prima grandezza e di forte coinvolgimento sia sul piano della lettura sia sul piano delle implicazioni culturali, e la loro leggibilità in lingua moderna aprirà al lettore non specialista la scoperta di realtà letterarie finora sconosciute. Sono autori di ogni regione d’Europa, autori da ognuno dei 10 secoli che compongono il millennio medievale, testi rappresentativi di forme e registri espressivi estremamente diversi, a esemplificare la vastissima gamma di stili della comunicazione che il Medioevo ha creato. Si pubblicano infatti il più antico racconto di recuperi e furti di reliquie sacre e di miracoli suscitati dal loro passaggio (la Translatio et miracula Marcellini et Petri di Eginardo, il biografo di Carlo Magno); la prima visione poetica dell’aldilà (Visio Wettini del carolingio Valafrido); il poema Gesta Berengarii sul re d’Italia Berengario I, che apre una finestra sull’Italia del X secolo così poco esplorata; la Disciplina clericalis dell’ebreo Pietro Alfonsi, una raccolta di novelle di ispirazione orientale che ebbe profonda influenza sulla narrativa europea e italiana, fino a Boccaccio e oltre; il Liber mitis di uno scienziato finora ignoto, Guido d’Arezzo, che fra i primi trasferì le conoscenze di Avicenna alla manualistica medica; il libro iniziale dell’Ysengrimus,
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PREMESSA
il più grande poema latino di epica animale come strumento di satira sociale; uno dei più importanti canzonieri lirici delle corti del XII secolo (i Carmina Cantabrigiensia); il “libro delle meraviglie” contenuto negli Otia imperialia di Gervasio di Tilbury, vera e propria enciclopedia dell’immaginario medievale di cui fino a pochi anni fa non era rintracciabile nemmeno il testo latino, e i frammenti di Lettere e Dialogo sull’amore del maestro che anticipò gli sviluppi del dialogo e dell’epistola umanistica (Geri d’Arezzo), segnando un’evidente transizione stilistica fra due epoche culturali. Le traduzioni intendono restituire ogni elemento del testo latino in una forma italiana scorrevole che risenta il meno possibile di residui antiquari ma non accetti alterazioni estetiche o esegetiche, mantenendo nel caso di opere poetiche una corrispondenza precisa fra versi latini e righe italiane. Rimangono traduzioni di servizio, realizzate nel rispetto dei tempi stretti del progetto europeo su testi che non avevano mai ricevuto una traduzione italiana completa, e dunque riservano al traduttore tutti i rischi, il fascino e le responsabilità della “prima” assoluta, accettati appunto nella coscienza della necessità culturale di questo contributo. Ognuno di noi è consapevole che tutte le traduzioni, anche quelle dei grandi maestri, si sono dimostrate e si rivelano sempre non solo impari all’originale ma spesso inadempienti anche verso i propri criteri e restano continuamente perfettibili, fino al momento in cui dovranno essere totalmente rinnovate in seguito alle trasformazioni della lingua d’arrivo. Ma sappiamo anche che ognuna di esse, con tutte le sue carenze, ha svolto e svolge un ruolo insostituibile nel collegamento fra civiltà. L’editore ha generosamente accettato, in deroga al progetto iniziale, di pubblicare anche il testo latino, che i curatori presentano secondo edizioni critiche recenti (Gervasio, Carmina Cantabrigiensia, Ysengrimus) o in forma criticamente riveduta (Valafrido) o addirittura in nuova edizione critica (Geri, Eginardo) rendendo leggibili in qualche caso testi finora irreperibili, come Guido medico. Per una migliore comprensione dei testi, le traduzioni sono corredate di un’introduzione che, se pur programmaticamente limitata nei confini materiali, intende fornire informazioni concise ma complete, spesso per la prima volta in italiano, su autore, opera, tradizione manoscritta, bibliografia di prima consultazione. Il corredo di note sarà più o meno esteso a seconda delle esigenze del curatore e del numero di riferimenti dell’opera che richiedono spiegazione.
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francesco stella
A questi titoli, previsti dal programma del primo anno, ci auguriamo di poterne aggiungere molti altri se la collana incontrerà il favore di lettori e studenti e se gli specialisti accetteranno, come hanno fatto i colleghi impegnati nei primi volumi, di mettere umilmente a disposizione tempo, pazienza e competenze per estendere il corpus delle opere mediolatine da offrire al lettore italiano e svilupparne magari in futuro un portale internet di testi mediolatini in traduzione. Non solo fonti al servizio della ricostruzione storica, ma testi da leggere, da scoprire, da studiare. Soprattutto, testi in cui far rivivere fatti, persone, cose del tempo medievale e pre-umanistico, voci strappate al silenzio erudito per ricostruire frammenti trascurati dell’identità storica europea. Francesco Stella
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Prefazione
L’idea di impegnarci in un’edizione critica dei testi di Geri d’Arezzo, precursore dell’umanesimo attivo in Toscana tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV, rientra in un progetto più ampio, diretto da Francesco Stella dell’Università degli Studi di Siena, sede di Arezzo, mirato a documentare la fioritura culturale del XIII secolo aretino, che fornì un contributo decisivo, ma inesplorato, alla formazione del grande umanesimo toscano. Di una ripresa degli studi su questo autore il presente volume vuol essere solo un primo contributo consapevole della propria provvisorietà e incompletezza. Dal momento che questa ricerca ha potuto prendere avvio grazie a una borsa di studio “In memoria di Iacopo Ficai”, elargita dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, i miei ringraziamenti vanno in primis a questa istituzione e all’idea di chi ha voluto concedere ai giovani aretini la possibilità di un percorso di studi post-laurea entusiasmante e produttivo. Ringrazio inoltre Francesco Stella (che ha riveduto tutti i testi e le traduzioni qui pubblicate e integrato gli apparati e le note) per avermi dato l’opportunità di saggiare ambiti di studio per me, pura classicista, finora quasi ignoti e per avermi accolto nel suo intraprendente gruppo di giovani collaboratori e collaboratrici, mostrando sempre stima e molta pazienza. Un ringraziamento speciale va poi alla dottoressa Patrizia Stoppacci, cara amica, preziosa collaboratrice, ineguagliabile punto di riferimento nei momenti più difficili che questo percorso, come del resto ogni altro percorso di studio o di vita, ha talvolta, necessariamente, presentato.
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geri e Il contesto aretino
Nonostante studiosi del calibro di Roberto Weiss, Helene Wieruszowski e Robert Black abbiano aperto la strada a un interesse scientifico per l’Arezzo tra XIII e XIV secolo, inquadrandola come principale centro culturale della Toscana, luogo di nascita del movimento preumanista in Italia, accanto al più noto cenacolo padovano, e sede di una delle più antiche università europee, siamo ancora lontani dal poter fornire un quadro esaustivo sui precursori dell’umanesimo petrarchesco e boccacciano; siamo lontani dal poter definire quel cenacolo aretino sulla cui esistenza gli studiosi oggi sembrano concordare, che avrebbe contribuito, in modo incisivo, allo sviluppo del movimento umanista, con il recupero dello stile classico, il gusto per l’imitazione, l’impronta tardo-stilnovistica. Purtroppo è proprio quando andiamo a fondo nell’indagine che ci rendiamo conto di come il problema non sembri di facile soluzione: spesso, di fronte alle testimonianze, per quanto scarne, di carattere storico sulla presenza ad Arezzo di uomini di legge e di scienza dediti alle lettere e cultori del mondo antico, che ci incuriosiscono e ci spingono all’approfondimento, ci dobbiamo nostro malgrado arrendere, orfani della produzione letteraria, le cui tracce sono esigue e spesso ancora inedite1. Il grosso mistero, infatti, che avvolge la città di Arezzo, e che attualmente tiene gli studiosi del genere in un limbo senza apparente via d’uscita, è proprio la mancanza di testimoni, di manoscritti che fungano da prova inconfutabile dell’attività culturale, letteraria nello specifico, particolarmente vivace nel XIII secolo nella cittadina toscana, e che permettano di capirne i meccanismi, lasciandoci uscire dai “se”, per poter affermare l’innovazione del movimento preumanista aretino. Nell’ultimo decennio grossi passi in avanti sono
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Si pensi solo alla produzione di Domenico Bandini, di cui a tutt’oggi è leggibile solo il Liber Inferni, nella trascrizione provvisoria di Marcella Gambineri nel libro elettronico Lo studium aretino del ’200, a cura di F. Stella e C. Cartocci, Arezzo 2008, p. 7a (nel sito www.unisi.it/tdtc). Del suo maestro Goro d’Arezzo sono pubblicate le Regule Ortographie nella miscellanea Un ponte fra le culture: studi medievistici di e per I Deug-Su, a cura di C. Leonardi - F. Stella - P. Stoppacci, Firenze 2009, pp. 143-75, anticipate nel libro elettronico citato, a p. 6b.
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claudia cenni
stati fatti nella ricostruzione dello Studium di Arezzo; gli studiosi sono riusciti a ricostruirne la struttura, il regolamento, gli insegnamenti e gli insegnanti, recuperando materiale di estrema importanza, che ha portato fuori dall’anonimato la città e i suoi cittadini illustri, vissuti tra XIII e XIV secolo fra coloro che maggiormente abbiano contribuito allo sviluppo culturale dell’Italia intera. Un passo in avanti sarebbe poter conoscere e far conoscere ognuno di questi uomini attraverso la loro produzione, riuscendo a capirne la formazione, gli interessi, l’attività professionale e letteraria, i legami, il ruolo che hanno giocato nella creazione delle fondamenta dell’umanesimo, e definendo il ruolo che Arezzo ha giocato nella loro istruzione. L’impresa è ardua: anche quando il personaggio in questione è Geri di Arezzo, eminente figura di letterato e capostipite del preumanesimo toscano, dobbiamo fare i conti con la nebbia che avvolge la sua produzione, della quale restano solo cinque lettere, due epistole metriche (di cui una a lui soltanto indirizzata), un dialogo d’amore e un’esercitazione retorica di carattere epistolare: una produzione fortemente menomata che rende tortuoso il cammino. Geri Gli elementi biografici sull’aretino, già individuati da Novati2, Weiss3, Franceschini4, Giansante-Marcon5, sono abilmente contestualizzati da Wieruszowski6 nella sua analisi sullo Studium di Arezzo: Geri nacque nella cittadina toscana probabilmente intorno al 1270 da certo Federigo di professione notaio7. Ottenne il titolo accademico in legge, probabilmente ad Arezzo, essendo all’epoca la città un centro universitario particolarmente vivace, ma non possiamo escludere una sua possibile frequentazione dello Studium bolognese. Scarse sono le notizie sulla sua vita familiare: dall’epistola a Cambio da Poggibonsi si evince che ebbe due mogli, e che dal secondo matrimonio ebbe molti figli, di cui uno, Giovanni, esercitò l’attività notarile come il padre, un altro, Fe-
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Novati 1885. Weiss 1949. Franceschini 1952. Giansanti-Marcon 1994. Wieruszowski 1968-69. Vedi infra, Appendice I. 6; 7, p. 132.
geri e Il contesto aretino
derigo, intraprese l’attività letteraria, intrecciando rapporti con lo stesso Francesco Petrarca. Per l’ambito professionale, da due documenti degli anni Venti del XIV secolo si ricava che l’attività giuridica del nostro si svolgeva anche in forma pubblica: nel 1323, in un documento conservato presso l’archivio storico di Matelica, è nominato come giudice generale della Marca; nel 1327 è ricordato in un documento della curia di Carlo d’Angiò duca di Calabria come iuris civilis profexor8, definizione che potrebbe alludere al mero esercizio della professione notarile, ma anche, individuando in profexor un’accezione di carattere per così dire più moderno, legata all’ambito scolastico, a una possibile attività didattica di Geri all’interno di uno Studium o nell’ambito delle scuole di grammatica o retorica. La suggestione è affascinante, perché ci porterebbe, in modo piuttosto diretto, a comprendere meglio l’approfondita conoscenza di Geri della lingua latina e degli autori classici, una conoscenza, che almeno da quanto si ricava dalle opere a nostra disposizione, sembra andare oltre il puro, e non raro, interesse per le lettere da parte dell’uomo di legge; tuttavia nessun’altra fonte sembra darci conferma dell’ipotesi. Certo è che l’importanza dell’attività letteraria di Geri trova riconoscimenti tra i suoi contemporanei illustri, primo fra tutti Coluccio Salutati, che in una lettera del 1395 al cardinal Bartolommeo Oliari afferma: «emerserunt parumper nostro seculo studia litterarum; et primis eloquentie cultor fuit conterraneus tuus Musattus Patavinus, fuit et Gerius Aretinus, maximus Plinii Secundi oratoris, qui alterius eiusdem nominis sororis nepos fuit, imitator»9;
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Plin. Epist. 11, 4: «professor proprie est, qui et in re litteraria versatur, et id mercedis gratia facit». In epoca successiva, se si esclude il significato di “professatore” di una fede o aderente a un’ordine religioso, da un’accezione vicina a quella di “notaio” confermata dalla frase di Tertulliano Nemo sibi et professor et testis est, Adv. Marc. 5, 1 si sviluppa il significato di maestro, come in Theodos. cod. 10, 52, 11: «vocat professores et grammaticos et oratores, et philosophiae praeceptores, atque etiam medicos, quia scilicet eo tempore mercedem publicam amnes accipiebant», specificamente riferito all’ambito giuridico: Gel. Ep. 298, 27: «is qui aliquid iuridice agit». Le Formulae Marculfi di epoca merovingia (2, 38: Form., p. 98, F. Bituric. N. 7, p. 171 e n. 15 p. 176 sembrano attestare un’accezione di “scriba della curia municipale” (Du Cange - Niermeyer). Nel Testamento di Lemmo di Balduccio, 1389: «l’uso più ordinario, in doppia accezione ordinario, è il titolo di chi insegna, facendo dell’insegnamento professione (vedi Dizionario etimologico della lingua italiana, a cura di M. Cortelazzo - P. Zolli, vol. IV, Bologna 1985). Segnaliamo che nei documenti di archivio, riguardanti lo studio e la scuola di Arezzo, raccolti da Robert Black 1996, vd. infra, p. 16, i docenti universitari sono sempre designati con il termine doctor, mentre gli insegnanti delle scuole di grammatica e retorica con magister. Cfr. infra, Appendice III. 1, p. 133; Novati 1885, vol. III; cfr. anche Weiss in Cardini 2004, p. 115.
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e ancora: «fecit et hoc idem seculi nostri decus, Franciscus Petrarca; fecerat et ante eum Gerius Aretinus»10. La testimonianza del Salutati è particolarmente significativa per due aspetti: da una parte l’associazione di Geri al Mussato lo definisce come capostipite di un cenacolo preumanista (Geri ad Arezzo, come Mussato a Padova11); dall’altra l’associazione di Geri a Petrarca lo riconosce come anticipatore di quel movimento umanista fiorentino che ha marcato in maniera indelebile la storia culturale europea. Quello, dunque, che a noi oggi sembra impresa ardua dimostrare, per i contemporanei di Geri era fatto evidente: ad Arezzo, a cavallo tra XIII e XIV secolo, operava un gruppo di letterati “d’avanguardia”, cultori del mondo classico, che per primi in Toscana importarono un genere letterario basato sull’imitazione del testo antico e tardo-stilnovistico. Salutati parla di Geri anche in altre due lettere; in una del 1400, inviata a Francesco Zabardella, ribadisce la leadership di Geri e del Mussato, riconosciuti come gli unici giuristi-scrittori degni di nota («cuius versus et epistolas satirasque prosaicas non mediocriter commendamus»)12; nella seconda, inviata a Giovanni Conversini da Ravenna, sottolinea l’abilità scrittoria di Geri tam prosa quam metro13. Ricorda Foà14 che di altri due testi, di cui non abbiamo alcun testimone superstite, trattano rispettivamente Benvenuto da Imola, che cita una satira sulle donne fiorentine («Quid mulierum tuscarum mores referam, de quibus Gerius de Aretio satyram fecit ad imitationem Apuleii?»)15,
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Cfr. infra, Appendice III. 2, p. 133; Cfr. Novati 1885, vol. III, pp. 84 e 88; cfr. anche Weiss in Cardini 2004, p. 115. Petrarca peraltro fu corrispondente di Federigo figlio di Geri, autore di versi in volgare, al quale espone la sua esegesi allegorica dell’Eneide in Senili IV 5. Per la bibliografia relativa ad Albertino Mussato vedi infra, p. 13. Cfr. infra, Appendice III. 3, p. 134; Novati 1885, vol. III, pp. 408-410; cfr. anche Weiss in Cardini 2004, p. 115. Cfr. infra, Appendice III. 5, p. 134; Novati 1885, vol. III, pp. 512-513; cfr. anche Weiss in Cardini 2004, p. 116. Foà 1999, p. 412. Cfr. infra, Appendice III. 7, p. 135; vedi anche Lacaita 1887 e Weiss in Cardini 2004, p. 116. «Di una commedia in versi latini, di Geri d’Arezzo, recitata dinanzi ad Alessandro VI e alla quale avrebbe preso parte Lorenzo [di Piero] de’ Medici (il futuro duca di Urbino) è notizia in una lettera di Alfonsina [Orsini] al figlio in data 8 maggio 1514: F. Cruciani 1983, da D’Ancona 1891, p. 72 n. 5. La lettera è conservata all’Archivio di Stato di Firenze, fondo Medici avanti il Principato, filza 114 n. 102 e di Geri dice: «quello che compose quelli versi latini, li quali, quando tu eri putto, recitasti inanti a Papa Alexandro, in quella comedia che Piero fece in palazo». È possibile tuttavia, considerato il tema e la cronologia, che si tratti di un omonimo più tardo, quale fu anche il Geri d’Arezzo che Vasari ricorda come figlio di Angelo di Geri (morto nel 1489), maestro di tarsia presso la chiesa di Sant’Agostino in Arezzo. [F.St].
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e Lapo da Castiglionchio che fa riferimento a un’epistola di Geri sulla questione dei guelfi e dei ghibellini («E se questa opinione fosse vera, avrebbe luogo quella, che uno eccellente dottore di leggi, il quale fu chiamato messer Geri d’Arezzo, il quale ancora fu grande autorista, e morale, disse in una sua epistola, la quale scrisse a uno suo amico di questi due nomi Guelfo, e Ghibellino»)16. D’altra parte, per quanto difficile sia ricostruire degnamente l’entourage di Geri, il corpus delle sue epistole coinvolge alcuni personaggi di Arezzo e dintorni che possiamo, a buon diritto, considerare legati all’ambiente del nostro notaio e la cui identificazione biografica e professionale ci aiuta sicuramente a fare un piccolo passo in avanti nella definizione del ceppo preumanistico aretino, senza tuttavia portarci a conclusioni certe e assolute. Donato Guadagni Se, infatti, grazie anche al contributo di Giansante-Marcon, possiamo vedere in Gherardo da Castelfiorentino, giudice di formazione bolognese, impegnato per gran parte della sua attività giuridica tra Castelfiorentino e Firenze, anche un abile poeta, erede del modello stilnovistico ciniano17, non altrettanto evidente e soprattutto documentato è l’interesse letterario di altri interlocutori di Geri. Innanzitutto rimane piuttosto oscura la figura di Donato Guadagni, su cui ogni congettura rimane al momento fine a se stessa18.
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La testimonianza di Lapo da Castiglionchio prosegue: «...In effetto disse che la nostra età era più degna di reprensione, che quella de’ pagani, perciocché s’eglino adoravano gl’idoli, eglino vedeano e sentiano alcuna cosa che gli potea movere a così fare, perocché vedeano le statue formose, e sentiano che quelle alcuna volta davano responsi. Ma la nostra età adora questi due nomi, Guelfo, e Ghibellino, e non veggono loro statue, né sentono loro responsi»: tratto da Lapo da Castiglionchio, Epistola, o sia ragionamento, Bologna 1753, p. 78 (cfr. infra, Appendice III. 6, p. 135 e Weiss in Cardini 2004, p. 116). Per un confronto storico e morale tra il mondo antico e l’epoca contemporanea a Geri si rimanda anche all’Epistola a Gherardo da Castelfiorentino, in cui lo scrittore manifesta un atteggiamento simile a quello che emerge dalla lettere di Lapo. Per un’analisi completa e recente su Gherardo da Castelfiorentino vedi Giansante - Marcon 1994. Cfr. anche F. Novati, Gherardo da Castelfiorentino, in Miscellanea storica della Valdelsa, 6 (1898), pp. 196-203; G. Zaccagnini, Gherardo da Castelfiorentino. Notizie intorno alla sua vita e ad una ballata, in «Giornale storico della letteratura italiana», 73 (1919), pp. 207-212; G. Biscaro, Inquisitori ed eretici a Firenze (1319-1334), in «Studi medievali», n.s. 2 (1929), pp. 268, 270-271, 275. Così in Weiss 1949 e ancora in Witt 2005.
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Bernardo d’Arezzo Sembra, invece, ormai certa l’identificazione di fra Bernardo d’Arezzo, rimasta inrisolta in Weiss: già nel volume di Papini19 si legge: «M. F. Bernardo d’Arezzo era provinciale dell’Umbria ai primi di gennajo 1330 (notizia omessa per inavvertenza o dimenticanza nella sua iscrizione sepolcrale), lo fu quindi della Marca, e finalmente per anni sei di Toscana. Morì a San Gimignano, ed ebbe la seguente epigrafe, che qui riportiamo, quantunque già notata nel Teatro Genealogico20 e nel Fiume del terrestre paradiso21, per averla ritrovata mancante e scorretta»22. Proprio sull’iscrizione funeraria notevoli le considerazioni di Klauza23 che, oltre a fornire un puntuale confronto tra le diverse trascrizioni dell’incisione a noi giunte, corredandole delle opportune emendazioni, ricostruisce in maniera esaustiva l’intera biografia del frate. Francescano, dottore teologo, fu appunto ministro provinciale nell’Umbria, nelle Marche e in Toscana, poi inquisitore generale; è lodato tra gli scrittori teologici francescani come si legge in un’orazione latina in lode di San Francesco, che si conserva manoscritta nel laurenziano Plut. XX cod. 24, e come è confermato dal recente studio di De Rijk24, che testimonia un’assidua corrispondenza tra Nicholas d’Autrecourt e fra Bernardo proprio su questioni filosofiche. I legami di fra Bernardo con la Francia dovrebbero risalire, seguendo Klauza, agli anni 1334-35, quando il francescano poté studiare e conseguire il dottorato in teologia a Parigi; esperienza sicuramente posteriore agli anni dedicati all’inse-
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Papini 1797. Opera di Antonius a Terrinca, Genealogicum et honorificum theatrum Etrusco-minoriticum, Firenze 1682. Niccolò Catalano, Fiume del terrestre paradiso, Firenze 1652. Hic jacet Fr. P. Bernardus de Aretio sacrae theologiae magister et doctor eximius, ac olim in Provincia Marchiae et Tusciae minister idoneus, cujus felix Anima devota migravit ad Christum tempore provincialis capt. die quinto octobris An. Dom. 1342 Ann. Scil. VI ministerj prov. Tusc. Memoratae. Klauza 1991. De Rijk 1994. Delle nove lettere di Nicholas d’Autrecourt a Bernardo d’Arezzo la gran parte è andata perduta (ne restano solo due). sappiamo della loro esistenza solo indirettamente, attraverso le citazioni prese dall’ Articuli condemnati di d’Autrecourt, in cui egli scrive: conclusiones quas scripsi in novem epistulis per me quando les contra magistrum Bernardum de Aretia ordinis f. Riguardo alla disquisizione filosofica osserva De Rijk: «Nicholas thought anything but a follower of Aristotle hims.elf, felt challenged by the (to his mind, hypercritical) epistemological views of the Franciscan master, Bernard of Arezzo, expecially by those concerning intuitive cognition».
geri e Il contesto aretino
gnamento come lettore in vari studia della Toscana, quando ancora era provinciale delle Marche, collocabile negli anni venti. L’incontro di fra Bernardo con Geri potrebbe essere avvenuto proprio nello studium aretino, dove i due potrebbero essere stati colleghi, oppure maestro e allievo, come sembra dai toni dell’epistola di Geri al frate, ma in tal caso dovremmo anticipare di almeno un decennio l’attività di lettore di fra Bernardo, se è vero che Geri già nel 1323 ricopriva la carica di giudice della Marca. Francesco da Barberino Consistenti anche le testimonianze su Francesco da Barberino25, autore dei Documenti d’amore, tra l’altro opera inviata a Geri, come si ricava dalla parte finale del suo Dialogo. I rapporti personali tra i due letterati, entrambi di formazione giuridica, potrebbero essersi instaurati, in ambiente bolognese, all’epoca dei loro studi universitari. Osservano, infatti, Giansante-Marcon che Francesco compare come studente, probabilmente di diritto, a Bologna tra il 1292 e il 1294, anni in cui anche Geri svolgeva presumibilmente a Bologna i suoi studi; se, però, accettiamo la tesi che vuole Geri studente ad Arezzo, in rapporti tuttavia assidui con lo Studium bolognese, allora dobbiamo credere che i due si possano anche essere incontrati più tardi, tra il 1313 e il 1315, quando Francesco, con la sua opera più importante ormai portata a termine, fece ritorno a Bologna, dopo un lungo soggiorno in Provenza, e Geri operava presso la curia podestarile26. Merita ricordare che la laurea in legge a Francesco da Barberino fu conferita tra l’8 agosto 1313 e il 28 aprile 131527, e che non prima di quest’epoca fu scritto il Dialogo d’amore, nato forse in seguito all’incontro bolognese. È ormai noto che Francesco, già all’epoca degli studi bolognesi, aveva stabilito rapporti con Guido Guinizzelli, Cino da Pistoia e Onesto da Bologna, inserendosi pienamente nel percorso culturale del Tardo Stilnovismo,
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Studi recenti su Francesco da Barberino sono: M. Albertazzi, I Documenti d’Amore, I-II, Lavis 2008; J. Canteins, Francesco da Barberino. L’homme et l’oeuvre ou regard du soi-disant “Fidèle d’Amour”, Milano 2007; E. Sansone, Reggimento e costumi di donna, Roma 1995.. Luglio-dicembre 1315. ASB, comune, Curia del Podestà, Giudici «ad maleficia», Libri inquisitionum et testium, n. 88. Cfr. G. Vandelli, Per la datazione della Commedia, in «Studi danteschi», 13 (1928), p. 7.
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per poi proseguire, nel corso della sua intera vita, su strade culturali diverse e variegate, che lo portarono a una formazione di tipo enciclopedico, forse un po’ arretrata, tanto che Geri non sembra, almeno nel suo Dialogo, tenerla in particolare considerazione. Risulta, infatti, dal corpus epistolare di Geri piuttosto chiara la sua continua ricerca nell’interlocutore di un’affinità elettiva, in grado di unire due sensibilità complici nell’interpretazione letteraria e nella condivisione del modello classico, processo che pare rimanere sospeso nel Dialogo, dove emerge uno scarto culturale tra la concezione dell’amore del Da Barberino, più vicino alla tradizione stilnovistica e all’esperienza mistica e speculativa dell’amore, e Geri, classicista per antonomasia, imitatore attento dell’originale antico, tanto da fare dell’amore il tema privilegiato per una mera esercitazione retorica. Vd. più avanti, p. 96 n. 14. Cambio da Poggibonsi Altro personaggio su cui ci possiamo dilungare è Cambio da Poggibonsi, destinatario di due lettere di Geri, una in prosa e una metrica, e a sua volta possibile autore di un’epistola metrica conservata nel corpus della produzione epistolare del nostro notaio. Dagli studi di Weiss sappiamo che Cambio apparteneva certamente al circolo umanistico toscano di Geri e che fu uomo di legge28. È, tuttavia, ancora il contributo di Giansante-Marcon a fare luce in modo esaustivo sulla biografia e sugli interessi letterari di questo personaggio: le prime testimonianze lo vogliono a Bologna nel 1313, come giudice in materia civile presso il Disco dell’Aquila, al seguito del podestà Giacomo Rossi di Firenze, e ancora nella stessa città tra il 1320-21 come membro della curia del capitano del popolo Nello Tolomei da Siena, affiancato dal notaio Guido del Noccio, suo collaboratore anche per un secondo incarico, da lui ricoperto a partire dalla primavera del 1321, di “esattore dell’avere” del comune di Bologna. Nel 1322, tuttavia, avviene il trasferimento a Firenze, dove Cambio collabora con Francesco da Barberino alla composizione arbitrale di una causa patrimoniale; ipotizziamo la sua permanenza nella città toscana fino
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Vedi Archivio di Stato di Firenze, Prima Cancelleria, Missive 3, f. 68v, dove Cambio viene chiamato ‘Iurisperto’.
geri e Il contesto aretino
al 1328, anno in cui la sua presenza è attestata di nuovo a Bologna, nel ruolo di ambasciatore del comune fiorentino presso il legato pontificio29. Nel caso di Cambio da Poggibonsi le notizie biografiche risultano di particolare importanza, perché sembrano testimoniare la concreta esistenza di rapporti personali con altri componenti del cenacolo di Geri: mentre, infatti, il legame con il nostro scrittore è confermato dallo scambio epistolare, quello con Francesco da Barberino è, invece, documentato dall’atto notarile del 1322, di cui sopra, e quello con Gherardo da Castelfiorentino pare plausibile su un singolare parallelismo che caratterizza le due carriere professionali: entrambi giudici a Bologna nel 1313, anche se in curie distinte, li ritroviamo ambasciatori fiorentini tra 1328 e il 1329. Per quanto riguarda, poi, gli interessi letterari di Cambio, le considerazioni che possiamo fare si basano solo sulle lettere facenti parte del corpus epistolare di Geri, in particolare sull’epistola metrica che si presume scritta da Cambio all’aretino, che avremo modo di vedere in dettaglio, ma a proposito della quale teniamo qui ad anticipare la ripresa di topoi dell’elegia latina, un uso attento della metrica classica, il gusto per la citazione dotta, tutti elementi che contribuiscono a ritrarre l’autore come esperto conoscitore del mondo antico, ma soprattutto dei mezzi espressivi di quella cultura. Berardo d’Aquino Da collegare, invece, all’ambiente angioino è il legame di Geri con Berardo d’Aquino, primo conte di Loreto nel 1330, già nel 1326 era Magistrum hospitii ducalis del duca di Calabria e nel 1322 compare in alcuni documenti come Ciambellanus et familiaris del duca30. L’epistola di Geri a Berardo risulta particolarmente interessante perché dimostra che Geri fu in contatto con la curia di Carlo di Calabria mentre questa risiedeva a Firenze, e tra i familiari del duca a Firenze preme ricordare Barbato da Sulmona, Giovanni Barrilli e Nicola
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Vedi Ibid. ff. 68v, 69v; I. da San Luigi, Delizie degli eruditi toscani, vol. X, Firenze 1778, p. 248. La testimonianza che Berardo d’Aquino fosse Magistrum hospitii ducalis è tratta da Caggese 1922, p. 86; per la definizione di Ciambellanus et familiaris vedi la copia della carta 47 del registro angioino 240 tra le carte del Novati presso la Società Storica Lombarda.
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d’Alife, che saranno i tre principali promotori dell’umanesimo alla corte di Roberto d’Angiò negli anni seguenti. Come già sosteneva Weiss31, non pare azzardata l’ipotesi che a contatti con Geri risalga l’interesse per la cultura classica da parte dei nobili della corte angioina che divennero più tardi amici del Petrarca32. Pur ritenendo doverosa una ricognizione sulle vite degli uomini umanamente e culturalmente più vicini a Geri, siamo dell’idea che la vera essenza del cenacolo preumanista aretino emerga maggiormente dalla lettura dei testi, che, per quanto pochi e affatto risolutivi ai fini della ricostruzione storica, appaiono pregnanti nella decifrazione dell’ideologia e della poetica di questo innovativo gruppo di letterati, cultori appassionati del passato, costruttori consapevoli del futuro.
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Cardini 2004, p. 112 Cfr. Faraglia 1889; Castelli 1904; Degli Azzi 1908; Bevere 1908; 1909; 1910; 1911; Torraca 1915; Caggese 1922. Per Carlo di Calabria vedi anche Mele 1938; 1941; 1942. Tra gli studi più recenti notevoli: Sabatini 1975, p. 78 e n. 116; Bologna 2006, p. 28.
Il punto sugli studi
Parlare di Geri e cercare di dare un quadro della sua esperienza letteraria e dell’ambiente in cui egli si è formato come uomo di legge e cultore del mondo classico vuol dire non poter prescindere da alcuni studi fondamentali sull’argomento, che precedono cronologicamente il nostro, ma soprattutto lo ispirano e ne costituiscono il punto di partenza. Anzitutto il contributo di R. Weiss pubblicato per la prima volta in Il primo secolo dell’Umanesimo, Roma, Edizioni di “Storia e Letteratura” 1949, pp. 52-66 e 105-133, riproposto in «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 13 (1951), pp. 374-379 e ora accessibile nella ristampa parziale curata da R. Cardini in Petrarca e i padri della Chiesa, Firenze 2004. Nel riconoscere l’importanza della figura di Geri d’Arezzo come iniziatore di una nuova tradizione di scrittura in latino e come rappresentante più illustre della nuova tradizione culturale precedente al Petrarca, Weiss è il primo a parlare della possibile esistenza di un cenacolo preumanista aretino accanto al già noto cenacolo padovano del Lovati e del Mussato1, e a fornire uno sguardo d’insieme sull’ambiente, i personaggi, le opere del Duecento e Trecento aretini. Dopo aver ripercorso la biografia di Geri e averci fornito le note necessarie per la comprensione dei testi, l’autore propone una trascrizione buona, ma in alcuni punti discutibile, delle sei epistole, di cui una metrica, e del dialogo d’amore di Geri, uniche opere a noi rimaste. Il contributo di Weiss, pur non avendo avuto la pretesa di fornire un’edizione critica dei testi e uno studio filologico degli stessi, resta al momento l’analisi più dettagliata e attenta su Geri, col grande merito di aver acceso i riflettori sul personaggio e spinto a un interesse più attento sull’argomento. Degno di nota anche il volume di M. Giansante e G. Marcon, Giudici e poeti toscani a Bologna, tracce archivistiche fra tardo stilnovi-
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Per Lovato Lovati cfr. Novati 1885; Foligno 1906-07; Sabbadini 1906-07; Mega 1967. Per Albertino Mussato cfr. Zardo 1884; Sabbadini 1905; Dazzi 1964; Ronconi 1976; Billanovich 1976; 1996; 2001; Bertolami 1985; Gianola 1999; Black 2001; Chevalier, 2000. Per il cenacolo preumanista padaovano anche Polizzi 1985.
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smo e preumanesimo, Bologna 1994, che, pur partendo da uno studio su Gherardo da Castelfiorentino, arriva a toccare in maniera attenta e puntuale anche la figura di Geri d’Arezzo, innanzitutto come autore di un’epistola inviata proprio a Gherardo e, quindi, come capostipite di quel cenacolo preumanista aretino, sulla cui esistenza gli studiosi ormai sembrano concordare. I due autori, oltre a dare un quadro ampio ed esaustivo della biografia di Geri e dell’ambiente in cui egli si trovò a vivere e a operare e, in particolare, sui rapporti fra Arezzo e Bologna, hanno il grande merito di aver proposto per la prima volta la traduzione di alcuni testi di Geri, nello specifico dell’Epistola a Gherardo da Castelfiorentino, del Dialogo indirizzato a Francesco da Barberino, dell’Epistola in prosa a Cambio da Poggibonsi, dell’Epistola metrica a Cambio da Poggibonsi e infine dell’Epistola metrica di Geri in risposta a Cambio, con il relativo testo latino, riproposto sull’edizione di R. Weiss e corredato degli apparati critici da Weiss stesso elaborati, presenti nella sua edizione princeps e omessi nella ristampa curata da Cardini. Il nostro lavoro assume questi due studi come riferimenti fissi nell’analisi su Geri d’Arezzo, rispetto ai quali ben poco abbiamo da aggiungere sul piano delle informazioni biografiche e storico-culturali, e si propone di fare un passo in avanti soprattutto sul piano dell’analisi testuale, fornendo in primis una nuova trascrizione dei manoscritti originali, alternativa, in alcuni punti particolarmente critici, a quella di Weiss, e quindi anche nuove traduzioni, ovviamente elaborate sulla nostra trascrizione, che in parte andranno a costituire una proposta diversa rispetto alle versioni date da Giansante e Marcon e in parte contribuiranno a rendere l’intera opera di Geri fruibile nel suo insieme anche ai non specialisti. Una particolare attenzione di tipo strettamente filologico è stata data ai testi, cosa che ci ha portato a elaborare un profilo dettagliato di quelli che sono stati i rapporti, anche i meno espliciti, di Geri con gli autori antichi, permettendoci di individuare legami tralasciati da Weiss, il quale per lo più si è attenuto alle testimonianze delle fonti, in particolare del Salutati, trascurando affinità che sembrerebbero dimostrare una conoscenza del classico da parte di Geri più ampia di quella finora sostenuta. Particolarmente utili in quest’analisi sono risultati i mezzi informatici, nello specifico il database Poetria Nova, che, nello studio dell’epistola metrica, ci ha dato la possibilità di dimostrare la competenza linguistica e letteraria di Geri, il quale emerge non solo come
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il punto sugli studi
semplice amatore del genere, ma anche come ottimo conoscitore dei testi classici, della loro filosofia e del loro significato, oltre che della loro lingua, ripresa e rielaborata con cognizione di causa; giocando consapevolmente con i richiami al mondo antico e medievale Geri elabora così un testo complesso dal punto di vista stilistico e sintattico, che pare dimostrare, tra l’altro, una diversa maturità compositiva rispetto anche ai suoi colleghi (a tal proposito segnalerei l’epistola metrica di Cambio da Poggibonsi, facente parte del corpus delle opere superstiti di Geri, in cui pare evidente un più scarso possesso della materia letteraria del primo rispetto al secondo). S. Foà, nella voce Geri d’Arezzo, in Dizionario Biografico degli Italiani, LIII, 1999, pp. 412-413, fornisce, pur nella dovuta schematicità e stringatezza, un ritratto completo di Geri e un quadro dettagliato delle sue opere. Di grande rilievo la segnalazione di due testi di Geri – dei quali sembra non essersi conservato alcun testimone – di cui trattano rispettivamente Benvenuto da Imola, che ricorda una satira sulle donne fiorentine2, e Lapo da Castiglionchio, che fa menzione di un’epistola di Geri dedicata alla questione dei guelfi e dei ghibellini3. Un’altra importante testimonianza relativa agli interessi filologici e letterari coltivati da Geri (nota Foà sulla base di Weiss) è contenuta nel ms. Genova, Biblioteca universitaria, E.II.8, che tramanda un commento con accessus all’Achilleide di Stazio; l’anonimo compilatore, che potrebbe essere identificabile con Benvenuto Rambaldi da Imola (commentatore della Divina Commedia), discute della compiutezza del testo staziano e nel dibattere intorno a tale questione afferma: «Tamen alii, in quorum numero fuit dominus Geri de Aretio, dicunt librum fore completum»4. Di fondamentale importanza per una visione generale sulla cultura medievale in italia e in particolare su Arezzo e il suo Studium5 è H. Wieruszowski, Politics and culture in medieval Spain and Italy, Roma 1971, pp. 352, 375, 423, 458, 460 sg., 605, 620 e sopratutto Arezzo as a center
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Cfr. infra, Appendice III. 6, p. 135. Cfr. infra, Appendice III. 7, p. 135. Foà 1999, p. 413. Lo Studium di Arezzo vide formarsi, accanto agli insegnamenti di diritto canonico e civile, una propria scuola di grammatica e retorica, coi nomi di Bonfiglio, Mino da Colle, Domenico Bandini e Goro, che, dando all’università un carattere spiccatamente letterario, costituì l’humus in cui maturò il preumanesimo aretino di Geri, con la cosiddetta riscoperta dei classici e il progetto culturale e pedagogico di una loro nuova centralità.
