La forza del diritto. Elementi per una sociologia del campo giuridico 9788869921698


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i classici della sociologia

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Pierre Bourdieu

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La forza del diritto Elementi per una sociologia del campo giuridico

A cura di Cirus Rinaldi

Armando editore

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BOURDIEU, Pierre La forza del diritto ; Intr. di Cirus Rinaldi Roma : Armando, © 2017 128 p. ; 17 cm. (Classici di Sociologia) ISBN: 978-88-6992-169-8 1. Imposture legittimate 2. Forza del diritto 3. Sociologia del campo giuridico

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CDD 300

Traduzione e cura di Cirus Rinaldi Titolo originale: La force du droit. Eléments pour une sociologie du champ juridique, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 64, 1, 1986, pp. 3-19 © 2017 Armando Armando s.r.l. Piazza della Radio, 14 - 00146 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 02-04-066 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/ fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]

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Indice

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Introduzione 7 Una sociologia delle imposture legittimate. La costruzione del campo giuridico di Cirus Rinaldi La forza del diritto. Elementi per una sociologia del campo giuridico di Pierre Bourdieu

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Nota bio-bibliografica 123

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Introduzione

Una sociologia delle imposture legittimate. La costruzione del campo giuridico di Cirus Rinaldi

«[…] il diritto più rigorosamente razionalizzato non è altro che un atto di magia ben riuscito». P. Bourdieu, La parola e il potere. L’economia degli scambi linguistici, Guida, Napoli, 1988, p. 17

Premessa La force du droit. Éléments pour une sociologie du champ juridique, articolo tradotto per la prima volta in lingua italiana e che ci accingiamo a presentare a trent’anni dalla sua pubblicazione, include le principali riflessioni teoriche fornite da Pierre Bourdieu, insieme a pochi altri suoi scritti1, specificamente sul fenomeno 1 Si tratta solitamente di brevi articoli teorici come nel caso di P. Bourdieu, Habitus, code et codification in «Actes de la recherche en sciences sociales», 64, 1986, pp. 40-44; P. Bourdieu,

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Introduzione

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giuridico. Le riflessioni di Bourdieu sul diritto saranno poco dibattute dai commentatori d’oltralpe e da quelli Droit et passe-droit. Le champ des pouvoirs territoriaux et la mise en oeuvre des réglements, in «Actes de la recherché en sciences sociales», 81-82, 1990, pp. 86-96; P. Bourdieu, Les juristes, gardiens de l’hypocrisie collective, in  F. Chazel, J. Comaille (a cura di), Normes juridiques et régulation sociale, Paris, LGDJ, Collection Droit et société, 1991, pp. 95-99 (trad. it. I giuristi, custodi dell’ipocrisia collettiva, in «Kainos – Rivista di Critica Filosofica», 9, 2009, a cura di G. Brindisi; vd. http://www.kainos.it/numero9/disvelamenti/ giuristicustodi.html); sul diritto e il ruolo del giurista in Bourdieu si veda P. Bourdieu, La parola e il potere. L’economia degli scambi linguistici, Napoli, Guida, 1988. Sull’analisi empirica, quasi del tutto assente nell’opera di Bourdieu per quanto riguarda il campo giuridico, si può tuttavia fare riferimento a P. Bourdieu, Le strutture sociali dell’economia, Trieste, Asterios, 2004: sebbene concentrato sull’analisi del campo economico del mercato immobiliare, Bourdieu mostra che lo Stato attraverso una serie di forme di regolazione orienta i gusti e insieme, in modo diretto e indiretto, investimenti finanziari, evidenziando come la domanda e l’offerta di abitazioni siano prodotte da condizioni istituzionali. Di recente pubblicazione in Italia i ragionamenti sulla genesi dello Stato che riprendono parte della riflessione socio-giuridica, vd. P. Bourdieu, Sullo Stato. Corso al Collège de France, Vol. I (1989-1990), Milano, Feltrinelli, 2013; altri temi utili alla riflessione socio-giuridica, quali quello della «codifica», della «delega» o del potere simbolico si ritrovano in Id., Cose dette. Verso una sociologia riflessiva, curato da Massimo Cerulo, Napoli-Salerno, Orthotes, 2013; l’interesse di Bourdieu per il diritto, nonostante le posizioni dei critici, risale a partire dalle ricerche etnografiche in Algeria, per quanto riguarda, per esempio, il diritto consuetudinario oppure, si rifà al contesto francese nel caso del diritto di successione, vd. rispettivamente P. Bourdieu, Sociologie de l’Algerie, Paris, Puf, 1959 e Id., Le bal des célibataires. Crise de la société paysanne en Béarn, Paris, Seuil, 2002. Il diritto è uno dei temi che l’autore affronta tra gli altri ne La noblesse d’Etat, Paris, Minuit, 1989.

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internazionali, fatta eccezione per alcuni lavori2, così

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Rimangono ancora di particolare pregio le tesi prodotte sotto la sua supervisione, che hanno applicato gran parte dei concetti analitici della sua sociologia del campo giuridico e che hanno visto, nel caso di Remi Lenoir e di Yves Dezalay, anche l’emergere di studiosi che hanno acquisito visibilità internazionale. In patria, la rivista «Droit et Société» (del cui comitato editoriale fondativo fece parte lo stesso Bourdieu) gli dedica nel 2004 una serie di contributi tra i quali, in particolare, quello di M.G. Villegas, On Pierre Bourdieu’s legal thought, in «Droit et Société», 56/57, 2004, pp. 57-71; la rivista dei teorici e dei scienziati socio-giuridici scandinavi, «Retfærd. Nordic Journal of Law and Justice», dedica alla sociologia bourdieusiana del campo giuridico nel 2006 un numero monografico; si vd., nello specifico, R. Lenoir, Pierre Bourdieu and the law: an intellectual and personal encounter, in «Retfærd», 29, 2006, pp. 7-22 e M.R. Madsen, Transnational fields: elements of a reflexive sociology of the internationalisation of law, in «Retfærd», 29, 2006, pp. 23-41. Tuttavia rimangono circoscritti anche gli applicatori e i commentatori in terra francese, si tratta – come ricorda Garcìa Villegas, di un numero sparuto di studiosi che applicano la teoria bourdieusiana del campo giuridico ad aree giuridiche specifiche e in modo discontinuo (in particolare sulla europeizzazione e l’internazionalizzazione del campo giuridico e sul conflitto simbolico che vede il confronto di una serie di professionisti del mondo giuridico; oppure relativamente all’emergere del campo dei diritti umani). Nello specifico bisogna tener conto dei lavori di Yves Dezalay (e alle sue numerose collaborazioni internazionali): Y. Dezalay e M.R. Madsen, The force of law and lawyers: Pierre Bourdieu and the reflexive sociology of law, in «Annual Review of Law and Social Science», 8, 2012, pp. 433-452 e M.R. Madsen e Y. Dezalay, The power of the legal field: Pierre Bourdieu and the law, in R. Banakar e M. Travers (a cura di), An Introduction to Law and Social Theory, Oxford, Hart, 2002, pp. 189-204; Y. Dezalay e B.G. Garth, Dealing in Virtue. International Commercial Arbitration and the Construction of a Transnational Legal Order, Chicago, University of Chicago Press 1996; Y. Dezalay e D. Sugerman (a cura di), Professional Competition and Professional Power:

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Introduzione

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come «scarso riguardo» è stato accordato allo studioso persino in Italia per quanto riguarda l’analisi giuridica, almeno sino a qualche tempo fa3. Lawyers, Accountants and the Social Construction of Markets, London, Routledge, 1995. Tra gli altri francesi A. Bancaud e Y. Dezalay, La sociologie juridique comme enjeu social et professionnel, in «Revue interdisciplinaire d’études juridiques», 12, 1984, pp. 1-29; A. Bancaud, Une “constante mobile”: la haute magistrature, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 76/77, 1989, pp. 3048; A. Bancaud, La haute magistrature entre politique et sacerdoce, Paris, LGDJ, 1993; F. Ocqueteau e F. Soubiran-Paillet, Champ juridique, juristes et règle de droit: une sociologie entre disqualification et paradoxe, in «Droit et Société», 32, 1996, pp. 9-26; F. Soubiran-Paillet, Quelles voix(es) pour la sociologie du droit en France aujourd’hui?, in «Genèses», 15, 1994, pp. 142-153. Tra gli altri interpreti ed applicatori della prospettiva va ricordato il lavoro di M.R. Madsen sull’europeizzazione del campo giuridico e sul ruolo svolto dalle élites giuridiche: A. Cohen e M.R. Madsen, Cold War law. Legal entrepreneurs and the emergence of a European legal field (1945–1965), in V. Gessner e D. Nelken (a cura di), European Ways of Law: Towards a European Sociology of Law, Oxford, Hart, 2007, pp. 175-202; N. Kauppi e M.R. Madsen, Fields of Global Governance: How Transnational Power Elites Can Make Global Governance Intelligible, in «International Political Sociology», 8, 2014, pp. 324-342; N. Kauppi e M.R. Madsen (a cura di), Transnational Power Elites: The New Professionals of Governance, Law and Security, Abingdon, Routledge, 2013. Una riflessione generale del lavoro di Bourdieu sul diritto è anche quella contenuta in un articolo della rivista ufficiale della Società argentina di Sociologia del diritto: D. Borrillo, Pierre Bourdieu y la sociologìa del campo jurìdico, in «Revista de sociologìa del derecho», 9, 1995, pp. 6-10 (scaricabile dall’URL https://hal.archives-ouvertes.fr/ hal-01242439/document). 3 Vd. A. Salento, Un ospite di scarso riguardo: Pierre Bourdieu in Italia, in G. Paolucci (a cura di), Bourdieu dopo Bourdieu, Torino, Utet, 2010, pp. 281-316. Fanno eccezione in questo caso A. Salento, Diritto e campo giuridico nella sociologia di Pierre Bourdieu, in

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Il breve articolo, pubblicato precisamente nel 1986, mette in luce gran parte degli elementi della teoria sociale critica e del radicalismo metodologico di Bourdieu4, e fa riferimento a gran parte degli strumenti analitici che «Sociologia del diritto», 1, 2002, pp. 37-74; Id., Pierre Bourdieu. La socioanalisi del campo giuridico, in G. Campesi, I. Pupolizio, N. Riva (a cura di), Diritto e teoria sociale, Roma, Carocci, 2009, pp. 131-164; F.S. Nisio, Metamorfosi di Bourdieu. La mistica, il diritto e la storia, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 35, 2006, pp. 9-56 e inoltre l’introduzione di G. Brindisi, La sociologia del campo giuridico di Pierre Bourdieu, in «Kainos. Rivista di Critica Filosofica», 9, 2009 (http://www.kainos.it/numero9/disvelamenti/giuristicustodi-intro.html); Brindisi, come indicato sub nota 1, traduce uno dei brevi articoli chiaramente votato al diritto I giuristi, custodi dell’ipocrisia collettiva, in «Kainos – Rivista di Critica Filosofica», 9, 2009, a cura di G. Brindisi (http://www.kainos.it/numero9/disvelamenti/ giuristicustodi.html). Si vd. anche E. de Conciliis, Il senso del giudizio. Bourdieu, Foucault e la genealogia del diritto, in «Kainos. Rivista di Critica Filosofica», 9, 2009 (http://www.kainos.it/numero9/ricerche/deconciliis-sulgiudizio.html). Odillo Vidoni Guidoni, tra i pochi sociologi italiani, invece, utilizza la prospettiva bourdieusiana sfruttandone l’efficacia euristica nello studio del giudice di pace nella contrapposizione tra istituzioni giuridiche informali, politiche di deformalizzazione e magistratura ordinaria e ceto forense; in particolare sostiene che, a differenza di altri commentatori italiani che vedono nel modello di Bourdieu una teoria generale incompiuta (si riferisce, nello specifico, a Salento, Diritto e campo giuridico nella sociologia di Pierre Bourdieu, cit.), l’apporto bourdieusiano possegga capacità euristiche e applicabilità empiriche tali da poter essere considerata una teoria di medio raggio; vd. O. Vidoni Guidoni, Quale giustizia per il giudice di pace? Nascita e consolidamento di una magistratura onoraria, Milano, Giuffrè, 2006. 4 Cfr. A. Salento, Pierre Bourdieu. La socioanalisi del campo giuridico, cit., p. 132.

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Introduzione

li hanno caratterizzati. La riflessione bourdieusiana sui fenomeni socio-giuridici e sui loro rapporti (necessari) con la burocrazia e la genesi statale si ritrova sparsa in una serie di contributi apparsi in varie summe, in modo più o meno frammentario, sporadico e incompleto5; il che fa pensare che il rapporto di Bourdieu con il diritto sia rimasto un programma di ricerca non realizzato compiutamente6, sebbene egli elabori – come avremo modo di indicare tra breve – un modello di particolare rilevanza euristica. La force du droit presenta gran parte delle tensioni bourdiuesiane relative alla necessità di eludere ogni forma di essenzialismo, di demistificare le norme che si presentano in modo arrogante come «neutre» o «universali» e di svelare come i vari agenti nel «campo giuridico» sia­ no coinvolti in lotte al fine di produrre (e di imporre) principi di visione e di divisione del mondo, mostrando di fatto come dietro la presunta neutralità della legge si incistino interessi personali, corporativi o riflessi di potere dei campi circostanti. La norma, pertanto, partecipa alla 5 Vd. Garcìa Villegas, On Pierre Bourdieu’s legal thought, cit., p. 58. 6 Vd. R. Lenoir, Pierre Bourdieu and the law: an intellectual and personal encounter, cit.; A. Salento, Pierre Bourdieu. La socioanalisi del campo giuridico, cit. Tuttavia, alcuni commentatori sostengono che la mancata sistematizzazione di una sociologia del campo giuridico sia dipesa ora dal tenore complessivo dei sociolegal studies in Francia ora dall’idiosincrasia dello stesso Bourdieu nei confronti dell’intellettualismo legalista e degli schemi di pensiero dei giuristi che, a differenza dei sociologi propensi a decostruire, registrano invece le pratiche sociali attribuendo loro carattere di evidenza logica attraverso i processi di classificazione. Vd. rispettivamente Garcìa Villegas, On Pierre Bourdieu’s legal thought, cit., p. 59 e R. Lenoir, Pierre Bourdieu and the law, cit., p. 8.

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produzione della realtà sociale, perché in primo luogo vi attribuisce legittimità (la definisce, la nomina, la autorizza) e il giurista appare come l’agente autorizzato che contribuisce più direttamente alla produzione del mondo sociale; egli, infatti, nascondendosi dietro una presupposta neutralità produce quegli stessi effetti che professa di descrivere. Si tratta di uno scritto breve e denso, che presenta in modo complesso – a partire dal linguaggio utilizzato e dai riferimenti dotti di tipo interdisciplinare –, l’epistemologia e la metodologia di Bourdieu: lo «strutturalismo costruttivista» attento alla storicità dei diversi mondi sociali, alla genesi della strutturazione storica dei «principi», il superamento della dicotomia tra strutture oggettive della realtà e costruzioni soggettive, di oggettivismo e soggettivismo dunque7, il riferimento alla co-costituzione dialettica di strutture e definizioni soggettive, utili a non cadere nell’idealismo astratto o, al contrario, in forme di empirismo radicale; sono inoltre esplicitamente rivolti al giuridico gli elementi principali della sua sociologia, intesa principalmente come modo di pensare relazionale8. Ritroviamo l’analisi della introiezione delle strutture mentali, dei principi di visione e di divisione ossia degli habitus, forme di senso pratico incorporato che permettono di posizionarsi all’interno dello spazio sociale e, in particolare, in regioni e sfere distinte, i cosiddetti campi, dotati di fini specifici (una «posta in gioco»), regole, autonomia e autorità tali da produrre degli effetti sia nei confronti dei rapporti con l’esterno (mantenimento dei 7 Vd. M. Pitzalis, Oltre l’oggettivismo, oltre il soggettivismo, in G. Paolucci (a cura di), Bourdieu dopo Bourdieu, Torino, UTET, 2010. 8 P. Bourdieu, Risposte. Per un’antropologia riflessiva, cit., p. 181.

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Introduzione

propri confini) che al loro interno (lotte e conflitti interni per mantenere schemi cognitivi e percettivi, definizioni, gerarchie e dotazioni specifiche di varie forme di capitale)9. L’analisi, in particolare, viene condotta all’interno di una sociologia engagé che dovrebbe avere come obiettivo non soltanto di demistificare e di demitizzare la realtà sociale (e le illusioni ben fondate, basate su principi invisibili occultati dietro l’impossibilità di essere messi in discussione) ma di condurre, inoltre, un’analisi riflessiva, una sociologia della sociologia, perché anche il sociologo, il soggetto dell’oggettivazione – coinvolto nella produzione situata di pratiche di conoscenza – può (e deve a fini epistemologici) essere «oggettivato», diventare a sia volta oggetto di (auto)analisi10.

9 Non potendo ricostruire per questioni di spazio il complesso profilo intellettuale e l’apparato teorico della sociologia di Bour­ dieu si rinvia alle ricostruzioni contenute in A. Boschetti, La rivoluzione simbolica di Pierre Bourdieu, Venezia, Marsilio, 2003; G. Paolucci, Introduzione a Bourdieu, Roma-Bari, Laterza, 2011; G. Paolucci (a cura di), Bourdieu dopo Bourdieu, Torino, Utet, 2010; A. De Feo e M. Pitzalis (a cura di), Produzione, riproduzione e distinzione. Studiare il mondo sociale con (e dopo) Bourdieu, Cagliari, CUEC, 2015; nonché nelle brevi ma rigorose introduzioni di M. Santoro, Giochi di potere. Pierre Bourdieu e il linguaggio del “capitale”, in P. Bourdieu, Forme di capitale, a cura di M. Santoro, Roma, Armando, 2015, pp. 9-77 e di M. Cerulo, «I sociologi distruggono le illusioni». Pierre Bourdieu e lo svelamento della realtà sociale, in P. Bourdieu, Sul concetto di campo in sociologia, a cura di M. Cerulo, Roma, Armando, pp. 9-53. 10 P. Bourdieu, Ragioni pratiche, cit., pp. 203-209; cfr. anche P. Bourdieu, Homo academicus [1984], Bari, Dedalo, 2013 e Id., Questa non è un’autobiografia [2004], Milano, Feltrinelli, 2005.

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La cassetta degli attrezzi “minima” della teoria sociale bourdieusiana Il lavoro di Bourdieu, sociologo tra i più citati a livello internazionale e che ha vissuto alterne fortune in Italia11, si concentra – soprattutto per quanto concerne il fenomeno giuridico – sull’analisi delle relazioni di dominio e sviluppa un’interpretazione originale dei rapporti tra dominanti e dominati, soprattutto per quanto concerne le forme di interiorizzazione e di acquisizione inconsapevole e dissimulata della struttura simbolica dei rapporti di dominio. Egli, come anticipato, cerca di superare la contrapposizione teorica tra «soggettivismo» e «oggettivismo»; infatti, sostiene che gli individui non compiano i propri comportamenti meccanicamente né che mettano in atto riflessioni coscienti o pienamente volontarie, ma piuttosto essi sono impegnati nell’applicazione di un «senso pratico», acquisito socialmente e sviluppato intorno a situazioni specifiche. Soprattutto nella sua teoria della pratica, Bourdieu prende le distanze sia dal meccanicismo, «per il quale l’azione sarebbe l’effetto meccanico di cause esterne cogenti», sia dal finalismo e dalle teorie dell’azione razionale che ritengono che «l’agente agisca in modo libero, cosciente e, come dicono certi utilitaristi, with full understanding, in quanto l’azione sarebbe il prodotto di un calcolo delle possibilità e dei profitti»12. Al fine di fornire un dizionario minimo 11 Sul tema della ricezione di Bourdieu in Italia si rinvia a M. Santoro, How “not” to become a dominant french sociologist: Bourdieu in Italy, 1966-2009, in «Sociologica», 2-3, 2009, pp. 1-80 e ad A. Salento, Un ospite di scarso riguardo: Pierre Bourdieu in Italia, in Bourdieu dopo Bourdieu, cit., pp. 281-316. 12 Pierre Bourdieu, Meditazioni pascaliane, cit., p. 145.

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Introduzione

della sociologia di Bourdieu, intesa non come sociologia astratta ma piuttosto come «tool-kit» vale a dire come «cassetta ben assortita di attrezzi ovvero strumenti analitici»13 bisogna tener conto di una serie di concetti. Con la nozione di «habitus», per iniziare, derivata da Mauss e focalizzata sui processi di imitazione e di incorporamento, Bourdieu intende una serie di «sistemi di schemi di percezione, valutazione e di azione», iscritti nei corpi degli attori attraverso le esperienze passate, che «permettono di operare atti di conoscenza pratica, fondata sull’individuazione e il riconoscimento degli stimoli condizionali e convenzionali cui sono predisposti a reagire e di generare, senza presupporre esplicitamente dei fini o un calcolo razionale dei mezzi, strategie coerenti e continuamente rinnovate, ma nei limiti dei vincoli strutturali di cui gli habitus stessi sono il prodotto e che li definiscono»14. L’habitus è, pertanto, un insieme di «disposizioni» acquisite socialmente nei processi di socializzazione primaria e secondaria attraverso cui incorporiamo le istituzioni e le strutture dei nostri mondi sociali; esso è una «struttura strutturata», che fornisce all’individuo schemi percettivi, cognitivi e di azione ma anche «struttura strutturante» che rielabora questi stessi schemi e che, in modo retroattivo, può avere effetti su quelle stesse strutture. Gli schemi dell’habitus si definiscono via via nel corso della socializzazione primaria, sono meccanismi inconsci, ma altamente flessibili ed adeguabili, che […] permettono di adattarsi incessantemente a contesti parzialmente modificati e di costruire la situazione 13 M. Santoro, Giochi di potere. Pierre Bourdieu e il linguaggio del “capitale”, cit., p. 17. 14 Pierre Bourdieu, Meditazioni pascaliane, cit., pp. 145-146.

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come insieme dotato di senso, in un’operazione pratica di anticipazione quasi corporea delle tendenze immanenti del campo e delle condotte generate da tutti gli habitus isomorfi con i quali, come in una squadra bene allenata o in un’orchestra, essi sono in comunicazione immediata in quanto spontaneamente accordati a essi15.

L’habitus è «un meccanismo classificatorio e generativo che, allo stesso tempo, classifica il classificante e contribuisce a stabilizzarne la collocazione nell’ordine sociale»16; esso è un prodotto storico e, pertanto, «un sistema di disposizioni aperto», che si confronta con nuove situazioni, si modifica conseguentemente, «durevole ma non immutabile», sebbene gli individui sono votati «a trovare circostanze consone a quelle che hanno originariamente plasmato il loro habitus, quindi ad avere esperienze che verranno a rafforzare le loro disposizioni»17. La trattazione di Bourdieu esplicita i limiti della teo­ ria dell’individualizzazione riflessiva nonché mitiga le posizione esistenzialiste e soggettiviste, offrendo la possibilità di considerare le configurazioni storico-socioculturali che influenzano gli individui e ne delineano atteggiamenti e rappresentazioni: dall’apprendimento dei comportamenti tipicamente maschili o femminili, all’avversione o al piacere di un certo alimento, all’atteggiamento nei confronti della malattia delle diverse classi 15

Ivi, p. 146. Roberta Sassatelli, Corpi in pratica: “habitus”, interazione e disciplina, in «Rassegna Italiana di Sociologia», XLIII, 3, 2002, p. 432. 17 P. Bourdieu, Risposte. Per un’antropologia riflessiva, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, p. 100. 16

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Introduzione

sociali, ai conflitti derivanti dall’accaparramento di una posizione all’interno del contesto scientifico. L’habitus incorpora e riproduce i principi di visione e di divisione costitutivi di un ordine sociale o di un campo: in questo modo i corpi si atteggiano in modi durevoli, pur trasformandosi continuamente secondo rapporti strutturati e strutturanti con l’ambiente, rispetto a situazioni specifiche o a «classi di condizioni sociali». L’habitus, in definitiva, definisce il mondo attraverso un certo modo di orientarsi verso esso18, introducendo una teoria dell’azione «disposizionalista e non intenzionalista, e che concepisce l’agire umano come pratica, e quindi come condotta organizzata, temporalizzata, incorporata e localizzata ovvero situata […]»19, non come mero comportamento o come scelta prettamente razionale. Con il concetto di «campo», Bourdieu non intende come ci si aspetterebbe un luogo fisico specifico, una «cosa» ma piuttosto quello spazio che si crea attraverso la definizione di una rete di relazioni, che esiste fin quando continuano a perdurare gli effetti che lo hanno costituito; è allora il «luogo» di condivisione di «agenti» con interessi specifici (la «posta in gioco») legati alla loro posizione nel campo medesimo, per esempio si pensi al campo artistico, sportivo, medico (le sue strutture, il suo funzionamento, la sua doxa specifica, le sue convenzioni, inseparabili da una competenza specifica riassunta nei vari habitus artistico, sportivo, medico, etc.). All’interno di ogni campo esistono attori con posizioni differenti che determinano la struttura delle relazioni, i rapporti di 18

Pierre Bourdieu, Meditazioni pascaliane, cit., p. 151. M. Santoro, Giochi di potere. Pierre Bourdieu e il linguaggio del “capitale”, cit., p. 28. 19

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forza e le forme di dominio in modo dinamico. La creazione di un campo, infatti, implica la considerazione di chi domina il campo, attraverso quali meccanismi e come delimita i confini del campo medesimo, ossia la «lotta tra tutti quelli che hanno interesse a ridefinirli, restringendoli o estendendoli»20; i campi pertanto dipendono da gerarchie interne, da distribuzioni di risorse specifiche in possesso di alcuni soggetti e non di altri e dal loro posizionamento in relazione agli altri campi. In particolare, per quanto concerne il diritto, esiste una pluralità di campi socio-normativi, che si collocano a diversi livelli di prossimità dal campo prettamente giuridico (si pensi al campo morale, a quello delle religioni positive, della politica, dell’economia, etc.) e che orientano le condotte degli individui e gli attribuiscono senso21. Ogni individuo, allora, si situa all’interno di uno o più campi, sviluppa l’habitus condiviso di chi appartiene a quel campo specifico e cerca di difendere il suo posizionamento, vi si sente investito, si sente preso dal gioco [che vi ha luogo] nel gioco. Infatti, ogni campo produce forme di interessi specifici, da intendere non come dato trans-storico e universale di tipo utilitarista, bensì come «dato storico arbitrario», una illusio specifica, un «tacito riconoscimento del valore delle poste in gioco implicate nel gioco e come controllo pratico delle regole che lo governano», un interesse specifico implicato nella partecipazione al gioco del campo che dipende dalla posizione 20 Boschetti A. (2010), La nozione di campo. Genesi, funzioni, usi, abusi, prospettive, in G. Paolucci (a cura di), Bourdieu dopo Bourdieu, cit., p. 119. 21 Cfr. C. Sarzotti, La società dei messaggi normativi: dalla pubblicità ai cartelli stradali, in A. Cottino (a cura di), Lineamenti di sociologia del diritto, Torino, Zanichelli, 2016, pp. 82 ss.

