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Italian Pages 129/134 [134] Year 2009
Giulio GOGGI
UOMO-POLIS-ECONOMIA 6 COLLANA DIRETTA DAL PROF. ARTURO CATTANEO
GIULIO GOGGI
Ragione e fede Studio sul rapporto tra la ragione epistemica e l’esperienza credente
Prefazione di Alberto Peratoner
Il Progetto Triennale di Formazione e Ricerca Uomo-Polis-Economia è promosso dallo Studium Generale Marcianum e dalla Fondazione di Venezia.
© Marcianum Press s.r.l., Venezia 2009.
ISBN 978-88-89736-63-0
AL LETTORE
Finora la collana Uomo – Polis – Economia ha raccolto lo statement del Progetto (Uomo-Polis-Economia) e le lezioni e corsi dei Visiting Professors negli anni accademici 2006-2007 (Al cuore dell’umano. La domanda antropologica 1 e Sentieri dell’umano. La domanda antropologica 2) e 2007-2008 (Sul buon governo e Ripensare il bene comune). Con il presente volume inizia la pubblicazione dei primi risultati dei percorsi di ricerca a cura dei singoli ricercatori e giovani docenti coinvolti nel Progetto Triennale di Formazione e Ricerca Uomo – Polis – Economia dello Studium Generale Marcianum in collaborazione con la Fondazione di Venezia.
PREFAZIONE Alberto Peratoner
Fides quaerens intellectum. Così il pensiero cristiano ha per secoli concepito il rapporto tra ragione e fede: la fede incentrata in Cristo Gesù che, nel presentarsi con il suo contenuto inaudito – il novum, l’eccedente, l’essere costitutivamente ¢’·ÁÁ¤ÏÈÔÓ oltre la stessa gittata dell’immaginazione umana – nondimeno non si astiene dal rivolgersi alla ragione, non si trattiene da un quaerere che è un chiedere e cercare, interrogare e interpellare, un sollecitare l’intelletto ad una qualche risposta, ad un’integrazione prospettica che consolidi quanto acquisito rilevandone la tenuta di senso anche nella luce di una riflessione critica condotta nel rispetto delle esigenze del logos e delle sue pertinenze. La nota espressione risale a sant’Anselmo d’Aosta, ma reinterpreta una ben più antica tradizione, giacché, alla sua comparsa nel Proslogion – essa ne sarebbe stata addirittura il titolo originario1 –, sembra riecheggiare le parole del De Trinitate di sant’Agostino, laddove questi afferma che «fides quaerit, intellectus invenit»2. A ciò l’Ipponense aggiungeva che a sua volta l’intelletto quaerit, in rapporto a quanto percorso: et rursus intellectus eum quem invenit adhuc quaerit. L’espressione anselmiana passerà allora alla storia seguita dalla reciproca: Intellectus quaerens fidem, a significare che a sua volta la ragione sollecita la fede a porgersi all’indagine razionale e delle scienze, a fornire contenuti per sostanziare la ricerca, offrire elementi, indicare direzioni percorribili. Tale rapporto di reciprocità, o di circolarità, trova una delle più ferme asserzioni in Antonio Rosmini, con il riconoscimento alla ragione di un ruolo imprescindibile, come di ciò che precede, accompagna, e segue la fede: «l’intelligenza nell’uomo cattolico precede, accompagna, e sussegue la fede, dimanieraché la fede cattolica non va giammai scompagnata dalla luce dell’intelligenza, quando, se più addentro è dato di penetrare, la fede stessa è una parte, la parte migliore di questa luce»3.
Cfr. ANSELMO, Proslogion, Prooemium. AGOSTINO, De Trinitate, XV, 2, 2. 3 A. ROSMINI, Introduzione alla Filosofia - Degli studi dell’autore, II, I, 30, Città Nuova, Roma 1979, p. 61. 1 2
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RAGIONE E FEDE
Il presente studio di Giulio Goggi assume il primo lato di questa circolarità, ponendosi dalla prospettiva della ragione che, sollecitata dalla fede, è chiamata a percorrere, iuxta propria principia, i sentieri della verità, rapportandosi a quanto proposto dalla Rivelazione, sin là dove può inoltrarsi. La prospettiva assunta si dà però un’ulteriore restrizione: l’indagine è infatti condotta quanto alla pura ragione epistemica, cioè a quel sapere capace di costituirsi come scienza (epistéme), a quel sapere dell’incontrovertibile che pone l’oggetto nella massima trasparenza dell’evidenza del logos. L’esperimento è rilevante, poiché, con la suddetta restrizione, l’autore concentra l’analisi sulla relazione di ragione e fede quanto all’evidenza assoluta dell’apparire che solo nella ragione epistemica si presenta all’intelletto. Va pur detto che non è qui in questione la semplice esistenza di Dio come Assoluto o Fondamento ultimo dell’essere, acquisibile quale verità di ragione nella sua forma epistemica, ma il dato centrale e fondante della fede cristiana, ovvero che Gesù Cristo, persona concreta il cui evento storico è stato trasmesso da testimoni oculari e fissato nei Vangeli, sia Dio. In questa prospettiva viene alla luce una certa discontinuità, e non tra fede e ragione tout court, ma tra la datità di quanto rappresenta i contenuti di fede – fides quae creditur – e la pura ragione epistemica, il cui carattere incontrovertibile, insieme alla luminosità dell’apparire dei propri guadagni speculativi, renderebbe la fede un atto di semplice ammissione di un’evidenza incontestabile. Va qui pure precisato che la discontinuità rilevata non sussiste a titolo di opposizione dei guadagni speculativi della ragione epistemica alla menzionata datità del depositum fidei, ma di un collocarsi di questi oltre quanto è ad essa disponibile. La discontinuità vale qui dunque come ulteriorità, non come incompossibilità rispetto a quanto appare alla ragione secondo la nota dell’incontrovertibilità. È precisamente quanto troviamo espresso da Blaise Pascal, il quale scrive in proposito che «la fede dice ciò che i sensi non dicono, ma non il contrario di ciò che vedono; essa è al di sopra, non contro»4, laddove i “sensi” traducono un criterio di evidenza fenomenologica immediata rapportabile per analogia all’evidenza della ragione epistemica, tant’è che altrove egli afferma ancora che «l’ultimo passo della ragione è di riconoscere che vi è un’in-
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B. PASCAL, Pensées, 13/185 (ed. Lafuma).
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finità di cose che la superano»5. È, anzi, interessante notare che l’ammissione di questo superamento è effettuata, per Pascal, dalla ragione medesima: è un’operazione che il logos stesso può e deve eseguire, in quanto la sua limitatezza gli appare come contenuto dell’evidenza e non è, quindi, effetto di un rifiuto extrarazionale della ragione, ma rappresenta un atto di somma coerenza che la ragione deve a se stessa in quanto tale, cosicché essa è ricompresa in questo movimento come proprio. Come rileva lo stesso Goggi nella prima parte del suo studio, la tradizione del pensiero cristiano ha sostenuto una profonda armonia della fede con la ragione ponendo quale condizione di credibilità della prima l’aderenza assoluta ai primi princìpi della seconda. Forte di questa tradizione, Antonio Rosmini poté spigersi sino ad affermare che «il non contraddire alla ragione s’accetta dai cattolici come una condizione indispensabile e necessaria alla fede, e si concede che se questa contraddicesse a’ primi princìpi della ragione e alle conseguenze da questi logicamente dedotte, non si potrebbe dagli uomini ammetter per vera»6. Nondimeno, non va dimenticato che tale armonia ha preso consistenza attraverso un’articolata opera di mediazione condotta grazie alla modulazione o declinazione della ragione nelle sue diverse possibili forme, fino ad investirsi nella dimensione propriamente esistenziale della vita umana e nella sfera della pratica. Laddove la tradizione cristiana ha, dunque, percorso la via di un’ampia e ricca mediazione attraverso le molteplici esigenze ed evidenze (non epistemiche, ma a qualche titolo evidenze) del complesso piano della realtà esperita, la ricerca condotta mediante l’esperimento di accostare gli estremi – vale a dire, come già osservato, la ragione assunta specificamente nella sua declinazione epistemica e la fede nel portato dei suoi contenuti propri – permette di rilevare la discontinuità nella forma dell’eccedenza della fede sulla ragione e non, come si è detto, nella sconfessione della seconda da parte della prima. Se il risultato dell’indagine può sembrare di primo acchito deludente – sembra, infatti, che la ragione non possa venire a capo della questione e persino rimanere esposta alle oscillazioni del dubbio (ma, ripetiamo, della pura ragione epistemica si tratta) –, di fatto l’esperimento condotto ha il merito di dimostrare una volta per tutte che il complesso ontologico-esistenziale della fede non è assimilabile in toto ad
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ID., Pensées, 13/188 (ed. Lafuma). A. ROSMINI, Introduzione alla filosofia, cit., II, I, 39, p. 75.
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un’esperienza di pura conoscenza intellettuale (quale, appunto, la ragione epistemica è in grado di dar luogo), rispetto alla quale alla coscienza non resterebbe che prendere atto, ammettendone l’evidenza – visa non habent fidem sed agnitionem, afferma san Gregorio Magno, ripreso da san Tommaso7 –, trattandosi dell’apparire di un dato che si impone da sé, senza implicare il concorso della libertà e responsabilità personale. Non va neppure dimenticato che la fede è una virtù teologale, e come tale essenzialmente un fatto di grazia. Ciò significa che il punto di vista teologico sulla fede la riconosce come una dimensione dell’esperienza non del tutto disponibile alla coscienza individuale. Non del tutto, perché la coscienza vi concorre consapevolmente con la volontà e, nell’accoglimento della grazia, la attiva nella forma della virtù, laddove per virtù intendiamo una dimensione dell’esperienza che si nutre di una pluralità di atti nel continuo misurarsi con il reale da parte della coscienza, la quale instaura così la costante esistenziale di una disposizione permanente. Ora, nella fede possiamo distinguere due momenti: una dimensione fiduciale, per cui la fede assume la forma di affidamento, in relazione all’esperienza dell’affidamento come struttura intimamente costitutiva del pensiero pratico umano, e un momento conoscitivo, dove la fede si determina come assenso in rapporto a contenuti determinati che si presentano alla coscienza attraverso la mediazione della Rivelazione e dell’annuncio (fides ex auditu). Fede nei Vangeli compare con la maggior frequenza in rapporto ai miracoli di Gesù: “avere fede” comporta l’ottenimento della grazia del miracolo, cosicché più volte incontriamo, a sigillo di quanto avvenuto, l’affermazione di Gesù: “la tua fede ti ha salvato”, o “la tua fede ti ha guarito”. Di fronte al centurione, richiesto della guarigione di un servo di questi, Gesù afferma: «presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande» (Mt 8, 10). In uno di questi episodi, precisamente alla notizia della morte della figlia di Giairo, dal quale era stato pressantemente implorato, Gesù invita a perseverare nella fede, nonostante l’evento sembri aver chiuso ogni possibilità: «Non temere, continua solo ad aver fede!» (Mc 5, 35s). La fede è dunque continuità, come del resto si addice ad ogni virtù, che di continuità o, per così dire, di costanza, vive, e senza la quale decade dallo statuto stesso di virtù. Gesù invita alla continuità nell’at-
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Cfr. TOMMASO, Q. d. De Veritate, q. 14, a. 2, ad 15.
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teggiamento di fede, con l’esito della risurrezione della figlia di Giairo, giacché in quella permanenza la virtù teologale si è mostrata realmente tale. In Lc 17 i discepoli richiedono al Maestro un incremento della loro fede: «Gli apostoli dissero al Signore: “Aumenta la nostra fede!”. Il Signore rispose: “Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe”» (Lc 17, 5s). Dalla risposta di Gesù possiamo trarre che la fede non conta in senso quantitativo ma in intensità: è un punto fermo, un cardine, un punto di ancoraggio, una sorgente puntiforme per un’esistenza credente. In Rm 10, 7 san Paolo afferma che la fede dipende dalla predicazione, mettendone a fuoco il momento cognitivo di cui sopra; in 2Cor 5, 7, col dire che «camminiamo nella fede e non ancora in visione» è sottolineato ancora il carattere di tensione escatologica a quanto non appare nell’orizzonte dell’esperienza che troverà nella Lettera agli Ebrei la definizione di argumentum non apparentium (Eb 11, 1) ricordata nella trattazione dallo stesso Goggi. Ora, quanto a questo non apparire, è necessario stabilire se sia da intendere come un apparire di nulla, vale a dire un non apparire assoluto, o un non apparire di qualcosa, che ammette, anzi, richiede come proposizione complementare l’apparire di qualcosa. L’apparire di nulla, in senso stretto, comporterebbe la non riconoscibilità dei contenuti di fede come orizzonte di senso, e ciò renderebbe evidentemente impossibile la fede, giacché un tale apparire di nulla è nulla d’apparire di contenuti determinati, e laddove nulla appare, la relazione intenzionale non è in grado neppure di instaurarsi e sussistere. Ciò, evidentemente, renderebbe la fede non soltanto del tutto arbitraria, ma addirittura impossibile come atto della coscienza: su quali elementi dovrebbe mai appoggiarsi? A cosa dovrebbe riferirsi? A quali dati rapportarsi? Il non apparire di qualcosa come ciò che ammette un qualche apparire è l’unica modalità nella quale resta possibile concepire la fede, che come forma di relazione intenzionale necessita pur sempre di un referente reale. Lo attesta quanto accade nella comune esperienza conoscitiva come nelle relazioni di amicizia e nel mondo affettivo, dove molti dei contenuti intenzionati non appaiono come tali, ma con ciò nessuno oserebbe affermare che non ne appare nulla. Ciò accade non per distrazione o sottovalutazione dei requisiti di veridicità di un sapere certo, ma grazie alla possibilità di ricomprendere alcune costanti dei fenomeni
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come garanzia di veridicità di ciò che, nella sua immediatezza, non appare, e viene pertanto mediato dall’intelletto nel suo darsi come esperienza fondamentalmente unitaria. Ad esempio, un’informazione somministrata da persona amica e in tutto affidabile, in assenza totale di elementi in forza dei quali questa potrebbe essere condizionata o spinta a distorcerla, seppure non appaia nella sua immediatezza (non viene direttamente esperita), si presenta alla coscienza con qualche titolo di evidenza, tale da essere assunta per certa. Tali sono, ad esempio, tutte le informazioni pertinenti alla datità della fattualità storica, mediate dai documenti e dal lavoro critico di ricostruzione: esse non si impongono all’intelletto nella loro evidenza immediata, non essendo più disponibili alla coscienza, ma di esse qualcosa pur sempre appare, e se resta una sfocatura dovuta al margine di interpretazione cui le fonti documentarie sono soggette, il nucleo del “dato” trasmesso può, a certe condizioni, presentarsi nella forza di un contenuto incontestabile. Parimenti, nelle “evidenze” dell’universo affettivo, se della persona amata non appare l’affetto in sé e come tale – cioè come evidenza immediata e di valore epistemico – ne appare comunque una qualche notizia (ne appaiono le attestazioni, nella loro costanza e continuità, negli atti quotidiani, nell’assetto assiologico del profilo esistenziale della persona, nella coerenza delle scelte centrali e periferiche dell’esistenza, fin negli stessi sguardi e nelle gestualità di cui tutti nutriamo e vediamo nutrire le relazioni) sulla quale la relazione sosta e riposa come permanentemente garantita. All’inverso, è possibile constatare come proprio il venir meno degli elementi di continuità e coerente attestazione di univocità affettiva nelle relazioni familiari, in particolare laddove il ruolo genitoriale si presenta scostante nell’attestazione delle garanzie fondamentali e fondanti la stabilità affettiva, provochi, in chi ne subisce l’impatto formativo, una generalizzata incapacità di assumere a luogo di garanzia o “riposo” della coscienza alcun termine di alcuna relazione affettiva, fino a decretarne sistematicamente il fallimento. La fede, dunque, necessita, per instaurarsi come relazione intenzionale, del presentarsi alla coscienza di una qualche notizia della realtà intenzionata8. 8 Significative, a tale proposito, le osservazioni di Carmelo Vigna, che in forza della struttura della relazione intenzionale come ciò che si dispone in rapporto alla realtà come ciò per cui «verità e nascondimento, in quanto predicati della relazione d’apparire, hanno infiniti gradi intermedi», afferma: «La fede non può esser decifrata come un tener fermo quel che non si vede; cioè, che non si vede puramente e semplicemente. Si ha fede quando si tiene fermo, puramente e semplicemente, qualcosa che non si vede appieno, sì che l’in-
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Una qualche notizia non significa la realtà intenzionata nella sua piena luminosità e trasparenza, altrimenti la relazione non si darebbe più come “fede”, ma si costituirebbe quale puro sapere – scientia / Â’ ÈÛÙ‹ÌË – garantito dalla piena manifestazione della realtà in oggetto, dal suo puro apparire come tale. Ma una qualche notizia è comunque un qualche apparire, l’affacciarsi o, per dir così, il porgersi alla coscienza di uno o più, eventualmente di una rete di dati ed elementi, afferenti alla cosa stessa che pur non si mostra nella sua pienezza e immediatezza, i quali si rendono disponibili come certi e incontestabili. Su questa base si regge l’assunzione della fede come rationabile obsequium (cfr. Rm 12, 1), dove il rationabile, piuttosto che come depotenziamento della ratio epistemica nelle sue esigenze di rigore, vige quale sua estensione o modulazione lungo lo spettro delle forme di sapere disponibili all’esperienza, sorretta dalla garanzia dei prima principia che da quella procedono. Va qui ricordato che il patrimonio di conoscenze accessibili dalla sola Rivelazione e perciò oggetto di fede è sempre stato concepito in graduale continuità rispetto ad alcuni elementi accessibili alla ragione, vale a dire essenzialmente l’esistenza di Dio trascendente. Significativa a questo proposito la riflessione di san Tommaso, in rapporto alla suaccennata questione dell’eccedenza dei contenuti di fede rispetto a quanto disponibile alla ragione: «Una cosa è oggetto di fede in un duplice modo: o puramente e semplicemente, quando cioè eccede la facoltà dell’intelletto di tutti gli uomini esistenti in statu viae, come ad esempio il fatto che Dio è trino e uno e altre cose del genere; e di questi oggetti è impossibile che un uomo abbia scienza, ma ogni fedele dà l’assenso ad essi a motivo della testimonianza di Dio a cui tali oggetti sono presenti e da cui sono conosciuti; oppure una cosa è oggetto di fede non puramente e semplicemente, ma rispetto a qualcuno, quando cioè non eccede la facoltà di tutti gli uomini ma di alcuni soltanto, come per ciò che di Dio si può conoscere dimostrativamente, ad esempio la sua esistenza, o la sua unità o incorporeità o altre cose simili; e nulla proibisce
telligenza da quel vedere non resta quietata. Ma se non si vede appieno, non è detto che non si veda per nulla, quando si ha fede. Può darsi che si veda poco o anche pochissimo, […]. Resta comunque il fatto che non si crede mai un oggetto che sta nella forma della mutevolezza, perché ciò importerebbe contraddizione. E non si può restare a qualcosa di contraddittorio. Rispetto ad una situazione di palese contraddizione, l’intelletto che sa della contraddizione, la toglie e basta. Non crede, sa», C. VIGNA, Fides et ratio, in Humanitas 54 (1999) n. 3, p. 370.
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che questi oggetti siano conosciuti per scienza da alcuni, che ne posseggono la dimostrazione, e creduti da altri, che non ne hanno compreso la dimostrazione. È invece impossibile che siano conosciuti per scienza e al tempo stesso creduti dalla stessa persona»9. In altri termini, alcune verità fondamentali, pur appartenendo al depositum fidei, sono accessibili alla ragione, mentre da alcuni – in mancanza di un’adeguata strumentazione concettuale – sono ritenute, altrettanto fermamente, per fede. L’accesso a quanto disponibile alla ragione è ritenuto dalla riflessione teologica cristiana, in particolare cattolica, il fondamento di credibilità o la notizia prima sulla quale fondare la certezza degli assunti di fede, ovvero il loro presupposto10. In forza di tale avvertita continuità il pensiero cristiano ha tradizionalmente coltivato l’idea che il prolungamento del percorso oltre la ragione, sulla scorta delle verità di fede, anziché sovrapporsi alla ragione, ne abbia piuttosto esaltato le potenzialità, persuasione così espressa da Antonio Rosmini: «mai la fede, o la Cattolica Chiesa che la propone, ha messo limiti al pensiero, ma solo ne ha proscritto l’abuso, che non è altro che un impedimento del pensiero medesimo. Anzi, i Padri della Chiesa hanno trovato nella fede cristiana uno stimolo, dirò di più, un’obbligazione di svolgere più ampiamente, che non sia stato mai fatto prima di essi, l’intelligenza; non già temendo le conclusioni che ne potessero uscire, quasi alla fede potessero esser contrarie, certi anzi di trovarle sempre alla medesima fede consonanti, di scoprire testimonianze nuove a favore di essa, luce aggiunta a luce, da rendere il giorno più chiaro. […] La fede dunque non può stare senza la ragione, di cui è la luce completiva, come il perfetto non può stare senza il suo rudimento, quantunque la ragione naturale, appunto perché rispetto alla fede è un cotal rudimento, può stare senza la fede. E però l’effetto della fede cristiana introdotta nel mondo fu quello di dare uno inaspettato, meraviglioso, infinito sviluppo alla ragione umana, e di mutar faccia alle nazioni che l’abbracciarono, […]»11. Posta in grado di concepire i contenuti di fede come ciò che implementa coerentemente i dati accessibili alla ragione, la coscienza, nel portarsi al piano della fede, può far intervenire legittimamente la volonTOMMASO, Q. d. De Veritate, q. 14, a. 9, Resp. «Che Dio sia uno, in quanto è dimostrato, non viene posto come articolo di fede, ma come presupposto agli articoli: infatti la conoscenza di fede presuppone la conoscenza naturale come la grazia la natura; però l’unità dell’essenza divina come viene concepita dai fedeli, cioè insieme con l’onnipotenza e la provvidenza di tutte le creature e altre cose del genere che non si possono provare, costituisce un articolo di fede» ibid., ad 8. 11 A. ROSMINI, op. cit., II, 39, pp. 71-72. 9
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tà a garantire l’assenso nei confronti di ciò che all’intelletto non appare12. La legittimità qui è data dalla non arbitrarietà dell’operazione che salda intelletto e volontà il cui concorso è richiesto nel costituirsi della fede. Ora, l’intervento della volontà vale a tener fermo non il mutevole come oggetto, ma come la relazione intenzionale stessa: in sé l’oggetto di fede, come ha avuto modo di affermare Carmelo Vigna, può essere tale solo se è concepito come stabile, e «il sapere che ne abbiamo sta prima della fede che possiamo averne, perché appunto la fede, in ultima istanza, presuppone la stabilità dell’oggetto e solo aggiunge la stabilità della relazione con esso»13. Ci ritroviamo con ciò all’intendimento rosminiano della ragione come ciò che precede, oltreché accompagnare e seguire, la fede, precedentemente riscontrato. Detto questo, per riprendere con diverso ordine e ripercorrere in progressione argomentativa le riflessioni sin qui condotte, delineiamo sinteticamente i seguenti punti: 1. La ragione in questione, che risulta non poter venire a capo del problema sollecitato dalla fede quaerens intellectum, non è la ragione assunta in tutta l’ampiezza di spettro delle sue forme e declinazioni, ma soltanto una sua parte, un suo segmento, ancorché il primo e fondamentale. Non è, in altri termini, l’intelletto nella sua pienezza ed estensione, ma una sua ben precisa individuazione. 2. Questa individuazione della ragione è il lume del logos nella sua massima purezza e potenza chiarificatrice, sotto la cui presa la realtà si dispone per opposizione di contraddizione, per cui tra un’affermazione e la sua negazione non si danno possibili posizioni intermedie. È la ragione epistemica, capace di cogliere la realtà secondo la nota dell’incontrovertibilità, per cui ciò che giunge a riconoscere sta, in modo che la sua negazione si autodeponga, ovvero sia impossibile. 3. Per questa sua configurazione, la ragione epistemica si pone a fondamento dell’intero spettro della ragione, strutturando l’intero campo semantico nell’opposizione di positivo e negativo. Questo significa che
12 «La fede, in quanto è in noi un certo inizio della vita eterna che speriamo dalla promessa divina, si dice sostanza delle cose che si sperano; e così viene menzionato il rapporto della fede con il bene che muove la volontà determinante l’intelletto. Ma la volontà, mossa dal predetto bene, propone all’intelletto naturale qualcosa di non apparente come degno di assenso, e in tal modo lo determina a quella realtà non apparente, in modo cioè che dia ad essa il suo assenso» TOMMASO, Q. d. De Veritate, q. 14, a. 2, Resp. 13 C. VIGNA, Fides et ratio, cit., p. 372.
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la ragione può sfumare e variare le sue forme di relazione alla realtà presa in esame, ma nel far ciò non può mai mancare al principio di non contraddizione, per cui le è precluso affermare e negare al tempo stesso e sotto lo stesso rispetto i contenuti ai quali si porta. 4. La possibilità di modulare la ragione in diverse forme, oltre il nucleo luminoso e puro del sapere epistemico, permette l’estensione del sapere, attraverso i vari gradi di “ragionevolezza”, fino agli incerti territori del “verisimile” e del “probabile”. 5. In questa estensione del sapere, la relazione intenzionale secondo “fede” trova il suo luogo di compossibilità con il sapere della ragione epistemica: quale sapere che si dà in “ulteriorità” rispetto a quanto alla ratio è trasparente nella forma dell’immediatezza, il patrimonio di conoscenza assunto per fede – il depositum fidei – non può venir meno alle acquisizioni fondamentali della prima; non può, cioè, presentarsi in ultima istanza nella forma della contraddizione. Può procedere sopra, non mai contro, per riprendere i termini della già citata espressione pascaliana e, richiamandoci a quanto già affermato da san Tommaso sul retto modo di intendere la collocazione della fede come uno star “sopra”, «Dicitur autem fides esse supra rationem, non quod nullus actus rationis sit in fide, sed quia ratio non potest perducere ad videndum ea quae sunt fidei»14. L’annunciato superamento non potrà dunque mai tradursi in una sconfessione della ragione e delle sue esigenze di rigore e di evidenza, per cui va pensato nei termini di un rapporto di inclusività: la ragione nella fede, dove ciò che è incluso sono le esigenze elementari di non contraddizione, che struttura l’intero campo semantico e riporta al fondamento dell’essere, e di evidenza fenomenologica, in rapporto all’unità dell’esperienza. 6. La discontinuità ravvisabile tra la pura ragione epistemica, strutturalmente caratterizzata dalla nota dell’incontrovertibilità, e la datità di quanto costituisce il complesso dei contenuti di fede, è così rappresentabile come uno scarto qualitativo ascrivibile alle condizioni nelle quali all’intelletto è possibile istruire la relazione intenzionale ai contenuti di fede e non ad una eventuale pretesa instabilità o inconsistenza della realtà intenzionata. 7. La relazione intenzionale comporta un’approssimazione alla verità dell’essere che ammette, tra il puro vedere della ragione epistemica e l’assoluta assenza di contenuto (il non apparire assoluto) – giac-
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TOMMASO, Q. d. De Veritate, q. 14, a. 2, ad 10.
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ché di termini contrari si tratta, anziché di contraddittori –, infiniti gradi intermedi, per cui tra il (non) vedere determinati contenuti da parte della ragione epistemica e il vederne a qualche titolo da parte dell’intelletto che vi presta l’assenso si danno infinite gradazioni di luminosità o evidenze, che si dispiegano in un ampio e variegato spettro di sfumature chiaroscurali, spettro lungo il quale l’intelletto medesimo è pure in grado di portarsi su alcuni contenuti con la piena luminosità del logos nella sua massima trasparenza. Nessun cieco riterrebbe il suo dire “non vedo l’albero di cui parli” una contraddizione di quanto l’amico, accanto, gli attesta trovarsi di fronte, né per questo i due amici dovrebbero avvertire alcuna frattura insanabile rispetto al loro essere solidali. Parimenti, se l’evidenza della ragione epistemica non presenta all’intelletto tutti i contenuti che questo può ammettere da altre fonti nella sua unità d’esperienza, non per questo esso avvertirà necessariamente la crisi di una sorta di schizotimia nella relazione intenzionale, consistente nel vedere e non vedere, assentire e non assentire al tempo stesso, credere per un verso e non poter credere per un altro. 8. La saldatura dell’assenso di fede con quanto disponibile al lume della ragione epistemica è garantita dall’unità dell’intelletto, cui spetta l’allineamento delle forme di certezza esperibili ai vari livelli dell’ampio – e, per riguardo all’unità dell’esperienza, non scomponibile – spettro della coscienza pensante, giacché la relazione intenzionale quale disposizione di fede è in grado di costituirsi come atto coerente e solidale dell’intelletto medesimo rispetto a tutte le sue modalità conoscitive. Rispetto alla gradazione di tali modalità conoscitive, lo studio di Giulio Goggi assume, come dicevamo, gli estremi del sapere epistemico e della fede, rilevandone la discontinuità come ulteriorità o eccedenza della seconda sulla prima, pur non a sovvertimento strutturale delle condizioni fondamentali della ragione, come tensione aperta sulla verità dell’essere tra quanto appare in piena luce alla ragione con la nota dell’incontrovertibilità e quanto non le appare (non apparendole neppure il contraddittorio) ed è sostenuto dalla fede. Ora, è nello spazio aperto da una tale configurazione tensionale della fede che si dà l’esperienza dell’assenso della coscienza come non predeterminato da un apparire assoluto e incontestabile, di fronte al quale ad essa non resterebbe che prendere atto della realtà. Tale configurazione tiene in equilibrio la fede cristiana tra il suo ridursi ad un puro fatto intellettuale (gnosi) e la sua eventuale consegna ad una arbitrarietà irrazionalistica (fideismo). Tale configurazione della fede ne è pure la grandezza, perché in questo equilibrio è possibile cogliere la misura
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perfetta per un concorso responsabile della libertà umana, dove da un lato la coscienza sia nella piena libertà di volgersi altrove, negando la fede, ma al tempo stesso non sia abbandonata a se stessa, senza alcuna luce o alcun apparire della verità. Come in questo equilibrio agisca la grazia, la tradizione teologica ha riconosciuto appartenere all’insondabilità del Mistero. Ci sovviene in proposito una breve quanto intensa nota, ancora di Blaise Pascal, nella quale egli afferma: «Vi è abbastanza luce per coloro che non desiderano che vedere e abbastanza oscurità per coloro che hanno una disposizione contraria»15. Così, nella tensione aperta di presenza e non presenza – tensione e non contraddizione in quanto vigenti a diverso titolo e sotto rispetti diversi – si apre lo spazio dell’assenso libero e responsabile che investe la pienezza dell’esperienza umana nella sua complessità teoretico-pratica, si apre la dimensione di un coinvolgimento che investe l’intera consistenza e configurazione ontologico-esistenziale dell’uomo, «impegnando tutta la persona e chiamandola a rispondere ad un appello di libertà»16, come lo studio di Giulio Goggi, cui invitiamo alla lettura, conclude.
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B. PASCAL, Pensées, 11/149 (ed. Lafuma). Infra p. 120.
PREMESSA
L’idea di un sapere incontrovertibile, capace di respingere ogni negazione che gli si possa contrapporre, fa la sua prima apparizione con l’avvento della filosofia greca. Per essa “non controvertibile” è, innanzitutto, l’apparire (il phaínesthai) degli enti e del loro divenire. L’affermazione della realtà della phy´sis e del suo oscillare tra l’essere e il nulla è il primo passo di quel sapere “vero”, “stabile”, che i Greci chiamavano “epistemico”. La potenza inferenziale del pensiero conduce poi alla dimostrazione dell’esistenza dell’ente immutabile e di relazioni necessarie – secondo il senso che i termini “immutabile”, “necessario”, ma poi anche “vero”, “stabile”, “non controvertibile”, assumono all’interno di una comprensione dell’essere per cui l’identità con sé dell’essente (la sua incontraddittorietà) viene tenuta ferma insieme all’ammissione del divenire degli enti. Il cristianesimo ha sviluppato la propria concettualità alla luce dei significati fondamentali evocati dal pensiero greco. In tal senso si può dire che il cristianesimo, in quanto struttura concettuale (e il cristianesimo è anche una struttura concettuale), ha un’anima essenzialmente filosofica. Ma il cristianesimo è pure, ed essenzialmente, esperienza di “fede”. Per questo lato esso si configura come adesione fermissima ad un contenuto (l’essere di Gesù come vero Dio e vero uomo) di cui non appare la “non controvertibilità”: è vero che, agli occhi della “fede”, quel contenuto sta dinanzi come qualcosa di “non dubitabile” – per il credente in quanto tale nessuno sviluppo del sapere potrà smentire la “verità” del proprio oggetto – ma, ciò che nella prospettiva della fede viene vissuto come “non dubitabile”, e quindi come “non controvertibile”, è ciò di cui non appare l’impossibilità del contraddittorio. La parte prima di questo scritto considera il rapporto “ragione-fede” in prospettiva storico-teoretica. La parte seconda estende lo sguardo ai principali contributi della teologia contemporanea che riconosce, nella “storia”, il luogo concreto della collocazione del “divenire” e dell’accadere del nesso “fede-rivelazione”. La parte terza discute la tesi dell’armonia di ragione e fede dal punto di vista della ragione “epistemica”.
PARTE PRIMA
CHE COSA HANNO IN COMUNE ATENE E GERUSALEMME? CHE COSA L’ACCADEMIA E LA CHIESA? TERTULLIANO, DE PRAESCRIPTIONE HAERETICORUM, VII, 9
1) Il nesso areté-sophía Per la filosofia greca l’uomo realizza il vertice delle sue potenzialità nella contemplazione intellettiva del vero, che si raggiunge nella dimensione del sapere stabile: è in tale dimensione che si realizza, per l’uomo, l’attività conforme a virtù. Se infatti “virtù” (areté) è la capacità di portare a compimento una determinata attività e se l’attività dell’intelletto è ciò che vi è di più elevato nell’uomo, perché è attività autosufficiente che ha come fine lo stesso conoscere1, allora la virtù suprema e il fine ultimo dell’uomo sarà la sapienza (sophía) ossia l’intelligenza delle verità necessarie e immutabili. Se inoltre è vero che il piacere «perfeziona l’attività non come una disposizione conseguita, ma come una sorta di fine che viene ad aggiungersi»2 e se è nell’attività della contemplazione che trova il suo pieno compimento la naturale aspirazione dell’uomo al piacere, allora sarà nell’esercizio della virtù teoretico-contemplativa della sapienza che si realizza la felicità perfetta e una qualche partecipazione della vita divina. Scrive Aristotele: «Se […] l’attività dell’intelletto, la quale è attività contemplativa, sembra eccellere per dignità e non mirare a nessun altro fine all’infuori di se stessa ed avere un proprio piacere perfetto (che accresce l’attività) ed essere autosufficiente […], allora questa sarà la felicità perfetta per l’uomo […]. Però una vita siffatta sarà superiore alla condizione umana: infatti non in quanto uomo egli vivrà in tal maniera,
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Cfr. ARISTOTELE, Metafisica, I, 1-2. ID., Etica Nicomachea, X, 4, 1174 b 31-33.
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ma in quanto in lui è presente qualcosa di divino […]. Se dunque in confronto alla natura dell’uomo l’intelletto è qualcosa di divino, anche la vita conforme ad esso sarà divina in confronto alla vita umana»3. Per la filosofia greca la vita beata trova dunque compimento già su questa terra: «Per quanto […] si estende la contemplazione, di tanto si estende anche la felicità […]. Di conseguenza la felicità consisterà in una certa contemplazione»4, nella contemplazione che ha per oggetto la verità. 2) Il nesso sophía-alétheia-epistéme Fin dal suo primo esordio, la filosofia greca ha avanzato questa pretesa: dare testimonianza di ciò che sta nella luce e mostra il proprio volto. Il termine greco sophía (sapienza) è infatti costruito sulla stessa radice di phôs (luce) e di saphés che vuol dire chiaro, evidente, ma anche intelligibile, vero: in breve, la filosofia greca ha inteso essere la cura per la verità. È nota l’insistenza di Heidegger sulla connessione tra il termine alétheia – inteso come il venire ad apparire provenendo da un fondo oscuro (come l’uscire dal nascondimento dell’essere) – e il termine phy´sis costruito su una radice indoeuropea che significa lo schiudersi dell’essere, il suo venire alla manifestazione. Quel che tuttavia Heidegger non coglie è che, nella connessione o coappartenza di questi termini, si manifesta un significato capace di stare fermo di contro alla sua negazione: la cura filosofica per la verità è la cura per ciò che si illumina e sa resistere5. Ibid., K 4, 1177 b 19-31. Ibid., K 4, 1178 b 28-32. 5 «Già sappiamo che l’essere si schiude ai Greci quale phy ´sis. Lo schiudentesi permanente imporsi [Das aufgehend-verweilende Walten] è, nel medesimo tempo, in se stesso, l’apparire che si mostra [das scheinende Erscheinen]. Le radici phy- e pha- designano la stessa cosa. Phy´ein, lo schiudersi che riposa in se stesso, è pháinesthai: il risplendere, il mostrarsi, l’apparire» M. HEIDEGGER, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, 110. L’essere che si schiude permanendo è ciò che precede e rende possibile la comprensione degli enti. Il permanere dell’essere che si impone è il permanere di ciò che, proprio come il tempo, è prima di ogni possibile prima: come il tempo, l’essere è l’orizzonte all’interno del quale diventa per noi accessibile la comprensione degli enti. Ma «il fatto che il tempo [e quindi l’essere] sia l’assolutamente primo, come possibilità di ogni prima, non implica che esso sia […] l’ente supremo, e neppure che sia sempre, che sia eterno» ID., I problemi fondamentali della fenomenologia, il melangolo, Genova 1988, 312. La permanenza dell’essere heideggeriano è la permanenza di un “evento”, di qualcosa il cui imporsi sulla propria negazione è soltanto un “accadere”, non una necessità. 3 4
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I Greci hanno un termine per esprimere questo “stare” che è in grado di “imporsi” vittoriosamente sulla propria negazione ed è il termine epi-stéme. La alétheia dei Greci non è soltanto, come vorrebbe Heidegger, l’apparire dell’essere, ma è qualcosa di più: è la manifestazione di ciò che, manifestandosi, mostra di essere in grado di “stare”. La alétheia dei Greci è cioè alétheia dell’epistéme 6. Quale pretesa ha dunque avanzato la filosofia greca fin dal suo esordio? La pretesa di costituirsi come sapere stabile di ciò che è stabile, come sapere, cura, amore per ciò che non è controvertibile, come “theoría” del divino, perché divina è la verità stabile.
