Per una sociologia del romanzo. Una ricerca esemplare sui rapporti tra letteratura e società 8845200833, 9788845200830


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Italian Pages 264 [267] Year 1981

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Per una sociologia del romanzo. Una ricerca esemplare sui rapporti tra letteratura e società
 8845200833, 9788845200830

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Lucien Goldmann PER UNA SOCIOLOGIA DEL ROMANZO una ricerca esemplare sui rapporti tra letteratura e società

Come trovare nel vivo divina creazione individuale, quale è l’opera d’arte, i segni di fenomeni più generali che rimanda­ no alla società, alle sue tendenze in un determinato periodo storico, ai grandi moventi ideologici ed economici? Compito della sociologia della letteratura è, per Lucien Goldmann, la risposta a tutte queste domande: dal lavoro dello scrittore all’ambiente di pensiero, da questo alle vaste correnti cultu­ rali e da queste ancora al sistema di determinazioni econo­ miche, lo “strutturalismo genetico” goldmanniano procede con finezza di analisi e gusto delle contraddizioni dialettiche in un’interrogazione continua dei prodotti della cultura, visti come forme che rimandano di continuo al tessuto sociale che le nutre. Esente dai limiti e dagli irrigidimenti delle sociolo­ gie dogmatiche, così come da ogni semplificazione determi­ nistica, Per una sociologia del romanzo - che alla sua uscita in Francia fu subito al centro di accese polemiche - è in pri­ mo luogo un’attraente proposta di inquadramento della let­ teratura francese moderna da Malraux a Robbe-Grillet, dal­ la Sarraute a Gènet; ma è soprattutto, nel suo andamento continuamente inquieto e problematico, un invito al lettore contemporaneo ad accostarsi con duttilità e apertura al grande tema dei rapporti fra arte e società. Lucien Goldmann, nato a Bucarest nel 1913, è morto a Parigi il 3 ottobre 1970. È stato “Directeur d’Études” all’École Pratique des Hautes Études della Sorbona, dove ha insegnato sociologia della letteratura e della filosofia. Opere (tradotte in italiano): Sciences humaines et philosophie (1952), Le dieu caché (1956), Recherches dialectiques (1959), Pour une sociologie du roman (1964), Die Aufklärung und die moderne Gesellschaft (1967), Thèses sur Feuerbach, Idéologie allemande (1968). Al momento della morte stava lavorando a Structures et création culturelle.

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Storia e critica letteraria

Studi Bompiani

Lucien Goldmann PER UNA SOCIOLOGIA DEL ROMANZO una ricerca esemplare sui rapporti tra letteratura e società

Bompiani

Titolo originale: POUR UNE SOCIOLOGIE DU ROMAN Copyright © 1964 by Editions Gallimard

Traduzione dal francese di GIANCARLO BUZZI

© 1967 Gruppo Editoriale Fabbri - Bompiani, Sonzogno, Etas S.p.A. Via Mecenate 91 - Milano I edizione “Idee Nuove” maggio 1967 Una edizione “I satelliti” Una edizione “Saggi Bompiani” I edizione “Studi Bompiani” febbraio 1981

per Anna

PREFAZIONE

I primi tre capitoli di questo libro sono apparsi nel N° 2, 1963, della Revue de l’Institut de Sociologie de Bruxelles dedicato alla sociologia del romanzo. Il saggio sul nuovo romanzo e sulla realtà sociale rappresenta il testo di un intervento nel corso di un dibattito cui partecipavano Alain Robbe-Grillet e Nathalie Sarraute, e ad esso ho aggiunto alcune pagine riguardanti l’opera di Robbe-Grillet. Il li­ bro nel suo complesso è il riassunto dei risultati di due anni di ricerche sulla sociologia del romanzo effettuate presso il Centro di Sociologia della Letteratura ^//’Istituto di Sociologia dell’Università di Bruxelles. II quarto capitolo è stato scritto per la rivista americana Modern language notes nella quale sarà probabilmente pubblicato contemporaneamente a questo volume. In questa prefazione vorremmo solo prevenire un’even­ tuale obiezione riguardante il livello a cui si situa il pri­ mo saggio che formula un’ipotesi del tutto generale sulla correlazione tra la storia della forma romanzesca e la sto­ ria della vita economica nelle società occidentali e il di­ verso livello a cui si situa il saggio sui romanzi di Malraux che è invece molto concreto, ma nel quale non andiamo se non raramente oltre l’analisi strutturale interna e in cui la parte propriamente sociologica è estremamente ridotta. Aggiungiamo del pari che il saggio sul nuovo romanzo si situa ad un livello intermedio tra l’estrema generalità del primo lavoro e l’analisi interna che caratterizza il secondo. Queste differenze di livello sono reali e derivano dal fat-