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Introduzione

occupata dagli agenti, se «dominante» o «dominato», «ortodosso» o «eretico», e secondo i percorsi intrapresi da ciascuno per arrivare ad occupare quella posizione specifica22. La struttura di posizione dei soggetti determina la scelta di certi repertori di senso, la legittimazione di temi specifici e non di altri, la priorità di alcuni approcci paradigmatici e di prospettive teoriche, la scelta di metodi e metodologie ed anche la definizione di percorsi e linee di carriera specifici. All’interno dei campi si assiste alla lotta che contrappone il vecchio al nuovo, o meno prosaicamente, coloro che sono dotati di maggiore capitale simbolico specifico, ossia che vengono riconosciuti anche a livello istituzionale, e gli «eretici» che sfidano i modelli dominanti23. La posizione occupata da un soggetto all’interno di un campo specifico dipende, in primo luogo, dalle pro22 P. Bourdieu, Risposte. Per un’antropologia riflessiva, cit., pp. 85-86. Sostiene ancora Bourdieu: «L’illusio è l’essere presi nel gioco, presi dal gioco, il credere che il gioco valga la candela o, più semplicemente, la pena di giocare. […] i giochi sociali sono giochi che si fanno dimenticare in quanto tali e l’illusio è quel rapporto magico con il gioco che nasce da un rapporto di complicità ontologica fra le strutture mentali e le strutture oggettive dello spazio sociale»; «Ciò che nell’illusio è vissuto come evidenza sembra un’illusione a chi, non partecipando al gioco, non è partecipe di tale evidenza. […]. Gli agenti che si adeguano al gioco ne sono posseduti, anzi tanto più posseduti quanto più lo padroneggiano. […] come buoni giocatori di tennis, ci si trova piazzati non dove la palla è adesso, ma dove andrà a cadere; si investe se stessi e ciò che si possiede non dove è il profitto, ma dove sarà»; P. Bourdieu, Ragioni pratiche, cit., pp. 134-135, p. 137. 23 Bourdieu P. (2005), Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, Milano, Il Saggiatore, p. 186 ss.

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prietà e dalle risorse di cui dispone nelle competizioni sociali e, in particolare, dal capitale economico (l’insieme delle risorse materiali), dal capitale sociale (la sua rete di relazioni) e dal capitale culturale (l’insieme delle conoscenze e competenze acquisite nell’educazione, la socializzazione e l’istruzione)24, ma anche da forme di capitale specifico; queste risorse, va rammentato, rimangono di tipo relazionale, perché dipendono e sono determinate dagli habitus e dai campi specifici, per cui il valore di un tipo di capitale dipende dall’esistenza di un campo specifico in cui possa essere valorizzato, […] un capitale o una specie di capitale è qualcosa che è efficiente in un campo determinato, sia come arma che come posta in gioco nella lotta, cosa che consente al suo detentore di esercitare un potere, una influenza, quindi di esistere in un campo determinato, invece di essere una semplice quantità trascurabile25.

Tuttavia le gerarchie non si fondano esclusivamente sulle dotazioni di risorse materiali ma, piuttosto, in termini complessivi e attraverso distinzioni di ordine simbolico; in tal senso, le forme di capitale possono produrre effetti in termini di capitale simbolico nel momento in cui vengano riconosciute (o, al contrario, anche se dovessero essere misconosciute). Il possesso di capitale soprattutto se riconosciuto e valorizzato dagli altri permette non soltanto di immaginare il potere come possesso di risorse concrete, materiali, ma anche come esercizio 24 Per una riflessione sul concetto di capitale in Bourdieu si rinvia a M. Santoro, “Con Marx, senza Marx”. Sul capitale di Bourdieu, in Bourdieu dopo Bourdieu, cit., pp. 145-172. 25 P. Bourdieu, Risposte. Per un’antropologia riflessiva, cit., p. 69.

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r­ iconosciuto di gestione e controllo di tipo simbolico. Infatti detenere autorità all’interno di un campo coincide, in larga misura, con l’essere riconosciuto degno di esistenza, come agente legittimo all’interno del campo, in grado di conoscere e di utilizzare il […] codice specifico, a un tempo giuridico e comunicativo, la cui conoscenza e il cui riconoscimento rappresentano il vero diritto di ingresso nel campo. Come una lingua, questo codice costituisce allo stesso tempo una censura, per i possibili che esclude di fatto o di diritto, e un mezzo di espressione che racchiude entro limiti definiti le possibilità di invenzione infinita che offre26.

Non è un caso che, per Bourdieu, sia proprio lo Stato a svolgere il ruolo di una sorta di riserva di risorse simboliche, di capitale simbolico e, dunque, di potere simbolico proprio perché una delle sue funzioni principali è «la produzione e canonizzazione delle classificazioni sociali»27, che permettono anche per mezzo della produzione di diritto (e dunque di norme, di schemi di classificazione) di poter accedere al diritto di gestire e possedere le diverse forme di capitali. Lo Stato – come mostreremo – diventa secondo Bourdieu, infatti, un principio di produzione e di rappresentazione legittima del mondo sociale, un principio occulto, che deve essere investigato dal sociologo, perché ne vengano svelati i giochi e le illusioni su cui si fonda, al fine di comprenderne non soltanto i processi materiali di cui si compone ma anche le dimensioni cognitive e percettive che sollecita. In tal 26 P. Bourdieu (2005), Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, cit., p. 351. 27 P. Bourdieu, Sullo Stato, cit., p. 23.

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senso lo Stato e il diritto si ritrovano ad auto-giustificarsi e auto-legittimarsi e la dimensione simbolica assume un ruolo primario nella (ri)produzione del dominio: Bour­ dieu, non a caso, riprendendo Weber28, sostiene infatti che lo Stato si definisce per il possesso del monopolio della violenza fisica e simbolica legittima, ossia anche del monopolio della violenza simbolica legittima, «nella misura in cui il monopolio della violenza simbolica costituisce la condizione per il possesso dell’esercizio del monopolio della stessa violenza fisica»29.

Il sociologo è «colui che rovina il gioco»: epistemologia e metodologia bourdieusiane Sovente, i dominati applicano le stesse categorie e lo stesso linguaggio elaborati dai dominanti agli stessi rapporti di dominio facendoli di fatto apparire come naturali; questa complicità e collusione spiega come sia possibile, di fatto, che i dominanti impongano il proprio dominio in modo sorprendentemente semplice30. Infatti, come mostrato da Bourdieu, per esempio, ne Il dominio maschile31, le forme di subordinazione e di assoggettamento dei dominati avvengono per via di produzioni di tipo simbolico32. Gli individui, infatti, costruiscono 28 M. Weber, Economia e Società, Milano, Edizioni di Comunità, I, 1974, p. 53, II, p. 211. 29 P. Bourdieu, Sullo Stato, cit., p. 14. 30 P. Bourdieu, Ragioni pratiche, cit., p. 114. 31 P. Bourdieu, Il dominio maschile, Milano, Feltrinelli, 20154a. 32 «La violenza simbolica», scrive Bourdieu nelle Meditazioni pascaliane, «è quella coercizione che si istituisce solo per il tramite dell’adesione che il dominato non può mancare di concedere al

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c­ aratteristiche di normalità e di naturalità sulla base della definizione di un sistema di opposizioni omologhe (alto/basso; sopra/sotto; secco/umido; fuori-pubblico/ dentro-privato, etc.) che interiorizzano fino a rendere complementari le strutture oggettive e le strutture cognitive all’interno di un processo che rende la divisione sessuale come un fatto normale, naturale, inevitabile, come se rientrasse nell’ordine delle cose 33. Di conseguenza, la violenza, perpetrata per esempio a danno delle donne, si definisce a partire da costruzioni arbitrarie del biologico, da differenze anatomiche (forzose, fittizie, prodotte socialmente) tra i sessi che assumono il ruolo di giustificazione naturale di una differenza che è in realtà costruita socialmente e sulla quale si definisce una divisione sociale e sessuale (e non naturale), per esempio, del lavoro. Gli individui sono coinvolti in un lavoro collettivo di socializzazione del biologico e di biologizzazione del sociale34, riproducono i meccanismi di dominio non solo nella forma delle strutture oggettive (la divisione del lavoro) dominante (quindi al dominio) quando dispone, per pensarlo e per pensarsi, o, meglio, per pensare il suo rapporto con lui, solo di strumenti di conoscenza che ha in comune con lui e che, essendo semplicemente la forma incorporata della struttura del rapporto di dominio, fanno apparire tale rapporto come naturale; o, in altri termini, quando gli schemi impiegati per percepirsi e valutarsi, o per percepire e valutare i dominanti (alto/basso, maschile/femminile, bianco/nero, etc.) sono il prodotto dell’incorporazione delle classificazioni, così naturalizzate, di cui il suo essere sociale è il prodotto»; vd. P. Bourdieu, Meditazione pascaliane [1997], Milano, Feltrinelli, 1998, p. 178-179, enfasi mia. Sulla violenza simbolica si vd. anche G. Paolucci, Una sottomissione paradossale: la teoria della violenza simbolica, in Bourdieu dopo Bourdieu, cit., pp. 173-218 33 P. Bourdieu, Il dominio maschile, cit., p. 16. 34 Ivi, p. 9.

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ma anche rispetto all’habitus che riproduce una somatizzazione dei rapporti sociali di dominio35. Da qui derivano quelle ingiunzioni tacite e le routine che fanno riprodurre, per esempio, nel femminile il contegno, la sobrietà, un certo modo di parlare o di camminare, di provare sensazioni e emozioni specifiche, di mostrare riluttanza quando si ha a che fare con discorsi sul sesso. Al contrario, ancora nel caso del dominio maschile, i maschi nelle loro disposizioni corporee e psichiche devono mostrare coraggio fisico, aggressività, l’essere sempre pronti e sempre all’altezza, vulnerabili nel proprio onore, devono mostrare di «fare sul serio» e utilizzare ogni repertorio simbolico per affermare la propria virilità. Questi aspetti mostrano che la collusione tra dominanti e dominati dipende dalla naturalizzazione dei rapporti di dominio ossia da una trasformazione strutturale ma anche, in termini soggettivi, del mutamento di pratiche incorporate e di sistemi simbolici interiorizzati. Il sociologo in qualche modo distrugge le illusioni e rovina i giochi, perché mette in discussione l’ordine costituito del campo, le forme di immanenza su cui si regge, le forme di conoscenza e di riconoscimento (e misconoscimento) che sono imposti tacitamente a coloro i quali entrano nel gioco36. Per evitare di sostenere le definizioni dominanti, il sociologo del diritto dovrà considerare le «strutture di produzione degli effetti simbolici di misconoscimento»37. Per fare ciò bisogna che la studiosa e lo studioso ricorrano alla 35

Ivi, p. 33. P. Bourdieu (2005), Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, cit., p. 351. 37 A. Salento, Diritto e campo giuridico nella sociologia di Pierre Bourdieu, cit., p. 47. 36

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«storicizzazione»38 al fine di neutralizzare gli effetti della naturalizzazione dipendenti dal campo [giuridico] e, nello specifico, «l’amnesia della genesi individuale e collettiva di un dato che si dà con tutte le apparenze della natura e chiede di essere preso per oro colato, taken for granted»39. Essi non sono immuni dagli effetti di naturalizzazione che possono esercitarsi anche sullo stesso pensiero pensante: da qui, la socioanalisi come strumento per evitare che concetti, categorizzazioni e classificazioni applicate in modo esplicito o tacito dalla studiosa e dallo studioso li utilizzino almeno quanto loro li utilizzano, per via di una serie di «automatizzazioni»40. In tal senso, come evidenzieremo, l’analisi sociologica svela le fondamenta arbitrarie del consenso fittizio che avvicina il campo giuridico a quello religioso in merito al potere di produrre credenze e all’ingiunzione ad uniformarvisi41; il diritto può assurgere a esempio di violenza simbolica, proprio per il fatto che nel momento in cui gli viene riconosciuta legittimità 38 Bourdieu sostiene che «la ricostruzione della genesi» sia «forse il più potente degli strumenti di rottura», infatti «riattivando i conflitti e i confronti degli inizi e, con essi, le possibilità accantonate, essa riattualizza la possibilità che le cose andassero (e vadano) altrimenti e, attraverso questa utopia pratica, rimette in questione il possibile che, fra tutti, si è realizzato», vd. P. Bour­ dieu, Ragioni pratiche, cit., p. 95. 39 P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane (1997), Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 190-191. 40 Come descritto dallo stesso Bourdieu, l’automatizzazione corrisponde a «una forma specifica di rimozione che rimanda all’inconscio gli strumenti stessi del pensiero»; vd. P. Bourdieu, Meditazione pascaliane, cit., p. 191. 41 P. Bourdieu, Ragioni pratiche, cit., p. 169. Sulla religione vd. P. Bourdieu, Il campo religioso. Con due esercizi, a cura di R. Alciati e E.R. Urcioli, aAccademia university press, Torino, 2012.

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sono al contempo misconosciuti i suoi principi costitutivi di tipo arbitrario. Le pagine seguenti introdurranno i concetti chiave della sociologia bourdieusiana del campo giuridico e indicheranno un rapporto mai sufficientemente evidenziato tra la sociologia del campo giuridico e le teorie interazioniste contemporanee della devianza e della «costruzione sociale dei problemi sociali»42.

Genesi dello Stato e violenza simbolica: i confini, le influenze e le omologie del campo giuridico Come indica Angelo Salento, uno dei principali studiosi italiani di Bourdieu-sociologo del diritto, il lavoro di analisi bourdieusiano non è rivolto alle «questioni del diritto» bensì il suo interesse «è la questione del diritto»43, il mondo il cui il diritto si autorappresenta diventa oggetto dello studio sociologico al fine di individuarne «le relazioni oggettive e i rapporti di forza fra coloro che li producono»44. Bourdieu considera la sociologia del diritto come analisi critica della scienza giuridica; essa è investita del compito di svelare le basi su cui si regge l’ideologia professionale degli agenti nel campo giuridico, del corpo dei giuristi che costruiscono, come indicato nel 42 Per un’analisi dello sviluppo e delle applicazioni delle teo­ rie interazioniste di devianza e crimine e della costruzione dei problemi sociali mi si permetta di rinviare a C. Rinaldi, Diventare normali. Teorie, analisi e applicazioni interazioniste della devianza e del crimine, Milano, McGraw-Hill, 2016. 43 A. Salento, Diritto e campo giuridico nella sociologia di Pierre Bourdieu, cit., p. 27. 44 Ivi, p. 40.

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testo, «un insieme di dottrine e di regole totalmente indipendenti­dai condizionamenti e dalle pressioni sociali, e che è capace di trovare in se stesso il proprio fondamento» vd. infra, p. 60. Bourdieu intende svelare l’arbitrarietà del sociale, il ruolo del sociologo è quello di individuare tutti gli stati «precostruiti», «impensati» che lo assediano e che contribuiscono a fare assumere alle nozioni classificatorie che egli stesso usa per conoscere il mondo «un’evidenza – risultante dalla coincidenza tra strutture oggettive e strutture soggettive – che le mette a riparo da ogni classificazione»45. Dunque mentre i giuristi forniscono apparenza logica per via dei processi di categorizzazione o di classificazione, il sociologo invece deve svelare il carattere arbitrario delle pratiche giuridiche. Del resto, la genesi e il fondamento della legge coincide con la negazione di qualunque fondamento, con un’amnesia della genesi, «la legge è la legge e nient’altro»; obiettivo principale è tentare di introdurre l’oblio per via dell’immaginazione di una fondazione e di un’origine mitiche, una pretesa di fondarsi da sé. Una forza che è riconosciuta legittima perché riesce ad esercitarsi non esercitandosi di fatto, che si mostra senza esercitarsi: così come un colpo di stato interrompe l’uso legittimo di potere «in quanto rappresentazione della forza capace di farsi riconoscere per il solo fatto di farsi conoscere, di mostrarsi senza esercitarsi» e pone, dunque, il problema stesso della giustificazione del potere, allo stesso modo la parata militare o il cerimoniale giudiziario esibiscono «padronanza della forza», «così mantenuta nello statuto di forza in potenza, che potrebbe servire ma di cui non ci si serve: 45

P. Bourdieu, Risposte, cit., p. 187.

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mostrarla significa mostrare che è abbastanza forte, e abbastanza sicura della sua efficacia da risparmiarsi il passaggio all’atto»46. L’esibizione della forza, e a giusto titolo potremmo pensare in questo caso specifico anche a La force du droit, consiste sempre in una «denegazione», nella sua Verneinung: come osserva Bourdieu, «un’affermazione della forza che è inseparabilmente una negazione di essa», come per esempio ciò che caratterizza una «forza di polizia civile [policée], capace di dimenticarsi e di farsi dimenticare in quanto forza e così trasformata in forza legittima, misconosciuta e riconosciuta, in violenza simbolica», «una forza riconosciuta come legittima perché capace di esercitarsi, soprattutto non esercitandosi realmente, in favore degli stessi individui che la subiscono»47. Queste riflessioni provano come l’analisi del campo giuridico investa, in buona parte della riflessione bourdieusiana, lo studio della genesi dello Stato e della struttura del campo burocratico48. Alla base dell’analisi della formazione statale si inserisce la necessità epistemologica di riflettere sul fatto che pensiamo lo Stato a partire dalle categorie di pensiero che esso stesso «produce e garantisce», partecipando di fatto a misconoscerne i principi fondativi che assumono i caratteri del mistero e del mito. Ciò accade, in primo luogo, perché lo Stato svolge pressoché in ogni settore opere di codificazione e di normalizzazione che hanno come effetto immediato la naturalizzazione vale a dire, almeno in 46

P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, cit., p. 102. Ibidem. 48 Vd. P. Bourdieu, Sullo Stato, cit.; Id., Ragioni pratiche, cit., pp. 89-119. 47

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termini di effetti, la produzione e il prodotto del «perfetto accordo tra strutture mentali e strutture oggettive», tra la forma mentale socialmente istituita di X e la realtà stessa delle cose designate da X49. Lo Stato – come ricordato precedentemente – detiene il monopolio dell’uso legittimo della violenza fisica e simbolica su un determinato territorio e sulla popolazione relativa; esso in particolare esercita violenza simbolica perché «si incarna contemporaneamente nell’oggettività, sotto forma di strutture e meccanismi specifici, e nella “soggettività” […], sotto forma di strutture mentali, di schemi di percezione e di pensiero»50. Esso, pertanto, in quanto istituzione istituita nelle strutture sociali e negli schemi di percezione «fa dimenticare di essere il risultato di una lunga serie di atti di istituzione e si presenta del tutto naturale»51. In tal senso, lo Stato in qualità di «punto di arrivo di un processo di concentrazione di diverse specie di capitale» e di «detentore di una specie di metacapitale che conferisce potere sulle altre specie di capitale e su chi le detiene» detiene forme di capitale specifico (statuale) che gli permettono di esercitare potere su vari campi, su vari tipi di capitale e su coloro che li detengono; la costruzione dello Stato coincide con la costruzione del campo del potere «spazio di gioco all’interno del quale i detentori del capitale (delle diverse specie) lottano specialmente per il potere sullo Stato, ossia sul capitale statuale che conferisce potere sulle diverse specie di capitale e sul loro riprodursi […]»52. 49

P. Bourdieu, Ragioni pratiche, cit., p. 91. Ivi, p. 95. 51 Ibidem. 52 Ivi, p. 96. 50

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La possibilità consustanziale in possesso dello Stato relativa al misconoscimento, al farsi dimenticare come risultato di (una) istituzione e all’attestarsi come presenza naturale dipendono dall’alta concentrazione di capitale simbolico di cui esso gode sotto forma di «autorità riconosciuta», considerato che è in grado di disporre di mezzi per «imporre e inculcare principi durevoli di visione e di divisione conformi alle sue strutture»53: la concentrazione di capitale giuridico è forma oggettivata e codificata di capitale simbolico54. Il processo di concentrazione del capitale giuridico è contemporaneo ai processi di differenziazione che determinano la definizione di un campo giuridico, di un corpo giudiziario e di professionisti vari che si organizzano in termini gerarchici via via che lo Stato moderno sviluppa le proprie strutture giuridico-amministrative costitutive. Dunque, come potremo considerare a partire dal classico tradotto, la concentrazione di capitale giuridico determina al contempo la concentrazione di capitale simbolico, processo che definisce l’autorità di chi detiene il potere statuale e, nello specifico, per via del «misterioso potere di nominare» che costituisce «un’istanza centrale di nomina»55. Nel processo di definizione dello Stato di diritto, assistiamo dunque alla concentrazione del potere di nominare e di definire e al suo monopolio nella centralità statale che sostituisce le forme di «capitale simbolico diffuso» fondato sul riconoscimento collettivo con «capitale simbolico oggettivato, codificato, delegato e garantito […], 53

Ivi, p. 104. Ibidem. 55 Ivi, p. 107. 54

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burocratizzato»56. Gli «atti di nomina» funzionano come atti magici in grado di mobilitare tutto il capitale simbolico condensato nelle relazioni di riconoscimento che definiscono la burocrazia, nelle quali lo Stato è depositario del potere di consacrazione e in cui agisce come grande riserva centrale, come «una banca di capitale simbolico», in grado di garantire gli atti di autorità (sia quelli arbitrari che quelli non riconosciuti tali)57; essi sono atti istitutivi, costitutivi, di istituzione nella misura in cui creano identità, categorie, unioni, gruppi legittimi. Lo Stato attraverso il potere di nominare, per via dunque di un’enunciazione dotata di autorità, esercita «un autentico potere creatore, quasi divino»: che si tratti anche di forme di commemorazione o di canonizzazione, si tratta sempre di autorizzare pubblicamente – ossia legalmente – all’esistenza. Il verdetto, in tal senso, specifica attraverso una definizione sociale legittima quale sia la verità di una persona, di un tratto, di cose o di caratteristiche, in cosa essi consistano in realtà, ciò che sono autorizzati a essere e ciò che hanno diritto di essere58. Il monopolio dell’imposizione del «principio universalmente riconosciuto della conoscenza del mondo 56

Ivi, p. 108. Si tratta di atti di «impostura legittima», come ricordavamo, per mezzo dei quali, come ironicamente afferma Bourdieu, «il presidente della Repubblica è qualcuno che si crede il presidente della Repubblica, ma a differenza del pazzo che si crede Napoleo­ ne, è nel suo diritto», P. Bourdieu, Ragioni pratiche, cit., p. 109. Secondo Bourdieu, gli uomini pubblici sono votati all’«impostura legittima» nella misura in cui sono uomini privati legittimati in termini sociali a credersi pubblici e a «pensarsi e a presentarsi come servitori devoti del pubblico e del bene pubblico». P. Bourdieu, Ragioni pratiche, cit., p. 217. 58 Bourdieu, Ragioni pratiche, cit., p. 110. 57

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sociale,­ il nomos come principio universale di visione e di divisione» si determina all’interno di conflitti e lotte, nei quali come leggeremo nell’articolo il potere giudiziario – per mezzo di verdetti dotati di sanzioni che possono consistere in atti di coercizione fisica come togliere la vita, privare della libertà o della proprietà – manifesta questo punto di vista che trascende le prospettive specifiche e individuali e che corrisponde alla visione sovrana dello Stato, che detiene il monopolio della violenza simbolica legittima (vd. infra, p. 98).

Elementi di una sociologia del campo giuridico Per tornare in particolare sull’analisi del fenomeno giuridico, sin dalle prime pagine dell’articolo, Bourdieu vuole smarcarsi sia dal formalismo giuridico di Kelsen (che considera il diritto come corpo di norme autonomo dalla società) che dallo strumentalismo giuridico (caratterizzante la teoria marxista di Althusser, secondo cui il diritto dipende strettamente dalla struttura di classe); per tali motivi individua l’esistenza del campo giuridico come spazio sociale dotato di una propria autonomia relativa rispetto alle forze esterne e all’interno del quale si produce e si esercita l’autorità giuridica, forma per eccellenza della violenza simbolica legittima il cui monopolio appartiene allo Stato e che può accompagnarsi all’esercizio della forza fisica. Le pratiche e i discorsi giuridici sono in effetti il prodotto del funzionamento di un campo la cui logica specifica è determinata in modo duplice: da una parte, attraverso­

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Introduzione

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i rapporti di forza specifici che gli conferiscono la propria struttura e che orientano i conflitti e le rivalità o, più precisamente, i conflitti di competenza che lo caratterizzano e, dall’altra, per mezzo della logica interna delle opere giuridiche che delimitano in ogni momento lo spazio dei possibili e, con ciò, l’universo delle soluzioni prettamente giuridiche (vd. infra, p. 62).