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of learning and letters in the thirteenth century, pp. 381-474, consultabile anche in traduzione italiana col titolo Arezzo centro di studi e di cultura nel XIII secolo, in «Atti e memorie della Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze», 39 (1968-69). In questo contributo la studiosa traccia per la prima volta, in maniera magistrale, le tappe dello sviluppo dell’università aretina del tredicesimo secolo, ponendo la sua attenzione sulle figure di spicco dell’epoca, in particolare Geri, a cui si riconoscono le doti di grammatico, giurista e letterato, Bonfiglio di Arezzo e Mino da Colle con il successivo sviluppo dell’Ars dictaminis e gli assidui e significativi scambi con lo Studium bolognese e i suoi più eminenti protagonisti. Un’importante estensione delle indagini sullo Studium fino al Rinascimento è rappresentato dal volume di R. Black, Studio e scuola in Arezzo durante il Medioevo e il Rinascimento. I documenti di archivio fino al 1530, Arezzo 1996, in cui sono riportati alcuni documenti originali che attestano la presenza e il lavoro di Geri nella città di Arezzo (vd. in particolare pp. 108, 174-176). E sempre di Black merita citare Humanism and education in Medieval and Renaissance Italy, tradition and innovation in Latin schools from the Twelfth to the Fifteenth Century, Cambridge 2001, un testo che colpisce per la sua chiarezza sia argomentativa sia strutturale: dopo un’ampia introduzione sugli intenti dello studio e, in seguito, sull’educazione nel Rinascimento italiano, l’autore ripercorre per gradi l’intero curriculum scolastico nel Medioevo e nel Rinascimento, analizzando prima i metodi della scuola elementare secolo per secolo, per passare al curriculum grammaticale studiato dal XII al XV secolo. Il capitolo quarto è, invece, dedicato agli autori latini all’interno delle scuole medievali e rinascimentali, ed è in grado di offrire un quadro critico e accuratamente dettagliato proprio della ricezione dei classici in epoca preumanistica e umanistica. Nel paragrafo dedicato al XIII secolo Black, attraverso un confronto numerico dei manoscritti ritrovati nelle biblioteche fiorentine, mette in evidenza come lo studio dei classici nel Duecento fosse lettaralmente collassato rispetto al secolo precedente. Lo studioso è cosciente del fatto che esista un’evidente controversia tra esperti dell’argomento: da una parte L. Paetow6 ha sostenuto la tesi del declino degli studi classici nel XIII secolo in Italia, dall’altra, in tempi più recenti, Helene Wieruszowski (vd. supra) ha cercato di dimostrare la
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Paetow 1910.
il punto sugli studi
prosecuzione dell’insegnamento classico nelle scuole dal XII secolo fino al tardo Rinascimento, seguita da Gian Carlo Alessio e Claudia Villa7 che parlano proprio di “continuità della scuola”. Tuttavia Black crede che una soluzione al problema possa essere data dalla bassa presenza dei manoscritti di autori classici risalenti al Duecento, che andrebbe a dimostrare lo scarso sviluppo della letteratura antica nelle scuole dell’epoca, nonostante i numerosi nomi fatti da Wieruszowski, Rand, Alessio e Villa di maestri che hanno studiato, imitato e riproposto nei loro insegnamenti gli autori classici: Dante, Lovato, Pier Della Vigna, Guido delle Colonne e lo stesso Geri d’Arezzo. Black pare non negare, in effetti, che Dante o Geri abbiano conosciuto Seneca piuttosto che Ovidio o Virgilio, ma a suo avviso non può essere dimostrato che li abbiano studiati a scuola, anche se per Weiss Geri avrebbe letto Terenzio proprio a scuola da ragazzo. Lo studioso rimane fermo sulla sua idea e apporta come cause probabili di questo declino della letteratura del mondo antico la nascita di manuali pratici per lo studio del latino, che sono andati quindi a sostituire la lettura diretta degli autori, e, allo stesso tempo, la diffusione della Consolatio di Boezio, valido sostituto dei classici. E quando si trova a parlare del XIV secolo e della rinascita dell’interesse scolastico per i classici latini, la collega al preumanesimo e allo stesso umanesimo di Petrarca, e, pur riconoscendo a Lovati, Mussato e Geri e poi a Petrarca, Boccaccio e Salutati il grande contributo a questa rivalutazione, parla soltanto di avanguardia. Ci sembra qui cosa opportuna preannunciare al lettore che questo nostro studio tende perlopiù a confermare la tesi di Wieruszowski, Alessio, Villa, alla quale giungiamo non tanto attraverso uno spoglio della documentazione e un’analisi di tipo storico, già egregiamente fornita da chi ci precede, quanto tramite l’indagine diretta sui testi di Geri, che, come vedremo, dimostrano una conoscenza metodica del latino, difficilmente definibile soltanto frutto di un apprendimento autonomo. A questo si aggiunge il fatto che il genere epistolare richiede interlocutori in grado di comprendere il linguaggio di chi scrive e, nel caso specifico, uomini colti, preparati ad afferrare il messaggio implicito, la sottile allusione, il gioco di parole, il riferimento dotto, il richiamo linguistico; un circolo di persone educate con metodo e disciplina alla materia classica e alla lingua latina, come solo un’organizzazione di tipo scolastico può fare.
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Alessio-Villa 1990.
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R.G. Witt, nel saggio ‘In the footsteps of the ancients’. The Origins of Humanism from Lovato to Bruni, Leiden-Boston-Köln 2000, tradotto in italiano nel 2005, ha offerto una valida ricostruzione del ruolo avuto da Geri nella formazione dell’umanesimo fiorentino. Nel suo intento di ripercorrere le tappe dello sviluppo dell’umanesimo italiano, in particolare toscano e veneto, Witt si trova più volte a citare il nostro maestro, prima come uomo di legge che per la sua particolare vocazione agli studi letterari ha contribuito al movimento preumanista, poi come attuatore di un’importante riforma dei canoni della lettera privata: Geri, dietro il recupero della figura di Seneca ripreso dal Lovati e dal cenacolo padovano, prende a modello primo per la composizione delle sue lettere proprio l’epistolario di Seneca, fornendo un contributo ineguagliabile all’epistolografia dell’epoca, con il rifiuto delle forme più strettamente medievali, e del dictamen in modo particolare, e la conseguente assunzione dei modelli latini. Osserva Witt, per noi giustamente, che, vista la presenza delle citazioni di altri autori antichi (Seneca e Giovenale con uguale frequenza) oltre a Plinio il Giovane, di cui per il Salutati Geri fu imitatore8, non si può dire che lo stile dell’aretino sia stata un’imitazione esclusiva della corrispondenza di Plinio; a tal proposito nell’analisi delle Epistole a fra Bernardo e a Donato Guadagni abbiamo cercato di dimostrare, attraverso il recupero di alcuni brani delle lettere di Plinio Secondo e di Seneca e il confronto con quelle di Geri, la fondatezza di questa tesi. Dopo un excursus generale su Geri, le sue opere, la vita, l’ambiente e i personaggi da lui frequentati, Witt passa a un esame, che risulta puntuale nella sua brevità, dell’influenza di Geri sul Petrarca. Domandandosi, infatti, nel sesto capitolo del volume, se Petrarca possa essere considerato il padre dell’umanesimo, lo studioso sottolinea come già il Salutati aveva in realtà riconosciuto in Geri e nel Mussato i primi veri pionieri del movimento e come, comunque, alla base dello stile epistolare del Petrarca, tutto teso al rifiuto dell’ars dictaminis, sia plausibile una conoscenza della corrispondenza di Geri, non solo perché concittadino, ma anche per il lavoro di diffusione di queste lettere svolto dal Salutati in tutta la Toscana e oltre. Per Witt, e l’ipotesi non pare così azzardata, la collezione epistolare di Geri potrebbe aver giocato un ruolo locale nella modifica dello stile epistolare della generazione di Boccaccio, e Witt non solo abbozza una ricostruzio-
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Cfr. infra, Appendice III. 1, p. 133.
il punto sugli studi
ne dell’ambiente con cui Geri era in contatto che potrebbe costituire la cinghia di trasmissione delle sue lettere con altri umanisti fra Firenze e Napoli (Gherardo da Castelfiorentino, Cambio da Poggibonsi, Francesco da Barberino), ma interpreta le testimonianze di Coluccio Salutati (citate qui in Appendice) per attribuire a Geri, in via ipotetica, un ruolo di antesignano e di maestro: «Negli anni venti del XIV secolo Geri d’Arezzo aveva già introdotto ampie riforme nel modo di scrivere le lettere, cosicché negli anni trenta e quaranta, quando Petrarca stava ancora elaborando il proprio stile epistolare, circolava in toscana una vasta quantità di lettere di Geri. Può darsi che Salutati intendesse riconoscere il suo debito verso costui quando più tardi nella vita pose l’aretino insieme a Mussato all’inizio della rinascita delle lettere in Italia» (Epist. III, pp. 84, 88 e 410)9. Ultima in ordine cronologico, ma non d’importanza ci preme segnalare l’edizione curata da F. Stella degli “Atti del Convegno Internazionale su origini, maestri, discipline e ruolo culturale dello Studium di Arezzo” (Arezzo 16-18 febbraio 2005), pubblicata con il titolo 750 anni degli statuti universitari aretini, Firenze 2006, che, attraverso le ricerche di numerosi studiosi e le prime edizioni di nuove fonti, riesce a fornire un’ampia panoramica non solo della storia dell’università aretina, ma anche degli aspetti della storia cittadina nel momento in cui Arezzo costituì la linfa culturale di cui si nutriva l’intera civiltà europea. Attraverso le novità e le anticipazioni presentate dagli studiosi, infatti, comincia in questo volume a emergere una preistoria dello Studium nella quale la produzione retorica ed epistolografica assume un’importanza rilevante e rivela proprio nel territorio aretino una precocità finora insospettata, che – quando saranno portate a termine le edizioni principes di Bernardo del Casentino (prima metà del XII secolo), del suo allievo Guido, di Bonfiglio di Arezzo e di Mino da Colle, oltre che di Goro e di Domenico Bandini, richiederanno secondo Francesco Stella una riscrittura della storia del “preumanesimo” sensibilmente diversa da quella, pur magistrale, fornita da Witt nel volume del 2005. Dopo il quadro storico e la descrizione di quella che possiamo definire l’evoluzione dello Studium, il volume infatti analizza i contenuti degli insegnamenti universitari, dal diritto alla medicina, dalla grammatica alla retorica, prima in maniera più generale e poi attraverso i ritratti dei maestri e degli autori (tra cui
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Witt 2005, p. 306.
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ricordo Bonfiglio d’Arezzo, Mino da Colle, Guittone, Restoro, Goro d’Arezzo e Domenico Bandini) che con i loro studi e la loro attività hanno animato l’università di Arezzo nel XIII secolo. In questa raccolta manca uno studio specifico su Geri, che era stato chiesto proprio a Rober Witt e Roberto Cardini, impossibilitati a partecipare al convegno, ma numerose sono le citazioni in altre relazioni: R. Black10 presenta acutamente Geri come l’antagonista di quella tendenza della nuova scuola laica e pratica del Duecento, che aspirava a proporre uno studio della grammatica latina più rapido e sistematico, adatto alla formazione dei nuovi imprenditori bisognosi di una familiarità anche rudimentale col latino, e soprattutto ai giovani studenti universitari che volevano essere qualificati come avvocati, notai o medici. Mentre Tebaldo da Siena, preminente maestro toscano di grammatica, insegnava la sua materia nella città natia e addirittura prima ad Arezzo, secondo Black Geri respingeva l’ars dictaminis medievale, tentava di scrivere la prosa latina in uno stile deliberatamente classico e anti-medievale e studiava Terenzio a scuola da ragazzo ad Arezzo, città che forse più delle altre ha resistito alla volgarizzazione del curriculo latino, voluta da una figura esterna come Tebaldo; F. Luzzati Laganà, Mino da Colle di Val d’Elsa e l’edizione dell’«ars dictandi»11, facendo cenno alla fortuna del maestro Mino da Colle (a cui il capitolo è interamente dedicato) e dell’ars dictandi in generale, tiene a ricordare, a proposito della non-soluzione di continuità, esclusivamente sul piano tecnico delle scritture pubbliche, tra gli artigrafi medievali e gli umanisti, la presenza di un dictamen di Geri in una silloge attribuita a Mino. Si tratta del modello di lettera pubblicato sia da G. Zaccagnini, Lettere ed orazioni di grammatici dei secc. XIII e XIV, «Archivium romanicum», 7 (1923), p. 534 sia da Weiss, 1949 (vd. supra), che, pur nella sua brevità e col suo carattere puramente fittizio (è mera esercitazione retorica), dimostrerebbe che la retorica classicheggiante non doveva aver cessato, nell’Arezzo della seconda metà del Duecento, di affiancare il dictamen nel curriculum scolastico al livello della scuola di grammatica, che Geri frequentò nella sua città; In P. Viti, Domenico Bandini professore e umanista, pp. 317-336 (vd. in particolare p. 333) la citazione del nostro maestro è rapida e al
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Black 2006, pp. 151-161 (vedi in particolare p. 161). Luzzati Laganà 2006, pp. 187-203 (vedi in particolare p. 198).
il punto sugli studi
negativo: Bandini nella sua monumentale opera Fons Memorabilium Universi (di cui tra l’altro l’autore dell’articolo ci offre un quadro del tutto esaustivo), in cui, tra le più svariate informazioni, vengono biografati gli uomini illustri dell’umanesimo toscano, scegliendo una linea tutta fiorentina per l’avvio e l’affermazione della cultura trecentesca, che vuole Firenze come punto di riferimento intellettuale, non solo omette personaggi «stranieri» del calibro di Albertino Mussato, ma anche suoi concittadini aretini, che pure avevano dato un loro fondamentale contributo alla rinascita della cultura, quali appunto Geri o Goro, che fu addirittura suo primo e più diretto maestro12. Del resto, osserva giustamente Weiss13, l’oblio è continuato fino a tempi relativamente recenti: tra i grandi dell’erudizione settecentesca fanno eccezione al diffuso silenzio su Geri e la sua opera il Mehus, che gli dedica due righe nella prefazione alla sua edizione dell’Epistola di Lapo, e una monumentale opera in venticinque volumi dedicata agli scrittori toscani composta dal Cinelli, dal Biscioni e da Monsignor Bottari14, che tuttavia riserva al nostro notaio solo una breve nota, poco originale. Tra gli studiosi moderni solo il Novati, nel primo dei suoi Studi su Albertino Mussato15, si occupò più seriamente di Geri; il Rossi lo omise completamente nella sua Storia della letteratura italiana, mentre il Bertoni16 osservò solo che Geri fu lodato dal Petrarca, da Lapo da Castiglionchio e da Benvenuto da Imola, commettendo un errore, visto che Geri non fu mai ricordato, né tantomeno lodato dal Petrarca. Geri non è nominato nello studio di D. Moreni, Bibliografia storico ragionata della Toscana, Firenze 1805, né in B. Barbadoro, Gli umanisti aretini, «Annali della cattedra petrarchesca», 8 (1938), pp. 121-156. Il breve cenno di Lumini 1883, pp. 118-119, pare non aggiungere niente di nuovo; sterile, invece, resta la segnalazione di G.F. Gamurrini, che
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Per una visione più ampia sul Duecento aretino e sui personaggi che lo hanno animato rimando a: Lumini 1884 (in particolare pp. 28 sg.); Lazzeri 1920, p. 260; Bertoni 1939, p. 273; Billanovich 1951; Franceschini, 1952-57; Margueron 1966 (in particolare pp. 133, 339, 410); Billanovich 1990 (in particolare p. 278). Un documento degno di nota sulla cultura aretina degli inizi del Trecento è U. Pasqui, La biblioteca di un notaro aretino del secolo XIV, in «Archivio storico italiano», ser. 5, 4 (1889), pp. 250-255. Il catalogo contiene testi rari come l’epistolario pliniano, il De deo Socratis di Apuleio e il De agricoltura di Palladio (cfr. Weiss in Cardini 2004, p. 105). Cfr. Cardini 2004, p. 107. Biblioteca Corsiniana, Roma, ms. 31. F.14, p. 8. Novati 1885, pp. 187-188. Bertoni 1939, p. 273.
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pur parlando dell’esistenza di epistole registrate nei cataloghi viscontei e di altre in un codice corsiniano, non ne dà la collocazione. In Vite dei letterati aretini, contenute nel Ms. 56 della Biblioteca Città di Arezzo (olim Fraternita dei Laici di Arezzo), Mario Fiori distingue invece due Geri, quello ricordato da Lapo da Castiglionchio e quello menzionato da Benvenuto da Imola. Menzioni di Geri si trovano naturalmente in numerose opere sulla letteratura italiana del Trecento e in studi sull’umanesimo, che tuttavia ripetono tutte i dati risalenti a Weiss: ad esempio il capitoletto di Raffaele Amaturi Bologna e Firenze: Giovanni del Virgilio e Geri d’Arezzo nel volume Il Trecento (1971), o il repertorio di Carmen Cardelle de Hartmann Lateinische Dialoge (2007), che dedica una scheda al Dialogo di Geri sull’amore, mentre qualche informazione nuova fornisce P.L. Schmidt nel suo studio sulla ricezione di Plinio (2000), individuando il ramo preciso della tradizione pliniana cui attinge Geri, quello del codice veronese.
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Struttura dell’edizione
Questo studio è costruito secondo un criterio differente dalla composizione tipo di un’edizione critica, che vuole una prima parte introduttiva seguita da una seconda dedicata ai testi e una terza riservata alle eventuali traduzioni. Noi abbiamo preferito, invece, fornire canonicamente un’introduzione generale, ma dividere i testi in tre sezioni, la prima delle quali destinata alle epistole che vorremmo definire, secondo l’uso classico, familiari, lettere di tema vario, quotidiano, caratterizzate da un linguaggio intimo e amichevole, strutturalmente semplici e stilisticamente poco elaborate: Epistole a fra Bernardo, a Donato Guadagni, a Berardo d’Aquino e a Cambio da Poggibonsi. La seconda, aperta da un’introduzione sulla storia del trattato e dell’epistolografia d’amore, dedicata appunto a quei testi che hanno l’amore come tema centrale e che presentano, tutti, un’elaborazione sintattica particolarmente costruita e diversificata: in primis, l’Epistola metrica di Cambio da Poggibonsi (?) a Geri, seguita dall’Epistola metrica in risposta alla precedente di Geri a Cambio, che costituisce, insieme al Dialogo d’amore, indirizzato a Francesco da Barberino, il fulcro del paragrafo dedicato alla letteratura amorosa. La terza parte è lasciata invece all’analisi di due epistole che, a nostro avviso, costituiscono, ciascuna per proprie particolari caratteristiche, due casi unici e nettamente distinti dal resto della produzione: l’Epistola a Gherardo da Castelfiorentino, di grande valore perché ci mostra Geri non solo come studioso esperto dei classici, dotato pure di notevoli capacità filologiche, ma anche come umanista non inferiore a quelli del tardo Trecento, capace di rielaborare i temi antichi e ricontestualizzarli nel mondo a lui contemporaneo, con idee sulla nobiltà che sono ormai quelle espresse nel Convivio di Dante e una rara abilità nell’analisi del testo che lo fa passare alla storia come il primo ad avere attribuito a Cesare il De bello gallico; e il modello di lettera del ms. II. IV.312, che merita una sua considerazione proprio per il rapporto con le abitudini compositive degli scrittori antichi. L’idea è quella di far muovere il lettore all’interno del genere epistolografico per passi successivi, in modo che risultino subito evidenti
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non solo le differenze stilistiche e linguistiche fra i vari tipi di lettera, ma anche il rapporto con i classici, qui evidenziato in una climax ascendente, tesa a mostrare una conoscenza sempre più approfondita da parte di Geri degli autori antichi e un grado di difficoltà crescente di rielaborazione del testo originale, che va dalla citazione diretta al richiamo intuitivo nelle epistole familiari, alla riproposizione sintattica e stilistica, anche poetica, della produzione latina nelle epistole e nel dialogo d’amore, fino allo studio di carattere filologico e all’esercitazione retorica nelle lettere finali. Dal momento, poi, che questo studio non è solo il frutto dell’interesse filologico per il richiamo linguistico, la riproposizione sintattica, la rielaborazione stilistica, ma anche, e soprattutto, un mezzo per far conoscere un’epoca, una città e alcuni suoi personaggi, finora poco esplorati, abbiamo ritenuto opportuno fornire le traduzioni dei testi in lingua originale, necessarie per chi, pur non conoscendo il latino, voglia comunque apprendere il messaggio di Geri e indagarne l’arte; sempre utili, invece, per chi, esperto della lingua, ricerchi un approfondimento o un aiuto nella comprensione dei passi più complessi.
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La tradizione manoscritta
Le opere del preumanista Geri d’Arezzo (1270-1339) sono notoriamente tramandate da un numero assai ridotto di testimoni: solo due, a fronte di una tradizione manoscritta che dev’essere stata assai più consistente di quanto oggi possa apparire; ne danno una concreta testimonianza le notizie fornite da Coluccio Salutati (1331-1406)1, Francesco Zabarella (1360-1417)2, Benvenuto Rambaldi da Imola (1338-1388)3 e Lapo da Castiglionchio († 1381)4, lettori attenti e ammirati di Geri; le loro parole denotano una conoscenza profonda delle opere del maestro aretino, non solo di quelle giunte fino a noi in modo fortuito (mi riferisco in modo particolare alle Epistolae), ma anche di quelle andate perdute (come la celebre Satyra sulle donne fiorentine, cui accenna Benvenuto da Imola nel suo Commento alla “Commedia”). È anche ipotizzabile che Geri fosse un consumato copista, che abbia eseguito delle copie autografe del suo lavoro (in particolare una raccolta delle sue stesse lettere) e che le abbia inviate a qualche illustre corrispondente di area toscana o bolognese5; tale pratica si collocherebbe in quella intensa attività di copiatura di testi classici, cui Geri avrebbe atteso nel corso della sua carriera di studente prima e di cultore dell’antichità poi e della quale oggi tuttavia resta ben poco, fatta eccezione per il ms. BAV, Vat. lat. 1600. Il codice, che raccoglie in silloge un cospicuo
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Coluccio Salutati, come è detto nel capitolo precedente, elogia Geri d’Arezzo in alcune lettere indirizzate a Bartolomeo Oliari (cardinale di Padova), Francesco Zabarella e Giovanni Conversini da Ravenna (cfr. Epistolario di Coluccio Salutati, a cura di F. Novati, Roma 1888, vol. III, pp. 84 e 88, 408-410, 512-513). Cfr. Epistolario di Coluccio Salutati, cit., vol. IV, p. 350. Benevenuti de Rambaldis de Imola comentum super Dantis Aldigherii Comoediam, a cura di J.F. Lacaita, Firenze 1887, vol. IV, p. 62. Epistola o sia ragionamento di messer Lapo da Castiglionchio celebre giureconsulto del secolo XIV colla vita del medesimo composta dall’abate Lorenzo Mehus, Bologna 1753, p. 78. Sappiamo che Geri trascorse parte della sua vita non solo a Firenze e Bologna, ma anche a Matelica (è ricordato in un documento come giudice generale della Marca) e in Calabria (presso la Curia di Carlo d’Angiò duca di Calabria); a tale proposito cfr. DBI, vol. 53, Roma 1999, pp. 412-413. Coluccio Salutati ci informa che varie di queste epistole erano state raccolte in un volume da Geri stesso, anticipando l’uso petrarchesco (cfr. Epistolario di Coluccio Salutati, cit., vol. III, p. 88).
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numero di opere ovidiane (come l’Ars amatoria, i Tristia, le Epistolae ex Ponto, gli Amores), è infatti sottoscritto e datato al f. 35v (“MCCCI Gerius scripsit”) e al f. 82v (“GERIUS SCRIPXIT MC°C°C°I°”)6 dalla mano di tale Gerius, che gli studiosi concordano nell’identificare con Geri d’Arezzo. Per cercare di gettare nuova luce sulla tradizione manoscritta dell’opera di Geri, è parso opportuno esaminare in dettaglio l’unico testimone rimasto delle Epistolae, il ms. Roma, Biblioteca Corsiniana, 33.E.27 (olim Rossi 229), che pur essendo noto ormai da tempo agli studiosi (a cominciare da Roberto Weiss), non è stato ancora sufficientemente studiato sotto il profilo testuale. Il codice tramanda una corposa silloge di opere umanistiche, ma solo una parte di esse è stata accuratamente censita dagli studiosi, mentre molti altri testi restano in attesa di una più attenta identificazione. Il codice è stato già descritto in più occasioni7, tuttavia nessuna delle descrizioni realizzate fino ad oggi offre un panorama completo della varietà dei testi da esso trasmessi. -
Roma, Biblioteca Corsiniana, 33. E. 27 (olim Rossi 229)
Sec. XV med. Cart.; ff. I, 156; numerazione recente a matita sul margine destro superiore (ff. 154r-156v lasciati in bianco); mm 200×150; fasc. 1-1312; richiami parzialmente rifilati; specchio rigato 145×90 (a f. 3r); rigatura a secco; rr. 34/ll. 33 (f. 3r, variabili); testo a piena pagina; umanistica corsiva di mano unica (mano A), ma con cambio ai ff. 145r-v e 150v153v, copiati in littera antiqua più posata da una mano coeva (mano B). Iniziali semplici in rosso o nero (ai ff. 1-108), di aggiunta posteriore
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M. Buonocore, Aetas ovidiana: la fortuna di Ovidio nei codici della Biblioteca apostolica Vaticana, Sulmona 1994, pp. 181-182, tav. XII; E. Caldelli, I codici datati nei Vaticani Latini 12100, Città del Vaticano 2007, pp. 93-94 e tav. 4. Descrizione del codice anche in: A. Petrucci, Catalogo sommario dei manoscritti del Fondo Rossi (Sezione Corsiniana), Roma 1977, pp. 111-114; P.O. Kristeller, Iter Italicum, vol. II, LondonLeiden 1967, p. 115; Censimento dei codici dell’epistolario di Leonardo Bruni. II: Manoscritti delle biblioteche italiane e della biblioteca apostolica vaticana, a cura di L. Gualdo Rosa, Roma 2004 (Nuovi studi storici, 65), pp. 192-193; Petrarca e i Padri della Chiesa, a cura di R. Cardini - P. Viti, Firenze 2004, pp. 313-4; R. Weiss, Geri d’Arezzo, in Il primo secolo dell’Umanesimo, Roma 1949, pp. 52-66 e 105-133 (ristampato con aggiornamenti bibliografici in Cardini - Viti (a cura di), Petrarca e i Padri della Chiesa. Petrarca e Arezzo, cit., pp. 105-132).
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(sec. XVI); ritocchi in rosso e maiuscole ritoccate di rosso di aggiunta posteriore (ai ff. 1-108); spazi riservati (ai ff. 109-153); rubriche; disegni di penna lungo i margini: in particolare si notano quattro disegni di mano cinquecentesca8, raffiguranti serpenti con testa di drago (ai ff. 15v, 17v, 75v, 82r); lungo tutto il margine esterno del f. 30v è stato disegnato un puttino con ampi festoni svolazzanti (sec. XVI). A f. 1r, margine inferiore, timbro ex libris di Bartolomeo Corsini (sec. XVIII) e timbro ex libris della “Bibliotheca Lynceorum” (sec. XIX). Legatura moderna in mezza pelle su cartone; sul dorso cartellino cartaceo con attuale segnatura, ripetuta sul contropiatto anteriore, ove si legge anche la precedente segnatura: “Rossi 229”. (ff. 1r-9r) guarinus guarini, Oratio funebris pro Theodora Zilioli, inc. Sepius cogitavi pater optime quanti fuerit (ff. 9r-10r) guarinus guarini, Epithalamium in Iacobum Persicum Cremonensem et Catherinam Peregrinam, inc. Ruere (sic) nonnulli magnifici viri et cives (Bertalot, Initia/Prosa, I/1, 7760) (f. 10r) gasparinus barzizza, Epistola (1410)9, inc. Gratulor tibi quod bene amicitia Danielis nostri (f. 10r-v) gasparinus barzizza, Epistola, inc. Micto ad te copiam litterarum quos ad Danielem nostrum dederam10 (ff. 10v-11v) gasparinus barzizza, Epistola, inc. Gaudeo plurimum illustrissime dux ac princeps (ff. 11v-13v) gasparinus barzizza, Epistola, inc. Quantum felicitati me gratulor illustrissime dux (ff. 13v-14r) gasparinus barzizza, Epistola, inc. Orthographiam non mitto causam ex Philippo (ff. 14r-15v) gasparinus barzizza, Epistola, inc. Illustris mi domine singularis quo magis tua dicta factaque (ff. 15v-16r) guarinus guarini11, Epithalamium in Silvestrum
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Il drago-serpente (il cosiddetto “biscione”) è lo stemma dei Visconti, signori di Milano. D. Mazzuconi, Per una sistemazione dell’epistolario di Gasparino Barzizza, in «Italia medioevale e umanistica», 20 (1977), pp. 183-241 (in particolare p. 215). Cfr. Mazzuconi, Per una sistemazione dell’epistolario di Gasparino Barzizza, cit., p. 219. La rubrica premessa al testo lo attribuisce chiaramente a tale Alberto “de Sale”, poi corretto “de Sala”; il personaggio è identificabile in Alberto de Sale (o della Sala), che fu consigliere e ministro
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Landum et Floram sponsam, inc. Maximum me tenuit desiderium Silvester amantissime ut aliqua nobis (Bertalot, Initia/Prosa, II/1, 11757) (ff. 16r-17r) guarinus guarini, Epistola pro populo Veronensi, inc. Serenissime princeps et illustrissime domine nuper cum lugubrem excellentissimi olim principis nuntium accepissemus (ff. 17r-19r) guarinus guarini, Epistola ad Franciscum Barbarum12, inc. Divina sepius opera (Bertalot, Initia/Prosa, II/1, 5116) (ff. 19r-21r) ps. plutarchus, Parallela minora (excerpta VI; trad. Guarino Guarini)13 (f. 21r-v) guarinus guarini, Epistola, inc. Ex Bononia Venetias una cum (Bertalot, Initia/Prosa, II/1, 6813)14 (ff. 21v-23r) ps. plutarchus, Parallela minora (excerpta III; trad. Guarino Guarini)15 (ff. 23r-24v) guarinus guarini(?), Epistola, inc. Solveramus e Patavio urbe in primis antiquissima (Bertalot, Initia/Prosa, II/2, 22414)16 (ff. 24v-26r) gasparinus barzizza, Oratio (a Giano II re di Cipro), inc. Si recte a maioribus nostris illustris rex (f. 26r-v) iona de restis mediolanensis, Oratio de disputatione, inc. Quamquam sepe aliquas hoc exercitationis laudato genere (Bertalot, Initia/Prosa, II/1, 17358)17 (ff. 26v-30r) iona de restis mediolanensis, Oratio de laudibus philosophiae, inc. Si novum aliquid et eruditissimis auribus (Bertalot, Initia/ Prosa, II/2, 21660)18
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di Niccolò III d’Este, marchese di Ferrara; cfr. G. Bertoni, Guarino da Verona fra letterati e cortigiani a Ferrara: 1429-1460, Ginevra 1921 (Archivium romanicum, 1), pp. 39-40. Francesco Barbaro. Epistolario, a cura di C. Griggio, voll. I-II, Firenze 1991, vol. I, p. 254. Gli incipit dei sei estratti sono i seguenti: Fortunam mortales; Plutarchus in eo libro; De Democriti occecatione; Isocrates Athensienses; Apud Plutarchum virum; Soleo Diogenis. R. Sabbadini, La scuola e gli studi di Guarino Guarini veronese, Catania 1896, p. 173. Anche nei ms.s. London, British Library, Harley 2580 e Bologna, Biblioteca comunale, A. 163. Gli incipit dei tre estratti sono i seguenti: Legebam Sophoclis tragediam; Pulcra Mediusfidius; Ad M. Prudentissimum. Epistola attribuita anche a Petrus de Monte e Pier Paolo Vergerio. Anche nel ms. BAV, Vat. lat. 5346 e Reg. lat. 1555. Anche nel ms. Venezia, Biblioteca Marciana, lat. XI 102 (3940), datato Padova 1424. Anche nei ms.s. Venezia, Biblioteca Marciana, lat. XI 101 (3939) e lat. XI 102 (3940).
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(f. 30v) iona de restis mediolanensis, Oratio pro actione gratiarum, inc. Postquam expectationibus vestris gratum esse inteligo (Bertalot, Initia/Prosa, II/2, 15953)19 (ff. 30v-31v) ps. aeschines, demades, demosthenes, Orationes breves (trad. Leonardo Bruni) (ff. 31v-32v) ps. demosthenes, Oratio ad Alexandrum (trad. Leonardo Bruni) (ff. 32v-35r) leonardus bruni, Oratio in funere Othonis adolescentis, inc. Plenam lacrimabilem atque meroris hodiernam (f. 35r) gasparinus barzizza, Oratio, inc. Nisi amplissima auctoritas vestra (ff. 35r-36r) gasparinus barzizza, Oratio, inc. Maxime vellem patres eruditissimi ea in me esset (ff. 36r-37r) gasparinus barzizza, Oratio inc. Sentio magnifici patres et doctores amplissimi (ff. 37r-38r) gasparinus barzizza, Oratio, inc. Non mediocri voluptate afficior (ff. 38r-39r) petrus donatus, Oratio in laudem papae Iohannis XXIII (1419)20, inc. Non vereor pater beatissime cum et hoc loco (Bertalot, Initia/Prosa, II/1, 14035)21 (ff. 39r-v) leonardus bruni, Epistola (a Francesco Filelfo), inc. In bonam quaeso partem accipias (ep. V/3) (ff. 39v-43r) poggius bracciolini, Oratio de morte Hieronymi haeretici (a Leonardo Bruni), inc. Cum pluribus diebus ad balnea (Bertalot, Initia/Prosa, II/1, 3794) (ff. 43v-47r) leonardus bruni, Epistola III/12 de antiquitatibus Ariminensibus (a Niccolò Niccoli; 1409), inc. Egisti mecum pro cetera tua (Bertalot, Initia/Prosa, II/1, 5624)
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Anche nel ms. Eichstätt, SB, 218, pp. 359-360 (Conclusione di un discorso di un accademico padovano, databile al 1418). Anche nel ms. Troyes, Bibliothèque Municipale, 1531, ff. 444r-445r. Pietro Donato (1380-1447) giurista e filosofo, umanista, arcivescovo di Creta e poi di Castello e di Padova (R. Sabbadini, Storia e critica di testi latini, s.l. 1889, pp. 174-177). Anche nei ms.s. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 90 inf. 13 e Padova, Biblioteca Antoniana, V. 90.
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(ff. 47r-49r) leonardus bruni, Epistola (a Giannicola Salernitano), inc. Admiratum dixisti doctum quendam (ep. IV.15) (ff. 49r-50v) guarinus guarini, Epistola, inc. Princeps illustris et magnanime domine. Hactenus omni studio (ff. 50v-51r) guarinus guarini, Epistola, inc. Fama volat dudum (ff. 51v-52v) guarinus guarini, Epistola pro Leonello Estensi, inc. Immortalis erga me (ff. 52v-53r) guarinus guarini, Epistola, inc. Solerit vir quidam aliqua re (ff. 53r-54r) guarinus guarini, Epistola, inc. In agrum cum otiandi (f. 54r-v) guarinus guarini, Epistola, inc Tam diuturnum nos silentium tenet (ff. 55r-56r) guarinus guarini, Epistola, inc. Nuper ut meministi cum ex Verona (ff. 56r-58r) guarinus guarini, Epistola, inc. Si litterarum inter nos agi (ff. 58v-60r) guarinus guarini, Epistola, inc. Bene ac sapientes maiores (ff. 60r-63v) Epistola, inc. Satis mihi constabat vir optime (Bertalot, Initia/Prosa, II/2, 20559) (ff. 63v-64r) Oratio (fragm.), inc. Exurgat deus et dissipentur (f. 64r-v) Epistola ad Commune Bononiense, inc. Magnfici et excelsi domini, domini mei singularissimi. Si possem ad debitas gratiarum actiones exurgere (ff. 64v-70v) barbatus sulmonensis, Epistola (a. 1347), inc. Scio et memini quos tu oblivioni damnose (+ poemata II: inc. Si tua que quondam fuerat; inc. Ergo age femmineo ultra non sit)22 (ff. 70v-71r) cecchus de mileto rossi, Epistola ad Petrarcham (Fam. XII, 2; 1354)23, inc. Redargui posset et merito temerarie (ff. 71r-73r) cecchus de mileto rossi, Carmen, inc. Laurea si in cinctos redimant non serta capillos (Bertalot, Initia/Poesia, I, 2988) (ff. 73r-75v) cecchus de mileto rossi, Carmen, inc. Fons sedet in medio nemoris quem densa coronant
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Bertalot, Initia/Poesia, I, Tübingen 1985, 5885 e 1499. E.H. Wilkins, The prose letters of Petrarch: a Manual, New York 1951, p. 116 nr. 8.
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(ff. 75v-82r) franciscus petrarcha, Epistola de institutione regia (a Niccolò Acciaioli; 1352), inc. Iamtandem vir clarissime perfidiam (Epyst. II, 2) (ff. 82r-83v) Epistolae (dei Priori di Firenze; 1376), inc. Illustres atque nobilissimi domini scribimus gloriosissimo regi vestro in hac forma (ff. 83v-84r) Epistolae (dei Priori di Firenze), inc. Amici karissimi ab horrende ingratitudinis sordibus (ff. 84r-88r) franciscus philelphus, Epistola a Eugenium IV papam de felicitate, inc. Socratem philosophum et senem (ff. 88r-89v) Oratio ad Andream Iohannem de Balleonibus, episcopum Perusinum (1435)24, inc. Si natura mihi reverendissime in Christo pater et domine mi singularissime Marci Tulii (Bertalot, Initia/Prosa, II/2, 21636) (ff. 89v-94v) bartholomaeus aretinus25, Epistola (1433), inc. Postea quam tue valetudinis infirmitas cause fuit quominus (Bertalot, Initia/Prosa, II/2, 16004) (ff. 94v-95v) leonardus bruni, Epistola, inc. Audivi ex familiaribus vestris (ep. IV/21) (ff. 95v-96r) leonardus bruni, Epistola, inc. tacendo et scribendo me superas (ep. I/21) (f. 96r-v) leonardus bruni, Epistola, inc. Gratissimas habui mi frater amantissime (ep. III/24) (ff. 96v-97v) leonardus bruni, Praefatio in translationem libri Xenophontis De tyrannide (a Niccolò Niccoli), inc. Xenophontis philosophi quendam libellum
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Andrea Giovanni Baglioni, prima di tenere l’episcopato della città umbra (1435-1449), fu lettore di diritto canonico (Decretali) nel 1427 nello Studio di Perugia. Cfr. L’Umanesimo umbro, Atti del IX Convegno di studi umbri (Gubbio, 22-23 settembre 1974), Gubbio-Perugia 1977, p. 287; P. Monacchia, L’episcopato perugino nella prima metà del Quattrocento, in Una chiesa attraverso i secoli. Conversazioni sulla storia della Diocesi di Perugia. I. Le origini e l’età medievale, a cura di G. Casagrande, Perugia 1995, pp. 55-63. La lettera (dati i riferimenti a Perugia) potrebbe essere attribuibile a Bartolomeo d’Arezzo, autore dell’epistola successiva, che fu professore a Perugia. Bartolomeo d’Arezzo (fl. 1431-1441). La lettera è indirizzata al perugino Francesco Coppoli († 1441), ambasciatore presso papa Eugenio IV (DBI, vol. 28, Roma 1983, pp. 675-678). Vi si celebra l’incoronazione dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo, avvenuta a Roma nel 1433.
