Sul contenuto c.d. «negativo» del testamento tra formula descrittiva e categoria precettiva 9788855293143, 9788855293501

L'espressione «contenuto c.d. negativo del testamento» sovente, per non dire sempre, è sovrapposta alla clausola di

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Negli ultimi tempi la dottrina civilistica ha conosciuto un rinno-vato interesse e una notevole sensibilità per il diritto succe
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Francesco Meglio Sul contenuto c.d. «negativo» del testamento tra formula descrittiva e categoria precettiva

Quaderni dell’Archivio Giuridico Sassarese

Collana diretta da Giovanni Maria Uda

Comitato scientifico Luigi Balestra, Francesco Capriglione, Maria Rosa Cimma, Claudio Colombo, Maria Floriana Cursi, Andrea Di Porto, Iole Fargnoli, Roberto Fiori, Lauretta Maganzani, Dario Mantovani, Maria Rosaria Maugeri, Fabio Padovini, Salvatore Patti, Andrea Zoppini

Quaderni dell’Archivio Giuridico Sassarese

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Francesco Meglio

Sul contenuto c.d. «negativo» del testamento tra formula descrittiva e categoria precettiva

© 2022, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma

www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected]

Quaderni dell’Archivio Giuridico Sassarese ISSN: 2724-1769 n. 7 – giugno 2022 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-314-3 ISBN – Ebook: 978-88-5529-350-1

Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: David Wilkie, Reading the Will, 1820

A nonna, eredità di esempio, e a Clorindelena, mia moglie, metà del mio cuore e mèta del mio cammino

Che a volte agli esseri umani basta restare seduti in un posto per provare dolore. Che la vostra preoccupazione per ciò che gli altri pensano di voi scompare una volta che capite quanto di rado pensano a voi. Che esiste una cosa come la cruda, incontaminata, immotivata gentilezza. (D.F. Wallace, Infinite Jest, 1996, tr. di Edoardo Nesi, Torino, 2006, p. 243)

La solitudine è così, non devi mica essere solo per sentirla, ti prende anche in mezzo alla folla, perché quando ti senti solo davvero non è che ti mancano tante persone, te ne manca una, ma tanto. (F. Genovesi, Il mare dove non si tocca, Milano, 2017, p. 114)

Il carattere di chi vuole ereditare da qualcuno rientra nella tipologia del compiacente: non siamo mai meglio adulati, obbediti, seguiti, circondati, curati, trattati con riguardo, coccolati nel corso della nostra vita che da chi crede di trarre vantaggi dalla nostra morte e desidera che essa avvenga. (J. de La Bruyere, I caratteri, 1688)

RINGRAZIAMENTI

L’indagine sviluppata in questo contributo è il risultato degli studi intrapresi nel corso del dottorato di ricerca e approfonditi anche successivamente. Il lavoro nasce con l’obiettivo di saggiare la portata dogmatica dell’espressione «contenuto c.d. negativo del testamento», della quale v’è in seno alla dottrina una traccia piuttosto scarna, suggerendone perciò una disamina capace di confermare o smentire la solidità. Se tale gravoso compito è stato raggiunto spetterà al lettore stabilirlo. L’auspicio è che, ad ogni modo, il lettore – più o meno avvezzo a questi temi – possa intravedere la passione che muove chi intraprende il periglioso e affascinante cammino della ricerca. Venendo a concludere, sento la necessità di svolgere alcuni ringraziamenti. In primo luogo saluto cordialmente il Prof. Luigi Nonne. Conosciuto grazie alla lungimirante segnalazione del Prof. Giovanni Perlingieri in occasione della recensione del suo lavoro monografico – pubblicata sulla rivista Diritto delle successioni e della famiglia, 2019, 2, p. 648 ss. –, è nata una collaborazione davvero arricchente, in una dialettica garbata e proficua di spunti. Il mio grazie va altresì all’Editore per aver ospitato questo lavoro, soprattutto per la fiducia riposta nella mia persona. Grazie anche al prestigioso Archivio Giuridico Sassarese, edito dal medesimo Editore, e al suo Direttore Scientifico, il Prof. Giovanni Maria Uda, per aver positivamente valutato questo contributo. Altri Grazie si impongono. Ai miei genitori, che esprimono il loro volermi bene in un sol modo: per facta concludentia.

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RINGRAZIAMENTI

A mia sorella e a mio fratello, per avermi donato i miei nipoti (Riccardo e Greta) e, con essi, un dolce preludio della genitorialità. Ai miei suoceri, per l’affetto filiale che mi riservano. Solitamente non si specificano le ragioni di una dedica. Non è questo il caso. Una parte di queste pagine nasceva mentre nonna, nella sera della sua esistenza, mi lasciava una lezione di vita e di amore. Alla sua caparbietà di cui mi onoro di essere erede. Infine, ma prima nel mio cuore, l’altra dedica è a Clorindelena, mia moglie, sorgente di tutte le cose che contano davvero. All’amore che ci unisce, e ai momenti che ci aspettano, pronti a essere impressi sul libro della vita.

INDICE

SUL CONTENUTO C.D. «NEGATIVO» DEL TESTAMENTO TRA FORMULA DESCRITTIVA E CATEGORIA PRECETTIVA

1.  Un testatore illustre e una volontà inequivoca: la suggestione da cui muove la presente indagine 2.  Il fraseggio normativo dell’art. 587 c.c.: i termini della questione «testamento» 2.1.  Segue. Continuità e discontinuità nell’avvicen   damento tra l’art. 759 c.c. 1865 e l’attuale for   mulazione, passando per i lavori preparatori   del codice vigente 3.  Cenni sull’atto mortis causa e sulle sue preminenti e più perspicue caratteristiche: unilateralità, unipersonalità, revocabilità e non recettizietà 4.  La disputa circa la natura dell’atto a causa di morte, tra negozio giuridico e atto di indirizzo – oggettivo e soggettivo – della successione 5.  I profili causali del testamento quale proiezione della querelle sulla causa del negozio giuridico, tra concezione soggettiva e concezione oggettiva 5.1.  Segue. La tesi c.d. unitaria: il testamento quale   atto unificato sotto il piano funzionale, con   conseguente irrilevanza della causa della sin   gola disposizione 5.2.  Segue. La tesi c.d. atomistica: il testamento   quale atto cornice e le disposizioni testamen   tarie quali negozi giuridici autonomi

p. 19 p. 29

p. 33 p. 41 p. 49 p. 55

p. 57 p. 61

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6.  Il binomio tipicità-atipicità delle disposizioni testamentarie. Superamento dell’impostazione replicante il distinguo anche in sede testamentaria e critica alla tesi della tassatività delle disposizioni non patrimoniali 7.  Verso una nuova (e diversa) declinazione del contenuto del testamento: il passaggio dall’attribuzione alla regolamentazione, al fine di riprendere l’esclusione e i divieti 8.  L’indegnità e la sospensione dalla successione ex art. 463-bis c.c., lungo il cammino verso la diseredazione 9.  La tradizionale sovrapposizione delle disposizioni negative con la clausola c.d. di diseredazione. Critica a tale ricorrente impostazione e prospettiva de jure condendo 10.  Il fondamento (positivo e non solo) delle disposizioni testamentarie negative, rintracciato nel potere del testatore di regolamentare i propri interessi 11.  Analisi di alcune delle disposizioni testamentarie negative e possibili criteri di classificazione 12.  Le disposizioni testamentarie a contenuto negativo e il giudizio di meritevolezza: necessità di un vaglio «rinforzato» 13.  Osservazioni conclusive BIBLIOGRAFIA

p. 64

p. 76 p. 86

p. 97 p. 111 p. 115 p. 128 p. 134 p. 139

SUL CONTENUTO C.D. «NEGATIVO» DEL TESTAMENTO TRA FORMULA DESCRITTIVA E CATEGORIA PRECETTIVA

Sommario: 1. Un testatore illustre e una volontà inequivoca: la suggestione da cui muove la presente indagine. – 2. Il fraseggio normativo dell’art. 587 c.c.: i termini della questione «testamento». – 2.1. Segue. Continuità e discontinuità nell’avvicendamento tra l’art. 759 c.c. 1865 e l’attuale formulazione, passando per i lavori preparatori del codice vigente. – 3. Cenni sull’atto mortis causa e sulle sue preminenti e più perspicue caratteristiche: unilateralità, unipersonalità, revocabilità e non recettizietà. – 4. La disputa circa la natura dell’atto a causa di morte, tra negozio giuridico e atto di indirizzo – oggettivo e soggettivo – della successione. – 5. I profili causali del testamento quale proiezione della querelle sulla causa del negozio giuridico, tra concezione soggettiva e concezione oggettiva. – 5.1. Segue. La tesi c.d. unitaria: il testamento quale atto unificato sotto il piano funzionale, con conseguente irrilevanza della causa della singola disposizione. – 5.2. Segue. La tesi c.d. atomistica: il testamento quale atto cornice e le disposizioni testamentarie quali negozi giuridici autonomi. – 6. Il binomio tipicità-atipicità delle disposizioni testamentarie. Superamento dell’impostazione replicante il distinguo anche in sede testamentaria e critica alla tesi della tassatività delle disposizioni non patrimoniali. – 7. Verso una nuova (e diversa) declinazione del contenuto del testamento: il passaggio dall’attribuzione alla regolamentazione, al fine di riprendere l’esclusione e i divieti. – 8. L’indegnità e la sospensione dalla successione ex art. 463-bis c.c., lungo il cammino verso la diseredazione. – 9. La tradizionale sovrapposizione delle disposizioni negative con la clausola c.d. di diseredazione. Critica a tale ricorrente impostazione e prospettiva de jure condendo. – 10. Il fondamento (positivo e non solo) delle disposizioni testamentarie negative, rintracciato nel potere del testatore di regolamentare i propri interessi. – 11. Analisi di alcune delle disposizioni testamentarie negative

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e possibili criteri di classificazione. – 12. Le disposizioni testamentarie a contenuto negativo e il giudizio di meritevolezza: necessità di un vaglio «rinforzato». – 13. Osservazioni conclusive.

1. Un testatore illustre e una volontà inequivoca: la suggestione da cui muove la presente indagine «Attenzione: privata, italiana, soggetta ad attacchi, può diventare una Coop. Questo non deve succedere». Con queste parole terminano le ultime volontà di Bernardo Caprotti, patron di Esselunga, che, unitamente all’ormai famoso lascito di settantacinque milioni di euro in favore della segretaria, hanno riempito le pagine dei giornali. Questa frase conclusiva si impone all’attenzione dello studioso delle successioni per causa di morte per più di una ragione1. 1   Sul rapporto tra autonomia privata e testamento v., tra gli altri, G. BoniliAutonomia negoziale e diritto ereditario, in Riv. not., 2000, p. 797 e A. Natale, In tema di autonomia privata nel diritto ereditario, in Fam. pers. succ., 2011, 10, p. 645 ss., il quale sottolinea che i princìpi enunciati agli artt. 41 e 42 Cost. rappresentano le linee guida anche in materia di diritto ereditario, ferma l’esigenza di individuare le modalità con cui realizzare la trasmissione della titolarità del patrimonio. La circostanza che l’autonomia non origina da un solo principio è condivisa anche da Cass., 19 giugno 2009, n. 14343, in Rass. dir. civ., 2011, 3, p. 992, con nota di G. Caso, Fondamento costituzionale del dovere di ospitalità e conformazione dell’autonomia privata, che si esprime così: «poiché ogni interesse è correlabile ad un valore, […] il fondamento costituzionale dell’autonomia negoziale va individuato alla luce di molteplici supporti normativi, in ragione della natura degli interessi affidati alle singole esplicazioni di autonomia e dei valori costituzionali ai quali questi interessi sono riconducibili. […] Pertanto, piuttosto che individuare “il” fondamento costituzionale dell’autonomia contrattuale, da ricercare sono “i” fondamenti costituzionali dell’autonomia negoziale», la quale testualmente riprende le argomentazioni sostenute da P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, 3ª ed., Napoli, 2006, p. 329; Id. e C. Donisi, in P. Perlingieri et alii, Manuale di diritto civile, 8ª ed., Napoli, 2017, p. 452. Ed allora, nell’art. 41 Cost. si rinverrà il fondamento per la tutela della sicurezza, della libertà e della dignità umana; negli artt. 2, 13 e 32 Cost. per la cura della salute propria o altrui; negli artt. 2, 29 e 30 Cost. per le esplicazioni di autonomia, a contenuto patrimoniale e non, che hanno la loro ragion d’essere nella famiglia; ancora, nell’art. 18 Cost. per la tutela del diritto di associarsi; negli artt.

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Lo studio del contenuto del testamento2 è stato tradizionalmente dominato dalla convinzione che, in fondo, l’atto di ultima volontà3 non abbia che il solo fine di attribuire beni in favore di congiunti o di estranei attraverso l’istituzione di erede o di legato. Ogni riflessione relativa al contenuto c.d. negativo – espressione di cui, nel presente studio, si proverà ad appurare la portata, verificando se si tratti di una pura formula descrittiva o, piuttosto, di una nozione rilevante sul piano teorico e precettivo – appariva fuori luogo e per

1 e 35 ss. Cost. per le estrinsecazioni di autonomia contrattuale nell’àmbito dei rapporti di lavoro subordinato e così via. Per una verifica relativamente alla materia in discorso, v. P. Perlingieri, La funzione sociale del diritto successorio, in Rass. dir. civ., 2009, p. 135 ss. 2   Numerosi sono i contributi dottrinali relativi al testamento e alla successione testamentaria. Cfr., almeno, M. Allara, Il testamento (Riproduzione dell’edizione del 1936), Napoli, 1978; Id., La successione testamentaria, in Corso di diritto civile, Volume I, Torino, 1944; Id., Principi di diritto testamentario, cit., p. 25 ss.; G. Azzariti, Le successioni e le donazioni, Padova, 1982; G. Azzariti, Successioni (diritto civile): successione testamentaria, in Noviss. Dig. it., XVIII, Torino, 1971, p. 805 ss.; Id., Successione testamentaria, in Noviss. Dig. it., Appendice, VII, Torino, 1987, p. 636 ss.; L. Bigliazzi Geri, Delle successioni testamentarie, in Comm. cod. civ. A. Scialoja e G. Branca, Libro secondo: Successioni. Artt. 587 – 600, Bologna – Roma, 1993; G. Bonilini, Il testamento: lineamenti, Padova, 1995; Id., Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 201 ss.; G. Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 2009; A. Cicu, Testamento, Milano, 1951; G. Criscuoli, Il testamento: norme e casi, Padova, 1995; Id., Testamento, in Enc. giur. Treccani, XXXI, Roma, 1994, p. 1 ss.; A. De Cupis, Successione, V) Successione testamentaria, in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990, p. 1378 ss.; V. Ferrari, Successione per testamento e trasformazioni sociali, Milano, 1972; F. Galgano, Diritto civile e commerciale, Volume IV: la famiglia. Le successioni. La tutela dei diritti. Il fallimento, Padova, 2004, p. 201 ss.; C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, Volume I, Milano, 1947; N. Lipari, Autonomia privata e testamento, Milano, 1970; A. Liserre, Formalismo negoziale e testamento, Milano, 1966; M. L. Loi, Le successioni testamentarie (artt. 587 – 623 c.c.), in Giur. sist. dir. civ. e comm. fondata da W. Bigiavi, Torino, 1992; E. Perego, Favor legis e testamento, Milano, 1970; R. Triola, Il testamento, Milano, 1998. Nella letteratura recente, da ultimo, V. Barba, Contenuto del testamento e atti di ultima volontà, Napoli, 2018. 3   Si precisa che l’espressione atto di ultima volontà viene considerata equivalente a quella di testamento solo per comodità espositiva. Non si trascura di considerare il pregevole lavoro di V. Barba, Contenuto del testamento e atti di ultima volontà, cit., p. 20 ss., nel quale si offre una condivisibile differenziazione tra atto tra vivi, atto di ultima volontà e testamento, alla quale si aderisce pienamente.

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taluni lo è tuttora, atteso il profilo effettuale attributivo dell’atto di ultima volontà. Per la verità, tale impostazione va di pari passo con l’idea ancora molto radicata che il testamento sia sottratto a ogni verifica in ordine alla liceità ed alla meritevolezza del suo contenuto4. Quanti sostengono una tale posizione, in realtà, accolgono un’idea davvero peculiare dell’autonomia testamentaria di cui gode l’ereditando, che dell’intera vicenda è indubbiamente l’attore principale. L’autonomia riconosciuta al testatore dall’ordinamento giuridico conforma margini di intervento quasi sconfinati, tali da presentarlo come un soggetto non tenuto al rispetto delle leggi, al quale tutto o quasi è concesso. Tale affermazione poco o nulla persuade. Essa non appare condivisibile alla luce dei valori di dignità, solidarietà, uguaglianza e rispetto della persona che sono lumeggiati dalla Carta costituzionale e che non si vede come non possano venire in rilievo in sede testamentaria. Ma, in particolare, una simile concezione configura l’autonomia negoziale di cui il testamento è espressione quale «dogma in sé»5. Non è la circostanza che il legislatore abbia tipizzato lo strumento testamentario a legittimare ogni suo possibile contenuto6, considerata la latitudine di possibili contenuti dell’atto di ultima   Per una verifica di tale affermazione, per tutti G. Bonilini, Testamento, in Dig. IV. Sez., civ., vol. XIX, Torino, 1999, p. 343, là dove si evidenzia come la disposizione di cui all’art. 1322, cpv., c.c., non sarebbe applicabile al testamento, in quanto alla libertà testamentaria sarebbe riservato uno spazio insuscettibile di verifica in termini di socialità dell’intenzione e dello scopo. Già in Id., La prelazione testamentaria, in Riv. dir. civ., 1984, I, p. 247, l’A. aveva espresso il suo pensiero per cui, il fatto che il testamento abbia scontato a livello legislativo il giudizio di liceità, non richiederebbe la verifica concreta della dimensione sociale della singola disposizione. 5   La inadeguatezza e non correttezza di una simile impostazione è efficacemente rilevata e contrastata da P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, cit., pp. 319, 321, 322, nota 123. 6   Relativamente al contenuto non patrimoniale del testamento, v. almeno G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell’atto di ultima volontà, Milano, 1954, il quale ha individuato alcune disposizioni testamentarie non patrimoniali non previste, ma ammesse e ammissibili: disposizioni sulle opere dell’ingegno; disposizioni sulla corrispondenza e i ricordi di famiglia; 4

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volontà che è di gran lunga superiore al contenuto c.d. tipico di cui all’art. 588, comma 1, c.c. Pare preferibile, allora, ritenere che ogni singola disposizione testamentaria7, la quale costituisce un autonomo negozio espressione di un regolamento di interessi destinato ad operare dopo la morte del suo autore, sia chiamata alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico8, di là dal fatto che la revoca dell’atto costitutivo di una fondazione (purché non sia intervenuto il riconoscimento, o il fondatore non abbia iniziato l’attività); disposizione con cui il genitore escluda una persona dall’ufficio di tutore o protutore del figlio. 7   Su tale espressione, si veda, ex multis, V. Barba, La nozione di disposizione testamentaria, in Rass. dir. civ., 2013, 4, p. 963 ss. 8   La sede non consente un approfondimento che pure sarebbe opportuno in ordine al c.d. punto di rilevanza ermeneutica del testamento. È nota, infatti, la querelle tra tesi c.d. unitaria e tesi c.d. atomistica del testamento. I sostenitori della prima tesi ritengono che il testamento vada inteso come un negozio unitario, fornito di una propria causa. I c.d. atomisti, invece, propendono per l’autonomia delle singole disposizioni. Nel primo senso, v. L. Bigliazzi Geri, Il testamento, in Tratt. dir. priv. Rescigno, 6, t. II, Successioni, Torino, 1997, p. 42; Ead., Il testamento, I) Profilo negoziale dell’atto: appunti delle lezioni, Milano, 1976, p. 257. L’A. osserva come l’istituzione di erede e il legato, pur essendo disposizioni nominate e tipiche, facciano parte di un unico schema negoziale, caratterizzato da una funzione unitaria. Pertanto, in quanto momenti di un unico “programma”, tali disposizioni non possono assumere la veste di autonomi “tipi” negoziali dotati di una funzione e, quindi, di una causa propria. Interessante la posizione di C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, I, Milano, 1964, rist. inalterata 2ª ed., p. 35 ss., il quale, pur non negando che ogni disposizione testamentaria possa essere un autonomo negozio giuridico, afferma che il testamento rimane, comunque, un unico negozio giuridico. Il testamento, scrive l’A., «è un negozio giuridico semplice, se consta di una sola dichiarazione di volontà, ossia di una sola dichiarazione; ovvero un negozio giuridico complesso, se consta di più dichiarazioni di volontà, ossia di più disposizioni. In questo secondo caso ciascuna disposizione (ad esempio, istituzione di erede o legato), presa a sé, siccome consiste in una dichiarazione di volontà, costituisce certamente un negozio giuridico, ma ciò non vuol dire che l’insieme di esse, ossia il testamento, non sia un unico negozio giuridico, ma come qualcuno ha detto, una somma di negozi giuridici riuniti in un unico atto o documento; esso è un unico negozio giuridico, sebbene complesso in quanto che è una dichiarazione di volontà che risulta dall’insieme delle varie disposizioni». Nel secondo senso, la qualificazione del testamento come atto cornice, come atto – documento è stata per la prima volta proposta da L. Cosattini, Divergenza fra dichiarazione e volontà nella disposizione testamentaria, in Riv. dir. civ., 1937, pp. 413-414. In seguito è stata seguita

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e precisata da E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico (Ristampa corretta della II edizione), Napoli, 1994, p. 311, secondo il quale il testamento è atto che può contenere disposizioni svariate, ciascuna delle quali ha valore di negozio a sé stante: istituzione d’erede, legato, divisione d’ascendente, nomina di esecutore testamentario, riconoscimento di figlio naturale. Più che come un unico negozio, si configura, dunque, come una forma atta ad accogliere una pluralità di negozi a causa di morte. Così pure B. Biondi, Autonomia delle disposizioni testamentarie ed inquadramento del testamento nel sistema giuridico, in Foro it., 1949, I, c. 566 ss.; Id., Impostazione del testamento nella giurisprudenza romana, nei codici e nella dommatica moderna, in Riv. dir. civ., 1966, I, p. 445 ss. Più recentemente, l’autonomia delle singole disposizioni è rimarcata da G. Perlingieri, La revocazione delle disposizioni testamentarie e la modernità del pensiero di Mario Allara. Natura della revoca, disciplina applicabile e criterio di incompatibilità oggettiva, in Rass. dir. civ., 2013, p. 778, il quale utilizza descrittivamente la formula del testamento come negozio quadro, ad intendere la sua astratta idoneità a raccogliere il complesso delle singole e spesso del tutto autonome disposizioni testamentarie, nonché da E. Migliaccio, Funzione e vicende dei legati. Il legato di debito, Napoli, 2015, p. 74 ss. In particolare, viene rilevato anche in seno ai sostenitori della tesi c.d. atomistica come talvolta non sia ben chiaro il concetto di funzione successoria delle disposizioni testamentarie. Il riferimento corre a V. Barba, Il legato di fideiussione, in Fam. pers. succ., 2011, 6, p. 416 ss., spec. par. 1, intitolato “razionalità del succedere”. Ciò ha condotto l’A. a chiarire, come effettivamente è accaduto, in Id., I patti successori e il divieto di disposizione della delazione. Tra storia e funzioni, Napoli, 2015, p. 221 ss., dove l’A. mostra di aderire all’idea espressa da E. Migliaccio, Funzione e vicende dei legati. Il legato di debito, cit., p. 74, di «condurre un’indagine anche per i legati in termini di causa concreta», senza che ciò strida con la propria affermazione del legato quale “pura struttura”(a p. 997, ove si legge «una pura forma, la quale, proprio perché tale, è indifferente ai contenuti e, perciò, capace di tutti quelli che l’ordinamento giuridico consente e tollera: non soltanto quelli espressamente disciplinati, ma qualunque effetto reale, o obbligatorio che l’ordinamento possa approvare»), senza con ciò evocare una causa unitaria del legato ma solo che, essendo esso una struttura regolata in via generale e astratta, non tollera la distinzione tra legati tipici e atipici. Pertanto, conclude l’A. nella propria precisazione, l’interprete non deve indugiare sul tema dell’astratta ammissibilità della figura, quanto invece soffermarsi sulla liceità e meritevolezza del contenuto del legato, valorizzando le specificità del caso concreto per individuarne la disciplina. Si occupa del tema, parlando di diseredazione, in termini di negozio – quadro A. Trabucchi, L’autonomia testamentaria e le disposizioni negative, in Riv. dir. civ., 1970, I, p. 63, ove si legge che «se, ora si riprende l’antica questione per sapere se il negozio è il testamento in se stesso o se tanti negozi sono costituiti dalle disposizioni in esso contenute, la risposta non può essere categorica nell’uno o nell’altro senso perché il rapporto tra la volontà, la sua direzione e l’efficacia dell’atto mortis causa non riproduce mai lo schema normale dell’atto tra vivi. Semmai, più vicino

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essa trovi o meno una puntuale disciplina nel codice civile o nella legislazione speciale. Anche in relazione alla disposizione testamentaria9, quale atto di autonomia, in maniera non dissimile da quanto accade per gli atti tra vivi, deve allora verificarsi che essa sia lecita, meritevole di tutela, a detto schema, è l’atto di confezione del testamento, come espressione della volontà di creare lo strumento giuridicamente efficace per produrre le conseguenze previste nelle varie disposizioni. In questo senso il testamento può essere concepito come negozio, ma con la funzione di un negozio-quadro». Di recente, v. G. Cian, Il testamento nel sistema degli atti giuridici, in S. Delle Monache (a cura di), Tradizione e modernità nel diritto successorio, Padova, 2007, p. 158; S. Pagliantini, Causa e motivi del regolamento testamentario, Napoli, 2000, p. 22. Nel senso della irrilevanza operativa della qualificazione si esprime V. Cuffaro, Il testamento in generale: caratteri e contenuto, in P. Rescigno (a cura di), Successioni e donazioni, II, Padova, 1994, pp. 731-734, il quale, dopo aver dato conto del dibattito, conclude: «nel momento in cui si conviene che, secondo quanto risulta dal sistema positivo, il testamento è comunque espressione dell’autonomia dei privati, la qualificazione dell’atto come negozio resta quindi affidata alla valutazione culturale dell’interprete». Nella stessa direzione anche S. Delle Monache, Testamento. Disposizioni generali, in Cod. civ. Comm. Schlesinger, continuato da F.D. Busnelli, Milano, 2005, p. 3. La polisemia del termine testamento come documento, per indicare le discipline di forma e le formalità dei tipi, e come negozio, per indicare i problemi dell’atto di volontà, è evidente in A. Cicu, Le successioni. Parte generale. Successione legittima e dei legittimari. Testamento, Milano, 1947, p. 304; Id., Il testamento, Milano, 1951, 2ª ed., p. 33. Si consideri in ogni caso che in entrambe le opere la struttura dell’indice sommario dà misura di questa scelta. Il capo III, della parte III, pp. 304-357, del primo volume e il capo III, pp. 33-101, del secondo volume è dedicato al «testamento come documento»; il capo IV, della parte terza, pp. 358389 del primo volume e il capo IV, pp. 103-141, del secondo volume è dedicato al «testamento come negozio giuridico». In giurisprudenza, Cass., 16 febbraio 1949, n. 253, in Foro it., 1949, I, c. 566 ss., con nota di B. Biondi; Cass., 27 marzo 1957, n. 1057, in Foro it., 1958, I, c. 326 ss.; Cass., 18 aprile 1958, n. 1269, in Giust. civ., 1958, II, 1, p. 2186 ss. 9   P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, cit., p. 322, ove si legge che «è dai princìpi che si desume la valutazione di meritevolezza dell’autonomia negoziale: essa, pertanto, non è un valore in sé». Sull’evoluzione storica del concetto di meritevolezza, il quale non può non essere condizionato dall’avvento della Costituzione Repubblicana, si rinvia, in luogo di altri, a M. Pennasilico, Sub art. 1322, in Codice civile annotato con la dottrina e la giurisprudenza, a cura di G. Perlingieri, IV, 1, Napoli, 2010, p. 372 ss.; Id., Legalità costituzionale e diritto civile, in P. Perlingieri e A. Tartaglia

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ragionevole10 e proporzionata11. Le disposizioni testamentarie individualmente considerate, dunque, devono presentare un contenuto conforme ai princìpi e ai valori identificativi del sistema giuridico. A fronte delle continue fughe dal diritto successorio12, giustificate alla luce dell’asserita inidoneità dello strumento testamentario

Polcini (a cura di), Novecento giuridico, Napoli, 2013, p. 143, nota 44; si veda P. Perlingieri, Relazione conclusiva, ivi, p. 244 ss. 10   Sul significato e l’importanza applicativa della ragionevolezza, per tutti, G. Perlingieri, Profili applicativi della ragionevolezza nel diritto civile, Napoli, 2015, p. 1 ss. 11   Sulla proporzionalità, P. Perlingieri, Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti, in Rass. dir. civ., 2001, p. 441 ss., il quale, dall’analisi della disciplina delle garanzie, ricava l’impressione che, mentre la normativa delle garanzie ipotecarie e reali mira a tutelare il garante nel momento funzionale, quella delle garanzie personali tende a tutelare il garante nel momento genetico. Le prospettive funzionale e genetica devono, per l’a., in un sistema che non sia schizofrenico, conformarsi al principio di proporzionalità, quale principio imperativo per tutto il sistema delle garanzie.; Id., Il diritto civile, cit., p. 380 ss.; F. Casucci, Il sistema giuridico «proporzionale» nel diritto privato comunitario, Napoli, 2001, spec. p. 378; R. Lanzillo, La proporzione fra le prestazioni contrattuali, Padova, 2003; G. Recinto, I patti di inesigibilità del credito, Napoli, 2004, spec. p. 236 ss.; F. Volpe, La giustizia contrattuale tra autonomia e mercato, Napoli, 2004, spec. p. 183 ss.; N. Cipriani, Patto commissorio e patto marciano. Proporzionalità e legittimità delle garanzie, Napoli, 2000, p. 198 ss.; S. Polidori, Principio di proporzionalità e disciplina dell’appalto, in Rass. dir. civ., 2004, p. 686. Sul principio di proporzionalità, sulla sua origine e sulle sue modalità operative, cfr. pure D.U. Galetta, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo, Milano, 1998, p. 11 ss.; F. Prosperi, Subfornitura industriale, abuso di dipendenza economica e tutela del contraente debole: i nuovi orizzonti della buona fede contrattuale, in Rass. dir. civ., 1999, p. 641; E. Cannizzaro, Il principio della proporzionalità nell’ordinamento internazionale, Milano, 2000. 12   Tra le fughe, certamente va annoverato il c.d. patto di famiglia. Per la letteratura sul tema, ex multis, G. Recinto, Il patto di famiglia, in Diritto delle successioni e delle donazioni, a cura di R. Calvo e G. Perlingieri, I, Napoli, 2013, p. 671 ss., M. Ieva, Il patto di famiglia, in Tratt. breve succ. don. Rescigno, coordinato da M. Ieva, II, 2ª ed., Padova, 2010, p. 338 ss.; Id., La disciplina del patto di famiglia e l’evoluzione degli strumenti di trasmissione dei beni produttivi (ovvero nel tentativo di rimediare a ipotesi di malfunzionamento dei meccanismi di riduzione e collazione), in Riv. not., 2009, II, p. 1092 ss.; G. Rizzi, I patti di famiglia. Analisi dei contratti per il trasferimento dell’azienda e per il trasferimento di partecipazioni societarie, Padova, 2006, p. 23 ss.

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in quanto inattuale e declinante13, la presente indagine intende appuntare l’attenzione su di un tema non adeguatamente approfondito, per non dire trascurato dalla dottrina, vale a dire la disamina dei divieti aventi fonte nel testamento14. Con tale espressione ci si riferisce ad una vasta gamma di ipotesi nelle quali il testatore, lungi dall’attribuire beni e diritti, esprime un regolamento privato di interessi ricorrendo allo strumento del divieto, al fine di dare attuazione ad interessi tanto patrimoniali quanto di rango morale. È evidente fin da subito che gli spazi per un tale

13   A. Palazzo, Autonomia contrattuale e successione anomale, Milano, 1983; Id., Testamento e istituti alternativi nel laboratorio giurisprudenziale, in Riv. crit. dir. priv., 1983, p. 435 ss.; Id., La dottrina civilistica italiana sui negozi trans mortem dagli anni cinquanta ad oggi, in La civilistica italiana dagli anni cinquanta ad oggi, Padova, 1991, p. 221 ss.; Id., Declino del divieto dei patti successori, alternative testamentarie e centralità del testamento, in Jus. Riv. sc. giur., 1997, p. 289 ss.; Id., Istituti alternativi al testamento, in Tratt. dir. civ. CNN Perlingieri, Napoli, 2003, p. 10 ss., il quale, a p. 3, nello studio dei fenomeni così detti parasuccessori, avverte l’esigenza di considerarne e tutelarne le ragioni con il «fine di salvare la efficacia dell’attribuzione»; Id., Provenienze donative, successioni trasferimenti e tecniche di tutela degli interessi, in Riv. dir. civ., 2003, I, p. 317 ss.; Id., Il diritto delle successioni: fondamenti costituzionali, regole codicistiche ed istanze sociali, in Vita not., 2004, p. 116 ss. Le caratteristiche dei negozi c.dd. trans mortem starebbero in ciò: «a) il contratto costituito in vita deve determinare il trasferimento del bene e prevedere la morte solo quale con- dizione degli effetti negoziali, che possono in parte essere anticipati senza che ciò pregiudichi la possibilità di bloccarne per una giusta causa lo svolgimento; b) il soggetto contrattuale, di cui la morte costituisce l’evento dedotto in condizione, deve rimanere titolare di uno ius poenitendi (diritto di recesso o revoca) circa la costituzione del contratto, che tuttavia può farsi dipendere da un fatto che lo giustifichi». Ancora, cfr. F. Padovini, Fenomeno successorio e strumenti di programmazione patrimoniale alternativi al testamento, in Riv. not., 2008, p. 1023 ss. 14   Si impone una precisazione terminologica, onde distinguere il divieto dall’obbligazione negativa. Quest’ultima è definita come il rapporto giuridico patrimoniale per cui una determinata persona è tenuta in confronto ad un’altra all’osservanza di un comportamento negativo, L. Coviello jr, L’obbligazione negativa: contributo alla teoria delle obbligazioni, 2, Napoli, 1934, p. 47. Una recente rilettura dell’obbligazione negativa, diretta a sconfessare l’idea che sia un’«obbligazione in tono minore», secondo un approccio metodologico funzionale ed assiologicamente orientato, è condotta da S. Deplano, Le obbligazioni negative, Napoli, 2014.

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contenuto saranno tanto più ampi quanto più ridotta è la prospettiva patrimonialistico – attributiva del testamento15. Decisiva è, pertanto, un’operazione di svalutazione del combinato disposto degli artt. 587 e 588 c.c., i quali sono stati eccessivamente riempiti di significato per arrivare a dire che il testamento trova il suo proprium (se non il suo unicuum) nelle attribuzioni patrimoniali16, recuperando così al contenuto negativo un congruo spazio nello studio del contenuto testamentario. Per giungere a ciò un ruolo determinante viene ad essere assolto dal giudizio di meritevolezza, da intendersi come giudizio di conformità ai princìpi identificativi del sistema giuridico, il quale – come si vedrà funditus nel prosieguo – assume verosimilmente contorni diversi e più penetranti rispetto a quanto accade dinanzi alle disposizioni c.d. positive17.

  Per la dottrina patrimonialistica tradizionale, tra gli altri, L. Barassi, Le successioni per causa di morte, Milano, 1947, pp. 305-307; F. S. Azzariti, G. Martinez, G. Azzariti, Diritto civile italiano. Successioni per causa di morte e donazioni, Padova, 1948, pp. 337-338; F. Cisotti, La disposizione di beni come elemento del concetto di testamento, in Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, vol. 77, (1943 – 1944), Milano, 1943, pp. 225 e 231; S. Pugliatti, Testamento epistolare e volontà testamentaria, in Temi, 1948, p. 313. 16   Tale aspetto è correttamente evidenziato da L. Bigliazzi Geri, A proposito di diseredazione, in Corr. giur., 1994, p. 1504 che discorre di «ipervalutazione del combinato disposto degli artt. 587 e 588 c.c.». Ad un tempo viene rilevata la parzialità dell’art. 588 c.c. da G. Criscuoli, Le obbligazioni testamentarie, Milano, 1980, p. 203, là dove l’A. nota come «l’articolo 588 c.c., considerato in stretta correlazione con il precedente art. 587 c.c., è incompleto per quanto concerne le previsioni del legato obbligatorio, in quanto nello stesso articolo si considera legatario esclusivamente il beneficiario di una disposizione testamentaria avente per oggetto sostanze, cioè beni del testatore», il quale poi chiarisce che «l’articolo 588, per quel che ci riguarda, non ha funzione normativa, e quindi, sul piano sistematico, non è impegnativo per l’interprete, dato che dalle altre norme del codice civile deriva chiaramente che istituzione di erede e legato non esauriscono il contenuto oggettivo del testamento». 17   Nel presente lavoro, la meritevolezza si declinerà in una prospettiva teleologico-assiologica molto sensibile alle istanze e alle sollecitazioni provenienti dalla Costituzione. È bene evidenziare che tale approccio non trova unanimità di consensi. Da una posizione opposta muove, con attenzione e acutezza, l’analisi di C. Castronovo, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015, p. 87 ss. Lo sviluppo argomentativo postula, di necessità, la definizione dei rapporti tra norme costituzionali e norme di diritto privato. In Id., Eclissi del diritto civile, 15

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2. Il fraseggio normativo dell’art. 587 c.c.: i termini della questione «testamento» Prima di entrare in medias res, e in linea con un autorevole insegnamento18, è opportuno che l’indagine prenda le mosse dalla definizione di testamento19 che emerge dall’art. 587 c.c. Tale norma recita testualmente che «il testamento è un atto revocabile con cit., p. 38, si afferma, infatti, che le norme costituzionali «sono regolative di poteri, non conformative di atti e rapporti, come invece quelle di diritto privato». Invero, la tesi dell’A. investe il più complesso rapporto tra potere legislativo, potere giudiziario e ruolo della dottrina. In Id., Eclissi del diritto civile, cit., p. 87 ss., l’A. sviluppa una critica serrata tanto ad una giurisprudenza creativa quanto ad una dottrina bollata come remissiva, sul rilievo che la Costituzione da negletta sia ora abusata, di una giurisprudenza che sovente vada oltre i suoi confini, e un diritto positivo europeo, «rozzo e limitato», che favorisce gli straripamenti del formante giurisprudenziale. Riflessioni ribadite anche successivamente. Con riguardo alla giurisprudenza come fonte, in senso fortemente critico, cfr. Id., L’aporia tra ius dicere e ius facere, in Eur. dir. priv., 2016, p. 981 ss.; Id., Diritto privato e realtà sociale. Sui rapporti tra legge e giurisdizione a proposito di giustizia, in Eur. dir. priv., 2017, p. 765 ss. 18   M. Allara, Corso di diritto civile, La successione testamentaria, I, (a.a. 19411942), Torino, 1944, p. 12. 19   Va detto che la nozione di testamento occupa le riflessioni non soltanto o non esclusivamente del giurista, ma presenta connessioni anche con altre scienze, dovendosi spiegare sul piano tecnico, oltre che sul piano filosofico – razionale, il perché l’ordinamento riconosca al soggetto la possibilità di dettare prescrizioni per il tempo successivo alla di lui morte. Nella dottrina più antica, si vedano A. Brunetti, «Il diritto di testare secondo la teoria integrale del diritto privato», in Giur. it., 1924, IV, c. 162 ss., secondo il quale lo ius testandi «costituisce quella condizione, la quale, allorché si verifica l’evento della morte, fa sorgere nello Stato il dovere di distribuire in un determinato modo i beni che furono già di proprietà del disponente». In altri termini, il diritto di testare non è diritto di trasmettere i beni, bensì diritto di compiere un atto (il testamento), il quale fa sorgere nello Stato il dovere di distribuire i beni che furono del disponente in conformità alle sue volontà. Tale spiegazione del fondamento filosofico-razionale non convinse, tuttavia, A. Butera, Il codice civile italiano commentato secondo l’ordine degli articoli. Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, Torino, 1940, p. 225, secondo il quale si tratta di una mera «fraseologia descrittiva» della successione testamentaria. Ulteriore criticità era quella della spiegazione tecnica di come una volontà espressa da chi non è più in vita potesse regolare i di lui interessi.

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il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse. Le disposizioni di carattere non patrimoniale, che la legge consente siano contenute in un testamento, hanno efficacia, se contenute in un atto che ha la forma del testamento anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale». Questa definizione si qualifica come «definizione stipulativa», in quanto assegna alla parola testamento20 un determinato significato tecnico-giuridico, a preferenza di altri, in modo tale da evitare confusione con le ambiguità con cui questo lemma è inteso nel linguaggio comune. Si tratta, altresì, di una «definizione intensionale». In altri termini, la norma indica soltanto l’insieme delle proprietà che sono richieste dalla legge affinché possa discorrersi di testamento. La definizione intensionale rappresenta una species della definizione stipulativa e si contrappone alla «definizione per genus et differentiam»21, là dove vengono indicati tanto il genus, con i caratteri condivisi con tutte le sue componenti, tanto le species, con i caratteri differenziali.