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to che, lungi dal rappresentare una ricerca compiuta, que­ sto libro si limita a riassumere i risultati parziali di una ricerca in corso. I problemi di sociologia della forma romanzesca sem­ brano al tempo stesso appassionanti e suscettibili di rinno­ vare sia la sociologia della cultura che la critica letteraria, ed estremamente complessi; per giunta, riguardano un cam­ po particolarmente esteso. Perciò sarebbero impensabili pro­ gressi grazie agli sforzi di un solo ricercatore o di pochi ricercatori raccolti in uno o due centri di studio. Beninteso, cercheremo di proseguire le nostre ricerche sia presso la École Pratique des Hautes Études di Parigi che presso il Centro di Sociologia della Letteratura di Bruxel­ les. Ma sappiamo che nei prossimi anni riusciremo a co­ prire solo una piccolissima area dell'immenso campo da esplorare. Siamo anche consapevoli del fatto che progressi veramente sostanziali potranno essere realizzati solo il gior­ no in cui la sociologia della letteratura diventerà un campo di indagini collettive svolte in un numero abbastanza gran­ de di università e di centri di ricerca in tutto il mondo. È in questa prospettiva, e perché i risultati già acquisiti, ,~ia pure parziali e provvisori, ci sembrano abbastanza im­ portanti per gettare nuova luce sul problema studiato che abbiamo deciso di pubblicarli, nella speranza che possano essere integrati da altre ricerche in corso, o per lo meno presi in considerazione e discussi da coloro che le effettua­ no, sia promuovere qua e là ricerche volte nella stessa di­ rezione. Del pari, speriamo vivamente che, in seguito, pub­ blicazioni sociologiche provenienti da altri centri possano aiutarci nel nostro lavoro. Concludendo questa prefazione, vorremmo sottolineare ancora una volta quanto i recenti metodi di critica lette­ raria — strutturalismo genetico, psicoanalisi e perfino lo strutturalismo statico col quale non siamo d’accordo, ma di cui alcuni risultati parziali sono incontestabili — hanno finalmente posto all'ordine del giorno l’esigenza di fonda­ re una scienza seria, rigorosa e positiva della vita dello spirito in generale e della creazione culturale in partico­ lare. 8

Beninteso, questa scienza è ancora ai suoi esordi, sicché disponiamo solo di poche ricerche concrete, mentre in tut­ to il mondo gli studi tradizionali — empiristi, positivisti o psicologici — dominano da lontano, almeno sul piano quantitativo, la vita universitaria. Aggiungiamo che i po­ chi lavori scientifici sono per la generalità dei lettori, ed anche per gli studiosi, di particolarmente difficile accesso nella misura in cui cozzano contro tutta una serie d'abitu­ dini mentali saldamente radicate, mentre gli studi tradizio­ nali si trovano favoriti da queste stesse abitudini e sono pertanto facilmente accessibili. Il fatto è che nello studio scientifico della vita culturale il problema è quello di un radicale rivolgimento, simile a quelli che in altri tempi hanno permesso la nascita delle scienze positive della na­ tura. Cosa infatti poteva sembrare piti assurdo dell'affermare la rotazione della terra o il principio di inerzia quando tutti potevano garantire sulla scorta di un’esperienza im­ mediata e incontestabile che la terra non si muove e che una pietra lanciata non prosegue indefinilamente la pro­ pria traiettoria? Cosa oggigiorno sembra più assurdo del­ l’affermazione secondo cui i veri soggetti della creazione culturale sono i gruppi sociali e non gli individui isolati, mentre è esperienza immediata e apparentemente incon­ testabile che ogni opera culturale — letteraria, artistica o filo­ sofica — ha per autore un individuo? Ma la scienza ha sempre prevalso sulle "evidenze im­ mediate" e sul “buon senso" costituito; e il suo nascere ha sempre cozzato contro le stesse difficoltà, le stesse resi­ stenze e gli stessi tipi d’argomenti. È un fatto normale e, in ultima analisi, perfino incorag­ giante e positivo: esso prova che attraverso le resistenze e gli ostacoli, contro il conformismo e la pigrizia intellettua­ le, il lavoro scientifico prosegue, magari lentamente, ma effettivamente, il suo cammino. Parigi, giugno 1964

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Abbiamo approfittato della riedizione di quest'opera per aggiungervi tre note e uno studio sull’ultimo film di Robbe-Grillet (in collaborazione con Anne Olivier, e già pub­ blicato su /'Observateur del 18 settembre 1964). Aggiungiamo che l’affermazione secondo la quale “i veri soggetti della creazione culturale sono i gruppi sociali e non gli individui isolati" ha urtato molto i critici; scritta per provocare la discussione, oggi possiamo riconoscere che la sua forma, forse troppo ellittica, favoriva dei malintesi. Peraltro ci eravamo già spiegati in altri scritti precedenti. E le osservazioni aggiunte all’ultimo capitolo di quest’o­ pera mettono le cose in chiaro. Nondimeno rimane vero per noi che, nel senso in cui Hegel scriveva che "il Ve­ ro è il Tutto", i veri soggetti della creazione culturale sono effettivamente i gruppi sociali e non gli individui isolati; ma il creatore individuale fa parte del gruppo, spesso per la sua nascita o per il suo status sociale, sempre per il si­ gnificato oggettivo della sua opera, e vi occupa un posto che se non è decisivo è comunque privilegiato. Cosi, e soprattutto nella misura in cui la tendenza alla coerenza, che costituisce l’essenza dell’opera, non si situa soltanto al livello del creatore individuale, ma già a quel­ lo del gruppo, la prospettiva secondo cui quest’ultimo è il vero soggetto della creazione può rendere conto del ruolo dello scrittore e integrarlo alla propria analisi, men­ tre non è valido l’inverso. Parigi, aprile 1965