Tra i diversi campi, quello giuridico in particolare è lo spazio sociale più fortemente dipendente nella propria autonomia dai cambiamenti e dai rapporti di forza che hanno luogo negli altri campi e che sono dipendenti dai conflitti politici. Esso, come indicato ne La force du droit, «dato il ruolo determinante che svolge nella riproduzione sociale, dispone di una autonomia minore rispetto ad altri campi […]. All’interno del campo giuridico i cambiamenti esterni si traducono più direttamente e i conflitti interni sono più direttamente risolti da forze esterne»; ciò significa, in primo luogo, che la gerarchia nella divisione del lavoro giuridico varia, sebbene in modo limitato, al variare dei rapporti di forza intervenienti nel campo sociale, «come se la posizione dei diversi specialisti nei rapporti di forza interni al campo dipendesse dal posto occupato nel campo politico dai gruppi i cui interessi sono più direttamente legati alle forme giuridiche corrispondenti» (vd. infra, p. 119). Anche il campo giuridico – al pari di qualunque altro campo – è fondato sull’arbitrario in grado di dissimularsi, su atti di istituzione arbitraria, dotato di un nomos ossia di una costituzione, di un principio di visione e di divisione che non (può e non) deve essere contraddetto, che viene utilizzato per dirsi e per dire, così come per definire ciò che può essere detto o pensato, e pertanto anche l’indicibile 34

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e l’impensabile, secondo le strutture specifiche del campo, le posizioni che vi succedono e le disposizioni. La naturalizzazione dell’arbitrario è costituita in modo da «conferirgli così la necessità assurda e insondabile che si dissimula […] dietro le istituzioni più sacre»59. Ogni istituzione, del resto, corrisponde ad «atti di magia sociale»60, e deve dare l’impressione di basarsi su differenze oggettive: ogni rito di istituzione, infatti, «tende a consacrare o a legittimare un limite arbitrario, cancellandone l’arbitrarietà e riconoscendone la legittimità; o, il che è lo stesso, a operare solennemente, cioè in modo lecito ed extra-ordinario, una trasgressione dei limiti costitutivi dell’ordine sociale e mentale che va salvaguardato a ogni costo»61. L’istituzione di una norma naturalizza e normalizza le identità sociali, consacra, sancisce, santifica uno stato di cose, un ordine stabilito, stabilisce che qualcosa possa essere conosciuta e riconosciuta; l’istituzione arbitraria possiede un potere che le è proprio nel senso che agisce sul reale agendo sulla rappresentazione del reale. L’istituzione avrà un’effettualità simbolica del tutto reale: un soggetto per via di un rito di istituzione, sia che lo consacri come accade in occasione di una investitura sia, come aggiungiamo noi, nel caso in cui lo trasformi in criminale, inferiorizzandone lo status, vedrà non soltanto la sua immagine trasformata nel riconoscimento altrui ma trasformerà anche l’immagine che ha di se stesso e i comportamenti che si sente in dovere di adottare per conformarsi a tale rappresentazione62. 59

P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, cit., p. 149. P. Bourdieu, I riti di istituzione, in Id., La parola e il potere, Napoli, Guida, 1988, p. 100. 61 Ivi, p. 98. 62 Ivi, p. 100. 60

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Introduzione

Bourdieu offre particolare attenzione, sulla scorta degli insegnamenti weberiani63, alle professioni giuridiche, alla loro specializzazione, formazione e carriera, individuandone gli aspetti simbolici e culturali di «ceto», considerando come l’autorità possa assumere forme svariate e quanto il motivo per cui alcune pratiche diventino legittime dipenda soprattutto dai modi in cui l’autorità giustifica il proprio esercizio del potere e riesca ad acquisire accettazione e riconoscimento sociali. Del resto, le diverse professioni giuridiche teoriche o applicative – dotate dello «spirito» e del «senso giuridico», di risorse, di modi di pensare e di agire, ossia di schemi di classificazione, di valutazione e di habitus specifici, il vero diritto d’ingresso nel campo giuridico – producono e riproducono una postura universalizzante che si situa a fondamento della complicità, della convergenza e della cumulatività che unisce l’insieme degli agenti che vivono per mezzo della produzione e della vendita di beni e di servizi giuridici. «Lo sviluppo di un corpo di regole e di procedure dalla pretesa universale è il prodotto di una divisione del lavoro che deriva dalla logica spontanea della competizione tra differenti forme di competenza al contempo antagoniste e complementari che operano come una serie di tipi di capitale specifico e che sono associate a posizioni differenti all’interno del campo» (vd. 63

Secondo Weber, il corpo dei giuristi e delle professioni giuridiche in generale ha svolto un ruolo di primo piano nel processo di formalizzazione del diritto nella modernità «esso è condizionat[o] direttamente da rapporti per così dire “intra-giuridici”, cioè dalle caratteristiche della cerchia di persone che sono in grado di influenzare professionalmente la formazione del diritto»; M. Weber, Economia e società [1922], Edizioni di Comunità, Milano, 1999, p. III, citato in A. Salento, cit., 2009, p. 136.

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infra, pp. 69-70). I professionisti giuridici – gli agenti nel campo giuridico – posseggono conoscenze e competenze tecniche riprodotte all’interno del loro corpo e riconosciute socialmente e lottano per accaparrarsi il monopolio di interpretazione dei testi giuridici che, come indicato in precedenza, implicano la costruzione autorizzata e legittima della realtà sociale. La questione del rapporto tra linguaggio e potere è un tema che assume nell’analisi bourdieusiana particolare pregnanza anche rispetto alla costituzione del campo giuridico, soprattutto per quanto concerne il potere di convertire la realtà sociale in un linguaggio specialistico noto, posseduto e utilizzato da pochi. Infatti, la logica di funzionamento del campo giuridico determina, secondo Bourdieu soprattutto proprio per via del linguaggio giuridico, un effetto di apriorizzazione dal momento che attribuisce nuovi significati a termini comuni e ordinari e per mezzo di procedure retoriche specifiche produce effetti di neutralizzazione, universalizzazione e onnitemporalità che evidenziano «l’impersonalità dell’enunciazione normativa e a costituire l’enunciatore come soggetto universale, al contempo imparziale e obiettivo» e «[…]che lasciano poco spazio alle variazioni individuali» (vd. infra, p. 68). L’uso di un linguaggio specialistico per mezzo del quale concetti comuni assumono una nuova realtà sociale e sono sottratti dal loro uso profano e il processo di continua razionalizzazione e formalizzazione servono anche per mantenere una cesura tra i professionisti e i profani, per permettere ai primi non soltanto le rendite derivanti dalle proprie disposizioni ma, anche, di monopolizzare l’accesso alle risorse giuridiche e di riprodurre le imposture necessarie affinché «il sistema di norme giuridiche appaia a coloro che lo impongono, e anche, 37

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Introduzione

in misura maggiore o minore, a coloro che lo subiscono, come totalmente indipendente dai rapporti di forza che esso sancisce e consacra» (vd. infra, p. 64). Il testo giuridico diventa infatti «terreno di scontro tra istanze diverse a causa del fatto che la lettura è un modo di appropriarsi della forza simbolica che vi si trova racchiusa allo stato potenziale», ragion per cui gli stessi depositari della pratica di lettura e di interpretazione devono disciplinarsi in modo assai rigido, rendendosi coesi e simulando di possedere caratteristiche di ordine trascendentale. Tra i vari agenti del campo giuridico, il giudice, per esempio, manifesta in modo assai chiaro ruolo di «interprete», di «lector» in grado di rifugiarsi dietro l’apparenza di mero applicatore della legge e che tende a dissimulare l’atto di creazione giuridica nello stesso momento in cui si ritrova a performarlo. Ciò porta a riflettere sulla questione che ogni esito giuridico che si tratti di una sentenza o del contenuto di una legge sia l’esito di una lotta simbolica tra professionisti dotati di competenze tecniche e sociali diseguali, dunque inegualmente capaci di mobilitare le risorse giuridiche disponibili, attraverso la ricerca e l’utilizzo di “regole possibili”, e di utilizzarle in modo efficace, vale a dire come armi simboliche per far prevalere la propria causa (vd. infra, p. 81).

Il significato reale di una norma allora corrisponde al rapporto di forza esistente tra i vari professionisti (e tra le parti passibili di giudizio – i justiciables – che si ritrovano a rappresentare). Il processo di razionalizzazione attribuisce lo status di giudizio a una decisione che, in realtà, dipende maggior38 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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mente da disposizioni etiche, da dotazioni di risorse simboliche e materiali in possesso degli agenti, più che da «norme pure»: la razionalizzazione è in grado di conferire alla medesima decisione efficacia simbolica, «efficacia simbolica esercitata da ogni azione quando, ignoratane l’arbitrarietà, venga riconosciuta come legittima», dimensione simbolica ignorata sia dai formalisti che dagli strumentalisti. Uno delle principali funzioni del lavoro giuridico consiste nella codifica costante delle rappresentazioni e delle pratiche etiche in modo da poter fare aderire i profani all’ideologia del corpo dei giuristi e a convincerli della neutralità e dell’autonomia dei giuristi; questo processo è necessario perché l’efficacia simbolica per poter funzionare deve essere esercitata con la complicità di chi la subisce, «ed è tanto più sicura quando è subita in modo inconscio oppure estorta in modo sottile» (vd. infra, p. 108). Per questi motivi il processo di codifica giuridica strappa, come afferma Bourdieu, le norme dal loro rapporto a contingenze e occasioni specifiche o individuali e le fa assurgere a modello, «il lavoro giuridico collega senza interruzione il presente al passato e assicura – ad eccezione del caso in cui una rivoluzione sia in grado di mettere in discussione i fondamenti stessi dell’ordine giuridico – che il futuro assomigli al passato, che le trasformazioni e gli adattamenti inevitabili saranno pensati e detti in un linguaggio conforme al passato. Così iscritto nella logica della conservazione, il lavoro giuridico è uno dei principi fondamentali del mantenimento dell’ordine simbolico per via di un altro tratto del suo funzionamento» (vd. infra, p. 110). Le regole giuridiche sono dunque il prodotto di questa divisione del lavoro giuridico e degli scontri all’interno (e all’esterno) del campo giuridico, tra teorici e pratici del diritto, tra i professori universitari e­­ gli 39

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Introduzione

operatori del diritto (tra cui un ruolo rilevante è assunto dai giudici), in un rapporto conflittuale ma anche di tipo complementare, in cui i primi assicurano la logica e la coerenza interne e i secondi adattano il diritto al mutamento sociale; entrambi, tuttavia, hanno il monopolio del marketing dei beni e dei servizi giuridici e, inoltre, sono dotati di potere selettivo su quanto può accedere, una volta considerato degno di attenzione, all’interno del campo giuridico, ad una trattazione giuridica64. Il campo giuridico, infatti, riduce coloro che sono selezionati a farvi ingresso a profani, ad essere spossessati perché rinunciano a gestire direttamente i propri conflitti, ad essere ridotti allo stato di clienti, mentre trasforma «gli interessi pre-giuridici degli agenti in cause giuridiche e in capitale giuridico la competenza che garantisce la gestione delle risorse giuridiche richieste dalla logica del campo» (vd. infra, p. 92). Uno degli effetti principali derivati dalla logica del campo giuridico e dal lavoro giuridico – per via della sistematizzazione e della razionalizzazione – è l’effetto di universalizzazione ossia l’imposizione della legittimità di un ordine sociale specifico o, detto altrimenti, l’imposizione di un ordine simbolico specifico e l’esercizio di dominio simbolico. 64

«È chiaro che i giudici, per mezzo della loro pratica che li porta a confrontarsi direttamente con la gestione dei conflitti e per via di una domanda giuridica continuamente rinnovata, tendono ad assicurare la funzione di adattamento alla realtà di un sistema che, se fosse lasciato ai soli professori, rischierebbe di rinchiudersi in un rigido rigorismo razionale. Attraverso la libertà più o meno estesa che è loro lasciata in merito all’applicazione delle regole, i magistrati introducono i cambiamenti e le innovazioni indispensabili per la sopravvivenza del sistema che i teorici dovranno integrare nello stesso sistema». Vd. infra, p. 75.

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Nel momento in cui il giudice, per esempio, finga di dedurre la propria decisione da principi costituzionali quando invece dipende da valutazioni ordinarie sta mettendo in atto una strategia di ufficializzazione, una sorta di «atto di ossequio alle credenze ufficiali del gruppo», una strategia di universalizzazione, «una pubblica dichiarazione di ossequio al gruppo e alla rappresentazione di sé che esso intende dare e darsi»65. Seguendo sollecitazioni durkheimiane, il diritto serve attraverso i propri cerimoniali a perpetuare anche la rappresentazione che il gruppo ha di sé, attraverso «un’opera incessante di rappresentazione (teatrale) e all’interno di essa» che caratterizza soprattutto coloro i quali sono considerati interpreti ufficiali del gruppo e che non possono permettersi di «derogare, nella vita pubblica e persino in quella privata, all’ossequio ufficiale verso l’ideale collettivo». […] il riconoscimento universalmente tributato alla regola ufficiale fa sì che il rispetto di essa, anche formale o fittizio, garantisca profitti di regolarità (è sempre più facile e comodo essere in regola) o di “regolarizzazione” (così certe volte si esprime il realismo burocratico, che parla per esempio di “regolarizzare una situazione”)66.

L’universalizzazione come riconoscimento del senso comune è «la strategia universale di legittimazione» e svolge anche un effetto di normalizzazione, ossia «opera per rafforzare l’effetto di autorità sociale esercitato già dalla cultura legittima e dai suoi detentori; esso attribuisce al vincolo giuridico tutta la sua efficacia pratica» (vd. infra, p. 111). L’universalizzazione non fa che sancire e consacrare 65 66

Bourdieu, Ragioni pratiche, cit., pp. 213-214. Ivi, p. 214.

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i principi pratici dello stile di vita dominate a livello simbolico, essa permette – come afferma Bourdieu – una trasformazione ontologica della regolarità (ciò che si fa regolarmente) in regola (ciò che di regola si fa), la normalità di fatto in normalità di diritto: in questo modo la normalizzazione dello standard coincide con l’imposizione universale di rappresentazioni «normali» in rapporto alle quali «tutte le pratiche differenti tendono ad apparire devianti, anomiche, oppure anormali, patologiche» (vd. infra, p. 112). La conversione operata dal diritto cambia nella propria natura gli eventi o le identità incidendo nel loro statuto ontologico: la codificazione introduce chiarezza, prevedibilità e razionalità «facendo scomparire le eccezioni e la vaghezza dei raggruppamenti confusi, imponendo interruzioni nette e confini rigidi […]»; in sintesi, come afferma lo stesso Bourdieu, essa permette di esercitare un effetto di omologazione, di poter dire la stessa cosa o parlare lo stesso linguaggio. Tuttavia i vantaggi dell’omologazione sono disponibili per chi gode appieno dei vantaggi derivanti dal gioco. Gli scontri altamente razionalizzati che l’omologazione autorizza sono riservati infatti a coloro che detengono una forte competenza giuridica che è associata – soprattutto per quanto riguarda gli avvocati – a una competenza professionale specifica dello scontro giuridico, esercitata a utilizzare le forme e le formule come se fossero armi. Quanto agli altri, essi sono destinati a subire la forza della forma, ossia la violenza simbolica che giungono a esercitare coloro che, grazie alla loro arte di mettere in forma e di mettere delle forme, sanno – come si dice – mettere il diritto dalla loro parte, e che, all’occorrenza, sanno esercitare il più esperto dei rigori formali, summum jus, a servizio dei fini meno irreprensibili, summa iniuria (vd. infra, p. 117).

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Del resto, «il canone giuridico è come una riserva di autorità che garantisce, alla stregua di una banca centrale, l’autorità dei singoli atti giuridici» e uno dei compiti principali dei giuristi consiste nel mettere in forma, nel formalizzare principi e regole: l’attività di formalizzazione non è un’azione neutra e non si svolge in un vacuum di valori, essa esprime altresì gli «interessi sociali degli agenti formalizzatori, così come essi si definiscono nella concorrenza in seno al campo giuridico e nella relazione tra questo campo e il campo del potere nel suo insieme», ragion per cui si rilevano affinità tra i detentori della forma per eccellenza del potere simbolico e gli altri dominanti, aspetti che favoriscono visioni e interessi comuni che difficilmente svantaggeranno i dominanti (vd. infra, p. 105). Se mi metto in regola o se regolarizzo una situazione sto contemporaneamente partecipando al sostegno e al supporto materiale e simbolico del gruppo dominante67 e potrò trarne dei vantaggi di posizionamento o di prossimità legati al «profitto di conformità all’ideale [normativo] sociale»68. 67 «Chi si mette in regola mette dalla sua parte il gruppo mettendosi ostentatamente dalla parte del gruppo con un atto pubblico di riconoscimento di una norma comune, universale in quanto universalmente approvata all’interno del gruppo. Dichiara che accetta di adottare, nel comportamento, il punto di vista del gruppo, valido per ogni possibile agente, per un X universale. In antitesi con la pura affermazione dell’arbitrio soggettivo (perché lo voglio, perché mi piace) il riferimento all’universalità della regola rappresenta una crescita di potenza simbolica, legata ad una messa in forma universale, alla formula ufficiale, alla regola generale». P. Bourdieu, Ragioni pratiche, cit., pp. 214-215. 68 P. Bourdieu, Ragioni pratiche, cit., p. 215. In questi ragionamenti Bourdieu sembra anticipare gran parte della critica antinormativa della teoria queer.

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Invece di una conclusione. Il «potere di dare definizioni»: Bourdieu e il rapporto implicito con le teorie interazioniste del diritto e della devianza Come abbiamo più volte rammentato, il campo giuridico si fonda a partire da una dissimulazione e da una impostura. Bisogna infatti non (rischiare di) sospettare che esso derivi da una imposizione istituzionalizzata che, per via di una mise en forme, determina il misconoscimento dei caratteri arbitrari dei propri fondamenti. La naturalizzazione dei rapporti di dominio implica dunque una trasformazione strutturale ma anche, sul piano soggettivo, il mutamento di pratiche incorporate e di sistemi simbolici interiorizzati. Sovente, infatti, i dominati applicano le stesse categorie e lo stesso linguaggio elaborati dai dominanti agli stessi rapporti di dominio facendoli di fatto apparire come naturali. Del resto perché possa esistere un atto simbolico e aver luogo uno scambio simbolico è necessaria la condivisione di categorie percettive e valutative, sono indispensabili «atti di conoscenza e di riconoscimento»: il che significa che per gli «atti di dominio simbolico» è necessaria la complicità dei dominati, «bisogna che il dominato applichi agli atti del dominante (e a tutto il suo essere) strutture di percezione uguali a quelle che il dominante usa per produrre quegli stessi atti»; «il dominio simbolico […] si fonda sul disconoscimento, e dunque sul riconoscimento, dei principi in nome dei quali si esercita»69. Gran parte degli elementi indicati da Bourdieu sembrano introdurre analogie e comunanze con gli approcci interazionisti simbolici rispetto, per esempio, al concetto 69

Ivi, pp. 166-167.

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di habitus come elemento che va incontro a trasformazioni pur mantenendo la propria autonomia (che ritrova il suo omologo pragmatista nel concetto di habit), alla condivisione di un’epistemologia anti-dualista e antiessenzialista, all’origine sociale del significato e alle loro comuni ontologie sociali costruzioniste, alla rilevanza attribuita al linguaggio. Non potendo, per ragioni di spazio approfondire questa relazione già indicata da alcuni critici70, possiamo indicare brevemente alcuni dei passaggi che nel testo discutono, in modo più o meno esplicito, temi interazionisti classici. Si consideri, per esempio, l’analisi che l’autore fornisce degli atti giuridici come dotati di potere definizionale, costitutivo e performativo. Mentre un giudizio particolare, individuale non ha lacuna forza definizionale, è «reversibile», ««un giudizio autorizzato porta con sé tutta la forza dell’ordine sociale, la forza dello Stato»71. Il diritto attraverso una serie di strumenti, può «presiedere alle patenti di identità sociale, alle patenti riguardanti le qualità che oggi più contribuiscono a definire l’identità sociale»72. Quelli del tribunale 70 Cfr. E. Hałas, Pierre Bourdieu’s concept of the politics of symbolization and symbolic interactionism, in «Studies in Symbolic Interaction», 27, 2004, pp. 235-257. Adam I. Green, inoltre, pur analizzando un tema assai diverso dal diritto come quello di sessualità con il concetto di «sexual field», utilizza l’analisi interazionista per individuare le basi interazionali della stratificazione sessuale, vd. attraverso Adam I. Green, Playing the (Sexual) Field: The Interactional Basis of Sexual Stratification, in «Social Psychology Quarterly», 2011, 74, pp. 244-266. Per un confronto tra analisi interazionista e approccio bourdieusiano si vd. anche G. Toscano, Campo e mondo sociale. Definizioni e applicazioni a confronto, in «Studi di sociologia», 2012, 3, pp. 309-325. 71 P. Bourdieu, Sullo Stato, cit., p. 25. 72 Ibidem.

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così come quelli di un poliziotto o i regolamenti­di una commissione sono «atti di categorizzazione», dal greco katègoresthai, accusare pubblicamente, sono atti di accusa e di definizione pubblica dunque; a differenza di un insulto pronunciato da un individuo qualunque, alcuni atti di categorizzazione – come il verdetto del giudice o la tipizzazione del poliziotto o la diagnosi del medico – posseggono efficacia simbolica, appartengono alla classe degli atti di nominazione o di istituzione e rap­ presenta[no] la forma per eccellenza della parola autorizzata, parola pubblica, ufficiale, che si enuncia in nome di tutti e nei confronti di tutti. In quanto giudizi di attribuzione formulati pubblicamente da agenti che agiscono come mandatari autorizzati dalla collettività e che diventano il modello di ogni atto di categorizzazione […], questi enunciati performativi sono degli atti magici che riescono – perché in grado di farsi riconoscere universalmente – a ottenere che nessuno possa rifiutare o ignorare il punto di vista, la visione che impongono (vd. infra, p. 98).

Queste riflessioni e, in particolare, il concetto di potere di nominazione mostrano analogie con quello di potere di definizione, esplicitato da Howard S. Becker, uno dei massimi esponenti delle teorie interazioniste e della rea­ zione sociale della devianza e del crimine, nelle sue (ri) elaborazioni più mature sul labeling73. Becker, già dalle prime formulazioni della sua teoria della devianza, aveva introdotto, sebbene implici73 Ci si riferisce al saggio Labelling theory reconsidered presentato per la prima volta alla British Sociological Association a Londra nel 1971, ora pubblicato in H.S. Becker, Outsiders. Saggi di sociologia della devianza [1963], Torino, Edizioni Gruppo Abele, 20031a, pp. 176-204.

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tamente, le asimmetrie di status esistenti tra i soggetti coinvolti (rispetto all’età, alla classe sociale, alla razza, al genere), e dunque una riflessione sul potere e sulle diverse dotazioni di cui dispongono i soggetti e i gruppi: la questione è relativa alla misura in cui un certo gruppo che detiene potere politico ed economico è in grado di imporre le «sue norme» agli altri gruppi74. Sottolineando il carattere collettivo della devianza e del crimine, il sociologo americano evidenzia come il lavoro interazionista sollevi costantemente critiche anche all’establishment, dal momento che le teorie interazioniste della devianza e del crimine sottolineano il modo in cui gli attori definiscono gli altri e le modalità attraverso cui gruppi specifici sono dotati del potere di definire gli altri e di controllare queste stesse definizioni insieme a forme più rudimentali di controllo, ma il controllo basato sulla manipolazione di definizioni ed etichette funziona con più facilità e a un costo inferiore, e i gruppi di status superiore lo preferiscono. L’attacco alla gerarchia inizia con un attacco alle definizioni, etichette e concezioni convenzionali su “chi è chi e cosa è cosa”75.

In queste ultime parole di Becker si riesce a scorgere lo stesso spirito engagé che caratterizza Bourdieu, del sociologo che rovina i giochi e le illusioni; la posizione di Becker si fa ancora più rilevante quando, suggerendo la necessità che l’approccio interazionista consideri come oggetto di studio gli imprenditori morali, implica di demistificare «le gerarchia di credibilità della società» e, 74 75

H.S. Becker, Outsiders, cit., p. 35. Ivi, p. 200.

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come risultato, – sono sempre le sue parole – consegue la distruzione dell’illusione di una scienza naturale; le teo­ rie interazioniste contestano il monopolio della verità e della “intera storia” rivendicato da coloro che rivestono posizioni di potere e di autorità. Suggeriscono che abbiamo bisogno di scoprire da noi la verità sui fenomeni ritenuti devianti, anziché fare affidamento sui resoconti ufficiali che dovrebbero essere sufficienti ad ogni buon cittadino. Le analisi interazioniste adottano una posizione relativistica verso le accuse e le definizioni di devianza formulate da persone rispettabili e dall’autorità costituita, trattandole come la materia prima dell’analisi della scienza piuttosto che come affermazione di incontestabili verità morali76.

Ritornando a Bourdieu, il diritto è forma per eccellenza del potere simbolico di nominazione perché crea le cose nominate e, in particolare, i gruppi, possiede dunque potere di nominazione e di definizione; e gli agenti giuridici – in possesso di competenze giuridiche, i soli capaci di adottare le disposizioni che permettono di costituire questa situazione conformemente alla legge fondamentale del campo – assicurano il controllo della situazione. Allo stesso modo, l’analisi interazionista considera gli agenti ufficiali o formali del controllo come coloro che sono dotati di maggiore «potere di definizione», di una più elevata visibilità a carattere «pubblico» e che, di conseguenza, dispongono di maggiori probabilità e opportunità di definire nuove categorie, di confermare parte delle tipizzazioni devianti informali, di predisporre i soggetti a 76

Ivi, p. 203.

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status e ruoli devianti, nonché di lanciarne ufficialmente – in vari casi – la carriera deviante e criminale. L’attribuzione di nomi, gli effetti legati al modo di interpellare gli altri e le cose ci permettono di focalizzare inoltre l’attenzione sulle risorse di cui dispongono alcuni gruppi, come abbiamo più volte richiamato, in termini di «potere di definizione». I temi sinora affrontati permettono di comprendere che l’individuazione, il controllo e la punizione di alcuni soggetti (rispetto a tratti, condotte, caratteristiche, etc. definiti «devianti» o «criminali») non sono processi neutri ma effetti prodotti dall’intervento dei gruppi che detengono il «potere della definizione». Il crimine, in particolare, è il risultato definizionale del complesso ambito del diritto penale che vede interagire attori istituzionali e saperi esperti, teorici e pratici. I creatori e gli applicatori delle norme nel momento in cui fondano e legittimano i propri universi simbolico-penali, oppure definiscono e implementano interventi e politiche pubbliche profilano contemporaneamente caratteristiche che rendono potenzialmente individuabili come devianti o criminali alcuni soggetti e non altri (e sia in termini espliciti che impliciti, si ribadiscono gli standard di «normalità»); sono autori di definizioni ufficiali77. Questi aspetti sono evidenziati anche da Bourdieu quando considera, per esempio, gli effetti della classificazione e della istituzione 77

Scrive Bourdieu nel saggio tradotto nel presente volume: «L’offerta giuridica – ossia la “creazione giuridica” relativamente autonoma che rende possibile l’esistenza di un campo di produzione specializzato – consegue un effetto specifico che sancisce lo sforzo dei gruppi dominanti o in ascesa per imporre una rappresentazione ufficiale del mondo sociale che sia conforme alla loro visione del mondo e favorevole ai loro interessi soprattutto in occasione di situazioni di crisi o rivoluzionarie» (vd. infra, p. 114).

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Introduzione

sulla ­definizione identitaria78 che sono direttamente riferibili alla dimensione della tipizzazione in ambito interazionista ed etnometodologico. Gli agenti ufficiali o formali del controllo sono dotati, ricordavamo, di maggiore «potere di definizione»; in particolare, le logiche burocratiche professionali trattano eventi specifici come «criminali», «patologici» o «devianti» e le loro pratiche discorsive, negoziative e procedurali permettono di plasmare gli eventi in modo da poterli analizzare e trattare secondo modalità predefinite. In particolare, meccanismi procedurali specifici permettono ai produttori di categorie devianti e criminali – gli imputational specialists79– di creare condotte, caratteristiche e tratti consistenti da potere validare. 78 Ed ancora nelle pagine de La force du droit, Bourdieu sostiene che: «Il diritto consacra l’ordine stabilito consacrando una visione di quest’ordine che è una visione di Stato, garantita dallo Stato. Esso assegna agli agenti una identità sicura, uno stato civile, e soprattutto dei poteri (o delle capacità) riconosciute socialmente,­ dunque di tipo produttivo, per via della distribuzione di diritti d’uso di tali poteri, titoli (formativi, professionali, ecc.), certificati (di idoneità, di malattia, di invalidità, ecc.); inoltre, esso sancisce tutti i processi associati all’acquisizione, all’intensificazione, al trasferimento o alla privazione di questi stessi poteri. Le sentenze per mezzo delle quali il diritto distribuisce i diversi livelli dei diversi tipi di capitale ai diversi agenti (o istituzioni) pongono un termine o perlomeno un limite allo scontro, alle trattative o alla negoziazione sulle caratteristiche delle persone o dei gruppi, sull’appartenenza delle persone ai gruppi, dunque sulla attribuzione corretta dei nomi, specifici o comuni, come i titoli, sull’unione o sulla separazione, in breve su tutto il lavoro pratico del worldmaking che è alla base della costituzione dei gruppi come matrimoni, divorzi, cooptazioni, associazioni, scioglimenti, ecc.» (vd. infra, p. 99). 79 J. Lofland, Deviance and identity, Englewood Cliffs, New Jersey, Prentice-Hall, 1969.