La querelle, di matrice prettamente filosofica, è stata risolta in due distinti modi. Secondo la teoria teologica, riconducibile a Leibnitz, la volontà non cessa di essere con la morte del soggetto, perché l’uomo esiste spiritualmente. Secondo la teoria contrattualistica, ascrivibile a Grozio e avallata da Kant, anche nel testamento si può rintracciare un accordo tra il testatore che dispone e il successore che accetta. Per un’attenta e ampia esposizione su tale aspetto giusfilosofico, si veda F. Filomusi Guelfi, Successione (diritto di successione) Introduzione, in Dig. it., XII, parte III, Torino, 1889-1897, p. 1. La tesi contrattuale, come è noto, è stata sostenuta anche da E. Cimbali, Il testamento è contratto?, in Filangieri, 1884, I, p. 265 ss. 20   Sulla funzione «meta – testuale» svolta dalla definizione normativa di cui all’art. 587 c.c., cfr. G. Tarello, L’interpretazione della legge, in Tratt. dir. civ. comm. A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1980, p. 239. Sulla valenza almeno di «istruzioni per l’uso», v. A. Belvedere, Testi e discorso nel diritto privato, Ars interpretandi, Padova, 1997, p. 152; Id., Il problema delle definizioni nel codice civile, Milano, 1977, p. 151. 21   Esempio di siffatta definizione si ha nell’art. 1703 c.c. in tema di mandato. Infatti, ai sensi di tale norma, «il mandato è il contratto è [(nota generica)] col quale una parte (…) [(nota specifica)]».

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Prima di addentrarsi nella disamina delle questioni teoriche e pratiche occasionate dalla definizione in discorso, va sgombrato il campo da possibili sovrapposizioni extra-giuridiche o non prettamente giuridiche. Il termine testamento22, in altre parole, si presta ad essere inteso secondo diverse accezioni. La communis opinio è infatti nel senso di considerarlo l’atto col quale si dettano le ultime volontà, senza aver ben chiara l’estensione contenutistica dell’atto in discorso. O ancora non è infrequente il riferimento all’accezione spirituale che ad esso non di rado è assegnata23. Al giurista, nondimeno, è richiesto di confrontarsi con le norme.   La letteratura in tema di successione testamentaria è davvero cospicua. Fra i vari contributi si vedano ex multis M. Allara, Il testamento (Riproduzione dell’edizione del 1936), Napoli, 1978, p. 3 ss.; Id., La successione testamentaria, in Corso di diritto civile, Volume I, Torino, 1944, p. 1 ss.; Id., Principi di diritto testamentario, cit., p. 25 ss.; G. Azzariti, Le successioni e le donazioni, cit., p. 337 ss.; Id., Successioni (diritto civile): successione testamentaria, in Noviss. Dig. it., XVIII, Torino, 1977, p. 805 ss.; Id., Successione testamentaria, in Noviss. Dig. it., Appendice, VII, Torino, 1987, p. 636 ss.; L. Barassi, Le successioni per causa di morte, cit., p. 205 ss.; C. M. Bianca, Diritto civile, 2. La famiglia – Le successioni, cit., p. 727 ss.; L. Bigliazzi Geri, Delle successioni testamentarie, in Comm. cod. civ. a cura di A. Scialoja e G. Branca, Libro secondo: Successioni. Artt. 587 – 600, Bologna – Roma, 1993, p. 1 ss.; Ead., Il testamento, cit., p. 1 ss.; Ead., Il testamento, I) Profilo negoziale dell’atto: appunti delle lezioni, cit., p. 1 ss.; G. Bonilini, Diritto delle successioni, cit., p. 155 ss.; Id., Il testamento: lineamenti, Padova, 1995, p. 1 ss.; Id., Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 201 ss.; G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., p. 369 ss.; A. Cicu, Testamento, Milano, 1951, p. 1 ss.; G. Criscuoli, Il testamento: norme e casi, Padova, 1995, p. 1 ss.; Id., Testamento, cit., p. 1 ss.; A. De Cupis, Successione, V) Successione testamentaria, in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990, p. 1378 ss.; V. Ferrari, Successione per testamento e trasformazioni sociali, cit., p. 1 ss.; F. Galgano, Diritto civile e commerciale, Volume IV: la famiglia. Le successioni. La tutela dei diritti. Il fallimento, cit., p. 201 ss.; C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, Volume I, Milano, 1947, p. 1 ss.; N. Lipari, Autonomia privata e testamento, cit., p. 1 ss.; A. Liserre, Formalismo negoziale e testamento, Milano, 1966, p. 1 ss.; M. L. Loi, Le successioni testamentarie (artt. 587 – 623 c.c.), in Giur. sistem. dir. civ. e comm. fondata da W. Bigiavi, Torino, 1992, p. 1 ss.; E. Perego, Favor legis e testamento, Milano, 1970, p. 1 ss.; G. Tamburrino, Testamento, b) Diritto privato, cit., p. 471 ss.; R. Triola, Il testamento, Milano, 1998, p. 1 ss. 23   Per il testamento c.d. spirituale, si v. le interessanti riflessioni di A. De Cupis, Testamento spirituale, in Rass. dir. civ., 1988, p. 297, ove esso è definito come 22

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Dalla disposizione dell’art. 587 c.c. a primo acchito balzano in evidenza almeno tre lemmi: atto, sostanze e dispone. Questi tre termini delineano le principali questioni esegetiche generate dalla norma in discorso, emblematicamente rubricata Testamento. Non che altri termini ivi previsti non rivestano importanza, si pensi all’aggettivo revocabile che denota immediatamente un tratto ineludibile della manifestazione di volontà testamentaria, la quale, essendo chiamata a disciplinare i rapporti riferibili al disponente quando questi non sarà più, giustifica il ius poenitendi fino al dies mortis. Carattere, quest’ultimo, la cui centralità è comprovata dalla compiuta disciplina riservatagli negli artt. 679 ss. c.c. Ma si intende dire che i suddetti lemmi rappresentano i termini chiave del problema testamentario, e dunque il confronto con essi è inevitabile per l’interprete che si cimenta in questa materia. Si impone, perciò, una disamina sia pure succinta di questi lemmi. Procedendo con ordine, va subito rilevato che il termine atto evoca immediatamente il tema della natura del testamento, oscillante tra negozio giuridico e atto di autonomia privata sfornito del tratto della negozialità, affacciando il problema qualificatorio sul quale ci si soffermerà appresso. Accanto alla natura dell’atto, si palesa inoltre la questione formale, costituente un vero e proprio cruccio del legislatore, il quale disciplina minuziosamente i profili formali dell’atto testamentario prevedendo un apparato sanzionatorio significativamente diverso da quello previsto in materia contrattuale. Volgendo l’attenzione alla parola sostanze, preme anzitutto effettuare un rilievo di carattere semantico. Deve infatti rilevarsi come di tale lemma nell’ordito codicistico vi sia una traccia piuttosto sparu«quell’atto umano con il quale, nella riflessione della futura morte, l’uomo intende manifestare per il tempo in cui avrà cessato di vivere i suoi sentimenti morali mediante esortazioni e raccomandazioni ai propri congiunti, perdono dei torti subiti, pentimento per quelli compiuti, misurata valutazione delle proprie opere, implorazione alla divinità…sentimenti tutti attinenti alla sfera puramente etica, né idonei, né rivolti a penetrare nella sfera del diritto». Estranea alla nozione di testamento in senso proprio è altresì quella di testamento biologico (c.d. living will), il quale è destinato ad avere efficacia prima della morte del suo autore, ed è chiamato ad esprimere le sue indicazioni riguardo a pratiche terapeutiche sul c.d. fine vita.

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ta24. Ebbene, alla scarna presenza nella littera legis di tale locuzione fa da contraltare l’indubbia rilevanza ai fini della connotazione patrimoniale del testamento. In altri termini, proprio dal termine sostanze parrebbe legittimarsi la tradizionale prospettiva attributiva del testamento. Infine, ci si imbatte nel verbo dispone. Salvo quanto si vedrà nel prosieguo, a questo punto dell’indagine è sufficiente rilevare come tale verbo risulti unicamente rivolto a contrassegnare la cifra contenutistica del testamento, imponendo di verificare in cosa si estrinseca il contenuto dell’atto mortis causa.

2.1. Segue. Continuità e discontinuità nell’avvicendamento tra l’art. 759 c.c. 1865 e l’attuale formulazione, passando per i lavori preparatori del codice vigente Appare opportuno, come già detto, muovere dall’art. 587 c.c., anche passando in rassegna l’evoluzione conosciuta dal disposto normativo nel trapasso dal codice previgente all’attuale disciplina. La formulazione dell’art. 587 c.c.25 rappresenta il punto di approdo di un percorso alquanto travagliato. L’analisi di questo iter legislativo26 si presenta proficua per provare a verificare le ricadute operative dell’accoglimento di una prospettazione in luogo di un’altra. Il punto di partenza è dato dall’art. 759 del codice civile del 1865.27 Tale norma stabiliva infatti che «il testamento è un atto ri  È altresì usato negli artt. 129, 143, 148, 193 e 548 c.c.   Per una critica a tale definizione, si vedano M. Allara, Il testamento, cit., pp. 13-16; Id., Principi di diritto testamentario, Torino, 1957, pp. 25-28; A. Liserre, Formalismo negoziale e testamento, cit., p. 157; G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell’atto di ultima volontà, cit., p. 1. 26   C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, I, Milano, 1952, p. 27 ss. Si v., altresì, N. Rondinone, Storia inedita della codificazione civile, Milano, 2003, e le pagine di R. Nicolò, Codice civile, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, p. 240 ss., impreziosite dalla collaborazione del Maestro col Guardasigilli Grandi. 27   Tale disposizione ebbe l’avallo di alcuna della dottrina più autorevole del tempo. Si pensi che N. Coviello, Corso completo del diritto delle successioni, a 24

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vocabile, col quale taluno, secondo le regole stabilite dalla legge, dispone per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse in favore di una o di più persone». Quella formulazione si poneva in piena continuità con alcune codificazioni preesistenti. In particolare, ricalcava l’art. 895 del Codice di Napoleone per il regno d’Italia del 1806, che altro non era che la traduzione del Code Napoleon, il quale rappresenta tuttora il Codice civile francese. Rilevava, altresì, la collocazione codicistica della norma, appunto inserita nel Libro III intitolato “Dei modi di acquistare e di trasmettere la proprietà e gli altri diritti sulle cose”. Da questo aspetto la dottrina28 e la giurisprudenza29 prevalenti ritraevano il corollario che il testamento si presentasse come negozio giuridico unilaterale con il quale si realizzava un’attribuzione positiva di beni o di diritti reali su cose, con ciò esaurendone il contenuto nel prisma della patrimonialità. Epperò, la dottrina formatasi sulla disposizione dell’art. 759 si interrogava sulla idoneità del testamento così ricostruito ad essere aperto anche a disposizioni non aventi il carattere suddetto30. cura di L. Coviello, II, Successioni legittime e testamentarie, Napoli, 1915, p. 324, la ritenne tra le più esatte del codice civile; F. Degni, Lezioni di diritto civile. La successione a causa di morte, II, La successione testamentaria, I, (a.a. 1931-1932), p. 10, si spinse a dire che era esattissima. Contra, invece, M. Allara, Il testamento, cit., p. 4, per il quale la disposizione ometteva di porre l’accento su alcuni caratteri essenziali del testamento, quali l’unipersonalità, la solennità, l’unilateralità e la spontaneità, nonché a tacciare di inesattezza il temine sostanze ivi impiegato. 28   L. Barassi, Istituzioni di diritto civile, Milano, 1914, pp. 553 e 571; F. Degni, Lezioni di diritto civile, cit., pp. 33-34; F. Ricci, Corso teorico-pratico di diritto civile, III, Delle successioni, Torino, 1878, pp. 105 e 113; M. Allara, Il testamento, cit., pp. 4-7; C. Losana, Le successioni testamentarie secondo il codice civile italiano, Torino, 1884, pp. 4-6; E. Pacifici Mazzoni, Istituzioni di diritto civile italiano, a cura di G. Venzi, VI, I, Parte speciale. Delle successioni, Firenze, 1922, pp. 180182; V. Polacco, Delle successioni, a cura di A. Ascoli ed E. Polacco, I, Successioni legittime e testamentarie, Milano, 1937, pp. 150-151. 29   Per la giurisprudenza di legittimità, v. almeno Cass., 25 luglio 1937, in Rep. Foro it., 138, voce Testamento, n. 100, c. 1503; Cass., 29 dicembre 1937, in Foro it., 1938, I, c. 393. 30   Il riferimento corre subito ad una serie di disposizioni, per la maggior parte ripetute nel codice vigente, che certamente difettavano del tratto della patrimonialità. Si pensi, ad esempio, al riconoscimento di figlio naturale per testamento

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L’interrogativo che si poneva la dottrina era sostanzialmente quello di verificare se potesse definirsi testamento anche un atto che, avendone i requisiti formali, contenesse solo disposizioni prive del carattere della patrimonialità o se, invece, per potersi discorrere di testamento, dovesse presentare anche disposizioni attributive di beni e diritti. È evidente che dalla risposta ad un simile interrogativo derivano conseguenze non prive di risvolti pratici. Ne consegue, inevitabilmente, l’ampliamento del contenuto dell’atto ovvero

(art. 181), alla nomina del tutore del minore per testamento (art. 242), alla nomina del protutore del minore per testamento (art. 264), alla legittimazione di figlio naturale per testamento (art. 285), alla nomina del tutore dell’interdetto per testamento (art. 330), alla riabilitazione dell’indegno (art. 466). Sulla legittimazione del figlio “naturale” per testamento ex art. 285 c.c., in particolare, è bene soffermarsi su alcuni profili di indubbio interesse. Si consideri, anzitutto, il caso del riconoscimento per testamento del figlio “naturale” da parte di genitori che dopo la nascita si erano sposati, con ciò determinandosi la legittimazione per susseguente matrimonio. È acquisito, infatti, che tale sottotipo di legittimazione si caratterizza per l’immutabilità degli elementi del matrimonio tra i genitori del legittimando e del rapporto biologico tra genitori e figlio, potendosi invece collocare a livello temporale in momenti diversi il riconoscimento, com’è a dirsi nell’ipotesi prospettata. Altro profilo concerne la legittimazione giudiziale su domanda del figlio, in base alla previsione testamentaria di cui all’art. 285 c.c. In tal caso, infatti, la volontà di legittimare consegnata a un testamento o a un atto pubblico consentiva al figlio naturale di proporre, in un momento successivo alla morte del genitore, azione per la legittimazione giudiziale. In argomento, l’aspetto di maggiore pregnanza ha a che vedere con la necessaria delimitazione tra potere di legittimare – spettante al genitore – e potere di domandare la legittimazione – potere, invero, che non abbraccia tutta la vicenda della legittimazione – appartenente al figlio. In ultima analisi, disposizioni testamentarie e legittimazione del figlio “naturale” si intersecano in maniera peculiare col tema oggetto di questo contributo – vale a dire il c.d. contenuto «negativo» del testamento – nella fattispecie che era contemplata dall’art. 286 c.c., ossia il “divieto” del genitore defunto a che la legittimazione del figlio fosse chiesta dall’ascendente. Ipotesi, quest’ultima, che, se da un lato rimarca l’autonomia del potere legittimante dell’ascendente, dall’altro – attesa la natura personalissimo del riconoscimento – non può arrivare al punto di ricomprendere il potere di riconoscere il figlio, il quale può esprimere una volontà contraria. Sulla legittimazione del figlio “naturale” per testamento v., funditus, la puntuale e accurata disamina svolta da G.M. Uda, La filiazione naturale. La legittimazione dei figli naturali, in Tratt. dir. fam. Zatti, v. II, Milano, 2012, p. 476 ss.

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la chiusura dello stesso alle sole disposizioni attributive, con esclusione di una gamma di ipotesi destinata nel tempo ad arricchirsi sempre più. Dicevamo poc’anzi di come l’art. 587 c.c. sia il frutto di un complesso iter legislativo, la cui analisi si rende certamente utile. Il primo momento della riforma si tradusse nella formulazione dell’art. 140 del Progetto c.d. preliminare del codice civile, in base al quale «il testamento è un atto revocabile, con cui taluno dichiara la sua ultima volontà, da valere dopo la morte, sia mediante disposizioni riguardanti tutte o parte delle proprie sostanze, sia mediante disposizioni non patrimoniali che abbiano carattere giuridico». Ad una prima lettura del disposto normativo, emerge con tutta evidenza l’ampiezza contenutistica dell’atto nonché il rigore con il quale la Commissione reale31 si preoccupò di precisare il più possibile effetti e funzione dell’atto testamentario. La formulazione dell’art. 140 si collocava certamente più vicino alla definizione che in diritto romano ebbe ad elaborare Modestino, secondo il quale «testamentum est voluntatis nostrae iusta sententia de eo, quod quis post mortem suam fieri velit», che non alla elaborazione dogmatica della pandettistica, trasfusa nel BGB. E che il disposto fosse stato formulato in quel modo allo scopo di risolvere la querelle sopra riferita, è dimostrato proprio dalla relazione di accompagnamento, autorevolmente predisposta da Ludovico Barassi. Il dubbio affacciatosi con l’art. 759, soprattutto in considerazione alla parte finale della norma dove si discorre di “in favore di una o più persone”, facendo presagire l’esclusività del contenuto patrimoniale, veniva diradato con una disposizione molto ampia e al contempo dettagliata. Ne usciva una concezione di testamento come atto, manifestazione dell’ultima volontà, che si rivolgeva non solo ed in via esclusiva

31   La Commissione che elaborò il libro terzo delle successioni e delle donazioni risultava composta da insigni civilisti e studiosi del diritto successorio, tra i quali ricordiamo Antonio Azara, Alfredo Ascoli, Emilio Albertario, Mariano D’Amelio, Gaetano Azzariti, Gerolamo Biscaro, Ludovico Barassi, Roberto de Ruggiero, Calogero Gangi, Fulvio Maroi, Filippo Vassalli, Carlo Milozza e Carlo Zappulli.

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all’aspetto patrimoniale, ma anche a quello non patrimoniale, sempreché avesse rilevanza giuridica e non si risolvesse nell’area della morale, della spiritualità o dell’affettività.32 Le indicazioni che la Commissione reale trasfuse nel testo del­ l’art. 140 furono, tuttavia, disattese dal Guardasigilli33, così che si giunse ad una nuova e significativamente diversa formulazione affidata all’art. 130 del Progetto c.d. definitivo, composto di due commi, anziché uno solo, e che testualmente recita: «il testamento è un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse. Le disposizioni di carattere non patrimoniale, che possono essere contenute nel testamento, conservano la loro efficacia anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale». Tra le argomentazioni addotte a sostegno del superamento della ampia (e supposta inadeguata) definizione dell’art. 140, vi era anche il rilievo che, in fondo, le disposizioni non patrimoniali contenute nel testamento sarebbero oggettivamente limitate a quei pochi negozi che la legge consente di compiere ricorrendo alla forma testamentaria. Il ritorno alla tradizionale definizione di testamento presentava, inoltre, un ulteriore vantaggio. Operando, infatti, un netto distinguo tra disposizioni patrimoniali e disposizioni non patrimoniali, ne coglieva ictu oculi il diverso regime giuridico. Pertanto, la disciplina delle prime andava rinvenuta unicamente nella parte del codice dedicata alle successioni, tanto per i profili formali quanto per quelli sostanziali. Per le seconde, invece, la disciplina sostanziale andava ricercata aliunde, mentre quella formale nell’àmbito delle prescrizioni formali dettate per il testamento.

  Siffatta ricostruzione fu colta immediatamente dai commentatori del progetto. Ex multis, cfr. V. Polacco, Delle successioni, cit., p. 151, nota 1. 33   Nella Relazione del Guardasigilli, n. 109, si rileva che la definizione adottata nel progetto c.d. preliminare «rendesse meno limpida la nozione del testamento, che nella concezione tradizionale e nella pratica applicazione ha per contenuto l’attribuzione dei beni e solo accidentalmente contiene manifestazioni di volontà dirette ad altri fini». 32

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Il cammino della norma non si esaurisce qui. Infatti, sottoposta al vaglio della Commissione parlamentare chiamata a dare il parere sul progetto definitivo del Libro terzo del codice civile, fu nuovamente interessata da “interventi di manutenzione”. Si rammenta che in seno a tale Commissione ebbero a formularsi almeno tre distinte definizioni di testamento. Una prima è quella di Sergio Panunzio, per il quale «il testamento è un atto revocabile di ultima volontà con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, dei propri beni economici e ideali». O ancora la definizione elaborata da Maurizio Maraviglia, secondo il quale «il testamento è un atto revocabile con cui taluno dichiara la sua ultima volontà da valere per il tempo dopo la morte». Infine, la formula di Amilcare Rossi, secondo il quale «il testamento è un atto revocabile con cui taluno dichiara la sua ultima volontà da valere dopo la morte mediante disposizioni di carattere giuridico aventi contenuto patrimoniale e non patrimoniale». La definizione che ne venne fuori si presentò in larga parte ripresa dall’ultima ora riferita, sia pure con alcuni adeguamenti. Infatti, venne prescelta la seguente formulazione: «il testamento è un atto revocabile con cui taluno, secondo le regole stabilite dalla legge, dichiara la sua volontà, da valere dopo la morte, mediante disposizioni di carattere giuridico aventi contenuto patrimoniale e non patrimoniale». In particolare, venne tolto l’aggettivo “ultima” riferito a volontà e inserito l’inciso “secondo le regole stabilite dalla legge”, che era presente nel testo dell’art. 759 c.c. 1865. È facilmente intuibile come la definizione accolta rappresentasse un netto revirement rispetto al progetto definitivo e che segnasse un ritorno all’art. 140, se non sul piano della terminologia adottata, almeno sul piano del possibile contenuto testamentario. Veniva cioè rigettata la tesi dell’essenziale patrimonialità, e quindi anche della sussidiarietà del contenuto non patrimoniale. Tale posizione sembrava inserirsi, altresì, in un complessivo iniziale ripensamento delle categorie civilistiche e del diritto civile come diritto concernente unicamente le situazioni patrimoniali. È importante ricordare come il codice vigente sia chiamato a fronteggiare una so-

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cietà che cambia e che risulta molto diversa da quella alla quale si rivolgeva il codice del 1865. La proprietà terriera rappresentava l’orizzonte culturale del legislatore unitario, ancora molto vicino, cronologicamente e culturalmente, allo Statuto Albertino, da non poter intravedere lo sviluppo successivo. L’impresa è invece il fattore determinante la codificazione degli anni ’40, ed essa esige una disciplina dinamica, diversamente dalle situazioni dominicali che sono connotate da tendenziale stabilità. Nondimeno, anche queste indicazioni non ebbero a tradursi in legge, atteso che il R.D. 26 ottobre 1939, n. 1586, entrato in vigore il 21 aprile 1940, riprese in maniera quasi totale il testo del progetto definitivo, sancendo che «il testamento è un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse. Le disposizioni di carattere non patrimoniale, che la legge consente siano contenute in un testamento, hanno efficacia anche se nell’atto mancano disposizioni di carattere patrimoniale». La scelta di superare la precedente formulazione venne spiegata nella relazione di accompagnamento34. Oltre ad affermare il presunto carattere sussidiario delle disposizioni non patrimoniali rispetto a quelle patrimoniali, si osservò che la precedente definizione fosse foriera di una certa ambiguità tra interpretazione del primo e del secondo comma della norma. Infatti, si rilevava che, mentre il primo comma evocava la patrimonialità del testamento, il secondo comma sembrava contraddire detto carattere. Ed allora si era prescelta una formulazione meno impegnativa, che non aveva alcun effetto distorsivo dell’impostazione cristallizzata al primo comma e che, al contempo, rispondeva all’esigenza pratica di riconoscere rilevanza e tutela giuridica ad alcune disposizioni non patrimoniali, soggette alla forma testamentaria, anche là dove l’atto mancasse di disposizioni attributive.

  Relazione ministeriale, n. 61, pp. 44-45.

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Il testo entrato in vigore nel 1940 non fu tuttavia immune da un ulteriore intervento in sede di unificazione dei libri del codice civile, così giungendo all’attuale formulazione dell’art. 587 c.c. Le ragioni dell’ennesima operazione di «ortopedia giuridica» sulla definizione di testamento pare doversi ascrivere alle criticità poste dall’esegesi di detta norma nel pur breve tempo della sua vigenza. Sembrava infatti che andasse accolta una definizione allargata di testamento, sulla base di una interpretazione che valorizzasse il disposto del secondo comma. Tuttavia questa disposizione veniva avvertita da molti come una norma idonea a sgretolare la granitica asserzione della natura esclusivamente attributiva del testamento. In altri termini, le disposizioni non patrimoniali potevano esaurire un atto che del testamento ha la forma, non già la natura. È per questo che siffatta precisazione è contenuta nella Relazione al codice civile35, realizzandosi con molta probabilità una ipotesi di interpretazione autentica. L’iter legislativo di cui si è dato conto suggerisce alcune considerazioni. Anzitutto, comprova la sensibilità del tema e l’importanza sul piano ricostruttivo ed operativo della corretta esegesi del dato normativo. In secondo luogo, mostra come il percorso che va dall’art. 759 c.c. 1865 all’art. 587 attuale testimonia che poco ci si è mossi dal punto di partenza, se non per incidere su proposizioni linguistiche non dirimenti sul piano funzionale. Infatti, sono stati espunti due incisi, ossia “secondo le regole stabilite dalla legge” e “in favore di una o più persone”. Di questi due, il secondo è indubbiamente più rilevante, potendosi da esso trarre spunto per sottolineare la non essenzialità della patrimonialità. Certamente, però, l’attuale formulazione supera il codice previgente nel sia pur timido riferimento alle disposizioni non patrimoniali. Se infatti il progetto preliminare (art. 140) rappresentava la formulazione meglio scritta, l’art. 587, comma 2, c.c., segna lo

  Relazione al codice civile, n. 285, p. 61.

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sviluppo rispetto alla codificazione previgente con l’apertura alle disposizioni non patrimoniali contenute in un documento avente i requisiti di forma del testamento, mentre prima di ciò erano reputate nulle.

3. Cenni sull’atto mortis causa e sulle sue preminenti e più perspicue caratteristiche: unilateralità, unipersonalità, revocabilità e non recettizietà La lettera dell’art. 587 c.c. non indugia in un’elencazione compiuta o quantomeno indicativa dei tratti salienti dell’atto testamentario. Se infatti leggiamo tale disposizione, oltre all’utilizzo della parola atto, che prima facie risulta neutro o incolore, ricaviamo alcuni soltanto dei caratteri dell’atto, vale a dire la unilateralità e la revocabilità, oltre al riferimento temporale relativo alla sua efficacia.36 Gli altri caratteri comunemente assegnati al testamento, invece, sono ricavabili da altre disposizioni ovvero da una lettura sistematica. Così, ad esempio, l’unipersonalità è ricavata dal disposto dell’art. 589 c.c. che si occupa del testamento reciproco e congiuntivo. O ancora, la rigorosa disciplina formale cui soggiace il testamento è tratta dall’art. 601 c.c. Diversamente, struttura e funzione dell’atto ne impongono la non recettizietà e la spontaneità.

36   In verità, in dottrina non è affatto pacifico che al legislatore codicistico fosse richiesto di chiarire i caratteri dell’atto testamentario. In tal senso, nella letteratura meno recente, si veda C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, cit., p. 24, per il quale «non è compito del legislatore dare definizioni complete e precise dei singoli istituti, spettando un tale compito, che offre spesso non poche difficoltà, alla dottrina». Analoga posizione viene sostenuta, di recente, da G. Bonilini, Il testamento, Lineamenti, Padova, 1995, p. 24 e da M.C. Tatarano, Il testamento, in Tratt. dir. civ. CNN, diretto da P. Perlingieri, Napoli, 2003, p. 23, nota 65, e segnalato in V. Cuffaro, Il testamento in generale: caratteri e contenuto, in Successioni e donazioni, a cura di P. Rescigno, Padova, 1994, p. 734.

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Altre caratteristiche da taluno ascritte al testamento, quali la gratuità37 o la natura di atto di liberalità38, non appaiono di ausilio alla individuazione dei caratteri dell’atto. Anzitutto, la gratuità sembra offrire un utile criterio descrittivo, in considerazione del fatto che con la disposizione si realizza per il destinatario un vantaggio senza che questi abbia a sopportare alcun depauperamento. Tuttavia, l’assenza di un nesso di corrispettività rileva in presenza di quegli atti di autonomia nei quali emerge un rapporto tra soggetti nella genesi della fattispecie. Aspetto, questo, pacificamente assente nella fattispecie testamentaria39. Così come l’affermazione, anch’essa ricorrente, della natura liberale dell’atto. In tal modo si rimarca un aspetto che semmai è eventuale40 ma non naturale e che pare dovuto ad un’esigenza di

  C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, cit., p. 45.   F. Galgano, Il negozio giuridico, in Tratt. dir. civ. A. Cicu – F. Messineo, Milano, 1988, p. 513, A. Palazzo, Le successioni, in Tratt. dir. civ. G. Iudica – P. Zatti, I, Milano, 2000, p. 641. 39   V. Cuffaro, Il testamento in generale: caratteri e contenuto, cit., p. 734; M.C. Tatarano, Il testamento, cit., p. 35; P. Boero, Il testamento, in Diritto delle successioni e delle donazioni, a cura di R. Calvo – G. Perlingieri, Napoli, 2009, II, p. 670. 40   C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, cit., p. 45, il quale osserva: «ciò non vuol dire che esso (il testamento) sia sempre un atto di liberalità o, più precisamente, che esso importi sempre un beneficio economico per colui in cui favore è fatto». Non convince, sul punto, l’assunto di autorevole dottrina, F. Galgano, Il negozio giuridico, cit., p. 513, secondo la quale «il testatore manifesta, invece, la propria liberalità solo perché deroga, con il testamento, all’ordine della successione legittima e, nei limiti della quota disponibile, decide a chi andranno i suoi beni». Che detto rilievo non colga nel segno è facilmente provato dal fatto che il testatore potrebbe formulare disposizioni quantitativamente sovrapponibili alle norme di legge. Inoltre, l’inessenzialità della liberalità al testamento è positivamente comprovata dal legato a favore del creditore di cui all’art. 659 c.c. Su di esso, da ultimo, anche in una condivisa prospettiva funzionale, si veda E. Migliaccio, Funzione e vicende dei legati. Il legato di debito, cit., p. 74. Per un raffronto tra testamento e donazione in ordine alla natura liberale, si veda G. Tamburrino, Testamento, b) Diritto privato, in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, p. 473, il quale mette in evidenza le differenze tra la donazione e il testamento. La prima è un atto inter vivos a struttura contrattuale ed è caratterizzata dallo spirito di liberalità; il secondo è un atto mortis causa a struttura unilaterale e non è ne37

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parallelismo con la donazione e con la peculiare disciplina dei motivi nelle due fattispecie. In un assetto di interessi destinato ad essere attuato dopo la morte del suo autore, sembra allora preferibile assegnare alle qualifiche di liberalità e onerosità un significato diverso da quello che esse rivestono negli atti tra vivi41. Quanto poi alla spontaneità42, da intendersi come assenza di vincoli atti ad incidere sul processo di formazione della voluntas testantis, sì da determinare la coartazione della volontà del disponente, essa non rileva vieppiù di quanto non accada per altre manifestazioni di volontà rilevanti giuridicamente. Il discorso, invece, cambia, ed anche sensibilmente, ove essa venga intesa nel senso di inibire accordi o convenzioni atti a minare la libertas testandi, con ciò tuttavia spostando il tema sul campo della unilateralità e della unipersonalità43. cessariamente caratterizzato dallo spirito di liberalità (ad esempio, il caso in cui le passività siano superiori alle attività). 41   E. Betti, Legato e liberalità (diritto romano), in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1955, p. 640. Sulla mancanza nel testamento di ogni possibilità di depauperamento per il testatore, sì da rinvenirsi in ciò il principale distinguo con la donazione, si veda A. Torrente, La donazione, in Tratt. dir. civ. comm. A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1956, p. 306. Da ciò si è suggerita del testamento la qualificazione di «negozio neutro, disponibile, con la modellabilità delle sue disposizioni, sia ad effetti liberali e gratificatori che no». In tal senso, v. G. Criscuoli, Il testamento, cit., p. 161; P. Rescigno, Le successioni testamentarie. Nozioni generali, in Tratt. breve succ. don. diretto da P. Rescigno, I, Padova, 2010, p. 728. Contra, A. Palazzo, Testamento e istituti alternativi, cit., p. 31 ss., che rifiuta la qualificazione di negozio neutro, ritenendo necessaria la verifica caso per caso della finalità perseguita dal testatore. 42   Tale carattere viene spesse volte riferito alla revoca, quantomeno per il «dominante pensiero che l’abbandono o le limitazioni della successione ex lege si giustificano soltanto sulla base di un reale, e non viziato, volere del testatore». In tal senso G. Cian, Il testamento nel sistema degli atti giuridici, in Tradizione e modernità del diritto successorio a cura di S. Delle Monache, Padova, 2007, p. 164. Tuttavia, tale aspetto emerge anche al di fuori della revoca, si pensi al divieto del testamento congiuntivo (art. 589 c.c.), alla rilevanza dell’errore sul motivo (art. 624, comma 2, c.c.) e del motivo illecito (art. 626 c.c.), allo stesso formalismo testamentario (art. 601 ss. c.c.). 43   S. Delle Monache, Testamento, Disposizioni generali, cit., p. 96, per il quale è da reputare valido il testamento che «pur dettando un piano successorio

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Una volta individuati i caratteri effettivi o supposti del testamento, è d’uopo soffermarsi su di essi. Dalla lettera dell’art. 587 c.c. emerge da subito la natura del testamento quale atto mortis causa. In altri termini, la morte44 è assunta a punto di origine e di individuazione del complessivo effetto successorio45. Il testamento sul piano funzionale è atto di ultima volontà46, dove l’aggettivo «ultima» sottende non solo ad una accezione temporale, quanto – soprattutto – sostanziale. Con il testamento, infatti, si pone in atto una regolamentazione dei propri interessi destinata a valere quando il suo autore non sarà più in vita. L’atto, se perfetto nel momento in cui viene posto in essere e idoneo ad essere percepito dal suo autore come regola impegnativa, precetto, benché revocabile ad libitum, è per l’ordinamento giuri-

corrispondente ai contenuti preconizzati in un previo accordo di cui era parte il testatore, non si possa tuttavia stabilire con certezza se sia stato posto in essere in attuazione di tale accordo o, invece, in modo spontaneo». 44   Tale presupposto pone da subito l’esigenza di distinguere il testamento da fattispecie diverse, il cui elemento di contiguità è dato dalla presenza della morte dell’autore del negozio. Ci si riferisce, in particolare, ai negozi post mortem, o più propriamente negozi con effetti post mortem, che sono atti inter vivos nei quali l’evento della morte si inserisce come condizione o come termine di efficacia. Tra di essi vengono annoverati la donazione si praemoriar e la donazione modale con adempimento post mortem. Per essi, ex multis, M. Ieva, I fenomeni a rilevanza successoria, Napoli, 2008, p. 103 ss. Ulteriore distinguo va operato dai negozi transmorte, dove la morte rende definitiva l’attribuzione al beneficiario di un bene uscito dal patrimonio del beneficiante prima del suo accadere. In tale categoria rientrano il contratto a favore del terzo da eseguire dopo la morte del disponente, l’assicurazione sulla vita a favore di terzo e la rendita vitalizia a favore di terzo. Per essi, v. soprattutto A. Palazzo, Autonomia contrattuale e successioni anomale, cit., p. 50 e Id., Testamento e istituti alternativi, Padova, 2008. Le due tipologie finiscono per rappresentare alternative imperfette, specialmente con riferimento alla revocabilità, che in esse è assente o solamente parziale, mentre nel testamento è totale e requisito strutturale. 45   N. Irti, Disposizione testamentaria rimessa all’arbitrio altrui, Milano, 1967, p. 125, ove si legge che «i singoli stadi del fenomeno si richiamano alla morte, come a presupposto ineliminabile e necessario». O ancora, e più di recente, P. Rescigno, Le successioni testamentarie. Nozioni generali, cit., p. 728, ove si parla di «efficienza causale della morte in ordine agli effetti». 46   Sul punto, non può non rinviarsi alle fondamentali e belle pagine scritte da G. Giampiccolo, La dichiarazione recettizia, Milano, 1959, p. 37 ss.

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dico idoneo alla produzione di effetti giuridici soltanto quando sopraggiunge la morte del suo autore. La revocabilità del testamento47 è carattere testualmente sancito dall’art. 587 c.c. Da tale carattere è possibile trarre almeno due considerazioni. In primo luogo, se l’atto è revocabile vuol dire che esso, almeno per il suo autore, è produttivo di effetti, altrimenti un simile tratto apparirebbe del tutto fuori luogo. In secondo luogo, e per converso, l’atto è inefficace nei confronti dei terzi fino a che non interviene la condicio (iuris o facti) della morte del suo autore, e dunque è privo di rilevanza giuridica esterna48.   Per un inquadramento generale sulla revoca, è imprescindibile il rinvio a S. Romano, Revoca (diritto privato), in Noviss. Dig. it., Torino, 1968, XV, p. 808 ss. In argomento, v. pure L. Rossi Carleo, Revoca degli atti, II) Revoca del testamento, in Enc. giur. Treccani, XXVII, Roma, 1991, p. 1 ss. 48   Il rapporto tra l’atto mortis causa e l’evento morte è molto discusso in dottrina. Si segnalano, sul punto, diversi orientamenti. Secondo una prima tesi, il testamento, al momento del suo perfezionamento, sarebbe un semplice progetto o un atto in via di formazione, che richiederebbe una volontà continuativa e permanente e sarebbe destinato a trovare compimento alla morte del suo autore. In tale direzione, tra gli altri, militerebbe il potere di revoca ex artt. 679 ss. c.c. In altri termini, in assenza di un atto di revoca, la volontà del disponente, al momento dell’apertura della successione, sarebbe implicitamente confermata e assumerebbe carattere definitivo (R. De Ruggiero – F. Maroi, Istituzioni di diritto privato, Milano – Messina, 1950, p. 458; A. Guarneri Citati, La reviviscenza delle disposizioni testamentarie revocate, in Riv. dir. civ., 1931, p. 221 ss.). In contrario, si è rilevato che, ferma restando la possibilità di revocare le disposizioni testamentarie, l’autore dell’atto mortis causa, attraverso un negozio dispositivo perfetto, esprimerebbe una volontà seria e definitiva (Così C. M. Bianca, Diritto civile, 2. La famiglia – Le successioni, cit., p. 733; C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, Volume I, cit., p. 39 ss.; G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento, cit., p. 59). Infatti, si afferma che, se il testamento fosse un mero progetto, sarebbe necessaria, al fine di conferire carattere definitivo al medesimo, un’ulteriore manifestazione di volontà di segno positivo, non richiesta da alcun disposto normativo. (Sul punto, G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento, cit., pp. 59-60). Va aggiunto, altresì, che la qualificazione in termini di atto in via di formazione renderebbe necessaria la perseverantia in voluntate, ossia la persistenza dell’elemento volitivo fino al momento del decesso dell’ereditando. È noto, invece, che in assenza di un atto di revoca, un semplice mutamento della volontà interna del testatore è irrilevante. 47

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La revocabilità non solo è riportata nella disposizione che dà la nozione di testamento, ma è confermata dalle norme in tema di revoca del testamento di cui agli artt. 679 ss. c.c. Specialmente la prima norma di detta sezione comprova il ruolo della revocabilità nella dinamica testamentaria, sancendo che «non si può rinunziare Secondo una diversa impostazione, il decesso del disponente costituirebbe una condicio iuris, al verificarsi della quale il negozio testamentario, già perfetto fin dal momento della sua redazione, produrrebbe effetti giuridici (E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., p. 311; F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, cit., p. 198. Cfr. anche G. Tamburrino, Testamento, b) Diritto privato, cit., p. 477 e p. 503. L’A. rileva che, indipendentemente dalla qualificazione giuridica del testamento, non si deve fare confusione tra l’atto di ultima volontà e i suoi effetti: l’atto è perfetto, se ne sussistono i requisiti richiesti, nel momento della dichiarazione della volontà, mentre gli effetti si producono in un momento differito). All’interno di tale orientamento la morte dell’ereditando è stata qualificata in termini diversi. Si è detto che, se si osserva il fenomeno successorio nel suo complesso, è evidente che la morte costituisce il presupposto di fatto, l’antecedente logico del fenomeno medesimo. Tuttavia, se si analizza specificamente l’atto di ultima volontà, si può notare come il medesimo evento costituisca la componente causale dell’atto, rendendo necessaria, di conseguenza, una qualificazione in termini di condicio iuris o di termine iniziale incertus quando o, ancora, di fatto determinante o costitutivo dell’efficacia dell’atto (Per un quadro delle diverse posizioni dottrinali relative all’inquadramento giuridico dell’evento morte, v. L. Bigliazzi Geri, Il testamento, cit., p. 25 ss.; Ead., Il testamento, I) Profilo negoziale dell’atto: appunti delle lezioni, cit., p. 108; G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento, cit., p. 62 ss.). Altra parte della dottrina individua, infine, nel testamento un doppio stadio di rilevanza giuridica: il negozio, in sé pienamente valido fin dal momento della testamenti factio, produrrebbe effetti immediati per il suo autore (come confermato dalla necessità di un atto di revoca per privarlo di efficacia), mentre acquisterebbe valore giuridico nei confronti dei terzi solo con il verificarsi dell’evento morte (In tal senso, G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento, cit., p. 61 ss. In particolare, a p. 65, l’A. afferma che «l’evento della morte nello schema dell’atto di ultima volontà è propriamente un elemento che resta al giusto mezzo fra i concetti di perfezione ed efficacia dell’atto: non è un elemento costitutivo del negozio, non è un semplice requisito di sua efficacia; è qualcosa di meno che il primo, qualcosa di più che il secondo», e a p. 68 specifica che la morte «non è un semplice requisito di efficacia perché non sospende soltanto l’efficacia del negozio, ma ne condiziona piuttosto la stessa rilevanza giuridica verso i terzi (per ogni e qualsiasi categoria di terzi l’atto di ultima volontà è, prima della morte, un semplice fatto storico, non ancora un negozio); non è un elemento costitutivo dell’atto perché è estraneo alla struttura di questo e il negozio è perfetto, come atto di autonomia privata, al momento stesso in cui è formato».