In occasione dell’edizione italiana del suo libro, Lucien Goldmann ha steso un saggio inedito su Genêt, pubblicato qui in appendice, e che dibatte, a livello dell'opera teatra­ le, gli stessi problemi trattati dagli scritti su una sociolo­ gia del romanzo. (N.d.E.) 10

INTRODUZIONE AI PROBLEMI DI UNA SOCIOLOGIA DEL ROMANZO

Quando, or sono due anni, nel gennaio 1961, l’Istituto di Sociologia dell’Università Libera di Bruxelles ci propose di assumere la direzione del gruppo di ricerche di sociologia della letteratura e di dedicare i nostri primi lavori ad uno studio dei romanzi di André Malraux, accettammo l’offer­ ta con molta apprensione. I nostri lavori sulla sociologia della filosofia e della letteratura tragiche del XVII secolo non ci consentivano nessuna ipotesi sulla possibilità di uno studio centrato su un’opera romanzesca, meno ancora trat­ tandosi di un’opera quasi contemporanea. In effetti, nel primo anno ci limitammo ad avviare una ricerca prelimi­ nare concernente i problemi del romanzo in quanto ge­ nere letterario, ricerca per la quale movemmo dal testo, ormai quasi classico — benché ancora poco noto in Fran­ cia — di Georg Lukacs, Teoria del romanzo' e dal libro appena uscito di René Girard, Mensonge romantique et vérité romanesque1 2 in cui l’autore riprendeva senza men­ zionarle — e, come si disse in seguito, senza conoscerle — le analisi lukàcsiane, pur modificandole in parecchi punti particolari. L’esame della Teoria del romanzo e del libro del Girard ci portò a formulare alcune ipotesi sociologiche che ci sem­ brano particolarmente interessanti e dalle quali hanno pre­ 1 Traduzione italiana, Milano, Sugar, 1963. (N.d.T.) 1 Tr. it., Struttura e personaggi nel romanzo moderno, Milano, Bom­ piani, 1965.

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so le mosse le nostre ulteriori ricerche sui romanzi di Mal­ raux. Queste ipotesi riguardano, da una parte, l’omologia tra la struttura romanzesca classica e la struttura dello scam­ bio nell’economia liberale e, d’altra parte, l’esistenza di ta­ luni parallelismi tra i loro successivi sviluppi. Cominciamo col delineare sommariamente la struttura descritta da Lukacs, che caratterizza, se non, com’egli pen­ sa, la forma romanzesca in genere, almeno uno dei suoi più importanti aspetti (che probabilmente, dal punto di vista genetico, è il suo aspetto primordiale). La forma di romanzo che Lukacs studia è quella caratterizzata dalla esistenza di un eroe romanzesco ch’egli ha molto felice­ mente definito eroe problematico. Il romanzo è la storia di una ricerca degradata (che Lu­ kacs chiama "demoniaca”): ricerca di valori autentici in un mondo anch’esso degradato ma ad un livello molto piu spinto e in modo diverso. Per valori autentici sono da intendere, naturalmente, non i valori che la critica o i lettori stimano autentici, ma quel­ li che, senza essere manifestamente presenti nel romanzo, organizzano in modo implicito l’insieme del suo univer­ so. Va da sé che questi valori sono specifici di ogni ro­ manzo e diversi da un romanzo all’altro. Essendo il romanzo un genere epico e caratterizzato, contrariamente all’epopea o al racconto, dalla invalicabile frattura tra l’eroe e il mondo, si trova in Lukacs una ana­ lisi della natura delle due degradazioni (quella dell’eroe e quella del mondo) che devono generare al tempo stesso una opposizione costitutiva, fondamento di questa insupe1 Dobbiamo tuttavia avvertire che, a nostro avviso, la sfera di validità di questa ipotesi dev’essere ridotta, perché se essa si applica ad opere im­ portanti nella storia della letteratura come Don Chisciotte di Cervantes, II rosso e il nero di Stendhal, Madame Bovary e L'educazione sen­ timentale di Flaubert, non potrebbe applicarsi se non in modo molto parziale a La Certosa di Parma e per nulla all’opera di Balzac che occupa un posto considerevole nella storia del romanzo occidentale. Cosi come sono, però, le analisi di Lukacs consentono, ci sembra, di avviare uno studio sociologico serio della forma romanzesca.

