La magica forza del negativo


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Italian Pages 212 Year 2005

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Table of contents :
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Indice
Introduzione
La tentazione del bene
Maledire, pregare, non domandare
Al di qua del bene e del male. L’esperienza delle mistiche
Stare a contatto del male senza farsi male
Quando il corpo fa il lavoro del negativo
Quando il reale si crepa
Il pensiero della ferita nella Body Art
La lente scura: Anna Maria Ortese
L’irriducibilità del negativo. Note sulla violenza a partire da Simone Weil
La scrittura del deserto
La grazia del no nel processo analitico
Quarta di copertina
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La magica forza del negativo

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Teorie & Oggetti della Filosofia Collana diretta da Roberto Esposito 57

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Diotima

La magica forza del negativo

Liguori Editore

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Indice

1

Introduzione di Luisa Muraro

9

La tentazione del bene di Diana Sartori

35

Maledire, pregare, non domandare di Annarosa Buttarelli

53

Al di qua del bene e del male. L’esperienza delle mistiche di Eleonora Graziani

69

Stare a contatto del male senza farsi male di Daniela Riboli

89

Quando il corpo fa il lavoro del negativo di Delfina Lusiardi

99

Quando il reale si crepa di Chiara Zamboni

113

Il pensiero della ferita nella Body Art di Donatella Franchi e Barbara Verzini

129

La lente scura: Anna Maria Ortese di Monica Farnetti

137

L’irriducibilita` del negativo. Note sulla violenza a partire da Simone Weil di Rita Fulco

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 163

I

La scrittura del deserto

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di Wanda Tommasi

195

La grazia del no nel processo analitico di Cristina Faccincani

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Introduzione di Luisa Muraro

Non so che titolo daremo, per finire, a questo ottavo libro di Diotima. Da quando abbiamo cominciato a pensarci e a parlarne, all’inizio del 2003, per noi era Il lavoro del negativo. E questo e` il titolo che abbiamo dato al “grande seminario” organizzato presso l’Universita` di Verona, nell’autunno di quell’anno, e da cui provengono i testi qui raccolti. Il nostro intento era piu` o meno questo: dalla tendenza ad ignorare o a colmare o ad esorcizzare il negativo, passare invece a pensare il lavoro che il negativo riesce a fare, come: sciogliere legami non liberi, sgombrare la mente da costruzioni inutili, alleggerire la volonta` da fardelli insensati, cosı` si esprimeva il breve testo che accompagnava il programma. Ricordo che usavamo anche altre parole, per esempio: come possiamo impedire che il negativo che c’e` nelle nostre vite “vada a male”, si traduca cioe` in qualcosa di irrimediabilmente deteriore? Parole diverse ma anche intenti diversi, come mostrera` la lettura dei testi. Che pero` si rispondono fra loro e non solo perche´ molto si e` lavorato insieme. Li collega, alla radice, la cosa che dal primo momento avevamo in comune, ossia il timore di non riuscire a parlare del negativo e di evocarlo invece come un ospite triste e muto, il che avrebbe trasformato il grande seminario in una specie di interno melanconico. O, piu` realisticamente ma peggio ancora, temevamo di sentirci obbligate a contrastare la muta invasione del negativo a forza di buona volonta` e di affermazioni ideali. Anche la formula del titolo, lavoro del negativo, poteva rivelarsi come una di queste, ne eravamo consapevoli. Che si parli, e` gia` lavoro del negativo, perche´ le parole nascono tra due, dopo una separazione, e la separazione e` un nome del negativo. Che si parli del negativo, e` ancora di piu`: quando il negativo si lascia introdurre nel discorso, vuol dire che, poco o tanto, e` uscito dalla sua assoluta negativita` e non pretende di trionfare da solo. Parlo a tentoni, abbiamo parlato a tentoni e con formule non di rado allusive o ambigue, per tenere dietro al nostro argomento. Non dico che ci siamo riuscite sempre, oh no.

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Inoroduzione

Il negativo che non disfa, o non completamente, l’ordine del discorso in cui si e` introdotto o e` stato introdotto, vuol dire che, poco o tanto, ha smesso di distruggere e che sta al gioco del simbolico, fra presenza e assenza. Il che e` molto, moltissimo, per “qualcosa” – si fa per dire – che ha il potere di fare fuori tutto – e questo non e` un modo di dire. Se non e` questo che fa, distruggere, che cosa fa il negativo che “lavora”? E` la questione dei verbi che possiamo predicare del negativo, per tentare di uscire dalla metafora del lavoro, vigorosa ed espressiva, ma datata, risale infatti a due secoli fa, e comunque sempre e solo metafora. Le cose, invece, ogni tanto ca`pitano alla lettera... e ci trovano impreparati. Del negativo possiamo dire che separa, taglia, sopprime, rimuove, nega e ri-nega, esclude, isola... e cosı` facendo, se c’e` “lavoro”, se tutto non si risolve nel caos e nella distruzione, se c’e` un minimo di ordine simbolico (se c’e` due e una relazione fra), esso fa pensare: genera il pensiero, nel senso che lo sprigiona, lo scioglie, lo libera, secondo che insegna la filosofia (Hegel), per quello che ne ho capito io, e l’ho capito per quello che ho imparato con la pratica politica delle donne, come diro` piu` avanti. I verbi che possiamo predicare del negativo, sono piu` di quelli che ho elencato, per esempio non ho neanche preso in considerazione il fatto, comunemente costatabile, che, date certe circostanze (quali, non so esattamente), la negazione ha il potere di rinfocolare il desiderio. Tuttavia i verbi non sono chissa` quanti, perche´ ci sono offerti dalla lingua in numero limitato, secondo la capacita` che hanno avuto, che abbiamo, i parlanti, di fare posto in noi alla potenza del negativo. Il negativo e` una potenza impersonale e agisce di suo, ma quello che fa lo fa in noi, che sia contro o con, e tutto e` a nostre spese, che sia distruzione o lavoro. Non e` facile restare calmamente in presenza del negativo, senza caricarlo di significati deteriori, come il cattivo, il brutto, il falso. O eccitanti. Per esempio, la difficolta` che le classi popolari hanno incontrato a convivere con persone di cultura molto diversa dalla propria, subito se ne e` parlato come di razzismo. Tutto diventa piu` facile: indignarsi, denunciare, giudicare, sentirsi a posto. Forse c’entra il fatto che ho citato prima, da cui si intuisce che il negativo non e` mai neutro nei confronti del desiderio: o lo scoraggia o lo eccita. Si capisce che ci troviamo su un piano inclinato, il deteriorarsi del negativo e` in discesa o cosı` ci sembra. Si puo` tuttavia procedere anche nell’altro senso, nel senso cioe` di decantare il negativo, come si fa con il vino per eliminare le materie che lo intorbidano. Non ho trovato un esempio migliore dell’aneddoto del santo che va mendicando per i bisognosi (e` letteratura agiografica e mi scuso, in filosofia non si usa). Il santo bussa alla porta di un ricco, un benefattore

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Inoroduzione

3

spesso richiesto di dare, che non lo riceve. Il santo si apposta nelle vicinanze e, appena quello esce di casa, gli corre dietro. L’uomo lo respinge, il santo insiste, l’altro, irritato, si volta e gli da` una sberla. Al che il santo: “Questo e` per me, ma per i miei poveri?”. Se un commento puo` disturbare l’ammirato silenzio, vorrei notare che il santo non si comporta come noi immaginiamo che faccia questo tipo di persone, che sarebbe di rimangiarsi la rabbia e di perdonare cristianamente; fa molto meno e molto meglio, cambia il significato della sberla, le toglie ogni ripercussione offensiva per se´ come per l’altro, aprendo cosı` il passaggio all’amore del prossimo. Oggi si scrive molto sul male e in un certo senso e` piu` facile, se non altro perche´ il deteriorarsi del negativo e` lo spettacolo all’ordine del giorno. Il negativo non puo` stare con noi lo spazio di un giorno. Non lo reggiamo. In un paese povero dell’Africa ho incontrato un poeta saggio che diceva: se fosse possibile per noi scegliere la poverta`! Non possono, devono mirare al positivo, devono “svilupparsi”, anche se in pratica non ci riescono. Ai nostri giorni la causa principale del deteriorarsi del negativo e` diventata la buona volonta` che vuole trionfare, e noi con essa. Nell’attuale mobilitazione per il trionfo del bene, le divisioni del passato sono cancellate. A destra e sinistra si gareggia per essere i piu` buoni. Quello che con il comunismo abbiamo visto capitare, la perversione della volonta` buona a contatto con la volonta` di dominare, con la “guerra umanitaria” del Kosovo e` diventata una vera e propria formula politica, ormai i briganti di strada contendono al buon samaritano il nome e i meriti. L’arte, come noto, ha sempre avuto il compito di rappresentare il male in tutte le sue forme, convertendolo in uno spettacolo che consola e risana. Ma parlare puramente del negativo e` un’altra cosa, forse piu` difficile, certo piu` rara da incontrare, che riesce meglio alla scrittura mistica, direi che ne e` la caratteristica principale, quando non le sovrapponiamo valori estetici. Comincia ad esistere un’arte che fa come la mistica, rinuncia ai valori estetici per rappresentare puramente il negativo. Alle fiabe questa cosa riesce con meravigliosa semplicita`, perche` le fiabe, come Cristina Campo ci ha insegnato, hanno la stessa stoffa della mistica. Stavo rileggendo le pagine di Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, da cui vengono la formula e in parte l’idea di questo libro, quando un passo ha fermato la mia attenzione per un sorprendente e preciso richiamo alla fiaba di Cenerentola. Alla prima verifica credetti di essermi sbagliata, ma non era cosı` quando ho avuto in mano la versione dei fratelli Grimm1. 1 Jacob e Wilhelm Grimm, Fiabe, prefazione di Giuseppe Cocchiara, tr. it. di Clara Bovero, Einaudi, Torino 2001, pp. 83-88.

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Inoroduzione

Dunque, parlando dello “spirito” (tornero` su questa parola, per ora prendiamola come viene), scrive il filosofo che esso non e` come il positivo che non si da` cura del negativo, lo spirito non fa come noi quando diciamo “non e` niente”, “e` sbagliato”, per passare molto sbrigativamente ad altro. La grande forza dello spirito sta proprio nel fatto che sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. “Questo soffermarsi – conclude Hegel con una delle sue mirabili impennate – e` la magica forza 2 che volge il negativo nell’essere” . Tutti conosciamo Cenerentola e certo ricordiamo quando il principe va alla ricerca della misteriosa fanciulla della festa, portando con se´ la preziosa scarpetta da lei perduta. Introdotto con ogni onore nella casa del mercante, gli chiede se ha delle figlie. Sı`, risponde il mercante e chiama le due della seconda moglie, che pero` non riescono a calzare la scarpetta. Ne hai altre? chiede il principe, e il mercante: no, c’e` solo una piccola, triste Cenerentola, non si tratta certo di lei. Ma il principe insiste per vederla e lei arriva, l’abito sporco di cenere, i piedi negli zoccoli; il principe la fa sedere, s’inginocchia davanti a lei e le fa provare la scarpina. Lo spirito di Hegel e` il principe della fiaba che ascolta i dinieghi del mercante, vede la malconcia ragazza e non passa sbrigativamente oltre. Conosciamo l’amore dei bambini per le fiabe e quello delle donne del popolo per le nozze reali. Forse, contando poco nei rapporti di forza che dominano in questo mondo, sono dotati d’intuito spirituale. Del principe va detto che la sua eccellenza spirituale sta in questo, che non si difende dal negativo, non lo rincara ne´ lo sminuisce. Quante volte succede che il no dell’altro ci schiacci con il peso del nostro stesso scoraggiamento. Ma quante volte anche ci teniamo stretti alla scarpetta come se fosse la cosa. Il principe no, lui, come dice Hegel, sta presso al negativo e lo volge nell’essere. Cenerentola sposera` il principe e un giorno sara` la regina. Che lo dica Hegel, va sottolineato come qualcosa di veramente notevole perche´ Hegel e` famoso per aver proposto una formula magica molto diversa da questa del tenere compagnia al negativo e di farlo passare nell’essere, intendo la formula dialettica che guadagna l’affermazione del positivo con la negazione della negazione. Una falsa magia, quest’ultima, a giudicare da quello che mostra la storia dei singoli e la storia dei molti, e cioe` che le negazioni, piu` che eliminarsi l’una con l’altra, si accumulano rinforzandosi. Qualche volta funziona, sı`, in algebra, per esempio, ma il piu` delle volte la negazione della negazione da` risultati 2 Georg W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. di Enrico De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1963, p. 26.

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Inoroduzione

5

deteriori, come l’ipocrisia, il rinnegamento, il negativismo, la spirale del tanto peggio. “Quanto alla famosa ‘negazione della negazione’, e` una frottola ridicola”, afferma seccamente Simone Weil commentando la 3 dialettica hegeliana . Secondo lei il negativo opera in maniera meno macchinosa, piu` semplice, come nell’arte del levare: “negativo – scartare quelle parole che velano il modello, la cosa muta che deve essere espres4 sa” . A Simone Weil dobbiamo molto in questo campo, niente meno che una ripresa della grande tradizione mistica, che pareva sparita. La Weil riconosce senza esitazione la fallacia della formula della dialettica, alla quale oppone l’idea della de-creazione. De-creazione si chiama, in lei, il lavoro del negativo che porta dal tempo all’eterno, che annulla la distanza fra la creatura e Dio. La sua concezione del negativo si ispira alla teologia apofatica o negativa (αποφατικ ς: che separa, che nega). Scrive: “Se cio` che e` supremo non puo` essere espresso nel nostro linguaggio che per 5 negazione, noi non possiamo imitarlo che negativamente” . Ci sono dei surrogati della de-creazione, come il suicidio, percio` condannato. La 6 distruzione ne e` l’estremo opposto . La de-creazione e` opera dello Spirito, lo Spirito, Siva nella trinita` indu`, e` il Dio de-creatore, il Dio trasformatore. 7 Ma puo` agire “solo con la nostra cooperazione” . E qui, forse inconsapevolmente, la pensatrice francese si avvicina a Hegel. Dio, afferma la Weil, presente di suo nella creazione, ha bisogno della creatura umana per essere presente in quanto Spirito che trasforma, disfa, decanta questo 8 mondo di opaca finitezza cosı` che in esso possa tralucere l’assoluto . Si tratta d’impedire che il negativo vada a male. Si tratta, in altre parole, di sapere come si produca quell’intervallo che ha la finezza di un capello e che fa l’abissale distanza fra la de-creazione e la distruzione. Simone Weil ha chiaro che quest’intervallo che trattiene il negativo dal cadere nel negativismo e, anzi, lo fa “lavorare”, non e` un’operazione intellettuale ma pratica e che non puo` farsi indipendentemente da noi, singolarmente presi, in carne e ossa. Lo sa dalla tradizione mistica ed e` cosı` che ne parla, per esempio quando parla dell’obbedienza, dell’umilta` e 3 Simone Weil, Quaderni, vol. I, a cura e con un saggio di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1982, p. 126. 4 Ivi, p. 238. 5 Ivi, p. 351. 6 Simone Weil, Quaderni, vol. II, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1985, pp. 199, 301. 7 Ivi, p. 301. 8 Ivi, p. 304.

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Inoroduzione

della purezza come di virtu` negative (ne abbiamo visto un esempio nell’aneddoto del santo) , dell’efficacia del non intervento, e invita a fare il vuoto... Ma che cosa significa questo per noi oggi? In passato io ho creduto necessario postulare la precedenza del positivo sul negativo, dell’essere sul non essere, della presenza sull’assenza. Mi facevo forte di un’evidenza speculativa, ma andavo contro (e forse questo “andare contro” era il mio intento) un altro tipo di evidenza, di natura pratica. In pratica io somigliavo a quella paziente di cui parla lo psicanalista inglese Winnicott, la quale considerava il negativo piu` reale del positivo, e di se´ diceva: “Tutto cio` che ho e` quello che non ho”, parole che lo psicanalista cosı` commenta (e questo riguarda molto il nostro tema): “Vi era un disperato tentativo qui di volgere il negativo in una difesa all’ultimo sangue contro la fine di ogni cosa. Il negativo era il solo 9 positivo” . Non facciamoci qui tentare dalla falsa magia del rovesciamento dialettico, Winnicott parla infatti di tentativo disperato e l’unica possibilita` che aveva di non essere tale – disperato – stava nel fatto che c’era qualcuno che ascoltava la donna ed una relazione era possibile. A presente seguo un filo diverso, che si avvicina proprio alla possibilita` che si apre quando il negativo non viene respinto ne´ lasciato solo. Il filo me lo ha suggerito una scoperta della linguistica strutturale, fatta nel lontano 1932, quella delle “opposizioni partecipative”, che dai conoscitori e` stata paragonata alla scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo. In che cosa consiste? Che non c’e` solo l’opposizione contradditoria (bianco/non bianco, A/non A) e l’opposizione contraria (bianco/nero, A/Z). La lingua conosce un altro tipo di opposizione, di un termine con un altro che lo comprende, per esempio, nell’uso tradizionale, il genere grammaticale femminile rispetto a quello maschile, ossia A/A+non A. Infatti, secondo questo uso, il femminile si significa per opposizione al maschile, ma il maschile comprende anche il femminile. Che possa darsi una simile opposizione, non deve meravigliare, ha commentato un linguista, sappiamo infatti che il linguaggio ha l’impronta della 10 mentalita` prelogica . Che cosa vuol dire? E che cosa interessa questo a noi? Un altro linguista ha spiegato che fino allora tre erano i termini – positivo, negativo,

9 Donald W. Winnicott, Gioco e realta`, prefazione di Renata Gaddini, tr. it. di Giorgio Adamo e Renata Gaddini, Armando, Roma 1974, pp. 55-58. Questo caso e` commentato da Andre´ Green, Le travail du ne´gatif, Minuit, Paris 1993, pp. 15-17. 10 Knud Togeby, Immenence et Structure, “Revue Romane”, nume´ro speciale 2, 1968, pp. 45-50.

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Inoroduzione

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neutro – e che bisognava aggiungerne un quarto, il complesso che consente lo stabilirsi dell’opposizione partecipativa. Mentre il neutro si definisce per non essere ne´ positivo ne´ negativo, il complesso e` sia positivo sia negati11 vo . Questo quarto termine e` il principe della fiaba, e` lo spirito di Hegel che ha la capacita` di stare in presenza del negativo, consentendo cosı` che l’opposizione sviluppi la sua negativita` senza diventare distruzione, e da cio` la nascita del significato. Quando, in passato, esploravo la strada del postulato metafisico della precedenza del positivo, argomentavo: “Bisogna pure che ci sia del positivo in salvo da qualche parte, altrimenti non si osa nemmeno cominciare a criticare”. Ora vedo che la lingua stessa adempie a questo postulato, s’intende, purche` ci parliamo e ci ascoltiamo, senza di che la lingua non vive. Chiamare prelogica l’opposizione partecipativa, e` troppo poco e forse e` sbagliato. Basterebbe riflettere sull’opposizione tra femminile e maschile: non e` logica ne´ prelogica, e` semplicemente tipica di una cultura storica, il patriarcato. Io la chiamerei non prelogica ma politica, dando a questa parola un significato che ho imparato con la politica delle donne: pratica della relazione non strumentale e del conflitto che modifica e non distrugge – un significato che non esclude quello corrente ma ne esclude la falsa magia che prescinde dagli esseri umani in carne e ossa. Le figure che ho evocato, il santo della sberla, il principe della fiaba, sono figure politiche che rendono possibile qualcosa che prima non lo era. Anche l’eros, la cui nascita Diotima racconta nel Simposio di Platone, ha questa caratteristica di figura politica. Il negativo “lavora” grazie al principe-spirito, grazie cioe` ad una politica capace di tenere praticamente insieme quello che, logicamente e naturalmente, non potrebbe starci. Simone Weil afferma che “la de12 creazione e` contro natura” . Un’affermazione vicina a questa si trova anche in uno dei testi qui raccolti, che ne fa capire la profonda giustezza. Il riferimento alla natura, intendo la natura umana, ora presa come buona ora come cattiva, questo riferimento compare quando non si vede o non si vuole far vedere una strada percorribile per la modificazione, quando il negativo genera impotenza e non c’e` politica, ma dominio e distruttivita`. Il riferimento alla natura funziona come divieto della trasformazione libera o come segno di disperazione della sua possibilita`. Man mano che procedeva il grande seminario del 2003, il nostro 11 12

Ivi, p. 47. S. Weil, Quaderni, volume II, cit., p. 217.

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Inoroduzione

timore sulla possibilita` di parlare del negativo, senza essere infondato, andava pero` scemando perche´ ci siamo accorte che agiva un antidoto. Potevamo infatti constatare che i nostri rapporti, non finti ne´ strumentali, e, come dire, gia` lavorati dal negativo, reggevano la sua comparsa e gli facevano posto nel discorso. Mi riferisco non solo ai rapporti fra quelle che compaiono qui come autrici del libro, ma anche con quelle e quelli che sono venuti ad ascoltarci e ad interloquire, anche loro co-autori e non per modo di dire. Vorrei infine aggiungere che c’era, come ho detto, un lavoro gia` fatto e un guadagno assicurato, lavoro e guadagno che costituiscono la storia della nostra comunita` filosofica, ma solo in parte. Per un’altra parte, piu` aleatoria ma piu` preziosa perche´ parlante di suo, la presenza non distruttiva del negativo veniva guadagnata al momento. Lo dico sulla scorta di episodi precisi, la cui eco ritorna variamente nei testi. Che la possibilita` del “lavoro” del negativo sia da guadagnare al momento e che cio` sia possibile, questa che possiamo chiamare la contingenza dell’essere, e` la scoperta che si fa con la rinuncia al postulato metafisico della precedenza del positivo sul negativo, e ne dice esattamente il significato.

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La tentazione del bene di Diana Sartori

Una piu` del diavolo I am the flesh that always affirms

Certo che l’espressione hegeliana “il lavoro del negativo” abbia avuto tanta risonanza in filosofia la dice lunga su quale sia stato il lungo e faticoso lavoro della filosofia. Non c’e` di che stupirsi che questa porti sempre fiori freschi alla tomba di chi e` riuscito a mettere al lavoro il negativo, davvero una vittoria sulla morte in Spirito, di meglio non e` dato. Di peggio pero` sı`, sempre, il che dice la sua sul conforto di una formula che omette quanto di negativo e` senza impiego. Ma sia lavoro o altro cio` che il negativo fa o disfa, resta la domanda: come lavora il negativo? 1 Risposta ovvia, nega. “Io sono lo spirito che sempre nega” , pero` a dirlo era il diavolo. Precisazione che mette in guardia riguardo a come il negativo tenda a prendere fattezze diaboliche e a volgersi, insomma, in male. Che questo sia il residuo insopprimibile e senza impiego, la parte luciferina del negativo, o che piuttosto sia come ancora insinua il Mefistofele faustiano “una parte della forza che vuole sempre il male e opera sempre il bene” e` questione che riporta appunto a quella classica domanda circa per chi-cosa lavori il negativo. Al servizio di chi possa essere ascritta, se puo`, la sua “immane potenza”, compresa la forza di fascinazione che esercita come “padre adottivo di quanti Dio Padre caccio` nella 2 sua nera collera dal paradiso terrestre” , umani peccatori, tutti in fondo, ma ribelli ed invisi all’ordine d’ogni sorta. La recente riscossa del tema del negativo nel dibattito filosofico, specie in quello politicamente orientato a indagare le potenzialita` di cambia-

1 2

“Ich bin der Geist, der stets verneint! ”, dice il Mefistofele di Goethe nel Faust. Come lo invoca Baudelaire nelle sue Litanie di Satana.

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

L magica forza del negaoivo

mento o rivoluzionamento dell’ordine dato, e` sintomatico di un mal-essere presente dilagante, ma ben si inscrive in questa lunga tradizione di funzionalizzazione rivoluzionaria del negativo come parte maledetta sı`, ma 3 anche potenza di negazione dell’esistente . Valenza critica del negativo si sarebbe detto un tempo, differenza che innesca il divenire si e` preferito dire in tempi piu` vicini. Come che sia, questo lavoro del negativo non e` quello che mi pare possa tanto interessare alle donne che hanno assunto il taglio del femminismo e della differenza sessuale. Piuttosto mi verrebbe da dire che piu` pertinente, come suggerimento del problema, potrebbe essere il nucleo di quanto Molly Bloom dice nel suo straordinario monologo, per quanto sia appunto il rovesciamento speculare di quello “spirito che 4 sempre dice no”: “Io sono la carne che sempre dice sı`” . Molly-Penelope e` una donna che ne sa una piu` di quel diavolo che sempre dice “No”, e questo di piu` e` un “Sı`”, primo e ultimo. Qualcosa di questo Sı`, prima e ultima parola femminile, mi chiama e acconsento: sı` e` piu` forte del diavolo. Al punto che persino il riverbero di quello specchio maschile che lo nomina carne di contro allo spirito mi disturba, ma non 3

A parte le perduranti fortune dell’eredita` dell’interpretazione hegeliana da parte di Koje`ve e delle sue propaggini lacaniane, si registra un vero e proprio grande ritorno a Kant e alla sua concezione del male radicale. Tra i numerosi esempi di questo rinnovato interesse per i temi del male e del negativo segnalo: Luigi Aversa (et al.), Il male, Cortina, Milano 2000; Alain Badiou, L’etica. Saggio sulla coscienza del male, tr. it. di Claudia Pozzana, Pratiche, Parma 1994; Jean Baudrillard, La trasparenza del male: saggio sui fenomeni estremi, tr. it. di Gianfranco Maraniello, SugarCo, Milano 1991; Richard Bernstein, Radical Evil: A Philosophical Interrogation, Blackwell, Oxford 2002; Joan Copjec (ed.), Radical Evil, Verso, London 1996; Vladimir Janke´le´vitch, Il male, tr. it. di Fernanda Canepa, Marietti, Genova 2003; Michele Nicoletti, La politica e il male, Morcelliana, Brescia 2000; Pier Paolo Portinaro (a cura di), I concetti del male, Einaudi, Torino 2002; Franco Rella, Figure del male, Feltrinelli, Milano 2002; Slavoj Zˇizˇek, Tarrying with the Negative, Duke UP, Durham 1993; Alenka Zupancic, Ethics of the Real, Verso, London 2000; per una discussione del dibattito cfr. il numero monografico On Evil di “Cabinet”, 5, 2001-2002. Molti anche contributi di studiose che ripensano il male assumendo una prospettiva piu` o meno esplicitamente femminista: Claudia Card, The Atrocity Paradigm: A Theory of Evil, Oxford UP, Oxford 2002; Diana Coole, Negativity and Politics: Dionysus and Dialectics from Kant to Poststructuralism, Routledge, London 2000; Maria Pia Lara (a cura di), Ripensare il male: prospettive contemporanee, tr. it. di Piero Vereni, Meltemi, Roma 2003; Susan Neiman, Evil in Modern Thought: an Alternative History of Philosophy, Princeton U.P., Princeton – Oxford 2002; Nel Noddings, Women and Evil, Un. of California Press, Berkeley 1989; importante il numero speciale di “Hypatia”, Feminist Philosophy and the Problem of Evil, Ed. Robin May Schott, vol. 18, n. 1, 2003. 4 “I am the flesh that always affirms” dice Molly nel capitolo finale dell’Ulysses, o come dice Joyce in una lettera a F. Budgen sottolineando l’importanza dell’inizio e della fine del monologo con un “Yes” e il rovesciamento della frase di Mefistofele: “Weib. Ich bin des Fleish der Stets bejaht ”.

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poi del tutto. Se quel primato del sı` mi risponde, forse per l’eco di un’accoglienza materna primo bene e riparo dal male, avverto tuttavia che per quanto lı` sia la scaturigine di quella forza femminile cui posso attingere, proprio nel legame a quel sı` sta anche una difficolta` femminile che concerne il rapporto col negativo. Da una parte e` una difficolta` a livello soggettivo che sento personalmente e che non mi azzarderei a generalizzare al sentire femminile, ma da un’altra si tratta di una difficolta` che rilevo sul piano politico, ed e` a questa che intendo piu` propriamente guardare. Nella politica che si e` sviluppata attorno all’importanza delle relazioni tra donne che riconoscono e fanno circolare l’autorita` femminile, mettendo in primo piano la figura della prima relazione con la madre, si e` molto insistito su quello che si e` chiamato il lavoro a partire dal positivo, sulla forza femminile e il modo di darle autorita`, circolazione, nominazione. Un’opzione che veniva anche da una presa di distanza da quel femminismo che puntava sull’idea di oppressione, di discriminazione, insistendo sulla miseria femminile. Sebbene molto si dovesse riconoscere non solo ai “No” detti da tante donne che avevano rifiutato, disobbedito, trasgredito, combattuto con coraggio e rabbia facendo della coscienza del negativo subito una forza politica, ma anche ad un lavoro politico sul negativo che si poneva in ascolto di quella negativita` patita senza nome nelle forme del disagio, del sintomo, della sofferenza femminile, si percepivano ormai i limiti di quell’approccio. Molte lo sentivano inefficace e frustrante: una politica che si confinava nella critica, nella richiesta rivendicativa e faceva leva sulle forze reattive del risentimento. Oltre all’effetto collaterale mortificante e depressivo della rappresentazione di una diffe5 renza femminile schiacciata e umiliata , il difetto maggiore di quella politica era comunque quello del rischio condiviso con ogni postura critica: di attestarsi su di una negazione che dipende logicamente da cio` che nega, rappresentandone, appunto, un negativo speculare. La forza distruttrice del leone, diceva gia` Nietzsche avendo appunto a mente le forze reattive del risentimento, ma non ancora quella del fanciullo che 6 crea nuovi valori e la cui parola e` Sı` . La capacita` di fare leva sul positivo di origine femminile, sostenendo dal punto di vista teorico la necessita` di radicarsi nella prima positivita` della relazione con la madre, la precedenza e priorita` del positivo cui fare 5

Con il rischio, inoltre, di immettersi nel perverso circuito depoliticizzante della ripetizione-mantenimento del ruolo di parte offesa e della rendita della vittima. 6 Nel celeberrimo passo delle Tre metamorfosi, il primo dei discorsi di Zarathustra.

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riferimento, e` stata, credo, la forza della politica della differenza e delle pratiche di relazione. Quindi non intendo affatto contestare questa funzione del positivo, sua e` l’immane potenza mi verrebbe da dire, ne´ dal punto di vista teorico ne´ da quello politico. Tuttavia nel corso del tempo, e soprattutto nella mia esperienza soggettiva, sono venuta maturando la convinzione che fosse necessario, pur mantenendo il riferimento a tale priorita`, tornare a lavorare sul fronte del negativo. E cio` sulla spinta di molti e diversi motivi: il perdurare nella mia vita e in quella di molte donne di un negativo e di una sofferenza cui era difficile dare nome ed elaborazione. L’emergere di forme di negativita` nelle relazioni tra donne spesso ancor piu` difficili da affrontare di quelle che si incontravano con gli uomini e nella nostra vita nel mondo. La percezione di un certo indulgere femminile in una rappresentazione di se´, delle relazioni tra donne e della nostra politica, di tipo edulcorato, imbellettato, celebrativo e a volte francamente ipocrita. Lia Cigarini ha parlato in proposito di una sorta di “liturgia materna”. E, ancora, la convinzione che proprio sul duro terreno del negativo si svolgesse un’implicita contesa cruciale del conflitto simbolico sul senso dell’agire politico che divide quella politica delle donne dal senso corrente della politica abbracciato in genere dagli uomini e anche da molte donne che ne mutuano l’orizzonte e le modalita` tradizionali. Ma, ancor di piu`, il sospetto che l’estrema difficolta` di fare i conti col negativo e l’estrema difficolta` di fare i conti con la differenza sessuale nella regolazione dei rapporti tra i sessi fossero legate a doppio filo tra loro. Qualcosa le intreccia al punto da renderle quasi indistricabili, cosı` che il lavoro del negativo imbrica la differenza sessuale e nell’assumere la differenza si mette a tal punto al lavoro il negativo che ne va del bene e del male nel mondo. Basta il ricordo del peccato di Eva a testimoniare di quanto abbia lavorato questa sovrapposizione nella nostra cultura associando la donna, la tentazione del male e il negativo della caduta, e ben si comprende come mai molta parte della riflessione femminile sul negativo e il male si sia impegnata a denunciare tale equivalenza simbolica, con le parole di Mary 7 Daly a “esorcizzare Eva dal male” . Ma c’e` anche l’altra faccia di quella sovrapposizione, altrettanto carica di conseguenze, quella dell’associazione con il bene, che, come sottolinea ancora Daly, produce la dicotomia “donna buona-donna cattiva”, in un letale incastro che impone per la 7

L’intento e` cosı` dichiarato nel suo Al di la` di Dio Padre (tr. it di Donatella Maisano e Maureen Lister, Editori Riuniti, Roma 1990), ma e` ripreso ripetutamente nelle opere successive.

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liberta` femminile l’imperativo di andare “al di la` del bene e del male del patriarcato”. Questa seconda faccia mi sembra abbia maggiormente a che fare con le difficolta` rispetto al negativo che ho rilevato, perche´ la luminosa immagine femminile che porta impressa gioca una parte di rilievo nell’immaginare di poter stare tutte dalla parte del bene, espungendo il negativo stesso. Immagine tentatrice ancor piu` diabolica, anche se si tratta della tentazione del bene.

Il lavoro del negativo Se i conti col negativo e i conti con la differenza sessuale, entrambi elevati e ineludibili, fanno parte di uno stesso umano bilancio arduo da pareggiare, la circostanza che si sia preteso di pagare gli uni con gli altri ne ha reso la quadratura pressoche´ impossibile. Riguardo al negativo come alla differenza, insomma, e` avvenuta una sorta di divisione del lavoro in forza della quale il lavoro della differenza e stato messo in carico a quella femminile, e il lavoro del negativo si e` strutturato secondo una specie di divisione sessuale del lavoro morale. Anni fa, quando il tema del negativo prese a lavorarmi come una 8 specie di chiodo fisso , incontrai nel racconto Cuore di tenebra di Joseph Conrad non solo uno dei piu` intensi resoconti di un vero e proprio viaggio nel negativo che la nostra cultura abbia prodotto, ma anche un’intuizione lucida dell’organizzazione del lavoro del negativo tra i sessi. Di questi tempi di guerra, specie a seguito delle terribili foto delle 9 torture di Abu Graib e della soldatessa Lynndie England , molti hanno ricordato il racconto di Conrad per la sua visione dell’orrore e la critica 10 dell’imperialismo occidentale . La vicenda e` nota, ne rammento solo i 8

Non so bene come mi si sia piantato nella mente, di certo per un mio personale attraversamento del negativo ma anche sulla spinta della riflessione proposta dal “sottosopra” rosso, E` accaduto non per caso, 1997. Qualcuna parlo` di salti di gioia all’annuncio della morte del patriarcato, la prima cosa che venne in mente a me, invece, fu che c’era poco da ridere. Al seminario di Diotima stimolato da quel dibattito utilizzai per la prima volta l’esempio di Cuore di tenebra. 9 Molte sono intervenute sulle immagini delle donne torturatrici, rimando ai numeri 69-70, 2004, di “Via Dogana” e al n. 2 di “per amore del mondo”, la rivista di Diotima in rete all’indirizzo www.diotimafilosofe.it. 10 La bibliografia su Cuore di tenebra, gia` amplissima, e` negli ultimi anni ulteriormente cresciuta perche´ il racconto e` divenuto oggetto di acceso dibattito nell’ambito dei cosiddetti studi postcoloniali. Per l’analisi del racconto: Robert Kimborough (ed.), Joseph Conrad: “Heart of Darkness”. An Authorative Text. Backgrounds and Sources. Essays in Criticism, Norton Critical Editions, New York 1963; Olof Lagercrantz, In viaggio con Cuore di tenebra, tr. it. di

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sommi tratti: il protagonista, Marlow, racconta del suo viaggio in Africa, risalendo un fiume, simile ad un serpente, che lo portera` alla stazione piu` interna nella giungla alla ricerca di un uomo, Kurtz, nel cuore di tenebra. Kurtz e` una figura affascinate e terribile, e` un “genio universale”, uno della “cricca della virtu`” e con progetti grandiosi, tutta l’Europa ha contribuito alla sua formazione. E` il rappresentante piu` puro dei metodi e dei valori dell’uomo europeo, ma li ha portati all’estremo, alle ultime conseguenze, svelandone il fondo oscuro, il cuore di tenebra che gli batte in petto. L’incontro con Kurtz e` sconvolgente per Marlow, il quale e` posto faccia a faccia con questa radice oscura, letteralmente con il negativo, e che raccoglie le ultime parole di Kurtz: l’orrore, l’orrore. Questo cio` che solitamente si rileva della trama, ma, come diro` piu` avanti, la parte forse piu` significativa quantomeno per quanto qui e` in oggetto, cioe` il finale, generalmente non ha goduto di troppa attenzione nella critica. Ma prima di tornarci sopra riporto cio` che piu` mi aveva colpita, una riflessione di Marlow nel congedarsi dalla zia, “un’ottima donna” piena di buoni ideali edificanti che “a forza di vivere in quella marea di frottole, aveva finito per entusiasmarsene”: E` strano quanto lontane dal contatto con la realta` possano essere le donne. Vivono in un mondo tutto loro, e non c’e` mai stato nulla di simile, e mai potra` esserci. E` perfino troppo bello, e se riuscissero a realizzarlo andrebbe in pezzi prima del primo tramonto. Qualche malaugurato fatto col quale noi uomini conviviamo tranquillamente fin dal giorno stesso della creazione verrebbe fuori di colpo a spazzar via tutto.

Lı` si pianto` il chiodo che, arrugginito, ancora mi pungola. Cosa mi aveva colpito, e ancora mi colpisce? E` un uomo che parla, un uomo singolarmente consapevole della civilta` malata in cui vive e che denuncia, nonche´ della responsabilita` prettamente maschile di questa

Carmen Giorgetti Cima, Marietti, Genova 1988; Cedric Watts, Conrad’s “Heart of Darkness”: A Critical and Contextual Discussion, Mursia, Milano 1977; Nicolas Tredell (ed.), Joseph Conrad: Heart of Darkness: Essays, Articles, Reviews, Columbia U.P., New York 2000. Per il dibattito postcoloniale: Gayatry Spivak, Morte di una disciplina, a cura di Vita Fortunati, Meltemi, Roma 2003; Chinua Achebe, An Image of Africa: Racism in Conrad’s Heart of Darkness, in Heart of Darkness A Norton Critical Edition. Ed. Robert Kimbrough, Norton, New York 1988; John Hillis Miller, Should We Read Heart of Darkness?, in Conrad in Africa: New Essays on Heart of Darkness. Ed. Attie De Lange & Gail Fincham, Columbia U.P., New York 2002; Padmini Mongia, The Rescue: Conrad, Achebe, and the Critics., in Conrad in Africa, cit.; Id., Why I Teach Conrad and Achebe, in Approaches to Teaching Conrad’s Heart of Darkness and The Secret Sharer. Eds. Hunt Hawkins and Brian W. Shaffer, MLA, New York 2002.

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malattia11. Un uomo che vede quanto stia nelle mani delle donne l’unica fiammella di bene che vi viene tenuta viva. Piu` uomini che ai tempi di Conrad oggi sembrano rendersene conto, o almeno cosı` dicono, invitando le donne a unirsi al corteo degli uomini di buona volonta`, per aiutarli a salvare il mondo. Molte ottime donne rispondono e si mettono ad aiutare gli uomini nelle loro imprese. Di queste donne dico solo che pero` spesso si perdono e finiscono per avere ben poco con cui aiutare gli uomini, almeno quando pensano che si tratti di unire forze quantitativamente simili. Altre, tantissime, continuano a tenere accesa la fiammella e a fare quello che si e` chiamato il lavoro di civilta`. Altre ancora giudicano, avendo (spero) fatto quel salto che si e` chiamato della liberta` femminile, che lı` in quel lavoro stia il cuore della politica e dell’amore per il mondo e gli esseri umani maschi e femmine che lo abitano. Queste sono quelle che hanno abbandonato l’eterna richiesta d’inclusione, come la lamentazione e quella forza politica infida che e` il risentimento, lavorando sul positivo, ed e` stata, e`, indubbiamente una politica efficace che ha fatto mondo. 12 Eppure si avverte un arresto : anche dedicare questa riflessione al negativo che affligge le nostre vite ne e` un segno. Qui torna per me farsi sentire il chiodo. Lo stesso che, scriveva Chiara Zamboni nella presenta13 zione del seminario , inchioda uomini e donne nelle loro posizioni irrigidite, fatte dure, che non comunicano e non muovono realta` e le nostre vite. Ecco, qui riconosco un inchiodamento che ha a che fare con qualcosa che la frase di Conrad riportava, e che riguarda quell’aspro ostacolo che Lia Cigarini ha chiamato la “perdurante incredulita` maschile” in una politica che non sia quella dettata dalla dura legge della forza, che pretende di assumere realisticamente il negativo e il male. Incredulita`

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Per questa consapevolezza di Conrad e per il suo atteggiamento nei confronti delle donne: cfr. Andrew Michael Roberts, Conrad and Masculinity, Macmillan, Basingstoke 2000; Rita Bode, “They... Should be Out of It”. The Women of Heart of Darkness, “Conradiana”, 26, 1, 1994, pp. 20-34; Susan Jones, Conrad and Women, Oxford U.P., Oxford 1999; Johanna Smith, Too Beautiful Altogether. Patriarchal Ideology in “Heart of Darkness”, in Ross Murfin (ed.), “Heart of Darkness”, Joseph Conrad, “A Case Study in Contemporary Criticism”, St. Martin’s Press, New York 1988; Carole Stone, Fawzia Afzal-Khan, Gender, Race and Narrative Structure: A Reappraisal of Joseph Conrad’s Heart of Darkness, “Conradiana”, 3, 1997, pp. 221-34. 12 Lo rimarcava Lia Cigarini al seminario di Diotima “Donne e uomini, anno zero”, dicendo di sentirsi ferma in mezzo a donne che corrono da tutte le parti inseguendo desideri che non capisce, non capiamo. Il testo e` stato pubblicato su “Via Dogana”, n. 63, 2002. 13 Il testo introduttivo al seminario e` disponibile nel sito di Diotima.

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nell’efficacia trasformativa della politica delle relazioni e del simbolico che hanno fatto tante donne. Questa incredulita` Conrad la esprime bene, meglio di molti che ora ne sono affetti: le donne vivono in un mondo tutto loro, pieno di buoni sentimenti, ideali, bello, caldo e buono; e` un mondo pero` lontano dalla realta`, del tutto illusorio e fantasmatico, ben lungi dalla “dura realta`” con cui gli uomini hanno quotidianamente a che fare. Marlow, il protagonista, si stupisce della strana mancanza di senso della realta` delle donne e si chiede cosa mai accadrebbe se il mondo chiuso in cui esso vivono si aprisse e diventasse il mondo stesso. La risposta, dettata dal suo realismo maschile, e` netta: impossibile, non durerebbe, troppo bello, la realta` vera con il suo carico ineludibile di male ne avrebbe ben presto ragione, un solo banalissimo fatto con cui gli uomini hanno sempre convissuto basterebbe a farlo crollare. Il giorno dell’avvento del mondo delle donne non vedrebbe nemmeno il primo tramonto: troppa luce, i primi segnali del buio lo farebbero a pezzi. Il mondo delle donne non sopporta la tenebra, non sopporta il negativo, e` troppo chiaro, troppo luminoso, senza chiaroscuri, le prime ombre bastano a spezzare l’incantesimo. E` una condanna, viene subito da replicare, fin troppo funzionale alla legittimazione dell’inevitabilita` della superiorita` del mondo degli uomini, essendo quello delle donne un mondo di sogno e di fantasie. Ma una difesa di questo tipo e` troppo semplicistica. C’e` un nucleo di verita` in quel giudizio, e anche un giusto avvertimento. Direi che ha a che fare con un doppio inchiodamento che richiede molto lavoro del negativo da fare, e temo dolore, male e sofferenza. Il primo chiodo e` piuttosto un cuneo, che sta infilato tra donne e uomini e riguarda la politica. La sostanza della politica, ripete in fondo il ritornello della tradizione del pensiero politico dominante, altro non e` che la forza. E ben poco convincenti sono state le voci maschili che si sono levate contro il coro virile del realismo politico. Che lo si ammetta o no, Kurtz ne e` la perfetta voce solista. Egli, non diversamente dalle foto delle 14 torture ma persino da tanti eroi della cinematografia , svela quel che Slavoj Zˇizˇek ha chiamato la sottesa oscena “legge della legge” della nostra cultura, l’implicito cuore di tenebra che deve rimanere non detto e che addirittura viene esplicitamente negato, ma che ne assicura l’ordine e la

14 E non a caso il Kurtz di Marlon Brando e` una figura oggetto di culto in Apocalypse Now, che traspone cinematograficamente Cuore di tenebra.

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15 vita . Questo cuore e` l’orrore nel preciso senso inteso da Conrad, quello che Kurtz abbraccia assumendo su di se´ il negativo che la sua impresa 16 comporta . L’ordine della politica, con la sua legge, il suo discorso e la sua pratica pubblica, non basta a se´, abbisogna d’altro, di questo non detto sottofondo tenebroso e impresentabile “supplemento osceno” e a questo fa segno chi realisticamente dice che “in fondo” la sostanza, il sostrato, della politica e` la forza e la necessita` di chi si pone nel luogo del potere e` farsi carico del negativo. A questo realismo e alla sua presunzione di autosufficienza e` sempre utile ricordare quanto esso stesso non basti a se´ ma abbisogni di un ulteriore supplemento o meglio di un di piu`, il rimando ad un luogo altro, del bene o della giustizia o del fine, che e` reale e agisce realmente pur non essendo esaurito dalla realta`. Lo vide bene Simone Weil riconoscendo 17 come nel mondo agisca un’altra forza che non e` la forza , ma, anche non fissando lo sguardo cosı` in alto come lei, la realta` di una forza che non e` la forza che fa il mondo e la politica appare evidente a chi non tenga separati l’amore vitale del mondo e la politica. Luisa Muraro ha parlato della realta` di una forza che lega, stringe e non costringe, e l’ha chiamata 18 amore , io preferisco chiamarla forza libera. E` questa forza libera, non

Zˇizˇek si espresso in questo senso rispetto alle foto di Abu Graib, ma questa sua tesi e` onnipresente nei suoi libri: cfr. Id., Il grande altro, a cura di Marco Senaldi Feltrinelli, Milano 1999; Id., Il godimento come fattore politico, a cura di Damiano Cantone e Rene Scheu, Cortina, Milano 2001; Id., Difesa dell’intolleranza, tr. it. di Guido Lagomarsino, Citta` aperta, Troina 2003; Id., Benvenuti nel deserto del reale, a cura di Marco Senaldi, Meltemi, Roma 2002; Id., Il soggetto scabroso, tr. it. di Damiano Cantone e Lorenzo Chiesa, Cortina, Milano 2003; Id., Tredici volte Lenin. Per sovvertire il fallimento del presente, tr. it. di Federico Rahola, Feltrinelli, Milano 2003. Sul tema del negativo, poi, importante soprattutto il suo Tarrying with the Negative, cit. 16 Con buona pace di Zˇizˇek e` un virile fare i conti con il negativo che ha una preoccupante affinita` con quanto egli esalta del genio rivoluzionario di Lenin, resuscitato eroe della nuova politica Su questa capacita` dell’assunzione del negativo come virtu` politica riconosciuta da Zˇizˇek in chi “sa che bisogna rompere le uova quando il popolo chiede una frittata” rimando al mio Meglio un uovo oggi, nella rivista on-line di Diotima “per amore del mondo” n. 1, 2004. 17 “Se la forza e` assolutamente sovrana, la giustizia e` assolutamente irreale. Ma non lo e`. Lo sappiamo per via sperimentale. Essa e` reale in fondo al cuore degli uomini. La struttura del cuore umano e` una realta` fra le realta` di questo universo, non diversamente dalla traiettoria di un astro. L’uomo non ha il potere di escludere assolutamente ogni sorta di giustizia dai fini che egli propone alle azioni sue. Persino i nazisti non hanno potuto farlo. Se un uomo lo potesse, essi l’avrebbero certo potuto.” (Simone Weil, La prima radice, tr. it. di Franco Fortini, Comunita`, Milano 1973, p. 209). 15

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costretta e non costrittiva, attiva e non reattiva, la forza della politica delle donne. Ma proprio qui sta il cuneo che blocca e che chiama in causa il secondo chiodo. Se per un mondo sostenuto dalla fede nella bonta` divina era tormentosa la domanda “unde malum?”, per il moderno mondo della politica dei rapporti di forza piu` appropriata e` piuttosto la domanda “unde bonum?”. E` arduo infatti, nell’ubiquita` del male generata da quella specie di antropologia negativa che e` la sua rappresentazione del soggetto protagonista della politica, trovare una risposta. Difficolta` che si potrebbe tradurre dicendo che, nella rappresentazione simbolica dell’ordine patriarcale, l’espulsione della madre ha espunto nel contempo la fonte del bene dell’inizio. Tuttavia fortunatamente il pensiero non ha la forza di esaurire la realta` (nemmeno quello della forza) e sia di bene che di madri hanno continuato a essercene. Pero` con la complicazione-semplificazione che alle madri, alle donne e al loro mondo e` stata affidata la custodia dell’altare del bene. La tradizione patriarcale con i suoi dualismi ha diviso pubblico/privato in una logica della divisione del lavoro trai sessi che e` stata anche una divisione del lavoro morale. Nel mondo pubblico della politica vale la forza, l’interesse, la legge, si contratta e cosı` via, mentre nel mondo privato, domestico, nella famiglia valgono l’amore, la virtu`, il disinteresse e cosı` via. Che cio` abbia prodotto una concezione della politica, e non solo della politica ma proprio della vita, che mostra guasti ora visibili a tutti e` chiaro, ed e` stato ampiamente criticato dal femminismo storico. Che il soggetto della politica sia pressoche´ dimezzato e che lı` ci sia un mondo che non e` affatto quello della vita lo e` altrettanto. Come lo dovrebbe essere che su questo punto si gioca gran parte delle sorti della politica e della nostra vita comune, di donne e uomini. Ma forse e` proprio in questo stesso punto che ci tiene quel chiodo. Che inchioda gli uomini e insieme anche le donne. I conti con quel chiodo sono in un certo senso, appunto, i conti col negativo. Il finale del racconto di Conrad suggerisce quale esito possa avere questo comune inchiodamento. Marlow, quindi, ha raccolto le ultime parole di Kurtz “l’orrore, l’orrore”: e` la vera rivelazione della realta` del negativo, il cuore di tenebra al centro della nostra civilta`. Quella realta` dalla quale le donne sono del tutto fuori, con cui esse non c’entrano

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Nel modo piu` esplicito nell’articolo Per forza o per amore?, “il manifesto”, 17 aprile 2003.

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affatto, e da cui devono essere tenute lontane, nel loro mondo incantato19. Raccolta questa pesante eredita` ora dovrebbe trasmetterla alla “promessa” di Kurtz, (quella che lui chiama my intended), rimasta a casa, fiduciosa in lui 20 e custode dei suoi ideali, futura custode della sua memoria . Marlow vorrebbe dirle le ultime parole, ma qualcosa alla fine lo spinge alla menzogna: la sua ultima parola, le dice rendendola felice e vittoriosa, e` stata il nome di lei. Marlow non puo` dire la verita`, non puo` fare giustizia, sebbene senta che il cielo gli sarebbe cascato in testa (anche se poi non cade affatto): “Ma non potevo. Non potevo dirlo a lei. Sarebbe stato troppa tenebra... decisamente troppa tenebra...”. Cosı` la storia: la verita` lui non puo` dirla, ma ancor piu`, lei non vuole sentirla affatto, cosı` la menzogna si perpetua. Quella verita` si teme farebbe cadere tutto, tutto il cielo sulla testa, in quel segreto i due, uomo e donna, sono complici. Lui non puo` dirla, ha paura, forse spetta a lei incominciare a dirla. Ma prima: che cosa, oltre all’oppressione – perche´ non solo di quella si tratta –, ha tenuto insieme questo incastro? Cosa ha inchiodato insieme questa storia di donne e uomini, dalle due parti? E cosa di questo inchiodamento, in cui vedo drammaticamente crocifissi gli uomini, ci tiriamo dietro e inchioda anche noi? C’e` stata una sorta di divisione del lavoro, si e` detto, i suoi modi, le sue teorie, le sue conseguenze, le sue ragioni sono state a lungo indagate, piu` da donne che da uomini. Piu` con lo sguardo agli uomini come protagonisti attivi e alle donne come vittime passive, c’e` da dire, e si puo` anche capire. La storia delle donne ha letto tale vicenda sotto la chiave dell’esclusione e della domesticazione femminile ed e` stata poco propensa a coglierci segni di una liberta` che facilmente passava in complicita` o in esaltazione del naturale ruolo materno. Non sono mancate pero` voci femminili che hanno sollevato la questione in termini piu` articolati, Agnes Heller ad esempio ha osservato: la sorte delle donne (di tutte le classi, i ceti e gli strati sociali) e` stata al tempo stesso la migliore e la peggiore. E` stata la migliore nel senso che i 19 Un’immagine della cecita` femminile ben descritta da un quadro dipinto da Kurtz che tormenta Marlow: una donna emerge da un fondo oscuro e tiene in mano di fronte a se´ una fiaccola. E` una donna che regge la luce ma che e` pero` bendata. Forse e` la fidanzata “promessa” di Kurtz, ma anche una stravolta immagine della giustizia. 20 La centralita` della figura della “promessa” di Kurtz e` stata sostenuta da Bruce Stark, Kurtz’s Intended: The Heart of Heart of Darkness, “Texas Studies in Literature and Language”, vol. XVI, 1974.

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talenti assegnati alle donne dalla divisione sociale del lavoro sono stati in pratica tali da non richiedere di fare torto agli altri. E` stata la peggiore nel senso che la divisione sociale del lavoro ha sempre limitato lo sviluppo delle 21 doti in talenti in misura assai maggiore nelle donne che negli uomini .

L’indizio di verita` che sentivo nelle parole di Conrad lo sento anche qui, e la pista che indica e` la domanda circa quel che forse ha portato le donne a sostenere il patriarcato e il modo in cui lo hanno fatto. Detto senza mezzi termini: quel sostegno ha consentito alle donne di tenersi dalla parte del bene, di immaginarsi nell’innocenza, di espungere il negativo e di attribuirlo tutto al mondo degli uomini. Cosı` non si e` retto il negativo, ma si e` retto il patriarcato che si faceva carico del negativo, fornendogli inoltre il supporto confortante della salvaguardia di un sicuro 22 “rifugio in un mondo senza cuore” , consentendogli di mantenersi, appunto, senza cuore. Come rileva Heller, e` stata una condizione che ha avuto i suoi vantaggi e i suoi costi per le donne, e sicuramente anche per gli uomini. La bilancia, indubbiamente, pende a favore degli uomini e a sfavore delle donne. La scelta, se vogliamo vederla come una scelta anche dalla parte femminile, e` stata disgraziata, per quanto nobilitata dal fatto che almeno una scintilla di bene e` stata tenuta accesa nel mondo. Vitale. Ma i prezzi sono stati elevati, per le donne certamente, ma per il mondo stesso e per l’intelligenza del reale, che ha subito una perdita secca di realta`. Vitale, una strategia di salvezza, cura e salvaguardia del mondo e del suo bene che ringrazio perche´ gli devo la mia vita e anche la mia liberta`, qualunque cosa fara`. Ma mi sento in un passaggio di realta` (mio e del mondo, confido) e i passaggi sono tali perche´ le cose cambiano di senso, e quel che era vitale puo` anche diventare mortifero. Il bene non si ripete mai nello stesso modo, si da` unicamente nella contingenza che ci mette in un’occasione di manifestazione di bene. Per questo non e` qualcosa che pertiene il dover essere, ma l’essere, l’esserci nel reale, proprio lı`, proprio noi in carne e ossa, mediazione vivente del senso e della realta`, del bene, del male. Ed 21

Non sono riuscita a ritrovare nei testi di Heller la fonte di questa dichiarazione che avevo ricopiato integralmente, presumibilmente da un’intervista. Nei suoi scritti di argomento etico Heller non si pronuncia altrettanto esplicitamente sulla questione, pur affrontando in piu` occasioni il tema della divisione sociale del lavoro morale: Agnes Heller, Etica generale, tr. it. di Marco Geuna, Il Mulino, Bologna 1994; Ead., Filosofia morale, tr. it. di Rosamaria Scognamiglio, Il Mulino, Bologna 1997; Ead., Oltre la giustizia, tr. it. di Stefano Zani, Il Mulino, Bologna 1990. 22 L’espressione e` di Christopher Lasch, Haven in a Heartless World. The Family Besieged, Basic, New York 1977.

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e` proprio nei passaggi che piu` lavora il negativo, nelle sue svariate forme: a negare, a trasformare, a saltare, ma anche a fare ostacolo, a inchiodare. Ogni passaggio e` passaggio del negativo, che puo` volgere in male o in bene, luogo dell’occasione e della tentazione, nelle loro mutevoli forme, del male e del bene.

La tentazione del bene Quanto Tzvetan Todorov ha recentemente scritto nel suo Memoria del male, 23 tentazione del bene per molti versi viene a intersecare il luogo di quell’inchiodamento nel passaggio del negativo e la questione delle tentazioni che vi agiscono. La tentazione del bene e` per lui “la certezza di possedere il concetto di bene, di vederlo incarnato in noi e di volerlo imporre con la forza agli altri” e la storia ha mostrato come abbia “fatto molto piu` male 24 la tentazione del bene che quella del male” . Il nostro secolo in particolare ha esibito con dolorosa evidenza questa tentazione, che si dimostra radicata e persistente nella nostra storia politica, e Todorov riconosce come essa sia segnata dalla differenza sessuale, dedicando significativamente il libro a una donna, Germaine Tillon, che “ha saputo attraversare il male senza prendersi per un’incarnazione del bene”. La verita` di questa diagnosi sulla genesi del male da una presunzione di imporre fattivamente il bene sulla realta` (che peraltro ha un grande debito nei confronti delle riflessioni sul totalitarismo di Arendt) si impone talmente da emergere non solo in molti scritti di uomini tra i piu` attenti, ma da avere ormai diffusa circolazione nel senso comune e nell’immaginario sociale. Persino un qualsiasi spettatore di Guerre stellari sa che se Anakin, il cavaliere Jedi che difende il bene, si lascia catturare dal lato oscuro della 23 Tzvetan Todorov, Memoria del male, tentazione del bene: inchiesta su un secolo tragico, tr. it. di Roberto Rossi, Garzanti, Milano 2001. 24 Dichiara Todorov in un’intervista: “I pensatori cristiani si sono sbagliati mettendoci in guardia contro la tentazione del male, perche´ in realta` sono molto pochi gli individui tentati dal male. In compenso tutte le grandi sofferenze dell’umanita` nascono dalla tentazione del bene, che ci si ostina a cercare con tutti i mezzi disponibili, e perfino con la violenza e la morte degli altri. I totalitarismi hanno sterminato con la scusa di imporre un mondo perfetto. Ma la realta` umana, come diceva Montaigne, e` un giardino imperfetto, destinato a restare tale. Il male in nome del bene pero` non e` una specialita` esclusiva dei regimi totalitari. Anche le democrazie cadono a volte in questa tentazione, come e` accaduto a Hiroshima o anche di recente con la controversa guerra del Kossovo”. (Todorov. Un bilancio del Novecento, secolo dei totalitarismi, intervista di Fabio Gambaro a Tzvetan Todorov, “La Repubblica”, 8 settembre 2001).

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forza, diventando il nero Darth Vater, e` per l’irruenza, la fretta, la volonta` di eliminare il male definitivamente e di imporre il bene. Da parte maschile la tentazione del bene ha, insomma, preso la forma, un po’ giacobina, di un’etica e di una politica inchiodate alla volonta` di bene. Un tempo queste erano attaccate a qualche preciso chiodo, un fine, un contenuto, la rivoluzione, un qualche destino manifesto, ora forse solo alla volonta` stessa, alla sua arroganza fattiva. Una tentazione di fare il bene, in sintesi, nella presunzione che il bene possa essere fatto, portato forzatamente in essere. E cio` accompagnato dal misconoscimento del bene che genera, sostiene e cura, ma con il sostegno di quelle che a generare, sostenere e curare e custodire la fiammella del bene erano deputate. Da parte femminile non mi pare che la tentazione del bene intesa come volonta` di fare il bene, ad ogni costo quindi a costo del male, abbia tentato le donne. Piuttosto suggerirei che la tentazione femminile del bene tenda ad assumere la forma del tenersi nel bene. Non sono in grado di farne una fenomenologia, ne posso dire alcune manifestazioni che riconosco, ma ancor piu` dire come si dice del demone tentatore che ci visita, quello che si conosce e si riconosce perche´ a quello ci si sente piu` esposti. Questa tentazione, quindi, e` una donna e dice sı`. Bene! Appunto, ma dice sempre sı`. Sta nel luogo dell’accoglienza, della pienezza, della comprensione, dell’abbondanza, conciliazione, accettazione, prima e oltre la divisione, di qua e di la` dal peccato ... pare davvero una grande buona mamma, questo demone. Ed e` a sua immagine, in effetti, quella della tonda fantasia o del ricordo, o del desiderio. Splende della luce del primo bene inconcusso. Non discuto sulla valenza simbolica di tutto cio`, ricordo che qui si tratta di un’immagine tentatrice e, per insistere nell’analogia del demone, si sa che massima tentazione malefica e` mimare il bene. Ma ricordo soprattutto quanto questa pittura materna-femminile del bene indiviso che riposa in se´ nell’eco del suo “Sı`” somigli straordinariamente alla figura proiettata dal dispositivo speculare di quella “divisione sessuale del lavoro morale”, che stringe il nodo tra differenza sessuale e negativo, appendendoci al chiodo di cui sopra. In tale inchiodamento il No portato dal padre giungerebbe a scioglierci dall’abbraccio con il primo indistinto materno Sı`, la negazione sarebbe l’equivalente della castrazione simbolica che introduce nell’ordine simbolico, l’assunzione del negativo significherebbe mettersi dalla parte del padre, dell’individuazione e della parola di contro alla muta carnale fusione con l’oggetto materno interdetto. Col che non resta che penzolare a pendolo, dal chiodo dell’assunzione virile del negativo, tra il sogno della beanza indistinta del godimento interdetto e

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l’incubo della madre mostruosa e divorante. E considerato che il luogo di quel chiodo e` determinato esattamente dall’arco di quel pendolo, non ci si schiodera` dalla posizione dell’assunzione fallica del negativo fintanto che non si spostera` simbolicamente la madre dalla polarita` di quel sogno e di quell’incubo. Per quanto riguarda il timore dell’incubo ritengo che molto sia stato fatto per mettere in guardia dalla tentazione di difendersene mettendosi sotto la tradizionale egida paterna, come pure da quella di contrastarlo a furia di rifiuti e negazioni di tutto cio` che possa evocare la potenza materna. Cio` non significa che si non si tratti di un timore diffuso, tra uomini e donne, e che non continui a generare effetti negativi, non ultimo, per quanto concerne una tentazione femminile, il massiccio arruolamento in imprese di uomini e l’assunzione di modelli maschili mimetici anche per cio` che riguarda le modalita` di assunzione del negativo che comportano. Qui pero` e` in oggetto l’altra tentazione, quella che ha il volto materno a insegna del bene. Gloriosa insegna, non c’e` alcun dubbio, ma non e` quella di un esercito ne´ tantomeno, anche se il suo onore richiede azioni, parole, pratiche che possiamo solo noi in carne e ossa puntualmente mettere in atto, sta in nostro potere di incarnarlo al punto da poterlo intaccare. Di piu`, ritengo che ne´ la sua mancanza in perfetta bonta`, ne´ la nostra possa farlo. Per questa convinzione giudico una tentazione voler tenere comunque sia quell’immagine sia la nostra al riparo da ogni mancanza, insomma al riparo dal negativo, quasi che la prima ombra potesse offuscarla, piombarla nella notte, e noi e il mondo con lei. La tentazione del bene, per come mi e` parso di riconoscerla, assume varie sembianze: quest’ultima, del timore di incrinarlo e perderlo esponendolo all’aperto del mondo, ma anche quella della sostanziale evitabilita` di fare i conti con il negativo, quella del presumere di potersi trattenere in un luogo di bene indenne e intatto perche´ prima di ogni contatto con l’urto della realta`, quello di poter conciliare ogni contrasto e contraddizione, quella di evitare i conflitti, di poter accogliere e incorporare organicamente ogni differenza. Tutte sembianze che tornano a disegnare simbolicamente la madre secondo i tratti della funzione materna nel quadro dell’ordine del padre. Quella femminile tentazione, quindi, se pure puo` sorgere, come ho riscontrato, proprio in donne che nel riferimento alla madre pongono il perno di una politica della differenza che si disloca simbolicamente dall’ordine paterno, proprio di quest’ultimo rischia di perpetuare il fantasma25. Forse per questo motivo sono diventata cosı` 25 Pur non addentrandomi nella questione, non posso non segnalare l’ovvia prossimita` della tentazione di cui parlo con la “posizione isterica” nell’accezione che ne ha dato Luisa

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suscettibile ad alcune manifestazioni di quella che ho chiamato tentazione del bene che ho incontrato nella pratica politica. In una lista di quelle che mi sono via via diventate insopportabili: la tendenza a scivolare nella “liturgia materna”, in una visione edulcorata del mondo delle relazioni femminili, imbellettata e che finisce sempre in gloria; un certo tono salvifico riguardo la politica delle donne come palingenesi della societa`; la propensione a espungere il negativo, a non nominare i desideri, le passioni, gli odii, le pochezze, le miserie, i fallimenti, le strumentalita`, le paure, gli scacchi, gli angoli scuri o anche solo grigi dei nostri cuori, delle nostre azioni, delle nostre relazioni. Il tutto in onore della grandezza materna, della liberta` femminile, della forza che la nostra politica fa circolare fra noi. Insomma, in una parola, quel che mi e` diventato insopportabile si chiama ipocrisia femminile. La si potrebbe dire una mancanza, una debolezza, o forse un difetto, ma e` un difetto di realismo o meglio ancora un vizio che acconsente alla tentazione che con una presa piu` potente si mette in mezzo tra l’esperienza del negativo e il senso della realta`. Facendoci cadere nel piu` grande trucco del diavolo, quello di far credere che non esiste. Questa e` la forma della tentazione del bene piu` insidiosa, non tanto l’altra di marca maschile, il fare il bene che, se anche c’e`, mi turba di meno. Piuttosto il tenersi attaccate ad un fantasma di bene che, prendendo ogni negativo per il male, lavora per il male e condanna all’irrealta`.