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alla facoltà di revocare o mutare le disposizioni testamentarie: ogni clausola o condizione contraria non ha effetto». Ne segue la nullità di un accordo di tal fatta, confliggendo con la regola di cui al brocardo ambulatoria est voluntas defuncti usque ad vitae supremum exitum, dal quale si evince che, in considerazione della funzione dell’atto e della sua oggettiva irripetibilità, in base ad una presunzione deve reputarsi che l’ultima manifestazione di volontà corrisponda al volere del disponente. L’unilateralità del testamento, allo stato carattere incontroverso dell’atto di ultima volontà, nel corso del tempo è stato nondimeno revocato in dubbio da parte di alcuni autorevoli studiosi. Non si è mancato, infatti, di cogliere nella vicenda successoria un nesso tra l’atto del testatore e l’accettazione del chiamato. Salvo giungere, poi, a distinguere, correttamente, il profilo del perfezionamento dell’atto quale unicamente rimontante alla volontà del suo autore, da quello della produzione degli effetti che abbisogna della partecipazione del destinatario della delazione49. L’unilateralità del testamento pare doversi ricondurre anzitutto al disposto dell’art 458 c.c., che sancisce il divieto dei patti successori50, nonché dal divieto di testamento reciproco o congiuntivo disposto dall’art. 589 c.c., il quale pare esprimere inoltre il tratto della unipersonalità del testamento. Invero, l’unilateralità deve essere intesa come prescrizione volta ad evitare che la decisione del singolo sia riconducibile all’accordo contrattuale, svilente la stessa manifestazione di autonomia. Invece, l’unipersonalità, se sul piano del diritto positivo si risolve nel disposto del citato art. 589 c.c., nondimeno è idonea a designare   G. Bonilini, Autonomia testamentaria e legato. I legati così detti atipici, cit., p. 34; G. Tamburrino, Testamento, b) Diritto privato, cit., p. 471 ss. La prospettiva segnalata nel testo è oggetto di riflessione in N. Lipari, Autonomia privata e testamento, cit., p. 202 ss., nell’àmbito della critica rivolta alla natura negoziale del testamento, anche partendo dall’autonoma disponibilità degli effetti. 50   Sul tema, v. M. V. De Giorgi, I patti sulle successioni future, Napoli, 1976 nonché Ead., Patto successorio, in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, p. 533 ss. Inoltre, il recente contributo di V. Barba, I patti successori e il divieto di disposizione della delazione, cit., passim. 49

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tanto il carattere personalissimo dell’atto, insuscettibile di rappresentanza, quanto la sua unidirezionale riconduzione al disponente. Infatti, il testamento è assai poco incline ad aprirsi agli apporti volitivi dei terzi, se non in funzione integrativa e giammai suppletiva della volontà dell’autore, come è arguibile dagli artt. 631, comma 1, e 632, comma 1, c.c. Queste ultime due norme, infatti, colpiscono con la nullità «sia la disposizione testamentaria con la quale si fa dipendere dall’arbitrio di un terzo l’indicazione dell’erede o del legatario, ovvero la determinazione della quota di eredità» sia «la disposizione che lascia al mero arbitrio dell’onerato o di un terzo di determinare l’oggetto o la quantità del legato». Da ultimo, ma non per importanza, è opportuno soffermarsi sulla non recettizietà. Anch’essa non appare cristallizzata in una norma di legge, bensì risulta desumibile dal sistema. È proprio il modus operandi della successione, nonché il profilo effettuale dell’atto che non richiede la comunicazione dello stesso ai terzi, a denotare tale carattere51. Un tratto, quello in discorso, la cui essenzialità non è scalfita né dal testamento epistolare, vale a dire quel testamento reso in forma di lettera, né dalla comunicazione effettuata all’interessato, ipotesi tutt’altro che infrequente; né, infine, dal ricorso alla forma del testamento pubblico52. Ipotesi, quest’ultima, nella quale il notaio ed i testimoni divengono partecipanti alla formazione del documento, nel quale la dichiarazione del testatore prende forma e rispetto alla quale non si pongono come destinatari degli effetti cui essa tende.

  Sul punto, emblematiche le parole di G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell’atto di ultima volontà, cit., p. 113, per il quale «la dichiarazione di volontà è compiuta e perfetta non appena è firmata, e si distingue quindi dalle altre dichiarazioni non recettizie per ciò che ad essa non può riferirsi il concetto di una emissione come entità distinta dalla creazione dell’eventuale documento in cui il fatto si contiene». 52   G. Giampiccolo, La dichiarazione recettizia, cit., p. 37, ove si osserva che tale dichiarazione è «la più solitaria fra tutte le manifestazioni non recettizie». 51

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4. La disputa circa la natura dell’atto a causa di morte, tra negozio giuridico e atto di indirizzo – oggettivo e soggettivo – della successione Fissati i caratteri dell’atto, è necessario ora indagarne la natura, atteso anche che il disposto del comma 1 dell’art. 587 c.c. è muto al riguardo, riferendosi unicamente al profilo patrimoniale di esso. Si pone dunque, in tutta la sua forza, il tema della negozialità53 oppure   Il legislatore del 1942, discostandosi dal codice germanico del B.G.B., non ha inteso dare una nozione e una regolamentazione generale del negozio giuridico, rimettendo alla dottrina il compito di delinearne i tratti essenziali. Il negozio giuridico è la manifestazione di volontà con la quale i privati regolano i propri interessi nei rapporti reciproci, creando, modificando, accertando o estinguendo rapporti giuridici. La bibliografia in materia di negozio giuridico è a dir poco estesa. Senza presunzione di completezza, si possono indicare le opere che seguono. Tra le opere generali, almeno, M. Allara, La teoria generale del contratto, Torino, 1955, p. 1 ss.; E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico (Ristampa corretta della II edizione), Napoli, 1994, p. 43 ss.; C. M. Bianca, Diritto civile, 3 – Il contratto, Milano, 2000, p. 7 ss.; L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, 1966, p. 1 ss.; F. Galgano, Il negozio giuridico, cit., p. 17 ss.; V. Roppo, Il contratto, Milano, 2001, p. 23 ss.; F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 2002, p. 125 ss.; R. Scognamiglio, Contributo alla teoria del negozio giuridico, Napoli, 1969, p. 1 ss.; G. Stolfi, Teo­ria del negozio giuridico, Padova, 1961, p. 1 ss. Il tema è trattato diffusamente anche nella manualistica. Si vedano, almeno, F. Galgano, Diritto privato, cit., p. 221 ss.; F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2007, p. 769 ss.; A. Torrente – P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 2009, p. 193 ss.; A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, Padova, 2005, p. 99 ss.; P. Trimarchi, Istituzioni di diritto privato, Milano, 2007, p. 151 ss.; B. Troisi, Diritto civile. Lezioni, Napoli, 2008, p. 63 ss. Per le voci enciclopediche, F. Galgano, Negozio giuridico, II) Diritto privato, a) Premesse problematiche e dottrine generali, in Enc. dir., XXVII, Milano, 1977, p. 932 ss.; R. Scognamiglio, Negozio giuridico, I) Profili generali, in Enc. giur. Treccani, XX, Roma, 1990, p. 1 ss. Per la distinzione tra fatti giuridici, atti giuridici e atti negoziali, cfr. E. Betti, Atti giuridici, in Noviss. Dig. it., I, 2, Torino, 1958, p. 1504 ss.; Id., Teoria generale del negozio giuridico, cit., p. 9 ss.; A. Falzea, Fatto giuridico, in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, p. 941 ss.; F. Galgano, Il negozio giuridico, cit., p. 1 ss.; F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., p. 81 ss.; C. Maiorca, Fatto giuridico – Fattispecie, in Noviss. Dig. it., VII, Torino, 1961, p. 111 ss.; R. Moschella, Fatto giuridico, in Enc. giur. Treccani, XIV, Roma, 1989, p. 1 ss.; P. Rescigno, Atto giuridico, I) Diritto privato, in Enc. giur. Treccani, IV, Roma, 1988, p. 1 ss.; F. Santoro-Passarelli, Atto giuridico (diritto privato), in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 53

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no del testamento. Il tema non è affatto di poco momento, in quanto esso si correla indefettibilmente al se la fonte della vocazione54 possa essere duplice, ovvero legale e testamentaria55, o se, invece, la causa immediata della vocazione sia sempre e soltanto la legge56. Come è noto, la questione concernente la natura giuridica del testamento57 ha visto l’elaborazione in seno alla dottrina di posizioni tra loro profondamente divergenti. p. 203 ss.; Id., Dottrine generali del diritto civile, cit., p. 106; R. Scognamiglio, Contributo alla teoria del negozio giuridico, cit., p. 157 ss.; A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, cit., p. 80 ss.; P. Trimarchi, Istituzioni di diritto privato, cit., p. 52 ss.; B. Troisi, Diritto civile. Lezioni, cit., p. 61 ss. 54   Secondo la dottrina maggioritaria, il termine “vocazione” indicherebbe l’aspetto soggettivo del fenomeno successorio, ossia la designazione di coloro che dovranno succedere al defunto. Con il termine “delazione”, invece, si alluderebbe all’aspetto oggettivo della vicenda, consistente nell’offerta del patrimonio ereditario a un soggetto, il quale avrebbe il potere di acquistarlo mediante un atto di accettazione. Relativamente alle differenze tra vocazione e delazione, v. L. Barassi, Le successioni per causa di morte, cit., p. 35; G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., pp. 17-18; L. Cariota Ferrara, Le successioni per causa di morte, cit., p. 62 ss. 55   Nel diritto romano, la successione legittima e quella testamentaria si trovavano, reciprocamente, in rapporto di esclusione (nemo pro parte testatus, pro parte intestatus decedere potest): la prima interveniva in forma puramente sussidiaria, qualora mancasse totalmente la seconda. La regola romanistica, caduta in disuso già nel diritto intermedio, non è presente nell’attuale sistema giuridico, nel quale è ammissibile il concorso delle due forme di delazione rispetto al patrimonio di uno stesso de cuius (art. 457, comma 2, c.c.). Sul punto, v. L. Barassi, Le successioni per causa di morte, cit., p. 41 ss. 56   Sul tema, v. L. Bigliazzi Geri, Il testamento, cit., p. 11; Ead., Il testamento, I) Profilo negoziale dell’atto: appunti delle lezioni, cit., p. 20. L’A. considera soltanto la chiamata a titolo di erede, precisando che, in quella a titolo di legato, la fonte legale è ridotta a un numero esiguo di ipotesi. Quanto ai casi di legato ex lege, si considerino le ipotesi contemplate dagli artt. 540, comma 2, 548, comma 2, 580 e 594 c.c. Sul punto, v. F. Santoro-Passarelli, Vocazione legale e vocazione testamentaria, in Riv. dir. civ., 1942, p. 193 ss. 57   Sul tema della natura giuridica del testamento incide il diverso ruolo assegnato alla vocazione, intesa come la designazione soggettiva del destinatario dell’attribuzione. Al riguardo, R. Nicolò, La vocazione ereditaria diretta e indiretta, in Raccolta di scritti, I, Milano, 1980, p. 17, 27 e 33, osserva che il testatore potrebbe solo designare concretamente la persona del successore, mentre la designazione astratta sarebbe opera della legge. Più precisamente, sia lo scioglimento del vincolo, che lega i beni alla persona del titolare, sia la successione a causa di morte non dipenderebbero dalla volontà del singolo: lo scioglimento del vincolo

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Secondo una prima tesi, ove si collocasse il testamento nella categoria del negozio giuridico, non si considererebbero adeguatamente tanto la funzione quanto le peculiarità disciplinari che differenziano l’atto a causa di morte da altri atti di autonomia58. Questa dottrina ritiene che l’atto di ultima volontà non potrebbe presentare natura negoziale, non rappresentando il titolo della successione, essendo piuttosto un mero presupposto degli effetti giuridici che l’ordinamento ad esso riconnette59. Nel testamento si assisterebbe ad una particolare ipotesi di mancata corrispondenza tra il contenuto dell’atto e la misura dell’effetto. Il testatore, lungi dall’essere il vero centro propulsore della vicenda testamentaria, potrebbe unicamente imprimere una certa direzione alla vocazione, sia in senso soggettivo, provvedendo a designare i destinatari della medesima, sia in senso oggettivo, determinando quantitativamente il suo oggetto, ma ciò non parteciperebbe in alcun modo dei tratti propri della negozialità. Ne esce fuori una deminutio significativa delle prerogative del testatore, al quale competerebbe un effetto minimo, di segno negativo, volto ad escludere l’operatività della successione legittima. Inoltre, e ciò risulta assolutamente rilevante per il tema che qui si sta indagando, in tema di interpretazione si dovrebbe avere riguardo non solo alla volontà del testatore al momento della testamenti factio, ma anche alla di lui volontà al tempo dell’apertura della successione e dell’acquisto mortis causa60. deriverebbe dalla morte del titolare e la successione mortis causa sarebbe comunque prevista e regolata dalla legge. Si osservi che l’Autore riconosce, accanto alla vocazione e alla delazione, l’autonoma figura della «designazione». Contra L. Cariota Ferrara, Le successioni per causa di morte, cit., p. 76 ss., secondo il quale la «designazione» potrebbe essere considerata una figura giuridica autonoma, distinta dalla vocazione e dalla delazione, solo qualora si accogliesse la premessa del carattere esclusivamente legale della vocazione. In caso di accoglimento della tesi della duplice fonte della vocazione (legale e testamentaria), la premessa verrebbe a cadere, con conseguente impossibilità di ammettere la figura della «designazione». 58   Convinto assertore di tale tesi è N. Lipari, Autonomia privata e testamento, cit., p. 50. 59   N. Lipari, Autonomia privata e testamento, cit., p. 141. 60   N. Lipari, Autonomia privata e testamento, cit., p. 414.

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La ricostruzione testé riferita si fonda su alcune argomentazioni, basate principalmente sul rilievo peculiare che l’evento morte ha nella fattispecie in discorso, nonché sulla necessità di un atto di accettazione ai fini dell’acquisto ereditario. In particolare, si è rilevato che la circostanza che il testamento acquisti efficacia unicamente con la morte del suo autore e che l’acquisto da parte del delato richieda necessariamente l’accettazione, costituirebbero indici incontrovertibili dell’impossibilità di individuare un effetto negoziale univocamente riferibile al confezionamento dell’atto61. Si è altresì aggiunto che il carattere non negoziale potrebbe arguirsi dal fatto che vi sono alcune ipotesi di c.d. revoca tacita che sarebbero sfornite della negozialità. Si pensi, ad esempio, alla distruzione del testamento olografo (art. 684 c.c.) o al ritiro del testamento segreto (art. 685 c.c.). Argomento, quello da ultimo riferito, che si presenta certamente meno persuasivo di quello in precedenza riportato. Secondo una impostazione che potremmo definire intermedia, l’atto mortis causa presenta natura negoziale. Tuttavia significative differenze lo connoterebbero rispetto agli atti di autonomia privata di natura patrimoniale conclusi tra vivi, non potendosi perciò operare una reductio ad unitatem nella medesima categoria giuridica62. I negozi tra vivi, tra i quali svetta il contratto, sarebbero diretti a creare, modificare o estinguere rapporti giuridici63; diversamente,

  N. Lipari, Autonomia privata e testamento, cit., p. 232.   In tal senso, si veda G. B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, p. 39 ss., il quale osserva come l’erroneo accostamento del testamento al contratto derivi dall’assenza di una disciplina del negozio giuridico e dalla conseguente opera di configurazione effettuata dalla dottrina. 63   Così G. B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, cit., p. 52, il quale afferma che, mediante il contratto, «le parti veramente creano qualche cosa che prima non c’era e che senza il loro intervento non si sarebbe mai verificata». V. anche G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell’atto di ultima volontà, cit., pp. 167-168, il quale sottolinea come l’atto inter vivos sia «destinato a regolare un conflitto di interessi tra il dichiarante e i destinatari della dichiarazione» e a «circolare ed operare nel comune commercio giuridico». L’A. osserva che l’atto di ultima volontà si discosta in modo significativo dall’atto tra vivi, in quanto è caratterizzato dall’assenza di controinteressati 61

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il testamento sarebbe sguarnito di una effettiva forza creatrice, dal momento che è la legge la fonte del fenomeno successorio64. Accedendo a tale ricostruzione, ne consegue che l’unica fonte immediata e diretta della vocazione sarebbe la legge. La volontà del testatore non potrebbe assurgere a titolo giuridico idoneo a legittimare l’attribuzione della complessa posizione giuridica ereditaria, comprensiva dei diritti e degli obblighi facenti capo al de cuius, non estintisi per effetto della morte e non aventi carattere personale, ma servirebbe soltanto ad imprimere alla vocazione una determinata direzione, in una maniera, peraltro, non sempre vincolante per l’ordinamento65. Secondo una diversa impostazione, seguita dalla prevalente dottrina, le disposizioni testamentarie avrebbero invero natura negoziale e, pertanto, sarebbero espressione dell’autonomia privata66. La volontà del testatore, dunque, non è solo diretta ad indirizzare la vocazione, quanto invece sarebbe la fonte della vicenda successoria, determinandone il destinatario e l’oggetto.

in senso tecnico ed è destinato a regolare gli interessi propri del suo autore per il tempo in cui questi avrà cessato di vivere. 64   Cfr. G. B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, cit., p. 53, il quale spiega che, nonostante alcune norme riconducibili al cosiddetto favor testamenti possano indurre a credere il contrario, «la forza creatrice del testamento» è «più apparente che reale». 65   In tal senso, R. Nicolò, La vocazione ereditaria diretta e indiretta, cit., p. 18. Secondo l’A., la volontà del testatore non darebbe vita al fenomeno successorio, ma si limiterebbe ad avviarlo e ad imprimergli una certa direzione, direzione che potrebbe, comunque, essere rettificata o cambiata dalla legge. 66   La qualificazione del testamento in termini di atto di autonomia privata è ricorrente nei testi di carattere generale sul negozio giuridico, nelle opere istituzionali e manualistiche, nonché nelle principali monografie dedicate all’atto di ultima volontà. Cfr. M. Allara, Il testamento, cit., p. 113; Id., Principi di diritto testamentario, cit., p. 26; C. M. Bianca, Diritto civile, 2. La famiglia – Le successioni, cit., p. 731; L. Bigliazzi Geri, Il testamento, cit., p. 15 e, in particolare, nota 29; Ead., Il testamento, I) Profilo negoziale dell’atto: appunti delle lezioni, cit., p. 86; M. Bin, La diseredazione, Contributo allo studio del contenuto del testamento, cit., p. 147; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 206 ss.; G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., p. 418.

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Ne deriva che in assenza di una determinazione volitiva del defunto, il rapporto successorio troverebbe la propria fonte regolatrice nelle previsioni di legge67. I sostenitori della natura negoziale del testamento muovono ai sostenitori dell’avversa tesi un’unica sostanziale critica. Ogniqualvolta è previsto l’intervento della legge in luogo della regola predisposta dal privato, si pensi ad esempio all’inserzione automatica di clausole di cui all’art. 1339 c.c. o all’art. 1374 c.c., questo è dovuto ad un naturale modo di agire dell’ordinamento giuridico, che dunque non è circoscritto al solo fenomeno successorio. Pertanto, il fatto che in subiecta materia si assista alla previsione di effetti legali, che possono verificarsi indipendentemente dalla volontà del testatore o finanche contro la volontà di questi, non è in grado di sconfessare la natura negoziale dell’atto e la rilevanza della volontà del suo autore68. Certamente, non può disconoscersi che il differimento dell’efficacia del testamento al momento della morte del suo autore, la necessità dell’accettazione del chiamato ai fini dell’acquisto ereditario (art. 459 c.c.), l’operatività della rappresentazione anche in caso di successione testamentaria (art. 467, comma 2, c.c.) e, infine, l’intangibilità dei diritti dei legittimari (artt. 457, comma 3, 536 ss. e 549 c.c.) sembrano stridere con l’idea comune di negozialità come idoneità della volontà dell’autore o degli autori del negozi ad abbracciare gli effetti ad esso conseguenti. Ma ciò non può giungere al punto di annullare quanto di forte vi sia nella manifestazione di volontà testamentaria. Non si può ne-

  Come è stato autorevolmente osservato da E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., p. 62, la concezione soggettiva del negozio manifesta la sua inadeguatezza dinanzi all’atto mortis causa, non riuscendo a spiegare, in modo esaustivo, come possa avere rilevanza giuridica una volontà, la quale non sia riferibile a una persona vivente e capace. Tale argomentazione consente all’Autore di evidenziare i limiti della teoria del dogma della volontà, con ciò dando sostegno alla teoria precettiva dallo stesso propugnata. 68   In tal senso, L. Bigliazzi Geri, Il testamento, I) Profilo negoziale dell’atto: appunti delle lezioni, cit., pp. 22, 46 e 90; F. Santoro-Passarelli, Vocazione legale e vocazione testamentaria, cit., p. 197. 67

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gare, infatti, che indirizzare soggettivamente ed oggettivamente la delazione rientri nell’area della negozialità.

5. I profili causali del testamento quale proiezione della querelle sulla causa del negozio giuridico, tra concezione soggettiva e concezione oggettiva La disamina dei caratteri del testamento è propedeutica all’analisi dell’annosa questione della funzione o causa69 del negozio testamentario. Tema, quest’ultimo, la cui rilevanza, ancorché negata da una autorevole benché esigua dottrina70, si impone una volta assunta la negozialità del testamento, costituendo la causa un elemento essenziale del negozio giuridico. La criticità della causa del testamento si allinea, quanto ad oscurità, alla causa del negozio giuridico, che costituisce uno dei temi più tormentati della teoria generale, conducendo la dottrina a riferire di esso come di un elemento vago, misterioso, enigmatico, indecifrabile, fonte di equivoci e confusioni e perfino inutile71.

69   Per l’analisi del concetto di causa, oltre a quanto si indicherà nel testo, per le principali voci enciclopediche sul tema, v. E. Betti, Causa del negozio giuridico, in Noviss. Dig. it., III, Torino, 1959, p. 32 ss.; A. Di Majo, Causa del negozio giuridico, in Enc. giur. Treccani, VI, Roma, 1988, p. 1 ss.; M. Giorgianni, Causa, c) Diritto privato, in Enc. dir., VI, Milano, 1960, p. 54 ss. Specificamente sulla causa del testamento, L. Bigliazzi Geri, Il testamento, I) Profilo negoziale dell’atto: appunti delle lezioni, cit., p. 253 ss.; G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., p. 441 ss.; G. Tamburrino, Testamento, b) Diritto privato, cit., p. 503. 70   M. Giorgianni, Causa, cit., p. 74, secondo il quale l’attuale disciplina del testamento rimuove il concetto stesso di causa, ossia la causa del testamento si è identificata nel motivo, in quanto la vera e propria causa – quale giustificazione dello spostamento patrimoniale – può avere rilievo solo nei rapporti tra sopravvissuti. 71   Per le varie accezioni riferite, v. M. Osiglia, Considerazioni sulla causa del contratto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1949, I, p. 344; A. Torrente, La donazione, cit., p. 171; L. Ferrara, Teoria dei contratti, Napoli, 1940, p. 127; S. Pugliatti, Precisazioni in tema di causa, in Diritto civile. Metodo – Teoria – Pratica. Saggi,

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In ordine al tema in discorso, si contrappongono due grandi ricostruzioni, a seconda che assuma preminenza l’aspetto soggettivo interiore della causa del testamento ovvero il profilo oggettivo della stessa, al cui interno, poi, va distinta la tesi c.d. unitaria e la tesi c.d. atomistica. Nell’àmbito delle ricostruzioni che privilegiano l’aspetto soggettivo72, una prima posizione è quella per cui la ragione giustificativa del testamento va individuata nel motivo determinante73. Più che di un approccio causalistico, questi interpreti assumono una posizione anticausalista, argomentando principalmente dal rilievo che l’art. 828 c.c. 1865 concernente la causa sarebbe stato correttamente sostituito con il concetto di motivo nel disposto dell’art. 624 del codice vigente74. Corollario di questa tesi è che il diritto delle successioni non costituisce terreno di interesse per la teoria della causa. Un diverso approccio soggettivistico è quello che individua la causa del testamento nello spirito di liberalità che caratterizzerebbe l’attribuzione patrimoniale in favore dell’erede o del legatario.

Milano, 1951, p. 105; L. Bonfante, Il contratto e la causa del contratto, in Riv. dir. comm., 1908, I, p. 115. 72   In giurisprudenza, la sola sentenza di merito che segue l’approccio soggettivistico è riferibile a Trib. Verona, 18 dicembre, 1971. 73   In ordine ai motivi del negozio giuridico e alle differenze rispetto al concetto di causa, v. L. Baglietto, Riconoscimento di proprietà a favore di alcuni eredi, interpretazione del testamento e rilevanza dei “motivi”, in Giur. merito, 1974, I, p. 389; M. Bessone, “Causa” e “motivo” nella disciplina del testamento, in Giur. it., 1972, I, 1, c. 730 ss.; G. Ferrando, Motivi, in Enc. giur. Treccani, XX, Roma, 1990, p. 1 ss.; R. Guzzi, Motivo del negozio giuridico, in Noviss. Dig. it., X, Torino, 1964, p. 970 ss.; M. Mearelli, Sulla rilevanza del motivo nel testamento, in Giur. merito, 1979, p. 488 ss.; S. Pagliantini, Causa e motivi del regolamento testamentario, cit., p. 1 ss.; L. Ricca, Motivi, a) Diritto privato, in Enc. dir., XXVII, Milano, 1977, p. 269 ss. 74   M. Bessone, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1969, p. 247 ss.; L. Baglietto, Riconoscimento di proprietà a favore di alcuni eredi, interpretazione del testamento e rilevanza dei motivi, cit., spec. p. 392; F. Centeleghe, Rilevanza del motivo, causa e spirito di liberalità nella disciplina del testamento, in Giur. merito, 1974, p. 289 ss.; G. Alpa, In margine all’interpretazione dell’art. 624, comma 2° c.c., in Foro padano, 1972, I, c. 406 ss., spec. c. 407-408.

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Invero, questa tesi, come anche la prima, finisce col sovrapporre i concetti di causa e motivo. Se la prima tesi confonde il motivo, inteso come elemento psicologico, con la causa, intesa come elemento oggettivo e costante, la seconda tesi eleva la causa del testamento al più qualificato dei motivi75 che ha indotto il testatore a disporre, e che viene ravvisato nell’intenzione di arricchire76. Che poi tale particolare motivo possa mancare, e che dunque sia soltanto eventuale e non già naturale, è dimostrato non solo – come si è già visto – dall’art. 659 c.c., ma anche dal caso dell’hereditas damnosa o della disposizione modale il cui onere assorba per intero tutto l’utile. Pertanto, da queste ipotesi si ricava che il testamento è preferibilmente un negozio neutro, potendo dallo stesso conseguire o meno effetti liberali.

5.1. Segue. La tesi c.d. unitaria: il testamento quale atto unificato sotto il piano funzionale, con conseguente irrilevanza della causa della singola disposizione Va detto, in via generale, che prima di addentrarsi nella disamina delle teorie oggettive è fondamentale dare risposta a un quesito solo apparentemente avulso dal tema in discorso, vale a dire l’individuazione del «punto di rilevanza ermeneutica»77, in quanto la

75   Secondo C. M. Bianca, Diritto civile, 2. La famiglia – Le successioni, cit., p. 729, i motivi, che si traducono in finalità che l’atto è diretto a realizzare, non sono estranei alla causa dell’atto di ultima volontà, ma concorrono a specificarla, in quanto «essi, precisamente, concorrono a integrare la causa concreta del testamento». 76   In tale ultimo senso, v. G. Criscuoli, La causa del testamento, in Il circolo giuridico L. Sampolo, Palermo, 1959, p. 82. 77   Nel senso della irrilevanza operativa della qualificazione, cfr. V. Cuffaro, Il testamento in generale: caratteri e contenuto, cit., pp. 731-734, il quale, dopo aver dato conto del dibattito, conclude: «nel momento in cui si conviene che, secondo quanto risulta dal sistema positivo, il testamento è comunque espressione dell’autonomia dei privati, la qualificazione dell’atto come negozio resta quindi

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soluzione che si dà a tale interrogativo è dirimente ai fini della indagine che si sta conducendo. La questione, lungi dall’essere meramente speculativa, richiede di risolvere a monte un quesito niente affatto scontato. In altri termini, non è chiaro se l’interprete debba estrinsecare la sua indagine sul testamento unitariamente considerato ovvero sulla singola disposizione testamentaria. Il rapporto che sussiste tra i due termini della questione, per la verità, è spesso risolto in base all’intuizione e non già secondo un preciso ragionamento dogmatico78 e si correla alla pluralità di significati che il lemma testamento è capace di esprimere. Non è un caso, infatti, che la polisemia del termine testamento fa sì che lo stesso ora possa designare il vestimentum dell’atto con cui il de cuius regola i propri interessi, ora invece la vasta gamma delle disposizioni regolatrici della successione del testatore, dando così adito alla possibile confusione tra testamento e disposizione testamentaria. Le segnalate difficoltà risultano altresì acuite da un carattere positivizzato del testamento, ossia la circostanza che esso non reclami la completezza. Infatti, là dove la volontà del testatore non copra l’universum ius, opererà la successione legittima79, sulla base del

affidata alla valutazione culturale dell’interprete». Nella stessa direzione anche S. Delle Monache, Testamento. Disposizioni generali, cit., p. 3 ss. 78   V. Barba, La nozione di disposizione testamentaria, in Rass. dir. civ., 2013, IV, p. 964. 79   Per un quadro generale sulla successione legittima, v. almeno G. Azzariti, Le successioni e le donazioni, cit., p. 311 ss.; Id., Successione, III) Successione legittima, in Enc. giur. Treccani, XXX, Roma, 1993, p. 1 ss.; L. Barassi, Le successioni per causa di morte, cit., p. 49 ss. e 157 ss.; G. Bonilini, Diritto delle successioni, cit., p. 142 ss.; Id., Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 185 ss.; G. Cattaneo, La vocazione necessaria e la vocazione legittima, in Tratt. dir. priv. diretto da P. Rescigno, 5, t. I, Successioni, Torino, 1997, p. 426 ss. e 487 ss.; F. Galgano, Diritto civile e commerciale, IV: la famiglia. Le successioni. La tutela dei diritti. Il fallimento, cit., p. 185 ss.; L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, cit., p. 3 ss.; G. Tamburrino, Successione, III) Successione legittima, c) Diritto privato, cit., p. 1323 ss.; A. Trabucchi, Successioni (diritto civile): successione legittima, in Noviss. Dig. it., XVIII, Torino, 1971, p.

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disposto dell’art. 457, comma 2, c.c., che ha testualmente risolto il dubbio riguardo a quale tra le due vocazioni fosse preminente. Completezza, poi, che se non sussiste sul piano del contenuto, visto che il testatore può disporre soltanto di parte dei propri beni (rectius: interessi), non è essenziale neanche a livello di forma. In altri termini, la volontà del testatore può estrinsecarsi in più schede, successive e tra loro non incompatibili, tutte quante dirette alla regolamentazione degli interessi facenti capo al de cuius. L’interrogativo posto si lega in maniera apparentemente anomala col profilo causale del testamento. Riprendendo alcune riflessioni già svolte, certamente essa non può essere identificata con l’attribuzione post mortem di beni «per spirito di liberalità» sulla falsariga della donazione. Liberalità che di regola accompagna la disposizione testamentaria, ma che – come rilevato precedentemente – può mancare e pertanto assurge a tratto eventuale. Inoltre, la funzione del testamento è «dispositiva» e consiste nella determinazione dell’assetto dei rapporti giuridici (patrimoniali e no) dei quali il testatore sia titolare. Il problema della causa genera un secondo e dirompente quesito. Ci si deve chiedere, infatti, se al testamento corrisponde una causa unica e unitaria ovvero se esso è caratterizzato da tante cause distinte quante sono le singole disposizioni che lo compongono80.

765 ss.; A. Trabucchi – C. Carreri, Successione legittima, in Noviss. Dig. it., Appendice, VII, Torino, 1987, p. 620 ss. 80   Sulla questione, in particolare L. Bigliazzi Geri, Il testamento, I) Profilo negoziale dell’atto: appunti delle lezioni, cit., pp. 256-257. Interessante, per l’autorevolezza del suo autore e per la sua ecletticità, è la posizione di C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, cit., p. 35, il quale, pur non negando che ogni disposizione testamentaria possa essere un autonomo negozio giuridico, afferma che il testamento rimane, comunque, un unico negozio giuridico. Il testamento, osserva l’A., «è un negozio giuridico semplice, se consta di una sola dichiarazione di volontà, ossia di una sola dichiarazione; ovvero un negozio giuridico complesso, se consta di più dichiarazioni di volontà, ossia di più disposizioni. In questo secondo caso ciascuna disposizione (per esempio istituzione e di erede o legato), presa a sé, siccome consiste in una dichiarazione di volontà, costituisce certamente un negozio giuridico, ma ciò non vuol dire che l’insieme

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È nota l’ampiezza di contenuto che può presentare l’atto di ultima volontà, potendo tradursi nell’istituzione di erede o di legato, nella divisione del testatore, nella nomina di un esecutore testamentario, nella designazione di un tutore, nel riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio e via dicendo. Al predetto interrogativo una prima ricostruzione, autorevolmente sostenuta, offre una risposta abbastanza solida nell’affermare che il testamento sarebbe caratterizzato da una causa unitaria. Infatti, si osserva che le determinazioni del testatore, unitariamente considerate, sarebbero dirette ad attuare la funzione dell’atto mortis causa, ossia la regolamentazione degli interessi del de cuius per il tempo successivo alla morte. In altri termini, le singole disposizioni che compongono il testamento, anziché essere dirette alla realizzazione della causa loro propria, che dunque viene ad essere stralciata, accantonata, piegata, finirebbero per rappresentare uno strumento di attuazione della causa, unica e/o unitaria, del testamento. Quest’ultimo altro non costituirebbe che uno schema negoziale caratterizzato da una funzione unitaria. Tale tesi sembrerebbe trovare sostegno nella asserita necessità, ai fini dell’interpretazione dei negozi giuridici, di una valutazione complessiva delle varie disposizioni, anche alla luce del disposto dell’art. 1363 c.c.81.

di esse, ossia il testamento, non sia un unico negozio giuridico, ma come qualcuno ha detto, una somma di negozi giuridici riuniti in un unico atto o documento; esso è un unico negozio giuridico, sebbene complesso in quanto è una dichiarazione di volontà che risulta dall’insieme delle varie disposizioni». 81   In questi termini, in luogo di altri, si esprime L. Bigliazzi Geri, Il testamento, cit., p. 42; Ead., Il testamento, I) Profilo negoziale dell’atto: appunti delle lezioni, cit., p. 257. L’A. osserva come l’istituzione di erede e il legato, pur essendo disposizioni nominate e tipiche, facciano parte di un unico schema negoziale, caratterizzato da una funzione unitaria. Pertanto, in quanto momenti di un unico “programma”, tali disposizioni non possono assumere la veste di autonomi “tipi” negoziali dotati di una funzione e, quindi, di una causa propria.

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5.2. Segue. La tesi c.d. atomistica: il testamento quale atto cornice e le disposizioni testamentarie quali negozi giuridici autonomi Altra parte della dottrina e della giurisprudenza hanno posto in discussione tale impostazione. Si ritiene, infatti, che il testamento altro non sarebbe che una mera forma documentale, deputata ad accogliere una pluralità di negozi a causa di morte, il cui contenuto può consistere sia in disposizioni patrimoniali che in disposizioni non patrimoniali82. L’unità del testamento sarebbe data non dalla

82   La qualificazione del testamento come atto cornice, come atto – documento, è stata per la prima volta proposta da L. Cosattini, Divergenza fra dichiarazione e volontà nella disposizione testamentaria, cit., p. 413-414. In seguito è stata seguita e precisata da E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., p. 311, secondo il quale il testamento è atto che può contenere disposizioni svariate, ciascuna delle quali ha valore di negozio a sé stante: istituzione d’erede, legato, divisione d’ascendente, nomina di esecutore testamentario, riconoscimento di figlio naturale. Più che come un unico negozio, si configura, dunque, come una forma atta ad accogliere una pluralità di negozi a causa di morte. Analogamente B. Biondi, Autonomia delle disposizioni testamentarie ed inquadramento del testamento nel sistema giuridico, cit., c. 566 ss.; Id., Impostazione del testamento nella giurisprudenza romana, nei codici e nella dommatica moderna, in Riv. dir. civ., 1966, I, p. 445 ss. Si occupa del tema, parlando di diseredazione, in termini di negozio – quadro A. Trabucchi, L’autonomia testamentaria e le disposizioni negative, in Riv. dir. civ., 1970, I, p. 63, ove si legge che: «se, ora si riprende l’antica questione per sapere se il negozio è il testamento in se stesso o se tanti negozi sono costituiti dalle disposizioni in esso contenute, la risposta non può essere categorica nell’uno o nell’altro senso perché il rapporto tra la volontà, la sua direzione e l’efficacia dell’atto mortis causa non riproduce mai lo schema normale dell’atto tra vivi. Semmai, più vicino a detto schema, è l’atto di confezione del testamento, come espressione della volontà di creare lo strumento giuridicamente efficace per produrre le conseguenze previste nelle varie disposizioni. In questo senso il testamento può essere concepito come negozio, ma con la funzione di un negozio-quadro». Di recente, cfr. G. Cian, Il testamento nel sistema degli atti giuridici, in S. Delle Monache (a cura di), Tradizione e modernità nel diritto successorio, Padova, 2007, p. 158; S. Pagliantini, Causa e motivi del regolamento testamentario, cit., p. 22. In giurisprudenza, Cass., 16 febbraio 1949, n. 253, in Foro it., 1949, I, c. 566 ss., con nota di B. Biondi; Cass., 27 marzo 1957, n. 1057, in Foro it., 1958, I, c. 326 ss.; Cass., 18 aprile 1958, n. 1269, in Giust. civ., 1958, II, 1, p. 2186 ss.

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funzione negoziale quanto invece dalla documentazione unitaria e dall’unicità del disponente83. In particolare, l’unicità del documento – che si è precisato non essere essenziale – e della persona dell’autore non implicherebbero unità di negozio. In conseguenza di ciò, la qualificazione di atto di autonomia privata dovrebbe riferirsi non già al testamento bensì alle singole disposizioni che lo compongono84. Tra le ragioni addotte dai sostenitori della c.d. teoria atomistica, vi sarebbe il rilievo che l’autonomia negoziale di ogni clausola sarebbe confermata dal fatto che anche una sola disposizione potrebbe esaurire il contenuto dell’atto di ultima volontà85. Nessuna disposizione di legge precluderebbe poi al testatore di redigere tanti testamenti, ossia tanti documenti, formalmente perfetti, quante sono le singole disposizioni che intende effettuare. Inoltre, sareb-

83   Sul tema dell’unità formale di più disposizioni, ex multis, M. Allara, Il testamento, cit., p. 248. 84   Molto efficace il rilievo di B. Biondi, Autonomia delle disposizioni testamentarie ed inquadramento del testamento nel sistema giuridico, cit., c. 567, secondo il quale «poiché ogni negozio tipico è individuato dalla causa, concepita come scopo pratico generale e costante; in guisa che si hanno tanti negozi tipici, quante sono le cause, dobbiamo concludere che il testamento, come tale, non è un negozio tipico, giacché ad esso non corrisponde una causa tipica. Abbiamo piuttosto una varietà di cause, quante sono le singole disposizioni che la legge consente al testatore, alle quali per ciascuna corrisponde una causa tipica». Lo stesso A., nel successivo c. 568, osserva che, allo stesso modo, se nel medesimo documento la stessa persona effettua più donazioni, non si ha una sola liberalità, ma tante liberalità quante sono le singole entità donate. 85   Quanto alla possibilità che il testamento racchiuda un’unica disposizione, si pensi, a titolo di esempio, alla diseredazione. L’evoluzione del tema è dovuta da ultimo alla sentenza della Cass., 25 maggio 2012, n. 8352, la quale, prendendo posizione, ha di fatto legittimato la diseredazione del successibile non legittimario, sottolineando come il contenuto del testamento possa essere non attributivo, come si è tradizionalmente ritenuto muovendo dall’art. 587 c.c., ma che possa presentarsi anche destitutivo, in quanto un simile contenuto risponde comunque ad un regolamento di interessi, idoneo di per sé anche ad essere l’unica disposizione testamentaria lasciata dal de cuius. Per un’analisi del tema in generale, resta ancora centrale l’opera di M. Bin, La diseredazione. Contributo allo studio del contenuto del testamento, cit. Tra i contributi recenti, cfr. V. Barba, La nozione testamentaria di diseredazione, in Fam. pers. succ., 2012, pp. 763-787.