3) Il nesso epistéme-totalità dell’essere La filosofia greca nasce con l’evocazione dello stante: scopre il significato della verità non controvertibile, significato che si apre nell’intreccio di alétheia e di epistéme. Ma è possibile avere a che fare con il non controvertibile solo se lo stante non è una dimensione parziale del tutto: la parte, infatti, è esposta all’irruzione di ciò che sta oltre di essa e che, irrompendo, potrebbe alterarne il senso. Se il significato dello “stare” venisse inteso come la stabilità di una parte del tutto, qualcosa come lo stante non potrebbe costituirsi. Si può pensare alla verità definitiva solo se essa ha come contenuto il tutto, solo se essa si riferisce alla totalità delle cose al di fuori di cui non vi è nulla. Come evocazione dello stante, la filosofia greca nasce nel momento in cui viene messo a tema il senso della totalità degli essenti il cui significato unitario è appunto ciò che sta, ciò a cui deve prestare ascolto la totalità di ciò che è. Quando Aristotele afferma che la virtù suprema dell’uomo sta nella contemplazione del vero e che in essa l’uomo vive la condizione divina, si riferisce appunto a quel significato del termine theoría che è impa-
6 Heidegger non vede che l’alétheia dei Greci è, innanzi tutto, alétheia dell’epi-stéme. Né l’indagine di Heidegger si sofferma sul significato della non controvertibilità del principio di non contraddizione che dell’epi-stéme è il cuore pulsante, come avremo modo di considerare più avanti. Ciò si spiega perché per Heidegger l’ontologia, la scienza dell’essere, è essenzialmente fenomenologia e la fenomenologia è il semplice lasciar apparire gli essenti, il non aver potenza sugli essenti. Il senso dell’epi-stéme è invece la manifestazione di nessi necessari ossia di sintesi a priori alle quali tutti gli essenti devono rispondere. Si osservi – di passaggio – che il significato della sintesi a priori è una scoperta della filosofia greca e non un’invenzione di Kant, il quale ha pure avuto il grande merito di richiamare l’attenzione sulla possibilità della costruzione di una sintesi di tal fatta.
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rentato col temine theós (dio) nella comune radice che indica la visione, il vedere: theoreîn. La theoría vera, la contemplazione del vero, è il manifestarsi di uno spettacolo che sta, uno spettacolo che nessuno, né uomo né dio, può smuovere.
4) Esperienza religiosa e primato del theoreîn filosofico Il significato prefilosofico della parola greca theoría (che noi traduciamo con il termine “teoria”, “contemplazione”) è legato all’aspetto dionisiaco della religione greca. Il filosofo Ortega y Gasset ha messo in rilievo che tale aspetto coinvolge tutti i membri della comunità arcaica: «In loro l’atto religioso fondamentale non è la preghiera individuale, privata e intima – l’“orazione” –, ma la gran cerimonia collettiva di tono festivo a cui partecipano tutti i membri della collettività, alcuni come officianti del rito – danza, canto e processione –, gli altri come assistenti e “spettatori”. Questo atto della comunicazione dell’uomo con dio mediante l’assistenza a un cerimoniale collettivo religioso fu chiamato dai Greci teoria – contemplazione»7. Di qui l’idea della “festa” intesa come esperienza religiosa fondamentale e il suo legame con la “theoría” che fa presenti all’uomo i misteri divini: «L’uomo ha periodicamente la necessità di evadere dalla quotidianità in cui si sente schiavo, prigioniero di obblighi, regole di condotta, lavori obbligati, necessità. Il contrario di tutto questo è l’orgia. La semplice idea che la tribù, o varie tribù vicine si riuniscano un giorno non per lavorare ma per vivere qualche ora di un’altra vita che non è lavoro – insomma, la festa – comincia già ad inebriarlo. Poi la presenza degli altri, compaginati in folla, produce il noto contagio, e la spersonalizzazione – se si aggiungono la danza e il bere e la rappresentazione di riti religiosi (la danza lo era già di suo) che fa rinascere dal fondo di tutte le anime le emozioni profonde del patetismo mistico – dà un risultato di illimitata esaltazione e trasforma queste ore o giorni in una forma di vita che è quasi ultravita, quasi partecipazione a un’altra esistenza superiore e sublime. Questa è la festa. Questa è la theoría»8.
7 ORTEGA Y GASSET, Máscaras (testo del 1946, annesso a Idea del teatro: una abbreviatura), OC VII, 472-496, 473. 8 Ibid., 480.
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La realtà che si mostra nell’esperienza del theoreîn festivo – un’esperienza che rende l’uomo felice al pari della divinità – non è tuttavia una verità innegabile. Nella “festa” la realtà che si annuncia viene senz’altro vissuta dai partecipanti come la rivelazione del senso profondo delle cose. Ma la filosofia scorge che tale senso non riesce a stare, per quanto i membri della comunità religiosa vivano in esso e per esso. L’avvento della filosofia greca è dunque la denuncia del carattere non innegabile dell’esperienza religiosa pre-filosofica. Tenendo fermo il legame del theoreîn con l’esperienza religiosa nella sua dimensione festiva, l’affermazione aristotelica per cui la felicità consiste nell’attività del theoreîn filosofico è perciò, nel contempo, la rivendicazione che il primato dell’esperienza religiosa spetta alla filosofia.
5) La “sapienza di questo mondo” e la “stoltezza della predicazione” Ai pensatori cristiani dei primi secoli si impose, fin da subito, la necessità di pensare il rapporto tra la “ragione” così come concepita dai greci (e cioè come esercizio dell’intelletto speculativo, governato dall’immediata apprensione dei principi per sé noti) e la “fede” che è la «prova delle cose che non si vedono»9 come risulta dalla nota definizione neotestamentaria. Se per la filosofia greca la virtù suprema è l’atto della contemplazione del vero, per la “filosofia cristiana” va innanzi tutto tenuto fermo che la fede non ha per oggetto la prima verità se non nella misura in cui essa non si mostra nella “theoría” dell’intelletto contemplativo. Per la ragione che si muove all’interno della fede (intesa nel senso oggettivo del suo contenuto, come fides quae creditur), Dio non è conosciuto mediante la “sapienza di questo mondo” (sophía tû kósmu), ma attraverso l’annuncio: «Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione»10. La “stoltezza” dell’annuncio (moría tû ker´ygmatos) procura la salvezza perché la salvezza coincide con la “sapienza” di Dio. In questo contesto la virtù suprema dell’uomo in statu viae non è tanto la contemplazione del vero quale appare nella sapientia huius saeculi, ovvero nella theoría dei Greci, quanto piuttosto la fede informata dalla carità: 9
Eb 11,1. 1Cor 1,21.
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ciò che dispone l’uomo alla beatitudine non è l’esercizio delle virtù intellettuali, ma l’abito della fede, infuso da Dio.
6) Virtù etiche, virtù dianoetiche e virtù teologica La virtù è la capacità di compiere bene e convenientemente un atto, il che significa portarlo al culmine che la natura gli ha assegnato. Ma, in rapporto all’attività dell’uomo, il bene si dice in sensi diversi a seconda che sia considerato dal filosofo o dal teologo. Il filosofo, scrive san Tommaso, «considera come bene ultimo ciò che è proporzionato alle forze umane e consiste nell’atto dello stesso uomo, per cui si dice che la felicità è una certa quale attività: e quindi, secondo il filosofo, un atto buono, tale che il suo principio sia detto virtù, si dice buono in senso assoluto in quanto è conveniente alla potenza come suo perfezionamento»11. Su questo piano si collocano sia le virtù “etiche” (virtutes morales), che consistono nel subordinare le tendenze della parte affettiva (impulsi, brame) al controllo della parte razionale dell’anima, sia le virtù “dianoetiche” (virtutes intellectuales), che consistono nella contemplazione del vero immutabile, quella contemplazione che per la filosofia greca realizza il vertice delle possibilità dell’uomo, come sopra s’è detto. L’approccio del teologo è diverso: egli infatti «considera come bene ultimo ciò che supera la facoltà della natura (quod est naturae facultatem excedens), cioè la vita eterna […] per cui il bene negli atti umani lo considera non in modo assoluto, perché non pone in essi il fine, ma in ordine a quel bene che pone come fine, asserendo che è buono in senso completo solo quell’atto che è ordinato prossimamente al bene finale, cioè che è meritorio della vita eterna: e ogni atto di questo tipo lo considera un atto di virtù, e qualsiasi abito emetta propriamente un tale atto viene da lui chiamato virtù»12. La virtù teologale della fede (virtus theologica) è appunto l’abito che emette tale atto e tale atto è meritorio perché l’assenso dell’intelletto ai contenuti della fede dipende dalla volontà che aderisce a Dio. Fine ultimo è l’oggetto della virtù teologale, mentre l’oggetto delle altre virtù «è costituito dalle cose che conducono al fine»13.
TOMMASO D’AQUINO, De fide, a. 3, respondeo. Ivi. 13 Ibid., ad 9. 11
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7) Il “ragionevole ossequio” e la ragione epistemica C’è da chiedersi che cosa intenda dire Paolo quando afferma che la “sapienza” dei Greci è “stoltezza presso Dio”. Vuole forse dire che la “fede” è qualcosa di opposto alla ragione filosofica? Intende forse affermare l’irrazionalità (l’assurdo) dei contenuti della fede? In un celebre passo della Lettera ai Romani Paolo afferma che l’adesione intellettuale alla verità di Cristo è un atto ragionevole: «Vi esorto […] ad offrire i vostri corpi quale ostia viva, santa, gradita a Dio, come vostro atto di culto, secondo la ragione»14. Non è dunque la ragione in quanto tale che viene respinta dall’Apostolo, quanto piuttosto una certa comprensione della ragione, quella che la promuove a criterio esclusivo della verità e dell’errore, quella cioè che rifiuta di farsi guidare ed “educare” dalla fede. Respingendo una sophía cosiffatta, la fede intende riferirsi al concetto di una ragione “purificata” e capace di portarsi fino ai livelli più alti della speculazione. È in questo contesto che si inserisce l’azione dei Padri che difesero la dottrina cristiana contro gli assalti di una ragione postasi come sola depositaria della verità e sola condizione della salvezza. Riferendosi alla filosofia cristiana dei primi secoli, nella lettera enciclica Fides et ratio si afferma che i Padri «accolsero in pieno la ragione aperta all’assoluto e in essa innestarono la ricchezza proveniente dalla Rivelazione»15. L’epistéme dei Greci è un sapere non controvertibile e il logos della filosofia è la manifestazione del non controvertibile. Ma l’epistéme e il suo logos non sono il punto di vista assoluto. Per i Greci, l’apparire del senso essenziale della realtà non risolve la totalità dell’essere e la totalità del sapere nell’epistéme, che di quel senso essenziale è la manifestazione. La sophía non è dunque onniscienza e tiene aperta una dimensione nella quale può trovare spazio di “innesto” la verità soprannaturale della Rivelazione. Per risolvere il delicato problema del rapporto tra la ragione e la fede, la teologia scolastica farà leva su questo concetto della finitezza della conoscenza umana: pur tenendo fermo il primato della fede, riconoscerà alla ragione una piena autonomia nella convinzione che lo sviluppo dell’attività razionale e il plesso delle verità non controvertibili dell’epistéme non potranno mai smentire ciò che eccede le facoltà naturali dell’uomo. 14 15
Rm 12,1. GIOVANNI PAOLO II, Fides et ratio, 41.
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Stante questa eccedenza della “verità” rivelata rispetto alla “sophía dei Greci”, il “ragionevole ossequio” di cui parla Paolo nella succitata Lettera ai Romani non può in alcun modo essere confuso con la ratio non controvertibile della filosofia. Lo stesso si dica dell’esortazione di Pietro a sostenere l’adesione a Cristo con la ragione: «Santificate Cristo nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi»16. Anche in questo caso, la “ragione” (il logos, la ratio) non può essere identificata all’evidenza di quella “sophía” che per Aristotele, come per Tommaso, è fondata sull’immediatezza logica del principio di non contraddizione e sull’immediatezza fenomenologica della manifestazione (aísthesis) di ciò che appare. Non lo può essere, pena il venir meno del carattere soprannaturale del contenuto obbiettivo della fede. A sostenere il contrario – ad affermare cioè la riducibilità del contenuto della fede cristiana alla verità della ratio naturalis – saranno i teorici della corrente filosofica che va sotto il nome di “gnosi”, fin da subito avversata dai Padri della Chiesa.
8) Il duplice tipo di verità: armonia di ragione e fede Si è detto che la “ragionevolezza” della fede non va confusa con la ragione epistemica perché questa si muove sul piano di ciò che è noto per sé. Ma il riferimento alla necessità della conoscenza razionale è qualcosa cui la fede non può rinunciare, pena la caduta nel fideismo e l’affermazione che il contenuto della fede è tale perché risulta inaccettabile dalla ragione: credo quia absurdum. Per Tommaso la fede non toglie né produce la ragione, ma la perfeziona ed è per questo che la ragione naturale deve servire alla fede: «cum enim gratia [la rivelazione, oggetto della fede] non tollat naturam [la ragione] sed perficiat, oportet quod naturalis ratio subserviat fidei»17. Alla base di tale comprensione del rapporto tra la fede e la ragione sta la possibilità di affermare che la stabilità dell’epi-stéme non coincide con la verità totale ed esaustiva. Nella Summa contra Gentiles l’Aquinate distingue, in ordine alla conoscenza di Dio, l’esistenza di due tipi di verità: «Tra le cose che affermiamo di Dio ci sono due tipi di verità [duplex veritatis modus]. Ce ne sono alcune che superano ogni capacità della ragione umana [quae omnem facultatem humanae rationis 16 17
1Pt 3,15. TOMMASO, Summa Theologiae, I, q. 1, a 8 ad 2.
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excedunt]: come, per esempio, l’unità e trinità di Dio. Altre invece possono essere raggiunte dalla ragione naturale [quae etiam ratio naturalis pertingere potest]: che Dio esiste, per esempio, che è uno, ed altre cose consimili. E queste furono dimostrate anche dai filosofi, guidati dalla luce della ragione naturale»18. La dimostrazione dell’esistenza del duplice tipo di verità appartiene al secondo tipo di verità, quella che è di pertinenza della “ragione naturale”. L’intelletto umano è legato alle condizioni della conoscenza sensibile e Tommaso afferma che, per un intelletto così definito, non è possibile arrivare a comprendere l’essenza della sostanza divina: «infatti l’intelletto umano non può arrivare a conoscere l’essenza di Dio mediante le sue capacità naturali [naturali virtute], essendo costretto nella vita presente a iniziare la conoscenza dai sensi; e quindi le cose che non cadono sotto il dominio dei sensi non possono essere capite dall’intelletto umano, se non in quanto la loro conoscenza deriva dalle cose sensibili. Ora le cose sensibili non possono condurre il nostro intelletto a scorgere in esse la quiddità della natura divina poiché si tratta di effetti che non adeguano la virtù della causa. Tuttavia dalle cose sensibili il nostro intelletto viene condotto a conoscere di Dio che esiste, ed altre perfezioni che si devono attribuire al primo principio. Ci sono dunque delle cose divine che la ragione umana può raggiungere, e altre che ne trascendono del tutto la capacità [quae omnino vim humanae rationis excedunt]»19. L’esistenza di una dimensione del divino che sfugge alla presa del sapere speculativo consente quindi a Tommaso di inserire in essa tutto il carico dei contenuti della fede cristiana e di affermare che la verità è data non soltanto dal sapere epistemico (dalla sophía dei Greci), ma anche dalla posizione di quei contenuti che portano al culmine le possibilità dell’intelligenza umana.
9) Verso la rottura dell’armonia A partire dal tardo medioevo, ma già nel pensiero di Duns Scoto, la tesi dell’armonia tra la ragione e la fede incomincia ad incrinarsi. Se tutto il contenuto della Rivelazione, che è l’oggetto della fede, è deciso liberamente da Dio, e se ciò che è deciso liberamente non è in alcun modo anticipabile, allora tale contenuto non può essere oggetto 18 19
ID., Summa contra Gentiles, c. 3. Ibid.
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del sapere epistemico che intende stabilire delle relazioni necessarie tra gli enti anticipandone infallibilmente l’accadere. Per Scoto «non esiste alcuna causa [non esiste cioè alcuna struttura immutabile e necessaria] per cui la volontà divina vuole questo piuttosto che quello, se non che la volontà è volontà e non è preceduta da alcuna causa»20. Non si tratta di affermare l’irrazionalità del contenuto della fede cristiana: la volontà di Dio vuole «in modo necessariamente razionale ed ordinato»21. Si tratta invece di contestare la pretesa di misurare la portata della razionalità divina, che è libertà assoluta, secondo i criteri della razionalità epistemica. Il tentativo del pensiero patristico e scolastico di sanare il potenziale conflitto tra la ragione epistemica e la fede nella comprensione della loro unità profonda incomincia ad essere messo in discussione. Per Tommaso la “sacra doctrina” contiene sia le verità della “ragione naturale” sia le verità soprannaturali rivelate da Dio, che solo per la debolezza dell’intelletto umano non appaiono in tutta la loro evidenza. Ma ciò che rende insofferente la “ragione naturale” è proprio questo non apparire che è strutturale alla definizione della fede. Per Scoto la “sacra doctrina” va separata dalle verità della “ratio naturalis” per la diversità della fonte della conoscenza e per la diversità dei fini: speculativo è il fine del sapere epistemico, essenzialmente pratico è invece il fine della “sacra doctrina” in quanto essa orienta l’uomo al conseguimento della vita eterna. Per Guglielmo di Occam, che radicalizza il volontarismo di Scoto, quando Dio agisce secondo una “potenza assoluta” può fare «tutto ciò che non include contraddizione»22. Non si tratta cioè di affermare che l’ambito della fede è il regno dell’assurdo, né si tratta di consegnare all’assurdo l’attività della ragione. Il richiamo all’“esperienza”, in quanto apparire degli enti, è insieme un rinvio alla centralità del principio di non contraddizione: con la “conoscenza intuitiva”, scrive Occam, «giudico non soltanto che una cosa c’è quando c’è, ma anche che non c’è quando non c’è»23. L’intento perseguito è però quello di liberare la fede dai condizionamenti della ragione naturale di cui si incomincia a mettere in questione la capacità di costruire una sintesi metempirica.
20 21 22 23
DUNS SCOTO, Opus Oxoniense, prol., q. 3. ID., op. cit., III b 32, q. 1, n. 6. GUGLIELMO DI OCCAM, Quodlibet, VI, q. 1. ID., op. cit., V, q. 5.
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Il riconoscimento che la fede è mistero eccedente ogni capacità della ragione naturale, e che l’infinita potenza creatrice di Dio è libera da ogni ordine e da ogni legge immutabile, conduce alla rottura del mirabile equilibrio raggiunto da Tommaso. L’affermazione dell’autonomia della ragione e della sua distinzione dalla fede si trasforma nell’affermazione della loro separazione. Sono gettate le premesse la cui maturazione porterà alla tesi dell’impossibile armonia tra ragione e fede (Lutero e i teologi riformati) ma anche al tentativo di deellenizzare il messaggio evangelico liberandolo dal peso ingombrante delle categorie greche e della tradizione teologico/metafisica.
10) La filosofia moderna e l’apogeo dell’epistéme In epoca moderna si è imposto il modello di una ragione separata dalla fede: il modello di una ragione, che si ritiene capace di ricostruire il sapere epistemico seguendo non altro che i propri principi, si è imposto sull’ideale di una fede che illumina le movenze della ragione stimolandola alla più alta considerazione dell’essere – ideale tomista che di fatto pone l’epistéme in condizione subordinata (ancillare) rispetto alla fede. Nel momento del suo apogeo speculativo, che coincide con l’affermarsi dell’idealismo hegeliano, l’epistéme si presenta ancora una volta come la “scienza” suprema e quindi come la via della più completa (auto)realizzazione dell’uomo. Se per Tommaso l’epistéme è una componente della scienza teologica, per Hegel, invece, l’autentica scienza teologica è l’epistéme: ad essa viene assegnato il compito di esporre niente meno che Dio «com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione di una natura e di uno spirito finito»24. Al sapere filosofico Hegel attribuisce quel primato che ad esso era stato assegnato da Aristotele, ma conferisce a tale sapere un senso dell’assolutezza che non si trova in Aristotele e che trasforma la filosofia nel sapere assoluto dell’assoluto25. Vediamone alcuni tratti.
G. W. F. HEGEL, Scienza della Logica, trad. it. di MONI – CESA, Laterza, Roma-Bari 1988, tomo primo, 31. 25 Per Hegel la verità di una proposizione non è fondata sulla manifestazione della contraddittorietà della proposizione contraddittoria (che esclude a priori la sopraggiungenza di un qualche contenuto che possa contraddire la proposizione così fondata), ma sulla posi24
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10.1) L’essenza dell’idealismo L’essenza dell’idealismo è l’affermazione dell’intrascendibilità del pensiero: è il superamento di quella comprensione tipicamente moderna del rapporto tra il pensiero e l’essere per cui si ritiene che il pensiero abbia a che fare con la rappresentazione della realtà, mentre la realtà vera e propria (la “cosa in sé”, das Ding an sich) starebbe al di fuori del pensiero. Il rilievo che l’idealismo muove contro tale presupposto è semplice ma decisivo: in quanto pensata, anche la realtà che supponiamo esterna al pensare è qualcosa di posto dal pensiero, di appartenente, cioè, all’orizzonte del pensiero. Tolto di mezzo ogni “al di là” rispetto al pensiero, il “fenomeno” (ciò che appare) resta identificato all’essere e il pensiero diventa l’Atto col quale l’essere si rende manifesto a se medesimo. Inoltre, se nulla sta “al di là” del pensiero e se non esiste alcuna realtà indipendente ed esterna rispetto al pensiero, allora il pensiero coincide con la totalità del reale. La coscienza filosofica dovrà fare i conti con questa nuova prospettiva che si apre nel momento in cui il mondo dell’“al di là” viene negato. Che ne è, ad esempio (ma è exemplum princeps, che tocca da vicino il nostro tema), del rapporto tra l’idealismo e quella forma della cultura umana che è la coscienza religiosa? L’idealismo è fondamentalmente il rilievo della contraddittorietà del concetto di un mondo che non cade sotto le rappresentazioni umane. Ma è proprio un mondo dell’“al di là” ciò che viene rappresentato nella coscienza religiosa, nella misura in cui quest’ultima, come nel caso della religione cristiana, suppone l’esistenza di una realtà suprema che esiste indipendentemente dalle rappresentazioni che di essa abbiamo – e suppone l’esistenza di una dimensione del reale che sia “altra” rispetto a quella spazio/temporale in cui l’uomo attualmente si trova. Affermazioni come questa: “Dio esiste anche se la coscienza umana non lo pensa”, suppongono l’esistenza di piani differenti della realtà. Ma l’idealismo ha mostrato che la posizione di tali piani differenti dell’esistenza è pur sempre un atto della coscienza, e che ogni realtà che sia posta al di fuori del pensiero, ogni limite del pensiero, è pur sempre un qualcosa di posto, e quindi un qualcosa che rimane all’interno della dimensione del pensiero. È la tesi della trascendentalità del pensiero: la zione della totalità del contenuto del sapere. Per l’idealismo hegeliano pensare la verità stabile e definitiva del tutto (il vero senso essenziale della realtà) significa dunque conoscere la totalità esaustiva del senso che si costruisce attraverso il processo che porta dall’astratto al concreto, dalla parte al tutto, e cioè attraverso la progressione dialettica del concetto il cui divenire «è l’attività assoluta universale, il movimento che determina e realizza se stesso» (G. W. F. HEGEL, op. cit. tomo secondo, 937).
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presa di coscienza che oltre il pensiero non si va, perché il pensiero è la stessa dimensione dell’intero, è l’orizzonte totale di ogni ente26. 10.2) Il pensare come autocoscienza dell’assoluto Se non c’è una “cosa in sé” che sia estranea o esterna al pensiero – un mondo dell’“al di là” è appunto ciò che l’idealismo di Hegel ha escluso con il massimo rigore teorico –, il pensiero sarà la stessa assoluta produzione dell’essere. Non certo nel senso che esista un pensiero che non sia già pensiero dell’essere, ma nel senso che pensiero ed essere si implicano l’un l’altro. La coscienza è sempre coscienza di qualche cosa. Ma la coscienza di qualcosa non è il dirigersi del pensiero verso qualcosa che stia al di fuori di sé (non è un mezzo, uno strumento che l’uomo usa per avere accesso alla realtà esterna); la coscienza di qualcosa è l’atto per il quale la realtà si fa trasparente a se stessa: «La coscienza di un Altro, di un oggetto in generale, è […] necessariamente autocoscienza, esser-riflesso in se stesso, coscienza di se stesso nel suo esser-altro»27. La coscienza di qualcosa è il sapersi del pensiero, ovvero autocoscienza: pensando l’essere, il pensiero pensa se stesso. E poiché non c’è un “al di là” rispetto al pensiero, il pensare è la coscienza che l’Assoluto ha di sé. A questo punto, parlare di Essere e di Pensiero vuol dire parlare della Realtà assoluta, del processo della sua autoproduzione28. 26 Per i medioevali, “trascendentali” sono quei concetti che si predicano di tutti gli enti: trascendono la natura di questo o di quell’ente di cui pure si predicano. L’“essere” è un trascendentale. Il trascendentale moderno (kantiano) è invece lo stesso che il pensiero in atto e cioè si riferisce all’universale attività del predicare. Con l’idealismo viene in chiaro che il pensiero in atto è quell’ente che è la manifestazione di tutti gli enti: non è la manifestazione di questo o di quell’ente, ma è l’orizzonte all’interno del quale appare, in qualche modo, tutto ciò che è. Se riuscissimo a dimostrare che esiste una realtà immutabile e cioè una realtà che esiste necessariamente (che non può non essere), avremmo con ciò dimostrato l’esistenza di una realtà che, quanto all’essere suo, esiste anche se il pensiero fosse niente. È ciò che intende far vedere la metafisica classica (cfr. infra par. 14). Ma, anche in questo caso, varrebbe sempre il principio che questa realtà, in quanto posta, è qualcosa che sta nell’orizzonte interale del pensiero. 27 G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, tr. it. di E. DE NEGRI, La Nuova Italia, Firenze 1987, volume primo, 138. 28 La “dialettica” definisce il senso di questa autoproduzione. Per Hegel essa resta scandita in tre momenti: 1) la Logica è il processo per cui, secondo un andamento irresistibile, puro, senza accoglier nulla dall’esterno, si costruisce e si completa l’Essenza assoluta (l’insieme delle determinazioni categoriali, dalla più semplice, l’Essere indeterminato, all’Idea della Totalità); 2) la Filosofia della Natura e 3) la Filosofia dello Spirito sono il movimento per cui la stessa Essenza assoluta, ossia il Senso razionale del Tutto, esce da sé (realizzandosi nella Natura) per ritornare presso di sé e conoscersi (chiudendosi il Circolo dell’autocoscienza) come l’Assoluto dell’essere.
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10.3) La filosofia come sapere assoluto Dal concetto della coscienza come autocoscienza prende significato l’interpretazione hegeliana delle varie forme della coscienza. Nella prospettiva idealistica qualsiasi forma della coscienza, a partire dalla più elementare (la coscienza sensibile), è pur sempre un modo in cui l’Assoluto conosce se stesso. Il contenuto della coscienza è sempre lo stesso: la Realtà assoluta, l’essere. Ciò che muta è, però, il modo in cui l’essere sta dinanzi. Pur essendo identico per quanto riguarda la cosa conosciuta, il conoscere può differire per quanto riguarda la forma con cui quel contenuto viene appreso. La coscienza sensibile, ad esempio, è apparire dell’essere, della realtà. Sennonché, in questa forma della coscienza, Dio non si conosce come Dio ma, poniamo, come “questa” pietra – pietra che, nella coscienza sensibile, viene pensata come qualcosa che sta di fronte al sapere, indipendentemente da esso. Dunque, se è vero che le figure della coscienza sono molteplici (sensibile, scientifica, artistica, religiosa, filosofica) e che ogni forma della coscienza è un modo dell’autocoscienza di Dio, è anche vero che ciascuna di esse è più o meno adeguata all’Essenza dell’Assoluto. La tesi di Hegel è che la filosofia realizza la figura del sapere assoluto, il luogo in cui accade la piena trasparenza di Dio a se medesimo. La minore o maggiore adeguatezza delle forme della coscienza a ciò che è l’Essenza assoluta resterà pertanto stabilita in relazione a questo sapere assoluto29.
11) Idealismo e coscienza religiosa Tutto ciò determina il quadro all’interno del quale si colloca, per Hegel, il tema della coscienza religiosa. Siamo qui dinanzi ad un modo emergente secondo il quale Dio prende coscienza di sé. Emergente, perché qui Dio è inteso, precisamente, come l’Assoluto. La coscienza sa di avere Dio dinanzi a sé: «L’oggetto della religione è […] il più alto, l’Assoluto»30. Ciò risulta chiaro nella prospettiva della religione cristiana, dove l’Assoluto si fa presente come autocoscienza, ossia come vero uomo che è insieme vero
29 Sarà la “dialettica” a rilevare il limite di ciascuna delle posizioni non adeguate a ciò che è l’Essenza assoluta e a segnarne il necessario superamento. 30 G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della religione, a cura di E. OBERTI e G. BORRUSO, Zanichelli, Bologna 1973, volume primo, 59.
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Dio. Ma la religione non è il grado più alto di autocoscienza dello spirito. Per Hegel la non adeguatezza della coscienza religiosa, e cioè il limite della sua apprensione dell’“oggetto più alto”, consiste nel ritenere tale “oggetto” separato dalla coscienza del credente. Nella religione Dio vede se stesso come l’“assolutamente altro” e si pensa nella forma della rappresentazione sensibile: come contenuto che si riferisce ad un singolo uomo, esistito in un determinato momento della storia. «Quel che ancor resta da fare [perché la coscienza giunga a sapersi come l’Assoluto] è solo il superamento di questa mera forma [della rappresentazione]»31. Ciò accade nella coscienza filosofica: qui l’Assoluto è saputo come Assoluto, nella forma del concetto, ossia come unità intrascendibile di Pensiero e di Essere. Alla base dei misteri soprannaturali della religione ci sono dunque le verità speculative della filosofia. Nella religione e nella filosofia il contenuto è il medesimo, ma è nella filosofia che tale contenuto prende piena coscienza di sé. Giunta al culmine della sua potenza, l’epistéme afferma, in modo perentorio, che la filosofia è la verità della religione32.
12) Nota sull’idealismo 12.1) Quanto s’è detto finora a proposito dell’idealismo si riferisce al risultato della speculazione di Schelling e, soprattutto, di Hegel. Perché è Schelling che ha negato l’esistenza della cosa in sé, mentre è Hegel che ha dato all’idealismo quella speciale curvatura teorica rispetto alla quale il pensiero contemporaneo ha preso le distanze. Fichte rimane vincolato ad una prospettiva ancora kantiana e perciò ancora “realistica” – dove il termine “realismo” sta qui ad indicare la persuasione che l’essere sia esterno ed indipendente rispetto al pensiero. E questo perché la netta consapevolezza della contraddittorietà del concetto della “cosa in sé” (netta consapevolezza che è certo un passo in
ID., Fenomenologia dello spirito, op. cit., vol. secondo, 287. Di contro alle tendenze del teismo illuministico, che portava alla svalutazione di tutto ciò che non fosse riconducibile nei limiti della semplice ragione (lo stesso Kant non riconosceva alle dottrine cristiane altro valore che non fosse quello dato dal loro contenuto morale), Hegel considera invece il fenomeno religioso come un momento autentico all’interno del processo dell’autocoscienza divina. In questo senso la complessità dell’atteggiamento religioso è momento imprescindibile del processo di autoconsapevolezza culminante nella coscienza filosofica.
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avanti rispetto a Kant)33 non si traduce, in Fichte, nell’abolizione teoretica della “cosa in sé”, e cioè nel riconoscimento della sua inesistenza, ma nell’affermazione che l’Io consiste essenzialmente nel processo indefinito e mai concluso del toglimento della “cosa in sé” (il non-Io), ossia dell’eliminazione pratica della “cosa in sé”34. 12.2) In effetti, l’Io di Fichte non è Dio, ma ha il compito infinito di diventare Dio. Non è Dio, non coincide con la Realtà assoluta, perché ha qualcosa al di fuori di sé che lo limita e ne fa un che di finito. Se c’è una coscienza, scrive Fichte, è necessario un “urto” del non-Io sull’Io, ossia «una originaria reciprocità d’azione tra l’Io e una qualche cosa posta fuori di esso [il non-Io, la “cosa in sé”], della quale non si può dire null’altro che questo: che essa deve essere affatto opposta all’Io. In questa reciprocità d’azione, nulla è portato nell’Io, nulla di eterogeneo è introdotto; tutto ciò che si sviluppa in esso fino all’infinito, si sviluppa esclusivamente dall’io stesso, secondo le sue proprie leggi; quell’opposto non fa che mettere in movimento l’Io per l’azione; e senza tale primo motore al di fuori di lui, l’io non avrebbe mai agito […], non sarebbe neppure esistito»35. Il contenuto che cade all’interno della coscienza è tutto prodotto dall’Io: è posizione dell’Io non solo la struttura formale degli eventi del mondo (le categorie), ma anche il molteplice empirico dell’intuizione spazio-temporale. Per questo verso, l’Io non dipende dal non-Io. E tuttavia l’Io è dipendente dal non-Io quanto all’esserci di tali determinazioni: senza un’originaria reciprocità d’azione tra Io e non-Io, l’Io come
33 «La cosa in sé [il Non-io in quanto assolutamente opposto all’Io] è qualcosa per l’io, e quindi nell’io, ma che tuttavia non dev’essere nell’io: quindi qualcosa di contraddittorio, ma che tuttavia, come oggetto di un’idea necessaria, deve esser posta a base di tutto il nostro filosofare» (J. G. FICHTE, La dottrina della scienza, trad. it. di A. TILGHER, riveduta da F. COSTA, Laterza, Bari 1971, 223). 34 Per questa interpretazione del pensiero di Fichte – interpretazione che contesta il luogo comune della filosofia di Fichte come espressione dell’“idealismo” – rinvio al testo di E. SEVERINO, Per un rinnovamento nella interpretazione della filosofia fichtiana, La scuola, Brescia 1960. Lo stesso testo è stato ripubblicato di recente in ID., Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano 2005, 291-424. Fichte ha certamente denunciato il carattere contraddittorio della “cosa in sé”. Tuttavia egli «non ha mai inteso negare (e non ha mai di fatto negato) la cosa in sé kantiana [neppure nei Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre del 1794] e non ha mai inteso sostenere (e non ha mai effettivamente sostenuto) che l’io sia l’assoluto e il principio produttore di ogni realtà» (p. 7). L’affermazione della assolutezza del “pensiero” non è tesi fichtiana. Ritengo che la proposta interpretativa di Severino sia senz’altro persuasiva. 35 J. G. FICHTE, op. cit., 220-221.
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autocoscienza non sarebbe. Perché l’Io possa essere attualmente Io (ossia autocoscienza, posizione di sé e di ciò che è altro da sé) è necessaria l’azione limitante di un Motore (il non-Io, appunto). La scienza può certo riflettere su questa realtà indipendente e farne un contenuto dell’Io. Ma, in questo modo, non si fa che allargare il circolo della coscienza che, per esistere, richiede, come ogni coscienza, l’esistenza di qualcosa indipendente da essa: «Questo fatto, che lo spirito finito deve necessariamente porre al di fuori di sé qualcosa di assoluto (una cosa in sé), e, tuttavia, dall’altro canto, riconoscere che questo qualcosa esiste solo per esso (è un noumeno necessario), è quel circolo che lo spirito può infinitamente ingrandire, ma dal quale non può mai uscire»36. Dove il circolo è la contraddizione originaria della posizione della “cosa in sé” che, per Fichte, può essere tolta solo mediante una decisione assoluta della ragione, la decisione con la quale l’Io vuole essere infinito. 12.3) A Schelling va il merito di aver tolto definitivamente la cosa in sé kantiana e di aver dato inizio alla stagione idealistica. «È giunto il momento – egli scrive – di confutare completamente l’assioma che le cose agiscano su di noi dal di fuori. Ci si chieda una buona volta: che cosa sono le cose fuori di noi, indipendenti dalle nostre rappresentazioni? […]. Certamente non ci si è mai presi la briga di meditare quale rappresentazione si abbia veramente di tali cose. Il rispondere che non sono rappresentabili è una via di scampo che si taglia subito. Se se ne parla, bisogna pure averne una rappresentazione, oppure si parla di cosa di cui non si deve parlare […]. In realtà si stenta a credere che possa essere stata concepita dalla mente di un uomo una tale sintesi contraddittoria di cose che, private di tutte le determinazioni sensibili [perché espressamente separate dal tempo e dallo spazio, forme della facoltà rappresentativa degli enti finiti], ciononostante devono agire come cose sensibili»37. A differenza di Fichte che afferma l’esistenza della cosa in sé (del non-Io, dell’“Assoluto”), pur riconoscendo la contraddittorietà del suo concetto, Schelling afferma l’assoluta inesistenza della “cosa in sé”, proprio perché riconosce in essa il contenuto di un concetto contraddittorio.
Ibid., 222. F. W. J. SCHELLING, Introduzione alle idee per una filosofia della natura, in ID., L’empirismo filosofico e altri scritti, a cura di G. PRETI, La Nuova Italia, Firenze 1967, 23-24. 36 37
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Tolta la “cosa in sé”, non resta che il “fenomeno” al quale l’idealismo restituisce la piena dignità ontologica: ciò che appare è l’essere. Di conseguenza la “natura”, quale si mostra nell’esperienza, non è più pensata da Schelling (e dall’idealismo) come la pensava Fichte, ossia come un’oggettività declinata in senso soggettivo – perché appartenente alla dimensione del soggetto, che lascia fuori l’“in sé” delle cose – ma come il momento dell’oggettività simpliciter: la “natura” è l’oggetto, è l’essere in senso pieno. Tolta la “cosa in sé”, resta anche tolto ogni limite all’attività produttiva dell’Io puro di Fichte. Ed ecco che, allora, Principio di ogni realtà non sarà più un Io piuttosto che un non-Io, ma qualcosa che si realizza come Io e come non-Io, tanto come coscienza quanto come natura; qualcosa che è al di sopra della distinzione tra soggetto e oggetto ed è dunque Indifferenza di soggetto e oggetto38.