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(ff. 97v-98v) franciscus petrarcha, Epistola metrica exhortativa ad sacrum studium (Fam. XII, 2), inc. Audio quod studium tibi nosse poetas (ff. 98v-102r) gerius aretinus, Dialogus de amore (a Francesco da Barberino), inc. Amor ecce mihi quesitus occurris Geri angulariter importune cupide (ff. 102r-104r) gerius aretinus, Epistola (a Cambio da Poggibonsi), inc. Sepe numero de fortune malignitate (f. 104r-v) gerius aretinus, Epistola (a Donato Guadagni), inc. Fili Donate, sic enim possum et teneor et licet dicere cum patris (ff. 104v-105v) gerius aretinus, Epistola (a Berardo d’Aquino), inc. Quanta mihi verborum paupertas imo egestas sit in maximis lacrimarum (ff. 105v-108r) bernardus claraevallensis, Epistola de cura rei familiaris, inc. Generoso et felici militi Raymundo (ff. 108r-112v) Vita Secundi philosophi (trad. Guillaume de Provence)26, inc. Secundus philosophus hic philosophatus est (ff. 112v-113r) cambius de podiobonici, Epistola metrica (a Geri d’Arezzo), inc. Dum secum reputat Venerem pervertere leges (ff. 113r-114v) gerius aretinus, Epistola metrica (a Cambio da Poggibonsi), inc. Carmina Lernee generosa in gramine ripe decantata (ff. 114v-120r) aloysius de turre27, Epistola ad Iohannem Franciscum de Gonzaga de morte Bartholomaei Enselmini28 (1439), inc. Acerbam nobis et permolestam meroris et lacrimarum (ff. 120r-126v) nicholaus de arimino OFM, Sermo de vita et morte Galeocti Roberti de Malatestis principis Arimini (1432)29, inc. Cum
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F.E. Cranz, Catalogus translationum et commentariorum, Washington D.C. 1960-2003, vol. II (1971), pp. 1-3. Alvise della Torre fu allievo di Vittorino da Feltre a Mantova; cfr. M. Cortesi, Libri e Vicende di Vittorino da Feltre, in «Italia medioevale e umanistica», 23 (1980), pp. 77-114 (in particolare le pp. 112-114). Per Bartolomeo Enselmini cfr. Vittorino da Feltre e la sua scuola: umanesimo, pedagogia, arti, a cura di N. Giannetto, Firenze 1981, pp. 6, 372. Frate francescano, guardiano del convento di Ravenna e poi maestro di teologia presso l’università di Bologna (1438-39), inviato da Obizo da Polenta (signore di Ravenna) presso Martino V. Cfr. J.M. McManamon, Funeral oratory and the cultural ideals of Italian humanism, Chapel Hill 1989, p. 168 n. 19 e A.G. Luciani - A. Falcioni, La signoria di Galeotto Roberto Malatesti (1427-1432), Rimini 1999, p. 51. L’orazione si trova anche nel ms. Firenze, Biblioteca Riccardiana, 2104, ff. 243-248 e nel ms. BAV, Ottob. Lat 2854, ff. 43v-50r. Si veda
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gloriosus deus multifariam multisque modis nobis (Bertalot, Initia/Prosa, II/1, 3237) (ff. 126v-127r) petrus de vineis, Epistola pro morte magistri Iacobi Balduini (1235), inc. Iuris civilis professoribus universis (ff. 127v-129v) gasparinus barzizza, Oratio ad regem Aragonae (a Fernando d’Aragona), inc. Vellem hoc die rex clarissime (ff. 130r-131v) gasparinus barzizza, Oratio ad regem Apuliae (a Giacomo di Borbone), inc. Non sumus nescii fortissime (ff. 132r-133v) gasparinus barzizza, Oratio ad regem Cypri (a Giano II re di Cipro)30, inc. Si recte a nostris maioribus illustris rex (ff. 134r-135r) coluccius salutati, Epistola ad Innocentium VII papam (ep. I/6; 1405), inc. Nescio cui magis gratuletur (ff. 135r-136r) leonardus bruni, Epistola ad Colucium Salutati (1405), inc. Etsi sciam que tu nuper (ff. 136r-138r) gasparinus barzizza, Oratio ad Martinum V papam (pro universitate Patavina), inc. Tandem pater beatissime quod superos omnes (ff. 138v-140r) gasparinus barzizza, Oratio ad Martinum V papam, inc. Cum omnes qui tuam adeunt sanctitatem (ff. 140r-144v) petrus candidus decembrius, Phil. Maria Vicecomes Feltrino Boiardo de morte Braccii de Fortebraccio (1424)31, inc. Si qua in me magnifici domini spectabiles (Bertalot, Initia/Prosa, II/2, 21751)32 (ff. 144v-146v) Oratio matrimonialis quando aliquis doctor desponsaret sposam suam33, inc. Si qua in me magnifici domini doctores (Bertalot, Initia/Prosa, II/2, 21750)
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in G.E. Mohan, Initia operum Franciscalium (XIII-XV s.), D-H, in «Franciscan Studies», 36 (1976) p. 313-[91*-177*]. P.O. Kristeller, Studien zum italienischen und deutschen Humanismus, Roma 1975 (Storia e letteratura. Raccolta di studi e testi, 130), p. 224. L’epistola è stranamente copiata anche ai ff. 24v-26r di questo stesso codice. Feltrino Boiardo († Scandiano 1456), governatore e capitano di Reggio Emilia, frequentò la corte estense (DBI, vol. 2, Roma 1969, pp. 210-211. Anche nei ms.s. BAV, Vat. lat. 1541, datato Lucca 1456 (cfr. Caldelli, Manoscritti datati, cit., p. 90 tav. 125) e Siena, Biblioteca comunale degli Intronati, H.VII.6. Nel Bertalot l’opera è censita come anonima. A f. 145r l’autore si riferisce allo sposo come a tale doctor legum Iacobus de Roestis de Monteflor. (sic). Alla fine (f. 146v) è stato aggiunto un breve testo in volgare, nel quale sono rammentate le nozze tra tale “SGP de’ Malatesti” e tale “madonna A”.
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(ff. 146v-148v) Oratio fienda quando scolaris conventatur in publico34, inc. Fulcite me floribus (Ct. 2, 5); Apparet mihi quod sicut flos habet (Bertalot, Initia/Prosa, II/1, 7815) (ff. 148v-149v) gerius aretinus, Epistola (a Gherardo da Castelfiorentino), inc. Non minus Cesaris scripta quam bella lectitans miror habuit enim prima (ff. 149v-150r) gerius aretinus, Epistola (a Bernardo d’Arezzo), inc. gre fero dilectissime mihi frater Bernarde quod vos egro similem (ff. 150v-152r) lysias, De laudibus Atheniensium. Praefatio (trad. Francesco Filelfo; 1428), inc. Pręclaro equiti Pallenti Stroççe. Soleo certe non numquam (add.) (ff. 152r-153v) hieronymus, De nuptiis, inc. Fert Auriolus et Onfrastri (sic) liber de nuptiis in quo querit an vir sapiens (add.) (f. 153v) matthaeus ronto35, Carmen, inc. Clarus ad celos oculus levatus (add.) Il libro è appartenuto all’abate fiorentino Nicola Rossi (17111785), segretario di casa Corsini, e successivamente al principe Bartolomeo Corsini (che lo acquisì nel 1786). Armando Petrucci ipotizza per il codice un’origine emiliano-romagnola36, localizzazione basata sul rilievo delle due filigrane documentate nel manoscritto, coincidenti l’una (ai ff. 1-36 e 120-156) con Briquet nr. 3853 (Reggio Emilia, 1425-1439), e l’altra (ai ff. 37-119) con Briquet nr. 2766 (Reggio Emilia, 1575). La datazione delle lettere e delle orazioni trascritte nel codice37 conferma che esso fu copiato poco dopo il 1439 (molto probabilmente tra il 1440 e il 1450), datazione che si concilia felicemente con l’expertise paleografica (sec. XV med.). L’aspetto complessivo della silloge mostra che essa non può essere considerata un semplice codice di lavoro, cioè il tipico zibaldone umani-
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Cita tale maestro Bartolomeo (d’Arezzo?) e Giovanni da Canitulo, professore presso lo Studium di Bologna. Monaco olivetano, nato a Creta (1370), visse a Pistoia; morì a Ferrara nel 1442; cfr. M. Tagliabue, Contributo alla biografia di Matteo Ronto traduttore di Dante, in «Italia medioevale e umanistica», 26 (1983), pp. 151-188. Cfr. Petrucci, Catalogo sommario, cit., p. 111. Si veda l’epistola ai ff. 114v-120r per la morte di Bartolomeo Enselmini (1439).
la tradizione manoscritta
stico di composizione stratificata e asistematica; il codice è unitario, copiato quasi interamente da un’unica mano (che procede con ductus regolare, rispettando i margini del campo di scrittura); la copiatura dei singoli testi è stata condotta con regolarità, senza salti cronologici di particolare rilievo (alla fine e all’inizio della compagine è stato usato un tipo di carta con la stessa filigrana, quindi chi ha preparato il supporto scrittorio lo ha fatto con cura preventiva, calcolando anche l’estensione complessiva della raccolta). L’unico cambiamento significativo si registra verso la fine della compagine (ai ff. 145r-v e 150v-153v), dove una mano diversa – ma coeva – è intervenuta per risistemare l’ultimo fascicolo, distaccatosi, e per reintegrare la prima carta dello stesso, caduta e quindi sostituita. La stessa mano ha poi aggiunto i tre testi finali, interrompendo il lavoro di copiatura a f. 154r, dove si legge solo una “F” iniziale. Nel complesso il manoscritto sembra rispondere ad un progetto compositivo organico e perseguito con metodo; il suo allestimento pare tuttavia rimasto incompiuto, come dimostra la presenza di numerosi spazi riservati, mentre la maggior parte delle iniziali presenti nel codice (così come i cinque disegni di penna aggiunti sui margini) sono di chiara aggiunta posteriore. Proposte di localizzazione L’unica concreta ipotesi di localizzazione è quella avanzata da Armando Petrucci, che propone l’area emiliano-romagnola in base al rilievo delle due filigrane. La proposta tuttavia è attendibile solo in una certa misura, giacché – per quanto la carta possa provenire dalla zona di Reggio Emilia – non è detto che il codice sia stato scritto nei dintorni della città (la carta viaggiava molto sia nel tempo che nello spazio e a volte tra la data di produzione e quella d’uso potevano intercorrere molti decenni e centinaia di chilometri di distanza). Quindi per gettare nuova luce sul problema e circoscrivere meglio l’origine del codice, in assenza di prove empiriche o estrinseche, occorre (a mio avviso) effettuare un’analisi più dettagliata di ogni elemento filologico e testuale. Anzitutto le testimonianze offerte dagli autori antichi: le lettere di Coluccio Salutati (indirizzate al cardinale Bartolomeo Oliari, a Francesco Zabarella e a Giovanni Conversini da Ravenna), dello stesso Zabarella (docente di diritto presso lo Studio di Firenze e di Padova), di Benvenuto Rambaldi da Imola (maestro di grammatica
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a Bologna e Ferrara) e di Lapo da Castiglionchio (docente di diritto canonico presso lo Studio di Firenze) documentano un dato evidente: l’opera di Geri nel XV secolo si diffuse soprattutto nell’Italia centrosettentrionale, certamente a Firenze (dove vissero lo stesso Geri38, il Salutati, lo Zabarella e Lapo da Castiglionchio), a Bologna/Ferrara/ Ravenna (dove lavorarono il Rambaldi e Giovanni Conversini) e a Padova (dove visse lo Zabarella). Un ulteriore fruitore delle opere di Geri (più probabilmente della sua produzione di carattere “tecnico”) deve essere stato il bolognese Pietro de’ Boattieri, maestro di Ars dictandi, che ci ha conservato in tradizione indiretta un modello di lettera attribuita a Geri39. Una quarta area di diffusione (del tutto certa) può essere indicata nella città di Pavia: nella biblioteca dei signori del luogo, i Visconti, negli anni 1426 e 1459/69, era conservata una copia della raccolta delle Epistolae di Geri (ne restano tracce tangibili in due antichi inventari della libreria viscontea)40, che in seguito sarebbe andata perduta. Onde si può dedurre che tra le prove fornite dalle filigrane del ms. 33.E.27 (che rinviano a Reggio Emilia) e le informazioni offerte dalla tradizione indiretta ci sia una netta convergenza di elementi, tale da certificare la diffusione dell’opera di Geri in area centro-settentrionale, con una prevalente concentrazione nella zona compresa tra Toscana, Emilia Romagna, Veneto e Lombardia. La diffusione dell’opera sembra aver subito una battuta d’arresto già con la seconda metà del XV secolo. Altri elementi significativi si possono desumere dalla natura dei testi tramandati dal codice, che in effetti raccoglie una poderosa silloge di epistole e orazioni quattrocentesche (ma con qualche salto anche nel Duecento e nel Trecento); gli autori attestati nel codice presentano forti legami con le maggiori città del Veneto, dell’Emilia Romagna, della Toscana e dell’Umbria, città che furono (non a caso) i più importanti
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Sappiamo anche che Geri visse per un certo periodo a Matelica (nella Marca) e in Calabria (DBI, vol. 53, Roma 1999, pp. 412-3). Nel ms. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II.IV.312, f. 75v. Nel primo inventario si legge: «Epistole Geni de Aretio coperte corio rubeo hirsuto. Incipiunt in principio libri in Christo perfectionis tue limine e finiuntur credituro faciat finem» (cfr. G. D’Adda, Inventario della biblioteca del Castello di Pavia compilato nel 1426, in Indagini storiche, artistiche e bibliografiche sulla libreria Visconteo-Sforzesca del Castello di Pavia, Milano 1875, p. 9). Nel successivo inventario è attestato: «Epistole Ghini de Aretio»; cfr. G. Mazzatinti, Inventario dei codici della biblioteca Viscontea-Sforzesca redatto da ser Facino da Fabriano nel 1459 e nel 1469, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1 (1883), p. 51.
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centri di potere e di cultura della prima metà del XV secolo; in particolare sono spesso menzionate le città di: - Padova (dove operano Gasparino Barzizza, il suo allievo Gionta Resta da Milano e Pietro Donato); - Ferrara (dove è attivo Guarino Guarini), Forlì (dove lavora Cecco di Meletto Rossi, corrispondente del Petrarca), Rimini (cui rimanda l’orazione funebre per Galeotto Roberto Malatesta, scritta da Nicola da Rimini) e Bologna (vi rimanda la lettera di ringraziamento al Comune bolognese per il conferimento di una cattedra presso lo Studium cittadino); - Firenze-Arezzo (degnamente rappresentate da Geri d’Arezzo, Coluccio Salutati, Leonardo Bruni41, Poggio Bracciolini; ma occorre puntualizzare che le epistole del Salutati e di Bracciolini sono di ampia diffusione, mentre quelle del Bruni e di Geri sono rarissime se non uniche); - Perugia (dove insegnò il maestro Bartolomeo d’Arezzo42 e della quale fu vescovo quell’Andrea Giovanni Baglioni citato nell’orazione ai ff. 88r-89v). Innegabilmente, tra gli autori rappresentati, si registra una netta prevalenza delle lettere dei due maestri per eccellenza del tempo: sedici lettere per Gasparino Barzizza (attivo a Padova dal 1408 circa) e sedici lettere per Guarino Guarini (attivo a Ferrara dal 1429, ove fondò la celebre scuola in cui fu educato Lionello d’Este, al quale tra l’altro sono indirizzate molte delle epistole del codice). A ciò si aggiunga che molti dei testi menzionati sono praticamente tramandati in copia unica: si vedano in primo luogo le Epistolae di Geri d’Arezzo (e corrispondenti),
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Piera, figlia di Leonardo Bruni, sposò tale Geri di Nanni di Geri d’Arezzo, cfr. P. Luiso, Studi su l’epistolario di Leonardo Bruni, a cura di L. Gualdo Rosa, Roma 1980 (Studi storici, 122/124), p. 80 n. 2. Bartolomeo d’Arezzo, dopo aver tentato di ottenere una cattedra presso lo Studium di Firenze, lesse grammatica e il greco nello studio di Perugia dal 1431 (ne ebbe la cittadinanza nel 1441); ha lasciato alcune lettere latine indirizzate a Leonardo Bruni (cfr. Luiso, Studi su l’epistolario di Leonardo Bruni, cit., pp. 98 n. 79, 127 n. 8, 167-168; L. Gualdo Rosa, Le lettere familiari di Leonardo Bruni: alcuni esempi della loro diffusione in Italia nel primo quattrocento, in Per il censimento dei codici dell’epistolario di Leonardo Bruni seminario internazionale di studi (Firenze, 30 ottobre 1987), a cura di L. Gualdo Rosa - P. Viti, pref. di G. Arnaldi, Roma 1991 (Nuovi studi storici, 10), pp. 37-53 (in particolare pp. 43-45, 50-52). Una lettera con inc. Accidit plerumque ut reor ut iuvenes è conservata nel ms. Ravenna, Biblioteca Classense, 349 (f. 105v), datato 1426. Un codice conservato ad Arezzo (Arezzo, Biblioteca Città di Arezzo, 75), tramanda una raccolta di lettere di tale Bartolomeo d’Arezzo.
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quella di maestro Bartolomeo d’Arezzo, le orazioni di Giona Resta e il componimento poetico di Matteo Ronto, posto a chiusura della silloge. Preziosissima anche la lettera di Barbato da Sulmona copiata ai ff. 64v70v e indirizzata a Francesco Petrarca (della quale il codice corsiniano ci ha conservato l’unica copia rimasta), nonché il rarissimo scambio epistolare tra Cecco di Meletto Rossi e Petrarca (copiato ai ff. 70v-82r e attestato da soli altri due codici a noi noti, ancorché in modo parziale). Infine si segnalano le lettere di Leonardo Bruni, che essendo tramandate in una versione assai prossima agli originali, risultano di grande autorità sul piano stemmatico (lo nota Lucia Gualdo Rosa, che si esprime sul problema come segue: “Si tratta comunque di un testimone importante, sfuggito sia al Luiso che al Bertalot, che contiene testi rari e in redazione molto antica”)43. Oltre a ciò, va evidenziato che molte delle lettere e delle orazioni del codice hanno per oggetto di trattazione la celebrazione di matrimoni (con attinenza alle casate signorili del Nord Italia, ma ai ff. 144v-146v curiosamente anche quella per un docente universitario)44 e l’oratoria funebre (soprattutto dei principi e dei signori dei luoghi menzionati)45. In parallelo abbondano anche i testi che celebrano la promozione degli studi classici, in particolare l’Epystola metrica (lib. II, 2) del Petrarca. Sembra dunque che il compilatore/fruitore fosse una persona fortemente interessata al genere encomiastico (cui rimanda indubbiamente l’ampia gamma di testi legati al mondo dell’oratoria di circostanza), ma anche dell’insegnamento e dell’Università in senso lato (si veda la singolare lettera di ringraziamento al Comune di Bologna per il conferimento di una cattedra universitaria presso lo Studium cittadino). La situazione fin qui descritta è certamente insolita, ma da sola non è in grado di condurci verso conclusioni più rilevanti circa l’esatta origine del manoscritto, anche se è evidente che abbiamo a che fare con un codice di modelli di scrittura, dunque di scuola. L’unico elemento su cui è possibile far leva per meglio localizzarne l’allestimento è cercare di ripercorre a ritroso le tracce della produzione e diffusione dei testi da esso trasmessi in tradizione unica o comunque rara, in modo da sup-
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Gualdo Rosa (a cura di), Censimento dei codici dell’epistolario di Leonado Bruni, cit., pp. 192193. Nella lettera è citato tale Iacopo de’ Resti (f. 145r). Galeotto Roberto Malatesta per Rimini.
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portare o meno l’ipotesi avanzata da Petrucci. Dall’esame filologico di questi testi è emerso quanto esposto nei punti successivi. 1) Il legame con la città di Padova sembra corroborato (oltre che dai numerosi riferimenti al Barzizza) anche dalle tre orazioni del milanese Giona Resta (o de’ Resti)46, fratello dei più noti Giobbe e Lazzerino Resta47. Dopo aver lasciato Milano, i tre fratelli si stabilirono a Padova, ma mentre Giobbe e Lazzerino preferirono ripartire alla volta di Venezia, Giona rimase a studiare nella scuola del Barzizza48. A Padova si trattenne fino al 1418, quando conseguì il titolo di maestro delle Arti (è infatti attestato in un documento come magistrum Jonam)49; in seguito si trasferì a Siena, dove si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e morì prematuramente di peste il 12 ottobre 141850. Giona intrattenne relazioni di amicizia con Gasparino Barzizza51 e con Guarino Veronese, che frequentò a Venezia grazie alla mediazione dei fratelli; ebbe uno scambio epistolare anche con Leonardo Bruni, cui inviò una lettera da Siena nel 141852. Le tre orazioni tramandate dal ms. corsiniano sono quasi certamente degli esercizi scolastici, presumibilmente messi a punto mentre studiava a Padova sotto la guida del Barzizza; è dunque
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Da Simone Resta nacquero Giobbe, Giona e Lazzerino; nel 1410 l’imperatore Venceslao emise a Praga un diploma con cui i tre fratelli furono nominati conti palatini (Spreti, Enciclopedia storiconobiliare italiana, Milano 1928-1935, vol. V, p. 660). I fratelli Giobbe, Lazzerino e la sorella Caterina si stabilirono a Venezia (cfr. R.G.G. Mercer, The teaching of Gasparino Barzizza: with special reference to his place in Paduan humanism, London 1979, p. 126). Lazzarino fu anche familiare della corte ducale di Gian Galeazzo Visconti (1395-1408). Giobbe fu segretario di papa Alessandro V (fino al 1410) e poi dell’antipapa Giovanni XXIII. Iacopo Angeli da Scarperia gli dedicò la sua traduzione della vita di Marius dalle Vitae parallelae di Plutarco. A Giobbe è stata attribuita la copia dei ms.s. Parma, Biblioteca palatina, Pal. 262 e Venezia, Biblioteca Marciana, lat. XIV 31, ma l’identificazione è stata messa in dubbio da L. Gualdo Rosa. Cfr. Bertalot, Uno zibaldone umanistico latino del Quattrocento a Parma, in Studien zum italienischen und deutschen Humanismus, Roma 1975 (Storia e letteratura, 130), pp. 241-242 e Griggio (a cura di), Francesco Barbaro. Epistolario, cit., vol. I, pp. 251-252 e 320. R. Sabbadini, Vita di Guarino Veronese, Genova 1981, p. 63. R. Sabbadini, Epistolario di Guarino Veronese, Torino 19672, p. 62. L. Zdekauer, Lo studio di Siena nel Rinascimento, Bologna 19772, p. 83. Cfr. anche Luiso, Studi su l’epistolario di Leonardo Bruni, cit., p. 202. Mazzuconi, Per una sistemazione dell’epistolario di Gasparino Barzizza, cit., pp. 205, 215-217, 219, 221-222, 224, 228, 233-234, 240. Al Bruni scrisse l’epistola ora nel ms. Ravenna, Biblioteca Classense, 349 ff. 90r-91r (datata Siena 3 maggio 1418, con inc. Magna fui pridie voluptate privatus), edita in Luiso, Studi su l’epistolario di Leonardo Bruni, cit., pp. 164-166. Inoltre è possibile trovare alcuni testi a lui attribuibili nel ms. Venezia, Biblioteca Marciana, lat. XI 102 (3940) del sec. XV, ai ff. 58-63, appartenuto nel XVIII secolo al poeta e librettista veneziano Apostolo Zeno.
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probabile che la loro diffusione abbia avuto origine proprio in zona padovana. 2) Tra i numerosi testi riportati dal codice saltano agli occhi alcuni estratti adespoti dai Parallela minora dello ps. Plutarco nella traduzione latina di Guarino Guarini53, copiati ai ff. 19r-23r, subito dopo una lettera indirizzata nel 1423 dal Guarini all’allievo e umanista veneziano Francesco Barbaro (1390-1454). Ora, gli stessi estratti, in una selezione ampliata ma di identica successione, si leggono anche ai ff. 168v-171v del ms. Oxford, Bodleian Library, Bywater 38 (sec. XV), miscellanea umanistica raccolta e rilegata a cura dello stesso Francesco Barbaro54. Il codice oxoniense è noto per la presenza di un duplice caso di autografia: in particolare vi sono state individuate le mani di Guarino Guarini e di Francesco Barbaro (al quale il maestro-traduttore aveva dedicato nel 1414 il Dione)55; a questi due copisti d’eccellenza si affiancano molte altre mani di formazione umanistica (per un totale di dodici), alcune delle quali note per essere attive in ambiente guariniano. Se ne deduce che le varie sezioni di cui si compone il ms. Bywater 38 furono copiate (ancorché in tempi diversi) in un ambito gravitante attorno alla figura del Guarini, probabilmente a partire dal 1414 (quando Guarino si trovava a Venezia) per poi proseguire fino al 1454 (Guarino e allievi erano ormai stabilmente insediati a Ferrara dal 1429) e che poi esse furono assemblate dal Barbaro. In entrambi i codici la sequenza di estratti dai Parallela minora dello ps. Plutarco è interrotta quasi a metà da una rarissima epistola di Guarino Guarini (inc. Ex Bononia Venetias) e si chiude con un’altra epistola (inc. Solveramus e Patavio)56 di dubbia paternità (essendo attribuita sia a Guarino che a Pietro da Monte). È evidente che i copisti del corsiniano e dell’oxoniense hanno attinto in tempi pressoché coevi ad una stessa fonte (un comune antigrafo umanistico, ove la selezione degli estratti dai Parallela minora e la successione delle
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Gli estratti dai Parallela Minora di Plutarco nel codice oxoniense si susseguono come nel corsiniano da: Fortunam mortales incusare non cessant fino a Solveramus e Patavio urbe in primis. Griggio (a cura di), Francesco Barbaro. Epistolario, cit., vol. I, pp. 236-240 (Briquet nr. 7684, 3279, 11882, 2678, 3984, 11679, 14651). Il Guarini copia la sua traduzione latina del Dione di Plutarco ai ff. 2r-27v, postilla la traduzione del Bruto ai ff. 27v-55v e infine copia la Comparatio de Bruto ac Dione ai ff. 63r-64v. Il Barbaro non ha avuto un ruolo attivo nella copiatura del codice, ma ha sicuramente vergato la rubrica al f. 68v e steso l’indice complessivo del codice al f. 1v. Si trova anche la lezione Volveramus e Patavio.
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lettere allegate era nella sostanza dei fatti già compiuta e ben definita); pertanto è possibile ipotizzare che anche il copista del manoscritto corsiniano abbia operato in un contesto non lontano dall’ambiente guariniano, dunque un’area geografica non distante da Ferrara. 3) Un ulteriore elemento significativo si trova alla fine della compagine del corsiniano (a f. 153v), ove la mano B ha trascritto un componimento poetico di Matteo Ronto (in latino e volgare a versi alternati), giunta a noi in quest’unica copia (inc. Clarus ad celos oculus levatus). La figura di Matteo Ronto è emblematica: nato a Creta tra il 1355 e il ‘60 da genitori veneti, divenne in seguito monaco camaldolese nel cenobio di Monteoliveto Maggiore (Siena); si trasferì poi a Pistoia, dove portò a termine la traduzione in esametri latini della “Divina Commedia” (1427-31). In seguito si trasferì a Venezia (1434), quindi a Padova (1435-39) e infine a Ferrara (1439-42), dove conobbe Guarino Guarini ed entrò in contatto con la sua scuola57; qui trascorse gli ultimi anni della sua vita nel monastero camaldolese di San Giorgio e morì nel 144258. Il carme Clarus ad celos oculus levatus (probabilmente composto proprio a Ferrara tra il 1439 e il 1442)59 fu aggiunto alla fine della compagine dalla mano che ha sistemato e copiato parte del fascicolo finale; in che modo il copista B sia giunto in possesso o abbia potuto attingere agli appunti e ai materiali poetici del Ronto (di scarsa diffusione) non è dato sapere, ma è probabile che questi abbia operato in una zona non distante dall’ultima dimora del Ronto, cioè la città di Ferrara. 4) Richiami alla città di Ferrara sono presenti in almeno altre due lettere. Ai ff. 15v-16r è copiata un’epistola di Guarino, ma attribuita dal copista al nobile ferrarese Alberto della Sala (o de la Sale), signore di Casalgrande, ministro del marchese di Ferrara Niccolò III d’Este60 e assiduo frequentatore della corte estense (ebbe un ruolo importante anche nello scandalo che vide coinvolti Parisina Malatesta e il suo genero/amante Ugo d’Este). Parimenti interessante è la lettera scritta (ai f. 140r-144v) da Pier Candido Decembrio per conto di Filippo
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Cfr. Tagliabue, Contributo alla biografia di Matteo Ronto traduttore di Dante, cit., p. 164. Visse a Ferrara per un anno anche nel 1431. Il contenuto del sonetto lascia pensare che l’autore fosse di età avanzata e che fosse tormentato dal pensiero della morte. È da escludere che il componimento sia stato copiato dallo stesso Ronto: il copista infatti chiama erroneamente l’autore Marco Ronto, anziché Matteo. Cfr. Bertoni, Guarino da Verona fra letterati e cortigiani a Ferrara: 1429-1460, cit., pp. 31, 39-42, 176.
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Maria Visconti (signore di Milano) e indirizzata a Feltrino Boiardo (capitano e poi governatore di Reggio Emilia)61 in occasione della morte di Braccio Fortebraccio da Montone (1424)62; il Boiardo non solo era cittadino di Ferrara, ma era anche una delle personalità più colte della corte estense, tanto da stringere amicizia con Guarino Guarini, Poggio Bracciolini, Leonardo Bruni e lo stesso Decembrio. I due personaggi menzionati (anche nel caso dell’errata attribuzione ad Alberto della Sala, figura di grande spicco a livello locale, ma meno nota in altri ambienti) presentano più di un elemento in comune: possiamo dire che sia Feltrino Boiardo che Alberto della Sala furono (insieme a Giovanni Gualengo e Uguccione Contrari) i maggiori mecenati del circolo culturale sorto a Ferrara al tempo di Niccolo III e Guarino da Verona. 5) Di grande interesse e rarità è anche un gruppo di testi copiati all’incirca a metà della compagine, che rimandano in modo emblematico alla figura del Petrarca. A questo gruppo di testi appartiene una lettera di Barbato da Sulmona, che il codice tramanda in copia unica63. Intellettuale trecentesco, originario di Sulmona (posta alla periferia del Regno Angioino), Barbato riuscì a ottenere la carica di alto funzionario regio nella capitale e a stringere rapporti con i principali esponenti del panorama culturale napoletano dell’epoca: fra questi la figura di maggiore spicco è quella di Francesco Petrarca, con il quale Barbato fu in rapporto epistolare per decenni64. Barbato fu un appassionato collezionista delle opere petrarchesche ed ebbe spesso la possibilità di leggere le redazioni originali degli scritti del poeta, che commentò in diverse occasioni (compose anche un inedito commento all’epistola petrarchesca Fam. XII, 2, indi-
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Nonno di Matteo Boiardo. All’epoca in cui essa fu scritta (1424) Feltrino viveva a Reggio Emilia. Cfr. in DBI, vol. 2, Roma 1969, pp. 210-211 e in L’Umanesimo umbro, cit., p. 281. Cfr. M. Colucci, Barbato da Sulmona, il laureato ed il tribuno: le radici culturali di un’utopia politica del Trecento, in Aspetti della cultura dei laici in area adriatica. Saggi sul tardo medioevo e sulla prima età moderna, a cura di L. Pellegrini [et alii], Napoli 1998, pp. 149-209; C.M. Monti, La «Romana res publica Urbi Rome» di Barbato da Sulmona II La «res publica» romana scrive alla città di Roma, in «Studi petrarcheschi», 17 (2004), pp. 38-60. I rapporti epistolari del Petrarca con i membri più influenti della corte di Napoli, come Niccolò Acciaioli, Zanobi da Strada e Barbato da Sulmona avevano lo scopo di guadagnare al poeta una posizione di rilievo presso la cerchia dei giuristi napoletani.
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rizzata nel 1352 a Niccolò Acciaioli)65. A suggestioni petrarchesche è dovuta l’adesione del Barbato alla figura del tribuno Cola di Rienzo, per il quale scrisse nel 1347 un’epistola poetico-elogiativa ed esortatoria, tramandataci in via del tutto eccezionale dal solo corsiniano (è copiata ai ff. 64v-70v)66. Tra i testi di attinenza petrarchesca si trova anche la corrispondenza di Cecco di Meletto Rossi da Forlì (flor. 1347-1379)67, segretario di Francesco Ordelaffi a Forlì nel 1347-48 e nel 1354, anno in cui Cecco indirizzò un’epistola in prosa latina a Francesco Petrarca con inc. Redargui posset (ai ff. 70r-71r): la lettera si inserisce nella protesta collettiva degli amici del Petrarca per la sua decisione di entrare al servizio dei Visconti signori di Milano (1354)68; dopo la lettera in prosa il corsiniano riporta in successione due componimenti poetici in latino (ff. 71r75v, con inc. Laurea si in cinctos e Fons sedet). I tre testi sono molto rari, essendo tramandatati da pochissimi testimoni, in particolare: - l’epistola in prosa Redargui posset, accompagnata da quella metrica Laurea si in cinctos, è tramandata anche dal ms. Milano, Biblioteca Ambrosiana, P. 256 sup. (ai ff. 42r-43r)69, altra importante silloge di età umanistica; - una sezione del carme Fons sedet (priva della parte iniziale, per un totale di 27 versi) è tramandata anche dal ms. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Gaddi 101 (olim Magl. XXV.332)70.
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Il Commento all’epistola Iantandem è tramandato dal solo ms. Paris, Bibliothèque Nationale de France, lat. 14845. In tale occasione il Barbato ebbe tra le mani una redazione della lettera anteriore a quella che poi confluì nella raccolta definitiva delle Familiares. Per il commento, oltre al testo della Fam. XII 2 (riportato quasi interamente), egli utilizzò anche altri estratti dalle Epistole del Petrarca, sempre in redazione originale. Si noti che una copia dell’epistola Iantandem è riportata anche nel corsiniano ai ff. 75v-82r (preceduta dalla lettera di Barbato, dalle lettere di Cecco di Meletto Rossi e quindi dalla Fam. XII, 2). L’epistola di Barbato (1304-1363) scritta nell’estate 1347, presenta lo stesso tema di quella di Petrarca a Cola: lo Stato repubblicano parla a Roma perché si liberi del giogo della schiavitù. A. Campana, Cecco di Meletto Rossi, in Enciclopedia Dantesca, vol. IV, Roma 1973, pp. 10441045; A. Rossi, Filologia, grammatica e retorica negli scrittori trecenteschi. II: Cecco di Meletto Rossi fra gli Ordelaffi e i Malatesta, fra Petrarca e Boccaccio, in «Poliorama», 3 (1984), pp. 11-22. Kristeller, Iter Italicum, London-Leiden 1963, vol. I, p. 339. Il codice presenta la data 1463. Per il ms. Gaddi 101 cfr. M. Feo, Codici latini del Petrarca nelle biblioteche fiorentine, catalogo della mostra (Firenze, 19 maggio - 30 giugno 1991), Firenze 1991, pp. 386-391 (e M. Feo, Aggiunte e correzioni, p. 7). Il ms. Gaddi 101 ha lo stesso contenuto di un codice deperdito, conservato ab antiquo dal ms. Firenze, Biblioteca Nazionale, VIII.1277 (cfr. Kristeller, Iter Italicum, cit., vol. I,
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In ogni caso il corsiniano è l’unico codice in nostro possesso che tramandi la lettera a Petrarca e i due componimenti poetici successivi in forma completa e congiunta. Per di più i due codici sopra menzionati presentano una singolare coincidenza, in quanto provengono da zona riminese; il ms. Gaddi 101 (del sec. XIV ex.-XV in.) è stato scritto in una elegante umanistica da Michele de Melioratis da Prato, dottore in legge, proprio all’epoca in cui era attivo presso la corte dei Malatesta a Rimini71; l’Ambrosiano P. 256 sup. (sec. XV) a sua volta documenta attività e interessi di Pietro Turchi72, politico ed umanista, attivo come cancelliere presso i Malatesta a Rimini73. Ora, poiché Cecco di Meletto negli ultimi anni della sua vita abbandonò Forlì per stabilirsi a Rimini al servizio di Malatesta Ungaro Malatesta74, è probabile che la tradizione delle sue opere abbia preso le mosse proprio da Rimini e dintorni. 6) A questa città e alla sua corte si riconnette anche la figura del francescano Nicola da Rimini, guardiano del convento di San Francesco di Ravenna e poi professore di teologia presso lo Studium di Bologna, a cui è stata attribuita la composizione del raro Sermo in vita et morte in memoria del giovane Galeotto Roberto Malatesta, vergato ai ff. 120r126v (Nicola era stato il confessore personale del giovane Galeotto e lo aveva frequentato proprio a Rimini, dove questi morì prematuramente nel 1432 a soli ventuno anni)75. 7) Altri rimandi alla città di Rimini e ai suoi signori si trovano nella orazione vergata ai ff. 144v-146v, cui è stata aggiunta alla fine (f. 146v) una sorta di abbozzo di discorso (in realtà abbastanza breve e per giunta in volgare italiano)76, nella quale si accenna ad una imminente celebrazione nuziale tra tale “SGP de’ Malatesti” e tale “madonna A” (il riferimento deve essere a Sigismondo Pandolfo Malatesta). Il brano è senz’altro una sorta di orazione-canovaccio, concepita per
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pp. 117-118). Tramanda anche l’epistola Fam. XII, 2 di Francesco Petrarca. Feo, Codici latini del Petrarca, cit., p. 386 nr. 247. Pietro Turchi (copista del ms. BAV, Vat. lat. 238) ha lasciato alcune lettere ai ff. 27r-28v, 57r-v, 60r-v, 61r-v, 64v-71r, 81r-82v. Al f. 93v si legge: Prudentissimo atque disertissimo viro Petro Turcho amico lectissimo ac dominorum Malatestarum canzelario singulari Arimini; cfr. Griggio (a cura di), Francesco Barbaro. Epistolario, cit., vol. I, p. 216. Campana, Cecco di Meletto Rossi, cit., p. 1045. Cfr. Luciani - Falcioni, La signoria di Galeotto Roberto Malatesti (1427-1432), cit., p. 51. Si tratta dell’unico testo in volgare dell’intero codice.