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rabile frattura, e una comunità sufficiente, per permettere l’esistenza di una forma epica. La frattura radicale da sola avrebbe infatti dato luogo alla tragedia o alla poesia lirica, la mancanza di rottura o una rottura solo accidentale all’epopea o al racconto. Situato in posizione mediana, il romanzo ha una natu­ ra dialettica nella misura in cui per un verso partecipa del­ la comunità fondamentale dell’eroe e del mondo supposta da ogni forma epica e, per un altro verso, della loro insu­ perabile frattura; la comunità dell’eroe e del mondo risul­ ta dal fatto che essi sono entrambi degradati rispetto ai valori autentici, l’opposizione dalla differenza di natura tra ciascuna di queste due degradazioni. L’eroe demoniaco del romanzo è un pazzo o un crimi­ nale, comunque, come abbiamo detto, un personaggio pro­ blematico, la cui ricerca degradata, e perciò stesso non au­ tentica, di valori autentici in un mondo di conformismo e di convenzione, rappresenta il contenuto di questo nuo­ vo genere letterario che gli scrittori hanno creato nella so­ cietà individualista e cui è stato dato il nome di "roman­ zo”. Partendo da questa analisi, Lukàcs elabora una ti­ pologia del romanzo; partendo dal rapporto tra l’eroe e il mondo, distingue tre tipi schematici nel romanzo occi­ dentale del XIX secolo, cui s’aggiunge un quarto che rap­ presenta già un evolversi del genere romanzesco a moda­ lità nuove che richiederebbero un’analisi di tipo diverso. Questa quarta possibilità sembrava a Lukàcs, nel 1920, esprimersi soprattutto nei romanzi di Tolstoj orientati ver­ so l’epopea. Quanto ai tre tipi costitutivi di romanzo, og­ getto della sua analisi, sono: a) il romanzo dell’"idealismo astratto”, caratterizzato dall’attività dell’eroe e dalla sua coscienza troppo angusta rispetto alla complessità del mondo {Don Chisciotte, Il ros­ so e il nero)·, b) il romanzo psicologico, orientato verso l’analisi del­ la vita interiore, caratterizzalo dalla passività dell’eroe e dalia sua coscienza troppo vasta per essere soddisfalla da quel che il mondo della convenzione le può dare (a que­

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sto tipo apparterrebbero Oblomov e L’educazione sentimen­ tale)·, e infine c) il romanzo educativo concludentesi con una auto­ limitazione che, pure rappresentando un’abdicazione alla ricerca problematica, non è né accettazione del mondo del­ la convenzione né rinuncia alla scala implicita dei valori — autolimitazione che si deve definire col termine “matu­ rità virile” {Wilhelm Meister di Goethe o Enrico il verde di Gottfried Keller). Le analisi di René Girard, a distanza di quarant’anni, coincidono spessissimo con quelle di Lukàcs. Anche per lui il romanzo è la storia di una ricerca degradata (ch’e­ gli chiama "idolatra”) di valori autentici, fatta da un eroe problematico in un mondo degradato. La terminologia che egli usa è di origine heideggeriana, ma egli le attribuisce spesso un contenuto molto diverso da quello che le attri­ buisce Heidegger. Senza dilungarci su quest’aspetto, dicia­ mo che Girard, invece della dualità distinta da Heidegger tra l’ontologico e l’ontico, utilizza la dualità, sensibilmente vicina, dell’ontologico e del metafìsico, che corrispondono per lui all’autentico e all’inautentico; ma mentre per Hei­ degger ogni idea di progresso e di regresso è da elimina­ re, Girard attribuisce alla sua terminologia dell’ontologi­ co e del metafìsico un contenuto molto piu vicino alle po­ sizioni di Lukàcs che a quelle di Heidegger, introducen­ do tra i due termini un rapporto retto dalle categorie di progresso e di regresso1. 1 Ne! pensiero di Heidegger, come d’altronde in quello di Lukàcs, c'è una frattura radicale tra l’Essere (in Lukàcs la Totalità) e tutto ciò di cui si può parlare sia all’indicativo (giudizio di fatto), sia all’imperativo (giudizio di valore). È questa differenza che Heidegger designa come quella dell’ontolo­ gico e dell’ontico. E secondo questa concezione, la metafisica, che è una delle forme pili elevate e pili generali ) la relazione tra il pensiero collettivo e le grandi creazioni individuali letterarie, filosofiche, teologiche, ecc., non risiede in una identità di contenuto, ma in una coe­ renza piu avanzata e in una omologia di strutture che può esprimersi con dei contenuti immaginari estremamente diversi dal contenuto reale della coscienza collettiva; c) l’opera corrispondente alla struttura mentale di que­ sto o quel gruppo sociale può essere elaborata in certi casi, sia pure rarissimi, da un individuo che abbia scar­ sissimi rapporti col gruppo. Il carattere sociale dell’opera risiede soprattutto nel fatto che un individuo non potrebbe mai stabilire per proprio conto una struttura mentale coe­ rente corrispondente a ciò che si chiama una “visione del mondo”. Una tale struttura non potrebbe essere elaborata che da un gruppo, l’individuo può soltanto portarla a un grado di coerenza elevatissimo e trasporla sul piano della creazione immaginaria, del pensiero concettuale, ecc.; d) la coscienza collettiva non è né una realtà prima, né una realtà autonoma; si elabora implicitamente nel comportamento globale degli individui che partecipano alla vita economica, sociale, politica, ecc. Sono, come si vede, tesi estremamente importanti, suffi­ cienti a stabilire una grandissima differenza tra il pen­ siero marxista e le altre posizioni della sociologia lette­ raria. Nondimeno, nonostante queste differenze, resta il 23