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Gli agenti di selezione sono formati in modo specifico­ per comprendere «chi» e «che cosa» deve essere etichettato formalmente, quando e come, chi e cosa invece non dovrebbe esserlo, chi e cosa deve invece essere ri-etichettato (o riabilitato), quali azioni intraprendere contro i devianti e come trattarli. Tutte le «visioni» e le tipizzazioni categoriali e professionali sorgono per via dell’esistenza di «comunità di pratiche»80, all’interno delle quali una serie di schemi interpretativi, classificatori e valutativi fanno scorgere alcuni aspetti di un evento o di un oggetto e non altri, nelle quali inoltre – attraverso procedure interpretative – un fatto particolare (e una serie di fatti) diventa «evento», «caso», «oggetto di conoscenza pertinente» all’organizzazione specifica. Ne è coscio anche Bourdieu che, oltre ad evidenziare l’importanza della drammaturgia sociale e del linguaggio (aspetto caro a Mead), fa esplicito riferimento alla costruzione dei problemi sociali e alla mobilitazione collettiva nella definizione dei problemi sociali81, 80

2006.

E. Wenger, Comunità di pratica, Milano, Raffaello Cortina,

81 Presumo che Bourdieu conoscesse in modo approfondito la letteratura interazionista e costruzionista degli effetti simbolici del diritto e della costruzione problemi sociali considerato soprattutto il fatto che la citi nelle sue lezioni Sullo Stato, in cui fa inoltre riferimento espressamente al lavoro di Joseph Gusfield; vd. P. Bourdieu, Sullo Stato, cit., p. 51 e ss. La produzione normativa, così come Gusfield aveva sottolinea­to in una serie di lavori, non ha semplicemente una «funzione strumentale» ma riveste anche «valore simbolico». Gli atti e le disposizioni normative dei vari livelli (leggi, decisioni e sentenze, ordinanze, etc.) non posseggono semplicemente un effetto diretto sul comportamento e le azioni derivanti dall’applicazione del diritto, ma rivestono carattere simbolico nel momento stesso in cui producono effetti di

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Introduzione

tema assai caro alla tradizione interazionista82: nel caso di Bourdieu,

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sono sempre i professionisti a creare il bisogno delle proprie prestazioni costituendo in problemi giuridici i problemi espressi nel linguaggio ordinario dopo averli tradotti nel linguaggio del diritto e proponendo una valutazione anticipata delle possibilità di successo e delle conseguenze derivanti dalle diverse strategie (vd. infra, p. 91). designazione; gli atti legislativi o le sentenze, infatti, consistono anche nell’affermazione e nella validazione pubblica di ideali e di standard che esaltano i valori di un gruppo a scapito di un altro (o di altri), attraverso cerimoniali e rituali che tendono­ad evidenziare i contenuti morali, estetici, economici e politici della moralità pubblica. Il diritto, pertanto, non esaurisce­le sue funzioni come mero strumento del controllo sociale ma assurge ad elemento simbolico di designazione drammaturgica. Così come gran parte degli atti politici hanno effetti e funzioni simbolici, gli atti, le disposizioni e i rituali del diritto sono «gesti di affermazione pubblica» che impediscono il riconoscimento dell’esistenza delle norme e dei valori promossi dal trasgressore; essi, inoltre, orientano le principali istituzioni verso il sostegno e la promozione del gruppo egemone e posseggono valore dimostrativo dal momento che provano quali culture siano dotate di legittimazione e rivestano una posizione pubblica dominante; infatti, nel momento in cui si attribuiscono legittimità, valore e status a gruppi specifici stiamo contemporaneamente partecipando alla subordinazione di una serie di «altri». Vd. J.R. Gusfield, On legislating morals: the symbolic process of designating deviance, in «California Law Review», 56, 1, 1968, pp. 54-73. Per una sintesi mi si permetta ancora di rinviare a C. Rinaldi, Diventare normali, cit., pp. 69-116. 82 Si rinvia a H. Blumer, I social problems come comportamento collettivo [1971], Calimera, Kurumuny, Lecce, 2013 e M. Spector e J.I. Kitsuse, Constructing social problems, New Brunswick-London, Transaction, (20012a). Per una ricostruzione dei fenomeni indicati e dei concetti analitici interazionisti si vd. ancora Rinaldi, Diventare normali, cit., p. 69 ss.

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All’interno del settore della produzione, del trattamento e della regolazione formale della devianza e del crimine, una serie di agenzie, organizzazioni e burocrazie definiscono, validandoli, alcuni status e le loro proprietà; per conseguire i loro obiettivi organizzativi, esse fanno uso di regole, di rappresentazione e di routine organizzative, di pratiche che si rifanno a schemi interpretativi e di codifica specifici. Al pari dell’analisi interazionista e costruzionista (si pensa, in particolar modo, al costruzionismo contestuale di Joel Best)83, l’analisi bourdieusiana si orienta verso l’individuazione degli interessi che i claims-makers (o gli agenti del campo) hanno nel promuovere una definizione della realtà specifica, delle risorse che utilizzano per definire campagne di successo in termini di capacità di reclutamento, di risorse materiale, di coinvolgimento dei media, di attrazione di fondi e della titolarità di un problema, ossia di potersi accaparrare la gestione del problema, l’indicazione di interventi e la possibilità di indicare politiche. Pertanto si configurano dei mercati dei problemi sociali – così come all’interno del campo giuridico si crea il monopolio dei professionisti sulla produzione e sulla commercializzazione dei beni e dei servizi giuridici – al cui interno diversi claims-makers si contendono interessi, risorse e titolarità; tuttavia soltanto i claims-makers ben consolidati solitamente sono titolari di problemi sociali altrettanto ben definiti e, in particolar modo, si tratta degli insider claims-makers ossia di gruppi di pressione già interni al processo di policymaking e in grado di influenzare i decisori politici e di far riconoscere­i propri 83

J. Best, Constructionism in context, in Id. (a cura di), Images of issues, Hawthorne, NY, Aldine de Gruyter, 19952a, pp. 337-354.

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Introduzione

interessi (si pensi alle lobby, agli specialisti e ai professionisti o alle agenzie ufficiali); al contrario, tutti gli altri soggetti, gli outsider claims-makers – al pari dei profani, utilizzando le riflessioni bourdieusiane sul campo giuridico – che tentano di far riconoscere un nuovo problema sociale e di promuoverlo, come accade a gran parte dei movimenti sociali, non godono degli stessi vantaggi dei gruppi di pressione e, pertanto, hanno necessità di reclutare e di acquisire maggiore visibilità sui media attraverso una serie di strategie (manifestazioni, presenza nei TG, conferenze stampa, interviste, talk show, etc.). Si tratta, in definitiva, di una costruzione di versioni legittimate della realtà, di rappresentazioni in grado di essere riconosciute universalmente, di interpretazioni legittime prodotte da interpreti autorizzati, di definizioni che una volta legittimate possono essere pensate, diventano pensabili, – o meglio, come sostiene Bourdieu – si arriva «a imporre universalmente una rappresentazione della normalità in rapporto alla quale tutte le pratiche differenti tendono ad apparire devianti, anomiche, oppure anormali, patologiche (specialmente quando la “medicalizzazione” serve a giustificare la “giuridicizzazione”)». Gli attori sociali sono immersi, dicevamo all’inizio di questo capitolo introduttivo, in una serie di universi simbolici che si sostanziano in una pluralità di campi socio-normativi, che si collocano a diversi livelli di prossimità con il campo prettamente giuridico (si pensi al campo morale, a quello delle religioni positive, della politica, dell’economia, etc.)84 e che orientano le condotte degli individui e gli attribuiscono senso. La norma giuridica, in quanto statuita, definita e istituzionalizzata costituisce una 84

C. Sarzotti, op. cit.

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schema­ interpretativo, di classificazione, valutativo che permette di rendere comprensibile l’azione, definibile sia dal soggetto che la compie o che pensa di compierla che da chiunque altro e a qualunque titolo si ritrovi ad avervi a che fare, rispetto alle attese e alle aspettative istituzionalizzate che rappresenta, ai frammenti di moralità che implica, alle caratteristiche dei soggetti che interpretano quanto accade, alle funzioni strumentali e simboliche che riveste in un tempo, in un contesto e in situazioni specifici e dati, alla possibilità di dire e di pensare tutti questi elementi. La normatività, dunque, ci offre degli schemi per valutare noi stessi e gli altri, delle categorie in grado di dare consistenza al nostro sé e di costituire anche gli altri, all’interno di un processo relazionale, «di linguaggio dei rapporti»85. Anche rispetto al dominio simbolico della norma e al misconoscimento, possiamo ritrovare sorprendenti analogie con l’analisi della «normalità» e l’allineamento normalizzante con il gruppo dominante fornita da Erving Goffman in un classico come Stigma. Il predominio degli standard normativi spinge il soggetto stigmatizzato a gestire attivamente il proprio status e a considerarsi considerare costantemente secondo la prospettiva del gruppo esterno dei «normali», cercando di allinearvisi spesso interiorizzando il codice «psichiatrico» offerto dai normali (bisogna che si riconosca come «inadeguato» per poter iniziare un percorso di normalizzazione). Coloro che riusciranno o ai quali sarà ­permesso di aderire agli standard saranno considerati «maturi», «ben adattati», al contrario ogni fallimento 85

E. Goffman, Stigma. L’identità negata [1963], Verona, Ombre Corte, 2003.

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Introduzione

sarà imputato allo stigmatizzato perché «persona che si tiene rigidamente sulla difensiva e che manca di adeguate risorse psicologiche»86. Allo stigmatizzato redento viene richiesto di spiegare di essere umano sebbene non gli venga mai concesso di esserlo pienamente: l’adattamento consiste sovente in forme di assimilazione che non mettono in discussione gli standard degli universi simbolici e normativi egemoni. Lo stigmatizzato deve in un certo modo piegarsi alle forme contraffatte di riconoscimento che coincidono con l’assestamento degli ordini di interazione normativi dei «normali»; come osserva acutamente Goffman, «più lo stigmatizzato si allontana dalla norma e più è probabile che si impadronisca pienamente della sua soggettività, visto che deve convincere gli altri di possederla, e più gli altri gli chiederanno un modello a cui i normali vorrebbero adeguarsi nei loro rapporti con lo stigmatizzato»87. Si chiede dunque allo stigmatizzato di accettarsi come «persona normale» più per i vantaggi che ne derivano direttamente per i «normali» che concedono allo stigmatizzato il «privilegio» di trattare il suo stigma come se fosse «qualcosa di poco conto», egli si sentirà alla fine «uno come tutti gli altri» e finirà col credere «di essere accettato più di quanto non lo sia in realtà»88. Lo stigmatizzato non «può prendersi troppo sul serio di essere accettato», non dovrà mai forzare i limiti dell’accettazione né fare richieste ulteriori; dovrà condurre una normalità fantasma basata su un’accettazione fantasma89: sulla 86

E. Goffman, Stigma, cit., p. 142. Ivi, pp. 143-144. 88 Ivi, p. 147. 89 Ivi, pp.148-149. 87

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costruzione, dunque, di misconoscimenti e di illusioni. Sulla sua complicità. La definizione di ciò che è deviante o criminale e i diversi gradi di intensità, di formalità e di severità delle possibili reazioni sociali dipendono dal «potere di definizione» che posseggono gruppi e classi di individui specifici così come il processo di nominazione, in Bour­ dieu, è momento irrinunciabile di natura costitutiva, di de-finizione, di costruzione legittima (e autorizzata) della realtà. In entrambi i casi, rispetto ad entrambe le prospettive, resta valido e attuale l’assunto bourdieusiano che i sociologi distruggono le illusioni.

Ringraziamenti Ringrazio Massimo Cerulo, Gianvito Brindisi e Angelo Salento per aver riletto il testo e per i suggerimenti ricevuti e Andrea Inzerillo per aver riletto la traduzione dal francese. Chiaramente è da attribuire a chi scrive ogni responsabilità. Il testo citato di cui non viene indicata in nota la fonte si riferisce all’articolo tradotto contenuto nel volume.

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La forza del diritto. Elementi per una sociologia del campo giuridico Da mihi factum, dabo tibi jus Una scienza rigorosa del diritto si distingue da quella che comunemente si chiama «scienza giuridica» in quanto essa assume quest’ultima ad oggetto. Così facendo, essa si svincola innanzitutto dalle alternative che dominano il dibattito scientifico relativo al diritto, vale a dire quella del formalismo che afferma l’autonomia assoluta della forma giuridica in rapporto al mondo sociale e quella dello strumentalismo, che concepisce il diritto come un riflesso o uno strumento a servizio dei dominanti. La «scienza giuridica» così come la concepiscono i giuristi – e in particolare gli storici del diritto che identificano la storia del diritto con la storia dello sviluppo interno dei suoi concetti e dei suoi metodi –, considera il diritto come un sistema chiuso e autonomo, il cui sviluppo non può che essere compreso per mezzo della sua «dinamica interna»1. La rivendicazione dell’autonomia 1 Cfr. per esempio J. Bonnecase, La pensée juridique française, de 1804 à l’heure présente, les variations et les traits essentiels, 2 voll., Bordeaux, Delmas, 1933.

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La forza del diritto

assoluta del pensiero e dell’azione giuridici si afferma attraverso la costituzione in teoria di un modo di pensare specifico, affrancato interamente dalle forze di gravità sociale. Il tentativo di Kelsen di fondare una «teoria pura del diritto» non è altro che il limite ultra-conseguente dello sforzo di tutto il corpo dei giuristi per costruire un insieme di dottrine e di regole totalmente indipendenti dai condizionamenti e dalle pressioni sociali, e che è capace di trovare in se stesso il proprio fondamento2. Le posizioni che si contrappongono a questa sorta di ideologia professionale del corpo dei dottori costituito in corpo di «dottrina» considerano il diritto e la giurisprudenza come un riflesso diretto dei rapporti di forza esistenti, in cui si esprimono le determinazioni economiche e, in particolare, gli interessi dei dominanti, o ancora, così come indicato in modo chiaro dal linguaggio dell’Apparato, riattivato da Louis Althusser, come uno strumento di dominio3. Vittime di una tradizione che crede di aver reso conto delle «ideologie» semplicemente avendone designato le funzioni («l’oppio del popolo»), i cosiddetti marxisti strutturalisti hanno ignorato paradossalmente la struttura dei 2 L’approccio di Kelsen, basato sul postulato dell’auto-limitazione della ricerca al solo enunciato delle norme giuridiche, con l’esclusione dei dati storici, psicologici o sociali e di ogni riferimento alle funzioni sociali garantite dall’applicazione delle norme – assomiglia perfettamente a quello di Saussure che fonda la propria teoria pura della lingua sulla distinzione tra linguistica interna e linguistica esterna, vale a dire sull’esclusione di ogni riferimento alle condizioni storiche, geografiche e sociologiche del funzionamento della lingua o delle sue trasformazioni. 3 Una rassegna dei lavori marxisti relativi alla sociologia del diritto e una eccellente bibliografia si trovano in S. Spitzer, Marxist perspectives in the sociology of law, in «Annual Review of Sociology», 9, 1983, pp. 103-124.

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sistemi simbolici e, in questo caso particolare, la forma specifica del discorso giuridico. Ciò è dovuto al fatto che essi, avendo riaffermato in modo rituale l’autonomia relativa delle «ideologie», hanno omesso di mettere in discussione i fondamenti sociali di questa stessa autonomia; ossia, più precisamente, hanno trascurato la questione delle condizioni storiche che devono essere soddisfatte perché possa emergere, col favore delle lotte in seno al campo del potere, un universo sociale autonomo, capace di produrre e di riprodurre, per mezzo della logica del suo funzionamento specifico, un corpus giuridico relativamente indipendente dai vincoli esterni. Essi si sono rifiutati dunque di definire il contributo specifico che, in virtù della sua stessa forma, il diritto può apportare nel momento in cui assolve le sue presupposte funzioni. La metafora architettonica della infrastruttura e della sovrastruttura, che sostiene gli usi comuni della nozione di autonomia relativa, continua a guidare coloro i quali, come Edward P. Thompson, credono di rompere con l’economicismo, mentre, per restituire al diritto tutta la sua efficacia storica, si accontentano di affermare che esso è «profondamente interconnesso nella stessa base delle relazioni produttive»4: l’intento di situare il diritto al livello profondo delle forze storiche impedisce, ancora una volta, di comprendere nella sua specificità l’universo sociale nel quale esso si produce e si espleta. Al fine di rompere con l’ideologia formalista dell’indipendenza del diritto e del corpo giuridico, senza cadere nella visione strumentalista opposta, bisogna tener conto di ciò che le due visioni antagoniste – quella interna e quella esterna al diritto –, hanno in comune, ossia il fatto 4

E.P. Thompson, Whigs and hunters. The origin of the Black Act, Panthéon, New York, 1975, p. 261.

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che entrambe ignorino l’esistenza di un universo sociale relativamente indipendente rispetto alle domande esterne, all’interno del quale si produce e si esercita l’autorità giuridica, forma per eccellenza della violenza simbolica legittima il cui monopolio appartiene allo Stato e che può accompagnarsi all’esercizio della forza fisica. Le pratiche e i discorsi giuridici sono in effetti il prodotto del funzionamento di un campo la cui logica specifica è determinata in modo duplice: da una parte, attraverso i rapporti di forza specifici che gli conferiscono la propria struttura e che orientano le lotte di concorrenza o, più precisamente, i conflitti di competenza che lo caratterizzano e, dall’altra, per mezzo della logica interna delle opere giuridiche che delimitano in ogni momento lo spazio dei possibili e, con ciò, l’universo delle soluzioni prettamente giuridiche. Bisognerebbe esaminare qui tutto ciò che differenzia la nozione di campo giuridico come spazio sociale dalla nozione di sistema così come viene sviluppata, per esempio, da Luhmann. In nome del rifiuto – pienamente legittimo – del riduzionismo, la teoria dei sistemi considera «l’autoreferenzialità» delle «strutture legali», mescolando sotto questo concetto le strutture simboliche (il diritto propriamente detto) e le istituzioni sociali di cui esse stesse sono il prodotto. Ci rendiamo conto che, nella misura in cui essa presenta con un nuovo nome la vecchia teoria del sistema giuridico che si trasforma secondo leggi proprie, la teoria dei sistemi fornisce oggi una cornice ideale per la rappresentazione formale e astratta del sistema giuridico5. 5 N. Luhmann, Soziale Systeme, Grundriss einer allgemeinen Theorie, Frankfurt, 1984; Die Einheit des Rechtssystems, in «Rechtstheorie», 14, 1983, pp. 129-154.

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La mancata distinzione tra l’ordine propriamente simbolico di norme e dottrine (il campo delle prese di posizione, lo spazio dei possibili), che – come suggeriscono Nonet e Selznick – racchiude oggettive potenzialità di sviluppo o addirittura direzioni di cambiamento ma non contiene in sé il principio della propria dinamica, e l’ordine delle relazioni oggettive tra gli attori e le istituzioni [giuridiche] che sono in competizione per [garantirsi] il monopolio del diritto di dire il diritto, fa sì che risulti difficile comprendere in che modo il campo giuridico – per quanto riceva dallo spazio delle prese di posizione il linguaggio stesso in cui si esprimono i suoi conflitti –  trovi in se stesso, ossia negli scontri legati agli interessi associati alle diverse posizioni, il principio della propria trasformazione. 

La divisione del lavoro giuridico Il campo giuridico è il luogo di una concorrenza per il monopolio del diritto di dire il diritto, ossia di dire la distribuzione corretta (nomos) o il giusto ordine; esso è quel luogo nel quale si confrontano degli agenti investiti di una competenza inestricabilmente sociale e tecnica che consiste in sostanza nella capacità socialmente riconosciuta di interpretare (in modo più o meno libero o autorizzato) un corpus di testi che consacra la visione legittima, giusta, del mondo sociale. Solo a questa condizione si può rendere ragione sia dell’autonomia relativa del diritto sia dell’effetto propriamente simbolico del misconoscimento che deriva dall’illusione di una sua assoluta autonomia rispetto alle domande esterne. La competizione per il monopolio dell’accesso alle risorse giuridiche ereditate dal passato contribuisce a fondare la cesura 63

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s­ ociale esistente tra i profani e i professionisti, favorendo un lavoro continuo di razionalizzazione funzionale che accresce sempre più lo scarto tra i verdetti armati del diritto e le intuizioni ingenue dell’equità, facendo in modo che il sistema di norme giuridiche appaia a coloro che lo impongono, e anche, in misura maggiore o minore, a coloro che lo subiscono, come totalmente indipendente dai rapporti di forza che esso sancisce e consacra. Come evidenziato in modo particolarmente efficace dalla storia del diritto sociale, è chiaro che il corpus giuridico registra in ogni momento uno stato del rapporto di forze, e sancisce dunque le conquiste dei dominati che vengono convertite di conseguenza in diritti riconosciuti (con l’effetto di inscrivere nella struttura stessa del diritto un’ambiguità che contribuisce senza dubbio alla sua efficacia simbolica). Si è mostrato per esempio come, man mano che sono diventate più potenti, le organizzazioni sindacali americane hanno visto evolvere il loro statuto legale: mentre all’inizio del XIX secolo l’azione collettiva dei salariati era condannata come «criminal conspiracy» in nome della protezione del libero mercato, i sindacati accedono a poco a poco a forme di riconoscimento legale6. La logica paradossale di una divisione del lavoro che si determina, al di fuori di qualsiasi concertazione cosciente, nella competizione regolata strutturalmente tra gli agenti e le istituzioni coinvolti nel campo, costituisce il vero principio di un sistema di norme e di pratiche che 6 Cfr. A.W. Blumrosen, Legal process and labor law, in W.M. Evan (a cura di), Law and sociology, The Free Press of Glencoe, New York, 1962, pp. 185-225.

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appare come fondato a priori nell’equità dei suoi principi, nella coerenza delle sue formulazioni e nel rigore delle sue applicazioni, ovvero come se partecipasse nello stesso tempo alla logica positiva della scienza e alla logica normativa della morale, dunque come se fosse capace di farsi riconoscere universalmente attraverso una necessità al contempo logica ed etica. A differenza dell’ermeneutica letteraria o filosofica, la pratica teorica d’interpretazione dei testi giuridici non rappresenta un fine in sé: essa è, invece, orientata direttamente verso obiettivi di ordine pratico ed è capace di determinare effetti pratici. Essa acquista efficacia al prezzo della restrizione della propria autonomia. Per questo motivo le divergenze tra gli «interpreti autorizzati» sono necessariamente limitate e la coesistenza di una pluralità di norme giuridiche in competizione tra loro è per definizione esclusa dall’ordine giuridico7. Alla pari del testo religioso, filosofico o letterario, il testo giuridico è un terreno di scontro tra istanze diverse a causa del fatto che la lettura è un modo di appropriarsi della forza simbolica che vi si trova racchiusa allo stato potenziale. Sebbene i giuristi possano essere in conflitto rispetto ai testi il cui significato non si impone mai in modo assolutamente obbligatorio, essi restano tuttavia inseriti all’interno di un corpo fortemente integrato di strutture gerarchiche che sono in grado di risolvere i conflitti tra interpreti e interpretazioni. Inoltre, la concorrenza esistente tra gli interpreti viene limitata dal fatto che le decisioni giudiziarie si 7 A.-J. Arnaud, Critique de la raison juridique, LGDJ, Paris, 1981, pp. 28-29 e J.-M. Scholz, La raison juridique à l’œuvre: les krausistes espagnols, in Erk Volkmar Heyen (a cura di), Historische Soziologie der Rechtswissenschaft, Klosterman, Frankfurt am main, 1986, pp. 37-77.

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distinguono dal mero esercizio della forza politica solo nella misura in cui siano presentate come risultato necessario di una interpretazione regolata di testi unanimemente riconosciuti; così come la Chiesa e la Scuola, la Giustizia organizza secondo una gerarchia rigida non soltanto le istanze giudiziarie e i loro poteri, ma anche le norme e le fonti che conferiscono autorità a queste decisioni8. Si tratta dunque di un campo che, quantomeno in un periodo di equilibrio, tende a funzionare come un apparato nella misura in cui la coesione degli habitus degli interpreti orchestrati spontaneamente è rafforzata attraverso la disciplina di un corpo gerarchizzato che adopera procedure codificate di risoluzione dei conflitti tra coloro che professionalmente sono tenuti alla risoluzione regolata dei conflitti. Il corpo dei giuristi di conseguenza si convincerà tanto più facilmente che il diritto trova in se stesso il proprio fondamento, ossia in una norma fondamentale, una norma normarum come la Costituzione da cui si deducono tutte le norme di rango inferiore quanto più la communis opinio doctorum, radicata nella coesione sociale del corpo degli interpreti, tende a conferire apparenza di natura trascendentale alle forme storiche della ragione giuridica e alla fede nella visione ordinata dell’ordine sociale che esse producono9. 8 Il dominio si riconosce altresì, tra le varie cose, nella capacità di rispettare l’ordine riconosciuto come legittimo nell’enumerazione delle autorità. Cfr. J.-M. Scholz, op. cit. 9 Secondo Andrew Fraser, la moralità civica del corpo giudiziario si basava non tanto su un codice di regole espresse ma su un «senso dell’onore tradizionale», ossia su un sistema di disposizioni per mezzo del quale l’essenziale di ciò che conta nell’acquisizione delle virtù associate all’esercizio della professione andava da sé. Cfr. A. Fraser, Legal amnesia: modernism versus the republican tradition in American legal theory, in «Telos», 60, 1984, pp. 15-52.