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celebrare un matrimonio in casa Malatesta, ma non essendo compiuta (lo dimostra anche l’uso insolito del volgare, fenomeno unico in tutto il manoscritto), ritengo debba trattarsi più di un abbozzo decontestualizzato che di un riferimento a un evento realmente avvenuto: una sorta di appunto di circostanza da impiegarsi all’occorrenza (e del resto Sigismondo Pandolfo ebbe tre mogli)77. In ogni caso, poiché il codice è databile alla metà del secolo (1440-1450 ca.) e Sigismondo Pandolfo Malatesta fu signore di Rimini dal 1432 al 1468, è verosimile che l’autore abbia frequentato la corte dei Malatesta al tempo di Sigismondo, che in effetti amava circondarsi di intellettuali del calibro di Guarino Guarini, Giusto de’ Conti78, Tobia Borghi79 e Basinio da Parma80. Direi che dalle osservazioni fatte finora emerga un panorama variegato e complesso, difficilmente rapportabile ad una realtà univoca; tuttavia, tra le tante vie ripercorribili ne emergono un paio più plausibili delle altre, che sembrano disegnare per il copista-compilatore della silloge corsiniana un percorso umano e culturale complesso e articolato: si trattava probabilmente di un intellettuale formatosi in area settentrionale (presumibilmente in area veneto-emiliana, non lungi da Bologna e Padova), che ebbe importanti contatti con le corti di Ferrara (forse al tempo di Niccolò III d’Este) e di Rimini (sotto la signoria di Sigi-
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Sigismondo Pandolfo Malatesta si sposò per l’ultima volta nel 1456, quando portò all’altare la sua amante di sempre, Isotta degli Atti. Giusto de’ Conti (Valmontone, 1390 ca. - Rimini, 1449), poeta e umanista italiano. Addottoratosi in giurisprudenza (forse a Bologna), rimase a Firenze dal 1438 al 1440 presso papa Eugenio IV. Chiamato a fare da mediatore tra Federico da Montefeltro e Sigismondo Pandolfo Malatesta, ebbe modo di conoscere il Signore di Rimini che lo volle come consigliere presso la sua corte, dove rimase fino alla morte. Ha lasciato un canzoniere intitolato La bella mano (1440), composto da 150 rime in volgare dove canta le lodi di tale Isabeta, forse Elisabetta Bentivoglio di Bologna (DBI, vol. 28, Roma 1983, pp. 435-438). Tobia Borghi (o dal Borgo), allievo di Guarini a Ferrara, fu storico, poeta e oratore di corte sotto Sigismondo Pandolfo I Malatesta, signore di Rimini (1446-1449). Di lui sappiamo con certezza che verso il 1438 studiò legge a Pavia, dove all’epoca era conservata una copia delle Epistolae di Geri (DBI, vol. 12, Roma 1970, pp. 673-674). Si veda anche in A. Tissoni Benvenuti, Schede per una storia della poesia pastorale nel secolo XV, in Ricordo di Cesare Angelini, Pavia 1979, pp. 96-131 (in particolare a p. 98). Altrettanto interessante è la figura dell’umanista Basinio da Parma (Vezzano 1425 - Rimini 1457). Discepolo a Mantova di Vittorino da Feltre e di Teodoro Gaza, nel 1446 fu chiamato a insegnare latino allo Studio di Ferrara; trasferitosi a Rimini nel 1449, alla corte di Sigismondo Malatesta, compose il Liber Isottaeus, poemetto già iniziato da Tobia Borghi, in cui si celebra, sul modello delle Eroidi ovidiane, l’amore di Sigismondo Malatesta per Isotta degli Atti (DBI, vol. 7, Roma 1965, pp. 89-98).
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smondo Pandolfo Malatesta), nonché con gli umanisti più importanti del tempo (tanto da poter attingere a testi e collezioni di notevole pregio e di scarsa accessibilità). Sotto il profilo culturale oltre ad essere retore e umanista, doveva nutrire anche un forte interesse per la storia contemporanea e per il diritto. Questi dati non solo convergono con la localizzazione proposta dal Petrucci su base codicologica (con una più esatta delimitazione ad area romagnola), ma si collocano felicemente in quella complessa rete di rimandi ad autori, città e personaggi, tipica della cultura poliedrica e del processo di osmosi dell’età dell’Umanesimo (a cui neppure Geri riuscì a sottrarsi sia in vita che dopo la sua scomparsa). In epoca posteriore il codice deve essere migrato al Nord, giungendo nei dintorni di Milano: sembrano provarlo i disegni raffiguranti serpenti con testa di drago o (per usare la giusta definizione) i “biscioni”, aggiunti lungo i margini dei ff. 15v, 17v, 75v e 82r da una mano di notevole capacità artistica, e che tanto richiamano l’emblema dei Visconti di Milano. La stessa mano ha disegnato il puttino con festoni al f. 30v, dove comincia la terza orazione di Giona Resta da Milano. Un altro riferimento a tale maestro Iacopo de’ Resti (o Resta) si trova nel testo al f. 145r (ma ricordo che la carta è stata reintegrata dalla mano B). Problematiche ben diverse presenta il ms. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II.IV.312, che tramanda un solo modello di epistola attribuito (in margine dalla mano del copista) al maestro Geri d’Arezzo. Il manoscritto è molto noto ed è stato già studiato in passato; benché già descritto81, se ne offre una nuova schedatura: -
Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II.IV.312 (olim Magl. XXV.341, Gaddi 263) Composito
Cart.; ff. II, 174, I’; numerazione automatica del sec. XIX sul margine destro superiore; dimensioni variabili: mm 294×212 (f. 1) e mm
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Una prima descrizione è in G. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle Biblioteche d’Italia. XI: Firenze (Biblioteca Nazionale Centrale), Forlì 1901, p. 21. La descrizione più recente è in Cardini - Viti (a cura di), Petrarca e i Padri della Chiesa. Petrarca e Arezzo, cit., p. 314.
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325×228 (f. 115). Legatura ottocentesca di cartone, con dorso in pergamena. Il codice consta di sette unità codicologiche, di datazione e contenuto eterogeneo, assemblate presumibilmente nel sec. XVII. Sez. I (ff. 1-24): tre minute di lettera al Granduca di Toscana (sec. XVI, tra le quali una di Girolamo Benivieni a Clemente VII del 1530); sez. II (ff. 25-37): Catalogo dei priori fiorentini (1487-1496); sez. III (ff. 38-47): Catalogo dei priori delle Arti di Firenze (1282-1293); sez. IV (ff. 48-104): sezione qui esaminata; sez. V (ff. 105-114): Supplica al re di Francia tradotta da Cristoforo Boncini da Pistoia (sec. XVI); sez. VI (ff. 115-134): Orazione (1556); sez. VII (ff. 136-174): Orazione di un accademico della Crusca, Niccolò Machiavelli, Ritratto delle cose di Francia (sec. XVI). Sez. IV (ff. 48-104) Sec. XIV primo quarto Fasc. 113, 216, 33, 46, 56, 64, 79; numerazione antica sul margine destro superiore, che numera 5-57 le carte attualmente numerate 48-104; campo di scrittura a piena pagina di dimensioni fortemente variabili; rr. 2/ll. 30 (a f. 75v, variabili); minuscola cancelleresca. Iniziali semplici di penna. A f. 104v annotazioni e prove di penna di mani diverse, con almeno due date espresse afferenti all’anno 1314 (ma forse di inserimento non contestuale) e con vari riferimenti a località toscane, come San Gimignano (San Gnimiano) e San Miniato (Saminiato, San Miniato); vi ricorre più volte anche il nome di tale Piero Alamanno, probabilmente un antico fruitore. L’origine della sezione (di originaria circolazione autonoma, come attesta la numerazione antica), è stata ricondotta con una certa sicurezza al notaio bolognese e maestro di Ars dictandi Pietro de’ Boattieri (attivo presso lo Studium di Bologna), che lo avrebbe allestito di sua mano ad uso scolastico nei primi anni del sec. XIV82. Le prove di penna vergate sul verso dell’ultima carta (f. 104v) sembrano comunque documentare un utilizzo posteriore in area toscana (sempre in ambito scolastico), dove il codice deve essere emigrato precocemente. La sezione è stata unita alle restanti unità codicologiche presumibilmente in epoca moderna.
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Il codice è già stato segnalato da H. Wieruszowski, Politics and culture in medieval Spain and Italy, Roma 1971 (Storia e letteratura, 121), pp. 348, 360, 443, 469-470.
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(ff. 48r-104v) petrus de boateriis, Rosa novella super artem dictaminis83 L’opera del maestro bolognese Petro de’ Boattieri (1260-1335)84 tramandata da questo manoscritto (Rosa novella) è importantissima, perché ci ha conservato gran numero di lettere e documenti del periodo svevo (Federico II e Corradino di Svevia) e del primo tempo del regno angioino (Carlo I e Carlo II d’Angiò), nonché molti modelli di lettera (183 secondo il computo dello Zaccagnini)85, attribuiti a diversi maestri pressoché coevi al maestro/compilatore. Le lettere non sono disposte in ordine cronologico, ma per argomento, e sono intervallate a brevi brani di Ars dictandi. Il modello di lettera di Geri d’Arezzo è copiato al f. 75v (con indicazione d’autore sul margine). Le lettere di Mino da Colle presenti nella silloge sono state edite parzialmente da G. Zaccagnini e F. Schneider86, che ipotizzano l’esistenza di una collezione epistolare del maestro toscano, che avrebbe probabilmente fornito al bolognese la maggior parte delle lettere toscane87. L’origine e la fruizione del codice (palesemente utilizzato in area bolognese e poi toscana) confermano la fortuna riscossa dalle opere di Geri in ambito universitario e umanistico.
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La silloge comprende ai ff. 70r-73v anche alcune epistolae di Mino da Colle (sparse ai ff. 64r79v), Manetto, Bonfiglio d’Arezzo e Brunetto Latini (per quest’ultimo cfr. J. Bolton Holloway, Brunetto Latini: an analytic bibliography, London 1986, p. 34). Al f. 73v-74r si segnala un’epistola De amasio ad amaxiam. A f. 77r epistola De comite de Romena ad fratrem quendam ordinis S. Dominici (e risposta). Cfr. DBI, vol. 10, Roma 1968, pp. 803-805. G. Zaccagnini, Note ed appunti per la storia letteraria del sec. XIV, in «Giornale storico della letteratura italiana», 66 (1915), pp. 323-328; Id., Le epistole in latino e in volgare di Pietro de Boattieri, in Studi e memorie per la storia dell’Università di Bologna, vol. VIII, Bologna 1924, pp. 211-248 (in particolare le pp. 220 sgg.); Id., La vita dei maestri e degli scolari nello studio di Bologna, Ginevra 1926 (Biblioteca dell’Archivum Romanicum, serie I, 5); E. Besta, Le fonti, in Storia del diritto italiano, a cura di P. del Giudice, Milano 1925, vol. I/2, p. 830. F. Schneider, Untersuchungen zur Italienischen Verfassungsgeschichte. II. Staufisches aus der Formelsammlung des Petrus de Boateriis, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 18 (1926), pp. 191-273. R. Davidsohn, Geschichte von Florenz, Berlin 1908, vol. II/2, p. 74 n. 4 Cfr. anche F. Luzzati Laganà, Mino da Colle di Val d’Elsa e l’edizione dell’«Ars dictandi», in 750 anni degli statuti universitari aretini, Atti del Convegno internazionale su origini, maestri, discipline e ruolo culturale dello «Studium» di Arezzo (Arezzo, 16-18 febbraio 2005), a cura di F. Stella, Firenze 2006, pp. 187-203 (in particolare pp. 193, 195).
Criteri di trascrizione
La presente edizione si basa su una trascrizione sistematica di due manoscritti, il ms. 33.E.27 della Biblioteca Corsiniana di Roma e il ms. II.IV.312 della Biblioteca Nazionale di Firenze, di cui il primo conserva la gran parte delle epistole di Geri in fogli non contigui (A Francesco da Barberino ff. 98v-102r; A Cambio da Poggibonsi ff. 102r-104r; A Donato Guadagni f.104r-v; A Berardo d’Aquino ff. 104v-105v; Epistola metrica di Cambio (?) da Poggibonsi a Geri ff. 112v-113r; Epistola metrica di Geri a Cambio da Poggibonsi ff. 113r-114v; A Gherardo da Castelfiorentino ff. 148v-149v; A Fra Bernardo d’Arezzo ff. 149v150r.) e il secondo solo il modello di lettera, f. 75v1. Le scelte testuali sono sempre state soggette alla valutazione specifica del singolo luogo, gli interventi nel testo su evidenti errori grammaticali e/o meccanici sono stati puntualmente segnalati. L’apparato che correda l’edizione è di tipo negativo: di norma perciò non viene lemmatizzata la lezione fissata nel testo, ma vengono indicate soltanto le forme originali del manoscritto rifiutate, e naturalmente, di seguito, le lezioni adottate da R. Weiss, che perlopiù concordano con le nostre, eccetto alcuni casi evidenziati. Per alcuni termini scritti in un latino non classico o con desinenza monottongata abbiamo preferito lasciare la forma presente nel manoscritto. Ci siamo, invece, discostati dalle forme michi e nichil dell’edizione del Weiss, recuperando la grafia classica mihi e nihil, perché è la forma tramandata dai manoscritti. Cospicui sono gli interventi sulla punteggiatura, in particolare la sostituzione della virgola con il punto fermo o il punto e virgola, ai fini di facilitare la comprensione del testo; questi interventi non vengono riportati in apparato, a meno che non siano stati considerati decisivi per una traduzione più fruibile.
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Questo testo era stato pubblicato dal Weiss in R. Cardini, Petrarca e i padri della chiesa, Firenze 2004, ma egli era già, seppur lievemente, intervenuto su una prima edizione di G. Zaccagnini in Lettere ed orazioni di grammatici dei secc. XIII e XIV, in «Archivum Romanicum», 7 (1923), p. 534.
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Biblioteca Corsiniana (Roma), ms. 33 E 27, f. 113 r (fine della lettera a Geri forse di Cambio da Poggibonsi e inizio della responsiva). Riproduzione autorizzata.
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Biblioteca Corsiniana (Roma), ms. 33 E 27, f. 104r (Epistola a Donato Guadagni). Riproduzione autorizzata.
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Geri d’Arezzo lettere e dialogo d’amore
Le epistole familiari
Sappiamo dal Salutati1 che Geri stesso si era già preoccupato di raccogliere le sue epistole in un unico volume, anticipando in ciò l’uso petrarchesco; e, anche se non ci è dato conoscere la produzione completa del nostro notaio, tantomeno i criteri di distribuzione delle diverse opere, vogliamo qui riproporre, secondo l’ordine già illustrato in introduzione, le opere di Geri che ci sono pervenute e che meglio di qualunque altra considerazione di tipo storico, biografico, culturale ci aiuteranno a capire il ruolo giocato da Geri nella riscoperta dei classici latini e nella diffusione dell’ideologia preumanista e umanista. Il corpus delle opere superstiti di Geri consta di sei epistole in prosa (tra cui un’esercitazione retorica), un dialogo tra l’autore e Amore, e un’epistola metrica, a cui si aggiunge una seconda epistola in versi scritta forse da Cambio da Poggibonsi e a Geri inviata. In questo capitolo abbiamo pensato di raccogliere quattro delle sei lettere in prosa, precisamente le epistole a fra Bernardo, a Donato Guadagni, a Berardo d’Aquino e a Cambio da Poggibonsi, che ci siamo permessi di definire, secondo la distinzione adottata canonicamente nei volumi di storia della letteratura latina, familiari, in quanto lettere di argomento vario, caratterizzate da un linguaggio quotidiano, immediato e da uno stile lineare, non pretenzioso, seppur, comunque, sempre ispirato ad autori classici, quali precipuamente Plinio il Giovane e Seneca. Epistola di Geri d’Arezzo a fra Bernardo L’Epistola a fra Bernardo è stata definita da Weiss di scarso interesse e per questo esonerata da un’analisi testuale, che si è limitata alla mera registrazione della citazione diretta di un passo dell’epistolario di
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In una lettera del 1395, indirizzata al Card. Bartolomeo Oliari, Coluccio Salutati ricorda Geri tra gli scrittori che raccolsero il loro epistolario: fecit et hoc idem seculi nostri decus, Franciscus Petrarca; fecerat et ante eum Gerius Aretinus. Cfr. infra, Appendice III. 2, p. 133.
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Plinio il Giovane, quello che avrebbe portato il Salutati a definire Plinio modello primo di riferimento per Geri2. Anche se concordiamo con chi ci ha preceduto sul fatto che il tema della lettera non offra spunti importanti per una riflessione approfondita su aspetti storici e/o culturali, come invece altre lettere di Geri, tuttavia crediamo che questo breve messaggio, inviato da Geri all’amico più anziano, metta in luce alcuni aspetti non trascurabili. Innazitutto l’intera epistola è incentrata sull’importanza dello studio: abbiamo da una parte il giovane Geri, che conosciamo come amante delle lettere e assiduo lettore dei classici, e dall’altra fra Bernardo, stanco, malato, ma ancora desideroso di apprendere; il messaggio è quello di un giovane preoccupato per la salute dell’amico, e forse maestro, un tema frequente nell’epistolografia latina, che trova modelli di riferimento in Cicerone, Seneca e ancora in Plinio il Giovane. Se, infatti, lo stesso Geri allude direttamente a un passo dell’epistola 7 di Plinio3, riproponendolo quasi integralmente in chiusura della sua lettera, a destare la nostra curiosità sono, piuttosto, i continui e più sottili richiami a un’intera tradizione epistolare, che contribuiscono a rendere la lettera a fra Bernardo un esempio accattivante dell’abilità di Geri nel recupero del modello antico e nella sua riproposizione, anche se ancora privo qui di una capacità matura di ricontestualizzazione, più evidente, invece, in altre epistole. A testimonianza di ciò segnalerei l’espressione lucubrate noctes, presente nella prima parte della lettera a fra Bernardo, che fa riferimento alle notti passate insonni davanti ai libri e alla fatica dello studio serale portato avanti alla luce di una lanterna, inserendosi perfettamente all’interno di quello che pare essere un topos dell’epistolografia latina antica e medievale, di cui riproduciamo qui alcuni passi di età classica: vobisque persuadere habeo ne quid ultra vires lucubrate noctes apportent. (Geri a fra Bernardo d’Arezzo)
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Cfr. infra, Appendice III. 1, p. 133. «Apud Plinium legi optimos esse nos dum infirmi sumus, tunc nos nec avaritia aut libido solicitat, non amor inflammat, non appetimus per id tempus honores, opes negligimus et quantulumcumque et relicturi satis habemus. Optabatque vir tantus talem perseverare sanatum qualem futurum profitebatur infirmum». (Geri a fra Bernardo d’Arezzo). «Nuper me cuiusdam amici languor admonuit optimos esse nos, dum infirmi sumus. Quem enim infirmum aut avaritia aut libido sollicitat? Non amoribus servit, non appetit honores, opes neglegit et quantulumcumque ut relicturus satis habet. […] Possum ergo, quod plurimus verbis, plurimis etiam voluminibus philosophi docere conantur, ipse breviter tibi mihique praecipere, ut tales esse sani perseveremus, quales nos futuros profitemur infirmi. Vale». (Plin., Epist. VII, 26, 1-4).
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Hoc sit negotium tuum, hoc otium, hic labor, haec quies; in his vigilia, in his etiam somnus reponatur!4 (Plin. Epist. 1, 3, 3) Proinde tu quoque strepitum istum inanemque discursum et multum ineptos labores, ut primum fuerit occasio, relinque teque studiis vel otio trade! Satius est enim, ut Atilius noster eruditissime simul et facetissime dixit, otiosum esse quam nihil agere. Vale.5 (Plin. Epist. 1, 9, 7-8) Lucubrare Vulcanalibus incipiebat, non auspicandi causa, sed studendi, statim a nocte multa, hieme vero ab hora septima vel, cum tardissime, octava, saepe sexta. Erat sane somni paratissimi, non numquam etiam inter ipsa studia instantis et deserentis.6 (Plin. Epist. 3, 5, 8) Ad hoc vigilat, ad hoc lucubrat. (Sen. De ira 3, 19) Nullus mihi per otium dies exit. Partem noctium studiis vindico. Non vaco somno sed succumbo, et oculos vigilia fatigatos cedentesque in opere detineo.7 (Sen. Epist. ad Lucil. 1, 8, 1)
Pur non comparendo in alcuno degli esempi sopra riportati il nesso esatto utilizzato da Geri, la sua matrice è, comunque, evidente: si fa riferimento a un atteggiamento frequente nel mondo romano, a una vera e propria abitudine, quella di trascorrere le notti insonni davanti ai libri, in un duello serrato contro la stanchezza. Gli scrittori antichi, che si ritraggono in questa particolare scena quotidiana, sembrano farlo, e ciò emerge anche dai nostri
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‘Sia questo il tuo impegno e questo il tuo riposo, questa la tua fatica e questa la tua distensione; dedica a esse le tue veglie e dedicaci anche i tuoi sonni!’. ‘Perciò anche tu, alla prima occasione, abbandona questo frastuono, questo tuo vano correre qua e là e queste tue fatiche totalmente prive di senso e dàtti agli studi o al riposo. Infatti – come disse con tanta acutezza e con altrettanto brio il nostro Attilio – è preferibile riposarsi che non far nulla. Stammi bene’. ‘Incominciava le sue veglie di lavoro durante le feste di Vulcano e ciò non per trarre gli auspici favorevoli, ma per studiare: allora iniziava quando ormai era notte fonda, d’inverno invece vi si accingeva all’una o al più tardi alle due, spesso a mezzogiorno: va a ogni modo ricordato che egli era assai pronto ad addormentarsi; talora anche durante le sue stesse indagini si appisolava e si risvegliava’. ‘La giornata non mi lascia mai tempo libero: dedico allo studio parte della notte; non mi abbandono al sonno, vi soccombo e costringo al lavoro gli occhi che si chiudono stanchi per la veglia’.
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esempi, con un certo orgoglio: studiare, anche di notte, significa tenersi impegnati, sollecitare la mente e anche il corpo, mantenersi lontani dall’apatia e dall’inattività; significa trovare nell’otium, anche nelle ore del riposo notturno, una pausa dall’impegno civile valida e produttiva, un rifugio nei ben più sopportabili labores letterari. Il fra Bernardo descritto da Geri ricorda l’uomo di lettere romano ma anche il religioso cristiano e medievale, che stoicamente resiste alle violenze di Morfeo, in nome della passione per lo studio e incurante dello sforzo a cui sottopone anima e corpo8. Epistola di Geri d’Arezzo a Donato Guadagni La lettera diretta a Donato Guadagni trova Geri intento a incoraggiare il giovane Donato nel proseguimento degli studi. È da qui che apprendiamo che un atteggiamento simile aveva avuto il padre di Donato nei confronti dello stesso Geri, per cui si deduce che quando il nostro notaio scrive quest’epistola non era più tanto giovane. L’osservazione a mio avviso è interessante nel confronto con la lettera a fra Bernardo: le due epistole, considerate l’una di seguito all’altra, secondo una prospettiva del tutto ipotetica e qui proposta solo come strumento euristico, offrono un quadro curioso di Geri, prima preoccupato per la salute di un amico più anziano, verso cui mostra affetto sincero, devozione, ammirazione e senso di responsabilità, tipico di chi, ancora nel pieno delle sue forze, sente di doversi prendere cura di colui che gli è stato maestro, o guida, nel passato; poi nelle vesti di padrino, uomo di esperienza, maestro a sua volta di un giovane di grandi speranze, su cui Geri sente di dover e potere investire culturalmente e umanamente; un ragazzo da far diventare uomo, come lo è diventato lui, forse (ma la storia qui non ci aiuta) grazie anche al contributo di fra Bernardo.
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L������������������������������������������������������������������������������������������������� ’espressione è stata frequentemente reimpiegata in epoca patristica e medievale, talora in formulazioni più vicine a quella di Geri: vedi, per esempio, Hier., Epist. 119: furtivis noctium lucubratiunculis; Contra Vigilantum I: unius noctis lucubratione; Possidius Calamensis, Vita Augustini 24: nocte lucubrans; Cassiano, Collationes 8, 25: duarum ferme noctium lucubratione; Boeth., In Porphyrium Dialogi II: alterius noctis consueta lucubratio; Alcuino, Vita Willibrordi Prol.: Furtivis noctium lucubratiunculis (ripresa di Girolamo); Remigio di Auxerre., Musica, P.L. 131, col. 926B: nocte lucubraverat; Fulchero di Chartres, Historia Hierosolymitana 2, 33: nocte lucubrare, et al. è dunque possibile che l’immagine sia presente a Geri anche attraverso la mediazione di scrittori postclassici. [F.St.]
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Anche l’epistola a Donato, se vogliamo, non presenta temi di forte interesse; l’unica osservazione degna di nota che possiamo fare trova ancora ragion d’essere nel confronto con l’epistolografia latina; numerosi, infatti, sono nell’antichità classica e medievale gli esempi di lettera indirizzata da studiosi più anziani ai loro giovani pupilli, verso i quali nutrono sentimenti di sincero affetto e su cui ripongono grandi speranze per il futuro. Due esempi significativi si possono individuare in due passi tratti dalle Epistulae ad Lucilium di Seneca: Fili Donate, sic enim possum et teneor et licet dicere, cum patris affectione te diligam, quia pater tuus me dilexit ut filium. [...]. Ego summe letor quod clare indolis puer exacte matureque, ut ferunt, etatis mirum portendis puerilia quoque suppeditans, studiorum cupidus, praeceptoris reverens, morum amantissimus, conviventium coetaneorum, quos virtuosos sentis, domesticus discretusque conversator, infracti animi et ad magna tendentis, turpium inimicus. Fac igitur, fili, ut bene cepta prosequaris, nullis etatis lubrice illecebris captus. (Geri a Donato Guadagni) Perciò con me non hai bisogno di molti discorsi o di lunghe assicurazioni formali: so che hai fatto notevoli progressi (intellego multum te profecisse). Conosco la provenienza di ciò che scrivi; non fingi, né ingigantisci le cose. Ti dirò tuttavia il mio pensiero: nutro in te grandi speranze, ma non ho ancora completa fiducia. Voglio che anche tu faccia lo stesso: non confidare in te subito e con facilità. Scruta, fruga ed esamina a fondo te stesso; considera innanzitutto se hai fatto progressi nella filosofia oppure nella tua stessa vita. (Sen. Epist. ad Lucil. 2, 16, 2) Sono felice ogni volta che ricevo le tue lettere: mi colmano di buone speranze e non mi portano più solo promesse, ma precise garanzie su di te. Continua così, ti supplico… (Ita fac, oro atque obsecro) (Sen. Epist. ad Lucil. 2, 19, 1)
Ma decine di esempi si potrebbero aggiungere dalla serie infinita di maestri e allievi della scuola medievale (vd. Schule und Schuler). Parlare qui d’intertestualità diventa senza dubbio complesso, se non addirittura pretenzioso, di fronte a questi pochi esempi che non garantiscono una ripresa fedele da parte di Geri di precisi nessi ed espressioni senecane, tuttavia non può essere negata l’affinità tematica, ma direi anche strutturale, che intercorre tra la breve lettera a Donato e alcuni passi dell’epistolario di Seneca. Innanzitutto i due vocaboli ita fac di Epist. ad Lucilium 2, 19, che tra l’altro costituiscono anche l’incipit dell’intera
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opera (1, 1 Ita fac, mi Lucili), sono espressione del linguaggio quotidiano (ampiamente ripresa in Agostino, Gregorio Magno, Rabano Mauro e altri autori medievali) e, in particolare, l’uso dell’imperativo attesta la presenza di un colloquio basato sull’esortazione e il consiglio: Seneca è il maestro, che facendo tesoro delle sue esperienze di vita, si pone nei confronti del giovane amico come precettore, pronto a istruirlo sui grandi temi dell’esistenza, con l’unico intento di garantirgli un percorso meno impervio del suo. Il tono dell’epistolario di Seneca è decisamente colloquiale, del resto il mi Lucili in apertura, con l’uso dell’aggettivo possessivo, vuol chiarire al lettore il rapporto che intercorre tra mittente e destinatario, un rapporto basato sulla profonda amicizia e il reciproco affetto, evidenziato da un tono personale, che è poi tipico del genere epistolare. Geri, da questo punto di vista, sembrerebbe porsi come continuatore di Seneca o comunque del rapporto d’amicizia rappresentato nelle Lettere a Lucilio, inserendosi perfettamente all’interno del genere letterario da lui scelto e recuperando aspetti stilistici, linguistici e contenutistici di quel genere. La lettera a Donato, come quella di Seneca, inizia con il nome del destinatario, non preceduto dal pronome possessivo, ma arricchito da un sostantivo che assolve allo stesso compito logico, con un qualcosa in più: Fili. Se nel filosofo romano il mi indicava un legame di affetto, comunque basato sull’amicizia e anche su un rapporto maestro-allievo, in Geri si compie un passo in avanti, e la relazione tra i due diventa – come sarà peraltro comune nel Medioevo – di tipo genitoriale (Fili Donate, sic enim possum et teneor et licet dicere, cum patris affectione te diligam): Donato non è solo un giovane amico, bisognoso di consigli, egli è anche un figlio, verso cui il nostro notaio sente senza dubbio più forte il senso di responsabilità e il compito di accompagnarlo con mano ferma e coscienza nel corso dell’intera sua vita, senza mai perderlo di vista, continuamente aggiornato sui suoi passi e sulle sue esperienze. Se per Seneca ciò che più contava consisteva nella scelta dell’otium, nella pratica quotidiana dello studio e di conseguenza della virtù, che può essere coltivata solo attraverso una vita tranquilla e lontana dal volgo, circondati da una ristretta cerchia di amici, anche nella lettera di Geri troviamo espressa la stessa convinzione: prima preoccupazione dell’aretino è proprio che il suo figlioccio non solo si dedichi allo studio in maniera assidua e fruttuosa, ma anche, e soprattutto, che conduca una vita regolare, lontana dagli eccessi a cui spesso, invece, la giovane età conduce e dai quali continuamente è attratta, tra amici scelti secondo coscienza, coi quali Donato senta di poter condividere opinioni
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e virtuosi sentimenti (conviventium coetaneorum, quos virtuosos sentit, domesticus discretusque conversator). Epistola di Geri d’Arezzo a Berardo d’Aquino Un interesse diverso sembra avere la lettera indirizzata a Berardo d’Aquino in occasione della morte del duca Carlo di Calabria, avvenuta il 9 novembre 1328. La lettera, che giustamente è stata definita da Weiss quasi una parafrasi dell’epistola ad Lucilium 63 di Seneca, oltre alle implicazioni di tipo linguistico e stilistico, è importante sul piano storico, perché da qui apprendiamo con certezza che Geri fu in contatto con la corte di Carlo di Calabria, mentre questa risiedeva a Firenze. Nota ancora Weiss, come già abbiamo anticipato parlando di Berardo d’Aquino, che tra i familiari del duca a Firenze si registrano personaggi quali Barbato da Sulmona, Giovanni Barrilli e Nicola d’Alife, che furono i tre principali promotori di studi umanistici alla corte di Roberto d’Angiò, dove probabilmente Geri incontrò Boccaccio; cosa che potrebbe portarci a ipotizzare che proprio in seguito e grazie a un incontro con Geri si sia manifestato in questi uomini di corte un interesse per la cultura classica, presto importato nell’ambiente angioino e sfociato nella formazione di uno dei circoli umanisti più vivaci e produttivi dell’epoca, tanto che gli intellettuali della corte di Roberto d’Angiò furono tra i principali corrispondenti di Petrarca. La suggestione, ripresa recentemente da Corrado Bologna, è senza dubbio affascinante, ma purtroppo ancora non dimostrabile, a causa della carenza di studi sull’umanesimo alla corte di Roberto d’Angiò e sui contatti fiorentino-angioini9. La lettera a Berardo, tuttavia, oltre a un’analisi di tipo storico si presta anche a un confronto tematico con la letteratura latina, e ancora ovviamente con il genere epistolografico, che, spesso e volentieri, trova un suo sviluppo e una sua concretezza nell’occasione, qui data dalla morte di un personaggio politico importante, ma soprattutto di una persona cara a entrambi i corrispondenti. Il tema della morte è frequente negli epistolari degli autori antichi e medievali, in particolare in Seneca, che alla riflessione sulla tematica dedica intere pagine straor-
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Per lo studio di Bologna e altra bibliografia vedi supra, p. 12, n. 32.
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dinarie, offrendo una visione complessa della morte stessa, sentita, in modo tradizionale, come un evento positivo, in quanto liberazione dai mali di una tormentata esistenza, ma anche, in modo del tutto originale, come un processo in fieri, che accade giorno dopo giorno, per cui tutto il tempo già trascorso appartiene alla morte (Epist. ad Lucil. 1, 1: In hoc enim fallimur, quod mortem prospicimus: magna pars eius iam praeterit; quidquid aetatis retro est mors tenet). Abbiamo già visto con Weiss come l’epistola di Geri a Berardo sia ispirata all’epistola 63 di Seneca a Lucilio: Effusius plangerem, nisi vereri viderer dubium esse an amaverim. (Geri d’Arezzo) Ideoque tunc effusius moerent quia verentur ne dubium sit an amaverint.10 (Sen. Epist. ad Lucil. 63, 9)
Qui Geri, pur recuperando fedelmente il passo di Seneca, non solo sul piano lessicale, ma anche sintattico, sembra, tuttavia, discostarsi dal modello nei contenuti; se, infatti, Seneca afferma che gli amici, perduto un loro caro, piangono in modo anche eccessivo perché temono che si dubiti del loro affetto, facendo del pianto, quindi, segnale e metro per la valutazione dei loro sentimenti, in Geri il pianto troppo abbondante e senza freni sembra essere sintomo di falsità, tant’è che egli piangerebbe pure liberamente, se non sembrasse in questo modo aver paura del dubbio sul suo affetto per l’amico scomparso. Il passo dell’aretino, inoltre, è costruito in modo tale che l’affermazione risulti più personale e maggiormente incisiva da un punto di vista affettivo: anzitutto l’aggettivo comparativo effusius è spostato in posizione incipitaria, nel tentativo di attirare l’attenzione del lettore sull’abbondanza del pianto, che se in Seneca sembra assumere una connotazione negativa – si parla, infatti, di un pianto eccessivo, senza misura – in Geri pare mantenere un’accezione neutra, se non addirittura positiva: il suo sarebbe un pianto libero e ininterrotto, adeguato all’immenso dolore e di certo non smodato. Il verbo principale, poi, che in Seneca è all’indicativo presente (maerent), perché si vuole descrivere una situazione reale e certa, e alla terza persona plurale, in Geri è al congiuntivo imperfetto, con senso condiziona-
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«Allora piangono senza troppi freni, poiché temono che si dubiti del loro affetto».
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le, a sottolineare già i timori e le insicurezze di chi scrive e, soprattutto, è in prima persona, con un passaggio deciso dalla condizione generale e universale, delineata da Seneca, alla dimensione intima ed esclusiva del nostro notaio. Tra l’altro, a nostro avviso, l’atteggiamento soggettivo di Geri continua anche nella scelta della riproposizione del verbo vereor, che, in dipendenza di videor, pone i sentimenti e le paure di chi scrive in relazione agli altri, pronti a giudicarlo, con un sottile, lento e insicuro passaggio dall’io al mondo esterno, che pare mancare, invece, nell’originale, dove si avverte piuttosto la certezza della paura di un giudizio vero e non supposto. Sed quia inveteratus dolor irrideri solet, cum dicatur stultus aut fictus, ausim persuadere fidentius ut illum deseratis, potius quam ipse vos deserat. Turpissimum subiectum dicunt in homine docto doloris remedium lassitudinem merendi. (Geri d’Arezzo) Nulla res citius venit in odium quam dolor, qui recens consolatorem invenit et aliquos ad se adducit, inveteratus vero deridetur, nec inmerito. Aut enim simulatus aut stultus est. (Sen. Epist. ad Lucil. 63, 13) Turpissimum autem est in homine prudenti remedium maeroris lassitudo moerendi: malo relinquas dolorem quam ab illo relinquaris; et quam primum id facere desiste quod, etiam si voles, diu facere non poteris. (Sen. Epist. ad Lucil. 63, 12)
Qui il testo di Geri risulta più attinente a quello di Seneca: a parte una ridistribuzione della sintassi, il notaio opera una ripresa piuttosto pedissequa dei contenuti, intervenendo sporadicamente sulla terminologia, senza mostrare, tuttavia, un concreto intento di rielaborazione, ma piuttosto la mera volontà, anche forzata, di allontanarsi dal modello (vd. derido/irrido; relinquo/desero). Merita, forse di più, la nostra attenzione la sostituzione dell’aggettivo prudens, usato da Seneca, con doctus: per Seneca, infatti, è per l’uomo assennato che è del tutto vergognoso reagire al dolore con l’apatia; per Geri, invece, tale atteggiamento è deplorevole per colui che ha una cultura, un’istruzione. Potremmo credere semplicemente che Geri pensi davvero quello che scrive, e che ritenga la cultura effettivamente l’elemento distintivo di un uomo rispetto ai suoi simili, tale da elevarlo al di sopra della massa e da renderlo, allo stesso tempo, sottoponibile a un giudizio morale più severo; si potrebbe
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ipotizzare, però, anche un omaggio al suo interlocutore e un tentativo di personalizzazione della lettera, per cui, l’istruzione dell’amico prevale, tra le tante altre sue qualità, anche sul buon senso. Cogitemus, ut Annei verbis utar, nos cito perventuros quo dominus nec putemus illum periisse, sed premissum. Habere debemus homines tamquam amissuri et amittere tamquam habeamus. (Geri d’Arezzo) Mihi amicorum defunctorum cogitatio dulcis ac blanda est; habui enim illos tamquam amissurus, amisi tamquam habeam. (Sen. Epist. ad Lucil. 63, 7) Cogitemus ergo, Lucili carissime, cito nos eo perventuros quo illum pervenisse maeremus; et fortasse, si modo vera sapientium fama est recipitque nos locus aliquis, quem putamus perisse praemissus est. (Sen. Epist. ad Lucil. 63, 16) Eo itaque aequiore animo esse debemus quod quos amisimus sequimur… quem putas perisse praemissus est. (Sen. Epist. ad Lucil. 99, 7) Maximus tamen Graecorum poeta in unum dumtaxat diem, ius flendi esse monstravit cum dixit Niobem de cibo cogitasse. Emoderandus itaque dolor est, qui parum immo nihil profuturus est. Sit ergo satius, domine maior, damnum reparare quam flere. Agatisque sit ut iocunda sit amissi domini recordatio, que et si mentis habeat morsum voluptate non caret. Unde est illud Actali sic enim defunctorum memoria nobis iocunda est, sicut quedam poma sunt, suaviter aspera et in vino veteri ipsa nos amaritudo delectat. (Geri d’Arezzo) Duram tibi legem videor ponere, cum poetarum graecorum maximus ius flendi dederit in unum dumtaxat diem, cum dixerit etiam Niobam de cibo cogitasse. (Sen. Epist. ad Lucil. 63, 2) Id agamus ut iucunda nobis amissorum fiat recordatio. Nemo libenter ad id redit quod non cum aliquo nobis morsu amissorum quos amavimus nomen occurrat; sed hic quoque morsus habet suam voluntatem. Nam, ut dicere solebat Attalus noster, «sic amicorum defunctorum memoria iucunda est quomodo poma quaedam sunt suavite aspera, quomodo in vino nimis veteri ipsa nos quod angebat extinguitur et pura ad nos voluptas venit». (Sen. Epist. ad Lucil. 63, 4)
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Dai passi sopra riportati si evince chiaramente come Geri, nel corso dell’intera composizione dell’epistola, giochi con il modello di riferimento, sul quale l’aretino si muove consapevolmente, recuperandone gli aspetti e le argomentazioni più interessanti e riproponendole piuttosto fedelmente, in quella che talvolta potrebbe sembrare anche una mera esercitazione retorica, se non addiruttura un pomposo sfoggio di cultura, se non fosse per l’argomento così delicato e per il tentativo da parte di Geri di intimizzare la lettera e conferirle un accento personale. È forse dalla parte finale della composizione che emerge precipuamente questo lavoro di rielaborazione dell’originale e al contempo di elaborazione individuale del tema: in primis nel momento in cui subentra la visione cristiana della morte, che vuole l’allontanamento dell’anima dal corpo, mero involucro di carne, e il suo ricongiungimento con l’eterno e con Dio, con il quale qualunque uomo, indipendentemente dalla sua posizione sociale, prima o poi si trova a confrontarsi (Solutus est lege natura ab hoc tristi luteoque domicilio et excutus ista vita qua quis falso vivere creditur, cum sit mori. Terrenusque dux cum celesti, temporalis cum eterno, passibilis cum impassibili). Se in Seneca il caro defunto ci precede in un cammino verso una meta imprecisata, l’uomo di Geri torna alla propria dimora di origine, a un abbraccio inseparabile con il bene imperituro (Omni pulso mortalitatis defectu eterno bono inseparabiliter inheret), da un padre, Dio, che ha solo dato in prestito uno dei suoi figli all’umanità, per un periodo di tempo limitato, con l’idea di riportarlo a sé, lasciandone, però, per sempre il ricordo nel mondo terreno. Inoltre le ultime righe della lettera sembrano lapalissianamente andare contro l’esordio dell’epistola 99 di Seneca, dove il filosofo ritiene di non dover trattare con dolcezza l’amico che piange la perdita del figlioletto, ritenendolo, invece, più degno di rimprovero che di conforto. Geri, che per l’intera composizione si ripropone di mettere l’amico di fronte alla dura realtà, senza risparmiargli niente degli aspetti più dolorosi della morte e della metabolizzazione di essa, alla fine, consapevole di poter rendere con il suo atteggiamento ancora più insopportabile il dolore del suo interlocutore, fa un passo indietro, cercando di recuperare un tono affettuoso, seppur amaro, e comunque pieno di comprensione e di dolcezza (Sed quia horrent admotas vulnera cruda manus, a recenti ulceris contractione discedo, illud ex affectu vultuoso subiciens)11.