fatto che, proprio come la sociologia letteraria positivista o relativista, i teorici marxisti hanno sempre pensato che la vita sociale non può esprimersi sul piano letterario, ar­ tistico o filosofico se non servendosi dell’anello intermedio della coscienza collettiva. Ora, nel caso che abbiamo studiato, ciò che innanzi­ tutto colpisce è il fatto che, se troviamo una rigorosa omo­ logia tra le strutture della vita economica e una certa manifestazione letteraria particolarmente importante, non si può scoprire nessuna struttura analoga a livello della coscienza collettiva che sembrava fino a quel momento l’anello intermedio indispensabile per realizzare sia l’o­ mologia, sia un rapporto intelligibile significativo tra i diversi aspetti dell’esistenza sociale. Il romanzo analizzato da Lukàcs e Girard non sembra più essere la trasposizione immaginaria delle strutture coscienti di questo o quel gruppo particolare, ma esprime­ re invece (e forse è il caso di grandissima parte dell’arte moderna in generale) una ricerca di valori che nessun gruppo sociale difende effettivamente e che la vita eco­ nomica tende a rendere impliciti in tutti i membri della società. La vecchia tesi marxista che vedeva nel proletariato il solo gruppo sociale in grado di costituire il fondamen­ to di una cultura nuova, perché non era integrato alla società reificata, muoveva dalla rappresentazione sociolo­ gica tradizionale per cui ogni creazione culturale autenti­ ca e importante non poteva nascere se non da un accordo fondamentale tra la struttura mentale del creatore e quella di un gruppo più o meno vasto, ma pretendente ad uni­ versalità. In realtà, per la società occidentale, l’analisi marxista si è rivelata insufficiente; il proletariato occiden­ tale, lungi dal restare estraneo alla società reificata e dall’opporvisi in quanto forza rivoluzionaria, vi si è in larga misura integrato, e la sua azione sindacale e politica, lungi dal rovesciare questa società sostituendola con un mondo socialista, gli ha permesso di assicurarsi un posto relati­ vamente migliore di quello che lasciassero presagire le analisi di Marx.

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Non per ciò, benché vieppiù minacciata dalla società reificata, è cessata la creazione culturale. La letteratura romanzesca, come forse la creazione poetica moderna e la pittura contemporanea, sono forme autentiche di crea­ zione culturale senza che si possa riferirle alla coscienza — nemmeno alla possibile coscienza — di un gruppo so­ ciale particolare. Prima di abbordare lo studio dei processi che hanno permesso e prodotto questa trasposizione diretta della vita economica nella vita letteraria, constatiamo che se un tale processo sembra contrario a tutta la tradizione degli studi marxisti sulla creazione culturale, esso conferma per con­ tro, in maniera del tutto inaspettata, una delle piu impor­ tanti analisi marxiste del pensiero borghese, cioè la teoria del feticismo della merce e della reificazione. Questa ana­ lisi, che Marx considerava una delle sue più importanti scoperte, affermava infatti che nelle società che producono per il mercato (vale a dire nei tipi di società in cui pre­ domina l’attività economica), la coscienza collettiva perde progressivamente ogni realtà attiva e tende a diventare un semplice riflesso1 della vita economica e, al limite, a sparire. C’era cosi, chiarissimamente, tra questa analisi partico­ lare di Marx e la teoria generale della creazione lettera­ ria e filosofica dei marxisti posteriori che supponeva un ruolo attivo della coscienza collettiva non una contraddi­ zione, ma una incoerenza, giacché quest’ultima teoria non aveva mai previsto le conseguenze per la sociologia letteraria dell’affermazione di Marx secondo la quale nel­ le società che producono per il mercato si verifica una modificazione radicale dell’ordinamento della coscienza 1 Parliamo di “coscienza-riflesso”, quando il contenuto di questa co­ scienza e l’insieme delle relazioni tra i diversi elementi di questo con­ tenuto (quel che diciamo la sua struttura) subiscono l’azione di certe altre sfere della vita sociale, senza a loro volta agire su di esse. In pratica, una simile condizione non è probabilmente mai stata raggiunta nella realtà della società capitalista. Questa crea tuttavia una tendenza alla diminu­ zione rapida e progressiva dell’azione della coscienza sulla vita economica e, inversamente, all’aumento continuo dell’azione del settore economico della vita sociale sul contenuto e la struttura della coscienza.