13) La filosofia contemporanea e la crisi dell’epistéme Buona parte della filosofia contemporanea è una critica dell’idealismo. Sarà contestata, in particolare, la pretesa sistematica dell’idealismo e il suo porsi come senso definitivo ed esaustivo del divenire del mondo. Più in generale, sarà messa in questione e, da ultimo, negata, la possibilità stessa dell’esistenza di una legge del divenire cui la realtà debba adeguarsi39. La presa di distanza dall’epistéme sarà insieme la presa di distanza nei confronti della teologia cristiana e della fede nella misura in cui quest’ultima attribuisce a se stessa il tratto tipico dell’epistéme: l’affermazione della “verità” del proprio contenuto. Se infatti l’intelligenza della
L’Io puro di Fichte è produttore della coscienza e della natura e, in tal senso, è indifferenza di soggetto e di oggetto. Ma l’Io di Fichte si configura soggettivamente, perché lascia pur sempre al di là l’ambito della “cosa in sé”. Con Schelling (e con l’idealismo) si compie il processo dell’eliminazione della “cosa in sé” per cui l’indifferenza di soggetto e di oggetto, di spirito e di natura, non è più intesa come un’indifferenza soggettiva, ma come un’Indifferenza assoluta che si esistenzia nelle concrete determinazioni dello spirito e della natura. Per lo sviluppo della filosofia di Schelling e per la critica hegeliana alla tesi dell’Assoluto come Indifferenza assoluta, si rinvia ai capitoli 7 e 14 della parte seconda di questo studio. 39 Ad essere messo in questione sarà pure quel significato trascendentale del pensiero che abbiamo preso in considerazione: l’affermazione che il pensiero non è un ente tra gli enti, ma è l’orizzonte all’interno del quale tutti gli enti appaiono. Si dirà che vi sono degli orizzonti più originari ancora del pensiero: i rapporti di produzione (Marx), la volontà (Schopenhauer, Nietzsche), l’inconscio (Freud), il linguaggio (Heidegger), sicché la verità del pensiero è di essere il risultato di un processo che gli sta alle spalle e che lo condiziona. 38
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fede non può mostrare l’impossibilità di negare il suo contenuto (giacché “non appare” l’impossibilità della sua negazione), è tuttavia indubbio che la stessa fede, in quanto poggiante sulla rivelazione, tende a porsi come il punto di vista supremo, come l’ultima parola subordinante ogni altra forma di sapere e di giudizio sul mondo. Si capisce allora che il movimento, che spinge il pensiero contemporaneo al gran rifiuto dell’epistéme, andrà ad investire anche la fede, per quel tanto che essa porta con sé il timbro della assolutezza e della non dubitabilità: il timbro dell’epistéme. Si fa allora urgente capire per quale ragione il pensiero contemporaneo sostenga la necessità di portare al tramonto le forme immutabili della filosofia tradizionale. Per la comprensione di questo passaggio cruciale si deve, ancora una volta, tornare alla lezione della filosofia greca.
14) La metafisica classica e l’eteronomia del divenire La logica epistemica procede secondo questo schema generale: l’esistenza del diveniente implica l’esistenza dell’immutable. Per la metafisica classica è necessario pensare che la totalità della realtà diveniente implichi una realtà non diveniente. Per via dell’identità intenzionale di pensiero e di essere, questa necessità del pensiero è una necessità che si riferisce all’essere stesso: è necessario che esista una realtà “altra” rispetto alla totalità dell’essere diveniente. Il che significa: la tesi dell’identità della totalità dell’essere diveniente e della totalità del reale è contraddittoria. La costruzione della sintesi metempirica (sintesi che oltrepassa l’essere diveniente ponendolo in relazione al suo fondamento immutabile) rinvia, da ultimo, alla verità del principio di non-contraddizione. Vediamo, in breve, per quali ragioni Aristotele, e poi Tommaso, escludono la possibilità di identificare il divenire alla totalità del reale. 14.1) La soluzione di Aristotele Alla base sta il teorema del primato dell’atto sulla potenza. Possiamo dire così: tutto ciò che sopraggiunge deve essere già in atto. Le perfezioni che sopraggiungono devono essere già in atto altrimenti verrebbero dal nulla. Ma non possono essere già in atto nella realtà rispetto alla quale il sopraggiungente sopraggiunge, altrimenti quella realtà sarebbe già in atto in relazione al sopraggiungente e non vi sarebbe divenire. Se adesso consideriamo la totalità della realtà diveniente, allora possiamo capire per quale ragione Aristotele poteva escludere l’autono-
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mia del divenire ed affermare che la totalità del reale (chiamiamola Tr) non è identica alla totalità della realtà diveniente (chiamiamola Td). Se infatti Td fosse identica a Tr, allora qualcosa dell’essere verrebbe dal nulla (verrebbe dal nulla il sopraggiungente e anche la sintesi tra il sopraggiungente e ciò rispetto a cui il sopraggiungente sopraggiunge) e il nulla sarebbe un che di positivo: sarebbe il principio della derivazione del sopraggiungente. Ma il nulla è nulla e non può essere principio di alcunché. La dimostrazione si risolve da ultimo in una riconduzione al principio di non-contraddizione. Perché dal nulla non viene nulla? Perché il nulla è nulla e l’essere non è il nulla. Affermare l’identità di Tr e di Td significa pensare contraddittoriamente che il nulla è un che di positivo: significa entificare il nulla. Dunque, il divenire non può essere la totalità del reale. C’è dell’altro: ci deve essere anche la realtà che contiene in atto la totalità delle forme che sopraggiungono nella realtà diveniente. Per Aristotele ci devono essere le ben note 55 intelligenze soprasensibili che sono eterne come eterni sono i cieli (qui Aristotele risente della cosmologia del suo tempo). La dimensione del divino culmina nel Primo Motore Immobile che «è uno e per forma e per numero»40. 14.2) Il limite della soluzione di Aristotele Il pensiero medioevale porta a compimento questo schema di dimostrazione dell’esistenza di una sostanza soprasensibile e immutabile rilevando un limite che ne condiziona la piena intelligenza. Il superamento di questo limite rappresenta senz’altro uno sviluppo dell’epistéme all’interno della cultura cristiana, sicché possiamo dire che è all’interno di tale cultura che la sophía dei Greci trova il proprio compimento. Il limite rilevato si riferisce al rapporto tra il diveniente e l’immutabile: la dottrina aristotelica lascia infatti sussistere un dualismo tra il mondo e Dio intesi come tali per cui ognuno dei due ha una positività che l’altro non contiene. A costituire la totalità del reale (Tr) è, propriamente, la sintesi tra il Motore Immobile (chiamiamolo MI) e la totalità della realtà in divenire (Td). In formula: Tr = MI +Td. In questa situazione, l’essere immutabile, l’atto puro, viene pensato come privo di quel grado di realtà che appartiene alla dimensione del divenire, la quale contiene una positività (quella della realtà materiale: la materia prima) che non dipende dall’atto puro. Ma l’esistenza di una realtà indipendente dall’atto puro determina in esso un certo grado di 40
ARISTOTELE, Metafisica, XII, 8, 1074 a 36-37.
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potenzialità: l’atto puro (inteso come atto puro dell’essere) sarebbe manchevole di qualcosa e cioè sarebbe in potenza rispetto a quella realtà che gli sta al di là. In una parola, non sarebbe atto puro. Inoltre la totalità del reale (Tr = MI +Td) sarebbe diveniente perché il sopraggiungere di nuove sintesi nella totalità della realtà diveniente (in Td) determinerebbe un incremento di essere (di positività) nella stessa totalità del reale (in Tr). 14.3) La soluzione di Tommaso d’Aquino Per la soluzione dell’aporetica del rapporto tra il mondo e Dio si tratta di concepire la realtà diveniente (il mondo) come interamente dipendente dall’intero immutabile (da Dio), altrimenti l’Immutabile sarebbe privo di una certa positività: si tratta cioè di pensare che la realtà diveniente, pur essendo altro rispetto all’Immutabile, è qualcosa che non aggiunge nulla all’intero immutabile. Si introduce qui il concetto per cui l’alterità tra due termini non implica necessariamente che nell’uno sia contenuta una positività che l’altro non contenga. La soluzione di Tommaso (ma già di Agostino) consiste nel pensare la realtà diveniente come totalmente creata ossia totalmente costituta dall’atto creatore, senza residui: tutta insidente nell’atto creatore (rispetto al quale non si dà alcun incremento o decremento dell’essere) e ipostaticamente distinta da esso. Questa costituzione deve essere anche libera: non deve essere qualcosa che procede necessariamente dalla natura di Dio (come accade nell’emanazione dei neoplatonici) perché, in questo caso, Dio sarebbe legato al diveniente secondo necessità e il mondo emanato verrebbe a costituire una sorta di integrazione di Dio, una sua ulteriore attuazione. Dunque, la realtà diveniente esiste solo in quanto il Motore Immobile è. Non solo: il Motore Immobile è, anche se la realtà diveniente non è. Se pensiamo alla totalità del reale (Tr) come inclusiva della totalità della realtà diveniente e del Motore Immobile (Tr = Td + MI ), dobbiamo pensare che essa (e cioè Tr) non contiene nessuna positività che non sia contenuta nel Motore Immobile (in MI), sicché l’Immutabile, pur essendo altro dalla realtà diveniente, non è parte della totalità del reale. Ciò significa che la realtà diveniente non appartiene necessariamente alla totalità del reale41. 41 A questo proposito, Tommaso afferma che la relazione tra l’Immutabile e il diveniente non può essere intesa in senso bidirezionale. Motore e mosso sono termini correlativi, come lo sono causa ed effetto, ma tra Dio e le creature non possono esistere relazioni reali. Infatti, «poiché relative sono quelle entità “che secondo il loro essere dicono rapporto ad
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15) La fede cristiana e il compimento della sophía dei Greci Nel libro della Genesi si dice che Dio “creò” il cielo e la terra42. Il termine ebraico “ba¯ra¯’” significa propriamente “mettere in opera”, “fare”, “produrre”. Ma qual è il significato di questo “produrre”? Il punto decisivo è che il testo veterotestamentario non contiene ancora quell’ontologia esplicita che viene testimoniata dal pensiero greco. Il primo linguaggio ontologico, il primo linguaggio che testimonia la contrapposizione infinita dell’essere e del nulla è il linguaggio della filosofia greca. Non conosciamo un pensiero che si sia riferito all’essere e al nulla così come all’essere e al nulla si sono riferiti i Greci e cioè in termini di assoluta contrapposizione. Il termine essere, come il termine non-essere, compare anche prima dell’avvento della filosofia. Compare, ad esempio, nel linguaggio dei Veda, che sono i testi sacri della religione induista, e compare nel linguaggio del mito: si trova in Esiodo e in Omero. Ma che cosa significa
altre cose” come scrive il Filosofo [cfr. Aristotele, Categorie, 7], bisognerebbe che l’essenza di Dio, per quello che è, fosse in rapporto ad altro. Ma ciò che è in queste condizioni deve dipendere in qualche modo dall’altro, non potendo né esistere né intendersi senza di esso. Bisognerebbe quindi che l’essenza di Dio dipendesse da una realtà estrinseca. Cosicché egli non sarebbe una realtà necessaria» (Summa contra Gentiles, II, 12). Il che significa che la creatura non aggiunge nulla al Creatore ma ne dipende totalmente, in modo che essa potrebbe non essere. La relazione tra Dio e la creatura va intesa in senso unidirezionale: dalla creatura si può risalire al Creatore, ma non viceversa. La via platonica-neoplatonica-hegeliana (dall’Uno ai molti) è impraticabile: non si può dedurre il mondo da Dio perché l’Immutabile non è legato al diveniente secondo necessità. Se il diveniente esiste, esiste per una libera decisione dell’Immutabile. Scrive Gustavo Bontadini: «Dio + mondo = Dio, falso che Dio + mondo sia maggiore di Dio» (Sull’aspetto dialettico della dimostrazione dell’esistenza di Dio, in Conversazioni di metafisica, op. cit., Tomo II, 194). L’inesistenza di relazioni reali tra Dio e la creatura (che introdurrebbero il divenire nel seno dell’Immutabile) non significa che Dio se ne stia in una regione separata dal diveniente, all’oscuro di ciò che accade in questo mondo. Al contrario, proprio poiché Dio è perfetta conoscenza di Sé, conosce perfettamente anche la realtà di ciò che è altro da Sé: «Siccome Dio conosce se stesso perfettamente, niente impedisce che egli conosca la somma degli enti infiniti, summa infinitorum» (TOMMASO, Summa contra Gentiles, I, 69). Conosce gli enti infiniti: gli infiniti «della stessa specie, come infiniti uomini, o di infinite specie» (Ibi) e conosce gli enti che sono infiniti secondo la quantità e persino gli infiniti non esistenti. Questa conoscenza totale e perfetta di sé lega in qualche modo il Creatore alla creatura: «Ora, quanto più perfettamente viene conosciuto un principio, tanto più perfettamente in esso si conosce il suo effetto, in quanto le cose che derivano da un principio sono contenute nella potenza del principio. Quindi, dato che […] il cielo e tutta la natura dipendono dal primo principio che è Dio, è chiaro che Dio, conoscendo se stesso, conosce tutte le cose» (ID., Commento alla metafisica, 2615). 42 Gen 1.
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“essere” nel linguaggio del mito? Significa lo stare lì innanzi? La possibilità di essere toccato? La possibilità di essere avvicinato? E che cosa significa “non-essere”? Il non essere presente? L’essere in un’altra dimensione? Il fatto è che il mito non è una riflessione esplicita sul senso dell’essere e del non-essere. È solo con l’avvento della filosofia che il significato di queste parole (essere e non-essere) assume quella valenza ontologica per cui si intende l’assoluta contrapposizione dell’essere e del non-essere, dell’essere e del nulla, dell’essere e del nihil absolutum (Parmenide). È cioè la filosofia greca che ha evocato per la prima volta queste categorie. Quando san Paolo afferma che Dio creò l’universo (epoíesen tùs aiônas)43 per opera del Figlio, irradiamento della gloria del Padre, il concetto di “creazione” viene già letto dall’Apostolo alla luce dell’ontologia esplicita elaborata dalla sophía dei Greci – quell’ontologia esplicita che ha pensato il significato dell’essere e della sua infinita contrapposizione al nulla. Al Cristianesimo appartiene pure l’idea veterotestamentaria della libertà assoluta di Dio nell’atto della creazione del mondo: la fede cristiana, che ha assimilato le categorie di fondo del pensiero greco, insegna che la “creazione” dell’universo è un atto libero. Lo sviluppo dell’epistéme all’interno della cultura cristiana consiste essenzialmente in questo: nell’aver mostrato che il concetto di una creazione libera dell’universo intesa come «productio rei ex nihilo sui et subjecti»44, e cioè come produzione della realtà dal nulla di sé e di un sostrato preesistente, è non solo un contenuto (una verità) di fede ma anche un contenuto (una verità) della ragione epistemica.
16) L’epistéme e il senso inaudito del divenire del mondo Il senso del non controvertibile – e dunque il senso della stabilità del sapere epistemico – può emergere soltanto se ci si eleva al pensiero della totalità dell’essere come ciò che non lascia nulla al di fuori di sé (cfr. par. 3). Il non controvertibile è ciò che riesce ad imporsi, a “stare sopra” rispetto alla propria negazione. Ma non si può comprendere il senso di
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Eb 1,2. TOMMASO, S. Th., I. q. 45, a. 1.
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questo “stare sopra” dell’epi-stéme se non in relazione al divenire del mondo e cioè in relazione a quel dinamismo che il sapere stabile intende controllare. In altri termini, l’elaborazione del concetto di epistéme va di pari passo con l’elaborazione del concetto del divenire che i Greci hanno inteso come un processo in cui qualcosa di ciò che diviene si annulla o proviene dal nulla. Platone scrive che l’ente che diviene è qualcosa che «insieme è e non è»45: se fosse legato necessariamente all’essere, sarebbe un che di eterno; se fosse legato necessariamente al non-essere, sarebbe un niente. Ma divenire vuol dire precisamente questo e cioè essere legati all’essere e al non essere: un essente è diveniente se, per l’appunto, oscilla tra l’essere e il non-essere e perciò di esso si può dire che è “insieme” un essere e un non-essere. Questo essere “insieme” (háma) non sta ad indicare la “simultaneità”, ma l’“unità” di essere e di nonessere, la circostanza per cui il diveniente è legato all’essere e al nonessere46. Appare quindi che, ad essere inaudito, non è soltanto il modo in cui i Greci hanno pensato il senso del non controvertibile. Inaudito è anche il modo in cui i Greci hanno concepito il divenire e cioè quella dimensione che l’epistéme cerca di tenere sotto controllo. Se infatti l’uomo non ha dovuto aspettare l’avvento della filosofia greca per accorgersi che le cose divengono (perché se n’è sempre accorto), dobbiamo però riconoscere che il senso ontologico del divenire può essere pensato solo alla luce di una esplicita riflessione intorno all’essere, al non essere e alla loro infinita contrapposizione.
17) Il divenire del mondo e l’essenza della filosofia contemporanea Anche per la filosofia contemporanea il divenire è l’oscillare delle cose tra l’essere e il non essere e, come per i Greci, anche per la filosofia contemporanea il divenire è ciò che è supremamente evi-
PLATONE, Repubblica, V, 478 d. Nel termine háma c’è la radice che si trova anche in hêis mía hév (uno). La prima triade della logica di Hegel (essere-nulla-divenire) parla del divenire in senso puramente categoriale (logico) e ne parla nei termini di una sfrenata inquietudine, come di un passare dall’essere al non-essere e viceversa. Gentile definirà il divenire come divenire del pensiero che è l’evidenza «di quell’essere che non è, e di quel non essere che è» (Sistema di logica come teoria del conoscere, Parte prima, cap. IV, par. 8). Insieme ad Aristotele, Tommaso definisce il divenire nei termini di una trasmutatio ad esse e di una corruptio ad non esse. 45 46
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dente47. Tuttavia il pensiero contemporaneo ritiene che la riflessione epistemica sul divenire ne renda alla fine incomprensibile il concetto. Si noti il rovesciamento della prospettiva: il sapere epistemico afferma che il divenire esiste ed è intelligibile soltanto se compreso nella sua relazione all’Immutabile; il pensiero contemporaneo afferma invece che la dimensione non controvertibile, evocata dalla ragione epistemica (la verità definitiva, l’immutabile), rende impossibile il divenire del mondo e ritiene pertanto che il divenire esista e sia intelligibile soltanto a condizione che non esistano forme e strutture immutabili. Si tratta di capire che, nella sua essenza più profonda, il pensiero contemporaneo non è affatto un pensiero debole. Al contrario, è un pensiero forte che si appoggia all’evidenza suprema del divenire. Diviene debole nella misura in cui si persuade di non avere alcun argomento decisivo a sostegno delle proprie tesi e cioè nella misura in cui non riesce ad avvertire il nesso tra l’affermazione del divenire e la negazione di ogni verità non controvertibile che sia diversa dall’affermazione non controvertibile del divenire. Quando la filosofia contemporanea scende nel profondo della sua essenza, allora ne scorge la forza: scorge la logica che conduce alla negazione dell’immutabile epistemico e cioè l’affermazione che, ad escludere l’esistenza delle forme e delle strutture immutabili, è la verità assolutamente non controvertibile del divenire del mondo. Caso paradigmatico di questo andare in sé in della filosofia contemporanea è la critica che il filosofo neoidealista Giovanni Gentile muove alla filosofia tradizionale.
18) Le ragioni della filosofia contemporanera: l’idealismo di Giovanni Gentile 18.1) Per Gentile il divenire è quella suprema evidenza che in effetti è, solo se inteso come divenire del pensiero in atto: «Mirate con fermo Nel corso della storia della filosofia, il senso del divenire evocato dai Greci rimane immutato. Ciò che muta è il contesto della sua collocazione. Per la filosofia antica il divenire è, innanzi tutto, il divenire della realtà fisica. Per la filosofia moderna il divenire, che originariamente appare, è il divenire del pensiero e delle determinazioni del pensiero. La filosofia contemporanea, dopo la cosiddetta svolta linguistica, penserà al divenire come al divenire del linguaggio, sostenendo che l’essere appare sempre all’interno della parola: nel linguaggio le cose vengono di continuo trasformate, vengono cioè fatte passare dal non essere all’essere. Dunque, cambia il contesto, ma il senso del divenire come oscillazione, come contesa tra l’essere e il nulla (il senso greco del divenire), rimane costante.
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occhio a questa vera e concreta realtà che è il pensiero in atto; e la dialetticità del reale vi apparirà evidente e certa come certo ed evidente è a ciascuno di noi l’aver coscienza di ciò che pensa»48. Gentile intende mostrare che “la dialetticità del reale”, ossia il “divenire”, di cui si riconosce il carattere della “certezza” e della “evidenza”, altro non è che il divenire del “pensiero in atto”. A prescindere da questa identificazione, il divenire non è pensabile: «Il divenire non è intelligibile come legge della realtà se non quando la realtà si sia immedesimata col pensiero»49. Si badi: il divenire è inteso grecamente come unità dell’essere e del non essere. Ma occorre liberarne il concetto da una comprensione inadeguata – e inadeguata è ogni sua comprensione che lo collochi in un ambito che non sia quello del pensiero in atto. Perché inadeguata? Perché, anziché rendere ragione del divenire, lo rende impossibile. «Ma, quando si sia capito che tal concetto può essere pensato soltanto come pensiero del pensiero […], allora nulla più evidente di quell’essere che non è, e di quel non essere che è, in cui questa categoria consiste»50. Pensare il divenire come unità di essere e di non essere significa pensare il divenire come un processo in cui il novum che sopraggiunge non è in alcun modo anticipato e predeterminato da ciò che esiste già. Se esistesse una dimensione presupposta e indipendente rispetto alla realtà del divenire, ossia rispetto al pensiero in atto, allora tale dimensione predeterminerebbe tutto ciò che può sopraggiungere, perché il sopraggiungente dovrebbe ad essa conformarsi. L’anticipante “entifica” ciò che è ancora un niente: l’anticipazione può raggiungere infallibilmente qualcosa solo se questo qualcosa non è un niente. Ma, in quanto così raggiunto e rispondente al senso di ciò che lo precede e lo anticipa, questo “non-niente” è qualcosa di inserito nel senso del già esistente, qualcosa che presta ascolto all’anticipante, qualcosa il cui sopraggiungere non dice nulla che non sia già contenuto (quanto all’essenziale) in ciò che lo precede. A questo punto, il suo sopraggiungere come un novum risulta compromesso.
G. GENTILE, Teoria generale dello spirito come atto puro, Laterza, Bari 19244, cap. IV, par. 18. 49 ID., Sistema di logica come teoria del conoscere, Laterza, Bari 19232, volume secondo, parte terza, cap. V, par. 6. 50 Ibid., volume primo, Parte prima, cap. IV, par. 8. 48
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18.2) La sopraggiungenza del novum è ciò che sta sotto gli occhi di tutti ed è pertanto innegabile. Scrive Gentile: «Ora è evidente che, se noi pensiamo il pensiero umano come condizionato dal pensiero divino [realtà indipendente dal pensiero umano], noi riproduciamo per il pensiero umano quella medesima situazione per cui esso si trova di fronte alla natura materiale, alla natura come la considerava la filosofia antica, presupposto del pensiero, realtà che non riceve incremento dallo sviluppo del pensiero. Realtà, concepita la quale, non sarà più possibile concepire il pensiero umano; poiché una realtà che, di fronte il pensiero, non cresca, non continui a realizzarsi, è una realtà la quale non si può concepire se non escludendo la possibilità di concepire questa presunta o apparente nuova realtà, che sarebbe poi il pensiero»51. Non sarà più possibile concepirla come quell’essere che non è, e quel non essere che è, in cui consiste e l’esperienza originaria del divenire, che è divenire del pensiero. Pensare al divenire in termini di essere e di non essere significa pensare al divenire come alla dimensione in cui sopraggiunge qualcosa di nuovo. Ma che cosa vuol dire “qualcosa di nuovo”? Vuol dire qualcosa che, prima di sopraggiungere, era niente, per lo meno per qualche suo aspetto. Il sopraggiungere di qualcosa può essere percepito come una novità solo perché il qualcosa è stato un niente. Il novum è davvero tale (rappresenta cioè davvero una novità) se non è in alcun modo anticipato o predeterminato dal già esistente perché, ciò che è anticipato e predeterminato, in quanto è anticipato e predeterminato, non può sopraggiungere come un novum. Una realtà presupposta al pensiero in atto, ossia una realtà preesistente al divenire del pensiero in atto, ne predetermina lo sviluppo e ne fa qualcosa di puramente accidentale, di inessenziale. Ciò perché l’essenziale sta già tutto lì, fuori del pensiero, nella realtà preesistente. Ma torniamo al testo di Gentile: «Il pensiero antico aveva […] questo difetto, di essere, rigorosamente concepito, niente: e la filosofia moderna, chi ben consideri, afferma semplicemente, con ogni discrezione, questa modestissima esigenza, che il pensiero sia qualche cosa; quantunque poi, nell’approfondire il concetto di questa esigenza, la filosofia moderna senta la necessità di affermare il pensiero, non semplicemente come qualche cosa, come solo un elemento, e quasi un’appendice della realtà, anzi piuttosto come totalità o Realtà assoluta»52.
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ID., Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., cap. I, par. 3. Ibid., par. 4.
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La tesi di Gentile si può riassumere così: una volta che sia affermato il divenire come oscillazione tra l’essere e il non essere, e quindi come innovazione, il divenire è destinato ad essere inteso non più come una parte del tutto ma come il tutto; non più come un elemento, un’appendice della realtà, ma come la totalità o la realtà assoluta. L’evidenza del divenire porta al tramonto tutto ciò che si colloca al di fuori del luogo in cui si manifesta il divenire. E qual è il luogo originario in cui si manifesta il divenire? È il pensiero in atto. Di qui l’identità del pensiero in atto e della totalità del reale. 18.3) Ciò che l’evidenza del divenire non sopporta è che il niente, da cui le cose emergono, sia anticipato in una anticipazione che le rende dei già esistenti e che quindi vanifica il divenire. In quanto preesistenti e indipendenti rispetto al divenire del pensiero in atto, tanto la “natura materiale” quanto il “pensiero divino” sono degli immutabili la cui esistenza rende inintelligibile la sopraggiungenza del novum. Il “pensiero divino” è poi la forma emergente dell’Immutabile: è la stessa pienezza del reale (omnitudo realitatis). Se tutto l’essere esiste già in Dio, non vi è nulla che possa realmente divenire e dunque il divenire del pensiero sarebbe apparenza; alle spalle del sopraggiungere non ci sarebbe il niente ma il senso supremo del tutto. Se esistesse l’Immutabile, l’evidenza del tempo e di tutto ciò che è perituro sarebbe solo menzogna, dirà Nietzsche, e questo perché l’Immutabile è l’“Uno”, l’“Immoto, l’“Imperituro” che non manca di nulla e che occupa da sempre tutti gli spazi dell’essere, da sempre contenendo tutto ciò che può accadere nell’ambito dell’esperienza. Se esistesse l’Immutabile, non vi sarebbe qualcosa come il venire all’essere di nuove forme, né qualcosa come il venire meno di certe forme. Tutto ciò sarebbe mera apparenza! Quelle forme sarebbero già! Nietzsche afferma: «Non più volere e non più valutare e non più creare! Ah, rimanga sempre da me lontana questa grande stanchezza! Anche nel conoscere io sento solo la mia volontà che gode di generare e di divenire; e se nella mia conoscenza è innocenza, ciò accade perché in essa è volontà di generare. Via da Dio e dagli dei mi ha allettato questa volontà; che cosa mai resterebbe da creare, se gli dei esistessero!»53.
F. NIETZSCHE, Così parlo Zarathustra, trad. it. di M. MONTINARI, Adelphi, Milano 1983, Parte seconda, Sulle isole beate, 102.
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19) La tendenza di fondo del pensiero contemporaneo – precisazione Quella che abbiamo indicato qui sopra è la linea generale di un processo che interessa il secolo XIX e che attraversa tutto il secolo successivo. Ciò però non deve far pensare che, dopo Hegel, la filosofia come sapere epistemico scompaia improvvisamente. In Italia, Antonio Rosmini (1797-1855) costruisce il suo “sistema” filosofico impegnandosi a sostenere, insieme a San Tommaso, ma in contrapposizione con l’idealismo tedesco, specie quello hegeliano, la sostanziale compatibilità tra la filosofia (come sapere epistemico) e la religione cristiana. In Germania, gli esponenti della cosiddetta “destra” hegeliana (tra gli altri K. F. Göschel, K. Conrad, B. Bauer e F. Ch. Baur) sviluppano l’idea di conciliare la religione cristiana con l’idealismo di Hegel. Lo “spiritualismo” dei filosofi francesi della prima metà dell’Ottocento (tra gli altri Victor Cousin, Francois Maine de Brian, Jules Lequier) guarda ad Agostino, a Pascal, a Malebranche, per trovare un equilibrio tra ragione e fede nell’esperienza interiore. La neoscolastica del ventesimo secolo, che si rivolge alla filosofia “vera” di San Tommaso e alla sua dottrina dell’armonia di ragione e di fede, annovera tra le sue fila pensatori del calibro di Ètienne Gilson, Jacques Maritain, Francesco Olgiati, Cornelio Fabro, Amanto Masnovo, senza dimenticare il neoclassico Gustavo Bontadini, forse il più grande dei filosofi cristiani del secolo passato. Ma sarà la stessa teologia – come vedremo nel prossimo capitolo – ad avvertire la necessità di ripensare il senso della fede per rispondere alle sfide del pensiero moderno e contemporaneo.
PARTE SECONDA
CHIUNQUE CREDE PENSA, E CREDENDO PENSA E PENSANDO CREDE […]. LA FEDE, SE NON È PENSATA, È NULLA. AGOSTINO, DE PRAEDESTINATIONE SANCTORUM, 2, 5
1) Riflessi del tramonto dell’epistéme La crisi della filosofia come sapere epistemico è l’aspetto più tipico del pensiero contemporaneo. La pretesa epistemica di interrogare la religione (intesa sia come fede sia come fenomeno storico-culturale) con l’intento di darle una precisa collocazione nell’ambito di un “sistema” sarà lasciata cadere definitivamente: viene meno, infatti, l’idea che vi sia un “sistema”, e quindi un “senso”, che possa raccogliere nell’unità la totalità delle cose. Il progressivo tramonto delle categorie del sapere epistemico in nome dell’insopprimibilità del divenire avrà dei riflessi anche nella teologia contemporanea: mi riferisco, ad esempio, alla stagione del modernismo e al tentativo di pensare non tanto ad una progressiva esplicitazione del contenuto del dogma, quanto piuttosto ad una sua relativizzazione storica1. Un esito meno traumatico è rappresentato dai teologi della “secolarizzazione” e della “morte di Dio”: essi riconoscono che lo sviluppo del pensiero contemporaneo porta al tramonto dell’atteggiamento epistemico, anche se poi ritengono che tale tramonto sfoci nell’affermazione di un cristianesimo più autentico, non più rivolto al Dio onnipotente della tradizione metafisica, ma al Dio che prende parte della storia, al Dio che soffre e alle cui sofferenze il cristiano autentico partecipa. In questa direzione si muovono pure quanti tentano un approccio alla rivelazione che prescinda dalla concezione classica dell’essere. Si tratta dei teologi della “deellenizzazione”, anch’essi attenti al Dio della rivelazione biblica e critici del Dio immutabile della filosofia gre-
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Il modernismo sarà formalmente condannato nel 1907 da Pio X nell’enciclica Pascendi.
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co/medioevale: critici di una filosofia che in Dio vede non semplicemente il “futuro dell’uomo” (Schillebeeckx), ma la perfezione originaria dell’essere da cui procede l’ente temporale. Il rilievo che assume la considerazione della storia nella comprensione della rivelazione sta al centro anche di quelle forme teologiche che, pur tenendo sullo sfondo la lezione tomista, si sono impegnate negli ultimi cinquant’anni per un rinnovo della teologia a partire da una riconsiderazione del rapporto tra la ragione e la fede.
2) Il nesso rivelazione-storia «È acquisizione pacifica che il cammino nella comprensione della rivelazione dal Concilio Vaticano I al Concilio Vaticano II si è compiuto sostanzialmente nel passare da una comprensione concettualistica, e quindi astorica, a una comprensione reale e storica. A spingere in questa direzione ha operato efficacemente il contesto culturale che ha riconosciuto il carattere essenzialmente storico dell’uomo, e coerentemente ha impostato la correzione di prospettiva, postulando il passaggio nella considerazione dell’antropologia, dalla prospettiva in termini di essenza a quelli in termini di storia»2. Quando il teologo Giuseppe Colombo parla del «carattere essenzialmente storico dell’uomo» e della rivelazione, con ciò riconosce l’evidenza della storia e cioè l’evidenza originaria del divenire, quell’evidenza che non può in alcun modo essere messa in questione. Che cos’è infatti la storia se non il sopraggiungere di ciò che, uscendo dal proprio niente, non è in alcun modo prevedibile? E che cos’è tale sopraggiungenza del novum se non appunto il divenire del mondo? La storia è radicale innovazione perché il novum che sopraggiunge non può essere anticipato o dedotto da alcunché. È il tema di fondo della filosofia contemporanea, su cui mi sono un po’ soffermato nella parte prima di questo lavoro, dove è apparso che il senso del divenire (e quindi della storia) è costruito sulla comprensione greca del senso dell’essere e del non essere – a conferma della funzione sorreggente delle forme concettuali evocate dalla sophía dei Greci rispetto ai principali eventi della cultura occidentale, compreso il cristianesimo. Ma la cultura contemporanea è il luogo in cui, nel modo più perentorio, viene affermato che il divenire rende impossibile ogni conoscenza G. COLOMBO, La ragione teologica e le strutture della teologia, Glossa, Milano 1995, 7475.
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ed ogni struttura immutabile, ossia ogni “verità” che sia diversa da quella in cui consiste l’espressione o la teoria del divenire. Per la filosofia contemporanea – anche questo l’abbiamo visto – l’epistéme che afferma un senso definitivo del tutto, e che al fondamento del mondo pone la perfezione immutabile dell’essere assoluto, rende impossibile la storia. 3) Il nesso verità-storia Il Vaticano II ha recepito la critica del carattere astorico ed essenzialistico che si esprime nel processo di oggettivazione della verità: «La sradicazione [della verità] dalla storia», scrive Colombo, «ne comportava la separazione dal soggetto, che nella contrapposizione dualistica ha finito per ridurla a oggetto di verifica empirica […]. In realtà, né l’evidenza puramente concettuale della filosofia, né l’evidenza empirica della scienza, sono le misure adeguate della verità. In entrambi i casi, anche se in modo diverso, il vizio radicale è la riduzione oggettivistica della verità, o – si potrebbe dire – la spersonalizzazione della questione della verità»3. La logica sottesa allo sviluppo del pensiero contemporaneo spinge però verso la distruzione di ogni forma di anticipazione o di predeterminazione che la verità possa esercitare sulla storia; spinge cioè verso la piena identificazione della totalità del reale e del divenire – da intendersi, di volta in volta, come divenire del pensiero, o del linguaggio, o dell’attività produttrice della tecnica guidata dalla scienza moderna. La teologia del Vaticano II ritiene invece che il riconoscimento del carattere non deducibile della storia non sia affatto esclusivo della “questione della verità”, laddove la verità sia identificata nella persona del Cristo: «L’autocomprensione storica della rivelazione, prodotta dal Concilio Vaticano II, non intende ovviamente contraddire l’autocomprensione astorica del Concilio Vaticano I, ma assumerla e integrarla […]. Effettivamente, riconoscendo la rivelazione della verità nella persona e nella storia di Gesù di Nazareth, nel quale la Trinità si è autocomunicata agli uomini, il Vaticano II libera la nozione di verità dalla precomprensione astorica tendenzialmente oggettivante, restituendola alla sua identità propria di evento storico. La verità è infatti indissociabile dall’evento, pena la deriva formalistica»4. Ibid., 77-78. L’integrazione rispetto al Vaticano I è il celebre passaggio del capitolo primo della Dei Verbum: «Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi [gestis verbisque intrinsece inter se connexis], in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto». 3 4
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4) La rivelazione come “evento” Il passaggio da una concezione astorica e cioè astratta, formale, della verità alla concezione della verità come “evento storico”, come “accadimento”, ossia come rivelazione della verità nella persona e nella storia di Gesù di Nazareth, è il grande passo in avanti compiuto dalla teologia del Vaticano II rispetto al Vaticano I. Un passo in avanti compiuto nella continuità perché intende superare la contrapposizione tra verità e storia senza che si rinunci a pensare al senso della verità: «Rinunciare alla verità» – spiega Colombo – «significa rinunciare alla rivelazione perché la rivelazione è precisamente la rivelazione della verità. Conseguentemente, la teologia che precedentemente riteneva di potersi istituire sulla verità ignorando la storia, ha dovuto reistituirsi congiungendo la verità con la storia, cioè riconoscendo la verità nella storia»5. Il cristianesimo è essenzialmente “evento storico”: è quell’“accadimento” in cui consiste l’incontro con Cristo. Questo incontro, assolutamente non deducibile, non può tuttavia essere un incontro con un semplice “accadimento”, proprio perché la teologia del Vaticano II non intende rinunciare ad avere a che fare con la rivelazione della verità. Se è vero che l’incontro con Cristo è un “evento”, un “fatto” non prevedibile, l’essere Cristo da parte dell’uomo di Nazareth non può essere però un semplice “evento”, un semplice “fatto”. Non lo può essere perché il proprium del “fatto” è di poter essere altrimenti rispetto a come è. Se il nesso tra Gesù di Nazareth e l’essere il Cristo da parte di Gesù di Nazareth fosse un semplice “evento”, Gesù di Nazareth potrebbe non essere più il Cristo. Per il cristianesimo l’impossibilità di rinunciare alla verità è l’impossibilità di rinunciare ad aver a che fare con il senso della necessità. Ma la “necessità” non può essere un semplice “fatto” perché “necessario” è «ciò che non può essere in modo diverso da come è»6. Se dunque Gesù di Nazareth è la forma concreta dell’autocomunicazione trinitaria agli uomini, l’incontro con Gesù va pensato come l’incontro con l’Eterno in forza dell’incarnazione, ossia in forza dell’unione ipostatica della natura divina e della natura umana nell’unica Persona del VerboFiglio.