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Ma del dolore per la morte di un giovane amico scrive anche Plinio il Giovane nell’epistola 8, 23, indirizzata a Marcellino, che, pur riproponendo canoni contenutistici ormai noti, si mostra inte-
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Epistola di Geri d’Arezzo a Cambio da Poggibonsi Più difficile risulta individuare il canovaccio di riferimento per Geri nella composizione dell’epistola a Cambio da Poggibonsi, sulla questione se sia desiderabile avere figli. Né Weiss né Giansante-Marcon hanno tentato un approfondimento di questo aspetto e non sembrano neppure fornire elementi utili per il recupero di una fonte, se non sul piano linguistico, nemmeno su quello tematico. In effetti la cosa fu discussa in una tenzone poetica tra Lovato Lovati e Albertino Mussato12 e, secondo Francesco Stella, la ripresa del tema da parte di Geri potrebbe rivelarsi un indizio, da affiancare a quelli codicologici descritti da Patrizia Stoppacci, di contatti fra Geri e gli ambienti culturali fra Emilia e Veneto. Da un’analisi attenta del lessico emerge anche un recupero costante del linguaggio di Apuleio13, e la cosa non meraviglia se teniamo
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ressante più che nel confronto con la lettera a Berardo in quello con la lettera a Donato Guadagni. Il ritratto, infatti, che Plinio fa del giovane Avito, scomparso prematuramente, è quello tipico dell’adolescente di buoni principi e grande umanità, del giovane uomo pronto a investire nel proprio futuro, ripettoso del maestro, umile e desideroso di apprendere. Le riflessioni sul dolore sono qui limitate all’incipit e alla parte finale dell’epistola, in cui Plinio dichiara prima la sua improvvisa incapacità di dedicarsi all’attività letteraria e poi la sua impossibilità a trattare argomenti diversi da quello della morte, che lo invade e annienta: 8, 23, 1 Omnia mihi studia, omnes curas, omnia avocamenta exemit, excussit, eripuit dolor, quem ex morte Iuni Aviti gravissimum cepi. 8, 23, 9 In tantis tormentis eram, cum scribere haec, scriberem sola: neque enim nunc aliud aut cogitare aut loqui possum. Vedi Lupati de Lupatis, Bovetini de’ Bovetinis, Albertini Mussati necnon Iamboni Andreae de Favafuschis carmina quaedam ex codice veneto nunc primum edita, ed. L. Padrin, Padova 1887, pp. 1-11. Il rapporto tra Geri e Apuleio meriterebbe uno studio a sé, supportato da un minuzioso, e non semplice, vaglio delle fonti classiche, medievali e umanistiche per ricostruire un complesso mosaico che al momento sembra mancare di qualche tessera. Dagli elementi della cultura dei secoli XII e XIII si ricava, infatti, che la fama di Apuleio era affidata quasi esclusivamente alle operette filosofiche, ivi comprese quelle non autentiche. Pertanto gli studiosi attribuiscono il merito di un recupero e di una rivalutazione di Apuleio scrittore, ovvero delle Metamorfosi, esclusivamente a Boccaccio. In particolare Claudio Moreschini (1977) sostiene che il Boccaccio, prima che fosse scoperto da Zanobi da Strada il famoso Mediceo II a Montecassino, comprendente De Magia, Metamorfosi e Florida, probabilmente tra 1360 e 1370, aveva con sé già precedentemente un’altra copia. Tanto è vero che in una lettera giovanile (1338-39), indirizzata a un personaggio ignoto, che sembra essere Francesco Petrarca, sono disseminati taluni elementi stilistici che recano l’impronta di Apuleio: fatto significativo sia perché Apuleio non era fino ad allora particolarmente noto come artista, sia perché non apparteneva al novero degli autori classici riconosciuti dalla retorica medioevale. Del resto è certo che anche Petrarca conoscesse bene Apuleio: fin dal 1342 aveva presente il De Mundo (cfr. V. Branca, Boccaccio, amorosa visione, Firenze 1944, p. 426), e più di una volta nelle sue opere dimostra di aver letto con divertimento le Metamorfosi (S. Costanza, La fortuna di L. Apuleio nell’età di mezzo, Palermo 1937). A questo punto sembra plausibile ipotizzare che l’interesse di Boccaccio e Petrarca per Apuleio si possa collegare col circolo preumanista di Geri,
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conto della parte di lettera in cui il nostro notaio elenca con ironia una serie di rimedi magici a cui uomini e donne ricorrono quando non riescono ad avere figli: l’opera di Apuleio, sappiamo, costituisce una vera e propria fenomenologia del magico nel mondo romano, e non possiamo escludere che Geri si sia servito delle Metamorfosi apuleiane per riprendere immagini colorite e folcloristiche, non dimenticando, tuttavia, la tradizione popolare medievale di tema magico, che al contrario del magismo considerato nelle sue espressioni culturalmente più elevate, continuava a sopravvivere anche in epoca preumanistica14. Il tema compare in una lettera di Plinio il Giovane, la 8 10, sull’aborto e la brama di avere figli, nel caso specifico pronipoti; tuttavia, pur sembrandomi doveroso segnalarla all’attenzione del lettore, non ritengo plausibile che Geri possa essersi qui ispirato a Plinio, tantopiù che la sua lettera risulta molto più estesa di quella del predecessore e ricca di particolari sulla coppia e sui bambini, del tutto assenti in Plinio. La delicatezza con cui l’aretino descrive le fasi dell’infanzia, il rapporto dei genitori con i figli, le preoccupazioni dei primi, i capricci dei secondi, sembra frutto di una sensibilità particolare e di esperienza vissuta, quasi che Geri non abbia sentito in quest’occasione la necessità di ricorrere a un esempio illustre, preferendo fare omaggio all’amico Cambio di una parte della sua vita e di se stesso, per una volta lontano dall’artificio letterario, anche se incapace di rinunciare alla citazione dotta, soprattutto nella parte finale dell’epistola, che pare, tuttavia, non togliere niente all’immediatezza del messaggio, anzi eventualmente aggiungere qualcosa in eleganza.
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probabile conoscitore dell’Apuleio romanziere. Vedi anche M. Petoletti, I “Florida” di Apuleio in Benzo d’Alessandria, in Libro, scrittura, documento della civiltà monastica e conventuale nel basso medioevo (secoli XIII-XV), Atti del convegno di studi (Fermo, 17-19 settembre 1997), a cura di G. Avarucci - R.M. Borraccini Verducci - G. Borri, Spoleto 1999, pp. 231-232. Per ulteriori considerazioni sulla fortuna di Apuleio in epoca medioevale e umanistica e relativa bibliografia vedi O. Pecere - A. Stramaglia - L. Graverini, Studi apuleiani, Cassino 2003. F. Cardini, Magia, stregoneria, superstizioni nell’Occidente medievale, Firenze 1979; R. Kieckhefer, La magia nel Medioevo, Cambridge 1989; M. Horsfall Scotti, Apuleio tra magia e filosofia: la riscoperta di Agostino, in Dicti Studiosus. Scritti di filologia offerti a Scevola Mariotti dai suoi allievi Urbino 1990, pp. 297-320.
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1. Religioso viro fratri Bernardo de Arectio ordinis Minorum bacellario Florentino. Egre fero, dilectissime mi frater Bernarde, quod vos egro similem hodierna luce cognovi, tantaque vestri caritate teneor ut particulam illius febrilis igniculi qui vos valetudinare facit pro vestri libenter alleviatione susciperem, vobisque persuadere habeo ne quid ultra vires lucubrate noctes apportent illudque vultuosus1 petita venia dixerim hominem a pietate peregrinum qui sibi non parcit. 2. Paterer etsi moleste si vestra dumtaxat esset offensa sed multos languor vester offendit. Artus ipse, licet nervorum soliditate firmissimus, «si numquam cesses tendere lentus erit»2. Vult pausam fatigatus studiis animus qua virium ac alimenti loco sustentatur. Intermissa plus sapiunt, continuata vero insaporescunt. Non est quod abstemio3 repostas epulas insultet, quem religiosissima vita vestra tenuem sentit. Restat ut vos oneri, quod viribus vestris impar perpenditis, salubri consilio at properiter4 subducatis. 3. Nobis quidem quorum cibi consumpti relinquunt penuriam quique corruptorum morum peste laboramus, tantulo temporis sepe decubuisse non nocuit, dum talibus abstinere ipsa valitudine monemur, purgatissimis ista non competunt. 4. Apud Plinium5 legi optimos esse nos dum infirmi sumus, tunc nos nec avaritia aut libido solicitat, non amor inflammat, non appetimus per id tempus honores, opes negligimus et quantulumcumque et relicturi satis habemus. Optabatque vir tantus talem perseverare sanatum qualem futurum profitebatur infirmum.
1. hodierna: hodiherna ms. 2. languor: langor ms., langor W.; consilio: conscilio ms.; at: et W. 3. relinquunt: reliquunt ms. 4. tantus: tantum ms., corr. W.; sanatum: senatum ms., corr. W.; infirmum: infirmus ms., corr. W.
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lettere familiari
Geri d’Arezzo a fra Bernardo d’Arezzo Biblioteca Corsiniana, Roma, Ms. 33 E 27, ff. 149 v-150 r. 1. Al religioso fra Bernardo di Arezzo dell’ordine dei Minori, baccelliere fiorentino. Mal sopporto, carissimo mio fratello Bernardo, di avervi saputo quasi malato in questo giorno e provo tanto affetto nei vostri confronti che volentieri assumerei, per il vostro sollievo, anche una piccola parte di quella febbrile fiamma di conoscenza che vi fa stare male; e mi trovo a dovervi convincere che le notti trascorse lavorando non vadano troppo oltre le forze, e che io, chiedendo perdono, non debba dirlo, accigliato, a un uomo che erra lontano dalla pietà, che non ha riguardo per se stesso. 2. Potrei sopportare, anche se con fatica, se il problema fosse soltanto vostro, ma la vostra debolezza indispone molti. Lo stesso arto, per quanto ben saldo allo solidità dei nervi, «se non smetti mai di sforzarlo, diventerà molle». L’animo affaticato dagli studi necessita di una pausa, per sostentarsi di cibo e di forze. Gli impegni interrotti hanno più gusto, mentre quelli proseguiti senza interruzione perdono sapore. Di certo non ha motivo di calpestare la tavola riapparecchiata per una persona sobria uno che la vostra vita religiosissima sente come esile. Ne consegue che, con una decisione salutare, ma in fretta, vi togliate il peso che valutate impari alle vostre forze. 3. A noi di certo, che mangiamo cibi che non ci saziano e che ci danniamo per il marcio della corruzione dei costumi, non ha nuociuto l’aver dormito spesso un po’ di tempo, mentre siamo spinti dalla stessa cattiva salute ad astenerci da tali pratiche, che non sono adatte agli uomini più puri. 4. In Plinio ho letto che noi siamo in ottimo stato quando siamo malati: in quei momenti non ci sollecitano né l’avidità né la cupidigia, non ci infiamma l’amore, in quell’arco di tempo non ricerchiamo la carriera, trascuriamo le ricchezze e ci basta, per quanto poco sia, quello che dovremo lasciare. E un uomo di tale importanza desiderava continuare a essere da sano come dichiarava che sarebbe stato ammalato. 1
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Con il significato di ‘affettato nell’espressione’ in Cic. Orat. 60 e Quint. Inst. orat. 11, 3, 183; nel senso di ‘accigliato’ in Apuleio, Met. 3, 13. Tra gli autori tardoantichi medievali da notare Prudenzio Perist. 10, 72: vedi anche Sidonio Apollinare Epist. 1, 11; 4, 12; Cassiano Exp. Ps. 2; Isidoro di Siviglia Diff. 1, 109; 589; Ruperto di Deutz De victoria verbi 11, 19; Pietro di Blois Epist. 18; 100; 112; 117; Elinando di Froidmont Serm. 4. Ov. Her. 2, 92. Il testo ovidiano ha mollis anziché lentus. Con il significato di ‘astemio’ è attestato in Lucil. 239 e Ov. Met. 15, 323; nel senso di ‘sobrio’ in Hor. Epist. 1, 12, 7 e Plin. Nat. 22, 115; ‘parsimonioso’ in Apul. Pl. 2, 15. Tra gli autori cristiani e medievali vedi, per esempio, Tertulliano Apol. 6; Arnobio Disput. 2; Ambrogio De Elia et ieiunio 1, 3; Exp. Ps. CXVIII 20; Ausonio Commemoratio 4; 15; Idyl. 11; Sidonio Apollinare Epist. 2, 2; 6, 1; 6, 12; 7, 9; Paulino di Nola Epist. 22; Poem. 6; Isidoro di Siviglia Etym. 10; et al. Pacuvio Trag. 332; Apuleio Met. 6, 26; Ausonio Parent. 27 Plin. Epist. 7, 26, 1-2.
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1. Donato Guadagni. Fili Donate, sic enim possum et teneor et licet dicere, cum patris affectione te diligam, quia pater tuus me dilexit ut filium. In hoc refert, quia ille mihi manus porrexit adiutrices, ego non tibi, nisi animo, quia non potens, dabit deus sicut spero et quod utinam sit quam maturissime. Cognosces enim me patrem alterum non ingratum. 2. Ego summe letor quod, clare indolis puer, exacte6 matureque, ut ferunt, etatis mirum portendis puerilia quoque suppeditans, studiorum cupidus, preceptoris reverens, morum amantissimus, conviventium coetanorum, quos virtuosos sentis, domesticus discretusque conversator, infracti7 animi et ad magna tendentis, turpium inimicus. 3. Fac igitur, fili, ut bene cepta prosequaris, nullis etatis lubrice8 illecebris captus, ut laborum tuorum expectatissimos fructus parentes tui sic percipiant, ut metentes impleant manus et manipulos colligant fructuosos. Ipsi enim egoque operam dabimus quo facilius habiliusque studiis assumptis immoreris. Interim quantum etas tenera patitur enitaris ut virtuosa principia coequali fide concludas, quod perfacile futurum speramus, ubi volueris. Nihil enim volenti difficile. Audi, quod forte legisti aut lecturus es: Nihil mortalibus ardui est: celum ipsum stultitia petimus neque per nostrum patimur scelus iracunda Iovem ponere fulmina9. 4. Quantumque moribus studiisque processeris, age ut tuis edoctus literis avidissimus ediscam. Magno mihi gaudio futurum, ubi te didicisse monstrabis.
1. mihi ms., corr. W. 3. habiliusque: corr. W.; speramus: superamus ms., corr. W.; Nihil: Nichil 1 corr. W.; Nihil: Nichil corr. W.; stultitia petimus: petimus stultitia transp. W. 4. mihi: michi corr. W.; gaudio: audio ms., corr. W.
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Geri d’Arezzo a Donato Guadagni Biblioteca Corsiniana, Roma, Ms. 33 E 27, f. 104 r-v 1. A Donato Guadagni. Figlio Donato, così infatti posso e devo e mi è permesso chiamarti, amandoti con l’affetto di un padre, dal momento che tuo padre mi volle bene come a un figlio. In questo è importante, poiché lui mi porse mani soccorritrici, e non potendolo fare io con te, se non spiritualmente, lo faccia Dio stesso, come spero, e quanto prima possibile. Ti accorgerai, infatti, che non sono un padre putativo ingrato. 2. Io sono estremamente felice perché tu, ragazzo di buon carattere, mostri, come mi dicono, il prodigio di un’età matura e compiuta, occupandoti anche delle attività fanciullesche, desideroso di apprendere, rispettoso del maestro, attaccatissimo alle buone usanze, conversatore accorto e affabile quando stai insieme a familiari e coetanei che ritieni in gamba, di spirito indomito e teso a grandi cose, nemico della disonestà. 3. Cerca, dunque, figlio, di proseguire ciò che hai cominciato bene, senza farti prendere pericolosamente dalle attrattive di un’età critica, in modo che i tuoi genitori possano raccogliere i frutti tanto attesi delle tue fatiche, tanto che, raccogliendo, si riempiano le mani e mettano insieme fasci fecondi. Proprio loro, infatti, e io ci adopereremo affinché tu, con più facilità e maggior successo, possa persistere negli studi intrapresi. Intanto cerca, per quanto la giovane età te lo consenta, di racchiudere i principi virtuosi in analoga fiducia, come speriamo che accada in futuro, se tu lo vorrai: niente, infatti, è difficile per chi vuole. Ascolta ciò che forse hai letto o leggerai: Nulla c’è d’impossibile ai mortali: folli aggredimmo perfino il cielo, e i nostri crimini vietano a Giove di deporre i fulmini dell’ira. 4. E fammi sapere sempre attraverso le tue lettere quanti progressi farai nella vita e negli studi. Sarà per me grande gioia, quando mi farai sapere di avere imparato. 6 7
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Pomponio Mela 1, 24; Gaius Inst. 1, 93. Nel senso traslato di ‘indomito’ in Simmaco. Ep. 1, 3, 4; con il significato di ‘infrangibile’ in Vigilio di Tapso (V sec.) Contra Arrianos 2, 9. L’espressione lubrica aetas, in uso già da Cicerone Verr. 6, 137, diventa frequente nel latino tardoantico: Claudiano, Cipriano di Cartagine, Lattanzio, Cassiodoro, Ilario di Poitiers. Sull’argomento ha presentato uno studio specifico Janet Huskinson, Lubrica Aetas: The Slippery Age. Ambiguity in Repraesentation of Childhood ou Roman Children Sarcophagy, in Constructions of Childhood in the Ancient World, Darthmout College 6-8 Novembre 2003. Orazio Carm. 1, 3, 37-40. Ricorda Weiss che la lezione nihil adottata da Geri appare in vari codici oraziani, vedi per es. il Canon. Lat. Class. 26 della Bodleiana a f. 2v.
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1. Domino Berardo de Aquino. Quanta mihi verborum paupertas, imo egestas, sit in maximis lacrimarum divitiis ubertim10 imbuentium, quia mihi non blandior, nunc ipse perpendo. Effusius plangerem, nisi vereri viderer dubium esse an amaverim11 dominum et benefactorem meum, unam regis nostri progeniem dudum, Karolum serenissimum Calabrie ducem, vita nunc lacrimabiliter12 multis functum, vobis potissime, domine mi, precordialius13 tanto, quanto vos singularius diligebat. Desunt mihi verba, non lacrime, quas meritissimus dolor expressit. Sed ne, dum meas prosequor, vestras irritem, meas prius opus est siccem. Mihi tamen difficillimum est moderari luctibus meis et vestris, quibus animo crucior, mederi. Sed quia inveteratus dolor irrideri solet, cum dicatur stultus aut fictus, ausim persuadere fidentius ut illum deseratis, potius quam ipse vos deserat14. Turpissimum subiectum dicunt in homine docto doloris remedium lassitudinem merendi15. 2. Scitis illud Mors equo pulsat pede pauperum tabernas regumque turres16. Cogitemus, ut Annei verbis utar, nos cito perventuros quo dominus nec putemus illum periisse, sed premissum. Habere debemus homines tamquam amissuri et amittere tamquam habeamus17. Dura fateor lex18 imponi vestre magnificientie videtur, ne dominum sic clementem, magnanimum, liberalem, pium, vestri amantissimum iustissimumque defleatis extinctum. De quo quia delectissimum Virgilianum illud dicere possumus
1. Berardo: Bernardo ms., corr. W.; mihi: michi corr. W.; imbuentium: imbricantium ms., lubricantium corr. W.; mihi1: michi W.; mihi2: michi W. 2. Scitis: Horati corr. W.; tanquam ms.; amittere: arcutere ms., corr. W.; Daphni: Damni ms., Daphni corr. W.; pignibus ms., corr. W.; Apollo: Appollo ms., corr. W.; tamquam: tanquam ms.; amittere: arcutere ms., corr. W.
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lettere familiari
Geri d’Arezzo a Berardo D’Aquino Biblioteca Corsiniana, Roma, Ms. 33 E 37, ff. 104 v-105 v. 1. A messer Berardo d’Aquino. Sto comprendendo in questo momento quanta povertà, anzi quanta miseria di parole io abbia tra l’enorme ricchezza di lacrime che abbondantemente mi bagnano, perché non mi faccio illusioni. Piangerei ancora di più, se non sembrassi temere il dubbio di aver amato il mio signore e benefattore, da tempo unica discendenza del nostro re, serenissimo Carlo duca di Calabria, dipartito dalla vita tra le lacrime di molti, e soprattutto vostre, mio signore, poiché egli vi amava tanto più intensamente, quanto più esclusivamente. Mi mancano le parole, non le lacrime, che il dolore pienamente giustificabile ha suscitato. Ma affinché, mentre continuo a versare le mie lacrime, non provochi le vostre, è necessario quanto prima mettere fine al mio pianto. Per me, tuttavia, è molto difficile superare i miei dolori e cercare di guarire i vostri, dai quali sono tormentato. Ma poiché il dolore passato suole essere deriso e definito stupido o finto, ho l’ardire di convincermi che sia più facile che con coraggio voi abbandoniate il dolore, piuttosto che esso abbandoni voi. Dicono che sia rimedio al dolore del tutto indecoroso per un uomo dotto lasciarsi andare alla tristezza. 2. Conoscete questi versi: La pallida morte batte con piede imparziale al tugurio del povero e ai turriti palazzi dei re. Pensiamo, come dice Seneca, che anche noi in poco tempo giungeremo dove è giunto il nostro signore, e non crediamo che lui sia morto, ma solo che ci abbia preceduto nel cammino. Dobbiamo considerare le persone come se un giorno dovessimo perderle e perderle come se le avessimo ancora. Ammetto che sembri dura la legge imposta alla vostra nobiltà d’animo, di non piangere come morto un uomo così clemente, magnanimo, generoso, pio, estremamente affezionato a voi e giusto. A tal proposito possiamo citare quell’elegante passo virgiliano:
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Nel senso di ‘copiosamente’ attestato in Catull. 66, 17 e Petronio 134, 5. Cfr. Seneca Epist. 63, 9: Ideoque tunc effusius moerent quia verentur, ne dubium sit, an amaverint. Girolamo Epist. 140, 15. Comparativo dell’avverbio praecordialiter, attestato in Leone IX (Bolla del 1051, P.L. 143, 681B), Guiberto di Nogent (Tropologiae 5, 3 e De laude s. Mariae 1), Historia Compostellana 89, Alano di Lille De planctu naturae 7 e Giovanni di Salisbury Epistola 125. In molti di questi passi è accompagnato, come qui, da un secondo avverbio al comparativo, indizio di uno stilema tipico. Cfr. Seneca Epist. 63, 13: Nulla res citius venit in odium quam dolor, qui recens consolatorem invenit et aliquos ad se adducit, inveteratus vero deridetur, nec immerito. Aut enim simulatus aut stultus est.
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Daphni, tuum penos etiam ingemuisse leones Interitum montesque fere silveque loquuntur19, et illud eiusdem Vitis ut arboribus decori est, ut vitibus uve ut gregibus tauri, segetes ut pinguibus arvis, tu decus omne tuis20. Postquam te fata tulerunt Ipsa Pales agros atque ipse reliquit Apollo. Illum etiam laurus etiam flevere mirice21. 3. Maximus tamen Grecorum poeta in unum dumtaxat diem ius flendi esse monstravit cum dixit Niobem de cibo cogitasse22. Emoderandus23 itaque dolor est, qui parum immo nihil profuturus est. Sit ergo satius, domine maior, damnum reparare quam flere24. Agatisque sic ut iocunda sit amissi domini recordatio, que et si mentis habeat morsum voluptate non caret25. Unde est illud Actali: «Sic enim defunctorum memoria nobis iocunda est, sicut quedam poma sunt, suaviter aspera, et vino veteri ipsa nos amaritudo delectat»26. 4. Solutus est lege nature ab hoc tristi luteoque domicilio et exutus ista vita qua quis falso vivere creditur, cum sit mori. Terrenusque dux cum celesti, temporalis cum eterno, passibilis27 cum impassibili28. Omni pulso mortalitatis defectu eterno bono inseparabiliter29 inheret, ridetque nostri ludibria mundi. Ostendit nobis tamen Deus illum, non dedit, vivet tamen memoria. Nam in freta dum fluvii current, dum montibus umbre
pignibus ms., corr. W.; Appollo ms., corr. W. 3. qui parum: non parum ms., corr. W.; nihil ms., nichil corr. W.; amissi: ammisi ms., corr. W.; iocunda: iucunda W.; defectu: deferri ms., corr. W.
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Dafni, e i selvaggi monti e le selve attestano che anche i leoni africani hanno pianto la tua morte. e l’altro, sempre di Virgilio Come la vite è di ornamento agli alberi, come le uve alle viti, come i tori alle greggi, come le messi ai fertili campi, tu fosti di ogni onore ai tuoi. Dopo che il destino ti ha portato La stessa Pale abbandonò i campi e lo stesso Apollo. Anche gli allori lo piansero, anche le tamerici. 3. Tuttavia anche il più grande poeta greco ha accordato il diritto al pianto per un giorno solo, quando ha detto che Niobe aveva pensato al cibo. Dunque il dolore deve essere controllato, che a poco, anzi a niente, servirà più. Sarebbe, dunque, preferibile, mio nobile signore, trovare una soluzione al problema piuttosto che piangere; e voi comportatevi in modo tale che sia bello il ricordo del signore scomparso, che, anche se morde l’anima, tuttavia non manca di procurare sensazioni piacevoli. Da qui l’espressione di Attalo: «infatti, il ricordo dei defunti ci è caro, come certi frutti, dolcemente aspri, e anche il sapore amarognolo del vino vecchio ci piace». 4. È stato liberato per legge di natura da questo triste e penoso domicilio e spogliato di questa vita, nella quale a torto ciascuno crede di vivere, quando invece è morire. E chi ha un potere terreno deve misurarsi con il celeste, chi ha un potere temporale con l’eterno, chi ha un potere passibile con l’impassibile. Estinta ogni manchevolezza della condizione mortale, si congiunge in modo inseparabile al bene eterno, e sorride delle sciocchezze del nostro mondo. Questo però Dio ce lo fa intravedere, non ce l’ha dato, e il ricordo resterà vivo. Infatti: Finché al mare correranno i fiumi, finché ombre
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Cfr. ibid. 63, 12: turpissimus autem est in homine prudenti remedium moeroris lassitudo moerendi. Orazio Carm. 1, 4, 13-14. Il testo oraziano ha turris. Cfr. Seneca Epist. 63, 7, 16; 99, 7. Cfr. ibid. 63, 2. Virgilio Buc. 5, 27-28. Il testo virgiliano ha feri. Ibid. 5, 32-34. Ibid. 5, 35; 10, 13. Il testo virgiliano ha lauri. Cfr. Seneca Epist. 63, 2: Duram tibi legem videor ponere, cum poetarum Graecorum maximus ius
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lustrabunt convexa, polus dum sidera pascet, semper honos nomenque suum laudesque manebunt30. 5. Sed quia horrent admotas vulnera cruda manus, a recenti ulceris contractione31 discedo, illud ex affectu vultuoso subiciens supplicansque, ut talem vos adversa nunc experiantur et videant, quod immersabili32 constantique animo sicut generis vestri claritas et virtutum vestrarum spectata in multis probitas exigit. Aliis potius detis quam recipiatis dignum consolationis exemplum.
5. consolationis: considerationis coniecit W.
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copriranno il cavo dei monti, e pascoleranno in cielo le stelle, sempre al suo nome rimarranno onori e gloria. 5. Ma poiché le ferite aperte temono la mano che si avvicina, tralascio di trattare questa piaga ancora viva, proponendo e supplicando con affetto accigliato che queste avversità vi trovino forte e indefettibile, come è richiesto dalla fama della vostra famiglia e dalla rettitudine, più volte dimostrata, delle vostre virtù. Offrite voi agli altri un degno esempio di consolazione piuttosto che riceverlo voi da loro.
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flendi dederit in unum dumtaxat diem, cum dixerit etiam Niobam de cibo cogitasse?. Ovidio Rem. 130: ille dolor verbis emoderandus erit. Seneca Epist. 63, 12. Ibid. 63, 4. Ibid. 63, 5: Nam, ut dicere solebat Attalus noster’, ‘Sic amicorum defunctorum memoria iucunda est, quomodo poma quaedam sunt suaviter aspera, quomodo in vino nimis veteri ipsa nos amaritudo delectat’. Con il significato di ‘suscettibile di sofferenza’ compare in Tertulliano, De anima 7, 4. Detto di Cristo, che subisce la passione, si trova usato nella Vulgata, Atti 26, 23. ‘Esente da emozioni’; ‘impassibile’, detto della divinità a partire da Tertulliano, Adversus Praxean 29 e in altri passi. Qui il linguaggio di Geri è marcatamente cristiano. Cipriano di Cartagine. Unit. 27; Dom. 15, poi molto diffuso nel latino medievale. Virgilio Aen. 1, 607-609. Il testo virgiliano ha tuum in luogo di suum. Qui forse nel senso non di ‘contrazione’ o di ‘sconforto’ (già in Cicerone Tusc. 1, 90 e Seneca Ad Marciam 7, 1), ma di ‘trattamento’, da contracto. Orazio Ep. 1, 2, 22: ‘che non si lascia sommergere dalle avversità’.
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1. Domino Cambio de Podiobonici. Sepenumero de fortune malignitate conquereris, domine Cambi, quod coniugem puerperam non habes, que et tui suique voti in suscipienda sobole non compos anxiatur33. Essent enim sibi castissimi amoris pignora certissima; pignora, que ut habeat, suscipiat, ablactet, nominet, basiet, neniet, tota cum mente suspirat. Indulgendum est enim, si mater esse desiderat: feminarum namque precipuum munus est concipere tuerique conceptum: quod ubi non datur, apud viros, quamvis uxorios34, contemptui se esse arbitrantur. Tibi quidem non ita nec sic ex facili parcendum, si liberorum cura supra modum afficereris, sollicitareris, inquietareris. 2. Neque enim illos tulerim steriles viros qui ob id balnea frequentant, peregrinarum succos herbarum epotant, potiones sorbillant35 et, quod ridiculosius est, anicularum imprecationibus credunt usque ad phylateria curiosi et cartularum virginalium appendia, quo nihil profecto insulsius. Nec tamen improbo filiorum vota modestie freno cohibita, ad quorum susceptionem ipsa suis stimulis natura et invitat et cogit. 3. Tu mihi obicies longe facilius esse superfluos liberorum procreandorum affectus culpare, quam vitare: recta enim consilia facilius dantur quam peraguntur. Nec ego diffiteri36 habeo; tamen ut vir sis virium et virtutum exercitatus cupio mihique credas volo, qui utramvis partem expertus de his rectius indicaverim. 4. Precessit uxor alia istam quam habeo dilectissimam mihi. Illa me patrem non fecit, infecunda; ista plurium parentem effecit, quorum alii non ista, sed perpetua et vera luce perfruuntur, in ipso pene vite lumine revocati; tres satis belli pueri etherea mecum aura vescuntur37; dulces equidem mihi, sed ubi singula rationis libramine appendas velisque sentire utrum cum filiis amaris
1. puerperam: purpuream ms., corr. W.; pignora: pignera ms., corr. W.; Indulgendum: Indulglendum ms., corr. W.; sollicitareris: sullicitareris ms., corr. W. 2. succos: sucos ms., sucis W.; epotant: potant corr. W.; phylateria: philateria ms., corr. W.; appendia: cfr. Cassiod., Variae 10, 29: Appendia ipsa cruciatis debitoribus aliquando solvuntur (‘pesi che si appendevano ai piedi dei debitori crocifissi’).; nihil: nichil corr. W.; ipsa: ipsi ms., corr. W. 3. mihi: michi corr. W.; exercitatus: exercitiis ms., corr. W.; mihique: michique corr. W. 4. mihi: michi corr. W.; mihi: michi corr. W.
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Geri d’Arezzo a Cambio da Poggibonsi Biblioteca Corsiniana, Roma, Ms. 33 E 27, ff. 102 r-104 r 1. A messer Cambio da Poggibonsi. Ti lamenti spesso della malignità della sorte, caro Cambio, perché tua moglie non riesce a rimanere incinta; e lei si tormenta, non capace di soddisfare il tuo e il suo desiderio di dare alla luce un figlio. I figli, infatti, sarebbero certissimi pegni di un amore estremamente puro; pegni d’amore, che desidera con tutto il cuore tenere, nutrire, svezzare, chiamare, baciare, cullare. Infatti, è necessario attendere con pazienza, se lei desidera essere madre: è un dono esclusivo delle donne concepire e crescere un bambino, e quando questo dono non viene concesso, gli uomini ritengono di doverle disprezzare, anche se legati alle proprie mogli. Certo non è così per te, né si deve però accettare così tranquillamente che tu ti impressioni, ti agiti e ti tormenti oltremodo per la preoccupazione dei figli. 2. Non tollero, infatti, neppure quegli uomini sterili, che per questo motivo frequentano i bagni termali, bevono infusi di erbe esotiche, sorseggiano filtri magici e, cosa ancora più ridicola, credono alle maledizioni di vecchie megere, curiosi persino degli amuleti e dei bigliettini votivi delle ragazze, di cui non c’è niente di più inutile. Né, tuttavia, deve essere represso dal verecondo freno del pudore il desiderio dei figli, al cui concepimento la natura stessa con i suoi stimoli invita e induce. 3. Tu ribatterai che è di gran lunga più facile criticare i desideri inutili di avere figli, piuttosto che evitarli: infatti, è più facile dare buoni consigli che metterli in pratica. E io non lo posso negare; tuttavia, desidero mettere alla prova la tua forza e le tue virtù e voglio che tu creda a me, che avendo esperienza su entrambi questi aspetti, potrei avere un parere più corretto. 4. Prima di questa attuale mia moglie amatissima ce ne fu un’altra: quella, sterile, non mi rese padre; questa mi ha reso genitore di più figli, alcuni dei quali non godono più di questa luce terrena, ma di quella eterna e vera, richiamati per così dire alla luce della vita; tre bambini piuttosto belli si nutrono con me di aria celeste; certamente per me dolci, ma qualora tu prenda in considerazione la cosa con il solo criterio della ragione e voglia sapere se con i figli sono maggiori gli aspetti amari rispetto ai dolci o viceversa,
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Apuleio Met. 4, 27: ‘affliggersi’ Virgilio Aen. 4, 266; Orazio Carm. 1, 2, 20: ‘attaccato alla moglie’. Terenzio Ad. 591; Apuleio Met. 2, 16. Tra gli autori medievali vedi Ps. Cassiodoro De octo part. 2; Alcuino Gramm, P.L. 101, 878A. Ovidio Am. 3, 14, 28 (Planco in Cicerone Fam. 10, 8, 4). Virgilio Aen. 1, 546-547.
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preponderent dulcia vel dulcibus amara superentur, iureiurando firmarem plus aleos illos habere quam mellis. 5. Fateor etatula illa infantili iocosissimos esse; que tamen plena lacrimulis est, sic ut unus risus decem lacrimas comites habeat vociferosas, parentibus amarissimas. Omitto cunales38 vagitus eiulatusque, ut raro eo loci quo alumnantur39 coctiles40 oculi somni placida quietem admittant. Transeo Ethna graviores altricum fastus, contumelias, verba superciliosa, simulatam lactis egeni pauperiem, quoad vel imperiose vincant, vel dum infantuli saluti consulimus, mercedis assequantur auctionem. 6. Quid referam, dum eo usque deventum est ut mulieres nostre negligant lactare quos gignunt, alumnantium crebras mutationes, ex quibus infantuli non minus sepe de moribus quam de lacte sugere videntur, natura quasi complexione superata. Nec prosequor acerbissimos in ipsis flosculis frequentesque obitus, quos, cum adhuc dum ordirentur, succisos, inconsolabiliter41 deflemus: et ubi grandiusculi iam verbula ligatis sonis moliuntur, frequentes egritudines, ut illos sepe collectis protuberatos42 humoribus dum videmus, exanimemur: et cum ex levissimis causis insperatis febriculis ardere videmus, decoquimur quibus annorum teneritudo necessarias morbi medelas non recepit. Taceo ad omnem strepitum domus, ad omnes equinos43 discursus, cordis incussa ex filiorum suspicata pernitie gelidi. 7. Non prosequor adolescentie lubricissimum tempus, in qua leviorsum plures quam destrorsum vite peragendo iter ingressi, patrum dicuntur esse tortores et parentum canentis etatis ruinam erigere [sustinere] fulturis quoque pietatis officio debitis obviam ire illos suis vitiorum molibus obruunt, ante diem paternos cineres expectantes; unde Naso:
5. etatula: etalula ms., corr. W.; vociferosas: vociferosos ms., vociferosas W. (hapax); eiubatus ms., corr. W.; simulatam: simulata ms., corr. W. 6. deventum: devotum ms., corr. W.; alumnantium: alumnatium ms., corr. W.; cum: om. ms., corr. W.; suspicata: supicata ms., corr. W.; gelidi: gelida ms., gelidi corr. W. 7. adolescentie: adoloscentie ms., W.; lubricissimum: lubricissime ms., corr. W.: leviorsum: leorsum ms., corr. W.; plures: pluries ms., W.; destrorsum: destorsum ms., corr. W.; peragendo: peragendo ms.; peragende corr. W.; canentis: carentis ms., corr. W.; ruinam: ruginam ms., corr. W.; erigere ms.; exigere W.; sustinere fort. varia lectio auctoris [F. St.]; cineres: cinores ms., corr. W.