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individuale e collettiva, e implicitamente dei rapporti tra l’infra e la sovrastruttura. L’analisi della reificazione ela­ borata prima da Marx sul piano della vita quotidiana, svi­ luppata poi da Lukàcs per ciò che attiene al pensiero filosofico, scientifico e politico, ulteriormente ripresa da un certo numero di teorici in diversi campi particolari e sulla quale anche noi abbiamo pubblicato un saggio, si dimostra cosi, almeno per il momento, confermata dai fatti nell’analisi sociologica di una determinata forma ro­ manzesca. Ciò posto, nasce il problema di sapere come avviene il legamento tra le strutture economiche e le manifestazioni letterarie in una società in cui questo legamento si veri­ fica fuori della coscienza collettiva. A questo proposito, abbiamo formulato l’ipotesi della azione convergente di quattro fattori diversi, cioè: e) il sorgere .nel pensiero dei componenti la società borghese, movendo dal comportamento economico e dall’e­ sistenza dei valori di scambio, della categoria della media­ zione come forma fondamentale e vieppiù evoluta di pen­ siero, con la tendenza implicita a sostituire questo pen­ siero con una falsa coscienza totale in cui il valore me­ diatore diventerà valore assoluto e il valore mediato sparirà completamente o, in linguaggio più chiaro, con la tenden­ za a concepire l’accesso a tutti i valori sotto l’angolo della mediazione, con la propensione a fare del denaro e del prestigio sociale valori assoluti e non piu semplici media­ zioni assicuranti l’accesso ad altri valori di carattere qua­ litativo; Z>) la sopravvivenza in questa società di un certo numero di individui essenzialmente problematici nella misura in cui il loro pensiero e il loro comportamento restano dominati da valori qualitativi senza che essi pos­ sano però sottrarli completamente all’esistenza della me­ diazione degradante la cui azione è generale nell’insieme della struttura sociale. Tra questi individui, si pongono in primo luogo tutti i creatori, scrittori, artisti, filosofi, teologi, uomini d’azio­ ne, ecc., il cui pensiero e comportamento sono governati 26

in primo luogo dalla qualità della loro opera senza eh’essi possano completamente sottrarsi all’azione del mercato e all’accoglienza della società reificata; c) poiché nessuna opera importante può essere espres­ sione di un’esperienza puramente individuale, è proba­ bile che il genere romanzesco non abbia potuto nascere e svilupparsi se non nella misura in cui una insoddisfa­ zione affettiva non concettualizzata, un’aspirazione affetti­ va al raggiungimento diretto dei valori qualitativi si sono sviluppate sia nell’insieme della società, sia forse soltanto fra gli strati medi all’interno dei quali sono stati reclutati la maggior parte dei romanzieri1; d) c’era infine, nelle società liberali produttrici per il mercato, un insieme di valori che, senza essere transin­ dividuali, avevano però una portata universale e, all’in­ terno di quelle società, una validità generale. Erano i va­ lori dell’individualismo liberale legati all’esistenza stessa del mercato concorrenziale (libertà, uguaglianza, proprietà in Francia, Bildungsideal in Germania, con i loro derivati, tolleranza, diritti dell’uomo, sviluppo della personalità, ecc.). Da questi valori si è sviluppata la categoria della biografia individuale, che è diventata l’elemento costitutivo del ro­ 1 Insorge a questo punto un problema difficile da risolvere imme­ diatamente e che potrà forse un giorno essere risolto grazie a delle ri­ cerche sociologiche concrete. Il problema della "cassa di risonanza” col­ lettiva affettiva e non concettualizzata che ha permesso lo sviluppo della forma romanzesca. Ci era parso in un primo momento che la reificazione, pur tendendo a dissolvere e ad integrare nella società globale i vari gruppi parziali e, perciò stesso, a toglier loro fino a un certo punto la loro specificità, aves­ se un carattere cosi contrario alla realtà sia biologica che psicologica del­ l’individuo umano, che dovesse generare presso tutti gli esseri umani, in grado maggiore o minore, reazioni d’opposizione (o, se si degradava in modo qualitativamente piu spinto, reazioni d’evasione) creando cosi una diffusa resistenza al mondo reificato, resistenza che costituirebbe lo sfondo della creazione romanzesca. Ma, in seguito, riflettemmo che nel nostro ragionamento c’era una supposizione a priori non controllata: l’esistenza di una natura biologica le cui manifestazioni esterne non potrebbero essere completamente sna­ turate dalla realtà sociale. Ora può benissimo darsi altresì che le resistenze, anche affettive, alla reificazione siano circoscritte a certi particolari strati sociali che toccherà alla ricerca positiva di delimitare.