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G. COLOMBO, La ragione teologica, op. cit., 80. ARISTOTELE, V 5, 1015 a 34.
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Dopodiché la cristologia dovrà riflettere sulla possibilità che l’Eterno “diventi” quell’altro da sé che è l’Eterno ipostaticamente unito alla natura umana. In ogni caso, l’affermazione che “Gesù è Dio” non potrà essere l’espressione di qualcosa che “appare” sotto la luce della “ragione naturale” perché, se così fosse, verrebbe meno il carattere soprannaturale della rivelazione divina – ed è lo stesso Nuovo Testamento ad insegnare che le verità della fede appartengono al contesto delle cose che “non appaiono”7.
5) Il nesso fede-rivelazione-verità Dunque, ragione e fede. Sulla questione del loro rapporto, il pensiero teologico confluito nel Vaticano II ha rilevato il limite della teologia moderna in una comprensione inadeguata della fede: inadeguata perché concepita nella condivisione del presupposto di una ragione “pura”, separata ed estrinseca rispetto alla fede. Costruita sul modello estrinsecistico di una fede separata dalla ragione, alla teologia moderna (in particolare, alla vecchia apologetica) non restava che mostrare la non contraddittorietà delle “verità di fede”. Stanti queste premesse, la rivelazione, resa estrinseca e separata da una ragione autonoma, svolgeva un ruolo secondario: veniva considerata, per così dire, in seconda battuta. Anziché partire da un sapere elaborato estrinsecamente rispetto alla fede, il Vaticano II ha affermato la necessità di elaborare il sapere di cui la fede è capace (l’intellectus fidei) a partire dal plesso inscindibile federivelazione, riconoscendo pertanto nella rivelazione l’oggetto proprio della fede. «A scanso di equivoci» – scrive Colombo in piena sintonia con la direzione impressa dal Vaticano II – «è da mettere in risalto che la determinazione della fede può darsi solo nel riferimento alla rivelazione e non a prescindere da essa. Conseguentemente sotto questo profilo è da denunciare il limite della nozione di fede comunemente invalsa a partire dall’inizio dell’età moderna. Poiché non è istituita sul riferimento alla rivelazione, ma sulla semplice contrapposizione – contrapposizione frontale – alla ragione, risulta non “propria” della fede e fatalmente fuorviante. È quindi opportuno liberarsene per riconiugare la fede nella sua relazione diretta alla rivelazione/Gesù Cristo»8. 7 8
Cfr. Eb 11,1. G. COLOMBO, La ragione teologica, op. cit., 84.
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Di qui segue il nesso fede-verità dove la verità viene intesa come principio che sorregge la storia: «La verità, in coerenza col suo carattere storico, si presenta non nella forma del compimento, ma dell’anticipazione o promessa del compimento, cui conviene la connotazione di “simbolo reale”»9. Un concetto di verità che, come si vede, ne accentua il carattere storico e insieme “anticipante”, ponendosi così in controtendenza rispetto a quanto s’è rilevato sopra10 a proposito della spinta fondamentale del pensiero contemporaneo che ritiene invece contraddittorio, rispetto alla storia, tutto ciò che in qualche modo (come nel modo del “simbolo reale”) la anticipa e ne stabilisce la direzione.
6) Il primato della rivelazione: Barth L’idea della rivelazione, quale oggetto proprio della teologia e della fede, è il perno della teologia dialettica di Karl Barth: «La cristologia deve occupare tutto lo spazio in teologia […]. La cristologia è tutto o è nulla»11. Non c’è tuttavia alcuna possibilità per l’uomo di superare la distanza che lo separa da Dio considerato il “totalmente Altro”. Qualsiasi riflessione umana su Dio non è che una idealizzazione dell’uomo il quale proietta fuori di sé i tratti della propria essenza, secondo quanto aveva insegnato Feuerbach12. Dunque, se si vuole fare un discorso che sia teologico, occorre partire dalla rivelazione. Ibid., 81. Cfr. Parte prima, parr. 16 e 17. 11 K. BARTH, Dogmatica ecclesiale, I, 2. 12 «Il segreto della teologia è l’antropologia» (L. FEUERBACH, Tesi provvisorie per una riforma della filosofia, in ID., Principi della filosofia dell’avvenire, a cura di N. BOBBIO, Einaudi, Torino 1979, p. 49). Non c’è nessun attributo di Dio che non sia riconducibile all’essenza dell’uomo. Ma poi «la teologia è il segreto della filosofia speculativa [qual è la filosofia hegeliana], e s’intende la teologia speculativa, vale a dire quella che si distingue dalla teologia comune per il fatto che colloca nell’al di qua, rendendolo presente e determinato e attuale, quell’essere divino che appunto la teologia comune ha, per paura e per incomprensione, relegato lontano, nell’al di là» (Ibid.). Resta con ciò stabilito il fondamento antropologico della stessa religione, nel senso che è l’uomo, l’antropologia, il vero oggetto della religione. La tesi di Feuerbach è che il concetto di Dio non è che una proiezione dell’essenza dell’uomo, sicché basta considerare questa essenza per trovare tutto ciò che la teologia e l’atteggiamento religioso pongono in Dio. Accade così che l’infinitezza della ragione umana viene oggettivata nell’infinitezza di un essere che l’uomo religioso pone al di fuori dell’uomo. Similmente, la necessità del procedere razionale viene oggettivata nel pensiero di un essere necessario e immutabile. A Schleiermacher, che nei suoi Discorsi sulla religione radicava l’esperienza religiosa nel sentimento fondamentale dell’infinita e 9
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Come per Lutero, così per Barth la stessa armonia tra ragione e fede è cosa impossibile e al limite blasfema: l’uomo è definito dalla fede, non dalla ragione, e la fede è essenzialmente rapporto alla rivelazione. Di qui il tema tipicamente luterano, protestante, per cui non sono le opere che portano l’uomo alla salvezza: propriamente l’uomo non ha alcun merito, sola gratia iustificat. Se Dio non si rivela all’uomo, l’uomo nulla può dire di Dio, vale a dire che «Dio non si lascia conoscere che per mezzo di se stesso» e che «a prescindere da Gesù Cristo e senza di lui non potremmo dire proprio nulla né di Dio né dell’uomo, né del loro rapporto»13. Dati questi presupposti, non c’è alcuno spazio per stabilire un passaggio di ordine razionale dall’uomo a Dio. La classica dottrina dell’“analogia entis” per cui l’“essere” si predica di Dio e dell’uomo, sicché occorre pensare che Dio e l’uomo hanno qualcosa “in comune”, viene da Barth definita come una “invenzione dell’Anticristo”. Dopodiché bisognerebbe capire che cosa può voler significare che, al di là della totalità dell’essere analogicamente considerato, possa esservi qualcosa che non sia il puro nulla14. 7) Ragione epistemica e fede teologica Al centro del pensiero di Barth sta il tema kierkegaardiano della “infinita differenza qualitativa” tra Dio e il mondo, tra l’eterno e il tempo. Su questo punto così decisivo per la comprensione del rapporto tra ragione e fede – comprensione che suppone la critica del “sistema” di Hegel – può dunque essere interessante interrogare Kierkegaard, non senza aver dato prima uno sguardo al pensiero dell’ultimo Schelling la cui riflessione si era portata verso la dissoluzione del concetto hegeliano di realtà come identità di razionalità e di esistenza. vivente natura, Feuerbach rimprovera di non aver compiuto il passo decisivo, quello cioè di affermare che l’infinità dell’oggetto del sentimento altro non è che l’oggettivazione dell’infinità del sentimento, quale componente dell’essenza dell’uomo. Per Hegel alla base dei misteri soprannaturali della religione ci sono le verità speculative della filosofia rivestite della forma delle immagini. Per Feuerbach ci sono delle verità del tutto semplici e naturali. Alla base del dogma della Trinità sta la realtà della vita collettiva e sociale; alla base del dogma dell’Incarnazione, e del tema connesso dell’amore di Dio per l’uomo, sta l’amore dell’uomo verso se stesso. 13 K. BARTH, op. cit., IV, 1. 14 Per lo sviluppo di questo tema, mi sia consentito il rinvio a un mio recente lavoro: GIULIO GOGGI, Al di là dell’essenza. A proposito di alcune forme di neoplatonismo, in Al cuore dell’umano. La domanda antropologica 1, a cura di G. RICHI ALBERTI, Marcianum Press, Venezia 2007, 35-44.
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7.1) La contingenza del finito 7.1.1) Per Hegel l’individuo, la coscienza umana, è il luogo in cui si manifesta l’Assoluto. Per Schelling l’esistenza è invece irriducibile all’essenza: il finito, l’esistenza dell’individuo, si presenta come un salto, una rottura nei confronti dell’Infinito. Il movimento del puro pensiero, che ci fa conoscere l’essenza delle cose (il quid est), non ci consente di decidere se qualcosa realmente esiste: solo l’esperienza ce lo può dire. 7.1.2) Per l’idealismo di Schelling l’essere dell’essenza assoluta è l’indifferenza di soggetto e di oggetto. Le differenze, il molteplice (gli enti) incominciano con la posizione dell’autocoscienza. Ma, se l’aprirsi dell’autocoscienza è un puro fatto (come già sosteneva Fichte)15 e se il 15 L’esistenza di un termine indipendente dall’Io (il non-Io, il Motore che sta al di fuori dell’Io) è ciò che impedisce all’Io di costituirsi come l’intero. Ma è anche, s’è visto (cfr. Parte prima, par. 12), ciò da cui l’Io dipende “quanto alla sua esistenza”. Questo punto va chiarito. Non siamo, infatti, in presenza del concetto tradizionale di creazione: l’azione del non-Io non consiste nella produzione ex nihilo dell’Io. Per Fichte l’Io ha una sua positività indipendente rispetto all’azione del non-Io. Si tratta, però, di una positività di tipo potenziale, giacché è solo per l’“urto” del non-Io che l’Io diventa cosciente di sé e, ponendosi come Io, pone ciò che non è Io (il non-io empirico, il non-io inteso come Natura). Alla base del rapporto tra Io e non-Io, come termini assolutamente opposti, sta cioè una concezione del rapporto tra “Motore” e “mosso” che presenta delle analogie con la metafisica dualistica di Aristotele: come per lo Stagirita Dio non crea il mondo, ma fa passare le sue forme dalla potenza all’atto (sicché il mondo non dipende da Dio quanto al suo essere), così il Motore di Fichte non crea l’Io, ma lo fa passare dallo stato di potenzialità a quello di attualità. Non siamo neppure in presenza di un passaggio necessario dalla potenzialità dell’Io all’atto: l’“urto” del non-Io sull’Io non è un atto necessario, ma è un fatto, qualcosa di contingente, non spiegabile. Questo perché una relazione necessaria tra l’Io e il non-Io sarebbe un legame indissolubile tra i due opposti, che non sarebbero pertanto più due assolutamente opposti. Se l’“urto” è un fatto, e quindi è un fatto non deducibile il realizzarsi dell’Io come autocoscienza, è un fatto anche l’esserci, l’effettualità del contenuto dell’esperienza (il non-io empirico, la realtà naturale). Fermo restando che tutto ciò che si sviluppa nell’Io “si sviluppa esclusivamente dall’io stesso” e secondo “leggi necessarie”, che neppure l’Io potrebbe trasgredire, l’esserci, effettualità del contenuto dell’Io, rimane invece qualcosa di non deducibile: che ci sia una coscienza è il risultato (non deducibile) dell’“urto” (anch’esso non deducibile). L’impianto essenzialmente dualistico della Dottrina della scienza si ritrova pure nella più tarda produzione di Fichte, anche laddove (a partire dall’Esposizione del 1801) egli parla dell’“Assoluto” e del suo essere come l’opposto del “sapere”. Fichte dirà “Assoluto” anziché non-Io e definirà l’“Assoluto” come puro essere senza mutazione né oscillazione, ingenerabile, dunque, immutabile, Uno. Ma la sostanza del discorso non cambia: l’impianto rimane dualistico perché presuppone termini assolutamente opposti: l’“Assoluto” e il “sapere”. In questo contesto teorico, l’atteggiamento religioso consiste nel considerare il contenuto del sapere come manifestazione o espressione dell’Essere divino (Introduzione alla vita beata). Non certo nel senso hegeliano dell’assoluta adeguazione del sapere all’essere, ma nel senso che è in relazione all’“Assoluto” che si sviluppa la struttura del sapere – nel senso che è in un processo infinito che viene tolta
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molteplice delle differenze incomincia coll’aprirsi dell’autocoscienza, allora anche il molteplice mondo delle differenze sarà un puro fatto. L’esistenza del finito è dunque contingenza, libertà. Il tentativo di dedurre il finito dall’essenza non può riuscire. La deduzione non riesce a portarsi al di là del piano dell’essenza. Diventa così comprensibile quanto Schelling dirà a proposito del finito e della sua radice ontologica: «Non c’è nessun passaggio continuo dall’Assoluto al reale, e l’origine del mondo sensibile può essere pensata soltanto come un completo distacco dall’assolutezza mediante un salto»16. La realtà del “salto”, la sua “effettualità” – e quindi la “caduta”e l’“allontanamento” dall’Assoluto – possono venire affermati solo in forza del loro esserci. L’ultimo Schelling, quello della filosofia della libertà, della filosofia “positiva”, porterà in primo piano questo stesso concetto, in vero già operante fin dalla prime movenze del suo pensiero, ossia l’assoluta indeducibilità dell’esistenza dall’essenza: «Sono infatti due cose ben diverse», egli scrive, «sapere che cosa un ente sia, quid sit, e che esso sia, quod sit. Quella – la risposta alla domanda: che cosa è – mi concede una penetrazione nell’essenza della cosa, cioè fa sì che io comprenda la cosa, che abbia un’intelligenza o un concetto di essa, oppure essa stessa in concetto. L’altro punto invece – il sapere che essa è – non me lo fornisce il semplice concetto, ma qualcosa che va oltre il semplice concetto, che è l’esistenza»17. Con terminologia scolastica potremmo dire: l’essere è altro dall’essenza, esse est aliud ab essentia. Potremmo sapere che cos’è un uomo, scrive Tommaso, e tuttavia ignorare se esista18. Dunque, per Schelling, “positiva” è la filosofia che concerne il quod sit (l’esistenza) e che riconosce la pura libertà, la contingenza e la fattualità dell’esistenza rispetto al piano dell’essenza. Di contro alla filosofia “negativa”, che si esaurisce nell’ambito della considerazione dell’essenza e che tenta di dedurre l’esistenza dall’essenza (a tale considerazione Schelling riconduce la sua prima produzione idealistica e tutto il sistema hegeliano), occorre invece far cadere la pretesa di legare il dass ist di ogni cosa finita dell’esperienza al suo wass essenziale: «Che
progressivamente, ma mai definitivamente, l’inseità dell’Assoluto (del non-Io, della “cosa in sé”), sicché l’elemento indipendente dal sapere non è mai definitivamente tolto, ma solo spostato più in là rispetto al circolo della coscienza. 16 F. W. J. SCHELLING, Filosofia e religione, trad. it. di V. VERRA, in F. W. J. SCHELLING, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, a cura di L. PAREYSON, Mursia, Milano 1974, 53. 17 ID., Filosofia della rivelazione, trad. it. di A. BAUSOLA, Bompiani, Milano 2002, 95. 18 TOMMASO, De ente et essentia, V.
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cosa esista», egli afferma, «o più precisamente, che cosa esisterà […], questo è compito della scienza della ragione, questo si lascia conoscere a priori; ma che esso esista, non segue affatto da tale conoscenza, perché potrebbe anche non esistere in generale nulla. Che in generale esista qualcosa, e che in particolare questo elemento determinato, conosciuto a priori, esista nel mondo, la ragione non può mai sostenerlo senza l’esperienza»19. L’esistenza del molteplice è un puro fatto: c’è, ma potrebbe non esserci. Il fatto che l’io e il mondo esistano non può essere inteso come momento di una deduzione logica. La necessità di uscire dalla contraddizione dell’Assoluto inteso come Indifferenza20 e, insieme, la necessità di dar conto del finito (ossia del molteplice, di cui si riconosce l’imprescindibilità), spingeranno Schelling a seguire la via della concezione creazionistica ponendo l’essere dell’essenza assoluta come separato dall’esistenza del mondo in cui si incontrano le differenze e si verifica l’opposizione di soggetto e di oggetto. In questo quadro generale, che ridimensiona le pretese della ragione, si colloca infine, all’interno della filosofa positiva, l’indagine sul mito e sulla rivelazione come processo per il quale l’uomo sviluppa la propria coscienza del divino: dalla religione naturale (filosofia della mitologia) che giunge a Dio come Natura, alla religione rivelata (filosofia della Rivelazione) che suppone la libera manifestazione di Dio all’uomo e che a Dio giunge come Persona e come assoluta libertà. 7.1.3) Nel senso della rivendicazione di una realtà esistenziale dell’individuo che non è riducibile al pensiero, alla logica, all’universalità dell’essenza, si muove la filosofia di Kierkegaard: un sistema dell’esistenza, egli dice, non si può dare. Il sistema chiude e tiene le cose congiunte secondo necessità. Sistema e conclusività si corrispondono. L’esistenza, invece, apre e tiene le cose separate. Nell’esistenza dell’uoF. W. J. SCHELLING, Filosofia della rivelazione, op. cit., 97. Formulato il concetto idealistico dell’Assoluto nei termini dell’assoluta indifferenza, e intesa la distinzione tra l’Assoluto e le sue realizzazioni (nello spirito e nella natura) come rapporto tra l’Essenza e l’Esistenza, si pone la difficoltà sostanziale dell’idealismo di Schelling. Si sostiene che l’Assoluto è da intendere come Indifferenza assoluta. D’altra parte si afferma che l’esistenza dell’Assoluto è il luogo del differenziarsi, del molteplice. Non si dovrà dire, allora, che l’esistenza dell’Assoluto è la negazione dell’Assoluto stesso perché l’esistenza è il luogo del differenziarsi, del molteplice? In altri termini: se la caratteristica essenziale dell’Assoluto è di essere Indifferenza di soggetto e di oggetto, non segue allora che, realizzandosi, l’Assoluto nega la propria Essenza perché, realizzandosi, diventa differenziazione, si differenzia come soggetto e come oggetto? Per la critica di Hegel al concetto di Assoluto come Indifferenza assoluta, vedi infra, par. 14. 19 20
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mo il divenire si presenta in tutta la sua radicalità e imprevedibilità libera da ogni comprensione epistemica; è dunque assoluta contingenza, libertà destinata alla scelta, alla decisione tra possibilità che tra loro si escludono. Anche per Kierkegaard l’esistenza è “salto” rispetto alle pretese dell’essenza di definirne gli ambiti entro parametri prestabiliti. Alla dialettica hegeliana dell’Idea che si sviluppa secondo tappe necessarie – e che porta l’uomo a realizzarsi nelle forme essenziali dell’essere etico (nello Stato) e dell’essere estetico (arte) e dell’essere religioso e dell’essere filosofico – Kierkegaard contrappone la dialettica concreta dell’esistenza per cui le diverse forme di realizzazione dell’uomo si presentano come possibilità non coordinabili nell’unità del sistema: o si sceglie l’una o si sceglie l’altra. È la dialettica dell’aut-aut (la dialettica della realtà), contrapposta alla dialettica dell’et-et (dialettica dei concetti). 7.2) La critica del sistema di Hegel 7.2.1) La volontà di tenere fermo il divenire dell’uomo, e la sua irriducibilità al logos dialettico/epistemico, sta alla base delle critiche che da più parti la filosofia contemporanea ha mosso al sistema di Hegel21. Per Feuerbach, ad esempio, non c’è un movimento del puro pensiero indipendente dall’esperienza e dalla sensibilità. L’errore della vecchia teologia, così come quello di Hegel e della sua Logica, sta nel fare di Dio la somma delle perfezioni che si attingono dalla realtà e nel considerare poi tale complesso ideale come qualcosa di autonomo. La vecchia teologia pone quelle perfezioni fuori dell’uomo stesso. Hegel le pone all’interno dell’uomo: «La dottrina hegeliana secondo cui la natura, o la realtà, è posta dall’idea, non è altro che l’espressione in termini razionali della dottrina teologica, secondo cui la natura è creata da Dio, o l’essere materiale è creato da un essere immateriale, cioè astratto»22. In questo senso la filosofia di Hegel, che fa discendere Dio nell’uomo, è «l’ultimo rifugio, l’ultimo sostegno razionale della teologia».
La dialettica hegeliana è, innanzitutto, la costruzione della struttura logica del mondo (l’essenza assoluta) indipendentemente dal riferimento alla realtà empirica: procede a partire dalla categoria più semplice, che non può essere sintesi di altre categorie (l’essere indeterminato e indifferenziato di Parmenide), e si sviluppa, per un andamento irresistibile, fino a giungere alla categoria più complessa, che non può essere compresa in una sintesi più ampia (la categoria della Totalità, che in sé conserva tutte le categorie precedenti). In questa prospettiva, la realtà empirica è concepita come l’esemplificazione dell’Idea (che si fa Natura e poi Spirito), come un semplice “predicato” o accidente dell’Idea, che si pone quindi come l’autentico “soggetto”. 22 L. FEUERBACH, Tesi provvisorie per una riforma della filosofia, op. cit., 62. 21
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Per liberare l’“uomo” da questo Dio immanente, da questa Legge che ne regola, sia pure dall’interno, lo sviluppo, occorre, dice Feuerbach, rovesciare il rapporto tra l’Idea e la realtà: «Il vero rapporto tra pensiero ed essere non può essere che questo: l’essere è il soggetto, il pensiero è il predicato. Il pensiero dunque deriva dall’essere, ma non l’essere dal pensiero»23. Dove l’essere è l’uomo come unità del materiale e dello spirituale, l’“essenza” umana che si dispiega nel tempo. 7.2.2) Per Marx si tratta di rovesciare il rapporto tra l’Idea e l’esperienza e di partire dall’esistente, dall’uomo determinato che si realizza nel contesto sociale. Per salvare il divenire dell’uomo occorre che al sistema dell’Idea venga negata ogni autonomia rispetto allo sviluppo effettivo della realtà empirica24. La polemica contro la teologia filosofica si lega quindi alla critica della religione e di ogni forma di riproposizione di strutture immutabili e indipendenti rispetto al divenire dell’uomo25. Affinché la religione sia veramente superata, e l’uomo possa sviIvi. Come per Feuerbach, anche per Marx la dialettica hegeliana trasforma ciò che nella realtà è l’autentico soggetto (l’uomo) in un accidente dello sviluppo dell’ìdea: l’uomo reale e la natura reale divengono dei semplici predicati, come se si dicesse, ad esempio, che l’uomo (soggetto) è Socrate (predicato). Sennonché è proprio questo che ad Hegel non riesce di spiegare in modo soddisfacente, ossia il passaggio dall’Idea al suo alienarsi nella realtà per poi riprendersi come Spirito: «Hegel dà un’esistenza indipendente ai predicati, agli obietti, ma astraendoli dal loro soggetto, ch’è realmente indipendente. Dopo, il reale soggetto appare come risultato loro mentre, invece, bisogna partire dal reale soggetto e considerare il suo obbiettivarsi. La mistica sostanza diventa, dunque, il reale soggetto e il reale soggetto appare come qualcosa d’altro, come un momento della mistica sostanza» (K. MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in Karl Marx, scritti filosofici giovanili, a cura di S. MORAVIA, Fabbri, Milano 2004, 17). Di contro a tutto ciò, Marx formula la tesi che sta nel cuore della sua dottrina: «Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma al contrario, è il loro essere sociale che determina la loro coscienza» (K. MARX, Per la critica dell’economia politica, Prefazione, tr. it. di B. SPAGNOLO VIGORITA, Newton Compton, Roma 1976, 31). A determinare il pensiero dell’uomo è, innanzi tutto, il complesso dei rapporti economici che va a costituire la struttura economica della società. Su questa base reale si eleva poi la sovrastruttura ideologica: «Il modo di produzione della vita materiale [il divenire della realtà effettuale] è ciò che condiziona il processo sociale, politico, spirituale» (Ibid.). 25 A questo proposito Marx rimprovera a Feuerbach e agli hegeliani di sinistra (Davide Strauss, Bruno Bauer) di essersi limitati a denunciare l’alienazione religiosa come se ciò fosse sufficiente a risolvere la situazione dell’uomo alienato. Il merito di Feuerbach e degli hegeliani di sinistra è di aver dissolto il mondo divino in quello terreno. Essi hanno tuttavia trascurato di indicare come sia possibile che l’uomo giunga alla costituzione della religione mettendosi di fronte a sé (alienandosi) e acquisendo l’aspetto di un mondo separato. Per Marx si tratta di capire che tutto ciò è reso possibile perché nell’attività pratica dell’uomo si è prodotta una dissociazione: «Il fatto stesso che la base mondana si distaca da 23 24
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luppare le proprie potenzialità, non è sufficiente una pura operazione mentale che mostri l’errore in cui consiste l’alienazione (Feuerbach si è mosso su questo piano); per Marx bisogna che sia rimossa la causa che produce l’alienazione religiosa: «L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni». La critica del cielo si trasforma così, nel pensiero di Marx, nella critica della terra. Non basta interpretare diversamente il mondo per poi lasciarlo sussistere così com’è. Bisogna intervenire per trasformare il mondo. Sarà la dialettica (e l’attività rivoluzionaria) a stabilire il tramonto necessario dei vincoli che determinano l’alienazione dell’uomo. E la dialettica non è il movimento del puro pensiero, ma il movimento reale (materialismo dialettico) che travolge ogni immutabile, ogni potere che, prodotto dall’uomo, sottomette l’uomo a una forza a lui estranea. 7.2.3) In Kierkegaard la critica della necessità epistemica che vanifica il divenire dell’uomo (l’esistenza) si fa ancora più radicale rispetto a Feuerbach e rispetto a Marx. Per Feuerbach il divenire dell’individuo è conforme all’“essenza dell’uomo”. Ma questa, come “specie” che si realizza in ogni individuo, ha pur sempre il significato tradizionale del Principio o del Fondamento che guida l’esistenza. In tale prospettiva, l’“uomo” deve realizzare la propria essenza. Per Marx la dialettica conduce alla nascita, allo sviluppo e alla morte di determinate configurazioni sociali fino a che non si giunga alla società comunista, culmine dello sviluppo storico – e ciò accade secondo una necessità oggettiva, riscontrabile nell’indagine del divenire stesso (non cioè costruita a priori).
se stessa e si stabilisce nelle nuvole come regno indipendente non si può spiegare se non colla dissociazione interna e colla contraddizione di questa base mondana con se stessa» (K. MARX, Tesi su Feuerbach, in Karl Marx, scritti filosofici giovanili, op. cit., 183). Storicamente accade che le forze produttive della società entrano in conflitto con l’organizzazione sociale del lavoro, ossia con i rapporti di produzione esistenti. Accade cioè che il divenire delle forze produttive della società resta bloccato dall’immobilismo dell’organizzazione sociale del lavoro, espressione della volontà delle classi egemoni. Ad un certo punto, l’uomo finisce per considerare come immutabile l’organizzazione sociale in cui vive. Ma la società in cui vive non è l’espressione del razionale: che il reale sia razionale (come sostiene Hegel), che nella realtà tutte le contraddizioni restino risolte, questo è in contraddizione con la realtà, non trova conferma nelle istituzioni storiche, dove l’umanità è sofferente. In questo senso, Marx può dire che la religione è «la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera» (K. MARX, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in Karl Marx, scritti filosofici giovanili, op. cit., 77). La religione è «il sospiro della creatura oppressa, il cuore di un mondo spietato […]. Essa è l’oppio del popolo» (Ibid.).
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Per Kierkegaard, invece, non appena si esce dal contesto immediato dell’esperienza, si entra nel dubbio, che è «la protesta contro ogni conclusione che vuole oltre-passare la percezione e la coscienza immediata»26. Il dubbio e l’incertezza portano alla disperazione dalla quale può salvare soltanto la fede, ma essa implica la decisione di credere e quindi un libero e rischioso atto della volontà. Non esistono leggi necessarie alla base del divenire e il modo autentico per accostarsi ad esso, senza alterarne la fisionomia, è la fede. 7.3) Fede teologica e paradosso Il divenire è assoluta imprevedibilità cui si connette il sentimento dell’angoscia. Per il filosofo danese non è la scienza epistemica che salva dalla disperazione, ma la fede, che non è mai, però, senza “rischio”: è impegno in prima persona del “singolo”. Il Cristianesimo, come fede religiosa, non è un semplice tranquillante della coscienza: è una possibilità che interroga il “singolo”. Nella fede teologica, in particolare, il pensiero incontra il “paradosso”, ciò che il pensiero “non può pensare”27: l’affermazione che Dio, eterno e immutabile, entra nel tempo. Si tratta di qualcosa «contro cui l’intelletto va a sbattere nella sua passione»28. Kierkegaard ne parla nei termini di un “Ignoto”, di un “assolutamente diverso” che fa precipitare il pensiero nella più scoperta contraddizione: l’assolutamente diverso è ciò che sta al di là del conoscere (al pari della “cosa in sé” di Kant); per altro verso, il solo parlare dell’assoluta diversità non fa che portarla all’interno del conoscere. Si noti: nella definizione del tema dell’“Ignoto”, Kierkegaard riproduce la struttura concettuale che abbiamo già incontrato in Fichte a proposito della definizione del carattere contraddittorio del non-Io (cfr. parte prima, cap. 12). Come per Fichte, anche per Kierkegaard non si tratta di negare il contenuto di tale concetto (ciò che condurrebbe diritti nell’idealismo di Hegel). E tuttavia bisogna uscire da questo smarrimento dell’Intelletto e spezzare quel circolo necessario del pensiero che, già per Fichte, si allarga sempre di più spostando sempre più in là il proprio limite. Mentre, però, la scienza epistemica di Fichte affida la soluzione ad una decisione assoluta della ragione per cui l’Io ha il compito infinito di
S. KIERKEGAARD, Briciole di filosofia, in Opere, trad. it. di CORNELIO FABRO, Piemme, Casale Monferrato 1995, Vol. II, 94. 27 Ibid., 45. 28 S. KIERKEGAARD, op. cit., 47. 26
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diventare l’Assoluto (di diventare Dio), Kierkegaard affida alla libera decisione di credere (la fede, appunto) la possibilità di diventare consapevoli dell’assoluta diversità dell’Ignoto. L’uomo da solo non è in grado di giungere a tanto: l’intelletto, che prova a pensare l’assoluta diversità, si smarrisce nella contraddizione. È a questo punto che il messaggio cristiano si pone al centro dell’attenzione. Il trovarsi nella non verità, nello smarrimento, è opera del peccato: «La differenza, quella assoluta, deve avere per responsabile l’uomo stesso»29. Il passaggio dalla non verità della contraddizione alla verità non può che accadere in un determinato “momento nel tempo” ad opera dell’Assoluto stesso: è il momento dell’Incarnazione, dell’Eterno che si fa tempo. Ma non si ha fede in ciò che è manifesto: la fede è l’argomento in base al quale si afferma l’esistenza di ciò che non si vede (“argomento delle cose che non appaiono”, dice l’apostolo Paolo). Neppure il discepolo contemporaneo di Gesù ebbe modo di vedere o di ascoltare Dio: immediatamente egli vide «un uomo dall’umile figura che affermò di essere Dio»30. Dunque c’è un unico modo per rapportarsi al Maestro (Salvatore, Redentore, Riconciliatore), e questo modo è la fede, sprovvista di garanzie assolute. Alla fede come rassicurazione, definitività, infallibilità, assolutezza (i caratteri del sapere epistemico), Kierkegaard contrappone la fede come salto, come rischio: «Senza rischio», egli afferma, «non c’è fede. La fede è precisamente la contraddizione fra la passione infinita dell’interiorità [la certezza soggettiva] e l’incertezza oggettiva [giacché la fede è argomento delle cose che “non si vedono”]. Se posso cogliere Dio oggettivamente, allora io non credo; ma perché non lo posso, perciò devo credere. E se voglio conservarmi nella fede, io devo sempre badare di mantenere l’incertezza oggettiva, che io mi trovo nell’incertezza oggettiva “a 70.000 piedi di profondità”, e tuttavia credo»31.
8) Il nesso antropologia-teologia e l’evidenza della fede 8.1) In Barth il nesso rivelazione-fede è tutto sbilanciato sul versante teologico. La tendenza della teologia contemporanea, anche in ambito protestante (cfr. P. Tillich, E. Brunner, R. Bultmann), va nel senso della
Ibid., 55. Ibid., 103. 31 S. KIERKEGAARD, Postilla conclusiva non scientifica alle “Briciole di filosofia”, in Opere, op. cit., p. 331. 29 30
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rivalutazione della dimensione antropologica: si tratta cioè di giustificare la storicità dell’evento cristologico come forma compiuta dell’esperienza dell’uomo. La tendenza va dunque nella direzione del guadagno del nesso antropologia-teologia. In area cattolica questa spinta, che già percorre il pensiero di Blondel e il suo tentativo di elaborare un sapere della fede a partire dalle ragioni interne alla fede (“apologetica dell’immanenza”), trova piena conferma nella teologia del Vaticano II. Alla teologia fondamentale viene assegnato il compito di mostrare l’inscindibilità del nesso rivelazione-fede: la rivelazione istituisce il nesso rivelazione-fede. D’altra parte, non vi è rivelazione al di fuori del nesso rivelazione-fede, nesso che si dà nella storia: è nella storia che l’apriori teologico scopre tutto il suo rilievo ai fini della comprensione dell’uomo. 8.2) «Aderendo alla rivelazione» – scrive Colombo – «adesione che si può dare solo nella fede e con la fede, l’uomo aderisce alla verità e la verità fa l’uomo vero, cioè “fa” l’uomo. La conformità o coerenza della fede alla struttura antropologica esprime la razionalità della fede, dove […] la nozione di razionalità non è da intendere secondo la riduzione intellettualistica, ma nel suo senso più comprensivo di conforme alla natura dell’uomo, precisamente alla natura razionale dell’uomo. D’altro lato, la “razionalità” della fede non è da comprendere nel senso di un’adesione necessitata, ma al contrario, di un’adesione libera. “Razionalità” e “libertà” infatti, oltre alla soprannaturalità», sono le proprietà essenziali e quindi irrinunciabili che l’analisi classica dell’atto di fede scopre e mette in risalto32. Dopodiché si tratta di esibire gli argomenti in forza dei quali si può sostenere la natura divina/umana di Gesù di Nazaret e quindi la portata universale della rivelazione (la sua “verità”), ed è chiaro che queste argomentazioni non possono essere di tal fatta da produrre irresistibilmente il nostro assenso. Solo l’evidenza dei primi principi, e di ciò che è ad essi riconducibile, esige infatti un assenso necessario. 8.3) Riferendosi alle apparizioni di Gesù risorto, il teologo Sequeri scrive: «L’evidenza di un simile accadere […] non è data nella forma di una oggettività incontrovertibile: piuttosto in quella di una oggettività simbolica, intesa a sollecitare la libera decisione di accogliere la verità che vuole mostrarsi. Che ultimamente coincide con la soggettività teologale di Gesù di Nazaret»33. 32 33
G. COLOMBO, op. cit., 84-85. P. SEQUERI, L’idea della fede. Trattato di teologia fondamentale, Glossa, Milano 2002, 97.
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L’evidenza della fede è dunque un’evidenza simbolica che chiama in causa la libertà in vista dell’adesione alla persona di Cristo. Ma la forma dell’“evidenza simbolica” – come riconosce lo stesso Sequeri – non è l’evidenza epistemica o speculativa: non è l’evidenza del non controvertibile. Il che significa (lo si ricava per semplice analisi) che l’“evidenza simbolica”, come ogni forma di “evidenza” che sia altra dall’evidenza del non controvertibile, è controvertibile. In effetti, non controvertibile è solo il logos che attesta la fermezza del primo principio (il principio di non contraddizione) e di ciò che ad esso è riconducibile. Chiediamoci: chi nega che Gesù sia il Cristo risorto dai morti, nega forse qualcosa di cui appare che l’opposto è impossibile? Se così fosse, allora il negatore del contenuto della fede cristiana si troverebbe, né più né meno, nella stessa situazione in cui si trova il negatore del primo principio – di quel principio intorno al quale, come insegna Aristotele, «è necessario che si sia sempre nel vero»34. Se così fosse (se negare l’esistenza dell’uomo/Dio fosse lo stesso che negare il primo principio), non vi sarebbe stato bisogno di alcuna rivelazione. Né si dica che, in questo modo, si promuove una riduzione intellettualistica della ragione, perché il rinvio alla natura del logos non riduce nulla. Non si tratta di non aver occhi che per ciò di cui appare che l’opposto è impossibile, ma di tenere distinte le diverse modalità di apparizione – e le “evidenze” della fede, proprio perché “evidenze” della fede, non si presentano nella forma di una oggettività incontrovertibile. Non sempre la teologia tiene ferma questa distinzione: accade che di fatto ciò che non è un’“evidenza” incontrovertibile venga fatto passare per un’evidenza incontrovertibile. Quando questo accade, ne viene un grave danno non soltanto per la comprensione della natura del logos, ma anche per l’intelligenza elaborata dall’interno della fede.
9) Il cristocentrismo obiettivo In conformità al modello estrinsecistico di una ragione separata dalla fede, la teologia moderna ha elaborato il concetto di una natura “pura”, separata ed autonoma rispetto ad ogni interferenza della fede. Scrive il teologo de Lubac: «Per un tomista ardente, ma realmente infedele, qual è su questo punto il Gaetano, “la natura razionale è un tutto chiuso, nel quale le tendenze e le capacità attive si corrispondono
34
ARISTOTELE, Metafisica, XI 5, 1061 b 35.