Perche´ la mamma e` sempre la mamma26 Quel fantasma e` tenace e difficile da dissolvere, per una donna, per me, anche perche´ appare con le fattezze del bene materno e nel cacciarlo puo` sembrare di separarsi da cio` stesso cui possiamo guardare come origine e speranza di una possibilita` di bene. Lı` si radica la giusta difesa femminile della positivita` del riferimento alla madre e del legame a lei come fonte di liberta` e forza. E tuttavia, come Eva andava esorcizzata dal male, nell’invito di Daly, cosı` credo che la madre vada in un certo senso esorcizzata dal bene. La bonta` del riferimento alla madre non dipende per l’essenziale dalla bonta` materna. Anzi, questa per certi versi rende piu` difficile cogliere Muraro, specie nel suo La posizione isterica e la necessita` della mediazione (a cura di Mimma Ferrante, Acqua Liquida, Palermo 1993). 26 La sezione che segue riprende parte di un mio scritto pubblicato originariamente in spagnolo con il titolo: Un vinculo sin ligado, “Duoda”, Dialogos con la madre, aprile-giugno 2002, traduzione spagnola di Marı´a-Milagros Rivera Garretas.

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la sostanza sia della figura della madre, sia della relazione con lei. Che queste vadano distinte dalle contingenti circostanze del rapporto con nostra madre, ma anche dall’idea stessa del valore della madre in quanto positivamente buona, e` un giudizio che avanzai anni addietro riflettendo 27 sull’autorita` materna . Questa non dipende dai contenuti positivi che indica, perche´ non ordina dei fini, ma solo la relazione stessa di autorita` con la madre, questo il senso di quel che chiamai “imperativo materno”. Cosı` pure il riferimento simbolico alla madre non deve la sua bonta` all’eventualita` dell’essere la madre buona, ne´ realmente ne´ logicamente, esso viene prima delle forme in cui viene contingentemente attuato. Da allora mi sono molto interrogata sulle reazioni che avevo avuto alla nominazione del mio “imperativo materno” e ad altre analoghe che venivano a quanto Luisa Muraro chiama il “saper amare la madre”, o ancora alle parole sull’autorita` materna che venivano dall’elaborazione di 28 Diotima e dal lavoro delle donne della Libreria di Milano . Spesso queste reazioni mi parevano disporsi come attratte da due poli opposti, dai quali entrambi mi sentivo respinta. Uno di grande e immediata adesione, nella beanza di un ricongiungimento alla madre come il luogo pieno del bene, da riconoscere, recuperare e onorare nella sua eredita`, nel suo insegnamento finalmente raccolto. L’altro di altrettanto immediato rifiuto, in nome di una femminile libera individuazione di contro ad un insegnamento materno vissuto come schiacciante e impositore di un ruolo femminile sostanzialmente non libero, e ripetitivo della subordinazione all’ordine paterno. A fronte di cio` giudicavo di avere gia` trovato una risposta: tutte e due le opposte reazioni confondevano due piani che andavano invece separati, quello del legame con la madre e quello del legato della madre. Quello della relazione di autorita` con la madre, la relazione che orienta l’ordine simbolico della madre nel segno della liberta` femminile, e quello dei contenuti trasmessi nella relazione contingente, storicamente segnata, con la madre reale e con la figura del ruolo materno disegnata nell’ordine paterno. Quello del dialogo con la madre, e quello delle parole veicolate da quel dialogo. L’adesione e il rifiuto mi sembravano, insomma, specularmente prodotti dall’incapacita` di sciogliere la relazione materna, e la natura della sua autorita`, dai contenuti e dai fini positivamente insegnati o 27

Quando scrissi Tu devi. Un ordine materno, in AA. VV., Diotima, Oltre l’uguaglianza, Liguori, Napoli 1995. 28 I principali riferimenti sono: Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991; Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, Torino 1987; Diotima, Il cielo stellato dentro di noi. L’ordine simbolico della madre, La Tartaruga, Milano 1992.

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indicati durante l’esperienza di quella relazione. La funzione autoritativa della relazione con la madre, rispondevo, viene prima dei contenuti che prende e che effettivamente si da`, e` costitutiva della liberta` e non dipende dai fini che la liberta` si dara`. Proprio per questo autorita` materna e liberta` femminile sono legate e non opposte. Si tratta di una relazione aperta, insatura, o come ha detto recentemente Milagros Rivera coniando una 29 espressione perfetta, di una relacion sin fin . Queste risposte le ritengo tuttora valide, qui mi pare che stia l’essenziale. Tuttavia in questi anni, di fronte al ripresentarsi di reazioni della natura che ho descritto, soprattutto di quella di ostilita`, ho cominciato a pensare che tanta ostinazione femminile andava presa piu` sul serio di quanto avessi fatto, che segnalava qualcosa di importante e che indicava un limite vero dell’elaborazione. Mi dicevo, e altre lo dicevano similmente, che qualcosa non era stato pensato a fondo, e questo qualcosa era il negativo della relazione con la madre. Quello che da una parte andava ad occupare tutta la scena della relazione, dall’altra parte veniva del tutto tolto di scena. Questo andava invece tenuto su quella scena se la si voleva vedere nella sua realta`, con chiarezza di visione, nei suoi dettagli, e non completamente svuotata e oscurata, o viceversa splendidamente abbacinante. Non riuscivo pero` a concentrare lo sguardo e a renderlo piu` attento, per la convinzione che l’essenziale fosse la scena stessa, non quello che vi poteva accadere, luci e ombre comprese. Fu poi l’attenzione a un dialogo reale avvenuto con mia madre ad aiutarmi a vedere come alla concreta contingenza della relazione andasse riconosciuto un ruolo cruciale che riportava sulla scena il negativo, ma soprattutto configurava un accesso alla negativita`. Ho detto sopra che ritenevo che il negativo implicato nella relazione fosse da attribuirsi propriamente al contenuto della relazione, e che quindi fosse possibile, anche se non facile, superarlo nella superiore positivita` del riconoscimento della relazione stessa, operando una distinzione tra i due piani che nella nostra esperienza si sono dati insieme. In quel momento, con mia madre presente, e non “come se fosse presente”, quella mescolanza mi e` apparsa invece in tutta la sua necessaria tragicita`. Dico tragicita` nel senso forte del termine che la filosofia, che tanto spesso lo ha tradito, ha riconosciuto nel sentimento del tragico della cultura greca classica. Riprendendo l’immagine di una scena della relazione materna distinta da quello che vi e` rappresentato, potrei dire che ho visto come su quella 29 Maria-Milagros Rivera Garretas, La relazione che non ha fine, “Via Dogana”, n. 55, 2001, pp. 8-9 (tr. it. di Luisa Muraro).

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scena, qualsiasi cosa si fosse rappresentato, sarebbe stato tragico, un’esperienza determinante e irripetibile, che avrebbe comportato per cio` stesso il passaggio per il negativo. Parlavo di un negativo nella relazione con la madre testimoniato da una resistenza femminile fortissima alla riconoscenza per lei, una difficolta` estrema stante che il negativo fa un ostacolo tanto grande e duro che non si riesce a oltrepassarlo. Ora penso che, nonostante la grandezza dell’ostacolo del negativo, ci sia qualcosa di piu`, di piu` grande, o di precedente, che e` la vera durezza della difficolta`. Quella cosa che e` il vero ostacolo non lo chiamerei piu` il negativo della relazione con la madre, ma casomai il terribile che le e` proprio. Non ho una parola migliore, magari tremendo, o forse, appunto, tragico. Questa terribilita` ha a che fare con l’essere la relazione con la madre che ci ha messo al mondo, e il dialogo con lei che ci inizia a stare al mondo, il luogo primo che ci da` la struttura fondamentale del nostro essere al mondo per quanto concerne la contingenza e come questa apre un di piu` di trascendenza, pur restando, insuperabilmente, contingente. In una mescolanza dove le due si mediano e non si risolvono pero` l’una nell’altra. Mi accorgo che la mia difficolta` diventa difficolta` della lingua; torno quindi sulla scena del dialogo con mia madre. Eravamo lı` sedute di fronte, a dialogare, alla presenza l’una dell’altra, proprio lei e proprio io e per quanto ci fossimo parlate qualcosa sempre ci sarebbe sfuggito, che trascendeva entrambe e la nostra relazione stessa. Forse perche´ ci stava alle spalle, in una dimensione che e` stata, una volta per tutte, questa. Certo, c’e` il tempo, quel che e` stato, nel bene e nel male, non e` revocabile, e` consegnato a una contingenza come intoccabile, al di la` della volonta`, di cio` che si puo` fare e ripetere. Lei non e` piu` quella, io non sono piu` quella, madre, figlia. Non e` lei, eppure e` lei presente, non sostituibile, proprio attraverso di lei sono passata e devo passare ancora, anche se ora non e` piu` lei. In me e` presente qualcosa che non e` nelle sue mani, ma lo e` stato, io stessa nelle sue mani. Cosı` non sono solo i conti del tempo a non poter essere pareggiati e a mostrare come il contingente non riposi nella coincidenza con se´, ma spinga oltre. C’e` un’altra disparita` non colmabile nella relazione, ne´ nel tempo, ne´ altrimenti. Quella che viene dall’essere lei la madre, io la figlia. Quel che ho avuto da lei, vita e parola, e` uno squilibrio positivo che istituisce un debito che non e` pareggiabile. Da qui la nostra necessita` della riconoscenza, e di saper amare la madre, ha scritto Muraro30. Sı`, eppure l’ostacolo della madre concreta rimane 30 Nel suo L’ordine simbolico della madre, cit., e in L’orientamento della riconoscenza, in Diotima, Il cielo stellato dentro di noi, cit.

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grande, il negativo vissuto nella relazione con lei puo` essere insormontabile. Quel che vengo dicendo e` in continuita` con questo, e prossimo anche a quel che sostiene dell’essere la madre naturale anche sempre una “sostituta” della madre, e della necessita` di trovare poi una sostituzione “senza sostituiti”, una restituzione di cui vede un primo esempio nella lingua. Nel dialogo con la madre che ho ricordato quello che mi e` parso di comprendere, in modo che non avevo prima compreso cosı` profondamente, e` stato come l’estrema difficolta` di accogliere questa sostituzione, e di operare sostituzioni restitutive, sia essa stessa un dono che si ha nella relazione con la madre. Essa mostra la struttura primaria della relazione che tiene contingenza e trascendenza e in cio` un primo passaggio del negativo. Come qualcosa che trascende cio` che e` contingente in questo si apra: come cio` per cui si sono usate parole come necessita`, assoluto, altro, divino, infinito, venga al mondo in questo mondo, nella casualita`, finitezza, materialita` concretissima e puntuale, magari poverta`, negativita` e puntuale dolore. Insomma e` il dono dell’incontro con la condizione umana e mondana, l’apertura alla vita di cio` che e` lı` e che si trascende, senza che si possa trascendere quel che e` lı`, se non mediante esso, passandoci attraverso. A dirlo cosı` suona terribile, ed effettivamente quel dono e` un’iniziazione a qualcosa che e` terribile, se questa e` la parola, ed e` esso stesso terribile, sebbene sia semplicemente quel che e` la vita ordinaria di tutti i giorni, che muove i nostri passi anche i piu` piccoli. Che non muoveremmo ne´ potremmo misurare senza che avessimo avuto un primo punto d’appoggio e di misura. Appoggio assoluto e misura non misurata che sono cosı` entrati una volta per tutte nella nostra vita, perche´ noi siamo entrati nella vita per loro tramite, per quanto fossero pienamente dell’ordine di cio` che e` relativo alla contingenza. Quel che e` contingente e quel che non lo e`, e cosı` cio` che e` assoluto e cio` che e` relativo, quel che e` misurato e la misura, quel che resta aperto alla determinazione e quel che e` determinato, il metro di giudizio e il giudizio particolare si danno all’inizio insieme presi in una relazione, anzi ci vengono dati per via che siamo noi stessi presi nella relazione che ci mette al mondo. Il che si puo` ben dire che abbia a che fare con il sentimento della trascendenza, che ci mette in contatto con quanto c’e` nel nostro stare al mondo che dobbiamo ad un primo originario squilibrio che ce lo ha dato in un dono impareggiabile, istituendo il legame di un debito che non si puo` pareggiare in una bilancia dei conti, ma con cui occorre fare i conti. Perche´ la nostra liberta`, il che vale a dire cio` per cui possiamo noi stessi trascendere la nostra contingenza, si apre proprio a partire dal riconoscimento del nostro

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debito, della nostra originaria dipendenza e di cio` che abbiamo ricevuto come dato e dono. Qui mi pare la radice di quella estrema difficolta` che segna il vincolo tra liberta` e autorita` materna. Per la madre il debito e` cosı` grande e incolmabile, non pareggiabile, da poter risultare cosı` terribile da muovere un sentimento che posso solo paragonare al sentimento che muove la preghiera Padre nostro, quando recita “rimetti a noi i nostri debiti”. Il debito e` talmente incommensurabile da essere non risarcibile, e il timore che in qualche modo chi ha fatto il dono possa esigerne il pagamento e` tremendo. Capisco la paura che puo` fare, e immagino, io che non credo, sia per questo che si chiama Dio col nome di Amore, perche´ solo l’amore si puo` pregare che sappia rimettere un simile debito. Per quel che ne so, o non posso che sperare, l’amore materno e` appunto di questa natura: che dona e ci rimette il debito. Il che non vuol affatto dire che e` gratuito. Ma che e` una grazia di questo mondo e insieme lo trascende, e` del tutto umano, ma sull’apertura che trascende l’umano, e` una soglia della trascendenza e della liberta`, anche se una porta stretta che e` nel contempo un passaggio del negativo. Riprendendo le questioni aperte circa il primo ordine che fa l’autorita` materna: i fini e i contenuti non sono l’essenziale di cio` che ordina, ma questo passa comunque per la trasmissione di fini e contenuti positivamente determinati, i due si danno insieme e tale mescolanza e` cruciale. Qui sta il nucleo terribile, che fa della relazione e con la madre un passaggio cosı` stretto, che pero` va passato. Il legame si da` mescolato al legato, quest’ultimo non e` l’essenziale, e` contingente, ma e` essenziale che si dia insieme a quel che trascende questa sua determinata contingenza. Come la lingua si impara attraverso determinate parole e frasi, quelle e non altre, ma non e` la somma di quelle frasi dette e le trascende. Non c’e` altro modo, come non c’e` altro mondo se non da questo. Con questa lingua mi viene dato il linguaggio, con questa vita mi si apre il vivere, in questo mio mondo qui, anche tutto il mondo. Nel bene e nel male, per il bene e per il male.

Chiamare i demoni con il loro nome Se la tentazione del bene si presenta col volto di una madre assolutamente buona che sussurra il suo Sı`, quindi, forse conviene dubitare della vera natura di chi ci appare. Nostra madre non e` di certo, e magari non e` nemmeno una madre. Piu` probabile che sia l’immaginetta sacra attaccata

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al chiodo fallico piantato in nome del padre, con sul retro l’icona nera della madre mostruosa. Entrambe sfocate, indistinte, catturanti, ipnotiche, entrambe inchiodate. Paralizzate e paralizzanti nell’attesa del salvifico taglio separatore paterno che porti il dono di quel negativo che e` il male minore di una perdita che promette individuazione, parola, liberta`. Infiniti discorsi si sono dedicati al fascino di quella duplice icona materna, sia di quella buona sia di quella mostruosa, e ancor piu` alla sua necessaria perdita e a come quel sacrificio disserri le porte simboliche della realta` e della parola. Tanto interminabili quei discorsi quanto attaccati a quel chiodo che fissa la questione del negativo alla perdita dell’oggetto materno e della relazione con la madre. Compresi, giudico, alcuni di quelli avanzati da donne che si sono interrogate sulla potenza dell’immagine materna, nella duplice accezione, in quanto capace di tornare a perturbare l’ordine installato su quel sacrificio. Penso specialmente a Julia Kristeva e alla sua riflessione sull’abiezione e alle tesi di Judith Butler attorno alla malinconia e al lutto costitutivo di quella perdita, entrambe 31 riferite al primo legame materno . Mi chiedo se cio` giovi a schiodare quell’immagine e noi dall’incastro di un negativo che sempre lavora a servizio della negazione della madre, e se non sia piu` proficuo invece pensare al negativo che lavora nella relazione con la madre e a quel negativo che questa puo` mettere al lavoro. Cio` non significa affatto avallare o alimentare il risentimento e il rifiuto della madre che tanta resistenza femminile al solo di nome di lei testimonia, al contrario. Quello e` appunto negativo “andato a male”, rivelatore di come sia insostenibile qualsivoglia zona oscura nell’orizzonte della piena luce materna. E tantomeno significa minare la priorita` del positivo ascrivibile al riferimento alla madre. Piuttosto scioglierlo dal destino segnato di una fragile icona modellata cosı` che non possa che fatalmente infrangersi al primo urto della realta`. C’e` del negativo nella relazione con la madre, sı` e quanto doloroso, ma soprattutto in essa e` data la matrice del passaggio per il negativo. Una

31

Julia Kristeva, Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, tr. it. di Annalisa Scalco, Spirali, Milano 1981; Judith Butler, The Psychic Life of Power. Theories of Subjection, Stanford U.P., Stanford 1997; Ead., La rivendicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la morte, tr. it. di Isabella Negri, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Condivido la critica che Rosi Braidotti, facendo leva su Irigaray, ha recentemente portato a tali posizioni centrate sulla negativita` e la perdita costitutiva della madre a favore di una figurazione piu` “positiva” del materno: Rosi Braidotti, In metamorfosi, tr. it. di Maria Nadotti, Feltrinelli, Milano 2003. Sul tema anche il suo saggio in Anna Maria Crispino (a cura di), Madri, mostri e macchine, manifestolibri, Roma 1996.

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perdita originaria si da` nella relazione con la madre, in questa e` gia` inscritto quel primo taglio che opera il passaggio per il negativo e segna la differenza che da` accesso al simbolico come al senso di realta`. Riconoscere quel taglio e` forse il gesto simbolico che consente al negativo di fare il suo lavoro, togliendo un po’ di lavoro al diavolo che, come dice il suo nome, sempre lavora a tagliare in nome della separazione. Anche quando assume l’aspetto opposto tentando all’indiviso di un bene che tutto accoglie nel suo sı`. C’e` un positivo che lasciar fare il lavoro al negativo non intacca, anzi, casomai e` cercare di impedirne l’opera, di riempire i buchi che apre, a far entrare del male ammantato dell’intenzione di mettere al riparo il bene. Cosı` c’e` una fedelta` alla madre, che di suo e` salvifica, un attaccamento, che ha anche qualcosa di diabolico e, per quel che ne so, puo` portare persino dritte all’inferno. O farci girare per le stazioni del deserto di cui ha 32 parlato Wanda Tommasi , suggerendo che forse se cadiamo cosı` in basso e` perche´ guardiamo cosı` in alto. Quello sguardo, che non posso che immaginare rivolto alla madre, puo` dare ma anche togliere il mondo, il senso della realta`. Non si tratta di distoglierlo, sarebbe fatale, ma di ricordare che se anche e` uno sguardo fissato alla madre, averne riguardo non e` ripeterne la contingenza. Nella relazione di quel gioco di sguardi c’e` soprattutto cio` che trascende la contingenza di quello che vi si da`, e` il suo miracolo. Manda nel mondo, lega e scioglie, dona liberta` e la puo` accompagnare, per il bene e per il male. Inchiodarla al suo bene o al suo male e` una dannazione. Ma senza una madre buona non saremo perduti? 33 Chissa`, forse basta una madre solo sufficientemente buona . Tornando infine al chiodo iniziale: liberarsi dall’inchiodamento che fissa donne e uomini a giocare i loro rispettivi ruoli in un movimento a pendolo legato al negativo puo` comportare di schiodare il ruolo del negativo stesso, lasciandogli un gioco e un movimento piu` liberi. E` una mossa faticosa e anche rischiosa, non e` certo un caso che il significato di “negativo” scivoli cosı` facilmente in quello di “male”. E non c’e` solo la tentazione del bene a fare resistenza, ci sono la paura, la sofferenza, e l’aperto di un gioco pericoloso senza regole fissate, per cui forse non c’e` pratica e quasi neanche linguaggio. Una politica che faccia i conti col negativo e non patti col diavolo non e` facile nemmeno da immaginare, forse perche´ l’immaginazione non conta per cio` che si puo` fare solo di volta in volta, proprio solo noi, in quel momento, in quel contesto, in quel 32 33

Nel suo contributo a questo stesso libro. La confortante espressione e` ovviamente quella cara a Winnicott.

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

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piccolissimo punto. Il diavolo sta nei particolari, si dice, e quel che vale per come lavora il diabolico forse vale anche per come lavora il simbolico. E se, per esorcizzarlo, si deve chiamare il diavolo con il suo nome ci vuole un linguaggio adeguato, perche´ non ha un solo nome “Il mio nome `e legione, 34 perche´ siamo molti” . Il signore delle mosche, viene chiamato, che corrompono la carne laddove e` ferita, e la carne sempre si ferisce nel vivere. Le mosche sono segno di cio` che, minuto e senza forma, infastidisce, sciama, sfugge, si insinua ovunque, ma voglio ricordare un loro diverso ruolo, che svolgono nel mito sumero di Inanna. In quell’antico attraversamento del negativo la grande sovrana dea scende di sua volonta` agli inferi per incontrare la sua sorella oscura, Ereshkigal, che la colpisce lasciandola morta, il corpo attaccato ad un chiodo lı` sul muro. Saranno delle mosche, modellate con la sporcizia sotto le unghie, a scendere sotto terra e, mostrando di saper ascoltare con rispondenza i lamenti della sorella oscura Ereshkigal, a ottenere di schiodare il cadavere di Inanna riportan35 dola in vita, fuori dall’inferno . Morale della storia e` forse che occorre saper ascoltare il negativo e avere un linguaggio per rispondergli, e magari sapersi fare piccole come mosche per arrivare lı` dove il negativo inchio36 da . Concludo pero` con un’altra storia, che potra` parere ad alcune quasi blasfema. Giuliana di Norwich diceva “tutto sara` bene, e ogni specie di 37 cosa sara` bene” Chi non ci riconosce la voce materna, senza la forza positiva della quale non avremmo saputo muovere un passo lontano da lei? Lo si muove, pero`, e niente potra` sostituire quella voce che ci dava la 34

E` la risposta alla domanda che fa Cristo all’indemoniato di Gerasa (Vangelo di Marco, 5,

1,9). 35

“Dal gran superno essa volse l’orecchio al Grande Infero. Dal Gran Superno la dea volse l’orecchio al Grande Infero. Dal Gran Superno Inanna volse l’orecchio al Grande Infero. (..) Poi Ereshkigal fisso` su Inanna l’occhio della morte. Pronuncio` contro di lei la parola dell’ira. Emise contro di lei il grido di chi accusa./La percosse./Inanna fu mutata in un cadavere/In un pezzo di carne putrefatta/E venne appesa a un gancio sopra il muro”. Il mito sumero della vita e dell’immortalita`. I poemi della dea Inanna, a cura di Diane Wolkstein e Samuel Noah Kramer, Jaca Book, Milano 1985. 36 Non ho trovato molti esempi di impegno femminile sul linguaggio per il negativo, in questo senso vanno pero` alcuni sforzi di nominazione fatti da Mary Daly, e il lavoro di Judith Shklar in I volti dell’ingiustizia, tr. it. di Rodolfo Rini, Feltrinelli, Milano 2000 e in Vizi comuni, tr. it. di Stefano Sabattini, il Mulino, Bologna 1988. Per certi versi anche l’invito di Elizabeth Wolgast a considerare prioritaria l’ingiustizia rispetto alla giustizia suggerisce una direzione di ricerca simile (Ead., La grammatica della giustizia, tr. it. di Sylvie Coyaud, Editori Riuniti, Roma 1991). 37 Giuliana di Norwich, Libro delle rivelazioni, tr. it. di Daniele Pezzini, Ancora, Milano 1997.

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L oenoazione del bene

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fiducia della promessa del bene. Una madre pero` dice anche altro, e in una relazione attivata in suo nome si puo`, si deve, dire anche altro. L’altra storia e` quella di Ripley, la protagonista di Alien. Nel secondo film della serie l’eroica futura mai ascoltata Cassandra giunge su una base invasa dalle mostruose creature aliene, lı` trova Newt, una bimba unica sopravvissuta. Ripley la prende sotto la sua cura, finendo per combattere contro la grande madre aliena mostruosa in una sorta di grande utero38. Ma prima un dialogo avviene: Newt: Mia madre mi diceva sempre che non esistono mostri. Non reali. Ma ci sono. Ripley: (tranquillamente) – Sı`, ci sono, vero. Newt: Perche´ si dicono queste cose ai bambini? Ripley: Bene, certi bambini non possono sopportarlo come tu puoi39.

38

Molte hanno discusso la serie Alien sia per l’immagine di nuova donna incarnata da Ripley, sia per il tema della maternita`, spesso letta nella chiave dell’abiezione di Kristeva; segnalo due antologie: Annette Kuhn (ed.), Alien Zone: Cultural Theory and Contemporary Science Fiction Cinema, Verso, London 1990; Ead. (ed.), Alien Zone II: The Spaces of Science-Fiction Cinema, Verso, London 2000. 39 Newt: My mommy always said there were no monsters. No real ones. But there are. / Ripley (quietly) – Yes, there are, aren’t here. / Newt: Why do they tell little kids that’? /Ripley: Well, some kids can’t handle it like you can.

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Maledire, pregare, non domandare di Annarosa Buttarelli

Negativo e male non vanno necessariamente d’accordo, anche se si somigliano. Non lavorano necessariamente per gli stessi scopi, anche se entrambi fanno patire. Il lavoro del negativo puo` lottare con noi per estinguere qualche cosa che siamo costretti dalla lingua a chiamare male anche quando non si tratta soltanto di dolore e, a volte, nemmeno di quello. C’e` del male anche quando non possiamo parlare propriamente di sventura, magari soprannaturale, ma di qualcosa che partecipa della materia di cui siamo fatti noi esseri umani ed e` fatto il mondo; qualcosa quindi che ha una realta` e una alterita` indicabili e sperimentabili nella vita terrena. Penso a un male che gode di una indipendenza – non assoluta – rispetto a cio` che noi ne possiamo fare e ne possiamo sapere, per quanto ci sforziamo di comprendere, di contrastare o, addirittura, di redimere. Sappiamo che il pensiero filosofico si e` scontrato fin dall’inizio con le molte forme del male e, spesso, ha trovato piu` facile assommarle tutte in un unico concetto, sovente proposto per spiegare una forza soprannaturale. Simone Weil, a mio modo di vedere, ha tentato di articolare in una scienza i vari modi in cui il male-sventura interviene nel nostro mondo, arrivando anche a conferirgli un’identificazione con il non-essere: “Non c’e` verita` degli stati inferiori, perche´ essi racchiudono l’errore. Per questo non c’e` verita` del male, se non sotto la forma di un essere perfetto che 1 soffre” . Sono echi della tradizione gnostica che concepisce l’esistenza del male come un errore, come qualcosa di sbagliato, un’apparenza dolorosa, un problema da affrontare per via logico-deduttiva, andando verso la sua correzione prima di tutto razionale. Non concordo con posizioni simili che per arrivare a un esito devono sviluppare una teodicea, utile per impedire di riconoscere nel male un aspetto di mistero che, per quanti sforzi il pensiero abbia fatto e faccia, 1 Simone Weil, Quaderni IV, a cura e con un saggio di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1993, p. 137.

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

L magica forza del negaoivo

non si riesce a sciogliere. Tra gli ultimi notevoli tentativi di costruire un’etica razionale per fronteggiare il male – inteso senza distinzioni – si 2 annovera quello fatto dalla fenomenologa Roberta De Monticelli , ma alla fine anche lei, di fronte al problema dell’odio e` costretta ad abbandonarsi ad un’oscillazione tra l’adesione all’idea che sia possibile – agostinianamente – la correzione del male immettendogli razionalmente la verita` ovvero il bene che non possiede, e l’ammissione del fatto che l’odio ha un’energia superiore rispetto all’etica del bene. Insomma, il pensiero che vuole ricomporre le contraddizioni dell’esperienza in un sistema controllato di spiegazioni, alla fine deve cedere. La proposta che faccio e` di disporsi ad accettare un’esistenza misteriosamente inemendabile di un male che non parte da noi stessi, noi stesse; di un male che tenta decisamente di farci male senza che ci debba essere per forza un nostro rispecchiamento o una nostra corrispondenza. Mi pare che una pensatrice molto concreta come Marı´a Zambrano conoscesse bene questa posizione quando scriveva: Accettare perfino lo sbaglio non commesso, il male non compiuto, farsi carico di tutte le potenzialita` del male, oltrepassare ogni confine senza ormai sapere e senza voler sapere, dal momento che non e` possibile, poiche´ 3 l’essere e il non essere nel bene e nel male eccedono l’umana conoscenza .

E` interessante notare il “non voler sapere”: aiuta a riconoscere che, contrariamente alla tradizione egemonizzata dal platonismo cristiano, c’e` dell’essere e del non-essere sia nel bene che nel male. Per restare al nostro tema generale, si puo` cominciare a vedere lavorare il negativo in entrambe le esistenze. Propongo come riferimento per la riflessione anche un’altra pensatrice che illumina la relativa indipendenza di un male bisognoso di noi per esserci, ma non influenzabile necessariamente dal nostro pensarlo. Si tratta di Flannery O’Connor, un’autrice americana morta giovanissima dopo una vita trascorsa per la gran parte soffrendo molto a causa di una grave e inguaribile malattia: “Diffidenza verso l’astratto, rispetto dei confini, senso della dipendenza umana dalla grazia di Dio, e la cognizione che il male non e` semplicemente un problema da risolvere, ma e` un 2

Cfr. Roberta De Monticelli, L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Garzanti, Milano 2003, pp. 143-159. 3 Marı´a Zambrano, Il sogno creatore, a cura di Claudia Marseguerra, tr. it. di Vittoria Martinetto, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 165. Altrove la filosofa rientra invece, contraddittoriamente, nella tradizione.

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Maledire, pregare, non domandare

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mistero da sopportare”.4 Comprendiamo subito quanto Flannery O’Connor – fervente cattolica – confidi nella presenza della grazia, un imprevisto divino che unicamente e esclusivamente puo` fronteggiaare il male e questa concezione comincia a metterci sulla buona strada perche´ ci toglie dalla presunzione di fare del bene secondo la nostra volonta`, riconosce esistenza al male, una presenza concretissima e misteriosa, impensabile al suo fondo, ma riconoscibile: A garanzia del nostro senso di mistero [per aprire le porte al possibile, all’imprevisto, alla grazia] occorre un senso del male che veda il diavolo come uno spirito reale, spirito che va costretto a dichiararsi, e non semplicemente come male indefinito, bensı` con una personalita` specifica per ogni 5 occasione .

Sono parole da non prendere con paura, bensı` come un insegnamento che fa al nostro caso: possiamo imparare a riconoscere, nella condizione umana, non un male metafisico, sfuggente, assoluto, eterno, ma qualcosa che chiamo male contingente, anche se mobile e imprendibile nella sua alterita`. Ogni volta, storicamente e nelle contingenze date, si rivela in qualche modo, sottosta` alla legge dell’incarnazione, viene scelto da altri esseri umani, entra in alcuni eventi e sta a noi avere la capacita` di discernerlo e andarlo a scovare, “costringerlo a dichiararsi”, cosicche´ possiamo leggerne gli effetti e indicarlo la` dove si trova. Possiamo vedere il male contingente e chi lo fa, chi ce lo fa e se noi stesse, noi stessi stiamo iniziando a incarnarlo; possiamo permetterci di non intendere le cause, ne´ cercare le possibili giustificazioni e intuirne invece il decorso a volte inarrestabile. Tutto cio`, mistero inemendabilita` incarnazione, non ci toglie la possibilita` di sperare nella natura ambigua dell’essere umano – bene e male sono sue possibilita` – e credere che il bene conservi una sua potenza, altrettanto misteriosa e imprevedibile, altrettanto incarnata nei dettagli minuti della vita umana. La ricerca che sostiene questo seminario di Diotima mostra una sapienza femminile piuttosto diffusa nel saper trattare e trasformare in pensiero il dolore che patiamo attraverso pratiche che in fondo ricevono e 4 Flannery O’Connor, Nel territorio del diavolo, a cura di Ottavio Fatica, Theoria, RomaNapoli 1997, p. 11. Bisogna dire che in Sola a presidiare la fortezza. Lettere (a cura di Ottavio Fatica, Einaudi, Torino 2001) Flannery O’Connor fa un passo verso una posizione piu` consolatoria e piu` ortodossa: “Per me il male e` un uso imperfetto del bene” (ivi, p. 51). 5 Ivi, p. 88.

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

L magica forza del negaoivo

articolano al presente un insegnamento antichissimo a cui ha attinto anche Simone Weil: passare attraverso il dolore accettando di patirlo aiuta a raggiungere una conoscenza della realta` e di se´ a un grado piu` alto. Dolore e sofferenza sono intesi come agenti di trasformazione per arrivare a quella che gli antichi chiamavano adeguatezza alla vita. Nell’eta` classica ottenere la conoscenza attraverso il passaggio nel dolore rendeva adeguati alla vita umana. Il contatto con il male provoca dolore e dunque questo sapere e` prezioso perche´ ci mette in grado di patire soggettivamente senza essere annientate e annientati dal lavoro del negativo in noi. Possiamo imparare non solamente dalla Etty Hillesum che si faceva “campo di battaglia”, ma da molte altre autrici come Katherine Mansfield, meno conosciuta e citata anche se ha notevole esperienza del trattare con il dolore e della conoscenza superiore che si puo` distillare da esso: Non voglio morire senza prima aver lasciato una testimonianza della mia convinzione che la sofferenza puo` essere superata, bisogna sottomettersi, non resistere, accogliere il dolore, lasciarsi sommergere, accettarlo pienamente, farne l’arte della propria vita. Nella vita qualunque cosa avvenga realmente accettata cambia, cosi la sofferenza deve trasformarsi in amore, ecco il mistero6.

Si puo` trattare con la sventura che ci puo` capitare ma accade che il male che non e` in noi, che non ci prende come mediazioni della sua forza, possa eccedere questa posizione e questa esperienza, soprattutto quando e` fatto da qualcuno/a, o quando davanti a noi si presenta come non rimediabile, come non emendabile, non trasformabile, non giustificabile nemmeno se ne accettiamo l’esistenza. Hannah Arendt, per esempio, in una lezione del 1965 a New York si mostra scandalizzata per i continui tentativi di dare giustificazione – cioe` razionalizzazione – al male e scrive: Infine per noi e per la esperienza che abbiamo fatto [nazismo e olocausto] c’e` la piu` seria delle perplessita` cui prima ho semplicemente accennato: l’evasione, l’aggiramento o la giustificazione della malvagita`. Se la tradizione della filosofia morale (distinta dalla tradizione del pensiero religioso) concorda su un punto da Socrate fino a Kant e, come vedremo, fino a oggi, esso concerne l’incapacita` umana di compiere il male deliberatamente, di volere il male per il gusto del male. A essere precisi, l’elenco dei vizi umani e` antico e assai lungo, e visto che non vi mancano la gola e l’accidia (in

6

Katherine Mansfield, Diari, a cura di Sonia Ciampoli, Robin, Roma 2002, p. 151.

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Maledire, pregare, non domandare

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fondo vizi piuttosto secondari), e` piuttosto curioso che non ci sia il sadismo, il puro e semplice piacere di causare e contemplare il dolore degli altri. L’unico vizio che a buon diritto possiamo definire il vizio di tutti i vizi per lunghissimi secoli e` comparso solo nella letteratura pornografica e nella rappresentazione pittorica della perversione. E` possibile che sia sempre stato abbastanza diffuso, ma di solito e` stato relegato alla camera da letto e solo di rado trascinato in tribunale. Perfino la Bibbia, dove qua e la` si trovano altri difetti umani, ne tace, per quanto ne sappia. Potrebbe essere questo il motivo per cui Tertulliano e anche Tommaso d’Aquino consideravano in tutta innocenza, per cosı` dire, la contemplazione dei castighi infernali altrui come uno dei piaceri da attendersi in Paradiso. Il primo a scandalizzarsi di tutto cio` fu Nietzsche7.

A partire da questi pensieri di Hannah Arendt si puo` fare un passo successivo ammettendo in cio` che chiamiamo male oltre a un certo lavoro del negativo anche la presenza del piacere, di una certa significativa positivita`, almeno per chi lo compie. Per tornare al punto: non e` dunque possibile, a mio giudizio, identificare il lavoro del negativo con il male. Di fronte a questa consapevolezza per me c’e` sempre stata inquietudine, ma anche curiosita`, perche´ quando il male mi raggiunge, quando qualcuno o qualcuna ci fa del male, quando qualcosa fa male fuori della nostra portata trasformatrice, cosa accade? E ora soprattutto la domanda e`: cosa faccio, come hanno fatto le molte donne che non si sono regolate costruendo etiche e non si sono fatte proteggere dalla consolazione delle buone azioni a tutti i costi? Il problema, abbiamo visto, consiste nel saper ritirare la volonta` di pensare alle cause ultime e di correggere, di dominare il male contingente ritenendolo un errore da trasformare con la nostra benevolenza. Inoltre, in mancanza di morali e di prescrizioni etiche, si mostra anche l’altro lato dello stesso problema: come evitare di rendersi complici del male contingente, e anche come evitare di aggiungere male al male, come sarebbero ad esempio la risposta suicidaria o omicida? Cosa ci resta? Ci resta il lavoro del negativo – una forma di passivita` – che puo` fare molto di piu` dell’ingombrante volonta` positiva. Ho potuto osservare pratiche di donne in cui l’azione attiva non e` prevista dato che la loro efficacia si affida a una non-azione: accompagnare il lavoro del negativo nel male perche´ avvenga la sua fine interna, nel suo spazio

7

Hannah Arendt, “Conferenza” del 10 febbraio 1965 presso la New School for Social Research di New York, tradotta per la rivista “Liberal” e pubblicata in ampi stralci sull’“Unita`” del 30 maggio 1995.

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e nel suo tempo. Questo significa anche la capacita` di sottrarre al male la proprieta` esclusiva del lavoro del negativo. Per comprendere l’efficacia di queste pratiche occorre sapere che esse sono possibili se si puo` avere una fiducia radicale nell’esistenza reale di logiche misteriose intuite attraverso i loro effetti, logiche che rendono il male, ad esempio, non totalmente indipendente da noi e che sono in grado di trasformarlo solo orientandolo verso la sua morte. Sembra infatti che il male sia capace di distruggere anche se stesso se non gli e` offerto altro che se stesso. Euripide, ad esempio, metteva in tema questa intuizione scrivendo di Medea e dichiarando che mentre uccideva i suoi figli uccideva se stessa; una cosa probabilmente valida anche adesso. Questo per tornare a sostenere che c’e` una logica interna al male che puo` portare alla sua morte. Il male va a morire se non ci si ostina a offrirgli del bene, se gli si toglie terreno di prosperita`, perche´ e` cosı` che la sua indipendenza mostra al contempo la sua relativita`: il male ha bisogno del bene esterno e del piacere interno per potere continuare a esistere. Le pratiche di cui sto per rendere conto, per come le capisco, evitano la tentazione di dominare la realta` con qualcosa che si puo` chiamare volonta` di bene; evitano lo sforzo affinche´ ci sia bene assolutamente e comunque: evitano dunque le procedure volontaristiche e orientano il lavoro del negativo nel male con la potenza di gesti che accettano il rischio del mistero, evitano l’assorbimento nell’azione disgregatrice del male e anzi lo accompagnano alla morte. Mostrano in pratica la possibilita` di sottrarsi alla presa del male non intendendolo come destino ne´ come desiderio, ne´ come terreno di esercizio di analisi razionale. Ha ragione Hannah Arendt quando considera la comprensione come una forma di consenso e di disponibilita` a partecipare alla medesima logica, mentre invece si puo` intuire una logica senza comprenderla, senza tirarla dentro di se´ e mantenere con essa una relazione di alterita`. Oltre la comprensione (o forse prima) si puo` attingere a una specie di sapienza intuitiva, una forma di pensiero poco valorizzata che confida nell’invisibile e sul fatto che lo “spirito” agisce efficacemente proprio quando sono al lavoro logiche della consistenza, opacita` e durezza che attribuiamo alla materia. Ci sono pratiche che insegnano, per l’appunto, a leggere la logica misteriosa delle cose con una disposizione fiduciosa e profetica verso le logiche invisibili delle cose, verso il mistero. Ne ho scelte tre, quelle che mi sono abbastanza chiare: maledire, pregare, non domandare. Conto anche su un filo che le rende, in qualche modo, legate le une alle altre.

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Maledire, pregare, non domandare

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Maledire il male Per affrontare la realta` e l’efficacia del maledire, bisogna scordarsi la maledizione cosi come viene intesa piu` banalmente e diffusamente, cioe` come la volonta` di dare inizio al male dove il male non e` ancora, facendo ricorso a poteri o fantasie magiche. Bisogna scordarsi quella che c’e` nei film dell’orrore, in parecchie tragedie antiche, nei timori della santa Inquisizione; quella cosı` ben richiamata in parecchie opere di Shakespeare, come quando leggiamo l’invocazione di Macbeth alle streghe: Doveste voi scatenare i venti e lasciarli combattere contro le chiese, dovessero le onde spumeggianti travolgere ed ingoiare quanto naviga sulle acque, dovesse il grano essere steso a terra ancor verde, e gli alberi essere schiantati, dovessero i castelli crollare sulla testa dei loro guardiani, dovessero i palazzi e le piramidi chinar il capo alle loro fondamenta, dovessero le vistu` germinatrici della natura confondersi tutte insieme, tanto da saziare la 8 distruzione fino alla nausea, rispondete a cio` che vi chiedo .

Quasi sempre, intendiamo cosı` la presentazione della maledizione: come la volonta` magica di dare inizio al male per odio, per vendetta, per dolore furioso. Non e` di questa che parlo. La pratica interessante e` maledire il male gia` presente: condannare chi fa del male a sottomettersi al compimento del male dentro di lui o di lei, sottraendo benevolenza e azioni benefiche. Questa posizione direi che rappresenta una delle massime azioni-non-agenti e descrive la disposizione profetica, cioe` la pre-visione pronunciata – messa in parole – del lavoro del negativo nel male stesso. Bisognera` rileggere cio` che hanno fatto e detto tante donne anticamente e ancora oggi seguendo proprio questa ispirazione e questo strano modo di fare politica passivamente. E` questa la maledizione che intendo proporre per cio` che posso, abbastanza poco cioe`, perche´ questa forma di maledizione – non a caso – e` un tabu`, almeno nella nostra letteratura critica. Mi sono affidata, per misurare questa parte di ricerca, a Monica Farnetti, data la mia inadeguatezza a rendere conto di una completa bibliografia – che non trovavo – riguardante questa formulazione del maledire: l’amica autorevolissima letterata ha confermato che effettivamente non c’e` una bibliografia critica su questo tipo di maledizione, e forse nemmeno sulla maledizione tout-court. Possiamo trovare fonti nelle 8 William Shakespeare, Macbeth, in Id., Tutte le opere, a cura di Mario Praz, Sansoni, Firenze 1964, p. 963.

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letterature, nel cinema, nelle opere liriche, direi anche in certa scrittura filosofica, ma non esiste come ricerca critica e riflessione teorica. Addirittura non risulta avere neanche una propria forma linguistica, dato molto interessante perche´ conferma, per l’appunto, che c’e` un tabu`, o quantomeno qualcosa di particolarmente inquietante e controverso. Sappiamo che a volte assume un aspetto ambiguo, a doppio taglio: “ti auguro che...”; a volte assume la forma linguistica imperativa: “piangi, cadi, inginocchiati...”; a volte quando e` esplicitamente profetica assume il tempo futuro: “accadra`, vedrai, soffrirai...”. Rivolgiamoci allora, per prima, alla letteratura ricca com’e` di esempi del maledire i gesti e le intenzioni di male. Nell’Antigone di Sofocle, la fanciulla comprende che sara` condannata per la sua azione pietosa e si rivolge cosı` a Creonte, colui che la condanna a morte: “Dei tuoi discorsi nulla mi e` accetto, ne´ mai possa essermi accetto; e cosı` i miei sono per te 9 naturalmente sgraditi” . Comprende di non avere scampo e cessa di ragionare, sottrae comunicazione e senso a Creonte, lo condanna a una specie di vaniloquio che infatti produrra` effetti catastrofici. Ho sempre letto la decisione di Antigone come una maledizione indirizzata a Creonte, e ho avuto conferma di questa lettura in una poesia di Mario Luzi che fa risuonare cosı` le ultime parole di Antigone: Non mi avrai Creonte,/ne´ domata, ne´ persuasa./Ti sguscero` tra le ombre/dei pensieri, troverai/la spada/dei miei implacabili argomenti/confitta nel midollo/delle tue risoluzioni,/saro` entrata dentro il tuo recinto./Mi avrai come una lima/di dubbio e di rimorso/nel sonno e in ogni gesto/di arbitrio e di potere./Mai ti libererai di me10.

Monica Farnetti legge molti momenti dell’opera di Anna Maria Ortese nella chiave del “maledire il male”; per esempio nel Cardillo Addolorato troviamo una maledizione molto particolare, compiuta dal cardillo stesso, un usignolo che canta e quando canta maledice, finche´ fa piangere: Canta, dunque, Cardillo, canta, uccello tenero e maledetto, canta ancora e apri fontane di lacrime [...]. E a queste lacrime sul volto dei due desolati

9 Sofocle, Antigone, tr. it. di Luisa Biondetti, Feltrinelli, Milano 1987, p. 95. I versi sono: 499-501. 10 Si tratta di una poesia, allora inedita, pubblicata il 19 ottobre 2003 dal domenicale del “Sole 24 ore” in onore dei 99 anni di Mario Luzi. Ora e` nella raccolta Le parlate dell’editore Interlinea.

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esseri umani [...] il Cardillo, che di tutti aveva pena e disprezzo, come i celesti messaggeri ne hanno di questo mondo volatile e implume, fece udire la sua vertiginosa e lieta canzone, davanti alla quale vorremmo tapparci le orecchie [...] Non occorreva, per Ingmar, un trillo di piu`, o una malvagita` 11 maggiore. Il principe svenne . 12

Possiamo trovare anche un bell’esempio nel film L’albero di Antonia definito dalla critica “matriarcale”. In un punto del racconto una madre, grondante di dolore per lo stupro fatto a sua figlia, rinuncia a sparare per uccidere l’uomo che ha fatto questo gesto irreparabile e sceglie di maledirlo dicendogli a cosa lo portera` la logica interna alle sue azioni: una morte piuttosto drammatica. Questa madre rinuncia alla reazione piu` pulsionale e prefigura con le sue parole qualcosa che poi effettivamente accadra`. Una forma di profezia: diventare passive verso chi fa il male e patire una scommessa sulla logica interna delle azioni malefiche. Ma guardiamo anche alla nostra esperienza piu` vicina: ricordo di aver fatto, nella mia adolescenza, gesti che procuravano sofferenza a mia madre, e lei, vedendo che non ero disponibile a correggermi mi diceva: “se continui a fare cosi ti accadra` che...!”. Le sue profezie erano efficaci, mi spaventavano perche´ mi dicevano la logica in cui stavo procedendo; non facevo cose gravi, beninteso, ma dolorose per lei e certamente, alla lunga, anche per me. La prefigurazione degli effetti di un certo ostinato stile di vita, su di me e` stata efficace: a mia madre evitava prediche verbose, frustranti e inutili nonche´ l’amaro del risentimento; a me ha risparmiato un’inesausta ribellione e un cammino rischioso verso la mia sofferenza. Non c’e` nulla che, a rigore, garantisca l’esito di questa pratica, ma certamente preserva chi la segue dal mescolarsi all’azione del male o dallo spegnere ogni forza nel volere il bene a ogni costo. Puo` darsi che maledire il male sia l’unica possibilita` per scuotere la coscienza, per fare accadere qualcosa di cui si sapeva la straordinaria importanza nell’antichita`: il dono delle lacrime, una specie di grazia che capitava anche agli eroi piu` sanguinari per poter ottenere un cambiamento di coscienza. Puo` darsi che Simone Weil avesse in mente questo quando, nella Prima radice, indica il bisogno di punizione come uno dei bisogni primari dell’anima umana, una delle sofferenze piu` feconde. Il dono delle lacrime sarebbe il segno del lavoro del negativo che ritorce il 11

Cfr. Anna Maria Ortese, Il cardillo addolorato, Adelphi, Milano 1993, p. 376. Titolo originale: Antonia. E` un film del 1996 della regista Marleen Gorris, premiata con l’Oscar. 12

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male contro chi lo fa e puo` portare a una trasformazione effettiva. Puo` darsi invece che l’esito della profezia sia solo un’estinzione e non una trasformazione, ma e` un rischio che vale comunque la pena di correre. Puo` essere utile rintracciare esempi di questa pratica piu` esplicitamente politici. Anni fa uscı` un libro di Helene von Druskowitz, Una filosofa dal manicomio, una filosofa viennese contemporanea a Nietzsche e Freud, veramente chiusa in manicomio per le cose che pensava e che scriveva. Gran parte delle sue riflessioni, intitolate Proposizioni cardinali pessimistiche, sono profezie maledicenti rivolte al sesso maschile per il modo in cui governava il modo e per come si comportava con le donne, facendo del male all’uno e alle altre. Ecco alcune “proposizioni pessimistiche”: Dovreste vivere combattendo accanitamente contro voi stessi e la vostra natura, non seguirne il corso. Ascoltate la vostra voce piu` profonda e sappiate che voi stessi vi date torto incessantemente e condannate le vostre principali tendenze. Per questo e` sconvenevole che vi troviate al vertice di tutte le istituzioni e crediate di poter dominare il mondo. Lasciate subentrare un giudizio pessimistico al posto del vostro narcisismo e dell’auto affermazione, esaminatevi e analizzatevi senza riguardi e traboccherete di 13 odio contro di voi e la vostra esistenza .

Possiamo capire perche´ hanno chiuso in manicomio questa pensatrice ma possiamo anche apprezzare lo splendido esempio di lavoro del negativo quale e` il “pessimismo” di Helene von Druskowitz di fronte a cio` che lei vede produttivo di male e a cui offre una chance di trasformazione attraverso la pratica del “pessimismo”. Bisogna sapere, per apprezzare ancora meglio, che la filosofa si e` mantenuta lucida e integra nella sua mente nonostante la reclusione manicomiale. Non meno d’effetto e` l’espressione Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi, una maledizione della teoria dialettica hegeliana, piuttosto scomoda nella enunciazione sprezzante, di primo acchito. Carla Lonzi prefigura la sconfitta della filosofia di Hegel e anche di quelle che vi si richiamano, come il marxismo, perche´ vorrebbero spiegare il mondo e costringere all’azione secondo lo schema della relazione servo/padrone, ma soprattutto secondo lo schema immanenza/trascendenza che relega le donne sempre nell’immanenza. La profezia di Carla Lonzi si e` rivelata esatta: il movimento politico delle donne ha mandato in fumo gli schemi hegeliani e parte di quelli marxisti. 13 Helene von Druskowitz, Una filosofa dal manicomio, a cura di Maria Grazia Mingone, prefazione di Luisa Muraro, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 55.

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Per arrivare, anche politicamente, piu` vicino ancora, posso dire di avere visto l’esistenza della pratica nel racconto di due sindacaliste della funzione pubblica di Pescara: una pratica difficile da dire e ancora piu` da scrivere e percio` la indico con le mie parole. La loro proposta e` di augurare la morte alle istituzioni morenti, ai sistemi di controllo organizzato, alle burocrazie di controllo, agli istituti di rappresentanza e alla cultura del potere. Nelle istituzioni che continuiamo a considerare da alcuni anni morenti, le due sindacaliste lavorano cercando di non ostacolarne la morte, anzi augurandone l’arrivo. In che modo fanno questo? Sottraendo consenso, cioe` azione femminile positiva che possa confermare, garantire, rinnovare, alimentare i modi istituzionali e di potere che sono in agonia. Le due sindacaliste non si precipitano, insomma, ad applicare i dettami di ogni finta riforma o di ogni reinvenzione della gestione del potere, ma negano l’aiuto femminile alla sopravvivenza di cio` che fa male, prendono una postura profetica e accompagnano cosi alla morte cio` che gia` agonizza. E` evidente che c’e` una concezione del male non come mancanza del bene, ma come realta` positiva che per continuare a produrre effetti sulla realta` ha bisogno del bene, del consenso, della solidarieta`, del maternage femminile. La sottrazione della volonta` di bene c’e` anche quando auguriamo a uomini di potere che dicono di sı` alla guerra di perderlo quel potere e il connesso prestigio, quando rifiutiamo amore e cure a chi fa del male deliberatamente. Ecco che la maledizione, cosi come l’ho presentata, assume molto facilmente una possibile efficacia politica ancora parecchio inesplorata.

La passivita` della preghiera vera Pregare da` il nome a una enorme quantita` di gesti e saperi antichissimi che orientano e accompagnano alla morte, anche morti non fisiche. La preghiera ha il significato e la validita` di una posizione passiva, in cui non si cerca di impedire la morte alla cosa e a chi sta per morire o e` appena morto. La pratica della preghiera entra nel campo dell’efficacia quando il lavoro del negativo assume irreversibilmente l’aspetto di male finale, di morte. Questa del pregare e` un’azione passiva, perche´ sta in presenza di cio` che accade senza chiedere che non accada, perche´ impedisce l’azione reattiva come la volonta` di salvare, la volonta` di bene, il volere che tutto viva in eterno. E` una pratica relazionale per eccellenza perche´ e` sinonimo del massimo di attenzione verso l’alterita`. Simone Weil lo scrive a suo modo:

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Non c’e` altro criterio perfetto del bene e del male oltre alla preghiera interiore ininterrotta. Tutto e` permesso se non l’interrompe, niente e` permesso se l’interrompe. E` impossibile fare del male ad altri quando si agisce in stato di preghiera. A condizione che si tratti di preghiera vera14.

Nella traduzione di Simone Weil, come si vede, il pregare e` propriamente la capacita` di svuotarsi dalla presenza interiore della volonta` in modo che ci sia posto per l’attenzione a cio` che accade oltre ogni nostra possibilita` di far attivamente del bene. Pregare, per di piu`, mantiene in relazione con cio` che muore perche´ toglie al male la possibilita` di disgregare totalmente la vita di chi e di cio` che sopravvive al dolore, di cio` che rinuncia a trattenere artificiosamente in vita. C’e` una rinuncia all’eroismo della volonta` nelle donne che praticano questa forma di relazione di fronte alla morte. Un tempo, infatti, molte donne facevano un gesto che il sistema sanitario oggi aborrisce: sottraevano i morenti alle istituzioni ospedaliere per tenerli nelle loro case, accompagnandoli con la preghiera. Ora c’e` l’accanimento terapeutico, una volonta` di bene molto ingombrante. Questa pratica di accompagnamento alla morte con l’attenzione passiva non si oppone all’azione disgregante esercitata del male che prende la carne, non si oppone alla distruzione della vita visibile perche´ resta in relazione con la vita invisibile racchiusa, per esempio, nella memoria. Non molto diversa e` la questione che si pone davanti alla morte in senso mistico: morte della volonta`, morte dell’io ad esempio. Cio` che accade all’anima in questi passaggi in cui lavora il negativo produce l’esperienza dell’alterita` verso noi stesse, noi stessi. La preghiera attenta, il massimo di attenzione e` una pratica che accetta il disfarsi doloroso di qualcosa e non cerca di salvarlo a tutti i costi. Vale il senso sapienziale del “Chi vuole salvare la propria vita la perdera`, chi la perde la salvera`”. A questo punto vorrei far notare, per introdurre il momento successivo della ricerca, che questo modo di pregare – infatti, non e` l’unico – non contiene domande ne´ le prevede, non c’e` lotta contro la morte condotta attraverso le domande: si puo` evocare, al proposito, la scena del Calvario in cui Maria e le altre con lei, ai piedi della croce, pregano e non domandano mentre il Cristo muore riflettendo, in qualche modo, la domanda di Giobbe, una domanda divenuta icona di ogni essere che si ribella al male che gli sta capitando. 14

Simone Weil, Quaderni III, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1988, p. 209.

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Maledire, pregare, non domandare

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Le preghiere senza domande servono a lasciare la morte nel suo luogo, nel luogo che sta occupando, un luogo anche materiale, concreto. Ogni cosa che riguarda la condizione umana e il mondo occupa uno spazio, e pregare nel modo indicato si fa forza di una sapienza concreta delle connessioni tra materiale e spirituale e dell’attenzione nel contenere – non nel rubare spazio – nel suo luogo cio` che facilmente potrebbe dilagare.

Non domandare perche´ Di fronte al male irreparabile fare domande aggiunge male al male, non lo estingue, ne´ lo illumina. Per sostenere questo chiamo subito in causa Etty Hillesum e anche quelle e quelli scampati all’olocausto che si rifiutano di trovarne il senso ricordando, parlandone, facendo domande sul perche´ e` successo. Mi ha sempre colpito l’assenza di domande in Etty Hillesum, chiusa in un campo di transito in attesa di arrivare a quello di sterminio. Allora ho capito che questo strano atteggiamento celava una pratica della passivita`. Questa del non domandare e` tra le pratiche la piu` difficile perche´ si sostanzia con la rinuncia a chiedere a chi fa del male (e magari sembra determinato a continuare) ragioni, giustificazioni, riflessioni e cambiamenti. Credo che la domanda “Perche´ mi fai male?” o anche “Perche´ mi si fa del male?”, sia, in realta`, impronunciabile e quindi impraticabile, fatto salvo il sentimento che comporta questa stessa domanda, cioe` lo stupore da parte nostra, esseri umani, perche´ non accade cio` che ci aspettiamo sempre: essere amati. Per quello che vale, ho l’intuizione che la pulsione a domandare ragione del male – e forse del domandare in generale – nasca anticamente in una tradizione di marca maschile. Seguendo questa intuizione, sono andata a cercare tra gli studi che esaminano tempi parecchio remoti e ho trovato qualche conferma attraverso le indicazioni di una biblista e studiosa di lingua accadica, mesopotamica, neobabilonese: siamo agli inizi della nostra storia scritta. Rita Torti Mazzi ha scritto un libro in cui, esaminando una grande quantita` di documenti accadici e comparandoli con parti dell’Antico Testamento, ci spiega che le preghiere sono quasi sempre formulate in forma interrogativa, ma non sono mai vere domande. Riporto solo due esempi: il famoso Giobbe chiede “Perche´ non sono morto fin dall’utero?” (Giobbe 3, 11). A rigore, e` una maledizione piu` che una domanda. Oppure: “Perche´ mi nascondi il tuo volto? Perche´ mi respingi?” (Salmo 88). Piu` che una domanda, si tratta di un’accusa.

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Rita Torti Mazzi fa molti esempi di questo tipo e sostiene che queste formulazioni che iniziano con un “perche´?” sono stata inventate come forme di preghiera rivolte a un Dio che fa star male. Il “perche´” precede una serie di parole che in realta` sono tutte affermazioni, hanno quasi tutte il registro della maledizione magica, quella che vuole il male dove non c’e`: Giobbe che vuole negare la sua nascita. L’accusa fa un gioco piu` esplicito e ricattatorio. Do credito a questa studiosa che pensa sia molto probabile la nascita di questo tipo di interrogazioni nel momento in cui c’e` la coscienza di avere stipulato un patto con Dio, anzi un contratto vero e proprio che da` il diritto di interrogare, cioe` di accusare e di chiedere conto. Ben lontano nei tempi, il “perche´?” e` stato inventato per dare inizio a una specie di resa dei conti tra uomini-maschi e Dio; resa dei conti che, a sua volta, da` 15 inizio alla storia del diritto . C’e` un contratto, si chiede conto della rottura del contratto, si chiede di rispettarne i termini o di pagare un risarcimento. Allora la domanda “perche´ mi fai male?”, vista in questi termini, ha l’intenzione di obbligare l’altro a difendersi, a cambiare, a risarcire. Anche quando l’altro e` il massimo dell’alterita` perche´ e` Dio. Se questa domanda fosse praticabile, avesse una sua efficacia, allora avrebbero ragione i pensatori (come Adorno) quando sostengono la potenza della negazione, determinata come unica cifra dell’altro che sia consentita. Sarebbe ammessa cioe` la relazione con l’altro solo nel momento in cui gli diciamo che ci sta facendo del male e gliene chiediamo ragione. La domanda negativa sarebbe il solo modo per provare a dialogare, perche´ il male diventa l’unica cifra dell’alterita` e, in questo ordine di lettura, l’altro diventa il negativo che bisogna richiamare a rispettare il contratto, cioe` a emendarsi. La filosofa Marı´a Zambrano ha sottolineato piu` volte, nelle sue varie opere, la convinzione che il fare compulsivamente domande sia un problema molto grave per la filosofia occidentale e anche per l’esistenza stessa. Per esempio scrive: Sospendere la domanda che crediamo essere costituiva dell’umano. La funesta domanda alla guida, alla presenza che si dilegua se la si incalza, alla propria anima asfissiata dal domandare della coscienza insorgente, alla propria mente cui non si lascia il tempo di concepire silenziosamente,

15 Cfr. Rita Torti Mazzi, Quando interrogare `e pregare. La domanda nel Salterio alla luce della letteratura accadica, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, per esempio alle pp. 317-318.

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oscuramente anche, senza che quella si interponga per domandare il 16 rendiconto alla schiava ammutolita... .

Diremmo che ci indica proprio il contrario della posizione adorniana: si domanda per paura dell’estasi, per paura di uscire da se´ ad incontrare l’alterita`. E ancora Marı´a Zambrano ci invita a non aggiungere male al male celando nella domanda un grido di accusa: Il grido e la parola sono separati da qualche abisso insormontabile. Il grido proviene dal pieno e percio` rimarra` in esso un nucleo irriducibile, come 17 accade quando si vuole esplicitare tutto cio` che e` pieno .

E` il “pieno” del risentimento, dell’offesa, dell’angoscia attiva? La domanda incita il male a dilagare perche´ cerca di suscitare senso di colpa, rabbia e da` statuto alla vittima di essere tale per sempre, perche´ dice che la vittima e` disposta a redimere, perche´ stabilisce il riconoscimento di una dipendenza infernale. Per venire alla vita politica contemporanea: la pratica del non domandare in presenza del male contingente trova forti conferme di efficacia. Christophe Dejours, il sociologo del lavoro francese di cui parla anche Daniela Riboli in questo libro, vede incarnato il male contingente nella prevalenza delle ragioni dell’organizzazione aziendale sopra tutte le dimensioni della vita e che e` presente “nelle pratiche di lavoro ordinarie”: Oggi, in molte imprese, cio` che un tempo era considerato un’infrazione della morale e a cui ci si poteva sottrarre o addirittura opporre, dando prova di un coraggio non eccezionale, tende a divenire norma di un sistema di amministrazione delle questioni umane nel mondo del lavoro: ci si trova 18 allora nell’universo del male .

In conseguenza, Dejours sostiene che si deve considerare una malattia l’adattamento a questa “norma” che prescrive di ignorare i sentimenti propri e degli altri, di non provare compassione, di abbandonare il coraggio di addolorarsi, di patire le offese: si diventa normopatici. Questa diagnosi di normopatia e` interessante perche´ va nella direzione di spiegare qualcosa di molto preoccupante che ci sta accadendo: la crescita dei 16 Marı´a Zambrano, Chiari del bosco, tr. it. di Carlo Ferrucci, Feltrinelli, Milano 1991, p. 12. 17 M. Zambrano, Il sogno creatore, cit., p. 83. 18 Christophe Dejours, L’ingranaggio siamo noi, tr. it. di Erica Mannucci, il Saggiatore, Milano 2000, pp. 107-108.

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cosiddetti disturbi della personalita`, dei disturbi borderline che portano la persona a diventare indifferente al sentire proprio e degli altri, incapace di provare dolore o gioia e di sapere quando altri provano tali emozioni, mentre esteriormente il comportamento e`, per l’appunto, molto normale. Chi ha un comportamento borderline fa del male perche´ nega la necessita` della relazione, e` distruttivo dei legami perche´ non intuisce la sua sofferenza ne´ il sapore di quella che puo` procurare e che regolarmente procura con i propri gesti distruttivi, non sa che cos’e` l’empatia. Cosa puo` rispondere un o una borderline alla domanda “perche´ mi fai male?”. Stefano Bolognini e` uno psicoanalista studioso di questo tipo di disturbi chiamati anche “narcisismo distruttivo” e scrive: L’identificazione con l’oggetto cattivo e con la degenerazione relazionale sono profonde e complete [...] in conseguenza di cio`, persiste una scarsa articolazione relazionale, vi e` poco conflitto con se stessi, si consolida una consistente compiaciuta egosintonicita`. Il conflitto e` [tutto esterno], sono frequenti i vissuti di trionfo e di disprezzo descritti dalla Klein. L’autocritica e` scarsa e le capacita` creative sono tutt’altro che annullate, ma pervertite al 19 servizio della distruttivita` unidirezionale .