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La tendenza a considerare come esperienza universale di un soggetto trascendentale la visione comune di una comunità storica si osserva in tutti i campi della produzione culturale, che si prestano ad essere conseguentemente il luogo dell’attualizzazione di una ragione universale che non deve nulla alle condizioni sociali in cui si manifesta. Tuttavia, nel caso delle «facoltà superiori», teologia, diritto o medicina che, come rileva Kant nel Conflitto delle facoltà, sono chiaramente investiti di una funzione sociale, bisogna che si verifichi una crisi relativamente grave di questo contratto di delega perché la questione del fondamento – che certi autori come Kelsen avevano posto in modo del tutto teorico, trasferendo al diritto un interrogativo tradizionale della filosofia – assuma la forma di una questione reale di pratica sociale, come accade oggi. Al contrario, il problema del fondamento della conoscenza scientifica si ritrova posto, nella realtà stessa dell’esistenza sociale, a partire dal momento in cui la «facoltà inferiore» (filosofia, matematica, storia, etc.) si trova costituita in quanto tale, senza alcun altro supporto che «la ragione degli scienziati». Il rifiuto di accettare (come accade, per esempio, con Wittgenstein o con Bachelard) che la istituzione degli «scienziati» (peuple savant), vale a dire la struttura storica del campo scientifico, costituisca il solo fondamento possibile della ragione scientifica, condanna molti filosofi a strategie auto-fondanti degne del Barone di Münchhausen o a problematizzazioni della scienza nichiliste, che si inspirano ancora a una nostalgia propriamente metafisica del «fondamento», principio non decostruito della «decostruzione». L’effetto di apriorizzazione che è inscritto nella logica del funzionamento del campo giuridico si rivela in tutta 67

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chiarezza nel linguaggio giuridico che, combinando elementi presi direttamente dalla lingua comune ed elementi estranei al suo sistema, manifesta i segni di una retorica dell’impersonalità e della neutralità. La maggior parte delle procedure linguistiche che caratterizzano il linguaggio giuridico contribuiscono a produrre due effetti principali. L’effetto di neutralizzazione si ottiene attraverso l’uso di una serie di tratti sintattici quali la prevalenza di costruzioni passive e di qualificazioni impersonali, atti a evidenziare l’impersonalità dell’enunciazione normativa e a costituire l’enunciatore come soggetto universale, al contempo imparziale e obiettivo. L’effetto di universalizzazione si definisce invece attraverso diverse procedure convergenti: il ricorso sistematico all’indicativo per enunciare le norme10; l’impiego, proprio della retorica delle dichiarazioni ufficiali e degli atti, di verbi constativi alla terza persona del singolare presente o del passato prossimo che esprimono l’aspetto compiuto («accetto», «confesso», «si impegna», «ha dichiarato», etc.); l’uso dell’indefinito («ogni condannato»…) e del presente intemporale (o del futuro giuridico) adatti a esprimere la generalità e l’onnitemporalità della regola del diritto; il riferimento a valori trans-soggettivi che presuppongono l’esistenza di un consenso etico (per esempio «da buon padre di famiglia»); 10 I filosofi del diritto giusnaturalisti si sono basati su questo aspetto, da tempo sottolineato, per sostenere che i testi giuridici non enunciano delle norme bensì delle constatazioni; e che il legislatore enuncia l’essere e non il dover essere, esprime il giusto o la giusta proporzione inscritta nelle stesse cose come se fosse una proprietà oggettiva. «Il legislatore preferisce descrivere le istituzioni giuridiche piuttosto che stabilire direttamente delle regole»; cfr. G. Kalinowski, Introduction à la logique juridique, LGDJ, Paris, 1964, p. 55.

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il ricorso a formule lapidarie e a forme fisse, che lasciano poco spazio alle variazioni individuali11. Lungi dall’essere una semplice maschera ideologica, questa retorica dell’autonomia, della neutralità e dell’universalità, che può essere il principio di un’autonomia reale dei pensieri e delle pratiche, è l’espressione stessa di tutto il funzionamento del campo giuridico e, in particolare, del lavoro di razionalizzazione, nella duplice accezione di Freud e di Weber, al quale il sistema delle norme giuridiche è continuamente sottomesso e da vari secoli: in effetti, quel che si definisce «spirito giuridico» o «senso giuridico», e che costituisce il vero diritto d’ingresso nel campo (unito evidentemente a una padronanza minima delle risorse giuridiche accumulate dal susseguirsi delle generazioni, ossia del corpus di testi canonici e del modo di pensare, di esprimersi e di agire nel quale si riproduce e che lo riproduce), consiste esattamente in questa postura universalizzante. Questa pretesa statutaria a una forma specifica di giudizio – non riducibile alle intuizioni sovente incostanti del senso di equità, dal momento che è fondata sulla deduzione logica sostanziale a partire da un corpo di regole sostenuto attraverso la sua coerenza interna – è uno dei fondamenti della complicità, generatrice di convergenza e di cumulatività, che unisce – all’interno e attraverso la competizione per la stessa posta in gioco – l’insieme, ancorché fortemente differenziato, degli agenti che vivono per mezzo della produzione e della vendita di beni e di servizi giuridici. Lo sviluppo di un corpo di regole e di procedure dalla pretesa universale è il prodotto di una divisione del 11

Cfr. J.-L. Souriaux e P. Lerat, Le langage du droit, PUF, Paris, 1975.

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l­avoro che deriva dalla logica spontanea della competizione tra differenti forme di competenza al contempo antagoniste e complementari che operano come una serie di tipi di capitale specifico e che sono associate a posizioni differenti all’interno del campo. Senza dubbio la storia comparata del diritto permette di osservare che, secondo le tradizioni giuridiche e secondo i vari momenti all’interno della medesima tradizione, le gerarchie variano tra le grandi classi di agenti giuridici che a loro volta variano in modo considerevole, a seconda delle epoche e delle tradizionali nazionali, e anche per via della specialità, per esempio diritto pubblico o diritto privato. Rimane il fatto che l’antagonismo strutturale, che anche nei sistemi più diversi contrappone le posizioni del «teorico» votate alla costruzione dottrinale pura e quelle del «pratico» che si limitano all’applicazione, è all’origine di una lotta simbolica permanente all’interno della quale si scontrano definizioni diverse del lavoro giuridico come interpretazione autorizzata dei testi canonici. Le diverse categorie di interpreti autorizzati tendono sempre a distribuirsi tra due poli estremi: da una parte, l’interpretazione rivolta verso l’elaborazione puramente teorica della dottrina, monopolio dei professori preposti all’insegnamento delle regole in vigore, in una forma normalizzata e formalizzata; dall’altra, l’interpretazione che si rivolge alla valutazione pratica di un caso specifico, appannaggio dei magistrati che espletano atti giurisprudenziali e che pertanto sono in grado di contribuire, almeno in alcuni casi, alla costruzione giuridica. Infatti, i produttori di leggi, di regole e di regolamenti devono sempre tener conto delle reazioni – e talvolta anche delle resistenze – dell’intera corporazione giuridica e, in particolar modo, degli esperti (avvocati, notai, etc.), i quali,­ 70

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come evidenziato chiaramente per esempio nel caso del diritto delle successioni, possono mettere la propria competenza giuridica a servizio degli interessi di alcune categorie di clienti e sono in grado di armare innumerevoli strategie grazie alle quali le famiglie e le imprese possono annullare gli effetti della legge. Il significato pratico della legge si determina realmente soltanto nel confronto tra corpi differenti, animati da interessi specifici divergenti (magistrati, avvocati, notai, etc.) ed essi stessi divisi in gruppi diversi, animati da interessi divergenti, se non persino contrapposti, in funzione soprattutto della loro posizione nella gerarchia interna dei corpi, che corrisponde sempre strettamente alla posizione della loro clientela all’interno della gerarchia sociale. Ne consegue che una storia sociale comparata della produzione giuridica e del discorso giuridico su questa produzione dovrebbe lavorare per mettere in relazione in modo metodico le prese di posizione all’interno di queste lotte simboliche e le posizioni nella divisione del lavoro giuridico: tutto permette di supporre che la tendenza a mettere l’accento sulla sintassi del diritto è caratteristica dei teorici e dei professori, mentre al contrario l’attenzione alla pragmatica concerne più probabilmente i giudici. Essa dovrebbe considerare anche la relazione esistente tra le variazioni, secondo il luogo e il momento, della forza relativa delle prese di posizione in favore di uno o dell’altro orientamento del lavoro giuridico e le variazioni della forza relativa dei due campi all’interno dei rapporti di forza che costituiscono la struttura del campo. La forma stessa del corpus giuridico, e in particolare il suo grado di formalizzazione e di normalizzazione, dipendono senza dubbio assai strettamente dalla forza 71

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relativa dei «teorici» e dei «pratici», dei professori e dei giudici, degli esegeti e degli esperti, all’interno dei rapporti di forza che caratterizzano lo stato di un campo (in un momento dato e all’interno di una determinata tradizione) e dalla loro rispettiva capacità di imporre la propria visione del diritto e la sua interpretazione. Si possono comprendere, di conseguenza, le differenze sistematiche esistenti che separano le tradizioni nazionali e, in particolare, la vasta divisione esistente tra la cosiddetta tradizione romano-germanica e quella anglo-americana. Nella tradizione tedesca e francese, il diritto (soprattutto quello privato), vero e proprio «diritto dei professori» (Professorenrecht) legato al primato della Wissenschaft – della dottrina – sulla procedura e su tutto ciò che concerne la prova o l’esecuzione della decisione, ritraduce e rafforza il dominio dell’alta magistratura (strettamente legata ai professori) su dei giudici che, essendosi formati all’Università, sono maggiormente inclini a riconoscere la legittimità delle sue costruzioni rispetto a dei lawyers formati in qualche modo «sul campo». Nella tradizione anglo-americana, al contrario, il diritto è un diritto giurisprudenziale (case-law), fondato pressoché esclusivamente su sentenze dei tribunali e sulla regola del precedente, nonché debolmente codificato; esso attribuisce priorità alle procedure, che devono essere eque (fair trial) e la cui gestione si acquisisce soprattutto con la pratica o attraverso tecniche pedagogiche che mirano ad avvicinarsi quanto più possibile alla pratica professionale – per esempio attraverso il «metodo dei casi», in uso in queste vere e proprie scuole professionali che sono le scuole di diritto. Lo statuto della regola del diritto, che in questo caso non pretende di fondarsi su una teoria morale o su una scienza razionale e ha l’obiettivo di fornire soltanto 72

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una soluzione a una causa, situandosi in modo deliberato al livello della casistica delle applicazioni particolari, si comprende meglio nel momento in cui si realizza che qui il grande giurista è il giudice che emerge dalle fila di chi pratica il diritto. Infatti, la forza relativa dei differenti tipi di capitale giuridico nelle diverse tradizioni deve senza dubbio essere messa in relazione con la posizione globale del campo giuridico all’interno del campo del potere, che, attraverso il peso relativo attribuito al «règne de la loi» (the rule of law) o alla regolamentazione burocratica, assegna i suoi limiti strutturali all’efficacia dell’azione propriamente giuridica. Nel caso della Francia, l’azione giuridica si ritrova oggi limitata dall’influenza che lo Stato e i tecnocrati provenienti dall’École Nationale d’Administration esercitano su vasti settori dell’amministrazione pubblica e privata. Negli Stati Uniti, al contrario, i lawyers provenienti dalle grandi scuole del diritto (come Harvard, Yale, Chicago e Stanford) possono occupare posizioni al di fuori dei limiti del campo giuridico propriamente detto, nella politica, nell’amministrazione, nella finanza o nell’industria. Ne conseguono differenze sistematiche, spesso evocate a partire da Tocqueville, per quanto concerne gli usi sociali del diritto e, più precisamente, rispetto al ruolo attribuito al ricorso giuridico nell’universo delle azioni possibili, soprattutto in materia di conflitti per la rivendicazione [di diritti]. L’antagonismo esistente tra i detentori dei diversi tipi di capitale giuridico, legati a interessi e visioni del mondo assai differenti nel loro lavoro specifico di interpretazione, non preclude la complementarità tra le funzioni e serve infatti da base per una forma sottile di divisione del 73

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lavoro di dominio simbolico dal quale gli avversari, obiettivamente complici, traggono vantaggi reciproci. Il canone giuridico è come una riserva di autorità che garantisce, alla stregua di una banca centrale, l’autorità dei singoli atti giuridici. Ciò serve a spiegare la debole inclinazione dell’habitus giuridico nei confronti di pose e posizioni profetiche e, al contrario, la propensione, particolarmente visibile nel caso dei giudici, al ruolo di lector, di interprete, che si rifugia dietro l’apparenza di mera applicazione della legge e che, nel momento in cui in cui performa l’atto di creazione giuridica, tende a dissimularlo12. Così come l’economista più direttamente coinvolto nei problemi pratici di gestione rimane legato – come in una «grande catena dell’Essere» alla Lovejoy – al teorico puro che produce teoremi matematici più o meno sprovvisti di referenti nel mondo economico reale, ma che nondimeno si distingue dal matematico puro per via del riconoscimento che alcuni economisti più impuri sono tenuti ad accordare alle sue teorie, allo stesso modo il semplice giudice delle corti inferiori (o, per arrivare sino agli ultimi anelli della catena, il poliziotto o la guardia carceraria) è legato al teorico del diritto puro e allo specialista del diritto costituzionale per mezzo di una catena di legittimità che strappa i suoi atti dalla categoria di violenza arbitraria13. È difficile in effetti non considerare il principio di una complementarietà funzionale e dinamica all’interno del conflitto permanente esistente tra le diverse rivendicazioni­ 12 Cfr. Travaux de l’Association Henri Capitant, tomo V, 1949, pp. 74-76, citato da R. David, Les grands courants du droit contemporain, Dalloz, Paris, 19735a, pp. 124-132. 13 Si ritroverà una catena della stessa forma tra teorici e «uomini di esperienza», negli apparati politici, o almeno in quelli che per tradizione si rifanno a una teoria economica e politica.

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che si contendono il monopolio dell’esercizio legittimo della competenza giuridica. I giuristi e gli altri teorici del diritto tendono a tirare il diritto nella direzione della teo­ria pura, ossia ordinato in un sistema autonomo e autosufficiente, purificato da tutte le incertezze o le lacune connesse alla sua genesi pratica attraverso una riflessione basata su considerazioni di coerenza e di giustizia. I giudici ordinari, e altri operatori, più attenti alle applicazioni che possono esserne fatte in situazioni concrete, orientano il diritto verso una sorta di casistica di situazioni concrete e piuttosto che ricorrere ai trattati teorici del diritto puro utilizzano strumenti di lavoro adatti alle esigenze e alla urgenza della pratica – repertori della giurisprudenza, formulari, dizionari di diritto (e domani banche dati)14. È chiaro che i giudici, per mezzo della loro pratica che li porta a confrontarsi direttamente con la gestione dei conflitti e per via di una domanda giuridica continuamente rinnovata, tendono ad assicurare la funzione di adattamento alla realtà di un sistema che, se fosse lasciato ai soli professori, rischierebbe di rinchiudersi in un rigido rigorismo razionale. Attraverso la libertà più o meno estesa che è loro lasciata in merito all’applicazione delle regole, i magistrati introducono i cambiamenti e le innovazioni indispensabili per la sopravvivenza del sistema 14 Un chiaro esempio del lavoro giuridico di codificazione che produce del giuridico a partire dal giudiziario è rappresentato dalle sentenze della Corte di Cassazione e dai processi di selezione, di normalizzazione e di diffusione che, a partire da un insieme di sentenze selezionate dai presidenti della camera per via del proprio «interesse giuridico», produce un corpo di regole razionalizzate e normalizzate. Cfr. E. Serverin, Une production communautaire de la jurisprudence: l’édition juridique des arrêts, in «Annales de Vaucresson», 23, 1985, pp. 73-89.

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che i teorici dovranno integrare nello stesso sistema. Da parte loro, attraverso il lavoro di razionalizzazione e di formalizzazione a cui sottopongono il corpo delle regole, i giuristi svolgono una funzione di assimilazione necessaria per assicurare la coerenza e la costanza nel tempo di un insieme sistematico di principi e norme; tali principi e norme non sono riducibili alla serie talvolta contradditoria, complessa e, alla lunga, difficile da gestire di atti di giurisprudenza successivi. Nello stesso tempo i giuristi offrono ai giudici, spesso inclini per via della loro posizione e delle loro disposizioni ad affidarsi solo al loro senso giuridico, il mezzo di separare i loro verdetti dall’arbitrarietà troppo visibile di una Kadijustiz15. Compito dei giuristi, almeno nella tradizione romano-germanica, non è descrivere le pratiche esistenti o le condizioni operative delle regole ritenute appropriate, ma di mettere in forma i principi e le regole coinvolte in queste pratiche, elaborando un corpo sistematico di regole fondato su principi razionali e destinato a un’applicazione universale. Essi partecipano al contempo a un modo di pensare teologico, nel 15 Con il concetto di Kadi-Justiz, di giustizia del cadì, si concepi-

sce nel diritto islamico la giustizia ordinaria amministrata dal cadì, magistrato di nomina politica. L’espressione in Bourdieu tuttavia è tratta da Max Weber che considera la KadiJustiz come forma idealtipica del diritto irrazionale e, pertanto, di tipo personalistico ed imprevedibile, come forma di diritto irrazionale-materiale che si contrappone al diritto formale-razionale; secondo Weber essa si ritrova ancora nelle società occidentali, per esempio nella «giustizia popolare dei giurati», nelle giurie popolari o negli esperti, in forme residuali che attenuano il razionalismo giuridico formale, che sono incompatibili con i principi di razionalità e di calcolabilità e che, inoltre, sono considerate come una minaccia dai giuristi di professione. Cfr. M. Weber, Economia e società [1922], vol. III, Edizioni di Comunità, Milano, 2000, p. 198 ss. (N.d.C).

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senso che cercano la rivelazione del giusto nella scrittura della legge, e a un modo di pensare logico nella misura in cui pretendono di mettere in atto il metodo deduttivo per produrre applicazioni della legge a casi particolari. Essi intendono fondare così una «scienza nomologica», che enuncerebbe in termini scientifici il dover-essere; come se cercassero di unire i due significati distinti di «legge naturale», essi praticano una esegesi finalizzata a razionalizzare il diritto positivo attraverso un lavoro di controllo logico necessario per assicurare la coerenza del corpus giuridico e anche per dedurre dai testi e dalle loro combinazioni conseguenze non previste e colmare, in questo modo, le famose «lacune» del diritto. Bisogna certamente guardarsi dal sottovalutare l’efficacia storica di questo lavoro di codificazione che, incorporandosi al suo oggetto, diventa uno dei fattori principali della sua trasformazione; non bisogna neanche lasciarsi trarre in errore dalla rappresentazione esaltata dell’attività giuridica proposta dai teorici indigeni – come Motulsky che cerca di mostrare come la «scienza giuridica» si definisca attraverso un metodo specifico e deduttivo di trattamento dei dati, il «sillogismo giuridico», che permette di sussumere i casi particolari sotto una regola generale16. 16 H. Motulsky, Principes d’une réalisation méthodique du droit privé. La théorie des éléments générateurs des droits subjectifs, Tesi di dottorato, Parigi Sirey, 1948, in particolare alle pp. 47-48. Come quegli epistemologi che ricostruiscono ex post la pratica concreta del ricercatore e che indicano quali caratteri dovrebbe assumere l’approccio scientifico, Motulsky ricostruisce ciò che sarebbe (o dovrebbe essere) il «metodo di realizzazione» appropriato al diritto, distinguendo tra una fase di ricerca della «regola possibile», una sorta di esplorazione metodica dell’universo delle regole del diritto, e una fase di applicazione, con il passaggio alla regola direttamente applicata al caso considerato.

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Per coloro che non partecipano all’adesione immediata ai presupposti sui quali si basa lo stesso funzionamento del campo che implica l’appartenenza al campo (illusio), appare difficile credere che le costruzioni più pure del giurista, senza parlare degli atti di giurisprudenza del giudice ordinario, obbediscano alla logica deduttivista che coincide con il «punto d’onore spirituale» del giurista professionista. Come mostrato in modo chiaro dai «realisti», è perfettamente inutile cercare di sviluppare una metodologia giuridica perfettamente razionale. L’applicazione necessaria di una regola del diritto a una caso particolare è in realtà il confronto tra diritti antagonisti tra i quali il tribunale ha il compito di scegliere; la «regola» tratta da un caso precedente non può essere mai applicata meramente così come è a un nuovo caso, dal momento che non possono mai esistere due casi perfettamente identici e che il giudice deve determinare se la regola applicata al primo caso può o meno essere estesa sino a comprendere il nuovo caso17. In breve, lungi dal considerare che il giudice sia sempre un semplice esecutore il cui ruolo consiste nel dedurre dalla legge conclusioni direttamente applicabili al caso specifico, egli dispone di una parte di autonomia che costituisce senza dubbio la migliore misura della sua posizione all’interno della struttura della distribuzione del capitale specifico di autorità giuridica18; i suoi giudizi che 17 F. Cohen, Transcendental Nonsense and the Functional Approach, in «Columbia Law Review», 35, 1935, pp. 808-819. 18 La libertà lasciata all’interpretazione varia in modo considerevole quando passiamo dalla Corte di Cassazione (che può annullare «la forza della legge», per esempio proponendo un’interpretazione rigida, come accaduto nel caso della legge del 5 aprile 1910 sulle «pensioni operaie e dei contadini») ai giudici dei tribunali

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si ispirano a una logica e a valori vicini a quelli dei testi sottoposti alla sua interpretazione, hanno in realtà una vera funzione di invenzione. Se l’esistenza delle regole scritte tende senza alcun dubbio a ridurre la variabilità di comportamenti, resta il fatto che le condotte degli agenti giuridici possono riferirsi e piegarsi più o meno rigorosamente alle esigenze della legge e che nelle decisioni giudiziarie rimane pur sempre una parte di arbitrarietà, imputabile a variabili di tipo organizzativo come nel caso della composizione dell’organo decisionale o delle caratteristiche delle persone passibili di giudizio [justiciables] all’interno delle decisioni giudiziarie (come anche nell’insieme di atti che le precedono e le predeterminano, quali le decisioni della polizia che concernono l’arresto). di grado inferiore che per via della loro formazione e della loro «deformazione» professionale sono inclini ad abdicare alla libertà di interpretazione di cui in teoria dispongono e ad applicare interpretazioni codificate a situazioni codificate (motivazioni relative ai disegni di legge, dottrina e commenti dei giuristi, professori o giudici, sentenze della Corte di Cassazione). Possiamo prendere in prestito dalle osservazioni di Remi Lenoir l’esempio di quel tribunale di un quartiere popolare di Parigi in cui, tutti i venerdì mattina, l’udienza è consacrata in modo specifico a un contenzioso, sempre lo stesso, relativo alla risoluzione dei contratti di vendita o di locazione, e designato col nome di una azienda di affitto e di pagamento a rate di elettrodomestici e di televisioni; i giudizi, del tutto predeterminati, sono assai veloci e gli avvocati, nel caso siano presenti (il che è molto raro) si esimono dal prendere la parola. (La presenza di un avvocato può certo rivelarsi utile, provando che anche a questo livello esiste un potere di interpretazione, senza dubbio perché è percepita come un segno di riverenza nei confronti del giudice e dell’istituzione che, proprio per questo, merita una certa considerazione – la legge non è applicata in tutto il suo rigore –;­ e anche perché la presenza degli avvocati costituisce un’indicazione sull’importanza accordata al giudizio e sui rischi d’appello).

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L’interpretazione opera una storicizzazione della norma, adattando le fonti a circostanze nuove, scoprendovi possibilità inedite e tralasciando ciò che è superato o obsoleto. Tenuto conto della straordinaria elasticità dei testi, che talvolta giunge sino all’indeterminazione o all’ambiguità, l’operazione ermeneutica di declaratio dispone di un’immensa libertà. Non è raro che il diritto, strumento docile, adattabile, flessibile, polimorfo, sia utilizzato per razionalizzare ex post decisioni alle quali non ha contribuito. Giuristi e giudici dispongono tutti, sebbene in misura diversa, del potere di utilizzare la polisemia o l’anfibologia delle formule giuridiche ricorrendo sia alla restrictio, procedura necessaria per evitare di applicare una legge che, se intesa in termini letterali, dovrebbe essere applicata, sia all’extensio, procedura che permette di applicare una legge che, presa alla lettera, non dovrebbe esserlo, sia ancora a tutta una serie di tecniche che, come l’analogia, la distinzione tra la lettera e lo spirito, etc., tendono a massimizzare l’utilità dall’elasticità della legge, e anche dalle sue contraddizioni, ambiguità e dalle sue lacune19. L’interpretazione della 19 Mario Sbriccoli propone un inventario di procedimenti codificati che permettevano ai giuristi (avvocati, magistrati, esperti, consiglieri politici, etc.) delle piccole comunità italiane medievali di «manipolare» il corpus giuridico. Per esempio, la declaratio si può basare sulla rubrica, la materia della norma, l’uso e il significato corrente dei termini, la loro etimologia, strumenti che a loro volta si suddividono tanto e può giocare delle contraddizioni tra la rubrica e il testo partendo dall’una per comprendere l’altro e viceversa. Cfr. M. Sbriccoli, L’interpretazione dello statuto. Contributo allo studio della funzione dei giuristi nell’età comunale, Giuffrè, Milano, 1969 e Id., Politique et interprétation juridiques dans le villes italiennes du Moyen-âge, in «Archives de philosophie du droit», XVII, 1972, pp. 99-113.

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legge,­infatti, non è mai l’atto solitario di un magistrato che si occupa di dare fondamento giuridico a una decisione – almeno nella sua genesi – estranea alla ragione e al diritto; non sarà un interprete attento a produrre un’applicazione fedele della regola, come crede Gadamer, e nemmeno un logico legato al rigore deduttivo del suo «metodo di realizzazione», come vorrebbe Motulsky: il contenuto pratico della legge che si rivela nel verdetto è l’esito di una lotta simbolica tra professionisti dotati di competenze tecniche e sociali diseguali, dunque inegualmente capaci di mobilitare le risorse giuridiche disponibili, attraverso la ricerca e l’utilizzo di «regole possibili», e di utilizzarle in modo efficace, vale a dire come armi simboliche per far prevalere la propria causa. L’effetto giuridico della regola, ossia il suo significato rea­ le, si determina nel rapporto di forza specifico tra i professionisti; ne deriva che si può pensare che il rapporto di forze tenda a corrispondere (a parità di condizioni dal punto di vista del valore in termini di pura equità tra le parti interessate) al rapporto di forza tra le parti passibili di giudizio [les justiciables]. Attribuendo lo status di verdetto a una decisione giudiziaria che deve maggiormente a disposizioni etiche degli agenti che a norme pure del diritto, il lavoro di razionalizzazione conferisce alla decisione efficacia simbolica; efficacia simbolica esercitata da ogni azione quando, ignoratane l’arbitrarietà, venga riconosciuta come legittima. Il principio di tale efficacia deriva almeno in parte dal fatto che, tranne che nei casi in cui ha luogo una speciale vigilanza, l’impressione della necessità logica suggerita dalla forma tende a contaminare il contenuto. Il formalismo razionale o razionalizzante del diritto razionale – che si tende a contrapporre, con Weber, al formalismo magico­ 81

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dei riti e delle procedure arcaiche di giudizio (come il giuramento individuale o collettivo) –, partecipa all’efficacia simbolica del diritto più razionale20. Il rito destinato a esaltare l’autorità dell’atto di interpretazione – come la lettura formale dei testi, l’analisi e la proclamazione dei giudizi, etc. – intorno al quale, sin dai tempi di Pascal, si concentra l’analisi, non fa che accompagnare tutto il lavoro collettivo di sublimazione destinato ad attestare che la decisione esprime non la volontà o la visione del mondo del giudice ma la voluntas legis (o legislatoris).