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be possibile revocare non soltanto il testamento complessivamente inteso, ma anche le singole disposizioni che di esso fanno parte86. Come di regola accade, l’adesione ad una data ricostruzione comporta non secondarie conseguenze in ordine alla disciplina applicabile. In questo caso, infatti, l’autonomia delle singole disposizioni testamentarie fa sì che esse soggiacciano ad un regime giuridico che le pone in condizioni di indipendenza reciproca. Tenuti in debita considerazione i requisiti di forma e di capacità del disponente, l’invalidità di una disposizione testamentaria non è in grado di determinare ipso iure l’invalidità delle altre, a meno che tra di esse sussista un rapporto di dipendenza e/o subordinazione. Secondo i sostenitori di detta ricostruzione, infatti, in presenza di una clausola nulla, le altre clausole resterebbero valide non già in considerazione del principio di conservazione in virtù del quale utile per inutile non vitiatur, il quale si riferisce soltanto alle clausole o parti di un unico negozio. Nella nostra materia, infatti, non si avrebbe validità parziale, ma validità totale del negozio, in quanto ogni disposizione integra un negozio autono-

86   B. Biondi, Autonomia delle disposizioni testamentarie, cit., c. 567 ss., il quale, movendo dal rilievo che ogni disposizione testamentaria ha una sua precisa causa, mentre il testamento non ha una precisa causa, giunge alla conclusione che ciascuna disposizione testamentaria è un autonomo negozio giuridico. «Queste considerazioni portano alla conclusione che il testamento non è un unico negozio giuridico, ma una somma di negozi mortis causa, variabile ad arbitrio del disponente, negozi autonomi ed indipendenti, individuati da una causa tipica, aventi ciascuno un proprio regime, una propria struttura, e che possono quindi avere sorte giuridica distinta». B. Biondi, Autonomia delle disposizioni testamentarie, cit., c. 568, osserva che lo stesso legislatore avrebbe offerto una chiara indicazione nel senso della autonomia negoziale delle singole clausole, come dimostrato dal fatto che, nel titolo III del libro II del codice civile, la sezione V del capo V è intitolata “Della revocazione delle disposizioni testamentarie”, a riprova del fatto che è la disposizione testamentaria ad essere considerata preminente rispetto al testamento che funge da contenitore. Inoltre, l’Autore precisa che, nel caso di revoca legale per sopravvenienza di figli ex art. 687 c.c., vengono meno le istituzioni di erede e i legati, ma tutte le altre disposizioni restano ferme.

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mo87, di norma insensibile alle vicende che investono un’altra disposizione.

6. Il binomio tipicità-atipicità delle disposizioni testamentarie. Superamento dell’impostazione replicante il distinguo anche in sede testamentaria e critica alla tesi della tassatività delle disposizioni non patrimoniali Dopo aver analizzato il profilo causale del testamento, è opportuno esaminare l’annoso tema del rapporto tra tipicità e atipicità. La dialettica in questione, emergente in tutta la sua portata in materia contrattuale attraverso la complessa disposizione di cui all’art. 1322, comma 2, c.c.88, appare riguardare anche l’atto di ultima volontà, e 87   È fatto salvo il caso in cui l’invalidità investa l’intero atto di ultima volontà o quello in cui vi sia un rapporto di subordinazione tra le disposizioni. In tale ultima ipotesi, il venir meno della disposizione principale farà necessariamente cadere anche la disposizione subordinata. A mero titolo esemplificativo, si consideri che, se l’onere non passa al sostituito ex art. 690 c.c., caduta la disposizione a favore dell’istituito, cadrà anche il modus. B. Biondi, Autonomia delle disposizioni testamentarie, cit., c. 569, conclude spiegando che la parola “testamento” può essere intesa in due modi diversi. In un primo significato, essa indica la somma delle singole disposizioni testamentarie, ossia un complesso di negozi giuridici indipendenti. In tal senso, il legislatore parla di “atto” (art. 587, comma 1, c.c.), ossia di un atto che può racchiudere una pluralità di negozi. In un secondo significato, la parola indica la singola disposizione testamentaria, considerata come negozio giuridico autonomo. 88   La norma in discorso pone un problema di relazione con disposto dell’art. 1324 c.c., la cui estensibilità al testamento è lungi dall’essere pacifica. In generale su tale ultima norma, foriera di dubbi anche solo sul piano semantico, dove appunto discorre di “atti unilaterali”, non distingue tra gli atti giuridici in senso stretto e gli atti aventi natura negoziale, si vedano C. Donisi, Atti unilaterali, I) Diritto civile, in Enc. giur. Treccani, III, Roma, 1988, p. 1; F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., p. 87 ss. e 772 ss.; M. Trimarchi, Atti unilaterali, in Noviss. Dig. it., I, 2, Torino, 1958, p. 1527. Sull’applicabilità di tale norma al testamento, va detto che il tema è stato a lungo discusso e forse non del tutto sopito. La dottrina tradizionale (G. Benedetti, Dal contratto al negozio unilaterale, Milano, 1969, p. 1 ss.; Id., Il diritto comune dei contratti e degli atti unilaterali, Napoli, 1997, p. 1 ss.) ne ha escluso l’estensione al testamento, muovendo dal dogma della relatività proprio del diritto romano, ad-

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passare all’interno sia del c.d. contenuto tipico patrimoniale del testamento89, sia del c.d. contenuto atipico non patrimoniale, anch’esso utilmente suddivisibile secondo il binomio tipicità – atipicità. Il concetto di tipicità pervade l’area dei contratti in virtù della predetta disposizione, generando un rinvio alla disciplina generale del contratto anche per quei contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare. ducendo altresì come argomento testuale l’art. 1987 c.c. Sulle promesse unilaterali e sui negozi unilaterali, si vedano G. Branca, Delle promesse unilaterali, in Comm. cod. civ. A. Scialoja e G. Branca, Libro quarto: delle obbligazioni. Artt. 1960 -1991, Bologna – Roma, 1974, p. 406 ss.; F. Galgano, Diritto privato, cit., p. 387 ss.; F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., p. 693 ss. e 772 ss.; G. Gorla, Il potere della volontà nella promessa come negozio giuridico, in Riv. dir. comm., 1956, I, p. 18 ss.; A. Torrente – P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, cit., p. 771 ss.; P. Trimarchi, Istituzioni di diritto privato, cit., p. 156 ss. e 259 ss.; B. Troisi, Diritto civile. Lezioni, cit., p. 371 ss. Il tema, come è noto, ha avuto uno sviluppo successivo specialmente a seguito del contributo di C. Donisi, Il problema dei negozi giuridici unilaterali, Napoli, 1972, dove correttamente si è aperto ai negozi giuridici unilaterali atipici, purché non sfavorevoli per i terzi. Venendo ora all’applicazione dell’art. 1322, comma 2, c.c., al testamento, una prima tesi ritiene che possa operare attraverso l’analogia (M. Bin, La diseredazione. Contributo allo studio del contenuto del testamento, cit., p. 180). Una seconda tesi (G. Bonilini, Autonomia testamentaria e legati così detti atipici, cit., p. 65), osserva che non sia applicabile né in via diretta, né in via analogica, sull’assunto dell’esistenza di un principio nell’ordinamento in base al quale il testamento sarebbe sottratto dall’applicazione della disciplina generale dettata per il contratto. Corollario – non condivisibile – di ciò, sarebbe l’assenza di verifiche in ordine all’intenzione e allo scopo del disponente da parte del legislatore. L’unico limite sarebbe dato dalla liceità dei motivi, mentre l’ordinamento resterebbe indifferente di fronte a disposizioni dal contenuto futile o strano. Tale posizione si aggancia ad autorevole dottrina (P. Rescigno, L’interpretazione del testamento, Napoli, 1952, pp. 146 e 204), ove appunto si osserva che nulla osta ad un contenuto bizzarro o capriccioso del negozio testamentario. Una terza tesi (ex multis, M. Garutti, Il modus testamentario, Napoli, 1990, p. 66, nota 118), prevalente e preferibile, ritiene che l’art. 1322, comma 2, c.c., debba estendersi anche al testamento, sebbene testualmente la norma si riferisca ai soli contratti tipici, essa va in realtà considerata espressione di un principio generale, capace di abbracciare l’intero quadro degli strumenti giuridici attraverso i quali l’attività dei soggetti (privati e non) è messa in grado di realizzare la grande varietà dei propri interessi, non solo dunque gli atti tra vivi ma anche quelli a causa di morte. 89   C. M. Bianca, Diritto civile, 2. La famiglia – Le successioni, cit., p. 210.

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Ma il concetto permea anche la materia dei diritti reali, essendo alimentato da quelle dottrina e giurisprudenza che ne sostengono il numerus clausus, e dunque l’impossibilità per i privati di modificare le caratteristiche principale dei diritti reali stessi. Tra tipicità e atipicità – come efficacemente osservato – sussiste un’antitesi che evoca il perenne conflitto «tra normale e anormale»90. La dicotomia tipicità – atipicità in materia testamentaria si arricchisce di elementi ulteriori, investendo il più ampio tema del rapporto tra mezzo e contenuto. Si è di recente affermato che91, da un canto si colloca la tipicità del testamento, unico strumento mortis causa e di ultima volontà con il quale si può validamente disporre di tutte le proprie sostanze per il periodo successivo alla morte, argomentando anche solo dall’art. 458 c.c., e che dall’altro si colloca la tipicità o l’atipicità del suo contenuto, che può caratterizzarsi in senso attributivo oppure no. L’atipico, inteso come ciò che non è previsto e disciplinato dalla legge, non per questo è inidoneo a superare il giudizio di liceità e di meritevolezza92. Dirimente è che l’atto o la singola disposizione

  U. Breccia, Le nozioni di “tipico” e “atipico”: spunti critici e ricostruttivi, in Tipicità e atipicità nei contratti, in Quaderni di Giurisprudenza commerciale, Milano, 1984, p. 3; G. De Nova, Il tipo contrattuale, Milano, 1974 e R. Sacco, Autonomia contrattuale e tipi, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1976, p. 785. 91   G. Perlingieri, La disposizione testamentaria di arbitrato. Riflessioni in tema di tipicità e atipicità nel testamento, in Rass. dir. civ., 2016, II, p. 504. In detto contributo, calibrato sulla disposizione testamentaria di arbitrato, è efficacemente specificato, precisamente alla nota 165, che la distinzione tra carattere patrimoniale o non patrimoniale di una disposizione testamentaria non risolve il problema della disciplina applicabile poiché, ad esempio, esistono disposizioni non patrimoniali revocabili (quelle sulla sorte del proprio cadavere o sul proprio funerale oppure alla dichiarazione con la quale una donna, in caso di parto anonimo, confermi o revochi l’anonimato) e disposizioni non patrimoniali non revocabili (emblematico è il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio). È evidente, pertanto, che occorre analizzare non la patrimonialità o meno della disposizione, bensì la liceità e la meritevolezza dell’interesse perseguito, al fine di valutare sia la validità e l’efficacia della singola disposizione, sia la ragionevolezza della disciplina applicabile. 92   Come è noto, in dottrina vi è diversità di opinioni sul concetto di meritevolezza degli interessi ex art. 1322, comma 2, c.c. Secondo una prima ricostru90

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siano conformi ai valori normativi e ai principi fondanti il sistema giuridico, senza che assumano rilievo sostanziale quelle distinzioni classificatorie tra tipico e atipico, attributivo e non attributivo, patrimoniale e non patrimoniale e via discorrendo. In materia testamentaria non si è mancato di adoperare approcci di stampo sillogistico. Si è ad esempio pensato che una disposizione, sol perché attributiva e patrimoniale, fosse per ciò solo lecita e meritevole. E che una disposizione atipica, là dove non attributiva e non patrimoniale, potesse ammettersi nelle sole ipotesi previste dalla legge. A tal riguardo convince la posizione di quella dottrina93 che, correttamente, rileva l’essenza soltanto descrittiva della distinzione

zione, il giudizio sulla meritevolezza degli interessi perseguiti coinciderebbe con quello sulla liceità: gli interessi non meritevoli di tutela sarebbero quelli illeciti, ossia quelli contrari a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume. In tal senso, G. B. Ferri, Ancora in tema di meritevolezza dell’interesse, in Riv. dir. comm. 1979, I, p. 12 ss.; Id., Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, cit., p. 406; Id., Meritevolezza dell’interesse e utilità sociale, in Riv. dir. comm., 1971, II, p. 89; M. Gazzara, Considerazioni in tema di contratto atipico, giudizio di meritevolezza e norme imperative, in Riv. dir. priv., 2003, I, p. 62. Secondo una diversa impostazione, il giudizio di cui all’art. 1322, comma 2, c.c. non coinciderebbe con quello di liceità, essendo qualitativamente diverso e di contenuto più ampio. Identificare il giudizio sulla meritevolezza degli interessi perseguiti con quello sulla liceità significherebbe, considerata l’esistenza dell’art. 1343 c.c., svuotare di contenuto l’art. 1322, comma 2, c.c. La liceità sarebbe condizione necessaria, ma non sufficiente di per sé sola, a giustificare il riconoscimento dell’atto di autonomia privata. Così E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., p. 193; M. Costanza, Il contratto atipico, Milano, 1981, p. 24; F. Gazzoni, Atipicità del contratto, giuridicità del vincolo e funzionalizzazione degli interessi, in Riv. dir. civ., 1978, I, p. 57 ss. Relativamente al contenuto vero e proprio del giudizio di meritevolezza, vi è un variegato panorama di opinioni, che vanno dalla necessità della corrispondenza a un’esigenza pratica e a un interesse sociale durevole fino alla necessità di un’utilità sociale secondo i dettami dell’art. 42 Cost. Sul punto, A. Guarneri, Questioni sull’art. 1322 cod. civ., in Riv. dir. comm., 1976, II, p. 263 ss.; V. Roppo, Causa tipica, motivo rilevante, contratto illecito, in Foro it., 1971, I, c. 2377 ss. 93   In proposito, v. le efficaci e convincenti osservazioni di G. Perlingieri, La scelta della disciplina applicabile ai c.dd. “vitalizi impropri”. Riflessioni in tema di aleatorietà della rendita vitalizia e di tipicità e atipicità nei contratti, in Rass. dir. civ., 2015, p. 529.

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tra tipico e atipico, nonché la sua insignificanza in ordine al piano qualitativo e assiologico. È noto, infatti, che il parallelismo sillogistico sopra censurato dimentica di considerare che un contratto, una clausola o una disposizione tipica possono avere un contenuto e una funzione in concreto illecita. Così come una clausola o una disposizione atipica94 possono avere un contenuto e una funzione perfettamente lecita e meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico95. La formulazione dell’art. 587 c.c. – come si è visto – era nata allo scopo di risolvere le questioni avvertite sotto il vigore del precedente codice civile. Tuttavia, nell’intervenire su di esse, ne ha create altre, forse più ispide di quelle risolte. Infatti, a seguito del nuovo tenore letterale, ci si è chiesti se si potessero dare anche disposizioni non patrimoniali diverse da quelle ammesse dalla legge e se esse costituissero oggetto di testamento. Prima di provare a dare una risposta a siffatti quesiti, ci si deve occupare in generale delle disposizioni non patrimoniali. La gamma delle disposizioni non patrimoniali è per vero assai varia. Pertanto, solo a titolo indicativo possono essere raggruppate per la loro normale natura di atti di diritto familiare o personale96. Tuttavia è utile, non solo per finalità descrittive, procedere ad una classificazione delle stesse. Anzitutto, possiamo annoverare quelle che regolano interessi familiari. Si tratta, per esempio, dell’ipotesi del riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio (art. 254, comma 1, c.c.), della designazione della persona del tutore e del protutore per i figli minori (art. 348, comma 1, e 355, comma 1, c.c.), della scelta dell’amministratore di sostegno (art. 408, comma 1, c.c.), della designazione   Riguardo alle disposizioni testamentarie cc.dd. atipiche, cfr. lo studio eseguito dall’Istituto di diritto civile della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Napoli diretto da L. Cariota Ferrara e confluito in Aa. Vv., Le clausole testamentarie atipiche, in Dir. giur., 1972, p. 825 ss. 95   P. Perlingieri, Lo studio del diritto nella complessità e unitarietà del sistema ordinamentale, in Foro it., 2014, p. 105. 96   G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell’atto di ultima volontà, cit., p. 72 ss. 94

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del tutore o del curatore nel caso di interdizione o inabilitazione (art. 424, comma 1, c.c.). Queste disposizioni presentano tra di esse alcuni punti in comune. Non solo o non tanto la circostanza che afferiscono al diritto di famiglia e delle persona, quanto piuttosto la tendenziale insuscettibilità all’apposizione di condizioni o termini (actus legitimi), nonché la natura unilaterale e generalmente non negoziale, tale per cui gli effetti non rimontano ai privati ma sono predeterminati dalla legge. Talvolta, poi, la disposizione non è sufficiente all’effetto. Si pensi, ad esempio, al riconoscimento del figlio ultraquattordicenne. In tal caso si richiede un quid pluris, rappresentato appunto dal di lui consenso, affinché si produca l’effetto del riconoscimento. O ancora si consideri l’ipotesi della designazione del tutore97. Si noti come essa funga unicamente da presupposto affinché l’electus venga nominato a tale ufficio dal giudice tutelare. Diverso, invece, è il caso di cui all’art. 356 c.c., là dove il tenore letterale della norma e la costante interpretazione ad essa assegnata inducono ad affermare che si tratti di vera e propria nomina. Un secondo gruppo di disposizioni non patrimoniali sono quelle che attengono ai diritti della persona. Si tratta di una serie di disposizioni molto disomogenea. Si pensi alla designazione di un soggetto che si occupi dell’esecuzione della disposizione a favore dell’anima di cui all’art. 629 c.c. o dell’autorizzazione a disporre dei propri organi dopo la morte a vantaggio di terzi, in base all’art. 4, l. 1 aprile 1999, n. 91, recante disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti98. Ma ancora l’autorizzazione alla cremazione della salma, di cui alla l. 30 marzo 2001, n. 130, il cui art. 3 n. 1, lett. b), ove si prevede che l’autorizzazione alla cremazione venga concessa, nel rispet-

97   G. Branca – G. Alpa, Istituzioni di diritto privato, Bologna, 1992, p. 550; P. Vercellone, La filiazione, in Tratt. dir. civ. F. Vassalli, III, t. 2, Torino, 1987, p. 106; S. Romano, Appunti sulle successioni testamentarie attinenti al diritto di famiglia, Perugia, 1931. 98   Si veda, per approfondimenti, L. Iberati (diretto da), Testamento e patti successori, Bologna, 2006, p. 86.

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to della volontà espressa dal defunto o dai suoi familiari, attraverso un’apposita disposizione testamentaria del defunto stesso, tranne nei casi in cui i familiari presentino una dichiarazione autografa del de cuius contraria alla cremazione, recante una data successiva a quella della disposizione testamentaria medesima99. In questo vasto gruppo vanno altresì annoverate quelle sulla pubblicazione post mortem delle opere dell’ingegno, ai sensi dell’art. 24, l. 22 aprile 1941, n. 633. Tale norma prevede che il diritto di pubblicare le opere inedite spetta agli eredi oppure ai legatari delle opere stesse, salvo che l’autore abbia espressamente vietata la pubblicazione o l’abbia affidata ad altri (comma 1). Il comma 3, invece, si occupa del dissenso tra eredi o legatari, disponendo che in proposito decide l’autorità giudiziaria, sentito il pubblico ministero. Ulteriore ipotesi è quella di cui all’art. 93 della medesima legge, il quale prevede che dopo la morte dell’autore o del destinatario, le corrispondenze epistolari, gli epistolari, le memorie familiari e personali e gli altri scritti della medesima natura, di carattere confidenziale o riferentisi all’intimità della vita privata, possano essere pubblicati con il consenso del coniuge o dei figli o, in loro mancanza, dei genitori, o in assenza anche di questi ultimi, dei fratelli e delle sorelle o, se mancano anche questi, degli ascendenti e dei discen-

  Interessante è poi la disciplina per il caso in cui manchi la disposizione testamentaria o comunque altra disposizione di volontà del soggetto deceduto. In tal caso, infatti, vale la volontà del coniuge o, in difetto, del parente più prossimo (ex artt. 74, 75, 76 e 77 c.c.). In caso di concorrenza di più parenti dello stesso grado, prevarrà la volontà della maggioranza assoluta di essi, manifestata all’ufficiale dello stato civile del comune di decesso o di residenza. Se l’art. 3, n. 1 lett. d) precisa che la dispersione delle ceneri è eseguita dal coniuge o da altro familiare avente diritto, dall’esecutore testamentario o dal rappresentante legale dell’associazione riconosciuta avente fra i fini statutari quello della cremazione delle spoglie dei propri associati, a cui il defunto risultava iscritto o, in mancanza, dal personale autorizzato dal comune, la successiva lett. e) della stessa norma prevede che, fermo restando l’obbligo di sigillare l’urna, le modalità di conservazione delle ceneri devono consentire l’identificazione dei dati anagrafici del defunto e sono disciplinate prevedendo, nel rispetto della volontà espressa dal defunto, alternativamente, la tumulazione, l’interramento o l’affidamento ai familiari. 99

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denti fino al quarto grado (comma 2). Deve, in ogni caso, rispettarsi la volontà del defunto, quando risulti da uno scritto (comma 4), come può essere, ad esempio, una disposizione testamentaria100. La legge contempla altre disposizioni non patrimoniali. Alcune di esse non sono, tuttavia, pacifiche. Si pensi, ad esempio, al negozio costitutivo di una fondazione, possibile in virtù dell’art. 14, comma 2, c.c.101 Riguardo a tale disposizione, la prevalente dottrina102 ha operato un distinguo tra atto di fondazione ed atto di attribuzione patrimoniale o di dotazione. Conseguenza di tale costante affermazione era che, ove la fondazione fosse stata costituita e dotata attraverso una specifica disposizione testamentaria, l’attribuzione patrimoniale sarebbe stata assimilabile ad un’istituzione di erede o di legato. In verità, autorevole ma certamente minoritaria dottrina103 sosteneva anzitutto che la disposizione costitutiva di una fondazione non fosse da considerare non patrimoniale e che andasse operata una reductio ad unitatem dei due atti, nel senso che essi sono due momenti di una fattispecie unitaria. Il primo momento contiene la volontà di erigere l’ente. Il secondo, invece, che si aggancia causalmente al primo, consente all’erigendo ente di svolgere la funzione per la quale è stato creato104.   R. Tuccillo, La successione ereditaria avente ad oggetto le carte, i documenti, i ritratti, e i ricordi di famiglia, in Dir. succ. fam., 2016, p. 185. 101   C. M. Bianca, Diritto civile, I, La norma giuridica, I soggetti, Milano, 2002, p. 340; A. De Cupis, Fondazione costituita con testamento e successione a causa di morte, in Riv. dir. civ., 1986, II, p. 298; P. Rescigno, Fondazione, in Enc. dir., XVII, Milano, 1968, p. 801; R. Nicolò, Negozio di fondazione: istituzione di erede, in Riv. dir. civ., 1941, I, p. 388. 102   V. gli autori citati alla nota precedente. 103   F. Galgano, Delle persone giuridiche, in Comm. cod. civ. A. Scialoja e G. Branca, Bologna – Roma, 2006, p. 194 ss. 104   Impostazione pedissequamente ripresa da Cass., 8 ottobre 2008, n. 24813, in Riv. not., 2009, p. 678, con nota di E. Bilotti, La sorte del testamento conforme a un precedente accordo e l’accettazione dell’eredità da parte della fondazione disposta con lo stesso testamento istitutivo, con nota di M. D’Auria, Sull’atipicità dell’atto di fondazione istituita per testamento e Id., Natura patrimoniale ed interesse morale dell’intesa che istituisce erede una fondazione disposta per testamento, in Rass. dir. civ., 2010, I, p. 318 ss., con nota di C. Grassi, Sulla istituzione per testamento di una 100

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Procedendo oltre, rappresentava un’ipotesi di disposizione non patrimoniale la previsione del previgente art. 17, comma 4, codice deontologico forense105 approvato il 17 aprile 1997 e tuttavia modificato in virtù della L. 31 dicembre 2012, n. 247, che ha previsto la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense. In base alla norma ora abrogata, l’avvocato poteva consentire, anche attraverso una disposizione testamentaria, l’indicazione del proprio nome – successivamente alla sua morte – nella denominazione dello studio professionale di cui ha fatto parte. Tornando, ora, ai due problemi che la nuova formulazione del­ l’art. 587 c.c. – e in particolare il comma 2 – ha occasionato, va detto che la dottrina si è interrogata sulla portata di tale disposizione, relativamente alla tassatività o meno delle disposizioni non patrimoniali. In altri termini, ci si è chiesto se le disposizioni non patrimoniali che possono essere rese attraverso una specifica disposizione testamentaria siano soltanto quelle che la legge consente. Un tale interrogativo, ben si intuisce, non rappresenta soltanto un tema speculativo, bensì anche un’istanza pratica, atteso che la prassi conosce una gamma ampia di disposizioni non patrimoniali innominate. Si pensi, ad esempio, a quelle relative alle modalità delle proprie esequie, circa la propria sepoltura, nonché in ordine alla destinazione delle spoglie umane secondo modalità diverse dalla cremazione, che si è visto essere ora nominata106. Relativamente all’esegesi del comma 2 dell’art. 587 c.c., va detto che l’orientamento più tradizionale107, sulla falsariga della Relafondazione, in Fam. pers. succ., 2009, 4, p. 316 e con nota di G. La Marca, In tema di fondazione costituita per testamento, in Nuova giur. civ. comm., 2009, 4, I, p. 416. 105   Per un inquadramento di questa particolare disposizione patrimoniale nominata, non già dal legislatore bensì da una norma deontologica di un ordine professionale, v. E. Calice, Autonomia testamentaria e disposizione mortis causa del nome del professionista, in Nuova giur. civ. comm., 2006, II, p. 519. 106   G. Bonilini, Diritto delle successioni, Roma – Bari, 2004, p. 22; C. Lo Vetro, Atti di disposizione post mortem del corpo a fini non circolatori, in Dir. fam., 1997, p. 1573; A. De Cupis, I diritti della personalità, in Tratt. dir. civ. e comm. A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1982, p. 175. 107   L. Bigliazzi Geri, Il testamento, cit., p. 129; G. Azzariti, Successioni (diritto civile): successione testamentaria, cit., p. 822.

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zione del Guardasigilli al codice108, ritiene che le disposizioni non patrimoniali affidabili al negozio mortis causa siano soltanto quelle ammesse dalla legge. Tra gli argomenti addotti, si è rilevato che la Commissione reale, con riguardo all’art. 5 c.c. concernente i limiti di efficacia degli atti dispositivi del proprio corpo vivente, si fosse riproposta di affrontare il tema in materia successoria. Tuttavia in tale sede non fu ripreso il tema, con ciò ribadendosi che, in assenza di un regolamento legislativo, le disposizioni del testatore sulla destinazione delle proprie spoglie sarebbero prive di efficacia. L’orientamento più recente è invece di segno contrario. Si ritiene109 che l’art. 587, comma 2, c.c., non preveda un limite alla facoltà del testatore di inserire nel testamento disposizioni di carattere non patrimoniale. A tale norma – si osserva – andrebbe assegnato un significato di carattere permissivo, ossia quello di riconoscere come efficaci le previsioni prive di rilievo economico, anche quando nel testamento manchino disposizioni di carattere patrimoniale. E dunque, l’espressione «le disposizioni di carattere non patrimoniale, che la legge consente siano contenute in un testamento, hanno efficacia, se contenute in un atto che ha la forma del testamento anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale»

  Relazione del Guardasigilli, n. 61.   G. Bonilini, Il testamento. Lineamenti, cit., p. 21; F. Festi, Testamento e devoluzione ad arbitri delle liti tra i successori, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2002, p. 809. In particolare, secondo S. Ciccarello, Persona e successione ereditaria, Napoli, 1994, p. 163, poiché nella materia successoria in generale, e in particolare in quella testamentaria è possibile individuare tre diversi piani di interesse, che, di volta in volta, si propongono come emergenti (quelli soggettivi del disponente e del chiamato che si apprezzano in primo luogo nella prospettiva dell’autonoma libertà di eleggere e di essere eletti – con l’accettazione – e quello oggettivo, riguardante i valori dei quali il bene si rende portatore a beneficio di determinati individui e della collettività di cui sono parte), discende «inevitabilmente la necessità di offrire il più ampio margine alla libertà del testatore anche con riguardo a disposizioni di contenuto diverso dal patrimoniale (e la giustificazione dei momenti formalistici del testamento rimane probabilmente legata all’esigenza di sottolineare anche in quei termini l’importanza dell’atto che si pone in essere)». 108

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andrebbe interpretata in senso ampio, ossia come «atti che l’ordinamento permette siano contenuti in un testamento». È evidente che un siffatto ampliamento determina un significativo cambio di rotta, dovendosi rapportare liceità e meritevolezza della disposizione non patrimoniale non già alla legge ma all’ordinamento complessivamente considerato. Questo passaggio consente, altresì, di avvicinare testamento e contratto, valorizzando la comune natura negoziale e l’estensione al primo delle norme sull’autonomia privata, in primis l’art. 1322 c.c., che rappresentano la cifra qualitativa del secondo. E che le disposizioni non patrimoniali non siano solo quelle previste nominatim ex lege, in fin dei conti lo aveva rilevato anche uno dei primi e più autorevoli interpreti del nuovo codice110. Secondo questi, infatti, «è da ammettere la piena autonomia del testatore: libero dunque di disporre quello che vuole, anche non in relazione al suo patrimonio, per il tempo dopo la morte. Che il codice ricordi questa autonomia in modo esplicito solo per i contratti (art. 1322) non è una ragione fondamentale per ritenere che non sia rispettato il principio fondamentale, accolto in ogni legislazione, che considera come sacra l’ultima volontà, qualunque essa sia, purché non lesiva dell’ordine pubblico, del buon costume o della legge (arg. ex art. 634)». Quanto al secondo quesito, vale a dire se esse possono costituire oggetto di testamento, la risposta è necessariamente dipendente dalla ricostruzione prescelta in ordine alla unitarietà del testamento o all’autonomia della singola disposizione111, oltre che al superamento – sostanziale o solo formale – di un apparente ineludibile tenore letterale della disposizione. La formulazione del nuovo codice impone di considerare le disposizioni non patrimoniali come parti integranti del testamento in senso proprio, attesa inoltre la relazione di coordinazione e non già

  L. Barassi, Le successioni per causa di morte, cit., p. 303.   G. B. Ferri, Il negozio giuridico e la disciplina del mercato, cit., p. 715; P. Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, cit., p. 588. 110 111

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di subordinazione tra le disposizioni – come accadeva nel diritto romano112–, corrente tra di esse. L’heredis institutio non è più caput et fundamentum totius testamenti. Già l’esperienza romana ebbe a conoscere il codicillo, altro negozio a causa di morte contenente disposizioni diverse dall’istituzione di erede, e perciò diverso dal testamento. Oggi, però, la promozione della persona umana quale valore preminente che emerge dalla Carta costituzionale, che a sua volta all’art. 42, comma 4113, assegna rilevanza alla possibilità che la persona disponga dei propri interessi per il tempo successivo alla propria morte, impone di non ritenere circoscritta l’autonomia del testatore, soprattutto con riferimento agli interessi di rango non patrimoniale114.

  Per una disamina approfondita dell’esperienza romana, v. G. Scherillo, Il testamento, a cura di Gnoli, Bologna, 1995, p. 11 ss. 113   Relativamente al legame tra la successione mortis causa e la proprietà privata, v. C. M. Bianca, Diritto civile, 2. La famiglia – Le successioni, cit., p. 534; L. Bigliazzi Geri, Il testamento, cit., p. 6 ss.; G. Bonilini, Diritto delle successioni, cit., p. 26 ss.; Id., Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 27 ss.; Id., Nozioni di diritto ereditario, cit., p. 17 ss.; L. Ferri, Successioni in generale, cit., p. 17. Cfr. anche G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., p. 12, il quale, dopo aver affermato che il fenomeno della successione a causa di morte è strettamente legato all’istituto della proprietà, precisa come l’esigenza di trasmettere i propri beni a causa di morte sia propria non soltanto dei regimi capitalistici, ma anche di quelli socialisti. L’A. spiega che, nei regimi a struttura socialista, occorre distinguere tra i beni di produzione e i beni di consumo: i primi, essendo preordinati alla creazione di altri beni, non possono appartenere ai privati e, conseguentemente, non possono formare oggetto di successione ereditaria; i secondi, essendo destinati a soddisfare direttamente bisogni umani (es.: alimenti, indumenti, ecc.…), possono, in genere, essere oggetto di successione a causa di morte. 114   M. D’Amelio, Caratteri generali del diritto di successione per causa di morte nel nuovo codice, in Comm. cod. civ. diretto da M. D’Amelio, Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, Firenze, 1941, p. 6, il quale evidenzia la maggiore spiritualità data al negozio per causa di morte dal codice vigente. 112

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7. Verso una nuova (e diversa) declinazione del contenuto del testamento: il passaggio dall’attribuzione alla regolamentazione, al fine di riprendere l’esclusione e i divieti La prescelta natura del testamento, inteso come «contenitore» di una pluralità di negozi autonomi, impone uno sviluppo ulteriore dell’indagine, vale a dire la disamina del contenuto del testamento. Il fenomeno successorio, beninteso, non riguarda esclusivamente la sfera economico-patrimoniale, ancorché l’idea che esso si rivolga unicamente o precipuamente alle situazioni giuridiche patrimoniali115 pare informare di sé l’intero secondo libro del codice civile. Che ad oggi l’istanza di regolare le situazioni giuridiche patrimoniali si presenti come centrale e determinante della successione a causa di morte, e che una significativa componente degli istituti successori sia imperniata nella direzione della soddisfazione delle esigenze distributive della ricchezza in favore di eredi e legatari, è dato incontrovertibile. Nondimeno, è altrettanto evidente che non si può più ritenere che la successione a causa di morte si esaurisca nell’assicurare la mera modificazione soggettiva116 dei rapporti giuridici e che sia, altresì, circoscritta alle sole situazioni economico-patrimoniali117. Un   Per la dottrina patrimonialistica tradizionale, tra gli altri, v. L. Barassi, Le successioni per causa di morte, Milano, 1947, pp. 305-307; F. S. Azzariti – G. Martinez – G. Azzariti, Diritto civile italiano. Successioni per causa di morte e donazioni, Padova, 1948, pp. 337-338; F. Cisotti, La disposizione di beni come elemento del concetto di testamento, in Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, vol. 77, (1943 – 1944), Milano, 1943, pp. 225 e 231; S. Pugliatti, Testamento epistolare e volontà testamentaria, in Temi, 1948, p. 313. 116   G. Stolfi, Note sul concetto di successione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1949, p. 535 ss. 117   Il tema era già avvertito da A. Zaccaria, Diritti extrapatrimoniali e successione. Dall’unità al pluralismo nelle trasmissioni a causa di morte, Padova, 1988, p. 61 ss., il quale, movendo dalla coloritura «fiduciaria» che connota la successione a causa di morte nei diritti personal-patrimoniali, avverte che il fenomeno deve essere ascritto a quello residuale delle successioni cc.dd. anomale. Sebbene, con una significativa apertura, si interroga sulla fondatezza dell’idea che circoscrive le successioni anomale nell’area residuale. A p. 94, prima di avviare l’indagine sulle singole fattispecie, scrive: «diciamo: residuale; a meno di non voler sostenere che, 115

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siffatto approccio risulterebbe certamente miope rispetto alle nuove frontiere del diritto successorio, in primis l’apertura del testamento a ricomprendere le vicende di costituzione e di estinzione di rapporti giuridici118, dimenticando pertanto di considerare le esigenze della contemporaneità, oltre a presentare profili di contrarietà all’attuale direzione del sistema ordinamentale119. Quest’ultimo ha conosciuto un’inversione di tendenza, tale per cui le direttive assiologiche che lo hanno interessato hanno condotto verso la c.d. depatrimonializzazione120 del diritto civile. Inoltre, accanto alla perdita di centralità del profilo patrimoniale, si è assistito alla espansione delle situazioni esistenziali e di quelle connesal pari del principio di “patrimonialità”, anche quello di “unità” della successione è principio non più riflettente in modo adeguato la realtà giuridica del nostro tempo, e che, dunque, la distinzione fra un sistema generale ed uno “anomalo” delle successioni oggi non ha ragione di essere prospettata. Ma è, quest’ultima, almeno allo stato attuale dell’elaborazione dogmatica in materia, una prospettiva che può valere unicamente come ipotesi di lavoro per ulteriori ricerche». 118   Sulle vicende di rapporto giuridico in generale, si veda su tutti M. Allara, Vicende del rapporto giuridico, fattispecie, fatti giuridici, rist. con prefazione di N. Irti, Torino, 1999, p. 24, secondo il quale il termine «successione» vale a indicare qualunque vicenda di modificazione soggettiva del rapporto giuridico, indipendentemente dal fatto che si tratti di una successione universale (erede o fusioni di società) o particolare o che si tratti di una vicenda inter vivos o mortis causa. Per una disamina del tema con specifico riguardo al testamento, imprescindibile è il rinvio allo studio di G. Criscuoli, Le obbligazioni testamentarie, cit., passim. Nonché, più di recente, il lavoro di N. Di Mauro, Le disposizioni testamentarie modificative ed estintive del rapporto obbligatorio, Milano, 2005. 119   P. Perlingieri, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, in Id., La persona e i suoi diritti. Problemi del diritto civile, Napoli, 2005, p. 25, «l’esigenza del rispetto della persona umana e del suo libero sviluppo incidono sulla nozione di ordine pubblico, sui limiti e la funzione dell’autonomia privata e sull’interpretazione degli atti che ne sono manifestazione, sull’individuazione dei confini dell’illecito e del suo fondamento, sulle configurazioni non soltanto dei rapporti familiari ma anche delle situazioni soggettive patrimoniali, sulla concezione e sulla tutela del rapporto di lavoro, sul giudizio di meritevolezza dell’associazionismo e dei suoi possibili scopi, indice, insomma, su tutto l’assetto del vivere in “comunità”». 120   C. Donisi, Verso la «depatrimonializzazione» del diritto civile, in Rass. dir. civ., 1980, p. 644 ss.; A. De Cupis, Sulla «depatrimonializzazione» del diritto privato, in Riv. dir. civ., 1982, II, p. 482 ss.; P. Perlingieri, «Depatrimonializzazione» e diritto civile, in Rass. dir. civ., 1983, p. 1 ss.

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se alle nuove tecnologie121, che sembravano in una prima fase non avere spazio nelle indagini dei giuristi. Conseguenza diretta di ciò è il capovolgimento del concetto di successione, la quale finisce col descrivere il complesso delle vicende di rapporti giuridici, esistenziali e patrimoniali che, nella morte di un soggetto, trovano il loro fondamento causale, ossia che alla morte del soggetto si realizzano in via originaria, o ne traggono una loro autonoma qualificazione.122 Va detto, tuttavia, che la concezione che rinviene nella patrimonialità un elemento qualificante del testamento è stata a lungo prevalente nelle riflessioni dei giuristi. Non è un caso che autorevole dottrina123 abbia affermato che l’art. 587 c.c. designerebbe un duplice concetto di testamento. Precisamente, rientrerebbe nel concetto ristretto il comma 1 della citata norma. Diversamente, nel

  Sulla successione nel patrimonio digitale, almeno, G. Resta, La «morte digitale», in Id., Dignità, persone, mercati, Torino, 2014, p. 375 ss.; S. Deplano, La successione a causa di morte nel patrimonio digitale, in C. Perlingieri e L. Ruggeri (a cura di), Internet e diritto civile, Napoli, 2015, p. 427 ss. V. anche, M. Cinque, La successione nel «patrimonio digitale»: prime considerazioni, in Nuova giur. civ. comm., 2012, p. 645 ss.; D. Corapi, Successione. La trasmissione ereditaria delle c.d. «nuove proprietà», in Fam. pers. succ., 2011, p. 379 ss.; A. Zoppini, Le «nuove proprietà» nella trasmissione ereditaria della ricchezza (note a margine della teoria dei beni), in Riv. dir. civ., 2000, p. 185 ss.; M. Martino, Le «nuove proprietà», in Tratt. dir. succ. don. Bonilini, I, Milano, 2009, p. 355 ss.; L. Di Lorenzo, Il legato di password, in Notariato, 2014, p. 147 ss.; U. Bechini, Password, credenziali e successione mortis causa, Studio n. 6-2007/IG approvato dalla Commissione Studi di Informatica Giuridica del Consiglio Nazionale del Notariato l’11 maggio 2007 (è leggibile in http://ca.notariato.it/approfondimenti/6-07-IG.pdf). Più di recente, sul c.d. contatto erede di facebook, V. Barba, Il diritto delle successioni tra solidarietà e sussidiarietà, in Rass. dir. civ., 2016, p. 345 ss. 122   V. Barba, Atti di disposizione e pianificazione ereditaria, in Atti 11° Convegno Nazionale S.I.S.D.I.C., Libertà di disporre e pianificazione ereditaria, Napoli, 2017, p. 188. 123   La distinzione tra concetto «ristretto» e «ampio» si deve ad A. Cicu, Il testamento, cit., pp. 16 -17. Distinguo riaffermato in Id., Testamento, cit., pp. 10 e 228. Sembrano accogliere tale distinzione, F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, cit., p. 70; R. Scognamiglio, Riconoscimento di proprietà contenuto in un testamento, cit., p. 35. Nella dottrina più recente, v. G. Alpa, in Aa.Vv., Istituzioni di diritto privato a cura di M. Bessone, Torino, 2003, p. 439. 121

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comma 2 saremmo in presenza di un concetto ampio, ossia aperto ad ogni atto di ultima volontà, prescindente dall’avere ripercussioni sui beni. Si è altresì adoperato un diverso distinguo, e precisamente tra testamento in senso sostanziale e testamento in senso negoziale124. In altri termini, il comma 1 dell’art. 587 c.c. starebbe ad indicare l’atto di ultima volontà che contiene essenzialmente una disposizione di beni, mentre il comma 2 indicherebbe soltanto l’atto che del testamento ha la forma ma che contiene disposizioni di natura diversa da quelle attributive. Secondo questa dottrina potremmo avere due distinte ipotesi. La prima è quella di un atto che contiene disposizioni attributive di beni esclusivamente o con disposizioni di natura non patrimoniale, ed avremmo ad ogni modo un testamento in senso sostanziale o materiale. La seconda ipotesi è quella di un testamento che contiene unicamente disposizioni di natura non patrimoniale, ed in tal caso saremmo in presenza di un testamento in senso formale. Altra dottrina125, in maniera non troppo distante da quest’ultima, propone invece di differenziare il testamento in senso negoziale dal testamento in senso documentale. Per effetto di tale distinzione le disposizioni non patrimoniali non qualificano l’atto come testamento ma rispetto ad esse il testamento – documento svolge la funzione di veicolo di trasmissione.126 124   In tal senso, C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, cit., p. 28. 125   M. Allara, La revocazione delle disposizioni testamentarie, Torino, 1951, p. 207. Tale distinzione pare migliore rispetto alle altre, anche in considerazione degli sviluppi della dottrina relativamente alla natura giuridica del documento, inteso non come atto ma come cosa rappresentativa di un fatto e quindi, in un traslato figurato, come rapporto tra contenitore (la res documento) e contenuto (il fatto, il negozio). Si veda, per tutti, F. Carnelutti, La prova civile, Milano, 1922, p. 140. Sul documento, nella letteratura più recente v. almeno M. E. La Torre, Contributo alla teoria giuridica del documento, Milano, 2004. Tra le opere fondamentali all’inquadramento del tema, non si può non rinviare ad A. Candian, Documento e negozio giuridico, Parma, 1925. 126   F. Messineo, Istituzioni di diritto privato secondo la nuova legislazione, Padova, 1941, p. 31.