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rigorosamente”: naturale desiderium non se extendit ultra naturae facultatem. Ecco il suo principio; e sarà questo il principio di tutta una scuola moderna»35. Se c’è nell’uomo un desiderio naturale, si diceva, ad esso dovranno corrispondere, nella stessa natura dell’uomo, la potenza di realizzare quel desiderio e i mezzi atti a tale realizzazione. Dunque, se la natura non ha fornito all’uomo gli strumenti mediante i quali può raggiungere la visione di Dio, allora il desiderio di vedere Dio non può essere un desiderio naturale dell’uomo. Suarez, tomista ardente non meno del Gaetano, argomentava proprio così: «L’appetito naturale è efficace nel suo ordine: di conseguenza non va esteso al di là di ciò che è possibile alla natura»36. L’intento era quello di salvaguardare la gratuità del soprannaturale. Era tuttavia inevitabile che una tale impostazione del problema finisse per ridurre il soprannaturale a qualcosa di accessorio, di inessenziale, di superadditum rispetto al tutto “chiuso” ed autosufficiente della natura umana: un superadditum di cui si poteva anche fare a meno. Di tutt’altro segno era l’impostazione dei maestri del pensiero medioevale. Leggiamo de Lubac: «Tutta la tradizione, in realtà – prendiamo la parola in senso largo – da sant’Ireneo, attraverso sant’Agostino e san Tommaso come san Bonaventura, senza distinzione di scuole, ci trasmette allo stesso tempo queste due affermazioni, non antagoniste ma solidali: l’uomo non può vivere che per la visione di Dio, e questa visione di Dio dipende assolutamente dal beneplacito di Dio»37. L’idea di fondo, “paradossale” ma non contraddittoria, era la seguente: nell’uomo il desiderio di vedere Dio è qualcosa di naturale, ma le forze naturali dell’uomo non sono sufficienti per la sua soddisfazione, che è puro dono38. La teologia contemporanea ha recuperato l’idea dell’esistenza di un unico ordine nella scoperta del cristocentrismo obiettivo: «Tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui»39. Il centro del cosmo e della storia, «il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione»40, non
HENRI DE LUBAC, Il mistero del soprannaturale, il Mulino, Bologna 1967, 187. SUAREZ, De ultimo fine hominis, d. 18, a. 2, n. 11. 37 H. DE LUBAC, Il mistero del soprannaturale, op. cit., 236. 38 «La creatura razionale prevale su ogni creatura perché è capace del sommo bene mediante la visione e la fruizione di Dio [quod capax est summi boni per divinam visionem et fruitionem] anche se per conseguire ciò non bastano i principi della sua natura propria, ma ha bisogno dell’aiuto della grazia divina [sed ad hoc indigeat auxilio divinae gratiae]» TOMMASO, De malo, q. 5. a. 1. 39 Col 1, 16. 40 Dei Verbum, 1, 2. 35 36
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è un principio astratto e impersonale, ma è Lui, Gesù di Nazareth, un uomo storico, concreto, vissuto duemila anni fa. Su questa base, partendo cioè dalla rivelazione e da Cristo inteso come “evento” irriducibile e indeducibile41, come unità di storicità e di universalità, la riflessione teologica contemporanea ha reagito contro la concezione estrinsecistica del rapporto tra “ragione” e “fede”, che ne fa due sfere separate. Ha quindi sostenuto la necessità di superare un’antropologia del duplice fine (naturale e soprannaturale) e di riconoscere nella persona di Gesù Cristo la forma stessa dell’umano. Scrive Colombo: «La fede “appellata” strutturalmente dalla rivelazione, si propone come una determinazione ontologica. “Corrisponde” infatti alla finalità intrinseca – finis operis – della rivelazione. Coerentemente, sotto questo profilo, non è da intendere come “sovrapposta” accidentalmente e casualmente all’uomo già costituito, ma è da intendere come “costitutiva” dell’uomo, nel senso che l’uomo è originariamente “rivolto” verso la rivelazione/verità e “legato” ad essa inscindibilmente in un rapporto che inevitabilmente si determina in un’opzione»42.
10) La fede e l’evidenza del non controvertibile Il pensiero che intenziona l’“essere” si apre come un orizzonte formalmente infinito giacché l’essere è la “totalità di ciò che è” ed è quella dimensione al di fuori della quale nulla potrebbe essere né essere conosciuto: «Nulla potrebbe essere compreso dalla mente se non venisse inteso l’essere»43. La comprensione di un qualsiasi significato è pertanto la manifestazione della “totalità”. Tale essendo la struttura originaria del conoscere, che cosa può significare l’affermazione che il conoscere è costitutivamente, essenzialmente, originariamente unito alla fede? Può significare solo questo: che la struttura originaria del sapere è una dimensione finita e cioè che la conoscenza del tutto (che nella comprensione epistemica appare come stabile e definitiva) non è la conoscenza totale ed esaustiva del tutto; pur essendo apodittica, non è esaustiva della totalità del reale. Se la struttura originaria del sapere fosse onnisciente, se fosse l’apparire del volto concreto della totalità del reale, non vi sarebbe spazio per fede alcuna – posto che la fede si riferisce alle cose che “non appaio41 42 43
Cfr. Concilo Vaticano II, Gaudium et spes. G. COLOMBO, op. cit., 84. TOMMASO, In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis expositio, 605.
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no” (Eb 11,1). Se vi è qualcosa che non appare immediatamente come un errore, ma che non appare nemmeno come un’evidenza non controvertibile (quell’evidenza non controvertibile che spinge irresistibilmente all’assenso), allora la struttura originaria del sapere si trova essenzialmente unita al “problema” ed essere nella fede è precisamente il modo in cui si prende posizione rispetto ad esso. In rapporto a ciò che l’intelletto vede necessariamente, e cioè in rapporto alla verità intesa come il non controvertibile, non c’è possibilità di scelta: non si può fare a meno di assentire al non controvertibile. Ma che Gesù sia la “rivelazione/verità” non è qualcosa che appartiene al contesto di ciò che l’intelletto vede come non controvertibile, non può esserlo stante la definizione neotestamentaria della fede. Dal che segue che l’affermazione “Gesù è la rivelazione/verità” si fa presente al sapere epistemico mostrandosi, innanzi tutto, come un “problema” ossia come qualcosa che sta al di fuori rispetto alla dimensione del non controvertibile44. Lo stesso va detto per l’affermazione che l’ordine cristico (la predestinazione di tutte le cose in Cristo) è l’unico ordine effettuale, ossia concretamente e storicamente esistente. Anche in questo caso abbiamo a che fare con una proposizione che appartiene all’insieme dei contenuti che la ragione epistemica non riconosce come non controvertibili, ma rispetto ai quali essa si trova in un rapporto che inevitabilmente si determina in un’opzione – posto che si tratti di affermazioni non contraddittorie. In questo senso la ragione epistemica è originariamente unita alla fede, ma non può essere originariamente unita a una fede in particolare45. Il “problema” si costituisce in relazione a due proposizioni tra loro contraddittorie. Nel nostro caso si danno queste due proposizioni: “Gesù è la rivelazione/verità” e “Gesù non è la rivelazione/verità”. La struttura originaria (vale a dire il sapere che riconduce i suoi asserti alla immediatezza del principio di non contraddizione) sa che solo uno dei due lati della contraddizione è veramente possibile: lo sa perché i due lati sono disposti nella forma della contraddizione. Nella misura in cui la struttura originaria non è in grado di determinare quale dei due termini della contraddizione sia veramente possibile (e cioè: nella misura in cui il sapere originario non è in grado di stabilire l’autocontraddittorietà di nessuno dei due termini dell’alternativa), viene lasciato valere (come possibile) sia l’uno che l’altro termine della contraddizione. In questa situazione, “aderire” a Gesù e al suo messaggio (di cui non appare l’impossibilità del contraddittorio) è un trovarsi nella “fede”. Ma è un trovarsi nella “fede” anche il rifiuto del messaggio di Gesù. Ed è un trovarsi nella “fede” anche quel “non aderire”, quella forma di “non adesione” che è lo stare nell’indecisione. 45 Di fatto, l’incontro della ragione epistemica col messaggio giudaico-cristiano ha portato la filosofia antica al culmine delle sue possibilità espressive quanto alla determinazione del rapporto tra Dio e il mondo (cfr. Parte prima, parr. 14 e 15). Con Agostino e con Tommaso il cristianesimo ha inteso mostrare che la più alta espressione della ragione (il pensiero greco) è conciliabile con la parola di Cristo. Operazione analoga è stata compiuta da Avicenna nell’ambito della cultura islamica. 44
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11) La “capacità” di Dio 11.1) La conoscenza o il pensiero non è altro che conoscenza o pensiero dell’essere. Di qui la sua universalità e la sua strutturale relazione alla totalità di ciò che è: «L’anima è in certo modo [ossia intenzionalmente] tutte le cose», aveva detto Aristotele. La teologia ha inteso questo tratto distintivo dell’anima come segno della sua originaria relazione al divino: «L’intendimento», scrive de Lubac, «è, in potenza, volto a una infinità di oggetti: ciò non è forse segno che anche lo spirito è tendenzialmente proteso verso l’infinito?»46. E ancora, con esplicito riferimento alla dottrina aristotelica dell’anima, ma attingendo poi a piene mani alla tradizione agostiniano/platonica, de Lubac aggiunge: «Noi siamo pánta pôs fu scritto, perché Theòs pôs; si è anche parlato di una “facoltà del divino” in noi: forse si potrebbe dire con maggior precisione e con più esattezza: l’intelligenza è facoltà dell’essere, perché lo spirito è capacità di Dio»47. 11.2) In questa direzione si muove pure l’indagine antropologico/teologica di Karl Rahner: la conoscenza spirituale, egli afferma, è «la pura apertura verso tutto, verso l’essere in generale […], apertura alla sterminata ampiezza di tutta la realtà possibile»48. Nell’elaborazione del concetto della conoscenza spirituale Rahner si ricollega a Kant e chiama “esperienza trascendentale” questa “apertura verso tutto” di cui è capace la conoscenza e la volontà dell’uomo. Si tratta di mostrare che, con questa esperienza fondamentale, «è già data come una conoscenza anonima e atematica di Dio, che quindi la conoscenza originaria di Dio non consiste nel cogliere un oggetto che si annuncia dall’esterno direttamente in maniera casuale, bensì che essa possiede il carattere di un’esperienza trascendentale»49. Se l’uomo è costitutivamente orientato verso l’assoluto dell’essere, «se l’orizzonte e l’origine della trascendenza, attraverso cui l’uomo esiste in quanto tale e che costituisce il suo essere originario in quanto soggetto e persona, è questo mistero santo assolutamente esistente, allora possiamo e dobbiamo dire in maniera singolare: il mistero nella sua incomprensibilità è l’evidente»50. H. DE LUBAC, Sulle vie di Dio, Edizioni Paoline, Alba 1976, 96. Ibid., 97. 48 K. RAHNER, Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo, Edizioni Paoline 1977, 39-40. 49 Ibid., 41. 50 Ibid., 42. 46 47
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11.3) Date queste premesse, di ciò che accade o può accadere nella storia si conosce già l’essenziale: ogni intervento reale di Dio nel mondo «è sempre solo la concretizzazione storica di quell’“intervento” con cui Dio, quale fondamento trascendentale del mondo, già in partenza si è inserito in questo come il fondamento che comunica se stesso”51. Anche questa prospettiva teologica si presenta dunque con il tratto tipico dell’epistéme, che è anticipante la storia e che non è meno prestabilente e precostituente nonostante Rahner (qui attento alla lezione di Heidegger) si sforzi di pensare l’orizzonte della trascendenza nel rapporto tra il manifesto e il nascosto: la costituzione del soggetto trascendentale, egli scrive, «è sorretta dall’essere che si dischiude e nel contempo si rifiuta come mistero»52, un mistero la cui ampiezza infinita «tutto abbraccia e tutto può abbracciare»53, un mistero che «dispone di noi»54 e che «si dà a noi nel modo di uno che si rifiuta, nel modo del silenzio, della lontananza»55, un mistero presente quindi e sempre sottraentesi, ma non per questo meno preordinante il corso della storia.
12) Il richiamo della ragione epistemica 12.1) L’essere è il termine dell’attività intenzionale del pensiero: è l’orizzonte entro il quale può manifestarsi tutto ciò che è. Riferendosi ad Avicenna e, attraverso Avicenna, ad Aristotele, Tommaso diceva: «Ciò che innanzitutto l’intelletto concepisce come la cosa più nota di tutte e in cui risolve tutti i concetti è l’ente»56. Conoscere le cose sotto la luce dell’essere vuol dire conoscerle come enti, come determinazioni che sono, e ciò non sarebbe possibile se non venisse inteso l’essere delle cose, il principio che le sorregge e le tiene fuori dal nulla57. Ibid., 123. Ibid., 68. 53 Ibid., 95. 54 Ivi. 55 Ivi. 56 Illud autem quod primo intellectus concipit quasi notissimum et in quod conceptiones omnes resolvit est ens (TOMMASO, De veritate, art. 1). 57 Il tema della costituzione originaria dell’intelligenza in forza della presenza dell’essere, inteso come l’atto di ogni ente e di ogni entità, sta alla base della grandiosa teorizzazione delle forme dell’essere (ideale, reale e morale) proposta da Antonio Rosmini, filosofo che si è confrontato con i giganti della modernità (Kant, Hegel) studiando a fondo i classici del pensiero antico e medioevale, soprattutto Platone, Aristotele e Tommaso. Cfr. ANTONIO ROSMINI, Aristotele esposto ed esaminato, Città Nuova Ed., Roma 1995. 51 52
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Le cose sono conoscibili in quanto sono e cioè in quanto dicono una certa relazione all’essere; e poiché la “prima verità” è quell’ente che è il suo stesso essere, ossia il sussistere stesso dell’essere (l’ipsum esse subsistens, l’essere che è e che è impossibile che non sia), l’Aquinate può sostenere che ogni conoscente «conosce implicitamente Dio in ogni conosciuto. Come infatti nulla ha ragione di appetibile se non per la somiglianza con la prima bontà, così nulla è conoscibile se non per la somiglianza con la prima verità»58. Certo, Tommaso sottolinea che la proposizione “Dio esiste”, che pure in se stessa è di per sé evidente (per se nota) perché il predicato s’identifica col soggetto, non è per noi evidente (non est nobis per se nota) perché non conosciamo l’essenza di Dio. Neppure l’affermazione dell’esitenza di una “prima verità” è per noi (quoad nos) così evidente come lo è l’affermazione che esite la verità in generale. Tuttavia, l’esistenza di una “prima verità”, di un essere “la cui quiddità è il suo stesso essere”, può essere dimostrata per mezzo delle cose che sono a noi più note. 12.2) Appoggiandosi al teorema di Tommaso per cui ogni conoscente conosce implicitamente Dio in ogni conosciuto, de Lubac afferma: «Ogni atto umano – conoscenza o volere che sia – attribuendo al reale, su cui si esercita, una solidità e un senso, si appoggia segretamente su Dio. Dio è l’Assoluto; e non si può pensare nulla senza porre l’Assoluto; non si può voler nulla senza tendere all’Assoluto, né stimar nulla senza pesarlo al peso dell’Assoluto»59. Attribuire al reale una solidità e un senso significa affermarne l’essere e quindi intendere il senso dell’essere senza il quale nulla potrebbe essere né essere compreso. Ma intendere il senso dell’essere significa avere a che fare con la dimensione dell’assoluto che non lascia nulla al di fuori di sé. Scrive perciò de Lubac: «Se lo spirito non affermasse Dio – se esso non fosse l’affermazione di Dio – non potrebbe affermare nulla. Come una terra privata del suo sole, esso non avrebbe più alcuna legge […]. Non potrebbe più giudicare. Avrebbe perduto la sola cosa che può servire di appoggio, di luce, di norma, di giustificazione, di riferimento a tutto il resto»60. TOMMASO, De Veritate, q. 22, a. 2 ad 1m. H. DE LUBAC, Sulle vie di Dio, op. cit., 51-52. 60 Ibid., 58. L’immagine del “sole” e della “luce” viene da Platone che se n’era servito per raffigurare l’“idea del Bene”, da cui dipende l’essere e la conoscibilità di tutte le cose. Aristotele aveva ripreso tale immagine per spiegare la funzione dell’intelletto agente, la cui luce intelligibile mette nella condizione di vedere i “colori” del mondo. Negli Analitici 58 59
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Ciò che andrebbe chiarito è per quale ragione l’Assoluto, che resta cosi affermato dallo spirito, non possa essere lo spirito stesso, considerato nell’unità del suo contenuto. Aristotele insegna infatti che l’anima è intenzionalmente tutte le cose e, in questo essere tutte le cose, il pensiero in atto e il pensato in atto sono uno61. Come si dimostra allora che l’Assoluto non è l’unità del pensante e del pensato, del conoscente e del conosciuto? Questo interrogativo se lo pone lo stesso de Lubac il quale, ad un certo punto, si chiede se l’essere, a cui giunge il cosiddetto argomento ontologico di sant’Anselmo, non sia altro, «alla fine, che il pensiero stesso che lo pone»62. Insieme a J. Paliard, de Lubac afferma che l’esperienza del pensare non è l’assoluto dell’essere perché è esperienza di una grandezza e di una esiguità: «Poiché il limite è oltrepassato, poiché l’insuperabile è affermato, non si può dimenticare che questo superamento reclama il limite, diciamo pure che è coscienza del limite. Per questo io so, ad un tempo, che io non sono che a causa di ciò che non può non essere oltrepassato e che non sono ciò che non può non essere oltrepassato […]. Nella sua stretta intellettualità, non è dunque il germe dell’idealismo e dell’immanentismo che contiene l’argomento anselmiano: è una meditazione sulla forza e sul limite, sulla miseria e sulla grandezza congiunte del nostro pensiero»63. A parte ogni altra considerazione, si può osservare che, replicando in questo modo, non si va ancora al cuore del problema, perché la replica si limita alla constatazione che l’esperienza del pensare è esperienza del superamento del limite: è cioè esperienza del divenire. Ma ciò che si tratta di capire è per quale ragione l’Assoluto non possa essere questa stessa esperienza del divenire ossia il processo del pensiero in atto. Per la ragione teologica, il rinvio alla ragione epistemico/metafisica si fa ineludibile. 12.3) Anche per Rahner l’orientamento costitutivo dell’uomo verso l’infinito – orientamento che, interpretato teologicamente, prende il nome di “grazia” – attesta la strutturale collocazione dell’uomo tra la
Secondi lo Stagirita aveva poi sostenuto che l’intelletto, che ha per oggetto i principi, è un «possesso sempre verace» e, nella Metafisica, aveva insegnato che il principio intorno al quale «non è possibile trovarsi in errore» è il principio di non contraddizione – che è appunto il principio dell’essere. 61 Cfr. ARITSOTELE, De anima, III, 430 a 20. 62 H. DE LUBAC, Sulle vie di Dio, op. cit., 105. 63 Ibid., 106-107.
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finitezza e l’infinità: è cioè il luogo in cui l’uomo fa esperienza della sua creaturalità. Rahner afferma che la relazione tra l’essere e il suo apparire nella coscienza dell’uomo non è la relazione tra due termini correlativi, ma è il risultato di una libera decisione dell’essere: «L’unità tra la trascendenza e il suo orizzonte non può davvero essere concepita come l’unità di due momenti orientati allo stesso modo l’un verso l’altro, bensì solo come l’unità esistente tra ciò che fonda e dispone liberamente e ciò che è fondato, come unità della parola originaria e della risposta che è resa possibile dalla parola»64. Ciò che nel discorso di Rahner resta da indagare è l’assunto della antecedenza della “parola” rispetto all’unità della parola e della risposta: l’assunto che l’unità della parola originaria e della risposta – unità che è costitutiva della coscienza dell’uomo – debba avere una fonte, un “donde”, un principio da cui viene. Ancora un volta, si impone il rinvio ad una metafisica dell’esperienza.
13) Ermeneutica del divino e ragione epistemica 13.1) Per la ragione teologica, la realtà sperimentabile è “segno” di qualcosa d’altro. «Il vertice della conquista della ragione», scrive Luigi Giussani, «è la percezione di un esistente ignoto, irraggiungibile, cui tutto il movimento dell’uomo è destinato, perché anche ne dipende. È l’idea di mistero […]. Il mistero non è un limite della ragione, ma è la scoperta più grande cui può arrivare la ragione: l’esistenza di qualcosa incommensurabile con essa»65. La dinamica del segno diviene quindi ermeneutica del divino e chiama in causa la volontà e la libertà, poiché il “segno”, che rinvia al divino nascosto, è «avvenimento da interpretare»66. Né l’interpretazione va intesa come produzione del senso del mondo, ma come indicazione di quel senso misterioso e inesauribile cui il mondo è essenzialmente legato: «Il mondo, mentre svela, “vela”. Il segno svela, ma nello stesso tempo vela. Ed è soltanto una attenzione particolare che, sotto o al di là di un drappo, apparentemente inerte, ti fa sentire la vibrazione
64 65 66
K. RAHNER, Corso fondamentale sulla fede, op. cit., 89. L. GIUSSANI, Il senso religioso, Jaca Book, Milano 1988, 155-156. Ibid., 163.
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di un corpo vivo che sta dietro; non senti il manichino, senti il corpo vivo»67. Ora, ciò che anche in questa prospettiva rimane da approfondire è l’assunzione che il mondo – e quindi il conoscere che è l’apparire del mondo – sia il “segno” di qualcos’Altro. Scrive ancora Giussani: «Il mondo è un segno. La realtà richiama ad un’Altra. La ragione, per essere fedele alla natura sua e di tale richiamo, è costretta ad ammettere l’esistenza di qualcosa d’altro che sottende tutto, e che lo spiega»68. Ma, ciò che si trova al di là dell’attuale e trascendentale identità di pensante e di pensato, va “dimostrato” ossia fondato, altrimenti rimane un presupposto – il che rinvia, ancora una volta, alla costruttività metafisica. 13.2) La ragione epistemica si incarica di mostrare che è impossibile sostenere l’identità della struttura originaria del sapere (dell’attualità stessa del conoscere nella sua concretezza) e della totalità del reale. Lo schema di fondo dell’inferenza metempirica è quello che presenta il problema nella forma della contraddizione – che alla tesi “l’altro rispetto alla struttura originaria del sapere è” contrappone l’antitesi “l’altro rispetto alla struttura originaria del sapere non-è” – e che riesce a mostrare la contraddittorietà di uno dei due termini dell’alternativa (“l’altro rispetto alla struttura originaria del sapere non-è”). Nella parte prima di questo lavoro69 mi sono un po’ fermato sulla formulazione classica della dimostrazione dell’esistenza di Dio e a quelle pagine rinvio. 13.3) Stabilito che la dimensione originaria dell’esperienza non è la totalità del reale, la metafisica epistemica riconosce che il rapporto tra la totalità del divenire e la totalità infinita del reale è tale per cui la prima nulla aggiunge all’altra quanto all’essere, giacché nulla si può aggiungere all’essere stesso sussistente. Se dunque la totalità del divenire “è”, essa “è” solo per una libera decisione di Dio. La sapienza metafisica si arresta qui, all’affermazione della dipendenza ontologica del mondo da Dio (che si traduce nella formulazione del teorema della creazione). Resta aperto il problema della determinazione del “volto” dell’Immutabile70. Ivi. Ibid., 184. 69 Cfr. Parte prima, par. 14. 70 Sul problema del passaggio dalla considerazione dell’“esistenza” (an sit ) alla considerazione della “natura” e del “volto” di Dio (quid sit), considerazione che suppone l’esistenza di forme molteplici della ragione e il rispetto dei risultati conseguiti dalla forma assoluta (epistemica) della ragione, si legga il saggio Su Dio, di Carmelo Vigna, in ID., Il frammento e l’intero, Vita e Pensiero, Milano 2000, 135-170. 67 68
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La teologia, quale riflessione sistematica sui contenuti della fede, riconosce in quel “volto” il tratto di Gesù di Nazareth e si impegna a mostrare che l’ipotesi cristiana è «possibile», vale a dire non contraddittoria e «conveniente», intendendo per «conveniente» ciò che «si incontra col desiderio dell’uomo»71. Tale ipotesi interpretativa del reale deve quindi rispettare due condizioni: in quanto si tratta della “rivelazione”, deve trattarsi di «una parola comprensibile all’uomo» e deve essere capace di portare un «approfondimento del mistero come mistero. Il suo risultato non deve essere una riduzione del mistero, quasi che l’uomo possa dire: “Ho capito!”, ma un approfondirsi del mistero. Per cui lo si conosce e lo si conosce sempre più come mistero»72.
14) Il mistero e la ragione 14.1) Un esempio notevole di approfondimento del mistero è il tentativo di rispondere alla seguente domanda: «Ma se Dio non ha alcun bisogno del mondo, allora perché il mondo esiste?»73. È una domanda che per von Balthasar non può eludere la riflessione teologica e sulla quale può gettare qualche luce la considerazione delle “processioni” divine: la processione del Figlio a partire dal Padre (generazione) e la processione dello Spirito Santo a partire dal Padre e dal Figlio (spirazione). L’“alterità” e la “differenza” del mondo sarebbero radicate nell’“altro” e nella “differenza” che si trovano nella stessa identità originaria di Dio: in effetti l’essenza divina non è «un rigido blocco di identità, ma è qualcosa che il Padre [eternamente] comunica, che il Figlio [eternamente] riceve, che il Padre ed il Figlio insieme [eternamente] donano allo Spirito»74. Con Bonaventura e Tommaso, von Balthasar afferma che Dio non avrebbe mai potuto “creare” se non avesse “generato” il Figlio. 14.2) Nel tempo dell’apogeo dell’epistéme, anche l’idealismo hegeliano aveva mostrato la “necessità” di pensare l’alterità/differenza in Dio.
L. GIUSSANI, op. cit., 190. Ibid., 191. 73 H. U. VON BALTHASAR, Uno sguardo d’insieme sul mio pensiero, in «Communio» (1989) 105, 40. 74 ID., Teodrammatica, Jaca Book, Milano 1986, vol. V, 65. 71 72
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Se l’unica caratteristica dell’Essenza assoluta fosse quella di essere indifferenza di soggetto e di oggetto, sarebbe inevitabile che in essa si confondessero e si perdessero tutte le differenze del mondo: l’Assoluto di Schelling, dirà Hegel, è la «notte nella quale, come si suol dire, tutte le vacche sono nere»75. Ma, se l’Essenza assoluta viene intesa come il sistema totale delle essenze (le categorie), l’Indifferenza sarà la caratteristica formale di un molteplice strutturato. A questo punto, che l’Essenza si realizzi come soggetto o come oggetto, non fa più problema76. Tenendo fermo questo nucleo teorico, Hegel poteva sostenere che l’Essenza assoluta, cui è approdato l’idealismo, è indifferente al suo esistere nel modo della soggettività, o nel modo dell’oggettività. Poteva sostenerlo senza cadere nella difficoltà che aveva incontrato Schelling nel pensare l’Assoluto come il puro significato che si realizza in entrambe le modalità dell’esistenza. Ciò perché l’Essenza assoluta di Hegel non è l’indeterminatezza (la “notte”) in cui si perdono i colori del mondo, ma il sistema totale e concreto delle differenti determinazioni del reale. Mentre l’Essenza assoluta di Schelling è nient’altro che Indifferenza la quale, realizzandosi come “soggetto” e come “oggetto” – facendosi Differenza –, si nega come Indifferenza, l’Essenza assoluta di Hegel è invece un complesso di significati: è il sistema totale del contenuto logico secondo cui si realizza ogni aspetto della realtà. La Scienza della logica, che questo contenuto prende in considerazione a prescindere dal suo realizzarsi nel soggetto o nell’oggetto, diviene così l’esposizione dell’eterna essenza di Dio.
G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, op. cit., 13. La soluzione di Hegel tiene sullo sfondo la concezione del rapporto tra essenza ed esistenza che risale alla tradizione scolastica. È opportuno un breve cenno. Per Tommaso l’essenza può essere considerata in due modi: 1) «secondo la natura e il valore proprio, e questa è una considerazione assoluta di essa» (De ente et essentia, III); 2) «secondo che si realizzi in questo o in quell’individuo» e, in questo senso, l’essenza «ha un doppio modo d’essere: uno nelle singole realtà e l’altro nell’anima» (Ibid.). Prendiamo, ad esempio, l’essenza di “uomo”. Tommaso diceva che essa, «considerata assolutamente [ossia nel primo dei due modi distinti], prescinde da qualunque modo di essere in maniera tale però che nessuno di essi venga escluso» (Ibid.). Potrà, dunque, tale essenza trovarsi realizzata in questo o in quell’individuo (in questo o in quell’uomo), ma anche nell’intelletto, dove possiede «un’esistenza astratta da tutti gli elementi individuanti ed ha un riferimento uniforme a tutti gli individui» (Ibid.). Altro è la pura essenza, il puro significato o contenuto logico di “uomo”, e altro è il suo esistere, fisicamente come individuo, o psichicamente come concetto. Dov’è chiaro che, quando si realizza l’essenza dell’“esser uomo”, non accade che si realizzi qualcosa di diverso dall’“esser uomo”; ciò che si realizza è, precisamente, il contenuto significativo di tale essenza. 75 76
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Ma quello di Hegel, come s’è visto, è stato il tentativo più grandioso di assorbire interamente la verità del “mistero” nella verità del sapere speculativo. 14.3) Di tutt’altro segno è invece l’ìntenzione dell’indagine teologica di von Balthasar che pure ragiona sul dinamismo intratrinitario, su quell’«eterno ed assoluto evento»77 di donazione che non comporta alcun divenire temporale. Qui non si tratta di tradurre il teologico nello speculativo, ma di addentrarsi sempre di più nella parola del mistero rivelato: «E se il donarsi del Padre al Figlio e di entrambi allo Spirito non corrisponde né ad un libero arbitrio, né ad una necessità, ma all’intima essenza di Dio (“nec voluntate nec necessitate sed natura”, DS 71), allora questa intimissima essenza – comunque possano distinguersi tra loro le processioni – può essere in ultima analisi solo amore»78.
15) Passaggio Nel determinare il “volto” dell’Assoluto, la teologia che poggia sul dato rivelato non può che partire dall’“evento” Gesù Cristo: «Del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo come divine “persone” noi sappiamo unicamente mediante la persona ed il comportamento di Gesù Cristo»79. Ma rivolgersi a Gesù Cristo ed accettarne il messaggio significa essere nella “fede” e trovarsi nella “fede” significa, come sappiamo, muoversi nell’ambito di ciò che “non appare”. Per quanto il contenuto della fede sia “conveniente” rispetto alla natura dell’uomo, per quanto sia “ragionevole”, per la ragione epistemica tale contenuto non si presenta come un qualcosa di incontrovertibile. Da parte sua, la fede rivendica per sé il carattere della “non dubitabilità”: la fede non è infatti una semplice “opinione”. Siamo così tornati al tema del rapporto tra ragione e fede. La natura di questo rapporto va ora indagata più a fondo.
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H. U. VON BALTHASAR, Teodrammatica, op. cit., 58. ID., Teologica, Jaca Book, Milano 1991, vol. II, 118. ID., Teodrammatica, op. cit. vol. III, 468.
PARTE TERZA
PERÒ NON PRESUMERE DI PENETRARE IL MISTERO […] MA CERCA DI CAPIRE CHE SI TRATTA DI REALTÀ INCOMPRENSIBILE ILARIO, DE TRIN., 2, CC. 10,11 1) La struttura originaria del sapere L’unità dell’esperienza è la totalità della realtà sperimentata nella sua attualità e nella sua obbiettività; è il punto di partenza di diritto del sapere in quanto tale perché non può darsi attività cognitiva né attività alcuna di acquisizione della conoscenza che non parta da questo orizzonte originario: «L’unità dell’esperienza» – scriveva il filosofo neoclassico1 Gustavo Bontadini – «è la totalità dell’immediato noto, la totalità del dato. Quindi l’unità dell’esperienza è non solo punto di partenza, ma l’unico punto di partenza del sapere in generale»2. L’esperienza come presenzialità, come pura esperienza, non vuol dire esperienza astratta ma, al contrario, esperienza concreta, concretissima, attualissima: un’esperienza che non annulla le distinzioni del suo contenuto, ma le rispetta tutte perché ne è l’apparire, la pura manifestazione. Il mondo degli affetti, dei legami, dell’agire teoretico, pratico, tecnico e, in generale, la straordinaria ricchezza dell’umano – compreso l’atto di fede per cui l’intelletto dà il proprio assenso alle “cose che non si vedono” – appare tutta al suo interno, quale suo contenuto oggettivo: che cos’altro è, infatti, l’affermazione dell’esistenza di tale ricchezza di contenuto se non l’apparire di tale ricchezza? La dimensione originaria del sapere va intesa non solo nel senso dell’immediatezza dell’essere presente, ma anche nel senso dell’affermazione immediata dell’identità/non-contraddittorietà dell’essere3. La La “neoclassica” è un’importante (a mio avviso, imprescindibile) stagione della filosofia “neoscolastica”, impegnata a valorizzare quel nucleo di verità perenne il cui deposito si trova nel cuore della filosofia ellenica: nel pensiero di Parmenide come premessa del pensiero di Platone e di Aristotele. 2 G. BONTADIN, Saggio di una metafisica dell’esperienza, Vita e Pensiero, Milano 1995, 129. 3 Il principio di identità e il principio di non-contraddizione sono principi coestensivi all’essere perché «valgono per tutti gli esseri, ossia non sono proprietà di un qualche genere dell’essere ad esclusione degli altri. E sono pertanto usati in ogni ricerca scientifica appunto perché convengono all’essere in quanto essere, e ogni genere di cose è essere» (ARISTOTELE, Metafisica, IV, 3, 1005 a 21-25). 1
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struttura anapodittica del sapere, ossia lo strutturarsi dell’immediatezza, è infatti costruita sulla convergenza di queste due coordinate, quella fenomenologica e quella logico-ontologica: «Ciò significa» – scrive il filosofo “neoparmenideo” Emanuele Severino – «che queste due posizioni [e cioè la posizione dell’essere e la posizione dell’incontraddittorietà dell’essere], in quanto reciprocamente distinguentesi, valgono come momenti astratti di un’unica struttura (della struttura dell’immediato)»4. Disposta sul terreno della principalità, ossia dell’immediatezza, la struttura originaria è l’essenza stessa del fondamento: è il positivo (l’essere) che è noto per se stesso e non per altro; è ciò la cui negazione si converte in autonegazione perché, con la negazione del fondamento (che è costitutivo formale di tutto ciò che è), la negazione nega ciò senza di cui essa stessa (negazione) non potrebbe né essere né apparire.
4 E. SEVERINO, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, 172. La parola “neoparmenidismo”, impiegata per definire la posizione di Severino (che afferma l’essere eterno dell’ente in quanto ente), è impropria. Se la verità dell’essere è quella scoperta da Parmenide (il “sentiero del giorno” non percorso dall’Occidente per cui «l’essere è e non gli è consentito di non essere» [fr. 2, v. 3] e il non essere non è «e non si potrà mai imporre che il non-essere sia» [fr. 7, v. 1]) è pur vero che, per Severino, il «primo responsabile del tramonto dell’essere» è proprio Parmenide (ID., Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 20052, 23) perché Parmenide è il filosofo che ha esplicitamente sostenuto che le differenze del mondo (che non significano “essere” e che perciò sono “non essere”) sono nulla. Severino afferma che «quanto Parmenide diceva del puro essere – “perché né nascere né perire gli ha permesso la Giustizia disciogliendo i legami, ma lo tien fermo” – la verità dell’essere deve ripeterlo di ogni essere, di ogni positività determinata» (Ibid., 72). Si badi che la “verità dell’essere” di cui parla Severino è la necessità che ogni essente sia e non gli sia consentito di non essere ed ha quindi un significato profondamente diverso dalla “verità dell’essere” (dal “non controvertibile”) di cui parla l’epistéme della filosofia tradizionale: per quest’ultima non vi è infatti alcuna contraddizione nel pensiero che “questo istante” o “questa relazione” o “questa situazione” sia stata nulla o possa tornare ad essere nulla. Ne La struttura originaria e in Essenza del nichilismo il termine “epistéme” viene utilizzato in senso “non nichilistico” e cioè per dare espressione ad un pensiero che scorge “incontrovertibilmente” l’impossibilità che un essente qualsiasi non sia. Per superare l’equivoco della parola “epistéme” (che assume significati essenzialmente diversi nel contesto della filosofia tradizionale e in quello in cui l’essente in quanto essente appare come eterno), da un certo momento in poi Severino ha preferito usare il termine “destino” (termine pur carico di sfumature), intendendo con ciò significare l’autenticamente stante e cioè l’essere identico a sé da parte di ogni essente – quell’essere identico a sé che è il suo essere altro dal proprio altro, il suo essere altro dal nulla, il suo essere eterno.
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Questi, nell’essenziale, i tratti di fondo della struttura originaria del sapere5 e cioè di una ratio che, in quanto struttura del fondamento, è non controvertibile apertura all’intero dell’essere: sta qui il significato speculativo della tradizionale comprensione dell’uomo come capax Dei6.