L’istituzione del monopolio In realtà l’istituzione di uno «spazio giuridico» implica l’imposizione di un confine tra coloro che sono preparati per partecipare al gioco e coloro che, quando vi si ritrovino gettati, ne restano di fatto esclusi, privati della capacità di compiere la conversione dello spazio mentale – e in particolare della posizione linguistica – che presuppone l’ingresso in questo spazio sociale. La costituzione di una competenza specificatamente giuridica, conoscenza tecnica di un sapere esperto spesso in antinomia con le semplici raccomandazioni del senso comune, comporta il discredito del senso di giustizia dei non specialisti e la revoca della loro costruzione spontanea dei fatti, della loro «visione del caso». Lo scarto esistente tra la visione volgare di chi che sta per diventare passibile di giudizio [justiciable], ossia un cliente, e la visione scien20 Cfr. P. Bourdieu, Ce que parler veut dire, Paris, Fayard, 1982 sull’effetto di messa in forma pp. 20-21 e sull’effetto di istituzione p. 125 e ss.

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tifica dell’esperto,­ del giudice, dell’avvocato, del consulente legale, etc., non ha nulla di casuale; si tratta infatti di un aspetto che costituisce un rapporto di potere, che fonda due sistemi differenti di presupposti, di intenzioni espressive, in una parola, due visioni del mondo. Questo scarto, che è il fondamento di uno spossessamento, deriva dalla definizione di un sistema di prescrizioni – attraverso la medesima struttura del campo e del sistema dei principi di visione e di divisione che è inscritto nella sua legge fondamentale, la sua costituzione – il cui nucleo fondamentale è costituito dall’adozione di una postura generale, ravvisabile soprattutto nel settore del linguaggio. Se vi è generalmente accordo sul fatto che, come nel caso di qualunque linguaggio scientifico (il linguaggio filosofico per esempio), il linguaggio giuridico consiste in un uso specifico del linguaggio comune, gli analisti hanno notevoli difficoltà a scoprire il principio di questa «combinazione di dipendenza e di indipendenza»21. Non ci si può accontentare infatti di invocare l’effetto di contesto o di «rete» nel senso di Wittgenstein, il quale allontana le parole e le espressioni ordinarie dal loro senso ordinario. La trasmutazione che incide sull’insieme dei tratti linguistici è legata all’adozione di una posizione generale che non è altro che la forma incorporata di un sistema di principi di visione e di divisione che costituisce un campo esso stesso caratterizzato dall’indipendenza raggiunta all’interno e per mezzo della dipendenza. Austin si stupiva del fatto che non ci si domandi mai seriamente il motivo per cui «chiamiamo cose diverse con lo stesso nome»; 21 Ph. Vissert Hooft, La philosophie du langage ordinaire et le droit, in «Archives de philosophies du droit», XVII, 1972, pp. 261-284.

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e perché, si potrebbe aggiungere, non è un problema farlo. Se il linguaggio giuridico si può permettere di usare una parola per nominare cose del tutto differenti da ciò che quella parola indica nell’uso comune, ciò accade per il fatto che i due usi sono associati a posizioni linguistiche tanto radicalmente esclusive quanto la coscienza percettiva e quella immaginativa secondo la fenomenologia; in modo che la «collisione omonimica» (o il malinteso) che deriva dall’incontro di due significati nello stesso spazio è estremamente improbabile. Il principio dello scarto tra i due significati, che solitamente si attribuisce ad un effetto di contesto, non è altro che la dualità di spazi mentali, legati a spazi sociali differenti che li sostengono. Questa discordanza posturale coincide con il fondamento strutturale di tutti i fraintendimenti che possono prodursi tra chi utilizza un linguaggio scientifico (i medici, i giudici, etc.) e i semplici profani, sia a livello sintattico che a livello lessicologico; tra i fraintendimenti più significativi vi sono quelli che sorgono nel momento in cui le parole del linguaggio ordinario, allontanate dal loro senso comune per il tramite dell’uso scientifico, diventano per il profano «falsi amici»22. La situazione giuridica funziona come luogo neutro che opera una vera e propria neutralizzazione degli interessi in gioco attraverso la derealizzazione e il distanziamento implicati nella trasformazione del confronto diretto degli interessati in dialogo tra mediatori. Nel momento in cui si presentano terze parti indifferenti alla posta in gioco diretta (il che non significa che siano­ 22 È il caso, per esempio, della parola «causa» che non possiede per niente, nell’uso comune, il significato che le attribuisce il diritto; cfr. Ph. Vissert Hooft, op. cit.

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disinteressati) e preparati a comprendere le realtà intense del presente facendo riferimento a testi antichi e a precedenti comprovati, gli agenti specializzati, senza neanche volerlo o senza rendersene conto, introducono una distanza neutralizzante che, almeno nel caso dei magistrati, è una sorta di imperativo funzionale che si inscrive nella parte più profonda dell’habitus. Le disposizioni contemporaneamente ascetiche e aristocratiche, che sono la realizzazione incorporata del dovere di riservatezza, sono costantemente richiamate e rafforzate dal gruppo dei pari, sempre pronto a condannare e a censurare coloro i quali si compromettono in modo troppo palese con questioni di denaro o di politica. In breve, la trasformazione dei conflitti di interesse inconciliabili in scambi regolati di argomentazioni razionali tra soggetti uguali è iscritta nell’esistenza stessa di un personale specializzato, indipendente dai gruppi sociali in conflitto e responsabile di organizzare secondo forme codificate la manifestazione pubblica dei conflitti sociali e di apportarvi soluzioni riconosciute socialmente come imparziali perché definite secondo le regole formali e coe­renti da un punto di vista logico di una dottrina percepita come indipendente dagli antagonismi circostanti23. In tal senso, la rappresentazione interna che descrive il tribunale come uno spazio separato e delimitato, in cui il conflitto si converte in dialogo tra esperti, e il processo come progressione ordinata verso la verità24, evoca in modo 23 Il ricorso legale implica, in moltissimi casi, il riconoscimento di una definizione delle forme di rivendicazione o di lotta che privilegia le lotte individuali (e legali) a scapito delle altre forma di lotta. 24 «Pertanto il diritto nasce dal processo, dialogo regolato, il cui metodo è la dialettica». Cfr. M. Villey, Philosophie du droit, II, Paris, Dalloz, 1979, p. 53.

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chiaro una delle dimensioni dell’effetto simbolico dell’azione giuridica come applicazione libera e razionale di una norma universale e fondata scientificamente25. Compromesso politico tra esigenze inconciliabili che si presenta come una sintesi logica tra tesi antagoniste, la sentenza giudiziaria condensa tutta l’ambiguità del campo giuridico. Essa deve la sua efficacia specifica al fatto che partecipa contemporaneamente sia alla logica del campo politico che si organizza attorno all’opposizione tra gli amici o gli alleati e i nemici e tende ad escludere l’intervento arbitrale di un terzo sia a quella del campo scientifico che, nel momento in cui ha raggiunto un alto grado di autonomia, tende a conferire prevalenza pratica alla contrapposizione tra il vero e il falso, conferendo un potere arbitrale di fatto alla concorrenza tra pari26. Il campo giudiziario è lo spazio sociale organizzato nel quale e per mezzo del quale si opera la trasmutazione di un conflitto diretto tra parti direttamente interessate in dibattimento regolato giuridicamente tra 25 Tutto nelle rappresentazioni della pratica giuridica (concepita come decisione razionale o come applicazione deduttiva di una regola del diritto) e nella stessa dottrina giuridica (che tende a concepire il mondo sociale come semplice aggregato di azioni compiute da soggetti di diritto razionali, eguali e liberi) predispone i giuristi, in altri tempi affascinati da Kant o da Gadamer, a ricercare nella Rational Action Theory gli strumenti di un aggiornamento delle giustificazioni tradizionali del diritto (rinnovamento eterno delle tecniche di eternizzazione…). 26 La tradizione filosofica (e in particolare Aristotele nei Topici) evoca in modo quasi esplicito la costituzione del campo sociale che è il principio della costituzione dello scambio verbale come discussione euristica orientata in termini espliciti – in contrapposizione con il dibattito eristico – verso la ricerca di proposizioni valide per un uditorio universale.

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professionisti­che agiscono per procura e che condividono la capacità di conoscere e di riconoscere la regola del gioco giuridico, vale a dire le leggi scritte e non scritte del campo; si tratta di quelle regole che bisogna conoscere per trionfare contro la lettera della legge (in Kafka, l’avvocato è inquietante tanto quanto il giudice). Nella definizione spesso proposta, da Aristotele a Kojève, del giurista come «terzo mediatore», l’essenziale consiste nell’idea di mediazione (e non in quella di arbitrato) insieme a ciò che essa implica, ossia la perdita della relazione di appropriazione diretta e immediata della propria causa: di fronte ai contendenti si erge un potere trascendente, irriducibile alla contrapposizione tra visioni private del mondo, che non è altro che la struttura e il funzionamento dello spazio socialmente istituito in cui ha corso questo stesso conflitto. L’ingresso nell’universo giuridico si accompagna a una ridefinizione complessiva dell’esperienza ordinaria e della situazione stessa che rappresenta la posta in gioco della controversia per il fatto stesso di implicare l’accettazione tacita della legge fondamentale del campo giuridico, una tautologia costitutiva che prevede che i conflitti siano regolati soltanto in termini giuridici, ossia secondo le regole e le convenzioni del campo giuridico. La costituzione del campo giuridico è un principio di costituzione della realtà (e questo è vero per ogni campo). Entrare nel gioco, accettare di far parte del gioco, rimettersi al diritto per regolare il conflitto significa accettare tacitamente di adottare un modo espressivo e di discussione che implica la rinuncia alla violenza fisica e alle forme elementari della violenza simbolica come l’ingiuria. Significa anche e soprattutto riconoscere le esigenze specifiche della costruzione giuridica dell’oggetto: dal momento che i fatti giuridici sono 87

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il prodotto della costruzione giuridica (e non viceversa), una ritraduzione vera e propria di tutti gli aspetti della «causa» è necessaria, come dicevano i romani, per ponere causam, per costituire l’oggetto della controversia in quanto causa, ossia come problema giuridico che diventa oggetto di dibattiti regolati in termini giuridici; tale ritraduzione è inoltre necessaria per considerare tutto ciò (e soltanto ciò) che dal punto di vista del principio della pertinenza giuridica merita di essere sostenuto, tutto ciò che può valere come fatto, come argomento favorevole o sfavorevole, etc. Tra le condizioni che sono iscritte implicitamente nel contratto che definisce l’ingresso nel campo giuridico se ne possono indicare, seguendo Austin, almeno tre: in primo luogo, il fatto che si debba arrivare a una decisione, e a una decisione «relativamente bianca o nera, colpevole o non colpevole, per l’accusa o la difesa»; in secondo luogo, il fatto che l’accusa e le arringhe difensive debbano riferirsi a una delle categorie procedurali riconosciute che si sono imposte nel corso della storia e che, a dispetto del loro numero, restano assai limitate e stereotipate rispetto alle accuse e alle difese che si ritrovano nella vita quotidiana (il che fa sì che conflitti o argomenti di ogni tipo possano essere considerati come non pertinenti alla legge, a causa della loro trivialità, o come eccedenti la legge, a causa del loro carattere esclusivamente morale); e infine, terzo, il fatto che ci si debba riferire e conformarsi a dei precedenti può comportare distorsioni delle espressioni e delle credenze ordinarie27. 27

Da questo insieme di esigenze costitutive della visione del mondo giuridico deriva, secondo Austin, il fatto che i giuristi non attribuiscono alle espressioni ordinarie il loro senso ordinario e che, oltre a inventare termini tecnici o significati tecnici per i termini or-

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Lo stare decisis, ossia la regola che prescrive di attenersi alle decisioni giuridiche precedenti per decidere in termini giuridici, sta al pensiero giuridico come il precetto durkheimiano «spiegare il sociale con il sociale» sta al pensiero sociologico: non è altro che un modo ulteriore per affermare l’autonomia e la specificità del ragionamento e del giudizio giuridici. Il riferimento a un corpus di precedenti riconosciuti, che funziona come uno spazio dei possibili all’interno del quale può essere ricercata la soluzione, è quel che fonda dal punto di vista della ragione – facendola apparire come il risultato di un’applicazione neutra e oggettiva di una competenza specificamente giuridica – una decisione che può ispirarsi in realtà a principi di tutt’altra natura. Tra vari altri aspetti, i precedenti sono utilizzati sia come strumenti di razionalizzazione che come ragioni determinanti; lo stesso precedente, inteso in maniera differente, può essere invocato per giustificare tesi opposte; inoltre la tradizione giuridica offre una vasta varietà di precedenti e di interpretazioni tra i quali è possibile scegliere quelli che si considerino più adeguati28. In ragione di ciò, bisogna evidentemente fare attenzione a non fare dello stare decisis una sorta di postulato razionale in grado di garantire la costanza e le prevedibilità, e anche l’oggettività delle decisioni giudiziarie (considerate come limitazioni nei confronti dell’arbitrarietà delle decisioni soggettive). La prevedibilità e la calcolabilità che Weber attribuisce al «diritto razionale» si basano senza dubbio soprattutto sulla stabilità e sulla dinari, intrattengono un rapporto speciale con il linguaggio che li porta a procedere verso estensioni o restrizioni insolite. Cfr. J.-L. Austin, Philosophical papers, Clarendon Press, Oxford, 1961, p. 136. 28 Cfr. D. Kayris, Legal reasoning, in D. Kayris (a cura di), The politics of law, Pantheon Books, New York, 1982, pp. 11-17.

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omogeneità degli habitus giuridici; plasmate attraverso gli studi giuridici e la pratica delle professioni giuridiche sulla base di esperienze familiari simili, le disposizioni comuni operano come categorie di percezione e di valutazione che strutturano la percezione e la valutazione dei conflitti ordinari e che orientano il lavoro destinato a convertirle in scontri di tipo giuridico29. Ci si può basare sulla cosiddetta tradizione della «dispute theory» (senza tuttavia accettarne tutti i presupposti) per fare una descrizione del lavoro collettivo di «categorizzazione» che tende a trasformare un’offesa percepita o non percepita in un danno esplicitamente imputabile e a trasformare una semplice disputa in un’azione legale. Nulla è meno naturale in effetti del «bisogno giuridico» o, detto altrimenti, della sensazione di ingiustizia che può portare a ricorrere ai servizi di un professionista: sappiamo infatti che la sensibilità nei confronti dell’ingiustizia o la capacità di percepire una esperienza come ingiusta non è diffusa uniformemente e dipende strettamente dalla posizione occupata nello spazio sociale. Ossia il passaggio dal torto non percepito a quello percepito, nominato e attribuito in modo specifico, presuppone un lavoro di costruzione della realtà sociale che ricade, in larga misura, sui professionisti. La scoperta dell’ingiustizia in quanto tale si basa sul sentimento di possedere dei diritti (entitlement), e il potere specifico dei professionisti consiste nella capacità di rivelare i diritti e nello stesso tempo le ingiustizie o, al 29

Alcuni legal realists, rifiutando alla regola qualsiasi efficacia specifica, sono arrivati persino a ridurre il diritto alla semplice regolarità statistica, garante della prevedibilità del funzionamento delle istanze giuridiche.

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c­ ontrario, di condannare il sentimento di ingiustizia fondato esclusivamente sul senso di equità, scoraggiando con ciò la difesa giudiziaria di diritti soggettivi. In breve, il potere dei professionisti consiste nella capacità di manipolare le aspirazioni giuridiche, di crearle in certi casi, di amplificarle oppure di scoraggiarle in altri. Uno dei poteri più significativi dei lawyers è rappresentato dal lavoro di espansione, di amplificazione delle dispute; si tratta di un lavoro specificatamente politico che consiste nel trasformare le definizioni comuni trasformandone le parole o le etichette attribuite alle persone o alle cose, ossia, il più delle volte, ricorrendo alle categorie del linguaggio giuridico per fare rientrare la persona, l’azione, la relazione all’interno di una classe più vasta30. Sono sempre i professionisti a creare il bisogno delle proprie prestazioni costituendo in problemi giuridici i problemi espressi nel linguaggio ordinario dopo averli tradotti nel linguaggio del diritto e proponendo una valutazione anticipata delle possibilità di successo e delle conseguenze derivanti dalle diverse strategie. Non vi è dubbio che essi siano guidati nel loro lavoro di costruzione delle dispute da interessi economici, ma anche dalle proprie disposizioni etiche o politiche, su cui si fondano inoltre, socialmente, le affinità con i propri clienti (sappiamo per esempio che vari lawyers scoraggiano le rivendicazioni legittime dei propri clienti nei confronti delle grandi aziende, specialmente in materia di diritto dei consumatori). Infine, e soprattutto, i professionisti sono guidati dai propri interessi specifici che si ­definiscono 30 Sul lavoro di espansione vd. L. Mather e B. Yngvesson, Language, audience and the transformation of disputes, in «Law and Society Review», 15, 3-4, 1980-1981, pp. 776-821.

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all’interno di relazioni oggettive con altri specialisti e che si concretizzano per esempio in tribunale (dando luogo a negoziazioni implicite o esplicite). L’effetto di chiusura che tende a esercitare il funzionamento stesso del campo si manifesta nel fatto che le istituzioni giuridiche tendono a produrre delle vere e proprie tradizioni specifiche, e in particolare delle categorie di percezione e di valutazione fortemente irriducibili a quelle dei non specialisti, costruendo i propri problemi e le loro soluzioni secondo una logica totalmente ermetica e inaccessibile ai profani31. Il cambiamento dello spazio mentale che è associato logicamente e praticamente al cambiamento di spazio sociale assicura il controllo della situazione a coloro che posseggono competenze giuridiche, i soli capaci di adottare le disposizioni che permettono di costituire questa situazione conformemente alla legge fondamentale del campo. Il campo giuridico riduce coloro che, accettando di farvi ingresso, rinunciano tacitamente a gestire direttamente i propri conflitti (attraverso il ricorso alla forza o a forme di arbitrato non ufficiali o attraverso la ricerca diretta di una soluzione amichevole) allo stato di clienti dei professionisti giuridici; esso trasforma gli interessi pre-giuridici degli agenti in cause giuridiche e in capitale giuridico la competenza che garantisce la gestione delle risorse giuridiche richieste dalla logica del campo. La costituzione del campo giuridico è inseparabile 31 Cfr. su questi aspetti, W.L.F. Felstiner, R.L. Abel, A. Sarat, The emergence and transformation of disputes: naming, blaming, claiming, in «Law and Society Review», 15, 3-4, 1980-1981, pp. 631-654; D. Coates, S. Pensord, Social psychology and the emergence of disputes, cit., pp. 654-680; L. Mather, B. Yngvesson, op. cit.

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dalla creazione del monopolio dei professionisti sulla produzione e sulla commercializzazione di questa categoria particolare di prodotti che sono i servizi giuridici. La competenza giuridica è una forma di potere specifico che permette di controllare l’accesso al campo definendo quei conflitti che meritano di farvi accesso nonché la forma specifica che devono rivestire per costituirsi in dibattimenti giuridici veri e propri; essa soltanto può fornire le risorse necessarie per compiere il lavoro di costruzione che, attraverso la selezione delle proprietà pertinenti, permette di ridurre la realtà a quella finzione efficace che è rappresentata dalla sua definizione giuridica. Il corpo dei professionisti si definisce per mezzo del monopolio degli strumenti necessari alla costruzione giuridica che è, di per sé, una forma di appropriazione; la rilevanza dei profitti che assicura a ciascuno dei suoi membri il monopolio del mercato dei servizi giuridici dipende dal grado per mezzo del quale esso è in grado di controllare la produzione dei produttori, ossia la formazione e soprattutto la consacrazione da parte delle istituzioni formative degli agenti giuridicamente autorizzati a vendere i propri servizi e, a partire da ciò, l’offerta dei servizi giuridici. Una delle migliori verifiche di quanto sin ora asserito è rappresentato dagli effetti determinati, sia in Europa che negli Stati Uniti, dalla crisi delle modalità di accesso tradizionali alle professioni giuridiche (così come accade nella corporazione dei medici, degli architetti e di altri possessori di diverse specie di capitale culturale). Tali sono per esempio i tentativi volti a limitare l’offerta e gli effetti dell’intensificazione della concorrenza (come l’abbassamento degli introiti) per mezzo di misure tese 93

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a ­rafforzare le barriere all’accesso nella professione (numerus clausus) o ancora gli sforzi per accrescere la domanda, attraverso i modi più diversi. Si va dalla pubblicità, più frequente negli USA, sino all’azione di gruppi militanti il cui effetto (che non equivale a dire il fine) consiste nella creazione di nuovi mercati per i servizi legali, promuovendo i diritti delle minoranze svantaggiate o incoraggiando quest’ultime a far valere i propri diritti e, più generalmente, provando a fare in modo che i poteri pubblici contribuiscano in modo diretto o indiretto a sostenere la domanda di servizi giuridici32. In questo modo gli sviluppi recenti del campo giuridico permettono di osservare direttamente il processo di costituzione appropriativa – accompagnato dal relativo spossessamento dei semplici profani – che tende a creare una domanda facendo rientrare nell’ordine giuridico un dominio di pratiche sociali sino ad allora abbandonato a forme pre-giuridiche di risoluzione dei conflitti. Per esempio, rispetto alle cause relative ai contratti di lavoro, sono esistite forme di arbitrato basate sul senso di giustizia ed esercitate da esperti secondo procedure assai semplici ormai divenute oggetto del processo di annessione nel campo giuridico33. A causa della complicità oggettiva esistente tra i rappresentanti sindacali più istruiti e alcuni giuristi i quali, a favore di una sollecitudine­­generosa 32 Rispetto agli effetti dell’accrescimento della popolazione dei lawyers negli USA, si veda R.L. Abel, Toward a political economy of lawyers, in «Wisconsin Law Review», 5, 1981, pp. 1117-1187. 33 Cfr. P. Cam, Juges rouges et droit du travail, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 19, janvier, 1978, pp. 2-27 e Id., Les prud’hommes, juges ou arbitres, FNSP, Paris, 1981; e soprattutto J.-P. Bonafé-Schmitt, Pour une sociologie du juge prud’homal, in «Annales de Vaucresson», 23, 1985, pp. 27-50.

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nei confronti degli interessi dei soggetti più svantaggiati, hanno esteso il mercato offerto ai loro servizi, questa enclave di autoconsumo giuridico si è ritrovata a poco a poco integrata all’interno del mercato controllato dai professionisti. Sempre più di frequente i consulenti sono stati costretti ad appellarsi al diritto per produrre e giustificare le proprie decisioni, soprattutto perché i querelanti e i difensori tendono sempre di più a posizionarsi nel campo giuridico e a ricorrere ai servizi offerti da avvocati, e anche perché la moltiplicazione degli appelli costringe i probiviri incaricati di arbitrare le vertenze di lavoro a riferirsi alle sentenze dell’Alta Corte – effetto di cui si avvantaggiano le rassegne di giurisprudenza e i professionisti che sono sempre più spesso consultati dai datori di lavoro o dai sindacati34. In breve, man mano che un campo (in questo caso un sotto-campo) si costituisce, si mette in moto un processo di rafforzamento circolare: ogni «progresso» nel senso della «giuridicizzazione» di una dimensione della pratica genera la comparsa di nuovi «bisogni giuridici», dunque di nuovi interessi giuridici di coloro i quali, essendo in possesso delle competenze specificatamente richieste (in questo caso la conoscenza del diritto del lavoro), vi ritrovano un nuovo mercato. Costoro, per via del loro intervento, determinano un incremento del formalismo giuridico delle procedure e contribuiscono pertanto a rafforzare il bisogno dei loro servizi e dei loro prodotti, determinando l’esclusione di fatto dei non esperti, costretti a ricorrere di fatto ai consigli dei professionisti, 34 Cfr. Y. Dezalay, De la médiation au droit pur: pratiques et représentations savantes dans le champ du droit, in «Annales de Vaucresson», 21, octobre 1984, pp. 118-148.

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che a poco a poco prenderanno il posto dei querelanti e dei convenuti, trasformati cosi in semplici parti in giudizio (justiciables)35. All’interno della stessa logica, si è potuto mostrare che la volgarizzazione militante del diritto del lavoro, che garantisce a un numero rilevante di non-professionisti una buona conoscenza delle regole e delle procedure giuridiche, non ha l’effetto di assicurare una riappropriazione del diritto da parte degli utilizzatori a scapito del monopolio dei professionisti. Essa piuttosto determina uno spostamento della frontiera esistente tra i profani e i professionisti che, pressati dalla logica della concorrenza in seno al campo giuridico, devono intensificare la scientificità per conservare il monopolio dell’interpretazione legittima e scongiurare la svalutazione associata a una disciplina che occupa una posizione inferiore nel campo giuridico36. Si osservano molte altre manifestazioni di questa tensione che si verifica tra la ricerca dell’estensione del mercato attraverso la conquista di un settore abbandonato all’autoconsumo giuridico (ricerca che può essere tanto più efficace, come nel caso dei probiviri, quanto più è inconsapevole o 35 Qui abbiamo un esempio tipico di uno di quei processi che, quando non sono descritti nel linguaggio ingenuo del «recupero», sono fatti apposta per piegarsi al funzionalismo del peggio incitando a pensare che tutte le forme di opposizione agli interessi dominanti assolvano ad una funzione utile per la perpetuazione dell’ordine costitutivo del campo: che l’eresia tende a rafforzare l’ordine medesimo che, nel momento stesso in cui la combatte, la accoglie e assorbe, ed esce rinvigorito da questo stesso scontro. 36 Cfr. R. Dhoquois, La vulgarisation du droit du travail. Réappropriation par les intéressés ou développement d’un nouveau marché pour les professionels?, in «Annales de Vaucresson», 23 1985, pp. 15-26).

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i­nnocente) e il rafforzamento dell’autonomia, ossia della separazione tra professionisti e profani. Per esempio, nell’ambito del funzionamento delle regolamentazioni disciplinari nelle imprese private, la preoccupazione di mantenere nei confronti dei profani la distanza che definisce l’appartenenza al campo e che rovinerebbe una difesa troppo diretta degli interessi dei propri committenti, porta i mediatori semi-professionisti ad aumentare l’uso di tecnicismi nei propri interventi per marcare più chiaramente la distanza da coloro di cui difendono gli interessi e per attribuire di conseguenza maggiore autorità e neutralità alla propria difesa, rischiando tuttavia così facendo di smentire la logica che sta alla base delle negoziazioni amichevoli37.