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Il discorso sul contenuto del testamento si impone nella civilistica italiana con l’opera di una autorevole dottrina. È indubbio che in questo contributo l’idea patrimoniale del testamento sia ben radicata. Il testamento è l’atto di ultima volontà che ha contenuto non soltanto patrimoniale, ma anche attributivo, ragion per cui il contenuto tipico del testamento coincide, sostanzialmente, con l’istituzione di erede, l’istituzione di legato e, ovviamente, tutte quelle disposizioni complementari o accessorie alla summa divisio dell’art. 588 c.c. Rientrano invece nel contenuto atipico del testamento tutte quelle prescrizioni che non abbiano direttamente funzione attributiva e che possono essere contenute nel testamento. Tale fortunatissima distinzione serviva al suo assertore per dire che era testamento, in senso proprio, soltanto quello avente un contenuto attributivo, e, dunque, il testamento dispositivo della delazione. Essa, in altri termini, era funzionale all’obiettivo di negare che il contenuto atipico contribuisse ad indicare il testamento in senso proprio. In tal modo si rimarcava che le disposizioni non patrimoniali e quelle patrimoniali non attributive costituivano atti autonomi e diversi dal testamento. E precisamente, esse costituivano atti di ultima volontà, connotati dall’unilateralità, unipersonalità e revocabilità – caratteri condivisi col testamento –, con le quali il soggetto può regolamentare taluni interessi post mortem.127

  In G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento, cit., p. 326, si legge che «le dichiarazioni di diverso contenuto [dalla istituzione di erede o di legatario] che in forma testamentaria possono compiersi, ne sussista o non l’unità formale con eventuali disposizioni di beni, non costituiscono testamento. Quando non si tratta di atti non negoziali, a cui risulta già incompatibile la nozione stessa di atto di ultima volontà (anche se compatibile sia, a qualche specie, quella di (mero) atto mortis causa) si tratta di negozi che o non sono a causa di morte ovvero sono al più negozi di ultima volontà a sé stanti, che rispondono alle regole generali della categoria a cui appartengono (atto di ultima volontà), ma non a quelle più particolari del testamento. E se pure a tutte queste dichiarazioni atipiche, anche quando non siano mortis causa, un effetto post mortem normalmente consegue, ciò dipende unicamente dalla particolare fattispecie emissiva che il soggetto assegna alla dichiarazione col presceglierne la forma testamentaria; ma da tale profilo l’atto (a rilevanza giuridica esterna) post mortem costituisce una categoria dommatica distinta così dall’atto sotto modalità di morte come dall’atto mortis causa». 127

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È vero anche che la riferita distinzione – inserita pienamente nella ricostruzione patrimonialistica del testamento – sarebbe stata sul finire degli anni Cinquanta e con maggiore vigore negli anni Sessanta messa in discussione a fronte di alcuni contributi in tema di modus128 e di diseredazione.129 In questi due fondamentali studi si sviluppano sostanzialmente tre profonde critiche. In primo luogo, si obietta all’interpretazione che del verbo dispone di cui all’art 587 c.c. si è storicamente data, vale a dire come sinonimo di attribuzione. In secondo luogo, se anche dispone vuol dire attribuisce, non si comprende il perché l’attribuzione sia da intendere solo ed unicamente in positivo, e non anche in negativo. Si rammenta, infatti, che riguardo alla diseredazione si è per lungo tempo ritenuta ammissibile una tale disposizione, là dove fosse possibile rinvenire un’istituzione implicita, in linea con la regola di cui all’espressione francese exclure c’est instituer. In terzo luogo, si avversa l’idea che le disposizioni patrimoniali tipiche ammesse dal nostro ordinamento si risolvano nella summa divisio dell’art. 588 c.c., vale a dire l’istituzione di erede e di legato. I citati lavori trovano terreno fertile nonostante una giurisprudenza abbastanza granitica. Ne è riprova una importante sentenza di legittimità130, nella quale si afferma l’ammissibilità di un riconoscimento di proprietà effettuato in un testamento, sul rilievo che la funzione del riconoscere è compatibile con quella del disporre, intesa quest’ultima in senso ampio.   M. Giorgianni, Il modus testamentario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1957, p. 889 ss. 129   M. Bin, La diseredazione. Contributo allo studio del contenuto del testamento, cit., passim. Ad onor del vero, si deve segnalare come nello stesso anno in cui esce codesto contributo, altra autorevole dottrina, A. Liserre, Formalismo negoziale e testamento, cit., pp. 158-159, sottolineava che «… si possono isolare, mediante un breve esame normativo alcune – ed invero il discorso meriterebbe la cura di un’apposita trattazione – tra le più significative disposizioni testamentarie caratterizzate dalla nota comune di non essere idonee alla produzione dell’effetto attribuzione di beni che pure si vorrebbe fosse tipico del testamento». 130   La sentenza è Cass., 17 aprile 1950, n. 999, con nota di R. Scognamiglio, Riconoscimento di proprietà contenuto in un testamento, in Giur. compl. Cass. civ., 1951, I, p. 35. 128

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Il secondo arresto giurisprudenziale131, stavolta di merito, concerne il tema della diseredazione. Si rileva che se al testatore è concesso di manifestare la propria volontà in ordine alla disposizione delle proprie sostanze, essa è valida sia quando si traduce in una positiva attribuzione, sia quando si risolve nella dichiarazione di voler diseredare uno o più soggetti. Per giungere ad affermarne la giuridica ammissibilità nel nostro ordinamento, il contributo in tema di diseredazione si sofferma prima di tutto sull’approfondimento del concetto tecnico di atto di disposizione. Sappiamo, infatti, che il disposto dell’art. 587 c.c. utilizza il verbo dispone, imponendo di verificare se esso abbia la stessa valenza del c.d. Verfugung quale contrapposto alla categoria dei negozi obbligatori132. L’atto di disposizione, secondo autorevole dottrina133, è qualsiasi atto o negozio giuridico rilevante per la modifica, e precisamente

  App. Firenze, 9 settembre 1954, in Foro padano, 1955, I, c. 48 ss. Va fatta una notazione curiosa. Nella controversia in esame, corrente tra tale Massoni e tale Casonato, l’esito arrise a quest’ultimo in virtù di quanto nel testo riferito. Tale Casonato era assistito da A. Cicu, strenuo difensore della concezione patrimonialistica del testamento, che nei suoi scritti rigettava ogni forma di diseredazione, né riteneva possibile la c.d. istituzione implicita, e che in causa – per evidenti ragioni professionali – sostenne la tesi da lui dogmaticamente avversata. 132   La categoria degli atti di disposizione fu elaborata per designare una categoria di negozi giuridici contrapposti ai negozi obbligatori. Sul punto, L. Mengoni, Gli acquisti «a non domino», Milano, 1949, pp. 6-7, nota 3; L. Mengoni – F. Realmonte, Disposizione. I) Atto di disposizione, in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, p. 189. La categoria degli atti di disposizione è molto ampia, ricomprendendo atti giuridici in senso stretto come il pagamento, ed assumendo particolare rilievo in essa i negozi abdicativi o rinunziativi e quelli di alienazione, questi ultimi a loro volta distinti in alienazioni traslative e costitutive. Sulla differenza tra atti di disposizione e atti di alienazione, v. S. Pugliatti, Alienazione, in Enc. dir., II, Milano, 1958, pp. 3-5. Approssimativamente, l’atto di disposizione ha quale effetto principale la diminuzione patrimoniale del titolare del diritto di cui si tratta, ma il più delle volte a tale depauperamento corrisponde come aspetto complementare del medesimo effetto un’attribuzione patrimoniale, cioè un arricchimento di un altro soggetto. 133   L. Mengoni, Gli acquisti «a non domino», cit., p. 6. 131

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per l’estinzione, il trasferimento o la limitazione di un dato rapporto giuridico patrimoniale134. Già da una superficiale analisi parrebbe doversi negare al testamento la natura di atto di disposizione tout court135. In primo luogo perché ad esso non consegue un’immediata e diretta diminuzione patrimoniale per il testatore, il quale, a tacere ogni possibile rilievo giuridico, deve comunque lasciare i propri beni, pur ravvisandosi nei repertori testamentari l’auspicio di molti ereditandi a portare con sé quanto messo da parte. In secondo luogo, non mancano ipotesi nelle quali il testatore dispone di beni o diritti che non gli appartengono. Si pensi, a titolo di esempio, al legato di cosa dell’onerato o di un terzo previsto dall’art. 651 c.c.136 Più in generale, si osserva come al testamento non sfugga una vasta area in cui domina l’efficacia obbligatoria, sì da fare in modo che esso non sia riconducibile ipso iure alla categoria dell’atto di disposizione. Ma v’è di più. La dottrina patrimonialistica ha sempre intravisto nel testamento lo strumento attraverso il quale realizzare l’attribuzione di beni

134   Sull’atto di disposizione, v. ancora S. Pugliatti, L’atto di disposizione e il trasferimento dei diritti, in Diritto civile. Metodo – Teoria – Pratica. Saggi, Milano, 1951, p. 3. 135   Di recente, è ribadita la natura del testamento quale «atto di regolamentazione dell’assetto della futura successione del suo autore» da C. Caccavale, Trasferimento di azienda mediante cessione post mortem a corrispettività condizionale, Napoli, 2014, p. 30 e C. Romano, Profili evolutivi dell’autonomia testamentaria, in F. Volpe (a cura di), Il testamento: fisiologia e patologie, Napoli, 2016, p. 15. 136   Secondo G. Bonilini, Autonomia testamentaria e legato, cit., p. 55, deve censurarsi l’idea che volesse considerare le norme, previste agli artt. 651 ss., capaci di descrivere una varietà tipologica del legato: «È esso, invero, un «tipo» delle tassative disposizioni testamentarie patrimoniali attributive, che può affiancarsi al sub-ingresso, nella massa, di un erede; è costante il suo valore tipologico; trova nella legge anche la disciplina spicciola di alcune delle sue specie», per poi, a p. 70, sempre a proposito del legato, precisa che esso è «il solo schema legislativo approntato per l’attribuzione, ad un soggetto specificato in via testamentaria, di un quid determinato avente carattere patrimoniale; ma detto schema non rappresenta che la traccia, che il testatore vivifica pel tramite di una prodigiosa varietà di contenuto».

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(c.d. Zuwendung)137. Tale espressione designa l’effetto, dipendente da un’attività negoziale, che consiste nel prodursi a favore di un soggetto di un vantaggio, di un incremento della sua sfera patrimoniale, che può essere tanto acquisitivo di un diritto, quanto consistente nella liberazione da un obbligo. Ciò che conta sottolineare è allora che la nostra materia conosce svariate ipotesi nelle quali il suddetto effetto attributivo sfugge alla disposizione testamentaria. Si pensi, per il momento, alle norme dettate dal testatore per la divisione ex art. 733 c.c. o ai divieti testamentari muniti di efficacia reale, fattispecie, tutte, sulle quali varrà la pena indugiare nel prosieguo. L’indagine condotta in materia di diseredazione, dunque, ha il merito di segnalare come il verbo dispone viene adoperato e soprattutto declinato nel senso generico di prescrivere, ordinare, regolare. Lo scardinamento della dispositività tout court consente a questo interprete di dare linfa alla tesi dallo stesso sostenuta relativa all’ammissibilità della diseredazione testamentaria138. Essa rientra nel concetto ampio di disposizione, come atto comunque idoneo a predisporre un regolamento di interessi. Inoltre, essa si annoda alla circostanza che il testamento, scritto nel quale vengono cristallizzate le ultime volontà, è destinato a risuonare, negli orecchi dei nominati e dei dimenticati, quando il suo autore è già tradotto in silenzioso ricordo139.

  A sua volta la dottrina tedesca, interrogatasi sull’applicazione della Verfugung alla materia testamentaria, aveva escluso che essa dovesse intendersi in senso stretto e che potesse confondersi con la Zuwendung, ma sottolineato che andasse interpretata nel generico significato di Anordnung. 138   La diseredazione era espressamente prevista nel diritto romano. Nel quale, però, assolveva a una funzione ben diversa da quella che essa è chiamata oggi ad assolvere. Sul punto, A. Burdese, Diseredazione (Diritto romano), in Noviss. Dig. it., V, Torino, 1957, pp. 1113-1115. Ma riferimenti anche in Giu. Azzariti, Diseredazione ed esclusione di eredi, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1968, pp. 11891194; L. Ferri, L’esclusione testamentaria di eredi, in Riv. dir. civ., 1941, p. 232 ss.; A. Cicu, Diseredazione e rappresentazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1956, p. 385. 139   Per una analisi attenta e puntuale proprio in tema di diseredazione, si veda A. Trabucchi, L’autonomia testamentaria e le disposizioni negative, cit., p. 40, ove si legge che «Il riconoscimento della volontà testamentaria ha sempre costituito uno 137

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Ragion per cui si è maggiormente inclini a riconoscere all’atto di ultima volontà un perimetro più ampio di quanto non accada per altri atti di autonomia, anche aprendo il campo a disposizioni rette dai sentimenti piuttosto che da istanze regolative della propria successione. Ne è riprova il fatto che in esso spesso si rinvengono disposizioni infamanti, rimuneratorie, canzonatorie, meramente benefiche e infine delle raccomandazioni140. Le intuizioni che questa dottrina espresse più di cinquant’anni fa hanno raggiunto la giurisprudenza di legittimità141, la quale sembra

degli aspetti più umani dell’intervento del diritto nella vita […]. In questa valutazione essenziale dell’istituto testamento non viene tanto perseguito, naturalmente, l’obiettivo di dare al patrimonio del defunto la più congrua destinazione, quanto il rispetto alla personalità del soggetto, nel riconoscimento massimo della sua volontà, fin quasi a lasciare una pietosa illusione di almeno parziale sopravvivenza». 140   G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 207, ove si legge che «il legislatore, dunque, ha fuso, in una nozione unitaria, i due concetti summenzionati, onde sia approntato un mezzo che, consentendo di realizzare interessi patrimoniali e non patrimoniali, la cui rilevanza è post mortem, sia capace di soddisfare quella molteplicità di bisogni, di cui ogni individuo è portatore, e alla cui soddisfazione deve tendere l’ordinamento giuridico. Il testamento è certamente un atto di volontà, che, adeguatamente vestita, si dirige a effetti giuridici; né va dimenticato, che tale volontà si rannoda al sentimento, vale a dire è la traduzione, anche giuridica, della realtà degli affetti, delle emozioni, degli ideali, delle convinzioni». 141   Il riferimento corre a Cass., 25 maggio 2012, n. 8352, per la quale si rinvia infra alla nota 176. Sull’introduzione dell’art. 448-bis c.c., che prevede non già un’ipotesi di indegnità, bensì il primo caso previsto dalla legge di diseredazione del legittimario per giusta causa, v. almeno V. Verdicchio, La diseredazione “per giusta causa” (chiose a margine dell’art. 448 bis c.c.), in R. Pane (a cura di), Nuove frontiere della famiglia. La riforma della filiazione, Napoli, 2014, p. 195 ss.; F. Oliviero, Decadenza dalla responsabilità genitoriale e diritti successori: il nuovo art. 448 bis c.c., in Riv. dir. civ., 2014, p. 35 ss.; F. Pirone, La violazione dei doveri familiari come legittima causa di diseredazione del legittimario, in Notariato, 2015, p. 516 ss.; P. Laghi, Note critiche sull’art. 448 bis c.c., in Dir. succ. fam., 2016, p. 83 ss.; M. Tatarano, L’ art. 448 bis c.c. tra norma e sistema, in F. Volpe (a cura di), Il testamento: fisiologia e patologie, Napoli, 2016, p. 157 ss.; M. Tamponi, Certezza del diritto e successioni per causa di morte, in Dir. succ. fam., 2015, p. 109 ss., il quale chiaramente osserva che la causa attributiva non è più riguardata come elemento essenziale del negozio testamentario, «il quale ben potrebbe presentare come suo unico contenuto una dispensa da collazione, una ripartizione dei debiti ereditari diversa da

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aver preso atto che il testamento non ha necessariamente natura patrimoniale e attributiva, ma ha natura dispositivo – regolamentare, tanto da poter contenere disposizioni meramente negative, come una dichiarazione di revoca, e come la diseredazione. Ed allora, «disporre» delle proprie sostanze per il tempo in cui si è cessato di vivere significa regolamentare, dettare una disciplina post mortem dei propri interessi, patrimoniali e no142.

8. L’indegnità e la sospensione dalla successione ex art. 463-bis c.c., lungo il cammino verso la diseredazione La nuova e preferibile declinazione del verbo dispone di cui all’art. 587 c.c., nell’accezione regolamentare che si suggerisce, consente di sviluppare il tema oggetto di indagine volgendo l’attenzione alla clausola di diseredazione143. Prima di accingerci all’esame della clausola diseredativa, è opportuno occuparsi di alcuni istituti contigui, vuoi per la collocazione all’interno del codice, vuoi – forse – per ratio, vale a dire l’indegnità e la «sospensione dalla successione» di cui all’art. 463-bis c.c., introdotta nell’ordinamento ad opera della L. 11 gennaio 2018, n. 4144, con la quale il legislatore ha

ciò che prevede l’art. 1295 c.c., un divieto di divisione, un onere, l’esclusione del legittimario dalla disponibile, una revoca del testamento». Di recente, si vedano le acute osservazioni di G. Sicchiero, La diseredazione ex art. 448 bis c.c.: cinque diverse tesi a confronto, in Rass. dir. civ., 2019, 4, p. 1265 ss. 142   G. Bonilini, Testamento, cit., p. 338, ove si legge che la regolamentazione post mortem di interessi patrimoniali costituisce formula che «ha il pregio di indicare, in sintesi, la molteplicità di effetti che possono conseguire al negozio testamentario, che è fonte di diritti, di obbligazioni, di obblighi soltanto morali, di raccomandazioni». 143   Per una lettura in senso evolutivo dei temi in discorso, si veda, da ultimo, V. Ferrari – P. Laghi, Capacità di succedere, indegnità, diseredazione e rappresentazione, in Tratt. dir. civ. CNN Perlingieri, Napoli, 2021. 144   Per un’ampia analisi della questione della tutela degli orfani di femminicidio, si rinvia a N. Folla, Orfani di crimini domestici: ora una legge li tutela, li sostiene e rompe il silenzio, in Fam. dir., 2018, 5, p. 517 ss.; L. Bellanova, La nuova tutela degli orfani per crimini domestici (l. 11 gennaio 2018, n. 4), in Studium iuris,

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tentato di arginare il dilagante fenomeno dei c.d. «crimini domestici», introducendo modifiche al Codice civile, al Codice penale e al Codice di procedura penale. Procedendo con ordine, va detto che il capo III del titolo I del Codice civile dedicato all’indegnità a succedere reca al suo interno una serie di questioni tuttora controverse in dottrina. Anzitutto, si segnala la querelle concernente la natura giuridica dell’istituto. Essa, verosimilmente, risulta ascrivibile in maniera significativa alla collocazione codicistica immediatamente successiva all’art. 462 c.c. Quest’ultimo disposto normativo, come noto, si preoccupa di individuare i soggetti titolari della capacità di succedere, da intendersi quale aspetto della più generale capacità giuridica. Pertanto, da questo aspetto taluno ha preso spunto per ricondurre l’indegnità a una peculiare ipotesi di incapacità a succedere145. A ben vedere, e in linea con quanto emerge dalla letteratura146

2018, 11, p. 1294 ss.; F. Tribisonna e F. Baraghini, Legge in materia di protezione degli orfani per crimini domestici: un ulteriore passo avanti nella tutela dei minori?, in Familia, 2018, p. 123 ss. 145   L’indegnità viene associata all’incapacità a succedere, nella letteratura, da D. Barbero, Natura giuridica dell’indegnità a succedere, in Foro pad., 1950, I, p. 843 ss.; Id., Sistema del diritto privato italiano, Torino, 1965, rist., II, p. 875; M. Allara, Princìpi di diritto testamentario, Torino, 1957; A. Cicu, Successioni per causa di morte. Parte generale, Delazione e acquisto dell’eredità. Divisione ereditaria, in Tratt. dir. civ. comm. Cicu e Messineo, 2a ed., Milano, 1961, p. 87; L. Ferri, Successioni in generale, in Comm. c.c. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1964, p. 140 ss.; U. Natoli, L’amministrazione dei beni ereditari, I, Milano, 1968, p. 128 ss.; L. Cariota Ferrara, Le successioni per causa di morte. Parte generale, Napoli, 1977, rist. 2011, p. 420; A. Burdese, in G. Grosso e A. Burdese, Le successioni – Parte generale, in Tratt. dir. civ. Vassalli, Torino, 1977, p. 120 ss.; G. Criscuoli, Le obbligazioni testamentarie, 2a ed., Milano, 1980, p. 264; G. Prestipino, Delle successioni in generale (artt. 456-535 c.c.), in Comm. c.c. De Martino, Novara, 1981, p. 116 ss.; E. Moscati, L’indegnità, in Tratt. dir. priv. Rescigno, V, 2a ed., Torino, 1997, p. 116; G. Vidiri, L’azione di indegnità a succedere è soggetta a prescrizione, in Giust. civ., 2007, I, p. 945; C.M. Bianca, Diritto civile, 2.1, La famiglia, 6a ed., Milano, 2017, pp. 232, 318. 146   N. Coviello, Delle successioni. Parte generale, Napoli, 1932, p. 78 ss.; L. Barassi, Le successioni per causa di morte, cit., p. 61 ss.; A. Auricchio, Sul fondamento dell’indegnità a succedere, in Foro it., 1955, I, p. 1188; L. Salis, L’indegnità a succedere, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1957, p. 928; C. Giannattasio, Delle suc-

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nonché dai lavori preparatori al Codice civile147 e dalla giurisprudenza (in particolare quella di legittimità)148, tale riconduzione presta il fianco a più di un’obiezione. A sconfessare l’impostazione che intravede nell’indegnità una species di incapacità a succedere è primariamente l’influenza della tradizione romanistica nella materia in discorso. In seno a tale esperienza giuridica, è bene ribadirlo, l’indegno non era incapace di succedere149 cessioni. Disposizioni generali-Successioni legittime, in Comm. c.c., Torino, 1959, p. 50 ss.; P. Schlesinger, Successioni (dir. civ.). Parte generale, in Noviss. Dig. it., XVIII, Torino, 1971; C. Ruperto, Indegnità a succedere, in Enc. giur. Treccani, XVI, Roma, 1989, p. 3; R. Giampetraglia, Sub art. 463, in Comm. c.c. Gabrielli, Delle successioni, I, Torino, 2009, p. 101 ss.; A. Natale, L’indegnità a succedere, in Tratt. dir. succ. don. Bonilini, I, La successione ereditaria, Milano, 2009, p. 937 ss.; S. Monosi, L’indegnità a succedere, in Tratt. breve succ. don. Rescigno e Ieva, I, 2a ed., Padova, 2010, p. 195; R. Calvo, L’indegnità, in R. Calvo e G. Perlingieri (a cura di), Diritto delle successioni e delle donazioni, 2a ed., Napoli, 2013, p. 119 ss.; G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., p. 177 ss.; G. Di Giovine, Capacità di succedere, in Successioni e donazioni, diretto da G. Iaccarino, I, Milano, 2017, p. 174 ss. 147   Relazione al Codice civile n. 11. 148   Cfr., per tutte, Cass., 4 maggio 1957, n. 1407, in CED on line; Cass., 23 novembre 1962, n. 3171, ivi; Cass., 17 luglio 1974, n. 2145, ivi; Cass., 16 febbraio 2005, n. 3096, ivi; Cass., 29 marzo 2006, n. 7266, in Giust. civ., 2007, 4, I, p. 939, con nota di G. Vidiri, L’azione di indegnità a succedere è soggetta a prescrizione, cit. Nella giurisprudenza di merito v., App. Milano, 22 dicembre 1970, in Giur. it., 1973, 1, c. 473; Trib. Cagliari, 22 agosto 1994, in Riv. giur. sarda, 1996, p. 93, ove si legge che «l’indegnità a succedere, prevalentemente considerata come una forma di sanzione civile, è applicata dal giudice a carico del chiamato all’eredità, per cui questi può acquistarla ma non ritenerla. Si tratta, quindi, di una causa di esclusione che opera in virtù di sentenza di natura costitutiva, e la relativa azione è soggetta al termine prescrizionale ordinario»; Trib. Macerata, 26 marzo 2003, in Riv. not., 2003, p. 1296, con nota di G. Musolino, L’indegnità a succedere. 149   «In fondo dall’art. 462 c.c. si vede che nessuno è proprio incapace di succedere, tranne coloro che non sono nati. Ma coloro che non sono nati, non sono capaci di niente. E se non nascessero mai quelli che ancora non sono nati, non acquisterebbero nemmeno mai una qualsiasi capacità», così, D. Barbero, Natura giuridica dell’indegnità a succedere, cit., p. 843. L’indegnità non può essere ricostruita come una forma di incapacità di succedere (quand’anche relativa, poiché riferibile alla sola relazione tra l’indignus e il de cuius), in quanto la sua operatività non scaturisce da una «condizione naturale della persona dell’indegno» bensì dalla riprovevole condotta da questi tenuta nei confronti del de cuius. Per un’ampia analisi del rapporto tra capacità e indegnità, v. U. Salvestroni, Della capacità di

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ma poteva validamente acquistare l’eredità150. Il suo acquisto poteva tuttavia venir meno a seguito della pronuncia di indegnità. La conclusione alla quale pervenivano i giuristi del tempo poteva così riassumersi: l’indegno è in grado di prendere ma non può trattenere quanto ricevuto. Tale esito, come noto, venne ad essere scolpito nella massima indignus potest capere sed non retinere151. Contro un approccio tendente ad assimilare indegnità e incapacità di succedere militano, a dire il vero, ulteriori rilievi. Là dove si sostenesse l’automatismo dell’indegnità, si avrebbe ipso iure l’estinzione della vocazione ereditaria, mettendo nei fatti a repentaglio la tenuta del sistema. Infatti, la causa di indegnità reclama un accertamento in concreto, mancando il quale si metterebbe in discussione la ratio stessa dell’istituto. All’atto dell’apertura della successione, il sol fatto che risulti integrato uno dei casi d’indegnità tassativamente previsti dall’art. 463 c.c. non potrebbe di per sé costituire una vicenda automaticamente impeditiva della vocazione. Non soltanto perché, come chiarito, gli effetti dell’indegnità si riverberano esclusivamente sulla delazione e, conseguentemente, sull’acquisto dell’eredità, ma anche perché la sussistenza dell’indegnità richiede che a ciò si giunga in esito a un riscontro in concreto. Sebbene sia largamente condiviso il fondamento oggettivo e pubblicistico dell’istituto152, consistente nella riprovazione dei consocia-

succedere. Della indegnità. Artt. 462-466, in Cod. civ. Comm. Schlesinger, diretto da F.D. Busnelli, 2a ed., Milano, 2012, p. 11 ss. 150   F.S. Azzariti e G. Martinez, Successioni per causa di morte e donazioni, Padova, 1959, p. 31; V. Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Napoli, 1966, rist., p. 533. 151   L’indegno acquistava l’eredità, ma poi veniva privato (ereptio) dei beni ereditari dal fisco; per i Romani, l’indegnità aveva carattere di pena inflitta per esigenze di ordine pubblico e importava la confisca dei beni. P. Voci, Diritto ereditario romano, Milano, 1963, II, p. 738. Nella dottrina recente, cfr. D. Russo, Indignus semper potest capere?, in Rass. dir. civ., 2016, 3, p. 1003 ss. 152   Secondo un orientamento tradizionale, il fondamento dell’indegnità era ravvisabile nella presunta volontà dell’ereditando di escludere l’indignus dalla successione. Tale tesi era supportata proprio dal potere che la legge riconosce al de cuius di riabilitare l’indegno (art. 466 c.c.). Tuttavia, parte della dottrina rilevava che la sanzione dell’indegnità esclude l’indegno anche dalla quota di ere-

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ti e del legislatore a che riceva per successione colui/colei che si sia macchiato/a di atti riprovevoli nei confronti del de cuius153, compete sempre al giudice valutare154, caso per caso, la condotta tenuta dal chiamato all’eredità. Corollario di ciò è, pertanto, la natura costitutiva – e non già meramente dichiarativa – della pronuncia resa al termine del giudizio

dità che gli fosse stata eventualmente riservata come legittimario, privandolo di un diritto che dunque non ha alcun concreto legame con la volontà del de cuius. Sulla scorta di queste considerazioni, inizia a farsi strada l’idea di un fondamento in parte privatistico e in parte pubblicistico. Attualmente, secondo l’orientamento prevalente, l’indegnità rappresenta una sanzione civile con fondamento oggettivo e pubblicistico. Infatti, si osserva da un lato che è socialmente ingiusto il conseguimento di un vantaggio patrimoniale da parte del soggetto passivo di un fatto illecito o di una condotta antigiuridica costituente, nella maggior parte dei casi, reato; dall’altro lato, in quanto con la pronuncia di indegnità il soggetto viene escluso non soltanto dalla successione testamentaria, ma anche da quella legittima, venendo meno, nella sua posizione, anche i diritti che gli spetterebbero in qualità di legittimario. Il carattere civilistico della sanzione ne esclude comunque la funzione satisfattoria del diritto violato. L’indegnità, infatti, non tende a reintegrare il diritto leso ma ha le sole finalità della prevenzione e della repressione tipiche della sanzione penale. In questi termini, L. Barassi, Le successioni per causa di morte, cit., p. 65; A. Cicu, Successioni per causa di morte. Parte generale, cit., p. 88; L. Ferri, Successioni in generale, cit., p. 166; A. Natale, L’indegnità a succedere, cit., p. 947, spec. nota 43; U. Salvestroni, Della capacità di succedere. Della indegnità, cit., p. 61 ss.; G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., p. 178. Secondo G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 45 ss., si discorre di una pena «privata» che si aggiunge alle altre, eventualmente irrogabili ai sensi del Codice penale. Secondo l’A., «in altri termini, è sanzione civile per una condotta antigiuridica, tenuta nei confronti del de cuius, o dei suoi congiunti, o della vicenda successoria». Una riflessione diacronica sull’indegnità, a seguito delle novelle che hanno interessato l’istituto, è svolta di recente da G. Sicchiero, Indegnità a succedere prima e dopo la novella del 2018, in Giur. it., 2020, 1, p. 52 ss. 153   G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 45; M. Prato, Indegnità a succedere, in Notaro, 2003, p. 148. 154   La valutazione dell’atto deplorevole avviene alla luce dei princìpi di imputabilità del diritto penale, sebbene non sia necessaria ai fini della pronuncia d’indegnità una condanna penale o che il reato sia perseguibile, eccezion fatta per l’ipotesi prescritta nell’art. 463, n. 3 c.c. In altri termini, la questione civile è indipendente da quella penale: il giudice civile ha una propria e autonoma competenza nell’accertamento delle cause di indegnità. Sul punto v. pure A. Natale, L’indegnità a succedere, cit., p. 938, spec. nota 4; G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., p. 187 ss.

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sulla ricorrenza oppure no della causa di indegnità155, dovendo intervenire in maniera retroattiva per rendere inoperante la delazione nei riguardi dell’indegno156. Con riferimento al termine entro il quale sarà esperibile la relativa azione, va detto che sarà proponibile nell’ordinario termine decennale (art. 2946 c.c.)157. Quanto al dies a quo, per esso si prescinde dalla conoscenza della causa di indegnità da parte degli in  D’altronde, già autorevole dottrina francese (v., per tutti, D. Lebrun, Traité des successions, Paris, 1776, III, Cap. 1, n. 9), in relazione all’art. 727 del codice nazionale, identificava l’indegnità in termini di esclusione dalla successione. Tradizionalmente, infatti, erano considerate nettamente distinte l’incapacità e l’indegnità: la prima corrispondeva alla radicale mancanza di attitudine alla successione nei confronti di chiunque; la seconda impediva la successione all’indegno non nei confronti della generalità dei consociati, ma soltanto nei confronti del soggetto verso il quale si era verificato il comportamento socialmente e giuridicamente riprovato. Da tale sostanziale differenza, si faceva discendere la conseguenza che l’incapacità avesse luogo di diritto, laddove per l’indegnità fosse necessaria una pronuncia costitutiva del giudice. Sul punto, v. U. Salvestroni, Della capacità di succedere. Della indegnità, cit., p. 41 ss. Dal riconoscimento della natura costitutiva della sentenza discende un’ulteriore conseguenza sul piano processuale: il giudizio di indegnità presuppone un litisconsorzio necessario tra tutti i soggetti interessati alla successione. Al riguardo, v. Cass., 12 luglio 1986, n. 4533, in Foro it., 1987, I, c. 1212; in Arch. civ., 1986, p. 1080; in Giust. civ., 1986, I, p. 2347, ove si precisa che «tale azione – di natura costitutiva – è diretta a ottenere una pronuncia in ordine ad un rapporto giuridico unitario: ha per oggetto l’accertamento, con effetto di giudicato, della qualità di erede, la quale, per la sua concettuale unità, non sarebbe operante, se la decisione non fosse emessa nei confronti di tutti coloro i quali, essendo soggetti del rapporto successorio, sono interessati alla successione mortis causa». Tale prospettiva è confermata nella giurisprudenza più recente. Cfr., tra le altre, Cass., 29 marzo 2006, n. 7266, cit. 156   C. Ruperto, Indegnità a succedere, cit., p. 2; P. Schlesinger, Successioni (dir. civ.). Parte generale, cit., p. 755. Per un ventaglio delle ragioni che inducono ad escludere la ricostruzione dell’istituto dell’indegnità come forma di incapacità a succedere, v. A. Natale, L’indegnità a succedere, cit., p. 940 ss. 157   L. Coviello jr., Diritto successorio, Bari, 1962, p. 238; C. Ruperto, Indegnità a succedere, cit., p. 3; A. Natale, L’indegnità a succedere, cit., p. 949; R. Calvo, L’indegnità, cit., p. 124 ss., puntualizza, in questa direzione, che la prescrizione dell’azione determina il consolidamento della qualità di erede in capo a colui che sarebbe stato dichiarato indegno; G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., p. 183. Contra la dottrina che ricostruendo l’indegnità come causa di incapacità a succedere, reputa l’azione di indegnità imprescrittibile, identificandola con l’azione di petizione dell’eredità (art. 533 c.c.). 155

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teressati. In dettaglio, esso decorrerà dal giorno dell’apertura della successione158 ovvero dalla data della commissione del fatto lesivo159. Per quanto sin qui rilevato, pare ragionevole concludere – in linea con la prevalente dottrina – per la configurazione dell’indegnità come causa di esclusione dalla successione160 in luogo di quella che la ritiene un’ipotesi di incapacità di succedere. Passando al secondo istituto sopra citato, va detto che la L. 11 gennaio 2018, n. 4, nell’àmbito dell’individuazione degli strumenti preventivi e successivi più idonei per fronteggiare i c.d. «crimini domestici», amplia il capo III del titolo I del libro delle successioni, inserendo l’art. 463-bis c.c., destinato a disciplinare la «sospensione dalla successione»161.

  Cass., 17 luglio 1974, n. 2145, cit.; Cass., 29 marzo 2006, n. 7266, cit.   S. Monosi, L’indegnità a succedere, cit., p. 149; E. Moscati, Questioni vecchie e nuove in tema di capacità di succedere e di indegnità, in S. Delle Monache (a cura di), Tradizione e modernità, cit., p. 54 s., nota 114; G. Capozzi e A. Auciello, Successioni e donazioni. Casistica, Milano, 2004, p. 105. 160   Si pone a metà strada tra i due opposti orientamenti la tesi di U. Salvestroni, Della capacità di succedere. Della indegnità, cit., p. 51 ss., sulla scorta della quale, in ipotesi di indegnità, l’inefficacia del procedimento successorio, dovuta all’esclusione della relativa legittimazione recettiva, e quindi ad una inefficacia del titolo legittimante, è disposta ex lege nei riguardi di un determinato soggetto, come conseguenza dell’accertamento giudiziale di alcuni fatti a lui imputabili e con un meccanismo che possiamo fin d’ora avvicinare a quello delle pene accessorie che, a norma dell’art. 20 c.p., seguono di diritto alla condanna all’ergastolo. Certamente vocazione e delazione si verificano, con la conseguenza che l’indegnità opererà soltanto dal momento in cui si è accertato giudizialmente il compimento di uno di quegli atti da parte del successibile e si è dichiarata l’esclusione di quest’ultimo dalla successione (p. 55). Sul punto, v. anche L. Salis, L’indegnità a succedere, cit., p. 464. 161   La letteratura si è subito cimentata sulla novella. In tema, cfr. almeno M. Ramuschi, La sospensione dalla successione ereditaria, in Vita not., 2018, p. 965 ss.; M. Vascellari, sub art. 463-bis c.c., in Commentario breve al Codice Civile, a cura di G. Cian-A. Trabucchi, 13ª ed., Milano, 2018, p. 575 ss.; A.M. Serafin, Indignus non potest capere? Il nuovo art. 463-bis. Tra sospensione dalla successione e natura giuridica dell’indegnità, in Jus civile, 5, 2019, p. 457 ss.; F. Oliviero, “Sospensione dalla successione” e indegnità: a proposito dell’art. 5, legge 11 gennaio 2018, n. 4, in Nuove Leggi civ. comm., 2019, p. 310 ss.; M. Di Marzio, sub art. 463-bis c.c., in F. Di Marzio (a cura di), Codice Civile Commentato, III ed., Milano, 2019, p. 453 ss.; R. Omodei Salè, Il nuovo istituto della sospensione dalla successione (art- 463 158

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Già dalla disamina della collocazione del disposto normativo risulta comprensibile la ratio della disposizione, sebbene appaiano opportune alcune precisazioni. La sospensione dalla successione, al pari dell’indegnità, può subentrare, in ipotesi espressamente previste dalla legge, nell’àmbito di un qualsiasi procedimento successorio. Quest’ultimo, come noto, principia dalla morte del de cuius, con ciò determinandosi l’apertura della successione, ed è seguito da una pluralità di fasi logicamente e temporalmente successive l’una all’altra: vocazione, delazione e acquisto dell’eredità162. Può subito chiarirsi che gli istituti della sospensione dalla successione e dell’indegnità possono operare esclusivamente nella fase patologica del procedimento successorio. In altri termini, la sospensione dalla successione e l’indegnità pregiudicano la legittimazione del chiamato ad acquistare l’eredità, incidendo sull’ordinario sviluppo del procedimento successorio, e comportano l’effettiva alterazione nel passaggio dalla fase della vocazione a quella della delazione. Il modus operandi dei due istituti, tuttavia, non travolge nella sua interezza il procedimento successorio. In realtà, nei confronti del soggetto che abbia posto in essere uno dei comportamenti rientranti nell’elencazione tassativa dell’art. 463 c.c. contro la persobis c.c.), in Riv. dir. civ., 5, 2019, p. 1144 ss.; A. Astone, Sospensione dalla successione e indegnità a succedere. L’orizzonte ermeneutico dell’art. 463bis c.c., Torino, 2019; I. Martone, La «sospensione dalla successione» tra vecchie e nuove questioni del diritto mortis causa, in Dir. succ. fam., 2019, p. 125 ss.; B. Toti, Le recenti novità in materia di indegnità a succedere, in Dir. succ. fam., 2020, p. 207 ss.; F. Galluzzo, Sulla «sospensione dalla successione» e sull’ammissibilità della giacenza parziale, in Dir. succ. fam., 2021, p. 67 ss. 162   Sul rapporto tra vocazione e delazione si rinvia alle pagine di R. Nicolò, La vocazione ereditaria diretta e indiretta, Messina, 1934, p. 21 ss. e di L. Barassi, Le successioni per causa di morte, cit., p. 35 ss., come di recente riprese da G. Perlingieri, L’acquisto dell’eredità, in R. Calvo e G. Perlingieri (a cura di), Diritto delle successioni e delle donazioni, cit., p. 200 ss. In argomento, v. anche E. Betti, Appunti di diritto civile. Diritto di successione, Napoli, 2017, rist., p. 222, il quale osserva che l’accettazione dell’eredità, nel determinare l’acquisto dell’eredità, costituisce «il terzo momento logico della successione ereditaria. Come il fatto produttivo della delazione (2° momento) è la vocazione così il fatto operativo dell’acquisto ereditario (3° momento) è l’accettazione».