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giurerei con certezza che sanno più di sale che di miele. 5. Riconosco che nella tenera età i bambini sono molto vivaci, tuttavia, proprio quell’età è piena di lacrimucce, tanto che una risata è accompagnata da dieci rumorosi pianti, amarissimi per i genitori. Lascio perdere i vagiti e i lamenti nella culla, tanto che di rado, proprio nel periodo dell’allattamento, gli occhi ormai cotti trovano la tranquilla quiete del sonno. Per non parlare delle borie delle balie, più minacciose dell’Etna, dei rimproveri, delle parole severe, della falsa mancanza di latte che scarseggia, finché o vincono dispoticamente, o, mentre provvediamo alla salute del bambino, ottengono l’aumento dello stipendio. 6. Che dire se siamo arrivati al punto che le nostre donne trascurano di allattare coloro cui danno la luce, e dei frequenti cambiamenti delle balie, dalle quali i neonati sembrano succhiare i costumi non meno del latte, quasi superando il vincolo naturale? E non mi soffermo sulle insopportabili e frequenti morti di questi stessi fiorellini che, recisi quando stanno appena spuntando, piangiamo senza consolazione: e quando ormai grandicelli emettono paroline con suoni incerti, le frequenti malattie, allorché li vediamo spesso sopraffatti dall’accumularsi degli umori, ci lasciano senza respiro; e quando li vediamo bruciare di febbriciattole improvvise per cause di assai poco conto, ci consumiamo dentro a pensare se la tenera età abbia ricevuto le cure necessarie per la malattia. Non parlo di tutte le urla per la casa, di tutte le corse equine, dei colpi al cuore che si ghiaccia al sospetto di una disgrazia accaduta ai figli. 7. Non mi soffermo sul periodo criticissimo dell’adolescenza, durante il quale la loro vita prende uno stile deviato piuttosto che retto, e si dice che siano torturatori dei padri e desiderino la rovina dei genitori anziani, e così si contrappongono a loro e contravvengono anche al pio dovere di offrire l’aiuto necessario a coloro che invece sommergono col peso dei loro vizi, attendendo prima del tempo i funerali paterni; per cui Ovidio:
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Vocabolo non classico, raro anche nel latino medievale (in Ermoldo Nigello, Carm. in honorem Ludovici 1). Apuleio Met. 6, 23; 8, 17; 9, 36. Varrone Rust. 1, 14, 4; Ovidio Met. 4, 58: ‘cotto’; Historia Augusta Claud. 14, 12: ‘carboni’ (s.n. pl.). Tra gli autori cristiani e medievali Arnobio Disp. 6; Girolamo In Isaiam 5; Ad Pamm. 1; Orosio Hist. 2, 6 e altri. Vocabolo non classico, attestato in latino medievale a partire da Rabano Mauro De vita Mariae Magd. 21; 22; 26. Il verbo è attestato in Solino 45, 89 e Ausonio Ecl. 20, 10. Accio Trag. 545; Varrone Rust. 2, 7, 6; Cicerone Tusc. 5, 62.
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filius ante diem, patrios desiderat annos. Victa iacet pietas44. 8. Velim itaque ut data tibi sorte contentus vivas permittasque ut de Iuvenalis carminibus mutuer: expendere numinibus quid conveniat nobis rebusque sit utile nostris. Carior est illis homo quam sibi45. Si tibi qui dare potest filios negavit, exalta sue divine providentie specula: previdit tales te habiturum quibus prestat carere quam frui. Meministi, si non decipior, illius, quod per multorum ora tritum non ineleganter evolvitur Greci preceptoris46, qui carentem liberis infortunio, dixit se esse felicem. Sunt et qui fortunatum putent inuxoratum47: sic ille Terentius48, et quem fortunatum isti putant uxorem numquam habuit, a quibus longe dissentio. 9. Sed ne tibi persuadere videar negligendam sobolem, currentem epistolam strictioribus habenis abducam, summa ope adortans, ut genitalis thori modestam sollecitudinem gerens, superflua tamen superstitiosaque prolis amore studia succidas; illisque iugalem tuam prosequaris affectibus honestissimam, ac si votivis infantulis multas tibi cunas implesset. Dabit forsitan deus sollicitis precatibus tuis et votis auditum, ut pulcra faciat te prole parentem. Tu interim gaude sorte tua. Tibi denique mihi perorandum est: ut sit mens sana in corpore sano. Forte posce animum mortis terrore carentem49. Raro enim, ut cum Enonis50 loquar, ad Deum iusta fusa deprecatio votivo nudatur effectu.
filius: filios ms., corr. W. 8. previdit: providit ms., corr. W. 9. quem correxit Stoppacci, quod ms.; infantulis: sic ms., infantulus corr. W.; cunas: cunas ms., curias corr. W.; mihi: michi corr. W.; Enonis: Enonio ms., corr. W.
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lettere familiari
Il figlio aspetta impaziente la morte del padre, vinto giace l’affetto filiale. 8. Vorrei, dunque, che tu viva contento del destino che ti è stato assegnato e accetti che io prenda in prestito qualche verso di Giovenale: ...valutino gli dei che cosa sia per noi conveniente e utile ai nostri interessi. […] L’uomo è più caro a loro che a se stesso. Se anche chi può concederti dei figli te li ha negati, vedi in questo l’intervento della divina provvidenza, ed esaltalo: essa previde che ne avresti avuti tali che sarebbe stato meglio non avere. Ti ricordi, se non mi sbaglio, di ciò che, passato per le bocche di molti, si tramanda non senza finezza del maestro greco, che, privato dei figli per un incidente, disse di esserne felice. Ci sono anche alcuni che considerano una fortuna il celibato: così quel passo di Terenzio; e comunque, da coloro che ritengono fortunato chi non ha mai avuto moglie io mi dissocio di gran lunga. 9. Ma affinché non sembri che io voglia convincerti a trascurare la questione dei figli, frenerò questa lettera con briglie più strette, esortandoti con grande impegno perché tu, prestando poca attenzione alla procreazione, dia però un taglio ai desideri superflui e superstiziosi per l’amore dei figli; e rivolga alla tua irreprensibile moglie tutte le attenzioni che le offriresti se lei ti avesse riempito molte culle. Forse Dio darà ascolto alle tue preghiere, così da renderti padre di una bella prole. Tu intanto sii felice del tuo destino. Per finire ti devo pregare: di avere uno spirito sano in un corpo sano. Chiedi un animo forte e privo della paura della morte. Di rado, infatti, per citare gli Enoni, una giusta invocazione rivolta a Dio viene privata dell’effetto votivo. 44 45 46
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Ovidio Met. 1, 148-149. Giovenale Sat. 10, 347-348; 350. Boeth. De cons. phil. 3, 7: in quo Euripidis mei sententiam probo, qui carentem liberis infortunio dixit esse felicem. La citazione addotta da Boezio deriva dall’Andromaca, 419 sgg. Unica attestazione. Ter. Adel. 10, 1, 18-19. Giovenale Sat. 10, 356-357. È possibile che qui Geri si riferisca all’episodio della ninfa Enone nelle Heroides di Ovidio, citato anche da Boccaccio nel De genealogia VI 22: in tal caso la traduzione sarebbe: «per parlare con le parole di Enone». [F.St.].
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L’amore, che costituisce il punto nevralgico della letteratura e del pensiero del XII e del XIII secolo e anima le pagine di grandi opere di stampo letterario, filosofico o teologico, si manifesta nella composizione scritta in varie forme qui non sintetizzabili1, ognuna meritevole di un’analisi diversa e diversificata, atta a farci comprendere i numerosi e vari significati che la parola stessa “amore” viene ad assumere nel Medioevo. Agli albori del XII secolo nasce la poesia dei trovatori, che cantano l’amore puro e spesso negato, alla maniera elegiaca, e nascono i romanzi d’amore passionale di Thomas e Béroul, seguiti dalla straordinaria fioritura, dopo la metà del secolo, del romanzo cortese, incentrato sugli intrecci tra cavalleria e amore. A questo si aggiunge, nella stessa epoca, l’esperienza dei goliardi di una poesia latina, nata in ambito universitario, con una concezione più sensuale e disincantata dell’amore, ma non priva di elementi sentimentali e motivi letterari che la avvicinano alla lirica cortese e al clima culturale del De amore di Andrea Cappellano. Intorno agli anni Venti del XII secolo si avvia, invece, la riflessione religiosa e spirituale sul tema amoroso e sull’amore di Dio in particolare che porta alla composizione di numerosi trattati, con l’intento di esplorare, da un punto di vista cristiano, la natura dell’amore. Ad avviare questa tendenza furono, in quegli anni, Guglielmo di Saint-Thierry, con il De contemplando Deo e il De natura et dignitate amoris e Bernardo di Clairvaux con il De diligendo Deo, ma soprattutto entrambi con i loro commenti al Cantico dei Cantici, oggi riconosciuto come il poema che descrive i diversi momenti di una relazione amorosa tra un uomo e una donna, ma allora reinterpretato in chiave ecclesiologica come una relazione tra Cristo e la Chiesa, e in chiave spirituale tra l’anima e Dio. In effetti la riflessione sull’amore nel XII secolo, sia essa di carattere cortese o teologico, non rimane circoscritta ai soli trattati o ai romanzi, ma si sviluppa anche in altri generi di scrittura, quali appunto
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Rinviamo a Zambon 2007; Imbach-Atucha 2006; Rousselot 2003; Kristeva 1985.
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i commenti biblici, i libelli polemici, i sermoni, le opere dogmatiche e morali e, cosa che a noi più interessa, le epistole. Gli epistolari a noi pervenuti si possono considerare un prodotto letterario d’eccezione, non necessariamente fittizio, di uomini e donne colti, abituati a scrivere: la tendenza a un linguaggio basso e a un tono medio, lontano dalla ricerca della citazione dotta e dall’artificio retorico, atti ad arricchire i contenuti, sembrerebbe proprio attestare un’abitudine diffusa allo scambio di missive sentimentali, pur sempre in ambienti colti e in ceti alti della società2. È questo il caso del più noto di tutti, oggi ritenuto autentico, ovvero quello tra Abelardo ed Eloisa3, composto dopo il 1131 (ma riferito agli anni 1116-17), le cui lettere, che spiccano per l’altezza dei contenuti e per lo stile, testimoniano un connubio esemplare tra la visione trobadorica-cortese dell’amore e quella più marcatamente spirituale. Sempre di ambito culturale piuttosto elevato sono le Epistole duorum amantium4, opera di recente acquisizione, oggi al centro di un dibattitto riguardo la sua attribuzione e il genere stesso dell’epistola d’amore medievale. Nel XIII secolo, con l’intensificarsi dell’epistolografia d’amore, assistiamo alla composizione di trattati appositamente dedicati all’argomento (come la Rota Veneris di Boncompagno da Signa), in cui non troviamo tanto un arricchimento delle tematiche erotiche, quanto una moltiplicazione della casistica d’amore, talora irrigidita in formule schematiche e priva di un approfondimento psicologico. L’epistola d’amore diventa prodotto di consumo e si adegua alle esigenze culturali e sociali di autori e lettori. Si assiste in un certo senso al passaggio da un’epistolografia soggettiva e intima, basata sull’esperienza personale, in cui il rilievo assegnato allo scrivente in prima persona è già di per sé giustificazione dell’atto compositivo (mi riferisco ancora all’epistolario di Abelardo
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Sulle lettere d’amore nel Medioevo cfr. almeno Ruhe 1975, Wolff 1996, Stella 2008 e Stella - Bartoli 2009. Moltissimi sono gli studi che hanno analizzato anche la struttura fortemente filosofica e lo sviluppo delle singole epistole; queste analisi esulano dal nostro discorso, per cui rimandiamo a Gilson, Héloise et Abélard, trad. it., Torino 1950; Abelardo, Lettere d’amore di Abelardo e Eloisa, a cura di F. Roncoroni, Milano 2006. L’epistolario è edito in Italia con traduzione di G. Ballanti, Un epistolario d’amore del XII secolo (Abelardo e Eloisa?), Roma 1987; una seconda edizione con traduzione di M.T. Fumagalli Beonio Brocchieri, Lettere di due amanti, Abelardo e Eloisa?, Milano 2006, ma senza testo a fronte. Altre informazioni relative all’epistolario in Stella 2008.
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ed Eloisa e alle Epistole duorum amantium), a un’epistolografia più meccanica, prevalentemente elaborata sui topoi dell’ars dictandi, chiusa in formule codificate. Mano a mano che il genere epistolare amoroso si tecnicizza, adattandosi ai canoni del dictamen5, maggiore diventa il legame che congiunge i trattati d’amore alla retorica e alle poetriae6: l’esperienza lirica del XII secolo diventa canone letterario e codice epistolare. Gli stessi grandi poeti di questo periodo, maturati nell’esperienza stilnovistica siculo-toscana, spesso allievi delle scuole di giurisprudenza, in cui hanno ricevuto i primi rudimenti retorici e le elementari nozioni di composizione scrittoria, amano reinterpretare la lettera in chiave poetica, componendola a guisa di una poesia spesso incapace di aprirsi all’affettività, ancora troppo ancorata ai canoni del dictamen. In questo campo Geri sembra proporre il recupero dell’esercizio antico, ovidianeggiante, producendo un’idea nuova di lettera d’amore, non più come reale corrispondenza tra due amanti, ma raffinato gioco letterario, colta rappresentazione di sentimenti, a cui fa da sfondo l’intera fenomenologia dell’amore elaborata in ambito classico. Dopo Geri in ambito umanistico il tema si evolve, sotto l’influenza del neoplatonismo, in un vero e proprio genere letterario di trattati e dibattiti filosofici sull’amore, affrontato fra gli altri da Benedetto Varchi, Francesco da Diacceto, Niccolò Vito, Leone l’Ebreo, il Calandra, e quindi, in epoca più tarda, da Tullia d’Aragona, Flaminio Nobili, Agostino Steuco7. Epistola metrica (di Cambio da Poggibonsi?) a Geri d’Arezzo Esempi importanti di questa originale visione dell’amore sono l’epistola metrica a Cambio da Poggibonsi e il dialogo d’amore indirizzato a Francesco da Barberino, a cui si aggiunge la lettera in versi, attribuita da Weiss a Cambio, per Geri, che insieme alla prima costituisce una sorta di tenzone poetica sul tema mitologico del dualismo Venere-Diana. Filtro indiscusso tra la tradizione classica più antica,
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Morenzoni 1994; Wieruszowski 1968-69; Id., 1971; Stella 2006; Id. 2008; Ward 1990; Id. 2001; Camargo 1991. Purcell 1996. Vd. E. Garin, L’umanesimo italiano, cap. IV 4 La moda delle discussioni d’amore.
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Omero in primis, ma soprattutto Euripide, nella cui Fedra questo tema raggiunge sublimi spunti di carattere letterario e psicologico, e la rielaborazione preumanista di Geri e “Cambio” è Ovidio, interprete originale dell’esperienza elegiaca, che fa della contrapposizione tra Diana e Venere una sublime metafora del servitium amoris, quando la pratica amorosa e quella venatoria si sovrappongono e l’ambiente di caccia diventa accattivante scenario per le vicende amorose del poeta-amante, e del remedium amoris, nel momento in cui, invece, lo stesso scenario e l’attività venatoria divengono rispettivamente luogo e mezzo per il superamento delle pene d’amore. La Venere di “Cambio” è una dea combattiva, dalla quale è difficile fuggire; madre possessiva, non accetta che un suo figlio, un tempo caramente tenuto al seno turgido, rifugga da lei e dai suoi accampamenti. L’allusione bellica alla milizia di Venere è chiaramente d’impronta ovidiana: il poeta si pone come miles amoris ormai stanco delle sue vane battaglie, disertore in una guerra troppo spesso subita, alla ricerca di una pace interiore, che sembra possibile solo in ambiente agreste o venatorio, all’ombra di un tetro bosco, tra rocce che possano nasconderlo, sotto la protezione di una diversa divinità, Diana. Il confronto tra le due dee è sostenuto: l’una minaccia, l’altra emette parole di fuoco, nessuna pare cedere; ma è Delia, abile cacciatrice, che alla fine esce vittoriosa, offrendo al poeta-amante deluso una lepre appena uccisa, prelibata cena da condividere con i compagni. Sebbene, comunque, il contenuto della missiva sia tutto intriso dell’esperienza elegiaca e bucolica, il linguaggio sembra essere recuperato dal contesto epico-tragico: v. 4 flamma medullas, in chiusa di verso in Sen. Med. 819, ma anche in Verg. Aen. 4, 66 e Petron. Bell. civ. 106 (prima attestazione in Catullo Carm. 100, 7). v. 5 il nesso mulcens pectora si ritrova in Stat. Ach. 1, 182; mulcens mea pectora solo in Val. Fl. Argon. 1, 643. v. 13 letum in fine verso si registra 11 volte nei Punica di Silio Italico e 6 nella Pharsalia di Lucano, su 50 occorrenze totali negli autori antichi (tra cui Virgilio, Ovidio e Seneca). Negli autori medievali 12 sono le attestazioni, tra cui: Eupolemio Bibl. 2, 457; Ps. Goffredo di Monmouth Hist. 9, 51; Pietro Pittore Carm. 12, 90. v. 22 Dum sequor, solo in Sen. Oct. 714 e Verg. Aen. 2, 737. v. 23 Per scopulos tetrumque, interessante manipolazione del nesso di Claud. Carm. 5, 123: per scopulos tectumque; per scopulos in posizione incipitaria solo in Ov. Fast. 6, 742 e in Lucan. Phars. 6, 639. v. 25 fundit humi, a inizio verso solo in Verg. Aen. 5, 78 e Anthologia Latina 8, 35.
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Nella recensione a Weiss 1949 pubblicata su “Bibliothèque d’humaniste et Renaissance” 13 (1951) pp. 374-79 e finora sfuggita agli studiosi Ernst Robert Curtius critica duramente l’edizione Weiss, che aveva trascurato la metrica e inserito correzioni non necessarie o fuorvianti, e ripubblica i testi fornendone una interpretazione nuova, che ridimensiona la portata umanistica dell’attività di Geri. L’appunto fondamentale è che se Cambio è richiamato alla terza persona al verso 27 (Cambius esto comes) allora la poesia non è di Cambio. Naturalmente è sempre possibile che l’autore parli di se stesso alla terza persona, ma l’osservazione, che non ha avuto discussione perché rimasta confinata nei comptes rendus della rivista, induce certamente all’esplorazione di altre ipotesi. [F.St.]. Epistola metrica di Geri d’Arezzo in risposta a Cambio da Poggibonsi L’epistola responsiva di Geri a Cambio, pur mantenendo lo stesso impianto allegorico, si pone in aperta polemica con la precedente: nel testo di Geri, infatti, assistiamo a una rivalutazione di Venere, che in un lungo monologo oppone «la funzione civilizzatrice, che designa il suo campo semantico, ai rozzi e primordiali costumi di Diana e dei suoi adepti»8. Sancire la vittoria di Venere potrebbe significare nella poetica di Geri riaffermare la supremazia del modello elegiaco (Venere) su quello bucolico (Diana), o addirittura, come è stato osservato da Giansante-Marcon secondo una linea interpretativa più allegorica, la preminenza del modello poetico retorico, conformemente a un nesso tradizionale codificato nel Convivio dantesco9. In questo senso possono essere interpretate anche le parole amare in apertura di lettera: Geri appare scettico di fronte alla scelta di Cambio di adagiare l’anima all’ombra del bosco, come a voler prendere le distanze dalla poesia bucolica che quel bosco, abbiamo già detto, rappresenta; ma appare ancora più perplesso sulle tecniche di caccia di Diana, quando, alludendo alla scena del ferimento della lepre, descritta da Cambio, tiene a sottolineare la vigliaccheria del cacciatore che ha colpito alle spalle e la sua imprudenza nel non farsi aiutare dall’olfatto di un segugio. L’olfatto potrebbe
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Giansante - Marcon 1994, ad loc. Convivio, in Opere Minori, I/2, a cura di C. Vasoli e D. De Robertis, Milano-Napoli 1988, pp. 227-28.
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qui alludere sia alla volontà di ricorrere anche a una poesia di carattere elegiaco, in cui prevale l’aspetto sensoriale su quello descrittivo, sia alla necessità da parte di chi scrive di supportare il testo poetico con conoscenze grammaticali e retoriche. A parte, infatti, il corpo centrale del testo, tutto dedicato al monologo di Venere, l’epistola manifesta il suo intento ideologico, secondo i canoni della Ringkomposition, nella parte finale, in cui l’allusione al banchetto preso d’assalto da un esercito affamato e violento, che strazia le carni della povera lepre, potrebbe riferirsi alla massa incolta e incivile di poetastri intenti a scrivere opere di basso livello (magari di tema bucolico), dimentichi dei fondamenti retorici e grammaticali necessari nell’esercizio letterario. Tuttavia, al di là dell’interpretazione metaletteraria senza dubbio affascinante, che sembra trovare un precedente illustre nella X ecloga di Virgilio10, su cui Gian Biagio Conte11 scrive: «L’analoga opposizione fra Venere e Diana è utilizzabile non più soltanto come schema mitico o archetipo antropologico, ma funziona ora, sul piano della prassi e della scelta di vita, come mediazione simbolica tra la coppia oppositiva elegia-bucolica», non ci pare di cadere nel semplicismo e nella superficialità se ci atteniamo a un’esegesi più letterale del testo poetico, e alla conseguente rivalutazione del tema amoroso. I nostri dubbi sull’allegoria metaletteraria non riguardano, infatti, tanto le due divinità protagoniste, possibili e probabili simboli di due generi poetici contrapposti, quanto le figure secondarie, il cane e in particolar modo la lepre. Che l’olfatto del cane sia simbolo delle necessarie – agli occhi di Geri – conoscenze grammaticali e retoriche è congettura di Giansante-Marcon, non supportata da fonti, né antiche né umanistiche; difficile anche l’associazione di un elemento sensoriale a un bagaglio di conoscenze tecniche, meglio forse quella con l’intuito e l’estro poetico, magari più vicino, come abbiamo osservato sopra, alla soggettiva poesia elegiaca più che alla descrittiva poesia bucolica. La lepre, da parte sua, che in entrambe le epistole dei nostri preumanisti assurgerebbe a simbolo essa stessa della poesia bucolica cara a Diana – nella lettera di Cambio da assaporare in circolo con i compagni, si suppone appassionati di quel genere poetico, in quella di Geri ambíto pasto per un’abbuffata di uomini incolti – assume fin dall’antichità significati diversi, tuttavia quasi sempre legati all’ambito sessuale.
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Conte 1984, pp. 13-42. Ibid., p. 39.
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La superfetazione, tipica forma di gestazione della lepre che le consente di essere fecondata prima di portare a termine la gravidanza già in corso, nel mondo antico e medievale viene intesa come un’anomalia e diviene soggetto di metafore. Aristotele ne parla sia nel De generatione animalium sia nella Historia animalium, mentre la tradizione zoologica greca, dalla quale dipende interamente quella latina, attribuisce alla lepre maschio la facoltà di partorire, con tanto di doglie. Nella mitologia greca la lepre, inoltre, è l’animale prediletto da Afrodite e secondo Plinio è di grande utilità per le donne: la sua carne la rende feconda, mentre cibarsi dei suoi testicoli favorisce il concepimento; Petronio (Satyricon 131, 7) attesta l’uso metaforico di lepus nel linguaggio sessuale in un contesto osceno: «Vides, inquit, Chrysis mea, vides quod aliis leporem excitavit?»12. L’esegesi cristiana si sovrappone a quella classica, confermando e rielaborando nell’interpretazione morale l’uso metaforico dell’animale, a partire dal divieto veterotestamentario di cibarsi della carne di lepre fino alla caratterizzazione diabolica della stessa. Tenuto conto di questi elementi, allora, l’uccisione della lepre da parte di Diana potrebbe anche meramente alludere alla supremazia dell’amore puro su quello carnale, alla volontà dell’uomo, incapace di procreare, di impegnarsi nella ricerca di un amore casto, miseramente delusa nella visione di Geri, che riduce tutto a un finale sensualmente orgiastico. Del resto Diana e Venere sono sì figure allegoriche, ma da un punto di vista più tradizionale e vicino al mondo classico: questa simbolo dell’amore distruttivo, che rende il poeta servus dell’amata; quella simbolo di una scelta di vita all’insegna della castità e conseguente rifugio in cui lenire le ferite d’amore. In questo senso Cambio, sancendo la vittoria di Diana, sembrerebbe credere nell’effettiva possibilità di una vita senza amore, mentre Geri, ribadendo il potere di Venere, potrebbe alludere alla debolezza dell’uomo (o, restando a un livello interpretativo intermedio, del poeta elegiaco che si crogiola nelle pene d’amore13).
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Luzzi 1998. Non c’è dubbio che l’elegia romana e in particolare ovidiana, che sappiamo ben nota a Geri, tra i motivi che si accentrano intorno al grande tema del servitium amoris annovera quello dell’amante che per obsequium è disposto a farsi perfino seguace di Diana: Ov. Rem. 199 ss.; Verg. Buc. 10, 52; cfr. Prop. 1, 1, 9 sgg.; 2, 19, 17 sgg.; Tib. 4, 3, 11 sgg. Questo comportamento dell’amante elegiaco è ricondotto da Ovidio alle stesse radici mitiche: nelle Metamorfosi (10, 525) è proprio Venere, vittima casuale delle frecce di Amore, a prendere le vesti di Diana per dare la caccia al bellissimo Adone.
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Il discorso di Venere è una vera e propria orazione, elaborata sui canoni retorici dell’invectiva: la narratio (ovvero l’esposizione delle colpe commesse dal nemico), di solito posposta all’exordium, in cui l’oratore cerca di rendere gli spettatori dociles, attenti, benivoli, costituisce qui la parte incipitaria, risultando funzionale all’intento denigratorio di chi parla, dal momento che assolve a un precipuo ruolo informativo e soprattutto persuasivo nei confronti di un uditorio che deve essere disposto a benevola disposizione verso la dea. Venere mette, quindi, in evidenza, gli aspetti negativi dello stile di vita di Diana e dei suoi seguaci, col fine di provocare in chi l’ascolta odio e indignazione nei confronti della rivale, con un discorso breve, ma chiaro e immediato come è richiesto dai canoni retorici sulla narratio. Qui Geri, in piena coerenza con la prassi appresa a scuola di retorica, avrebbe potuto trovare sostegno al discorso elaborato per Venere, ricorrendo a quella precettistica specializzata nel gettare discredito sull’avversario, rivelando i suoi difetti fisici e le sue debolezze private, secondo l’atteggiamento tipico delle vituperationes; tuttavia, nonostante la volontà di dare un fondamento retorico al testo, prevalgono, comprensibilmente, in quest’ambito le esigenze della struttura epistolare, che portano l’autore a una ricerca di concisione e sintesi. L’orazione, comunque, prosegue secondo le direttive classiche, e, dopo aver denigrato il nemico, Venere porta l’attenzione degli ascoltatori su di sé e sulle sue origini (è abitudine della retorica dell’invettiva, e non solo, ripercorrere le fasi dell’infanzia di chi parla, che vuol mettere in luce un’educazione irreprensibile, in questo caso tutta all’insegna dell’amore), con l’esaltazione delle sue imprese terrestri e divine e, infine, con la descrizione accattivante del suo mondo, tesa al mantenimento della fedeltà dei suoi seguaci. Proseguendo nell’analisi dettagliata del testo, in particolare delle forme a inizio e fine verso, ci occorre innanzitutto rilevare una maggior competenza di Geri rispetto al presunto Cambio nella materia classica e una conoscenza più approfondita non solo della tematica mitologica, ma anche, se non soprattutto, del linguaggio specifico della tragedia e dell’elegia antica. I primi dieci versi, che fungono da introduzione al discorso di Venere e da immediata e concisa risposta alle parole di “Cambio”, presentano un linguaggio aulico, ricco mosaico di reminescenze classiche, tra cui spicca, almeno apparentemente, al v. 2 l’espressione veteres… poetas, probabile ripresa marzialiana (10, 78, 14 e 11, 90, 7) oppure, come segnala F. Stella, lucreziana (5, 405) o oraziana (Epist. 2, 1, 41).
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vv. 1-10 Carmina Lernee generoso in gramine ripe decantata tenens, veteres cecinisse poetas non sic dulce miror, grandes licet inclita tollat fama viros celoque locet flumenque bicorni exhausisse iugo referens et Apolline complet. Vixque ego iam Trivie monitus Dioneaque currens verba tamen teneris semper nocitura medullis ridebam silvis leporem non nare molossi occubuisse, tua volucri sed terga sagitta fixa gerens, animam nemorum posuisse sub umbris 1 Cfr. Giovenale 12, 40 atque alias quarum generosi graminis ipsum. 2 Lucrezio 5, 405 scilicet ut veteres Graium cecinere poetae; Orazio Epist. 2, 1, 41 veteresne poetas, Marziale 10, 78, 14 sic inter veteres legar poetas e Terenziano Mauro De Litteris 1889 veteres scripsisse poetas. 3-4 inclita… fama comune da Virgilio Aen. 2, 82 4-5 bicorni… iugo Stazio Theb. 1, 62-63 5 Apolline complet Stazio Theb. 4, 586 7 teneris… medullis cfr. Ovidio Amores 3, 10, 27 8 Claudiano Carmina 22, 215 ducunt ceu tenera venantem nare molossi 9 Ovidio Met. 9, 102 perdiderat volucri traiectum terga sagitta (cfr. 9, 127 e Lucano 1, 230) 10 Nigello di Longchamps, Speculum stultorum 3315 vicini nemoris umbras petiere.
Merita sottolineare oltre le risonanze oraziane e giovenaliane una frequente presenza di Stazio in questi versi iniziali della missiva, in particolare al v. 4 il nesso fama viros ricorre in Stat. Theb. 4, 102 e Aus. Ep. 115, 13; al v. 6 exhausisse è attestato a inizio verso soltanto in Silv. 5, 1, 34; Apolline complet in Theb. 4, 586, ma ricorre anche in Ov. Met. 3, 312; Verg. Aen. 9, 113; 12, 724; Luc. Phars. 1, 468; 3, 103; 5, 412; 8, 638; v. 8 il nesso nare molossi è attestato solo in Claudiano, Carm. 22, 215; di chiara impronta staziana anche l’espressione ai vv. 9-10 terga sagitta fixa, distribuita in enjembement da Geri, elaborata in un unico verso con iperbato in Theb. 6, 703: Fit sonus, et fixa signatur terga sagitta. Il nesso terga sagitta è attestato anche in Ov. Met. 9, 102; 9, 127 e in Luc. Phars. 1, 230. In questa prima parte dell’epistola Ovidio e Stazio risultano preferiti da Geri a Virgilio come modelli linguistici di riferimento: oltre ai casi sopra segnalati, al v. 7 verba tamen in posizione incipitaria
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ricorre soltanto in Met. 15, 607 e Ex Pont. 4, 4, 14 e l’espressione teneris… medullis pare trovare canovaccio d’ispirazione in Ov. Am. 3, 10, 27 tenerae… medullae, anche se il nesso torna in Luc. Phars. 4, 318 tenera… medulla; al v. 9 occubuisse in stessa posizione metrica è attestato soltanto in Met. 15, 499 e in Luc. Phars. 9, 567. vv. 11-17 cum Venus:- O si quem nostri reverentia tangit huc adverte precor, saltus si cura ferarum solicitat celeresque sequi vel figere cervos linaque dumosis distinguere montibus altis saxa per et valles sonitu pulsare canoro. Proh, iuvenis nimiumque puer, cui talia cure! Crudi hominum mores, lapidosaque gentis origo,
La considerazione opposta, non a caso, dobbiamo farla per i primi versi del discorso di Venere, in cui la dea allude alle pratiche venatorie di Diana e dei suoi seguaci: il linguaggio probabilmente si adatta alla tematica bucolica e Virgilio diviene punto di riferimento: v. 11 Ov. Met. 9, 428 nostri si qua est reverentia duxit e Stat. Ach. 1, 810 mefolim tacitum reverentia tangit. v. 12 Val. Fl. 5, 17 Arquipotens adverte, precor saltus... ferarum, attestato solo in Verg. Georg. 2, 471. v. 13 figere cervos, in Verg. Buc. 2, 29 e Sen. Herc. f. 1131. v. 14 montibus altis, 9 occorrenze in Virgilio su 43 totali; attestato anche in Lucrezio e in Silio Italico. v. 15 saxa per et, solo in Verg. Georg. 3, 276 e Stat. Theb. 4, 313. v. 15 sonitu... canoro, attestato solo in Verg. Aen. 9, 503: At tuba terribilem sonitum procul aere canoro.
Di diversa matrice, riconducibile allo stile elevato della tragedia e dell’epica, le espressioni: v. 11 Cum Venus, a inizio verso in Ov. Met. 9, 796, Stat. Theb. 3, 263, Sil. It. Pun. 17, 283; v. 11 reverentia tangit, attestato solo in Stat. Ach. 1, 810; v. 12 huc adverte in posizione incipitaria soltanto in Sen. Oed. 409; Stat. Theb. 3, 524; Ach. 1, 897; Sil It. Pun. 15, 63; v. 17 gentis origo, in clausola attestato in Ov. Ex Pont. 4, 55; Stat. Theb. 9, 514 e Val Fl. Arg. 5, 382.
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vv.18-23 hanc vitam traxere quidem. Genitalia postquam falciferi truncata senis collissaque in undis spumavere novis, ego tunc nosterque Cupido orta, prius molles sua iungere rostra columbas edocui, mutumque pecus sua volvere verba et Venerem liquidis pisces sensere sub undis.
I versi dedicati alle origini di Venere risultano un omaggio agli autori antichi prediletti da Geri, con particolare attenzione all’esempio oraziano, in uno sfoggio di puntuali conoscenze della letteratura antica in tutti i suoi generi e di capacità di rielaborazione del modello: v. 18 Genitalia postquam, interessante manipolazione di Verg. Aen. 10, 298: ...quae talia postquam. v. 19 in undis, a fine verso in Hor. Carm. 3, 12, 7 e in Stat. Silv. 2, 7, 26. v. 21 molles... columbas, attestato in Hor. Carm. 1, 37, 18 (mollis… columbas). v. 21 rostra columbas, nesso ovidiano Ars 2, 465 (rostra columbae). v. 22 edocui, in posizione incipitaria soltanto in Stat. Theb. 10, 210; volvere… verba in Silio It. 16, 544 e in pochi autori medievali. v. 23 liquidis...undis, Ov. Met. 8, 162; 11, 116; Fast. 6, 699; Ib. 591; Mart. 10, 7, 3; Sil. It. Pun. 4, 587.
Risulta costante per tutto il resto del testo l’uso dei modelli sopra individuati; riportiamo di seguito, per completezza scientifica, l’elenco, privo di contestualizzazione, delle espressioni riconducibili agli autori classici, in particolare: Ovidio, Orazio, Seneca e Virgilio. v. 24 enarrare triumphos, Ov. Fast. 3, 719; Trist. 3, 12, 45 (narrare triumphos). v. 25 ipsa ego, nesso incipitario in Stat. Theb. 5, 623; Verg. Georg. 4, 401; Ov. Her. 8, 79;12, 97; Tib. Eleg. 3, 9, 12;13; Val Fl. Arg. 4, 363. v. 29 sub armis, attestato sei volte in Stazio, Tebaide; 15 in Silio Italico, Punica (vd. in particolare Sil.It. Pun. 13, 752: iura sub armis). v. 31 tela queant, in posizione incipitaria in Stat. Theb. 9, 753. v. 36 cornigero, solo in Ov. Ib. 298; Sen. Phaedr. 1172; il nesso cornigeri... tonantis è attestato soltanto in Carm. epigr. 253, 1. v. 37 recurva, in clausola attestato tra gli autori classici soltanto in Ov. Met. 11, 464 (cfr. anche Ov. Her. 4, 79: colla recurvas). v. 38 flamma... caminos, solo in Sen. Herc. O. 1157. v. 40 carmine Flaccus, clausola di Ter. Maur. Litt. 2066; (prima attestazione di Flaccus in chiusura di verso in Mart. 7, 87, 1).
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v. 41 Sic Dea, in apertura di verso soltanto in Verg. Aen. 12, 807 e in Ov. Fast. 4, 461. v. 42 pavidum leporem, nesso oraziano, Ep. 2, 35. v. 45 lebetas, a chiusura di verso attestato soltanto in Verg. Aen. 3, 466; 5, 266; Ov. Her. 3, 31; Sidon. Carm. 5, 227; Fulc. Nupt. 7, 613.