Il nome piu` conosciuto e piu` antico di questo comportamento e` perversione: il problema e` che i perversi e le perverse descritte da Bolognini sono quasi sempre molto bene adattati alla vita sociale e lavorativa, sono proprio i normopatici di cui parla Dejours. Marie-France Hirigoyen, una psichiatra e psicoanalista francese studia la vita di quelle che chiamiamo “vittime” e prende in esame le situazioni perverse (o borderline) nel lavoro e nella famiglia e sconsiglia vivamente di porre domande ai perversi, tanto meno la famosa domanda “perche´ mi fai male?”: Con qualunque interlocutore, se non si capisce, si possono porre domande. Con i perversi il discorso e` tortuoso, senza spiegazioni e conduce a un’alienazione reciproca. Si e` sempre al limite dell’interpretazione.

Considero molto importante questa segnalazione del limite dell’interpretazione: quando ci si sente costretti a “interpretare” le risposte significa che si e` gia` presi nella vertigine del rapporto perverso, tanto piu`, aggiungo, che si e` costretti a interpretare con la certezza che l’interpretazione verra` smentita. Possono testimoniarlo le molte donne in cerca di una 19

Stefano Bolognini, L’empatia psicoanalitica, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 132.

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Maledire, pregare, non domandare

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risposta alle domande rivolte a un compagno che non la da` o che la da` in modo da non farsi capire. Cerchiamo di non domandare, dice MarieFrance Hirigoyen, perche´ nella perversione l’unica risposta vera non verra` mai data: Il messaggio nascosto e`: io non ti amo, ma viene nascosto perche´ l’altro non se ne vada... Il partner deve restare dov’e` per venire frustrato in permanenza.

La domanda posta a chi fa del male nella relazione passionale, nel lavoro, nella famiglia non fa cessare la determinazione a fare del male, ma lo stimola e lo prolunga perche´ la perversione si alimenta della disponibilita` alla relazione dell’altro o dell’altra e quindi l’unica risposta vera – “io non ti amo” – non verra` mai proferita, perche´ sarebbe quella che potrebbe far decidere per la conclusione della relazione. Questa, infatti, e` l’unica pratica che allontana questo male contingente: non domandare e andarsene.

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Al di qua del bene e del male L’esperienza delle mistiche di Eleonora Graziani

L’anima e il mondo: teatro delle azioni di dio e del negativo Nell’affrontare questo tema mi sento un po’ come Anima nello “Specchio delle anime semplici” di Margherita Porete quando dice “Io invece voglio dirlo. Ma non so che cosa dire”1. Sento infatti la difficolta` di scrivere, di render conto di un’esperienza che ha a che fare con l’indicibile, con l’ineffabile, con il conseguente rischio di banalizzarla e di tradirla. Provero` comunque a dire, cominciando dal titolo: ho scelto il plurale (l’esperienza delle mistiche e non genericamente l’esperienza mistica), perche´ si tratta di dar conto di una relazione, quella fra una donna e Dio, particolare e specifica, che si da` nel qui e ora di quella donna e di quel Dio. Mentre per la donna la definizione stessa di persona rimanda ad un nome e cognome identificabile, piu` difficile e` l’individuarsi di un Dio che precipita dal cielo della trascendenza, distante e neutrale, per accadere in una relazione, per farsi vivo in una relazione, con tutta la precarieta` e l’instabilita` che questo stesso concetto comporta, trattandosi di un “io” e di un “tu” in continua modificazione reciproca. E` piu` facile accettare la contingenza della donna, che anzi e` stata spesso sottolineata, che quella di Dio, perche´ significa ammettere che nella trama del reale, del gia` tutto visto e previsto, detto e pensato, possano esserci dei buchi, dei vuoti che attraggano la presenza divina, che l’amore, il desiderio e il bisogno, nella loro mancanza di pienezza abbiano piu` attrattiva su Dio del mondo gia` bell’e fatto, cosı` bello da compiacersi di se stesso nella ripetizione. Difficile da accettare, ma ad alcune e` capitato, come loro stesse hanno detto e

1 Questa affermazione della Porete e` citata da Luisa Muraro, Il Dio delle donne, Mondadori, Milano 2003, p. 87.

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scritto. In questo tipo di relazione, come in tutte le relazioni vere del resto, l’unicita` e` insita nel fatto che non c’e` niente di garantito, nemmeno il lieto fine. Nel rispetto di questa unicita` mi sono chiesta se tuttavia potevo riscontrare, nelle mistiche e nelle ricercatrici spirituali che conosco di piu`, qualcosa di comune, che assomigliasse a una pratica, specialmente per quanto riguarda l’accompagnamento del lavoro del negativo, per sottrarre gli esiti di questo lavoro al male. Penso a una pratica, a un sapere che scaturisce dal riconoscimento dell’efficacia di una sequela di pensieri e azioni messa in atto in condizioni difficili, ostili. Non si presta alla ripetizione, ma lascia un’impronta, una traccia da seguire che disegna una via, apre una direzione nel vuoto o nell’inferno che ci tocca attraversare, che altre hanno attraversato. Collocandosi nel territorio dell’esperienza, il suo statuto di verita` e` di poter accadere, in quanto gia` accaduta. La prima cosa che balza agli occhi e` che l’incontro con Dio diventa, per le mistiche, motore di un grandioso lavoro del negativo in se stesse, nell’accoglimento della sua azione disgregatrice dell’“io”, inteso come nucleo di tendenze egocentriche e appropriative. La relazione con Dio, infatti, ha come primo effetto dirompente una diversa lettura della realta`, un capovolgimento di valori, chiamato non a caso “con-versione”, cambiamento di direzione, che ha la caratteristica di segnare una frattura fra il prima e il dopo dell’incontro. Questa inversione dello sguardo rimanda ad una diversa economia del soggetto, nella quale il guadagno e la perdita hanno per misura l’Amore e la Liberta`, sbilanciando in tal modo le difese nevrotiche dell’io. Il bene e il male, in questa nuova economia, vengono parlati dal linguaggio amoroso nei termini di vicinanza-distanza, unioneseparazione, abbandono-riconciliazione, lingua diversa sia dal volontarismo della precettistica della “virtu`” e del “peccato”, sia dall’intellettualismo concettuale del “vero” e del “falso”. Tuttavia, pur avvenendo nel piu` intimo di se stesse, l’incontro con il divino non e` mai una faccenda privata. Anzi, compiendosi nel luogo dove il “sogno” diventa progettualita` esistenziale, il cammino dell’anima si interseca inevitabilmente con la via del mondo ed e` in questo incrocio che avviene l’impatto con il negativo, sotto forma di una grande resistenza ad un grande desiderio. L’urto e` con la parte incancrenita della storia, con le sue sedimentazioni consolidate dal fatto di essere “luoghi comuni”, ossia frequentati da molti, dalla maggioranza. Simone Weil non esita ad identificare il demonio con il “collettivo”, articolandolo nei suoi attributi di “prestigio sociale”, di “opinione”, “regina del mondo”, di “orgoglio come istinto di

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conservazione sociale”2. L’impatto con il negativo, nella sua dinamica storica, diviene allora interrogazione profonda sull’altezza del proprio sentire, sulla qualita` del proprio stare al mondo, occasione per limare le parti meschine di se´, e per distillare le proprie motivazioni al fuoco della realta`. Anche perche´, dopo l’incontro con Dio, non mettere al lavoro il negativo puo` voler dire esserne travolte.

La pratica del capovolgimento 3 Teresa d’Avila, nella sua autobiografia, il Libro de la Vida , racconta di aver ricevuto da Dio l’ordine di compiere una missione molto difficile, tanto da apparire, ai nostri occhi, quasi impossibile. La difficolta` non consisteva tanto nel riformare il proprio ordine religioso all’insegna dei valori della poverta` e della preghiera, riportandolo alla regola primitiva del Carmelo. Alla luce della storia complessiva della Chiesa, l’impresa di Teresa e` stata principalmente un’anticipazione di quel movimento di Riforma che ha 4 investito anche la chiesa cattolica, dopo il Concilio di Trento . La difficolta` reale era che l’autrice di questo cambiamento, nella misogina 5 Spagna cattolica del XVI secolo , doveva essere lei.

2

Simone Weil, Quaderni, vol. IV, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1998, p. 359. 3 Le citazioni degli scritti di santa Teresa d’Avila sono tratte da: S. Teresa di Gesu`, Opere, tr. it. del Padre Egidio di Gesu` della Provincia veneta dei Carmelitani Scalzi, Postulazione Generale O.C.P., Roma 1985. Per le citazioni dal Libro de la vida usero` la sigla Vita, per il Castello interiore la sigla C.I. Sulla vita di Teresa d’Avila si veda: Rosa Rossi, Biografia di una scrittrice, Editori Riuniti, Roma 1993. Sulla sua autobiografia: Rosa Rossi, Esperienza interiore e storia nell’autobiografia di Teresa d’Avila, Adriatica, Bari 1977, e il mio Santa Teresa d’Avila e il Libro de la vida. La grazia e il peccato tra l’essere e il nulla, Atheneum, Firenze 1998. 4 Il monastero riformato di San Jose´ e` stato fondato da Teresa il 24 agosto 1562. Nella primavera del 1567 il generale ravennate dei carmelitani Gianbattista Rossi le diede l’autorizzazione di fondare in Castiglia tutti i conventi che voleva. Sulla storia della chiesa in questo periodo si veda Hubert Jedin, Riforma cattolica o Controriforma?, tr. it. di Marola Guarducci, Morcelliana, Brescia 1974. 5 Significativa del clima dell’epoca e` la stessa affermazione di Teresa, censurata dal confessore e che si trova nel manoscritto dell’Escorial (versione originale del Cammino di perfezione): “Non basta, Signore, che il mondo ci tenga chiuse come bestie in un recinto ? ... e che non possiamo fare niente per voi in pubblico, che non osiamo dire alcune verita` su cui piangiamo in segreto, ma che anche voi non dobbiate ascoltare una richiesta cosı` giusta? Io non posso crederlo di voi, Signore, della vostra bonta` e giustizia perche´ voi davvero siete giusto giudice, e non come i giudici del mondo, i quali, perche´ sono figli di Adamo e quindi tutti maschi – non c’e` virtu` di donna che non considerino sospetta. Giorno verra`, pero`, in cui si vedra` chi sono”. Sull’argomento si veda L’inquisizione e il

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Affermare il primato della orazione mentale, come esperienza interiore di accoglimento e affermazione del divino fin da questa vita significava, prima di tutto, compiere una grande provocazione nei confronti dell’ambiente circostante, denunciando l’insufficienza spirituale sia dell’ambiente piu` vicino, il monastero, decadente e corrotto, sia del mondo ecclesiastico ufficiale, fissato alla ritualita` esteriore di pratiche religiose meccaniche e ripetitive. Provocazione che la sua autobiografia ha il pregio di lasciar trapelare specialmente come impatto reale fra persone in carne ed ossa che si muovono su piani diversi della realta` e non solo come scontro teologico fra letrados e spirituali, all’interno del quale pur il suo 6 progetto si collocava . Con loro, confessori da una parte e consorelle del monastero dall’altra, si e` svolta quella parte di storia fatta di dubbi, di arresti, talvolta di disperazione, che sempre precede ogni grande vittoria e 7 che spesso viene rimossa ad opera conclusa . Alla richiesta divina di riformare il suo ordine, Teresa risponde con un’immediata consapevolezza della resistenza che l’ambiente circostante avrebbe opposto: “Ne ebbi grandissima pena perche´ intravidi subito qualche cosa di cio` che l’impresa 8 mi avrebbe costato” . Non appena trapela la sua decisione di fondare, senza rendite, il monastero di San Jose´ insieme ad alcune amiche, reagisce infatti negativamente l’intera citta` di Avila: Intanto non vi era nessuno in citta`, neppure tra le persone di orazione, che non fosse contro di noi e non riguardasse il progetto come il colmo della 9 pazzia, senza poi dire della rivoluzione che avvenne nel mio monastero .

Il desiderio di Teresa – il senso del suo progetto, frutto della sua conversione – era di restituire al mondo la ricchezza della sua esperienza spirituale, di dare la possibilita` anche alle altre di vivere il rapporto con il divino come avventura amorosa, come storia personale in cui la preghiera e` il codice del dialogo e la solitudine il luogo dell’ascolto. disprezzo dei discorsi femminili in Bartolome´ Bennassar, Storia dell’Inquisizione spagnola, tr. it. di Nanda Torcellan, Rizzoli, Milano 1994, pp. 185 ss. 6 Sull’argomento si veda Marcel Bataillon, Erasmo y Espan˜a, tr. it. di Antonio Alatorre, Fondo de Cultura Economica, 1991 e Bartolome´ Bennassar, Storia dell’Inquisizione spagnola, cit. 7 Dopo l’“obstat sexus” di Pio XI nel 1962, nel 1970 Teresa e` stata proclamata primo Dottore della Chiesa di sesso femminile. Sulle vicende e sulle strumentalizzazioni del suo culto si veda: Giuliana di Febo, Teresa d’Avila: Un culto barocco nella Spagna franchista, Liguori, Napoli 1988. 8 Vita, 32, 12, p. 323. 9 Vita, 32, 14, p. 325.

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Ma farsi promotrice di una tale proposta di vita significava anche mettersi al centro di una lotta fra forze contrastanti, fra il nuovo che spinge in ogni istante per nascere in ognuno di noi e la resistenza del potere istituzionale, sedimentato dalla rigidita` dei ruoli e dalla forza dell’abitudine. Resistenza che avrebbe usato tutti i mezzi per capovolgere il senso del suo progetto, stravolgendone le motivazioni e cercando di annientarne l’ideatrice. La grandissima pena di Teresa nasceva dalla consapevolezza che il centro dello scontro, il campo di battaglia sarebbe stata lei, la sua credibilita`, la sua vita. Fin dall’inizio del suo itinerario aveva dovuto rispondere adeguatamente al sospetto, piu` o meno esplicito, di essere una mistificatrice. A parte alcune fedeli amiche, la maggioranza delle monache del monastero dell’Incarnacio`n, nel momento della nuova fondazione, diffidavano di lei: dicevano che le avevo offese, che potevo servire Dio anche lı` dove non mancavano molte religiose assai migliori di me, che non amavo la mia casa e che invece di disperdere le rendite per altri fini, era meglio le raccogliessi 10 per essa. Talune, poi, parlavano senz’altro di mettermi in prigione .

Sull’altro fronte, il rapporto con i superiori era piu` che mai incerto e problematico. Il Provinciale dell’Ordine aveva dato l’autorizzazione e poi, di fronte allo spiegamento di forze ostili in campo, l’aveva ritirato. Il rapporto con i confessori e i superiori gerarchici procedeva su un crinale che si era affacciato su abissi paurosi. Non era ancora del tutto svanito, e non lo sara` per tutta la vita, del resto, il dubbio che il suo contatto con Dio altro non fosse che opera del demonio, sospetto che era sfociato, ad un certo punto, nel verdetto collettivo di un gruppo di “servi di Dio”: il mio confessore mi venne dunque a dire che quei tali (credo che fossero cinque o sei, e tutti gran servi di dio) erano d’accordo nel dichiararmi vittima del demonio, per cui non dovevo comunicarmi tanto spesso, ma 11 distrarmi e non stare mai sola .

La gravita` dell’accusa colpiva al cuore qualsiasi istanza portata avanti da quella donna, stroncava alla radice la potenza del racconto della sua incredibile esperienza con Dio, la metteva nel numero delle ilusas che non

10 11

Vita, 33, 2, p. 329. Vita, 25, 14, p. 245.

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erano nemmeno da combattere, ma solo da compatire12. Anche dopo il parere favorevole di Pietro di Alcantara, allo stesso tempo autorevole e autorizzante, rimaneva il problema, per i suoi confessori, che “correvano 13 tempi duri” e con lei si rischiava molto. Il negativo si coagulava, opponendo resistenza, nel luogo in cui le persone si sentivano svelate nella loro realta`: i confessori nella loro ignoranza e pusillanimita`, le monache nelle loro preoccupazioni di sbarcare il lunario e di sopravvivere come potevano in una situazione non sempre scelta. La comunicazione di Teresa che con Dio era possibile intrattenere un rapporto attuale all’insegna dell’amicizia era come la luce di un faro puntato sulla miseria di vite vissute a meta`. Bisognava spegnere il faro, riportare la penombra, puntando i riflettori su di lei. La prima mossa di Teresa, fondamentale, e` di individuare e distinguere le forze in campo, senza fare confusione tra le persone e il demonio, tra Dio e lei. Nella relazione al confessore, tiene a precisare di essersi semplicemente messa a disposizione di una volonta` piu` grande, espressione di un orizzonte piu` ampio, perche´, per quello che riguardava la sua 14 personale condizione, lei stava benissimo dov’era . Sa che il prezzo di questa disponibilita` e` molto alto: l’offerta di se´. Implica accettare umilmente l’effetto boomerang del gioco di specchi che si instaura ogniqualvolta la nostra vita, per il semplice fatto di esserci, diventa “svelamento” delle vite altrui, denuncia implicita della mediocrita` di identita` costruite sul consenso sociale senza alcuna domanda sul valore reale dei nessi che lo 15 garantiscono . Significa accettare di essere a propria volta “spogliata”

12

Le ilusas vengono accusate dal tribunale dell’Inquisizione di non accettare l’autorita` dei confessori e di esibire una santita` menzognera. Lo stadio meno grave, quello imputato a Teresa d’Avila e` quello di un’“illusione involontaria”, in cui il demonio seduce le donne a causa della loro debolezza mentale, spacciandosi per Dio. 13 “Alcuni vennero spaventati ad avvisarmi che in fatto di visioni correvano tempi duri e che qualcuno poteva trovarvi degli appigli per denunziarmi all’Inquisizione”. (Vita, 33, 5, p. 332). 14 Teresa, a differenza di altre monache piu` povere, aveva una cella di due stanze e cucina. Sottolinea questa situazione a lei favorevole affermando: “Io poi non mi sapevo risolvere, perche´ ero contenta dove stavo, il monastero mi piaceva e vi avevo una cella di mio gusto”. (Vita, 32, 10, p. 323). 15 Molto severa la critica di Teresa d’Avila al concetto di honra, l’onorabilita` basata sull’appartenenza ad una casta, quella dei vecchi cristiani, la cui purezza di sangue si configura essenzialmente come purezza di fede religiosa non contaminata da macchia di ascendenza giudaica. Per le donne la difesa dell’honra prevedeva la strenua difesa della reputazione di verginita`.

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dallo sguardo altrui, accettare che frughi all’interno per scoprire cosa c’e` dentro, impedire che diventi malevolo mettendolo al lavoro. L’opzione di obbedienza, mai abbandonata, piu` che essere una mossa strategica, assume il significato di raccogliere la sfida su un terreno di confronto comune: si trattava di capire se davvero era lo stesso Dio quello di cui lei e i confessori stavano parlando. L’opposizione dei confessori, il loro timore di mettersi nei guai, diventa necessita` di spiegare i passaggi e le caratteristiche del suo rapporto con Dio, di spiegare dettagliatamente il “come si fa” e “cosa accade” nel piu` intimo di noi stessi, di come distinguere la sua presenza da quella del demonio. La scrittura di Teresa si situa nel punto difficilissimo che mette insieme tenuta logica e verita` del discorso, forzando il linguaggio fino ai suoi limiti di rappresentativita` dell’esperienza, interrogando l’infinito fino ai suoi limiti di dicibilita`. Questo, il primo guadagno che dalla “persecuzione” ecclesiastica e` stato ricavato da Teresa e da tutte noi che abbiamo la possibilita` di leggere i suoi testi. Nella sua autobiografia, Teresa racconta come Pietro di Alcantara 16 avesse chiamato questo passaggio la “contraddizione dei buoni” . Prova terribile che consiste nel sopportare l’incomprensione e il tradimento di chi amiamo di piu`, evento molto piu` doloroso della prevedibile ostilita` dei nemici. Figura esemplare del sacrificio della parte di se´ piu` bisognosa d’affetto e di conforto e` Cristo, che, nella solitudine dell’orto e nelle ultime ore della Passione, vive con angoscia il “sonno” dei suoi amici, assenza colpevole che trovera` la sua massima espressione nel tradimento di Giuda e nel rinnegamento di Pietro. Anche per Teresa l’accusa di essere indemoniata e la diffidenza delle consorelle era stata prima di tutto una ferita all’“io” ansioso di riconoscimenti esteriori, bisognoso di rassicurazioni e incoraggiamenti. Fra Dio e i confessori si gioca una partita snervante prima di tutto per lei che vede logorata la sua volonta` individuale e accetta che la vittoria sia sempre di un altro: Quando il Signore mi dava un comando nell’orazione e il confessore me ne imponeva un altro, Sua Maesta` tornava a dirmi di stare alla parola del confessore. Poi gli faceva cambiare parere, inducendolo a darmi il mede17 simo comando . 16

“Ebbe per me la piu` viva compassione perche´ quello che io avevo sofferto, cioe` la contraddizione del buoni, era, secondo lui, la prova piu` grande della vita”. (Vita, 30, 6, p. 291). 17 Vita, 26, 5, p. 254

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Tuttavia proprio l’annientamento della sua volonta` individuale ha sottratto al “negativo” la possibilita` di accanirsi su di lei come unico bersaglio riconoscibile, spostando il piano della battaglia a livelli che sono costretti a manifestarsi solo trascendendola completamente. Trascendenza che non e` la sua cancellazione dal mondo, ma manifestazione radicale di presenza perche´ Teresa, mettendosi nel luogo dello scambio possibile, permette che la sua esistenza sia crogiolo di spinte contrastanti, che le forze ostili, consumando la sua volonta` particolaristica, si consumino, o, meglio, si trasformino senza degenerare ai livelli devastanti della diffidenza e dell’odio. Mantenendo fino alla fine con Dio un rapporto di assoluta Alterita`, mette in chiaro che e` di altro che si sta parlando, di “Sua Maesta`”, di Chi ha la reale sovranita` sulle cose. Diana Sartori, nel suo saggio Perche´ Teresa rileva, a proposito dell’estasi, un movimento simile: Se la propria volonta` non e` sovrana, a cio` che e` realmente sovrano occorre far luogo in se´. Si pone cosı` in atto una strategia di potenziamento del soggetto, attraverso l’abdicazione del soggetto18.

Sovranita` di Dio sul reale che e` direttamente proporzionale alla disponibilita` umana all’“esodo” dall’individualismo prevaricatore e accen19 tratore . Solo sopravvivendo alla scarnificazione, all’annichilimento delle parti di se´ piu` fragili e velleitarie si puo` arrivare la` dove la speranza non puo` piu` essere intaccata dalla fatalita`, mostrare al mondo non piu` la luce fredda di una verita` posseduta, ma quella calda e comprensiva di chi ha vissuto la desolazione della solitudine e l’amarezza della perdita. Teresa accetta questa parte per amore dell’Amato e perche´ sa che consuma la parte peggiore di se´, ma la distingue nettamente dal male, dalla dispera20 zione e dalla falsa umilta` della rinuncia ai propri desideri . Il rischio piu` 18

Diana Sartori, Perche´ Teresa, in Diotima, Mettere al mondo il mondo. Oggetto e oggettivita` alla luce della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1990, p. 36. 19 Simone Weil, nella tragicita` di un altro momento storico, parla infatti del potere di Dio come “infinitamente piccolo” e dell’abdicazione non solo del soggetto, ma di Dio stesso dalla storia. “Tutto cio` che accade, senza distinzione alcuna, e` permesso, cioe` consentito da Dio. Ma questo consenso e` un’abdicazione. Non e` dunque l’esercizio di una regalita`”. (S. Weil, Quaderni, vol. IV, cit., p. 348). 20 “Io invece mi ero talmente dissipata che da piu` di un anno avevo tralasciato l’orazione, sembrandomi maggiore umilta`. Come diro` a suo luogo fu questa la piu` grave tentazione che abbia sostenuto, per la quale avrei finito per perdermi.” (Vita, 7, 11, p. 85). “Occorre ben capire come questa umilta` debba essere per evitare il danno che il demonio fa a molte persone di orazione, a cui impedisce di progredire col suggerire false idee di

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grosso che racconta di avere corso e` stato infatti, nella fase di “annientamento” di se stessa, quello di desistere completamente sia dall’orazione mentale, ritenendosene indegna, sia dall’impresa delle Fondazioni, per umilta`. Ha rischiato, cioe`, di bruciarsi completamente. Nella concezione teresiana il demonio ha sempre a che fare con il falso, con la menzogna. Nel tentativo di ristabilire la verita`, la “mancanza di umilta`” di cui e` accusata viene analizzata all’interno della sua relazione con Dio. E` lı`, nell’unico contesto che lei riconosce come significativo, che l’umilta` si svela come interiorizzazione dell’immagine proiettata dal mondo esterno e come conseguente tentazione di assecondarla per evitarsi problemi e fatiche. Scoperto che il conflitto e` fra la sua tentazione di “quieto vivere” e la volonta` divina di lanciarla allo sbaraglio, l’umilta` cambia di segno, rovesciandosi nel valore negativo di adeguamento all’esi21 stente. Risolto il problema, Teresa passa al contrattacco . Ma, cosı` come rifiuta di identificare se stessa con Dio, e quindi con il bene, personifica il male nella figura del demonio, amico della menzogna, senza mai confonderlo con le persone, per quanto la possano ostacolare. Cerca di non cadere nel rancore, evita le fazioni, aborrisce il pettegolezzo, pur non 22 risparmiando a nessuno la sincerita`, anche dura, del suo pensiero . Si rifiuta di giocare al gioco che gli umani amano di piu`, quello dei buoni e dei cattivi, in cui naturalmente i buoni siamo noi. Il capovolgimento nella vita di Teresa – il riconoscimento dei suoi ideali e la possibilita` concreta di metterli in pratica – e` avvenuto grazie a quello spazio vuoto lasciato nella sua vita. Tempo e spazio di cambiamento che solo la sospensione del giudizio permette. Bene e male sono altro dalle persone, anche se hanno umilta`, persuadendole essere superbia nutrire grandi desideri, voler imitare i santi e desiderare il martirio”. (Vita, 13, 4, p. 129). 21 “Percio` se questo Signore e` cosı` potente, come so e vedo; se i demoni non gli sono che schiavi, come la fede non mi permette di dubitare, che male mi possono fare se io sono la serva di questo Re e Signore? Piuttosto perche´ non sentirmi cosı` forte da affrontare l’inferno intero?” (Vita, 25, 19, p. 248). 22 Teresa d’Avila si descrive paziente e modesta nel sopportare la maldicenza: “In alcune cose vedevo che mi condannavano a torto, per esempio che avevo agito per farmi un nome, per acquistarmi considerazione, e via di seguito; ma in altre vedevo che dicevano la verita`: che ero la piu` miserabile di tutte, che non avendo mai seguito l’osservanza in quella casa non potevo seguirla in un’altra dove le austerita` erano piu` grandi, che scandalizzavo il popolo e che volevo introdurre novita`”. (Vita, 36, 13, p. 370). Ma e` anche pungente e ironica nel definire “devozioncelle” le vocazioni che non reggono all’impatto con la battaglia e con il dolore: “Sı`, parlo di tenerezza, ma soave, forte, penetrante, deliziosa e tranquilla, ben diversa da certe devozioncelle che non mi sento neppure di cosı` chiamare, fatte unicamente di lacrime e piccoli sentimenti che appassiscono subito al primo venticello di persecuzione, come gracili fiorellini”. (Vita, 25, 11, p. 243).

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continuamente a che fare con loro. Le persone possono cambiare, e in effetti cambieranno, nella vita di Teresa, fino a dimostrarle un affetto che rasentera` l’adorazione. Salvandole, si e` salvata.

La pratica della ritirata In questo “partire da se´” nell’analisi del bene e del male, Teresa d’Avila, e con lei Etty Hillesum e Simone Weil, mettono in atto una pratica di ritirata attiva rispetto al negativo: lasciandogli pienamente il campo, non opponendosi, non difendendosi, anzi confrontandosi al proprio interno come con una parte di se´, retrocedono dagli influssi esterni fino a trovare il luogo della propria verita`, dove il lavoro interiore ha reso possibile il capovolgimento degli ostacoli in un desiderio decantato da tutte le false motivazioni. Questa pratica consiste in un vero e proprio movimento all’interno di se´, che delinea una sorta di topografia dell’anima. La corrispondenza fra microcosmo interiore e macrocosmo universale, peculiare dell’esperienza mistica come laboratorio alchemico di forze contrastanti, si incrocia con la tradizione cristiana che pone la divinita` nell’interiorita` individuale. Nel Castello interiore Teresa d’Avila, stabilendo l’equazione fra l’“anima” e la residenza di Dio, disegna la “mappa” per raggiungere la stanza centrale del castello, che illumina tutte le altre, dove 23 “Dio e l’anima si godono in altissimo silenzio” . Il raggiungimento della meta avviene dopo un lungo percorso nel piu` profondo e nel piu` segreto di se stessi: una sorta di corsa ad ostacoli a ritroso, in cui cio` che si supera e` “l’esteriore”, nel doppio significato di superficiale e di esterno, estraneo a se´. L’immagine del “castello” include sia la possibilita` di scoprire il luogo della propria liberta`, sia la possibilita` di difendersi dagli attacchi esterni, nella raggiunta consapevolezza che “fuori del castello non vi e` sicurezza ne´ pace, e che non bisogna frequentare le case altrui, perche´ volendolo, si 24 puo` godere in casa propria ogni abbondanza di beni” . Fuor di metafora e in tutt’altre condizioni storiche, anche Etty Hillesum cerca lo spazio libero dalle crescenti interdizioni naziste agli ebrei: Ci e` stato proibito di passeggiare sul Wandelweg, ogni misero gruppetto di due o tre alberi e` dichiarato bosco e allora sulle piante e` inchiodato un cartello con la scritta: vietato agli ebrei. Questi cartelli diventano sempre piu`

23 24

C.I., settime mansioni, 3, 11, p. 953. C.I., seconde mansioni, capitolo unico, 4, p. 780.

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numerosi, dappertutto. E cio` nonostante, quanto spazio in cui si puo` ancora 25 stare e esser lieti e far musica e volersi bene .

E quando non ci saranno piu` strade da percorrere Etty guardera` in alto, verso il cielo: Dappertutto ci sono cartelli che ci vietano la strada per la campagna. Ma sopra quell’unico pezzo di strada c’e` sempre il cielo, tutto quanto26.

Nella geografia dell’anima il vero spazio e` quello “in cui si puo` esser lieti e far musica e volersi bene”. Zona salvata al proprio interno grazie all’assoluta estraneita` ad un esterno che si presenta con i connotati della coercizione e del limite. Paradossale rovesciamento delle categorie spaziali, 27 in cui l’interno assume la posizione di esterno dell’esterno , ponendosi al di fuori di qualsiasi perimetrazione e raggiungendo il punto di osservazione di quel “cielo” che si e` riusciti a liberare in se´. Mossa vincente che mi ricorda il “tana libera per tutti” del gioco del nascondino, perche´ consente di sfuggire sia all’immaginario inclusivo, che tende a farci assumere la parte che gli altri ci assegnano, sia al male “immaginario”, che ci colpisce attraverso suggestioni e allusioni prima di tutto mentali. Etty Hillesum smaschera la strategia paralizzante del male: Non possono farci niente, Non possono veramente farci niente. Possono renderci la vita un po’ spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale o di un po’ di liberta` di movimento, ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori col nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci 28 perseguitati, umiliati e oppressi, col nostro odio che maschera la paura

Come nota Wanda Tommasi29. Etty Hillesum si rifiuta di demonizzare il nemico perche´ capisce che rispondere all’odio con l’odio rafforza paradossalmente la somiglianza con lui. Al contrario, evitando di mettersi sullo stesso piano del prevaricatore, anche e soprattutto mentalmente, si ha come esito la differenziazione, non dagli altri esseri umani, tutti piu` o 25 Etty Hillesum, Diario 1941-1943, tr. it. di Chiara Passanti, Adelphi, Milano 2000, p. 107. 26 Ivi, p. 126. 27 Cfr. Mino Bergamo, L’anatomia dell’anima. Da Franc¸ois de Sales a Fenelon, Il Mulino, Bologna 1991. 28 E. Hillesum, Diario 1941-1943, cit., pp. 126-127. 29 Cfr. Wanda Tommasi, Etty Hillesum. L’intelligenza del cuore, Ed. Messaggero, Padova 2002.

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meno simili, ma dalla logica dell’odio e del risentimento, nella consapevolezza che la partita si gioca e si vince sul piano simbolico. A differenza della pratica del capovolgimento, la pratica della ritirata evita il contatto con il negativo quando non e` piu` trasformabile ne´ idoneo a trasformare una parte di se´: in poche parole, quando il contatto diventa contagio. In questo caso, dissociarsi completamente, andarsene non e` una fuga, ma un atto politico di rifiuto di un senso della vita eterodiretto e unilaterale. E questa e` la scelta di Etty quando si rifiuta di proseguire il suo lavoro di dattilografa presso il Consiglio ebraico di Amsterdam, appena si rende conto che questo organismo, nato per aiutare gli ebrei, e` diventato uno strumento di selezione nelle mani dei nazisti. Scelta che le costa la deportazione nel campo di Westerbock.

L’opzione di fedelta` al proprio essere creaturale, la funzione separatrice della legge e il suo superamento In questa e in altre esperienze limite delle mistiche, l’opzione di fedelta` a se stesse, alla propria liberta` e` cio` che permette l’individuazione dello spazio franco dentro di se´, dove il “bene”, anziche´ caratterizzarsi come l’opposto del male, e` piuttosto superamento di ogni dualismo, affermazione assoluta di se stesso. Scrive Simone Weil nei Quaderni: Il bene e il male, questo e` il centro del problema e la verita` essenziale e` che la loro relazione non e` reciproca. Il male e` il contrario del bene, ma il bene 30 non e` il contrario di alcunche´ .

Il bene non e` il contrario di alcunche´: e` il luogo della non separazione, di un’unita` che oltrepassa la scissione fra i contrari, raggiunta grazie al grande lavoro di distruzione della volonta` di bene contro il male, perche´ e` l’essere “contro” la radice di ogni male. Il cristianesimo radicale della Weil pone la conquista del bene alla fine di un percorso che ha senza dubbio le caratteristiche di essere “al di la`”, o, meglio ancora, “al di sopra del male 31 come un uomo che va da una cima d’albero ad un’altra cima d’albero” . Tragitto lento e faticoso che porta all’accettazione del proprio essere creaturale nella rinuncia a qualsiasi sovranita` illusoria dell’io: 30 31

S. Weil, Quaderni, vol. IV, cit., p. 173. Ivi, p. 283. (corsivo mio).

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La vera morte morale sta nell’acconsentire a qualsiasi cosa la sorte rechi. Perche´ di tutto cio` che chiamo io la sorte puo` privarmi. Accettare di essere solo una creatura e nient’altro. E` come accettare di perdere tutta l’esistenza. 32 Non siamo altro che creature .

Mentre le coppie bene-male, vero-falso, puro-impuro, sacro-profano sono aggettivi che l’io giudicante appone alle cose, l’essere creatura e` un verbo all’infinito , che precede ogni dualismo indicando semplicemente cio` che e`. Non mi sembra un caso, in questo senso, che la conquista dell’“essere” avvenga, nella Passione secondo G. H. di Clarice Lispector, nella stanza di servizio della casa, e non nella stanza di un castello come per Teresa d’Avila o nella propria stanzetta ornata di fiori e libri, come per Etty Hillesum. La provocazione della Lispector, nel dare centralita` alla stanza meno importante della casa, in un rovesciamento della consueta topografia dell’anima, e` rispetto alla rigida divisione, attuata dalla legge 33 ebraica, fra sacro e profano , che tabuizza in tal modo tempi, luoghi, esseri e animali considerati impuri. G. H., nel suo lungo monologo, nota come la legge separatrice abbia orrore per cio` che e` originario, immondo nel suo inizio e resistente a ogni modificazione purificatrice. La blatta, come animale che striscia, e` indicata, nel Levitico, come animale impuro, e cosı` anche il sangue mestruale della donna: solo il rito puo` proteggere dal contatto contaminante con gli elementi primordiali. Per ritrovare se stessa, G. H. deve ricongiungersi con la sua parte immonda originaria, rappresentata dall’orribile blatta. Ma la “comunione”, sacramento che ristabilisce l’unione fra due esseri separati, puo` avvenire solo dopo la perdita della falsa identita`, rappresentata con l’immagine della “terza gamba”: Sinora ritrovarmi era possedere gia` un’idea di persona, e in questa inserirmi: in quella persona organizzata io mi incarnavo e non avvertivo neppure il grande sforzo di costruzione che era vivere. L’idea di persona che mi facevo veniva dalla mia terza gamba, da quella che mi ancora a terra. Come spiegare che la mia piu` grande paura e` proprio in rapporto a: 34 essere? E tuttavia e` l’unica strada . 32

Ivi, p. 248. Intendo per sacro una zona separata, delimitata dal resto, per indicare il luogo di manifestazione del divino, cosı` come viene intesa dalla religione ebraica e, in parte, da quella cristiana. Per Marı´a Zambrano, al contrario, il “sacro” e` l’indistinto primordiale, il pieno senza vuoto, intervallo e separazione, ambiguo nella sua compresenza di bene e male. Cfr. Ead., L’uomo e il divino, tr. it. di Giovanni Ferraro, ed. Lavoro, Roma 2001. 34 Clarice Lispector, La passione secondo G. H., tr. it. di Adelina Aletti, La Rosa, Torino 1982, p. 6. 33

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E` nel pre-umano la possibilita` di incontro fra esseri, antecedente alla nominazione che dispone le cose secondo una gerarchia prestabilita, poiche´ e` nell’unita` pre-verbale dell’essere che si rivela l’essenziale originario, precedente l’alienazione delle cose nei nomi. Configurandosi come arretramento rispetto alla legge separatrice, implica comunque una scelta, o una soglia, da superare, l’abbandono del “grande sforzo di costruzione” che e` la vita convenzionale. Esito che solo “un’anima gia` formata” puo` raggiungere, per evitare il rischio di scambiare l’abbandono della propria identita` con l’affidarsi alle suggestioni esterne in una nuova, piu` terribile, dipendenza. G. H., nel suo itinerario di scoperta sgomenta dell’“essere”, individua nella differenza sessuale la differenza originaria, definendo la blatta come femmina e rivolgendosi alla madre come blatta: “Benedetta sia tu fra le blatte”. L’itinerario di liberazione di G. H. si configura come “passione” proprio per la scoperta dell’etica come ferita originaria, nel suo porre la differenza femminile dalla parte del profano. Ferita che sanguina nuovamente nell’incontro con la blatta, passaggio inevitabile per la riconquista del proprio inizio irrinunciabile. La liberazione dell’essere e` possibile solo a partire da una posizione al di qua del bene e male, che significa arretramento rispetto ad una legge che esorcizza la potenza materna originaria, riordinandola con riti di purificazione, al pari del caos primordiale. Il “bene”, in questo senso, non puo` che essere snaturato dall’orrore delle origini e sicuramente non coincide con il benessere femminile. Per la Lispector, infatti, prima di porsi al di qua del bene e del male, la donna deve attraversare l’inferno costruito per lei dalla legge maschile ricongiungendosi all’immondo. Solo allora la liberazione dal dualismo etico non prescindera` dalla fedelta` alla propria natura. Alla fine di questo percorso, vorrei sottolineare come la posizione al di qua del bene e del male sia una conquista, meta di un lungo cammino e non un dono immediato che la vita ci fa. Il paradosso di questo itinerario e` che si giunge ad un non luogo, ad un non tempo, dove si e` sempre stati, dove non si e` mai stati. Paradosso dovuto alla totale incommensurabilita` dell’essere nella liberta` rispetto all’inautenticita` della vita. Traiettoria che non ha niente della linearita` del progresso, ma procede a sbalzi, a vortici, a spirali, intessuta di incontri veri ed abbandoni veri che fanno sanguinare. Ritorna l’insufficienza della parola a descrivere l’Altrove in cui alla fine si giunge, ma in cui non si ha mai la sicurezza di poter restare, essendo, in fin dei conti, solo dono. Conoscere la vita, nella sua semplicita`, e` dato solo a chi ha accettato di esplorarla nella sua totalita` fino al punto di lasciarsi consumare, o divorare, da essa. Zattera di salvezza che compare dopo il naufragio soggettivo, dono estremo, e spesso in extremis,

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alla duplice fedelta` alla prigione delle circostanze e alla propria liberta`. La sintesi felice di opposti apparentemente inconciliabili come la necessita` storica e la liberta` e` testimoniata da quell’“andare a morir cantando”, di Etty Hillesum, estremo riscatto della speranza e della vita in uno dei piu` tragici momenti che le storie individuali e collettive abbiano mai conosciuto. Se la voce di Dio tace, si puo` ancora sentirne il canto dentro di se´ e prestargli la nostra.

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Stare a contatto del male senza farsi male di Daniela Riboli

Esserci nell’incontro con l’altro “Oggi, e` una buona giornata!” Mi ha avvicinato apposta per dirmelo, e` evidente, e ora attende fiducioso un segnale di conferma. Sorpresa, non so che dire: per me e` un tedioso e grigio pomeriggio domenicale di turno in ospedale. Restiamo un attimo cosı`, a guardarci interrogativi, come in attesa di una soddisfazione che non viene. Intanto, qualcosa di quel tempo di lavoro cosı` calmo, e` andato fuori posto e dal disordine m’interroga. Il senso verra` solo la sera, nel tragitto verso casa, nella forma fulminante del ricordo di un incontro di due mesi prima. Durante un turno notturno nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura presso il quale lavoro, viene accettato, in regime di Trattamento Sanitario Obbligatorio, un uomo di media eta` affetto da grave psicosi paranoidea con alle spalle la fama di ripetute azioni violente che lo hanno visto attore. Il ricovero avviene a seguito dell’ennesimo allarme familiare e sociale per pericolosita` legata a scompenso psichico. L’uomo giunge in reparto dopo contenzione sia farmacologica che fisica della sua aggressivita`, scortato dalla forza pubblica intervenuta al domicilio. E` sveglio e rifiuta ogni contatto sia verbale che fisico. Il suo stato di sofferenza e` pero` evidente e il perdurare dell’immobilizzazione forzata al letto, non aiuta l’instaurarsi della comunicazione. L’esito di un processo terapeutico dipende spesso da come si svolgono le prime interazioni col paziente e, in questo caso, sono inevitabilmente di ansia e paura. Ma un tale vissuto personale, se lasciato alla sua naturalita`, rischia di riverberarsi negativamente sul paziente. Un messaggio di rifiuto o di condanna puo`, infatti, potenziare il suo risentimento e la sua reattivita` aggressiva legittimando cosı`, in un circolo vizioso dal quale e` poi sempre piu` arduo uscire, la mia paura. In realta`, sapere che l’aggressivita` del paziente e` momentaneamente depotenziata dal suo stato di contenzione pone le basi di

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una sufficiente rassicurazione personale e sposta l’atteggiamento mentale dalla paura-condanna del suo agire violento all’identificazione empatica con la sofferenza, la tristezza della situazione. Mobilita compassione e disponibilita` all’ascolto, alla comprensione delle motivazioni dell’agire, all’impiego intelligente di risorse professionali e personali astuzie. Ogni intervento assistenziale e` per altro vissuto dal paziente come ulteriore fonte di rovina, aggressione, pericolo. Cosı` nel prendermi cura del suo corpo fisico – unica mediazione possibile in questi casi estremi – riduco ogni mio intervento all’essenziale avendo al contempo cura di annunciare ogni gesto lasciando il tempo necessario, tra la parola e l’azione, affinche´ il paziente registri l’informazione e la sorpresa sia ridotta al minimo. Faccio solo l’indispensabile, ben sapendo che il senso del mio agire sta nel far sapere – mostrandolo praticamente – che ci sono, sono lı` per lui, ma senza invadere. L’esperienza mi ha insegnato come i pazienti siano sensibili a stimoli anche tenui veicolati attraverso l’espressione che prende il nostro atteggiamento mentale verso di loro, le emozioni che essi in noi suscitano. Solo nel tempo e con estrema gradualita` provero` ad introdurre delicati spunti di piu` diretta comunicazione con l’uomo che, al momento, sto assistendo soltanto obliquamente. Intanto mi limito a vigilare con discrezione e, finche´ e` possibile, intervengo unicamente su sua chiamata. Presto attenzione a che il suo corpo indifeso non sia troppo esposto e curo particolari apparentemente insignificanti con l’accortezza di trovare il modo di fargli percepire che continuo ad esserci e ad avere presente la sua esistenza; dirotto con varie astuzie la mia attenzione esteriore ad elementi marginali del contesto che lo riguarda: la luce non sia troppo forte, la temperatura ambientale adeguata, i rumori non troppo disturbanti, il bicchiere d’acqua disponibile, il campanello a portata di mano... silenziosamente ma con regolarita` calcolabile mi affaccio alla porta della stanza e mi lascio osservare. Nel corso della notte il paziente, dalla totale ed ostinata opposizione ad ogni comunicazione che lo riguarda, passa a chiamarmi al suo capezzale in modo imperioso e per futili motivi, ripetutamente testando la mia reale tenuta ed affidabilita`. Non mi chiama per nome ma “infermiera” ed io uso il suo cognome per rivolgermi a lui. E` un modo reciproco di segnare distanze. Mi limito ad accogliere le sue richieste eseguendo cio` che possibile: so che l’essenziale di tutta quell’articolata danza comunicativa sta nella messa alla prova del mio esserci alle sue chiamate, del mio sopravvivere alla sua aggressivita` verbale e psicologica, che viene accolta e tenuta senza che ne seguano per lui ritorsioni. Il paziente ne fa esperienza, ripetutamente, secondo tempi propri e gradualmente arricchisce di fuggevoli elementi con-

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divisibili le interazioni che ci coinvolgono. E`, il suo, uno spostarsi lento dall’imperioso ordinare non scevro d’insulti, ad un piu` mite interloquire che scivola nel comunicare relazionale che ha presente l’altro. Ma non un altro qualsiasi. Poi accade che il paziente, con disprezzo, urini a letto, nel tentativo maldestro di ottenere d’essere slegato. Continua a non voler essere toccato se non puo` essere liberato dalle fascette che gli limitano il movimento, ma stavolta impongo, sia pure garbatamente, che ci lasci fare: conosciamo le tecniche per provvedere a cio` che e` necessario nonostante le restrizioni della contenzione. Certo c’e` un margine di rischio maggiore di esporsi alla sua aggressivita` nella distanza necessariamente ravvicinata dell’azione, che curo avvenga nel massimo rispetto e dignita`, ma confido nella sensazione che qualcosa stia cambiando nella sua reale disponibilita` e la tasto prudentemente. Quando mi dice il suo nome proprio, indicandomi qual e` da quel momento il modo piu` adeguato col quale rivolgermi a lui, capisco che e` il segnale dell’inizio consapevole di disponibilita` e apertura fiduciosa alla nostra relazione che inizia a riconoscere come autorevole per se´. Da me allora si attende parole ed atti significativi per se´, ma anche mostra di accoglierli accettando una misura non solo coercitiva al proprio agire. Sommessamente inizia a ringraziare per ogni intervento assistenziale ricevuto, approdando gradualmente ad un elementare senso di gratitudine che modifica la sua percezione della realta`. Si apre, per lui, la possibilita` di vedere anche cio` che ha ricevuto e riceve oltre a cio` che sta subendo (la contenzione fisica persiste). E, inaspettatamente, mostra di avere comprensione per la mia fisiologica stanchezza, per gli umani limiti personali che si vanno facendo piu` evidenti man mano l’alba si fa avanti. La contenzione fisica non sarebbe piu` necessaria ora che il paziente ha guadagnato un buon contatto relazionale, ma non e` in mio potere sospenderla: lui lo capisce ed accetta di disporsi all’attesa paziente del medico, mentre io mi congedo, per fine turno, con l’improbabile quanto assurdo augurio di “buona giornata”. Sorpresa e costernata dalla mia infelice uscita lo vedo, paziente e tollerante, chiudere a lungo gli occhi evitando ogni commento. Penso di aver distrutto l’esile fiducia concessami in questa notte di passione: la sua, che sta oltre la soglia dell’immaginazione, e anche la mia, incomparabilmente piu` sopportabile. Invece, quando ci ritroviamo in reparto tre giorni dopo, il paziente, ormai autonomo ed in buon compenso psichico, mi affida dei soldi – di solito gelosamente custoditi – perche´ gli faccia piccoli acquisti per necessita` quotidiane tenute in sospeso durante i miei riposi.

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Due mesi trascorsi da allora ed il rientro nella propria quotidianita` non hanno cancellato nella mente del paziente quel grottesco “buona giornata” rivolto a un uomo imprigionato nei suoi movimenti e reso del tutto dipendente da chi si prende cura di lui, delle necessita` elementari del suo corpo. Non ho ancora smesso di chiedermi che cosa la sua sensibilita` abbia colto in quel congedo del quale ho provato perfino vergogna. Un errore scappato alla mia sorveglianza, fuori dal copione, potrei dire. Chi aveva parlato in me? E che cosa l’uomo di mezza eta`, il paziente, mette fuori posto in me, due mesi dopo, con quella che io ho sentito come una battuta: “oggi, e` una buona giornata!”?

Compatire non e` spontaneo Le infermiere patiscono una sofferenza che, consapevolmente o no, diventa spesso compassione: una quota del dolore dell’altro e` accolta e tenuta dentro di se´ mentre il proprio sentire originale e` come sospeso. Cogliere intuitivamente vissuti diversi e` condizione necessaria dello stare consapevolmente nella relazione che cura, ma e` pur vero che, se la sensibilita` alla sofferenza altrui non puo` essere dissociata dalla presa di coscienza della propria di sofferenza, quest’ultima diventa “intollerabile quando non esiste nessuna possibilita` di vedere la propria situazione 1 migliorare” . Pascale Molinier avverte: Donne il cui lavoro non e` riconosciuto non possono ‘ascoltarsi’ e nemmeno 2 ascoltare-guardare-toccare gli altri come persone (non come cose) .

Affermazione inquietante se rapportata alla constatazione di un dato di fatto: una parte fondamentale del lavoro infermieristico, quella relazionalecompassionevole, resta per lo piu` invisibile. Pascale Molinier dice: per difetto di formalizzazione, data la sua inafferrabilita` in schemi e metodi di valutazione propri di un’organizzazione aziendalistica del lavoro di cura. Eppure da essa si fa ampiamente dipendere l’umanita` delle cure stesse. Alle infermiere, a chi cura in generale, e` chiesto, per competenza professionale, di saper aver a che fare con la sofferenza, con il male vissuto nel corpo e nella mente, avendone cura. Con la sofferenza dei pazienti e` 1

Pascale Molinier, Autonomie morale subjective et construction de l’identite´ sexuelle: l’apport de la psychodynamique du travail, “Revue Internationale de Psychosociologie”, vol. III, n. 5, 1996, p. 58. 2 Ibid.

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evidente, ma inevitabilmente anche con la propria e, non infrequentemente, con quella di colleghe/i. Un aspetto importante della complessita` e anche dell’eccellenza del lavoro infermieristico si gioca in questo sdrucciolevole incrocio di sofferenze, sotto il peso della perenne indecidibilita` preventiva di cio` che e` meglio fare e come. Del resto, le situazioni nelle quali le infermiere intervengono sono cosı` poco visibili, le modalita` della soggettivita` sono cosı` contraddittorie ed ambigue, che non e` 3 veramente facile sapere quello che bisogna fare e se lo si e` fatto bene .

Abitando un mondo dove bene e male si presentano inevitabilmente intrecciati, e` giocoforza agire facendo l’uno e l’altro: non esiste nessuna azione pura perche´ siamo sempre compromessi. Anzi, piu` si agisce misurandosi con la perfezione piu` si mette in gioco l’imprevisto, l’incertezza dello scarto, l’eventualita` dello scacco, riscoprendo ogni volta come il reale abbia una sua propria complessita`, problematicita` strutturale che non e` davvero possibile annullare. E` realistico attendersi e permettere che una certa quota di male circoli. Accettare il negativo che inevitabilmente e variamente opera nell’esistenza umana, accettare di sostarvi presso e dentro, puo` essere pensabile e praticabile se solo si riesce a intuire il positivo 4 a cui questo puo` aprire, “portando alla luce antichi e nuovi tesori nascosti” . Bisogna pero` accettare di “correre il rischio di perdersi” avanzando passo dopo passo sulla strada impervia della “valorizzazione dei vuoti che si sono 5 creati” , nel lasciare che il negativo lavori, mentre di nostro abbiamo da assicurarci il sostegno di valide relazioni. Solo a certe condizioni, infatti, attesa e sofferenza possono essere sapientemente sopportate affinche´ altro appaia: il negativo disgrega e atterrisce solo se lasciato a se´, in balia della sua propria selvaggia potenza (ri)vendicativa. E` necessario esserci, dunque, per avvertire il grido sorpreso e silenzioso dell’altro che soffre, quel grido sul 6 quale Simone Weil richiama l’attenzione. Il dolore rende fragili: chi accosta il dolente deve saperlo e tenerne conto. A questo avvertimento sembrano servire i segni evidenti di lutto, bisogno, dolore, follia, che la cultura, il soggetto, le consuetudini mettono in 3

Pascale Molinier, Travail et compassion dans le monde hospitalier, “Cahiers du Genre”, n. 28, p. 56. 4 Dalla presentazione del Grande seminario di Diotima, Il lavoro del negativo, Universita` di Verona, ott./dic. 2003. 5 Ibid. 6 Cfr. Simone Weil, La Persona e il sacro, in AA. VV., Oltre la politica. Antologia del pensiero ‘impolitico’, a cura di Roberto Esposito, Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 141-166.

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atto quali indicatori di un’esposizione personale eccessiva. A maggior ragione allora, e` indispensabile che chi e` addetta al curare possieda 7 attenzione e silenzio “di rara qualita`” affinche´ quel grido, che per la Weil e` infallibilmente segnale di un’ingiustizia subita, possa essere raccolto. Perche´ mi fai/mi vien fatto del male? e` infatti un’invocazione per lo piu` da intuire. Sentire risuonare dentro di se´ questa domanda implicita e potente sapendola dell’altro, e` gia` un agire trasformato. La realta`, si sa, si ristruttura a partire da cio` che ci accade rifondandone il senso, svelando illusioni, recuperando autenticita`, ridimensionando l’onnipotenza. Cosı`, sbalzata fuori dalla finta neutralita` di chi assiste-cura l’altro per puro mandato istituzionale, sono costretta alla responsabilizzazione di un agire in prima persona che ridefinisce la relazione curante/curato. Nel nuovo contesto di dinamica apertura all’altro, la disparita` di competenze – sapere scientifico e sue tecniche da un lato, esperienza vissuta di malattia e personali strategie di sopravvivenza, dall’altro – viene assunta ed impiegata in modo piu` consapevole e proficuo facendosi essa stessa luogo di piu` autentico sapere. Si fa evidente, allora, come la qualita` di una presenza competente presso la sofferenza si determini a partire dalla capacita` di tenere presente nella propria mente e nel proprio sentire, contemporaneamente e in combinazione, quante piu` relazioni possibili di parole, eventi, sentimenti, ragioni, bisogni, desideri, competenze..., mentre, al contempo, si mantiene viva la capacita` di fare i conti con la limitatezza umana. Prestare ascolto a chi soffre implica sapersi mettere al suo posto pur restando altro. E da lı`, da quel fare esperienza di un altro punto di vista, di un sentire diverso, ri-orientare il proprio agire sapendosi destreggiare tra l’inquietudine di sentirsi trasformata e l’intimo bisogno di restare a se´ fedele. La possibilita` di fare spazio e dare ascolto alla domanda non posta dell’altro che soffre, mettersi e mantenersi alla presenza del suo male, chiede pero` che chi cura sappia preventivamente stare in presenza della propria di sofferenza, sapendola elaborare, nell’attenzione di non trasmettere la propria paura a chi si assiste. E` cio` che sostiene anche Delfina 8 Lusiardi nel racconto della propria esperienza di malattia quando afferma che dalla sensibilita` di chi cura derivano le “relazioni terapeutiche riuscite”, quelle cioe` che riescono a risvegliare/liberare una sensibilita` all’al-

7

Ivi, p. 146. Cfr. il contributo di Delfina Lusiardi a questo volume, Quando il corpo fa il “lavoro del negativo”: il mio e il suo testo sono frutto della relazione presentata al Grande seminario di Diotima, Il lavoro del negativo, dal titolo “A contatto del male senza farsi male” (17 ottobre 2003). 8

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tro/a qualitativamente diversa. Chi cura, lei afferma, non puo` sottrarsi alla responsabilita` di orientare e aiutare proprio in relazione alla competenza che ha e che e` sua. Saper avere a che fare con la sofferenza non e`, pero`, qualcosa che accade in modo naturale. Neppure e` qualcosa di solo individuale. Piuttosto, una competenza personale acquisita con una pratica relazionale che, per realizzarsi, richiede un grande investimento e un generoso dono di se´. Tuttavia, dalle infermiere specialmente, la compassione ce la si aspetta “sempre, comunque, per tutti”, quasi una sorta di “maternita` sociale” depurata da ogni sforzo e lavoro fatti per acquisirla. Dono di se´ che, pur prescritto, rischia sempre di scivolare troppo lungo il pendio della trasgressione delle regole date, esitando fra l’esaurimento psicofisico personale o la sanzionabilita` sempre possibile. Non e` insolito accada che, mentre la componente relazionale dell’assistere tende ad essere definita come “non lavoro”, quindi non riconosciuta nei fatti, l’agire compassionevole della singola infermiera sia connotato come un “di piu` di lavoro” passibile di aprire conflitti all’interno della ´equipe infermieristica. In effetti, c’e` il problema di decidere chi debba fare il lavoro (burocratico, routinario, alberghiero, tecnico) allorche´ si “perde tempo” nel compatire, magari chi nemmeno se lo merita essendo in qualche modo responsabile della propria malattia o del suo perdurare. Cosı`, far fumare un paziente contenuto perche´ violento, sedendosi accanto a lui e portandogli alla bocca la sigaretta senza fretta e con umano rispetto; fare la barba a pazienti che sarebbero in grado di radersi da soli, ma a discapito di un’apertura alla relazione con l’altro che passa solo attraverso la mediazione sottile di quel contatto fisico; inventarsi di condividere lo stesso cibo al tavolo dell’anziana signora deperita oltre ogni accettabile limite a causa del timore delirante di essere avvelenata, offrendo tempo e ragioni allo sgretolarsi del suo forzato digiuno; raccontare fiabe della buonanotte alla ragazzina borderline tanto ribelle quanto spaurita, che ostinatamente fa fallire ogni sofisticato progetto terapeutico, eppure resta lı` aggrappata all’ascolto di una voce narrante; trattenersi al telefono con chi, disperato per se´ o per un proprio caro, cerca ascolto competente e caloroso, benche´ il modo e il luogo non siano convenzionalmente appropriati, sono solo alcuni esempi di quotidiane attivita` infermieristiche fuori registro benche´ efficaci. Eppure la compassione, intesa come il soffrire con, l’essere sensibile all’infelicita` dell’altro che mobilita all’azione, “non e` spontanea nell’espe9 rienza infermieristica, ne´ nell’esperienza umana” ; piuttosto “i primi con9

P. Molinier, Travail et compassion dans le monde hospitalier, cit., p. 55.

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tatti con i pazienti suscitano innanzi tutto angoscia, paura, disgusto 10 generando desiderio di fuga” . Ricordo ancora lo shock del mio primo giorno di lavoro in ospedale, segnato dalla morte improvvisa di un’anziana ricoverata, e, ancor piu`, dai commenti delle colleghe, dal loro ridere, nell’intimita` della cucina, alle mie lacrime e sprovvedutezza, come anche dalla fretta e dal superlavoro che sono imperativi dell’organizzazione, certo, ma anche – oggi mi e` chiaro – difese. Cosı`, per poter realizzare il mio compito, in molte occasioni e circostanze ho dovuto imparare a non paralizzarmi o fuggire davanti alla sofferenza, alla follia, alla morte. A superare la repulsione normalmente suscitata da secrezioni, escrementi, piaghe di corpi malati e in deperimento, ma anche non soccombere o controreagire ai violenti attacchi di menti alterate. Molinier ne parla come di un movimento contro natura, un lavoro in se´ che impegna il corpo: Sangue che si ghiaccia, cuore che batte, i singhiozzi, cio` che non si riesce a vincere, la nausea, l’eccitazione11.

Repulsione e paura, dunque, ma anche attrazione e fascino. Ciononostante, per “ben fare” questo lavoro, cosı` come ogni altro, bisogna riuscire a trarne piacere. Quello dell’infermiera non e` un lavoro mosso in primis dal piacere, che piuttosto risulta una conquista successiva e quasi sovversiva, guadagnata com’e` maneggiando la sofferenza che dev’essere sentita con e nel proprio corpo, indovinata nelle tante forme in cui non si vede, avvicinata con discrezione, anticipata nella domanda, interrogata con l’attesa, trasformata. Molinier lo afferma chiaramente: La compassione [...] non ha niente di ‘naturale’ nel senso essenzialista del termine. Si tratta di un rimaneggiamento secondario di una modificazione della soggettivita` da parte del lavoro12.

Precisamente, “e` una costruzione collettiva mobilitata dall’esperienza 13 di cura” , che le infermiere, per tradizione professionale sessualmente connotata, sanno socializzare. In quanto “forma della sofferenza generata dal lavoro infermieristi-

10 11 12 13

Ibid. Ibid. Ibid. Ivi, p. 49.

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co”14, la compassione “non esiste mai allo stato puro” dovendo inevitabilmente confliggere con “le preoccupazioni legate agli imperativi dell’organizzazione: andare in fretta, il superlavoro, l’irritabilita`, la paura e la repulsione che non spariscono mai completamente, a volte il desiderio e la 15 crudelta`” . Compatire e` allora il risultato di un “lavoro psichico” che paradossalmente prende forma “sotto la costrizione” di un preciso apprendistato professionale. La “postura psichica richiesta per il lavoro infermieristico” e` ottenuta, infatti, mediante varie tappe costitutive tra le quali spiccano “la disciplinazione del corpo e la sollecitazione alla passivita`”. Benche´ il lavoro infermieristico sia “un lavoro con e sul corpo”, corpo biologico e corpo vissuto, “per diventare uno strumento efficace il corpo delle infermiere deve anzitutto cancellarsi. La fatica, la vulnerabilita`, l’irritazione, la sofferenza devono sparire perche´ la presenza dell’infer16 miera sia pacificante” . I bisogni immediati vanno messi in latenza, molti movimenti spontanei repressi, la passivita` sopportata, gli sforzi e il lavoro compiuti per pervenire al risultato desiderato, dissimulati. Sono richiesti dei saper fare astuti e discreti “nel senso che i mezzi usati per metterli in opera non attirano l’attenzione di colui che ne beneficia e devono poter 17 essere mobilitati senza aspettarsene necessariamente riconoscenza” . Talvolta la dissimulazione, reputata necessaria al ben agire nell’interesse del paziente, si configura addirittura come una sorta d’incompetenza agli occhi dell’interessato. In-competenza astutamente giocata per fronteggiare situazioni paradossali (il paziente che vuole sapere da noi curanti qualcosa di vero di se´ e della sua malattia, qualcosa che in genere chi gli e` piu` prossimo vuole gli sia risparmiato). In-competenza come umanita` piu` spoglia rimessa in gioco nel suo trasparire, tremenda e potente, al cedimento inatteso di una disciplina professionale fin lı` mantenuta. Una sorta di lapsus rivelatore che, insieme allo spiazzamento per qualcosa andato fuori posto, offre possibilita` di sguardo su altro. Ci vuole un lungo apprendistato, dunque, affinche´ la compassione venga e si stabilizzi, “ma una volta stabilizzata dall’esperienza, la compassione diventa autentica, essa si trova senza distanza, come una passione 18 precisamente” : mobilita all’azione e determina il valore morale a partire dal quale si giudica il lavoro compiuto. Io sono come l’altro che soffre e` la

14 15 16 17 18

Ivi, p. 54. Ivi, pp. 54-55. Ivi, p. 54. Ivi, p. 55. Ibid.