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na o il patrimonio del de cuius o dei suoi stretti congiunti o contro la sua libertà testamentaria ovvero «abbia volontariamente ucciso o tentato di uccidere il de cuius o i suoi stretti congiunti» (art. 463bis c.c.), all’atto dell’apertura della successione la vocazione si realizzerà regolarmente. La sospensione dalla successione e l’indegnità, insomma, non impediscono ab origine la chiamata all’eredità; invero, incidono nei confronti del responsabile della condotta lesiva nelle fasi successive, con la sua esclusione dall’attribuzione della quota ereditaria concretamente spettantegli e privandolo della possibilità di acquistare l’eredità. Se dunque i due istituti esprimono la comune volontà di estromettere dalla successione il soggetto che abbia posto in essere nei confronti del de cuius e/o dei suoi stretti congiunti e/o del suo patrimonio condotte pregiudizievoli, v’è da analizzare piuttosto il meccanismo attraverso il quale si perviene a tale esito e, soprattutto, verificare se agli stessi sia riferibile una diversa cifra contenutistica, risultando, altrimenti, incoerente l’opzione fatta propria dall’ordinamento di contemplare due istituti rispondenti alla medesima funzione. Si è detto in precedenza che la ratio del nuovo istituto è ravvisabile nel collettivo sentimento di ripugnanza che muove dal rilievo per cui è ragionevole ipotizzare che chi ha assunto una condotta riprovevole a danno della sfera personale o patrimoniale del de cuius non sia ammesso a beneficiare dei vantaggi economici derivanti dalla sua successione. La sospensione dalla successione, a ben vedere, sembra completare un quadro normativo interessato da vari provvedimenti novellatori. Si pensi all’ampliamento dei casi tassativi di indegnità, con l’introduzione al comma 1, n. 3-bis dell’art. 463 c.c. e all’art. 448bis c.c., in tema di diseredazione, sul quale si tornerà nel prosieguo. Il legislatore è intervenuto, in plurime occasioni, con il preciso scopo di consolidare nel diritto positivo il graduale recepimento del profondo turbamento del sentimento pubblico ogni qual volta vengono posti in essere comportamenti riprovevoli e lesivi nei confronti

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del de cuius o di soggetti a lui legati da particolari vincoli familiari o di coniugio, ampliando il catalogo delle fattispecie di indegnità e aprendo a un’espressa ipotesi di diseredazione. Viene da chiedersi, a questo punto, se però l’inserimento della sospensione dalla successione all’art. 463-bis c.c., e dunque nel capo relativo all’indegnità a succedere, sia coerente con gli scopi avuti di mira dal legislatore o se, invece, fosse lecito attendersi un intervento di segno diverso. Si anticipa, al riguardo, che residuano talune perplessità. Innanzitutto, non può tacersi che, mentre nell’art. 463 c.c., norma di apertura del capo dedicato all’indegnità e indicante i casi tassativi della medesima, si afferma che «è escluso dalla successione come indegno», occasionando la riferita querelle sulla natura giuridica dell’indegnità, nell’art. 463-bis c.c. di recente conio si legge «sono sospesi dalla successione il coniuge, anche legalmente separato, nonché la parte dell’unione civile indagati per l’omicidio volontario o tentato nei confronti dell’altro coniuge o dell’altra parte dell’unione civile, fino al decreto di archiviazione o alla sentenza definitiva di proscioglimento». Il diverso tenore letterale, in altre parole, non può non essere tenuto in considerazione. Infatti, i termini esclusione e sospensione evocano l’uno l’estromissione definitiva e l’altro quella (solo) temporanea dal procedimento successorio. Si consideri, inoltre, che l’«esclusione» dell’indegno di cui all’art. 463 c.c. interviene nel procedimento successorio incidendo a posteriori. Questi, infatti, alla morte del de cuius, per effetto della vocazione e della delazione, acquista regolarmente tutti i diritti ereditari. Si tratta, nondimeno, di un acquisto sottoposto alla condizione risolutiva della pronuncia con la quale il giudice, accertando la sussistenza di uno dei casi di indegnità tassativamente previsti e, dunque, dello status di indegno, pone retroattivamente nel nulla gli effetti della delazione. Nell’ipotesi di indegnità, pertanto, gli effetti del comportamento riprovevole si riverberano su una delazione già avvenuta. Ne discende che il successore divenuto indegno sarà regolarmente titolare dei diritti ereditari acquistati fino alla declaratoria giudiziale.

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La «sospensione dalla successione», diversamente dall’«esclusione», abbraccia invece il procedimento successorio dal principio. Il successore indagato per omicidio volontario o tentato nei confronti di uno dei suoi prossimi congiunti è ab initio sospeso dalla successione, con la conseguenza che, «fino al decreto di archiviazione o alla sentenza definitiva di proscioglimento», si realizzerà validamente nei suoi confronti unicamente la vocazione. Ebbene, se la differenza appena tracciata infligge un duro colpo al tentativo di appiattire le distanze tra i due istituti, la littera legis pare indirizzata a confondere l’interprete. A rendere il quadro più vischioso interviene, infatti, il capoverso dell’art. 463-bis c.c., il quale sembra stabilire una sorta di continuità tra sospensione e indegnità, disponendo che «in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, il responsabile è escluso dalla successione ai sensi dell’articolo 463 del presente codice». È dubbio, in altri termini, se la sospensione dalla successione costituisca un caso di indegnità aggiuntivo, destinato ad integrare il catalogo recato dall’art. 463 c.c., o se, piuttosto, configuri una condizione anticipatrice dell’indegnità. Ad orientare nel senso che la sospensione dalla successione rappresenti una condizione preliminare, preparatoria alla definitiva esclusione del successore dal procedimento successorio sembra condurre una lettura logico-sistematica e assiologica dell’istituto. Il nuovo istituto disciplina, per le cose dette in precedenza, una situazione in fieri. Colui che ha assunto comportamenti riprovevoli nei confronti del de cuius – unicamente protesi alla lesione, compiuta o arrestatasi alla soglia del tentativo, totale o parziale della sua integrità psicofisica o di quella dei suoi stretti congiunti – versa in uno stato transitorio che paralizza la dinamica successoria, impedendo nei suoi confronti gli effetti della delazione163. La sentenza 163   Su tale aspetto, cfr. R. Omodei Salè, Il nuovo istituto della “Sospensione dalla successione”(art. 463-bis, c.c.), cit., p. 1147, secondo il quale la nuova misura rivestirebbe «natura lato sensu cautelare, posto che, in presenza di una indagine riguardante il compimento dei gravi delitti dalla stessa contemplati, al

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del giudice va a dirimere l’incertezza, segnando lo spartiacque tra una condizione di mera temporaneità e quella definitiva. In caso di condanna, la sospensione determina la definitiva indegnità e le conseguenze per il sospeso sono sovrapponibili a quelle previste per l’indegno; in caso di assoluzione, viceversa, la situazione di transitorietà si stabilizza in senso favorevole per il successore sospeso, il quale, già regolarmente vocato, sarà legittimato a prender parte alle successive fasi del procedimento successorio.

9. La tradizionale sovrapposizione delle disposizioni negative con la clausola c.d. di diseredazione. Critica a tale ricorrente impostazione e prospettiva de jure condendo Una riflessione che abbia come obiettivo quello di indagare il contenuto c.d. negativo del testamento è chiamata giocoforza a confrontarsi con il tema della diseredazione. Per molto tempo si è operata una sovrapposizione tra contenuto negativo del testamento e clausola di diseredazione, giungendosi a ritenere che la diseredazione rappresentasse l’unica espressione del contenuto negativo del testamento. Le ragioni di un tale approccio non devono sorprendere, ed anzi sono testimoniate dalla travagliata vicenda della diseredazione. Che il testatore possa escludere taluno dalla propria successione appare non solo lecito ma più propriamente giusto. La communis opinio è certamente orientata in tal senso, risultando a dir poco ingiusto che possa ricevere qualche bene del testatore un congiunto poco apprezzato e stimato per ragioni oggettive o, come il più delle volte accade, per ragioni soggettive dovute, ad esempio, a torti o scorrettezze mai davvero superati. In altri termini, non appare corretto che taluno venga ad essere beneficiato in virtù di una dispo-

fine di evitare che il familiare sospettato di avere commesso quei reati possa, anche solo di fatto e in via temporanea, trarre vantaggio dalla eredità della persona offesa».

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sizione di legge avvertita come distante e insensibile alle concrete istanze che sollecitano il disponente a disciplinare i suoi interessi in un senso o nell’altro. Eppure, l’ordinamento giuridico italiano ha conosciuto per un lungo arco di tempo uno iato tra questo sentire comune – piuttosto diffuso – e le posizioni della dottrina e delle corti. Va detto che l’istituto non era ignoto all’esperienza romana, dove però era strumentale ad altri fini, e più precisamente era diretto a consentire al pater familias di escludere dalla propria successione gli heredes sui. La circostanza che la diseredazione nel diritto romano fosse limitata agli heredes sui (ai quali sono assimilabili per grandi linee i legittimari del nostro sistema giuridico, tuttavia con una significativa deviazione) e che essa fosse considerata superflua per gli eredi legittimi, cioè coloro che non fossero sui, si spiega verosimilmente col fatto che in epoca romana il testamento doveva contenere, obbligatoriamente, l’istituzione di erede. Ne conseguiva che, perché fosse valida l’istituzione ereditaria del soggetto estraneo alla famiglia, occorreva anche una espressa exheredatio del suus heres, in quanto la sua semplice preterizione era causa di nullità del testamento. Ed invece, intuitivamente, era superflua la diseredazione degli eredi che non fossero sui. Dunque nel diritto romano la diseredazione non era fine a se stessa, ma si presentava necessaria al fine di attribuire efficacia all’istituzione di un erede non annoverato tra gli heredes sui, privando così della qualifica di erede chi tale qualità la possedeva per legge164. 164   A. Burdese, Manuale di diritto privato romano, Torino, 1964, p. 777, a proposito di diseredazione sottolinea che «è riconosciuto dal ius civile un limite alla libertà di testare, che si sintetizza nella formula “sui heredes instituendi sunt vel exheredandi”: i sui devono cioè essere menzionati nel testamento per essere istituiti eredi o diseredati, non potendo esservi omessi (preteriti), sotto sanzione di invalidità, totale o parziale del testamento stesso; la institutio del suus non fa che confermargli la qualifica legale di heres, […] mentre la exheredatio toglie al suus tale qualifica, con disposizione considerata tanto grave da non potere essere in alcun modo favorita dal diritto». Dello stesso principio tratta anche V. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Napoli, 1966, p. 545, evidenziando che la exheredatio fu dapprima «un atto solenne a autonomo di spossessamento della qualità di erede, compiuto dal

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Ciò nonostante, la dottrina civilistica italiana ha avuto una posizione di sostanziale contrarietà nei riguardi della clausola di diseredazione. Le ragioni di un tale atteggiamento sono molteplici. Una di esse principia dal tenore letterale dell’art. 587 c.c., e in particolare dal verbo «dispone» ivi adoperato. Di esso si è tradizionalmente data un’unica interpretazione, vale a dire di sinonimo di “attribuisce”, e quindi di attribuzione. Ne è conseguita, quale logico corollario, la chiusura nei confronti di ogni lettura comprensiva anche dell’ipotesi in cui non si dispone ma si esclude soltanto taluno dalla successione in uno o più diritti165. Proprio per mitigare la rigidità della riferita impostazione, e in considerazione del fatto che la volontà di estromettere dalla successione qualche congiunto sgradito è sempre stata avvertita, si è imposta la necessità di un ulteriore passaggio da parte di dottrina e prassi. Si è rilevato, infatti, che se si può anche non attribuire direttamente, occorre però che sia possibile risalire ad un’istituzione c.d. implicita, con la quale colmare la lacuna derivante dall’esclusione del diseredato. Ci si riferisce, sul punto, alla finzione di derivazione

padre in punizione del figlio indegno e come necessaria preparazione all’adozione di un estraneo: ma divenne poi, col separarsi delle due idee di filius e di heres, una semplice dichiarazione testamentaria che escludeva certi discendenti dall’eredità. Sorse così il principio “sui aut instituendi aux exhereditandi”, che impose al testatore l’obbligo alternativo d’istituire i discendenti immediati in potestà, […] oppure di far seguire alla nomina degli eredi l’espressa diseredazione dei discendenti esclusi: restò, invece, vietato di passare i sui sotto silenzio (preterizione)». Per un’approfondita analisi dell’evoluzione storico-dottrinale dell’istituto si rinvia inoltre anche F. Cancelli, Diseredazione (Diritto romano), in Enc. dir., vol. XXIII, Milano, 1964, p. 95; D. Russo, La diseredazione, cit., p. 4, ove interessanti considerazioni sul rapporto tra l’attuale diseredazione e l’antica exheredatio del diritto romano. 165   È pacifico il principio di tassatività delle cause di indegnità, derogabile soltanto qualora siffatta clausola risponda ad un preciso «interesse meritevole di tutela». Interessante la notazione di A. C. Jemolo, La diseredazione, in Riv. dir. civ., 1965, II, p. 504 (ora in Id., Gli occhiali del giurista, I, Padova, 1970, p. 369), per il quale «c’è un’istanza di pietà cristiana che si ribella all’istituto della diseredazione».

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francese del c.d. exclure c’est instituer166. Si intende dire, con ciò, che la clausola di esclusione comporta indirettamente l’istituzione ereditaria di coloro che da essa non risultano colpiti. Altro argomento per negare spazio alla clausola di diseredazione è dato dall’affermazione secondo cui le disposizioni patrimoniali tipiche conosciute nel nostro ordinamento si risolvono nella summa divisio recata dall’art. 588 c.c. Insomma, non si potrebbe andare oltre all’istituzione di erede e di legato in quanto tertium non datur167.

166   Sulla base del principio di matrice francese secondo cui «exclure, c’est instituer» v. L. Coviello, Delle successioni. Parte generale, 4a ed., Napoli, 1935, p. 53; F. Santoro-Passarelli, Vocazione legale e vocazione testamentaria, cit., p. 200; A. Pino, L’esclusione testamentaria dalla successione legittima, Roma, 1955, p. 21; M. Notari, Volontà testamentaria e diseredazione, in Riv. not., 1957, p. 109. Nella dottrina d’Oltralpe, da ultimo, P. Delnoy, Les libéralités et les successions, 4e ed., Bruxelles, 2013, p. 192. 167   L’inidoneità dell’art. 588, comma 1, c.c., ad esaurire le disposizioni patrimoniali tipiche è dimostrata dalla vicenda ricostruttiva dell’onere, oggi prevalentemente qualificato come negozio autonomo, in base agli artt. 676, comma 2, e 677, comma 2, c.c. che ne declinano la c.d. ambulatorietà, e non anche invece come clausola accessoria. Tale evoluzione del pensiero giuridico viene in particolare sviluppata da M. Giorgianni, Il modus testamentario, cit., p. 889 ss., sebbene parzialmente anticipata da L. Gardani Contursi – Lisi, Il legato modale (lineamenti), in Riv. dir. civ., 1956, I, p. 957 ss. e seguita da A. Cataudella, Sul contenuto del contratto, Milano, 1966, p. 217 ss.; A. Palazzo, Le successioni, cit., p. 662; M. Bin, cit., p. 164; E. Perego, Favor legis e testamento, cit., p. 180; F. Gazzoni, L’attribuzione patrimoniale mediante conferma, Milano, 1974, p. 485; G. Criscuoli, Le obbligazioni testamentarie, cit., p. 198; U. Carnevali, Modo, in Enc. dir., XXVI, Milano, 1976, p. 686 ss.; L. Costanzo, Problemi dell’onere testamentario, in Riv. dir. civ., 1978, II, p. 305 ss.; L. Bigliazzi Geri, Il testamento, cit., p. 136, B. Toti, Condizione testamentaria e libertà personale, Milano, 2004, p. 63. Nella giurisprudenza di merito più recente, v. Trib. Terni, 28 novembre 1993, dove si legge che «soggetto legittimato ad agire ai sensi dell’art. 648 cod. civ. è chiunque vi abbia interesse, intendendosi per interesse qualsiasi relazione anche morale del soggetto (anche collettivo e pur se non indicato nel testamento) alla realizzazione di quanto previsto nel modus. Nel caso di testamento che prevede un “modus” a carico dell’erede, qualora il testamento stesso sia caducato per mancata accettazione, l’erede legittimo è obbligato all’adempimento e nei suoi confronti può essere esperita esecuzione in forma specifica ai sensi dell’art. 2931 c.c.». Per la tesi dell’accessorietà, ex multis, E. Brunori, Appunti sulle disposizioni testamentarie modali e sul legato, in Riv. dir. civ., 1961, I, p. 472, ove si legge che

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contro l’autonomia strutturale del modo depone «l’impossibilità, direi istituzionale, di creare un tertium genus, oltre le due, che poi sono le uniche, varietà di disposizioni testamentarie (l’istituzione, appunto, di erede ed il legato). L’art. 588 c.c., seguendo una ininterrotta tradizione, recepisce tale summa divisio con termini che, a mio sommesso avviso, non ammettono dubbi o perplessità». Oltre all’onere o modus, anche un altro istituto è in grado di comprovare che l’istituzione di erede e di legato non esauriscono il contenuto patrimoniale del testamento, vale a dire la compensazione. Comunemente, la dottrina suole inquadrare l’istituto della compensazione tra le modalità estintive dell’obbligazione di tipo satisfattivo. Alla base di tale elementare asserto risiede una semplice osservazione. La soddisfazione del soggetto titolare del rapporto obbligatorio non sta nella fruizione dell’adempimento della prestazione obbligatoria quanto nella persecuzione di un diverso interesse giuridicamente rilevante: quello di essere (in parte o integralmente) liberato dal proprio debito. In tal senso D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, Torino, 1965, 6ª ed., p. 241; C.M. Bianca, Diritto Civile, IV, L’obbligazione, Milano, 1993, p. 479. L’alterità degli interessi giuridici in questione (adempimento – liberazione dal debito) viene ben colta da quanti adoperano accorgimenti di tipo lessicale e semantico, riferendosi al carattere “satisfattivo ma non solutorio” della compensazione. V., al riguardo, P. Perlingieri, Dei modi di estinzione dell’obbligazione diversi dall’adempimento (art. 1230-1259), in Comm. cod. civ. A. Scialoja e G. Branca, Bologna – Roma, 1975, p. 268; M. C. Dalbosco, La compensazione per atto unilaterale (la c.d. compensazione legale) tra diritto sostanziale e processo, in Riv. dir. civ., 1989, I, p. 360; P. Schlesinger, Compensazione (diritto civile), in Noviss. dig. it., III, Torino, 1959, p. 724; N. Di Prisco, I modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento, in Tratt. dir. priv. Rescigno, IX, Torino, 1999, p. 392; U. Breccia, Le obbligazioni, in Tratt. dir. priv. G. Iudica e P. Zatti, Milano, 1991, p. 726. La maggioranza degli interpreti qualifica la manifestazione di volontà della parte (la cd. eccezione di compensazione che rappresenta la componente soggettiva, mentre la coesistenza dei debiti è la componente oggettiva) come atto unilaterale con valore costitutivo e negoziale. In particolare, si tengano in conto le parole di P. Perlingieri, Dei modi di estinzione dell’obbligazione diversi dall’adempimento, cit., p. 285, ove si dice che «la parte non compensa, ma si avvale della compensazione legale e con la sua dichiarazione completa lo stesso procedimento estintivo legale». Contra la giurisprudenza, cfr. Cass., 16 luglio 2003, n. 11446; Cass., 30 maggio 1997, n. 4800; Cass., 4 maggio 1981, n. 2705, sul rilievo che l’estinzione dell’obbligazione origina automaticamente dalla coesistenza dei rapporti, rivestendo l’eccezione di compensazione un valore meramente dichiarativo, in quanto diretta a giovarsi di un effetto giuridico già prodotto. In dottrina aderisce a tale impostazione, ex multis, C.M. Bianca, Diritto Civile, IV, L’obbligazione, cit., p. 494. Nel senso dell’ammissibilità di una compensazione per testamento è, invece, P. Perlingieri, Dei modi di estinzione dell’obbligazione diversi dall’adempimento, cit., p. 287, ove sembra ritrarsi l’ammissibilità di dichiarazioni negoziali di compensazione legale nell’àmbito del negozio testamentario, senza ricorrere allo strumento del legato e, quindi, ado-

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L’apparente (e a tratti indimostrata) solidità di tali argomenti, pur persuadendo molti studiosi, non convinceva appieno altri e prestava il fianco a più di un’obiezione. È evidente che chi negava l’ammissibilità della clausola di diseredazione guardasse al testamento con una palese predilezione per la concezione meramente attributiva dell’atto di ultima volontà. Per converso, chi si proiettava alla diseredazione con cautela e senza aprioristiche preclusioni propendeva per una lettura che – senza sminuirne la componente patrimoniale –, coglieva un’ampiezza di contenuto irriducibile nella (sola) attribuzione. Nell’evoluzione delle riflessioni degli interpreti intorno alla clausola di diseredazione, un ruolo fondamentale è assolto da talune pronunce giurisdizionali e, soprattutto, da alcuni importanti studi svolti dalla dottrina. Quanto alle prime, si segnala la già citata sentenza di legittimità nella quale si ebbe ad affermare l’ammissibilità di un riconoscimento di proprietà affidato a una disposizione testamentaria, muovendo dal rilievo che la funzione del riconoscere è compatibile con quella del disporre, aderendosi a una nozione ampia di detto termine168. L’altro provvedimento, stavolta di merito, anch’esso anticipato in precedenza, va considerato in quanto in esso si allargarono i confini dell’autonomia testamentaria, nella misura in cui si ebbe a precisare che, se al testatore è concesso di manifestare la propria volontà in ordine alla disposizione delle proprie sostanze, quest’ultima è valida sia quando si traduce in una positiva attribuzione, sia quando si risolve nella dichiarazione di voler diseredare uno o più soggetti169. Se queste due pronunce segnano un primo significativo invito a riflettere seriamente sulle ragioni della contrarietà mostrata in perando la cd. disposizione testamentaria atipica. Si precisa, ad ogni modo, che la regola dell’art. 1242, comma 1, c.c., ove appunto si afferma che «la compensazione estingue i due debiti dal giorno della loro coesistenza», è preferibilmente da intendersi come inderogabile, di guisa che la compensazione sarà retroattiva anche se di fonte testamentaria. In tal senso, si veda pure N. Di Mauro, Le disposizioni testamentarie modificative ed estintive del rapporto obbligatorio, cit., p. 332. 168   Cfr. nota 130. 169   Cfr. nota 131.

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ordine alla clausola di diseredazione, evidenziando come forse attorno alla diseredazione si agitassero pregiudizi non sorretti da un adeguato corredo di argomentazioni capaci di giustificare l’ostracismo, l’indagine che certamente è risultata più determinante prima dell’ormai nota sentenza della Cassazione del 2012170 è rappresentata da quella svolta impressa da autorevole dottrina nella seconda metà degli anni ’60171. L’indagine svolta da questa autorevole dottrina assurge la disamina della diseredazione a punto di osservazione privilegiato per conformare una più coerente definizione del «contenuto patrimoniale» del testamento, disancorata dalla sterile contrapposizione tra comma 1 e comma 2 dell’art. 587 c.c. Un contributo la cui modernità non pare revocabile in dubbio. La clausola diseredativa, infatti, rappresenta il terreno di verifica del quantum e del quomodo dei margini di autonomia spettanti all’ereditando, nel più ampio e controverso rapporto tra successione legittima e successione testamentaria. È a partire da questo scritto, non a caso, che viene ad essere scalfita l’asserita prevalenza «di valore» della successione legittima172, in

170   Cass., 25 maggio 2012, n. 8352. Per i commenti a tale sentenza, v. gli autori infra citati alla nota 178. 171   Il riferimento è intuitivamente all’opera di M. Bin, La diseredazione. Contributo allo studio del contenuto del testamento, Torino, 1966. Per la verità, l’opera del Bin non è la sola che in materia testamentaria esprime una sensibilità rinnovata degli studiosi. Si segnala come nello stesso anno in cui esce il contributo del in, altra autorevole dottrina, A. Liserre, Formalismo negoziale e testamento, cit., pp. 158-159, sottolineava che «… si possono isolare, mediante un breve esame normativo alcune – ed invero il discorso meriterebbe la cura di un’apposita trattazione – tra le più significative disposizioni testamentarie caratterizzate dalla nota comune di non essere idonee alla produzione dell’effetto attribuzione di beni che pure si vorrebbe fosse tipico del testamento». 172   Sul ruolo della famiglia e sulla sua incidenza in ordine al fondamento della successione legittima, v. M. Bin, La diseredazione. Contributo allo studio del contenuto del testamento, cit., p. 101, il quale, condivisibilmente, rileva come «il concetto giuridico di “famiglia” non può non andare di pari passo col concetto proprio della coscienza comune; che cioè esso è storicamente relativo, la sua estensione dipendendo da valori economici, etici e politici riconosciuti in un determinato ambiente sociale».

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luogo della più ragionevole e considerazione della medesima quale meccanismo suppletivo, operante in assenza di una valida e/o incompleta manifestazione di volontà testamentaria. L’apertura in favore dell’ammissibilità della clausola di diseredazione passa, per le cose dette in precedenza, per una disamina della nozione di atto c.d. di disposizione173. Secondo autorevole dottrina, per esso si intende qualsiasi atto o negozio giuridico rilevante per la modifica, e precisamente per l’estinzione, il trasferimento o la limitazione di un dato rapporto giuridico patrimoniale174. Già solo da una analisi liminare parrebbe doversi negare al testamento la natura di atto di disposizione tout court. In primo luogo perché ad esso non consegue un’immediata e diretta diminuzione patrimoniale per il testatore, il quale – a tacere per il momento notazioni di carattere giuridico – deve comunque lasciare i propri beni. In secondo luogo, non mancano ipotesi nelle quali il testatore dispone di beni o diritti che non gli appartengono. Più in generale, si osserva come al testamento non sfugga una vasta area in cui domina l’efficacia obbligatoria, sì da fare in modo che esso non sia riconducibile ipso iure alla categoria dell’atto di disposizione. Il discorso inevitabilmente volge ai c.dd. legati obbligatori175, vale a dire quei legati rispetto ai quali la disposizione testamentaria funge da fonte dell’obbligazione dalla quale sorge per il legatario un diritto di credito nei confronti dell’onerato da esigersi con successivo atto tra vivi, i quali sfuggono alla regola ac-

  L. Mengoni, Gli acquisti «a non domino», Milano, 1949, p. 6.   Sull’atto di disposizione, si veda ancora S. Pugliatti, L’atto di disposizione e il trasferimento dei diritti, in Diritto civile. Metodo – Teoria – Pratica. Saggi, Milano, 1951, p. 3 ss.; R. Nicolò, Dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale (Art. 2900-2906), in Comm. cod. civ. A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma 1957, p. 204; L. Mengoni – F. Realmonte, Disposizione (atto di), cit., p. 189. 175   Sulla ammissibilità del legato obbligatorio, oramai inconfutabile, in dottrina quanto in giurisprudenza, cfr. G. Criscuoli, Le obbligazioni testamentarie, cit., p. 503; A. Masi, Dei legati, Artt. 649-673, in Comm. cod. civ. A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1979, p. 28; G. Bonilini, I legati, in Cod. Civ. Comm. Schlesinger, 2001, p. 118. In giurisprudenza: Cass., 5 marzo 1959, n. 629 e Cass., 15 aprile 1975, n. 1427. 173

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quisitiva dell’art. 649 c.c., ed in particolare al comma 2 di detta norma176. Ma v’è di più. Merita di essere sottolineato che nella materia in discorso vi sono svariate ipotesi nelle quali l’effetto attributivo – che si vorrebbe dominare la successione testamentaria – non connota la disposizione testamentaria. Si pensi, ad esempio, alle norme dettate dal testatore per la divisione di cui all’art. 733 c.c. o ai divieti testamentari muniti di efficacia reale di cui agli artt. 713, comma 2 e 3, c.c., 674, comma 3, c.c., 687, comma 3, c.c., all’art. 2565, comma 3, c.c. in tema di trasmissione della ditta, all’art. 752 c.c. relativo alla disciplina dei debiti ereditari e via discorrendo. Il verbo dispone di cui all’art. 587 c.c., allora, deve essere inteso non già unicamente come attribuisce, bensì nel senso generico di prescrivere, ordinare, regolare. Una volta che si è operata una significativa estensione del concetto di disposizione, che non si esaurisce più nell’attribuzione ma ricomprende soprattutto il momento regolativo di un assetto di interessi complesso e composito, cade il principale motivo ostativo alla legittimità di una clausola di diseredazione177. L’intuizione sviluppata da questa autorevole dottrina non ha avuto però l’avallo delle corti. Per molto tempo è rimasta una ricostruzione estremamente rigorosa e condivisibile tanto sul piano

 V. G. Bonilini, I legati, cit., p. 127, secondo il quale «Il legato di contratto comporta che l’onerato concluda con il beneficiario l’accordo contrattuale divisato nella scheda. L’onorato, in altri termini, vanta verso il soggetto gravato, un credito, di cui l’ordinamento assicura l’esecuzione». Si v. pure F. Baldissara, Il legato di contratto, in Vita not., 2007, p. 418. 177   La componente soggettiva dell’espressione di volontà testamentaria è rimarcata da molti autori. Su tutti, e proprio con una analisi attenta e puntuale proprio in tema di diseredazione, A. Trabucchi, L’autonomia testamentaria e le disposizioni negative, cit., p. 40, ove si legge che «Il riconoscimento della volontà testamentaria ha sempre costituito uno degli aspetti più umani dell’intervento del diritto nella vita […] In questa valutazione essenziale dell’istituto testamento non viene tanto perseguito, naturalmente, l’obiettivo di dare al patrimonio del defunto la più congrua destinazione, quanto il rispetto alla personalità del soggetto, nel riconoscimento massimo della sua volontà, fin quasi a lasciare una pietosa illusione di almeno parziale sopravvivenza». 176

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del metodo che del merito, incapace cionondimeno di valicare le resistenze di una granitica giurisprudenza. La situazione è, tuttavia, cambiata quando oramai poche speranze di revirement erano nutrite dagli operatori del diritto. L’importanza del nuovo corso aperto dalla Cassazione178– forse non pienamente colto – non sta tanto 178   Cass., 25 maggio 2012, n. 8352, in Giust. civ. 2012, I, p. 1164, con nota di L. Ciafardini, Cambio di rotta della Cassazione sulla clausola di diseredazione; in Fam. pers. succ., 2012, 11, p. 763, con nota di V. Barba, La disposizione testamentaria di diseredazione; in Nuova giur. civ., 2012, I, p. 991, con nota di R. Pacia, Principio di autonomia e validità del testamento contente solo una clausola di diseredazione; in Vita not., 2012, 2, p. 665, con nota di D. Pastore, La Cassazione ammette la diseredazione; in Corr. giur., 2013, 5, p. 614, nota di B. Caliendo, La diseredazione: “(non) vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole..”; in Fam. dir., 2013, p. 146, con nota di G. Bellavia, La Cassazione ammette la clausola di diseredazione esplicita meramente negativa; in Notariato, 2013, p. 24, con nota di R. Cimmino, Diseredazione e ricostruzione causale del negozio testamentario; in Giust. civ., 2013, I, p. 1473, con nota di C. Bruno, Liceità della diseredazione esplicita; in Giust. civ., 2013, I, p. 685, con nota di V. Occorsio, «Escludo da ogni avere i miei cugini»: la Cassazione alla svolta in tema di diseredazione; in Giur. it., 2013, p. 315, con nota di M. Fusco, È valida la clausola di diseredazione meramente negativa; in Giur. it., 2012, p. 2506, con nota di G. Torregrossa, Nota in tema di diseredazione. Tra i numerosi contributi in materia di diseredazione si segnalano, fra i molti, L. Ferri, L’esclusione testamentaria di eredi, in Riv. dir. civ., 1941, p. 228 ss.; Id., Se debba riconoscersi efficacia a una volontà testamentaria di diseredazione, in Foro pad., 1955, I, c. 47 ss.; A. Trabucchi, Esclusione testamentaria degli eredi e diritto di rappresentazione, in Giur. it., 1955, I, 2, c. 749 ss.; A. Cicu, Diseredazione e rappresentazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1956, I, p. 385 ss.; G. Notari, Volontà testamentaria e diseredazione, cit., p. 109 ss.; A. Torrente, Diseredazione, c) diritto vigente, in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, p. 102 ss.; A.C. Jemolo, La diseredazione, cit., p. 504 ss.; R. Odorisio, Sulla cosiddetta diseredazione, in Temi, 1965, p. 190; G. Azzariti, Diseredazione ed esclusione di eredi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1968, p. 1182 ss.; P. Rescigno, Recensione a M. Bin, La diseredazione – Contributo allo studio del contenuto del testamento, in Riv. dir. civ., 1969, I, p. 95 ss.; E. Ondei, Le disposizioni testamentarie negative, in Foro pad., 1977, I, c. 301 ss.; F. Miriello, In margine alla clausola di diseredazione: la tematica della c.d. volontà meramente negativa, in Riv. not., 1981, p. 744 ss.; C. Saggio, Diseredazione e rappresentazione, in Vita not., 1983, II, p. 1788 ss.; F.M. Bandiera, Sulla validità della diseredazione, in Riv. giur. sarda, 1991, p. 402 ss.; M. Corona, Funzione del testamento e riconducibilità della disposizione di esclusione del successibile ex lege (non legittimario) all’assegno divisionale semplice c.d. indiretto, in Riv. giur. sarda, 1992, p. 27 ss.; Id., La c.d. diseredazione: riflessioni sulla disposizione testamentaria di esclusione, in Riv. not., 1992, p. 505 ss.; F. Gazzoni, È

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nell’avere inferto un colpo alla concezione meramente attributiva del testamento, quanto invece nell’aver ricondotto la clausola diseredativa nell’area del potere di disporre inteso come regolamentazione degli interessi patrimoniali e no per il tempo successivo alla morte del disponente.179 forse ammessa la diseredazione occulta dei legittimari?, in Giust. civ., 1993, I, p. 2522 ss.; F. Bartoluzzi, La c.d. clausola di diseredazione, in Notariato, 1995, p. 14 ss.; S.T. Masucci, Non è ammessa la diseredazione occulta dei legittimari: brevi cenni sull’usucapione a domino, in Giur. it., 1995, I, 1, c. 917 ss.; D. Onano, Diseredazione: istituzione implicita anche nel caso di dubbio sulla effettiva esistenza della volontà istitutiva, in Riv. giur. sarda, 1995, p. 586 ss.; F. Corsini, Appunti sulla diseredazione, in Riv. not., 1996, p. 1093 ss.; M. Ieva, Manuale di tecnica testamentaria, Padova, 1996, p. 27 ss.; A. Pinna Vistoso, Diseredazione, istituzione implicita e riabilitazione del diseredato: un nuovo caso giurisprudenziale sulla volontà testamentaria di esclusione, in Riv. giur. sarda, 1998, p. 6 ss.; G. Pfnister, La clausola di diseredazione, in Riv. not., 2000, II, p. 913 ss.; E. Bergamo, Brevi note sulla diseredazione, in Giur. it., 2001, c. 70 ss.; L. Cavandoli, Clausola di diseredazione e testamento, in Vita not., 2001, I, p. 694 ss.; C. Grassi, Validità del testamento di contenuto meramente diseredativo, in Familia, 2001, p. 1210 ss.; D. Morello Di Giovanni, Clausola di diseredazione e autonomia negoziale del disponente, in Giur. merito, 2001, I, p. 938 ss.; G. Porcelli, Autonomia testamentaria ed esclusione di eredi, in Notariato, 2002, p. 49 ss.; M. Comporti, Riflessioni in tema di autonomia testamentaria, tutela dei legittimari, indegnità a succedere e diseredazione, in Familia, 2003, I, p. 27 ss.; C. Ungari-Trasatti, Rassegna di dottrina e giurisprudenza in tema di diseredazione, in Riv. not., 2003, p. 1320 ss.; G. Bonilini, Disposizione di diseredazione accompagnata da disposizione modale, in Fam. pers. succ., 2007, p. 715; D. Pastore, Riflessioni sulla diseredazione, in Vita not., 2011, p. 1181; M. Mazzucca, Riflessioni sulla clausola di diseredazione, tra vecchi dogmi e nuovi interrogativi, in Rass. dir. civ., 2013, 4, p. 1027 ss; G. Bonilini, Diseredazione revocante la precedente istituzione a successore?, in Dir. succ. fam., 2016, 3, p. 941 ss.; G. Perlingieri, La diseredazione e il pensiero di Alberto Trabucchi, in Dir. succ. fam., 2017, 1, p. 341 ss.; D. Russo, Esclusione del legittimario e nullità di protezione, in Dir. succ. fam., 2017, 2, p. 555 ss. A livello monografico, oltre al classico contributo del Bin, si vedano D. Russo, La diseredazione, Torino, 1998; P. Laghi, La clausola di diseredazione: da disposizione “afflittiva” a strumento regolativo della devoluzione ereditaria, in Quad. Rass. dir. civ., Napoli, 2013; M. Tatarano, La diseredazione. Profili evolutivi, Napoli, 2012, p. 80 ss.; G. Di Lorenzo, Testamento ed esclusione dalla successione, Milano, 2017. Da ultimo, cfr. M. Epifania, Riflessioni in tema di diseredazione, Napoli, 2021. 179   L’idea che il testamento serva alla regolamentazione post mortem degli interessi, anche non patrimoniali, del de cuius, è chiara in G. Bonilini, Autonomia testamentaria e legato. I legati così detti atipici, cit., p. 48 ss.; Id., Dei legati, cit.,

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La Suprema Corte precisa, infatti, che «la clausola di diseredazione integra un atto dispositivo delle sostanze del testatore, costituendo espressione di un regolamento di rapporti patrimoniali, che può includersi nel contenuto tipico del testamento: il testatore, sottraendo dal quadro dei successibili ex lege il diseredato e restringendo la successione legittima ai non diseredati, indirizza la concreta destinazione post mortem del proprio patrimonio». Da questa sentenza della Cassazione il contenuto dell’atto di ultima volontà non è più solo destinato ad accogliere una volontà attributiva ed istitutiva, ma può includere «anche una volontà ablativa e, più esattamente, destitutiva»180. L’analisi dell’istituto della diseredazione181 torna ora utile nella verifica delle altre disposizioni testamentarie negative. Per la verità

p. 14; Id., Testamento, cit., p. 338. A conferma della penetrazione dell’idea anche a livello manualistico, Id., Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 205 ss. In senso parzialmente differente, M. Allara, Principi di diritto testamentario, Torino, 1957, p. 28, secondo il quale il tratto della patrimonialità, in uno con quello della capacità di regolare gli interessi post mortem, sarebbe necessario ai fini della qualificazione del testamento. Secondo l’A. il nostro ordinamento conosce anche negozi a causa di morte non patrimoniali sicché, come precisa a p. 103 s., «le disposizioni di cui al secondo comma dell’art. 587 c.c. non sono disposizioni testamentarie anche se il legislatore ha stabilito per esse un formalismo uguale a quello, che lo stesso legislatore ha stabilito nei riguardi del negozio testamentario». In definitiva per l’A., nella materia testamentaria, il tratto della patrimonialità è essenziale, con la precisazione (p. 102) che esso, a differenza di quanto non accada nella materia del contratto, rileva non già sul piano del rapporto giuridico, bensì su quello dell’oggetto del negozio stesso. 180   La fattispecie sulla quale è stata emessa la sentenza riguardava una clausola testamentaria nella quale il de cuius aveva escluso dalla propria successione due cugini, senza che nel testamento olografo fossero inserite altre disposizioni. La questione decisa, pertanto, riguardava la diseredazione di soggetti a favore dei quali si sarebbe aperta – in assenza di testamento – la successione ab intestato. 181   La sentenza della Cassazione non si occupa della diseredazione del legittimario, per la quale non si può non tenere conto della novità legislativa rappresentata dall’art. 448-bis c.c., che prevede non già un’ipotesi di indegnità, bensì il primo caso previsto dalla legge di diseredazione del legittimario per giusta causa. In argomento, è condivisibilmente rilevato da R. Senigaglia, Profili funzionali della nuova disciplina della filiazione nel sistema del diritto di famiglia, in Riv. Ephemerides iuris canonici, 2013, p. 79, che «il profilo di sicura novità introdotto

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dalla riforma della filiazione sta nel fatto che mentre la diseredazione ammessa dalla Cassazione è quella relativa agli eredi legittimi, escludendo taluno dall’ordine dei chiamati per legge, quella consentita dall’art. 448 bis c.c. opera anche nei riguardi della successione necessaria: il genitore viene escluso non soltanto dalla successione relativa alla quota disponibile, ma pure da quella della quota di riserva». L’A. si sofferma, altresì, sulla opportunità che il legislatore intervenga nel senso di consentire anche al genitore di diseredare il figlio resosi autore di condotte pregiudizievoli nei confronti del genitore. Se è vero, infatti, che all’intervento normativo in discorso è sotteso l’intento di voler perseguire la tutela effettiva dell’interesse del figlio, per assicurare il giusto bilanciamento degli interessi in gioco sarebbe ragionevole consentire anche al genitore che dovesse risultare vittima di comportamenti pregiudizievoli da parte del figlio, di escluderlo dalla propria successione «anche relativamente alla quota necessaria». Sulla diseredazione del legittimario, e in particolare sulle conseguenze di una tale disposizione, v. M. Scalisi, Clausola di diseredazione e profili di modernità, in C.N.N., Studio 339-2012/C, p. 14, la quale sintetizza le dispute dottrinali sul rapporto tra diseredazione e tutela dei legittimari, rilevando che: «[s]e, da un lato la clausola di diseredazione riguardante soggetti legittimari è considerata inammissibile, dall’altro, la stessa uniformità di opinioni non esiste circa la natura di tale invalidità, cioè circa la sorte giuridica della clausola negativa riguardante il legittimario. Parte della dottrina sostiene che una tale clausola possa essere considerata non stricto jure nulla, ma giuridicamente irrilevante; di conseguenza, sarebbe possibile eliminare la clausola, senza inficiare la validità dell’intero testamento. Si tratterebbe, cioè, di una clausola valida ed efficace, ma riducibile come tutte le disposizioni testamentarie che integrano una pretermissione o una lesione della legittima. Altra parte di dottrina, invece, considera una siffatta clausola addirittura nulla, sia per il contrasto con gli artt. 457, comma 3, e 549 c.c., considerati princìpi fondamentali del diritto positivo, sia perché incompatibile con la disciplina della successione necessaria, considerata inderogabile. Ciò porterebbe alla nullità dell’intero testamento, in applicazione delle disposizioni dettate in materia contrattuale. Infatti, ex art. 1419, comma 1, c.c., risultando essenziale la clausola di diseredazione all’interno dell’intero testamento, si avrebbe la conseguente caducazione delle ulteriori disposizioni positive in esso contenute. Applicando, invece, al testamento l’art. 1366 c.c., e quindi reputando ammissibile un’interpretazione “correttiva, condotta alla stregua della buona fede oggettiva”, la nullità dell’intera scheda testamentaria, contenente una clausola diseredativa relativa a un legittimario, potrebbe essere evitata». Di diverso parere è, invece, M. Di Fabio, In tema di diseredazione (anche) del legittimario, in Riv. not., 2012, p. 1228, il quale osserva che: «la diseredazione del legittimario non è né nulla né altrimenti invalida», precisando che: «[t]utt’al più potrebbe essere affetta da inefficacia […], ma si tratterebbe di una inefficacia relativa, in quanto essa potrà operare sempre e soltanto se e fintanto che il legittimario, pretermesso in tutto o in parte, esperisca – vittoriosamente – l’azione di reintegrazione nella quota a lui riservata […]» (ivi, p. 1231). Sul piano pratico, l’accoglimento dell’uno o

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è diffusa la convinzione che in fin dei conti il contenuto negativo del testamento coincida con la clausola di diseredazione. Tale convinzione, a ben vedere, altro non è che il riflesso della concezione meramente attributiva del testamento. In altri termini, la diseredazione è l’unica disposizione testamentaria negativa in quanto essa è al contempo uguale e contraria rispetto all’attribuzione, che rappresenta invece il tratto naturale del testamento182. Il discorso in verità è molto più complesso e non si presta a tale semplicistica esemplificazione. In maniera del tutto parziale può infatti rilevarsi che, non soltanto all’interno del codice civile, ma anche in alcune leggi speciali, è possibile riscontrare vari esempi di disposizioni testamentarie negative, con il che si intuisce la fallacia della riferita impostazione. La verità è che la diseredazione nell’àmbito dello studio del contenuto testamentario costituiva il banco di prova di una riflessione diretta a saggiare una rinnovata dogmatica dell’atto di ultima volontà. Da qui a risolvere il contenuto negativo nella clausola di diseredazione, però, il passo è lungo. Pertanto, non è corretta alcuna sovrapposizione tra diseredazione e contenuto testamentario di segno negativo. È invece possibile affermare che la diseredazione è un’ipotesi, forse la più importante o, più correttamente, la più evidente, di contenuto testamentario negativo, ma non la sola o unica, e dunque non resta che andare ad esaminare le altre disposizioni testamentarie negative, tipiche o atipiche, volte alla tutela di interessi patrimoniali e no, per provare a costruire uno statuto disciplinare del contenuto c.d. negativo del testamento che non è affatto irrilevante alla luce di quanto si è visto finora.

dell’altro orientamento risulta rilevante in riferimento ai rimedi esperibili dal legittimario a tutela dei propri diritti: mentre infatti l’azione di riduzione può essere esercitata non oltre il termine di prescrizione decennale, l’azione di nullità può essere fatta valere in ogni tempo. 182   Interessante è l’osservazione di L. Bigliazzi Geri, Il testamento, cit., p. 139, secondo la quale «seppur disposizione innominata (esaurisca o no il contenuto del testamento) la diseredazione […] costituisce infatti pur sempre espressione della funzione cui il testamento adempie e, benché in questo solo senso, potrebbe, semmai, dirsi tipica».