Il potere di nominazione Il processo – un confronto tra punti di vista individuali, al contempo cognitivi e valutativi e che viene risolto attraverso un verdetto pronunciato in modo solenne da una «autorità» che riceve preciso mandato sociale – rappresenta una messinscena paradigmatica della lotta simbolica che ha luogo nel mondo sociale. Questo scontro, in cui si confrontano visioni del mondo diverse, se non antagoniste, che pretendono di venir riconosciute e pertanto di realizzarsi sulla base dell’autorità che posseggono, ha come posta in gioco il monopolio di imporre il principio universalmente riconosciuto 37

Cfr. Y. Dezalay, Des affaires disciplinaires au droit disciplinaire: la juridictionnalisation des affaires disciplinaires comme enjeu social et professionnel, in «Annales de Vaucresson», 23, 1985, pp. 51-71.

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della conoscenza del mondo sociale, il nomos come principio universale di visione e di divisione (nemo significa separare, dividere, distribuire) dunque di distribuzione legittima38. All’interno di questi scontri, il potere giudiziario – per mezzo di verdetti dotati di sanzioni che possono consistere in atti di coercizione fisica come togliere la vita, privare della libertà o della proprietà – manifesta questo punto di vista che trascende le prospettive specifiche e individuali e che corrisponde alla visione sovrana dello Stato, che detiene il monopolio della violenza simbolica legittima. A differenza dell’insulto pronunciato da un individuo specifico che, in quanto discorso privato, idios logos, coinvolge esclusivamente il suo autore e non possiede alcuna efficacia simbolica, il verdetto del giudice – che dirime i conflitti o le negoziazioni relative a cose o a persone proclamando pubblicamente ciò che esse sono in verità – appartiene, in ultima istanza, alla classe degli atti di nominazione o di istituzione e rappresenta la forma per eccellenza della parola autorizzata, parola pubblica, ufficiale, che si enuncia in nome di tutti e nei confronti di tutti. In quanto giudizi di attribuzione formulati pubblicamente da agenti che agiscono come mandatari autorizzati dalla collettività e che diventano il modello di ogni atto di categorizzazione (katègoresthai, come è noto, significa accusare pubblicamente), questi enunciati performativi sono degli atti magici che riescono – perché in grado di farsi riconoscere universalmente – a ottenere che nessuno possa rifiutare o ignorare il punto di vista, la visione che impongono. 38

Il rex arcaico detiene il potere di tracciare dei confini (regere fines), di «fissare le regole, di determinare, in senso proprio, ciò che è “diritto”» (E. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, II, Le Minuit, Paris, 1969, p. 15).

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Il diritto sancisce l’ordine stabilito consacrando una visione di quest’ordine che è una visione di Stato, garantita dallo Stato. Esso assegna agli agenti una identità sicura, uno stato civile, e soprattutto dei poteri (o delle capacità) riconosciuti socialmente, dunque di tipo produttivo, per via della distribuzione di diritti d’uso di tali poteri, titoli (formativi, professionali, etc.), certificati (di idoneità, di malattia, di invalidità, etc.); inoltre, esso sancisce tutti i processi associati all’acquisizione, all’intensificazione, al trasferimento o alla privazione di questi stessi poteri. Le sentenze per mezzo delle quali il diritto distribuisce i diversi livelli dei diversi tipi di capitale ai diversi agenti (o istituzioni) pongono un termine o perlomeno un limite allo scontro, alle trattative o alla negoziazione sulle caratteristiche delle persone o dei gruppi, sull’appartenenza delle persone ai gruppi, dunque sulla attribuzione corretta dei nomi, specifici o comuni, come i titoli, sull’unione o sulla separazione, in breve su tutto il lavoro pratico del worldmaking che è alla base della costituzione dei gruppi come matrimoni, divorzi, cooptazioni, associazioni, scioglimenti, etc. Il diritto è senza alcun dubbio la forma per eccellenza del potere simbolico di nominazione che crea le cose nominate e in particolare i gruppi; esso conferisce alle realtà emerse dalle sue stesse operazioni di classificazione piena permanenza, la medesima che si attribuisce alle cose, quanto un’istituzione storica è capace di conferire a delle istituzioni storiche. Il diritto è la forma per eccellenza del discorso attivo che agisce, capace per virtù intrinseca di produrre degli effetti. Non è eccessivo affermare che esso fa il mondo sociale, a condizione però di non dimenticare che è fatto da quest’ultimo. È necessario infatti interrogarsi sulle 99

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condizioni sociali – e sui limiti – dell’efficacia quasi magica del diritto, se non si vuole cadere nel nominalismo radicale (suggerito in alcune analisi di Michel Foucault) ed è dunque importante indicare che produciamo le categorie per mezzo delle quali costruiamo il mondo sociale e che queste categorie producono il mondo. Infatti, gli schemi percettivi e valutativi che sono alla base della nostra costruzione del mondo sociale sono prodotti da un lavoro storico collettivo ma che trova la sua origine nelle strutture stesse di questo mondo: strutture strutturate, costruite storicamente, le nostre categorie di pensiero contribuiscono a produrre il mondo, ma nei limiti della loro corrispondenza a strutture preesistenti. Soltanto nella misura in cui propongono principi di visione e di divisione adattati obiettivamente alle divisioni preesistenti di cui sono il prodotto, gli atti simbolici di nominazione posseggono piena efficacia di enunciazione creatrice che, nel momento in cui consacra quanto enuncia, lo sta contemporaneamente elevando ad un grado superiore di esistenza, pienamente realizzato, quello dell’istituzione istituita. Detto altrimenti, l’effetto specifico – ossia propriamente simbolico – delle rappresentazioni generate secondo gli schemi adeguati alle strutture del mondo di cui sono il prodotto consiste nella consacrazione dell’ordine stabilito: la rappresentazione «giusta» (droite) sanziona e santifica la visione dossica delle divisioni rappresentandola come elemento oggettivo di ortodossia per mezzo di un vero atto di creazione che, nei confronti e in nome di tutti, le conferisce l’universalità pratica della dimensione ufficiale. L’imperativo dell’adattamento realistico alle strutture oggettive del potere simbolico permane anche per quanto riguarda le sue forme profetiche, eretiche, anti-istituzionali e sovversive. Nonostante il potere creativo 100

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della rappresentazione non si manifesti mai così chiaramente – nella scienza, nell’arte o in politica – come nei periodi di crisi rivoluzionaria, resta tuttavia il fatto che la volontà di trasformare il mondo trasformandone le parole utili a nominarlo, producendo nuove categorie percettive e valutative e imponendo una nuova visione delle divisioni e delle distribuzioni, non ha alcuna possibilità di aver successo se non quando le profezie, evocazioni creatrici, siano, almeno in parte, previsioni ben fondate e descrizioni anticipate. Le visioni fanno avvenire quel che annunciano – nuove pratiche, nuovi costumi e soprattutto nuovi gruppi – solo nella misura in cui annunciano quanto sta per accadere; più che le ostetriche sono gli ufficiali di stato civile della storia. Accordando alle realtà e alle potenzialità storiche il pieno riconoscimento implicito nella proclamazione profetica, le visioni possono offrire a queste ultime la possibilità reale di accedere alla piena esistenza, ossia all’esistenza conosciuta e riconosciuta, ufficiale (in contrapposizione a quella disonorevole, bastarda, informale) per mezzo dell’effetto di licitazione o di consacrazione, associato alla pubblicazione e all’ufficializzazione. Pertanto, solo un nominalismo realista (o basato sulla realtà) permette di comprendere l’effetto magico della nominazione, atto di forza simbolica che ha successo solo quando è ben fondato sulla realtà. L’efficacia di tutti gli atti di magia sociale dei quali la sanzione giuridica rappresenta la forma canonica non può funzionare se non nella misura in cui la forza propriamente simbolica di legittimazione o, meglio, di naturalizzazione (dal momento che è naturale tutto ciò che non pone il problema della propria legittimità) comprende e intensifica la forza storica immanente che la loro autorità e autorizzazione rafforzano o liberano. 101

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Queste analisi che possono apparire distanti dalla pratica giuridica sono indispensabili per comprendere le fondamenta del potere simbolico. Se è compito della sociologia ricordare, come sostiene Montesquieu, che la società non si trasforma per decreto, resta comunque il fatto che la consapevolezza delle condizioni sociali dell’efficacia degli atti giuridici non deve portare a ignorare o a negare ciò che rende efficaci la norma, il regolamento o la legge; la giusta reazione contro il giuridicismo, che porta a restituire alle disposizioni costitutive dell’habitus il proprio spazio nella spiegazione delle pratiche, non implica assolutamente che si trascuri l’effetto proprio della regola enunciata esplicitamente, soprattutto quando, come per quanto concerne la norma giuridica, essa è associata a delle sanzioni. E, al contrario, se non vi è alcun dubbio che il diritto eserciti un’efficacia specifica, attribuibile in particolare al lavoro di codificazione, ossia di messa in forma e in formula, di neutralizzazione e di sistematizzazione, che realizzano i professionisti del lavoro simbolico con le leggi specifiche esistenti nel loro universo, resta il fatto che questa efficacia – che si definisce in contrapposizione alla mancata applicazione vera e propria o all’applicazione basata sulla pura coercizione – si esercita esclusivamente nella misura in cui il diritto è riconosciuto in termini sociali e quando ottiene consenso, anche se tacitamente e in modo parziale, perché esso risponde, almeno in apparenza, a bisogni e interessi reali39. 39 La relazione degli habitus con la regola o con la dottrina è la medesima anche nel caso della religione rispetto a cui è tanto sbagliato attribuire le pratiche all’effetto della liturgia o del dogma (per una sopravvalutazione dell’efficacia dell’azione religiosa che è l’equivalente del giuridicismo) quanto ignorare questo effetto

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La forza della forma Così come la pratica religiosa, la pratica giuridica si definisce all’interno della relazione tra il campo giuridico – base dell’offerta giuridica che si genera nella competizione tra i vari professionisti – e la domanda dei profani che è sempre in parte determinata dall’effetto dell’offerta. Esiste un contrasto costante tra le norme giuridiche offerte – che almeno nella forma sembrano universali – e la domanda sociale, necessariamente diversa, ovvero conflittuale e contradditoria, oggettivamente iscritta nelle stesse pratiche in modo concreto o potenziale (sotto forma di trasgressione o di innovazione dell’avanguardia etica o politica). La legittimità che si ritrova conferita praticamente al diritto e agli agenti giuridici dalla routine degli usi che ne vengono fatti non può essere compresa né come l’effetto del riconoscimento universalmente accordato dalle parti passibili di giudizio [justiciables] a una giurisdizione che – come vuole l’ideologia professionale del corpo dei giuristi – sarebbe l’enunciato di valori universali ed eterni, e che dunque trascendono gli interessi particolari, né, al contrario, come l’effetto dell’adesione ottenuta inevitabilmente per mezzo di ciò che non sarebbe altro che una registrazione dello stato dei costumi, dei rapporti di forza o, più precisamente, degli interessi dei dominanti40. Smettendo di domandarsi se il potere venga attribuendolo alle disposizioni, ed ignorando allo stesso tempo l’efficacia specifica dell’azione del corpo clericale. 40 La propensione a comprendere sistemi di relazioni complesse in maniera unilaterale (come fanno i linguisti che cercano in questo o quel settore dello spazio sociale il principio del cambiamento linguistico) porta alcuni a capovolgere completamente,­

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dall’alto o dal basso, se l’elaborazione del diritto e la sua trasformazione sono il prodotto di un «movimento» dei costumi verso la regola, delle pratiche collettive verso le codificazioni giuridiche o, al contrario, delle forme e delle formule giuridiche verso le pratiche che esse informano, bisogna considerare l’insieme delle relazioni oggettive esistenti tra il campo giuridico, luogo di relazioni complesse e che obbediscono a una logica relativamente autonoma, e il campo del potere e, attraverso quest’ultimo, il campo sociale nel suo insieme. All’interno di questo universo di relazioni si definiscono i mezzi, i fini e gli effetti specifici che sono assegnati all’azione giuridica. Per rendere ragione di cosa sia il diritto, nei termini della sua struttura e dei suoi effetti sociali, bisogna dunque recuperare la logica propria del lavoro giuridico – oltre lo stato della domanda sociale, reale e potenziale, e delle condizioni sociali di possibilità, essenzialmente negative, che essa offre alla «creazione giuridica» – in ciò che esso possiede di più specifico, ossia l’attività di formalizzazione e gli interessi sociali degli agenti formalizzatori, così come essi si definiscono nella concorrenza in seno al campo giuridico e nella relazione tra questo campo in nome della sociologia, il vecchio modello idealistico della crea­ zione giuridica pura (che ha potuto essere situato, simultaneamente o successivamente, nel corso delle lotte interne al corpo, nell’azione del legislatore o dei giuristi, o con i pubblicisti e con i civilisti nelle sentenze della giurisprudenza): «Il centro di gravità dello sviluppo del diritto, nella nostra epoca […] come in ogni altra, non dev’essere cercato né all’interno della legislazione né all’interno della dottrina, e nemmeno nella giurisprudenza, bensì nella società stessa» (Eugen Ehrlich citato da J. Carbonnier, Flexible droit, Textes pour une sociologie du droit sans rigueur, LGDJ, Paris, 1983, p. 21).

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e il campo del potere nel suo insieme41. È certo che la pratica degli agenti incaricati di produrre o di applicare il diritto deve tanto alle affinità che legano i possessori della forma per eccellenza del potere simbolico ai detentori del potere temporale, politico o economico, e ciò a prescindere dai conflitti di competenza che possono contrapporli42. L’affinità di interessi e soprattutto degli habitus, connessa a una formazione familiare e di studi simile, favoriscono visioni del mondo comuni; di conseguenza, le scelte che il corpo compie, in ciascun momento, tra interessi, valori e visioni del mondo differenti o contrapposti, difficilmente svantaggeranno i dominanti. Tanto l’ethos degli agenti giuridici, che è alla base di queste scelte, che la logica immanente dei testi giuridici, invocati per giustificarle almeno quanto per ispirarle, sono conformi agli interessi, ai valori e alla visione del mondo dei dominanti. L’appartenenza dei magistrati alla classe dominante è attestata da più parti. Mario Sbriccoli mostra che nelle piccole comunità dell’Italia medievale il possesso di capitale giuridico, specie particolarmente rara di capitale 41 Max Weber, che vedeva nelle proprietà della logica formale del diritto razionale il vero fondamento della sua efficacia (soprattutto per via della sua capacità di generalizzazione, principio della sua applicabilità universale), collegava allo sviluppo delle burocrazie e delle relazioni impersonali che esse favoriscono lo sviluppo del corpo di specialisti del diritto e di una ricerca giuridica intenta a fare del diritto un discorso astratto e logicamente coerente. 42 Queste affinità si sono senza dubbio rafforzate, nel caso della Francia, con la creazione dell’ENA (Ecole Nationale d’Administration), che garantisce una formazione giuridica minima agli alti funzionari e a una buona parte dei dirigenti delle imprese pubbliche o private.

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culturale, fosse sufficiente a garantire posizioni di potere. Allo stesso modo, in Francia sotto l’Ancien Régime, la nobiltà di toga, sebbene meno prestigiosa della nobiltà di spada, apparteneva all’aristocrazia spesso per nascita; e ancora, l’inchiesta di Sauvageot sull’origine sociale dei magistrati entrati nel corpo prima del 1959 stabilisce che essi provenivano in proporzione assai elevata dalle professioni giuridiche e più ampiamente dalla borghesia. Come mostra in modo chiaro Jean-Pierre Mounier43 il fatto che, almeno sino a tempi recenti, la fortuna garantita da origini agiate fosse condizione di indipendenza economica e al tempo stesso dell’ethos ascetico che caratterizzano in qualche modo le attribuzioni di status di una professione votata al servizio dello Stato contribuisce a spiegare, con le differenze specifiche relative alla formazione professionale, che la neutralità declamata e la repulsione professata fortemente nei confronti della politica non escludano l’adesione all’ordine stabilito, anzi semmai il contrario (si può valutare, tra gli indicatori dei valori del corpo professionale, il fatto che i magistrati, sebbene poco inclini a intervenire negli affari politici, sono stati, tra tutte le professioni giuridiche e, in particolare, più degli avvocati, tra i più numerosi a firmare le petizioni contro la legge che liberalizzava l’aborto). Probabilmente la portata e gli effetti di questa unanimità nella complicità tacita si misurano meglio quando essa, in occasione di una crisi economica e sociale del corpo legata a una ridefinizione del modo di riproduzione delle posizioni dominanti, arriva a rompersi. Le lotte intraprese da coloro tra i nuovi arrivati che né per posizione né 43

Jean-Pierre Mounier, La definition judiciaire de la politique, Tesi di dottorato, Paris I, 1975.

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per disposizione si piegano ad accettare il presupposto della definizione tradizionale del posto di lavoro fanno emergere allo scoperto una parte del fondamento rimosso del corpo, ossia il patto di non aggressione che unisce il corpo ai dominanti. La differenziazione interna che porta un corpo sino ad allora integrato all’interno tramite una gerarchizzazione unanimemente accettata e un consenso pieno sulla sua missione a funzionare come campo di scontri ha condotto alcuni a denunciare l’esistenza di questo patto prendendosela più o meno apertamente con quelli che continuano ad assumerlo come norma assoluta della propria pratica44. Ma l’efficacia del diritto ha la particolarità di esercitarsi ben oltre la cerchia di coloro che vi aderiscono, per via dell’affinità pratica che li unisce agli interessi e ai valori iscritti nei testi giuridici e nelle disposizioni etiche e politiche di coloro che sono incaricati di applicarli. Senza alcun dubbio la pretesa della dottrina giuridica e della procedura giudiziaria all’universalità che si realizza nel lavoro di formalizzazione contribuisce a fondare la loro «universalità» pratica. La proprietà specifica dell’efficacia simbolica, come sappiamo, consiste nel poter essere esercitata soltanto con la complicità di coloro che 44 Il risultato delle elezioni interne alla professione (realizzate per corrispondenza dal 12 al 21 maggio 1986) ha palesato una nettissima polarizzazione politica del corpo dei magistrati i quali, prima della comparsa del Sindacato della magistratura nel 1968, erano tutti riuniti (quando aderivano a un sindacato) in un’unica associazione, l’Unione federale dei magistrati, antenata dell’USM (Unione Sindacale dei Magistrati), moderata, fortemente in declino, mentre il Sindacato della magistratura, piuttosto di sinistra, progredisce e l’Associazione professionale dei magistrati, piuttosto a destra e nuovamente ricomparsa, vede affermare la sua esistenza (ottenendo più del 10% dei voti).

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la ­subiscono, ed è tanto più sicura quando è subita in modo inconscio oppure estorta in modo sottile. Il diritto come forma per eccellenza del discorso legittimo esercita la propria efficacia specifica solo nella misura in cui ottenga riconoscimento, ossia quando se ne misconosce la parte più o meno vasta di arbitrarietà che è alla base del suo funzionamento. La credenza che è tacitamente accordata all’ordine giuridico deve essere riprodotta costantemente: una delle funzioni del lavoro specificatamente giuridico di codifica delle rappresentazioni e delle pratiche etiche è quella di contribuire a creare l’adesione dei profani ai fondamenti stessi dell’ideologia del corpo dei giuristi e a convincere della neutralità e dell’autonomia del diritto e dei giuristi45. «L’emergere del diritto» scrive Jacques Ellul «si verifica nel momento in cui l’imperativo formulato da uno dei gruppi che compone la società tende a considerare un valore come universale per via della sua formulazione giuridica»46. Bisogna infatti mettere in relazione l’universalizzazione e la creazione della forma e della formula. Se la regola di diritto presuppone l’unione tra l’adesione a valori comuni (caratterizzati, al livello dei costumi,­ 45 Alain Bancaud e Yves Dezalay mostrano bene come persino più eretici tra i giuristi critici, che si rifanno alla sociologia o al marxismo per far avanzare i diritti dei detentori di forme dominate della competenza giuridica come il diritto sociale, continuano a rivendicare il monopolio della «scienza giuridica». Cfr. A. Bancaud, Y. Dezalay, L’économie du droit. Impérialisme des économistes et résurgenge d’un juridisme, comunicazione al Convegno sul modello economico nelle scienze, dicembre 1980, p. 19. 46 J. Ellul, Le problème de l’émergence du droit, in «Annales de Bordeaux», I, 1, 1976, pp. 6-15.

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dalla presenza di sanzioni spontanee e di sanzioni collettive come la disapprovazione morale) e l’esistenza di regole e di sanzioni esplicite e di procedure regolarizzate, quest’ultimo fattore, inseparabile dalla comparsa della scrittura, gioca un ruolo decisivo. Insieme con la scrittura infatti appare la possibilità di tener conto di commenti universalizzanti che individuano regole e soprattutto principi «universali» che possono essere di conseguenza trasmessi in modo oggettivo (per via di apprendimento metodico) e in modo generalizzato, aldilà dei confini spaziali (territoriali) e temporali (tra le generazioni)47. Mentre la tradizione orale impedisce l’elaborazione scientifica, nella misura in cui è inseparabile dall’esperienza specifica di un luogo e di uno spazio, il diritto scritto favorisce invece l’autonomizzazione del testo, che si commenta e che si interpone tra i commentatori e la realtà. A partire da ciò diventa possibile quanto l’ideologia indigena chiama «scienza giuridica», ossia una forma particolare di conoscenza scientifica [savante], dotata delle sue norme e della sua logica propria, capace di produrre tutti i segni esteriori della coerenza razionale, di quella razionalità «formale» che Weber ha sempre distinto con cura dalla razionalità «sostanziale» e che concerne gli stessi fini della pratica così razionalizzata formalmente. Il lavoro giuridico produce effetti multipli. In virtù della codifica, che strappa le norme dalla contingenza determinata da un’occasione specifica fissandone una decisione esemplare (per esempio una sentenza) in una forma essa stessa destinata a servire da modello 47

Cfr. J. Ellul, Deux problèmes préalables, in «Annales de Bordeaux» I, 2, 1978, pp. 61-70.

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a decisioni successive, e che autorizza e favorisce al tempo stesso la logica del precedente, fondamento del modo di pensare e di agire propriamente giuridici, il lavoro giuridico collega senza interruzione il presente al passato e assicura – ad eccezione del caso in cui una rivoluzione sia in grado di mettere in discussione i fondamenti stessi dell’ordine giuridico – che il futuro assomigli al passato, che le trasformazioni e gli adattamenti inevitabili saranno pensati e detti in un linguaggio conforme al passato. Così iscritto nella logica della conservazione, il lavoro giuridico è uno dei principali fondamenti del mantenimento dell’ordine simbolico per via di un altro tratto del suo funzionamento48. Attraverso la sistematizzazione e la razionalizzazione a cui sottopone le decisioni giuridiche e le regole invocate per fondarle o giustificarle, esso conferisce il sigillo dell’universalità – elemento per eccellenza dell’efficacia simbolica – a una prospettiva sul mondo sociale che, come abbiamo osservato, non mette in discussione quella dei dominanti. A partire da ciò esso può portare alla universalizzazione pratica, ossia alla generalizzazione nelle pratiche di un modo di azione e di espressione precedentemente specifico di una regione dello spazio geografico o di quello sociale. Come indica Jacques Ellul, le leggi, dapprima sconosciute ed applicate dall’esterno, possono essere gradatamente riconosciute come utili e, 48 Si comprende pertanto che il rapporto esistente tra l’appartenenza alle facoltà di giurisprudenza e l’orientamento politico verso la destra che ho verificato in termini empirici non sia per niente casuale (cfr. P. Bourdieu, Homo academicus, Éd. de Minuit, Parigi, 1984, pp. 93-96).

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col tempo, far parte del patrimonio collettivo: quest’ultimo è stato informato progressivamente dal diritto e le leggi sono diventate veramente “diritto” soltanto nel momento in cui la società ha accettato di lasciarsi informare […]. Anche un insieme di regole applicate in modo coercitivo per un periodo di tempo non lasciano mai il corpo sociale intatto, dal momento che viene creato un certo numero di “abitudini” giuridiche o morali49.

Risulta evidente che in una società differenziata l’effetto di universalizzazione è uno dei meccanismi, e senza dubbio tra i più potenti, per mezzo dei quali si esercita il dominio simbolico o, se si preferisce, l’imposizione della legittimità di un ordine sociale. Quando la norma giuridica consacra i principi pratici dello stile di vita dominante a livello simbolico sotto forma di un insieme formalmente coerente di regole ufficiali e per definizione sociali e «universali», essa tende a informare realmente le pratiche dell’insieme degli agenti, indipendentemente dalle differenze di status e di stile di vita. L’effetto di universalizzazione, che potremmo chiamare anche effetto di normalizzazione, opera per rafforzare l’effetto di autorità sociale esercitato già dalla cultura legittima e dai suoi detentori; esso attribuisce al vincolo giuridico tutta la sua efficacia pratica50. L’istituzione giuridica opera una 49

J. Ellul, Le problème de l’émergence du droit, cit. gli effetti specificatamente simbolici del diritto, bisogna riconoscere un posto particolare all’effetto di ufficializzazione come riconoscimento pubblico della normalità che rende dicibile, pensabile, confessabile, una condotta fino ad allora tabuizzata (è il caso per esempio delle misure relative all’omosessualità). E anche all’effetto di imposizione simbolica che può esercitare la regola esplicitamente promulgata, e le possibilità che essa indica, aprendo lo spazio dei possibili (o più semplicemente «dando 50 Tra

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­ romozione ontologica trasformando la regolarità (ciò p che si fa regolarmente) in regola (ciò che di regola si deve fare), la normalità di fatto in normalità di diritto, la semplice fides familiare che si basa su un lavoro di mantenimento del riconoscimento e dei sentimenti, in diritto di famiglia, dotato di tutto un arsenale di istituzioni e di vincoli, sicurezza sociale, assegni familiari, etc. Così facendo l’istituzione giuridica contribuisce indubbiamente a imporre universalmente una rappresentazione della normalità in rapporto alla quale tutte le pratiche differenti tendono ad apparire devianti, anomiche,­oppure anormali, patologiche (specialmente quando la «medicalizzazione» serve a giustificare la delle idee»). Così nella lunga resistenza che hanno esercitato nei confronti del Codice civile, i contadini legati al diritto di primogenitura hanno conosciuto alcune procedure, rifiutate con violenza, che l’immaginazione giuridica offriva loro. E se molte di queste misure (spesso registrate negli atti notarili su cui gli storici del diritto si basano per ricostruire i «costumi») sono totalmente sprovviste di realtà, come la restituzione della dote in caso di divorzio anche se il divorzio è di fatto escluso, rimane il fatto che l’offerta giuridica non smette di esercitare effetti reali sulle rappresentazioni, e in questo universo come altrove (ad esempio in materia di diritto del lavoro) le rappresentazioni che costitui­ scono quel che potremmo chiamare il «diritto vissuto» devono molto all’effetto, più o meno deformato, del diritto codificato. L’universo dei possibili che questo fa esistere, nel lavoro stesso che è necessario per neutralizzarli, tende con ogni verosimiglianza a preparare gli animi ai cambiamenti apparentemente brutali che sorgeranno quando saranno date le condizioni di realizzazione di queste possibili teorici. Si può supporre che si tratti di un effetto assai generale dell’immaginazione giuridica, che ad esempio prevedendo con una sorta di pessimismo metodico tutti i casi di trasgressione di una regola, contribuisce a farli esistere in una frazione più o meno ampia dello spazio sociale.