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constatazione di un soggetto che edifica la propria identita` in una prospettiva di alterita`. Concetti del senso comune, regole di condotta, contenuti morali trasmessi col linguaggio, sono gli elementi che, per Molinier, costi19 tuiscono la misura sulla quale si fonda l’“autonomia morale soggettiva” , ovvero quella capacita` teorico-pratica di paragonare la percezione della propria esperienza di sofferenza con quella dell’altro. E` questa acquisizione personale che permette al soggetto di resistere, in dati momenti, alla presa di legami sociali “impazziti”, i quali tendono a giustificare ingiustizia e violenza. In particolare le donne, che lavorano tradizionalmente nel contatto diretto con la sofferenza altrui e propria, devono condurre una 20 “dura lotta contro la costrizione dell’organizzazione sociale del lavoro” per continuare ad avvertire la sofferenza, anche quando non e` in loro potere modificarne le cause. Ma essere sensibile alla sofferenza dell’altro e` sentire la propria di sofferenza e per riuscirci “non bisogna essere esausti”, bisogna possedere “un’altra forma di coraggio da quella che presiede 21 all’affrontamento violento” . C’e`, nella nostra cultura, un apprendistato del coraggio che e` differente e diversamente esigente per uomini e per donne. Per i primi si tratta specificatamente di apprendere la resistenza al dolore fisico e alla sofferenza in genere, nella speranza di acquisire per suo tramite anche “il coraggio dell’anima”22. Un apprendimento che, al contempo, espone ad una familiarizzazione e ad una giustificazione della violenza, fino alla prova irrefutabile di coraggio che sta nel dimostrare di saper “estinguere in se stesso la compassione per il dolore altrui [...] quando le circostanze lo esigono”23. Cosicche´ il coraggio (in se´ una virtu`) finisce per esprimersi nel provare di saper eseguire il male. Per questa strada, alla virtu` del coraggio si trova facilmente coniugata la virilita`24, costruzione sociale che conferisce 19

Cfr. P. Molinier, Autonomie morale subjective et construction de l’identite´ sexuelle: l’apport de la psychodynamique du travail, cit. 20 Ivi, p. 61. 21 Pascale Molinier, Pre´venir la violence: l’invisibilite´ du travail des femmes, “Travailler”, n. 3, 1999, p. 83. 22 Christophe Dejours, L’ingranaggio siamo noi. La sofferenza economica nella vita di ogni giorno, tr. it. di Erica Mannucci, Il Saggiatore, Milano 2000, p. 181. 23 Ivi, p. 183. 24 Dejours distingue la virilita` dalla mascolinita` definendo la prima come “una condotta il cui valore e` fondamentalmente schiavo della conferma d’altri”, dipende “dallo sguardo dell’altro” e necessita pertanto di “occasioni” per esibirsi. Occasioni di comportamenti, condotte, discorsi virili attraverso i quali gli uomini “si sforzano di convincersi della propria invulnerabilita` di fronte alla castrazione e quindi della perennita` del possesso del fallo”. Il discorso femminile invece, risentendo in partenza della conoscenza dell’esistenza della castrazione, segue un diverso percorso: il “riconoscimento del reale”, che attua da subito, fa

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all’identita` maschile la capacita` di esprimere potenza e dominio allo scopo di assicurare protezione e sicurezza ai piu` deboli. “Ma la virilita` – afferma Dejours – e` in se´ una menzogna” nella misura in cui “e` necessaria per far 25 passare il male per bene” . Dejours ci invita, donne e uomini, a riflettere sulla realta` di “uomini 26 virili, ma forse non umani” , e propone di “riprendere la questione etica e filosofica del coraggio liberato dalla virilita`, partendo dall’analisi del coraggio femminile e dall’esame di forme specifiche del coraggio nelle 27 donne” . Donne che assumono consapevolmente su di se´ la propria differenza facendone fonte di sapere originale. Piu` precisamente, egli indica – citando le ricerche di Pascale Molinier – proprio nelle infermiere un esempio di donne che hanno “un rapporto con il lavoro e con la 28 sofferenza radicalmente diverso da quello degli uomini” . Cosı` facendo, sposta la sua propria riflessione sull’invenzione di comportamenti altri da quelli tipici della virilita`. Comportamenti che non tentano di opporre una negazione alla sofferenza e alla paura, tanto meno propongono il ricorso alla violenza o alla razionalizzazione. Il coraggio che in essi si esprime non ha a che fare con la ricerca della gloria, ma piuttosto sembra tradursi nella capacita` di saper provare la sofferenza dentro di se´, accoglierla e tollerarla, restare sensibile a quella dell’altro, a quella che si puo` infliggere. Osservazioni che personalmente traduco nell’attenzione a farmi, e a mantenermi, sensibile e capace di riconoscere ed identificare il male inflitto ad altri nell’esercizio del mio lavoro: atti tecnici invasivi e dolorosi, contenzione degli agitati, trascuratezza nell’accudire un incapace, non decodificazione delle richieste di aiuto inadeguatamente formulate, insufficienza nell’arginare il degrado psico-fisico dei pazienti affidatimi. Nel campo specifico della malattia mentale si tratta anche di darsi e dare tempo all’accadere della possibilita` di gestione-trasformazione relazionale della sofferenza che si mostra come violenza, anziche´ agire con interventi quali che siano per una sua veloce e precoce rimozione, costi quel che costi. Un saper stare in quella forma precisa di passivita` che e` capacita` di sospendere l’azione pur mantenendosi lı` dove la sofferenza si esprime, disponendosi ad un ascolto ricettivo nell’attesa che qualcosa accada, aldila` delle parole che non si possono dire, delle azioni che non si possono agire, sapendosi agilmente sviluppare strategie difensive che non hanno per base la sua negazione-razionalizzazione, ma piuttosto lo “circoscrivono” con interessanti e diversi esiti. (Cfr. ivi, pp. 141-144). 25 Ivi, p. 189. 26 Ivi, p. 183. 27 Ivi, p. 190. 28 Ivi, p. 185.

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spostare su piu` registri comunicativi e mantenendo viva l’interrogazione sul senso del proprio fare e patire. E` l’agire compassionevole, proprio in quanto “azione intenzionale in 29 vista del bene altrui” , a far sı` che la compassione designi al tempo stesso “il vissuto di sofferenza generato dalla sofferenza altrui e il valore morale a 30 partire dal quale le curanti giudicano il lavoro compiuto” . Secondo Molinier nella nostra societa` virilizzata e tendente alla rinnegazionecolpevolizzazione della sofferenza, “la compassione non permette di accedere al riconoscimento se non nel cerchio ristretto della intersoggettivita` 31 femminile” . Al contempo pero` l’autrice afferma che “la valorizzazione sociale degli agiti compassionevoli, costituisce il primo passo nel processo 32 di stabilizzazione della volonta` libera” , intesa come “capacita` di valuta33 zione autoriflessiva dell’azione” da parte di un soggetto che vuole tradurre in azioni i suoi desideri. In genere per le donne, diversamente che per gli uomini, il “mal agire” non e` facilmente riconosciuto come valore sociale. E` facile rilevare, infatti, che mentre “la virilita` sociale fornisce agli uomini le risorse di un ‘tu devi’ che non ha bisogno di essere morale per essere accolto nel registro dell’amore di se´”, per le donne “solo il riconoscimento del loro esercizio del ‘ben agire’ puo` capitalizzarsi nel registro 34 dell’identita` sessuale” . Il fatto che gli uomini riuscirebbero piu` facilmente delle donne a “obliterare il senso morale e a giustificare socialmente la 35 loro partecipazione all’esercizio della violenza e dell’ingiustizia” , non e` dovuto pero` alla natura di donne e uomini ma, precisa l’autrice, d’accordo con Dejours, alla divisione sessuale del lavoro e alle forme sessuate delle strategie difensive contro la sofferenza che lı` si genera. Dejours, in qualita` di psichiatra che si occupa del lavoro analizzandone l’organizzazione neoliberista, mostra come proprio il lavoro possa farsi luogo di apprendimento e sperimentazione di ingiustizia e iniquita`, di rassegnazione fatalistica, di drastica diminuzione della solidarieta`, di familiarizzazione con l’infelicita`, di ignoranza della sofferenza diffusa. Ognuno e` in qualche modo complice in tale meccanismo e lo avverte, al punto che si rendono inevitabili strategie difensive personali e collettive in grado di rinnegare la sofferenza cui si e` costretti, di rendere l’esercizio del male 29 30 31 32 33 34 35

P. Molinier, Pre´venir la violence: l’invisibilite´ du travail des femmes, cit., p. 59. Ibid. Ivi, p. 61. Ibid. Ivi, p. 59. Ibid. Ivi, p. 53.

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socialmente accettabile. Convintosi che l’aver socialmente taciuto sulla sofferenza di chi lavora abbia aperto la strada alla tolleranza e passivita` davanti alla sofferenza dell’altro, egli insiste sulla necessita` di ridare importanza alla sofferenza. Non esita, a tal fine, ad avvalersi della differenza sessuale per leggere i comportamenti sociali e indicare originali percorsi di riflessione che aprono strade a una possibile trasformazione dei modi di stare in presenza della sofferenza, della paura che essa sollecita e mobilita. A mio avviso, tuttavia, per capitalizzare l’agire compassionevole nel registro dell’identita` sessuale, conviene appellarsi non tanto al riconoscimento degli ideali sociali della compassione, quanto all’apporto del pensiero femminile piu` avanzato. Un pensiero che ha elaborato un sapere sessuato della relazione materna in quanto relazione che fa vivere, che intrattiene la vita e la assiste con cure materiali e scambio simbolico. Si tratta, cioe`, di fare i conti con gli ideali e le pratiche messe a punto da donne in situazioni concrete, a partire dalla relazione materna di cui esse stesse portano l’imprinting. Alla luce del sapere politico del pensiero della differenza sessuale, non e` piu` questione che le donne debbano “farsi 36 riconoscere virilmente dagli uomini” . Piuttosto, l’affermazione della femminilita`, come “riflessione critica della virilita` per comprendere e giudicare 37 l’azione in rapporto agli ideali e ai valori della compassione” , mette in pericolo il nesso tra virilita` e diniego della sofferenza. Tanto che l’alterita` femminile, liberata dalle costrizioni-incrostazioni socio-culturali, viene negata, combattuta essa stessa. E` l’adesione di uomini e di donne al sistema dei valori della virilita` a fare da ostacolo alla conquista della mascolinita` e all’affermazione della femminilita`, come pure a contrastare l’esercizio 38 dell’autonomia morale soggettiva . 39 Ma “che le infermiere soffrano e` cosa che non fa scandalo” . Anzi, l’aver trasposto nel mondo del lavoro salariato la valorizzazione esasperata della maternita`, prescrivendo una compassione universale, ha fatto sı` che la sofferenza delle curanti sia “testimone della qualita` della loro presenza 40 ‘materna’ presso le persone malate” . La pressione di questa lettura 36 Ivi, p. 61. Per altro l’orrore di una tale sciagurata aspirazione ben lo evidenzia Diana Sartori, Missione del cazzo, soldato Lynndie, “Per amore del mondo”, n. 2, 2004, rivista on-line di Diotima. 37 P. Molinier, Autonomie morale subjective et construction de l’identite´ sexuelle: l’apport de la psychodynamique du travail, cit., p. 61. 38 Cfr. ivi, p. 55. 39 Ibid. 40 Ibid.

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sociale del lavoro infermieristico e` tale che le infermiere per prime debbono guardarsi dal rischio di “lasciarsi trascinare dalla compassione 41 fino alla consumazione, all’esaurimento professionale” . Per essere efficace, infatti, l’agire compassionevole deve rompere “con il paradigma 42 della compassione universale” , e instaurare una vicinanza dove l’incontro tra due soggetti diventi possibile salvando l’identita` di ognuno. E` da lı`, dalla soggettivazione dell’incontro infermiera/paziente che derivano quelle “condotte insolite” tutt’altro che infrequenti in chi e` disposta, in nome della compassione, a fare deviazioni dal rigore professionale imposto. Condotte che, lungi dall’essere “bravate che sfidano il pericolo”, sono azioni che cercano di garantire quel contatto umano che spesso e` l’ultimo baluardo alla miseria di un soggetto ridotto “al corpo del bisogno”. Penso semplicemente al divieto di fumare in ospedale, in certe patologie, oppure al divieto di far entrare in ospedale bambini al di sotto di una certa eta`, come anche all’obbligo di usare maschere guanti scafandri vari nell’assistenza a pazienti potenzialmente infettivi, alle limitazioni di movimento dei pazienti psichicamente disturbati... e alle trasgressioni umanizzanti – compassionevoli le definisce Molinier – fatte individualmente e che sarebbero state improbabili senza l’operativa “saggezza pratica” delle infermiere. Sono loro a mostrare, con il proprio agire, di sapere per esperienza che “l’impossibilita` di rispondere alla dipendenza altrimenti che a livello dei bisogni [...] scatena la violenza nelle persone 43 dipendenti come nelle donne che le curano” . Infatti “la violenza [per una donna] sorge la` dove il legame intersoggettivo collassa”, e comincia con l’indifferenza, “questa negazione dell’altro e di se´ che non e` ancora la 44 violenza ma ne contiene gia` i germi” . Cosicche´ il lavoro infermieristico “implica in un medesimo movimento di innescare l’intersoggettivita` e di 45 disinnescare la violenza” , pur restando per lo piu` un’opera invisibile. Ma “spezzando l’anonimato, la trasgressione compassionevole apre il campo all’angoscia, agli affetti, ai fantasmi. Al punto che il dono di se´ – abnegazione – figura come la forma maggiore della sofferenza delle 46 curanti” . Sovente esse agiscono in un contrasto di sentimenti, in un mescolamento di tendenze che la psicoanalisi ha insegnato a considerare e

41 42 43 44 45 46

Ivi, p. 60. Ibid. P. Molinier, Pre´venir la violence: l’invisibilite´ du travail des femmes, cit., p. 84. Ibid. Ivi, p. 85. P. Molinier, Autonomie morale subjective et construction de l’identite´ sexuelle, cit., p. 60.

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talvolta accettare. La consapevolezza di un “agire in fedelta` a se´” e` gioco forza debba fare i conti con uno scarto di essere che inevitabilmente si 47 mette in atto agendo: “Qualcosa si sottrae a noi strutturalmente” ed ineluttabilmente la risposta alla quale si perviene “e` sempre una risposta in 48 situazione” . Sotto questa luce, mostra tutto il suo limite ogni pretesa di formalizzazione dei comportamenti in regole etiche, protocolli, linee guida. Occorrono piuttosto altri dispositivi capaci di regolare le emozioni definendo un comune sentire nel quale l’azione individuale possa, di volta in volta, trovare riconoscimento e misura.

Tra il riso e le lacrime Il lavoro dell’infermiera occupa una posizione unica: E` un lavoro prescritto dagli uomini ma inventato dalle donne, con regole del mestiere costruite dalle donne e una dinamica del riconoscimento tra donne49.

Ne va, in questa dinamica, del contributo di ciascuna a far sı` che ogni infermiera sia sostenuta “dalla qualita` delle relazioni intersoggettive in 50 seno al collettivo femminile” . E` quello l’ambito nel quale, come indicano le ricerche sulle infermiere e la mia esperienza conferma, nel tempo improduttivo delle pause caffe` o pranzo, e` consuetudine parlare della propria esperienza sensibile fino alle sue dimensioni piu` ambigue. “Tra il riso e le lacrime”, questo e` il clima emotivo nel quale le infermiere si raccontano storie di esperienza vissuta, “storie attraverso le quali si amplifica lo spessore del dramma umano che si ha per missione di 51 sostenere-supportare” . E` grazie a questi racconti informali di scacchi, astuzie, trovate, trasgressioni sulle quali si ride e si fa ridere, che si sedimenta, conferma, critica, trasmette l’esperienza compassionevole e l’agire individuale – segnato dalla personalita` dell’infermiera ma anche da 52 quella del paziente – “s’iscrive dentro ad una medesima catena di senso” . 47

Chiara Zamboni, L’azione perfetta, Centro Culturale Virginia Wolf Gruppo B, Roma 1994, p. 19. 48 Ivi, p. 20. 49 P. Molinier, Pre´venir la violence: l’invisibilite´ du travail des femmes, cit., pp. 79-80. 50 Ivi, p. 83. 51 P. Molinier, Travail et compassion dans le monde hospitalier, cit., p. 56. 52 Ivi, p. 57.

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In questo modo la dura realta` della sofferenza con cui si ha costantemente a che fare, non viene rinnegata ma piuttosto strategicamente elaborata. Attraverso l’abitudine del raccontarsi, che risponde ad una ragione importante, catartico-regolativa, collettivamente si attua la trasformazione creativa e sovversiva della sofferenza in piacere e valorizzazione sociale, passando per la mediazione del senso. Il lavoro infermieristico, la sua qualita` e opportunita`, si gioca costantemente sul crinale impervio di quello che l’infermiera e`, di quello che l’infermiera fa, nella necessita` costante di saper fronteggiare adeguatamente i quotidiani imprevisti. Attraverso il raccontare che e` “messa in trama dell’azione”, passa la costruzione dell’accordo sul “ben agire” infermieristico inevitabilmente connotato dal prescritto e insieme trasgres53 sivo “dono di se´” che caratterizza la qualita` umana del lavoro di cura . Cio` che viene valutato, discusso, approvato, criticato dal collettivo delle infermiere, e` l’appartenenza del dono di se´ e della trasgressione al registro 54 “della compassione nel suo rapporto con l’efficacia” . Cio` che orienta la discussione ed il confronto e` la preoccupazione che l’altro soffra il meno possibile, in quanto questo e` “lo scopo piu` elevato del lavoro infermieristi55 co” . Molinier non lo dice ma a me pare evidente che in questo prezioso quanto misconosciuto relazionarsi tra infermiere ha gioco e corso una forma libera e originale di riconoscimento di autorita` alla parola di donne che raccontano-ascoltano a partire da se´, dal proprio sentire vivo ed incarnato. E` un dirsi e un dire il mondo che tiene conto, in gradi variabili di consapevolezza, dell’esperienza prima della relazione di una donna con la madre. E` lı` che, di fatto, si radica e potenzia un enunciare femminile che fa diventare “significante e significativo” l’essere donna e che fa essere 56 “pensiero pensante” la differenza femminile . Tradurre in racconto le pratiche agite, unire il mondo del sentire ed il pensiero, e` allora per me un modo originale di costruire sapere, una messa alla prova, in relazioni vive ed incarnate, di cio` che ho filosoficamente intuito. Lı` si radica la mia salvezza. Noi non coincidiamo perfettamente con il nostro Io, ma tra il nostro dire e il nostro essere vi e` piuttosto un continuo rimando, un’identificazione non piena. Inoltre siamo costrette a confrontarci con un paradosso: 53

P. Molinier, Autonomie morale subjective et construction de l’identite´ sexuelle, cit., p. 60. Ibid. 55 P. Molinier, Travail et compassion dans le monde hospitalier, cit., p. 57. 56 Cfr. Marı´a-Milagros Rivera Garretas, Nominare il mondo al femminile. Pensiero delle donne e teoria femminista, tr. it. di Emma Scaramuzza, Editori Riuniti, Roma 1998. 54

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Quanto piu` quel che si dice esprime l’essenziale di noi, della nostra singolarita` aperta al mondo e costitutivamente nel mondo [...] tanto piu` il suo valore risiede nel suo lato impersonale.57

Vi e` una costante tensione tra personale e impersonale, nella definizione della singolarita` di ognuno. Il movimento politico delle donne si e` occupato di questa contrapposizione ed ha indicato una pratica efficace – il partire da se´ – per gestirla. Secondo la ricerca di un agire giusto ed efficace, la contraddizione tra l’essere se´ e il dover essere, tra il personale e l’impersonale, e` affrontata tenendo contemporaneamente in gioco ogni elemento “secondo una modalita` propria ed originale del pensiero femmini58 le” . Chiara Zamboni, parlando dell’efficacia della pratica del partire da se´, mette in evidenza come, dall’essere strutturalmente aperte al mondo e agli altri, consegua che nella singolarita` di ognuna vi sia qualcosa di essenziale che serve proprio alla conoscenza del reale. Un reale abitato in comune, del quale ognuna coglie un aspetto singolare che puo` essere reso noto appunto rimettendolo consapevolmente in gioco a partire da un dirne personale in presenza di altre/altri. Cio` implica l’esporsi di ognuna qui e ora, senza poter attendere una perfettibilita` futura di “quando 59 avremo imparato a vivere” . Tuttavia, quella del partire da se´ e` una pratica che non esita ad abbandonare l’immediatezza di “legami confusi di relazioni, di gesti e di discorsi, vissuti per lo piu` senza consapevolez60 za” . Piuttosto, richiede “un attimo di silenzio interiore” che permetta di cogliere come cio` che viviamo sia al contempo personale e impersonale e 61 di come il presente si apra “ad altro da se´ al suo interno” . In gioco non c’e` solo il riconoscimento pieno dell’importanza dell’esperienza, ma la proposta di registrare ed impiegare il sapere originale prodotto da una pratica propria del pensiero femminile. Se “il senso delle relazioni e il fatto che il reale e la pensabilita` del reale non sono indipendenti dalle relazioni 62 tra noi [...], se il reale e` implicato nelle relazioni che ho con altre” , altre hanno bisogno che io mi esponga, giudichi, mostri quel che avverto e quel che sono. Infatti, “la realta` e` segnata anche dal mio sentimento del reale. 63 Espormi ha dunque un significato che va oltre me stessa” . 57 58 59 60 61 62 63

C. Zamboni, L’azione perfetta, cit., p. 25. Ibid. Ivi, p. 23. Ivi, p. 24. Ivi, p. 25. Ivi, pp. 26-27. Ibid.

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L magica forza del negaoivo

Di nuovo si riaffaccia, benche´ trasformata, la questione del coraggio. Qui e` l’autorita` femminile, figura relazionale agita, riconosciuta, attribuita, che permette il rischio dell’esporsi, facendosi rete per il salto ed impedimento a che lo squilibrio generato si faccia distruzione. Resta il fatto che agire e`, per ognuno in prima persona, esporsi al rischio di conseguenze non previste: e` raro, infatti, che regole e risposte valide per ogni contesto siano date in anticipo. L’inquietudine che sottilmente mi possiede trova pero` sollievo se appena avverto di agire in sintonia col mio proprio essere. Personalmente la posta in gioco che continuamente rilancio, e` il riuscire nella sfida di saper stare in compagnia del male senza farmi troppo male, nel doppio senso di soffrirne e di farne soffrire in modo gratuito (o perverso). Rendere parlante la sofferenza e` possibile ma richiede una potenza sufficiente e capace di spostare il piano di essere nella relazione con l’altro, di passare per una mediazione essenziale: il senso. 64 “Il che implica che una certa pubblicita` sia data al lavoro” , in primis tra colleghe, ma non solo. Volendo stare nel mondo in modo civile e politico, bisogna lasciarsi guidare da un agire nel segno della prevenzione, individuazione, disinnesco della violenza fin dalle sue premesse. Un agire che quando riesce, lo so per esperienza, non lascia scorgere il lavoro minuto compiuto per riuscirci. Empatia, compassione, astuto saper fare e saper essere nell’azione, ne sono i requisiti tutt’altro che innati, capaci di indebolire quel nesso diabolico tra rinnegamento della sofferenza e della paura, da una parte, e violenza, dall’altra. A partire da queste riflessioni, leggo il mio agire professionale che so orientato dalla necessita` di mantenermi presso la sofferenza, dell’altro e mia, con l’intento di ridurne o almeno contenerne intensita` e conseguenze, avendo fiducia nelle sue possibili trasformazioni, nella possibilita` di non farsi male in quella doppia accezione di senso permessa dalla lingua. Ne rendo conto lasciando interagire la mia personale esperienza con il pensare piu` teorico di altre e altri, con l’interpellazione violenta che mi arriva dagli eventi tragici del presente, con l’intimo spavento del trovarmi al cospetto di cio` che di estremo consegue al venir meno della capacita` empatica di aver presente l’esperienza vissuta dell’altro, di trovarle uno spazio nella propria mente, di lasciare che accada l’incontro tra soggetti che sono e chiedono di restare differenti. Debbo non ignorare, dunque, quel sentimento personale di turba64

P. Molinier, Autonomie morale subjective et construction de l’identite´ sexuelle, cit., p. 57.

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Soare a conoaooo del male senza farsi male

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mento che cosı` frequentemente mi abita, e interrogare proprio quel corpo sensibile che sono, senza cedere alla tentazione, illusoriamente tranquillizzante, ad accantonare e silenziare cio` che disturba un ordine solo superficiale ed un’efficienza solo ostentata.

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Quando il corpo fa il lavoro del negativo di Delfina Lusiardi

“Ballo con una persona che non e` A ma io so che e` A. Gliene parlo e lui mi dice che non sono io, lui sa che sono io”1. Il sogno crea un contatto con il sentire di una donna ammalata di cancro al seno, il “male” che si manifesta nel corpo. Malattia che presentifica la morte in piu` di un senso. Qualcosa ha reso incerto, anzi ha complicato l’identita` dell’Altro (l’alterita` che balla con me-corpo) e l’identita` dell’io (il chi sono della sognatrice) che vuole essere riconosciuta nelle parole dell’Altro. Nel sogno non c’e` coincidenza fra cio` che e` e cio` che e` saputo: tra essere e sapere si e` creata una dissonanza. Ed e` la dissonanza ad aprire la strada alla possibilita` che reale sia nello stesso istante l’essere e il non essere. Quello che so, dell’Altro e di me, e quello che l’Altro sa di me lasciano vedere la possibilita` di un sapere che contempla il non essere contestualmente all’essere: il non-sono-io nell’io-sono, il non-essere-A nell’essere-A; la possibilita` di pensarli qui, adesso. Di quale sapere si tratti, il sogno non dice. Ma e` evidente che la voce onirica parla una lingua radicalmente diversa non solo dall’antica logica dell’identita`, ma anche dalla moderna Ragione hegeliana, che conferisce al movimento del tempo (il processo dialettico) il potere di conciliare “i contrari” nell’unita`, come realizzazioni differenti e opposte della “vita 2 dell’intiero” . Il sogno si presta a diverse letture. Ma, letto come un aforisma, mostra 3 l’allentarsi della mente tenace , la razionalita` che nella tradizione d’Occidente

1

Sogno riferito da Luciana Ceriani, Il peccato giusto, in AA.VV., Le donne e il cancro al seno, Quaderni di Metis, Milano 2004, p. 90. 2 Cfr. Georg W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, tr. it. di Enrico De Negri La Nuova Italia, Firenze 1984, Prefazione, paragrafo 2; Id., Lezioni sulla filosofia della storia, tr. it. di Guido Calogero e Corrado Fatta, La nuova Italia, Firenze 1941. 3 Cfr. Tsultrim Allione, Donne di saggezza, tr. it. di Gloria Cugurra, Ubaldini Editore, Roma 1985, pp. 67-68.

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L magica forza del negaoivo

ha dato origine a polarita` irriducibili: anima-corpo, vero-falso, bene-male, io-non io, soggetto-oggetto, amico-nemico, vita-morte...; dualismi dai quali il pensiero, attento al vivere di creature incarnate, e` costretto a cercare vie d’uscita. Sono partita da questo sogno per articolare un’intuizione che ho sentito molto chiara e viva fin dagli inizi del mio incontro con il “male”, (lo stesso della sognatrice). Risuonava all’incirca cosı`: e` possibile che una malattia, il mio corpo che ammala di cancro si incarichi di fare “il lavoro del negativo”. E aiuti la mente a farlo molto piu` in fretta di quanto non avrebbe potuto fare la mente stessa, da sola o in relazione. In quel momento iniziale non avrei avuto parole per andare al di la` di questa oscura evidenza del sentire. Come il corpo, colpito dal “male”, puo` fare il “lavoro del negativo” lo rivelano con chiarezza alcuni sogni, come quello che abbiamo letto o altri che ci parlano ora di morte dello sguardo, ora dello sfocarsi del mondo, del regredire, ammalare della vista, ma anche del lacerarsi di strutture che inquadravano e contenevano, e, adesso lasciano intra-vedere, dentro le 4 crepe, il disfarsi della “casa” . E, ancora, di architetture che permettono di vedere attraverso, oltre... Sembra che il mondo, dopo il “guasto”, si riveli con le sue crepe, i suoi vuoti, abbia contorni piu` incerti ed evanescenti. E la forma del parlare sia quella della dissonanza, di frasi spezzate, sospese, dove irrompono silenzi che non danno pace.

L’angoscia della nascita C’e` un lasciarci trasformare nel corpo, che non arriva alla coscienza e non la coinvolge, se non in rari momenti, quando una fitta, una contrattura, un dolore lancinante o sordo ci segnalano che qualcosa di insolito sta succedendo, o (piu` spesso e` cosı`) che qualcosa e` gia` accaduto... Il sintomo e` linguaggio del corpo, quello piu` immediato e piu` brutale. Ma ci sono altri segni che parlano di trasformazioni gia` avvenute, un rigonfiamento sotto pelle, un segno sulla pelle che prima non c’era, una fatica insolita:

4 Mi riferisco al materiale onirico di cui si da` lettura in AA.VV., Le donne e il cancro al seno, cit., pp. 83-84, 86-88, 91-92, 116-118.

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Quando il corpo fa il lavoro del negaoivo

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segnali con i quali astutamente il corpo richiama la nostra attenzione: le 5 astuzie del corpo, le chiama Christa Wolf . Nel corpo femminile, il sangue mestruale, i seni che ingrossano sono segni della sua fecondita` biologica. Sono simboli di un corpo che puo` fare spazio in se´ ad un’ altra creatura e nutrirla, fin dal momento in cui comincia a formarsi. La perdita definitiva di questi segni-simboli puo` essere vissuta da una donna con il sentimento dell’angoscia che c’e` nel non saper prevedere come andra`, se andra`; come sara` vivere dopo... con l’immagine trasformata (violentemente o no) del proprio corpo femminile. Se ne avra` la forza, se sara` capace di nascere ancora, a un altro-corpo. Forse l’angoscia della nascita e` cosı`. Forse, perche´ non abbiamo parole per dire l’esperienza del nostro nascere dal corpo materno. (Come non le abbiamo per dire della nostra morte). Pero` facciamo esperienze analoghe, di altre nascite e di altre morti: le percepiamo, mentre si annunciano o mentre le stiamo vivendo, come esperienze di perdita del 6 corpo che eravamo . Non sempre lasciano segni visibili. Alcune sı`. Il cancro al seno per una donna puo` essere vissuto come un’esperienza di nascita, per quel tanto di morte, senso di perdita del proprio corpo che, tuttavia, continua ad essere presente al mondo. Il corpo che continuo a sentire come me stessa e` gia` anche un corpo-altro, un corpo estraneo... Si e` rotta in me la compattezza che mi faceva sentire tutt’uno, coincidenti io-corpo, mente-corpo. In quel coincidere a tratti io potevo ignorare la coscienza e abbandonarmi del tutto all’esperienza del corpo. Oppure potevo ignorare la vita del corpo ed essere interamente presente alla vita della mente. Si apre uno spazio in me, tra me che desidero, sento, penso, parlo, voglio... e il mio corpo. Questa spaccatura mi fa percepire la vita del corpo come indipendente dalla coscienza, dalla mia volonta` e dal desiderio. Il corpo si rivela come l’altro che vive in me, esige, ha una sua lingua. Allora possono succedere molte cose. Puo` succedere che lo rifiuti, allontani dalla coscienza le sue esigenze, mi sottragga ai suoi segnali, li voglia ignorare... Oppure succede che io impari a prestare attenzione ai suoi segni, e impari a stare in presenza di questo altro in uno scambio che solo a tratti, 5

Cfr. Christa Wolf, Trama d’infanzia, tr. it. di Anita Raja, Edizioni e/o, Roma 1987, p. 401. 6 Cfr. Franc¸oise Dolto, Parler de la mort, Gallimard, Paris 1998.

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dopo un paziente e lungo tragitto insieme, puo` raggiungere la comunione, l’armonia, la confidenza. Agli inizi c’e` piuttosto conflitto: resistenza da parte del corpo; rabbia, sentimento d’offesa, di tradimento da parte mia. E, cosa che mi pare la piu` significativa per poter parlare di esperienza della nascita, vedo che questo altro-corpo (che ha cominciato a parlare in me e con me) mi trascina in regioni che dilatano la mia coscienza, ma la confondono di piu` e la spogliano di certezze. Io non so piu` bene cosa so e cosa desidero, cosa e` in mio potere fare. Ma, se ci sto a farmi mettere dal corpo in quel punto dove so che non potro` fare a meno di lui (riconosco la sua potenza, il suo bisogno), se faccio attenzione alle sue resistenze, tengo conto dei suoi consigli... allora lı`, in quel punto dove la materia e` piu` densa e opaca, trovo il mio reale radicamento nella vita. La radice materiale, la verita` dell’essere-che-sono. Posso ritrovare il senso della mia in-carnazione. Puo` essere la sventura, il malheur, a farmi ritrovare quel senso, se l’avevo perduto.

A contatto del “male” Il legame tra sventura e verita`, in vari modi sottolineato da Simone Weil nei suoi scritti, e` d’aiuto a non perdere il contatto con la verita` del “male” che viviamo nel corpo, ricordandoci che “nel caso della sventura biologica”, quella di malattie che provocano guasti irreparabili e/o sofferenze indicibili, “il sogno” e` “la radice del male”. Il sogno che allontana dal 7 reale . Nel luogo dove (non certo per volonta` personale) ci si trova messi di colpo dalla sventura, si fa sentire con particolare chiarezza il bisogno di verita`. Uno dei bisogni radicali dell’anima umana. A premere verso il bisogno di verita` e` la sofferenza del conflitto tra la lingua che sento parlare in me e la lingua che parla fuori, intorno a me. 7

Cfr. Simone Weil, Joe¨ Bousquet, Corrispondenza, tr. it. a cura di Adriano Marchetti, SE, Milano 1994, pp. 31-42. Rinunciare al sogno “per amore della verita`” [...] “significa realmente portare la croce. Il tempo e` la croce [...] il sogno e` la menzogna. Esclude l’amore. L’amore e` reale.” (Ivi, p. 36). Sono parole di Weil nella Lettera del 12 maggio 1942 a Joe¨ Bousquet, il poeta di Carcassonne, un grande invalido della prima guerra mondiale, al quale Simone Weil si rivolge per chiedere un giudizio e sostegno al suo progetto di “un corpo di infermiere di prima linea”. Dall’incontro nasce un’amicizia intensa. Al poeta, che porta conficcata nella sua carne la sventura della guerra, Weil chiede di dire cos’e` la guerra.

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Quando il corpo fa il lavoro del negaoivo

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Sebbene il linguaggio corrente continui a chiamare “male” il cancro, il “brutto male”, e lo impieghi come metafora del male, facendolo persistere nell’immaginario collettivo come personificazione del male assoluto, io non sono piu` certa che sia cosı`. Questa e` la prima certezza, che nell’esperienza del cancro e` caduta. Il cancro e` una malattia che mette, chi la vive personalmente e la medicina che lo cura, nella condizione di sopportare la verita` di un limite. Cerco di chiarirlo raccontando di un istante. Non ho trovato che la parola sgomento per dire dell’istante nel quale le mie mani hanno sentito un ispessimento sotto pelle al seno sinistro, che prima non c’era, e io ho pensato: ecco ci siamo. Un brivido lungo la schiena, la paura. Non una paura che paralizza a lungo, ma una paura che risveglia... dalla distrazione. E fa vedere (niente di piu` che un immagine fuggevole) come si potrebbe vivere senza il peso di giorni morti. Ci sono rari momenti nei quali noi tocchiamo il Reale, dice Franc¸oise 8 Dolto . Se ho capito bene cosa intende la psicoanalista francese, quello e` stato per me uno di questi rari momenti. Oscuramente ho sentito tutto il rischio che c’e` nell’abbandonarsi con fiducia innocente al proprio corpo, quando questo ha perso l’orientamento e si e` messo misteriosamente su una strada dove lasciato a se´ arrivera` in fretta alla morte. Ho passato un po’ di tempo, alcuni giorni, a dirmi che le mie mani avevano percepito male, che chissa`... E tornavo a toccare, a investigare... (come avevo imparato a fare negli anni del femminismo, nelle sedute di self-help alle quali partecipavo con una certa ironia). Poi mi dicevo che forse era qualcosa di benigno che si sarebbe sciolto da solo... I modi per evitare sono molti. Era la fine dell’estate, ricominciavano le lezioni... Avrei potuto lasciarmi distrarre... E invece ho sentito che potevo “andare a vedere”. “Andare a vedere” e` l’espressione del medico al quale mi sono rivolta: “Signora alla sua eta` e` bene andare a vedere cosa c’e` in quella patata”. L’ho scelto come chirurgo, proprio perche´ parlava cosı`, senza mascherare l’incertezza dei mezzi diagnostici coprendola con parole che gelano l’anima e interrompono ogni scambio tra esseri umani. Avevo deciso di fare tesoro del segnale che il corpo mi aveva mandato. Senza saperlo, verso il mio corpo ammalato, mi ero comportata

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Cfr. F. Dolto, Parler de la mort, cit.

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secondo la saggezza delle fiabe, che insegna a non ferire mai l’animale 9 soccorrevole e consiglia di obbedirgli . E ho capito che le ragioni per le quali una donna, un uomo decidono in quel preciso momento della loro esistenza di “andare a vedere” sono talmente oscure, intime e confuse da far cadere ogni rigida distinzione tra bene e male. Gli imperativi morali ed etici che ci dicono “bisogna fare cosı`”, “andare a vedere” e` giusto, saltano quando l’angoscia di morte si risveglia e non trova argini che la contengano. Fare accertamenti, chiedere aiuto alla medicina e` giudicato bene dall’opinione diffusa. Ma possiamo dire che e` sempre “bene” non lasciare che il corpo proceda lungo la strada che ha preso? Di fronte all’annunciarsi del cancro, ci si trova spogliati subito dell’innocenza che non tiene presente il “male” (la malattia come strada che il corpo puo` prendere), si perde la fiducia ingenua che non contempla la vulnerabilita` e non conosce il limite di cio` che e` in nostro potere fare e non fare di fronte alla morte. Il corpo che ammala di cancro mi fa vedere che io non posso fare niente che renda reversibile il guasto che c’e` gia`. (Il cancro mette di fronte al guasto quando si e` gia` verificato). Mi trovo messa in una condizione nella quale il corpo viene a rivelarmi il niente che so e posso fare. E, tuttavia, mi richiama al fatto che io so tutto quello che c’e` da sapere e posso fare tutto quello che c’e` da fare, in questa circostanza. C’e` una durezza nel riconoscere la verita` del limite. Tutto quello che io, in presenza del cancro, in fase avanzata o meno, posso fare e`: lasciare che il processo si compia fino alla fine o fare qualcosa, chiedere aiuto per bloccare quel processo, offrire al mio corpo un aiuto perche´ possa ritrovare la strada che mi terra` ancora nella vita... con un corpo che avra` conosciuto una radicale trasformazione. Sentire se posso lasciarmi trasformare dalla malattia oppure se mi sto ribellando a un fatto che percepisco come uno sbrego insopportabile, un’offesa nel corpo e nell’anima. 10 Simone Weil ci parla di “qualcosa”, presente “nell’intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta

9

Cfr. Marie-Louise von Franz, L’ombra e il male nella fiaba, tr. it. di Silvia Stefani, Bollati Boringhieri, Torino, 1995. 10 Simone Weil, La persona e il sacro, in Giancarlo Gaeta, Simone Weil, Edizioni Cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1992, p. 142.

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l’esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati”, “che si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene e non del male. E` questo, prima di tutto, che e` sacro in ogni essere umano”. Nella condizione di totale dipendenza in cui mi trovo ammalando di una malattia che genera una radicale incertezza e mette nella condizione di accettare che altri si prendano cura di me, del mio corpo, il bisogno che non venga violato quel senso-originario-della-fiducia (l’intima invincibile attesa del bene) puo` risvegliarsi con forza e costituire l’inconsapevole misura, il punto nel quale io vedo lucidamente le mie maschere, che cadono (la maschera dell’autosufficienza, dell’orgoglio...) e intuisco soprattutto da come mi parla, tra coloro che si propongono per la cura, chi sente il grido muto della creatura e chi, per varie ragioni, ne ha perduto la sensibilita`, chi non ha piu` (se mai l’ha avuto) l’organo che lo fa udire.... Se e` questa sensibilita` che agisce in lui, in lei e lo fa agire. O se e` qualcos’altro: la vanita`, il prestigio, la paura rimossa... C’e` la possibilita` di far sentire la richiesta (che non mi venga fatto del male), da parte del/della paziente, senza che la si debba formulare, tenendola intimamente presente come misura della relazione. Io, paziente, sento se in chi entra a contatto con il mio corpo, quella sensibilita` non e` del tutto perduta, ma solo oscurata dalla sofferenza alla quale e` esposto anche chi cura il “male” degli altri (il peso della quotidianita`, l’esposizione al dolore senza protezione... il contatto ravvicinato quotidiano con la 11 sventura dell’altro, dell’altra, suoi simili) o se e` tenuta imprigionata nella gabbia del ruolo, dall’attaccamento all’ordine rigido dell’istituzione. La qualita` del curare dipende in larga misura da questa sensibilita`: da lı` derivano le relazioni terapeutiche riuscite. E riuscite non significa che portino sempre alla guarigione. (Ci sono malattie che non possono risolversi con la guarigione). Se in una relazione terapeutica efficace circola questa sensibilita`, la paziente, il paziente e` aiutato a stare nel tempo dell’attesa con fiducia. La calma interiore non spinge il/la terapeuta a dare inutili consolazioni, fa percepire che si puo` stare a contatto del “male” con i mezzi che ci sono, nel limite di quei mezzi. Cosı` il/la curante non copre l’incertezza della medicina con parole superflue o incomprensibili. Se chi cura non ha

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Mi ha aiutato a riconoscere questa sofferenza Daniela Riboli, con la quale c’e` stato uno scambio fecondo in occasione della lezione al “Grande seminario” che abbiamo condotto insieme, a due voci con il titolo “A contatto del male senza farsi male”. In preparazione del lavoro con lei, era stata preziosa la lettura di un articolo di Pascale Molinier, Travail et compassion dans le monde hospitalier, “Cahiers du genre”, n. 28, pp. 49-70.

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L magica forza del negaoivo

orrore del “male”, se ha risolto dentro di se´ l’angoscia, puo` sostenere la persona malata nell’accogliere la trasformazione iniziata, sentendo la verita` che il paziente, la paziente e` in grado di sopportare in quel preciso momento, senza costringerlo, o costringerla a fare come se niente fosse accaduto, ma anche senza spingerlo, spingerla verso inutili incursioni nel futuro e nel passato. E senza sottrarsi alla responsabilita` di orientare, di aiutare a scegliere, per la competenza che ha e che e` sua.

Il “male” si cura Quelli che il sapere-potere medico definisce come passaggi critici non sempre lo sono realmente per chi li vive. Il sapere medico puo` ignorare o sottovalutare la criticita` di alcuni passaggi ed enfatizzarne altri. Puo` tenere in gran conto alcuni sintomi, sopportabili, e ignorare o tacerne altri. Puo` spingere una donna, un uomo a figurarsi un futuro catastrofico e non vede, non sa vedere e dunque non aiuta a vedere quello che ci puo` essere: la bellezza e l’intensita` della vita, nel presente. Anche nel presente della malattia che chiamiamo cancro. Nella cura del cancro c’e` chi fa cosı`. Credo che sia perche´ ha paura. La drammatizzazione nasce sempre da una paura rimossa, che si esorcizza proiettandola fuori di se´, nell’altro, nell’altra che si pretende di curare. Chi cura ha molto lavoro da fare per riconoscere quella paura, per evitare che 12 “come un fiume carsico” la paura di chi cura si trasmetta a chi e` curato . C’e` (fortunatamente in tutti i diversi momenti di cura del cancro ho trovato) chi sa misurarsi con il cancro e con la paura che il solo nominarlo suscita, senza drammatizzarla. E questo e` determinante per stare in presenza del male con la pazienza necessaria. L’esperienza del cancro puo` rivelarsi l’occasione per disciplinare la mente a stare lı`, in presenza del male, nel presente della malattia senza 13 investigare troppo . E soprattutto (questo e` un rischio che si corre) senza cercare nel passato le manchevolezze, gli errori, le colpe... mie, di altri. C’e` la tentazione di fare questo, quando siamo, la medicina stessa e` di fronte ad un mistero. Nell’opinione diffusa, quando si pensa a curare un corpo ammalato di cancro, si pensa ai momenti che l’istituzione medica mette in risalto. La 12

Sono parole di Gemma Martino, terapeuta, al seminario “Verso un sapere del sentire”, Universita` delle donne Simone De Beauvoir, Brescia 2000. 13 Cfr. M. L. von Franz, L’ombra e il male nella fiaba, cit.

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Quando il corpo fa il lavoro del negaoivo

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risposta piu` primitiva al male: l’uccisione del drago. In primo piano e` l’intervento chirurgico, la chirurgia, che demolisce e ricostruisce, taglia via il male, le cellule frenetiche che si nutrono dell’energia del corpo, la radioterapia che bombarda, rende inerti le cellule cancerogene che possono essere sfuggite al bisturi, la chemioterapia, che fa fare ai farmaci quello che le difese immunitarie non possono fare: “un ombrello protettivo” dato al corpo che non puo` fare da solo, come in altri momenti era riuscito a fare. Il servizio sanitario offre gratuitamente questi interventi. E i controlli: tenere d’occhio il drago, che non si ripresenti. I prestiti metaforici tra linguaggio medico e linguaggio bellico, nel caso del cancro, rendono difficile uscire da un immaginario di “guerra” contro il “male”, pensare al corpo alterato o abitato dal cancro come a un corpo da curare.

Lasciare che la cicatrice si riapra Al contrario, quando una malattia modifica la percezione di se´ e del mondo ed e` sentita, da chi la vive, come una ferita simbolica radicale, occorre una lingua che sappia ospitare il “male” senza demonizzarlo: un cambiamento nel linguaggio della cura necessario perche´ l’evento possa essere trattato dalla medicina e riconosciuto dalla paziente (dal paziente) nel suo significato soggettivo. Nel mio caso, ho visto che non potevo fare a meno di andare al passato, ma sentivo che non mi faceva bene tenere lo sguardo rivolto all’indietro. Avevo bisogno che il passato venisse, senza forzarlo, nel presente. Pochi fili per attraversare la frattura con il sentimento di una continuita` profonda nella discontinuita`. Avevo bisogno di questi pochi fili, il passato lontano degli inizi. E quello piu` recente, l’inizio di questa malattia (il “presente remoto” lo 14 chiamerebbe Gloria Zanardo) : il punto nel quale il mio corpo mi aveva messo nell’istante in cui aveva annunciato la presenza del cancro al seno. Quel punto, ho avuto bisogno di non perderlo. E ho tuttora bisogno di ritrovarlo, ogni volta che la vita mi spinge ad allontanarmi. Lı`, io sento che non c’e` ne´ vergogna ne´ umiliazione nella sventura che ferisce nel corpo e nell’anima. Lı` l’ombra dell’orgoglio si dissolve e lascia il posto alla consapevolezza, dolorosa se vogliamo, del reale. Stando in quel punto posso distinguere bene che differenza c’e` tra umiliazione e umilta`. Per ritrovarlo, mi sono resa disponibile a lasciare “riaprire la cicatri14

Cfr. Gloria Zanardo, Presente remoto, Luciana Tufani, Ferrara 2000.

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ce”. L’espressione e` della terapeuta che ha fatto questo lavoro. Ha definito cosı` il lavoro delle sue mani sul mio corpo, il lavoro con le immagini dei sogni che nella relazione terapeutica uscivano dall’oscurita`. Mi ha iniziata, in questo modo, al difficile dialogo con il mio corpo, aiutandomi a ritrovare i confini che la malattia aveva ridotto al luogo della cicatrice, restituendo sensibilita` alla pelle ferita, spontaneita` ai gesti fondamentali per riuscire ancora ad abbracciare, andare con un “corpo altro” verso altri corpi... Ma, nel discendere attraverso la cicatrice aperta, si puo` imboccare una strada che fa incontrare alcuni ‘diavoli’ (i sentimenti che distruggono i legami: la rabbia chiusa nel risentimento, non la bella rabbia che rimette in movimento le cose e ci toglie da rapporti mortificanti; l’invidia, il senso di colpa...). Questi sentimenti, che prima restavano ben acquattati, possono uscire fuori al momento del disastro, quando la vita perde il suo orientamento. E, allora, ho capito che bisogna tenerla aperta la cicatrice, che occorre continuare a scendere per poter salire, trascendere: trovare cioe` uno sguardo che sa vedere cosa e` bene slegare, cosa lasciar andare. E come farlo. Tenendo presente che il diavolo e` un imbroglione molto furbo. E vorrebbe indurci a slegare anche e soprattutto cio` che l’amore, quello che ci tiene in vita, unisce.

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Quando il reale si crepa di Chiara Zamboni

Stare vicina al dolore, al dissidio, alla lacerazione per un accadere brutale, per slittamenti storici improvvisi, mi e` difficile. Il negativo fa paura. La paura segnala che qualche cosa viene perso in modo irreversibile. La crepa che si apre nel reale cambia il rapporto che abbiamo con esso. Di fronte allo scavarsi di un’assenza, all’approfondirsi di un baratro, ho visto in me e in altre – donne dunque soprattutto –, il desiderio di cercare di sanare la ferita della realta`, che comunque si avverte, imponendosi nuovi doveri, un impegno maggiore, come se, regolando eticamente il proprio comportamento, si riuscisse a rammendare lo strappo. Mi sono convinta che il sacrificarsi per il bene di una situazione, idealizzandola, – un legame, un lavoro, la comunita` grande a cui ci sentiamo di appartenere – ha uno stretto rapporto con la paura nei confronti di cio` che in quella situazione e` sconnesso, e con l’incapacita` di sopportare cio` che ci ferisce. La differenza maschile segue, in queste situazioni, altre vie, con le quali pero` ci troviamo a misurarci. Il legame tra la paura di stare presso le lacerazioni del reale e il proliferare di discorsi etici e` l’idea che mi ha spinto ad interrogarmi sull’orrore e il fascino che ha per me il negativo. La sua forza disgregante. E` un cammino che ho incominciato e non so dove mi portera`. Da dove incominciare? Incomincerei da un’idea, che ritorna nei testi di meditazione, e che possiamo leggere religiosamente e filosoficamente assieme. Si tratta di un’idea che non ha creato sistemi di pensiero, e percio` e` rimasta viva. Eccola: nella nostra vita si alternano la presenza e il non esserci. Certo, la filosofia occidentale direbbe l’essere e il non essere, ma sarebbe diverso, perche´ la filosofia considera il non essere come imperfezione, qualcosa di meno dell’essere, oppure come l’antagonista negativo, che fa cadere nel nichilismo. L’esperienza esistenziale insegna invece che il non essere si alterna all’essere all’interno di un processo, in modo imprevisto, ma non sempre distruttivo e antagonista. Il “non esserci” certo non e` un termine sinonimo di “negativo”,

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tuttavia ha un legame con il modo in cui ci rappresentiamo il negativo, ce lo immaginiamo e reagiamo ad esso. Per questo mi fermo un poco su di esso. Porto un primo esempio. In molti testi della mistica femminile ritorna la figura di un’esperienza presente di unione con il divino, che pero` non puo` essere trattenuta, e lascia poi in chi l’ha vissuta un sentimento di assenza, un deserto. Essa provoca un atteggiamento di attesa per un’altra esperienza di presenza. Teresa D’Avila nel Libro della mia vita descrive i rapimenti o estasi come momenti di grande intensita`, nei quali sono coinvolti sia l’anima che il corpo. Queste sono esperienze che lei vive ad 1 intervalli , e che la lasciano – finita l’esperienza – in una condizione di solitudine e grande distacco dal coinvolgimento nella vita quotidiana. E` un patimento che ha il sapore di una condizione passiva di attesa. A questo stadio del suo percorso spirituale, la vita e` un alternarsi di godimento e patimento, di un esserci intensificato e di un deserto vissuto come distacco, 2 non esserci alle cose del mondo . Anche in uno dei testi piu` importanti del taoismo cinese, il Tao teˆ ching, si parla dell’alternarsi del non essere e dell’essere. Duyvendack cosı` traduce il primo aforisma: La Via veramente Via non e` una via costante./I Termini veramente Termini non sono termini costanti./Il termine Non-essere indica l’inizio del cielo e della terra; il termine Essere indica la Madre delle diecimila cose./ Cosı`, e` grazie al costante alternarsi del Non-essere e dell’Essere che si 3 vedranno dell’uno il prodigio, dell’altro i confini .

La filosofia cinese, nonostante sia conosciuta in Europa dal ’600, ha inciso poco sul pensiero occidentale, lasciata ai margini come non degna di stare sul piano della filosofia maggiore, come e` successo anche per la mistica. Nel pensiero occidentale, a partire dalla filosofia greca, c’e` stato infatti un costante e forte dominio dell’idea di essere, tanto che il non essere ha finito per diventare una spina nel fianco. Per questo il non essere e` stato ridotto a qualcosa di marginale, come cio` che da` spazio alla modificazione da essere ad essere, come nel VII libro della Metafisica di Aristotele, o cio` 1 Cfr. Teresa D’Avila, Libro della mia vita, tr. it. di Letizia Falzone, Mondadori, Milano 1986, pp. 160-167. 2 Cfr. ibid. 3 Tao Teˆ Ching. Il libro della Via e della Virtu`, a cura di J. J. L. Duyvendak, tr. it. di Anna Devoto, Adelphi, Milano 1973, p. 27.

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che permette di esprimere le differenze, come nel Parmenide di Platone. Oppure come imperfezione nelle Enneadi di Plotino. Sul versante gnostico essere e non essere sono stati invece considerati come due principi autonomi – quello della Luce e quello delle Tenebre –, dove il secondo 4 attacca e combatte il primo per ottenerne il predominio . Il riferimento al Tao teˆ ching e` per me importante non solo perche´ mostra la possibilita` di pensare un processo in cui ci sia questa mobilita` tra essere e non essere, ma anche perche´ il confronto con la lingua cinese mi ha portato ad avere una maggiore sensibilita` per le molteplici sfumature del significato di essere e dunque di non essere. You e wu sono tradotti generalmente dal cinese con essere e non essere, ma la traduzione piu` giusta sarebbe “esserci” e “non esserci”. Mentre nel pensiero occidentale essere ed esserci sono due termini diversi, in cinese c’e` soltanto un termine: you e wou, che significa un essere e un non essere sempre 5 concreto . Com’e` che invece noi abbiamo due termini per indicare non essere e non esserci? Come mai due significati diversi? Nella lingua greca, come nelle altre lingue indoeuropee, il verbo essere comprende in se´ la funzione che permette di dire la qualita` di qualcosa (“e` bello”), di esprimere l’esistenza (“Il mondo e`”) e puo` essere anche nominalizzato, facendogli 6 precedere l’articolo. Lo si fa cioe` diventare un oggetto: l’essere . La filosofia greca ha sfruttato queste possibilita` della lingua, sviluppando soprattutto la nominalizzazione che porta ad oggettivare l’essere. Da qui le tante diverse metafisiche. Ma e` rimasta la polisemia di senso, per cui il significato concreto di esistere, esserci in un luogo, in una situazione ha una connessione con l’essere. Questo almeno fino al ’600. Verso il XVII secolo in Europa si e` incominciato a differenziare l’essere dall’esserci, cioe` dall’essere esistenziale. Questo prima in Kant e poi in Hegel: entrambi hanno cosı` nominato l’esistenza reale, concreta, che ha una certa differenza dall’essere. Le donne che nel ’900 hanno ragionato sull’essere lo hanno fatto 4

Cfr. Hans Jonas, Lo gnosticismo, tr. it. di Margherita Riccati di Ceva, S.E.I, Torino 1991, in particolare pp. 227-233. 5 Cfr. Angus C. Graham, La ricerca del Tao. Il dibattito filosofico nella Cina classica, tr. it. di Riccardo Fracasso, Neri Pozza, Vicenza 1999, pp. 303-304 e Angus C. Graham, “Being” in western philosophy compared with “shi/fei” and “yu/wu” in chinese philosophy, in Id., Studies in chinese philosophy and philosophical literature, National University of Singapore Institute of East Asia Philosophy, Singapore 1986, pp. 323-359. 6 Cfr. E´mile Benveniste, Categorie di pensiero ed essere, in Id., Problemi di linguistica generale, tr. it. di M. Vittoria Giuliani, Il Saggiatore, Milano 1971, pp. 81-88.

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sbilanciandolo molto verso il suo significato interno e latente di esserci, senza pero` separare essere da esserci. Ho in mente Mary Daly, quando, in Al di la` di Dio Padre, parla delle donne e del loro possibile coraggio di essere affinche´ si sottraggano ai ruoli convenzionali, dove per lei essere e` internamente inclinato verso il polo dell’esserci. Oppure quando Irigaray, in L’oubli de l’air, riprende il concetto di essere in polemica con Heidegger, mostrando come esso abbia la natura dell’aria nella sua inspirazione ed espirazione: l’aprirsi e il rinchiudersi dell’essere ha il ritmo del respiro. 7 Respiro che accomuna la natura agli esseri umani . Penso anche a Marı´a Zambrano che ne I beati vede l’essere e la vita in esilio l’uno dall’altra: soltanto nei momenti guidati da amore essi ritornano ad essere uniti, come la loro destinazione piu` propria. Io credo che non sia un caso che tutte e tre abbiano valorizzato un’intermittenza dell’essere, una sua intensificazione e rarefazione, un respiro ritmico, proprio perche´ hanno sbilanciato il significato di essere 8 verso l’esserci dell’esistenza . In particolare Zambrano polemizza con Platone in Filosofia e poesia: coinvolto dallo stupore nei confronti di cio` che e`, Platone ha voluto rendere eterno cio` che amava e sentiva fragile non accettandone la fine, riducendo dunque il non essere alla sola differenza di una cosa nei confronti di un’altra, escludendo che il non esserci possa essere vissuto in modo autonomo, mentre i poeti – scrive Zambrano – hanno saputo amare le cose che sono e contemporaneamente accettarne, 9 se pure con dolore, la perdita, il tramonto . Occorre un certo processo di apertura interiore per accogliere il negativo nella propria vita. Per considerarlo come possibile, senza che questo ci faccia cadere nel relativismo di tutto con tutto, in quell’indifferenza ottusa rispetto a se´ e agli altri che spesso chiamiamo nichilismo. Ci sono molte donne – e una parte di me vi si identifica –, che si pongono come strenue “avvocate” e operatrici della continuita` dell’essere

Cfr. Luce Irigaray, L’oubli de l’air, E´ditions de Minuit, Paris 1983, pp. 59 ss. Tutto il testo riporta l’essere all’esistere degli uomini e delle donne. 8 Ina Pretorius, una notevole teologa svizzera, ha lavorato sul concetto di esserci delle donne, legandolo alla vita quotidiana e domestica. Sarebbe interessante vedere che rapporto essa ponga con l’essere nei suoi scritti. Si legga un suo articolo su “Via Dogana”, nel quale tuttavia non affronta il rapporto con l’essere, limitandosi all’esserci. Cfr. Ina Pretorius, La filosofia del saper esserci. Per una politica del simbolico, tr. it. di Traudel Sattler, “Via Dogana”, n. 60, 2002, pp. 3-7. 9 Cfr. Marı´a Zambrano, Poesia e filosofia, tr. it. di Lucio Sessa, Pendragon, Bologna 1998, pp. 31-52. 7

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Quando il reale si crepa

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nella loro esistenza, rifiutando i momenti di non essere: sono proprio quelle che tendono a darsi un comportamento etico, con compiti e regole, di fronte ad una crepa del reale. Offrono il sacrificio di se´, perche´ tutto continui eternamente. Se Platone punta sul pensiero per salvare le cose nella dimensione dell’eternita` dell’idea, evitando la sofferenza del venire meno di cio` che ama, le donne sacrificano se stesse. Un passo ben diverso che segnala la differenza femminile nel cercare di medicare il dolore per una assenza percepita come pericolosa. In momenti di grande lacerazione ho sentito donne affermare che avevano bisogno di piu` grandi doveri, perche´ quelli consueti non erano piu` sufficienti. Era un modo indiretto e non consapevole di voler ritessere l’ordine, che si era disgregato, attraverso l’atto di modellare il proprio comportamento: regolando eticamente il proprio agire era come se fantasticamente si eliminasse il disordine. Si fa di se´ il ponte per il ritorno dell’ordine, offrendosi come corpo vivo e anima orientata dal desiderio di servire. Lo si fa con un atto di volonta` molto forte, centrato sulla capacita` di modificarsi a proprio piacimento, per ristabilire la continuita` perduta fuori di se´. E` un’azione concreta e inconsapevole nella sua complessita`, in cui ci si pone – anima e corpo – al centro della scena per evitare di registrare qualcosa che ci fa male. Ci sono alcuni aspetti dell’esperienza di Etty Hillesum, la ragazza ebrea olandese che scrisse una diario su quel che visse durante l’inizio della deportazione degli ebrei, che mi ricorda in parte un agire di questo genere. La Hillesum si trovo` di fronte ad una persecuzione ingiustificata dei tedeschi nei confronti degli ebrei ad Amsterdam. Apparentemente senza senso. Lei stessa ebrea, si convinse molto velocemente che i tedeschi volevano lo sterminio degli ebrei. Con uno sguardo attento incomincia ad annotare quel che vede sia nel comportamento dei tedeschi che in quello degli ebrei e in se stessa. Si rende conto che tutto quello in cui ha creduto e` divenuto inutile rispetto a quello a cui assiste e partecipa. Il baratro che si e` creato nel reale sı` e` fatto troppo profondo. Lei lo sa vedere, a differenza di quelli che soffrono solo superficialmente e restano in realta` 10 ottimisti . Di fronte al baratro, segue dentro di se´ due vie molto diverse. Una e` quella di accettare la sofferenza di cio` che avviene, rendendosi conto che, quanto piu` l’accoglie, tanto piu` la sua anima si allarga fino ad 11 aprirsi e sentire tutti i fatti, buoni o cattivi che siano . Non c’e` in questo 10

Cfr. Etty Hillesum, Diario 1941-1943, tr. it. di Chiara Passanti, Adelphi, Milano 1985, p. 183. 11 Cfr. ivi, p. 185 e Etty Hillesum, Lettere 1942-1943, a cura di Chiara Passanti, Adelphi, Milano 1990, p. 105.

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un imporsi doveri, ma la consapevolezza che prendere su di se´ il dolore, patirlo come ha fatto spontaneamente, lasciando liberta` al suo essere 12 13 profondo , l’ha portata ad accogliere tutto, il bene come il male . L’altra reazione che ha di fronte al baratro e` di tutt’altra specie. La Hillesum scrive: Dio e` impotente di fronte al male, alla violenza, non puo` 14 intervenire . Non di Dio e` la colpa del male, ma sua e degli altri esseri umani. Lei si assume la responsabilita` dunque di eliminare il male iniziando a cancellarlo dalla sua anima. Strappando tutto il “marciume” 15 che c’e` in lei stessa, per diminuire il “marciume” nel mondo . Non 16 odiando, per non aumentare un atomo di odio nel mondo : impegnandosi piuttosto a trovare dentro di se´ un pezzetto di bonta` da contrapporre ad ogni crimine. E` questo che intendo per via etica che fantasticamente le serve per risanare la ferita del reale. La prima strada e` uno dei modi che alcune donne hanno trovato per costeggiare il negativo: guardarlo, accoglierlo, patendone; in questo modo finiscono per modificarlo in una dimensione simbolica. Non a caso la Hillesum insiste sulla necessita` di trovare le parole giuste, le parole poetiche, per dire la verita` di quello che accade ad Amsterdam nel consiglio ebraico, a Wersterbork nel campo di smistamento, dove sono ammassate le famiglie ebree prima che i treni blindati partano. C’e` bisogno di trovarle, ne va di qualcosa d’essenziale. E` la strada dove l’accettare la sofferenza per quello che avviene permette di saper vedere e sostenere interiormente l’ambiguita` del reale. L’ambiguita`: il soldato tedesco che raccoglie fiori nel campo di lupini e` lo stesso che organizza con altri i treni blindati che portano gli ebrei ai campi di sterminio. Ci sono ebrei che hanno le radici piantate cosı` solidamente nella loro vita che sanno affrontare quel che avviene e altri senza radici che si lasciano morire. C’e` questo e questo. E, e... Se di fronte al negativo molte donne reagiscono ponendo il proprio corpo e l’anima nel luogo dove si immaginano di ritessere il tessuto lacerato, sacrificandosi, la reazioni degli uomini sono altre. Per limitare il non essere adoperano o la forza, creando ulteriore sofferenza, o quel tipo di pensiero, che evita di sostare presso la crepa. In questo secondo caso,

12 13 14 15 16

Cfr. Cfr. Cfr. Cfr. Cfr.

E. Hillesum, Diario 1941-1943, cit., p. 87. E. Hillesum, Lettere 1942-1943, cit., p. 75 e p. 105. ivi, p. 75. E. Hillesum, Diario 1941-1943, cit., pp. 99-100. ivi, p. 212.

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che mi interessa di piu` perche´ e` proprio di solito di quelli che considero di “buona volonta`”, essi avvertono che ci sono crepe nel reale, e, invece di accettarle semplicemente, le rinforzano creando a loro volta separazioni, ritagli, scissioni nel pensiero, che non avevano necessita` d’essere. Porto come esempio Aristotele, che ha distinto l’attivita` della conoscenza, dall’agire pratico e dalle altre attivita` creative: questa separazione ha influenzato il modo di pensare successivo nella cultura europea, perche´ evidentemente molto della differenza maschile si ritrova nel gesto di separare, tagliare e ritagliare. Nella politica dei partiti oggi viene riproposta la scissione tra le tecniche oggettive di governo e le scelte etiche. E anche in economia si distingue tra interventi legati alle leggi del mercato e appelli alla necessita` di comportamenti etici, il che segnala un malessere profondo. C’e` esperienza di non essere nell’essere, che e` stata avvertita ma non accolta, e il sintomo di cio` e` stato la insistente volonta` maschile di distinguere definendo. E, dopo aver separato e definito per cristallizzare e limitare quel vuoto che avvertivano, molti vorrebbero riunire cio` che e` stato separato, ma non e` piu` possibile. Alcuni si affidano alla volonta` di potenza per superare il non essere con un balzo. Nella storia maschile e` il primo Novecento che ha segnato uno smagliarsi dell’essere roso dal non essere in modo profondo e a prima vista irreversibile. Molte ne sono le testimonianze. Una delle piu` poetiche e` quella di Hugo von Hofmannsthal, nella sua Lettera di Lord Chandos, dove l’uomo che racconta lamenta che le parole si sono separate dalle cose: le parole abituali risuonano senza piu` significato, e non creano piu` nessun legame dentro di lui. Le cose allora – l’innaffiatoio lasciato nel giardino, l’insetto nell’acqua, l’albero delle noci – risplendono, in certi momenti, di una rivelazione amorosa. Il vuoto che si e` venuto a scavare tra le parole e le cose e` cosı` forte, che le parole piu` banali diventavano esterne ed estranee: sono occhi che ci fissano e nei quali non possiamo non immer17 gere lo sguardo . La lingua delle cose, l’unica a questo punto possibile, sarebbe una lingua muta, ineffabile, nella quale ogni traccia di perdita di 18 essere sarebbe cancellata. In realta` impossibile . Nessuna soluzione viene data da Hofmannsthal, che accetta la perdita. La mostra senza difendersi perche´ e` un poeta. Un poeta che non puo` piu` scrivere. Il Novecento nasce nella storia maschile con questo smarrimento, con questa ferita: la risposta prevalente non e` stata pero` quella poetica, bensı` 17

Cfr. Hugo von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos, tr. it. di Marga Vidusso Feriani, Rizzoli, Milano 1974, p. 43. 18 Ivi, p. 51 e pp. 57-59.