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10. Il fondamento (positivo e non solo) delle disposizioni testamentarie negative, rintracciato nel potere del testatore di regolamentare i propri interessi Allo stato dell’indagine, alcuni dati paiono ormai acquisiti. Le disposizioni testamentarie negative, lungi dall’essere irrilevanti o comunque in posizione subordinata rispetto a quelle positive, rappresentano un contenuto niente affatto inusuale ed anzi appaiono idonee a dare forma ad interessi di varia natura, suscettibili di essere trasfusi nell’atto di ultima volontà. Ciò nondimeno, si rende necessario provare a rintracciare un fondamento di tali fattispecie. Nella ricerca di quest’ultimo ci si imbatte immediatamente nella norma recata dall’art. 733 c.c. Tale previsione, rubricata «Norme date dal testatore per la divisione», apparentemente distonica rispetto alla connotazione attributiva tuttora assegnata da una parte della dottrina al testamento, risulta in realtà coordinata ed armonizzata con l’art. 587 c.c., sì da esprimere la portata normativo – regolamentare che caratterizza il testamento, affrancandolo definitivamente dalla connotazione meramente attributiva. Si intende dire, in altri termini, che una volta ampliata la portata del verbo «dispone» di cui alla norma da ultimo citata, non può stupire che la scheda testamentaria contenga disposizioni con le quali il testatore detti regole per una futura divisione, alla quale addiverranno i beneficiati dalle sue disposizioni, o comunque aventi natura regolamentare tout court. Prima di soffermarsi sulla natura giuridica della fattispecie prevista dall’art. 733 c.c., è bene procedere ad una actio finium regundorum della fattispecie ivi prevista. Nella disposizione in esame, infatti, il testatore non si impegna nella formazione e nella composizione delle quote concrete attraverso il testamento, ma detta le prescrizioni da osservare in ordine alla quantità e qualità dei beni che dovranno far parte delle quote di ciascun condividente. Nel disposto normativo in esame i beni ricadono nelle singole quote; tuttavia, la divisione non trova titolo nel testamento ma nell’attività negoziale degli eredi, e dunque il testamento funge da contenitore

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di regole che gli eredi saranno tenuti ad osservare in sede di divisione, a meno che l’effettivo valore dei beni assegnati non corrisponda alle quote stabilite dal testatore183. La fattispecie prevista dalla norma in discorso viene tradizionalmente definita assegno divisionale semplice, in contrapposizione al c.d. assegno divisionale qualificato di cui al successivo art. 734 c.c. La differenza tra le due figure non è di lieve entità e richiede perciò qualche notazione ulteriore. Mentre l’assegno divisionale c.d. semplice è da considerare come pura norma per la divisione, attraverso la quale il de cuius mira ad influenzare in maniera più o meno significativa la formazione e l’assegnazione delle porzioni divisorie a favore degli eredi184; l’assegno divisionale c.d. qualificato185, invece, è un’autentica divisione, in quanto mediante tale strumento il testatore predispone, proporzionalmente alla quota spettante a ciascuno dei coeredi, le diverse porzioni dell’asse ereditario. Nella prima ipotesi tutti i beni – anche quelli indicati espressamente dal testatore – rientrano nella comunione ereditaria, per cui solo dopo la formazione e l’assegnazione delle quote ereditarie le indicazioni del testatore divengono vincolanti per gli eredi, per il terzo estimatore o per il giudice186. Nella fattispecie contemplata

  App. Napoli, 3 marzo 2005, in CED on line; Cass., 14 luglio 1983, n. 4826, in Rep. Foro it., 1983, voce Divisione, n. 35. 184  Così L. Mengoni, La divisione testamentaria, Milano, 1950, p. 31, per il quale il testatore si limita a modificare la par condicio heredum, attribuendo a uno o più di essi la preferenza nell’aggiudicazione di certi beni. Anche G. Bombarda, Osservazioni in tema di norme date dal testatore per la divisione, divisione fatta dal testatore e disposizione dei conguagli, in Giur. it., 1975, IV, p. 108, la quale discorre di «preferenza nell’aggiudicazione». 185   G. Amadio, La divisione del testatore senza predeterminazione di quote, in Riv. dir. civ., 1986, I, p. 254.; Id., La divisione del testatore, in Successioni e donazioni, a cura di P. Rescigno, vol. II, Padova, 1994, p. 76, definisce la divisione fatta dal testatore come un organico regolamento negoziale «sorretto e qualificato dall’unitario scopo distributivo, ed attuato tramite un complesso di assegnazioni funzionalmente collegate e capaci di immediata e reale efficacia dal momento dell’apertura della successione». 186   Cass., 24 luglio 1958, n. 2689, in Rep. Foro It., 1958, voce Divisione, n. 48. 183

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dall’art. 734 c.c., invece, non si determina una comunione dei beni perché questi si trasmettono immediatamente in capo ai rispettivi assegnatari, salvo che per i beni dei quali il testatore non abbia disposto, vuoi perché non contemplati nella scheda, vuoi perché acquistati successivamente alla redazione del testamento. Venendo ora al tema della natura giuridica della fattispecie in discorso, in dottrina non vi è unanimità di vedute, potendosi perciò riscontrare almeno tre diverse ricostruzioni. Secondo taluni autori, la natura della fattispecie prevista dall’art. 733 sarebbe quella del legato obbligatorio187. Di opposto avviso è, invece, altra dottrina, secondo la quale piuttosto che di legato obbligatorio dovrebbe discorrersi di modus188. Non manca poi chi, ritenendo non appaganti le ricostruzioni precedentemente riferite, suggerisce di qualificare la fattispecie come disposizione testamentaria sui generis189. Non v’è dubbio, invece, che costituisca una mera questione di interpretazione della volontà del testatore stabilire se un’attribuzione sia effettuata da questi con efficacia reale ex art. 734 c.c. oppure con efficacia meramente obbligatoria ex art. 733 c.c.190 Quanto ai limiti che incontra il testatore nel dare norme per la futura divisione, l’unico effettivo limite è rappresentato dal fatto che non gli è consentito di alterare sostanzialmente il valore delle quote astratte previamente fissate. Depone in tal senso il fatto che attraverso lo strumento offerto dall’art. 733 è consentito al testatore anche di derogare al diritto ai beni in natura riconosciuto a ciascun

187   P. Forchielli – F. Angeloni, Della divisione, cit., p. 287; L. Mengoni, La divisione testamentaria, cit., p. 71 ss. 188   In tal senso, si vedano M.R Morelli, La comunione e la divisione ereditaria, in Giust. sist. civ. comm. fondata da Bigiavi, Torino, 1986, p. 297; C.M. Bianca, Diritto civile, 2, La famiglia e le successioni, Milano, 2001, p. 536; A. Ciatti, La comunione ereditaria e la divisione, in R. Calvo e G. Perlingieri (a cura di), Diritto delle successioni, 2, Napoli, 2009, p. 1201 ss. 189   A. Burdese, La divisione ereditaria, in Tratt. dir. priv. Vassalli, Torino, 1980, p. 132. 190   Cass., 22 novembre 1996, n. 10306, in Rep. Foro It., 1996, Divisione, n. 21 ss.

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condividente in base all’art. 718 c.c. e al canone di omogeneità delle proporzioni di cui all’art. 727 c.c. L’importanza della disposizione di cui all’art. 733 c.c. ai fini dell’ indagine che si sta conducendo è evidente. In particolare, la dottrina non ha dubbi riguardo alla possibilità che le indicazioni fornite dal testatore possano anche essere di contenuto negativo o, comunque, di natura procedimentale.191 E dunque, non deve stupire che il de cuius eserciti la facoltà accordatagli dall’ordinamento giuridico decidendo di escludere uno o più beni dalla porzione di un coerede192, oppure che si serva dello strumento in discorso per dettare criteri di ripartizione senza fissare le quote, per la determinazione delle quali ci si riferirà alle norme della successione legittima. Ed allora, provando a giungere ad una sintesi dopo queste notazioni, e tenendo sempre a mente la sollecitazione proveniente dalla disposizione testamentaria da cui originano queste riflessioni – la quale sembra presentare anche una cifra destinatoria, dal momento che il testatore non vuole che la sua attività assuma la veste di Coop., quasi ad imporre un vincolo – persuade l’idea che il fondamento delle disposizioni testamentarie a contenuto negativo, che del genus disposizioni regolamentari non sono che una species, vada rintracciato nel combinato disposto degli artt. 587 e 733 c.c.193

  P. Forchielli – F. Angeloni, Della divisione, cit., p. 290; L. Mengoni, La divisione testamentaria, cit., p. 71. 192   M. Corona, Funzione del testamento e riconducibilità della disposizione di esclusione del successibile ex lege (non legittimario) all’assegno divisionale semplice c.d. indiretto, in Riv. giur. sarda, 1992, p. 53-54 secondo il quale il testatore addirittura potrebbe, avvalendosi dell’autonomia riconosciutagli dall’articolo in parola, disporre un assegno divisionale semplice con il quale uno o più eredi legittimi vengono esclusi da qualsiasi apporzionamento, assegno che tale autore qualifica come «assegno divisionale semplice negativo» e che, a suo avviso, si risolve in definitiva in una clausola di esclusione dalla propria successione. 193   Di recente, la natura del testamento quale «atto di regolamentazione del­ l’assetto della futura successione del suo autore» è ribadita da C. Caccavale, Trasferimento di azienda mediante cessione post mortem a corrispettività condizionale, cit., p. 30 e C. Romano, Profili evolutivi dell’autonomia testamentaria, in F. Volpe (a cura di), Il testamento: fisiologia e patologie, cit., p. 15 ss. 191

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Da entrambe queste norme si ricava la latitudine contenutistica del testamento, quale atto con il quale il testatore compone l’assetto dei propri interessi per il tempo successivo alla morte, e si apprezza la portata regolamentare del testamento che assorbe quella propriamente attributiva per effetto della «svalutazione» del combinato disposto degli artt. 587 e 588 c.c., i quali prevedono uno (soltanto) dei possibili sviluppi dell’autonomia testamentaria, in un quadro complessivo più ampio nel quale il testatore acconcia un sistema di previsioni, tra loro diversificate, con le quali mira a dare forma ad istanze di varia natura da valere dopo la sua morte.

11. Analisi di alcune delle disposizioni testamentarie negative e possibili criteri di classificazione Il catalogo delle disposizioni testamentarie negative è davvero molto ampio. Si pensi, senza alcuna pretesa di esaustività, al divieto di accrescimento194, al divieto di pubblicazione di opere inedite di cui all’art. 24 l. 22 aprile 1941 n. 633195, al divieto di circolazione della ditta di cui all’art. 2565, comma 3, c.c.196, in virtù del quale la

194   Sull’istituto in generale, si vedano almeno R. Scognamiglio, Il diritto di accrescimento nelle successioni a causa di morte, Milano, 1953; G. Gazzara, Accrescimento (Diritto civile), in Enc. dir., vol. I, Milano, 1958, p. 321 ss.; A. Masi, Del diritto di accrescimento, in Comm. cod. civ. A. Scialoja e G. Branca, Bologna – Roma, 2005; A. Palazzo, Testamento e istituti alternativi, cit., p. 223 ss.; S. Patti, L’accrescimento, in Tratt. dir. succ. don. Bonilini, I, La successione ereditaria, Milano, 2009, p. 1125 ss. 195   Per la letteratura sul tema, cfr., almeno, M. Ricca Barberis, Pubblicazione vietata dal defunto, in Foro it., 1957, I, c. 684; A. Vanzetti, Il diritto di inedito, in Riv. dir. civ., 1966, I, p. 404 ss.; P. Greco- P. Vercellone, I diritti sulle opere dell’ingegno, in Tratt. dir. civ. it. Vassalli, XI, 3, Torino, 1974; S. Marullo Di Condojanni, Le disposizioni relative alla pubblicazione di opere. Il divieto di pubblicazione di opere inedite, in Tratt. dir. succ. don. Bonilini, II, La successione testamentaria, Milano, 2009, p. 791 ss. 196   In giurisprudenza, sul tema, si veda Cass., 24 gennaio 1981, n. 561, in Prev. soc., 1981, p. 972, secondo la quale «la ditta, che può continuare ad essere intitolata a nome dell’imprenditore defunto, si trasmette ai successori unitamente all’azienda in mancanza di una diversa disposizione testamentaria; il trasferimen-

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ditta viene ad estinguersi, fino al divieto testamentario di alienazione197, rispetto al quale la dottrina ha mostrato maggiore attenzione e sul quale si tornerà a breve. Ma si pensi, sempre per esemplificazione, alla disposizione testamentaria con cui il testatore vieta al beneficiario dell’usufrutto su di un bene di cedere detto diritto, integrando la possibilità considerata dall’art. 980 c.c., o al divieto di procedere alla divisione prima che sia trascorso dalla morte del testatore un termine non eccedente il quinquennio. Ed ancora all’ipotesi, niente affatto inusuale, del divieto di concorrenza imposto dal testatore ai coeredi, a fronte di una disposizione con la quale uno di essi venga beneficiato dell’assegnazione di un complesso aziendale. Tale disposizione, a tacer d’altro, origina una delicata questione in ordine alla applicazione o meno all’atto a causa di morte del divieto di concorrenza, previsto nella circolazione inter vivos dall’art. 2557 c.c. Non mancano, invero, ipotesi di divieto che, pur ricorrenti nella prassi, sono state severamente avversate da parte della giurisprudenza. È nota la sorte del divieto di impugnare il testamento198,

to comporta la possibilità di continuare l’esercizio dell’impresa come originariamente denominata, compreso il nome del titolare non più in vita, che può costituire un elemento indispensabile, o quantomeno utile, per la conservazione dell’avviamento commerciale». Di segno contrario rispetto a quanto detto nel testo, e a quanto parrebbe condurre il disposto normativo, è F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, cit., p. 365, il quale ritiene possibile che «il titolare dell’azienda disponga per testamento della ditta attribuendola a persona diversa dal successore nell’azienda». 197   G. Rocca, Il divieto testamentario di alienazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1982, p. 475. Per un’analisi che scandaglia il divieto di alienazione nel sistema, contrattuale e successorio, si veda il recente contributo di G. Salvi, Validità ed efficacia del divieto convenzionale di alienazione, in Cultura giuridica e rapporti civili, Napoli, 2016. 198   Sulla più generale tematica delle disposizioni testamentarie sanzionatorie, o anche dette poenae nomine relictae, le quali esercitano una coazione psicologica sull’erede o legatario onde indurlo ad assecondare la volontà del testatore, v. F. Longo, Delle disposizioni testamentarie sotto forma di pena, in Studi giuridici in onore di C. Fadda, VI, Napoli, 1906, p. 157 ss.; M. Andreoli, Le disposizioni testamentarie a titolo di pena, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1949, p. 331 ss.; U. Morello, La condizione di non impugnazione del testamento, in Riv. not., 1965,

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incidente su una materia di ordine pubblico, connessa all’esperimento dell’azione di riduzione al fine di ottenere la reintegrazione nei diritti di legittima. O ancora alle condizioni incidenti sulle libertà fondamentali, e in particolare alla famosa condizione nuziale, con cui il beneficiario di un lascito è chiamato ad allinearsi al voluto del disponente – di sposare o non sposare una determinata persona – pena la perdita del beneficio. L’ipotesi in parola ha attirato su di sé l’attenzione da parte della dottrina e della giurisprudenza. Si rammenta che la Corte di Cassazione ha di recente199 assunto in materia di condizione testamentaria di contrarre matrimonio un approccio particolarmente rigoroso e restrittivo che, cercando di compendiare due opposte opzioni, la libertà individuale del successore da un lato e l’autonomia testamentaria del de cuius dall’altro, sembra avere prescelto una limitazione

p. 981; A. Marini, La clausola penale, Napoli, 1984, p. 93; F.D. Busnelli, Verso una riscoperta delle «pene private», in Resp. civ. prev., 1984, p. 26 ss.; A. D. Candian, La funzione sanzionatoria nel testamento, Milano, 1988, p. 164 e ss.; N. Visalli, Clausola penale testamentaria, in Giust. civ., 2002, II, p. 544; N. Di Mauro, La condizione di non impugnare le disposizioni testamentarie, in Fam. pers. succ., 2007, p. 1029 ss.; S. Mazzarese, Autonomia testamentaria e disposizioni sanzionatorie, in Studi in onore di N. Lipari, II, Milano, 2008, p. 1801 ss.; M. Lupo, Le disposizioni sanzionatorie, in Tratt. dir. succ. don. Bonilini, II, Milano, 2009, p. 925 ss. Rilievi davvero interessanti si ritrovano, di recente, in L. Nonne, Le dispo­ sizioni rafforzative delle volontà testamentaria, Napoli, 2018, p. 73 ss. Riguardo a tale contributo, sia consentito il rinvio a F. Meglio, Recensione a Luigi Nonne, Le disposizioni rafforzative della volontà testamentaria, Napoli, 2018, in Dir. succ. fam., 2019, 2, p. 648 ss. Da ultimo, si veda l’accurata analisi svolta da V. Barba, Le disposizioni testamentarie rafforzative della volontà testamentaria, in Dir. succ. fam., 2021, 1, p. 1 ss. In giurisprudenza, si veda Cass., 18 novembre 1991, n. 12340, in Nuova giur. civ. comm., 1993, I, p. 481, secondo cui «la disposizione testamentaria a carattere sanzionatorio (o poenae nomine) diretta ad esercitare una pressione psicologica sul beneficiario al fine di indurlo a compiere, se vuole conseguire il beneficio, quanto richiestogli dal testatore, ha lo stesso trattamento della disposizione condizionale, soggetta all’unico limite incidente sulla loro volontà di non essere impossibili o illecite». 199   Cass. civ. Sez. II., 15 aprile 2009, n. 8941, in Nuova giur. civ. comm., 2009, 10, p. 1052 ss., con nota di V. Verdicchio, Sulla illiceità della condizione testamentaria di contrarre matrimonio.

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delle prerogative di quest’ultimo in favore di una tutela della sfera soggettiva del successore200.

  Nel senso indicato nel testo è N. Di Mauro, Illiceità della condizione testamentaria di contrarre matrimonio: la Cassazione apre alla Drittwirkung per le successioni mortis causa, in Fam. pers. succ., 2009, 7, p. 595, «in tale prospettiva ancora più rilevante appare la netta presa di posizione dei supremi giudici riguardo al settore specifico delle successioni testamentarie nella parte in cui si afferma che il principio della salvaguardia della volontà testamentaria (c.d. favor testamenti) deve in ogni caso cedere il passo al principio della tutela incondizionata della libertà dell’individuo e, segnatamente, di quella relativa all’autodeterminazione dell’individuo in merito a scelte di vita fondamentali: con il che, si è ridisegnata, in senso inverso, quella gerarchia di valori che, specie in giurisprudenza, continuava a dare netta ed esclusiva prevalenza alla prima (volontà testamentaria) rispetto alla seconda (libertà dell’istituito)». L’A., già in Id., Condizioni illecite e testamento, Napoli, 1995, affronta tutte le condizioni limitative di qualsiasi libertà individuale, ivi compresa quella limitativa della libertà matrimoniale. Una attenta e condivisibile analisi della sentenza si trova in G. Carapezza Figlia e G. Perlingieri, L’«interpretazione secondo Costituzione» nella giurisprudenza, I, Napoli, 2012, p. 219 ss., con nota di S. Deplano, Illiceità della condizione testamentaria di contrarre matrimonio, dove sono ben distinte le ipotesi che possono darsi. Infatti, la sentenza ha statuito l’invalidità della condizione (art. 634 c.c.) che subordini l’efficacia della disposizione testamentaria alla circostanza che l’istituito contragga matrimonio e dunque le ipotesi nelle quali il testatore, non volendo proibire il matrimonio del successore, miri invece a coartarne la volontà subordinando il lascito alla condizione che questi si sposi (c.d. condicio si nupserit) e tanto in caso di condizione sospensiva (es. «Quando – o se – ti sposerai sarai erede – ovvero legatario» ovvero «Quando – o se – ti sposerai in luogo dell’attribuzione X avrai la maggiore attribuzione Y») quanto nell’ipotesi di condizione risolutiva (es. «Se non ti sposerai non sarai erede o legatario o, in luogo dell’attribuzione X avrai la minore attribuzione Y»). Il problema scaturisce dalla riconduzione di tali condizioni all’interno dell’art. 636 c.c., dal momento che questa norma sanziona esclusivamente «la condizione che impedisce le prime nozze o le ulteriori» (e non quella che subordina l’efficacia del lascito alla stipulazione di un nuovo matrimonio). La novità rappresentata dalla sentenza della Suprema Corte è data dal fatto che essa ha ritenuto comunque illecita la condizione in esame perché lesiva della libertà personale e dell’ordine pubblico costituzionale (non soltanto in relazione agli artt. 2, 13, 19 e 29 Cost., ma anche in base gli artt. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo del 1948 e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea). Ad ogni buon conto, la validità della condizione testamentaria in esame va valutata non in astratto, ma in concreto. In altri termini, si deve accertare in concreto se la condizione apposta alla disposizione testamentaria si traduca in un’indebita coartazione oppure non faccia che assecondare la libera volontà dell’istituito. Né 200

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Nel novero delle disposizioni testamentarie a contenuto negativo, un posto di rilievo è certamente occupato dal divieto di alienazione, il quale, tra l’altro, torna utile pure ad altri fini. Infatti, esso manifesta come il binomio tipicità-atipicità anche in materia testamentaria non possa essere declinato come per lungo tempo è accaduto negli atti tra vivi, dove si è assistito ad un appiattimento della causa201 sul

può omettersi la considerazione della situazione fattuale, dal cui scrutinio è possibile appurare la coartazione illecita della volontà del destinatario o l’incoraggiamento a dare seguito alla decisione maturata. Né valga ad escludere a priori l’illiceità della «condizione testamentaria di contrarre matrimonio» l’ipotesi recata dall’art. 785 c.c., vale a dire la donazione obnuziale. In tale ipotesi, infatti, non soltanto sussiste un collegamento negoziale – nel senso che l’attribuzione è in funzione di un determinato (e specifico) futuro matrimonio, tant’è che devono essere già individuabili dall’atto entrambi gli sposi – ma si presuppone, salvo prova contraria, che non si sia coartata la libera scelta del beneficiario o dei beneficiari. Si tenga presente, altresì, che l’art. 785 c.c. contempla tre fattispecie donative (da uno dei futuri sposi a favore dell’altro; da un terzo a favore di uno degli sposi o di entrambi; da un terzo a favore dei figli nascituri da un determinato matrimonio) ed è necessaria la «determinatezza» del matrimonio, con la individuazione di entrambi gli sposi. Riguardo a tale figura, v. O. Lombardi, Art. 785, in G. Perlingieri (a cura di), in Cod. civ. ann. dottr. giur. G. Perlingieri, Libro II, Delle Successioni, Artt. 456-809, Napoli, 2010, p. 373 ss. Conclusivamente, ai fini del giudizio di validità della «condizione di contrarre matrimonio», l’interprete è chiamato sempre ad accertare se lo scopo sia quello di indurre a contrarre matrimonio, incidendo su una scelta che si vuole libera e personale, oppure se la funzione concreta dell’atto unilaterale (o bilaterale) sia quella di coadiuvare, assecondare e finanche rafforzare un convincimento altrui. In quest’ultimo caso non è possibile rinvenire alcuna forma di illiceità. 201   La causa viene intesa da una parte della dottrina come ragione dell’affare, così C.M. Bianca, Causa concreta del contratto e diritto effettivo, in Riv. dir. civ., 2014, p. 251 ss.; da altri invece, come giustificazione dei movimenti dei beni da un individuo all’altro, quale essa emerge dal concreto atteggiarsi degli interessi nel caso singolo, desumibili in concreto dalla più complessa operazione economica e non già, in astratto, dal tipo contrattuale, così G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, cit., p. 371 ss. Essa è descritta come il risvolto sociale dell’autonomia privata, frutto del combinarsi e del ridursi a unità degli elementi indispensabili per la valida costituzione del vincolo convenzionale, i quali divengono al contempo, anche indici parimenti indispensabili per il corretto svolgimento della funzione che di quel negozio è tipica, da E. Betti, Causa del negozio giuridico, in Noviss. Dig. it., III, Torino, 1959, p. 32 ss.; Id., Teoria generale del negozio giuridico (1950), cit., p. 117.

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tipo202 con la inaccettabile conseguenza di sminuire le peculiarità del singolo regolamento contrattuale203.

Si attesta sulla posizione tesa a privilegiare la nozione di causa in concreto anche A. Checchini, Regolamento contrattuale e interessi delle parti (intorno alla nozione di causa), in Riv. dir. civ., 1991, I, p. 229 ss. In giurisprudenza, Cass., 8 maggio 2006, n. 10490, in Rass. dir. civ., 2008, p. 564, con nota di F. Rossi, La teoria della causa concreta e il suo esplicito riconoscimento da parte della Suprema Corte; Trib. Napoli, Sez. dist. Pozzuoli, 18 gennaio 2012, in Foro nap., 2012, p. 611 ss., con nota di A. Fachechi, Sulla nullità di compravendita immobiliare per mancanza di causa. 202   Il superamento del tipo costituisce un ulteriore sviluppo della dottrina della causa in concreto. Persuade il rilievo di P. Perlingieri, In tema di tipicità e atipicità nei contratti, in Id., Il diritto dei contratti tra persona e mercato, Napoli, 2003, p. 391, secondo il quale la nozione stessa di tipo e le problematiche connesse di demarcazione rappresentano «un esercizio concettuale che funge da ostacolo alla corretta individuazione della normativa da applicare al singolo atto di autonomia». Efficacemente, sull’equivoco generato dal concetto di tipo, And. Federico, Tipicità e atipicità dei contratti, in L’incidenza della dottrina sulla giurisprudenza nel diritto dei contratti, a cura di C. Perlingieri e L. Ruggeri, Napoli, 2016, p. 174, chiarisce che «la riconduzione del contratto atipico ad un tipo legale si configura quale tecnica esclusiva in un contesto che esclude l’utilizzazione da parte della giurisprudenza di strumenti alternativi, come i princìpi generali e le clausole generali. La riverenza verso i tipi legali costituisce il riflesso del condizionamento esercitato dalla legge scritta e, quindi, dell’identificazione tra diritto e legge». 203   È evidente che la questione che si pone è quella del rapporto tra causa c.d. astratta e causa c.d. concreta. La ricostruzione della causa come funzione economico-sociale comporta che il regolamento di interessi nel quale si sostanzia il contratto è protetto perché riconosciuto degno di tutela da parte dell’ordinamento. In altre parole, la concezione c.d. oggettiva della causa, identificando la causa con il tipo contrattuale, giunge a riconoscere piena validità ed efficacia soltanto a quell’operazione contrattuale confluente nell’astratto schema regolamentare predisposto dal legislatore. In questa prospettiva, infatti, i sostenitori della tesi oggettiva, per evitare di affermare che i contratti tipici (in quanto previsti dalla legge) hanno necessariamente una causa lecita, sono costretti a distinguere uno schema causale astratto – espressione del tipo, ossia della causa come funzione economico-sociale – e una causa del concreto negozio identificata nell’interesse perseguito e regolato mediante il contratto, giungendo al riconoscimento di una duplicazione tra causa «astratta» e causa «concreta». Conseguenza questa inaccettabile. Volendo provare a collocare nel tempo una prima, autorevole critica alla concezione della causa in astratto, il riferimento corre a G. Gorla, Il contratto, I, Lineamenti generali, Milano, 1955, p. 262. Il tema, oramai divenuto un classico,

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Nella storia del divieto testamentario di alienazione, il momento critico si colloca nell’abrogazione dell’art. 692, comma 4, c.c., nella formulazione antecedente alla riforma del diritto di famiglia attuata con la l. 19 maggio 1975, n. 151.204 Tale norma comminava infatti la nullità di ogni disposizione con cui il testatore proibisse all’erede di disporre per atto tra vivi o di ultima volontà dei beni ereditari. L’intervento novellatore operato dalla riforma del 1975, nell’abrogare tale disposto, ha posto alcuni interrogativi. Il fatto che tale norma sia stata abrogata ha indotto a interrogarsi circa la legittimità dei divieti testamentari di alienazione e a verificare quali sono le condizioni che devono possedere tali divieti onde superare il giudizio di liceità. I quesiti sollevati sono niente affatto scontati. Va subito precisato che la disposizione abrogata rientrava in una disposizione contemplante la sostituzione fedecommissaria, la quale a sua volta è stata notevolmente rivisitata dal legislatore del ’75, nel senso di una chiara declinazione in termini assistenziali, richiedendo che il sostituito curi la persona dell’istituito e prevedendo la sanzione della nullità, in seno all’ultimo comma del vigente art. 692 c.c., per tutte le ipotesi che deviano dai profili strutturali e soprattutto funzionali individuati dalla norma. Ora, sostenere che il divieto testamentario di alienazione è attratto nella nullità appena riferita, accomuna fattispecie che attentamente analizzate risultano significativamente diverse. Della norma da ultimo citata può, forse, darsi una interpretazione più coerente. Si intende dire che la sostituzione fedecommissaria ammessa, alla luce della connotazione assistenziale accordatale dalla riforma, è solo ed unicamente quella dei primi commi della norma.

è recentemente trattato da G. Alpa, Causa e tipo, in Vita not., 1997, p. 3 ss., nonché da E. Navarretta, La causa e le prestazioni isolate, Milano, 2000, p. 231 ss. 204   L’idea che l’autonomia testamentaria non possa arrivare al punto di inibire la libera alienabilità, suffragando tale affermazione nella disposizione dell’art. 692, ultimo comma, c.c., si trova espressa in P. Vitucci, Clausole testamentarie sul potere di disposizione dell’istituito, in Riv. dir. fam. pers., 1983, p. 667.

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Non pare persuasivo l’assunto secondo cui l’abrogazione della disposizione sarebbe dovuto ad una svista del legislatore. In altri termini, è molto arduo provare che l’abrogazione del disposto normativo abbia il senso di un’apertura al divieto testamentario di alienazione. Basti solo rilevare che – se è vero che una simile osservazione è più confacente al legislatore coevo sovente tacciato di superficialità che non a quello meno recente più rigoroso ed attento – sta di fatto che sembra forzato il parallelismo tra sostituzione fedecommissaria e divieto testamentario di alienazione. Mentre la prima presenta una marcata funzione assistenziale e si riempie degli obblighi di cura dell’istituito e di restituzione, per cui l’istituito deve restituire al sostituito quanto ricevuto dal de cuius, anche se costituente la legittima, nel divieto di alienazione difetta l’obbligo restitutorio, che si è visto essere presupposto fondamentale della sostituzione fedecommissaria, condividendo perciò con essa unicamente l’obbligo di conservazione205. Per effetto della novella del ’75, insomma, il divieto testamentario di alienazione viene ad essere sganciato dalla sostituzione fedecommissaria, non solo a livello di collocazione topografica all’interno del codice civile, quanto soprattutto in relazione a quelli che sono gli interessi diversi ai quali si dirigono i due istituti. L’affrancazione del divieto di alienazione dalla sostituzione fedecommissaria impone ora di ricostruire lo statuto disciplinare del medesimo, ponendo principalmente l’attenzione ai suoi limiti206.

205   In tal senso si veda M. Talamanca, Successioni testamentarie, in Comm. cod. civ. A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1978, p. 325, il quale condivisibilmente rileva che la connessione tra i due istituti è data solo dalla contiguità nella sistematica del codice, e non anche una comunanza di interessi da realizzare. 206   La vicenda del divieto testamentario di alienazione porta inesorabilmente a riconsiderare l’idea che il principio di libera circolazione dei beni costituisca un principio di ordine pubblico, degradandolo ad esigenza economica di interesse generale della quale sarebbe testimonianza proprio l’infra richiamato nel testo art. 1379 c.c. Per una indagine del tema in discorso, almeno a livello di voci enciclopediche, v. V. Lojacono, Inalienabilità (clausole di), in Enc. dir., XX, Milano, 1970, p. 894; C. A. Funaioli, Divieto di alienazione (diritto privato), in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, p. 401; R. Sacco, Circolazione giuridica, in Enc. dir., VII,

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La questione è tendenzialmente riducibile nella verifica del se la mancanza di una disposizione ad hoc all’interno del Libro Secondo del Codice civile possa essere supplita dal ricorso a quanto previsto in altre parti del Codice civile. Il riferimento è ovviamente rivolto alla previsione dell’art. 1379 c.c.207 Prendere le mosse da una precisa disposizione, quale quella del­ l’art. 1379 c.c., può certamente essere utile. Tuttavia, appare incongruo operare secondo una logica strutturale che considera risolutiva di ogni questione l’aver trovato un appiglio nella disciplina positiva, obliterando del tutto un’analisi dei preminenti profili funzionali. Della normativa prevista nell’àmbito della disciplina del contratto in generale è certamente possibile servirsi attingendo a suoi frammenti o parti, pervenendo all’individuazione del materiale attraverso il quale definire la disciplina applicabile, senza però sacrificare le peculiarità della singola manifestazione negoziale. Nondimeno, il problema non è tanto se ed in che misura si applica l’art. 1379 c.c.208, in base ad una superata tecnica, quella della

Milano, 1960, p. 4, per il quale il tema del divieto di alienazione deve esser confrontato con il potere di disposizione che caratterizza la proprietà. Per una analisi in generale sul divieto di alienazione disposto per testamento, almeno A. Natale, Il divieto di alienazione, in Tratt. dir. succ. don. Bonilini, II, Successione testamentaria, Milano, 2009, p. 741 ss.; G. Rocca, Il divieto testamentario di alienazione, cit., p. 450 ss.; G. Bonilini, La prelazione testamentaria, cit., p. 223 ss. Per le conseguenze della violazione del divieto, il quale fa sorgere in capo al soggetto titolare dell’interesse creditorio solamente un diritto a ottenere il risarcimento dei danni, ma non anche l’invalidità dell’atto, si veda D. Farace, Sull’efficacia dei divieti di alienazione disposti per testamento, in Riv. dir. civ., 2006, II, p. 363. 207   Dubbi sono espressi al riguardo da G. Bonilini, La prelazione testamentaria, cit., p. 245, il quale a più riprese non ha lesinato le sue remore, sulla base dell’inapplicabilità della norma per il tramite dell’art. 1324 c.c. Si veda, più di recente, Id., Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 205. Di diverso avviso è altra dottrina, la quale evoca la sua estensione per analogia, ai sensi dell’art. 12 disp. att. c.c. In tal senso, per tutti, G. Rocca, Il divieto testamentario di alienazione, cit., p. 438. 208   Nel senso dell’inapplicabilità, A. Natale, L’inapplicabilità dell’art. 1379 c.c. al divieto testamentario di alienazione, in Fam. pers. succ., 2007, p. 1019.

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sussunzione209, espungendo quanto incompatibile e prendendo solo quello che appare od effettivamente è compatibile, semmai invece quello di avere consapevolezza della necessità di una ricostruzione del contenuto del divieto, misurandosi col complessivo regolamento di interessi divisato dal testatore, al quale la disposizione contenente il divieto è tesa a dare attuazione. Proprio attraverso l’esame del divieto testamentario di alienazione, che si ritiene di non ricondurre alla previsione dell’ultimo comma dell’art. 692 c.c., si osserva come non sia proficuo il ricorso al binomio tipicità-atipicità. I contorni della distinzione tra ciò che è tipico e quello che non lo è vanno a sfumare210, e si impone invece il giudizio di meritevolezza211 che riguarda ogni manifestazione

  Si consideri P. Calamandrei, La funzione della giurisprudenza nel tempo presente, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1955, pp. 260 e 263, il quale avverte del rischio che importa la logica della sussunzione, ossia di un giudizio giuridico che prescinda dalla valutazione degli interessi concreti: «Può essere pericoloso per la giustizia l’abuso della logica giuridica, che si verifica quando il sillogismo, da strumento contingente atto a razionalizzare l’equità del caso singolo, pretende di diventare esso stesso una verità finale di carattere universale». Ancora: «io ho il sospetto che in generale noi giuristi, e quindi anche i giudici che sono prima di tutto esperti di tecnica giuridica, abusiamo della logica: anche nel campo della giustizia noi abbiamo ereditato, forse dalla scolastica medievale più che dall’aequitas romana, la tendenza alle architetture sistematiche: fabbrichiamo castelli di concetti per darvi decoroso alloggio alla giustizia, e non ci accorgiamo che a poco a poco si trasformano in prigioni sbarrate da cui essa non riesce più a liberarsi». 210   L’influenza della teorica della c.d. causa in concreto sulla perdita di centralità del concetto di tipicità è rilevata da O. Clarizia, Valutazione della causa in concreto e superamento del tipo legale, in G. Perlingieri e G. Carapezza Figlia (a cura di), L’«interpretazione secondo costituzione» nella giurisprudenza. Crestomazia di decisioni giuridiche, II, Diritti reali. Obbligazioni. Autonomia negoziale. Responsabilità civile, Napoli, 2012, p. 411. 211   Sul punto, v. G.B. Ferri, Causa e tipo, cit., p. 358; P. Barcellona, Intervento sociale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, Milano, 1969, p. 218, ove si legge: «Mentre l’indagine sulla causa serve unicamente ad accertare se lo strumento negoziale può essere considerato idoneo e conforme alla legge, il giudizio sul merito è rivolto, invece, a stabilire se lo strumento è posto a servizio di un interesse meritevole di tutela […]. La presenza e liceità della causa denota la legittimità di uno dei possibili modi di realizzazione dell’interesse; il giudizio sulla meritevolezza, invece, consente di misurare la congruenza dell’atto con la posizione reale delle parti»; P. Perlingieri, Il principio di legalità nel diritto civi209

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negoziale, senza che residuino spazi per alcuna distinzione. Relativamente alle disposizioni testamentarie negative, come si vedrà in seguito, il giudizio di meritevolezza assumerà un rilievo ulteriore, dovendosi scrutinare la funzione sottesa al divieto e la sua conformità ai princìpi identificativi ed ai valori del sistema senza poter beneficiare, il più delle volte, di una trama all’interno del codice civile o delle leggi speciali212. Si è poc’anzi tratteggiato un possibile elenco di disposizioni testamentarie negative, tratte ora dal codice civile, ora da alcune leggi speciali. Si affaccia dinanzi all’interprete la tentazione di riscontrare un criterio capace di addivenire ad una reductio ad unitatem delle stesse. Il tentativo appare invero impervio e poco fruttuoso, stante la diversità di interessi sottesi alla singole disposizioni. Infatti, gli interessi ad esse sottesi sono molteplici e una loro sistematizzazione le, in Rass. dir. civ., 2010, p. 189, ove si legge: «Il controllo di meritevolezza ha ad oggetto l’atto tenuto conto delle peculiarità del caso specifico, collocandolo nel contesto politico-economico: soggetti, materia-oggetto del contratto, tempi, modalità di conclusione concorrono alla precisazione del regolamento negoziale», sì da far emergere «la scarsa persuasività della tradizionale distinzione tra contratti tipici e atipici ai fini del controllo di meritevolezza, poiché questo deve riguardare sempre la “causa specifica” di ogni singolo contratto». Nella medesima direzione, E. Capobianco, Lezioni sul contratto, Torino, 2014, p. 49, osserva che la causa in concreto determina proprio un naturale allargamento delle maglie del controllo di meritevolezza. 212   Che il problema sia altro dalla distinzione tipicità-atipicità è chiaro in G. Perlingieri, La scelta della disciplina applicabile ai c.dd. «vitalizi impropri». Riflessioni in tema di aleatorietà della rendita vitalizia e di tipicità e atipicità nei contratti, in Rass. dir. civ., 2015, pp. 545 e 547, il quale avverte: «In definitiva, non è un problema di tipicità o atipicità ma di «giusto rimedio», ossia di controllo di congruità della ratio della disposizione e del rimedio in esame agli interessi coinvolti dal contratto». E, ancora, «è in sintesi, affermare che all’interno di un tipo esistono norme non necessariamente applicabili a tutte le fattispecie, sia pure riconducibili al medesimo tipo, e che le norme di un tipo si possono applicare a fattispecie atipiche significa prendere atto che affannarsi nel ricondurre un contratto ad un tipo o ad un altro è uno sforzo utile ma non esaustivo, dovendosi concentrare l’interprete piuttosto sul controllo di congruità e adeguatezza della singola norma (presente nel sistema generale del contratto e dei singoli contratti) agli interessi in concreto perseguiti dalle parti e alle peculiarità soprattutto funzionali del singolo atto di autonomia. Il che impone l’analisi non soltanto della causa ma del contenuto del contratto o dell’operazione complessa».