Dialogo d’amore indirizzato a Francesco da Barberino Della natura e della potenza dell’amore tratta anche il dialogo indirizzato a Francesco da Barberino. L’Amore personificato entra in contatto con Geri in un confronto interamente costruito su reminescenze classiche di tipo poetico; il dialogo risulta costellato di un ricca serie di citazioni dirette di vari autori latini, in particolare Virgilio, Orazio, Terenzio, Ovidio e Giovenale, oltre a Boezio e Alano di Lille, in un forzato ed evidente tentativo di riproporre un testo scritto alla maniera classica, che, al di là della conoscenza dei testi antichi da parte di Geri, risulta un po’ statico nei contenuti, una rassegna di remoti episodi mitici e di codificate espressioni del linguaggio amoroso classico, che appaiono giustapposte, prive di una reale ed efficace ricontestualizzazione, pregevole esposizione, comunque, del grado di cultura raggiunto dall’autore. Tuttavia, nel confronto con i Documenti d’amore14 di
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La fama letteraria di Francesco da Barberino è legata sostanzialmente a due opere: Documenti d’amore e Reggimento e costumi di donna, la prima rivolta agli uomini, l’altra alle donne. I Documenti (cioè insegnamenti), cominciati in Italia prima del 1309, furono terminati in Provenza prima del 1313 e costituiscono una composizione di prosa e versi, di codice scritto e figurativo, nonché un quadro vario e variegato di aneddoti e notizie della cultura del tempo e della vita stessa dell’autore. Sono un’opera di difficile lettura per la varietà degli argomenti, distribuiti in ordine complesso, in un insieme poco perspicuo di precetti sull’amore lecito, in linea con la “fin amor” dei provenzali e la poetica degli stilnovisti, tanto che l’opera è stata definita da Thomas un «trattato di morale pratica e di buone maniere in servizio di uomini di tutte le condizioni». I Documenti d’amore sono divisi in dodici parti: la prima, all’insegna della Docilità, comprende 27 documenti di tema vario: l’adolescenza, i vizi nel parlare, le buone maniere, l’ingratitudine etc.; la seconda, dedicata all’Industria, tratta dell’onore e della virtù; la terza è all’insegna di “donna Costanza” e consta di nove documenti; la quarta, posta sotto l’egida della Discrezione, contiene tre documenti; quattro ne annovera la quinta, dominata dall’icona della Pazienza; la sesta parte, intitolata alla Speranza, ne conta sette; mentre la settima raggruppa, sotto l’insegna della Prudenza, ventuno documenti; l’ottava parte, dedicata alla Gloria, solo sei; due la nona, nel registro della Giustizia; tre la decima, sottoposta a Innocenza; ancora due l’undicesima, dedicata alla Gratitudine; unico, invece, il documento della dodicesima e ultima parte, all’insegna dell’Eternità, di estrema importanza insieme al proemio, sia perché qui l’autore si pone di fronte a problemi esistenziali d’importanza universale (il dolore, la scienza, la creazione, i limiti della conoscenza umana), sia perché inserisce nel commento la sua canzone di stile cavalcantiano «Se più non raggia il sol, e io son terra», sulla potenza e le angosce
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Francesco da Barberino, opera che probabilmente costituisce motivo e spunto per la composizione dell’epistola di Geri, il dialogo dell’aretino si dimostra più puntuale e accurato sul piano dell’esegesi delle fonti: se Francesco, infatti, insiste sull’interpretazione allegorica dei testi classici, confrontabili, come osservato da Giansante-Marcon, con i dati offerti da florilegi e repertori enciclopedici, Geri ha un approccio diretto con le fonti, studia il testo, ne elabora e rielabora la struttura e il linguaggio, ne recupera i contenuti, astenendosi da qualunque giudizio di carattere morale o moraleggiante, e ne accentua le componenti metatestuali. Da un punto di vista contenutistico il Dialogo d’amore non è altro che un ampliamento delle tematiche già affrontate nell’epistola metrica a Cambio da Poggibonsi: Amore, come Venere, è stato madre e nutrice, ha subito l’abbandono del suo protetto, soldato disertore dei suoi accampamenti, e in un moto di orgoglio ripercorre le sue imprese terrene e celesti, qui riproposte in un’ampia rassegna di exempla tratti dalla mitologia e dalla storia antica. L’impronta è ancora quella della poesia elegiaca, che canta l’amore tormentato del poeta-amante, ora deliziato dai piaceri dell’innamoramento, ora sconquassato nell’animo dal rifiuto dell’amata; miles amoris in prima linea e poi vile disertore di una guerra priva di vittorie; giovane forte della sua follia d’amore, uomo maturo alla ricerca di un remedium per le sue ferite. Il linguaggio, quindi, è quello metaforicamente militare, privo di un intento rielaborativo da parte del preumanista, tant’è che, anche per quanto riguarda le citazioni, qui Geri opta per la riproposizione diretta dell’originale, piuttosto che per l’allusione o il gioco d’intertestualità: improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis? (Verg. Aen. 4, 412) nec lacrimis crudelis Amor nec gramina rivis, nec cithiso saturantur apes, nec fronde capelle (Verg. Buc. 10, 29-30)
dell’amore. L’opera si conclude con altre due sezioni, l’una ancora dedicata alla canzone d’amore, l’altra, tutta in prosa latina e arricchita da disegni dell’autore, dedicata alla Circospezione. In generale i Documenti, pur presentando una materia piuttosto conosciuta nel testo poetico, costituiscono un elemento fondamentale della tradizione allegorico-didattica del tardo Medioevo, per l’uso vario della polimetria e per la loro prosa aderente alle norme delle artes dictaminum (cfr. E. Pasquini, Francesco da Barberino, in Dizionario biografico degli italiani, pp. 686-691).
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omnia vincit Amor et nos cedamus Amori. (Verg. Buc. 10, 69) et tu et quisquis amores15 aut metuet dulces aut experietur amaros? (cfr. Verg. Buc. 3, 109-110)16 omnia fert etas, animum quoque; sepe ego longos cantando puerum memini me condere soles (Verg. Buc. 9, 51-52) multa ferunt anni venientes commoda secum, multa recedentes adimunt. (Hor. Ars poetica 175-176) apiumque par volantum .... ubi grata mella fundis fugis et nimis tenaci feris icta corda morsu. (cfr. Boeth. De Cons. 3, 7, 2-6)17 in amore haec omnia insunt vitia: iniuriae, suspiciones, inimicitiae, indutiae, bellum, pax rursum. (Ter. Eun. 1, 1, 14-16) pax odio, fraudique fides, spes iuncta timori, est amor, et mixtus cum ratione furor. Naufragium dulce, pondus leve, grata Caribdis, incolumis languor, insaciata fames. Esuriens, sitiens: sitis ebria, falsa voluptas tristities leta, gaudia plena malis. Dulce malum, mala dulcedo sibi dulcor amarus. (Alano di Lille Planct. 5, 1-7) militat omnis amans, et habet sua castra Cupido. (Ov. Am. 1, 9, 1)
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Questo verso è citato due volte. Geri modifica leggermente il testo virgiliano. Il testo di Boezio ha fudit, fugit, ferit.
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fugit interea, fugit irreparabile tempus, singula dum capti circumvectamur amore. multa petentibus desunt multa. Bene est, cui Deus obtulit parca, quod satis est, manu.
(Verg. Georg. 3, 284-85)
(Hor. Carm. 3, 16, 42-44)
Elenchiamo qui di seguito anche le citazioni indirette, facenti parte del testo in prosa: alarum remigio Nam vox hominem profecto non sonat luridus factus et buxei quasi pallore agnosco vestigia flamme lasciva decentiori etas implevere medullas stimulis agis fruentes
(Verg. Aen. 1, 301)18 (cfr. Verg. Aen. 1, 328)19 (cfr. Apul. Met. 1, 19)20 (cfr. Verg. Aen. 4, 23)21 (cfr. Hor. Epist. 2, 2, 216)22 (Iuv. Sat. 14, 215) (Boeth. De cons. 3, 7, 2)23
Non sunt isti amantes, sed amentes (cfr. Plaut. Merc. 82; Ter. Andr. 218; Apul. Apol. 84)24
Il dialogo è repertoriato e riassunto in Cardelle de Hartmanu 2007, al numero R42, pp. 501-3.n
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In Virgilio l’ordine delle parole è invertito. Verg. Aen. 1, 328: …nec vox hominem sonat… Apul. Met. 1, 19: intentiore macie atque pallore buxeo. Verg. Aen. 4, 23: adgnosco veteris vestigia flammae. Hor. Epist. 2, 2, 16: lasciva decentius aetas. Il testo di Boezio ha agit. Plaut. Merc. 82: Amens amansque; Ter. Andr. 218: Amentium haud amantium; Apul. Apol. 84: Amens amans.
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Missiva ad dominum Gerium de Arectio. 1.
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Dum secum reputat Venerem pervertere leges mens mea, consilium Citheream pellere sumit polo Venus celeri natusque Cupido volatu prorepit furtim: proprias flammaque medullas1 urit et his verbis mulcens mea pectora2 mater (addidit atque minas si non obtempero dictis) alloquitur: «Memini quondam te lactea nostra ubera lactare nostraque recludere postes arte sinu domine te collectumque benigne. At nunc prompta tibi facere quodcumque rogares. Sed quid castra fugis Veneris, quondam tibi grata, nunc ingrata, rato nos deseruisse pharetram telave que bivio potuerunt addere letum? Quo te cunque sequar, fugies, nec Delya vita pristina restituet». - Prestoque Diana furensque tediferas tales archano pectore voces mittit: «Nonne satis cunctos te ledere nostros? Mene petis? Quid ni? Numquam mens sacra prophanis consonat indictis. - Sic orsa siletque movendo. Instillat quedam, Veneris quo fugere possim mores, des curis animum, studi quoque: solus nunquam permaneas: huc pergas». Dum sequor3 illam per scopulos tetrumque4 nemus, de pluribus unus prosiluit latebrisque lepus quem Delya ferro fundit humi5 donansque rogat quod partiar illum cum sotiis: sic ergo velis huc pergere pransum, Cambius esto comes, rubet et quo tempore Titan.
1. Venerem ms. Curtius, corr. W. 3. polo: pollo ms., corr. W. contra metrum 8. lactare contra metrum. 10. at: et Curtius. 11. quid: quia ms., corr. W. 13. bivio ms., Curtius, corr. W. 14. vita ms., corr. W. contra metrum 15. pristinam: pristina ms., corr. W. contra metrum 19. indictis ms., Curtius, corr. W. 25. donasque: donat que ms., corr. W.
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Epistola metrica (di Cambio da Poggibonsi?) a Geri d’Arezzo Biblioteca Corsiniana, Roma, Ms. 33 E 27, ff. 112 v-113 r Lettera a messer Geri d’Arezzo. Mentre la mia mente pensa tra sé che Venere sovverta le leggi e prende la decisione di cacciare la Citerea, con rapido volo furtivo, Venere e suo figlio Cupido sbucano fuori dalla volta celeste: e la fiamma brucia fino alle viscere e lenendo il mio cuore la madre così parla (e aggiunge anche minacce se non le dò retta): «Ricordo che un tempo il mio seno pieno di latte ti ha allattato e con la nostra arte si apriva l’abbraccio della signora che benignamente ti ha accolto in grembo Ma ancora sono pronta a fare per te qualunque cosa tu chieda. Perché, allora, rifuggi gli accampamenti di Venere, un tempo a te cari e ora non più, pensando che abbiamo abbandonato la faretra e le frecce che hanno anche portato a una doppia morte? Ovunque tu fugga, io ti inseguo, né Delia può restituirti la tua vita precedente». E subito anche Diana, furibonda, dal profondo del cuore emette parole di fuoco: «Non ci hai forse ferito tutti abbastanza? Cerchi me? E perché no? L’animo degli iniziati non si accorda mai a imposizioni dei profani». E così si alza e si allontana in silenzio. «Qualcuna insinua che tu ti impegni e ti preoccupi del luogo dove io possa fuggire ai costumi di Venere: non restare mai solo, prosegui in questa direzione». Mentre la seguo tra le rocce in un bosco buio, da una delle molte tane salta fuori una lepre, che Delia abbatte con la freccia, e, donandomela, chiede che io la spartisca con i compagni. Così dunque voglia tu prender parte a questa cena e sii commensale di Cambio, nell’ora in cui il Titano diventa rosso.
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In chiusa di verso in Verg. Aen. 4, 66; Sen. Med. 819; Petr. Bell. Civ. 106 (prima attestazione Cat. Carm. 100, 7). La chiusa è stata ripresa in epoca medievale solo da Eirico di Auxerre, Vita Germ. 6, 352 e Baldrico di Bourgueil Carm. 2, 3. Stat. Ach. 1, 182 (mulcens pectora); Val. Fl. Argon. 1, 643 (mulcens mea pectora). Tra gli autori medievali solo in Bonifacio Carm. 1, 149. Sen. Oct. 714; Verg. Aen. 2, 737. Cfr. Claud. Carm. 5, 123: per scopulos tectumque; per scopulos in posizione incipitaria solo in Ov. Fast. 6, 742; Lucan. Phars. 6, 639. Vedi anche Ildeberto di Lavardin Carm. min. 41, 3; Alano di Lille Parab. 490. Fundit humi in posizione incipitaria solo in Verg. Aen. 5, 78; Anth. Lat. 8, 35.
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Responsiva domini Gerii Frederici de Arectio. 1.
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Carmina Lernee generoso in gramine ripe6 decantata tenens, veteres cecinisse poetas7 non sic dulce miror8, grandes licet inclita tollat fama viros9 celoque locet flumenque bicorni exhausisse10 iugo referens et Apolline complet11. Vixque ego iam Trivie monitus Dioneaque currens12 verba, tamen13 teneris semper nocitura medullis14 ridebam silvis leporem non nare molossi15 occubuisse16, tua volucri sed terga sagitta fixa17 gerens, animam nemorum posuisse sub umbris, cum Venus18: - O si quem nostri reverentia tangit19, huc adverte20 precor, saltus si cura ferarum21 solicitat celeresque sequi vel figere cervos22 linaque dumosis distinguere montibus altis saxa per et23 valles sonitu pulsare canoro24. Proh, iuvenis nimiumque puer, cui talia cure! Crudi hominum mores, lapidosaque gentis origo25, hanc vitam traxere quidem. Genitalia postquam26 falciferi truncata senis collisaque in undis27 spumavere novis, ego tunc nosterque Cupido orta, prius molles sua iungere rostra columbas28 edocui29, mutumque pecus sua volvere verba et Venerem liquidis pisces sensere sub undis30. Cur humiles terris iuvat enarrare triumphos31? Ipsa ego32 celicolas blando expugnare tumultu aggressa et summi contemnere iura Tonantis, infernumque Deum Siculi tenuistis amores33. At quem montivage studium mollisque pharetra exercet nostris quondam cui cura sub armis34
Tit.: arcetio ms. 5. Apolline: appolline ms., corr. W. 8. molossi: molosi ms., corr. W. 9. tua: tui ms., corr. W.
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Epistola metrica di Geri d’Arezzo in risposta alla precedente Biblioteca Corsiniana, Roma, Ms. 33 E 27, ff. 113 r-114 v Rammentando i canti recitati sui prati floridi delle sponde lernee, non mi meraviglio che gli antichi poeti abbiano cantato così dolcemente, sebbene una gloriosa fama innalzi quegli uomini e li collochi in cielo e, riferendo di aver prosciugato il fiume dal giogo bicorne, li riempie di Apollo. E già a stento io, scorrendo gli ammonimenti di Trivia e le parole della figlia di Dione, sempre pronte a far male ai teneri cuori, sorridevo che la lepre nel bosco fosse caduta non per l’olfatto del segugio, ma trafitta alle spalle dalla tua freccia alata, e che l’anima si fosse adagiata all’ombra del bosco, quando Venere: «Se la venerazione nei nostri confronti tocca qualcuno, lo prego di venire qui, qualora lo angoscino i boschi pieni di bestie, o inseguire e
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Cfr. Ps. Goffredo di Honmouth Hist. 4, 66 e Gualtiero di Châtillon Alex. 9, 54: in margine ripe lerna. Per il nesso generoso… gramine cfr. Iuv. Sat. 12, 40: generosi graminis. Lerna (in Argolide) era sede di feste in onore di Demetra e Dioniso. Il fiume Lerna in Arcadia (da Aen. 12, 518) assume il senso di ‘arcadico’, quindi ‘poetico’. Il nome è frequentissimo in Stazio, ad es. Silv. 2, 1, 181 sic et in aguiferae ludentem gramine Lernae o 5, 3, 142 nunc gramine Lernae. L’aggettivo, rarissimo nei poeti medievali, recupera alta frequenza nella poesia umanstica, dove però è quasi sempre associato all’Idra, salvo che in Elisio Carenzio (Luigi Gallucci), Croacus liber 2, 240 acciperet Lerneus ager lateque sub umbra etc. [F.St.]. Mart. 10, 78, 14: sic inter veteres legar poetas; Terenziano Mauro Litt. 1889: Romanos aliquid veteres scripsisse poetas. ametrico (Curtius). Stat. Theb. 4, 102; Aus. Epig. 115, 13. In posizione incipitaria cfr. Stat. Silv. 5, 1, 34. Ma il giogo bicorne è riferito al Parnaso in Theb. 1, 62 (Curtius). Stat. Theb. 4, 586. In fine verso cfr. Sen. Phaedr. 6; Thy. 841 e Sil. It. Pun. 16, 496. Dioneaque è ametrico (Curtius). Il nesso verba tamen in posizione incipitaria solo in Ov. Met. 15, 607; Ex P. 4, 4, 14 e in autori medievali fra cui Ildeberto di Lavardin Virt. Iust. 30. Cfr. Ov. Am. 3, 10, 27: tenerae medullae; Luc. Phars. 4, 318: tenera… medulla; Nemes. Cyn. 155: teneras… medullas. Claud. Carm. 22, 215. Ov. Met. 15, 499; Lucan. Phars. 9, 567 e in autori medievali fra cui Karolellus 346 e Guglielmo Apulo Gesta 2, 568. Cfr. Stat. Theb. 6, 703: Fit sonus, et fixa signatur terga sagitta. Il nesso terga sagitta in fine verso è attestato in Ov. Met. 9, 102; 127 e Lucan. Phars. 1, 230. In posizione incipitaria cfr. Ov. Met. 9, 796; Stat. Theb. 3, 263; Sil. It. Pun. 17, 283. Stat. Ach. 1, 810. In posizione incipitaria solo in Sen. Oed. 409; Stat. Theb. 3, 524; Ach. 1, 897; Sil. It. Pun. 15, 63; adverte precor Val. Fl. 5, 17. Saltus… ferarum attestato solo in Verg. Georg. 2, 471. Verg. Buc. 2, 29; Sen. Herc. f. 1131; Carm. Epigr. 1526a, 4. Verg. Georg. 3, 276; Stat. Theb. 4, 313.
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liscius, experiar quidnam imperiosa volantis tela queant35: non arma sibi monitusve Diane profuerit, clipeata licet sua pectora gestet. Tu pueri meus ipse, meus non ille ferarum invasor, mandata tenes tu molle canentum. In medio Galathea tuis hinc pressa renodat oscula, cornigero36 dudum rapienda Tonanti, hinc cinera amplexu stringens tua colla recurva37 inter serta furit. Carpit flamma alta caminos38. I nunc et virides cantent Amarilida silve; extollatque suam Cynaram modo carmine Flaccus39, sic Dea40, cum tenerum sublata per ethera fugit, subiungens, pavidum leporem41 vix alta peremit Delya non celeri mentita per arva sagitta. Tu modo volve focis leporem: dentata paratur adventare cohors que viscera queque lebetes42 diripiet animosa nimis ferrumque liquabit. Sic iubet ire Venus Venerisque filius ardens.
24. terris ms. Curtius, terre corr. W. 28. pharetra: studius mollesque pharetre ms.; studium mollisque pharetra corr. W.;, molesque «und die Mühe des Köchers» Curtius. 29. exercet: exercent ms., corr. W. 30. liscius: istius Curtius. 31. queant: querint ms., corr. W. 37. recurva: recurvo ms., corr. W. 40. Cynaram: cyneram ms., corr. W. 42. vix: nix ms., corr. W. 45. lebetes ms., lebetas corr. W. 35 36
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Il nesso tela queant in posizione incipitaria è attestato soltanto in Stat. Theb. 9, 753. Ov. Ib. 298; Sen. Phaedr. 1172; il nesso cornigeri… tonantis è attestato soltanto in Carm. Epigr. 253, 1. In fine verso solo in Ov. Met. 11, 464; Silloge Sangall. app. 5, 59; ps. Goffredo di Monmouth Hist. 6, 166; Ps. Ov. Mutat. 2, 319. Cfr. anche Ov. Her. 4, 79: colla recurvas. Per il nesso flamma… caminos cfr. Stat. Silv. 1, 5, 32. Terenziano Mauro Litt. 2066; prima attestazione del vocabolo Flaccus in fine verso in Mart. 7, 87, 1. Verg. Aen. 12, 807; Ov. Fast. 4, 461. Hor. Ep. 2, 35. Verg. Aen. 3, 466; 5, 466; Ov. Her. 3, 31.
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cacciare i cervi veloci, e disporre trappole tra le rocce sugli alti monti coperti di rovi, e far rimbombare le valli con fragore sonoro. Guai a chi, giovane o ancora bambino, abbia tali interessi! I rozzi costumi degli uomini e l’origine pietrosa della stirpe di certo condussero questa vita. Dopoché, tagliati i genitali del vecchio falcifero e schiacciati nell’urto con le onde del mare, le ricoprirono di schiuma, io allora e il mio Cupido siamo nati, e per prima cosa ho insegnato alle tenere colombe come congiungere i loro becchi e al muto gregge a emettere il suo verso, e anche i pesci sotto le onde del mare conobbero Venere. Ma a cosa serve narrarti gli umili trionfi sulla terra? Io espugnai gli dei, dopo averli attaccati con dolce assalto, e sfidai i dettami del sommo Giove, mentre voi, Siculi, conosceste gli amori del dio degli inferi. E se il desiderio della dèa dell’errante pei monti con la molle faretra tormenta qualcuno, che un tempo serviva il mio esercito, darò dimostrazione di cosa siano capaci le potenti frecce del dio alato: non gli gioveranno le armi e gli avvertimenti di Diana, per quanto indossi la corazza sul petto. E tu, ragazzo, che sei mio, non come quello, cacciatore di fiere, attieniti ai consigli di coloro che cantano dolcemente! Da qui Galatea scioglie i baci impressi sui tuoi, appena presi al cornigero tonante; da qui tra i serti ricurvi ruba il tuo collo flessuoso, stringendo le ceneri in un abbraccio. L’alta fiamma consuma il focolare: ora vai, e anche le verdi selve canteranno Amarillide; e Flacco col suo carme innalzi la sua Cinera». 5. Così parlò la Dea, levatasi in fuga nell’aria quando, sopraggiungendo dall’alto, Delia uccide con la sua freccia veloce la tenera, pavida lepre non nascosta tra i campi*. Tu dunque gira la lepre sul fuoco: è pronto all’attacco un esercito violento e armato di denti, che farà a pezzi le viscere e anche i piatti e scioglierà il ferro. Così ordinano di procedere Venere e il suo ardente figliolo. 24 25
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Verg. Aen. 9, 503: At tuba terribilem sonitum procul aere canoro. Ov. Ex P. 4, 55; Stat. Theb. 9, 514; Val. Fl. Argon. 5, 382. Tra gli autori medievali Flodoardo Ital. 1, 560; ps. Gaufr. Monem. Hist. 1, 312; Liber Maiol. 802. Il cornigero tonante è il fiume Aci, amato da Galatea: corniger (‘ramificato’) è attributo di fiume da Virgilio Aen. 8, 77. Cfr. Verg. Aen. 10, 298: … quae talia postaquam. In clausola in Hor. Carm. 3, 12, 7; Stat. Silv. 2, 7, 26. Per molles… columbas cfr. Hor. Carm. 1, 37, 18: mollis columbas. Il nesso rostra columbas è ovidiano, Ars 2, 465: rostra columbae. In posizione incipitaria soltanto in Stat. Theb. 10, 210. Cfr. Ov. Met. 8, 162; 11, 116; Fast. 6, 699; Ib. 591; Mart. 10, 7, 3; Sil. It. Pun. 4, 587. Tra gli autori medioevali: Milone di Saint-Amand Sobr. 2, 432 (liquidis… sub undis); Pamphilus 85 (liquidis… sub undis); Liber Maiolicus 710 (liquidis… in undis). Ov. Fast. 2, 719; Trist. 3, 12, 45: narrare triumphos. Il nesso Ipsa ego in posizione incipitaria è attestato soltanto in: Verg. Georg. 4, 401; Tib. Eleg. 3, 9, 12; 13; Ov. Her. 8, 79; 12, 97; Val. Fl. Argon. 4, 363. Riferimento al mito di Proserpina, rapita per amore da Plutone, dio degli inferi, in territorio siculo. L’espressione sub armis in clausola è attestata sei volte in Stazio, Tebaide e quindici in Silio Italico, Punica (vedi in particolare Sil. It. Pun. 13, 752: iura sub armis, che pare rimandare per assonanza al cura sub armis di Geri). Curtius interpreta diversamente: «die nicht lügende Delya», ‘Delia che non mente’.
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1. Domino Francisco de Barbarino, iuris civilis professori. Amor. Ecce mihi quesitus occurris Geri, angulariter43, importune, cupide, fatigatus iam, si non alarum remigio44 pretervolassem. Gerius. Tu me? A. Te, si Gerius es. G. Ita dicunt. Sic mihi a sacris45 aquis nomen advenit, sed si magne prudentie virum queris, ut personas, alias tibi exquirendus est Gerius. A. Ludis? G. Ut? 2. A. Novi te etiam cum tener in cunis vagiens lactisugis46 labiolis ubera pressabas. Novi et cum verba ligatis implicitisque sonis immurmurans moliebaris, novi te grandiusculum, novi adultum et te nunc etatis iam declina formidantem. G. Quorsum hec? Que tibi nomina? Nostrine generis advolas? Nam vox hominem profecto non sonat47 et oppanse tibi ale cum faretris et que tu, equi sessor infrenis, lumina velo quodam obnubes, te ab humani habitus gestu discriminant. Tune ille fortassis, de quo clarissimus omnium poeta sic cecinit: improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis?48 et idem: nec lacrimis crudelis Amor nec gramina rivis, nec cithiso saturantur apes, nec fronde capelle?49
1. mihi: michi1 W. 2. declina: decliva ms.; discriminant: discrimminant ms.; amores ms.; amaros W.
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Dialogo a Francesco da Barberino Biblioteca Corsiniana, Roma, Ms. 33 E 27, ff. 98 v-102 r 1. A messer Francesco da Barberino, professore di diritto civile. Amore: Ecco, come richiesto, mi vieni incontro, Geri, di traverso, inopportunamente, pieno di desiderio; già affaticato, se non fossi volato via in un battito d’ali. Geri: Aspettavi me? A: Te, se sei Geri! G: Così dicono, questo nome mi deriva dalle sacre acque, ma se cerchi un uomo di grande saggezza, come vai dicendo, devi cercare Geri da un’altra parte. A: Stai scherzando? G: Come? 2. A: Ti ho conosciuto anche quando tenero, vagendo nella culla, premevi le mammelle con labbrucce avide di latte. Ti ho conosciuto quando ti sforzavi di mormorare parole con suoni legati e impacciati, ti ho conosciuto grandicello, ti conosco adulto e ora che già temi il declino dell’età. G: A che mira questo discorso? Quali sono i tuoi nomi? Tu che voli sei della nostra specie? La voce infatti non suona umana, e hai ali distese con faretre; e tu che, cavaliere di un cavallo senza briglie, copri con un velo la luce, il tuo comportamento ti differenzia dall’abitudine umana. Sei tu forse colui, del quale il più famoso tra tutti i poeti così cantò: crudele Amore, a cosa non costringi i cuori degli uomini? e anche: né Amore crudele si sazia di lacrime, né i prati di ruscelli, né le api di maggio fiorito, ne le caprette di piante frondose?
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Boeth. Herm. pr. 1, 7. Verg. Aen. 1, 301. In Virgilio l’ordine delle parole è invertito. Fa allusione al significato dell’aggettivo greco hierós, ‘sacro’. Unica attestazione. Verg. Aen. 1, 328: … nec vox hominem sonat… Verg. Aen. 4, 412. Verg. Buc. 10, 29-30.
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et idem: omnia vincit Amor et nos cedamus Amori50 itemque: et tu et quisquis amores aut metuet dulces aut experietur amaros?51 3. A. Bene tibi notus esse iam debui, sed dum dissimulans in nostra castra, tranfuga, redire contemnis, palluisti video, luridus factus et buxei quasi pallore52, non aliter quam nigrum pressit qui calcibus anguem, improvisum aprisque sentibus obvolutum latentemque53. Unde tremor? Unde tibi tanta cordis gelida? Nec quod verearis, nec quod de sagittis meis queraris, iuste sunt tibi cause. Tu opera nostra perquiris, sectaris, diligis, colis; oloricanos54 poetas nostros amplecteris et nostrum nuper videris tremebundus formidare aspectum? G. Quid mirum, omnium potentissime, formidatissime? Ego et te dulcem timui et pluries sum expertus amarum. A. Exciditne tibi adhuc illud: et tu et quisquis amores?55 G. Memini itaque esse fateri habeo, iam expertus et in presentiarum conferens tecum, agnosco vestigia flamme56. A. Agnoscis? G. Agnosco. A. Cave ne novas. G. O utinam! Nam ah quanto tuum descendit vulnus hiatu! A. Nullane tibi sunt arma? 4. G. Hercle, nulla, vel nulla, iam etate fluentia. Dum etenim iam emeritus miles inter veteranos tuos esse arbitrarer, ociabundus57 a bellorum tuorum sudoribus immunis et tu me iterum in pugnas tuas ut tironem evocas revocasque improvidum inermem; quibus impar, libenter ad po-
4. improvidum: improvisum ms., corr. W.
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e ancora: l’Amore vince su tutto, e noi abbandoniamoci all’amore e poi: e tu e chiunque o teme i dolci amori o prova quelli amari? 3. A: Già dovetti esserti ben noto; ma mentre nascondendoti, disertore, rifiuti di tornare nei miei accampamenti, sei impallidito, ti vedo, sei fatto livido e quasi del pallore del bosso, non diversamente da chi, all’improvviso, ha schiacciato coi piedi una nera serpe, nascosta e avvolta tra gli irti rovi. Da dove questo tremore? Da dove questo cuore così marmato? Non hai un giusto motivo né per aver paura, né per lamentarti delle mie saette. Tu ricerchi, insegui, ami, onori le nostre opere: abbracci i nostri poeti, che cantano come cigni, e ora, tutto tremante, sembri aver timore alla nostra vista? G: Perché meravigliarsi, o tu, il più potente e il più temuto fra tutti? Io ho avuto paura di te quand’eri dolce e ancor di più ti ho sperimentato amaro. A: Finora ti è accaduto come: a te e a chiunque gli amori... G: Ricordo e lo devo ammettere, già esperto e in tua presenza, riconosco i segni della fiamma. A: Li riconosci? G: Li riconosco. A: Attento ai nuovi! G: Volesse il cielo! Quanto profonda, infatti, è la tua ferita! A: Non hai armi? 4. G: Per Ercole, nessuna, nessuna, già si dissolvono per l’età. Mentre infatti, ritenevo ormai di essere, soldato in pensione, tra i tuoi veterani, ozioso, immune dai sudori delle tue guerre, tu mi richiami di nuovo alle tue battaglie, come una recluta mi convochi, impreparato e inerme; e inadeguato rispetto a ciò, volentieri deporrei le armi alla tua porta per scherzo, non per farmi convincere ingenuamen-
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Verg. Buc. 10, 69. Verg. Buc. 3, 109-110. Apul. Met. 1, 19: interiore macie atque pallore buxeo. Verg. Aen. 2, 379-80: improvisum aspris veluti qui sentibus anguem / pressit humi nitens trepidusque repente refugit. Non si conoscono altre attestazioni di questo termine, composto da olor ‘cigno’ e cano ‘canto’. Verg. Buc. 3, 109. Verg. Aen. 4, 23: adgnosco veteris vestigia flamme. Sidonio Apollinare Ep. 4, 18, 3: Et nunc tu ipse sic multis contra fidem diebus otiabundus; Ep. 8, 9, 6: En carmen, quod recensens otiabundus. Il termine è attestato anche in Ugo di Fleury (XII sec., P.L. 163, col. 822B).
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stes tuos arma deponerem ut ludificabundus, non ut hactenus viridis illudar. Iam mihi temporibus albicans capillus irrepsit; abiit vigor; omnia fert etas, animum quoque; sepe ego longos cantando puerum memini me condere soles:58 multa ferunt anni venientes commoda secum, multa recedentes adimunt:59 lasciva decentiori etas60 me relinquit; lusus tui florentes etatem decent, maturatos indecet. Indulgendum est teneris: ludi implevere medullas. A. Deliras, an pudet? G. Pudet quidem. A. Cur? G. Ingrederis blande; deinde stimulis agis61 fruentes apiumque par volantum62 ut de Severini versibus sumam: ubi grata mella fundis fugis et nimis tenaci feris icta corda morsu63 delectas primordio, subinde mellitum toxicum misces. 5. A. Obstrepere mihi videris. G. Sic, sic malo tibi videri, quam saucius decantari; neque enim ridiculari volo excors inter aniculas. Legi adolescentulus illud comedi tui Afri: in amore hec omnia insunt vitia: iniurie, suspiciones, inimicitie, indutie, bellum, pax rursum64.
lasciva: laxiua ms., corr. W.; etatem: etate ms., corr. W.; decent: decet ms., corr. W.; Indulgendum: indulglendum ms.; ludi: nudus ms., corr. W.; medullas: modullas ms., corr. W. (implevere medullas: cfr. Iuv. Sat. 14, 21); fruentes: furentes ms., corr. W.; fugis: figis ms., corr. W. 5. Obstrepere: obstropere ms., corr. W.; mihi: michi W.; decantari: sancius decantare ms., corr. W.; excors: excor ms.; adolescentulus: adoloscentulus ms., corr. W.; comedi: comedij ms., corr. W.; vitia: om. ms., rest. W.
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te che sono ancora giovane! Già per gli anni si insinuano i primi capelli bianchi, la forza viene meno: il tempo prende tutto, anche l’anima, io spesso ricordo quando passavo lunghi giorni a cantare; gli anni che vengono portano con sé molti vantaggi, molti ne tolgono quelli che se ne vanno. L’età della dissolutezza mi lascia per una più decorosa; i giochi del tempo in fiore si addicono alla tua età, non sono adatti alla maturità. Si deve essere comprensivi con i giovani: i giochi hanno riempito i cuori. A: Deliri o ti vergogni? G: Mi vergogno, certo. A: Perché? G: Tu avanzi dolcemente, poi pungoli quelli che godono di te come api in volo per riprendere dei versi di Boezio quando miele gradevole effondi fuggi e pungi i cuori con strette lancinanti. In un primo momento diletti, e subito dopo mescoli al miele il veleno. 5. A: Mi sembri voler protestare. G: Così, così preferisco apparirti, piuttosto che mi si dica in giro ferito; non voglio, infatti, essere ridicolizzato come uno sciocco tra le vecchiette. Da ragazzetto ho letto questi versi del tuo commediografo Terenzio: Tutti questi vizi sono insiti nell’amore: le ingiurie, i sospetti, le inimicizie, le tregue, la guerra e, di nuovo, la pace 58 59 60 61 62 63 64
Verg. Buc. 9, 51-52. Hor. Ars 175-76. Hor. Epist. 2, 2, 216: lasciva decentius aetas. Boeth. De cons. 3, 7, 2. Il testo di Boezio ha agit (ed. K. Büchner, Heidelberg 1947, 19602). Boeth. De cons. 3, 7, 2. Boeth. De cons. 3, 7, 4-6. Ter. Eun. 1, 1, 14-16.
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6. Que incerta si quis vult ratione certa facere, nihilo plus operam dat, quam ut quis cum ratione insaniat. Et quod tu tecum iratus cogitas: egone illam? Que me? Que non? Nunc me sentiet qui vir fiam. Hec verba una Hercle falsa lacrimula, quam oculos terendo vix expressit, restringet et te ultra accusabis et dabis ei ultra supplicium. Et illud: pax odio, fraudique fides, spes iuncta timori, est amor, et mixtus cum ratione furor. Naufragium dulce, pondus leve, grata Caribdis, incolumis languor, insaciata fames. Esuriens, sitiens: sitis ebria, falsa voluptas tristities leta, gaudia plena malis. Dulce malum, mala dulcedo sibi dulcor amarus.65 A. Legisti hec tantum an expertus es? G. Utrumque, fateor. A. Non sunt isti amantes, sed amentes66. 7. G. Nil mihi tecum est ultra. Iam in bilem accenderis: iam planam frontem adversus incrispas et nedum tibi bellum infero, acrius perpetiar. A. Mereris; sed mitius agam tecum; nec enim sic sentis ut loqueris, nec te peniteat amissa iam arma reassumere, sic tua iubet Corinna, sic Dido67. Scis quam latissime imperem, que devotis premia, que indevotis supplitia paraverim. Ego brutaliter viventes moribus homino; immanitate barbaros, mites efficio; impexos excolo; dissotiales sotio; clausas avaritie visco manus tenacissimo aperio; tumidos placo; ego bellorum quies, discidentium portus; tenacissimum mortalium vinculum, curarum dulce remedium; quot in lucem prestantissimos viros, quot facundissimas dominas flammis meis in lucem provexi, quos eterne noctis ignorantia occuluisset! Referta sunt scriptorum nobilium volumina; picta scultaque etiam adhuc intuentium oculis clarescunt. 8. Obicies quod tantisper amaresco68 et quod usque in furoris nomen transeo. Sed nihil est quod prosit, quod et idem nocere non possit: vina ipsa sobrie sumpta saluti sunt et ultra pestifera. Scis me celo, terris inferisque re6. nihilo: nichilo W.; fiam: fiem ms., corr. W.; terendo: terrendo ms., corr. W.; restringet: restringuet ms., corr. W.; mixtus: mistus ms., corr. W.; languor: langor ms., corr. W. 7. mihi: michi W.; tenacissimos: tenacissimas ms., tenacissimo W.; Referta: refecta ms., corr. W.; homino ms., fortasse domino, ut in christianis auctoribus? 8. nihil: nichil W.; sumpta: suscepta W.
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6. E se qualcuno vuole accertarsi di ciò, niente dà più conferma di colui che con coscienza diventa folle. E tu in collera con te stesso pensi: «Forse lei, forse me o no? Ora sentirà che uomo potrò diventare». Ma, per Ercole, una sola falsa lacrimuccia, che è uscita a stento strusciando gli occhi, scioglierà queste parole, e tu ti accuserai ancora e aggiungerai altro tormento. E questo: pace congiunta a odio, fedeltà a inganno, speranza a paura questo è amore, e anche follia mista a ragione. Dolce naufragio, peso leggero, incantevole Cariddi, intatto languore, fame insaziata. Affamato, assetato: sete ebbra, falso piacere, lieta tristezza, gioie piene di guai. Dolce male, malvagia dolcezza, cosa dolce a sé amara. A: Hai letto tutto questo o l’hai provato? G: Entrambe le cose, lo ammetto. A: Questi non sono amanti, ma dementi! 7. G: Non ho più niente da dirti. Già ti accendi di rabbia, già increspi la fronte piatta contro di me e ancora non ti ho portato guerra; sopporterò con più forza. A: Te lo meriti; ma con te agirò in modo più delicato; infatti tu non pensi quello che dici, e non ti dispiaccia riprendere le armi ormai abbandonate. Così vuole la tua Corinna, così Didone. Sai quanto è vasto il mio impero, quali doni preparo ai miei devoti, quali supplizi agli empi. Io ingentilisco i costumi di coloro che vivono rozzamente; rendo miti i barbari feroci, abbellisco chi si trascura, riunisco gli asociali, apro le mani chiuse al vischio tenacissimo dell’avarizia, placo i superbi; io che sono la pace delle guerre, il porto per chi si è allontanato, saldissimo legame dei mortali, dolce rimedio degli affanni, quanti uomini fortissimi, quante donne di abile eloquio, che l’ignoranza di una notte eterna aveva tenuto nascosti, condussi alla luce delle mie fiamme! Sono stati tramandati interi volumi di illustri scrittori; quadri e sculture ancora risplendono agli occhi di chi guarda attento. 8. Obietti che talvolta divengo amaro e che muto il mio nome fino al Furore. Ma non c’è niente che giovi e che al tempo stesso non possa nuocere: il vino stesso assunto con moderazione è salutare, oltre la misura può rovinare. Sai che regno in cielo, in 65 66
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Alano di Lille Planct. 5, 1-7. Plaut. Merc. 82: Amens amansque; Ter. Andr. 218: Amentium haud amantium; Apul. Apol. 84: Amens amans. Corinna è la donna amata da Ovidio in Amores III. Didone naturalmente la regina di Cartagine innamorata di Enea in Eneide IV. Vocabolo postclassico, in uso a partire da Palladio 2, 15, 9 e Agostino In Psalm. 148, 10.