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L magica forza del negaoivo

quella della volonta` di potenza o dell’appellarsi nel pensiero all’etica, nelle diverse forme che questo appello ha preso, nel registro di un pensiero impegnato a risolvere il vuoto che si e` venuto a creare. Uno dei filosofi del Novecento tra quelli che chiamo “uomini di buona volonta`” che hanno scelto la via etica per questo motivo e` Gadamer. Non e` un caso che egli riprenda Aristotele proprio per la distinzione che ha proposto tra il sapere morale della phronesis e il sapere dell’episteme, sostenendo che l’unica via che ci puo` aiutare e` la distinzione tra l’etica da una 19 parte e la conoscenza dell’essere, la metafisica, dall’altra . E` proprio qui che vedo manifestarsi in lui il vuoto esistenziale creato dalla crepa attraverso un sintomo: ritagliare campi separati, che nella nostra vita quotidiana non sono affatto distinti. Del resto egli aggiunge un altro ritaglio: quello tra prassi etica e poiesis, cioe` l’agire pratico tecnico. I legami tra risultati tecnologici e la modificazione dei nostri comportamenti e` cosı` evidente nella nostra quotidianita` che le delimitazioni di campi separati di Gadamer sembrano piuttosto una forma di difesa. Nell’esperienza di ogni giorno ci e` chiaro che l’agire sensato ha a che 20 fare con il conoscere e con il fare cose . I filosofi dell’etica dividono e limitano quel che nel tessuto della vita quotidiana appartiene al medesimo processo. Un po’ tutte le teorie etiche contemporanee accolgono in linea 21 di massima questi ritagli in una specie di neoaristotelismo rinnovato . Da questa tendenza si allontana Hans Jonas, perche´ e` stato l’unico ad aver chiaro di aver messo in campo l’etica della responsabilita` per combattere frontalmente il non essere. Studioso della gnosi, si era formato all’idea di un conflitto drammatico tra essere e non essere. Ha considerato il nichilismo contemporaneo piu` pericoloso ancora di quello gnostico: un nichilismo provocato dagli effetti delle tecnologie di uso comune nella vita di ogni giorno. E` la paura – e` lui stesso a dirlo – ad averlo spinto verso l’etica. Un’etica per la paura di fronte al baratro del non essere, per cui egli orienta l’etica a custodire l’essere a tutti i costi attraverso un sı` volontaristico alla vita come no urlato al non essere. Scrive nel Principio di responsabilita`:

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Cfr. Hans Georg Gadamer, Verita` e metodo, a cura di Gianni Vattimo, Fratelli Fabbri ed., Milano 1972, pp. 363-376. 20 Ivi, p. 369. 21 Si puo` leggere su questo AA.VV., Teorie etiche contemporanee, Bollati Boringhieri, Torino 1990, in particolare l’articolo di Franco Volpi, Tra Aristotele e Kant: orizzonti, prospettive e limiti del dibattito sulla riabilitazione della filosofia pratica.

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Il sı` di ogni aspirazione e` qui radicalizzato per mezzo del suo no attivo al non-essere. Mediante la negazione del non essere, l’essere diventa l’istanza positiva, cioe` la scelta permanente di se stessa22.

Nessun possibile spazio dato al lavoro del negativo e` neanche minimamente pensabile per Jonas. Il vuoto nelle nostre vite puo` essere solo patito: quando sentiamo che siamo del tutto da un’altra parte rispetto al presente, quando qualcosa come la morte di chi amiamo scava nelle nostre giornate un’assenza irrimediabile, quando l’insensatezza e` dominante. L’amaro di qualcosa che ci sfugge invade le nostre esistenze e non sappiamo come andra`, che accadra`. L’amaro in bocca, si dice. Un gusto di amaro. E` curioso che proprio questo gusto abbia a che fare con il formarsi dell’io. L’io, per Freud, si 23 costituisce rigettando fuori di se´ cio` che non gli e` simile . Lo sputa fuori come qualcosa che in bocca e` sgradevole, cattivo, amaro, e potrebbe far male. Se la soggettivita` incomincia a formarsi, come dice Dolto, nel legame con la madre, l’io si costituisce poi, rispondendo alla scissione che 24 si e` venuta a creare . Per conto suo il non esserci non e` amaro, non e` cattivo: lo e` per l’io, perche´ sente di venir intaccato nella sua identita`. La passivita` e` una specie di tormento per l’io, perche´ non puo` sputare fuori come cattivo cio` che lo sta effettivamente modificando. Per questo il 22

Hans Jonas, Il principio responsabilita`. Un’etica per la civilta` tecnologica, tr. it. di Paola Rinaudo, Einaudi, Torino 1993, p. 104. Su Jonas si veda Carlo Galli, Modernita` della paura. Jonas e la responsabilita`, “Il Mulino” n. 2, 1991 e Karl-Otto Apel, Paolo Becchi, Paul Ricoeur, Hans Jonas. Il filosofo e la responsabilita`, a cura di Claudio Bonaldi, ed. Albo Versorio, Milano 2004. 23 Cfr. Sigmund Freud, La negazione, tr. it. di Lisa Baruffi, Renata Colorni, Elvio Facchinelli, Cesare Musatti, Boringhieri, Torino 1981, pp. 66-67. Una mappatura dei diversi significati di “negativo” come appaiono nei testi psicoanalitici piu` importanti si trova in Andre´ Green, Il lavoro del negativo, tr. it. di Antonio Verdolin, Borla, Roma 1996, pp. 12-41. 24 Seguo qui Franc¸oise Dolto, che mostra come la prima esperienza del soggetto sia la relazione con la madre, e che solo in un secondo tempo, con la fase dello specchio, si forma l’identita` dell’io. La fase dello specchio crea una scissione dolorosa e incolmabile dalla madre – io direi qui che provoca del non essere – a cui si puo` rispondere con un rilancio della relazione linguistica con gli altri, che pero` non cancella la faglia che si e` venuta a creare, che ci seguira` per tutta la vita. Cfr. Franc¸oise Dolto, L’enfant du miroir, Payot, Paris 1992, pp. 62-63 e Ead., Il gioco del desiderio, tr. it. di Salvatore Maddaloni, SEI, Torino 1987, pp. 64-66.

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non essere genera in noi tanta angoscia se l’io non riesce ad estrometterlo definendolo odioso: l’io non si sente piu` padrone in casa propria. Nel suo teatrino privato l’io avrebbe il modo di distinguere cio` che e` buono da cio` che e` cattivo, porsi in uno dei personaggi buoni e salvarsi dall’angoscia, rimuovendola. E` per questo che la passivita` gli fa veramente paura, perche´ accompagna, invece di combattere, quel movimento di trasformazione che ha origine nel non essere e che intacca l’io. E` interessante che Massimo Recalcati dica che l’odio piu` profondo che nella nostra vita possiamo provare e` per l’Altro, quando questo altro, in cui abbiamo riposto tutta la nostra fiducia, non ci garantisce la continuita` dell’essere, non combatte il vuoto di senso. L’odio per colui o colei, che abbiamo ritenuto onnipotenti, nasce dal fatto che non esercitano la loro onnipotenza, che scopriamo illusoria, e non possono dunque pro25 teggere il nostro io dal non essere . Cosı` la passivita` ha a che fare con l’ambiguita`. Quante volte, quando capita qualcosa di distruttivo e insensato – l’inizio di una guerra, la foto di una soldatessa statunitense che si diverte, tenendo al laccio un prigioniero nemico, le immagini di bambini uccisi in un attentato terroristico – quante volte per questi eventi in cui ci sentiamo coinvolti, che sentiamo che ci appartengono, che sono “nostri”, abbiamo avuto bisogno di tempo prima di arrivare ad una parola sensata. Cosa ha significato quella sospensione, quel farsi silenzio dentro di noi? E` come se l’anima avesse bisogno di andare in silenzio toccando le crepe che si sono aperte improvvisamente. L’anima ha il suo tempo nel fare la spola tra l’interno e l’esterno. Tocca i legami che ha con il reale, risentendo dove sono violati e dove sono vivi. Gira attorno alla lacerazione con un tempo sospeso, fuori dal suo fluire. Dopo, solo dopo, si puo` arrivare ad un discorso sensato, ad un giudizio. Dico “noi abbiamo avuto bisogno di un tempo ambiguo” e intendo soprattutto donne, forse perche´ le donne hanno piu` fitti e piu` numerosi i legami inconsapevoli con il reale e il tempo necessario deve essere piu` ampio per sentire una situazione. Di ambiguita` ho letto per la prima volta in un senso vicino a quello che sto cercando di esprimere in un libro, a meta` tra saggio e autobiografia, che e` Comporre una vita di Mary Catherine Bateson. Mary Catherine vi racconta tante cose, di come lei avesse impostato la sua vita con lo scopo 25

Cfr. Massimo Recalcati, Sull’odio, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 72-74. Recalcati fa riferimento anche a Dio e all’ordine simbolico imperfetto, e all’effetto di questo odio, che e` un masochismo morale, etico.

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Quando il reale si crepa

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di raggiungere una sempre maggiore solidita` e trasparenza, ma che, di fronte ai fallimenti e con una maggiore saggezza, avesse virato verso l’accettazione dell’ambiguita`. Le pagine che danno forma a questa svolta sono quelle nelle quali parla delle donne che ha conosciuto e del loro grande idealismo. Erano donne che avevano dedicato tutte le loro energie per migliorare i luoghi di lavoro, la loro famiglia, le istituzioni, perche´ desideravano che stessero a quel livello alto che si immaginavano dovessero avere. Si erano impegnate a rappezzare i buchi di ingiustizia, di inefficienza, ma i risultati non erano mai stati quelli voluti. Sempre, nonostante i loro sforzi, la realta` si poneva piu` in basso di quel che avrebbero voluto. Ne percepivano la mancanza, l’imperfezione, e di questo si sentivano loro stesse responsabili e non all’altezza. Dopo aver descritto questo, Mary Catherine aggiunge: “Tradizionalmente le donne sono vulnerabili e traducono la vulnerabilita` nel simulacro 26 della fiducia” . Direi meglio: le donne, quelle che sono fragili, nascondono questa loro condizione in un finto sentimento di fiducia nelle circostanze che si trovano a vivere. Non hanno una misura tra se´ e la realta`. Le proprie pulsioni positive, rispetto alle quali non trovano un accesso autonomo a causa della loro fragilita`, le investono completamente sulla realta`, perche´ ne ritorni qualche riflesso per loro stesse. Idealizzano per questo motivo le circostanze in cui sono impegnate e impiegano per esse ogni loro energia. La vera fiducia ha la capacita` di vedere, la` dove succede, lo svilirsi di luoghi di lavoro, di relazioni d’amore, e di sopportare l’amarezza della disgregazione. Ci fa reggere una posizione ambivalente nei confronti della realta`. Mary Catherine aggiunge: si puo` essere critici nei confronti di una persona, di una istituzione e al medesimo tempo del tutto devoti. Si puo` 27 essere scettici e fedeli al medesimo tempo . E` la posizione ambigua che ci permette di accettare le contraddizioni senza coprirle. Contraddizioni che, piu` che del pensiero, sono quelle che muovono l’intelligenza, il sentimento e un po’ tutta la nostra vita. La posizione ambigua, per cui si e` scettici e fedeli, conflittuali e relazionali, impedisce all’io il suo abituale modo di procedere, che va per contrapposizioni. E` una posizione simbolica, che accetta che nelle nostre vite ci sia del non essere e dell’essere, e che i piani di esperienza rimangano sconnessi tra di loro, senza cadere nell’illusione di riuscire a 26

Mary Catherine Bateson, Comporre una vita, tr. it. di Esther Dornetti, Feltrinelli, Milano 1992, p. 148. 27 Cfr. ivi, p. 149.

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creare una falsa continuita` d’essere. Cosı` aiutiamo le modificazioni possibili, accogliendo la crepa tra se´ e se´ e tra se´ e la realta` senza riempirla e contemporaneamente intensificando i luoghi di essere che la realta` stessa ci offre. La modificazione ha a che fare con l’intermittenza dell’essere, con il processo che vede alternarsi momenti di insensatezza accanto a momenti di intensificazione. Nel suo testo In metamorfosi Rosi Braidotti sostiene invece che ogni trasformazione, ogni “divenire altro”, e` reso possibile solo dal desiderio d’essere. Quello di Braidotti e` un testo bello e vivo, con una grande passione per il pensiero della differenza sessuale, pero` su questo punto mi trovo in disaccordo con lei. Riprende l’idea di Gilles Deleuze che l’impegno etico stia nel trovare vie che creino aggregazioni, passioni gioiose, che aumentano la potenza d’essere, evitando le passioni tristi che 28 la diminuiscono . Poi indica questa idea come la piu` importante per la politica delle donne, riferendosi ad uno dei suoi guadagni: la politica del desiderio. Perche´ lega il desiderio alla potenza d’essere? Il desiderio nasce, nella sua lettura, da un proliferare “polimorfo”, guidato da un erotismo libero, sottratto alle leggi tristi dell’Edipo. Esso prende la forma di un continuo rilancio di desiderio d’essere, di passioni gioiose, che non si chiudono nella staticita` dell’io, bensı` si manifestano in una metamorfosi 29 continua di un “divenire altro” . Ora, questo movimento continuo in un “divenire altro”, che esclude il non essere, a me sembra un modo per tradurre in un linguaggio materialista un desiderio di continuita` d’essere, che nasce dalla paura di cio` che un’assenza puo` implicare nella propria vita e nella politica. Proprio la politica delle donne mostra che non siamo macchine desideranti e che ci si trova ad affrontare l’intermittenza del desiderio, il suo rimanere a volte muto, silenzioso. D’altra parte questo ha costituito un problema per una politica che non si affida all’organizzazione per durare nel tempo. Le organizzazioni, sı`, garantiscono la continuita` dell’agire anche la` dove viene meno il desiderio degli inizi. Le donne, mettendo in gioco nel loro agire politico il desiderio, si sono trovate a vivere momenti di grande intensificazione della loro presenza, accanto a momenti di perdita di riferimenti. Accogliere i momenti di non essere permette di saper riconoscere la creativita` orientante dei momenti di essere. Comun-

28

Cfr. Gilles Deleuze, Spinoza e il problema dell’espressione, tr. it. di Saverio Ansaldi, Quodlibet, Macerata 1999, pp. 192-197. 29 Cfr. Rosi Braidotti, In metamorfosi. Verso una teoria materialista del divenire, a cura di Maria Nadotti, Feltrinelli, Milano 2003, in particolare pp. 122-123.

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Quando il reale si crepa

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que non e` facile per le donne stesse stare di fronte a questi momenti di silenzio e di vuoto, se non avendo fiducia nelle relazioni e in quel che suggerisce la Bateson: assumere una posizione simbolica di accettazione del non essere e fedelta` all’essere. Cosı` ha fatto, nella sua pratica di scrittrice, Ingeborg Bachmann, sapendo riconoscere la disgregazione dell’io e del mondo e scommettendo allo stesso tempo sulla parola, dove io e mondo inevitabilmente ricompaio30 no . Questa e` la sua specifica via di dire sı` contemporaneamente all’una e 31 all’altra. “Degradati/arrendersi all’orrore/non contrastarlo” e allo stesso tempo: Perche´ una cosa rimane: dobbiamo lavorare duramente con la cattiva lingua che abbiamo ereditato per arrivare a quella lingua che non ha ancora mai governato, e che pure governa la nostra intuizione e che noi imitiamo32.

Ho imparato da un testo breve e intenso della Bachmann cosa significhi arrendersi alla crepa nel reale, non contrastarla, riuscendo a farne vedere nella lingua tutto l’invisibile che i puri fatti non mostrano. Parlo di Luogo eventuale, uno scritto del 1965, nel quale mostra la Berlino attraversata e tagliata dal muro costruito da poco per dividere l’area comunista da quella occidentale, capitalista. Immaginiamo una nostra citta` molto amata e cosa potrebbe succedere, in noi e fuori di noi, se la citta` fosse divisa per sempre da un muro, che impedisse di andare dagli amici dall’altra parte e di camminare per le piazze e le vie che sono vicine e improvvisamente impossibili. E questo a causa di un odio “astratto” tra stati potenti e governi lontani. Bachmann mostra gli effetti devastanti del muro, la ferita che esso crea, lacerando i tessuti della citta`. Il muro provoca sconnessioni tra i piani del reale. Le strade scivolano nelle case. Le case slittano verso le stazioni e i ponti. Tutto oscilla in un movimento tellurico circolare. Le strade si alzano di quarantacinque gradi. Le macchine in corsa verso l’orizzonte rollano naturalmente all’indietro, i ciclisti perdono il controllo, scivolano velocissimi verso di te, non si puo` neanche impedire che le

30 Sull’io che ricompare nella scrittura cfr. Ingeborg Bachmann, Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte, tr. it. di Vanda Perretta, Adelphi, Milano 1993, pp. 55-75. 31 Ingeborg Bachmann, Non conosco mondo migliore, tr. it. di Silvia Bortoli, Guanda, Milano 2004, p. 111. 32 I. Bachmann, Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte, cit., p. 123.

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macchine provochino danni. (...) Tutta la citta` gira in tondo, il ristorante si alza e si abbassa, sussulta, si scuote, la situazione precipita, Potsdam e` slittata con tutte le case dentro le case di Tegel33.

La lacerazione tocca i corpi non meno che le anime: Tutti sono invalidi, non a causa di proiettili, ma dentro, i corpi sono in disordine, sono troppo corti sopra o sotto, la carne delle facce e` ottusa e paralizzata, angoli interi di bocche e d’occhi sono storti, e l’ombra incerta della stazione peggiora ulteriormente l’insieme34.

Alcuni dicono: c’e` disarmonia, ma e` qualcosa di piu`, di diverso. Il taglio del muro ha ferito la citta`: cose, case, ponti, animi e corpi ne sono deformati. In citta` tutti fanno finta di niente, impilando i negozi, riordinando le case. E` tutto normale, dicono. E quanto piu` si ostinano a tenere fissa la normalita`, tanto piu` la scossa tellurica si fa forte e tutto si smuove e soffre. Lei, che racconta, non fa finta di niente: guarda e vede quel che la fissita` dei fatti vela. Vede la scissione della realta`, la sofferenza delle cose, 35 la deformazione dei corpi . Non ci puo` far niente, solo arrendersi a quel che avviene e contemporaneamente lavorare duramente nella lingua. Una cosa e l’altra, senza un perche´, senza una ragione salvifica. E questo e quello: lo schiacciamento del non essere e la tessitura dell’essere nella scrittura. E la lingua ne viene modificata: accoglie le sconnessioni nello scrivere, il non compiere del tutto le frasi, l’ascolto di altro da cio` che e` 36 rappresentabile . 33

I. Bachmann, Luogo eventuale, cit., p. 29. Ivi, p. 25. 35 Vorrei ricordare la lettura che Laura Boella da` di questa capacita` di Bachmann di cogliere l’invisibile del presente. La considera una posizione antistoricista, che coglie nessi non riducibili all’“ora”, anche se il momento della scrittura e` in ogni caso affidato al presente. Ci sono nessi astorici nella realta` storica che si sperimenta. E sono questi che mantengono aperto il possibile. Cfr. Laura Boella, Ingeborg Bachmann, in Ead., Le imperdonabili, Tre Lune editore, Mantova 2000, pp. 97-99. 36 Maria Luisa Wandruszka sostiene che nella Bachmann il rapporto con le “viennesi”, con le donne che compaiono nei suoi racconti dell’ultimo periodo, le ha permesso di avere una scrittura aperta al “non so che”, a qualche cosa che non si richiude se su stesso, che permette alle frasi di restare incompiute, che mi sembra il modo migliore di lasciare aperto il discorso al non essere, che si sottrae alla compiutezza. Cfr. Maria Luisa Wandruszka, Frasi interrotte e frasi infinite. Ingeborg Bachmann e Thomas Bernard, in Ead., Mettere insieme i frammenti, Carocci, Roma 2002, pp. 78-81. Su Ingeborg Bachmann e la sua capacita` di vedere cio` che gli altri non vedono (una normalita` sospetta, una finta pace dove perdura la guerra) si legga: Giuseppe Dolei, Ritratti critici di contemporanei. Ingeborg Bachmann, “Belfagor”, n. 3, LIX (maggio 2004), in particolare pp. 305-306. 34

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Il pensiero della ferita nella Body Art* di Donatella Franchi e Barbara Verzini

I Ho ripensato alla Body Art, e in particolare alle performance di Gina Pane, in risposta a un desiderio di Barbara Verzini. A me interessava soprattutto incrociare l’esperienza e lo sguardo di una giovane che come me ama appassionatamente le pratiche artistiche delle donne. L’incontro, e lo scambio che ne e` seguito, ha creato uno spostamento nel mio modo di percepire il pensiero visivo di Gina Pane negli anni ’70, il periodo delle blessures, quando questa artista si esprimeva infliggendosi delle piccole ferite che la facevano sanguinare. Sono stata presente a uno di quegli eventi e ricordo di averlo vissuto con disagio e raccapriccio, come una forma di narcisismo autolesionista. Non trovavo nessun collegamento tra quella pratica artistica e il tipo di linguaggio che in quel momento cercavo. Per me, allora, era nel movimento delle donne che la creativita` femminile si liberava finalmente con immagini proprie. La creativita` che passava attraverso il corpo femminile era quella delle assemblee, dei grandi incontri, delle riunioni, delle vacanze collettive. Nonostante i conflitti e le lacerazioni che accompagnano inevitabilmente i cambiamenti radicali, vivevo il femminismo come una “grande festa” (sono parole di Carla Lonzi). Ricordo donne che portavano in giro il loro corpo in modo trionfante. Ricordo l’intensita` di quei momenti, il piacere che mi dava la fisicita` di quegli incontri. Concentrarmi esclusivamente sulla dimensione della sofferenza, come mi pareva facesse Gina Pane, mi portava all’immobilismo e alla stagnazione. * Questo saggio comprende due testi: un primo testo di Donatella Franchi (I) e un secondo testo di Barbara Verzini (II). I due testi fanno riferimento l’uno all’altro: entrambi sono frutto della relazione a due voci tenuta al “grande seminario” di Diotima nel novembre del 2003, che aveva la forma di un dialogo fra le due interlocutrici. Donatella e Barbara, due donne di due generazioni differenti, sono accomunate dall’amore per le pratiche artistiche come forma della politica.

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L magica forza del negaoivo

Il punto di vista di Barbara mi ha fatto intravedere altro. Cercare di comprenderlo mi ha aiutata a rivedere e riconsiderare il pensiero visivo di Gina Pane, a riscoprirne il senso rispetto alla mia e alla sua storia. Cosı` ho visto il legame tra le sue azioni e la pratica politica delle donne, che allora stava dando origine a nuove esperienze nel linguaggio visivo e apriva nuove strade. Ho trovato una corrispondenza, a cui non avevo mai pensato prima, tra il pensiero visivo di questa artista e il pensiero di Carla Lonzi, che da sempre ha avuto molto peso nel mio rapporto con l’arte. Anche se continuo a trovare molto piu` congeniali altri periodi, meno cruenti, della sua arte, sento che le sue azioni di allora riguardavano anche me, il mio desiderio di ricercare e di sperimentarmi. Adesso le comprendo come una forma di autocoscienza agita attraverso il corpo, dove l’atto creativo viene indirizzato prima di tutto su di se´, nella trasformazione di se stesse, non su un prodotto esterno, e a cui e` indispensabile la relazione. Lei stessa scrive nella sua Le`ttre a` un(e) inconnu(e): “Quando apro il mio ‘corpo’, affinche´ tu possa vedere sgorgare il tuo stesso sangue, lo faccio per l’amore che ho per te, per amore dell’altro” e aggiungeva: “Ecco perche´ la 1 tua presenza durante le mie azioni e` per me cosı` importante” . L’azione del far sanguinare il proprio corpo e` movimento verso di se´ in presenza e in condivisione con altri; i significati a cui da` vita sono molteplici: sanguino perche´ devo subire le immagini e il linguaggio altrui, sanguino perche´ sono io che estraggo da me stessa le mie immagini, il mio linguaggio, con questo mio patire voglio aprirmi ed espormi agli altri. E` un gesto che rimanda alla fertilita` del corpo femminile, che sanguina naturalmente, e` una riflessione sulla sessualita`. E` un movimento che risponde a un desiderio di trasformazione non dissimile da quello che sperimentavamo nei gruppi politici di donne, quando cercavamo di modificare le nostre vite attraverso prese di coscienza e tagli spesso dolorosi. La Body Art e la performance (azione) sono pratiche artistiche che le donne hanno profondamente cambiato a partire dagli anni ’70, trasformandole in una riflessione sullo stesso operare artistico. Body Art vuol dire arte del corpo: l’inglese in parte vela la carica emotiva ed evocativa di queste parole. Il pensiero della ferita nella body art suggerisce un pensiero incarnato, situato nel corpo, da cui sgorga direttamente, senza nessuna mediazione culturale. E` il corpo stesso che diventa linguaggio. 1 Le donne e l’arte nel XX e XXI secolo, a cura di Uta Grosenick, Taschen, Colonia 2001, p. 431.

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I pensiero della ferioa nella Body Aro

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Il linguaggio ha radici corporee. Le donne, quando riflettono sul linguaggio, fanno riferimento al corpo, ne sono vincolate. Mi viene in mente, cito a memoria, che per Virginia Woolf il libro si deve adattare al corpo. Hele`ne Cixous dice di scrivere con il latte invece che con l’inchiostro, e Louise Bougeois dichiara: “Il mio corpo e` la mia scultura”. L’artista e psicanalista Bracha Lichtenberg Ettinger, partendo dalla propria pratica artistica, elabora il concetto di matrice. La matrice, la placenta, e` un’immagine che rappresenta la coesistenza della madre e del bambino negli ultimi mesi di gravidanza. E` un simbolo di convivenza e di trasformazione reciproca di due corpi in un unico spazio, dove lo sconosciuto, il non io non e` rifiutato ne´ assimilato2. Per Antoinette Fouque il corpo femminile insegna un rapporto non oppositivo, e` un paradigma del pensare il prossimo3. Il corpo femminile e` cavo, adatto a far spazio dentro di se´, e` come predisposto per un particolare tipo di creativita`, dove l’io non occupa tutto lo spazio, non si mette al centro, ma accanto, abolisce i dualismi rigidi come dentro e fuori, pubblico e privato, soggetto e oggetto, autore e spettatore; un tipo di creativita` che connota fortemente il rapporto con lo spazio. Nella Body Art e nella performance, che possono coincidere, le artiste agiscono direttamente attraverso il loro corpo, senza mediazione, in uno spazio comune, in relazione immediata e attiva con il pubblico che viene chiamato a condividere, a emozionarsi e a riflettere. Creano uno spazio d’incontro e di trasformazione reciproca, dove l’opera e` la relazione tra performer e pubblico4. La performance e` dunque una pratica artistica da fruire nel presente, non e` fatta per la durata. Anche se possono rimanerne tracce nei video o nelle fotografie, l’opera e` l’impronta di un qui e ora. Molte artiste negli anni ’70 lasciano la scultura o la pittura per 5 dedicarsi alla performance . Con questo mezzo sono libere di inventare mettendo da parte la nozione accademica di discipline come pittura e 2 Cfr. Inside the Visibile, a cura di M. Catherine de Zegher, The MIT Press, Cambridge, Massachussetts and London 1994, pp. 77-85, 280-290. 3 Cfr. Antoinette Fouque, I sessi sono due, introduzione di Lia Cigarini, tr. it. di Nadia Setti, Pratiche Editrice, Milano 1999. 4 Ligya Clark chiama vivencia, esperienza vivente, le sue azioni collettive: una presa di coscienza che passa attraverso il corpo, dove l’artista crea situazioni che sbloccano e fanno circolare le creativita` di chi partecipa. 5 Cfr. Rozsika Parker e Griselda Pollock, Framing Feminism, Pandora, London 1987.

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scultura, che impongono un canone, una gerarchia tra linguaggi. Possono mescolare i linguaggi: oltre a quello della gestualita` del corpo, il suono della voce o di uno strumento, oggetti reali della vita quotidiana, tutti i tipi di immagine, sia fissa, come la fotografia, sia in movimento, come il video. Alcune artiste degli anni ’70, in Inghilterra, coinvolgevano anche i figli a volte. Invece di vivere come impedimento e ingombro la cura dei figli, il tempo frammentato, li trasformano in linguaggio: sono narrazioni che parlano del quotidiano, riflessioni diaristiche, autoanalisi e presa di coscienza. Il frammento, il quotidiano, l’interruzione, invece di impedire il lavoro artistico, possono diventare un modo nuovo di lavorare, fonte di riflessione creativa. Cosı` l’artista Mary Kelly, ad esempio, crea un’opera, “Post Partum Document”, per registrare le varie fasi del rapporto con suo figlio nei primi anni di vita, un lavoro in 165 parti dove e` presente una vasta gamma di linguaggi, tra cui quello psicoanalitico, per analizzare il rapporto tra madre e figlio, i ruoli, le difficolta`, le contraddizioni. La capacita` di tenere insieme vari livelli di esperienza, di modi di essere e di modalita` espressive, e` la qualita` e la caratteristica vitale della creativita` messa in circolo dalle donne, in un continuo andirivieni tra la creativita` necessaria alla vita e quella che fluisce nell’opera, tra creativita` e creazione. Una creativita` che e` assunzione di responsabilita`, che permette di stare nel vivente, che non si specializza in un unico linguaggio, e che vede i legami e le connessioni. La matrice e` la stessa: la lingua materna. Il non voler separare la creativita` artistica dalla creativita` del vivente, come se non si sopportasse di scinderle, e` una costante nelle pratiche artistiche delle donne. Continuano a venirmi in mente le parole di Anna Maria Ortese in 6 Corpo Celeste, nel saggio “Dove il tempo e` un altro” . Lei mette sullo stesso piano l’esprimersi creativamente e il sopravvivere, non dice nemmeno vivere, ma sopravvivere: per sopravvivere devi poterti esprimere. Le parole di questa scrittrice, che aveva una forte familiarita` con il dolore, risuonano ancora piu` vere oggi che portiamo impresse le immagini delle soldatesse torturatrici di Abu Ghraib. Quelle giovani donne hanno subito un’“amputazione creativa” che le ha portate a morire a se stesse, nell’identificarsi con la peggiore manifestazione del potere maschile, quello che viola i corpi di chi non puo` difendersi.

6

Cfr. Anna Maria Ortese, Corpo celeste, Adelphi, Milano 1997.

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Penso a Carla Lonzi. Il suo e` un pensiero che oggi sento come un pensiero della ferita. Procede per tagli, senza mediazioni. Patisce fino in fondo la difficile coincidenza tra pensiero e vita. Pur amando molto l’arte, che rimane comunque un tema costante nei suoi scritti, ed avendo iniziato un promettente ed originale cammino nel campo della critica, taglia con il mondo dell’arte e in seguito anche con il suo compagno, l’artista Pietro Consagra. Nel 1980, infatti, pubblica Vai pure, dialogo con Pietro Consagra, la registrazione di un lungo doloroso colloquio alla fine del quale lei comprende che le loro posizioni sul modo di intendere la creativita` artistica, il rapporto tra arte e vita, sono inconciliabili. Lei rompe con lui. Taglia perche´ non vuole piu` stare nella contraddizione di un rapporto dove la produttivita` artistica, il produrre un’opera, e` piu` importante della vita, delle relazioni con gli altri. “Il fare 7 non deve essere mai a scapito dei rapporti” . All’inizio degli anni ’70 Carla Lonzi invitava le donne a sottrarsi ai luoghi di celebrazione dell’arte perche´ erano i luoghi dell’autocelebrazione maschile, e ad abbandonare la creativita` artistica, definita storicamente dal maschile per ricercare una creativita` libera e autonoma nel movimento 8 delle donne . Per lei la vera creativita` era l’autocoscienza, e la relazione creativa che ne derivava. Questo invito a tagliare con la creativita` artistica, che allora mi suonava crudele, in realta` non era un invito alla rinuncia. Mi ha spinta infatti a interrogare il mio desiderio, a cercare delle donne con cui condividere la mia necessita` di esprimermi attraverso l’arte e con cui sperimentare nuove strade. Oggi possiamo renderci conto di quanto lucidamente il pensiero di Carla Lonzi abbia precorso i tempi. Nelle loro pratiche artistiche, le donne hanno ribaltato il gesto creativo, indirizzando la propria azione prima di tutto sulla presa di coscienza di se´ e sulla relazione; da qui e` scaturito un nuovo linguaggio, che ha anticipato un modo di vivere la creativita` artistica ampiamente diffuso nel presente: “Le opere esistono solo in quanto relazioni comunicative, non come oggetto con una forma conchiusa”, dice oggi la studiosa Luisa 9 Valeriani parlando di Bill Viola . 7

Carla Lonzi, Scacco ragionato, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1985, p. 69. Cfr. Carla Lonzi, Assenza della donna nei momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile, marzo 1971, in Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1974. 9 Luisa Valeriani, Dentro la trasfigurazione, Costa & Nolan, Milano-Ancona 1999, p. 146. 8

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Da un po’ di tempo anche molti uomini, riferendosi alle pratiche artistiche, parlano di relazione, di non esaltazione del proprio ego, di morte dell’autore, ma nello stesso tempo tendono a rimettersi perennemente al centro, e a ricreare canoni. Aprirsi al fertile andirivieni tra arte e vita significa sapersi decentrare, mettersi accanto, lasciar vivere anche delle forme espressive che ti contraddicono. Il gesto creativo “non e` la 10 scorporazione di se´ da un contesto, e` un ammettere il contesto” . Luisa Muraro dice che quella delle donne e` una creativita` che disfa. Sono pienamente d’accordo. Alcune artiste contemporanee non amano autodefinirsi artiste, consi11 derano la parola “troppo importante, troppo carica di significati” . E` come se volessero disfare quella parola per liberarsi/ci dal peso del potere che si porta dietro. Per Carla Lonzi l’artista, considerando se stesso la figura creativa per eccellenza, non solo non libera la creativita` degli altri, ma genera in loro un vuoto creativo. Queste donne offrono invece un esempio di come il senso iniziale di inadeguatezza di fronte alla grande 12 tradizione artistica maschile si possa trasformare in pensiero ed energia . Nel 1949 Louise Bourgeois fa un piccolo schizzo che e` una specie di autoritratto: una donna nuda che si porta legato sulla schiena un grattacielo, come un enorme fallo, lo porta da qualche parte per disfarlo e costruire qualcos’altro. Disfare i grattacieli dunque, disfare potere, “I do, I undo, I redo” (“Faccio, disfo, rifaccio”) e` il titolo di un’opera di Louise: 13 disfare per costruire in modo diverso . Disfare la parola artista vuol dire disfare il potere che questa parola porta con se´, e disfarsene, appropriarsi della propria creativita`, quella che ogni essere umano in vari modi possiede, rischiarla nel mondo, senza delegarla ad altri. 10 Carla Lonzi, Vai pure, Dialogo con Pietro Consagra, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1980, p. 55. 11 Sono parole di Annette Messager in Contemporanee. Percorsi, lavori e poetiche delle artiste dagli anni Ottanta a oggi, a cura di Emanuela de Cecco e Gianni Romano, Costa & Nolan, Milano-Ancona 2000, p. 83. 12 Sul rapporto delle donne con la tradizione alla luce dell’eredita` lasciata dal pensiero di Carla Lonzi, e` molto efficace il saggio di Anna Rosa Buttarelli, Tabula rasa, in Diotima, Approfittare dell’assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione, Liguori, Napoli 2002. 13 Louise Bourgeois e` un’artista che spiazza continuamente, disfa il potere fallico maschile, lo irride ma, vedendone la fragilita`, e` capace di provare nello stesso tempo un senso di protezione e di tenerezza, pur avendone anche paura. Si fa fotografare da Mapplethorpe con una scultura in lattice a forma di fallo che tiene sotto il braccio, lo chiama fillette, bambolina.

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Il pensiero della ferita nella Body Art

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In questo modo oggi leggo il gesto creativo di Gina Pane, che, mettendo il corpo femminile al centro della propria ricerca, ha aperto la strada a molte artiste contemporanee e a pratiche artistiche a cui e` indispensabile la partecipazione creativa degli altri, il sentirsi reciprocamente, un diverso modo di essere nel mondo.

Gina Pane, Io mescolo tutto, 1976, da Gina Pane opere 1968-1990, Edizioni Charta, Milano 1998.

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II

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Desidero iniziare questo testo con la voce di Gina Pane: La ferita e` un segno dello stato di estrema fragilita` del corpo, un segno del dolore, un segno che evidenzia la situazione esterna di aggressione, di violenza a cui siamo esposti. Viviamo nel continuo pericolo, sempre. Dunque quello della ferita e` – come potrei dire – un momento radicale, il momento piu` carico di tensione e il meno distante da un corpo all’altro. E introduce il rapporto piu` vasto tra mondo esterno e mondo psicologico14.

Perche´ proprio la Body Art, perche´ parlare di un tipo di arte che, apparentemente, al posto di guarire e di sanare, taglia e ferisce? Scrivo apparentemente, perche´ in realta` la Body Art guarisce, perche´ permette la modificazione del se´, taglia per aprire alla relazione e non per distruggere il soggetto. L’idea di lavorare sul negativo a partire dalla Body Art e quindi dal significato simbolico della ferita, del taglio, e` nata da un mio desiderio. 15 Sapevo che a Donatella Franchi non piaceva “quel tipo di arte” (come molti la chiamano per sottolineare la loro distanza): me l’aveva detto piu` volte quando, nei vari incontri, mi chiedeva cosa ci trovassi e perche´ mi sentissi cosı` coinvolta ed interessata ad un’arte che lei percepiva come chiusura narcisistica e non certo come apertura. Per me quindi lavorare con lei sul pensiero della ferita sapendo che la sola idea di una lametta che lacera la pelle le faceva venire i brividi – brividi che mi segnalavano che lı` c’era una questione – e` stata davvero una scommessa. Scrivo che e` stata una scommessa, perche´ sento che Donatella mi ha messa di fronte ad una domanda sul senso (di quello che stavo facendo) e

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Gina Pane, presenza da non dimenticare all’interno della Body Art, nasce a Biarritz nel 1939 e muore a Parigi nel 1990: e` una delle prime performer donne ad affermarsi sulla scena contemporanea. Su Gina Pane si veda il catalogo, Gina Pane, Edizioni Charta, Milano 1998; Teresa Macrı`, Il corpo postorganico. Sconfinamenti della performance, Costa & Nolan, Milano 1996; Lea Vergine, Body Art e storie simili. Il corpo come linguaggio, 1974, ristampa a cura di Skira, Milano 2000, Francesca Alfano Miglietti, Identita` mutanti. Dalla piega alla piaga: esseri delle contaminazioni contemporanee, Costa & Nolan, Milano 1997. 15 Questo testo nasce dall’incontro tra me e Donatella Franchi: fra una giovane studiosa e appassionata dell’arte come pratica politica e un’adulta innamorata delle pratiche artistiche delle donne, che, negli anni Settanta, c’era come donna e artista. In questo dialogo per me e` stato fondamentale che Donatella fosse presente ad un’Azione di Gina Pane e mi facesse dono di un’esperienza che non potro` mai vivere.

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I pensiero della ferioa nella Body Aro

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mi ha aiutata a capire cosa muovesse il mio desiderio verso un’arte che si radica nella ferita. Per me continua ad essere una scommessa, anche adesso mentre scrivo, sul senso del mio percorso, della mia ricerca, ma soprattutto sul senso politico che ha oggi occuparsi di arte, quando per molte e molti e` puro spettacolo, show regolamentato dal mercato. La domanda di senso si acuisce in particolar modo nel presente 16 immediato e mi chiedo se, dopo le foto della soldatessa Lynndie , dopo tutte le immagini che circolano sui nostri schermi delle torture, del sangue e del dolore, abbia ancora senso parlare di un’arte che ci mostra sangue, dolore e torture. La mia risposta e` sı`, anzi a maggior ragione sı`. 17 Penso a Chris Burden , il cui interesse politico nell’utilizzare il proprio corpo come medium artistico e` cresciuto proporzionalmente all’aumento degli atroci crimini della guerra del Vietnam. 18 E penso a Jenny Holzer e alla sua denuncia dei crimini sessuali (la violenza inflitta alle donne mussulmane dai soldati serbi), durante la pulizia etnica dell’ex-Jugoslavia, attraverso una serie di scritture sul corpo fatte con inchiostro rosso... Rosso come il sangue, parole come cicatrici, indelebili, che segnalano la presenza sulla pelle delle donne di tre punti di vista: quella della vittima, quello del carnefice e quella dell’osservatore, che e` prima di tutto il testimone. L’elemento chiave non e` l’intento di mostrare come il corpo spesso venga trasformato nel luogo del conflitto (la guerra passa costantemente attraverso l’appropriazione del corpo delle donne), bensı` e` proprio questo linguaggio multiplo, dove possiamo cogliere la molteplicita` degli sguardi, dove la vittima ha occhi che guardano e ci ricordano che lo sguardo non e` mai neutro. I differenti punti di vista fanno spazio a quello che non vediamo e non possiamo vedere.

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Sulla soldatessa Lynndie England, si veda Non c’e` archivio per quelle immagini, “Via Dogana”, n. 70, settembre 2004. 17 Su Chris Burden si veda Giuseppe Savoca, Arte Estrema. Dal teatro di performance degli anni Settanta alla Body Art estrema degli anni Novanta, Castelvecchi, Roma 1999. 18 Su Jenny Holzer si veda F. Alfano Miglietti, Identita` mutanti. Dalla piega alla piaga: esseri delle contaminazioni contemporanee, cit., e Contemporanee. Percorsi, lavori e poetiche delle artiste dagli anni Ottanta a oggi, a cura di E. De Cecco e G. Romano, cit.

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Al contrario, le immagini che ogni giorno vediamo ci mostrano una vittima che e` sottomessa all’obiettivo, allo sguardo del carnefice. Cosı` Gina Pane, che si fa fotografare e filmare quasi esclusivamente dalla fotografa Franc¸oise Masson, da` vita a delle immagini in cui lo sguardo si ribella a quello del carnefice e questa ribellione permette lo spostamento di senso, la sottrazione all’obiettivo, al filtro tra me ed il mondo che il carnefice diventa. Da vittima, si trasforma in protagonista attiva del proprio dolore: la ferita auto-inferta simbolizza la riappropriazione del proprio corpo, riappropriazione del desiderio e dei suoi luoghi. Grazie all’atto simbolico artistico i segni sul corpo diventano cosı` produttori di senso, il corpo si trasforma in parlante ed e` un corpo poroso. La ferita come pratica artistica permette cosı` il passaggio dalla rappresentazione al reale, poiche´ porta le viscere stesse della vita nell’arte, distruggendo l’atteggiamento separato fra artista e spettatore. Infatti nella Body Art il corpo e` considerato come il nostro primo materiale, che ha come caratteristica principale quella di avere due facce, una che guarda “dentro” e l’altra fuori; quindi la pelle, come il tessuto, crea una barriera fra interno ed esterno e, se da un lato ci protegge e ci isola dall’aggressione della realta` esterna, allo stesso tempo permette, grazie alla sua porosita`, una relazione, un contatto continuo con quello che c’e` fuori e dentro di noi. Per questo lavorare simbolicamente sul corpo significa avere la possibilita` di comunicare e modificare l’interno e l’esterno. Quindi a tutte quelle persone che mi chiedono se abbia ancora senso interrogarsi “sull’arte della ferita”, temendo un rafforzamento della bruta19 lita` e della violenza, rispondo con una frase che Paolo Gambazzi , citando Proust, diceva a lezione: “L’opera d’arte e` un’operazione chirurgica agli occhi”; e io aggiungo che questa operazione, a volte dolorosa a volte scioccante, ha sempre il merito di permetterci di vedere con occhi nuovi, non anestetizzati. Interrogare il mio desiderio mi ha fatto capire che per me il gesto simbolico della ferita e` metamorfosi, e` il segno di un cambiamento radicale, di una mutazione che solo puo` avvenire attraverso la separazione e la trasformazione di se´.

19 Cfr. Paolo Gambazzi, L’occhio e il suo inconscio, Raffaello Cortina, Milano 1999. Le lezioni, a cui faccio riferimento, erano tenute all’universita` di Verona.

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20 Mentre ascoltavo la relazione di Wanda Tommasi, mi e` piaciuta molto l’idea di fornire delle immagini di come vediamo rappresentato il lavoro del negativo e mi sono chiesta quali fossero le immagini che ho io in mente. Mi sono data due risposte. La prima immagine e` stata quella della pelle, una pelle che si lacera, come nel caso di una crisalide: la pelle, avvolge, protegge, permette una metamorfosi, che si puo` compiere solo attraverso e grazie la sua rottura. La lacerazione e` il passaggio fondamentale che permette ad un bruco di poter essere farfalla, di ascendere, crescere, metamorfizzare. La ferita permette una nuova vita, e` segno di passaggio e cambiamento radicale. L’altra immagine che ho in mente e` quella della mano di Luis Bun˜uel, che, nel film Un Chien Andalou, taglia l’occhio di una donna. Il taglio ancora una volta segna un passaggio ed una metamorfosi: l’arte ci apre alla visione, ad un vedere che si spinge “su terreni ancora 21 inesplorati al di la` dei limiti di pura pertinenza della retina” . L’arte opera i nostri occhi e cambia il nostro modo di vedere: lo sguardo si trasforma cosı` in “aptico”, cioe` in uno sguardo che riesce a toccare e ad assaporare l’opera. Anche in questo caso e` fondamentale sottolineare che l’apertura e` resa possibile solo attraverso un taglio. Ho scelto quindi di parlare del negativo attraverso la Body Art, perche´ questi tagli inferti non hanno come fine quello di annientare e distruggere, ma, al contrario, aprono e permettono la relazione, la condivisione, in cui il pubblico e` coinvolto attivamente. Ritengo importante aggiungere che la performance, come scrive anche Scechner, si adatta continuamente al rapporto vivo che intercorre fra 22 l’artista e gli spettatori presenti, e` un processo continuo di trasformazione , non e` solamente frutto del genio dell’artista, come sottolinea, nel suo testo, Donatella Franchi riprendendo il dialogo fra Carla Lonzi e Pietro Consagra.

20

Mi riferisco in particolare all’immagine del deserto e alla fecondita` del cadere nei pozzi, conferenza di Wanda Tommasi al Grande Seminario di Diotima, Verona ottobre 2003. 21 Cfr. Anne Tronche, The Scenographic Body, all’interno del catalogo: Gina Pane, cit., p. 44. 22 Cfr. Richard Scechner, La teoria della performance 1970-1983, Bulzoni Editore, Roma 1984, p. 180.

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La scelta di lavorare sulle blessures di Gina Pane, e quindi di lavorare sugli anni ’70, ovviamente non e` casuale. Molti uomini hanno fatto e fanno Body Art, ma in loro il pensiero della ferita e` quasi assente. In queste performances, il corpo spesso viene tagliato e torturato con il fine di una ribellione, rivolta e sperimentazione estrema dei suoi limiti. Per la maggior parte dei body-artists il corpo e` la metafora di, oppure piu` semplicemente il mezzo per (esprimere...). Vorrei fare due esempi, a testimonianza di cio`: uno contemporaneo, 23 Franko B , e uno degli anni ’70, Chris Burden, a cui ho fatto riferimento precedentemente. Chris Burden trasforma la performance in una provocazione estrema della morte: si fa sparare un colpo di pistola in un braccio, si fa pugnalare; per lui il vivere quotidiano ha senso solo nella sfida e nello scontro. Le sue performances cercano di creare terrore ed inquietudine attraverso l’oltraggio e la violenza sul corpo. Franko B. lavora sullo stato di reclusione e oppressione cui il corpo viene quotidianamente obbligato e sottomesso, creando una visione dolorosa di cio` che e` il corpo stesso, dissanguandosi fino a svenire, usando gabbie catene, cateteri. Sceglie amanti o colleghi per farsi infliggere punizioni. L’intento masochista e` evidente e palpabile. Le sue performances iniziano nella maggior parte dei casi con un violento pestaggio, per permettergli di raggiungere uno stadio di trance reso possibile attraverso il godimento del dolore. Egli da` estrema importanza all’utilizzo dei fluidi organici durante le sue performances; saliva, urina, sperma, sangue... Soprattutto il sangue e` un elemento sempre molto presente, perche´ secondo l’artista e` strettamente legato alla vita, e` linfa vitale; infatti Franko B. per realizzare le sue performances arriva a togliersi poco meno di due litri di sangue al giorno per 4, 6 settimane. Il sangue nel suo lavoro e` importante anche perche´ simbolo di infezione: questo gli permette di ironizzare anche su chi lo reputa sieropositivo. Invece per Gina Pane, nonostante l’obiettivo sia quello di procurarsi delle ferite, i movimenti sono meticolosi e misurati: non assistiamo mai a mutilazioni ne´ ad amputazioni e il sangue che sgorga dalla sua carne lacerata non esce copioso come nelle performances di tanti altri artisti.

23

Su Franko B. si veda il sito ufficiale, www.Franko-b.com.

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Per lei la ferita` e` un atto simbolico che permette l’apertura e il rilancio della relazione, prima di tutto con se stessa. Ritengo che la ferita nelle performances maschili spesso trovi il suo senso esclusivamente nel sovvertire i meccanismi normalizzanti della cultura dominante, che tenta di anestetizzare la violenza reale attraverso la violenza mediatica. Ferita in questo caso come catarsi, forma estrema di riattivazione della sensibilita` dello spettatore, potenziamento emozionale. L’intento da parte dei body-artists quindi, salvo poche eccezioni, si rinchiude in una politica dagli echi foucaultiani, dove il corpo rappresenta il luogo in cui si inscrive il potere; politica che trova nella ribellione al controllo che il potere da sempre esercita sul corpo l’unico modo per sottrarsi alla normalizzazione. Infine, ho scelto di parlare degli anni ’70 e non del panorama contemporaneo, perche´ l’artista che attualmente piu` si potrebbe avvicinare 24 al pensiero della ferita come metamorfosi e apertura e` Orlan , ma gli esiti delle sue performances, anziche´ aprire nuovi spazi, si rinchiudono nella sua onnipotenza. Ritengo importante avvicinare il lavoro artistico di Orlan a Gina Pane, senza dimenticare che entrambe si ribellano ad un’iconografia di bellezza femminile modellata sui desideri sessuali maschili; questo segnala nella loro arte un preciso intento politico femminista di rivendicazione e riappropriazione del corpo femminile: Orlan trasforma il suo volto, attraverso gli interventi chirurgici, in un’opera mutante, che si sottrae all’iconografia femminile dominante ed opprimente. Al potere coercitivo esercitato dall’esterno, che ha costretto il corpo femminile a crescere nell’oppressione e nella chiusura, Orlan sostituisce il suo potere interno, il potere della sua volonta`, al quale nulla sembra in grado di frapporsi. Ogni operazione chirurgica, ogni modificazione che il corpo di Orlan subisce e` quindi strettamente legata ad una volonta` che non conosce ne´ passivita` ne´ sopraffazione, una volonta` che e` totalmente attiva. Il corpo diventa cosı` un oggetto sottoposto alla tirannia della sua volonta`, un sacco vuoto da poter modificare a suo piacimento. Il rapporto instaurato con il corpo rimane quindi totalmente negativo. Negativo nel senso che il corpo viene cosı` annullato, il che impedisce un vero lavoro del negativo. Persino sotto anestesia lei parla, controlla, dirige. E proprio perche´ 24

Su Orlan si veda il sito ufficiale, www.Orlan.net.

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non assume il dolore del taglio che segna il passaggio, il momento (avvenimento) della metamorfosi, non puo` assumere fino in fondo il cambiamento, la trasformazione: il suo corpo anestetizzato viene tagliato e trasformato dalle mani di altri e si riduce ad un puro oggetto, un involucro che puo` essere modificato a piacimento. Come scrive Rosi Braidotti nel suo ultimo testo, In metamorfosi: “Cam25 biare fa male, le trasformazioni non sono pure metafore” . La ferita per Gina Pane e` prima di tutto relazionale, e` un mezzo per aprirsi all’altro: le donne quasi sempre hanno cercato una forma d’arte che apra spazi agli altri. Nelle sue performances e` palpabile l’intento di creare uno spazio di condivisione, in cui l’interno e l’esterno si fondano, in cui il pubblico ed il privato non siano piu` separati ma intrecciati, tenuti assieme attraverso la mescolanza e la cancellazione dei loro confini. Pero` il superamento della separazione fra pubblico e privato, interno ed esterno, a cui partecipiamo durante le sue Azioni, non si traduce mai in un’ipervisibilita`, in un disvelamento dell’invisibile: quest’ultimo non viene mai tradito. Ci sono molti esempi nel passato che ci parlano di donne che hanno saputo disfare la separazione tra pubblico e privato arrivando a tessere un nuovo registro, totalmente altro, fondato non sulla teoria politica ma su 26 delle pratiche . Nel caso di Gina Pane, la non separazione fra pubblico e privato assume una connotazione politica ancora piu` forte, poiche´ lei donna, lesbica e artista, si trovava immersa, negli anni ’60, in uno spazio sociale privo di un linguaggio e di un rituale di riconoscimento pubblici su cui lei potesse fare leva. Percio` il mostrare in pubblico le proprie angosce piu` interne ed intime era il modo per accettarsi, farsi accettare e riuscire a nominare l’angoscia e la malinconia che l’eterosessualita` forzata genera. Gina Pane, nel 1972 nella performance Le Lait Chaud e nel 1975 nella performance Discours mou et mat, arriva nella prima a sfregiarsi il viso con una lametta da barba, nella seconda a premerlo sui vetri di uno specchio rotto.

25

Rosi Braidotti, In metamorfosi. Verso una teoria materialista del divenire, tr. it. di Maria Nadotti, Feltrinelli, Milano 2003, p. 281. 26 Cfr. Chiara Zamboni, Momenti radianti, in Diotima, Approfittare dell’assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione, cit., p. 174.

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In questi casi, la ferita e` un’evidente azione di rivolta, di ribellione, di contestazione sociale: nel tagliarsi il volto Gina Pane si sottrae violentemente ai canoni, agli stereotipi di bellezza classica, all’oppressione cui il corpo femminile e` sottoposto a causa del culto-ossessione dell’immagine femminile imposto dalla cultura patriarcale occidentale. Nella ferita non e` presente pero` solo un’azione violenta di critica decostruttiva; alla dimensione del taglio appartiene anche un elemento liberatorio, un’apertura ad una risignificazione che non segua piu` logiche predeterminate, le logiche della cultura dominante. La ferita in Gina Pane non e` una forma di masochismo ne´ di annientamento del soggetto. Essa rivela un coraggio che e` la forza di fare vuoto. “Un taglio che permette di intravedere che oltre la tradizione maschile c’e` altro: c’e` lei 27 che vive e pensa” . Mentre Gina Pane brandisce una lametta e squarcia il suo viso, lo spoglia di tutte le categorie femminili e se ne riappropria, mostrandolo di nuovo nella sua realta` di nervi e sangue. Come scrive Braidotti: Sottrarsi alla camicia di forza del normale significa alla lettera sottrarsi alla propria pelle, squarciare l’involucro di cio` che un tempo era il margine che 28 incorniciava l’umanesimo corporeo del soggetto .

Condivido con Lea Vergine29 che il tema ricorrente nelle Azioni di Gina Pane sia il vuoto, anche se non concordo con lei nel riconoscere come intento dell’artista quello di riempire questo vuoto. Aprirsi al vuoto per Gina Pane significa permettersi di essere sbilanciati, sostare e permanere nel vuoto come pratica di sopravvivenza (all’annientamento) e di riattivazione del se´. L’artista stessa, parlando di chi partecipava alle sue performances, dice: Non si sentiva piu` sicuro. Era sbilanciato, e questo gli creava un certo vuoto 30 dentro. E doveva rimanere in quel vuoto. Non gli davo nulla .

Lei non dava risposte ne´ voleva far sentire i partecipanti in un preciso 27

A. Buttarelli, Tabula Rasa, cit., p. 148. R. Braidotti, In Metamorfosi. Verso una teoria materialista del divenire, cit., p. 281. 29 Vedi L. Vergine, Body Art e storie simili. Il corpo come linguaggio, cit., p. 22. 30 Questa dichiarazione di Gina Pane e` riportata da F. Alfano Miglietti, Identita` mutanti. Dalla piega alla piaga: esseri delle contaminazioni contemporanee, cit., p. 29. 28

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stato d’animo, li costringeva grazie alla provocazione dello shock a sostare nel vuoto privi di appigli. Il coinvolgimento diretto e attivo fra i partecipanti e l’artista ci permette infatti di stare in un registro, che e` quello dell’apertura di relazione, apertura fra interno ed esterno, completamente asimmetrico rispetto all’arte che sta sul piano dello spettacolo. La condivisione dello spazio intimo, generato dal gesto della ferita, che Gina Pane riesce a mettere in gioco in una dimensione assolutamente pubblica permette lo spostamento, l’apertura al vuoto e alla modificazione del se´. La creazione di uno spazio privilegiato dove il vuoto ci assale e ci contagia; vuoto che, se vissuto fecondamente, puo`, come nel deserto, trasformarsi nel luogo di passaggio dove avviene un cambiamento radicale. Per questo credo che l’elemento piu` affascinante rispetto a “questo tipo di arte” sia proprio la sua capacita` di costringerci a sostare in un vuoto che non viene, finalmente, riempito di significati.

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La lente scura: Anna Maria Ortese di Monica Farnetti

Non e` facile per noi due, per la Ortese e per me, dare conto della questione messa a tema in questo seminario. Non lo e` per lei, dotata di un pensiero narrativo, un pensiero – e un sentire – in figure e quasi mai in concetti, che le deriva dal fatto di essere nata scrittrice e meglio ancora romanziera. E non lo e` per me, che riconosco in lei una grande pensatrice del negativo e che il suo pensiero vorrei far emergere in tutta la potenza che gli appartiene ma, insieme, nel suo essere sghembo, non perfettamente chiaro ne´ univoco, e tale che proprio in questi “difetti” dice la propria singolarita` e verita`. Per me insomma che, sempre invidiosa del sapere e dell’essere delle filosofe, una volta tanto capisco che cosı` dev’essere e resisto alla tentazione di desiderare per lei, se non per me stessa, il titolo di filosofa. Non e` facile ma e` doveroso, vista l’impressionante densita` di pagine che, sparse in sessant’anni di racconti e romanzi, la Ortese riserva a un problema che evidentemente le sta a cuore. Che le pesa sul cuore, sarebbe meglio dire, e le pesa nondimeno sugli occhi. Stando almeno a quell’immagine – La lente scura – salita in copertina dei suoi scritti di viaggio, e che dentro a quello stesso libro funziona come una buona chiave di accensione del motore di questa riflessione. Mi ritrovai libera del tutto – scrive la Ortese a proposito della genesi dei reportages giovanili – da impegni di parte, e scrissi solo cio` che vedevo 1 attraverso la Lente scura di una giovinezza trascorsa nel confino di classe .

Si aprono qui due problemi, che in parte si incrociano. Quello, da un lato, dello stato di estrema poverta` in cui la vita della Ortese ebbe inizio e perduro` quasi fino all’ultimo. Il problema, cioe`, della mancanza di denaro che rende impossibile il vivere e per contro del desiderio di esso, o della 1 Anna Maria Ortese, La lente scura, Marcos y Marcos, Milano 1991, p. I. Il volume e` stato recentemente ristampato da Adelphi, Milano 2004.

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subordinazione della vita al processo economico, che tante volte la Ortese intuisce essere cio` che “strazia la Terra”, e colloca senza dubbio alle radici 2 del male . Dall’altro lato, e non disgiunto come si capisce da questa prospettiva biografica di indigenza, c’e` il problema dell’incombere del negativo, della sua onnipresenza, dello spettacolo di un mondo da esso degradato quale e` quello nel quale la ragazzina di Toledo apre gli occhi o li 3 sgrana increduli dietro le lenti (di nuovo le lenti) di occhiali impietosi . La straziante evidenza di una citta` disperata e allo stremo, angariata dalla miseria e ospite di un’umanita` orribilmente offesa (ricordiamo le 4 pagine piu` terribili de Il mare non bagna Napoli ), fa sı` che la lente scura di cui la Ortese parla debba intendersi non come protesi ma come parte integrante del suo occhio. Vedere il mondo e` infatti esattamente, per lei, vedere cio` che la lente scura le mostra, in una coincidenza speculare e senza resti: un mondo contaminato e ferito dall’ombra cupa della disperazione che la miseria riversa su tutto, luoghi, esseri, oggetti, fino a intaccare 5 anche il cielo e anche il mare . Un mondo sventurato, che avvilisce profondamente chi lo abita e che, come insegna Simone Weil, si impadro2

Cfr. Anna Maria Ortese, Corpo celeste, Adelphi, Milano 1997, p. 109 e passim. A proposito del rapporto della Ortese col denaro, “tema filosofico” (come sostiene Annarosa Buttarelli) che attende di essere sviluppato, voglio ricordare l’episodio raccontato da Paola Masino ai propri genitori in una lettera del 1938. La compagna di Bontempelli viveva all’epoca a Venezia, dove si era adoperata per trovare alla Ortese un posto di lavoro nella redazione del locale “Gazzettino”. Aveva anche fornito ospitalita` sia a lei che alla sorella, che soccorreva nelle loro necessita`. Scrive dunque la Masino: “Le Ortesi [sic] sono partite da Napoli con sole 15 lire e fino a ieri ne hanno spese quasi 11 tutte in caramelle” (cfr. Maria Vittoria Vittori, Storia di un’amicizia, “Leggendaria”, II, 9, maggio-giugno 1998, pp. 10-11). 3 Mi riferisco al romanzo autobiografico, composto di ricordi d’infanzia e adolescenza, Il porto di Toledo [1975], Adelphi, Milano 1998 (ora anche nel I volume delle Opere complete nella collezione “La nave Argo”: Anna Maria Ortese, Romanzi I, Adelphi, Milano 2002), e al celebre racconto Un paio di occhiali che apre la raccolta Il mare non bagna Napoli [1953], ristampato da molti editori e ora da Adelphi, Milano 1994. Il racconto, ambientato nel “basso” napoletano abitato dagli Ortese nel dopoguerra, narra infatti della tristissima scoperta da parte di Eugenia, la ragazzina protagonista, del mondo che la circonda: un mondo miserabile e orribilmente deturpato dalla miseria ma che tale le si rivela soltanto dopo aver inforcato gli occhiali, con i quali tardivamente i genitori ovviano alla sua grave miopia. 4 Il rinvio e` a tutto il volume ma, in particolare, al testo La citta` involontaria, reportage dall’agglomerato del III e IV Granili di San Giovanni a Teduccio, a Portici. L’edificio di 300 metri allungato ai piedi del Vesuvio e` infatti una sorta di corte dei miracoli, dove la vita di chi vi alloggia subisce oltraggio, spoliazione e offesa a livelli quasi inimmaginabili e che la Ortese denuncia e crudamente restituisce. 5 Uno stupendo e sterminato documento della corruzione del paesaggio e` Il porto di Toledo, gremito di vedute nello stile e nello spirito di El Greco (il pittore diletto dalla

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nisce dell’anima e le imprime il disgusto di se´, la ripugnanza, il disprezzo, l’abiezione6. Ma un mondo, anche, che, e per queste stesse ragioni, puo` diventare uno straordinario luogo di apprendistato, capace di addestrare chi e` colpito alla virtu` trasformatrice del malheur e chi gli stia accanto a quella della compassione. E` proprio questa, la compassione, la risposta a mio vedere piu` importante che la Ortese da` al negativo che le incombe addosso; e` questa la sua scelta – una scelta forte, la scelta di chi non aveva altra scelta – di fronte, e dentro, al negativo, che del resto le sta a sua volta dentro; e` questa la sua “invenzione”; e` questa la sua pratica, infinitamente buona, che le consente di stare accanto a un negativo che resta tale e fa il suo lavoro pur senza corromperla, senza farla sua, e anzi consentendole una grande, diciamo cosı`, opportunita` mentre al contempo lei non lo avversa, non gli si oppone ne´ tenta di distruggerlo. “Stare col male senza farsi male” doveva infatti intitolarsi, in un primo momento, questa lezione, ma poi no. No perche´ la Ortese, innanzitutto, male si fa, e quanto, pur come dicevo senza soccombervi7. E poi perche´ l’accento pesava troppo sul senza mentre qui e` in assoluto piu` importante il con, a partire dalla parola chiave (compassione) che lo contiene. Ho detto che la compassione e` la sua pratica, il che significa anche l’alveo del suo pensiero, del negativo. Vediamo come, in quali (e quanti) modi, attraverso alcuni passi e passaggi dei suoi testi. A partire da quello, forse il piu` semplice, che nel Porto di Toledo e` dedicato a Mamota la mostriciattola, l’infelice donnina “col corpo tutto rattorto da non so che malattia”, che passa la vita acquattata su una miserabile scalinatella del quartiere di porto.

Ortese), e che quasi ad apertura di pagina regala descrizioni sontuose e struggenti di quel cielo e quel mare che la giovane Toledana chiama a testimoni della propria crescita. 6 Cfr. Simone Weil, L’amore di Dio e la sventura, in Attesa di Dio, tr. it. di Orsola Nemi, Rusconi, Milano 1965, pp. 85 ss. 7 Sulla sua salvezza, ovvero sul fatto che ci sia stata per lei salvezza o meno, hanno discusso al termine di questa lezione al grande seminario Luisa Muraro e Annarosa Buttarelli: la prima sostenendo che niente abbia salvato la Ortese, che fino all’ultimo ella sia stata allo stremo, minacciata dalla disperazione e dal negativo che va “a male”; la seconda, che viceversa la Ortese si sia salvata, grazie al dono e al medicamento della scrittura. Tant’e` che nulla di ineluttabile, per esempio nessuna malattia mentale o fisica, le ha impedito di vivere a lungo e di portare a compimento la propria carriera di scrittrice. Quanto a me io propendo, come si deduce anche da queste mie pagine, per la seconda ipotesi.