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non sembra molto utile. È forse preferibile, quale criterio discretivo, selezionare il tipo di interesse che viene in rilievo, salvo poi a dirsi che talvolta una medesima disposizione è in grado di compendiare ad un tempo interessi disomogenei. Si pensi, ad esempio, al divieto di alienazione sul quale ci si è soffermati in precedenza, nonché ai divieti di accrescimento e di divisione213. Questi divieti, ognuno con le proprie specificità, appaiono prima facie connessi ad istanze di stampo marcatamente patrimoniale. Ma – si ripete – non è meno vero che spesso ad esse si accompagnino ragioni di ordine morale. Sovente nel divieto di alienazione accade che la volontà del testatore è di evitare che il bene fuoriesca dalla famiglia, non solo per ragioni di ordine economico ma anche per preservare l’affectio che si nutre verso tale bene. È il caso del fabbricato nel quale il disponente ha trascorso i periodi più sereni della propria esistenza e se ne vuole, perciò, preservare il ricordo. È vero, tuttavia, pure il contrario. Si pensi alla complessa vicenda del divieto di pubblicazione del testamento olografo214 e del divieto di pubblicare le opere – edite e no – di cui all’art. 24 della legge 633 del 1941. Se a prima vista appare nitida la connotazione non patrimoniale degli interessi sottesi a tali divieti, vale a dire la volontà di assicurare la riservatezza215 delle   Secondo P. Forchielli – F. Angeloni, Della divisione, cit., p. 85, alla base della disposizione recata dall’art. 713, comma 3, c.c., non sta l’interesse dei coeredi, in quanto il testatore non è in grado di prevedere se e quali circostanze possano sussistere al momento della propria morte, per consigliare la sospensione della divisione. Piuttosto, deve ammettersi che questa sia disposta «nell’immediato ed esclusivo interesse del testatore, al quale nessuno potrebbe impedire di fare della libertà concessagli un uso assolutamente arbitrario». 214   In generale, v. A. Mascheroni, La non pubblicazione del testamento olografo per patto tra erede o per divieto del de cuius, in Notariato, 2011, p. 184 ss.; A. Natale, Il divieto di pubblicazione del testamento olografo, in Tratt. dir. succ. don. Bonilini, II, La successione testamentaria, Milano, 2009, p. 746; Id., I vincoli, dettati dal testatore, alla pubblicazione della scheda, in Fam. pers. succ., 2009, p. 990 ss.; Id., Il patto di non pubblicare il testamento olografo, in Nuova giur. civ. comm., 2002, II, p. 161 ss. 215   La segretezza va intesa come incertezza sul contenuto delle disposizioni di ultima volontà. Essa, senz’ombra di dubbio, non costituisce elemento essenziale del testamento, potendo semmai generare l’indegnità a succedere di colui che, 213

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disposizioni nel primo caso216 e dell’opera dell’ingegno nel secondo, ad una più attenta analisi si coglie la possibilità, niente affatto peregrina, che il divieto – specie quello di pubblicare la scheda olografa – sia diretto all’elusione dell’imposta di successione e dunque ci si avvede di come esso si riempia di patrimonialità. Si può notare, allora, che proprio le disposizioni testamentarie negative rimarcano ad un tempo il ruolo che l’interprete è tenuto a svolgere e le responsabilità connesse a tale ufficio217. Prima di soffermarsi su questo aspetto, è opportuno compiere un altro passo in avanti, che – muovendo dalla consapevolezza di non poter accomunare ipotesi rette da interessi diversi – comunque consenta di violato il segreto, abbia attentato alla libertà testamentaria. Per tale profilo, cfr. Cass., 7 aprile 1961, n. 735, in Giust. civ., 1961, I, p. 1858. 216   Si pone, all’evidenza, un problema di pubblicità. Al riguardo, fra i molti, A. De Cupis, Pubblicità (dir. civ.), in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1988, p. 1004, nota 4, il quale osserva che la pubblicazione crea, in conformità della legge, il presupposto della pubblica conoscenza; aprendo l’adito alla conoscenza dei terzi, pertanto, produce proprio quella conoscibilità legale in cui consiste la pubblicità. Secondo S. Pugliatti, La trascrizione (La pubblicità in generale), in Tratt. dir. civ. comm. A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1957, p. 364, con la pubblicazione si crea una situazione obiettiva, che costituisce l’antitesi di ogni forma di tutela giuridica del segreto: l’atto diviene di pubblico dominio, con le conseguenze giuridiche (e le possibilità pratiche) derivanti da questa nuova situazione. Con riferimento agli interessi sottesi alla pubblicazione, si veda M. Polastri Menni, Della pubblicazione del testamento olografo, in Riv. not., 1965, p. 272, che evidenzia come la pubblicazione persegua un interesse pubblico alla certezza dei rapporti successori, il che, da un lato giustifica l’obbligatorietà della presentazione del testamento olografo ad un notaio, da parte di chi lo detenga al momento della morte del testatore e la conseguente pubblicazione del medesimo, dall’altro lato, come la tutela giurisdizionale dei diritti aventi la loro fonte nel testamento sia subordinata, di norma, alla pubblicazione dello stesso. Si ricorda che la materia della pubblicazione deve confrontarsi con la disciplina di cui alla legge 25 maggio 1981, n. 307, istitutiva del Registro generale dei testamenti, consultabile unicamente dopo la morte. Sul quale, per tutti, si veda R. Perchinunno, Natura giuridica ed effetti della pubblicità nel registro generale dei testamenti, in Riv. dir. civ., 1997, II, p. 529 ss. 217   Per tutti, P. Perlingieri, Strumenti e tecniche dell’insegnamento del diritto civile, in Rass. dir. civ., 2002, p. 499; Id., Applicazione e controllo nell’interpretazione giuridica, in Riv. dir. civ., 2010, I, p. 317. Ma già, U. Scarpelli, L’educazione del giurista, in Riv. dir. proc., 1968, p. 12; H. G. Gadamer, Verità e metodo, (4a ed., 1987) che può leggersi nella trad. di Vattimo, Bompiani, 2001.

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delineare lo statuto disciplinare delle disposizioni riconducibili al sintagma «contenuto negativo del testamento».

12. Le disposizioni testamentarie a contenuto negativo e il giudizio di meritevolezza: necessità di un vaglio «rinforzato» Una volta rinvenuto il fondamento delle disposizioni testamentarie negative nel potere regolamentare spettante al testatore, emergente dal combinato disposto degli artt. 587 e 733 c.c., risulta necessario lo scrutinio di conformità delle medesime ai princìpi identificativi e ai valori del sistema218. Prima di esaminare le modalità attraverso le quali si articola il giudizio di meritevolezza, pare opportuno un chiarimento per sgombrare il campo da ogni tentazione diretta a giungere alla sovrapposizione tra liceità e meritevolezza219, specialmente nella materia in oggetto. Si intende dire, cioè, della prospettiva secondo cui il giudizio di meritevolezza, in nulla diverso dal controllo di liceità di cui all’art. 1343 c.c.220, prenderebbe le mosse dalla verifica di compatibilità della regola privata con le norme imperative, l’ordine pubblico ed il buon costume.221 Occorre allora verificare se effettivamente i con  La portata che il concetto di valore assume nel nostro ordinamento è analizzata ampiamente da P. Perlingieri, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Napoli, 1972. 219   Il rischio della sovrapposizione è avvertito da S. Polidori, Il controllo di meritevolezza sugli atti di autonomia negoziale, in G. Perlingieri e M. D’Ambrosio (a cura di), Fonti, metodo e interpretazione. Primo incontro di studi dell’associazione dei dottorati di diritto privato, Napoli, 2017, p. 394. 220   P. Perlingieri, «Controllo» e «conformazione» degli atti di autonomia negoziale, in Rass. dir. civ., 2017, p. 204 ss., spec. § 3 ss.; M.A. Urciuoli, Liceità della causa e meritevolezza dell’interesse nella prassi giurisprudenziale, in Rass. dir. civ., 1985, p. 752; U. Breccia, Causa, in G. Alpa, U. Breccia e A. Liserre (a cura di), Il contratto in generale, III, in Tratt. dir. priv. Bessone, Torino, 1999, p. 94; A. Cataudella, I contratti. Parte generale, 2a ed., Torino, 2000, p. 186; M. Pennasilico, La regola ermeneutica di conservazione, cit., p. 281. 221   Nel senso di quanto indicato nel testo, v. in particolare G.B. Ferri, Causa e tipo, cit., p. 406, ove si legge che «i criteri dei quali l’ordinamento si avvale per la valutazione della meritevolezza dell’interesse sono quelli enunciati dall’art. 218

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trolli di liceità e meritevolezza risultino sovrapponibili o se invece essi assolvano a funzioni diverse. In prima battuta può rilevarsi che una coincidenza tra i medesimi genererebbe una duplicazione la cui ragione giustificatrice sarebbe difficilmente comprensibile. Già solo ragioni di buon senso o, per meglio dire, di logicità intrinseca al sistema, suggeriscono di differenziare i due giudizi. La prospettiva diretta a sovrapporre i due giudizi, a ben vedere, non convince222. Essa, infatti, guarda all’atto di autonomia verifican1343 c.c.: norme imperative, ordine pubblico, buon costume. Soltanto quando l’interesse perseguito con il contratto sia contrario a siffatti principi, l’interesse non è meritevole di tutela. […] Al giudice – infatti – debbono essere forniti non principi dai contorni vaghi e sfumati, ma principi delimitati e caratterizzati (nei limiti in cui ciò è possibile) nel loro contenuto e la cui corretta utilizzazione possa dunque essere verificata oggettivamente e non, come altrimenti rischia di accadere, lasciata agli imponderabili elementi di sensibilità, di cultura, di educazione, di umanità, di chi si trovi ad applicarli»; ribadisce tali considerazioni, in Id., Meritevolezza dell’interesse e utilità sociale, cit., p. 81; Id., Ancora in tema di meritevolezza dell’interesse, in Riv. dir. comm., 1979, I, p. 1; Id., Ordine pubblico, in Enc. dir. XXX, Milano, 1980, p. 1043, ove precisa che «la formula meritevolezza dell’interesse […] significa che l’interesse che concretamente le parti intendono realizzare non si pone in contrasto con la legge, con l’ordine pubblico e con il buon costume, poiché questi rappresentano un limite invalicabile alla realizzabilità giuridica degli interessi. Quando l’interesse si ponga in contrasto con uno dei tre criteri, sopra enunciati, l’interesse stesso non è meritevole e il regolamento che lo esprime è invalido e quindi (generalmente) è destinato a non produrre effetti»; Id., Motivi, presupposizione e l’idea di meritevolezza, cit., p. 331; ancora, ritiene marginale il ruolo applicativo dell’art. 1322 c.c., sovrapponendo i concetti di meritevolezza e liceità, A. Gentili, Merito e metodo nella giurisprudenza sulle cassette di sicurezza: a proposito della meritevolezza di tutela del contratto atipico, in Riv. dir. comm., 1989, p. 221. Più di recente, sostengono la tesi della convergenza tra i controlli di liceità e di meritevolezza, F. Maisto, Il collegamento volontario tra contratti nel sistema dell’ordinamento giuridico. Sostanza economica e natura giuridica degli autoregolamenti complessi, Napoli, 2000, p. 219; M. Gazzara, Considerazioni in tema di contratto atipico, cit., p. 55; V. Roppo, Il contratto, in Tratt. dir. priv. Iudica e Zatti, 2ª ed., Milano, 2011, p. 346; M. Lamicela, La riscoperta del giudizio di meritevolezza ex art. 1322, co. 2, c.c. tra squilibrio e irrazionalità dello scambio contrattuale, in Arch. ric. giur., 2016, 2, pp. 216-217. In giurisprudenza, individua nella conformità alle norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume il presupposto della meritevolezza degli interessi ex art. 1322 c.c., Cass., 24 maggio 2016, n. 10710, in Rep. Foro it., 2016, voce Titoli di credito, n. 4. 222   All’interno della dottrina che riscontra, condivisibilmente, una diversità tra il controllo di liceità e quello di meritevolezza, si danno delle differenze. Per

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done unicamente la compatibilità di esso con l’ordinamento giuridico, senza verificare che gli interessi delle parti «si prestino ad essere armonicamente integrati nella tavola dei valori dell’ordinamento».223 Ciò che distingue il giudizio di meritevolezza da quello di liceità è, allora, la diversa cifra qualitativa. Se la liceità si traduce in un giudizio in negativo, diretto a pervenire ad una delimitazione del perimetro entro il quale può svilupparsi l’autonomia privata; la meritevolezza, invece, comporta una valutazione dell’atto di autonomia improntata a riscontrarne la capacità di attuare in positivo i valori immanenti al sistema, e dunque non si esaurisce nella verifica in negativo ma richiede uno scrutinio in positivo dell’atto stesso224. F. Gazzoni, Atipicità del contratto, giuridicità del vincolo e funzionalizzazione degli interessi, cit., p. 57, il giudizio di meritevolezza si configura come qualitativamente diverso rispetto a quello di liceità, sebbene tale diversità si atteggi in maniera davvero peculiare: «Mentre il giudizio di liceità ha la funzione di salvaguardare l’ordinamento giuridico dalla presenza di accordi impegnativi i cui contenuti siano in contrasto con i propri canoni regolamentari […], l’altro giudizio (quello di meritevolezza) ha diversa portata non incentrandosi nella difesa dei principi fondamentali dell’ordinamento, ma piuttosto nella valutazione dell’idoneità dello strumento elaborato dai privati ad assurgere a modello giuridico di regolamentazione degli interessi, vista l’assenza di una preventiva opera di tipizzazione legislativa, intesa come mera predisposizione di una certa serie (più o meno variabile) di schemi». Più precisamente, l’A. ritiene che il giudizio di meritevolezza si risolva in un giudizio sull’idoneità dell’assetto privato a derogare allo schema della tipicità legale. Analoga conclusione, sebbene argomentata in base a ragioni diverse, è raggiunta da M. Costanza, Il contratto atipico, cit., p. 32, la quale afferma che «il problema da affrontare in sede di giudizio di meritevolezza riguarda l’autonomia contrattuale considerata dal punto di vista, non tanto delle finalità e degli scopi che gli stipulanti si propongono di realizzare, ma piuttosto dell’attitudine dello schema contrattuale atipico ad assumere come tale giuridica rilevanza». Anche F. Galgano, Trattato di diritto civile, Padova, 2010, II, pp. 185, 242-243, sottolinea che il giudizio di meritevolezza non è sovrapponibile a quello relativo alla liceità del contratto. 223   Il virgolettato riporta testualmente la motivazione adottata da App. Milano, 29 dicembre 1970; nello stesso senso cfr. anche, Trib. Milano, 14 gennaio 1985, in Banca borsa tit. cred., 1986, II, p. 173 ss.; Cass., 19 febbraio 2000, n. 1898, in Rass. dir. civ., 2001, p. 849 ss., con nota di F. Sbordone, Illiceità e immeritevolezza della causa nel recente orientamento della Cassazione. 224   La difformità – strutturale e funzionale – tra controllo di liceità e controllo di meritevolezza risiede in ciò: mentre il primo si esplica come valutazione «in

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Sarà allora meritevole quell’iniziativa che, rappresentando l’esercizio dell’autonomia attribuita ad un soggetto dall’ordinamento, non sia solamente idonea ad assicurare il perseguimento del risultato prefissato, ma soprattutto realizzi i princìpi e i valori del sistema, i quali non si ricavano solo a livello interno ma anche a livello euro-

negativo», relativa cioè all’esistenza o no di un contrasto tra la finalità propria del contratto e le norme imperative, l’ordine pubblico o il buon costume; il giudizio di meritevolezza si sostanzia in una valutazione «in positivo» del contratto, vale a dire in un controllo degli interessi perseguiti come apprezzabili dall’ordinamento giuridico. Conclusione, questa, avvalorata convintamente da P. Perlingieri, Profili istituzionali, cit., p. 70; Id., Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., p. 346 ss.; Id., Applicazione e controllo nell’interpretazione giuridica, in Riv. dir. civ., 2010, 3, p. 317 ss.; P. Perlingieri e And. Federico, Illiceità ed immeritevolezza della causa, in P. Perlingieri et alii, Manuale di diritto civile, cit., p. 494 ss.; condivisa, tra gli altri, da P. Femia, Pluralismo delle fonti e costituzionalizzazione della sfera privata, in Aa.Vv., Il diritto civile oggi. Compiti scientifici e didattici del civilista, in Atti del 1° Convegno Nazionale S.I.S.Di.C, Napoli, 2006, p. 195; M. Bianca, Alcune riflessioni sul concetto di meritevolezza degli interessi, cit., p. 792, la quale afferma che la meritevolezza deve essere intesa come predicato dell’autonomia negoziale. In questo senso, «il rinvio all’art. 1322 c.c., più che porsi come limite all’autonomia negoziale, avrebbe rappresentato il grimaldello per il riconoscimento di nuovi schemi negoziali» (corsivo dell’Autrice). In questa prospettiva, è l’A. stessa a mettere in evidenza il ruolo che la meritevolezza ha assunto nel tempo anche in àmbito giurisprudenziale. Si pensi al riconoscimento sul piano del diritto interno di istituti quali il trust (cfr. § 3); il contratto di lease-back; il contratto autonomo di garanzia e la polizza fideiussoria (Cass., Sez. un., 18 febbraio 2010, n. 3947, in Dir. econ. ass., 2011, 1, p. 227); i patti di convivenza; il pegno rotativo; gli accordi di sistemazione della famiglia in crisi, per i quali si veda T.V. Russo, I trasferimenti patrimoniali tra coniugi nella separazione e nel divorzio: autonomia negoziale e crisi della famiglia, Napoli, 2001; il contratto atipico di vitalizio alimentare (Cass., 5 maggio 2010, n. 10859, in Mass. giust. civ., 2010, 5, p. 682); il contratto di maternità surrogata (Trib. Roma, 7 febbraio 2000). Si veda anche T.V. Russo, Il potere di disposizione dei diritti inderogabili. Riflessioni sul giudizio di meritevolezza degli accordi prematrimoniali regolativi della crisi della famiglia, in Rass. dir. civ., 2014, p. 473, il quale, soffermandosi sugli accordi prematrimoniali in previsione di un’eventuale crisi del rapporto, prende in esame le differenti gradazioni dei profili d’inderogabilità e indisponibilità in riferimento alle situazioni giuridiche coinvolte; la posizione dell’A. finisce in buona sostanza per assegnare al vaglio di meritevolezza il ruolo di stringere le maglie del sistema verso un controllo sulla causa in concreto dell’accordo, evitando che la mera assenza di contrasto con la norma imperativa di cui all’art. 160 c.c. conduca ineluttabilmente, e in ogni caso, a riconoscere ad esso piena efficacia.

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peo ed internazionale225, connotando un ordinamento che – ancorchè complesso226 – resta unitario. Ed allora, provando a calare le conclusioni raggiunte in ordine al giudizio di meritevolezza nella materia che si sta trattando, le disposizioni testamentarie negative non sono esonerate dal vaglio di meritevolezza, da intendersi nella predetta accezione. Non lo sono non solo perché – come si è già detto – non convince l’assunto secondo cui la tipicità dello strumento testamentario funge da riparo per qualsivoglia volizione purché non illecita227. E ciò per almeno due ragioni. In primo luogo, una simile impostazione tradisce una particolare visione dell’ordinamento giuridico, all’interno del quale vi sarebbero zone franche, dove cioè è concesso quello che altrove è vietato. Di là dalla prefigurazione di microsistemi, tra i quali è immaginabile che vi sia poco margine per il dialogo, ciò che preoccupa è la disparità di trattamento che origina dubbi di legittimità costituzionale con riferimento all’art. 3 della Costituzione.

  Il controllo che l’interprete è chiamato a realizzare sul regolamento contrattuale non si deve limitare alle fonti primarie, dovendo, viceversa, sempre essere esteso alle norme di grado superiore. Discorre di falso c.d. principio di “non interferenza” tra regole di comportamento e regole di validità G. Perlingieri, L’inesistenza della distinzione tra regole di comportamento e di validità nel diritto italo-europeo, Napoli, 2013, p. 9 ss. Al riguardo, v. anche A. Fachechi, Regole di condotta e regole di validità: verso il superamento del principio di non interferenza, in Corti salernitane, 2012, p. 339; C. Cicero, Regole di validità e di responsabilità, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Torino, Agg. 2014, p. 539. 226   La sempre più ampia complessità dell’ordinamento richiede di considerare immanenti al sistema, e a loro volta involti nel giudizio di meritevolezza, anche i princìpi rivenienti dai Trattati comunitari, come ad esempio quelli concernenti la disciplina della concorrenza sul mercato: si veda, per es., Cass., 8 febbraio 2013, n. 3080, in Rass. dir. civ., 2014, p. 1295, con nota di S. Tonetti, Intesa anticoncorrenziale e giudizio di meritevolezza. 227   In tal senso si veda A. Trabucchi, Ancora sulla capacità a far testamento, in Giur. it., 1961, I, 1, c. 1304, ove si legge che: «il testamento deve essere considerato come il regno dell’arbitrio, e una disposizione che favorisca un capriccio non è meno valida, e giuridicamente giustificata, della disposizione più santa; nessun negozio è più aperto alla scelta individuale dei motivi, diciamo pure dell’arbitrio, come il testamento». Si veda, altresì, P. Rescigno, Introduzione, in Tratt. dir. priv. P. Rescigno, 5, Successioni, I, Torino, 1982, p. VIII. 225

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In secondo luogo, e in una prospettiva intimamente connessa a quanto ora detto, la disposizione testamentaria – positiva o negativa che sia – è chiamata a dare lustro alla matrice personalistica e solidaristica dell’ordinamento costituzionale228. Anzi, con riguardo alle disposizioni testamentarie c.d. negative si impone un vaglio di meritevolezza per così dire rinforzato229. Infatti, mentre le disposizioni positive si connotano per l’essere più perspicue, anche perché rappresentano il contenuto naturale del testamento, le disposizioni negative – facendo onore alla definizione – restano meno accessibili, più oscure. Pertanto, esse richiedono un’analisi diretta a far risaltare la funzione sottesa al divieto, in quanto sovente non è percepibile ictu oculi. Ecco allora che il ruolo dell’interprete e dell’interpretazione divengono dirimenti, risultando imprescindibile il dialogo tra fatto e norma, nel nostro caso tra disposizione testamentaria contenente il divieto, diretto ad esplicitare un interesse, e norma, intesa come ordinamento giuridico complessivamente considerato, che è insieme di prescrizioni ma soprattutto di valori230.

228   Per una panoramica circa l’influenza della Costituzione sull’autonomia dei privati, v. almeno F. Lucarelli, Solidarietà e autonomia privata, Napoli, 1970, p. 92 ss.; A. Liserre, Tutele costituzionali dell’autonomia contrattuale, Milano, 1971, p. 67 ss., 131 ss.; M. Nuzzo, Utilità sociale e autonomia privata, Milano, 1975, p. 46 ss., 91 ss., 192 ss. 229  Secondo P. Femia, Pluralismo delle fonti e costituzionalizzazione della sfera privata, cit., p. 195, «Il controllo di validità investe tanto la regola di provenienza statale tanto quella privata. La validità normativa e la validità contrattuale, nella sostanza, si identificano». 230   P. Perlingieri, Il diritto civile, cit., pp. 613 e 618, rileva che «norme e fatti sono inseparabili oggetti di conoscenza: l’interpretazione è in funzione applicativa, ha scopo pratico, è individuazione di un significato giuridico (effetti del fatto). Il fatto non preesiste all’interpretazione, ma è costituito dal procedimento che lo interpreta: prima dell’interpretazione vi sono non fatti e norme, ma eventi e disposizioni. La sussunzione – sulla quale si fonda la tesi che considera la qualificazione una fase autonoma e distinta – è un modello superato, frutto della confusione tra logica formale e ragionamento pratico»; Id., Dialogando con due filosofi, ermeneuti del diritto, in Rass. dir. civ., 2001, p. 669, ora in Id., Interpretazione e legalità costituzionale, Napoli, 2011, p. 442.

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13. Osservazioni conclusive A conclusione dell’indagine sin qui condotta, si consolida la convinzione che qualsiasi atto, a prescindere dai concetti231 di tipico o atipico, potrà trovare cittadinanza nell’ordinamento unicamente nella misura in cui sia conforme a Costituzione e, dunque, alla gerarchia dei princìpi e dei valori identificativi del sistema, i quali costituiscono «la più alta manifestazione di diritto positivo».232 Il termine meritevolezza, che non può ritenersi dotato di un significato dato una volta e per sempre233, insensibile ai cambiamenti culturali, sociali ed economici, richiama ad un vaglio, diverso e distinto in senso qualitativo da quello di liceità, cui devono essere sottoposte le disposizioni testamentarie234. Non si può accettare l’i-

  Circa la relatività e la storicità dei concetti giuridici, si rinvia a G. Perlinanni della Rassegna di diritto civile e la «polemica sui concetti giuridici», in P. Perlingieri (a cura di), Temi e problemi della civilistica contemporanea, cit., p. 543 ss.; nello stesso senso, Id., Il controllo di «meritevolezza » degli atti di destinazione ex art. 2645 ter c.c., cit., p. 56, afferma che «il significato di ogni concetto giuridico […] si rinviene nell’uso che, conformemente al sistema vigente ed ai suoi valori normativi, il giurista deve fare della locuzione stessa»; Id., Sul criterio di ragionevolezza, in Annali SISDiC, 2017, 1, p. 59, nota 104. 232   L. Mengoni, L’argomentazione nel diritto costituzionale, in id., Ermeneutica e dogmatica giuridica. Saggi, Milano, 1996, p. 118. 233   Sulla storicità del diritto, si vedano P. Grossi, Storia di esperienze giuridiche e tradizione romanistica (a proposito della rinnovata e definitiva «Introduzione allo studio del diritto romano» di Riccardo Orestano), in Quad. fiorentini, 1988, p. 533 ss.; Id., Storicità del diritto, in Dir. lav. mer., 2006, p. 217 ss.; N. Lipari, Paolo Grossi, ovvero del diritto come storia, in Riv. trim., 2011, p. 755 ss.; Id., La codificazione nella stagione della globalizzazione, ivi, 2015, p. 883, afferma che «il diritto è essenzialmente storia», sì che «il giurista deve essere capace di operare innanzitutto come storico, lettore non solo dei codici ma dell’esperienza». Rileva l’influenza del contesto storico sul procedimento interpretativo, P. Perlingieri, Lo studio del diritto e la storia, in Ann. Fac. econ. Benevento, 2006, p. 131. 234   V. Barba, Unione civile e impugnazione per errore sulle qualità personali, in Dir. succ. fam., 2016, p. 315, il quale rileva che «Se è vero, infatti, che il diritto è artificiale, in quanto frutto della volontà umana, in quanto decisione di uomini, è anche vero che ogni ordinamento giuridico ha, alla sua base, scelte di fondo, che rappresentano la sua filosofia della vita. Se è vero che nessun contenuto è immodificabile, sicché non si danno princìpi o valori meta-giuridici, che si calano dall’alto, non è meno vero che ogni ordinamento si dà, storicamente, 231

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dea che il capriccio o la bizzarria, che difficilmente solcano il terreno dell’invalidità, possano denotare un contenuto testamentario, in quanto una simile impostazione dissimula due tendenze che poco persuadono. Da un lato sottolineano la pervicace impostazione volontaristica del testamento, che sottrae l’atto di ultima volontà alla verifica di conformità dello stesso ai valori che delineano l’ordinamento. E ciò è inaccettabile. Dall’altro, invece, denotano l’idea di una libertà di che mal si concilia con i diritti inviolabili e i doveri inderogabili di solidarietà sociale di cui discorre l’art. 2 Cost., nonché quelli di ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza dell’art. 3 Cost.235 dei princìpi e quelli esprimono dei valori, che, fin quando valgono, costituiscono un orizzonte ineludibile per l’interprete, il quale ha il dovere e la responsabilità di offrire una lettura delle leggi consonante rispetto a quei valori e a quelle scelte […] S’ingigantisce, così, la possibile distanza tra il diritto vivente e il diritto vigente, rafforzandosi l’esigenza che il giurista riesca a farsi interprete coraggioso dei princìpi e dei valori normativi del sistema ordinamentale, i quali, almeno finché essi valgono, ossia fino a quando una riforma o una rivoluzione non abbia a travolgerli e modificarli, costituiscono l’architrave del sistema ed esprimono contenuti ineludibili. Essi sono norme sulle norme, che non hanno funzione programmatica, bensì precettiva, perché trovano sia applicazione immediata e diretta, sia applicazione attraverso la tecnica del combinato disposto, sia applicazione indiretta per mezzo di altre norme, sia applicazione, per mezzo delle clausole generali. Senza temere che i princìpi e i valori del nostro attuale sistema ordinamentale infrangano la certezza del diritto, consentendo qualsivoglia interpretazione e applicazione della legge. È vero, piuttosto, l’esatto contrario. L’interpretazione sistematica e assiologica non è arbitraria, ma vincolata e, soprattutto, «giustificata». Il sistema, che eleva a suo valore fondamentale la persona e la sua dignità, esprime una pluralità di princìpi, tra i quali non v’ha mai contrasto, ma, sempre concorso, attraverso un difficile bilanciamento dei medesimi, che impone, rispetto a ogni interpretazione, rispetto a ogni caso del quale si cerca la disciplina, a valutare la legittimità del fine, la congruità del mezzo e l’adeguatezza della tutela». 235   P. Perlingieri, Il diritto ereditario all’affacciarsi del nuovo millennio: problemi e prospettive, in Tradizione e modernità nel diritto successorio: dagli istituti classici al patto di famiglia, a cura di S. Delle Monache, Padova, 2007, p. 317. Per il dibattito relativo all’immediata precettività dell’art. 3, comma 2, Cost., sugli atti di autonomia privata, v. almeno P. Rescigno, Persona e comunità, Bologna, 1966; A. Galoppini, Osservazioni sul principio di parità di trattamento nel diritto privato, in Riv. giur. lav., 1965, t. II, p. 7; S. Rodotà, Il diritto privato nella società moderna, Bologna, 1971; P. Barcellona (a cura di), L’uso alternativo del diritto,

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La libertà assicurata al testatore dall’ordinamento è una libertà di diverso tenore, è quella da ingerenze o limitazioni che ne comprimano la sfera privata, non consentendo la genuina formazione della sua volontà. La tendenza segnalata è propria di un tempo, quello che stiamo vivendo, dove è forte il desiderio di vedere riconosciuti diritti, senza però considerare i correlativi doveri. Ciò non solo è inaccettabile, ma impossibile. Ove ciò accadesse sarebbero minate le fondamenta dello Stato costituzionale di diritto. Se – come non sembra dubitabile – il testamento è effettivamente l’atto in grado di appagare la variegata gamma di interessi del testatore236, siano essi patrimoniali ed esistenziali237, individuali238 o Bari, 1973; N. Lipari (a cura di), Diritto privato: una ricerca per l’insegnamento, Bari, 1974; P. Perlingieri, Eguaglianza, capacità contributiva e diritto civile, in Rass. dir. civ., 1980, 3, p. 724. 236   V. Barba, I patti successori e il divieto di disposizione della delazione, cit., p. 171. 237   Sull’idea che l’autonomia testamentaria vada declinata quale atto, col quale possono compiersi atti di attribuzione patrimoniale, e in generale di disposizione e di regolamentazione, ma soprattutto nel senso di atto di realizzazione e di autodeterminazione della persona umana, sempre nella dottrina meno recente, si veda anche E. Gianturco, Del diritto delle successioni. Lezioni di diritto civile, raccolte da M. De Palo e G. Claps, Napoli, 1893, p. 5, il quale, tra l’altro, richiamando la prospettiva di Leibnitz e Rosmini ha osservato che «la voluntas ultra mortem è il trionfo della specie indefettibile sull’individuo mortale, e come la morte non esercita efficacia alcuna sul mondo dello spirito, nessuna ne esercita sul mondo del diritto». 238   «Quando un uomo muore; un altro subito gli succede nei suoi beni, nei suoi diritti, nelle sue obbligazioni. E guai se non fosse così! – Imperrocché, se in ogni caso di morte non vi fosse sempre e senza interruzione un successore al defunto, che ne continuasse la giuridica personalità; la proprietà perderebbe tutte, o la più gran parte delle copiose e benefiche influenze che essa esercita sullo sviluppo dell’attività umana e sulla costituzione delle famiglie e della società; e i beni dei defunti, rimanendo senza padrone ed oggetto di preda comune, sarebbero fonte di perpetua lotta fra i superstiti, i quali con civil guerra se ne conterebbero la occupazione. Dunque il diritto di successioni non è, come alcune menti infelicemente fantasticarono, né un trovato della legge positiva, né un odioso privilegio concesso ai proprietari; ma sibbene una suprema necessità della convivenza civile» e uno strumento per la «conservazione della società». In particolare poi l’interesse a nominare successori (tramite testamento) non è, per il proprietario o per il titolare di altre situazioni soggettive, espressione soltanto di un diritto, ma «l’appagamento dei più nobili istinti e delle più soavi affezioni del cuore: – è

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collettivi, anche ricorrendo allo strumento del divieto, in modo da (provare a) rappresentare, tra l’altro, quella «risposta terrena all’aspirazione umana all’immortalità dell’anima»239, è necessario che l’interprete sia formato per affrontare queste nuove sfide e dunque possieda un bagaglio culturale240 che gli faccia apparire inappagante la comodità garantita dal tipo, il quale continua a esercitare una

uno stimolo potentissimo al lavoro ed al perfezionamento delle arti e delle industrie: – è un mezzo efficacissimo di premiare le virtù, e di punire il vizio: – è insomma nel tempo stesso un bisogno individuale e sociale»; così, efficacemente, B. Paoli, Nozioni elementari di diritto civile. Le successioni testamentarie secondo il codice civile italiano, Genova, 1875, p. 9 ss., coglie la complessità cui può dare spazio il testamento, richiamando anche le parole di Precerutti. 239   G. W. Von Leibnitz, Il nuovo metodo di apprendere e di insegnare la giurisprudenza, a cura di C.M.L. De Iuliis, Milano, 2012; A. Rosmini, Filosofia del diritto, Intra, 1865, p. 574 ss., p. 579; H. Ahrens, Corso di diritto naturale o di filosofia di diritto, trad. it. di Marghieri, 2, Napoli, 1872, p. 296 ss., p. 298, il quale discorre del testamento come «emanazione del diritto di personalità», nonché quale strumento conosciuto dai popoli germanici «con l’aiuto della Chiesa e per un interesse religioso (come Seelgeraethe), cioè per il refrigerio della misera anima per mezzo dei doni fatti alla Chiesa nel caso di morte»; W. D’Avanzo, Delle successioni, II, Firenze, 1941, p. 632, il quale, tra l’altro, rileva lo stretto e indissolubile legame tra testamento e sentimenti dell’uomo, nonché l’essenza del testamento quale strumento capace di rendere tangibili i moti d’animo del de cuius, anche attraverso raccomandazioni, disposizioni meramente benefiche, punitive, ironiche, canzonatorie, beffarde e rimuneratorie. Sulla “sacralità” del testamento quale mezzo per dare alla latente aspirazione dell’animo umano di sopravvivere alla morte, di recente anche C. Caccavale, Contratto e successioni, in Tratt. contr. Roppo, VI, Milano, 2006, p. 467 ss., spec. p. 472. 240   La formazione del giurista, e in particolare del civilista, è significativamente avvertita da P. Perlingieri, Il bagaglio culturale del giurista, in Id., L’ordinamento vigente e i suoi valori. Problemi del diritto civile, Napoli, 2006, p. 239; id., Dialogando con due filosofi, in id., L’ordinamento vigente e i suoi valori. Problemi del diritto civile, Napoli, 2006, p. 674; U. Scarpelli, L’educazione del giurista, in Riv. trim. dir. proc., 1968, p. 2, dove per educazione del giurista s’intende «l’acquisita consapevolezza critica della pluralità delle interpretazioni proposte e dei risultati raggiunti anche nella stessa fase dell’applicazione concreta, che rappresenta non soltanto un enorme bagaglio di precomprensione ma anche un indispensabile affinamento della sensibilità». La sensibilità dell’interprete altresì evoca la delicata questione della responsabilità del giurista chiamato a contribuire all’evoluzione di una realtà sociale altamente complessa. In argomento, P. Perlingieri, Strumenti e tecniche dell’insegnamento del diritto civile, in id., L’ordinamento vigente e i suoi valori, cit., p. 521 ss.

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seduzione a tratti irresistibile e non si sottragga a vagliare non solo la liceità ma soprattutto la meritevolezza dell’atto di autonomia. Ed allora, le parole con le quali sono state introdotte queste riflessioni, se da un lato tradiscono l’auspicio trasversale ad ogni testatore a dettare il regolamento dei propri interessi per il tempo successivo alla morte senza limitazioni, avvertite come indebite ingerenze, dall’altro confermano che anche l’atto testamentario deve essere ricondotto nel perimetro valoriale che informa l’ordinamento giuridico, essendo inimmaginabile – e questo, riprendendo le parole indicate in apicibus, “non deve succedere” – un’astrazione di esso dal sistema241. In questa prospettiva, la risposta al titolo di questo contributo diventa questione di secondaria importanza, fungendo da Itaca242 dell’interprete, e in specie di quello testamentario, consentire alle ultime volontà dell’ereditando di trovare attuazione, compatibilmente con i limiti posti dall’ordinamento giuridico.

  Per una lettura del profilo costituzionale della vicenda successoria, v. G. Panza, Il problema e la sua evoluzione legislativa, in G. Panza e F. Panza, Successioni in generale tra codice civile e costituzione, in Tratt. dir. civ. CNN P. Perlingieri, Napoli, 2004, p. 1 ss. 242   Il riferimento è alla struggente lirica sul senso della vita del poeta greco Konstantinos Kavafis (1863-1933), Itaca, scritta nel 1911, pubblicata postuma nel 1936, e che si può leggere in Tutte le poesie, a cura di Maria Paola Minucci, Roma, 2020. 241

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Quaderni dell’Archivio Giuridico Sassarese | 7 Collana diretta da Giovanni Maria Uda

Negli ultimi tempi la dottrina civilistica ha conosciuto un rinnovato interesse e una notevole sensibilità per il diritto successorio – dopo una lunga stagione di stasi – favorito dall’impegno a esso dedicato da valenti studiosi, anche della nuova generazione. Tale circostanza ha avuto il pregio di recuperare all’istituto testamentario lo spazio che merita, riaffermandone l’idoneità a regolare i rapporti patrimoniali e no dell’ereditando, ed evidenziandone la capacità di appagare molteplici istanze, molte delle quali prima facie non parrebbe corretto associarle all’atto di ultima volontà. Tra queste, si segnalano le disposizioni di segno negativo, ossia quelle con le quali il testatore pone un divieto. Il presente lavoro si prefigge di indagare la solidità dogmatica dell’espressione «contenuto c.d. negativo del testamento», allo scopo di definirne lo statuto disciplinare. L’analisi muove dai temi della questione testamentaria, per poi incentrarsi sul fondamento, sui caratteri delle disposizioni rientranti in tale categoria e sul ruolo dell’interprete che si imbatta in disposizioni di tal fatta.

Francesco Meglio ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in «Persona, Mercato, Istituzioni» presso il Dipartimento DEMM dell’Università degli Studi del Sannio. Ha pubblicato numerosi saggi, commenti alla giurisprudenza, recensioni e altri scritti minori, con particolare riguardo al diritto delle successioni, della famiglia e dei contratti.

€ 9,00

ISBN ebook 9788855293501