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«giuridicizzazione»).­In questo modo il diritto di famiglia ha ratificato e canonizzato sotto forma di norme «universali»­le pratiche­familiari inventate a poco a poco sotto l’impulso dell’avanguardia etica della classe dominante, all’interno di una serie di istituzioni responsabili a livello sociale di gestire i rapporti sociali in seno all’unità domestica e, in particolare, i rapporti tra le generazioni. Come mostrato da Remi Lenoir, il diritto di famiglia ha senza dubbio contribuito ad accelerare la generalizzazione di un modello di unità familiare e della sua riproduzione che, in certe regioni dello spazio sociale (e geografico), e in particolare tra i contadini e gli artigiani, si scontrava con ostacoli economici e sociali connessi soprattutto alla piccola impresa e alla sua riproduzione51. Si può osservare che la tendenza a universalizzare il proprio stile di vita, vissuto e largamente riconosciuto come esemplare, è uno degli effetti dell’etnocentrismo dei dominanti ed è alla base della convinzione nell’universalità del diritto. Su questa stessa tendenza si fonda l’ideologia che tende a fare del diritto uno strumento di trasformazione dei rapporti sociali. Le analisi precedenti permettono di comprendere come questa tendenza possa avere riscontro nella realtà: i principi pratici o le rivendicazioni etiche che i giuristi sottopongono alla formalizzazione e alla generalizzazione emergono in precise regioni dello spazio sociale. Così come il vero responsabile dell’applicazione del diritto non è questo o quel magistrato specifico, ma gli agenti considerati nel loro insieme, spesso in competizione tra loro nel procedere all’identificazione del 51

R. Lenoir, La securité sociale et l’évolution des formes de codification des structures familiales, Tesi di Dottorato, Parigi, 1985.

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delinquente­e all’individuazione del delitto; allo stesso modo il vero legislatore non è il redattore della legge bensì ­l’insieme degli agenti che, determinati dagli interessi e dai vincoli specifici associati alla loro posizione all’interno di campi differenti (campo giuridico ma anche religioso, politico, etc.) elaborano delle aspirazioni o delle rivendicazioni private e ufficiose, le trasformano in «problemi sociali» e ne organizzano le forme di espressione (articoli di stampa, opere varie, piattaforme associative o di partiti, etc.) e di pressione (manifestazioni, petizioni, iniziative e ricorsi) destinate a «portarle avanti». Il lavoro giuridico sancisce tutto questo lavoro di costruzione e di formulazione di rappresentazioni, aggiungendovi l’effetto di generalizzazione e di universalizzazione comprendenti la tecnica giuridica e i mezzi di coercizione che essa permette di utilizzare. L’offerta giuridica – ossia la «creazione giuridica» relativamente autonoma che rende possibile l’esistenza di un campo di produzione specializzato – consegue un effetto specifico che sancisce lo sforzo dei gruppi dominanti o in ascesa per imporre una rappresentazione ufficiale del mondo sociale che sia conforme alla loro visione del mondo e favorevole ai loro interessi soprattutto in occasione di situazioni di crisi o rivoluzionarie52. Appare s­ orprendente 52 L’analisi dei «libri sui costumi» e dei registri di deliberazioni comunali di un certo numero di «comunità» del Béarn (Arudy, Bescat, Denguin, Lacommande, Lasseube) mi ha permesso di vedere come certe norme «universali» che riguardano le procedure di assunzione di decisioni collettive (come il voto a maggioranza) si sono potute imporre durante la Rivoluzione a svantaggio del vecchio costume, che prevedeva l’unanimità dei «capofamiglia» in virtù dell’autorità conferitagli dalla loro stessa oggettivazione, capace di diradare, come la luce fa con le tenebre, le oscurità del

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che la riflessione sui rapporti tra il normale e il patologico dedichi una così scarsa attenzione agli effetti specifici del diritto. Il diritto, in quanto discorso intrinsecamente potente dotato di mezzi fisici per farsi rispettare, strumento di normalizzazione per eccellenza, è in grado di passare, col passare del tempo, dallo stato di ortodossia, credenza retta esplicitamente enunciata come dover essere, allo stato di doxa, ossia di adesione immediata a ciò che è scontato, al normale, come realizzazione della norma che si abolisce in quanto tale nel suo compimento. Tuttavia non ci si rende conto completamente di questo effetto di naturalizzazione se non si spinge l’analisi sino a comprendere l’effetto più specifico della messa in forma giuridica, questa vis formae, la forza della «va da sé». Sappiamo in effetti che una delle proprietà essenziali dei «costumi», in Cabilia come nel Béarn e altrove, è che i principi più fondamentali non sono mai enunciati, e che l’analisi deve far emergere le «leggi non scritte» dell’enumerazione delle sanzioni associate in caso di trasgressione pratica di quei principi. Tutto permette infatti di supporre che la regola esplicita, scritta, codificata, dotata di quell’evidenza sociale che le conferisce la sua applicazione translocale, ha piano piano travolto le resistenze perché si è presentata – per un effetto di allodossia – come la formulazione giusta ma più economica, più rigorosa dei principi che regolavano nella pratica le condotte, anche se in effetti non faceva altro che negarle: un principio come quello dell’unanimità delle decisioni tendeva a escludere il riconoscimento istituzionale della possibilità della divisione (soprattutto quella durevole/stabile) in campi antagonistici, ed anche, più in profondità, della delega della decisione a un corpo di rappresentanti. D’altra parte bisogna notare come l’istituzione di un «consiglio municipale» vada di pari passo con la scomparsa di qualunque partecipazione dell’insieme degli attori interessati all’elaborazione delle decisioni, e come il ruolo stesso dei rappresentanti si limiti, per tutto l’Ottocento, a ratificare proposte delle autorità prefettizie. 

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forma, di cui parlavano gli antichi. Se è vero che l’informazione delle pratiche per via della formalizzazione giuridica ha successo infatti soltanto a condizione che l’organizzazione­giuridica dia una forma esplicita a una tendenza immanente delle pratiche e che le regole che funzionano sono quelle che, come si dice, regolarizzano situazioni di fatto conformi alla regola. Per tali ragioni, il passaggio dalla regolarità statistica alla regola giuridica rappresenta un vero e proprio cambiamento di natura sociale: facendo scomparire le eccezioni e la vaghezza dei raggruppamenti confusi, imponendo interruzioni nette e confini rigidi nel continuum dei limiti statistici, la codificazione introduce all’interno dei rapporti sociali una chiarezza, una prevedibilità e, con ciò, una razionalità che non sono mai garantite completamente dai principi pratici dell’habitus o dalle sanzioni consuetudinarie che sono il prodotto dell’applicazione diretta a casi particolari di questi principi non formulati. Senza riconoscergli l’idea di «forza intrinseca» attribuita dai filosofi, bisogna riconoscere una realtà sociale all’efficacia simbolica che il diritto «razionale-formale», per usare l’espressione di Weber, deve all’effetto proprio della formalizzazione. Attraverso l’istituzione oggettiva – in termini di regole o regolamenti scritti formulati espressamente – di schemi che governano le condotte pratiche, ancora prima di ogni discorso, la codificazione permette di esercitare ciò che si può chiamare un effetto di omologazione (homologein significa dire la stessa cosa o parlare lo stesso linguaggio). Così come l’oggettivazione sotto forma di un codice esplicito del codice pratico permette a parlanti differenti di associare lo stesso significato al medesimo suono percepito e il medesimo 116

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suono allo stesso significato concepito, allo stesso modo l’esplicitazione dei principi rende possibile la verifica esplicita del consenso sui principi del consenso (o del dissenso). Sebbene il lavoro di codificazione non possa essere assimilato ad una assiomatizzazione dal momento che il diritto contiene zone oscure che giustificano la presenza del commento giuridico, l’omologazione rende possibile una forma di razionalizzazione intesa, seguendo Weber, in termini di prevedibilità e calcolabilità. A differenza di due giocatori che, a causa di disaccordi sulle regole del gioco, sono destinati ad accusarsi reciprocamente di barare ogni volta che si manifesti una divergenza, gli agenti coinvolti in un’attività codificata sanno di poter contare su una norma coerente e senza scappatoie: possono calcolare e prevedere non solo le conseguenze dell’obbedienza alla norma ma anche gli effetti della sua trasgressione. I vantaggi dell’omologazione sono disponibili soltanto per coloro i quali stanno pienamente all’interno dell’universo regolato del formalismo giuridico. Gli scontri altamente razionalizzati che l’omologazione autorizza sono riservati infatti a coloro che detengono una forte competenza giuridica che è associata – soprattutto per quanto riguarda gli avvocati – a una competenza professionale specifica dello scontro giuridico, esercitata a utilizzare le forme e le formule come se fossero armi. Quanto agli altri, essi sono destinati a subire la forza della forma, ossia la violenza simbolica che giungono a esercitare coloro che, grazie alla loro arte di mettere in forma e di mettere delle forme, sanno – come si dice – mettere il diritto dalla loro parte, e che, all’occorrenza, sanno esercitare il più esperto dei rigori formali, summum jus, a servizio dei fini meno irreprensibili, summa iniuria. 117

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Gli effetti dell’omologia Per tener conto dell’efficacia simbolica del diritto nella sua totalità bisogna prendere in considerazione gli effetti dell’adeguamento dell’offerta giuridica alla domanda giuridica che più che a transazioni consce deve essere attribuita a meccanismi strutturali come l’omologia tra differenti categorie di produttori o di venditori di servizi giuridici e le diverse categorie di clienti. Chi occupa la posizione di dominato nel campo (come nel caso del diritto sociale) tende a essere destinato soprattutto a una clientela di dominati che contribuiscono a rafforzare l’inferiorità di queste posizioni; le loro condotte sovversive hanno minori possibilità di sovvertire i rapporti di forza esistenti all’interno del campo e contribuiscono piuttosto all’adattamento del corpus giuridico e, di conseguenza, alla perpetuazione della struttura del campo. Il campo giuridico, dato il ruolo determinante che svolge nella riproduzione sociale, dispone di una autonomia minore rispetto ad altri campi che – come quello artistico o letterario o dello stesso campo scientifico – contribuiscono anche al mantenimento dell’ordine simbolico e, di conseguenza, al mantenimento dell’ordine sociale. All’interno del campo giuridico i cambiamenti esterni si traducono più direttamente e i conflitti interni sono più direttamente risolti da forze esterne. Di conseguenza, la gerarchia nella divisione del lavoro giuridico, così come si presenta nella gerarchia delle specialità professionali, varia nel corso del tempo sebbene in misura assai limitata (come testimoniato dallo statuto di eccellenza che sempre viene riconosciuto al diritto civile); questa variazione dipende dalle variazioni dei rapporti di forza in seno al campo sociale. È come se la posizione 118 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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dei diversi specialisti nei rapporti di forza interni al campo dipendesse dal posto occupato nel campo politico dai gruppi i cui interessi sono più direttamente legati alle forme giuridiche corrispondenti. È ovvio che per esempio, man mano che aumenta la forza dei dominati nel campo sociale e quella dei loro rappresentanti (partiti o sindacati) nel campo politico, la differenziazione del campo giuridico tende ad accrescersi. Per esempio, nella seconda metà del XIX secolo, ciò si manifesta con lo sviluppo del diritto commerciale, ma anche del diritto del lavoro e, più generalmente, del diritto sociale. Gli scontri interni, tra i privatisti e i pubblicisti soprattutto, devono la loro ambiguità al fatto che, in qualità di custodi del diritto di proprietà e del rispetto della libertà dei contratti, i primi si fanno difensori dell’autonomia del diritto e dei giuristi contro tutte le intrusioni della politica e dei gruppi di pressione economici e sociali, e in particolare, contro lo sviluppo del diritto amministrativo, contro le riforme penali e contro tutte le innovazioni in materia sociale, commerciale o nella legislazione del lavoro. Questi scontri hanno spesso una posta in gioco ben definita nei limiti medesimi del campo giuridico (e universitario), come la definizione di programmi curriculari, l’apertura di rubriche in riviste specializzate o la creazione di cattedre; da qui, il potere sul corpo professionale e sulla sua riproduzione, e ciò che concerne tutti gli aspetti della pratica giuridica. Tali scontri sono al contempo sovradeterminati e ambigui nella misura in cui i difensori dell’autonomia e della legge come entità astratta e trascendente sono infatti i difensori di una ortodossia. Il culto del testo, il primato della dottrina e dell’esegesi, ossia al contempo della teoria e del passato, vanno di pari passo con il rifiuto di riconoscere 119

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alla giurisprudenza la minima valenza creatrice, dunque con un diniego pratico della realtà economica e sociale e un rifiuto della comprensione scientifica di questa realtà. Ci rendiamo conto – tra le varie cose anche attraverso l’analisi della giurisprudenza – che, secondo una logica che osserviamo in tutti i campi, i dominati ritrovano i principi di un argomentazione critica volta a fare del diritto una «scienza» dotata di una propria metodologia e fondata in una realtà storica all’esterno, in particolare nel campo scientifico e politico. Così, secondo una divisione che si ritrova in tutti i dibattiti teologici, filosofici o letterari rispetto all’interpretazione dei testi sacri, i partigiani del cambiamento si posizionano dal lato della scienza, della storicizzazione della lettura (secondo il modello sviluppato altrove da Schleiermacher) e prestano attenzione alla giurisprudenza, ossia ai nuovi problemi e alle nuove forme del diritto che vengono definiti (il diritto commerciale, del lavoro e il diritto penale). Per ciò che concerne la sociologia, nella percezione dei custodi dell’ordine giuridico essa è indissolubilmente legata al socialismo e incarna la riconciliazione malefica tra scienza e realtà sociale contro la quale l’esegesi della teoria pura rappresenta la protezione migliore. Paradossalmente, in questo caso, l’autonomizzazione non passa attraverso un rafforzamento della chiusura di un corpo esclusivamente dedicato alla lettura interna dei testi sacri, bensì per via di un’intensificazione del confronto tra i testi e le procedure con le realtà sociali che essi sono presunti di esprimere e di regolare. L’aumento della differenziazione e l’intensificazione della concorrenza interna nel campo giuridico, insieme con il rafforzamento dei gruppi dominati al suo interno e dei loro omologhi in seno al campo sociale (o dei loro rap120

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presentanti), favoriscono un ritorno a quelle realtà sociali. Non è un caso infatti che le prese di posizione circa l’esegesi e la giurisprudenza, la fedeltà alla dottrina e l’adattamento necessario alle realtà sociali sembrino corrispondere assai strettamente alle posizioni occupate nel campo. Infatti, da una parte, oggi osserviamo nuovi impulsi forniti al diritto privato, e in modo specifico al diritto civile, da parte della tradizione neo-liberale che si basa sull’economia; dall’altra, osserviamo discipline come il diritto pubblico o il diritto del lavoro, costituitesi in contrapposizione al diritto civile, basate sullo sviluppo delle burocrazie e sul rafforzamento dei movimenti di emancipazione politica, o ancora il diritto sociale, definito dai suoi sostenitori come la «scienza» che, basandosi sulla sociologia, permette di adattare il diritto all’evoluzione sociale. Il fatto che la produzione giuridica, come qualunque altra forma di produzione culturale, abbia luogo all’interno di un campo è alla base di un effetto ideologico di misconoscimento che le analisi comuni inevitabilmente trascurano dal momento che fanno derivare le «ideologie» direttamente da funzioni collettive o da intenzioni individuali. Gli effetti generati all’interno dei campi non sono né la somma puramente aritmetica di azioni anarchiche né il risultato integrato di un piano concertato. La competizione da cui questi effetti derivano si svolge in seno ad uno spazio capace di imprimere delle tendenze generali, connesse ai presupposti inscritti nella stessa struttura del gioco di cui essi costituiscono la legge fondamentale, come nel caso considerato la relazione esistente tra campo giuridico e campo del potere. La funzione di mantenimento dell’ordine simbolico che il campo giuridico contribuisce ad assicurare, così come la funzione di riproduzione del campo giuridico stesso, 121

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delle sue divisioni e delle sue gerarchie, e del principio di visione e di divisione che è a loro fondamento, sono il prodotto di innumerevoli azioni che non hanno per fine la realizzazione di questa funzione e che possono persino essere ispirate da intenzioni contrarie. Così, per esempio, le azioni sovversive delle avanguardie [giuridiche] che contribuiscono, in definitiva, a determinare l’adattamento del diritto e del campo giuridico a un nuovo stato dei rapporti sociali e a garantire così la legittimazione della forma stabilita di questi rapporti. Come possiamo osservare in questi casi in cui si presentano delle inversioni rispetto alle intenzioni, è la struttura del gioco e non un semplice effetto di aggregazione meccanica a produrre la trascendenza dell’effetto oggettivo e collettivo delle azioni cumulate.

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Nota bio-bibliografica1

Pierre Bourdieu è stato autore assai prolifico. La sua opera comprende oltre trenta libri, qualche centinaio di articoli (spesso poi confluiti, variamente rivisitati, nei libri), e un numero consistente di altri testi (non necessariamente minori) nati da occasioni diverse, come comunicazioni orali, prefazioni a libri altrui, e soprattutto interviste. Una bibliografia completa aggiornata al 2002 è disponibile in Y. Delsaut, M.-C. Rivière, Bibliographie des travaux de Pierre Bourdieu, Pantin, Le Temps de Cerises, 2002, aggiornato successivamente sino al 2009 (aggiornamento disponibile solo in versione elettronica al sito dell’editore). Una bibliografia ragionata è stata approntata da Loïc Wacquant: vedi Comment lire Bourdieu: deux itinéraires in P. Bourdieu, L. Wacquant, Invitation à la sociologie réflexive, Paris, Editions du Seuil, 2014, pp. 321-345 (nuova edizione di un libro apparso originariamente nel 1992). Bourdieu è un autore molto tradotto e sulla circolazione della cui opera si è molto ragionato, anche sulla base di strumenti di analisi approntati dallo stesso autore in quanto studioso del campo intellettuale e dei beni simbolici. Sulla ricezione internazionale dell’opera si rimanda al Simposio curato da Marco Santoro sulla rivista «Sociologica: Italian Journal of Sociology online» (in tre parti, annate 2008 e 2009) con contributi su diversi Paesi, tra cui l’Italia: M. Santoro, How “not” to become adominant French sociologist: Bourdieu in Italy, in «Sociologica», 1/2009. Per una ripresa e un aggiornamento, sul 1

Si pubblica la nota bio-bibliografica apparsa in P. Bourdieu, Forme di capitale, a cura di M. Santoro, Roma, Armando, 2015.

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Nota bio-bibliografica

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caso specifico italiano, rimando a M. Santoro, Effetto Bourdieu. La sociologia come pratica riflessiva e le trasformazioni del campo sociologico, in «Rassegna Italiana di Sociologia», 1/2014, pp. 5-20. Una corposa biografia di Bourdieu è stata scritta da una specialista del genere: M.-A. Lescourret, Bourdieu, Paris, Flammarion, 2008. Lo stesso Bourdieu si è cimentato nell’impresa, in un testo rimasto incompiuto e pubblicato dopo la morte, che dichiara peraltro sin dall’epigrafe la sua presa di distanza dal genere autobiografico e dai suoi assunti epistemologici (l’epigrafe è diventata titolo dell’edizione italiana del volume: Questa non è una autobiografia, Milano, Feltrinelli, 2005). Elementi biografici inquadrati in resoconti (autobiografici) del modo di lavorare di Bourdieu scritti da suoi colleghi, allievi e collaboratori possono leggersi in AA.VV., Travailler avec Bourdieu, Paris, Flammarion, 2003. Questa nota bio-bibliografica vuole offrire al lettore una “guida minima” all’autore e alla sua opera, rimandando ai testi precedenti per ogni ulteriore notizia e approfondimento.

Biografia 1930 Nasce il 1° agosto a Denguin, cittadina del Béarn, regione dell’area sud occidentale della Francia, vicino ai Pirenei. Il padre è un impiegato delle poste locali, proveniente da una famiglia di mezzadri della zona. La madre viene da una famiglia di piccoli proprietari terrieri. 1951  È ammesso all’École Normale Supérieure de la rue d’Ulm, di Parigi. Bourdieu appartiene al 5% degli studenti che sono di origine operaia o contadina. 1954  Ottiene l’Agrégation in filosofia. Inizia il dottorato, sotto la tutela del filosofo ed epistemologo Georges Canguilhem (maestro anche di Michel Foucault). La tesi, sulle strutture temporali nella vita affettiva secondo la fenomenologia husserliana, verrà abbandonata negli anni successivi. Bourdieu non avrà mai il titolo di dottore di ricerca. Insegna per un anno al liceo di Moulins. 1955 Svolge il servizio militare in Algeria. In questo periodo si

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Nota bio-bibliografica compie la “conversione” di Bourdieu dalla filosofia alle scienze sociali, e in particolare all’etnologia e alla sociologia. Inizia l’osservazione etnografica sulla società e la cultura Cabila e la riflessione sociologica e politica sulla guerra in Algeria, iniziata già alla fine del 1954 e che si concluderà solo nel 1962 con l’indipendenza. 1958 Assistente alla facoltà di Lettere dell’Università di Algeri, dove entra in contatto e inizia a collaborare con studiosi (anche algerini) di scienze sociali ed economiche. 1960 Torna a Parigi come Assistente di Sociologia alla Sorbonne, su invito di Raymond Aron, che lo nomina anche Segretario del Centre de sociologie européenne da questi fondato presso l’École Pratique des Haute Études (poi École des Haute Études en Sciences Sociales). 1961-64 Insegna, come Maître de conférence, sociologia alla facoltà di Lettere dell’Università di Lille, dove inizia le sue ricerche sugli studenti e la cultura. 1964 Direttore di studi all’École Pratique des Haute Études (poi École des Haute Études en Sciences Sociales). Fonda e dirige la collana “Le Sens commun”, presso l’editore Minuit. In questa collana pubblicherà tutti i suoi libri sino alla fine degli anni Ottanta, libri di allievi e collaboratori (tra cui Luc Boltanski e Robert Castel), ma soprattutto traduzioni di testi di autori stranieri (spesso ancora sconosciuti al pubblico francese), come, tra gli altri, Panofsky, Cassirer, Hoggart, Goffman, nonché raccolte di testi di Durkheim e Marcel Mauss, ovvero dei padri della tradizione sociologica francese. 1968 Rottura con Raymond Aron. Con alcuni allievi e giovani collaboratori del Centre européenne fonda il Centre de sociologie de l’éducation et de la culture. 1972 È visiting fellow presso l’Institute for Advanced Study di Princeton, dove conosce Albert Hirschman e Erving Goffman. 1975 Fonda la rivista «Actes de la recherche en sciences sociales», sorta di laboratorio collettivo, rigorosamente controllato da Bourdieu, dove vengono anticipati risultati di ricerche in corso presso il Centre, tradotti testi di autori

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Nota bio-bibliografica stranieri selezionati, e si sperimentano stili di scrittura e presentazione editoriale (i testi sono spesso accompagnati da fotografie, documenti, disegni, fumetti, variamente montati). 1981 Eletto al Collège de France, la più autorevole e prestigiosa istituzione culturale francese, dove tiene la cattedra di Sociologia che era stata in passato di Raymond Aron. La sua prima lezione è sulla pratica del tenere lezioni. I suoi corsi presentano al pubblico i risultati in progress delle ricerche in corso. Si segnalano in particolare i corsi sullo Stato e quelli sulla rivoluzione simbolica di Manet, che daranno origine a pubblicazioni postume. 1989 Fonda e dirige la rivista internazionale «Liber», che uscirà nei primi anni in contemporanea in cinque lingue (italiano incluso, come supplemento de L’Indice dei Libri) e che dirigerà fino al 1998. La rivista si pone l’obbiettivo di favorire la circolazione di idee tra gli intellettuali d’Europa. 1993 Riceve la Medaglia d’oro del CNRS, la più alta onorificenza per meriti scientifici in Francia. Nello stesso anno viene portato a termine il progetto da lui diretto e da cui deriva l’opera La misère du Monde, sulle forme contemporanee di esclusione e povertà. L’opera vende in quell’anno più di centomila copie, è oggetto di discussione accademica, giornalistica e politica ed è adattata anche per il teatro. 1995 Fonda la casa editrice Raisons d’agir, specializzata in ricerche che hanno al cuore i problemi politici e sociali contemporanei. Sostiene pubblicamente, con una petizione, lo sciopero dei ferrovieri contro la riforma pensionistica avanzata dal ministro Juppé. 1996 Riceve l’Erving Goffman Prize dell’Università della California in Berkeley e il titolo di dottore honoris causa dalla Università Johann Wolfgang Goethe di Francoforte e da quella di Atene. 1998 Assume la direzione di una nuova collana (“Liber”) per l’editore Seuil. In questa collana uscirà nello stesso anno La domination masculine, uno dei suoi testi più controversi, criticato in particolare per aver ignorato le teorie

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Nota bio-bibliografica

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delle femministe francesi. Sul versante politico appoggia il movimento dei disoccupati in Francia ed è tra i cofondatori del movimento anti-global Attac. 2000 Riceve la Huxley Memorial Medal dell’Anthropological So-ciety di Londra, occasione in cui pronuncia il discorso Objectivation participant. Participant objectivation, che uscirà postumo nel 2003. 2002 Muore a Parigi il 23 gennaio.

Bibliografia essenziale 1958 Sociologie de l’Algerie, Paris, Puf. 1963 Travail et travailleurs en Algerie, Paris, Mouton (con Alain Derbel, Jean-Paul Rivet, Claude Seibel). 1964 Les Héritiers: les étudiants et la culture, Paris, Minuit (con Jean-Claude Passeron), trad. it I delfini. Gli studenti e la cultura, Rimini-Firenze, Guaraldi 1971. 1965 Un art moyen: essai sur les usages sociaux de la photographie, Paris, Minuit; trad. it. La fotografia. Usi e funzioni sociali di un’arte media, Rimini-Firenze, Guaraldi 2004. 1966 L’amour de l’art: les musées d’art européens et leur public, Paris, Minuit; trad. it. L’amore dell’arte: le leggi della diffusione culturale: i musei d’arte europei e il loro pubblico, Rimini-Firenze, Guaraldi 1972. 1968 Le métier de sociologue, Paris, Minuit (con Jean-Claude Chamboredon e Jean-Claude Passeron); trad. it. Il mestiere di sociologo, Rimini-Firenze, Guaraldi 1976. 1970 La Reproduction, éléments pur une théorie du système d’enseignement, Paris, Minuit; trad. it. La riproduzione, Rimini-Firenze, Guaraldi 1972. 1972 Esquisse d’une theorie de la pratique: précedé de trois études d’ethnologie kabyle, Genève, Droz; trad. it. Per una teoria della pratica. Con tre studi di etnologia cabila, Milano, Raffaello Cortina 2003. 1977 Algérie 60: structures economiques et structures temporelles, Paris, Minuit.

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