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Sostando accanto a Mamota – scrive la Ortese – cercavo di schiacciarmi in me stessa, come vedevo la natura aveva fatto con lei. [...] Non parlavo: stavo accanto a lei e vedevo che cio` le dava un senso di calma8.

Mamota non e` che una delle molte creature anomale, abnormi e “diverse” di cui la Ortese popola la propria narrativa, che come si sa e` affollata dai primi anni agli ultimi di desolati folletti e tristi monacielli, fanciulli disamati, puma dagli occhi supplici, donne-iguane geneticamente incidentate e molti molti altri infelici e malnati. Sono, potremmo pensare, altrettante figure del negativo al lavoro, poveri mostri attraverso i quali la vita si sbaglia ed esaspera senza mediazioni, per la Ortese e per noi, l’esperienza dell’alterita`. Ma puntualmente giunge dalla scrittrice la sua reazione, la sua risposta: che e` di accoglienza, di una quasi letterale com-prensione, di infinita tenerezza e di riconoscimento dell’altro, per mostruoso che sia, come proprio simile per amore, “per amore di altro”, per 9 il semplice fatto che si trova nel mondo . Quella che Anna Maria Ortese mette in atto e` dunque, come si e` visto gia` con Mamota, una relazione 10 empatica, mediata da quella pietas che tanto la contraddistingue e da un intenso desiderio per creature e mondi e livelli di esperienza altri da se´: un desiderio cosı` ardente, e una pratica d’amore cosı` potente, da travolgere e stravolgere la creatura che di volta in volta si trova in relazione con lei. Come nel caso della serva-iguana Estrellita, penalizzata socialmente e in natura e riscattata dall’amore del marchese suo padrone: La`, certi raggi che partono dall’inesauribile azzurro dei suoi occhi, dicono all’Iguanuccia che essa, la Iguanuccia, e` assai cara al marchese, e` parte dell’anima sua [...]. Non si e` guardata in uno specchio, da quando e` nata, ma non importa: sa di essere bella, ora, bellissima, e, come ogni figlia dell’uomo, ne e` beata11.

O del Monaciello Nicola, uno di “quei cari spiritelli della citta` mia” tutti smorfie e gesti bizzarri che la narratrice solleva dalla sua posizione di inerme e di mostro, ottenendone per soprammercato un’infinita gioia:

8

Anna Maria Ortese, Il porto di Toledo, cit., pp. 33-34. Una chiave fondamentale della mia lettura della Ortese e` divenuto, fin dalla sua uscita, il volume di Laura Boella e Annarosa Buttarelli, Per amore di altro. L’empatia a partire da Edith Stein, Cortina, Milano 2000. 10 Sulla pietas della Ortese ha contribuito fortemente alla mia riflessione Margherita Pieracci Harewell, Anna Maria Ortese, “Humanitas”, 2, 2002, pp. 247-283. 11 Anna Maria Ortese, L’Iguana [1965], Adelphi, Milano 1986, p. 124. 9

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Curvo su me, il Monaciello Nicola mi guardava attentamente, con un sorriso quasi affettuoso nei grandi occhi celesti. [...] Fin da allora mi piacquero [...] il visino magrissimo e sporco, due orecchie a sventola e ciuffi di capelli biondi, lucenti, che gli venivano sul viso. [...] Guardavo le stelle. E che dolci pensieri...! Come lo spettacolo della vita mi appariva divino. E il mio avvenire... come bello. Sentivo per la prima volta in vita mia quanto e` 12 grande e benefico l’amore pei nostri simili .

O ancora, e infine, nel caso del puma Alonso e nondimeno del fanciullo Decio, la coppia che scambiandosi amore insegna – mi insegna – 13 tanto della relazione con cio` che chiamo “la vita che non siamo noi” : Il musetto senza baffi, ordinario, eppure i suoi occhi ardevano di affetto, di gioia. Cosı` guardava tutti, [...] e soprattutto il bambino. Guardandolo, sembrava che i suoi occhi supplicassero di essere riconosciuti. Infine, si getto` a terra – era a un metro da Decio che tremava – con le zampe in aria [...]. Decio, dopo un’esitazione, perche´ era piccolo ed esile, si inginocchio` e gli abbraccio` la testa14.

Come si vede, non c’e` in questi gesti d’amore alcuna presunzione di assimilare l’altro a se´ – iguana, monaciello o puma che sia –, di annullarlo in quanto altro in forza della possibilita` – che qui non si da` – di mettersi al suo posto. Senza idealizzazioni e senza infingimenti, l’altro e` altro, e` differente, e` cio` che non siamo noi ma che noi, come ci mostra la Ortese, possiamo amare, possiamo sentire, riconoscendo come in lui ne vada di 15 noi stessi/e ed entrando in relazione empatica con lui (o lei) . E come altresı` si vede l’amicizia, la relazione con questi mostri e` una relazione conoscitiva e lo e` in quanto e` collegata all’esperienza: cio` che consente a tutte le “amiche del Mostro”, come gia` alle “amiche di Dio”, di pensare il

12

Anna Maria Ortese, Il Monaciello di Napoli [1940], Adelphi, Milano 2001, pp. 30 e 36-37. 13 ` E in corso di stampa un mio saggio con questo titolo, che e` il testo di una lezione al laboratorio stanziale di Prato “Raccontarsi”, organizzato dalla Societa` Italiana delle Letterate e giunto nel 2004 alla sua quarta edizione. Il volume, che raccoglie lezioni e interventi del laboratorio, si intitola Genere, diversita`, culture, a cura di Clotilde Barbarulli e Liana Borghi, e sara` pubblicato dall’editore CUEC di Cagliari. 14 Anna Maria Ortese, Alonso e i visionari, Adelphi, Milano 1996, p. 21. 15 Accanto agli studi fondamentali su Edith Stein (e non solo) di Annarosa Buttarelli, mi soccorrono sull’empatia alcune pagine del grosso volume di Martha C. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, tr. it. di Rosamaria Scognamiglio, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 359 ss., dove il tema viene ripreso e sviluppato nella direzione di un accostamento significativo fra empatia e compassione.

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mostro “senza concetti e senza operazioni logiche, con la stessa immediatezza che ha il sentire”, e di dare vita a “un dispiego d’invenzioni e pratiche” che “prende impulso dalle vicissitudini di un’avventura amoro16 sa” . Ma non importa qui prendere la strada (una strada, per l’appunto, filosofica) che porta alla magnifica faccenda della “teologia favolosa”, anche se mi sembra importante accorgersi di quanto possano essere amiche fra loro, e scambiarsi esperienza, le amiche del mostro e le amiche di Dio. Importa invece di piu` osservare con quanta liberta` e quanta immaginazione la Ortese si dimostri maestra di empatia, senza mai scivolare nell’insidia, come dicevo, di assimilare l’altro, di fonderlo a se´, in modo dunque che smetta di essere altro. E` un punto importante, anche perche´ l’altro di cui stiamo parlando e`, non dimentichiamolo, il negativo, il cui lavoro la Ortese non ostacola mentre gli si mette accanto e gli fa compagnia. Dunque la Ortese riconosce, senza negarlo, senza avversarlo e senza snaturarlo, il negativo al lavoro, che sa coinvolgere in strepitose declinazioni, o variazioni sul tema, della compassione-empatia. Ma fa anche di piu`. Per esempio, e come direbbe Annarosa Buttarelli, “lo accompagna al suo compimento”, ed e` quasi sua connivente nel favorire, fino all’esaurimento, il suo sviluppo. Perche´? Me lo domando e chiedo aiuto. Perche´ ne conosce l’ineluttabilita`, verrebbe da dire pensando di nuovo all’Iguana, e in particolare al primo dialogo fra il marchese Ilario e il conte Daddo. [Ilario] “Non scorgi del male in cio` che frena la vita, l’aspirazione sublime a identificarsi con l’Eccelso, e riduce l’esistenza a una trappola per topi?”. “No, a parer mio”, disse il conte “se proprio questo male permette alla cara vita di rivelarsi. Vi e` evidentemente” ammise con calma “un che di strano in tutta questa architettura che ci circonda, [...] ma null’altro. Credimi, caro, questa costruzione e` bonta` grandissima, e il dolore che [...] vedi sparso 17 e` [...] conseguenza del costruire” .

Oppure, perche´ confida nella rigenerazione del mondo, e la crede possibile solo allorche´ il negativo avra` svolto il suo lavoro fino in fondo. Come sembra testimoniare, in Alonso, il professor Op, che negandosi di intervenire su chi ha scelto l’odio si carica deliberatamente della colpa di omissione:

16 17

Cito da Luisa Muraro, Le amiche di Dio, D’Auria, Napoli 2001, pp. 13-14. Anna Maria Ortese, L’Iguana, cit., pp. 39-40.

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Egli lascio` che il delitto si compisse senza mai intervenire [...]. Solo cortesie e segni di fraternita`18.

O come ancor meglio testimonia, nel Cardillo addolorato, la stupenda figura di Elmina, che lungi dall’ostacolare – lei che sola lo potrebbe – la maledizione che pesa sulla sua famiglia e la sua casarella, viceversa l’asseconda e fa sı` che si consumi: Questo vuole il Cardillo [...] e questo faremo [...]. Insieme rivedremo i bei giardini dorati della nostra patria, io lo sento19.

Ma la Ortese fa di piu`, andando oltre come dicevo i propri traguardi di empatia, in un altro senso ancora. Lascia infatti che il negativo lavori, che lavori pressoche´ indisturbato, quando e` in grado di riconoscerlo, per paradosso, come forma di creazione. E` il caso, che infinitamente si ripete nella sua vita, del dolore della perdita delle persone amate: un dolore, un “negativo”, che non va a male, che non fa strage di lei e delle sue fibre grazie alla trasformazione in scrittura a cui lo sottopone. Una scrittura che 20 valorizza e mette in pratica, fin dal suo primo insorgere , la potenziale creativita`, appunto, del negativo, le risorse che si danno a ogni separazione, e che mentre dice il dolore mostra lo splendore dell’anima che lo esprime. L’uomo colpito prenda uno strumento musicale – in questo caso il verso – e cominci a trarne alcuni suoni calmi e sorridenti: in questa calma e questo sorriso soltanto egli potra` imprigionare l’orrore che ha subito. Dicendo la pena, la pena se ne andava. Percio` sentivo lo scrivere come una benedizione. In quegli attimi, e dopo, tutto il mio essere si calmava, tornava sano e allegro, respirava abbondantemente come la terra dopo un’acquata [...]. Ah, era bello! Non solo la disperazione se ne andava, ma io ero un’altra; e una veloce liberta` mi sollevava.

18

Anna Maria Ortese, Alonso e i visionari, cit., p. 138. Anna Maria Ortese, Il cardillo addolorato, Adelphi, Milano 1993, p. 385. Di Elmina, figura amatissima dalla sua autrice, si legge anche di come distrugga, in se´ e negli altri, ogni possibilita` di gioia (“dura e fredda di cuore e di parole nel suo No sempiterno a tutti i programmi della Joie”, p. 331). In realta`, il suo rifiuto della gioia e` la forma che assume in lei lo slancio di partecipazione alla condanna del piccolo, ostracizzato e orrendo fanciullo con la penna di gallina, attorno al quale ruota tutta la storia. 20 Rimando per questo alla mia Introduzione al citato primo volume dei Romanzi della Ortese, dove cerco di rendere conto di come questa scrittura nasca nell’alveo del dolore di una perdita e si iscriva per intero nell’antica dinamica del planctus. 19

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Capii come questo ammontarsi di emozioni, quel parlare ancora di lui [l’amatissimo fratello perduto], con dolore e amore, [...] davano la certezza che si trattasse di male assai lieve [...]. Capii che quel vuoto bisognava 21 colmare con parole di luce .

Le citazioni che si offrono sono molte, ma queste bastano a dare almeno un’idea della virtu` trasformatrice, quasi alchemica, di questa scrittura. Una scrittura, nella fattispecie una prosa, che costituisce peraltro di per se stessa un ambito elettivo per il lavoro del negativo: poiche´ l’autodidattismo e la mancanza di istruzione dell’autrice, la sua ignoranza della grammatica e delle relative “stregonerie” (punteggiatura, ortografia, concordanze, consecutio temporum e cosı` via) la lasciano inerme e del tutto indifesa, prona a cio` che la minaccia e la puo` disfare. E che di fatto la disfa, facendo di essa qualcosa di squilibrato e di torbido, spesso dissennato e perfino oscuro. La prosa della Ortese e` infatti notoriamente sgangherata, messa in subbuglio non solo da cio` che di potente l’attraversa ma anche dalla mancanza di quelle difese immunitarie che di norma fornisce la conoscenza delle regole della lingua e dello stile. Ma l’autrice non vi si oppone, e non cerca in alcun modo di ovviare a queste mancanze. Cio` che fa e` invece lasciare che tutto questo avvenga, che la scrittura pubblicamente dolori, e che si mostri in tutte le sue ferite senza pudore e senza reticenza. E` questo un lasciare, per l’appunto, il negativo al lavoro. Ed e` un assicurare, che lei lo sappia o meno, alla prosa il suo splendore, la sua sbalorditiva e imprevista grandezza. Ma e` altresı` a mio vedere anche un gesto lungimirante, ancora una volta compassionevole, e provvidenziale: che consente a noi, sue lettrici e lettori di oggi, di non doverci vergognare di leggere, di stare leggendo mentre il mondo va a picco. Poiche´ la sua scrittura dolorante e scabrosa, senza compiacimenti e tutta verita`, si dimostra infine forse la sola scrittura possibile; l’unica, vorrei dire, che in tempi sventurati e di violenze inaudite non renda oscena l’esistenza della letteratura.

21 Ho citato nell’ordine da Anna Maria Ortese, Corpo celeste, cit., p. 66, e da Ead., Il porto di Toledo, cit., rispettivamente pp. 36 e 49.

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L’irriducibilita` del negativo. Note sulla violenza a partire da Simone Weil di Rita Fulco

La violenza e il negativo assoluto Non ci siamo mai abituati a vederlo. Impossibile abituarsi. L’incredibile era che vivesse ancora. Quando la gente entrava nella camera e vedeva la forma sotto il lenzuolo, non riusciva a sopportarla, volgeva altrove gli occhi. Molti uscivano, non tornavano piu`1.

Figura esemplare del malheur2, il sopravvissuto dei campi di concentramento si staglia nella cruda scrittura de Il dolore di Marguerite Duras, lacerando ogni frase con la stessa violenza da lui subita. Quel Robert L., che la scrittrice ha amato e di cui ha atteso il ritorno dai campi di concentramento, percuote brutalmente l’intero racconto con l’insopportabile e impudica evidenza delle sue feci immonde o della voracita` animalesca e incontrollata, della “fame che aveva preso il posto di Robert L.” nel 3 momento in cui la febbre si era abbassata . 1

Marguerite Duras, Il dolore, tr. it. Giovanni Mariotti, Feltrinelli, Milano 1995, p. 53. Nodo teorico, nonche´ imprescindibile Erfahrung ed Erlebnis del pensiero di Simone Weil, il malheur, molto piu` del mero dolore fisico, della mera indigenza o dell’umiliazione, e` solitamente tradotto in italiano con il termine sventura. Cfr. Simone Weil, L’amore di Dio e la sventura, in Ead., L’amore di Dio, tr. it. di Giulia Bissaca e Alfredo Cattabiani, Borla, Roma 1972; in realta` sia i Cahiers che tutte le altre opere weiliane fanno costante riferimento al malheur, assumendolo come nota di fondo di ogni riflessione. Per una panoramica generale cfr. l’indice tematico curato da Maria Concetta Sala in Simone Weil, Quaderni IV, a cura e con un saggio di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1993, pp. 491-623. Sulla necessita` di coniugare costantemente riflessioni teoriche ed esperienze vissute cfr. Luisa Muraro, “Filosofia, cosa esclusivamente in atto e pratica”, in AA. VV., Obbedire al tempo, a cura di Angela Putino e Sergio Sorrentino, Esi, Napoli 1995, pp. 41-48. 3 “Attraverso quel collo vedevamo il disegno delle vertebre, la carotide, i nervi, la faringe, il sangue che passava; la pelle era simile alle cartine per sigarette. Usciva da lui una cosa gorgogliante e verdescura che ribolliva, merda mai vista prima. Poi lo riportavamo a letto, era come annientato, teneva a lungo gli occhi socchiusi. Per diciassette giorni l’aspetto della merda resto` lo stesso. Inumano. Ci separava da lui piu` della febbre, della 2

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Non si puo` fare, dopo i campi di concentramento, un discorso sul negativo che parta esclusivamente dalle categorie offerte dalla metafisica, poiche´ esse non riescono a rendere conto di quell’orrore paradossale. Del resto, se e` necessario misurarsi dialetticamente con questo tema, e` il 4 pensiero occidentale stesso a doversi rimettere in questione . Lo stesso Hegel, che nell’uso della dialettica sembra smorzare l’urto reale del negativo, cercando di esaltarne essenzialmente il valore poietico e stru5 mentale , parlando della conoscenza divina e della vita dello spirito come “un gioco dell’amore con se stesso” avverte che “questa idea rischia di degradare a mera edificazione e di divenire perfino insulsa, se le mancano 6 la serieta`, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo” . Non e` dato magrezza, delle dita prive di unghie, delle tracce che i colpi delle SS avevano lasciato sul suo corpo. Gli davamo brodo giallo-oro, brodo per neonati; veniva fuori da lui verdescuro come fanghiglia di palude” (ivi, p. 52). E dopo i diciassette giorni di febbre, quando la “morte si e` stancata”: “Lui e` scomparso, al suo posto la fame. Un vuoto al suo posto. Butta giu` in un buco, empie quello che era svuotato, le viscere rinsecchite. Questo fa. Obbedisce, serve, contribuisce a una funzione misteriosa. Che coscienza ha della fame? Come sa che proprio di fame ha bisogno? Lo sa come meglio non lo puo` sapere. [...] Sempre meno preferenze. Inghiotte come un burrone. Quando i piatti ritardano piange, e dice che non lo capiamo” (ivi, pp. 53-54). E` stata scelta Margherite Duras e non una pagina di Primo Levi o di qualsiasi altro sopravvissuto, perche´ queste righe mostrano, con il lucido disincanto proprio della scrittrice, non la compassione ma l’orrore degli ‘spettatori’ esterni del malheur, tanto da far riaffiorare alla memoria le immagini dei documentari girati dagli americani all’apertura dei campi di concentramento, nel momento in cui la gente comune, che viveva nei pressi dei campi di sterminio, e` costretta ad entrare in quei luoghi per vedere e toccare di persona l’orrore che aveva abitato accanto a loro indisturbato. La prospettiva da cui il malheur si sperimenta e` determinante per comprenderne la verita` e la violenza. 4 Come gia` Adorno, proprio a partire dall’esperienza di Auschwitz, aveva tentato di fare con la sua dialettica negativa: “Se la dialettica negativa esige l’autoriflessione del pensiero, allora implica palpabilmente che il pensiero deve pensare anche contro se stesso, per essere vero, almeno oggi. Se esso non si commisura all’estremo che e` sfuggito al concetto, e` in partenza della stessa marca della musica di accompagnamento con cui le SS amavano coprire le grida delle loro vittime” (Theodor W. Adorno, Dialettica negativa, tr. it. di Carlo Alberto Donolo, Einaudi, Torino 1980, p. 331). Benche´ il discorso di Adorno sia condotto in maniera polemica contro Heidegger, travisandone, per altro, grossolanamente il pensiero, tuttavia coglie ed esplicita un problema che, staccato dalla diatriba heideggeriana, ha una portata epocale. 5 “Lo Spirito conquista la propria verita` solo a condizione di ritrovare se stesso nella disgregazione assoluta. Lo Spirito e` questa potenza, ma non nel senso del positivo che distoglie lo sguardo dal negativo, come quando ci sbarazziamo in fretta di qualcosa dicendo che non e` o che e` falso, per passare subito a qualcos’altro. Lo Spirito e` invece questa potenza solo quando guarda in faccia il negativo e soggiorna presso di esso. Tale soggiorno e` il potere magico che converte il negativo nell’essere” (Georg W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, a cura di Vincenzo Cicero, Rusconi, Milano 1995, p. 87). 6 G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 69.

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sapere in anticipo quale evento annunci il travaglio del negativo, se esso possa essere identificato con una fase di quelle doglie del parto che potrebbero annunciare, ebraicamente, la venuta del Messia7, o se, lungi dall’aprire la piccola porta8 all’altro, con l’esigenza di giustizia incondizionata di cui e` portatore9, si riveli, piuttosto, un supremo sforzo di assimilazione e di ‘digestione’ dell’altro nell’identico, rischio da sempre presente nel pensiero occidentale e ancor piu` insidioso nella svolta “imperiale” e globalizzante della sua odierna politica. L’attuale situazione del nostro pianeta – l’evidenza, si potrebbe dire, sfacciata della potenza americana e quella, altrettanto palese, della poverta` assoluta dell’Africa – impedisce di riflettere con obiettivita` sul concetto di forza, sul travaglio del negativo costituito dal suo mettersi in atto. A livello politico si e` ormai stabilito un’eccezionale squilibrio delle forze, e se “sovrano e` chi decide sullo stato d’eccezione”10, risulta abbastanza evidente individuare chi dirige le sorti dell’umanita`11 instaurando uno stato d’eccezione permanente. L’Europa, di cui attendiamo ancora, come Marı´a Zambrano durante la seconda

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Cfr. Talmud Sanhedrı´n 98b. Secondo la nota espressione delle Tesi di filosofia della storia di Benjamin. Cfr. Walter Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, p. 57. 9 Sul carattere incondizionato della giustizia, in una prospettiva che travalica l’orizzonte strettamente religioso del messianismo ebraico, si e` in piu` luoghi soffermato Derrida. Si veda, ad esempio, Jacques Derrida, Forza di legge. Il “fondamento mistico dell’autorita`”, a cura di Francesco Garritano, tr. it. di Angela Di Natale, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Per un’approfondita trattazione di questi temi si rimanda a Caterina Resta, L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 10 Carl Schmitt, Teologia politica, in Le categorie del ‘politico’, a cura di Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, cit., p. 33. Sullo “stato d’eccezione” di recente e` intervenuto Giorgio Agamben, Stato di eccezione. Homo sacer, II, I, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 11 Lo squilibrio assoluto delle forze e` sottolineato anche da Jean Baudrillard nelle sue ipotesi sul terrorismo: “Se e` quello di destabilizzare l’ordine mondiale con le sue sole forze, in uno scontro frontale, l’obiettivo del terrorismo e` assurdo: il rapporto di forze e` talmente diseguale... D’altra parte, l’ordine mondiale e` gia` il luogo di un disordine tale, di una tale deregulation, che sarebbe assolutamente inutile contribuirvi ancora. [...] La vera vittoria del terrorismo consiste nell’aver precipitato l’intero Occidente nell’ossessione della sicurezza, cioe` in una forma velata di terrore perpetuo. Lo spettro del terrorismo costringe l’Occidente a terrorizzarsi da solo – la rete poliziesca planetaria equivale in questo senso alla tensione di una guerra fredda universale, di una quarta guerra mondiale che si inscrive nei corpi e nei costumi” (Jean Baudrillard, Power Inferno, tr. it. di Alessandro Serra, Raffaello Cortina, 2003, pp. 28-29, 51. Cfr. anche Id., Lo spirito del terrorismo, tr. it. di Alessandro Serra, Raffaello Cortina, 2002). 8

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12 guerra mondiale, una vera resurrezione , non riesce a proporre scenari alternativi, forse perche´, molto piu` che l’idea di comunita`, a dominare le 13 sue origini e` il polemos, se non la violenza stessa . Weil, nello stesso periodo di Zambrano, riflette sulla forza a partire, come spesso usava fare, dal mondo dell’antica Grecia, fonte inesauribile di una profonda sapienza. Ad 14 offrirle lo spunto e` l’Iliade , poema in cui non si presentano mai gruppi umani nettamente divisi in vinti e vincitori, schiavi e capi, ma, anzi, ogni singolo individuo, in un momento ben preciso, e` costretto a piegarsi all’imperio della forza, a partire da Ettore “uccisore di uomini”, ad Agamennone, a Priamo. Al contrario di ogni teoria per la quale la 15 violenza, come forza o come potere , venga considerata uno strumento in vista di fini, riconoscendole cosı` un grande potenziale di trasformazione, sulla scorta del travaglio del negativo hegeliano, Weil colloca la forza in un sostrato metafisico-ontologico inutilizzabile, “al di la` del bene e del male”. Perfino Benjamin, nonostante il tentativo di trovare dei mezzi puri – quali la conversazione o lo sciopero generale – che siano alternativi alla violenza, cede alla tentazione di distinguere fini giusti o ingiusti nell’eventuale utilizzo della violenza – che “e` un prodotto naturale, per cosı` dire una materia prima, il cui impiego non solleva problemi di sorta, purche´ 16 non si abusi della violenza a fini ingiusti” . La concezione weiliana, per la

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Questo e` cio` che attendeva Marı´a Zambrano negli anni Quaranta: “Tentando di trovare l’essenza di quello che chiamiamo Europa, di cio` a cui mai e poi mai tenteremo di rinunciare – continuando a vivere la nostra vita senza la sua vita – cercheremo anche il principio della sua possibile resurrezione” (Marı´a Zambrano, L’agonia dell’Europa, tr. it. di Claudia Razza, Marsilio, Venezia 1999, p. 48). 13 Come sostiene ancora Marı´a Zambrano, l’Europa si e` “costituita nella violenza, in una violenza che abbraccia ogni possibile manifestazione, in una violenza di radice, di principio. Dove risiede l’origine della violenza europea? Fare questa domanda equivale ad interrogarsi sulle origini dell’Europa, sulla sua nascita. E sulla sostanza della vita europea” (M. Zambrano, L’agonia dell’Europa, cit., p. 52). Sull’identita` dell’Europa e sui nuovi scenari della globalizzazione, cfr. Jacques Derrida, Oggi d’Europa, tr. it. di Maurizio Ferraris, Garzanti, Milano 1991; Massimo Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994; Giacomo Marramao, Passaggio ad Occidente, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 14 Cfr. Simone Weil, L’Iliade, poema della forza, in La Grecia e le intuizioni precristiane, tr. it. di Cristina Campo, Borla, Roma 1999. 15 Gewalt, Kraft, Macht, secondo la triplice accezione che, fin da Hegel, designa in modo a volte ambiguo, ora l’uno ora l’altro aspetto della violenza e di cui per prima Hannah Arendt ha colto l’importanza di una differenziazione. Cfr. Hannah Arendt, Sulla violenza, in Politica e menzogna, tr. it. di S. D’Amico, SugarCo, Milano 1985. 16 Walter Benjamin, Per la critica della violenza in Angelus Novus, a cura di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1995, p. 6. Con queste affermazioni Benjamin corre il rischio di sfiorare, seppur da lontano, la funzione moralizzatrice della violenza propugnata da Sorel, che la considera addirittura investita della realizzazione di un’opera di redenzione nei confronti

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sua radicalita`, che va oltre il significato ordinario di violenza come atto bruto – non escludendolo ma cercandone l’origine – forse puo` essere accostata a quella heideggeriana che conferisce “alla parola violenza un significato essenziale che oltrepassa, in linea di principio, il significato 17 usuale della parola per cui essa significa per lo piu` brutalita` e arbitrio” , designando, piuttosto, un certo modo di darsi dell’essere che, in Heidegger, portera` direttamente alla riflessione sulla tecnica, e in Weil a quella sulla sventura. Lungi dall’essere due strade divergenti, queste riflessioni si incrociano tristemente nell’apogeo della tecnica e in quello della sventura costituito dai campi di sterminio, in cui il malheur piu` paradossale e` causato 18 dalla piu` sconcertante manifestazione dell’essenza della tecnica . Al di la` della visione metafisica della forza, come necessita` insita nei rapporti nell’ambito del naturel, e di cui la pesanteur, la gravita`, e` la manifestazione piu` evidente, quello che emerge dalle riflessioni weiliane e`, appunto, un’insuperata descrizione del malheur, della sventura umana, che sembra lambire l’orrore dei campi di sterminio, senza che Weil ne sia stata testimone, e, forse, senza neppure averne avuto notizie: Dal potere di tramutare un uomo in cosa facendolo morire, procede un altro potere, e molto piu` prodigioso: quello di mutare in cosa un uomo che resta vivo. E` vivo, ha un’anima; e`, nondimeno, una cosa. Strana cosa una cosa che ha un’anima; strano stato per l’anima. Chissa` quale sforzo le occorre ad ogni istante per conformarsi a cio`, per torcersi e ripiegarsi su se medesima? L’anima non e` fatta per abitare una cosa; quando vi sia costretta, non vi e` piu` nulla in essa che non patisca violenza. Un uomo dell’Occidente assopito nella filantropia: “Non solo la violenza proletaria puo` garantire la futura rivoluzione ma sembra anche essere il solo mezzo di cui dispongono le nazioni europee abbrutite dall’umanitarismo per ritrovare la loro antica energia” (Georges Sorel, Riflessioni sulla violenza, tr. it. di M. G. Meriggi, Rizzoli, Milano 1997, p. 115). 17 Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, tr. it. di Giuseppe Masi, Mursia, Milano 1986, p. 158. Sul rapporto tra Heidegger e Weil cfr. Chiara Zamboni, Interrogando la cosa. Riflessioni a partire da Martin Heidegger e Simone Weil, Ipl, Milano 1993. 18 La concezione heideggeriana della tecnica viene costantemente travisata a causa della difficolta` di intendere la tecnica non come uno strumento nelle mani dell’uomo, quanto come un modo di darsi dell’essere, che caratterizza la fase del compimento nichilistico della storia del pensiero occidentale. Su questi temi cfr. Caterina Resta, Heidegger e il tecnototalitarismo planetario, in AA. VV., Heidegger e gli orizzonti della filosofia pratica. Etica, estetica, politica, religione, a cura di Adriano Ardovino, Guerini, Milano 2003, pp. 157-187. Questo intervento ha il merito di esplorare anche il rapporto con Nietzsche e Ju¨nger e di ricontestualizzare la riflessione heideggeriana sulla tecnica nell’orizzonte nichilistico schiuso dal totalitarismo. Sulla questione della tecnica cfr. anche Eugenio Mazzarella, Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger, Guida, Napoli 1981 e Mario Ruggenini, Il soggetto e la tecnica. Heidegger interprete “inattuale” dell’epoca presente, Bulzoni, Roma 1977.

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inerme e nudo sul quale si punti un’arma diventa un cadavere prima di essere toccato19.

La trasformazione dell’uomo in cosa segna lo scarto che lo divide per sempre dagli altri esseri umani; e` una trasformazione quasi ontologica dalla quale non si danno vie d’uscita che dipendano dalla persona colpita dalla sventura, ormai alla merce´ della forza, come i Muselma¨nner di Auschwitz. Nessun travaglio del negativo e` piu` possibile nella situazione di ingiustizia assoluta in cui la persona e` stata precipitata. E` impossibile descrivere il suo dolore, impossibile comprendere anche se e quanto ne provi, di questo dolore, di questa sventura assoluta che, lungi dall’avere un 20 senso, anche solo per chi ne e` testimone , e` inutile, non rimanda ad alcun messaggio, non e` che il piu` grande di tutti i mali. Nessuno di coloro che sono stati colpiti da una simile sventura hanno potuto raccontarla, e la sventura altrui non e` mai la propria, cosı` da poterla descrivere con una qualche attendibilita`. L’impossibilita` di testimoniarne e` il segno della sua assolutezza, del suo essere ab-soluta, sciolta da tutte le categorie e dalla 21 possibilita` di una rappresentazione verosimile : I supplici almeno, una volta esauditi, ridiventano uomini come gli altri. Ma vi sono altri esseri, piu` sventurati ancora che, senza morire, sono diventati cose per tutta la loro vita. Nelle loro giornate non vi e` alcuno spazio, alcun vuoto, alcun campo libero per qualcosa che proceda da loro. Non si tratta di uomini che vivano piu` duramente di altri, posti socialmente piu` in basso di altri; si tratta di un’altra specie umana, un compromesso tra l’uomo e il cadavere22.

Questa situazione di sventura assoluta che Weil trae da alcuni brani dell’Iliade aveva attirato la sua attenzione per il carattere equo che sembrava segnare, in quella civilta`, l’accadere della sventura stessa. L’Iliade ne sarebbe un esempio supremo proprio perche´ tutti, come e` stato gia` sottolineato, dagli eroi al popolo, alternano fasi di benessere e gloria a fasi di sventura e umiliazione. Vi si puo` leggere una sorta di grande lezione di

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S. Weil, L’Iliade, poema della forza, cit., p. 10. Come vorrebbe Le´vinas. A tal proposito si rimanda a Emmanuel Le´vinas, La sofferenza inutile, in Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, tr. it. di Emilio Baccarini, Jaca Book, Milano 1998, pp. 123-135. 21 Su questi temi cfr. Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1998. 22 S. Weil, L’Iliade, poema della forza, cit., p. 13. 20

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metafisica e di etica che non ha eguali, considerato il fatto che anche il biblico Giobbe, sgomento, constata la fortuna degli empi: Perche´ mai gli empi vivono, invecchiano, son pur forti in vigore? [...] Sono mai diventati come paglia dinanzi al vento, e come pula cui rapisce il turbine? [...] Questi muore nel pieno della sua prosperita` sicuro e tranquillo 23 [...] L’altro muore con l’anima amareggiata, ne´ mai godette la felicita` .

L’ineluttabilita` del male, la sua ingiusta distribuzione, l’impossibilita`, a certi livelli, di qualsiasi lavoro del negativo, restano un mistero per ogni 24 orizzonte di fede in cui, come gia` aveva constato Hans Jonas , e con lui, 25 Sergio Quinzio , o Dio e` buono o e` onnipotente: l’onnipotenza renderebbe Dio colpevole di tutta la sventura presente nel mondo, mentre se si ammettesse la sua bonta`, bisognerebbe postulare la sua non-onnipotenza per spiegare il male nel mondo. La situazione analizzata da Weil, lontana da un’ottica di fede che prospetti un aldila` con ricompense postume, offre della sventura un quadro sfrondato di consolazioni fittizie e privo di qualsiasi dolore che somigli alle doglie del parto, foriere della gioia di una nuova vita. Da questa impasse etico-metafisica sarebbe impossibile uscire, ma, come scri26 veva Ho¨lderlin, “dove pero` e` il rischio / anche cio` che salva cresce” . In 23

Gb. 21, 7; 18; 23; 25. Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, tr. it. di Carlo Angelino, il melangolo, Genova 1993. 25 La sconfitta di Dio, ultima spiaggia di un tempo troppo dilazionato nell’attesa di un regno di giustizia, sarebbe il crollo di ogni dialettica, l’impossibilita` di qualsiasi lavoro del negativo, e la necessita` di un tempo totalmente altro, che sopportasse la sventura come pura obbedienza ad una necessita`: “Il danno del tempo cresce in irreparabilita` continuamente, anche se la fede dice che l’irreparabilita` non sara` mai totale, che qualcosa di maciullato sara` strappato dalla gola del leone, che ci sara` il dolore e non il nulla. Quello che esprime la croce e` vero infinitamente al di la` di quanto si e` mai osato pensare: la vittoria di Dio coincide con la sua sconfitta” (Sergio Quinzio, Dalla gola del leone, Adelphi, Milano 1993, p. 42). Sul tema del male in rapporto all’attesa del regno in Sergio Quinzio, mi permetto di rinviare a Rita Fulco, Pensare apocalitticamente. La lotta messianica di Sergio Quinzio, in AA. VV, La sentinella di Seir. Intellettuali nel Novecento, a cura di Paola Ricci Sindoni, Studium, Roma 2004. Cfr. inoltre AA. VV., Il Messia povero. Nichilismo e salvezza in Sergio Quinzio, a cura di Daniele Garota e Massimo Iiritano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004. Per il rapporto tra Simone Weil e la violenza nel cristianesimo si rimanda a Wanda Tommasi, Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile, Liguori, Napoli 1997, in particolare “Dalla non violenza di Dio alla violenza delle collettivita`: Simone Weil e Rene´ Girard”, pp. 95-117. Cfr. inoltre Massimo Cacciari, Note sul discorso filosofico-teologico in Simone Weil, “Paradosso”, 1, 1992, pp. 125-132. 26 Friederich Ho¨lderlin, Patmo, in Le liriche, a cura di Enzo Mandruzzato, Adelphi, Milano 1993, p. 667. 24

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effetti, dalla sventura assoluta viene un appello, un grido muto, lo stesso grido che nel mondo lancia la verita`: Vi e` alleanza naturale tra la verita` e la sventura, in quanto sia l’una che l’altra sono dei supplicanti muti, condannati in eterno a restare senza voce 27 davanti a noi .

Il motivo di tale destino e` tanto lineare quando crudo e riguarda la natura umana e la sua repulsione per la morte e per la sventura, ma anche per la verita` del suo essere, che e` un essere finito, mortale, limitato, nonostante tutta la sete d’infinito e di immortalita` che si possa custodire nel proprio cuore: Il pensiero umano non puo` riconoscere la realta` della sventura. Se qualcuno riconosce la realta` della sventura, deve dire a se stesso: “Un gioco di circostanze che non controllo puo` togliermi qualsiasi cosa in qualsiasi istante, comprese tutte quelle cose che sono talmente mie che le considero come parte di me stesso. Non c’e` niente in me che io non possa perdere. Il caso puo`, in qualsiasi momento abolire cio` che sono e mettere al suo posto qualsiasi cosa di vile e di spregevole”. Pensare questo con tutta l’anima, significa sperimentare il nulla. Lo stato di estrema e totale umiliazione e` 28 anche la condizione del passaggio nella verita` .

L’attaccamento e` uno dei motivi per cui la sventura resta inascoltata. Attentus, in latino participio di attendere, puo` significare sia “attento” che “attaccato a”, come se la parola contenesse gia` in se´ questo pericolo di 29 degenerazione . In effetti, come rileva a piu` riprese Weil, ogni attenzione necessita di un dispendio di energia che, per cosı` dire, aderisce, “si attacca” all’oggetto. In ogni situazione in cui si ama o si desidera o si ha cura, di qualcuno o di qualcosa, si diviene, in qualche modo, dipendenti dalla sorte di quella cosa o di quella persona. Cio` che crea la dipendenza non e` tanto la cosa o la persona in se´, quanto la quantita` di energia investita nella loro cura, energia che attende di essere compensata. Ad un livello abbastanza alto di “dispendio” di energia, l’attenzione a una qualsiasi attivita` che puo` rientrare nella quotidianita` di un essere umano – ad esempio il risparmio di danaro – puo` trasformasi in una passione 27 Simone Weil, La persona e il sacro, tr. it. di Giancarlo Gaeta, in Giancarlo Gaeta, Simone Weil, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole 1992, p. 157. 28 Ivi, p. 159. 29 Sul tema dell’attenzione in Simone Weil cfr. Chiaretto Calo`, Simone Weil. L’attenzione. Il passaggio dalla monotonia dell’apparenza alla meraviglia dell’essere, Citta` Nuova, Roma 1996.

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fredda, per usare un’espressione kantiana – per cio` che concerne il denaro, nell’avarizia – nel momento in cui non ci si rassegni al fatto che tale dispendio possa anche avvenire a vuoto o non perseguire gli scopi prefissi. La conseguenza e` il cristallizzarsi del proprio punto di vista, l’impossibilita` di quello scarto in cui possa inserirsi il pensiero, e l’incapacita` di riuscire a leggere obiettivamente la realta`, tanto meno ad ascoltare il grido muto che viene dalla verita` e dalla sventura. La centralita` dell’umilta` non ha in Weil nessuna sfumatura moralistica, ma e` legata, piuttosto, alla capacita`, se cosı` si puo` dire, del pensiero stesso di partorire, in mezzo a doglie tremende, la possibilita` stessa di un evento, mediante l’attenzione e la vigilanza: Colui che possiede la forza avanza in un ambiente privo di resistenza senza che nulla, nella materia umana intorno a lui, sia di natura tale da suscitare tra l’impeto e l’atto quel lieve intervallo ove s’inserisce il pensiero. E dove 30 non ha dimora il pensiero, non ne ha la giustizia, ne´ la prudenza .

L’evento che si prepara dopo le doglie del parto, nello scarto di tempo della tensione e dell’apertura all’ascolto, e` l’evento stesso della giustizia.

La giustizia nuda “Perche´ mi viene fatto del male?” e` il grido muto della sventura che puo` diventare la chiave per uscire dall’impasse dell’impero della violenza e della forza. In realta` si tratta di un’amara interrogazione interiore, che assume la forma di una vera e propria domanda ontologica ed esistenziale sulla natura umana e sulla presenza del male. Weil, nel saggio La persona e il sacro, la analizza con attenzione, soprattutto, alla sua declinazione sociale e politica, cercando di valutarne gli effetti in una societa` in cui essa potesse davvero essere udita da tutti, producendo un’energia di rottura con schemi di potere che contribuiscono, invece, solo al suo ulteriore oblio. Chi si pone la domanda e` il malheureux o la malheureuse, lo sventurato o la sventurata, qualcuno o qualcuna assolutamente privi di forza e di potere che subiscono un torto, piu` o meno grave, al quale non possono opporsi senza peggiorare la loro situazione, o, piu` semplicemente, restando del tutto inascoltati. La storia degli effetti di questa domanda si amplia fino a gettare luci sull’essenza stessa della persona umana, su cosa possa ritenersi sacro in essa, su cosa impedirebbe di farle del male nel caso se ne avesse 30

Simone Weil, L’Iliade, poema della forza, cit., p. 17.

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voglia e cio` procurasse piacere. Ne´ il concetto di persona, come volevano i personalisti, ne´ la sua posizione sociale, ne´ il colore degli occhi potrebbe, secondo Weil, trattenere dal farle del male: Non sarebbe niente di tutto questo a trattenere la mia mano. Cio` che la potrebbe trattenere, e` il fatto di sapere che se qualcuno gli cavasse gli occhi, avrebbe l’anima lacerata dall’idea che gli si fa del male. C’e` nell’intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l’esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene e non del male. E` questo, prima di tutto che e` sacro in ogni essere umano. [...] Tutte le volte che sorge dal profondo di un cuore umano il lamento del fanciullo che Cristo stesso non ha saputo trattenere: “Perche´ mi viene fatto del male?”, vi e` certamente 31 ingiustizia .

Se tale grido avesse un’evidenza costante e fosse udibile sempre, probabilmente molte ingiustizie sarebbero evitabili. Nella realta`, invece, il suo ascolto sembra legato all’esistenza di esseri perfettamente puri – forse, 32 ebraicamente, i trentasei giusti che abitano il mondo nel nascondimento – in grado di percepire tale grido ed essere, in primo luogo, coscienti dell’essenza stessa della sventura. Alla quasi impossibilita` di esistenza, nell’ambito del naturel, di questi pochi e rari, si aggiunge l’estrema difficolta` di espressione di tale domanda ontologica, proprio da parte di coloro che la sventura ha segnato indelebilmente: In coloro che hanno subito troppi colpi, come gli schiavi, sembra morta quella parte del cuore che il male inflitto fa gridare di sgomento. Ma non lo e` mai del tutto. Solo che non puo` piu` gridare. E` immobile in uno stato di gemito sordo e ininterrotto. Ma anche in coloro nei quali il potere del grido e` intatto, questo grido non giunge quasi mai ad esprimersi ne´ interiormente, 33 ne´ esteriormente con parole coerenti .

Quelli a cui piu` spesso viene fatto del male sono coloro che meno sanno o possono parlare. Weil cita l’esempio di un vagabondo sorpreso a rubare che, davanti ad un magistrato che fa lo spiritoso in linguaggio elegante, balbetta le sue timide difese. Il vagabondo assume in Weil lo stesso valore paradigmatico che, nella tradizione ebraica, posseggono le 31

S. Weil, La persona e il sacro, cit., pp. 142-143. Per questo tema si rimanda a Gershom Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, tr. it. di Michele Bertaggia, Marietti, Genova 1986. 33 S. Weil, La persona e il sacro, cit., p. 143. 32

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figure dello straniero, dell’orfano e della vedova, gli inermi per essenza, coloro che piu` di altri portano dentro domande di giustizia e appelli alla responsabilita`, come Le´vinas non ha mancato di sottolineare. Queste domande, meno che mai, sono prese in carico dalle istituzioni o dalla politica, proprio a causa del loro carattere di assolutezza e di inesprimibilita`. Anche in una realta` dove vige la liberta`, come quella delle democrazie occidentali, tale liberta` non risulta condizione sufficiente all’espressione di queste domande profonde. Occorrerebbe, dunque, un’azione politica che mutasse radicalmente lo status quo, ma senza necessariamente passare attraverso una contro-violenza rivoluzionaria: Innanzitutto bisogna che l’educazione pubblica sia tale che fornisca a quelle parte di cuore che grida contro il male il maggior numero di mezzi espressivi. Per la pubblica espressione delle opinioni ci vuole poi un regime che sia definito non tanto dalla liberta` quanto da un’atmosfera di silenzio e attenzione in cui questo grido debole e maldestro possa farsi sentire. Infine ci vuole un sistema di istituzioni che porti il piu` possibile alle funzioni di 34 comando gli uomini capaci e desiderosi di intenderlo e di capirlo .

La radicalizzazione del punto di vista collettivo, il “noi”, e` ancora piu` pericoloso della radicalizzazione del punto di vista individuale. Lo spirito gregario, nel momento in cui si cristallizza, impedisce, anche a coloro che per vocazione hanno scelto di stare, teoricamente, dalla parte dei piu` deboli, l’ascolto del grido della parte impersonale dell’anima, il “perche´ mi viene fatto del male?”. A essere messi in questione, come Weil non manca di fare in modo sferzante, sono sia i partiti di sinistra sia i sindacati sia il movimento operaio, ai quali, pure, l’autrice aveva da sempre prestato la sua solidarieta` e il suo sostegno fattivo. La sua critica si rivolge, ad esempio, al fatto che nelle discussioni sindacali del movimento operaio l’attenzione venga posta, dai “professionisti della parola”, non sulla violenza inaudita che si compie ogni volta che si avvilisce il lavoro umano – considerato un ponte con la verita`, con la realta`, con la bellezza dell’universo – ma sui salari. Gli operai, sotto la fatica che li schiaccia, sono portati, cosı`, ad accogliere con sollievo la facile chiarezza delle cifre: dimenticano che l’oggetto su cui si mercanteggia, di cui si lamentano che sono costretti a consegnarlo a ribasso, che gliene viene negato il prezzo giusto, non e` altro che la loro anima. Immaginiamo che il diavolo stia comprando l’anima di uno sventurato, e che qualcuno, avendo pieta` di 34

Ivi, p. 144.

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questo sventurato, intervenga nel dibattito e dica al diavolo “E` vergognoso da parte vostra offrire solo questo prezzo; l’oggetto vale almeno il doppio”. Questa sinistra farsa e` quella recitata dal movimento operaio, con i suoi sindacati, i suoi partiti, i suoi intellettuali di sinistra. Questo spirito di mercanteggiamento era implicito nella nozione di diritto che le generazioni dell’89 hanno avuto l’imprudenza di mettere al centro dell’appello che hanno gridato in faccia al mondo35 .

La giustizia che Weil auspica ha davvero poco a che fare con questa nozione di diritto, quanto poco la domanda “Perche´ mi viene fatto del male?” ha a che fare con la “rivendicazione”. Il bambino che si lamenta per aver ricevuto una fetta di dolce piu` piccola del fratello e dice “Perche´ ne ho avuto di meno?”, si situa nell’orizzonte della rivendicazione, ma la domanda “Perche´ mi costringono a questo?”, posta da una ragazza costretta a prostituirsi, apre orizzonti ben diversi. Nella rivendicazione e` sempre insito un indice distributivo e quantitativo, nel grido dell’ingiustizia assoluta e` un orizzonte qualitativo ad essere in gioco. La nozione di diritto e` piu` vicina alla rivendicazione che al richiamo assoluto della giustizia. Essa e` legata al privilegio, innanzitutto quello di essere “cittadino” di qualche Stato, e, in un modo o nell’altro, garantita da un “noi” che ha gia` acquisito dei privilegi: Un contadino su cui un acquirente, in un mercato, fa indiscretamente pressione per indurlo a vendere le sue uova a basso prezzo, puo` benissimo rispondere: “Ho il diritto di tenere le uova se non mi fate un buon prezzo”. Ma una ragazza che stanno mettendo a viva forza in una casa di tolleranza non parlera` dei suoi diritti. In una situazione simile, questa parola sembrerebbe ridicola, tanto e` insufficiente. [...] L’uso di questa parola ha fatto di cio` che avrebbe dovuto essere un grido scaturito dal profondo del cuore, un acre piagnisteo di rivendicazioni, senza purezza ne´ efficacia36.

Dunque un’altra causa dell’inabissamento costante della domanda “Perche´ mi viene fatto del male?” e` la sua assunzione, a livello politico, nella veste della richiesta di diritti, che ne mina alla base la radicalita`. Non e` un caso, allora, se in La Grecia e le intuizioni precristiane Simone Weil connetta, partendo dal Gorgia di Platone, giustizia e nudita`, sfrondando la giustizia da tutti i pericoli che la nozione di diritto, strettamente connessa al sociale e alla forza necessaria per imporne il rispetto, porta con se´. Il 35

Ivi, p. 150. Su diritto e giustizia in Weil cfr. Wanda Tommasi, “Al di la` della legge”. Diritto e giustizia nell’ultima Weil, in AA. VV. Obbedire al tempo, cit., pp. 75-95. 36 S. Weil, La persona e il sacro, cit., p. 153.

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racconto platonico focalizzava l’attenzione sull’ambiguita` di alcuni giudizi riguardo ad esseri umani che giungevano nel regno dei morti con il vessillo di una valutazione che, secondo Plutone e i custodi delle isole beate, non era affatto giusta, tanto da indurre questi giudici celesti a lamentarsene con Zeus, il quale, per porre fine alla costante discordanza delle valutazioni, impone un cambiamento di modalita` nel giudizio. Mentre fino a quel momento gli uomini venivano giudicati vestiti, cioe` da vivi, da allora in poi sarebbero stati giudicati nudi, cioe` morti. I loro vestiti, la ricchezza, gli onori, quelli che Weil chiama, efficacemente, “prestigio sociale”, influenzavano a tal punto i giudici, anch’essi vivi e dunque parte del “Grosso Animale”, che la loro imparzialita` non era piu` garantita: Nessuno e` insensibile agli abiti. La verita` e` nascosta da tutto questo. La verita` `e segreta. La verita` non e` manifesta se non nella nudita` e la nudita` `e la morte, cioe` la rottura di tutti gli attaccamenti che costituiscono per ogni essere umano la ragione di vivere: il prossimo, l’opinione degli altri, i possessi materiali e morali, tutto. [...] Se la giustizia esige che durante questa vita si sia nudi e morti, e` 37 evidente che e` una cosa impossibile alla natura umana, e` soprannaturale .

La figura del vagabondo, cosı` vicina a quella dello straniero, senza fissa dimora, senza possedimenti, senza patria, forse e` quella piu` vicina alla nudita` della morte e alla verita` del giudizio. Non e` l’hostis nascosto dietro l’armatura o lo sventolio delle bandiere, ma, piuttosto, l’hospes, l’ospite che sempre potrebbe bussare alla nostra porta e venire in casa nostra, svelandoci ospiti a noi stessi. Accogliere la sua venuta e` aprire le porte all’evento della possibilita` stessa della giustizia, all’ascolto del grido muto “Perche´ mi viene fatto del male?”, strappandolo dall’oblio del tempo della violenza e partorendolo, nel travaglio doloroso, al kairo`s della giustizia: Ospitalita` senza riserve, saluto di benvenuto anticipatamente accordato alla sorpresa assoluta dell’arrivante, al quale non si chiedera` alcuna contropartita, ne´ di impegnarsi secondo i contratti domestici di alcuna potenza di accoglienza [...], giusta apertura che rinuncia a ogni diritto di proprieta`, a ogni diritto in generale, apertura messianica a cio` che viene, cioe` all’evento che non si potrebbe attendere come tale, ne´ dunque riconoscere anticipatamente,

37

Simone Weil, Dio in Platone, in La Grecia e le intuizioni precristiane, cit., p. 44.

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all’evento come l’estraneo stesso, a colei o colui per cui si deve lasciare un posto vuoto, sempre, in memoria della speranza38.

Gli stati d’eccezione relazionali Si dovrebbe provare a districare le maglie della storia – quella delle civilta` come quella individuale – per comprendere se il travaglio del negativo sia, di volta in volta, tempo di violenza, nascosta o manifesta, foriera solo di annichilimento e di morte, oppure fatica laboriosa, dolore di parto, che precede un lieto evento, l’arrivo di colei o di colui che potrebbe aprire una porta nuova nella nostra vita, l’avvento, al limite, di un regno di giustizia. Non e` un compito facile, poiche´ la determinazione assiologica del negativo, lungi dall’essere data oggettivamente come vorrebbe la dialettica hegeliana, e` del tutto dipendente dalla prospettiva da cui esso viene giudicato, come l’esempio della storia della civilta` occidentale, segnata dalle impronte trionfanti e fiere dei vincitori, dimostra. Anche il rigore, ad 39 esempio, cui il metodo fenomenologico aspira , con la sua ascetica pratica dell’epoche´, volta a consentire che le cose si offrano a noi cosı` come sono, benche´ possa costituire un ottimo esercizio mentale, non mette al riparo da errori di valutazione, considerando la difficolta` quasi insormontabile di conseguire la “purezza” oggettiva di uno sguardo neutrale. Gli eschimesi hanno circa venti modi per descrivere il bianco della neve, che per noi e` talmente privo di sfumature da venire concettualizzato nel ‘bianco come la neve’ dell’abusata metafora, che per un eschimese non avrebbe alcun senso preciso. La questione della prospettiva e` stata fatta oggetto di approfondite riflessioni da Simone Weil che – influenzata in parte dal maestro Alain e da Jules Lagneau, nonche´ dal pensiero cartesiano, con il suo 40 dubbio iperbolico – dedichera` molte pagine dei Cahiers a questo concetto 38 Jacques Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, tr. it. di Gaetano Chiurazzi, Cortina, Milano 1994, pp. 86 e ss. Sul tema dell’ospitalita`, nel suo legame con la giustizia e la politica, cfr. C. Resta, L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida, cit. 39 A proposito della connessione tra il metodo fenomenologico e la vita emotiva con le questioni assiologiche ad essa connesse e con la possibilita` di un suo sviluppo armonioso anche attraverso un travaglio del negativo all’interno stesso della persona, fondamentale risulta l’interessante, quanto stilisticamente pregevole, testo di Roberta de Monticelli, L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Garzanti, Milano 2003. 40 Per il rapporto di Weil con Alain e Lagneau, si rimanda ai preziosi riferimenti biografici in Simone Pe´trement, La vita di Simone Weil, a cura di Maria Concetta Sala, tr. it. di Efrem Cierlini, Adelphi, Milano 1994 e Richard Nevin, Simone Weil: ritratto di un’ebrea che si volle esiliare, tr. it. di Giovanna Boringhieri, Bollati Boringhieri, Torino 1997. Weil si era

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e a quello, ad esso connesso, di lettura41. Ovviamente il mondo fluido dei sentimenti e dei valori e` piu` esposto a quelli che vengono da lei designati, cercando di evitare qualsiasi coloritura moralistica, come errori di prospettiva o false letture. Questo tema, d’altra parte, rilegge in maniera dinamica una realta` che, nel pensiero occidentale, oscilla tra due modelli paradigmatici, l’uno che considera la violenza, e l’ingiustizia che ne puo` derivare, come qualcosa di esterno che interviene a lacerare una situazione originaria di purezza inviolata, in cui l’Identico vive in pace con se´ senza essere funestato dal pericolo dell’Altro – modello certamente predominante, per lo meno fino al Novecento – e, contrapposto a questo, il modello che giudica l’Identico causa di ogni ingiustizia, con la sua volonta` totalizzante e onnipervasiva, invitando, pertanto, ad attuare il tentativo di destrutturazione della soggettivita` forte costituitasi a partire da quella prefigurata da 42 Cartesio . E` sempre nel confronto tra l’esserci violentante dell’uomo e la strapotenza dell’essere che, volta per volta, si de-cidono creazione o rovina, conquista della misura o distruzione e disfatta, adeguamento e rispetto del limite o superba tracotanza che delira, e la prospettiva non e` meno inquietante e rischiosa quando il confronto si sposta sul piano interumano. Qui il confronto delle opinioni e dei punti di vista differenti puo` assumere la forma del dialogo e dello sforzo reciproco del mettersi ciascuno dal punto di vista dell’altro, come, anche, degenerare nello scontro di prospettive irriducibili, incapaci di incontrarsi su un terreno misurata con il pensiero di Cartesio nella sua tesi di laurea. Cfr. Simone Weil, Scienza e percezione in Cartesio, tr. it. di Margherita Cristadoro, in Sulla scienza, Borla, Torino 1998, pp. 31-100. Per l’influenza di Cartesio nel pensiero weiliano si rimanda a Andre´ Devaux, Pre´sence de Descartes dans la vie et dans l’oeuvre de Simone Weil, “Cahiers Simone Weil”, 1, 1995. 41 Simone Weil, Saggio sulla nozione di lettura in Quaderni IV, cit., pp. 407-415. Per un approfondimento di questi concetti nel pensiero weiliano mi permetto di rinviare a Rita Fulco, Corrispondere al limite. Simone Weil: il pensiero e la luce, Studium, Roma 2002, in particolare il paragrafo “La lettura: da metodo a via etica e metafisica”, pp. 93 e ss. 42 In questo senso la celebre definizione sofoclea del coro dell’Antigone, piu` volte ripresa e commentata da Heidegger, secondo la quale l’uomo sarebbe “cio` che vi e` di piu` inquietante”, lega ontologicamente la violenza e il potere di usarla all’essenza stessa dell’uomo e del suo agire nel mondo: “Solo se ci renderemo conto che l’uso della violenza nella parola, nel comprendere, nel formare, nell’edificare, entra a costituire (vale a dire, come sempre: a pro-durre) il fatto della violenza che apre le vie dell’essente dominante attorno, solo allora potremo intendere il carattere inquietante di chiunque faccia violenza” (Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 165). L’essenza violenta dell’uomo deriva dalla sua appartenenza all’ambito dell’essente che si da` in quanto si impone, e dalla violenza che egli stesso a sua volta esercita richiesto e provocato dalla strapotenza dell’essere.

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comune, in cui a sentirsi minacciata e` la stessa identita` degli interlocutori. Paradigmatiche, ad esempio, sono quelle situazioni in cui da ambo le parti si e` convinti di “trovarsi dalla parte giusta”. Sono casi-limite che possono preludere ad uno scontro senza margini di discussione, in cui l’irrigidimento assoluto del clima del dialogo riesce a gelare le fragili radici dei rapporti umani, gia` cosı` precari e difficili. Talvolta neppure valori religiosi o civili, seppure condivisi, riescono a salvaguardare i rapporti in queste situazioni-limite, stati di eccezione relazionali che, spesso, rivelano – o nascondono forse per sempre – la verita` di chi si ha di fronte con una radicalita` che anni di vicinanza quotidiana non erano stati in grado di far emergere. Una verita` raggelante, a volte, ma pur sempre una verita` da cui non si puo` prescindere e che modifichera` i rapporti, anche fino ad interromperli. Il problema di fondo di tali stati di eccezione e` che, purtroppo, sono immancabilmente contraddistinti dalla violenza, non tanto nella forma fisica – la civilta` in cui viviamo inibisce gli istinti primari, come 43 direbbe Freud –, quanto in quella di abuso di potere, verbale o, quando 44 si abbia abbastanza autorita` per farlo, anche pratico , senza che il dubbio di essere potenziali agenti di ingiustizia e veicolo di violenza intervenga a interrompere il circolo vizioso: Si puo` essere ingiusti per volonta` di offendere la giustizia oppure per la cattiva lettura della giustizia. Ma e` quasi sempre (o sempre?) il secondo caso. Quale amore per la giustizia garantisce da una cattiva lettura? [...] Qual e` la differenza fra il giusto e l’ingiusto, se tutti si comportano sempre (o quasi 45 sempre) in conformita` alla giustizia che essi leggono? .

Sembra abbastanza chiaro che, tranne in casi di consapevole volonta` di fare del male – per la verita` non cosı` frequenti – non e` solo chi subisce un torto a ritenere di essere nel giusto, ma anche colui che il torto lo

43

Sigmund Freud, Il disagio della civilta`, tr. it. di Ermanno Sagittario, in Opere 1924-1929, Boringhieri, Torino 1978, vol. 10. 44 Non e` un caso che una delle forme di violenza silente piu` diffuse e piu` difficili da combattere, sia, attualmente, il mobbing. A questo proposito si rimanda all’interessante saggio di Fabrizio Amato, Maria Valentina Casciano, Lara Lazzeroni, Antonio Loffredo, Il mobbing. Aspetti lavoristici: nozione, responsabilita`, tutele, Giuffre`, Milano 2002. Sui temi dell’autorita` e del potere e sull’ordine simbolico su cui si basano nella societa` si rimanda a Diotima, Oltre l’uguaglianza. Le radici femminili dell’autorita`, Liguori, Napoli 1995. 45 Simone Weil, Quaderni II, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1985, p. 100. Gli aspetti contraddittori della realta` sono sempre attentamente valutati da Simone Weil. Sul tema della contraddizione cfr. Giulia Paola di Nicola e Attilio Danese, Simone Weil. Abitare la contraddizione, Edizioni Dehoniane, Bologna 1990.

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infligge. L’ambiguita` del male e dell’ingiustizia, o, per usare le parole di 46 Hannah Arendt, la sua banalita` , deriva spesso da una lettura insufficiente, oppure traviata dall’ambito sociale o politico, quando non offuscata da problemi di ordine psicologico, che puo` tradursi nella pratica di ogni sorta di ingiustizie: Giovanna d’Arco; quelli che oggi l’esaltano l’avrebbero quasi tutti condannata. Ma i suoi giudici non hanno condannato la santa, la vergine combat47 tente per la giustizia, ma la strega .

La gente comune e i giudici condannano in lei quello che la Santa Inquisizione riteneva diabolico e fonte di male assoluto, tanto da convincere tutti che fosse preferibile la morte sul rogo di quella giovane donna per redimerla anziche´ consentire il prolungamento della sua vita nel peccato. Quello che i tedeschi vedevano di ripugnante e minaccioso negli ebrei e` stato loro inculcato da una nefasta ma efficace politica di propaganda diffamatoria, che ha giocato un ruolo fondamentale nel condizionamento collettivo della lettura di un intero popolo, grazie alle armi sottili della persuasione utilizzate dai nuovi mezzi di comunicazione di massa: Si puo` suscitare in qualcuno il giudizio piu` assurdo se con la suggestione si riesce a collocare la sua anima nel punto da cui un simile giudizio sembra vero. Egli vi si atterra` e restera` dove l’hanno messo invece di muoversi intorno all’oggetto da conoscere. Questa capacita` di suggestione e` l’eloquenza. Ciascuno esercita sempre molta eloquenza su se stesso. Se si danno circostanze favorevoli l’eloquenza diventa molto potente anche sugli altri. Il 48 punto di vista e` la radice dell’ingiustizia .

Il punto di vista, questo idolo delle democrazie pluraliste e trofeo dell’individualismo, viene degradato da Weil addirittura a radice dell’ingiustizia. La fiducia nell’esistenza di un punto d’osservazione e di giudizio assolutamente obiettivo puo` apparire ingenua, ma in realta` l’obiettivo teorico del discorso weiliano non e` costituito da questo tipo di fiducia – che pure e` fatta oggetto di riflessione, ma legata, essenzialmente, ad un contatto dell’anima con l’ambito del soprannaturale, un dono legato alla tensione, e all’attenzione verso Dio –, quanto dalla necessita` di un

46

Si rimanda, a tale proposito al contestato saggio di Hannah Arendt, La banalita` del male. Heichmann a Gerusalemme, tr. it. di Piero Bernardini, Feltrinelli, Milano 2001. 47 S. Weil, Quaderni II, cit., p. 100. 48 S. Weil, Quaderni IV, cit., p. 316.

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realismo politico cristallino, che individui proprio nell’impossibilita`, per cosı` dire, di una purezza ermeneutica nell’ambito del sociale – e, in genere, in quello che lei definisce l’ambito del naturel, il mondano – l’essenza stessa dello stare al mondo. Non e` un caso se, tra i molteplici fattori che diventano causa diretta di ingiustizia ermeneutica e di pratica della violenza, Weil individua l’opinione pubblica e le passioni. Estremo conforto e rifugio benedetto, il “noi” puo` diventare disperazione e maledizione se ricade nel circolo della difesa della Totalita` e dell’Identico. Bisogna esercitare costantemente una vigilanza parossistica per evitare di essere risucchiati dallo “spirito gregario”, come abbiamo gia` sottolineato, inevitabilmente attraente per i componenti dei gruppi umani, che facilmente si assuefanno ad esso, come i corpi della gente del sud al vento di scirocco, che accarezza sensualmente, ma rende sempre piu` inquieti gli animi. Violenza calda del punto di vista collettivo, che si traduce nella forza gelidamente bruta nei confronti del “nemico” comune, di colui, cioe`, che insieme e` “letto” come l’altro, diverso dai “nostri”, sempre pronti a salvarci, come nei film western contro gli indiani. Ancora la Duras, con la sua scrittura estrema, riesce a descrivere, nel medesimo testo in cui parla del suo amore e della sua attesa per Robert L., il cambiamento di punto di vista, in cui lei stessa si descrive con lucidita`, in quanto essere non piu` amante ma dispensatrice di violenza, incaricata dai compagni di estorcere 49 una confessione ad una spia . L’oscurita` della stanza e il “pubblico” dei compagni che resta alle spalle di lei, seduta ad un tavolo, prima silenzioso e poi minaccioso nei confronti dell’uomo che sta ritto di fronte, non puo` non ricordare le scene del Processo di Kafka, in cui la violenza dell’ingiustizia si annida nel cuore stesso della giustizia, come le larve di quegli insetti che crescono dentro il corpo di qualche essere vivente, fino ad ucciderlo: The´re`se si chiede se e` proprio il caso di farlo spogliare [...]. Mentre l’uomo si spoglia il tempo e` morto. Non sa perche´ non se ne va. Le viene l’idea di uscire e non esce. Eppure adesso e` inevitabile. Bisognerebbe risalire molto lontano per sapere perche´, perche´ e` proprio lei, The´re`se che deve occuparsi 49

Il testo a cui ci riferiamo e` Marguerite Duras, Albert des Capitales, in Il dolore, cit., pp. 101-119. La scrittrice stessa premette al racconto parole illuminanti: “The´re`se sono io. Quella che tortura l’informatore, sono io. E anche quella che ha voglia di fare l’amore con il miliziano Ter, sono io. Vi do colei che tortura insieme agli altri testi. Imparate a leggere: sono testi sacri” (ivi, p. 99). Non e` privo di importanza che l’invito finale di Duras sia proprio quello di imparare a leggere. E` un invito a fare attenzione alla prospettiva e alla sua centralita` nel compimento di qualsiasi violenza o dono d’amore. Un invito a considerare la natura impura e ambigua di ciascuno, quasi un corollario letterario alla filosofia della contaminazione di Derrida.