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manzo, nel quale però ha preso la forma dell’individuo problematico, e ciò a partire: 1) dall’esperienza personale degli individui problema­ tici citati al punto Z>); 2) dalla contraddizione interna tra l’individualismo come valore universale generato dalla società borghese e gli importanti e affliggenti limiti che questa stessa so­ cietà poneva alle possibilità di progresso degli individui. Questo schema ipotetico ci sembra tra l’altro trarre con­ ferma dal fatto che, quando uno di questi quattro elemen­ ti, l’individualismo, è arrivato al punto di sparire per la trasformazione della vita economica e per la sostituzione dell’economia di libera concorrenza con una economia di cartelli e di monopoli (trasformazione che comincia alla fine del XIX secolo ma la cui svolta qualitativa la maggior parte degli economisti situa tra il 1900 e il 1910), noi assistiamo ad una trasformazione parallela della forma romanzesca che sfocia nella dissoluzione progressiva e nella scomparsa del personaggio individuale, dell’eroe; trasfor­ mazione che ci sembra caratterizzata in maniera estremamente schematica dall’esistenza di due periodi: a) il primo, passeggero, nel corso del quale il venir meno dell’importanza dell’individuo comporta i tentativi di sostituzione della biografia come contenuto dell’opera romanzesca con valori originati da ideologie diverse. Per­ ché se, nelle società occidentali, questi valori si sono dimo­ strati troppo deboli per generare forme letterarie proprie, potevano eventualmente servire di complemento ad una forma già esistente, prossima a perdere il suo vecchio con­ tenuto. Su questo piano si pongono, in primissima linea, le idee di comunità e di realtà collettive (istituzioni, fami­ glia, gruppo sociale, rivoluzione, ecc.) che l’ideologia socia­ lista aveva introdotte e sviluppate nel pensiero occiden­ tale; b) il secondo periodo, non ancora concluso, che inizia pressappoco con Kafka e arriva fino al nuovo romanzo contemporaneo, è caratterizzato dall’abbandono di qual­ siasi tentativo di sostituire l’eroe problematico e la biogra­ fia individuale con un’altra realtà e dallo sforzo per scrivere

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il romanzo dell’assenza del soggetto, della inesistenza di qualsiasi ricerca in evoluzione1. Va da sé che questo tentativo per salvaguardare la for­ ma romanzesca dandole un contenuto, indubbiamente appa­ rentato al contenuto del romanzo tradizionale (il quale era da sempre la forma letteraria della ricerca problematica e dell’assenza di valori positivi), però sostanzialmente diverso (si tratta ora di eliminare due elementi essenziali del con­ tenuto specifico del romanzo: la psicologia dell’eroe proble­ matico e la storia della sua ricerca demoniaca), doveva pro­ durre al tempo stesso degli orientamenti paralleli verso forme d’espressione diverse. Forse si possono trovare qui elementi per una sociologia del teatro dell’assenza (Beckett, Ionesco, Adamov per un certo periodo) ed anche di taluni aspetti della pittura non figurativa. Citiamo infine un ultimo problema che potrebbe e do­ vrebbe dar luogo a ulteriori ricerche. La forma romanzesca che abbiamo esaminata è, per sua natura, critica e opposizionale. È una forma di resistenza alla società borghese in evoluzione. Resistenza individuale che ha potuto appog­ giarsi, all’interno di un gruppo, solo su processi psichici affettivi e non concettualizzati, appunto perché non si sono sufficientemente sviluppate nelle società occidentali resi­ stenze coscienti che avrebbero potuto elaborare forme let­ terarie implicanti la possibilità di un eroe positivo (in pri­ mo luogo la coscienza opposizionale proletaria quale spe­ rava e presagiva Marx). Il romanzo a eroe problematico risulta cosi, contrariamente all’opinione tradizionale, una forma letteraria connessa certo alla storia e allo sviluppo della borghesia, ma che non è l’espressione della coscienza reale o possibile di questa classe. Nasce però il problema di sapere se, parallelamente a questa forma letteraria, non 1 Lukacs caratterizzava il tempo del romanzo tradizionale con la proposizione: "Il cammino è iniziato, il viaggio è terminato/' Si potreb­ be caratterizzare il nuovo romanzo sopprimendo la prima metà della proposizione. Il tempo del nuovo romanzo sarebbe caratterizzato sia dalla enunciazione: "C’è l’aspirazione, ma il viaggio è finito" (Kafka, Nathalie Sarraute), sia semplicemente dalla constatazione che "Il viaggio è già terminato, senza che il cammino sia mai iniziato” (i tre primi romanzi di Robbe-Grillet).

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si siano sviluppate altre forme corrispondenti ai valori coscienti e alle aspirazioni effettive della borghesia; e a questo proposito ci permettiamo di citare, a titolo di sug­ gerimento tutt’affatto generale e ipotetico, l’eventualità se­ condo cui l’opera di Balzac — di cui appunto bisognerebbe analizzare la struttura — rappresenterebbe la sola grande espressione letteraria dell’universo strutturato dai valori co­ scienti della borghesia: individualismo, sete di potere, de­ naro, erotismo trionfanti sui vecchi valori feudali dell’al­ truismo, della carità e dell’amore. Dal punto di vista sociologico, questa ipotesi, se si rive­ lasse esatta, potrebbe essere rapportata al fatto che l’opera di Balzac si colloca appunto in un’epoca in cui l’individua­ lismo, in sé astorico, strutturava la coscienza di una bor­ ghesia che stava costruendo una società nuova e si trovava al gradino più elevato e intenso della sua reale efficienza storica. Secondariamente, bisognerà chiedersi anche perché, ecce­ zion fatta per quest’unico caso, questa forma di letteratura romanzesca abbia avuto solo un’importanza minore nella storia della cultura occidentale, perché la coscienza reale e le aspirazioni della borghesia non siano mai riuscite, du­ rante il XIX e il XX secolo, a produrre una forma letteraria propria in grado di situarsi allo stesso livello delle altre forme che fanno la grande letteratura occidentale. A questo proposito, ci permettiamo di formulare alcune ipotesi generali. L’analisi che abbiamo fatta estende ad una delle piu importanti forme romanzesche una affermazione che ci sembra oggi valida per quasi tutte le forme di crea­ zione culturale autentica e in rapporto alla quale la sola eccezione che per il momento scorgiamo è rappresentata proprio dall’opera di Balzac1, che potè creare un grande 1 Un anno fa, trattando gli stessi problemi e citando l'esistenza del romanzo a eroe problematico e della sottoletteratura romanzesca a eroe positivo, scrivevamo: "Concluderemo questo articolo con un grosso punto interrogativo, riguardante lo studio sociologico dell’opera di Balzac, Que­ st’opera ci sembra infatti rappresentare una forma romanzesca propria, che integra elementi importanti appartenenti ai due tipi di romanzo che