2) La struttura originaria e la fede Pierangelo Sequeri, che ha prestato grande attenzione al tema della “struttura originaria” (e, in particolare, alla filosofia di Emanuele Severino), scrive: «Non vedrei nessuno scandalo nell’eventualità di giungere ad iscrivere la forma della fides nell’atto di quest’apertura originaria e incontrovertibile del sapere dell’essere»7. Iscrivere, ossia includere la forma della fides nella struttura originaria, significa intendere la struttura originaria come essenzialmente unita alla fede. In effetti, se è vero che la struttura originaria del sapere è sì incontrovertibile, ma è anche finita perché non è onniscienza, allora tutto ciò che si colloca al di fuori del suo orizzonte (inteso come orizzonte di ciò che è incontrovertibile) è qualcosa che, sulle prime, fa problema8. A meno che non si mostri come qualcosa di contraddittorio perché, in questo caso, non avremmo a che fare con un problema, ma con un errore. Se l’affermazione che Dio si è fatto uomo non è contraddittoria ed appare come un problema, allora, rispetto al modo in cui si prende posizione dinanzi a questo problema originario, si è sempre nella fede, se Per lo sviluppo analitico di questo tema è d’obbligo il rinvio ai già citati Saggio di una metafisica dell’esperienza di G. Bontadini e La struttura originaria di E. Severino. Si tratta di due lavori quanto mai decisivi per uno studio sul fondamento. Il Saggio di Bontadini si muove, sostanzialmente, sulla scia della lezione aristotelico-tomista che pensa il senso dell’essente in quanto essente (e quindi il senso dell’originario) come non isolato dall’apparire degli essenti e del loro divenire. Il testo di Severino contiene invece l’indicazione del principio della “identità dell’essenza con l’esistenza” ossia della “alterità dell’essenza dall’inesistenza”, principio il cui sviluppo porterà Severino ad escludere l’esistenza del divenire ontologicamente inteso e qualsiasi riferimento al tempo (ossia alla possibilità che gli enti non siano) nella formulazione dell’identità. Ne viene una comprensione della struttura originaria abissalmente diversa da quella che informa l’intero pensiero occidentale – una diversa comprensione alla quale l’“ultimo” Bontadini ha prestato attento ascolto. Per approfondire questo punto si veda: G. GOGGI, Dal diveniente all’Immutabile. Studio sul pensiero di Gustavo Bontadini, Parte terza, Cafoscarina, Venezia 2003. 6 AGOSTINO, De Trinitate XIV, 8, 11. 7 P. SEQUERI, L’idea della fede, op. cit., 217. 8 Per il significato del termine “problema” si veda quanto già detto nel par. 10 della Parte seconda. 5
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per fede si intende l’assenso dato a qualcosa che non appare nella forma dell’evidenza incontrovertibile: argumentum non apparentium (Eb 11,1). Sta nella fede sia chi dà il proprio assenso alla parola di Gesù, sia chi, a tale parola, non dà il proprio assenso. Fermo restando che il cristianesimo non è un problema come tanti altri, perché ne va del compimento dell’essenza dell’uomo, e quindi ne va del compimento della verità, va anche detto che, se la struttura originaria è necessariamente unita alla fede, non è però necessariamente unita a una fede, neppure alla fede in Cristo. Se per la struttura originaria la resurrezione di Cristo non si presenta «nella forma di una oggettività incontrovertibile»9, se, dunque, per la struttura originaria definita nei termini che abbiamo appena richiamato (e cioè come struttura dell’incontrovertibile) il cristianesimo si fa innanzi, sulle prime, come qualcosa di problematico, è problematico anche che Cristo sia il compimento dell’essenza dell’uomo. Sequeri non giunge a tale conclusione, che però sta nella logica oggettiva di questo discorso10.
P. SEQUERI, op. cit., 97. La tesi per cui il cristianesimo storico è presente come un “problema” dinanzi allo sguardo della verità si trova sviluppata in E. SEVERINO, Studi di filosofia della prassi, Adelphi, Milano 19842. In questo scritto si sostiene la tesi che «quella forma del “Sacro”, che è il messaggio cristiano, possa essere (e quindi possa anche non essere) un tratto del volto definitivo o senz’altro il volto definitivo della verità in quanto liberatasi, nella misura consentita, dall’alienazione originaria» (21). La struttura originaria è contraddizione, è alienazione originaria «perché è l’apparire del Tutto e, insieme, il Tutto non vi appare nella concreta ed esaustiva ricchezza delle sue determinazioni, ma come semplice totalità formale […]; sì che ciò che non è il Tutto è posto come il Tutto» (19). In Studi di filosofia della prassi si sostiene che, scegliendo Cristo, la verità possa uscire (ma quindi anche non uscire) da questa contraddizione originaria determinata dalla circostanza per cui l’assoluta materia semantica non è originariamente posta – determinata cioè dalla “finitezza” della struttura originaria. Questa liberazione dell’originario può accadere “nella misura consentita” perché il finito non può diventare infinito, sicché la contraddizione originaria non potrà mai essere totalmente oltrepassata. Fino a qui si sono portati gli Studi di filosofia della prassi, la cui prima edizione è del 1962. A partire dagli scritti Ritornare a Parmenide (del 1964), Poscritto (1965) e Il sentiero del giorno (1967), ora raccolti nel già citato Essenza del nichilismo, Severino sosterrà la tesi per cui il cristianesimo storico, cresciuto all’interno delle categorie fondamentali del pensiero greco, non sia un “problema”, ma un “errore” e che pertanto non possa essere “un tratto del volto definitivo o senz’altro il volto definitivo della verità”. Per Severino, infatti, il pensiero greco ha aperto un senso della identità (e quindi del sapere originario) alterato, alienato, in quanto inclusivo della persuasione che gli essenti possano diventare altro da sé. 9
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3) La struttura originaria e la “verità” storica C’è da dire che la fede non è semplicemente un “tenere per vero” qualcosa, non è un semplice complesso dottrinale (una essenza intelligibile), ma si riferisce ad un “accadimento” e all’“esperienza” di un incontro, con tutte le implicazioni esistenziali che ne seguono: «Il vedere realmente Gesù risorto coincide con l’attivo assecondamento di una positiva risonanza indotta dall’essere intenzionalmente guardati e affettuosamente interpellati da lui»11. Ad essere interpellato e a risuonare affettivamente è tutta la persona del discepolo (e del credente), ma è la fede che fa dire al discepolo: la persona che sta lì dinanzi e che ti interpella… è Dio; a dire questo non è il sapere della ratio non contovertibilis ma la fede, che a quel contenuto determinato dà la propria ferma adesione. Al centro del sapere della fede sta l’affermazione della “storicità” di Cristo. Sequeri considera la fede «nell’orizzonte della rivelazione storica»12 e la «storicità di Gesù nell’orizzonte della fede»13. Ma per la struttura originaria l’esistenza storica di Gesù non è qualcosa di “evidente”, così come non è affatto “evidente” che siano esistiti Aristotele e Alessandro Magno. In effetti le cosiddette “verità storiche” sono il risultato di un processo interpretativo assai complesso, sostenuto da motivazioni tutt’altro che arbitrarie e tuttavia cariche di presupposizioni e di posizioni non incontrovertibili. Al limite, per la struttura originaria, si presenta come “problema” la stessa affermazione dell’esistenza di un passato “storico”. Agli occhi della ragione epistemica, che intende la verità non controvertibile, anche la “storicità” della resurrezione rimane pertanto qualcosa di problematico perché non riconducibile al contesto dell’evidenza logico/fenomenologica. A rigore, poi, il sapere della struttura originaria non concede neanche che si possa dire che la “resurrezione” vale senz’altro come “prova” della divinità di Gesù: che la resurrezione sia il proprium del Dio creatore e redentore del mondo e non un evento eccezionale toccato ad una persona vissuta “in un certo tempo”, questo si presenta, allo sguardo della struttura originaria, come un problema; e neppure si può escludere che, “in un tempo a venire”, le leggi della natura che oggi conosciamo siano sostituite da altre leggi per le quali il ritorno sulla terra del corpo dei morti sia la regola e non l’eccezione.
P. SEQUERI, op. cit., 99. Ibid., 34 sgg. 13 Ibid., 34 sgg. 11
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4) Il “sapere” della fede e il “sapere” della ragione 4.1) L’atto di fede impegna tutta la persona: «Paolo e Giovanni non intendono […] l’atto di fede come un atto umano singolo accanto a tanti altri, bensì come quel comportamento globale, quella disposizione d’insieme, per la quale l’uomo si trova in corrispondenza, nella forza della grazia, all’interpellazione della rivelazione divina»14. Questo comportamento globale è un evento in cui la fede dice: ciò che qui, storicamente, accade, è la presenza di Dio. In quanto atto dell’intelletto, la fede è appunto un dire che afferma: in questo accadimento storico c’è Dio; un dire e, quindi, un “sapere” nel quale l’uomo impegna tutta la sua esistenza. «Il Nuovo Testamento», spiega von Balthasar, «altrettanto come l’Antico Testamento, non teme affatto di riunire “fede” e “sapere” nello stesso atto totale dell’uomo; ad una condizione tuttavia che è una condizione antignostica: che la crescita del “sapere” non indebolisca la fede ma, al contrario, la rafforzi»15 – dove questo rafforzarsi della fede non è che il crescere del credente «dentro la fede, e solo dentro di essa, sempre più profondamente attraverso una maggiore conoscenza di Dio e della sua rivelazione in Cristo»16. È chiaro, da quanto precede, che il “sapere” di cui qui si tratta non è né può essere il “sapere” della struttura originaria che attesta la sua posizione sul piano del non controvertibile. Ma è pur innegabile che l’uomo, il quale impegna tutta la sua esistenza nell’adesione alla parola di Dio, vive nell’intima persuasione che questo “sapere” della fede non sarà mai contraddetto dal “sapere” della ragione non controvertibile. 4.2) “Noi sappiamo…” ripete spesso l’apostolo Paolo. “Scimus…”. E von Balthasar rileva che «nessuno parla in maniera così disinvolta del “sapere” come quando Paolo tratta dei “misteri della fede” [cfr. Rm 6,8/9; 2Cor 4,14 e 5,1]. Che questo sia dialetticamente un sapere sull’amore di Cristo che supera ogni sapere (Ef 3,19), che dunque sia un sapere per il fatto che da sé non si sa niente, ma perché si è conosciuti da Dio amandolo (1Cor 8,2/3), tutto ciò non impedisce che si dia in noi una conoscenza cristiana autentica (1Cor 8,7), una scienza e una sapienza (1Cor 2,6/7; 12,8) attraverso lo spirito di Dio e di Cristo»17.
H. U. VON BALTHASAR, Gloria. Volume uno. La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1975, 117. 15 Ibid., 119. 16 Ivi. 17 Ibid., 120. 14
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La “sapienza”, che “non è di questo mondo” (1Cor 2,6), possiede per Paolo la stessa certezza che ha la speranza cristiana, «una certezza che non poggia sull’evidenza propria dell’intelligenza umana, ma sull’evidenza manifestata della verità divina [in der kundgetanen Evidenz der göttlichen Wahrheit beruht]: non già nell’aver afferrato, ma nell’essere stati afferrati»18. La verità della fede in Cristo è dunque eccedente rispetto alla capacità della ragione umana: la certezza della fede non trova il suo fondamento sull’evidenza propria dell’intelletto – Dio infatti rivela ciò che la ragione umana con le sue sole forze non è in grado di conoscere –, ma questo non significa che la fede sia incompatibile con la struttura originaria del sapere. Non significa incompatibilità formale nella misura in cui, per la teologia, è “evidente” che il contenuto della fede è stato rivelato da Dio: non solo è impossibile pensare che si dimostrino falsi i principi naturali della ragione, in quanto sono espressione della struttura originaria, ma «neppure è lecito ritenere che possa esser falso quanto viene affermato per fede, essendo confermato da Dio in maniera così evidente, cum tam evidenter divinitus confirmatum sit»19. Il pensiero che l’uomo incontra Dio nella storia produce un intreccio tra “fede” e “sapere” che in Giovanni si fa ancora più stretto e indissolubile che non in Paolo. «Infatti», scrive von Balthasar, «anche se egli parla di “segni”, semêia, nei quali la fede può trovare la sua verità, questi segni sono per Giovanni a tal punto l’epifania immediata della cosa stessa, dell’essere divino di Cristo, che la fede ottenuta dal semêion è per lui identica ad una “visione” della gloria di Cristo e di Dio in Cristo. Questa visione, però, non lascia fuori di sé la fede, ma non fa che operarla a sua volta ancora più profondamente. I due aspetti possono quindi essere affermati semplicemente l’uno accanto all’altro. “Noi crediamo e sappiamo che tu sei il santo Dio” (Gv 6,69)»20. Per von Balthasar, e per la tradizione teologica, alla base della fede c’è l’“evidenza” dell’incontro dell’uomo con Cristo: ciò che è “evidente” è che Dio si fa incontro all’uomo e gli parla. Si tratta però di tenere ben distinto e cioè di non con-fondere questa “evidenza” con la forma dell’“evidenza” che è un momento della struttura originaria: perdere di vista questa fondamentale distinzione e trattare l’incontro dell’uomo con l’uomo/Dio come se fosse un’evidenza assoluta – come se fosse un’evi18 19 20
Ivi. TOMMASO, Summa contra Gentiles, I, c. 7. H. U. VON BALTHASAR, Gloria, op. cit., 120.
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denza epistemica che Gesù è il Figlio di Dio – fa precipitare nella gnosi attraverso la riduzione del cristianesimo alla struttura originaria21. Se si vuole evitare il sopravvento della gnosi, si deve riconsiderare il rapporto tra la fede e la ragione (la «circuminsessione di pistis e gnosi») e riconoscere che «è attraverso la fede nella divinità di Cristo che si può penetrare in questo spazio intradivino della verità, nel quale si apprende a vedere e a comprendere l’essenza della verità, ma come ciò che spetta essenzialmente alla gloria di Dio e presuppone la rinuncia al proprio onore e all’evidenza che poggia su se stessa»22. Si deve riconoscere che è l’atto di fede che introduce all’“essenza della verità”. L’atto di fede non trasforma però il contenuto della fede da non evidente in evidente: una “evidenza” che non poggia su se stessa non è l’evidenza della struttura originaria che è la struttura di ciò che è per se notum, la struttura del non controvertibile. E ciò che non appartiene al contesto del non controvertibile rimane, per la struttura originaria, qualcosa di problematico e di controvertibile, anche se lo si chiama “essenza della verità”. 4.3) A questo punto si fa urgente capire che cosa intende la tradizione teologica quando riferisce il carattere dell’“evidenza” al contenuto soprannaturale della fede cristiana (al corpus delle verità di fede). Se ciò volesse dire che è evidente che Gesù è il Cristo – e se questa affermazione dell’esistenza di Dio fosse intesa come un’evidenza della struttura originaria –, negare l’esistenza del Dio che si rivela nel Figlio, negare il “fatto” della rivelazione, significherebbe negare l’evidenza manifestata (die kundgetane Evidenz), rifiutare ciò che si mostra confermato con tanta evidenza (tam evidenter). Ma negare l’“evidenza”, intesa come evidenza della struttura originaria, vale quanto negare la struttura originaria, dal momento che l’evidenza è un tratto dell’innegabile struttura originaria. Se l’impianto della ragione teologica fosse quello appena descritto (ed è innegabile che sia forte la tentazione che spinge la ragione teologica in questa direzione), si dovrebbe affermare che il cristianesimo è una gnosi che, ben altrimenti che rafforzare la fede, la assorbe per inte21 Il rischio di una con-fusione (identificazione) dell’“evidenza” della fede con l’evidenza che è propria della struttura originaria del sapere, attraversa le pagine del libro “L’evidenza e la fede”, Glossa, Milano 1988, scritto dai teologi Giuseppe Angelini, Angelo Bertuletti, Giuseppe Colombo e Pierangelo Sequeri. Una lucida disamina del tema di fondo di questo libro (ossia della congiunzione del pensiero simbolico col sapere originario della verità) si trova nel saggio di CARMELO VIGNA, La scuola teologica milanese e l’evidenza della fede, in ID., Il frammento e l’intero, op. cit., 503-529. 22 H.U. VON BALTHASAR, Gloria, op. cit., 121.
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ro nel filosofico: una gnosi dispiegata, dunque, che cancella ogni sovra razionalità (ogni eccedenza rispetto alla facoltà razionale) e quindi ogni aspetto di sovrannaturalità dell’evento. Ma, poiché non è né può essere questa l’intenzione esplicita della teologia, è inevitabile che la stessa teologia razionale riconosca che l’“evidenza” di cui essa parla quando parla di “verità storica” della rivelazione e di “evidenza” dell’esistenza del Dio che si rivela in Cristo Gesù, si riferisca ad un senso della “evidenza” che non può essere quello contenuto nella struttura originaria pena – lo si ripeta – la completa riduzione del cristianesimo al filosofico: riduzione che farebbe oltretutto del cristianesimo non una filosofia, ma la filosofia. Citando Clemente Alessandrino, von Balthasar scrive: «La fede è il fondamento, la gnosi quanto vi è costruito sopra, quella è l’alfa, questa è l’omega»23. La fede non significa «per prima ed ultima cosa il “ritenerper-vere delle affermazioni” che, essendo incomprensibili alla ragione umana, possono essere accettate solo nell’obbedienza all’autorità: la fede infatti nonostante tutta la trascendenza della verità divina, anzi proprio mediante essa, conduce l’uomo alla comprensione di ciò che Dio è in verità, ed in questa comprensione (accanto ad essa) anche alla comprensione di se stesso»24. Ma questo lo si può dire, daccapo, se si ritiene che, al contesto di ciò che appare, appartenga l’evidenza dell’incontro con la gloria luminosa (kabôd, dóxa) di Dio, incontro che accade nella storia: «L’autorità divina sta dalla parte della dóxa divina che si manifesta, anzi è una stessa cosa con essa, in quanto in ambedue la divinità di Dio si fa incontro al credente. Pertanto questa manifestazione della gloria non ha bisogno di altra giustificazione al di fuori di se stessa: il logos di Dio è, nell’identità, libera parola di Dio e ragione di Dio. E se il credente non percepisce provvisoriamente la ragionevolezza intima della libera parola, tuttavia, a partire dal fatto: Dio parla, sa immediatamente che la sua parola è la ragione stessa»25. Ciò che va messo in chiaro è il senso dell’affermazione che la parola di Dio sia un “fatto” saputo immediatamente. Viene infatti da chiedersi di quale “sapere” stiamo parlando. Se si trattasse del sapere della struttura originaria (che è la struttura non controvertibile delle immediatezze), allora l’affermazione che la parola di Gesù è la parola di Dio sarebbe da ricondurre al piano originario del sapere, al quale andrebbe pure ricondotta la “ragionevolezza intima della libera parola” e tutto il 23 24 25
Ibid., 123. Ibid., 124. Ibid., 126.
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suo contenuto. Se invece si tratta del sapere della fede (nel testo di von Balthasar si parla infatti del sapere del credente), allora l’identità di Gesù e del suo essere Figlio di Dio, e così il carattere divino della Sua parola, non può essere un’evidenza indiscutibile, ma è appunto uno di quei “non apparenti” tenuti fermi dalla fede. Se la ragione teologica non vuol precipitare nella forma più scoperta di gnosticismo, deve dunque riconoscere che l’affermazione “Dio si rivela nella storia” è un contenuto della fede che dà il proprio assenso affidandosi a Gesù: che Gesù sia il Figlio di Dio (che nel Figlio rivela compiutamente se stesso) è uno dei contenuti della fede, ossia un significato complesso di cui non appare l’impossibilità del contraddittorio. Ma, se è per la fede che diciamo che Gesù è il Cristo, allora è sempre per la fede che possiamo dire che il contenuto della fede cristiana è “confermato” e cioè rivelato da Dio. Se poi non si vuole consegnare la ragione nelle mani della fede e passare così dalla parte del “fideismo” (che non riconosce alla ragione alcuna effettiva autonomia ed alcuna competenza nelle questioni di fede), va considerata la possibilità che l’espansione del potenziale conoscitivo della ragione “epistemica” entri in contraddizione con la fede. In effetti, le “ragioni” della fede (i motivi della sua credibilità, la sua “ragionevolezza”, la sua convenienza) non possono appartenere alla ragione “epistemica” – e ciò che non appartiene alla ragione “epistemica” può essere negato senza contraddizione.
5) L’“esperienza” e l’apparire della necessità 5.1) La teologia parte dall’unità della fede e del “sapere”, dopodiché deve riconoscere l’irriducibilità della fede alla struttura originaria, e ciò al fine di rendere conto dell’atto di fede mediante il quale l’uomo corrisponde alla rivelazione divina. Il testo di von Balthasar è molto istruttivo: «Se […] “vedere” e “sapere” vengono rigidamente fissati mediante una siffatta determinazione dei concetti, che la fede appare incompatibile con essi e li esclude intrinsecamente (in quanto comportano una resolutio in principia evidentia intellectus), allora, per quanto questo possa essere essenziale e fondamentale per un chiarimento della fede, bisogna tuttavia dire che così non si coglie il vedere ed il sapere che nella Scrittura vengono affermati della fede in quanto tale»26. 26
Ibid., 128.
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Per la determinazione della forma della fede, la rigida contrapposizione al “sapere” è senz’altro fuorviante. Ma il rilievo che vi è un senso del “vedere” e del “sapere”, cui la fede non può essere risolta, è tutt’altro che trascurabile perché è l’attestazione del significato dell’evidenza incontrovertibile rispetto alla quale il “vedere” ed il “sapere” della fede vengono chiaramente distinti: è cioè l’attestazione del significato originario del “vedere” e del “sapere”. 5.2) Se dunque il “vedere” ed il “sapere” della fede non possono essere quelli che appartengono alla struttura originaria del sapere, di quale “vedere” e di quale “sapere” si tratta? Von Balthasar parla di una «esperienza “estetica” della gloria sublime dell’essere divino, in nessun caso tuttavia di un puro scorgere, di una visione beatificante, ma, dall’origine, di una perfetta sottomissione sotto la sovranità di questa luce-verbo»27. Per spiegare il senso di questa “esperienza” estetica di Dio, il teologo svizzero richiama il significato trascendentale dell’esperienza umana come esperienza dell’essere (come apertura originaria alla luce dell’essere) e della elevazione di questo apriori filosofico nella luce/forma di Dio che si rivela: «La luce dell’essere, nella quale noi conosciamo ogni ente, senza poterla ogni volta osservare oggettivamente e che tuttavia nello stesso tempo scorgiamo in ogni ente, giacché noi possiamo conoscere qualsiasi cosa soltanto nella luce e nella prospettiva dell’essere – questa luce si approfondisce e si eleva nel lumen fidei origeniano-agostiniano-tomista»28. Detto questo, von Balthasar aggiunge che la luce della fede è il principio di una qualche visione, ma non è (né può essere) l’apparire della “necessità” di ciò che appare: «Non quasi fosse già visione della cosa stessa, intuizione di Dio e dei misteri divini o intelligenza interiore del suo dover essere-così-e-non-diversamente: un’intuizione siffatta è riservata alla vita eterna»29. 5.3) L’intuizione del dover essere-così-e-non-diversamente da parte di qualcosa è l’apparire del nesso necessario tra il qualcosa che appare e il suo essere così e non diversamente. Ma l’apparire di un nesso necessario è qualcosa che non può essere conosciuto in base ad una semplice esperienza. Aristotele lo sapeva bene e la filosofia ha sempre tenuto ferma questa verità. 27 28 29
Ibid., 149. Ibid., 151. Ibid., 151.
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In effetti, che cosa attesta l’esperienza? L’esperienza attesta che qualcosa sta in un certo modo e non l’impossibilità che quella cosa stia in altro modo: attesta, ad esempio, che, sopra il tavolo, c’è un bicchiere, ma la semplice considerazione fenomenologica non può escludere che, in un secondo momento, il bicchiere possa essere spostato. Dire che la “necessità di un nesso” non può essere semplice oggetto di esperienza non vuol dire che la “necessità” di un nesso non possa essere vista e cioè non possa manifestarsi; vuol dire che, per apparire come necessario, quel nesso deve mostrarsi come ciò che esclude il proprio contrario perché contraddittorio. Ciò significa che neppure Dio può essere l’oggetto di una semplice “esperienza”, a meno che questa “esperienza” non sia l’apparire del dover essere-così-e-non-diversamente da parte di ciò che appare, a meno che, cioè, l’“esperienza” non sia intesa come l’apparire dell’impossibilità che ciò che in essa appare possa essere altrimenti da come è. In questo caso, però, non avremmo più a che fare con la “fede” che Gesù sia il Cristo, ma con l’apparire della necessità del nesso tra Gesù e il suo essere il Cristo. Fermo restando che l’intuizione della necessità del nesso tra ciò che viene visto e il suo essere Dio si dà solo nella visione beatifica, il testo di von Balthasar si chiude dicendo che, ciononostante, «la vita eterna è già iniziata nella grazia e la fede che si dona alla luce è quindi già una quaedam inchoatio visionis»30 – il che non può significare che noi “facciamo esperienza” della vita eterna, né che noi “vediamo” la divinità di Gesù nel senso del “vedere” incontrovertibile (“evidenza” in senso forte); significa invece che noi crediamo che Gesù sia il Cristo e che abbiamo fede in Lui.
6) Eine besondere christliche Gnosis Il compito della teologia è la costruzione di una sintesi tra il sapere (la gnosi) e la fede (la pistis): quanto più si fa profonda l’esperienza del Dio incomprensibile, scrive von Balthasar, tanto più questa “esperienza” «introduce il credente in una gnosi cristiana particolare [in eine besondere christliche Gnosis] la quale è tuttavia, al tempo stesso, pistis sempre più centrale: donazione sempre più totale all’abbondanza sempre più grande del Dio libero e sovrano»31. 30 31
Ibid., 151. Ibid., 153.
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Si tratta di un “sapere”, di una gnosi, ma particolare, perché è soltanto nella luce della grazia e della fede che la “forma” di Cristo diventa visibile come quella forma «nella quale tutto si accorda alla luce che vede, ma nella quale chiaramente questo accordo non poteva essere raggiunto che a partire da Dio e non può quindi essere riconosciuto come tale se non a partire dalla luce della fede»32. È soltanto nella luce della fede che Gesù si fa presente come il Cristo che corrisponde a tutte le attese dell’uomo ed è soltanto agli “occhi della fede” che, nel centro della storia, si mostra la rivelazione della storia biblica della salvezza, l’arte di Dio: «La sola luce della ragione è chiaramente insufficiente a illuminare quest’opera […]; la luce divina della fede vede invece questa forma tale qual è, e per di più in maniera tale da poter dimostrare che l’evidenza della verità della cosa brilla nella cosa stessa e a partire da essa. In questa luce può essere dimostrato che qui non si tratta di una proiezione dell’immaginazione religiosa produttrice di miti, ma del capolavoro della fantasia divina che manda a monte qualsiasi fantasia umana»33. Ma qualora il “sapere” della fede riuscisse a “dimostrare” che qui abbiamo a che fare con una “forma” costitutiva di ogni esperienza e cioè di una “forma” che solo a parole può essere negata (perché ciò di cui qui si tratta è l’evidenza stessa della verità che brilla nella cosa stessa, die Evidenz der Richtigkeit der Sache an der Sache selbst), il “sapere” della fede avrebbe raggiunto l’apogeo del sapere filosofico tramutandosi così nella forma perfetta della gnosi: la “fede” non sarebbe una gnosi particolare, non sarebbe una gnosi che si lascia guidare dalla fede, ma sarebbe la perfetta gnosi, la più alta e compiuta filosofia.
7) La forma della fede e l’apparire del non controvertibile 7.1) La teologia contemporanea – lo si è visto nella parte seconda di questo studio – ha dovuto fare i conti con un concetto di “ragione” separata dalla “fede” ed ha pertanto rivendicato l’esistenza della ragione nella fede denunciando l’astrattezza dell’impostazione estrinsecistica. L’esito fuorviante dell’approccio “esterno” alla verità della fede è stato ben riassunto da von Balthasar: «Sotto l’influsso di un concetto moderno e razionalistico della scienza la questione si è sempre più allontanata dal centro che le è proprio – “In che modo la rivelazione di Dio si fa presente all’uomo nella storia? In che modo viene percepita?” 32 33
Ibid., 157. Ibid., 158.
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– per accamparsi sempre più ai margini e diventare una questione così concepita: “Qui è comparso un uomo che afferma di essere Dio e, sulla base di questa affermazione, esige che si accettino da lui molte verità che si sottraggono alla verifica della ragione: in che modo è possibile fondare la sua pretesa autoritaria in un modo conciliabile con la ragione?”. Chi pone la questione in questi termini, propriamente ha già perduto ed incappa nel dilemma insolubile o di credere sulla base di una sufficiente certezza della ragione (ma allora non crede più a motivo dell’autorità divina e la sua fede non è una fede cristiana), oppure, per poter prestare una fede veramente cristiana, di rinunciare alla certezza della ragione di poggiarsi su semplici probabilità (ed allora la sua fede non è realmente ragionevole). Abbiamo a che fare con quell’apologetica che distingue tra un contenuto non evidente che deve essere creduto e un “segno” che appoggia la verità di questo contenuto (segni che tuttavia provano o troppo o troppo poco)»34. 7.2) Alle considerazioni fin qui svolte sul rapporto tra ragione e fede – considerazioni che ne mettono in rilievo la strutturale tensione – si potrebbe pensare di estendere la critica balthasariana dell’approccio “esterno”. Ma, così facendo, non si sarebbe colto il senso di quanto qui si sostiene. Sarà bene, pertanto, procedere con alcune precisazioni. Innanzi tutto va ribadito che il concetto moderno e razionalisitico di scienza non è in accordo con il senso della “ragione” cui si rivolge questo scritto. E questo perché la “ragione” moderna ha alla sua base il presupposto realistico/naturalistico dell’alterità dell’essere dal pensiero (l’ammissione dogmatica della dualità di essere e di pensiero), mentre il senso della “ragione” che viene considerato in queste pagine dà per guadagnato il toglimento idealistico di quel presupposto, senza perciò cadere nelle pretese esorbitanti ed onnicomprensive dell’idealismo35. Ma poi va detto – nell’essenziale – che il senso della “ragione”, di cui ci stiamo occupando, rinvia al significato della struttura originaria del sapere intesa come la struttura dell’evidenza epistemica e cioè dell’evidenza “in senso forte”. La tesi qui sostenuta è che la forma della fede non può essere la forma “forte” dell’evidenza non controvertible. Ciò non significa che il contenuto della fede in Cristo sia qualcosa che è privo di “ragione”. Si può infatti sostenerne la “ragionevolezza” e la “convenienza” (l’ade-
34 35
Ibid., 158. Cfr. Parte prima, parr. 10-11.
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guatezza) rispetto alle attese della natura umana. Ma non bisogna dimenticare che queste “ragioni” non hanno né possono avere la forma “forte” dell’evidenza non controvertibile perché, in questo caso, non avremmo più a che fare con la “fede” in Gesù Cristo, ma col “vedere” la necessità dell’essere Cristo da parte di Gesù – un “vedere” la necessità che non è il contenuto di una semplice “esperienza” (o di un semplice “incontro”, di un semplice “fatto”), perché è il mostrarsi di ciò che non può essere altrimenti da com’è. 7.3) A proposito dell’apparire di Dio von Balthasar afferma: «Se Dio deve manifestarsi nella sua divinità, allora deve manifestarsi anche nella sua eterna inaccessibilità: si comprehendis, non est Deus, se comprendi allora non è Dio. Nella rivelazione tuttavia l’inaccessibilità non è la determinazione negativa di ciò che non viene conosciuto, bensì la proprietà positiva e, proprio per questo, vista e compresa, di colui che viene conosciuto […]. Noi non ci innalziamo mai al di là di ciò che riconosciamo posto essenzialmente al di sopra di noi. Non sarà diverso per noi quando, nella visione beatifica, staremo davanti a Dio, perché allora vedremo che Dio è sempre il più grande»36. Il che è vero. La piena “comprensione” dell’infinito da parte del finito implicherebbe l’impossibile identificazione dell’infinito e del finito, un assurdo che non trova spazio né in terra né in cielo. Ma è la stessa fede ad affermare che, nel cielo della “visione beatifica”, si vedrà qualcosa che non appare né può apparire nell’orizzonte della “fede”: si vedrà Gesù in maiestate sua e cioè nella “gloria” della verità non più contrastata da ogni possibile tentativo di mettere in questione il tratto cristico37.
8) La “percezione della forma” e la fede come problema 8.1) «Anche nella conoscenza della fede», scrive von Balthasar, «è possibile una percezione autentica della forma»38. Nella “percezione della forma”, il sapere della fede distingue «tra la fede in Cristo […] e la fede in quelle sue parole che esprimono miste-
H. U. VON BALTHASAR, Gloria, op. cit., 171. Ma poi è necessario che Gesù si mostri in maiestate sua anche nel giorno del Giudizio finale. Diversamente il Suo Giudizio non avrebbe alcun valore – valore che invece conserva tutto nella misura in cui appare non come la prevaricazione del più forte, ma come l’espressione della stessa non controvertibile verità dell’essere. 38 H. U. VON BALTHASAR, Gloria, op. cit., 173. 36 37
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ri inverificabili […]. Questi due tipi di fede non stanno sullo stesso piano. La prima fede è quella che sostiene chiunque si metta alla sequela; è quella percezione della forma di Gesù che penetra ed è soggiogata al tempo stesso da qualcosa di più grande ed ineffabile»39. La fede nel mistero della sua parola è tenuta ferma «perché si tratta proprio di lui, perché ciò che dobbiamo vedere […] per poter credere […] è sufficientemente visibile nella sua forma e figura»40. Siamo dinanzi al grandioso tentativo balthasariano di tradurre la certezza della “fede” nel senso dell’evidenza “oggettiva” del contenuto, fino al punto di pensare che, nell’analogia delle varie forme di “evidenza”, il primo analogato sia proprio la percezione della forma della divinità di Gesù: «La forma centrale di evidenza, dalla quale dipendono tutte le altre [Die zentrale Evidenzform, an der alles übrige hängt], è la percezione della forma oggettiva di Dio in Gesù Cristo, che non è “creduta” [“geglaubt”], ma “vista” [“gesehen”] pur con tutta la fede che abbiamo in Gesù Cristo»41. La chiusa finale “pur con tutta la fede che abbiamo in Gesù Cristo” attenua, ma solo in parte, la forza di quel “vedere”. La attenua solo in parte perché quel “vedere” (quel “sehen” avente per oggetto la divinità di Gesù) è pur pensato come la “forma centrale di evidenza dalla quale dipendono tutte le altre”. Quale può essere, dunque, il significato di questa forma emergente di evidenza se non che si “vede”, sia pure con tutta la fede che abbiamo in Gesù Cristo, la “necessità” che è in Lui? Si tratta invece di tener fermo che la fede è delle cose che non appaiono e che, dunque, il suo contenuto non è affatto qualcosa che si dà nella forma del sapere epistemico. 8.2) A quest’ultima affermazione (la fede è delle cose che non appaiono) si potrebbe replicare a partire da una possibile obiezione presa in esame da Tommaso: «La fede è una certa conoscenza; ma ogni conoscenza si verifica secondo che qualcosa appare al conoscente: infatti sia nella conoscenza sensitiva che nell’intellettiva qualcosa appare; dunque non è corretto dire che la fede sia delle cose che non si vedono»42. A questa possibile obiezione lo stesso Aquinate controbatte così: «La conoscenza può comportare due cose, cioè la visione e l’assenso [visionem et assensum], e quanto alla visione si distingue dalla fede: per
39 40 41 42
Ibid., 183. Ivi. Ibid., 187. TOMMASO, De fide, a. 2, 15.
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cui Gregorio dice che, nelle cose viste, “non c’è fede, ma acquisizione conoscitiva” [In Evang., II, hom. 26]; ora, secondo quanto dice Agostino nel libro Sulla visione di Dio [Epist. 147, 3], viste sono quelle cose che “sono presenti al senso” o all’intelletto; e d’altra parte si dice che sono presenti all’intelletto quelle cose che non superano la sua capacità [intellectui autem praesto esse dicuntur quae eius capacitatem non excedunt]. Quanto invece alla certezza dell’assenso, la fede è conoscenza, ragion per cui può essere anche chiamata scienza e visione, secondo quanto dice s. Paolo nel versetto 12 del cap. 13 della Prima Lettera ai Corinti: “Ora vediamo mediante uno specchio nell’enigma”; ed è quanto dice Agostino nel libro Sulla visione di Dio: “Se si dice in modo non incongruente che noi abbiamo scienza anche di ciò che crediamo [essere] assolutamente certo, allora ne segue che è giusto che noi vediamo con la mente anche le cose credute, nonostante che non siano presenti ai nostri sensi”»43. Dunque, dove qualcosa “appare”, dove si dà la “visione” della cosa, lì non si ha a che fare con la fede, ma con la conoscenza del qualcosa: quanto alla visione, la conoscenza si distingue dalla fede. Questo non vuol dire (beninteso!) che la fede in Gesù sia l’apparire di “niente” perché, anche nella fede, che è il fermissimo assenso dato alla persona di Gesù, “qualcosa” viene ad apparire, ed è per ciò che Tommaso afferma che, quanto alla certezza dell’assenso, la fede è conoscenza: in essa viene tenuto in vista un certo significato. «Disse loro: “Voi chi dite che io sia?” Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”»44. Pietro non avrebbe potuto affermare la sintesi tra “Gesù” e il suo essere “il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, se non avesse in qualche modo inteso il significato dei termini posti in relazione. Ma possiamo dire che a Pietro sia apparsa la “necessità” della sintesi tra “Gesù” e il suo essere “il Cristo, il Figlio del Dio vivente”? Possiamo dire che Pietro abbia “visto” l’“impossibilità” di negare questa sintesi? Se a questi interrogativi rispondessimo affermativamente, dovremmo riconoscere che Pietro vede l’appartenenza della divinità di Gesù alla struttura originaria del sapere: dovremmo cioè riconoscere che Pietro non si trova più nella condizione di colui che ha “fede”, ma nella condizione di colui che “vede” l’impossibilità di negare la sintesi “Gesù è il Figlio di Dio”.
43 44
Ibid., respondeo, ad 15. Mt, 16, 15-16.
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A determinare la pronta risposta di Pietro non è l’“esperienza” della carne e del sangue, ma una qualche “rivelazione” del Padre: «Beato te, Simone figlio di Giona», disse Gesù, «perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli»45. Se si riuscisse a mostrare che solo a parole è possibile negare quanto Pietro ha detto di Gesù, se cioè si riuscisse a far “vedere” in senso epistemico (ossia nel senso di quella evidenza la cui negazione è autonegazione) che Gesù è il Cristo e che in Lui risplende il volto autentico della verità dell’essere, si sarebbe con ciò trasformato il cristianesimo nella perfetta filosofia. 8.3) Il “sapere” della fede tiene ferma la “necessità” del proprio contenuto senza che appaia l’“impossibilità” della negazione di quel contenuto. Ma il “non apparire” dell’“impossibilità” di negare quel contenuto è il “non apparire” della sua “necessità” – quel “non apparire” che fa dire alla struttura originaria: la verità della sintesi costituita da quel contenuto (Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente) si presenta innanzi tutto come un “problema”. Tutto ciò sta nella logica oggettiva della dottrina di Tommaso il quale riconosce che, nelle “cose viste”, non c’è fede, ma acquisizione conoscitiva – il che vale quanto dire che il contenuto della fede cristiana è qualcosa che “non appare”. Va anche detto che è poi lo stesso Aquinate ad affermare che il contenuto della fede cristiana è stato rivelato da Dio “con tanta evidenza” e che, rispetto ad esso, gli occhi della struttura originaria sono come gli occhi della “civetta” (di cui parla Aristotele) rispetto al “sole” della verità e cioè al tutto concreto della verità: ciò che per la struttura originaria è qualcosa di “non evidente” è invece quanto di più “evidente” possa esserci46. Ma il punto è che solo per fede si può affermare che, aderendo a quel contenuto (affidandosi a Cristo), la verità della struttura originaria (e quindi la verità dell’uomo) giunga al suo compimento.