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di quella spia. D. le ha dato quell’uomo prezioso. Lei l’ha preso. L’ha in mano. Quell’uomo prezioso. Non ha piu` voglia di quell’uomo prezioso. Ha 50 voglia di dormire. Dice a se stessa “Dormo” .

Una donna, capace di descrivere i segreti della passione erotica come poche hanno saputo fare, si trova di fronte un uomo da spogliare, non per fare l’amore ma per usargli violenza e invoca un sonno invincibile, lo stesso della protagonista de L’amante, che dorme di fronte a colui che vuole prendere il suo corpo e il suo segreto. Forse l’unico rifugio possibile nel ruolo senza scampo che le era stato affidato dai compagni, un tentativo blando eppure disperato e disperante di tirarsi fuori dalla prospettiva che le e` stata assegnata, di proteggersi dalla contaminazione della violenza: Adesso e` nudo. E` la prima volta in vita sua che si trova di fronte ad un uomo nudo e non e` per fare l’amore. Lui e` in piedi, appoggiato alla sedia, gli occhi bassi. Aspetta. Ce ne sono altri che approverebbero, intanto questi due, questi due compagni, e poi altri, certo, altri che hanno aspettato e non hanno ancora avuto niente e aspettano sempre e hanno perso l’uso della liberta` perche´ stanno aspettando. Adesso i suoi indumenti sono sulla sedia. Trema. Trema. Ha paura. Paura di noi. Di noi che avevamo paura. Aveva molta paura di quelli che avevano avuto paura. [...] I ragazzi picchiano sodo. Colpiscono il petto, con pugni lenti poderosi. Mentre picchiano, dietro tutti tacciono. Poi si fermano e guardano The´re`se. [...] “Poi dovrai dirci come entravi alla Gestapo”. La voce di The´re`se e` rotta, ma piu` ferma. Adesso la cosa ha preso il via, e` in atto, i ragazzi hanno lavorato bene. E` una cosa seria, vera: si sta torturando un uomo. Si puo` non essere d’accordo ma non si puo` scherzarci sopra, ne´ dubitare, ne´ essere imbarazzati. [...] Quando ha parlato di borsa nera, dal fondo si e` di nuovo levato un brusio: “Porco, schifoso, carogna” [...] La pelle del petto si e` spaccata all’altezza delle costole. Continua a strofinarsi con le mani e s’impiastriccia di sangue. Con lo sguardo vitreo di vecchio miope fissa la lampada senza vederla. E` successo in fretta. Ecco: adesso che l’uomo ne muoia o se ne tiri fuori, la cosa non dipende piu` da The´re`se. Non ha piu` alcuna importanza. L’informatore e` diventato un uomo che non ha piu` niente in comune con gli altri uomini. Ogni minuto la differenza aumenta, prende piede51. 50

M. Duras, Albert des Capitales, cit., p. 107. Ivi, pp. 110-111. Interessante mettere a confronto la descrizione della prospettiva durasiana con le memorie della tortura subita da Jean Ame`ry dalla Gestapo. Pur essendo entrambe molto lontane dagli eccessi di altre pratiche normali durante la seconda guerra mondiale, ma anche tristemente recenti, il ruolo dei carnefici e delle vittime sembra assolutamente corrispondente in una inquietante indistinzione tra “buoni” e “cattivi”, che scomoda tutte le certezze manichee che tentino di differenziale il bene dal male nell’ambito mondano, cosa da cui Weil stessa, con attitudine gnostica, metteva in guardia, sottolineando l’ambiguita` del bene nel naturel. “La superficie cutanea mi protegge dal mondo 51

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Aveva molta piu` paura di quelli che avevano avuto paura. E` una rotazione a trecentosessanta gradi del punto di vista, da entrambe le parti. Eppure nessun movimento soteriologico, nessuna conversione, come avrebbe auspicato Weil, si verifica apparentemente: colui che subisce la violenza non ha il tempo di pentirsi e riflettere su cio` che lui stesso aveva causato ad altri, cosı` come coloro che la infliggono non riescono a pensare al momento in cui si erano trovati al suo posto. Solo in The´re`se resta uno spazio vuoto per il pensiero, ma non per l’azione, aderente alla volonta` dei compagni, del gruppo, fedele allo spirito gregario. Non e` piu` una donna che con gli uomini fa l’amore, e` una “compagna”, e chi ha di fronte e` il nemico, non un uomo. In questo spostamento di prospettiva cambia il modo in cui gli esseri umani si pongono l’uno di fronte all’altro, muta l’influenza della presenza di un altro essere che, solitamente, riesce a cambiare il modo di stare al mondo: Quando siamo soli non ci alziamo, non camminiamo, non stiamo in una stanza nello stesso modo in cui lo si fa quando c’e` un visitatore. Ma questa influenza indefinibile non e` esercitata da quegli uomini che un moto di impazienza puo` privare della vita prima ancora che un pensiero abbia avuto il tempo di condannarli a morte. Dinanzi a questi uomini gli altri si muovono come se loro non esistessero; ed essi a loro volta, nel pericolo di essere ridotti al nulla in un attimo, imitano il nulla. Spinti, cadono; caduti, restano a terra...52.

La potenza della guerra nel trasformare la lettura del mondo e dell’altro uomo e` certamente la piu` forte tra tutte le cause di letture alterate e di violenza ermeneutica. Un tempo di violenza assoluta abolisce i significati che il mondo media di solito nel faccia a faccia con un altro essere umano, nonostante la le´vinassiana fiducia nel potere “responsabilizzante” di questo trovarsi l’uno di fronte all’altro. La situazione della tortura e` ancora piu` inquietante della guerra, dato che l’incombenza del

esterno: se devo avere fiducia, sulla pelle devo sentire solo cio` che voglio sentire. Con la prima percossa pero`, questa fiducia nel mondo crolla. L’altro, contro il quale nel mondo mi pongo fisicamente e con il quale posso essere solo sino a quando lui come confine rispetta la mia superficie cutanea, con il colpo mi impone la sua corporeita`. Mi e` addosso e cosı` mi annienta. E` come uno stupro, un rapporto sessuale senza l’assenso di uno dei due partner” (Jean Ame´ry, Intellettuale ad Auschwitz, tr. it. di Enrico Ganni, Bollati Boringhieri, Torino 1987, p. 66, ma si veda l’intero capitolo dedicato alla tortura, pp. 57-82). 52 S. Weil, L’Iliade, poema della forza, cit., p. 12. Non si puo` non pensare alle riflessioni di Agamben sulla scorta delle descrizioni dei “musulmani” da parte dei sopravvissuti dei campi di concentramento: cfr. G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit.

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pericolo e` alquanto differita, per lo meno per gli autori della tortura. Questi stati di eccezione relazionale possono ripetersi in situazioni di conflitto molto piu` banali, relative a relazioni tra esseri umani che si trovano contrapposti per i motivi piu` diversi. A volte la stessa violenza diventa un mezzo, uno strumento per attuare uno scopo che e` quello non di convincere – arte che si puo` esercitare nella distensione del tempo –, 53 ma di imporre una lettura diversa nel tempo rappreso degli stati d’eccezione, in cui la mera percezione dell’estraneita` dell’altro, come aveva ben visto Carl Schmitt, si rivela, nel suo carattere minaccioso, sufficiente a caratterizzare l’essenza stessa del nemico. Se per Schmitt l’individuazione del nemico e` l’atto costitutivo della stessa politica, che cosı` trova nella guerra il suo fondamento, cio` assume particolare significato e contribuisce a illuminare la logica intrinsecamente “polemica” e discriminatoria che presiede al rapporto con altri quando esso venga concepito secondo lo schema dialettico di una “lotta per il riconoscimento” che si esplica necessariamente nello scontro. Se basta che altri “sia esistenzialmente, in 54 un senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero” 53

Come sottolinea Giusi Strummiello, “deve costringere l’altro a riconoscere cio` che la sua liberta` gli impedisce di vedere, ma che e` iscritto nell’ordine delle cose (nell’ordine cosı` come la mia liberta` lo presuppone). Non a caso tanto lo stupro quanto il rogo fissano una condizione istantanea per l’eternita`: la vittima e` appartenuta allo stupratore per pochi attimi, ma cio` la segnera` per sempre (il che e` ancora piu` drammaticamente evidente quando lo stupro e` seguito dall’omicidio: la vittima non apparterra` piu` ne´ allo stupratore ne´ ad altri); l’eretico e` consegnato all’eternita` nella condizione che gli e` stata imposta” (Giusi Strummiello, Il logos violato. La violenza nella filosofia, Dedalo, Bari 2001, p. 316. Saggio imprescindibile per una panoramica filosofica ad ampio raggio sul tema della violenza). 54 Carl Schmitt, Il concetto di ‘politico’ in Id., Le categorie del politico, cit., p. 109. Occorre ricordare la netta distinzione che Schmitt opera tra politica ed etica, nonche´ l’idea di fondo che la politica sia la continuazione della guerra con altri mezzi, nel rovesciamento della ben nota formula di Clausewitz. L’errore di Schmitt, consiste, forse, nell’aver ontologizzato il polemos come base permanente di ogni politica, allo stesso modo in cui Sartre ha ontologizzato il conflitto dei rapporti intersoggettivi. In cio` e` riconoscibile una comune ascendenza hegeliana. Finche´ si rimane all’interno di un orizzonte dialettico, la guerra e` inevitabile, in verita` essendo in gioco una lotta per il riconoscimento della propria identita` forte. Un’interpretazione aberrante del dialettico travaglio del negativo come affermazione della propria identita` e negazione dell’altro puo` giungere ad Auschwitz: “Con Auschwitz l’idea concentrazionaria di un’esclusione definitiva prende la forma coerente della soluzione finale, dello Sterminio, ossia dell’eliminazione totale dell’altro da se´ per poter finalmente accedere a se´. [...]. Il gas delle camere di morte [...] altro non e` che la stravolta, delirante interpretazione del lavoro del negativo, in cui la Morte e` padrona assoluta, per mezzo del quale il Geist puo` pervenire a se stesso” (Caterina Resta, “Schmitt: fratello nemico”, in Il luogo e le vie. Geografie del pensiero in Martin Heidegger, Angeli, Milano 1996, pp. 55-56). Per una decostruzione del concetto di nemico, a partire dalle fondamentali analisi di Schmitt, cfr. Jacques Derrida, Politiche dell’amicizia, tr. it. di Gaetano Chiurazzi, Cortina, Milano 1995.

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perche´ si trasformi in nemico, cio` significa che la negazione dell’altro in quanto tale e` il presupposto di ogni relazione interumana. Secondo questa prospettiva, a difesa della propria identita` minacciata, non si puo` che fare ricorso concretamente all’estremo rimedio delle armi, fino all’eliminazione fisica dell’altro, lasciando libero il campo allo scontro brutale delle forze. La capacita` di decidere e intervenire restano una prerogativa di coloro che sono coinvolti direttamente nello scontro, come lo scritto della Duras fa emergere tristemente, dato che, sempre secondo Schmitt, solo loro possono comprendere a che punto di intensita` la presenza dell’altro “significhi la negazione del proprio modo di esistere e percio` sia necessario difendersi 55 e combattere, per preservare il proprio, peculiare, modo di vita” . Consequenziale sbocco teorico di una prassi oggi piu` che mai in auge, esso disvela e porta finalmente alla luce con estremo disincanto la logica polemica ed escludente che e` al fondo della tradizione politica prevalsa in Occidente. Lo stesso realismo politico, peraltro, contraddistingue alcune riflessioni weiliane, che considerano impossibile il tentativo di far leggere, perfino a se stessi, qualcosa di diverso rispetto a cio` che le contingenze dettano negli stati di eccezione relazionali: Allo stesso modo in tempo di pace, se l’idea di causare la morte di un essere umano viene dal di dentro, non la si legge nelle apparenze; nelle apparenze si legge al contrario il divieto ad agire cosı`. Ma in caso di guerra civile, rispetto ad una certa categoria di esseri umani, e` l’idea di risparmiare una vita ad essere inconsistente, a venire dal di dentro, a non essere letta nelle apparenze; essa attraversa lo spirito, ma non si trasforma in azione. Da uno 56 stato all’altro non c’e` transazione possibile .

Questo, secondo le stesse modalita`, avviene in stati di alterazione psichica, da quelli piu` gravi, che portano all’omicidio seriale, o allo stupro, 55

Carl Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit., p. 109. S. Weil, Saggio sulla nozione di lettura in Quaderni IV, cit., p. 412. Il realismo politico di Weil e` sottolineato da Roberto Esposito, che decostruisce lo schema secondo il quale la riflessione politica weiliana sia divenuta, nella seconda fase della sua produzione, sempre piu` irrealistica e mistica: “Col procedere del tempo, non solo all’interno della prima fase, ma anche col passaggio alla seconda (quella “mistica”), il linguaggio politico weiliano non si fa meno, ma sempre piu` realistico [...]. Cio` che cambia e`, invece, il punto di rifrazione da cui la sua riflessione prende piede: situato non piu` all’interno, dal di dentro, del politico, ma al suo esterno” (Roberto Esposito, Categorie dell’impolitico, il Mulino, Bologna 1999, pp. 217-218). Sull’atteggiamento di Weil rispetto alla nonviolenza cfr. Jean Marie Muller, Simone Weil. L’esigenza della nonviolenza, tr. it. di Saverio Nisio, Edizioni gruppo Abele, Torino 1994. 56

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alle situazioni di “eccezione”, in cui tutti i diritti dell’altro possono essere 57 sospesi . La testimonianza della Duras e` la cristallina ammissione della violenza degli stati d’eccezione relazionali e dell’impossibilita` di un travaglio del negativo che apra le porte all’evento di rapporti piu` “giusti”. Solo chi non ne e` partecipe direttamente potrebbe avere una via di uscita, un modo per sottrarsi, ma la propria capacita` risulta inutilizzabile per interrompere l’incalzare del “tempo morto”, della violenza cieca a cui la maggior parte degli altri risulta asservita: Si sente una voce: “Forse basta cosı`...”. E` una donna che parla dal fondo buio della stanza. I due ragazzi si fermano. Si voltano e cercano la donna. Anche The´re`se si e` voltata [...]. “Chi si sente stomacato non e` obbligato a restare”. [...] Bisogna picchiare. Schiacciare. Mandare in pezzi la menzogna. Quel silenzio ignobile. Inondare di luce. Tirar fuori la verita` che questo schifoso ha dentro. La verita`, la giustizia. [...] Lei e` la giustizia, e sono centocinquant’anni che in questo paese non si fa giustizia. [...] “Verde”, urla. [...] Si e` accasciato a terra. Ha potuto parlare. Forse si sta chiedendo come ha potuto farlo. Dietro, silenzio. The´re`se si mette a sedere. L’episodio e` chiuso. D. si avvicina a The´re`se. Le offre una sigaretta. The´re`se fuma. [...] Nel bar c’e` una gran luce, un altro mondo. E` l’elettricita`. Tutte le donne sono lı` [...]. “Ha confessato” ripete The´re`se. Nessuno la guarda. Una donna si alza e sempre senza guardarla: “Che cosa vuoi che ce ne freghi”, dice svogliatamente, “e` un tale schifo...” [...] Roger e D. abbracciano The´re`se. Le donne tacciono. Escono. [...] “Bisogna lasciarlo andare”, dice The´re`se. “Puo` camminare”. Roger non e` sicuro che si debba lasciarlo andare. [...] The´re`se si mette a piangere58. 57

Si potrebbero, forse, annoverare tra essi il carcere di Abu Graib, Guantanamo, l’Ossezia, le Torri Gemelle. Il meccanismo che ha impedito alle donne terroriste di vedere dei bambini nei bambini che avevano di fronte, non e` differente da quello che ha impedito alle marines americane di vedere uomini in coloro che fotografavano dopo averli torturati. Il problema delle guerre odierne e` la veicolazione, mediante mezzi piu` o meno espliciti, di strumenti interpretativi votati a designare “nemici teologici”, secondo l’espressione di Schmitt, senza riguardo al loro status personale, e al di la` di ogni rispetto per il “nemico giusto”, come avveniva nelle “guerre in forma” dell’epoca moderna. Per approfondire i cambiamenti delle modalita` politiche e della guerra cfr. Carl Schmitt, Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum Europaeum”, a cura di Franco Volpi, tr. it. di Emanuele Castrucci, Adelphi, Milano 1991. Su questi temi, oggi diventati di grande attualita`, nell’epoca della mondializzazione e del terrorismo globale, cfr. l’illuminante saggio di Caterina Resta, Stato mondiale o nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso, Pellicani, Roma 1999. 58 M. Duras, Albert des Capitales, cit., pp. 112-119. “Quando furono stanchi di torturare quei tali di Breendonk si accontentarono della sigaretta [...]. Non per questo il male che mi avevano inflitto era banale. Erano, se si vuole, degli ottusi burocrati della tortura. E tuttavia erano molto di piu`, lo capivo dai loro volti seri, tesi, non certo enfiati dal piacere sessuale sadico, bensı` concentrati nell’autorealizzazione omicida. Con tutta l’anima svolge-

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Brucianti lacrime che rivelano la profonda contraddizione della donna amante-torturatrice, schizofrenia della violenza degli stati di eccezione relazionali che mutano il modo di essere, che impongono letture aberranti, che ottundono il pensiero. E` la voce di una donna ad ingiungere di smettere, ed e` la voce di una donna, quella di The´re`se, ad invitare a uscire chi si sente stomacato. La stessa The´re`se che, di fronte al mutismo delle altre donne, in una sorta di gioco di specchi che mette a nudo la violenza di cui era stata protagonista, chiede di liberare il prigioniero e poi piange. L’avvertimento della Duras che precede il racconto – “sono parole sacre” – ci da` la misura della portata della situazione descritta che, lungi dal presentarsi solo in questi stati d’eccezione, spesso diventa la regola dei rapporti interumani, strisciando subdolamente nella quotidianita`, certamente sotto le spoglie piu` tollerabili e meno evidenti dei giochi di potere, ordinaria amministrazione a tutti i livelli della vita sociale. L’invito weiliano all’ascolto del “Perche´ mi viene fatto del male?” non rappresenta, dunque, solo un appello al rispetto del piu` debole, ma lo scardinamento ontologico della prospettiva che, sulla scorta di Tucidide, lega necessariamente il possesso del potere non con la forza dell’autorevolezza, bensı` con la possibilita` del suo utilizzo, e quindi anche del suo abuso, per fini legati all’espansione del proprio ego, come esplicita la nota affermazione contenuta nelle Storie: Crediamo riguardo agli dei, e abbiamo la certezza riguardo agli uomini, che sempre, per una necessita` assoluta della natura, ciascuno comanda 59 ovunque ne abbia il potere .

Per Weil, questa teoria di Tucidide rappresenta una vera e propria legge cosmica, e per questo ne cerca dei riscontri anche in altre culture. Nell’induismo, ad esempio, il rajas costituisce una qualita` della natura che indica il principio di espansione, l’ingrandirsi: Rajas. Formula terribile. In circostanze date, un essere reagisce in modo da conservarsi e da dilatarsi al massimo. Non c’e` scelta. Dilatare il proprio essere, esistenza e carattere. [...] Ma non e` forse vero che molto spesso ci si

vano il loro incarico che implicava potere, dominio sullo spirito e sulla carne, trasgressione nell’illimitata autoespansione” (J. Ame´ry, Intellettuale ad Auschwitz, cit., p. 76. Ame´ry non aveva mancato di constatare, lungi da ogni faziosita`, la diffusione della pratica della tortura anche in Francia o in Inghilterra. Cfr. ivi, pp. 57-61). 59 Tucidide, Storie, V, 105.

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abbassa anche quando ci si dilata? Facile illusione, scambiare espansione per elevazione, perche´ in ambedue i casi vi sono ampi spazi60.

Il problema e` che l’espansione dell’io nell’ambito del naturel ha bisogno, per attuarsi, di cose, o di esseri umani trasformati in cose, sulle quali esercitare il potere e che diano conferma, con la loro sottomissione, del potere reale che l’io possiede. Come antidoto all’espansione naturale del proprio io e all’assolutizzazione della prospettiva, il grido muto della parte impersonale dell’anima apre la porta alla possibilita` dell’evento di un mondo altro, di una prospettiva altra, non certo come felice conclusione e assimilazione dialettica del dolore, ma come rischio supremo, oscillazione pericolosa tra la sospensione delle leggi della pesanteur e il canto delle sirene che, seducendo, richiama verso il basso: L’uomo non sfugge alle leggi di questo mondo se non per la durata di un lampo. Istanti di arresto, di contemplazione, d’intuizione pura, di vuoto mentale, di accettazione del vuoto morale. Grazie a questi istanti egli e` capace di soprannaturale. Chi sopporta un attimo il vuoto, riceve il pane soprannaturale, oppure cade. Rischio terribile, ma bisogna correrlo61.

60 61

Simone Weil, Quaderni I, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1982, p. 316. S. Weil, Quaderni II, cit., p. 47.

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La scrittura del deserto* di Wanda Tommasi

L’aridita` e il deserto, di cui i periodi malinconici della nostra esistenza ci costringono talvolta dolorosamente a fare esperienza, sono momenti di paralisi delle nostre risorse creative, della nostra capacita` di investimento affettivo, della nostra apertura intenzionale al mondo e agli altri. Allora, niente ha piu` senso, nessuno appare piu` degno d’amore di chiunque altro, sembra troncata alla radice la stessa capacita` di amare: e` il deserto della 1 malinconia , in cui affiorano solo vuolo, silenzio e afasia. Eppure, questo stato di paralisi affettiva puo` essere anche, per effetto * Questo testo e`, in gran parte, una sintesi del mio libro La scrittura del deserto. Malinconia e creativita` femminile, Liguori, Napoli 2004: mi scuso per le ripetizioni rispetto al libro, che non sono riuscita ad evitare, anche perche´ ho lavorato contemporaneamente a entrambi i testi. Tutti e due sono nati da un corso che ho tenuto, all’Universita` di Verona, nell’A.A. 2002/2003 e, piu` in profondita`, dalla necessita` interiore di elaborare il vissuto che e` passato fra me e mia madre, che ha molto sofferto di depressione. Ringrazio tutte le amiche di Diotima per avermi dato l’opportunita` di parlarne al Grande seminario e per avermi sostenuto, con lo scambio e il dialogo, nella fatica di reggere la vicinanza con questo tema, per me psicologicamente difficile da affrontare. Fra loro, ringrazio in particolare Anita Sanvitto, Luigina Mortari e Chiara Zamboni, che hanno avuto la pazienza di ascoltarmi e di consigliarmi, nei non pochi momenti di impasse di questa ricerca. 1 Ho preferito generalmente il termine malinconia a depressione per due motivi: innanzitutto, perche´ malinconia nomina una sofferenza che riguarda la relazione fra il corpo e l’anima, un male che, a partire dal corpo, dall’eccesso di bile nera secondo gli antichi, si ripercuote sull’anima, mentre il termine depressione, che indica una riduzione delle funzioni nervose, perde di vista il nesso corpo/anima e, sulla base degli standard di “normalita`” e di efficienza produttivistica imperanti nel nostro tempo, suggerisce la necessita` di colmare un deficit, una mancanza. (Cfr. Alain Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e societa`, tr. it. di Sergio Arecco, introduz. di Eugenio Borgna, Einaudi, Torino 1999, pp. 51-55, e Fulvio Sorge, Passioni e farmaci, Liguori, Napoli 2000). In secondo luogo, la preferenza per il termine malinconia e` dettato dal fatto che, nel linguaggio comune, esso abbraccia una molteplicita` di stati, che vanno dalla tristezza occasionale al temperamento malinconico fino alla patologia depressiva vera e propria: ho voluto conservare tutta questa gamma di significati, che si trova rispecchiata nei testi delle autrici che prendero` in esame.

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2 della polarita` di Saturno che gli antichi conoscevano bene , fonte di una creativita` piu` autentica, uno sprofondamento necessario per attingere alle proprie risorse piu` intime, la` dove la parte piu` riposta di se´ si apre all’ascolto dell’ignoto. L’immagine della scrittura del deserto vuole sintetizzare i due volti dell’esperienza malinconica: quest’ultima, pur essendo vissuta come distruttiva e paralizzante, diventa anche, per alcune autrici e autori, la fonte segreta da cui sgorga la scrittura, il centro oscuro e notturno, a cui ci si 3 puo` avvicinare solo distogliendo lo sguardo . Motore segreto di molta scrittura, la malinconia lo e` tuttavia in modo paradossale: a rigore, infatti, chi vive l’esperienza malinconica e` muto, afasico, balbettante, perde la parola; mancando l’intenzionalita` affettiva, discorso e oggetto si dissociano, in una modalita` priva di investimenti 4 emozionali . L’afasia tipica del discorso malinconico e` prossima al silenzio che accompagna la sventura: “la sventura e` di per se´ inarticolata”, scrive 5 Simone Weil ; chi la vive, non ha le parole per esprimerla, e chi esce da quell’isola di dolore muto non si volge indietro, a guardare alla propria sofferenza passata. Il paradosso e` quello di un deserto affettivo e di linguaggio, che, tuttavia, in certi casi, si presenta come il fondo indicibile e oscuro da cui sgorga la parola. La malinconia costringe al silenzio, ma l’ascolto del silenzio da` origine alla scrittura del deserto. 6 Qualcosa di simile accade nel Libro del deserto di Ingeborg Bachmann , in cui l’attraversamento del deserto, da parte di una donna che ha

2

Lo studio piu` ampio sulla malinconia, nella sua duplice polarita`, e` quello di Raymond Klibansky, Erwin Panofsky, Fritz Saxl, Saturno e la melanconia. Studi di storia della filosofia naturale, religione e arte, tr. it. di Renzo Federici, Einaudi, Torino 1983. 3 Cosı` suggerisce Maurice Blanchot, nella sua rilettura del mito d’Orfeo. Ponendosi di fronte all’enigma della paralisi creativa dell’artista divenuto arido e inoperoso, Blanchot suggerisce che questa estrema poverta` possa essere in realta` frutto di un eccesso, di una sovrabbondanza, di un’eccessiva prossimita` alla fonte stessa dell’ispirazione; l’artista puo` avvicinarsi a questo punto estremo solo distogliendo lo sguardo, come avrebbe dovuto fare Orfeo negli Inferi, non volgendosi a guardare direttamente l’amata Euridice. (Cfr. Maurice Blanchot, “Lo sguardo d’Orfeo”, in Lo spazio letterario, tr. it. di Roberta Zanobetti, con un saggio di Jean Pfeiffer e una nota di Guido Neri, Einaudi, Torino 1967, pp. 147-151). 4 Sullo slegamento affettivo fra parole e cose nel discorso malinconico, cfr. Marie C. Lambotte, Il discorso melanconico. Dalla fenomenologia alla metapsicologia, tr. it. a cura di Alberto Lucchetti, Borla, Roma 1999, pp. 180 ss. 5 Simone Weil, La persona e il sacro, in AA. VV., Oltre la politica. Antologia del pensiero “impolitico”, a cura di Roberto Esposito, Bruno Mondadori, Milano 1996, p. 79. 6 Cfr. Ingeborg Bachmann, Libro del deserto, tr. it. di Anna Pensa, a cura di Clemens C. Ha¨rle, Cronopio, Napoli 1999.

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conosciuto la follia, assume il significato di un passaggio attraverso il niente che azzera i significati e le identita` precedentemente costituite e che, costeggiando il rischio del mutismo e dell’afasia, libera una parola altra, perturbante e incompiuta7. Come la protagonista del Libro del deserto della Bachmann, immaginiamo di fare un viaggio nel deserto e di sostare in alcuni luoghi, a contemplare, da punti di vista diversi, lo spettacolo della desertificazione dell’anima prodotto dalla malinconia. Ciascun luogo e` una prospettiva diversa da cui guardare il medesimo paesaggio. Queste differenti prospettive non pretendono in alcun modo di esaurire la fenomenologia complessa della malinconia. Piuttosto, ciascun luogo cerca di insegnarci a fare cio` che gli stati malinconici della mente richiedono e che oggi sembra cosı` difficile da realizzare: ci invita a sostare, in sintonia con la lentezza di Saturno. Il nostro viaggio tocchera` quattro luoghi diversi. In ciascuno di essi, ci faremo guidare dalla parole delle autrici che hanno fatto esperienza del deserto malinconico. Esplorare in modo privilegiato il versante femminile della malinconia e` un modo di rispondere all’enigma della maggiore incidenza – circa doppia – della sofferenza depressiva in donne rispetto a uomini8. Quali che ne siano i motivi – la maggiore intimita` ma anche pericolosita` della relazione femminile con la madre, un passato di subordinazione che ha a lungo impedito alla donna di far valere il proprio punto di vista, la capacita` femminile di tenere il dolore chiuso dentro di se´, a differenza di molti comportamenti maschili violenti –, in ogni caso la malinconia e` una patologia che riguarda l’intera nostra societa`, ma che e` vissuta in prima persona piu` da donne che da uomini. Le scrittrici che hanno saputo costeggiare le terre desolate della malinconia ne hanno ricavato delle immagini di grande bellezza: ci affideremo a queste immagini, nella convinzione che ogni sostare doloroso possa essere reso piu` tollerabile se la sofferenza e` contenuta e protetta dalle ali della bellezza.

7

Cfr. Angela Putino, Ingeborg Bachmann. Entrare nel deserto, “D. W. F.”, n. 45-46, 2000, p.

51. 8

La maggiore incidenza della depressione femminile e` sottolineata, fra gli altri, da Paola Leonardi, Come trasformare la depressione in risorsa, Franco Angeli, Milano 1997 e da Anna Salvo, Depressione e sentimenti, Mondadori, Milano 1994, pp. 143 ss.

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1. Un se´ di facciata 1.1. Nella prima sosta del nostro viaggio, incontriamo una malinconia dissimulata dietro una facciata controllata, che a volte puo` apparire anche efficiente e iperattiva: come osserva Julia Kristeva, “la depressione femminile si nasconde talvolta sotto un’attivita` febbrile che conferisce alla 9 depressa l’aspetto di una donna pratica ben inserita” . Qui, la sofferenza malinconica e` dissimulata dietro un falso se´, dietro una facciata caratterizzata dal controllo, che costringe a compiere i gesti quotidiani con sforzo, senza il gusto della vita, per puro senso del dovere, per paura che, “dietro 10 questa maschera, che molte donne indossano” , affiori il deserto, il pozzo della disperazione. In questa prima tappa del nostro viaggio attraverso la malinconia, il deserto non appare ancora, non ci si concede di contattarlo intimamente ne´ di scrutarne l’infinita desolazione: ci si sforza di essere come gli altri, di 11 nascondere la sofferenza e la fatica di vivere; ci si affida a un falso se´, che cerca disperatamente di imitare la vita vera. Dietro la facciata, si nascondono disperazione e afasia, ma la facciata e` controllata e puo` essere perfino efficiente e volitiva. Un se´ di facciata e lo sforzo tremendo che costa tenerlo in piedi sono ben descritti da Sylvia Plath nei primi nove capitoli della Campana di vetro, nei quali l’autrice racconta gli avvenimenti che precedono il crollo psichico e il tentato suicidio della protagonista. Quest’ultima, Esther, una studentessa di provincia che ha vinto un premio che le permette di fare un mese di pratica giornalistica presso una rivista femminile a New York, cova dentro di se´ un conflitto sordo, non rappresentato chiaramente ne´ 9

Julia Kristeva, Sole nero. Depressione e melanconia, tr. it. di Alessandro Serra, Feltrinelli, Milano 1988, p. 73. Di questo stesso comportamento, che maschera la depressione dietro l’attivismo, fornisce una rappresentazione ironica Gloria Zanardo, La depressione motore della storia, “via Dogana”, n. 38-39, 1998, p. 13. 10 J. Kristeva, Sole nero, cit., p. 73. 11 Sulla distinzione fra vero e falso se´, cfr. Donald W. Winnicott, “La distorsione dell’io in rapporto al vero e al falso se´”, in Sviluppo affettivo e ambiente, tr. it. di Alda Bencini Bariatti, Armando, Roma 1992, pp. 177-193. Winnicott osserva che l’idea di falso se´ presuppone quella di vero se´: spesso, il falso se´ ha una funzione difensiva rispetto a un vero se´ che e` a disagio e sta male; ma il vero se´ e` anche quello da cui provengono il gesto spontaneo, l’idea personale, in definitiva la creativita`. Pur consapevole della problematicita` della nozione di “vero se´”, uso questa espressione, in contrapposizione a quella di “falso se´”, per indicare una rappresentazione di se´ che, a differenza di quella fittizia, si spoglia delle costruzioni immaginarie e resta in ascolto dell’inconscio e dei propri desideri e delle proprie contraddizioni profonde: e` chiaro tuttavia che il vero se´ non delinea un’identita`, un nucleo fisso e stabile, quanto piuttosto un’apertura verso l’inconscio.

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agito, contro i falsi valori di una societa` perbenista e ipocrita, quella americana degli anni cinquanta, della guerra fredda e del maccartismo. Esther avverte un’obiezione interna contro i criteri di efficientismo, di competizione e di successo, che dominano nella societa`, e contro una morale sessuale doppia, che prevede la verginita` per le ragazze ma non per i maschi, ma non ha la forza di opporvisi apertamente. Al contrario, si sforza di adeguarsi a questi falsi valori e dissimula i propri veri sentimenti dietro un se´ di facciata, cosicche´ l’aggressivita` interna, costantemente tacitata, si ritorce contro di lei, facendola sentire “molto apatica e del tutto 12 vuota, come deve sentirsi l’occhio di un uragano” . Pur covando dentro di 13 se´ una violenza trattenuta, Esther si muove “come un automa” : adotta un falso se´, che si adegua esteriormente a cio` che gli altri si aspettano da lei, mettendo a tacere le obiezioni interne, il disagio, la delusione derivante dal fatto che il successo – il premio, la partecipazione alla vita brillante della grande citta` — non le ha fatto sentire di essere amata. Piu` precisamente, Esther si sforza di raggiungere un’impossibile perfezione, adeguandosi a due imperativi contraddittori riguardo all’essere donna: vorrebbe essere sia una graziosa oca, attraente per gli uomini, sia una scrittrice di successo, determinata e capace di competere alla pari con gli uomini. Nello sforzo di adeguamento a queste due immagini antitetiche di femminilita`, la protagonista non si avvede che entrambi gli stereotipi sono dettati dal patriarcato, il primo tramite la complicita` di una femminilita` tradizionale con l’uomo, il secondo attraverso la cooptazione della 14 donna, chiamata a omologarsi ai valori maschili dominanti . Dietro una facciata scintillante, si cela un nucleo piu` autentico, un se´ goffo, maldestro, insicuro, pieno di dubbi sulle proprie capacita` e sui 12

Sylvia Plath, La campana di vetro, tr. it. di Daria Menicanti, introduzione di Claudio Gorlier, Mondadori, Milano 1968, p. 4. Sulla vita e sull’opera della Plath, cfr. Alfred Alvarez, The savage God. A Study of Suicide, Penguin Books, Harmondsworth 1974, pp. 15-56, Stefania Caracci, Sylvia. Il racconto della vita di Sylvia Plath, edizioni e/o, Roma 2003, Maria Grazia Guido, Sylvia Plath e la poetica della differenza, Congedo Editore, Lecce 1992, Biancamaria Piasapia, L’arte di Sylvia Plath, Bulzoni, Roma 1974 e Ted Hughes, Lettere di compleanno, tr. it. di Anna Ravano, introduzione di Nadia Fusini, Mondadori, Milano 1999. 13 S. Plath, La campana di vetro, cit., p. 4. 14 Cfr. Dana J. Crowley, Rompere il silenzio. Il complesso fenomeno della depressione femminile, tr. it. di Bianca Piazzese, La Tartaruga, Milano 1996, p. 122. Piu` in profondita`, lo sforzo di Esther – e della stessa Plath – di adeguarsi allo sguardo sociale rivela il desiderio di corrispondere alle aspettative materne. Su questo aspetto, cfr. Sylvia Plath, Quanto lontano siamo giunti. Lettere alla madre, tr. it. a cura di Marta Fabiani, Guanda, Parma 1992. Cfr. inoltre AA. VV., Catalogo n. 2. Romanzi. Le madri di tutte noi, Libreria delle donne di Milano e Biblioteca delle donne di Parma, Milano 1982, p. 14, e Francesca Ghidini, Abitata da un grido. La poesia e l’arte di Sylvia Plath, Liguori, Napoli 2000, pp. 83-106.

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propri obiettivi nella vita, ma in Esther prevale sempre la finzione, per timore che il vuoto che lei avverte dentro di se´ affiori e la smascheri. Cosı`, la protagonista accumula successi esteriori, ma a essi non corrisponde una vera maturazione: un episodio emblematico, da questo punto di vista, e` quello, ricordato da Esther, in cui lei, terrorizzata da un esame scientifico obbligatorio nel suo corso di studi al college, era riuscita a evitare di dare l’esame, fingendo un interesse per la materia che in realta` non provava affatto e dicendosi disposta a seguirne le lezioni, per puro amore del 15 sapere ; in quell’occasione, Esther aveva ricevuto dai professori un riconoscimento di maturita`, ma era una maturita` fasulla, ottenuta al prezzo di una finzione, dell’occultamento deliberato del proprio sentire. Nella Campana di vetro, il doppio volto della protagonista, lacerata fra una facciata conformista e una sorda ribellione, accuratamente tacitata, fa da specchio all’intera societa`, anch’essa schizofrenicamente divisa fra una superficie scintillante e il marciume sottostante: a questo proposito, hanno evidentemente un valore simbolico, nel romanzo, sia l’episodio del pranzo avvelenato, servito in un ristorante di lusso, sia la malattia di Buddy – il fidanzato di Esther –, il quale, dietro l’apparenza di sano e robusto ragazzo americano, cova la tubercolosi. La ricerca di una perfezione impossibile caratterizza non solo la protagonista del romanzo, Esther, ma la stessa Plath, come risulta chiaramente dalla corrispondenza dell’autrice. In profondita`, il tentativo di 16 Sylvia di “portare la maschera”, di adeguarsi agli stereotipi femminili socialmente accettati, cela il tentativo disperato di corrispondere alle aspettative materne, di ottenere quell’amore che la madre aveva concesso solo a patto che la figlia si adeguasse alle proprie ambizioni di realizzazione sociale: “Mi sentivo imbrogliata: non ero amata, ma tutto mi diceva che lo ero [...]. Mia madre aveva sacrificato la sua vita per me. Un 17 sacrificio che io non volevo” . 15

Cfr. S. Plath, La campana di vetro, cit., pp. 33-34. Sylvia Plath, Dai “Diari”, in Opere, tr. it. a cura di Anna Ravano, con un saggio introduttivo di Nadia Fusini, Mondadori, Milano 2002, p. 1317: “Portare la maschera e` normale – e il minimo che possa fare e` continuare a dare l’impressione di essere allegra e serena, non vuota e impaurita”. La tendenza della Plath a portare una maschera e` sottolineata particolarmente da Ted Hughes, il quale scrive: “Sylvia Plath era una persona dalle molte maschere, sia negli scritti sia nella vita privata. [...] Sebbene abbia vissuto con lei ogni giorno per sei anni, e poche volte mi sia allontanato per piu` di due o tre ore di seguito, non l’ho mai vista esternare il suo vero io a nessuno; salvo, forse, negli ultimi tre mesi di vita”. (Ted Hughes, Prefazione, in Sylvia Plath, Diari, tr. it. di Simona Fefe´, Adelphi, Milano 1998, p. 14). 17 S. Plath, Dai “Diari”, cit., p. 1454. 16

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L’ideale di perfezione della Plath affonda le sue radici nella relazione con la madre, in cui trova terreno di coltura fertile un “demone” che la “vuole convinta di essere tanto brava da dover essere perfetta. Oppure 18 niente” . Fallendo inevitabilmente il traguardo di questa perfezione impossibile, Sylvia precipita nel vuoto della sofferenza depressiva, che il suo suicidio finale, dopo alcuni seri tentativi falliti, suggella drammaticamente: oltre alla sofferenza per il tradimento del marito, che deve aver riattivato il 19 trauma dell’abbandono paterno vissuto nell’infanzia , le lettere della Plath alla madre rivelano una mancata accettazione dell’imperfezione della condizione umana e, piu` in profondita`, della parzialita` della differenza femminile. Piu` volte l’autrice sottolinea di non voler essere come le altre donne: “Saro` una delle poche poetesse al mondo ad essere una donna completa ed esultante, non una qualche amara o frustrata imitatrice dei maschi, un 20 atteggiamento che finisce per rovinare quasi tutte” . “Diventero` una 21 donna superiore alle altre per la forza che ho” . Sylvia non vuole essere come la madre, non vuole essere come tutte le altre donne, che in cuor suo disprezza: nel perseguire il suo ideale di perfezione – tentativo disperato di farsi amare da una madre il cui sguardo l’aveva attraversata 22 senza vederla, mirando oltre, a una perfezione impossibile – , la Plath

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Ivi, p. 1391. Cfr. Sylvia Plath, Papa`, in Opere, cit., p. 655: “Ti seppellirono che avevo dieci anni. / A venti cercai di morire/e tornare, tornare, tornare da te”. Cosı` Sylvia si rivolge al padre morto, in una sua poesia, indicando nel desiderio di ricongiunzione al padre il motivo del suo tentato suicidio a ventun anni. E` possibile che una motivazione analoga sia alla base del suicidio che pose fine alla vita della Plath: cosı` suggerisce Alvarez (cfr. Id., The savage God, cit., pp. 54-55), minimizzando peraltro questo gesto estremo e leggendolo come un gioco d’azzardo con la morte, in cui la Plath non si curava molto se avrebbe vinto o perso. Questa lettura, dettata dall’intento condivisibile di sottrarre la Plath all’immagine di vittima sacrificale, suscita tuttavia non poche perplessita`. Il desiderio di ricongiunzione al padre e` indicato anche da Ted Hughes, in una sua poesia, come soggiacente al suicidio della Plath: “Volevi/essere come tuo padre/in qualunque luogo egli fosse. E il tuo corpo/ti sbarrava il passaggio”. (T. Hughes, Lettere di compleanno, cit., p. 312: Essere come Cristo). Buona parte della critica femminista, dopo la morte della Plath, attribuı` invece la “colpa” del suo suicidio a Ted Hughes: su questo, cfr. Erica Wagner, Sylvia e Ted. Sylvia Plath, Ted Hughes e le “Lettere di compleanno”, tr. it. di Giorgia Sensi, La Tartaruga, Milano 2004, pp. 23 ss. 20 S. Plath, Quanto lontano siamo giunti, cit., p. 172. 21 Ivi, p. 157. 22 Sul difetto di funzione dello sguardo materno, all’origine della malinconia, come sguardo che, anziche´ circoscrivere la figura del bambino in un piacere di scambio, lo attraversa come se si dirigesse altrove, in un vuoto lontano e senza limite, cfr. M. C. Lambotte, Il discorso melanconico, cit., pp. 180 ss. 19

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esprime la non accettazione di quella parte della condizione umana che le e` toccata in sorte, cioe` della differenza femminile. 1.2. Con la descrizione della Plath del mondo dell’alienazione, di quella “campana di vetro” dentro la cui aria viziata soffoca la protagonista, entriamo nell’universo della finzione, o meglio della perversione, a patto che intendiamo quest’ultima non in senso sessuale, ma con un significato 23 piu` ampio, come una dimensione della psiche umana in generale : nella costruzione difensiva del falso se´, la maturita` e il successo sono ottenuti al prezzo di una finzione, aggirando e non affrontando gli ostacoli posti dalla realta` ed eludendo la necessita` di confrontarsi con i propri limiti e con le proprie inadeguatezze. Una fiaba di Andersen, L’usignolo, esprime bene il carattere artificioso del se´ fittizio, apparentemente scintillante, ma in realta` vuoto e senz’anima. La fiaba narra che, nel giardino dell’imperatore della Cina, viveva nascosto un usignolo, dimesso nell’aspetto, ma che cantava meravigliosamente. Avendo sentito parlare dell’usignolo, l’imperatore lo fece cercare e portare a corte: egli fu commosso dal suo canto fino alle lacrime. Qualche tempo dopo, l’imperatore ricevette in regalo un usignolo meccanico, splendido nell’aspetto, col corpo ricoperto di pietre preziose, che cantava a comando; ben presto, l’usignolo meccanico venne preferito a corte, ma non dalla gente semplice, che continuava ad apprezzare quello vero, il quale era fuggito via, nel frattempo, dai fasti e dall’artificiosita` della corte. A un certo punto, l’usignolo meccanico si guasto` e, quando l’imperatore, malato, stava per morire, l’usignolo vero torno` a fargli sentire il suo canto, 24 richiamandolo alla vita . La fiaba sintetizza nei fasti della corte e nelle splendide vesti dell’usignolo meccanico il mondo della finzione e della perversione, mentre indica nel canto dell’usignolo vero e nelle lacrime dell’imperatore la sede della creativita` autentica. A contatto con la sofferenza e con la morte, il falso se´ rivela tutta la sua artificiosita`: si ha bisogno di parole vere, che parlino di vita e di morte, di gioia e di dolore autentici. 1.3. Alcune figure femminili dei romanzi di Marguerite Duras consentono

23 Cfr. Janine Chasseguet-Smirgel, Creativita` e perversione, tr. it. di Marcella Magnino, Raffaello Cortina, Milano 1987. 24 Cfr. Hans C. Andersen, L’usignolo, in Fiabe, tr. it. di Alda Manghi e Marcella Rinaldi, Einaudi, Torino 1992, pp. 172-80. Per una rilettura di questa fiaba nel contesto della perversione, cfr. J. Chasseguet-Smirgel, Creativita` e perversione, cit., pp. 100-103.

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di cominciare a intravedere, dietro una facciata controllata, il luogo in cui la malinconia si tramuta in dolore: si tratta di figure che incarnano “una 25 tristezza non drammatica, appassita, innominabile” , che viene dissimulata dietro comportamenti “diplomatici”: un evento scioccante, lontano nel tempo, perduto e dimenticato, scava un vuoto nel loro vissuto e determina un comportamento “come se”, fondato sull’imitazione della vita degli altri, in mancanza di una vita vera che questi personaggi non riescono a trovare dentro di se´. Una malinconia senza rimedio, una parola spezzata e balbettante e un comportamento esteriore convenzionale, che nasconde una pena segreta, accomunano le figure di Anne Desbaresdes in Moderato cantabile, di Lol V. Stein nel Rapimento di Lol V. Stein e di Anne-Marie Stretter nel Viceconsole. Anne Desbasdes (dei bar) e` una giovane madre che vive una doppia vita: dietro la facciata controllata che lei esibisce negli ambienti borghesi di cui fa parte, si nasconde un’identita` instabile, che la spinge a girovagare senza meta per la citta` e a ubriacarsi nei bar. In uno di questi, Anne conosce un uomo, Chauvin, con cui intreccia una relazione, fondata sul ricordo e sulla rievocazione di un omicidio passionale: un uomo ha ucciso 26 la sua donna per amore . La relazione fra Anne e Chauvin non e` che il calco, il doppio di quell’amore passionale, che i due protagonisti immaginano e ricostruiscono insieme: siamo nello spazio della della riduplicazione 27 malinconica, di una “ripetizione bloccata”, “fuori tempo” . Un’altra figura femminile durassiana che incarna una sofferenza muta, dissimulata dietro una facciata convenzionale, e` quella di Lol V. Stein: il “rapimento” di Lol, il suo mancare a se stessa, puo` essere fatto risalire al ballo di S. Thala, durante il quale il suo fidanzato, Michael Richardson, le fu portato via da un’altra donna, Anne-Marie Stretter. Il vuoto provocato dall’abbandono e` apparentemente colmato da una vita borghese, accanto a un marito musicista, con tre figli e una bella casa in 25

J. Kristeva, Sole nero, cit., p. 200. Sulle figure femminili durassiane caratterizzate dalla malinconia, cfr. anche Edda Melon, Scrivere e leggere la femminilita`, intervento all’Universita` dell’Aquila, 26 maggio 1992. 26 Cfr. Marguerite Duras, Moderato cantabile, Minuit, Paris 1958. Sulla “musica del silenzio” che, a partire da Moderato cantabile, prende sempre piu` spazio nell’opera della Duras, cfr. Claudio Galuzzi, Marguerite Duras ovvero Giornate intere tra i silenzi del rumore, in Edda Melon, Ermanno Pea (a cura di), Duras mon amour, Marcos y Marcos, Milano 1992, pp. 35-47. 27 Marguerite Duras, Il rapimento di Lol V. Stein, tr. it. di Claudia Lusignoli, Feltrinelli Milano 1989, p. 205. Per una lettura psicanalitica di questo romanzo della Duras, cfr. Jacques Lacan, Hommage fait a` Marguerite Duras du ravissement de Lol V. Stein, in AA. VV., Marguerite Duras, Albatros, Paris 1979, pp. 131-137.

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cui regna “un ordine rigoroso”28: ma si tratta di un ordine solo apparente, di un comportamento esteriore convenzionale che ricopre il vuoto senza colmarlo, di una facciata sociale che dissimula “una identita` di natura 29 indecisa” . Infatti, Lol si vota alla ripetizione dell’evento choccante che ha scavato un vuoto al centro del suo essere: di nascosto, spia le effusioni della sua amica Tatiana Karl con Jacques Hold, ricreando attivamente, con lo sguardo, una situazione triangolare simile a quella che l’aveva ferita. Stavolta, sara` lei a prendere il posto della rivale: ma, al di la` del valore risarcitivo di questa scena, conta il fatto che, grazie ad essa, entriamo nello spazio della riduplicazione, dell’incorporazione malinconica; anziche´ fare il lutto per l’abbandono subito, Lol si vota alla reiterazione del trauma che la perdita dell’oggetto d’amore ha provocato in lei. Con Lol V. Stein, tuttavia, ci allontaniamo gia` dalla maschera di conformismo sociale, consapevolmente assunta, che caratterizza la protagonista della Campana di vetro della Plath: in questo, come in altri personaggi durassiani, c’e` sı` un doppio volto, ma la facciata non e` deliberatamente costruita, quanto piuttosto inevitabilmente subita a causa di una 30 scissione profonda, di una mancanza d’essere costitutiva . Anche la figura di Anne-Marie Stretter, oscillante fra il comportamento “diplomatico” e irreprensibile di moglie dell’ambasciatore francese a Calcutta e una vita segreta con i suoi amanti in una villa sul delta del Gange, indica, piu` che un’abitudine alla menzogna e alla dissimulazione, uno sdoppiamento di personalita` che sfugge, prima di tutto, al personag31 gio stesso . L’intero romanzo, fin dal titolo, Il viceconsole – un diplomatico –, allude alle passioni e alle pene segrete che si nascondono dietro i comportamenti 28

M. Duras, Il rapimento di Lol V. Stein, cit., p. 26. Ivi, p. 32. Su questo tema, cfr. anche Laura Graziano, Un’identita` di natura indecisa, in Edda Melon, Ermanno Pea (a cura di), Duras mon amour 3, Lindau, Torino 2003, pp. 117-126. 30 Cfr. Leopoldina Pallotta della Torre, Marguerite Duras. La passione sospesa, La Tartaruga, Milano 1989, p. 115. L’intervistatrice fa notare alla Duras che “il coraggio di giungere alla verita` svelata di se´ non impedisce ai suoi personaggi femminili di praticare altrettanto bene la menzogna, quasi un’abitudine alla dissimulazione. Suzanna Andler, Sara, Anna Desbaresdes, Lol, Anne-Marie Stretter....”. E la Duras risponde: “Sono vittime di passioni che le travalicano – come quando per via dell’amante cinese io iniziai a mentire a mia madre – dilaniate dallo sdoppiamento di una personalita` che sfugge loro, prima di tutto”. 31 Cfr. Marguerite Duras, Il viceconsole, tr. it. di Angelo Morino, Feltrinelli, Milano 1986. Su questo romanzo, cfr. Renzo Ricco`, Duras, un dolore troppo antico per essere pianto, in Edda Melon, Ermanno Pea (a cura di), Duras mon amour 2, Lindau, Torino 2001, pp. 141-155. 29

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diplomatici del vivere sociale. Sullo sfondo, vi sono la miseria e il dolore dell’India; in primo piano, c’e` il mondo chiuso dell’ambasciata, in cui si muove Anne-Marie Stretter. La tristezza di quest’ultima, benche´ apparentemente slegata dalla sofferenza e dagli orrori del mondo coloniale, e` in realta` la forma cava che li ospita dentro di se´: la sua malinconia contenuta lascia talvolta affiorare “un dolore troppo antico per essere [...] pianto”32. Con figure come quella di Anne-Marie Stretter, ci allontaniamo gia` dalle terre della malinconia per avvicinarci a quelle del dolore: cominciamo a intravedere “il segreto criminale e folle che giace sotto le superfici dei nostri comportamenti diplomatici e di cui la tristezza di certe donne reca segreta testimonianza”33.

2. Il deserto 2.1. In questa seconda tappa del nostro viaggio attraverso la malinconia, scendiamo nel fondo del pozzo, facciamo propriamente esperienza del deserto: il crollo del falso se´, della facciata tenuta in piedi faticosamente, mette allo scoperto una paesaggio desolato, un vuoto insopportabile. E` difficile sostare in questa terra inospitale: non ci sono parole capaci di dirne l’infinita desolazione; si sprofonda nel silenzio, nel mutismo e nell’afasia. Tuttavia, nella vita passiva del deserto malinconico, giace in realta` una specifica forza, quella del sopportare, del farsi totalmente passivi, del restare in attesa. Immaginiamo un’onda che sale, minacciosa, e che sta per travolgerci: non c’e` alcuna via di fuga, possiamo solo attendere che l’onda ricada su se stessa, dopo aver esaurito il suo slancio, possiamo solo restare immobili, in attesa. Nello scendere fino in fondo al pozzo della malinconia, nel contattarne intimamente il tetro deserto, c’e` un lato positivo, a dispetto del carattere infernale di questa discesa: esso consiste nel lavoro del negativo che qui si compie, nel disfacimento del se´ di facciata che, nella tappa precedente, occultava il deserto e impediva di scorgerne l’infinita desolazione. “L’immane potenza del negativo”, secondo Hegel, consiste nel saper guardare in faccia la morte e nel mantenersi in essa, ritrovandosi

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M. Duras, Il viceconsole, cit., p. 126. J. Kristeva, Sole nero, cit., p. 207.

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nell’“assoluta devastazione”34: la forza peculiare a cui si puo` attingere qui consiste proprio nel soffermarsi, nel sostare nel luogo da cui, istintivamente, si vorrebbe fuggire il piu` rapidamente possibile. In questo senso, in quanto realizza la distruzione di un falso se´ che occulta il deserto, la discesa nel fondo del pozzo della malinconia mette a disposizione una specifica forza, quella del sostare presso cio` che incute timore. In questa seconda sosta del nostro viaggio nel deserto, incontriamo il punto in cui la malinconia lascia il posto al dolore e alla follia. In questo punto estremo, ritroviamo il paradosso della scrittura del deserto, a cui abbiamo accennato all’inizio. Non ci sono parole capaci di dire l’infinta desolazione di chi e` sopraffatto da un patire che eccede la sua capacita` di sopportarlo: si sprofonda in un dolore muto, nel silenzio. Eppure, quest’isola di silenzio da` origine talvolta a una scrittura del deserto: non si riesce a parlare, si e` murati nel silenzio, e tuttavia se ne parla, se ne scrive. Dal fondo indicibile di un’esperienza che costringe alla pura passivita`, a un patire privo di soggetto, scaturiscono parole e immagini che cercano di dire l’indicibile, di circoscrivere l’ineffabile. E` questo il paradosso della scrittura del deserto, che rivela una segreta parentela fra malinconia e mistica: all’indicibilita` dell’esperienza vissuta corrisponde, in entrambe, la creazione di parole e di immagini che cercano di circoscrivere il vuoto, di fissarne i contorni. A ben guardare, questo e` il paradosso stesso della scrittura, o almeno di una certa concezione della scrittura, quale ritoviamo ad esempio, significativamente, in Marguerite Duras: irrimediabilmente lontana dall’immediato della presenza, collocata nel regime della mediazione, la scrittura si volge nostalgicamente indietro, verso l’immediato, nel tentativo vano di afferrarlo. C’e` un vuoto al centro della scrittura, il vuoto della presenza immediata – questo viso, questo fiore –, ed e` proprio questo vuoto cio` che la scrittura cerca di afferrare, volgendosi nostalgicamente verso cio` che essa ha lasciato irrimediabilmente dietro di se´ nel momento in cui ha abbandonato l’immediatezza del vissuto a favore della mediazione del linguaggio: chi scrive, cerca continuamente di avvicinarsi a questo centro vuoto, di aggirarlo, di circoscriverlo, di approntare la 35 cerimonia capace di accogliere la presenza di cio` che e` .

34 Georg W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. di Enrico De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973, vol. I, p. 26. Sul negativo, in un’integrazione fra la prospettiva hegeliana e quella psicanalitica, cfr. Andre´ Green, Il lavoro del negativo, tr. it. di Antonio Verdolin, Borla, Roma 1996. 35 Cfr. M. Blanchot, Lo spazio letterario, cit., pp. 147 ss. Sul linguaggio come nostalgia

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La nostalgia dell’immediato rivive acutamente nella rilettura blanchotiana del mito orfico: Orfeo, che aveva ottenuto di poter scendere agli Inferi solo a patto di non volgersi a guardare l’amata Euridice, trasgredisce il divieto e, nel fare questo, obbedisce all’esigenza piu` profonda dell’opera, alla passione nostalgica per la presenza immediata. La scrittura, per Blanchot, inizia con lo sguardo d’Orfeo, con il volgersi indietro verso quel vuoto di presenza in cui si converte il volto di Euridice nel 36 momento in cui si cerca di afferrarlo . Insorgendo contro la condanna 37 hegeliana della nostalgia dell’immediato , Blanchot riabilita la passione della presenza che anima la scrittura letteraria. Mossa dall’amore per la singolarita` incarnata, inafferrabile quanto lo e` il Dio della teologia negativa, la parola poetica si volge continuamente indietro, nel tentativo di catturare, come Orfeo, il volto di Euridice nella notte. Il suo inevitabile scacco, che ci consegna invariabilmente parole al posto di cose, mediazioni al posto dell’immediato, un infinito intrattenimento al posto dello splendore del finito, non sminuisce il valore di questo tentativo sempre rinnovato: esso testimonia l’amore della scrittura per quell’immediato della presenza che nessuna sublimazione concettuale potra` mai compensare. Da Marguerite Duras, la scrittura e` concepita appunto come nostalgia dell’immediato, come apertura all’ignoto, come forza di attrazione di un vuoto inafferrabile e seducente. Ci sono innanzitutto la solitudine e il silenzio della scrittura, che la Duras, con sensibilita` femminile, collega all’essere donna: la solitudine e` associata miticamente all’isolamento femminile nella casa, nei secoli passati, che consegnava la donna a un’inquie38 tante vicinanza con “le bestie, la forma e la bellezza delle foreste”. Il silenzio, di cui la scrittura deve farsi custode, e` legato esplicitamente all’essere donna: “Anziche´ escluderlo o temerne l’ambiguita`, la donna traduce, ingloba l’integrita` stessa del silenzio nella parola che adopera. L’uomo ha invece un’ugenza nel dover dire, come se non potesse affatto sostenere la forza del silenzio”39. Da cio` deriva la connotazione femminile dell’immediato in Blanchot, cfr. Rocco Ronchi, Bataille, Le´vinas, Blanchot. Un sapere passionale, Spirali, Milano 1985, pp. 9-12. 36 Cfr. M. Blanchot, Lo spazio letterario, cit., p. 151. 37 Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., vol. I, pp. 81-92: “La certezza sensibile o il questo e l’opinione”. Sulla critica di Blanchot alla dialettica hegeliana, cfr. il mio Maurice Blanchot: la parola errante, saggio introduttivo di Giorgio Franck, Bertani, Verona 1984, pp. 97 ss. 38 Marguerite Duras, La vita materiale, tr. it. di Laura Guarino, Feltrinelli, Milano 1988, p. 65. 39 L. Pallotta Della Torre, Marguerite Duras, cit., p. 114.

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dell’atto stesso della scrittura: “Fin dai tempi antichi, dai tempi remoti, da millenni, il silenzio e` donna. Dunque la letteratura e` donna. Che vi si parli 40 di lei o che sia lei a farla, e` donna” . Ne deriva una poetica originale, che concepisce lo scrivere come un “bucare la nostra ombra interna affinche´ si espanda sulla pagina in tutta la 41 sua potenza originaria”. La scrittura e` vista non come azione, ma come gestazione passiva, come rivelazione di cio` che giace gia` dentro di se´, nell’inconscio, nell’ignoto, nell’ “ombra interna”: Si tratta di decifrare cio` che esiste gia` in noi ad uno stato primario, idecifrabile agli altri, in quello che chiamo il ‘luogo della passione’. [...] A lungo, ho creduto che scrivere fosse un lavoro, ora sono convinta che si tratti di un accadimento interno, un ‘non lavoro’ che si raggiunge innanzitutto facendo il vuoto dentro di se´, e lasciando filtrare quello che in noi e` 42 gia` evidente .

Tutti i romanzi dell’autrice francese raccontano la ricerca di un evento perduto e dimenticato, di un tassello mancante, di una lacuna originaria intorno a cui ruota la narrazione: “fu come scoprire i vuoti, e i 43 buchi che avevo dentro, e trovare il coraggio di dirli” . “E` solo dalla mancanza, dai buchi che si formano in una catena di significati, dai vuoti, 44 che puo` nascere qualcosa” . Come nella mistica, nella poetica durassiana la scrittura e` concepita come risposta alla chiamata di un Dio sconosciuto, come capacita` di ospitare l’ignoto dentro di se´. 2.2. La prossimita` fra follia e mistica, nell’opera di Marguerite Duras, e` sottolineata da Michel De Certeau portando l’attenzione sulla figura della mendicante nel Viceconsole, riproposizione di un archetipo ricorrente nella mistica: colei che porta la fame dentro di se´, l’idiota, la folle e`, nella letteratura mistica, la “forma primaria di cio` che diverra` ‘follia per il 45 Cristo’ ” . La sua marginalita`, la sua demenza e la sua fame designano i luoghi di abiezione come luoghi di prova, simili ai deserti, in cui i monaci 46 andavano un tempo a combattere gli spiriti maligni : gli eroi della 40

M. Duras, La vita materiale, cit., p. 99. L. Pallotta Della Torre, Marguerite Duras, cit., p. 57. 42 Ivi, p. 56. 43 Ivi, p. 34. 44 Ivi, p. 47. 45 Michel De Certeau, Fabula mistica. La spiritualita` religiosa tra il XVI e il XVII secolo, tr. it. di Rosanna Albertini, Il Mulino, Bologna 1987, p. 71. 46 Cfr. ivi, p. 62. 41

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conoscenza diventano i decaduti della societa` – i folli, gli illetterati, gli idioti; l’accesso alla verita` e` riservato agli esseri che portano su di se´ il dolore, la marginalita`, la follia. Con la figura della mendicante, passiamo dalla malinconia autodi47 struttiva a una “gaia disperazione” apportatrice di salvezza: nel Viceconsole, mentre Anne-Marie Stretter, con la sua malinconia trattenuta e celata dietro un comportamento diplomatico, incarna una tristezza votata all’autodistruzione, che il suo suicidio finale suggella, la mendicante, che porta la sua demenza e la sua fame attraverso le sterminate pianure dell’India, 48 incarna una “gaia disperazione” salvifica . Nella mendicante, nel suo instancabile girovagare, nel suo cammino che indica una strada per 49 perdersi e non per ritrovarsi , ci sono l’apertura all’ignoto, la capacita` di lasciarsi tutto alle spalle, di vivere semplicemente nel presente e nell’apertura a un futuro di cui non ci si preoccupa piu`. Mentre la malinconia di Anne-Marie Stretter designa un mondo votato all’autodistruzione – lo spazio artificioso dell’ambasciata –, il luogo di abiezione della mendicante delinea una via di salvezza, rivela che la verita` e` accessibile a chi accetta di prendere su di se´ la propria parte di demenza e di follia. Se nella Duras le due figure femminili che incarnano, rispettivamente, la malinconia autodistruttiva e la gaia disperazione salvifica sono giustapposti, nel Libro del deserto di Ingeborg Bachmann si delinea invece un passaggio dall’una all’altra, un itinerario che, dalla “normalita`”, conduce all’accettazione della marginalita` sociale e della follia. Una donna compie un viaggio nel deserto, alla ricerca della guarigione: il suo viaggio e` un percorso di progressiva spoliazione dalla sua identita` di donna occidentale emancipata e di graduale riconoscimento nella degradazione sociale e nella pazzia. 47

Cfr. Marguerite Duras, “La via della gaia disperazione”, in Il nero Atlantico, tr. it. a cura di Donata Feroldi, Mondadori, Milano 1988, pp. 15-25. 48 Sulla figura della mendicante nella Duras, cfr. Madeleine Borgomano, La storia della mendicante indiana. Una cellula generatrice dell’opera di Marguerite Duras, in E. Melon, E. Pea (a cura di), Duras mon amour 3, cit., pp. 257-275 e Marcelle Marini, Territoires du fe´minin avec Marguerite Duras, Minuit, Paris 1977, pp. 79-94 e pp. 159-265. Sull’importanza del movimento nello spazio nell’opera della Duras, cfr. Simonetta Micale, Io piuttosto che un’altra. Figure e parole dell’identita` nella narrativa di Marguerite Duras, Bulzoni, Roma 1999, pp. 23-49. 49 Cfr. M. Duras, Il viceconsole, cit., p. 9: “Come si fa a non ritornare? Bisogna perdersi. Non so. Imparerai. Vorrei che mi indicassero come perdermi. Bisogna non avere riserve mentali, disporsi a non riconoscere piu` nulla di quello che si conosce, dirigere i propri passi verso il punto piu` ostile dell’orizzonte, vasta distesa di acquitrini solcata ovunque da mille argini senza che si sappia perche´”. Il girovagare della mendicante e`, per la Duras, anche una metafora della scrittura, nella sua ricerca di una strada per perdersi e nella sua apertura all’ignoto.