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gnatorem, nec te fugit quibus flammarum nostrarum fervoribus, illum qui celi terrarumque opera omnia lustrat, solem, decoxerim in sua Leucothoe, in qua, dum sepius suspiratos ducit affectus, sui luminis expers factus, non semel eclipsavit69. 9.70 Quantum noster Apollo ob Admeti filiam, pastor factus, exarsit dum regit armenta! Ipsumque celo tonantem Iovem sacros edere mugitus, dum Agenoream querit Europam, coegimus. Vidit et celi regio illum bellantium terribilem deum cum Venere, matre nostra, Vulcaneis catenis implicitum confertumque. Nostris quoque incaluit ignibus Cinthia, dum apud Latmia saxa71 Endimioneos petit amplexus; ipsumque horriferum Boream72 Actee virginis facies dilecta flammavit. 10. Omitto deos, quos ad unum usque, nisique largis dies ambagibus tererem et longum esset enumerare, vulneravi. Transeo ad terrigenas semideosque tuos. Legisti Herculem inter Ionias calathum tenuisse puellas73 et domine sue nimis exterritum impregnasse74 iam colos, quem celum humeris sustinuisse antiquitas tradit. Arsit etiam in capta Briseide magnus Achilles, movit Ayacem Telamone nata forma captive dominum Thecnesse; Hectoreum pectus infregi; illumque singularem nature scrutatorem Aristotilem75 muliebra subire imperia compuli, et in Egyptia Cleopatra illum divum Iulium Cesarem coxi. Et, ut parcam nomini, parcam fame, illum transeo Salamonem, cuius ego simpliciter sic interiora transfondi, ut sculptiles deos orare coegerim76; illum quin ymmo truculentissimum inferorum regem Plutonem ad Proserpine Sicule raptum accendi. Non sit ergo tibi rubori, nec te peniteat si nostris carperis ignibus. Leucothoe: leuthothoe ms.; sui: si ms., corr. W. 9. Apollo: appollo ms., corr. W.; celo: celi ms., corr. W.; tonantem: tonatem ms., corr. W.; Latmia: lamia ms., corr. W.; Endimioneos: Endimoneos ms., corr. W.; Acthee: Acthee ms., corr. W. 10. Omitto: Omicto ms., corr. W.; esset: om. ms., rest. W.; nata ms., matrem W.; Thecnesse: domini themese ms., corr. W.; egiptia ms., corr. W. Verbo rarissimo attestato negli Axiomata dello pseudo-Beda (P.L. 90, col. 994D). Serie di exempla di coppie di amanti, che attinge sia alla mitologia classica sia a sue estensioni medievali, derivate in gran parte da repertorio ovidiano: Leucotoe (di cui Apollo si innamorò per opera di Venere in Ov. Met.4, 169 ss.); Alcesti figlia di Admeto (Igino Fab. 51), Giove ed Europa figlia di Agenore re di Tiro (Ov. Met. 2, 836 ss.); Vulcano e Venere, Endimione e Luna-Diana che contemplava addormentato sul monte Latmo in Caria, (Ov. Her. 18), Borea rapitore della vergine attica Orizia (Ov. Met. 6, 675 ss.), Ercole (Ov. Her. 9), Aristotele e Fillide, Cesare e Cleopatra, Salomone e le sue infinite amanti (I Re 11, 1-13), Plutone e Proserpina (al cui rapimento, narrato nel V libro delle Metamorfosi di Ovidio, è interamente dedicato il poemetto De raptu Proserpinae di Claudiano). Nella recensione all’edizione Weiss in «Studi petrarcheschi» 4 (1951) alle pp. 293-8 Marco Boni fa risalire a Tibullo II 3, 11 ss. il modello delle espressioni relative ad Alcesti, a Stazio Achilleide 2, 359-6 la fonte su Europa. [F. St.]
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terra e negli inferi, né può sfuggirti con quali mie fiamme appassionate quello che illumina tutto il creato in cielo e sulla terra, il sole, lo evaporai per mano della sua Leucotoe, nella quale, mentre più spesso emette sospiri profondi pieni di passione, privato della sua luce, non una volta si eclissò. 9. Quanto arse il nostro Apollo per la figlia di Admeto, mentre, fattosi pastore, governava gli armenti! Lo stesso Giove tonante in cielo ho costretto a emettere sacri muggiti, mentre cercava Europa figlia di Agenore. Anche la regione del cielo vide il famoso dio della guerra legato e stretto a Venere, mia madre, con le catene di Vulcano. Anche Cinzia si scaldò ai miei fuochi, quando presso le rupi Latmie cercò l’abbraccio di Endimione; e il volto aggraziato della vergine attica infiammò lo stesso terribile Borea. 10. Tralascio gli dei che ho ferito uno per uno, altrimenti consumerei giorni interi in aneddoti e sarebbe troppo lungo elencarli. Passo ai terrestri e ai tuoi semidei. Hai letto che Ercole tenne il canestro tra le fanciulle ionie e, troppo impaurito della sua signora, riempì le canocchie, lui che, tramandano gli antichi, ha sostenuto il mondo sulle spalle. Arse anche il grande Achille per la schiava Briseide; colpì Aiace Telamonio, suo padrone, la bellezza della prigioniera Tecnesse; spezzai il cuore di Ercole; costrinsi il famoso Aristotele, straordinario osservatore della natura, a subire i voleri delle donne, e in Egitto feci consumare per Cleopatra il divino Giulio Cesare. E, per rispetto del nome e della reputazione, sorvolo sul famoso Salomone, il cui cuore perforai con tanta facilità, che lo costrinsi a onorare statute di dei; piuttosto spinsi il crudelissimo re degli inferi Plutone al rapimento della sicula Proserpina. Non vergognarti, dunque, né dispiacerti se sarai preso dai miei fuochi. 71
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Ov. Her. 18, 62 et subeant animo Latmia saxa tuo: espressione derivante da Catullo 66, 5 e ripresa nel Cupido cruciatus di Ausonio, che contiene serie di esempi di innamorati famosi. Ov. Met. 1, 65 horrifer… Boreas (cfr. 15, 471). Ov. Her. 9, 73 = Ars 2, 219 inter Ioniacas calathum tenuisse puellas. Impregno non è usato nel latino classico: si trova a partire da Agostino (Contra Iulianum 5, 15 et al.) e nel latino medievale. Il riferimento ad Aristotele schiavo delle donne prende sicuramente spunto dalla leggenda di Aristotele e Fillide, particolarmente diffusa tra XIII e XIV secolo. Non conosciamo la fonte diretta di Geri: certo è che al XIII secolo risalgono il lai di Henri d’Andeli (Li lais d’Aristote) e uno scritto comico tedesco che racconta come la bella donna di corte Fillide tenesse lontano dagli studi Alessandro, discepolo di Aristotele, con le sue seduzioni, e come il filosofo se ne fosse lamentato con il padre del ragazzo, il re Filippo. Questi proibì al figlio di frequentare Fillide, la quale si vendicò su Aristotele facendolo innamorare e diventare lo zimbello della corte cavalcandolo sulla schiena in giardino (cfr. F. Volpi - G. Boffi, Dizionario delle opere filosofiche, Milano 2000, p. 35). A livello iconografico la scena è rappresentata in un “cofanetto ornato con scene cortesi”, anonimo (scuola francese) della prima metà del XIV secolo; in un boccale medievale di Faenza, XIV secolo, conservato al Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, in un disegno a penna e inchiostro del 1503 di Hans Baldung, detto Grien (1485-1545), conservato al Louvre di Parigi, e in un affresco del Palazzo del Podestà di San Gimignano, del pittore senese Memmo di Filippuccio risalente agli inizi del XIV secolo: cfr. l’articolo di P. Petrioli, Aristotele e Fillide nella pittura senese del Trecento, in «La Diana: rassegna d’arte e vita senese», 2 (1996), pp. 209-230. Il comandamento di Esodo 20, 4 prescrive infatti non facies tibi sculptile; sull’idolatria di Salomone vd. I Re 11, 4-8.
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11. G. Si liceret, Palladis77, non matris tue, sponsus esse optarem; sed sic me tui terror imperii terret et premit, ut mandatis tuis obviam ire formidini sit. Tu tamen, ubi satis illuseris, mihi commeatum dabis. A. Dabo, ubi te exercitibus nostris inertem tepidumque cognovero. Scis illud, militat omnis amans, et habet sua castra Cupido78. Interim lude feliciter paululum: fugit enim velox etas, nec quos tibi dempserit, apponet annos. G. Istud est quod egre fero. Nam fugit interea, fugit irreparabile tempus, singula dum capti circumvectamur amore.79 Dabit et forte, ubi te oculosius80 inspexero, in veri alteriusque Amoris domicilia migrare, qui nobis melioris et alterius civitatis et vite premia pollicetur? 12. A. Ut libebit, perages: modo illo te dignum reddas. G. Permittat, utinam, quia sine illo nil possumus: modo me laboriose vite necessitas non abstrahat ut voles, augendeque subest fortassis affectus. A. Expediret quidem.81 G. Scis tamen quanto animo semper pecuniam contemnendam mihi persuaserim usque forte ad reprehensionem, sed didici nihil esse tam minuti, tam pusilli animi quam amare divitias. Tamen illud mihi optabile est, ut nec mihi divitias det qui potest, nec paupertatem. Nam multa petentibus desunt multa. Bene est, cui Deus obtulit parca, quod satis est, manu.82 13. A. Satis confabulati sumus et advesperascit; illeque noster de Barbarino, quem unice cordialiterque complector, et me et librum nostrum, documentis moralibus referctissimum, immortalitati consecratum exposcit.
11. mihi: michi W.; circumvectamur: circumuentamur ms., corr. W. 12. augendeque: augendeque rei W.; nihil: nichil W.; persuaseris ante corr. ms.; pusilli: pussilli ms., corr. W.; mihi: michi1 W. mihi: michi2 W. 13. advesperassit ms.
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11. G: Se fosse possibile, preferirei essere sposo di Pallade, non di tua madre; ma tanto mi atterrisce e opprime il timore del tuo potere, che ho paura di andare contro i tuoi ordini. Tu, tuttavia, quando ti sarai preso gioco di me a sufficienza, mi darai il congedo. A: Te lo darò, quando ti avrò visto inerte e tranquillo di fronte ai nostri eserciti. Conosci quel verso: ogni amante è un soldato, e Cupido ha i suoi accampamenti. Intanto gioca un po’ senza pensieri: fugge via veloce, infatti, il tempo, e non aggiungerà gli anni che ti ha portato via. G: Questo è quello che non sopporto. Infatti: intanto fugge, fugge il tempo irrecuperabile, mentre ci perdiamo nei dettagli, presi dall’amore. Mi concederai anche per caso, quando ti avrò occhieggiato con più attenzione, di migrare alle dimore di un vero e nuovo amore, che mi assicuri il premio di una vita e di un mondo diversi e migliori? 12. A: Se ti piacerà, fallo; a patto che tu te ne renda degno. G: Che lo permetta finalmente, ché senza quello nulla possiamo. Purché tu voglia che i doveri di una vita indaffarata non mi distraggano, e non si affacci magari il desiderio di arricchirla. A: Di certo converrebbe. G: Tuttavia sai quanto sempre dentro di me sia convinto di tenere in poco conto il denaro, fino forse al rimprovero, ma ho imparato che non c’è niente di così scarso valore, di così meschino quanto l’amare la ricchezza. Tuttavia per me è preferibile che colui che può non mi dia ricchezza né povertà. Infatti molto manca a chi molto chiede. Sta bene quello a cui un Dio con parca mano ha donato ciò che è sufficiente. 13. A: Abbiamo parlato abbastanza e si sta facendo sera; e il nostro Da Barberino, che abbraccio con speciale cordialità, richiede me e il nostro libro, strapieno di lezioni morali e consacrato all’immortalità.
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Pallade (Atena e Minerva) qui è naturalmente simbolo della sapienza e degli studi. Ov. Am. 1, 9, 1. Verg. Georg. 3, 284-285. Oculose, assente nel latino classico, compare in Pascasio Radberto (IX sec.), Expositio in Evang. Matthaei 5, P.L. 120, col. 381A. Il codice attribuisce anche queste parole a Geri. Hor. Carm. 3, 16, 42-44.
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Hec ubi dicta, crepitantibus paribusque alis cum vestro volumine, domine Francisce, pharetratus puer se in celum alis sustulit, penatibus vestris illaturum per reducem celeriter viam; mihique est sic scribendi dicendique et conferendi finem, luce illa, dulci cum sui recordatione largitus.
alis: alaribusque ms.; vestro: nostro ms., corr. W.
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Detto ciò, messer Francesco, il fanciullo con la faretra si alzò in volo verso il cielo, con battito crepitante d’ali e il vostro volume in mano, per riportarlo in fretta ai vostri penati; e a me, così, non rimase che scrivere, riferire e portare a termine l’opera, arricchito da quella luce e dal suo dolce ricordo.
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L’epistola a Gherardo e il modello di lettera
In questa sezione abbiamo pensato di raccogliere due epistole molto diverse fra loro nei contenuti e nella forma, tuttavia accomunabili nel loro rapporto con le fonti classiche: la missiva a Gherardo da Castelfiorentino, infatti, accompagna l’invio di un codice del De bello Gallico, opera per la prima volta attribuita a Cesare quando ancora la cultura contemporanea, fino a Petrarca, Boccaccio, Benvenuto da Imola, continuava a individuarne la paternità in Giulio Celso1; la seconda, invece, costituisce un chiaro esempio di esercitazione retorica, elaborata sulla base delle abitudini scrittorie degli autori antichi, che qui riportiamo solo a titolo esemplificativo. L’epistola a Gherardo, proprio per l’intuizione di Geri sull’opera di Cesare, diventa conferma indiscutibile delle conoscenze dell’aretino sul mondo antico, che non possono essere semplicemente le conoscenze di un appassionato di lettere, improvvisato cultore della materia classica e studioso autodidatta della lingua latina, ma quelle di uno specialista, talmente esperto del linguaggio dei suoi predecessori da apprezzarne le sfumature e da coglierne la chiave interpretativa come solo un filologo sa fare. Il rapporto, dunque, di Geri con i testi classici non è basato solo sulla lettura e sulla riflessione ideologica, ma anche, e soprattutto, sullo studio puntuale e attento della lingua e dei suoi meccanismi, dello stile degli autori, della struttura del discorso, sia esso poetico o retorico, fino alla rielaborazione sistematica delle tematiche e al gioco metatestuale e intertestuale della lingua. Nelle epistole che abbiamo analizzato finora, e che costituiscono tutta la produzione superstite di Geri, talvolta questa capacità di approfondimento e di ricontestualizzazione del modello non emerge, troppo spesso ingabbiata nel tentativo, già umanistico, di riproporre lo schema scrittorio dell’originale, ma la lettera a Gherardo, che pur si sviluppa sulla riproposizione degli autori latini, con il riferimento al De bello Gallico svela in modo inequivocabile il livello raggiunto
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Cfr. Sabbadini 1906-07, pp. 186; 208; Weiss 1948, p. 357, n. 11.
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dalla cultura preumanista aretina, che anche per questo merita una sua collocazione specifica e un suo pieno riconoscimento nella storia della formazione del movimento umanista. Geri d’Arezzo a Gherardo da Castelfiorentino L’epistola si apre proprio con l’elogio di Cesare, in cui Geri individua l’esempio dell’uomo di governo, capace di conciliare l’esperienza e l’abilità militare con la passione per le lettere, secondo una visione di chiara matrice classica, già sviluppata da Omero e ripresa da Virgilio, Stazio e Plinio il Giovane, coi quali diventa un vero e proprio topos letterario. L’immagine, infatti, dell’uomo politico cultore dell’attività letteraria e abile condottiero emerge chiaramente nelle Epistole di Plinio, che così sintetizza: facere scribenda aut scribere legenda, espressione recuperata da Geri nella prima parte della lettera con variazione chiastica e sostituzione, che pare forzato tentativo di allontanamento dal modello, del verbo facere con peragere: scribere legenda quam scribenda peragere. L’immagine di Cesare dominatore del mondo è, inoltre, costruita su espressioni tipiche dello stile elevato e del linguaggio epico, in particolare emerge una ripresa costante dell’Eneide virgiliana (Verg. Aen. I, 287: famam qui terminet astris, rielaborata astris terminans famam); mentre, la parte centrale della lettera, in cui Geri biasima i suoi contemporanei, capaci solo di apprezzare il valore militare disprezzando l’interesse letterario, sentito come una perdita di tempo, assurge più al linguaggio della satira, più adatto al contenuto polemico (da Giovenale Sat 7, 20 l’espressione: que sola et unica virtus animi est nobilitas). In questo contesto si inserisce il tema della nobiltà, che costituisce il nucleo tematico della lettera. Per Geri la nobiltà consiste nell’esercizio della virtù, secondo l’opinione diffusa nella cultura del Duecento e poi dilagante nell’umanesimo2: il pensiero di Geri trova le sue radici in
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Basteranno su questo tema i rimandi a U. Carpi, Dante e la nobiltà, Pisa 2003, a F. Delle Donne, Una disputa sulla nobiltà alla corte di Federico II di Svevia, in «Medioevo Romanzo» 23 (1999), pp. 3-20 e all’infinita letteratura umanistica de nobilitate su cui già riferiva nel 1948 A. Altamura, Il concetto umanistico della nobiltà e il «De nobilitate» del Galateo, in «Archivio Storico Pugliese» 1, pp. 84-89, e ora D. Canfora nell’introduzione a Poggio Bracciolini De vera nobilitate, Roma 2006.
L’epistola a Gherardo e il modello di lettera
parte nella letteratura classica, e soprattutto nella produzione epistolare di Seneca e nelle Satire di Giovenale, fino a Boezio, ma il tema troverà sviluppi importanti nelle tesi dantesche sulla nobiltà sviluppate nel IV trattato del Convivio, in cui assume particolare rilievo il nucleo tematico gentilezza-nobiltà-virtù e da cui Geri sembra riprendere il rifiuto del carattere agnatizio della nobiltà e, anche se in modo più attenuato, l’idea della necessità di far germogliare i generosi semi di virtù, che costituiscono l’essenza unica e vera della nobiltà. Giansante-Marcon osservano che, sebbene sia evidente la presenza di Dante nel pensiero di Geri, tuttavia l’orientamento verso le fonti classiche finisce di fatto col soppiantare l’autorità dantesca e l’impostazione stilnovistica della questio de nobilitate, a conferma, a loro avviso, dell’impostazione già umanistica di Geri, che nel rifiuto della tradizione letteraria volgare e nel recupero del modello antico afferma l’esigenza di un rinnovamento del codice espressivo del contemporaneo latino oratorio e cancelleresco. La seconda lettera è invece un modello epistolare, trasmesso da un manoscritto diverso da quello che tramanda le altre opere di Geri e inserito all’interno di una raccolta scolastica di “matrici” di lettere. è un documento di notevole importanza come attestazione della pratica didattica di Geri (o dell’uso di sue epistole nella pratica didattica) e quindi del suo lagame alla cultura medievale dell’ars dictandi, dalla quale invece nelle altre lettere si distacca in modo netto e consapevole.
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1. Domino Gerardo de Castro Florentino iuris perito. Non minus Cesaris scripta quam bella lectitans miror; habuit enim prima cum paucis, secunda cum multis, nec minus ipse domitor mundi exteras pugnacissimas nationes regionesque tremefecit, imperium Oceano, astris terminans famam1, quam Comentariis suis Belli Gallici, quod geminis lustris feliciter confecit, scriptores, quamquam facundissimos, alti sui stili operositate preterivit. Nec inferius putavit tantus princeps scribere legenda quam scribenda peragere, illudque perditissimum tempus putabat, quo vel bellis aut scriptis operam non dabat. 2. Quod qui scire voluerint, Tranquillum de Cesaribus2 volvant et Ciceronianas ad illum luculentissimas orationes3, omnem quin ymo Romanam hystoriam, et tunc perpendent quam ritu suo secundum illorum temporum superstitiosam sectam antiquitas meritissime Iulium inter divos suos referens consecravit. 3. Nostra vero etas, domine Gerarde, tales longo superbientes sanguine parturit, ut indigere putent litteras noscere habeantque contemptui si quem regni ductorem studiis vacare cognoverint, longe decepti, si scrutamur, scientiam armis inimicam arbitrantur. Transeo reges imperialemque fortunam, quibus ipsa felicitas in multis veniam negat et prestat; venio ad inferiores gradus viros, quos non vera, que sola et unica virtus animi est nobilitas4, sed ficta et mentita ex antiquitatis utcumque divitiarum cumulu, isto nobilitatis vocabulo insignivit5. Quid in illis splendide mentis elucet, que semina surgunt generosa virtutum, quid morum? Non considerantes illud Stemmata quid faciunt, quid prodest, Pontice, longo sanguine censeri, pictos ostendere vultus
1. pugnacissimas: pugnacissimus ms., corr. W. 2. Romanam hystoriam: romana hystoria ms., corr. W. 3. noscere: nosce ms., corr. W; cumulu: cumulus ms., corr. W; utcumque: utrumque et ms., corr. W.; Stemmata: Stema ms., corr. W.
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Geri d’Arezzo a Gherardo da Castelfiorentino Biblioteca Corsiniana, Roma, Ms. 33 e 27, ff. 148 v-149 v 1. A messer Gherardo da Castelfiorentino, giurista. Resto incantato dagli scritti di Cesare, che amo leggere, non meno che dalle sue guerre. Infatti, condivise i primi con pochi, le seconde con molti; e proprio lui, conquistatore del mondo, fece tremare le bellicosissime nazioni e i popoli stranieri, mettendo a confine dell’impero l’oceano e alla sua fama le stelle, non meno di quanto superò, con la cura del suo stile alto, nella composizione dei commentari della guerra in Gallia, che portò facilmente a termine in due lustri, scrittori di professione, seppur molto abili. Né un condottiero così importante ritenne lo scrivere cose da leggere mestiere più umile del compiere imprese da scrivere. E riteneva tempo completamente perso quello durante il quale non si occupava né delle guerre né degli scritti. 2. Coloro che volessero sapere queste cose, scartabellino le opere di Svetonio sui Cesari e le splendide orazioni ciceroniane a lui indirizzate, o addirittura tutta la storia romana, e allora potranno valutare bene quanto giustamente, con il loro rito conforme alla dottrina religiosa di quei tempi, gli antichi consacrarono Cesare, annoverandolo tra i loro dèi. 3. Di certo la nostra epoca, caro Gherardo, ha partorito uomini di natura tanto superba da ritenere la conoscenza della letteratura cosa da poveri, e da permettersi di prendere in giro un comandante di un regno che abbiano saputo dedito allo studio; e, di gran lunga fuori strada a ben vedere, ritengono la cultura nemica delle armi. Non mi soffermo sui re e sulla sorte degli imperatori, ai quali il successo stesso nega e garantisce perdono in molte occasioni; vengo, piuttosto, agli uomini di grado inferiore, insigniti del titolo di nobiltà, non quella vera, che è la nobiltà, sola e unica virtù dell’animo, ma quella falsa, che deriva in qualsiasi modo dall’accumulo delle ricchezze e delle antichità. Cosa risplende nel loro animo, quale progenie ricca di virtù ne nasce? Quali costumi? Essi non considerano questo: Che cosa fanno i titoli nobiliari, a che cosa giova, Pontico, essere giudicati per il sangue, mostrare i volti dipinti degli 1 2 3 4 5
Verg. Aen. 1, 287: famam qui terminet astris. Cfr. Svet. Div. Iul. 56. Si allude alle cosiddette orazioni cesariane, la Pro Marcello, la Pro Ligario e la Pro rege Deiataro. Cfr. Iuv. Sat. 8, 20. Osserva Weiss come questi brevi accenni alla natura della nobiltà costituiscano una preziosa eco alla discussione del quarto libro del Convivio dantesco e dimostrino quanto fosse allora attuale la questione sul concetto di nobiltà. Cfr. Weiss in Cardini 2004, p. 123, n. 7.
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maiorum et stantes in curribus Emilianos Si coram Lepidis male vivunt?6 4. Satisque putant nostri si canum nemorosis latratibus indulgent aut in aucupiis dies perdant, solo famose domus cognomine contenti. Non tamen ista contemno cum animus sepe motu corporis excitetur. Sed cuperem nobiles tales, ubi animo vacationem dederint, litteras amare, colere et exercere virtutes, ut quam nesciunt morum discerent reformationem. In ipsis etiam venatibus pugillares non sunt alieni, quos Plinium Secundum Veronensem7, clarissimum oratorem, de cuius stilo libenter furor, dum sedebat ad retia, apros captabat, venabula disponebat, exercuisse legi; dicebatque illud ocium, quod venatori datur, magna cogitationis incitamenta esse et Dianam non magis montibus quam Minervam8 inerrare9. 5. Sed ne, dum licenter vago, satiram scribere videar (licet illam hoc seculo non scribere difficile sit10, in tanta maxime bonorum egestate, qua premimur) ad Cesaris Commentarios redeo, quos per gerulum11 meum ad vos mitto, summa, si bene auguror, cum affectione visendos, quorum vos participem facio, tanto libro dignissimum. Et licet satis sit, nihil tamen est satis quod dignus accepit; sitque cure vobis ne in alicuius manus dilabantur, qui illos thuris aut piperis apothecarios faciat, Ylerdam aut Uticam, ut utar Horatii verbo12, sicut ineptas cartas transmictendos. Sed frustra id vereor: iam enim talem elegi personam cui dilectissimum mihi librum tute credendum putaverim, persuadens eque vobis ac mihi13 ut enitamur aliquid agere quo nos post mortem vixisse testemur.
5. vago: vagor ms., corr. W.; Commentarios: Commenctarios W.; nihil: nichil corr. W.; Horatii: oratii ms., corr. W.; mihi: michi1 corr. W.
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Iuv. Sat. 1, 30. Gerulus in Plauto Bacch. 1002, Oratio Epist. 2, 2, 72 e Apuleio Met. 6, 18. È possibile che il termine adombri un gioco di parole col nome dell’autore. Hor. Epist. 1, 20, 13. Ilerda (Lerida) è città della Spagna Tarragonese, Utica è la celebre patria di Catone, sulle coste dell’Africa. Hor. Epist. 1, 20, 13.
L’epistola a Gherardo e il modello di lettera
avi e gli Emiliani che stanno sui carri… se vivono male agli occhi dei Lepidi? 4. E i nostri ritengono che basti abbandonarsi ai latrati dei cani nei boschi o perdere giorni a caccia di uccelli, felici soltanto del cognome famoso della loro famiglia. Tuttavia non disprezzo queste attività, essendo comunque l’animo stimolato dal movimento del corpo; ma mi piacerebbe che questi nobili, subito dopo aver dato libertà al loro spirito, si dedicassero con passione alla letteratura, coltivassero ed esercitassero le virtù, per capire come cambiano i costumi, cosa che non sanno. Anche i cacciatori dovrebbero conoscere le tavolette su cui Plinio Secondo di Verona, famosissimo oratore (al cui stile mi ispiro volentieri), ho letto che si esercitava, mentre sedeva alle reti, catturava cinghiali, sistemava gli spiedi; e lui diceva che quell’ozio, che era concesso al cacciatore, dava grandi stimoli alla riflessione, e che Diana vagava nei monti non più di Minerva. 5. Ma perché non sembri, mentre divago liberamente, che stia scrivendo una satira (per quanto in quest’epoca, in cui siamo oppressi da una grande povertà di valori, non sia difficile farne) ritorno ai commentari di Cesare, che attraverso il mio personale portalettere vi mando da visionare, spero con la massima attenzione, e di cui vi faccio partecipe, voi assai degno di cotanto libro. E per quanto questo sia abbastanza, tuttavia niente di ciò che una persona degna ha ricevuto è sufficiente. Abbiate cura che non finiscano nelle mani di uno che ne faccia carta da magazzino, per l’incenso o il pepe, o, come dice Orazio, roba da mandare a Lerida o Utica, come cartacce senza valore. Ma so di preoccuparmi senza motivo: ho scelto, infatti, una persona a cui ho ritenuto di poter affidare ad occhi chiusi questo libro a me tanto caro, esortando tanto voi quanto me ad adoperarsi per fare qualcosa con cui dimostrare, dopo la morte, di aver vissuto.
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Iuv. Sat. 8, 1-3, 9. Il testo di Giovenale ha vivitur. Weiss osserva giustamente che chiamare Plinio Plinium Secundum Veronensem rende probabile che Geri conoscesse l’Adnotatio de duobus Pliniis di Giovanni Mansionario, testo che originò l’errore che i due Plini fossero veronesi: cfr. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci, vol. II, p. 90. Tra l’altro, essendo l’Adnotatio posteriore alla Historia imperialis del Mansionario, scritta tra il 1306 e il 1320, possiamo datare l’epistola di Geri successivamente al 1306 e ritenere probabile che il codice di Plinio visto da Geri contenesse l’Adnotatio, trattatello spesso affiancato nei manoscritti all’epistolario di Plinio. Nota ancora Weiss che un codice dell’epistolario pliniano era ad Arezzo nel 1338 e che l’epistolario era pure conosciuto a Firenze da Francesco Nelli: vd. Sabbadini, p. 174, n. 11; Weiss in Cardini 2004, p. 124, n. 10 e Schmidt 2000, p. 157. Il riferimento è qui ovviamente alla Minerva protettrice delle arti, anche di quelle poetiche e letterarie. Plin. Iun. Epist. 1, 6, 1-3.
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GERI D’AREZZO
Domini Geri de Aretio. Venerabili amico suo plurimum honorando, domino Viviano, suus Cola pro libito copiam prosperorum. Quantas referendarum gratiarum conceperim actiones non explico, fatigarem etenim calamum et abunde non dicerem, nimietate convictus. Ambaxiatam14 meam et licteras consanguineis affectuose secundum preces porrexistis, ut sentio effectum ut spero proficuum habituras. Plura non dico; supplet namque curti sermonis compendium grandis cordis affectio circa singula semper que honorem vestrum respicerent et profectum. Sum vester et cetera.
Aretio: Aritio ms., corr. W.; copiam: cupienda W.; post prosperorum lacunam suspexit W.; non explico ms., add. W.; porrexistis: porrexitis ms., corr.; porrexisti ms., corr. W.; ut: et ms., corr. W.; grandis: et grandis W.; singula: singula singula ms. ante corr.; honorem: honorum ms., corr. W.
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L’epistola a Gherardo e il modello di lettera
Geri d’Arezzo, modello di lettera Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II. IV. 312, f. 75v Di messer Geri d’Arezzo. Al suo venerabile amico, messer Viviano, degno di molteplici onori, il suo Cola augura con piacere prosperità in abbondanza. Non sto a dire quanti ringraziamenti vorrei porgere, e davvero consumerei la penna e non direi abbastanza, vinto dall’eccesso. Avete recapitato il mio messaggio e le lettere ai miei cari con affetto, secondo le mie preghiere, che come sento e come spero sortiranno un buon esito. Di più non dico; di certo l’affetto di un grande cuore supplisce sempre alla stringatezza di un discorso incompleto in merito alle singole cose che abbiano a che fare col vostro onore e i suoi frutti. Sono vostro et cet.
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Ambaxiata, termine comune nel latino trecentesco, è invece estraneo al latino classico. Ambaxiator è attestato nelle epistole di papa Adriano I (Ep. 91, fine VIII sec.) e dell’imperatore Rodolfo I (Ep. 42, fra 1273 e 1291).
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Appendice Testimonianze su Geri d’Arezzo (dall’ed. Weiss)
I. Documenti d’archivio 1) Napoli, Archivio di Stato, Registro angioino 267, f. 84v, del 24 novembre 1327 (edito in R. Bevere, La signoria di Firenze, tenuta da Carlo figlio di Roberto negli anni 1326 e 1327, «Archivio storico per le province napoletane», XXXVI (1911), p. 422) oggi distrutto. Atto di Carlo, duca di Calabria. «Gerius Federici, de Arecio, iuris civilis profexor, advocatus comunis Florentie, in omnibus causis et litibus dictum comune tangentibus, necnon ecclesiarum, pauperum, pupillorum, viduarum et miserabilium personarum» per un anno, col compenso di sessanta libbre di fiorini piccoli al mese, da servire anche al mantenimento di un notaio e di due «famuli». 2) Arezzo, Archivio Comunale, Atto del dicembre 1339 (cfr. Weiss in R. Cardini, Petrarca e i padri della chiesa, Firenze 2004, p. 114). «Ser Johannes olim domini Geri de Aretio». 3) Arezzo, Archivio della Confraternita di Santa Maria dell’Oriente detta di Murello, Protocollo VII di Ser Guido di Rodolfo, ff. 96r e 97v, del 1343 (cfr. Weiss in R. Cardini, Petrarca e i padri della chiesa, Firenze 2004, p. 114). «Ser Johannes Domini Gerii».
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4) Arezzo, Archivio di Stato, Giudici e Notai 1, f. 27v, del 1346 (cfr. Weiss in R. Cardini, Petrarca e i padri della chiesa, Firenze 2004, p. 114). «Ser Johannes olim domini Gerii civis aretini». 5) Arezzo, Archivio di Stato, Protocolli antichi notai 3 (di ser Marco del fu Baldo Tancredi d’Arezzo), f. 1r, del 1346 (edito in R. Black, Studio e scuola in Arezzo durante il Medioevo e il Rinascimento. I documenti d’archivio fino al 1530, Arezzo 1996, pp. 193-194). Il priore della chiesa aretina di San Filippo, trovandosi per motivi di studio a Bologna, è menzionato come assente alla presenza di due testimoni, tra cui Giovanni di Geri d’Arezzo. «… presentibus presbitero Ceccho rectore ecclesie Sancti Angeli de Antria et Johanne Gerii de Aretio». 6) Firenze, Archivio di Stato, G. 837 (Notarile) Protocollo I di Ser Guido di Rodolfo, f. 46r, del 1349 (cfr. Weiss in R. Cardini, Petrarca e i padri della chiesa, Firenze 2004, p. 114). «Dominus Fredericus olim domini Gerii ser Frederici de Aretio». 7) Arezzo, Archivio Comunale, Atto del 1349 (cfr. Weiss in R. Cardini, Petrarca e i padri della chiesa, Firenze 2004, p. 114). «Federigus olim domini Gerii ser Federigi de Aretio». II. Antichi inventari 1) Inventario della Biblioteca del Castello di Pavia compilato nel 1426 (edito in G. D’Adda, Indagini storiche, artistiche e bibliografiche sulla libreria Visconteo-Sforzesca del Castello di Pavia, parte prima, Milano 1875, p. 9).
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appendice - testimonianze su geri d’arezzo
Epistole Geni de Aretio coperte corio rubeo hirsuto Incipiunt in principio libri in xpo perfectionis tue limine, et finiuntur credituro faciat fidem. seg. DccV.
2) Inventario della biblioteca del Castello di Pavia compilato nel 1459 e nel 1469 (edito in G. Mazzatinti, Inventario dei codici della biblioteca Visconteo-Sforzesca redatto da Ser Facino da Fabriano nel 1459 e 1469, «Giornale storico della letteratura italiana», I (1883), p. 51). Epistole Ghini de Aretio310. III. Testimonianze letterarie 1) Coluccio Salutati, lettera a Bartolomeo Oliari, cardinale di Padova, Firenze, 1 agosto 1395 (edita in Epistolario di Coluccio Salutati, ed. F. Novati, vol. III, p. 84). «Emerserunt parumper nostro seculo studia litterarum; et primus eloquentie cultor fuit conterraneus tuus Musattus Patavinus, fuit et Gerius Aretinus, maximus Plinii Secundi oratoris, qui alterius eiusdem nominis sororis nepos fuit, imitator». 2) Ibidem (Epistolario di Coluccio Salutati, ed. F. Novati, vol. III, p. 88). Coluccio Salutati parla di coloro che hanno raccolto le proprie lettere: «…. fecit et hoc idem seculi nostri decus, Franciscus Petrarca; fecerat et ante eum Gerius Aretinus». 3) Coluccio Salutati, lettera a Francesco Zabardella, Firenze, 30 agosto 1400 (edita in Epistolario di Coluccio Salutati, ed. F. Novati, vol. III, pp. 408-10).
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«Duos doctores memini, vir insignis, extra gregem inter iuris consultissimos numerande, qui stilo et eloquentia hoc quartodecimo seculo claruerunt; unus, scilicet, compatriota tuus Albertinus Mussatus, cuius admiramur hystorias et habemus poemata; alter fuit Gerius Aretinus, cuius versus et epistolas satirasque prosaicas non mediocriter commendamus». 4) Francesco Zabardella, lettera a Coluccio Salutati, Monselice (?), settembre 1400 (edita in Epistolario di Coluccio Salutati, ed. F. Novati, vol. IV, p. 350). «quale nempe illud, ut geminis iuris preceptoribus, quos solos te meminisse contestaris, hoc quaternodeno seculo eloquentia floruisse, alteri, conterraneo meo, Alberto Mussatto, reliquo Gerio Aretino, non modo comparem me statuas, sed, ut verbo utar, longe anteponas». 5) Coluccio Salutati, lettera a Giovanni Conversini da Ravenna, Firenze, 24 maggio 1401 (?) (edita in Epistolario di Coluccio Salutati, ed. F. Novati, vol. III, pp. 512-13). «… quam relegens non invideo Petrarce nostro quod Mariam Puteolanam quasi Camillam vel Amazonum aliquam digna commemoratione descripserit, nec aretino Gerio me postpono, qui mirabiliter tam prosa quam metro legentibus ante oculos posuit adolescentulum quendam, qui ligatam pedi dextero dimicatoriam spatulam umbonemque sinistro portans, manibus ambulans, in quas se strenue, porrectis in celum pedibus erigebat, gladiatorios concursus et ictus ad iuste dimicationis artificium, vincens, quod plus est, adversarium, intuentibus exhibebat; nec homini, qui contra se pugnabat rectus, cesim punctimque feriendo cedebat. Nam licet ambo stili maiestate me superent, novitate tamen materie non trascendunt». 6) Lapo da Castiglionchio a Lorenzo Mehus (edita in Epistola o sia ragionamento di messer Lapo da Castiglionchio celebre giureconsulto del secolo XIV colla vita del medesimo composta dall’abate Lorenzo Mehus, Bologna 1753, p. 78).
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appendice - testimonianze su geri d’arezzo
«E se questa opinione fosse vera, avrebbe luogo quella, che uno eccellente dottore di Leggi, il quale fu chiamato Messer Geri d’Arezzo, il quale ancora fu grande autorista, e morale, disse in una sua Epistola, la quale scrisse a uno suo amico di questi due nomi Guelfo, e Ghibellino, in effetto disse che la nostra età era più degna di reprensione, che quella de’ Pagani, perciocché s’eglino adoravano gli idoli, eglino vedeano, e sentiano che quelle alcuna volta loro davano risponsi. Ma la nostra età adora questi due nomi Guelfo, e Ghibellino, e non veggono loro statue, né sentono loro risponsi. 7) Benvenuto da Imola, Commento alla Divina Commedia (edito in Benvenuti de Rambaldis de Imola comentum super Dantis Aldigherii Comoediam, ed. J.F. Lacaita, vol. IV, Florentiae 1887, p. 62). «… quid mulierum tuscarum mores referas; de quibus Gerius de Aretio satyram fecit ad imitationem Apuleii?»
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Finito di stampare nel mese di Luglio 2009 presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A. Via A. Gherardesca • 56121 Ospedaletto • Pisa Tel. 050 313011 • Fax 050 3130300 www.pacinieditore.it