Mt 16,17. «Niente impedisce di pensare che, quanto di sua natura è più certo [id quod est certius secundum naturam], sia meno certo relativamente a noi: ciò dipende dalla debolezza della nostra mente la quale, al dire di Aristotele, “dinanzi alle cose più evidenti della natura è come l’occhio della civetta davanti al sole, se habet ad manifestissima naturae, sicut oculus noctuae ad lumen solis” [cfr. Metafisica, II, 993 b 9-11]. Perciò il dubitare di alcuni circa gli articoli di fede non deriva dall’incertezza della cosa in se stessa, ma dalla debolezza del nostro intelletto. Nonostante ciò, un minimo che si possa avere di conoscimento delle cose più alte è molto più desiderabile della conoscenza della più sicura di quelle inferiori, come afferma il Filosofo [cfr. De Part. Animalium, I, 1, c. 5]» (TOMMASO, S. theol, q. 1 a. 5). 45 46
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9) Nota sul concetto di “esperienza umana elementare” 9.1) A proposito del tema così decisivo dell’“esperienza”, è notevole il tentativo del teologo Angelo Scola di tradurre il concetto dell’“unità dell’esperienza” nella forma dell’“esperienza umana elementare”47. La suggestione delle parole di K. Wojtyla «Eppure esiste qualcosa che può essere chiamato esperienza dell’uomo»48 viene interpretata assegnando al termine “esperienza” il significato dell’apertura trascendentale (“integrale”) della coscienza orientata intenzionalmente all’essere49. Al centro di questa prospettiva sta l’affermazione che l’“esperienza elementare” dell’uomo diventa decifrabile «in quanto chiamata rivolta alla libertà finita dal Mistero trascendente. Il Mistero genera la persona nella sua natura costitutiva (anima-corpo), immergendola nel dinamismo io-tu a partire dalle relazioni parentali (uomo-donna), che la aprono all’appartenenza ad un noi (individuo/persona-società/comunità)»50. L’“esperienza umana elementare” trova così la sua configurazione autentica nella forma della fede: «Non nell’astratta affermazione di sé come soggetto autonomo, ma riconoscendosi come figlio nel Figlio, l’uomo fa esperienza elementare realistica e benefica di una dipendenza che lo genera, di un’appartenenza che lo mette a sua volta in grado di diventare protagonista ”51. È nel contesto di questa concezione dell’uomo che Wojtyla e Scola intendono la persona “non più solo in ter47 Scola è stato allievo di Bontadini, ma anche di Severino, ed è proprio lo scritto fondamentale di Severino (La struttura originaria) che dà le coordinate per comprendere il senso della proposta del Cardinale. 48 K. WOJTYLA, Persona e atto, in ID., Metafisica della persona. Tutte le opere filosofiche e saggi integrativi, Bompiani, Milano 2003, 832. Il genitivo è tanto oggettivo quanto soggettivo: l’esperienza dell’uomo è l’esperienza umana elementare. L’uomo (inteso come unità sostanziale di anima e di corpo) è ciò di cui facciamo esperienza e cioè appartiene al contesto di ciò che appare. Ma vi appare come protagonista, come attore di tale contesto: «L’atto costituisce il particolare momento in cui la persona si rivela […]. Sperimentiamo il fatto che l’uomo è persona, e ne siamo convinti, perché egli compie atti» (ibid., 841). 49 L’uomo non è due “res” (anima e corpo), ma è «uno di anima e di corpo» (A. SCOLA, L’esperienza elementare. La vena profonda del magistero di Giovanni Paolo II, Marietti, Genova-Milano 2003, 34). Il problema del rapporto dell’anima e del corpo viene risolto facendo ricorso alla figura classica della “intenzionalità”: vi sono modalità dell’apparire che ne fanno un che di empirico (la vista, l’udito…sentire autem non est sine corpore). Ma, in quanto apparire di tutto ciò che appare, l’anima è l’orizzonte dell’intero dell’essere (anima quodammodo est omnia). 50 Ibid., 32. 51 Ibid., 36.
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mini di sostanza, ma anche in termini di relazione»52 e cioè «come originariamente costituita per e destinata alla communio personarum»53. 9.2) L’originalità della proposta sta nel suo essere centrata sul concetto di “esperienza elementare” che dev’essere attentamente vagliato. Il termine “esperienza” è uno dei modi in cui, nel corso del pensiero filosofico, è stato inteso l’apparire dell’essere. L’“esperienza” si dice “integrale” perché aperta alla totalità di ciò che è. In forza della sua natura “trascendentale”, l’esperienza “integrale” pone la domanda intorno al senso della totalità dell’essere e si configura come “esperienza religiosa”. Il termine “esperienza umana elementare” significa poi l’implicazione tra l’apparire dell’essere e l’individuo umano54: significa che l’esperienza è l’apparire del divenire dell’uomo che, nell’azione, si attesta come “persona” (la prima parola che costituisce il logos dell’esperienza umana). La relazione “uomo-donna” (la seconda parola) «documenta come l’essere umano esista in quanto essere generato e quindi cresca in relazione di appartenenza con un luogo di origine»55. La relazione “persona-comunità” (la terza parola) «è il luogo eminente della libertà quando la si pensi come ri-conoscimento, cioè come rapporto tra persone libere, continuamente in tensione verso l’ideale della gratuità»56. La tesi di fondo sostenuta dal Cardinale Scola (in pieno accordo con la tradizione tomista) è la seguente: il senso dell’esperienza elementare trova il suo compimento nel cristianesimo, nella persona di Cristo e, dunque, nell’“esperienza della fede”. In gioco c’è il rapporto tra ragione, verità e fede cristiana, con implicato il nesso tra verità e liber-
Ibid., 13. Ivi. Per un approfondimento teoretico su questo tema si veda: C. VIGNA, Sostanza e relazione. Una aporetica della persona, in Aa. Vv., L’idea di persona, a cura di V. Melchiorre, Vita e Pensiero, Milano 1996, pp. 175-203. 54 Com’è noto, larghi strati della filosofia contemporanea concepiscono tale implicazione come qualcosa di puramente fattuale e pensano che si possa costituire un apparire (un’esperienza) che non contenga alcun evento umano. Il neopositivismo (Schlick, Carnap, Russell, Wittgenstein) si muove in questa direzione. E così pure Nietzsche. Da parte sua Heidegger contesta la definizione aristotelica di ántropos come zôon lógon héchon e intende la phísis come lógos che contiene l’uomo (ántropon héchon). Ma una fenomenologia disabitata dal logos apodittico (e quindi incapace di stabilire nessi necessari) non può escludere che questa contenenza sia più di un semplice fatto. Di contro sta la posizione di Tommaso per cui manifestum est quod hic homo singularis intelligit [TOMMASO, De unitate intellectus contra Averroistas, cap. III] – dove lo hic homo è appunto la persona, il singolo uomo. 55 A. SCOLA, op. cit., 40. 56 Ivi. 52 53
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tà. In gioco c’è anche l’affermazione della natura armonica del rapporto tra ragione e fede in Cristo. 9.3) Dal punto di vista strettamente teoretico, che però sta sul piano originario dell’esperienza integrale, ciò che va approfondito ulteriormente è il significato del nesso “esperienza integrale/elementare – esperienza religiosa – esperienza di fede (cristiana)”. Se infatti si afferma che appare la necessità di questo nesso, si fa precipitare il cristianesimo nella necessità della struttura originaria. Se invece si riconosce che tale necessità non appare, quel nesso si colloca al di fuori della struttura della necessità non controvertibile. Ora, tutto ciò che non assume la forma del non controvertibile, è controvertibile57.
10) La possibilità della “dissensio” tra la ragione e la fede 10.1) La “non evidenza” della “verità” del contenuto che per fede, e solo per fede, viene posto come natura “manifestissima”, lascia aperta la “possibilità” che quel contenuto sia in contraddizione con la struttura originaria. Ma un contenuto che fosse in contraddizione con la struttura originaria della verità (che è l’apparire del non controvertibile)
Si tratta di tenere distinto ciò che appartiene all’evidenza non controvertibile da ciò che appartiene invece all’ambito della costruzione teorica, dell’interpretazione. L’esistenza di una coscienza altrui, ad esempio, appartiene al contesto di ciò che appare? In che senso si può dire che la presenza dell’“altro”, dell’“altro” come “persona” e poi degli “altri” (secondo la dinamica del nesso io-tu-noi), è qualcosa che appartiene al contesto dell’“unità dell’esperienza”? Se col termine “persona” intendiamo significare non solo ciò che si riferisce alla fisicità del comportamento altrui, ma anche tutta una ricchezza interiore eccedente rispetto a ciò che dell’“altro” appare, allora l’esistenza di questa realtà eccedente e non riducibile al piano fenomenologico è una costruzione teorica, un’interpretazione. Fintanto che non sia stato mostrato il fondamento dell’affermazione dell’esistenza di una pluralità di “persone” (di “coscienze”, di altri “soggetti”), l’affermazione di una molteplicità di centri di coscienza si presenta come un problema originario, non come una evidenza originaria. Anche il senso dell’implicazione tra l’apparire e l’umano va indagato con grande attenzione perché in esso sta il problema del rapporto tra la totalità di ciò che appare (che è un tratto della verità dell’essere) e lo hic homo che in tale contesto appare come una determinazione particolare. Ebbene, come può la verità apparire all’interno dello sguardo dello hic homo se questo sguardo ha una sua struttura che, proprio perché sua, non è la struttura della verità? Può essere la struttura della verità (l’incontrovertibile) qualcosa che sta entro i limiti dell’individuo? Se l’uomo può conoscere la verità (l’incontrovertibile), ciò accade perché egli è ben altro, ben di più che una semplice determinazione particolare: al fondo di tutto ciò che egli è, l’uomo è, essenzialmente, l’apparire della verità. 57
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sarebbe per ciò stesso da qualificare come “non verità”, ossia come “errore”. Certo, per la fede non può darsi alcuna dissensio tra la ragione e la fede, ma la fede non è l’apparire della necessità (ossia della non controvertibilità) di ciò cui essa dà il proprio assenso, né la struttura originaria vede, nel contenuto della fede, il tratto epistemico della non controvertibilità. D’altra parte, poiché la coscienza è “una”, e poiché Aristotele insegna che è impossibile che la stessa coscienza tenga ferme, come entrambe affermate, proposizioni contraddittorie58, sarà pure impossibile che la stessa coscienza tenga ferme, come entrambe affermate, sub eodem, queste due proposizioni: 1) tra ragione e fede non può darsi alcuna dissensio e 2) tra la ragione e la fede può darsi dissensio. Dire che tra il “credere” della fede, che assente fermissimamente al suo contenuto, e l’affermazione della possibile dissensio (il “dubbio”, il “non credere”) della ratio non controvertibilis si dà contraddizione (la contraddizione che sussiste tra il “credere” e il “non credere”) non significa però affermare che la fede sia qualcosa di impossibile. Il “credere” e il “non credere” dell’intelletto non avvengono infatti sotto il medesimo rispetto: in quanto si attesta come ragione epistemica, l’intelletto “dubita” (e cioè non dà l’assenso) perché il contenuto della fede si fa innanzi secondo una modalità di apparizione che non presenta il tratto dell’epistéme, perché non appare l’impossibilità del contraddittorio. Ma la particolare significanza di quel contenuto è tale da muovere la “volontà” e determinare così l’adesione dell’intelletto: in quanto mosso dalla “volontà” orientata al “bene” (in quanto è fides) l’intelletto “crede”. La fede assume come “indubitabile” ciò che, nello sguardo della struttura originaria, appare come “dubitabile” ossia non “incontrovertibile”. Se infatti apparisse come “incontrovertibile”, non avremmo più a che fare con la “fede in” qualcosa/qualcuno, ma con la “visione di” qualcosa/qualcuno. Se dunque la fede è delle cose che “non appaiono” – se cioè la fede è l’“argomento” dato all’“annuncio” degli invisibili – e se tale “argomento” non può far sì che gli “invisibili” si trasformino in “visibili” (perché a tenere fermi gli “invisibili” non è l’apparire dell’“impossibilità” della loro negazione, ma la “volontà” che quella negazione sia impossibile), ciò vuol dire che la fede non può costituirsi come fede senza che appaia la possibilità della dissensio con la struttura originaria. 58 «Se non è possibile che i contrari sussistano insieme in un identico soggetto […] e se un’opinione che è in contraddizione con un’altra è il contrario di questa, è evidente che è impossibile, ad un tempo, che la stessa persona ammetta veramente che una stessa cosa esista e, anche, che non esista: infatti, chi si ingannasse su questo punto, avrebbe ad un tempo opinioni contrarie» (ARISTOTELE, Metafisica, IV, 3, 1005 b 25-32).
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10.2) In risposta alla tesi della possibile dissensio tra la ragione e la fede, si potrebbe replicare che, una volta dimostrata l’esistenza di un Dio trascendente e creatore di tutte le cose, la ragione deve riconoscere che non può darsi una contraddizione tra ciò che di Dio conosciamo attraverso il sapere della struttura originaria (anch’essa creata da Dio) e ciò che di Dio sappiamo attraverso la sua rivelazione. Leggiamo Tommaso: «Ora la conoscenza dei principi a noi noti per natura ci è stata infusa da Dio, essendo egli l’autore della nostra natura. Quindi anche la sapienza divina possiede questi principi. Perciò quanto è contrario a questi principi è contrario alla sapienza divina; e quindi non può derivare da Dio. Le cose dunque che si tengono per fede, derivando dalla rivelazione divina [ex revelatione divina], non possono mai essere in contraddizione con le nozioni avute dalla conoscenza naturale»59. Le verità di ragione non sono in contraddizione con le verità di fede né possono esserlo perché Dio, che ne è l’autore, è unico – e in Dio non può esserci contraddizione. In effetti, il contenuto di un concetto contraddittorio non “esiste”, mentre Egli è l’essere stesso sussistente60. 10.3) Ma poi l’impossibilità della contraddizione tra ragione e fede discende, secondo Tommaso, anche dall’impossibilità che la potenza di Dio si estenda fino al punto di negare il principio di non contraddizione. Questo è un teorema che l’Aquinate tiene fermissimo: «Si deve dire […] che la potenza di Dio, considerata in se stessa [quantum est de se], si estende a tutto ciò che non implica contraddizione […]. Per quanto concerne cose che implicano contraddizione, esse sono impossibili a Dio perché impossibili in se stesse [Ea vero quae contradictionem implicant Deus non potest; quae quidam sunt impossibilia secundum se]. Di conseguenza la potenza di Dio si estende a cose che sono possibili in se stesse, e sono tali quelle cose che non implicano contraddizione [Relinquitur ergo quod Dei potentia ad ea se extendat quae sunt possibilia secundum se. Haec autem sunt quae contradictionem non impli-
TOMMASO, Summa contra Gentiles, I, cap. 7. «Anche se la fede è sopra la ragione, non vi potrà mai essere una vera divergenza tra fede e ragione: poiché lo stesso Dio, che rivela i misteri e comunica la fede, ha anche depositato nello spirito umano il lume della ragione, questo Dio non potrebbe negare se stesso, né il vero contraddire il vero» (Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, IV). 59 60
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cant]. Pertanto risulta che Dio è detto onnipotente perché può fare tutte le cose che sono possibili in se stesse»61. L’onnipotenza di Dio può certo fare cose non prevedibili e non filosoficamente dimostrabili, ma non è una assoluta libertà di fare: un Dio onnipotente così come concepito da Cartesio (un Dio che può fare cose impossibili) non è un Dio possibile. Tenendo sullo sfondo questa verità, Tommaso costruisce un ulteriore argomento a conferma della impossibilità di una contraddizione tra le verità di ragione e le verità di fede: «Ciò che è naturale» egli afferma «non può essere mutato finché permane la natura. Ora, opinioni contrastanti non sono compatibili nel medesimo soggetto. Dunque non è possibile che Dio infonda nell’uomo un’opinione, o una fede, incompatibile con la sua conoscenza naturale»62. Come è impossibile che la stessa superficie sia bianca e non bianca, così è impossibile che allo stesso uomo ineriscano opinioni contrarie per il medesimo rispetto: è cioè impossibile che lo stesso uomo sia convinto di qualcosa e insieme della negazione di qualcosa. Proprio perché è impossibile che una stessa cosa sia e non sia, proprio perché l’essere è non contraddittorio, per questo è impossibile che Dio abbia posto, nello stesso uomo, la facoltà di assentire a due “verità” (di ragione e di fede) che appaiono nel loro essere l’una la negazione dell’altra. Detto questo, dobbiamo ora chiederci se con ciò abbiamo davvero escluso la possibile dissensio tra la ragione e la fede.
11) La struttura originaria e il rapporto ragione-fede Che l’essere sia il non contraddittorio è indubbio: l’essere – il positivo che si oppone al negativo, che è la negazione del negativo – non può essere contraddittorio. 61 TOMMASO, De potentia Dei, q. 1, a. 7. Nella Summa teologica l’Aquinate afferma che «alla ragione di possibile assoluto, oggetto dell’onnipotenza divina, ripugna solo quello che implica in sé l’essere e il non essere [quod implicat in se esse et non esse simul]. Ciò, infatti, è fuori del dominio della divina onnipotenza, non per difetto della potenza di Dio, ma perché non ha la natura di cosa fattibile o possibile [non propter defectum divinae potentiae, sed quia non potest habere rationem factibilis neque possibilis]. Così, tutto ciò che non implica contraddizione, è contenuto tra quei possibili rispetto ai quali Dio si dice onnipotente; tutto quello, invece, che implica contraddizione, non rientra sotto la divina onnipotenza, perché non può avere la natura di cosa possibile» (TOMMASO, Summa teologica, I, q. 25. a. 3, respondeo). Su questo punto verdi anche ID., Summa contra Gentiles, libro primo, cap. 84 e Libro secondo, cap. 25. 62 TOMMASO, Summa contra Gentiles, I, 7.
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Né l’essere sussistente e creatore cui giunge la ragione epistemico/teologica viene pensato come la suprema potenza capace di “fare” il contraddittorio. Si è visto che il punto di partenza della metafisica tradizionale è proprio l’affermazione dell’incontraddittorietà dell’essere e la constatazione che c’è qualcosa: qualcosa appare63. A partire da questa constatazione (che è un tratto della struttura originaria) la filosofia si chiede se il qualcosa che appare sia o non sia l’assoluto dell’essere. Vale infatti una delle due: o il qualcosa che appare lascia il nulla al di fuori di sé ed è perciò l’assoluto dell’essere, oppure il qualcosa che appare non lascia il nulla al di fuori di sé e perciò non è l’assoluto. Tertium non datur64. Il seguito dell’indagine “classica” fa vedere che è impossibile la coincidenza dell’assoluto dell’essere con il qualcosa che appare. Sappiamo anche che la metafisica tradizionale di ispirazione aristotelico-tomista interpreta l’innegabile “differenza ontologica” esistente tra l’ente di cui facciamo esperienza e l’essere assoluto in termini di “dipendenza ontologica” 65. Il “fare” creativo di Dio, l’atto intemporale della creazione ex nihilo spiega l’esserci di ciò che appare. L’affermazione della trascendenza dell’essere assoluto e della sua potenza creatrice è dunque, per il sapere epistemico/teologico, una “verità di ragione”. Ma l’affermazione che Dio è l’autore della rivelazione non è un contenuto del sapere epistemico: che Gesù sia Dio non è una “verità di ragione”, pena l’immediata soluzione del carattere soprarazionale (soprannaturale, di grazia) del cristianesimo in gnosi. Cfr. Parte prima, parr. 14, 14.1, 14.2. Dal punto di vista metodologico, il corretto punto di partenza è proprio questo: qualcosa appare. Di qui l’interrogativo: il qualcosa che appare è l’assoluto dell’essere? In genere la teologia razionale muove il suo primo passo affermando che qualcosa appare. Fa quindi seguire un secondo passo ed afferma che, poiché qualcosa c’è, poiché qualcosa appare, allora c’è l’assoluto dell’essere. Riferendosi al pensiero della metafisica tradizionale de Lubac scrive: «Moto, contingenza, esemplarità, causalità, finalità, essere necessario: categorie eterne, punti di partenza sempre offerti, presenti sempre, così resistenti alla critica e così attuali come l’uomo stesso e il suo pensiero. Ecce caelum et terra: clamant quod facta sint. E ancora più semplicemente: Aliquid est, ergo Deus est» (H. DE LUBAC, Sulle vie di Dio, op. cit., 82-83). La semplificazione dovrebbe andare nel senso della rigorizzazione della teologia razionale che procede sulla via della ratio entis et non entis e che guadagna, per così dire “in seconda battuta”, tutte le altre “ragioni” (della “contingenza”, della “causalità”…). È questo l’insegnamento fondamentale della scuola “neoclassica” istituita da G. Bontadini. Portare fino all’estremo della coerenza questa prospettiva di rigorizzazione significherebbe però partire dall’affermazione dell’esistenza dell’assoluto dell’essere (che non può non essere) e chiedersi se l’assoluto coincida o meno con ciò che appare. 65 Cfr. Parte prima, parr. 14.3, 15. 63 64
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Del resto, il credente in Cristo è il primo a riconoscere che l’affermazione “Gesù è il Figlio del Dio vivente” non è una “verità di ragione”: State contenti, umana gente, al quia; ché, se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria66. Se è un’affermazione di fede il dire che “Gesù è il Figlio di Dio”, allora sono affermazioni di fede anche il dire che “l’autore della rivelazione è Dio” e che “tra le verità di ragione e le verità di fede non può darsi contraddizione perché Dio ne è l’autore unico”. Se ne deve pertanto concludere che la tesi della natura armonica del rapporto ragione-fede si presenta, agli occhi della “ragione”, come una “possibilità”, senz’altro accompagnata da argomentazioni che rendono la fede un “ragionevole ossequio” (rationabile obsequium), ma non fornita dell’evidenza assoluta – quella evidenza assoluta del contenuto che è l’apparire dell’impossibilità del contraddittorio. Per la ragione epistemica, la tesi della disarmonia tra ragione e fede (la tesi della dissensio) rimane ferma, come una “possibilità”.
12) Il dubbio, l’opinione, la scienza, la fede 12.1) Che l’evidenza della fede non sia l’evidenza dell’incontrovertibile presso cui si attesta la struttura originaria, Tommaso non lo ignora. L’analisi delle differenti disposizioni dell’intelletto rispetto a due proposizioni contraddittorie ce ne dà conferma. 12.2) «L’intelletto possibile» si dice nel De fide «non è mosso se non da due cose, cioè dal proprio oggetto, che è la forma intelligibile, cioè l’essenza della cosa, come dice Aristotele [De Anima, III, 11] e dalla volontà che muove tutte le altre potenze, come dice Anselmo [Ps. Ans., De similit., 2]: così dunque il nostro intelletto si rapporta diversamente ai due estremi di una contraddizione»67. Quando l’intelletto si arresta dinanzi all’alternativa, siamo nel dubbio: «Talvolta infatti [il nostro intelletto] non è inclinato a uno più che ad un altro [estremo], o per difetto di motivi, come in quei problemi nei quali non troviamo ragioni, o per l’apparente uguaglianza dei motivi a favore dell’una e dell’altra parte, e questa è la disposizione di chi dubi-
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DANTE, Purgatorio III, vv. 37-39. TOMMASO, Quaestio De fide, art. 1.
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ta [dispositio dubitantis], che fluttua fra le due parti della contraddizione [fluctuat inter duas partes contradictionis]»68. Quando l’intelletto prende posizione, ma non ogni motivo di perplessità è stato possibile risolvere, siamo nell’opinione: «Talvolta invece l’intelletto è inclinato a un estremo piuttosto che all’altro, ma tuttavia ciò che inclina non muove sufficientemente l’intelletto in modo da determinarlo totalmente verso una delle parti. Per cui prende sì una parte, ma dubita sempre di quella opposta, e questa è la disposizione di chi opina [dispositio opinantis], il quale prende una parte della contraddizione “con il timore dell’altra” [cum formitudine alterius]»69. Infine, l’adesione a una delle due parti della contraddizione può essere totale: «Talvolta l’intelletto possibile è determinato ad aderire totalmente [totaliter] a una parte, ma ciò talvolta dipende dall’intelligibile, talvolta dalla volontà»70. Nel caso in cui l’adesione dipenda dall’intelligibile, abbiamo a che fare con l’intelligenza immediata dei primi principi (intelligentia principiorum) e col sapere scientifico/epistemico che ad essi tutto riconduce. L’intelligibile determina l’intelletto «talvolta in modo mediato, talvolta in modo immediato: in modo immediato quando la verità delle proposizioni appare subito infallibilmente all’intelletto grazie agli stessi intelligibili, e questa è la disposizione di chi intende i principi che vengono subito conosciuti una volta noti i termini [et haec est dispositio intelligentis principia quae statim cognoscuntur notis terminis], come dice il Filosofo [Anal. Post., I, 7], e così l’intelletto è determinato immediatamente a simili proposizioni grazie all’essenza stessa; in modo mediato quando, una volta conosciuta la definizione dei termini, l’intelletto è determinato a una parte della contraddizione in virtù dei primi principi, e questa è la disposizione di chi conosce in modo scientifico [et ista est dispositio scientis]»71. Nel caso in cui l’adesione sia determinata dalla volontà, abbiamo la fede: «Altre volte invece l’intelletto non può essere determinato ad una parte della contraddizione né subito dalle stesse definizioni dei termini, come nei principi, e neppure in virtù dei principi, come avviene nelle conclusioni delle dimostrazioni; viene invece determinato dalla volontà, che sceglie di assentire ad una parte in maniera determinata e precisa a motivo di qualcosa che è sufficiente a muovere la volontà ma
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Ivi. Ivi. Ivi. Ivi.
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non a muovere l’intelletto, inquantoché sembra ad essa buono o conveniente assentire a questa parte [utpote quia videtur bonum vel conveniens huic parti assentire]. E questa è la disposizione del credente [et ista est dispositio credentis], come quando uno crede alle parole di un certo uomo, poiché ciò gli sembra conveniente o utile. E così siamo anche mossi a credere alle parole di Dio in quanto ci viene promesso, se crederemo, il premio della vita eterna; e da questo premio la volontà è mossa ad assentire alle cose che vengono dette, sebbene l’intelletto non venga mosso da qualcosa che esso intende [quamvis intellectus non moveatur per aliquid intellectum]. E così Agostino dice che “le altre cose l’uomo può [farle anche] se non vuole, ma non può credere se non vuole”»72. 12.3) Al contenuto di fede l’intelletto aderisce totalmente in quanto determinato dalla volontà che sceglie, non certo senza “ragione”, una parte della contraddizione anziché l’altra, senza che tuttavia la parte scelta sia “intesa” dall’intelletto, senza cioè che l’intelletto veda la contraddittorietà della parte contraddittoria: la tesi (Gesù è il Figlio di Dio) sembra capace di “stare” quanto l’“antitesi” (Gesù non è il Figlio di Dio) perché l’una (la tesi) non riesce ad imporsi sull’altra (l’antitesi) in forza dell’evidenza epistemica del suo contenuto. Accade infatti che, nella fede, «l’assenso non è causato dalla cogitazione, ma dalla volontà. Però, dato che [nella fede] l’intelletto non perviene ad una delle due alternative nello stesso modo in cui si porta verso il proprio oggetto [non hoc modo terminatur ad unum ut ad proprium terminum], che è la visione di qualche intelligibile [visio alicuius intelligibilis], ne deriva che il suo moto non risulta ancora acquietato [eius motus nondum est quietatus], ma continua ad avere la cogitazione e la ricerca delle cose in cui crede, anche se dà loro un fermissimo assenso [quamvis eis firmissime assentiat]: infatti, per quanto sta in esso [quantum est ex se ipso], non è soddisfatto e non è determinato verso una delle due alternative [nec est terminatus ad unum], ma è determinato solo dall’esterno [ex extrinseco]»73. L’intelletto dà il proprio assenso a una delle due parti della contraddizione (Gesù è il Figlio di Dio) non perché vede che è impossibile che le cose stiano diversamente, ma perché mosso dalla volontà: la volontà che le cose stiano in un certo modo anziché in un altro. Il che non significa che, a detta di Tommaso, la fede sia un atto irrazionale. La 72 73
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volontà è infatti mossa dal bene e spinge l’intelletto a dare il proprio assenso nei confronti di una realtà rispetto alla quale sembra buono o conveniente (bonum vel conveniens) assentire. In tal senso la fede è qualcosa di cui è possibile offrire ragioni: è ragionevole ossequio. Tuttavia l’intelletto (qui equivalente alla ratio naturalis) si mantiene in un atteggiamento di ricerca nei confronti di ciò che non si impone per la sua evidenza immediata o mediata. Quantum est ex se ipso, l’intelletto vede la problematicità del contenuto della fede: comunque si scelga rispetto ad esso, quale che sia la parte della contraddizione cui l’intelletto presta il proprio assenso, si rimane nella fede.
13) Il nesso fede-dubbio La fede (fides) non è la scienza epistemica (scientia), ma non è il dubbio (dubitatio) e non è neppure una semplice opinione (opinio). Ciò che però accomuna la fede al dubbio e all’opinione è che nessuna delle due parti della contraddizione secondo cui si presenta il suo oggetto (tesi: “Gesù è il Figlio di Dio“; antitesi: ”Gesù non è il Figlio di Dio”) si impone per l’evidenza del suo contenuto, nessuna si presenta come non controvertibile, sicché, quantum est ex se ipso, l’intelletto non est terminatus ad unum. Ne deriva che, «in colui che crede, può insorgere un moto di direzione contraria a ciò che tiene fermissimamente, mentre ciò non accade in chi intende o conosce per scienza»74. È infatti possibile cessare di credere. Certo, la fede non è un semplice complesso di dottrine, non è riducibile ad un apparato teorico che procede per formulazione di teoremi o per contrapposizione di tesi e di antitesi. La fede parte dal riconoscimento della singolarità di Gesù Cristo. La fede è cioè fede nella particolare significanza di un evento storico che impegna tutta l’esistenza personale: «La fede significa assoggettarsi con l’intelletto, la volontà e il cuore al Dio che già prima si è donato totalmente»75. Non si può trascurare questo aspetto esistenziale della fede. Ma tutto questo sta radicato nell’affermazione della fede che dice: quell’accadimento storico è il Cristo, quell’evento è il Verbo di Dio che ha assunto la carne per mostrare agli uomini la Sua Gloria. La possibilità dell’insorgere di un moto che va in direzione contraria rispetto a ciò che la fede tiene fermissimamente per vero si fonda 74 75
Ivi. H. U. VON BALTHASAR, Gloria, op. cit. 193.
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sulla stessa natura della fede: la sua fermissima adesione a Gesù Cristo, quale centro del cosmo e senso assoluto e profondo della storia dell’uomo, non è infatti l’apparire della autonegazione della negazione del suo contenuto. La struttura originaria del sapere – i cui tratti formali sono in qualche modo presentiti nella definizione tommasiana dell’intelligenza dei principi – vede il carattere problematico dei contenuti della fede. Ciò significa che, rispetto a tali contenuti, la struttura originaria si mantiene in atteggiamento dubitante. Non può essere diversamente, data la “non visibilità” del contenuto kérygmatico. La fede «non è nell’intelletto speculativo assolutamente, ma secondo che è soggetto al comando della volontà»76. A differenza del dubbio, che non inclina verso l’uno piuttosto che verso l’altro estremo della contraddizione, la fede implica un’adesione totale al proprio contenuto. Ma l’intelletto che ha l’abito della fede non vede l’impossibilità della negazione del contenuto della fede: dire che la fede è l’“argomento” delle cose invisibili (e che pertanto non è senza intelligenza) non vuol dire che la fede rende visibile l’invisibile. In quanto mosso dalla volontà, l’intelletto dà il proprio assenso al contenuto della fede. Ma, in quanto mosso dalla sola evidenza del proprio oggetto, l’intelletto speculativo non vede l’impossibilità di negare il contenuto della fede; vede piuttosto che quel contenuto potrebbe essere vero come potrebbe non esserlo: vede questa possibilità e pertanto dubita e, poiché dubita, non “crede”, ossia non dà il fermissimo assenso. Di qui la strutturale tensione/contraddizione tra l’intelletto che dubita del contenuto della fede (de his quae credit) e l’intelletto che quel contenuto tiene invece firmissime: una tensione/contraddizione tra il “dubitare” della ragione (ossia dell’intelletto quantum est ex se ipso) e il “non dubitare” della fede (ossia dell’intelletto in quanto spinto ex extrinseco)77. D’altra parte, la fede non è l’apparire della non controvertibilità del proprio contenuto. Una fede, che non sia strutturalmente esposta all’opposizione del dubbio, è dunque impossibile perché il contenuto cui l’intelletto dà, nella fede, il proprio fermissimo assenso, non si impone per la propria evidenza78. TOMMASO, De fide, a. 4. Il “dubitare” e “non dubitare” dell’intelletto non si danno però sub eodem (in tal caso, la fede sarebbe impossibile), ma sotto rispetti diversi. Cfr. supra, par. 10.1. 78 Su questo tema sono di grande interesse le riflessioni di E. SEVERINO il quale sostiene la tesi che ad esistere non è la “pura” fede, né il dubbio, ma la contraddizione tra la fede e il dubbio: «La separazione della fede dal dubbio è […] un tentativo. Il cristiano che dice: “Io credo” isola ciò che invece rimane necessariamente legato [e vi rimane legato perché, 76 77
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Va detto che, quando l’intelletto si affida a tale contenuto, non lo fa senza considerare che vi sono “buone ragioni” che motivano l’affidamento: la fede è “ragionevole”. Tuttavia, nessuna “ragione” portata a sostegno della fede può far diventare “visibile” ciò che “visibile” non è. 14) Fidei obiectum proprie est in quod est absens ab intellectu La fede è fondata sull’ascolto, sulla testimonianza, ma l’ascolto e la testimonianza fanno riferimento al “non visibile” rispetto al quale l’intelletto rimane inquieto, fluttuante, ciò che non accade invece per le cose che sono presenti all’intelletto. Torniamo alla lettura del testo di Tommaso: «Secondo Agostino, “si credono quelle cose che non sono presenti ai nostri sensi, se la testimonianza che viene resa ad esse ci sembra valida; si vedono invece quelle cose che sono presenti ai sensi o dell’anima o del corpo”79; ora, questa differenza è evidente in quelle cose che sono presenti ai sensi del corpo, perché in esse è manifesto che cosa sia presente ai sensi e che cosa non lo sia, mentre nei sensi dell’anima è meno chiaro che cosa si debba dire presente. Si dice tuttavia che sono presenti all’intelletto quelle cose che non superano le sue capacità [Illa tamen praesto esse dicuntur intellectui quae capacitatem eius non excedunt], in modo che lo sguardo dell’intelletto si possa fissare in esse: a tali cose infatti uno dà l’assenso non per la testimonianza altrui, ma per la testimonianza del proprio intelletto; quelle cose che invece superano la facoltà dell’intelletto si dice che sono assenti dai sensi dell’anima [illa vero quae facultatem intellectus excedunt absentia esse dicuntur a sensibus animi], per cui l’intelletto non si può fissare in esse, e quindi non possiamo assentire ad esse per la testimonianza propria, ma per la testimonianza altrui: e queste cose si dice propriamente che sono credute»80. affinché la fede possa esistere, è necessario che appaiano gli “invisibili” e che appaiano per quel che sono, e cioè come “invisibili”]: isola la fede dal dubbio e, sul fondamento di questo isolamento, conduce la fede nel linguaggio, lasciando il dubbio nell’inespresso […]. L’isolamento della fede dal dubbio e l’esclusione del dubbio dal linguaggio esistono certamente – l’errore esiste! È il contenuto di questo errore che non può esistere ed è dunque impossibile» (E. SEVERINO, Gli abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica, Armando Editore, Roma 19962, 149-150). Per lo sviluppo di questo tema si possono consultare, dello stesso autore, le Risposte alla Chiesa, in ID. Essenza del nichilismo, op. cit., 317-387 e ID. Pensieri sul cristianesimo, Rizzoli, Milano 19952. 79 «Creduntur ergo illa quae absunt a sensibus nostris, si videtur idoneum quod eis testimonium perhibetur. Videntur autem quae praesto sunt, unde et praesentia nominantur vel animi vel corporis sensibus» (AGOSTINO, Epist. 147, De videndo Deo, 2. 7). 80 TOMMASO, De fide, a. 9.
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Le cose che oltrepassano le capacità dell’intelletto stanno dinanzi come “annunciate” ossia come contenuto della predicazione (del kérygma) e, in tal senso, la fede non è l’apparire di nulla. Ciò che non appare è invece la capacità di quel contenuto di togliere la propria negazione. Il che significa che non esiste un’evidenza epistemica della fede: «L’oggetto della fede propriamente è ciò che è assente dall’intelletto – “si credono infatti le cose assenti, mentre si vedono quelle presenti”, come dice Agostino – o anche la cosa che non appare, cioè la cosa non vista, come dice la Scrittura: “La fede è la prova delle cose che non si vedono”. Ora tutte le volte che viene meno il carattere del proprio oggetto è necessario che venga meno anche l’atto: per cui non appena qualcosa comincia ad essere presente o ad apparire, non può più sottostare all’atto di fede in qualità di oggetto [unde quam cito incipit aliquid esse praesens vel apparens, non potest ut obiectum subesse actui fidei]; ma tutte le cose che sono conosciute scientificamente, intendendo la scienza in senso proprio, sono conosciute per risoluzione nei primi principi che sono di per sé presenti all’intelletto, e così ogni scienza si compie nella visione di una cosa presente: per cui è impossibile che vi sia fede e scienza della medesima cosa»81. Date queste premesse – considerato cioè che, propriamente [proprie], non esiste un’evidenza del contenuto della fede – ne consegue che, per la ragione epistemica, quel contenuto continua ad apparire senza che appaia la sua capacità di imporsi sulla propria negazione: non appare l’incompatibilità formale rispetto alla ragione epistemica, ma non appare nemmeno l’impossibilità che tale incompatibilità possa darsi, il che significa che continua ad apparire (anche se non espressa nel linguaggio) la possibilità di una discordanza. Dire che l’oggetto della fede è assente dall’intelletto [est absens ab intellectu] significa che la fede si costituisce in relazione all’apparire di un contenuto che la ragione epistemica non afferma come “vero”: non già perché ne affermi la falsità, ma perché non è in grado di escludere che un’estensione della sua potenza conoscitiva porti alla negazione di quel contenuto.