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Una scena, rievocata piu` volte nel corso della narrazione, ripropone una figura simile a quella della mendicante della Duras, la figura della donna folle, demente: la scena mostra una donna, di ieratica bellezza, inginocchiata e tenuta legata per i capelli da un uomo. Indignata, la donna occidentale vorrebbe reagire, aiutarla, e grida che lui e` pazzo, ma un passante le spiega che non e` lui a essere pazzo, ma la donna legata: “Da allora so che la donna era pazza, che giaceva lı`, legata e in ginocchio, 50 e suo marito la teneva. Da allora la donna e` pazza” . In questa prima evocazione della scena, la protagonista, la donna occidentale, rifiuta di riconoscere di avere qualcosa in comune con la donna araba tenuta legata; la stessa scena si ripresenta alla sua mente piu` e piu` volte, fino a risvegliare il ricordo di una malattia mentale che lei stessa ha vissuto e che 51 l’ha vista “soffrire come una bestia” . A quel punto, il ricordo della donna pazza, che continua a ossessionarla, assume un significato diverso: la donna occidentale pensa che, in fondo, quella donna legata non sta peggio di lei, perche´ almeno il suo uomo se ne prende cura, mentre lei, quando ha conosciuto la malattia mentale, e` stata lasciata sola e affidata all’impersonalita` di una clinica psichiatrica. Anch’io [...] sono legata e ammutolita perche´ ogni urlo mi porterebbe nelle cliniche psichiatriche autorizzate, perche´ da tempo i miei capelli sono stati attorcigliati in una corda e prego per l’arabo, che forse e` migliore, lui 52 almeno si porta a casa la sua folle e la` custodisce le sue urla .

Con l’insistente riproposizione di questa scena, Ingeborg Bachmann ci suggerisce qualcosa circa la sofferenza femminile in tempi di fine del 53 patriarcato, come quelli in cui viviamo oggi : se l’immagine della donna araba legata e` una potente raffigurazione delle patologie femminili prodotte dal patriarcato, da una condizione di subordinazione e di assoggettamento, la figura della donna occidentale getta invece una luce, non meno 50

I. Bachmann, Libro del deserto, cit., p. 14. Qui, Ingeborg Bachmann mostra una follia femminile prodotta dal patriarcato e fa capire come quest’ultimo riesca a sgravarsi della propria parte di pazzia riversandola sulla donna: infatti, in un primo tempo, e` l’uomo a essere (ritenuto) pazzo, ma, poco dopo, questa rappresentazione si sgretola, costringendo a credere che la donna legata sia la sola depositaria della follia e inducendo anche la donna occidentale ad accettare questo punto di vista, condiviso socialmente. 51 Ivi, p. 19. 52 Ivi, p. 52. 53 Sulla fine del patriarcato, cfr. AA. VV., “Sottosopra” rosso, E` accaduto non per caso, Libreria delle donne di Milano, Milano 1996.

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inquietante, sulla sofferenza femminile dopo la fine del patriarcato, quando viene meno il Dio patriarcale, la “grande ombra di protezione e 54 sicurezza”. Mentre la Plath ci fornisce un quadro della depressione femminile ancora leggibile entro l’orizzonte patriarcale, in cui le norme sociali costrittive e limitanti, in modo particolare per la donna, consentono pero` almeno a quest’ultima di contare sulla “rendita della vittima”, cioe` di addossare la responsabilita` della propria sofferenza all’uomo, con un effetto di parziale alleggerimento, la Bachmann, invece, ci mette sotto gli occhi una sofferenza di cui la donna, uscita dalla costrizione patriarcale, 55 deve farsi carico in prima persona, in totale solitudine . Tuttavia, proprio l’attraversamento del deserto, nella Bachmann, lascia intravedere anche una via di guarigione: essa comporta l’accettazione della propria parte di marginalita` sociale e di follia, come luogo in cui sono custodite le uniche tracce del sacro rimaste. All’immagine della donna araba legata, si affiancano infatti nel testo quella di un bambino pazzo e di un demente: tutte queste figure hanno un valore sacro. Il loro significato si rivela alla protagonista quando, dopo aver cercato invano tracce di Dio nel deserto, finalmente le appare un’immagine: Ho visto un’immagine. Ho visto un’immagine infranta, nerissima [...], sulla spiaggia era distesa una cresta di mare, un grumo nero di carne, lungo appena trenta centimetri, un pezzo di carne marina quasi immobile. Era 56 questa l’apparizione. Io pero` vidi Dio. E lı` mi diressi .

Il contatto con la marginalita` e con la follia produce una rivelazione, la rivelazione che non esistono piu` ne´ alto ne´ basso, ne´ ordinamenti ne´ gerarchie ne´ valori: Dio e` un grumo di carne nera, un animale marino abbandonato sulla spiaggia. Nel biancore abbagliante del deserto, questa macchia nera e` un segno, come il primo segno di una scrittura che comincia ad articolarsi; ma e` anche un animale, che riscatta, grazie al suo carattere immondo, tutti i meno che umani incontrati lungo il cammino: la donna folle, il demente, il bambino pazzo. Con questa illuminazione, il niente del deserto porta a definitivo 57 “deterioramento tutto cio` che e` acquisito e consueto” e lascia affiorare 54

I. Bachmann, Libro del deserto, cit., p. 55. E` possibile che l’aumento di patologie depressive nel nostro tempo, soprattutto in donne, sia dovuto anche al crescente isolamento, in una societa` in cui i vincoli tradizionali vengono meno, e all’impossibilita` di imputare a qualcun altro la responsabilita` della propria sofferenza. 56 Ivi, p. 54. 57 A. Putino, Ingeborg Bachmann, cit., p. 50. 55

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l’elementarita` del bisogno, “il mistico congiungersi di inspirare ed espirare, 58 camminare e riposare, l’alleluia della sopravvivenza nel nulla” . La via della guarigione – non della salute, perche´ quest’ultima indica una stabilita` 59 che contraddice l’ineliminabile precarieta` dell’esistenza – passa attraverso l’accettazione dell’elementarita` del bisogno, dell’essenzialita` della vita, colta nelle sue componenti piu` semplici: e` questa, per la Bachmann, 60 “l’omelia del deserto” , che porta molto lontano dal luttuoso ripiegamento su se stessi della malinconia, per aprirsi a un senso ritrovato nell’elementarita` della sete, della fame e del sonno, riscoperti nella loro originaria creaturalita`.

3. Al posto della mancanza, la perdita La malinconia cade cosı` in basso perche´ punta molto in alto, perche´ mira a una perfezione impossibile, fantasticamente rimpianta o attesa, ma in realta` inappropriabile: alla comunione totale fra gli esseri, all’assoluta trasparenza delle anime, a un regno di perfezione che non e` di questo mondo. Per cogliere la smisurata ambizione che si nasconde dietro la disistima e il disprezzo di se´ tipici della malinconia, occorre soffermarsi sull’enigma della perdita, intorno a cui si aggroviglia l’impossibile lutto malinconico. Freud, lavorando sull’analogia fra lutto e malinconia, osserva che, mentre nel primo e` chiaro che cosa e` stato perduto, nella seconda ci si trova di fronte all’enigma di una perdita oggettuale sottratta alla coscienza: mentre nel lutto e` perduto un oggetto, nella malinconia la perdita riguarda l’io, fantasticamente identificato con l’oggetto da cui non ci si 61 vuole separare, cosicche´ “l’ombra dell’oggetto” cade sull’io , impoverendolo e svuotandolo. Secondo Giorgio Agamben, all’enigma di una perdita sottratta alla coscienza si aggiunge “il paradosso di un’intenzione luttuosa 62 che precede e anticipa la perdita” oggettuale : l’oggetto puo` anche essere 58

I. Bachmann, Libro del deserto, cit., p. 61. Cfr. ivi, p. 32. 60 Ivi, p. 61. Sull’opera della Bachmann in generale, cfr. Laura Boella, Le imperdonabili. Etty Hillesum Cristina Campo Ingeborg Bachmann Marina Cvetaeva, Tre lune, Mantova 2000, pp. 81-117. 61 Cfr. Sigmund Freud, Lutto e melanconia, in Opere, a cura di Cesare Musatti, vol. 8, Boringhieri, Torino 1984, p. 108. 62 Giorgio Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, Torino 1977, p. 25. 59

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lı`, a disposizione, ma ci si comporta come se fosse gia` perduto, perche´ viene a mancare l’investimento affettivo che lo rendeva desiderabile. Dunque, la perdita riguarda in realta` qualcosa che e` costitutivamente mancante, inappropriabile: il malinconico manifesta un intenso desiderio metafisico per una realta` collocata al di la` di questo mondo, al di la` del quotidiano, per l’assoluto sottratto al tempo e alla decadenza. In questo punto di osservazione del nostro viaggio nel deserto, prendiamo in considerazione la strategia malinconica, che riesce a possedere incondizionatamente l’assoluto inappropriabile proprio dichiarandolo perduto. La perdita e` l’unico modo di garantirsi il possesso di qualcosa che, in realta`, e` fin dall’inizio mancante: l’oggetto che si ritiene perduto non e` altro che la concretizzazione di questo vuoto-mancanza, che, in quanto strutturalmente inattingibile, si lascia possedere solo nella misura in cui lo 63 si dichiara perduto – e, dunque, un tempo posseduto . Nel caso della malinconia femminile, l’impossibile lutto che essa celebra si condensa intorno alla relazione con la madre: nella sua incrollabile fedelta` alla “Cosa”, cioe` al reale ribelle alla significazione64, la donna malinconica esprime la difficolta` a distaccarsi dalla figura materna, da una relazione che, attraverso l’identificazione speculare, l’ha costituita nella propria identita` sessuata. La “fedelta`” della donna malinconica alla relazione materna e` fedelta` a un resto non integrabile nel linguaggio, a un fondo indicibile e muto, al carattere assoluto di una comunicazione pienamente appagante. Questa comunione totale viene proiettata fantasmaticamente nel paradiso dell’infanzia, nell’intimita` della relazione femminile con la madre: quest’ultima viene in tal modo smisuratamente idealizzata e diventa cosı` quell’assoluto – in realta` mancante, nella sua perfezione impossibile –, che e` nostalgicamente rimpianto nel lamento inconsolabile per la sua perdita. Anziche´ discostarsi dal modello materno, perche´ il distacco significherebbe un inaccettabile tradimento, la donna malinconica lo porta cosı` dentro di se´, come paradigma assoluto di intimita`, che le fa giudicare 65 insoddisfacente ogni altra relazione . Se questo “incriptamento” della 66 figura materna nel luogo dell’io ne determina la desolata desertificazione , Cfr. Slavoj Zˇizˇek, Lutto, malinconia e atto, “aut-aut”, 2002, n. 310-311, pp. 39-63, in particolare p. 40. 64 Cfr. J. Kristeva, Sole nero, cit., p. 18. 65 Cfr. D. J. Crowley, Rompere il silenzio, cit., pp. 19-20. 66 Cfr. J. Kristeva, Sole nero, cit., p. 72. Sull’importanza dell’ “impronta materna” nella malinconia femminile, cfr. anche Manuela Fraire, Melanconia in figure, in AA. VV., La ferita dello sguardo. Una ricerca psicoanalitica sulla melanconia, a cura di Patrizia Cupellone, Franco Angeli, Milano 2002, pp. 127-151. 63

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tuttavia la fedelta` alla “Cosa” materna ribelle alla significazione puo` tradursi anche in creativita` artistica, nel tentativo di circoscrivere i confini di un regno che non e` di questo mondo, di un paese dell’anima che diserta il concreto e il finito per afferrare, nel sogno e nell’immaginazione, nel ricordo e nell’attesa, “un barlume di cio` che puo` essere posseduto solo a 67 patto di essere perduto per sempre” . In Marina Cvetaeva, si manifesta appunto un intenso desiderio per una realta` al di la` di questo mondo, nel tentativo di garantirsene il possesso proprio nell’assenza e nella perdita, dal momento che solo nel ricordo e nell’attesa, celebrati nello spazio della poesia, e` possibile un’appropriazione di cio` che e` in linea di principio mancante, inappropriabile: la comunione totale fra gli esseri e fra le anime. Non c’e` invece nella Cvetaeva la disposizione luttuosa che caratterizza la malinconia: dall’affetto depressivo la tiene lontana la sua capacita` di esprimere con forza l’odio e la rabbia, sentimenti che vedono l’autrice contrapporsi, sempre “a testa alta”, all’insegna di uno “straripamento” e 68 di un “eccesso”, a “ogni piattezza, orizzontalita`, accomodamento” . Nell’epistolario amoroso della Cvetaeva, si delinea una strategia malinconica, che preserva l’eterno e diserta il quotidiano e il finito, per afferrare un barlume dell’assoluto inattingibile solo nella perdita – nel ricordo e nell’attesa, nel sogno e nella poesia. Mentre le lettere alle amiche descrivono le difficolta` della vita quotidiana e contengono richieste di aiuto e di conforto, quelle rivolte a poeti uomini, smisuratamente amati proprio perche´ assenti e lontani, appartengono allo stesso spazio del sogno, ne costituiscono la prosecuzione diurna: Il tipo di rapporto che io preferisco e` ultraterreno: il sogno: vedere in sogno. E il secondo: la corrispondenza. La lettera: una forma del rapporto ultrater69 reno, meno perfetta del sogno, ma le leggi sono le stesse . 67 G. Agamben, Stanze, cit., p. 35. E` opportuno precisare, tuttavia, che buona parte della creativita` artistica femminile, in realta`, non rientra in questa modalita` malinconica; al contrario, molte artiste rivolgono la loro attenzione proprio alla dimensione relazionale, in cui cercano una restituzione della relazione materna: su questo, cfr. AA. VV., Matrice. Pensiero delle donne e pratiche artistiche, a cura di Donatella Franchi, Libreria delle donne di Milano, Milano 2004. Sul nesso fra malinconia e creativita` artistica in generale, non nell’orizzonte della differenza sessuale, cfr., oltre a R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia, cit., Eugenio Borgna, Malinconia, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 146-162, e Andre´ Haynal, Il senso della disperazione. La problematica della depressione nella teoria psicoanalitica , tr. it. di Alessandro Serra, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 107-120. 68 Cfr. L. Boella, Le imperdonabili, cit., pp. 119-120. 69 Marina Cvetaeva, Il paese dell’anima. Lettere 1909-1925, tr. it. a cura di Serena Vitale, Adelphi, Milano 1988, p. 135.

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Negli amori lontani e impossibili di Marina, tenuti accuratamente al riparo dalla prova della realta` e della quotidianita`, che potrebbe sfigurarli, si concretizza lo spazio del sogno, l’unico, insieme con quello della poesia, 70 in cui l’autrice si senta a casa propria . Nei confronti della “vita vera, 71 reale”, Marina professa la propria “profonda sfiducia” : vivere infatti e` 72 73 “spezzettare” , “tagliare [...] e poi ricucire insieme i pezzi” . L’insofferenza per la vita quotidiana assume a tratti i colori dell’odio, dell’indigna74 zione dell’anima per il fatto di dover abitare la fatica dei giorni . Alla dichiarata insopportabilita` della vita quotidiana fa da contraltare l’appassionata effusione di se´ nelle lettere d’amore, rivolte a interlocutori enormemente amati proprio perche´ lontani e irraggiungibili: la cura con cui Marina tiene questi suoi amori epistolari lontani dalla prova della realta`, dell’incontro, dell’usura dei giorni, fa parte della strategia malinconica, che riesce a proiettare i colori dell’assoluto su un oggetto finito solo a patto che quest’ultimo sia perduto, reso inaccessibile dalla distanza, trasfigurato nell’attesa o nel ricordo. Solo cosı` l’oggetto d’amore puo` somigliare a cio` che in realta` non e` perduto, ma mancante, all’“altro mondo”, “in cui 75 76 regnano le intenzioni segrete” , al “mondo dell’assenza” , che e` anche il luogo del sogno e della poesia. Due esempi, fra i molti offerti dal ricco epistolario amoroso della Cvetaeva, mostrano questa strategia esistenziale, che fa tutt’uno con l’alto impegno etico per la poesia professato dall’autrice: si tratta della corrispondenza con Boris Pasternak e con Rainer Maria Rilke. Le lettere a Pasternak intrecciano una relazione a distanza, fatta di amicizia, amore e scambio intellettuale, che si distende quasi lungo l’intero arco di vita della Cvetaeva. Fin dall’inizio, Marina colloca questa relazione sotto il segno del non-incontro, dell’assenza: “Non amo gli incontri 70 In questi amori a distanza, Marina cerca “la liberta` del sogno [...]. L’impunibilita`, l’irresponsabilita` e la totale assenza di riserve del sogno” (ivi, p. 185). 71 Cfr. ivi, p. 11. 72 Cfr. ivi, p. 46. 73 Ivi, p. 128. 74 Cfr. Marina Cvetaeva, Deserti luoghi. Lettere 1925-1941, tr. it. a cura di Serena Vitale, Adelphi, Milano 1989, pp. 7-8: “Non amo la vita come tale: la vita per me comincia ad avere senso – cioe` ad acquistare significato e peso – solo trasfigurata, e cioe` – nell’arte. [...] La vita quotidiana: materialita` non trasfigurata. Ho finalmente trovato la formula – mi ci ha portato l’odio. Ma il poeta e` colui che trasfigura tutto! ... No, non tutto – solo cio` che ama. E ama – non tutto. Cosı`, per esempio, il vano affaccendarsi di ogni giorno, che io detesto, per me e` vita quotidiana”. 75 M. Cvetaeva, Il paese dell’anima, cit., p. 167. 76 Ivi, p. 202.

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nella vita: si sbatte la fronte”77– gli scrive e, di fronte all’eventualita` di un incontro a Berlino nel 1932, fugge dalla citta` alla vigilia del suo arrivo. A questa fuga, dettata dal desiderio di preservare l’assoluto proiettato su questa relazione, e alla delusione di Pasternak, fanno seguito ripetute attestazioni di vicinanza nel paese dell’anima, che nessuna prova di realta` potra` mai scalfire ne´ sfigurare. Dopo aver ripetutamente negato la possibilita` di un incontro, Marina Cvetaeva incontrera` finalmente Pasternak, a Parigi, nel 1935: ma, a causa dello stato di depressione di lui, sull’orlo di un collasso nervoso, si trattera` piuttosto di un non-incontro, di un appuntamento mancato, come Marina aveva in fondo presentito, nella sua strategia di dilazione e di rinuncia alla prova della realta`. I due poeti si incontreranno ancora, dopo il ritorno di Marina in Unione Sovietica, ma quando ormai la loro relazione sara` avviata sui binari di un’amicizia, ben lontana dalla poesia dell’amore impossibile tanto cara alla Cvetaeva. La corrispondenza con Pasternak assume, a un certo punto, una struttura triangolare: fra i due, s’inserisce un terzo interlocutore, Rilke. Nelle lettere a Rilke, conosce il suo apice un tema caro alla poesia della Cvetaeva, l’eterno e fatale mancarsi dei due amanti, degli eletti, dei predestinati, l’impossibilita` del loro incontro nel tempo e nello spazio terrestri. Nella convinzione che “l’apparente impossibilita` di una cosa e` il primo indizio certo della sua naturalezza, della sua ovvieta` – in un mondo 78 altro” , Marina Cvetaeva interpreta il fatto che Rilke sia partito da Parigi senza averla conosciuta come segnale inequivocabile della predestinazione di questo amore. Con una strategia sapientemente orchestrata, Marina preserva questa relazione da ogni contatto con l’opera distruttrice dei giorni. E` impossibile per lei far discendere quest’amore, che appartiene all’eterno, nel presente; per questo, rinuncia a incontrare Rilke, e la rinuncia intensifica il desiderio, acuito dalla lontananza e dall’assenza. La fede della Cvetaeva nella lettera come messaggio di un altro mondo raggiunge il suo culmine nel momento in cui, alla morte di Rilke, Marina gli indirizza una lettera quando lui e` gia` morto. In questo gesto, la tendenza della Cvetaeva a proiettare l’assoluto nell’assenza raggiunge un punto di non ritorno: i destinatari delle lettere amorose, straordinariamente idealizzati proprio perche´ irraggiungibili, si rivelano qui, nella lettera scritta a un morto, semplici pretesti per la mobilitazione del 77 78

Ivi, p. 137. M. Cvetaeva, Deserti luoghi, cit., p. 282.

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sentimento, inesauribili contenitori del sogno e dell’immaginazione, luoghi di salvezza e di rifugio dalla schiavitu` dei corpi79. A Rilke morto, Marina si rivolge ribadendo la propria fede nella vicinanza nel paese dell’anima, che il mancato incontro nello spazio terrestre conferma nella sua assolutezza e invulnerabilita` al tempo: Tu e io non abbiamo mai creduto al nostro incontro in questa vita — come non abbiamo mai creduto in questa vita, non e` vero? [...] non sei ancora in alto e lontano, sei proprio qui vicino, la fronte sulla mia spalla80.

Nell’incrollabile determinazione con cui Marina Cvetaeva ha preservato lo spazio del sogno e dell’immaginazione da ogni contaminazione con la prosa quotidiana, si puo` riconoscere la strategia malinconica, che nega il proprio assenso a cio` che e` presente e prossimo, per catturare un barlume dell’assoluto sottratto al tempo in cio` che e` irrimediabilmente perduto. Una parola russa che ricorre nelle lettere, toska81, che significa “angoscia, malinconia, spleen, prostrazione”, “il sentimento trafiggente, l’umore che ci assale in assenza della persona [...] amata”82, esprime bene il ripiegamento nostalgico della malinconia su cio` che, proprio perche´ perduto, puo` conservare i caratteri dell’assoluto sottratto al tempo e alla morte. Dal luttuoso ripiegamento malinconico, tuttavia, Marina Cvetaeva si tiene lontana anche per la sua ferma e totale dedizione alla poesia: quest’ultima crea uno spazio in cui un riflesso dell’assoluto inafferrabile puo` essere catturato, celebrato, rimpianto o atteso, ma comunque glorificato. Nel suo strenuo impegno etico per la parola poetica83, accuratamente cercata, scelta per la sua unicita` e instancabilmente cesellata, la Cvetaeva ha riversato l’amore per quell’altro mondo che, se le ha negato diritto di cittadinanza in questo, le ha tuttavia consentito di rifletterne la luce incorporea in versi di incomparabile purezza. E` stata la poesia, per la Cvetaeva, il tramite che le ha permesso di far brillare qualche indizio terrestre di quell’altro mondo, a cui si e` votata con incrollabile dedizione.

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Cfr. Serena Vitale, Note, ivi, p. 416. M. Cvetaeva, Deserti luoghi, cit., p. 69. Cfr. ivi, p. 162. S. Vitale, Note, ivi, p. 473. Cfr. L. Boella, Le imperdonabili, cit., p. 126.

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. Quando la storia invade lo spazio psichico individuale Il luogo, apparentemente del tutto privato e solitario, della malinconia ha in realta` un rapporto profondo e viscerale con gli orrori e con la violenza della storia: e` come se, nell’incapacita` di investire la propria affettivita`, nel bene e nel male, nelle relazioni prossime e concrete, la solitudine malinconica inghiottisse visceralmente scenari lontani di violenza e di orrore. E` vero infatti che, in genere, in tempi di guerra, la depressione non compare, forse perche´ si e` troppo occupati a lottare per la sopravvivenza, ma e` vero anche che immagini di violenza lontane possono invece essere portate dentro, ossessivamente, soprattutto da donne, fino a popolarne le notti con 84 gli incubi . Mentre, nello spazio plurale delle relazioni effettive, c’e` posto per tutta la gamma dei sentimenti, la cui espressione tuttavia rimane quasi sempre parziale e incompleta, nella solitudine priva di intenzionalita` affettiva del deserto malinconico si delinea invece un legame diretto io-tutto: la solitudine disaffettivizzata della malinconia si presta cosı` a farsi forma cava che ospita le catastrofi storiche, a inglobarle visceralmente, a incriptarle dentro, portandole a una vicinanza intollerabile. L’opera di Marguerite Duras, come abbiamo gia` mostrato, conduce dalle terre della malinconia al luogo in cui quest’ultima si tramuta in dolore85: c’e` nella Duras la mitizzazione di un femminile tragico e passionale, che si lascia attraversare completamente dal dolore, ma anche dal desiderio e dalla forza dirompente della passione. Accanto a figure femminili che rientrano nel registro malinconico, ve ne sono altre che si lasciano devastare completamente dal dolore e dalla violenza della storia. La particolare sensibilita` al dolore di Marguerite Duras, come sottolinea Julia Kristeva, e` stata forgiata da diverse esperienze difficili:

84 La tendenza dell’immaginazione a soffermarsi ossessivamente su violenze lontane e` sottolineata da Simone Weil, quando chiede di essere presente di persona, in qualche modo, o con una missione pericolosa sul suolo francese o con un corpo di infermiere di prima linea, la` dove si combatte, durante la seconda guerra mondiale. Scrive infatti la Weil a Maurice Schumann: “Ho conosciuto abbastanza la mia specie particolare d’immaginazione da sapere che la sventura della Francia mi farebbe molto piu` male da lontano che da vicino”. (Simone Weil, E´crits de Londres et dernie`res lettres, Gallimard, Paris 1957, p. 185). Sulle diverse reazioni di fronte alle immagini di atrocita` lontane, si sofferma Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, tr. it. di Paolo Dilonardo, Mondadori, Milano 2003. 85 Cfr. Nori Fornasier, Marguerite Duras. Un’arte della poverta`, ETS, Pisa 2001, p. 15.

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Ci voleva, forse, la strana avventura dello sradicamento, un’infanzia sul continente asiatico, la tensione di un’esistenza ardua accanto alla madre, una maestra elementare dura e coraggiosa, l’incontro precoce con la malattia mentale del fratello e con la miseria di tutti, perche´ una sensibilita` personale al dolore sposasse con tanta avidita` il dramma del nostro tempo86.

Il dramma del nostro tempo prende, nella Duras, la forma della 87 “malattia della morte”, cioe` dell’incapacita` di amare , ma anche di una sofferenza individuale ineliminabile, che ospita visceralmente le grandi catastrofi del Novecento, da Hiroshima ad Auschwitz: in una civilta` che sa di potersi dare la morte e che dispone di forze di distruzione spaventose, anche lo spazio psichico individuale e` devastato e sconvolto. La Duras sceglie di costeggiare la “malattia della morte” del nostro tempo con un’arte non catartica, che accompagna la sofferenza senza offrirle alcuno 88 sbocco liberatorio, che da` voce al dolore senza uscirne . In generale, la Duras rappresenta la donna piu` vicina dell’uomo all’esperienza del dolore, piu` capace di sopportarla: l’autrice riconosce alla donna “il saper affrontare fino all’ultimo l’esperienza del dolore senza farsene annientare. Certa debolezza dell’uomo lo rende a tal punto impreparato, da sfuggire all’entita` stessa della sofferenza mistificandola, 89 esternandola con la rabbia, o la violenza fisica” . Mentre l’uomo si difende, dal dolore, ricorrendo talvolta a comportamenti aggressivi e violenti, come il viceconsole, nel romanzo omonimo, che spara sulla folla dei lebbrosi a Lahore, la donna ospita il dolore dentro di se´ o interiorizzandolo nella modalita` malinconica di un impossibile lutto o lasciandosene devastare fino alla follia. Il racconto Il dolore ha come protagonista una donna il cui spazio psichico e` devastato e sconvolto dalla violenza della seconda guerra mondiale e dei campi di concentramento: scritto in prima persona, questo testo viene presentato come un diario, tenuto mentre la protagonista aspetta il ritorno di suo marito, Robert L., fatto prigioniero dai nazisti e deportato a Dachau perche´ membro della resistenza francese. Nel pubblicare questo testo a quarant’anni di distanza dalla fine della guerra,

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J. Kristeva, Sole nero, cit., p. 199. Cfr. Marguerite Duras, La malattia della morte, in Testi segreti, tr. it. di Laura Guarino, Mondadori, Milano 1997, pp. 41-70. Su questo racconto della Duras, cfr. anche il commento di Maurice Blanchot, “La comunita` degli amanti”, in Id., La comunita` inconfessabile, tr. it. di Mario Antomelli, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 45-84. 88 Cfr. J. Kristeva, Sole nero, cit., pp. 192-194. 89 L. Pallotta della Torre, Marguerite Duras, cit., p. 115. 87

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Marguerite Duras ne sottolinea l’autenticita` di documento umano e non letterario: Ho ritrovato questo Diario in due quaderni negli armadi blu di Neauphle-le Chaˆteau. Non ricordo di averlo scritto. [....] Mi sono trovata davanti a un disordine formidabile del pensiero e del sentimento che non oso toccare, e davanti al quale mi vergogno della letteratura90.

Effettivamente, il marito di Marguerite Duras, Robert Antelme, fu deportato a Dachau e, in seguito, pubblico` un libro sulla terribile espe91 rienza del campo di concentramento, La specie umana . Nel dichiarare l’autenticita` del proprio diario, la Duras vuole sottolineare che queste pagine cercano di afferrare un vissuto bruciante, un’esperienza-limite; e` consapevole tuttavia del fatto che questo scritto e` pur sempre “letteratura” e che, come tale, non puo` riuscire a catturare l’immediato – in questo caso, l’orrore dei campi –, tanto piu` che il diario di Marguerite risponde, come un’eco, a un altro libro, La specie umana di Antelme. La premessa, che attesta la veridicita` del diario e che, al tempo stesso, suggerisce che esso e` la cassa di risonanza dell’esperienza dei campi, vissuta e descritta da altri, delinea esattamente in luogo in cui si colloca colei che scrive: il suo spazio psichico e` devastato e sconvolto da una violenza lontana eppure vicinissima, quella della guerra e dei campi di concentramento, una violenza che pone le donne “in prima linea di una battaglia senza nome ne´ armi ne´ sangue versato ne´ gloria, prima linea 92 dell’attesa” . Fin dall’inizio, la Duras designa lo spazio femminile privato come luogo che, in quanto devastato dal dolore, assume una dignita` grave che ridimensiona lo spazio pubblico, pur attribuendo alla storia la responsabi93 lita` di essere l’elemento scatenante della “malattia della morte” . Viene frantumata la linea di demarcazione fra privato e pubblico: non c’e` nessun luogo che sia al riparo della violenza della storia; lo spazio privato della casa, del corpo e della mente femminile e` completamente invaso da

90 Marguerite Duras, Il dolore, in Il dolore, tr. it. di Laura Guarino e Giovanni Mariotti, Feltrinelli, Milano 1985, p. 13. Su questo racconto della Duras, cfr. Marina Bassani, La guerra ha i colori dell’infanzia, in E. Melon, E. Pea (a cura di), Duras mon amour 2, cit., pp. 63-69, e Raul Iraiza, Risuona o ammutolisce. L’incontro con l’opera di Marguerite Duras, ivi, pp. 71-82. 91 Cfr. Robert Antelme, La specie umana, tr. it. di Ginetta Vittorini, Einaudi, Torino 1969. 92 M. Duras, Il dolore, cit., p. 16. 93 Cfr. J. Kristeva, Sole nero, cit., p. 195.

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immagini di violenza e di orrore, che la sofferenza psichica porta a una vicinanza intollerabile. Visceralmente, colei che scrive sente nel suo corpo e nella sua testa la 94 morte che avanza; e` ossessionata dalle immagini della “fossa buia” , in cui certo il suo uomo sta morendo, lo sa senza bisogno che nessuno glielo dica: “E` la sua morte dentro di me, batte contro le tempie. Impossibile che 95 mi sbagli” . “Accadono piu` cose nella nostra testa che sulle strade 96 tedesche. Raffiche di mitra a ogni momento, dentro la testa” . Il corpo a corpo con la morte, con un orrore tanto piu` spaventoso in quanto l’immaginazione vi ritorna ossessivamente, devasta lo spazio psichico della 97 protagonista: “Un taglio di lama di rasoio fra me il resto del mondo” . Lei non mangia, non dorme, non si lava piu`, ormai gli altri la “considerano 98 una pazza malata” ; non vive piu` con coloro che le stanno intorno, ma con il suo uomo che sta morendo, che e` gia` morto, ne e` certa: “Tutte le 99 sere mi addormento vicino a lui nella fossa nera, vicino a lui morto” . La lotta con la morte continuera` ancora quando lui, sopravvissuto al 100 campo di concentramento, ma ridotto a uno scheletro, a un “rifiuto” , ritornera` a casa: la Duras descrive minuziosamente lo stato di un corpo infestato dalla morte e la battaglia quotidiana per far rinascere in esso una scheggia di vita. E` proprio la morte a rappresentare il legame piu` forte con quest’uomo; infatti, la protagonista lo lascera` per avere un figlio da un altro, ma, al ricordo di lui, cosı` vicino alla morte, questo amore gia` finito si risvegliera` e reclamera` una durata che andra` ben oltre la sua fine inevitabile: “A quel nome, Robert L., piango. Piango ancora. Piangero` per 101 tutta la vita” . Questo amore, risvegliato dalla prossimita` con la morte, e` anche cio` che orienta uno snodo fondamentale del testo, cioe` il passaggio dall’odio indifferenziato per i nemici alla necessita` di condividere il male, di non espellerlo, ma di ospitarlo dentro di se´. In un primo tempo, quando

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Cfr. M. Duras, Il dolore, cit., p. 27. Ivi, p. 16. 96 Ivi, p. 35. 97 Ivi, p. 43. 98 Ivi, p. 27. 99 Ivi, p. 19. 100 Cfr. ivi, p. 50. 101 Ivi, p. 59. Kristeva parla a questo proposito di un “dolore innamorato della morte”, di una morte che “ravviva l’amore morto” (J. Kristeva, Sole nero, cit., p. 199); ma io credo che questa dichiarazione d’amore renda conto anche di un vissuto che, per il suo carattere assoluto, eccede la temporalita` e si apre all’eterno. 95

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cominciano a trapelare le prime notizie sui campi nazisti, la protagonista prova per i nemici “un odio, terribile e buono, consolante come la fede in 102 Dio” . Quest’odio l’accomuna a tutte le donne che attendono il ritorno dei loro uomini: come il coro di una tragedia greca, “il fronte delle donne, compatto, irriducibile”, si contrapponeva a un prete che, portando con se´ un orfano tedesco, parlava della necessita` di perdonare, “in una lingua che le donne non capivano piu`”. Il prete “si attribuiva il diritto di perdonare gia`, di assolvere gia`. Non era reduce da nessun dolore, da nessuna 103 attesa” . Qui, il “fronte delle donne”, facendosi scudo della propria stessa sofferenza, tiene il male a distanza, lo rigetta fuori di se´ con un odio, che e` “buono”, perche´ consente di scavare un abisso fra il proprio dolore innocente e coloro che ne sono responsabili. Poco dopo, tuttavia, quando nella protagonista rinasce la speranza che il marito possa ritornare vivo, quest’odio consolante si fa piu` opaco, meno netto. A segnare il punto di svolta e` l’amore per lui, che, convivendo con l’odio per chi sta per ucciderlo, la rende incapace di scegliere fra quelle che le si rivelano essere le due facce della stessa medaglia, l’amore e l’odio, la vita dell’uno e la morte dell’altro: Non odio piu` i tedeschi, quello che provo non e` cosı` semplice. Ho potuto odiarli per un certo periodo, tutto allora era limpido, netto, massacrarli tutti, quanti tedeschi erano, sino all’ultimo, cancellarli dalla terra, perche´ l’accaduto non accadesse piu`. Ora, fra l’amore per lui e l’odio per loro, non so scegliere. E` una medaglia a due facce: su una lui, il suo petto di fronte a un tedesco [...]; dall’altra, gli occhi del tedesco che prende la mira. Diritto e rovescio di una sola immagine. Fra i due, devo scegliere: o lui che rotola nella fossa, o il tedesco che rimette il mitra in spalla, se ne va. Non so se devo correre ad accogliere lui tra le braccia e lasciar fuggire il tedesco, o lasciare Robert L. e impadronirmi di colui che l’ha ucciso, bucare i suoi 104 occhi .

Gia` qui si assiste allo sgretolamento dell’odio, dettato dalla necessita` di salvare la parte di se´ che vuole la vita di chi si ama, di farla prevalere sul desiderio di morte nei confronti del nemico. La meditazione della Duras su questo tema raggiunge, infine, il suo punto piu` alto nel momento in cui, quando ormai la realta` dei campi di sterminio e` nota in tutto il suo orrore, l’autrice si dichiara incapace di

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M. Duras, Il dolore, cit., p. 28. Ibid. Ivi, p. 30.

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espellerla dalla propria coscienza e afferma la necessita` di farle spazio dentro di se´, affinche´ quanto e` accaduto in Europa non sia rigettato come un crimine che riguarda solo i nazisti, ma sia assunto collettivamente, come qualcosa di cui non ci si potra` mai piu` liberare: Se il crimine nazista non viene allargato su scala mondiale, inteso in maniera collettiva, il deportato di Belsen morto da solo per la sua anima collettiva, per quella coscienza di classe che lo ha spinto a far saltare un bullone della ferrovia una certa notte in un certo punto d’Europa, senza capo, ne´ uniforme, ne´ testimoni, restera` tradito per sempre. Se l’orrore nazista viene considerato un destino tedesco, non un destino collettivo, l’uomo di Belsen sara` ridotto a vittima di un conflitto locale. Una sola risposta per un tale crimine: trasformarlo nel crimine di tutti. Condividerlo. Come si condivide l’idea di uguaglianza, di fraternita`. Per sopportarlo, per tollerarne l’idea, condividere il crimine105.

Questa proposta cosı` forte, quasi inaccettabile, di “condividere il crimine”, di fargli spazio nella propria coscienza, affinche´ il male compiuto da altri non sia respinto fuori di se´ come qualcosa di distante e di mostruoso, in definitiva di inumano, ma sia in qualche modo contemplato come limite estremo di un’umanita` che, dopo Auschwitz, in ogni caso non potra` piu` essere la stessa di prima, sta accanto all’impegno di lotta contro il nazismo che l’autrice del diario, nel frattempo, continua a portare avanti. Militante nelle file della resistenza francese, l’autrice non intende certo venir meno, con l’idea di condividere il crimine, alla lotta che vede impegnati molti, fra cui “l’uomo di Belsen”, contro il nazismo; intende piuttosto mettere in guardia dal rischio di manicheismo insito nella rappresentazione della propria parte come immune da ogni colpa e nell’attribuzione di ogni responsabilita` del male al nemico. Negli altri racconti che compongono il testo Il dolore, l’autrice dichiara infatti di aver vissuto un’ambigua complicita` con un collaboratore dei nazisti, nella speranza di avere notizie del proprio marito deportato, e, successivamente, di essere colei che, come membro della resistenza, ha 106 fatto torturare un informatore della Gestapo : con questo attraversamento della zona grigia di complicita` col nemico e, ancora di piu`, con la narrazione cruda della scena di una tortura condotta da una donna, l’autrice fornisce una rappresentazione della propria “parte” – sia politica sia sessuale – tutt’altro che immune da colpe, responsabilita`, violenze. 105

Ivi, pp. 46-47. Cfr. Marguerite Duras, Il signor X, detto qui Pierre Rabier, ivi, pp. 67-100, e Albert des Capitales, ivi, pp. 101-120. 106

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E` come se, all’insegna della necessita` di “condividere il crimine”, l’autrice contattasse visceralmente qualcosa che le fa orrore e che tuttavia non puo` considerare del tutto estraneo a se´; e` come se si mangiasse un pezzetto di quel male che, seppure scatenato da altri, ha tuttavia coinvolto e contaminato tutti, nel fronteggiarlo e nel rispondervi, non lasciando a nessuno la possibilita` di proclamarsi del tutto innocente. Neppure la 107 donna e` al riparo da tutto questo . Se Marguerite Duras, in questo come in altri suoi testi, rompe la separazione fra pubblico e privato, al punto che il luogo privato del dolore femminile diventa il punto di osservazione privilegiato per mostrare l’impatto devastante delle catastrofi del Novecento, questo accade perche´ la storia, per prima, ha rotto ogni confine, invadendo lo spazio psichico individuale e non lasciando a nessuno, neppure alla donna, la possibilita` di ripararsi in un luogo sicuro. L’assunzione della propria responsabilita`, nella complicita` col nemico e nella violenza della tortura, e` fatta senza pronunciare alcun giudizio: la Duras non offre alla donna la possibilita` di ripararsi dietro l’estraneita` femminile alle guerre e alle violenze volute da uomini, benche´ riconosca la responsabilita` di questi ultimi, ma indica piuttosto il luogo degli affetti femminili, devastati dalla violenza della storia, come un campo di battaglia da esplorare e da descrivere, ma senza pronunciare giudizi ne´ tracciarvi divisioni manichee. Parole come verita` e giustizia ne escono fortemente 108 ridimensionate , private di ogni retorica, misurate sull’ambiguita` di un

107

L’immagine della donna torturatrice, delineata dalla Duras sullo sfondo della seconda guerra mondiale, ha riacquistato una drammatica attualita` con i recenti fatti di torture in Iraq, di cui si sono rese responsabili anche alcune donne soldato. Personalmente, trovo che l’attribuzione durassiana della responsabilita` della tortura a una donna, che, pur torturando, resta tuttavia tale, anche se deve subire il disprezzo di tutte le altre donne che assistono e che la guardano disgustate, possa farci riflettere anche oggi. Nel dibattito attuale, fra quelle che, di fronte alle torture inflitte da donne in Iraq, hanno cercato di espellerle dalla differenza femminile attribuendole a un’omologazione a comportamenti maschili violenti, e quelle che invece le hanno dolorosamente assunte come frutto di un femminismo emancipatorio e competitivo, propendo decisamente per quest’ultima ipotesi. La Duras mette in scena un femminile lacerato fra il rifiuto della violenza da parte di molte donne e l’uso della tortura da parte di una, che, pur essendo torturatrice, e` riconoscibile tuttavia pienamente ancora come donna: con quest’immagine terribile, la scrittrice completa la sequenza narrativa del Dolore e ci mette sotto gli occhi tutta la gamma di un femminile, che va dal dolore innocente all’ambigua complicita` col nemico e che si spinge fino alla violenza intenzionalmente inflitta con la tortura. 108 Cfr. M. Duras, Albert des Capitales, cit., p. 114. Le parole “verita`” e giustizia”, pronunciate dalla torturatrice dell’informatore della Gestapo, si colorano di un’amara e tragica ironia: si tratta infatti di una verita` estorta con la tortura e di una giustizia “fatta” a forza di violenza.

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sentire a cui nulla risulta estraneo. In questo senso, Marguerite Duras, che in alcuni suoi scritti si e` profondamente calata nel dolore vissuto dagli 109 ebrei , potrebbe condividere il senso di queste parole, scritte da una giovane donna ebrea, Etty Hillesum, che ha patito in prima persona le terribili conseguenze della Shoah: Bisogna vivere con se stessi come con un popolo intero; allora si conoscono 110 tutte le qualita` degli uomini, buone e cattive .

109

Cfr. M. Duras, “La via della gaia disperazione”, cit., p. 23: la Duras parla qui della protagonista di un suo film, Le camion, “che inventa di essere madre di tutti i bambini ebrei morti ad Auschwitz”. Cfr. anche Ead., Aure´lia Paris, in Il dolore, cit., pp. 147-157: questo testo, scrive la Duras, e` dettato dall’“amore folle per la bambina ebrea abbandonata” (ivi, p. 149). 110 Etty Hillesum, Diario 1941-1943, tr. it. di Chiara Passanti, Adelphi, Milano 1985, p. 207.

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La grazia del no nel processo analitico di Cristina Faccincani Il paradiso e` serrato e il cherubino ci sta alle spalle. Noi dobbiamo fare il viaggio intorno al mondo e vedere se vi si trovi forse qualche ingresso dal di dietro... H. von Kleist, Il Teatro delle Marionette1

L’interrogazione di questo tema prende avvio dall’esplorazione di una figura letteraria creata dalla scrittura di Melville, figura profondamente enigmatica per la singolarita` della sua posizione negativa. 2 Bartleby e` il personaggio chiave di uno splendido racconto che porta lo stesso nome. La qualita` della presenza di Bartleby e` resa in modo magistrale da una formula che scandisce ogni qualsiasi relazione che Bartleby intrattiene: cio` che egli ripete ogniqualvolta viene interpellato e`: “I would prefer not to”, PREFERIREI DI NO. Questa formula non e` solo l’unica proposizione pronunciata da Bartleby con qualche variante nelle diverse circostanze, ma anche l’esplicitazione letterale della sua forma di presenza: una presenza ferma che, rendendosi indeterminata, abolendo ogni particolarita`, ogni referenza, sconvolge le relazioni creando un vuoto di presupposti. E` questo vuoto che costringe gli interlocutori e in particolare l’interlocutore principale, il notaio che lo ha assunto come scrivano copista, a mobilizzare il proprio mondo di presupposti, dai quali e` costretto ad uscire. L’inamovibilita` di Bartleby costringe il notaio al movimento, il suo silenzio lo costringe alla parola, il vuoto di contenuti proposto da Bartleby implica nel notaio l’attivazione incessante dell’emotivita`, dell’immaginazione e del pensiero. La qualita` della presenza di Bartleby e` infatti capace di sconvolgere, di

1

Heinrich von Kleist, Il Teatro delle Marionette, tr. it. di Leone Traverso, Il Melangolo, Genova 1978, p. 14. 2 Herman Melville, Bartleby, in Opere Scelte, vol. I, tr. it. di Enzo Giachino, Mondadori, Milano 1972, pp. 737-790.

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disorganizzare, le forme date di presenza altrui: ritraendosi, abolendo contemporaneamente ogni accettazione e ogni rifiuto, devasta e sabota i presupposti di ogni reattivita` abituale, di ogni automatismo reattivo, rendendolo impossibile. La relazione con lui, attraverso la ripetizione della formula, diventa un contenitore, che facendosi vuoto di contenuti consolidati e familiari, apre spazi al processo, all’ignoto, alla differenza, al cambiamento, alla creazione. In un bellissimo saggio dal titolo Bartleby o la 3 formula , sulle implicazioni filosofiche di questa figura di “infermita` leggendaria”, Gilles Deleuze parla della presenza di Bartleby come “essere in quanto essere e nient’altro” e della sua formula come qualcosa che “scava nella lingua una specie di lingua straniera”, vanificando le assunzioni della lingua stessa. Da questo punto di vista Bartleby non e` una figura simbolica, bensı` una figura che, con la sconcertante e scarna letteralita` della sua ricusazione del confrontare le copie dei documenti rispetto all’originale e del copiare in generale (compiti per i quali il notaio lo ha assunto), riapre all’infinito lo spazio della creazione, consentendo il raggiungimento di una sorta di grado zero del procedimento simbolico, prima di ogni qualsivoglia rappresentazione. L’interesse di questa figura letteraria rispetto al tema trattato sta nella sua stupefacente esemplarita`, che richiama immagini evocatrici e analogie 4 con le concettualizzazioni di Lacan sull’analista come il morto nel gioco del bridge che, con la sua astensione, attiva nell’interlocutore il processo 5 simbolico, e con quelle di Bion , sulla posizione dell’analista nel lavoro e nel processo analitico come attivamente capace di disciplinarsi ad una astensione dalla memoria e dal desiderio, allo scopo di creare conoscenza la 6 cui fonte sia l’esperienza . La forma di presenza di Bartleby, infatti, e` 3

Gilles Deleuze, Bartleby, ou la Formule, in Critique et Clinique, Minuit, Paris 1993, tr. it. Critica e Clinica, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996. Sullo stesso tema delle implicazioni filosofiche della figura melvilliana vedi anche: Giorgio Agamben, Bartleby o della contingenza, in Gilles Deleuze, Giorgio Agamben, Bartleby la formula della creazione, Quodlibet, Macerata 1993. 4 Jacques Lacan (1958), La direzione della cura e i principi del suo potere, in Scritti, vol. II, tr. it. di Giacomo Contri, Einaudi, Torino 1974. 5 Wilfred R. Bion (1970), Attenzione e interpretazione, tr. it. di Antonello Armando, Armando, Roma 1973. 6 Secondo Bion, l’analista dovrebbe lavorare, disciplinandosi attivamente ad una opacita` della memoria e del desiderio. Tale posizione e` difficile da realizzare, ma Bion ritiene necessario per l’analista tendervi, in quanto, tentando di abolire i presupposti provenienti dal passato (memoria) e quelli riferibili al futuro (desiderio), l’analista puo` configurare proprio quella forma di presenza capace di realizzare la condizione psichica di recettivita` nei confronti di cio` che egli definisce “cosa in se´ dell’esperienza analitica” che e` inscindibil-

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senza referenza, senza passato e senza intenzione, una presenza che vanifica la logica dei presupposti, proponendo una logica della preferenza, il cui unico contenuto e` un’astensione dalla volonta` positiva. Si tratta di un’astensione che puo` ben illustrare la dimensione negativa della volonta` dell’analista come resistenza passiva: il no dell’analista, come quello di Bartleby, non e` un no oppositivo, e` un no che puo` sostanziare la forma di presenza come presenza non consenziente, ma senza intenzione, senza contenuto. E` un no privo di simmetria speculare con cio` che viene affermato, qualita` che consente a questo no, spogliato di volonta` di contrapposizione, di avere grazia, di essere fecondo, creando le condizioni adatte a mobilizzare spazi e possibilita` per la realizzazione di nuove realta` psichiche in entrambi i partecipanti alla relazione. Nella relazione analitica e` una forma di presenza con questi tratti che viene a costituire il contenitore necessario al processo analitico nell’intero campo intersoggettivo e transizionale attraversato da relazioni altamente complesse: pur trattandosi ovviamente di due partecipanti, il campo relazionale ha, infatti, una complessita` piu` simile a quella di una molteplicita`. E` come dire che la funzione recettiva-intuitiva, per esplicarsi, deve immergersi in questa complessita`, e, per farlo, necessita di questo nulla di volonta`, di questa sospensione dei presupposti dati, come condizione per la creazione di uno spazio vuoto nel quale una nuova esperienza si dia. E` infatti a partire da una esperienza e dalla realizzazione psichica che la contrassegna che possono movimentarsi quelle trasformazioni che possono creare pensiero. Accade cosı` che contenuti psichici non ancora pensati riescano a trovare un pensatore che li pensa: a quel punto possono innestarsi le interpretazioni e la qualita` della presenza cambia. Nell’attivita` interpretativa, trattandosi di uno sguardo sull’interlocutore o sulla relazione, la qualita` della presenza dell’analista ha le caratteristiche di una presenza separata, cioe` di una presenza che presuppone una delimitazione precisa se´/altro da se´; invece, perche´ la funzione recettiva si esplichi, la presenza deve avere delle caratteristiche che consentano la possibilita` del divenire qualcos’altro o un altro. Si tratta di una forma di presenza che consente la creazione di uno spazio mente legata al presente, all’hic et nunc. Bion ritiene in questo modo di collocarsi nel cuore della tradizione analitica, rafforzando, con le sue raccomandazioni, i consigli espressi da Freud in uno scritto del 1912, Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico (tr. it. di Ezio Luserna, in Opere, vol. 6, Boringhieri, Torino 1974). Cita inoltre (in Attenzione e Interpretazione, cit.), a suffragio della propria tesi sul funzionamento psichico auspicabile per l’analista, un passo di una lettera di Freud a Lou Andreas Salome´ nel quale Freud parla di un accecarsi artificialmente per giungere ad una condizione mentale che consenta di ovviare all’oscurita`, allorche´ l’oggetto investigato e` particolarmente oscuro.

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di ospitalita` verso un divenire altro attraverso l’apertura di una “zona di 7 indeterminazione o di indiscernibilita`” fra i soggetti implicati, avvicinando cosı` il punto che precede la loro rispettiva differenziazione. L’immagine di questo punto potrebbe essere quella del punto centrale di un chiasma come punto di annullamento delle divaricazioni precedenti e successive. Deleuze, nel proprio saggio su Bartleby, parla di un processo di identificazione che diviene “psicotico”, non implicando piu` un modello, ma una qualita` dislocata, una molteplicita`, un divenire, una indeterminazione appunto fra se´/altro da se´. In effetti, alle prese con questi fenomeni di indeterminazione, il processo di identificazione non puo` restare all’interno del recinto delle delimitazioni derivanti da una identita` data, e lavora verso la possibilita` della costituzione di un soggetto plurale il cui principio coesivo non e` la derivazione identitaria ma la fratellanza, l’orizzontalita`. L’analista sara` tanto piu` capace di avventurarsi in una simile forma di identificazione, dislocandosi in questa area di indiscernibilita` attraversata da movimenti psichici complessi, senza perdersi in un sintomo di angoscia da perdita di identita`, quanto piu` sara` in grado di allenare la propria capacita` di mantenersi contemporaneamente nella forma di presenza neutrale, ferma, salda, ritratta, indifferente ad ogni volonta` di accettazione e di rifiuto. Questa forma di presenza, cosı` ben evocata dalla figura dello scrivano di Melville, che resiste intatta ad ogni fenomeno di pressione ambientale, e` accostata da Deleuze ad un’altra figura letteraria, quella 8 dello Scapolo di Kafka, come presenza che, per mantenersi salda, necessita solamente della piccolissima zolla di terra su cui poggiare i propri piedi. Questa condizione puo` essere assimilata a cio` che Bion definisce come capacita` negativa dell’analista, mutuando questa definizione da Yeats che, in una lettera al fratello, definisce in questo modo la “capacita` che un uomo possiede se sa perseverare nelle incertezze, attraverso i misteri e i dubbi, senza 9 lasciarsi andare ad una agitata ricerca di fatti e ragioni” . Nel linguaggio psicoanalitico essa potrebbe essere ricondotta alla particolare forza di coesione del nucleo del se´ dell’analista, coesione disciplinata a resistere agli eventi psichici implicati dalla immersione nel campo della intersoggettivita` transitiva e capace di mantenere una integrita` anche ospitando identita` diverse, incompatibili, frammentarie e frammentanti, realta` psichiche generatrici di angoscia. Attraverso la sua capacita` di perseverare sottraendosi, attraverso la grazia del suo no che interrompe la tentazione speculare e 7 8 9

Cfr G. Deleuze, Bartleby ou la Formule, cit. Cfr. ibid. Cfr. W. R. Bion, Attenzione e interpretazione, cit.

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simmetrica, l’analista puo` mantenere contemporaneamente sia una soggetti10 vita` separata sia una soggettivita` transizionale , nella quale il soggetto e` come un patchwork fatto di parti dell’analista e di parti del paziente. Nella pratica clinica e` dunque la capacita` negativa dell’analista a fungere da contenitore che consente alle forme diverse di presenza nell’analista di entrare in gioco nella relazione terapeutica con le forme diverse di presenza nel paziente. I fenomeni transitivi e transizionali che caratterizzano il soggetto patchwork attraversano il campo analitico e, se non sono troppo precocemente interpretati, permettono all’analista il contatto diretto con quei contenuti, appartenenti alla realta` psichica del paziente, “conosciuti 11 ma non ancora pensati” e, in quanto tali, presentati, non rappresentati. Quando nel lavoro analitico si ha a che fare non con rappresentazioni, ma con presentificazioni, e` il campo della relazione che puo` costituire la matrice di una trasformazione, attraverso passaggi complessi resi possibili dall’esperienza della transitivita` (che caratterizza il soggetto patchwork) per la quale possono coesistere, come abbiamo gia` detto, presenze diverse e incompatibili fra di loro secondo la logica lineare delle delimitazioni identitarie. Questa esperienza, quando si realizza, da` luogo, apre uno spazio psichico transizionale in cui puo` essere esercitata una nuova facolta` di scelta. Nel campo della relazione analitica possono infatti darsi, contemporaneamente e in rapporto agli stessi contenuti, forme di presenza diverse per qualita` e intensita`: ad esempio possono essere presenti una qualita` attiva e una qualita` passiva; una qualita` indifferente e una qualita` animata da forti correnti emotive; una qualita` rifiutante e una qualita` accogliente; una qualita` aggressiva sana e una qualita` aggressiva distruttiva, etc. In quanto contenitore di forme di presenza legate a identita` incompatibili appartenenti alla realta` psichica del paziente, la coppia analitica funziona dunque come spazio psichico transizionale a partire dal quale il paziente puo` differenziarsi e separarsi da parti di identita` materna o paterna, incompatibili con parti piu` autentiche del suo se´ (incompatibili con il suo 12 “vero se´” direbbe Winnicott) . 10 Il concetto di “soggetto transizionale” e` stato inizialmente introdotto dal mio maestro Gaetano Benedetti come strumento concettuale necessario a descrivere il processo terapeutico nella psicoterapia psicoanalitica delle psicosi; vedi: Gaetano Benedetti, Paziente e terapeuta nell’esperienza psicotica, Bollati Boringhieri, Torino 1991 e Id., La psicoterapia come sfida esistenziale, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997. 11 Vedi a questo riguardo il concetto di “conosciuto non pensato” di Bollas, in Christopher Bollas (1987), L’ombra dell’oggetto, tr. it. di Daniela Molino, Borla, Roma 2001. 12 Cfr. Donald W. Winnicott (1960), Sviluppo affettivo e ambiente, tr. it. di Alda Bencini Bariatti, Armando, Roma 1970 e Id., (1971), Gioco e realta`, tr. it. di Giorgio Adamo e Renata Gaddin, Armando, Roma 1974.

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Da questo spazio transizionale denso di fenomeni transitivi, la presenzacontenitore dell’analista deve essere in grado di passare repentinamente ad una forma di presenza separata interpretante, in grado di riordinare le appartenenze, riconducendole ad una delimitazione di soggetti separati all’interno della coppia analitica. Se l’analista e` capace sia di ospitare le identita` presenti nel paziente sia di discostarsene trasformandole, si produce per il paziente una esperienza in cui le identita` cercano una delimitazione attraverso una trasformazione reciproca e sul piano della relazione avviene un consolidamento delle differenze se´/altro da se´. Queste esperienze analitiche, consentendo la realizzazione psichica di una nuova delimitazione del se´, danno accesso alla costellazione di una nuova soggettivazione possibile, che, a sua volta, puo` dare accesso a nuovi spazi di realta` psichica, ad esempio a nuovi contenuti di memoria, a nuove aree di desiderio, che vanno a costituire nuovi presupposti... Spesso sono le azioni dell’analista a catalizzare momenti decisivi della relazione analitica che assumono le caratteristiche di un evento a carattere 13 transizionale . In effetti la tendenza all’agire, esposta alla continua minac14 cia di trasformarsi in ‘passaggio all’atto’ , caratterizza tutte quelle situazioni nelle quali l’analista non si trova di fronte a rappresentazioni, ossia modelli (verbali o non) del problema da affrontare, ma e` direttamente coinvolto, per cosı` dire, con l’originale. Cio` implica l’inadeguatezza dello strumento interpretativo che, appoggiandosi alla conoscenza gia` raggiunta, opera sulle rappresentazioni, attraverso sostituzioni di senso che offrono un modello diverso. La rinuncia alla interpretazione e` particolarmente importante quando nell’analisi ci si trova ad affrontare la parte psicotica della personalita`, che puo` essere piu` o meno sviluppata nei diversi soggetti. Incapace di pensare, la parte psicotica lavora, infatti, esclusivamente con oggetti presenti, e come oggetti presenti e concreti tratta sia alcune parti del mondo interno, sia l’analista stesso che funge da contenitore di queste parti, sia le parole. L’analista dunque deve allenare la propria disponibilita` intuitiva come organo di senso necessario per cogliere la qualita` della realta` psichica non rappresentata dell’analizzando, realta` che sta dentro 13

Un esempio clinico appartenente alla mia esperienza di analista lo si trova descritto in un mio testo dal titolo Il pensiero dell’esperienza, pubblicato in Diotima, Il profumo della maestra, Liguori, Napoli 1999. 14 Viene definito “passaggio all’atto” o “acting-out” un agito che sostituisce il pensiero o comunque un contenuto appartenente alla realta` psichica; trattandosi di una sostituzione si evita cosı` un contatto, una relazione con quel contenuto, contatto che, proprio attraverso l’atto, viene escluso. In situazioni come quelle descritte l’agire puo`, al contrario, svolgere una funzione ponte verso realta` psichiche non ancora pensate.

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l’esperienza emotiva complessa e transizionale, a cui come analista si sottopone, improvvisando un adattamento del proprio apparato psichico a cio` che di volta in volta e` richiesto dal processo analitico stesso. L’analista per fare questo deve esercitare la propria capacita` negativa, deve cioe` essere capace di reggere alla pressione dei molteplici contenuti psichici legati alla componente transizionale della relazione, senza cercare di ridurre l’angoscia precipitandosi a trovare definizioni e spiegazioni derivanti da cio` che gia` conosce, saturando in questo modo lo spazio che deve restare libero perche´ l’esperienza e il pensiero sorgivo che l’accompagna si diano. Tutto cio` presuppone l’accettazione di una posizione di passivita`. Si tratta pero` di una passivita` particolare e per certi versi paradossale: una forma di passivita` attiva il cui tratto saliente e` quello di volere una impasse e di accettare la traversia che si apre esattamente a partire dal punto in cui si da` per esaurita la conoscenza. Accettando di raggiungere questo punto cieco si apre quello spazio laddove si rende possibile lo squarcio di una nuova visione, la creazione della possibilita` di pensare un pensiero non ancora pensato, l’accesso ad una nuova conoscenza. 15 La grazia che puo` scaturire da questa dimensione negativa della conoscenza sta proprio nella possibilita` che essa da` di arretrare fino al punto in cui, dopo averla sentita allontanarsi all’infinito, ricompare vicinissima e accessibile la speranza. Nell’iconografia rinascimentale la figura allegorica della speranza e` a volte rappresentata come figura femminile con una benda 16 sugli occhi : immagine straordinariamente efficace di una essenza centrata sulla rinuncia alla certezza suffragata dalla conoscenza. La speranza infatti e` una dimensione raggiungibile tramite una resa e l’accettazione di un rischio: la rinuncia al rassicurante controllo che potrebbe essere esercitato attraverso la certezza della visione immediata che la conoscenza gia` raggiunta puo` dare. E` questo passaggio attraverso il buio che crea le condizioni in cui puo` forse darsi l’esperienza di una nuova epifania.

15

Su questo tema vedi il racconto di Kleist, Il Teatro delle Marionette, cit., pp. 22 e 25. Uno splendido esempio di questa immagine allegorica lo si trova a Firenze nel Chiostro dello Scalzo affrescato da Andrea del Sarto all’inizio del cinquecento. 16

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Collana diretta da Roberto Esposito

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A. Mazzarella, I dolci inganni. Leopardi, gli errori e le illusioni Diotima, La sapienza di partire da sé F. C. Papparo, La passione senza nome. Materiali sul tema dell’anima in Nietzsche W. Tommasi, Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile N. Boccara, Il buon uso delle passioni. Hume filosofo morale: una biblioteca possibile Diotima, Il profumo della maestra. Nei laboratori della vita quotidiana R. Caporali, La fabbrica dell’imperium. Saggio su Spinoza F. S. Festa, Politica e/o Teologia. Saggi di filosofia politica G. M. Barbuto, Ambivalenze del Moderno. De Sanctis e le tradizioni politiche italiane F. Sorge, Passioni e farmaci. Per un’etica della depressione: le passioni dell’uomo tra neuroscienze ed anima F. Fimiani, Poetiche e genealogie. Claudel, Valéry, Nietzsche G. Borrello, Il lavoro e la Grazia. Un percorso attraverso il pensiero di Simone Weil E. Parise, La politica dopo Auschwitz. Rileggendo Hannah Arendt A. Martone, Un’etica del nulla. Libertà, esistenza, politica R. Panattoni, Appartenenza ed eschaton. La Lettera ai Romani di San Paolo e la questione “teologicopolitica” C. Zamboni, Parole non consumate. Donne e uomini nel linguaggio L. Savarino, Heidegger e il cristianesimo. 1916-1927 G. M. Barbuto, La politica dopo la tempesta. Ordine e crisi nel pensiero di Francesco Guicciardini Diotima, Approfittare dell’assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione S. Zuliani, Michel Leiris. Lo spazio dell’arte G. Solla, L’ombra della libertà. Schelling e la teologia politica del nome proprio G. Barberis, Il Regno della Libertà. Diritto, Politica e Storia nel pensiero di Alexandre Kojève W. Tommasi, La scrittura del deserto. Malinconia e creatività femminile Diotima, La magica forza del negativo R. Caporali, La tenerezza e la barbarie. Studi su Vico L. Mortari, Un metodo a-metodico. La pratica della ricerca in María Zambrano Diotima, L’ombra della madre W. Tommasi, María Zambrano. La passione della figlia G. M. Barbuto, Antinomie della politica. Saggio su Machiavelli A. De Simone, Intersoggettività e norma. La società postdeontica e i suoi critici L. Bernini, Le pecore e il pastore. Critica, politica, etica nel pensiero di Michel Foucault C. Zamboni, Pensare in presenza. Conversazioni, luoghi, improvvisazioni

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