15) Sostanza delle cose sperate 15.1) Secondo la definizione neotestamentaria, la fede è «la sostanza delle cose che si sperano e la prova di quelle che non si vedono» (Eb 11,1), una «completissima definizione» della fede, dirà Tom81
Ivi.
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maso, che contiene tutti gli elementi per una sua definizione formale: «Così dunque abbiamo la materia o l’oggetto della fede in quanto si dice “delle cose che non si vedono”, l’atto in quanto si dice “prova”, l’ordinamento al fine in quanto si dice “sostanza delle cose che si sperano”; dall’atto è poi dato di intendere anche il genere, cioè l’abito, che si conosce attraverso l’atto, e il soggetto, cioè la mente; né si richiede un maggior numero di elementi per la definizione di una qualche virtù, per cui è facile, secondo le cose dette, formulare tecnicamente la definizione, di modo che possiamo dire che “la fede è un abito della mente con cui inizia in noi la vita eterna, facente sì che l’intelletto dia il suo assenso a cose che non si vedono” [faciens intellectum non apparentibus assentire]»82. Ci siamo a lungo fermati sulla parte terminale della suddetta definizione (la fede come «prova delle cose che non si vedono»). Ora qualche parola va spesa sulla parte iniziale. In quanto «sostanza delle cose che si sperano» la fede dice il riferimento al fine che «trascende la proporzione della natura umana perché le forze naturali non bastano a conseguirlo»83. Sappiamo che, nella fede, l’intelletto è determinato ad assentire in quanto spinto dalla volontà. D’altra parte la volontà è mossa dal suo oggetto «che è il bene appetibile e il fine»84. Ebbene, questo fine è la vita eterna «e da questo bene la volontà è inclinata ad assentire a quelle cose che tiene per fede […]. Ma nessuna cosa può essere ordinata al fine se non preesiste in essa una certa proporzione al fine, dalla quale provenga in essa il desiderio del fine, e ciò avviene secondo che un certo inizio del fine si realizza in essa, dato che nulla appetisce il bene se non in quanto ha una qualche similitudine di quel bene»85. Se il bene della vita eterna consiste «nella piena conoscenza di Dio» e se è necessario che un «certo inizio» di questo bene si realizzi nell’uomo che a tale bene è ordinato, sarà pure necessario che nell’uomo si realizzi «un certo inizio di questa conoscenza soprannaturale, e ciò si verifica mediante la fede, la quale possiede, grazie a un lume infuso, quelle cose che superano la conoscenza razionale […] e così la fede, in quanto è in noi un certo inizio della vita eterna che speriamo dalla promessa divina, si dice sostanza delle cose che si sperano; e così viene
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TOMMASO, De fide, a. 2. Ibid., a. 2. Ivi. Ivi.
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menzionato il rapporto della fede con il bene che muove la volontà determinando l’intelletto»86. 15.2) In quanto «sostanza delle cose sperate» la fede è dunque “inizio” della “vita eterna”. Di che cosa si tratta? Per il credente in Cristo l’“inizio” della “vita eterna” è l’incontro con Gesù Cristo: «Ciò che era fin da Principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi […], ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita […], la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi […], noi lo annunziamo anche a voi perché anche voi siate in comunione con noi»87. L’“inizio” della vita eterna è fare una qualche “esperienza” nel Salvatore – nel senso che la fede è da intendere come la “manifestazione” di un determinato contenuto, per quanto assolutamente non previsto e non prevedibile, una “forma” oggettiva percepibile, un qualcosa che, insomma, si lascia “vedere”. Von Balthasar si appoggiava a san Paolo e parlava della “Gloria” del Signore in termini di “percezione” della “forma”. Nella sua più recente enciclica Spe salvi, Benedetto XVI spiega così il testo della Lettera agli Ebrei: «Per la fede, in modo iniziale, potremmo dire “in germe” – quindi secondo la “sostanza” – sono già presenti in noi le cose che si sperano: il tutto, la vita vera. E proprio perché la cosa stessa è già presente, questa presenza di ciò che verrà crea anche certezza: questa “cosa” che deve venire non è ancora visibile nel mondo esterno (non “appare”), ma a causa del fatto che, come realtà iniziale e dinamica, la portiamo dentro di noi, nasce già ora una qualche percezione di essa»88. In questo senso, l’“argomento” che la fede porta a sostegno degli “invisibili” «non ha il valore soggettivo di “convinzione”, ma quello oggettivo di “prova” […]. La fede non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa ci dà qualcosa. Ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi una “prova” delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro, così che quest’ultimo non è più il puro “non-ancora”. Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future»89.
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Ivi. 1Gv 1. BENEDETTO XVI, Spe salvi, 7. Ivi.
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15.3) L’“argomento” che la “fede” fornisce agli “invisibili” è in grado di illuminarli, ne è appunto la “prova”. Questo è il centro della Spe salvi. Ma in che cosa consiste l’“argomento” della fede? Si tratta forse dell’apparire dell’impossibilità di negare gli “invisibili”, di cui il kérygma è l’annuncio? Se così fosse, dovrebbe apparire la necessità del nesso tra ciò che viene “visto”, “udito” e “toccato” e il suo essere il Dio innegabile: dovrebbe cioè apparire che ciò che viene incontrato è il non accidentale, l’essere necessario; ma così saremmo già nella “visione”. Nella fede, invece, l’intelletto dà il proprio fermissimo assenso all’”invisibile” affermando il nesso tra ciò che appare (il “visibile”, ciò che viene “visto” e “udito” e “toccato”) e ciò che non appare (il “non visibile”, la cui forma eminente è la divinità di Cristo) senza peraltro vedere l’impossibilità che il nesso sia negato. Né vale dire che la necessità del nesso è vista “per speculum et in aenigmate”90 perché la necessità o appare o non appare e ogni limitazione della necessità di un nesso è una negazione della necessità del nesso. Riferendosi ad un testo della Summa Theologica (II-IIae, q. 4, a. 1), Benedetto XVI, che conosce bene la posizione di Tommaso, scrive: «La fede è un “habitus”, cioè una costante disposizione dell’animo, grazie a cui la vita eterna prende inizio in noi e la ragione è portata a consentire a ciò che essa non vede»91. Nella Spe salvi il “non apparente”, cui la fede dà il proprio “argomento”, viene però interpretato come ciò che «non è ancora visibile nel mondo esterno» ma del quale si dà già, ora, «una qualche percezione» per la grazia della fede. Ci si potrebbe chiedere fino a che punto questa interpretazione del “non apparente” sia in linea con il testo dell’Aquinate. Per Tommaso (ma anche per Agostino) il “non visibile” è ciò che non appare non solo ai sensi corporei (corporis sensibus), ma anche ai sensi dell’animo (animi sensibus): la volontà, mossa dal bene, «propone all’intelletto naturale qualcosa di non apparente come degno di assenso […]; come dunque l’intelligibile che è visto dall’intelletto determina l’intelletto, e da ciò si dice che convince la mente, così anche qualcosa che non appare all’intelletto lo determina e convince la mente per il fatto stesso che è stato accettato dalla volontà come ciò cui va dato l’assenso: per cui, secondo un’altra lettura si ha “convincimento” [invece di “prova”] perché convince l’intelletto nel modo predetto»92. 90 91 92
1 Cor 13, 12. Ivi. TOMMASO, De fide, q. 14, a. 2.
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È vero che per Tommaso la “fede” può essere detta “prova” in quanto «è una certa breve pregustazione della conoscenza che avremo in futuro»93. Ma il termine “prova”, “argumentum”, “élenchos”, richiamava all’Aquinate uno dei tratti fondamentali (direi anzi il tratto fondamentale) del pensiero classico, vale a dire il rilievo che la negazione del “primo principio” è autonegazione e cioè il rilievo dell’impossibilità di negare il principio di non contraddizione94. Anche della “fede” si dice che è “prova”, “argumentum”, “élenchos”, ma in tutt’altro senso: non è l’apparire dell’impossibilità che le verità di fede siano smentite, ma è «un atto dell’intelletto che, sotto la spinta della volontà mossa da Dio per mezzo della grazia, dà il proprio consenso alla verità divina»95. Per la ragione epistemica, il “fondamento” è la determinatezza dell’essere, ossia l’identità/non contraddittorietà del positivo, e il significato della “prova” attesta che la negazione della determinatezza del positivo nega ciò senza di cui la negazione stessa non potrebbe sussistere – con ciò attestando che la negazione è negazione di sé. Per la fede, la determinatezza dell’essere ha un volto inconfondibile: «Nessuno può infatti porre un fondamento [themélion, fundamentum] diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo»96. In che senso, dunque, la fede è “prova”? Non già nel senso che in essa appaia l’impossibilità di negare la natura divina/umana di Gesù, che è il contenuto fondamentale della fede, ma nel senso che a questo contenuto la fede fornisce un argumentum in forza del suo fermissimo assentire. In quanto “annunciato” (fides ex auditu)97, il “non visibile” della fede sta dinanzi all’intelletto e viene assunto nel complesso del vissuto esistenziale/esperienziale – sicché, per questo lato, si può dire che il “non visibile” è “presente”. Ma ciò cui l’annuncio fa riferimento (e che la fede assume come indubitabile) non appare come qualcosa che sia capace di togliere la propria negazione – sicché, per quest’altro lato, non si può dire che quel contenuto sia un che di “presente”.
Ivi. Per quanto riguarda il significato dell’élenchos e il suo rapporto col tema del fondamento, rinvio a: G. GOGGI, Il fondamento e l’élenchos, in «Marcianum», III (2007), n. 1, 13-44. 95 CCC, 155. 96 1Cor 3,11. 97 Rm 10,17. 93 94
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16) La sopra razionalità della fede 16.1) Abbiamo già messo in guardia dal pericolo di confondere la “razionalità” con la “dimostrabilità” stricto sensu. C’è tutto l’ambito della “ragionevolezza” che non è un pensiero senza ragione, ma al contrario un pensiero capace di fornire ragioni più o meno adeguate. La sopra razionalità della fede di cui parla Tommaso non ha nulla a che vedere con il tanto deprecato estrinsecismo: «Si dice che la fede è sopra la ragione non perché nessun atto della ragione sia [contenuto] nella fede, ma perché la ragione non può condurre a vedere gli oggetti della fede [Dicitur autem fides esse supra rationem, non quod nullus actus rationis sit in fide, sed quia ratio non potest perducere ad videndum ea quae sunt fidei]»98. In effetti, non si tratta di confondere, ma di distinguere la “ragionevolezza” e l’ambito della “ragione naturale” che coincide con la dimensione del non controvertibile. Lo sviluppo di questa logica, contenuta nel testo di Tommaso, ma non esplicitata e spinta fino alle sue più estreme e rigorose conseguenze, porta al riconoscimento che tutto ciò che non appartiene alla dimensione del “non controvertibile”, proprio in quanto non appartenente a tale dimensione, è qualcosa di “controvertibile”. 16.2) La fede, scrive Tommaso, «non convince o piega la mente per l’evidenza della cosa [ex rei evidentia], ma per l’inclinazione della volontà [ex inclinatione voluntatis]»99. L’assenso a ciò di cui non appare l’essere “non controvertibile” (e tale è tutto ciò che non si impone ex rei evidentia) è dato dall’intelletto in quanto mosso dalla volontà. Proprio per questo vale la sentenza di Ugo di San Vittore: «La fede è una determinata certezza dell’animo riguardo alle cose assenti, al di sopra dell’opinione e al di sotto della scienza»100. Sentenza che Tommaso commenta così: «Si dice che [la fede] è al di sotto della scienza perché non ha la visione come la scienza, sebbene abbia la stessa ferma adesione; invece si dice che è al di sopra dell’opinione a motivo della fermezza dell’assenso. E così si dice che è al di sotto della scienza in quanto è delle cose che non si vedono, sopra l’opinione invece in quanto è prova»101.
TOMMASO, De fide, q. 14, a. 2. Ivi. 100 UGO DI SAN VITTORE, De sacram., 1, 10, 2. 101 TOMMASO, De fide, a. 2. 98 99
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Occorre pertanto distinguere la certezza (certitudo) della fede dall’evidenza della verità che determina l’assenso dell’intelletto: non essendo il contenuto della fede qualcosa di evidente, la fede sta infra scientiam, pur essendo al di sopra della scienza (ragione naturale) per la fermezza (firmitas) dell’assenso – fermezza che all’uomo è data dall’infinita potenza della grazia. 16.3) Se la fede “non convince o piega la mente per l’evidenza della cosa”, allora non può esservi “fede” se non appare la possibilità che il contenuto della fede sia negato. Seguendo la logica del testo di Tommaso, possiamo riconoscere l’esistenza di una strutturale tensione che attraversa l’intelletto in rapporto al contenuto della fede: per un verso vi aderisce perché spinto dalla volontà (per mezzo della grazia) mentre, per altro verso, si mantiene in atteggiamento problematico e di ricerca, perché non vede la necessità di quel contenuto – se la vedesse, il contenuto del kérigma si tramuterebbe di colpo in una verità di ragione. Dalla considerazione della “non apparenza” del contenuto della fede deriva pure il riconoscimento della “possibilità” che lo sviluppo dell’argomentazione razionale incontri una contraddizione nel contenuto della fede. Per negare tale possibilità, dovremmo mostrare, in concreto, che quel contenuto è a priori posto al riparo dalla contraddizione. Se riuscissimo in questa impresa, avremmo di bel nuovo trasformato le cosiddette “verità di fede” in “verità di ragione”. Tutto ciò sta nella definizione della fede e nella logica ad essa sottesa – logica che non può eludere l’ipotesi, la “possibilità” di una disarmonia tra la ragione e la fede. È appena il caso di rilevare che, nei testi di Tommaso, questo possibile disaccordo non viene mai riconosciuto esplicitamente. Nei testi dell’Aquinate si fa invece rilevante l’affermazione della natura armonica di ragione e di fede e quindi dell’impossibilità del conflitto: «Ma poiché le verità di fede superano la ragione, alcuni sono portati a considerarle come contrarie ad essa; e questo è impossibile [quod esse non potest]. Ciò è confermato da quelle parole di S. Agostino: “Quanto viene manifestato dalla verità in nessun modo [nullo modo] può essere in contrasto sia col Vecchio che col Nuovo Testamento”102. Da ciò si ricava con chiarezza che tutti gli argomenti addotti contro gli insegnamenti della fede non derivano logicamente dai principi primi naturali noti per se stessi. E quindi essi
102
Cfr. AGOSTINO, De Genesi ad litteram, Liber secundus, cap. 18. 38.
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non hanno valore di dimostrazioni ma, o sono ragioni solo dialettiche, o addirittura sofistiche, e quindi si possono sempre risolvere»103. Pertanto, «se nelle affermazioni dei filosofi si trova qualcosa di contrario alla fede, questo qualcosa non appartiene alla filosofia [la quale si fonda sul lume della ragione naturale], ma è un abuso della filosofia per difetto di ragione [philosophiae abusus ex defectu rationis]. Perciò è possibile, procedendo dai principi della filosofia, confutare un errore di questo genere o mostrando che è assolutamente impossibile o mostrando che non è necessario»104. L’anima della lettera enciclica Fides et ratio sta qui: «La fede chiede che il suo oggetto venga compreso con l’aiuto della ragione; la ragione, al culmine della sua ricerca, ammette come necessario ciò che la fede presenta»105. Ebbene, se la ragione epistemica riuscisse davvero a dimostrare che la negazione delle “verità di fede” è il risultato di un cattivo esercizio della ragione, si sarebbe con ciò stesso dimostrata la verità di ciascuno dei contenuti della fede – ed essi, così “dimostrati” (sia pure “mediatamente” e cioè attraverso la dimostrazione dell’impossibilità di negare l’intero campo delle “verità di fede”), sarebbero passati nel campo delle “verità di ragione”. Se l’impossibilità del contrasto tra ragione e fede fosse una “verità di ragione”, tutti i contenuti della fede sarebbero rivestiti del carattere formale dell’evidenza non controvertibile e con la fede non avremmo più niente a che fare. Va detto, invece, che la stessa affermazione dell’impossibile contrasto tra ragione e fede è una “verità di fede”. Ma poi, per evitare la deriva del “fideismo”, che priva la “ragione” di ogni effettiva autonomia (perché ne predetermina l’andamento e assume come indiscutibile che ogni sviluppo della “ragione” sia conforme alla fede), va pure riconosciuta la “possibilità” che la ragione epistemica abbia a smentire la fede. Ad essere un atto di fede non è soltanto l’affermazione che tra le “verità di ragione” e i contenuti della rivelazione il rapporto sia di necessaria “armonia”, ma atto di fede è anche l’affermazione che un certo contenuto sia la rivelazione di Dio – e che tale contenuto «humanae rationis capacitatem excedat»106.
103 104 105 106
ID., Summa contra Gentiles, cap. 7. ID., De Trinit., q. 2, a. 3. GIOVANNI PAOLO II, Fides et ratio, 42. TOMMASO, Summa contra Gentiles, cap. 7.
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17) Conclusione L’affermazione dell’esistenza di un contenuto che sia “rivelazione divina” e quindi l’affermazione dell’esistenza di un “ordine soprannaturale” cristicamente fondato è un atto della fede cristiana. Dal punto di vista della ragione, non si può escludere a priori la possibilità della disssensio tra la ragione e la fede: non si può escludere che un’estensione della potenza conoscitiva della ragione epistemica arrivi a denunciare la non verità del contenuto della rivelazione. Gustavo Bontadini, filosofo di eccezionale statura teoretica e uomo di profonda fede, era giunto proprio a questa conclusione: se la ragione dovesse mostrare l’assurdo della fede, «è chiaro che la fede dovrebbe “deporre le armi” e se ne dovrebbe “sottoscrivere la capitolazione”» e «i primi a sottoscrivere la capitolazione sarebbero stati gli stessi maggiori filosofi cristiani, Agostino e Tommaso in testa»107. Detto questo, Bontadini ribadiva che «credere in qualcosa, e credere che questo qualcosa non possa essere smentito, si equivalgono»108. Ma, riconoscendo la “possibilità” di una “capitolazione” della fede, egli riconosceva che la struttura intrinseca dell’atto di fede (che è “argomento delle cose che non appaiono”) non risponde alla logica del sapere epistemico, non risponde cioè alla logica di ciò che è “non smentibile” perché poggiante sull’apparire del non controvertibile. L’“argomento” della fede non risolve la tensione strutturale tra la fede e il dubbio (non la risolve perché, nella fede, l’impossibilità del contraddittorio non appare) ma tiene aperta la dimensione delle “cose che non appaiono”: spinge l’intelletto ad assentire ai “non apparenti” tenendoli fermi come “non dubitabili”, impegnando tutta la persona e chiamandola a rispondere ad un appello di libertà – convergendo, in questo, col pensiero epistemico che afferma l’“evidenza” del divenire degli enti109.
107 G. BONTADINI, Fuochi incrociati sopra la Chiesa, in Giornale critico della filosofia italiana 1973, 116. 108 Ibid., 124. 109 L’affermazione del divenire degli enti, inteso come il loro uscire dal nulla e ritornare nel nulla, è il punto di partenza dell’epistéme e sta alla base della storia del pensiero occidentale (cfr. Parte prima, par. 16 e sgg.). L’atto positivo della risposta dell’uomo alla rivelazione di Dio in Cristo è “libero” in quanto si sarebbe potuto non dare e cioè sarebbe potuto rimanere un niente. Il senso dell’“evidenza” del divenire ontologicamente inteso è dunque imprescindibile per la comprensione (e quindi per la determinazione) del senso della “libertà”.
APPENDICE IL PROGETTO UOMO-POLIS-ECONOMIA
1. Natura e metodo del Progetto Uomo-Polis-Economia Lo Studium Generale Marcianum, polo pedagogico-accademico del Patriarcato di Venezia, è caratterizzato dalla presenza di docenti e studiosi di diversi ambiti disciplinari chiamati ad interloquire nell’elaborazione del sapere e nella didattica. Il Progetto Triennale di Formazione e Ricerca Uomo – Polis – Economia costituisce la possibilità di un lavoro organico di ricerca e insegnamento su argomenti essenziali e, in qualche modo, comuni alle diverse discipline accademiche. Il Progetto viene proposto dallo Studium Generale Marcianum ed è aperto alla collaborazione con docenti e ricercatori di ogni provenienza culturale e religiosa disponibili ad interloquire sulla linea di ricerca proposta. La durata triennale del Progetto (2006-2007; 2007-2008; 20082009) costituisce il minimo indispensabile per poter assicurare sia un adeguato percorso formativo dei giovani ricercatori, sia il tempo necessario per lo sviluppo di una linea di ricerca rigorosa
a) Un progetto interdisciplinare Il Progetto vuol fare interloquire intorno ai temi dell’uomo, del buon governo e dell’economia docenti, cultori della materia e studenti di tre ambiti disciplinari: l’ambito filosofico-teologico; l’ambito giuridico e l’ambito economico e di scienze sociali. Si tratta di tre filoni di lavoro che sono approfonditi dalle ricerche specifiche del proprio ambito disciplinare in dialogo con gli altri ambiti di approfondimento. b) Un progetto di “formazione” e “ricerca” Il Progetto è volutamente pensato come progetto di formazione e ricerca. Infatti è sempre più evidente la necessità di favorire la nascita nuclei di ricercatori e docenti universitari non solo capaci di rigore scientifico nel proprio ambito accademico, ma caratterizzati dall’apertura alla ricerca interdisciplinare. Il panorama culturale contemporaneo richiede sempre di più questa capacità dialogica tra le diverse discipline.
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Per questa ragione il Progetto si propone come strumento concreto di formazione di un nucleo di giovani ricercatori e docenti che possano sviluppare una scuola di pensiero e di metodo interdisciplinare. A tale scopo è necessario favorire quell’unità del soggetto che appare imprescindibile per una comunicazione organica e non frammentata del sapere.
c) Un progetto accademico di orizzonte internazionale con sede a Venezia Lo Studium Generale Marcianum, la cui sede si trova nella Punta della Dogana accanto alla Basilica della Salute, è il polo accademico del Patriarcato di Venezia. Dalla sua fondazione esso conta su solidi rapporti internazionali nel mondo culturale e accademico (appartengono al Consiglio Scientifico Internazionale accademici provenienti da Austria, Ungheria, Italia, Germania, Francia, Stati Uniti e Spagna). L’apertura internazionale del lavoro accademico è ulteriormente assicurata dalle attività ordinarie degli Istituti Universitari e dei Centri di Ricerca appartenenti allo Studium Generale Marcianum. Nello stesso tempo il Progetto viene proposto nella nostra città che, ancora una volta, si presenta come sede privilegiata per l’incontro tra culture e tradizioni accademiche variegate. Il radicamento ‘veneziano’ del Progetto lo apre ad eventuali collaborazione con altre istituzioni culturali e accademiche della città lagunare e della Regione Veneto. d) I Seminari Interdisciplinari di Ricerca Strumento specifico del Progetto sono i periodici Seminari Interdisciplinari di Ricerca. Essi si propongono come giornate di approfondimento in cui il gruppo di ricercatori guidato dal direttore del Progetto lavora insieme ad un Visiting Professor. A motivo del carattere interdisciplinare del Progetto tutti i ricercatori sono chiamati ad interloquire su un tema che non necessariamente riguarda la materia specifica della singola ricerca. Sono, appunto, chiamati ad interloquire con un’altra disciplina nel tentativo di rintracciare le strade per un dialogo fecondo che permetta di individuare punti sintetici per un’elaborazione tendenzialmente unitaria del sapere. I Seminari sono aperti alla partecipazione di docenti e ricercatori interessati alla diverse tematiche. È prevista la pubblicazione con la Marcianum Press di un volume annuale con le lezioni dei Visiting Professors e le conclusioni dei lavori dei Seminari.
APPENDICE. IL PROGETTO UOMO-POLIS-ECONOMIA
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2. Organizzazione Accademica
a) Il Consiglio Scientifico Internazionale È formato da quattro membri nominati dal Gran Cancelliere dello Studium Generale Marcianum. Il Comitato Scientifico Internazionale si riunisce a Venezia una volta all’anno alla fine del secondo semestre dell’anno accademico in corso. Sono compiti del Comitato Scientifico Internazionale: – l’approvazione dei programmi di lavoro per l’anno accademico successivo; – la verifica del lavoro scientifico compiuto; È facoltà del Consiglio Scientifico Internazionale proporre al Consiglio Scientifico Direttivo linee di ricerca su argomenti attenenti il Progetto Uomo – Polis – Economia. Sono membri del Consiglio Scientifico Internazionale: – il Prof. Giuliano Segre (Venezia); – il Prof. Juan Manuel Blanch Nougués (Madrid); – la Prof.ssa Angela Ales Bello (Roma); – il Prof. Alain Mattheeuws (Belgio). b) Il Consiglio Scientifico Direttivo Il Consiglio Scientifico Direttivo ha come compito assicurare il rigore scientifico e la qualità interdisciplinare delle ricerche e le iniziative accademiche proposte per ogni ambito disciplinare. Tra i suoi compiti specifici si possono citare i seguenti: preparare i programmi di ricerca e di pubblicazioni, verificare i percorsi formativi dei giovani docenti e fornire gli elementi necessari per la verifica da parte del Consiglio Scientifico Internazionale. I membri del Consiglio Scientifico Direttivo sono nominati dal Gran Cancelliere dello Studium Generale Marcianum tra i docenti di riferimento dei giovani ricercatori. È inoltre membro del Consiglio Scientifico Direttivo un dirigente universitario quale responsabile tecnico del progetto. Il Direttore sarà nominato dal Gran Cancelliere tra i docenti di riferimento del Progetto. Il Direttore coordina e dirige i seminari interdisciplinari di ricerca. Sono membri del Consiglio Scientifico Direttivo: – il Prof. Gabriel Richi Alberti (direttore); – il Prof. Gianni Bernardi; – il Prof. Corrado Cannizzaro; – il Prof. Gianmatteo Caputo; – il Prof. Fabio Longoni; – il Prof. Alberto Peratoner; – il Dott. Fabio Poles.
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c) Il gruppo di ricercatori e dottorandi Il Progetto di Formazione e Ricerca prevede la costituzione di un gruppo di ricercatori – dottori e laureati – che lungo il triennio di lavoro seguano un apposito percorso accademico di formazione interdisciplinare e si dedichino all’elaborazione scientifica delle linee guide del Progetto. Il lavoro e la ricerca scientifica di ogni ricercatore è seguito da un professore in coordinamento con il direttore del progetto. Regolarmente il ricercatore dovrà presentare un paper sull’andamento della ricerca che sarà valutato dal professore di riferimento. I ricercatori sono tenuti a seguire un percorso di formazione personalizzato, concordato con il direttore del progetto ed il professore di riferimento. Inoltre sono previste sette giornate all’anno di lavoro seminariale interdisciplinare con professori esterni. Dall’anno accademico 2007-2008 la Facoltà di Scienze Sociali e Giuridiche dell’Universidad CEU Cardenal Herrera di Valencia (Spagna) promuove in collaborazione con il Progetto Uomo-Polis-Economia un Programma di Dottorato Europeo di Ricerca dal titolo La società plurale. Le migliori tesi di dottorato saranno pubblicati presso la collana Uomo – Polis – Economia. Sono ricercatori e dottorandi del Progetto: – il Dr. Giulio Goggi; – il Dr. Leopoldo Sandonà – il Dott. Amerigo Barzaghi – la Dott.ssa Maria Laura Conte – il Dott. Andrea Enzo – il Dott. Giorgio Lapadula – il Dott. Giovanni Battista Sandonà – il Dott. Luca Sandonà – la Dott.ssa Emanuela Sabatini – la Dott.ssa Elisa Terzi – il Dott. Jaime Vilarroig Martín Segreteria Scientifica: Dott.ssa Michela Sterpini Progetto Triennale di Formazione e Ricerca Uomo-Polis-Economia Studium Generale Marcianum Dorsoduro 1 – 30123 Venezia t + 39 041 2743911 f + 39 041 2743955 [email protected] www.marcianum.it
INDICE DEI NOMI
Agostino, 7, 41, 49, 51, 68, 70, 83, 97, 108, 111-112, 115, 118, 120 Ales Bello A., 123 Alessandro Magno, 85 Anselmo d’Aosta, 7, 74, 106 Angelini G., 88 Aristotele, 21, 23, 28, 31, 39-40, 42, 44, 54, 58, 67, 71-74, 81, 85, 91, 98, 102, 106-107 Avicenna, 70, 72 Balthasar H.U. von, 77, 79, 86-95, 109, 114 Barth K., 56-57, 65 Barzaghi A., 124 Bauer B., 49, 62 Baur F.Ch., 49 Benedetto XVI, 114-115 Bernardi G., 123 Bertuletti A., 87 Blanch Nougués J.M., 123 Blondel M., 66 Bobbio N., 56 Bonaventura, 68, 77 Bontadini G., 42, 49, 81, 83, 99, 105, 120 Borruso G., 34 Brunner E., 65 Bultmann R., 65 Bausola A., 59 Cannizzaro C., 123 Caputo G., 123 Carnap R., 100 Cartesio R., 104 Clemente Alessandrino, 89 Colombo G., 52-55, 66, 69, 88 Conrad K., 49 Conte M.L., 124 Costa F., 36 Cousin V., 49 Dante, 106 De Lubac H., 67-68, 71, 73-74, 105 De Negri E., 33 Dunz Scoto G., 29-30 Enzo A., 124 Esiodo, 42 Fabro C., 49, 64 Feuerbach L., 56-57, 61-63 Fichte J.G., 35-38, 58, 64 Freud S., 38 Gaetano (Tommaso de Vio), 67-68
Gentile G., 44-48 Gilson É., 49 Giovanni Paolo II, 27, 99, 119 Giussani L., 75-77 Goggi G., 8-9, 11, 17-18, 57, 83, 116, 124 Göschel K.F., 49 Gregorio Magno, 10, 97 Hegel G.W.F., 31-35, 44, 49, 57-58, 6064, 72, 78-79 Heidegger M., 22-23, 38, 72, 100 Ilario di Poitiers, 81 Ireneo di Lione, 68 Kant I., 23, 35-36, 64, 71-72 Kierkegaard S., 57, 60-61, 63-65 Lapadula G., 124 Lequier J., 49 Longoni F., 123 Lutero M., 31, 57 Main de Brian F.P., 49 Malebranche N., 49 Maritain J., 49 Marx K., 38, 62-63 Masnovo A., 49 Mattheeuws A., 123 Melchiorre V., 100 Montinari M., 48 Moravia S., 62 Nietzsche F., 38, 48, 100 Oberti E., 34 Occam G., 30 Olgiati F., 49 Omero, 42 Ortega y G., 24 Paliardi J., 74 Pareyson L., 59 Parmenide, 43, 61, 81 Pascal B., 8-9, 18, 49 Peratoner A., 7, 123 Pio X, 51 Platone, 44, 72-73, 81 Poles F., 123 Preti G., 37 Rahner K., 71-72, 74-75 Richi Alberti G., 57, 123 Rosmini A., 7, 9, 14, 49, 72 Russell B., 100 Sabatini E., 124 Sandonà G.B., 124 Sandonà Le., 124 Sandonà Lu., 124 Schelling F.W.J., 35, 37-38, 57-60, 78 Schillebeeks E., 52 Schleiermacher F.D.E., 56
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Schlick M., 100 Schopenhauer A., 38 Scola A., 99-100 Sequeri P.A., 66-67, 83-84, 88 Segre G., 123 Severino E., 36, 82-84, 99, 110-111 Socrate, 62 Spagnolo Vigorita B., 62 Sterpini M., 124 Strauss D., 62 Suarez F., 68 Tertulliano, 21 Terzi E., 124
Tilgher A., 36 Tillich P., 65 Tommaso d’Aquino, 10, 13-16, 26, 2831, 39, 41-44, 49, 59, 68-70, 72-73, 7778, 86, 96-98, 100, 103-104, 106, 108, 110-113, 115-120 Ugo di San Vittore, 117 Verra V., 59 Vigna C., 12-13, 15, 76, 88, 100 Vilarroig Martín J., 124 Wittgenstein L., 100 Wojtyla K., 99
INDICE
AL
LETTORE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
PREFAZIONE, Alberto Peratoner PREMESSA
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19
PARTE PRIMA CHE COSA HANNO IN COMUNE ATENE E GERUSALEMME? CHE COSA L’ACCADEMIA E LA CHIESA? TERTULLIANO, DE PRAESCRIPTIONE HAERETICORUM, VII, 9 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.
11. 12. 13. 14.
15. 16. 17.
5
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21
Il nesso areté-sophía . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il nesso sophía-alétheia-epistéme . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il nesso epistéme-totalità dell’essere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Esperienza religiosa e primato del theoreîn filosofico . . . . . La “sapienza di questo mondo” e la “stoltezza della predicazione” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Virtù etiche, virtù dianoetiche e virtù teologica . . . . . . . . . . . Il “ragionevole ossequio” e la ragione epistemica . . . . . . . . Il duplice tipo della verità: armonia di ragione e fede . . . Verso la rottura dell’armonia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La filosofia moderna e l’apogeo dell’epistéme . . . . . . . . . . . . . 10.1 L’essenza dell’idealismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10.2 Il pensare come autocoscienza dell’assoluto . . . . . . . . . 10.3 La filosofia come sapere assoluto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Idealismo e coscienza religiosa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nota sull’idealismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La filosofia contemporanea e la crisi dell’epistéme . . . . . . . La metafisica classica e l’eteronomia del divenire . . . . . . . . 14.1 La soluzione di Aristotele . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14.2 Il limite della soluzione di Aristotele . . . . . . . . . . . . . . . . . 14.3 La soluzione di Tommaso d’Aquino . . . . . . . . . . . . . . . . . . La fede cristiana e il compimento della sophía dei Greci . L’epistéme e il senso inaudito del divenire del mondo . . . Il divenire del mondo e l’essenza della filosofia contemporanea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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RAGIONE E FEDE
18. Le ragioni della filosofia contemporanera: l’idealismo di Giovanni Gentile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19. La tendenza di fondo del pensiero contemporaneo – precisazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
PARTE SECONDA CHIUNQUE CREDE PENSA, E CREDENDO PENSA E PENSANDO CREDE […]. LA FEDE, SE NON È PENSATA, È NULLA AGOSTINO, DE PRAEDESTINATIONE SANCTORUM, 2, 5
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Riflessi del tramonto dell’epistéme . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il nesso rivelazione-storia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il nesso verità-storia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La rivelazione come “evento” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il nesso fede-rivelazione-verità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il primato della rivelazione: Barth . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ragione epistemica e fede teologica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.1 La contingenza del finito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.2 La critica del sistema di Hegel . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.3 Fede teologica e paradosso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il nesso antropologia-teologia e l’evidenza della fede . . . . Il cristocentrismo obiettivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La fede e l’evidenza del non controvertibile . . . . . . . . . . . . . . La “capacità” di Dio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il richiamo della ragione epistemica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ermeneutica del divino e ragione epistemica . . . . . . . . . . . . . . Il mistero e la ragione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Passaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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PARTE TERZA PERÒ NON PRESUMERE DI PENETRARE IL MISTERO […] MA CERCA DI CAPIRE CHE SI TRATTA DI REALTÀ INCOMPRENSIBILE ILARIO, DE TRIN., 2, CC. 10,11 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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1. La struttura originaria del sapere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. La struttura originaria e la fede . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. La struttura originaria e la “verità” storica . . . . . . . . . . . . . . . . .
81 83 85
1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15.
INDICE
4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17.
Il “sapere” della fede e il “sapere” della ragione . . . . . . . . . L’“esperienza” e l’apparire della necessità . . . . . . . . . . . . . . . . . Eine besondere christliche Gnosis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La forma della fede e l’apparire del non controvertibile . La “percezione della forma” e la fede come problema . . Nota sul concetto di “esperienza umana elementare” . . . . La possibilità della “dissensio” tra la ragione e la fede . . La struttura originaria e il rapporto ragione-fede . . . . . . . . . . Il dubbio, l’opinione, la scienza, la fede . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il nesso fede-dubbio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fidei obiectum proprie est in quod est absens ab intellectu Sostanza delle cose sperate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La sopra razionalità della fede . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
APPENDICE: IL PROGETTO UOMO-POLIS-ECONOMIA
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86 90 92 93 95 99 101 104 106 109 111 112 117 120
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INDICE
DEI NOMI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Indice
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UOMO-POLIS-ECONOMIA 1. G. Richi Alberti (a cura di), Uomo-Polis-Economia, Marcianum Press, Venezia 2007. Con i contributi di S. Cazzanelli, A. Enzo, G. Goggi, L. Sandonà e C. Volpato. 2. G. Richi Alberti (a cura di), Al cuore dell’umano. La domanda antropologica 1, Marcianum Press, Venezia 2007. Con i contributi di A. Ales Bello, S. Cazzanelli, G. Goggi, B. Hidber, G. Salmeri, L. Sandonà e R. Tremblay. 3. G. Richi Alberti (a cura di), Sentieri dell’umano. La domanda antropologica 2, Marcianum Press, Venezia 2007. Con i contributi di J. M. Blanch Nougués, C. Mirabelli, A. Enzo, F. Salamini, L. Sandonà, G. Segre, C. Soave e C. Volpato. 4. G. Richi Alberti (a cura di), Sul buon governo, Marcianum Press, Venezia 2008. Con i contributi di S. Belardinelli, F. Botturi, G. Gerez Kraemer, G. Goisis, S. Lanza, M. Martínez Sospedra, C. Regalia, F. Reviglio, G. Rossi. 5. G. Richi Alberti (a cura di), Ripensare il bene comune, Marcianum Press, Venezia 2009. Con i contributi di H. Hude, A. Mattheeuws, J. L. Brey Blanco. 6. G. Goggi, Ragione e fede, Marcianum Press, Venezia 2009. Con prefazione di A. Peratoner.
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