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universo letterario strutturato con valori meramente indi­ vidualistici, in un momento storico in cui dal canto loro gli uomini animati da quei valori astorici stavano per compiere un notevole rivolgimento storico (rivolgimento che, in fondo, si verificò in Francia solo con la fine della rivoluzione borghese nel 1848). Tranne per questa ecce­ zione (bisognerà forse aggiungerne alcune altre poche, che per il momento non ci vengono in mente) ci sembra che non esista creazione letteraria e artistica valida se non lad­ dove c’è un’aspirazione al superamento dell’individuo e una ricerca di valori qualitativi superindividuali. "L’uomo su­ pera l’uomo,” abbiamo scritto modificando leggermente un testo di Pascal. Ciò significa che l’uomo può essere au­ tentico solo nella misura in cui concepisce se stesso o si sente parte di un tutto in divenire e si situa in una dimen­ sione superindividuale storica o trascendente. Ora, il pen­ siero borghese, legato come la società borghese stessa all’e­ sistenza dell’attività economica, rappresenta appunto, nella storia, il primo pensiero radicalmente profano e insieme astorico; il primo pensiero la cui tendenza è di negare ogni sacertà, si tratti della sacertà celeste delle religioni trascen­ denti o della sacertà immanente dell’avvenire storico. È questa, ci sembra, la ragione fondamentale per cui la so­ cietà borghese ha dato luogo alla prima forma di coscienza radicalmente non estetica. Il razionalismo, che rappresenta l’aspetto essenziale del pensiero borghese, ignora, nelle pro­ prie espressioni estremistiche, persino l’esistenza dell’arte. Non ce un’estetica cartesiana o spinoziana, e anche per Baumgarten l’arte è solo una forma inferiore di cono­ scenza. Non è dunque a caso se, eccezion fatta per alcune situa­ zioni particolari, non esistono grandi manifestazioni lette­ rarie della coscienza borghese propriamente detta. Nella società legata al mercato, l’artista, come abbiamo già osserabbiamo menzionati e rappresenta probabilmente l’espressione romanze­ sca più importante della storia.” Le osservazioni che formuliamo in queste pagine cercano di precisare un po’ l’ipotesi sopra affacciata.

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vaio, è un essere problematico, vale a dire critico e in po­ lemica con la società. Tuttavia, il pensiero borghese reificato aveva i suoi valori tematici, in alcuni casi autentici come quelli dell’individualismo, in altri meramente convenzionali, che Lukàcs chia­ mava “falsa coscienza”, nelle loro forme estremistiche, "ma­ lafede”, e Heidegger "chiacchiera”. Questi stereotipi, au­ tentici o convenzionali, tematizzati nella coscienza colletti­ va, dovevano poter generare, accanto alla forma romanzesca autentica, una letteratura parallela che narrasse anch’essa una storia individuale e che fosse naturalmente in grado, trattandosi di valori concettualizzati, di presentare un eroe positivo. Sarebbe interessante seguire le tortuosità di queste forme romanzesche secondarie che si potrebbero basare natural­ mente sulla coscienza collettiva. Ci si imbatterebbe forse — non abbiamo ancora esaminato la cosa — in una gamma molto varia, dalle forme più basse del tipo Delly alle forme piu elevate rintracciabili magari presso scrittori come Ale­ xandre Dumas o Eugène Sue. È forse su questo piano che si devono collocare, parallelamente al nuovo romanzo, anche certe opere di successo legate alle nuove forme della coscienza collettiva. Comunque, lo schizzo estremamente schematico che ab­ biamo tracciato ci sembra possa inquadrare uno studio sociologico della forma romanzesca. Studio tanto più im­ portante in quanto, fuori del suo proprio oggetto, potrebbe rappresentare un non trascurabile contributo all’altro studio, delle strutture psichiche di certi gruppi sociali, specialmente degli strati medi.

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INTRODUZIONE AD UNO STUDIO STRUTTURALE DEI ROMANZI DI MALRAUX

Per fissare i limiti di questo lavoro, diciamo subito eh’es­ so non pretende in alcun modo d’essere uno studio socio­ logico esauriente degli scritti letterari di Malraux. Uno studio del genere supporrebbe infatti da un lato l’evidenziazione di un certo numero di strutture significative suscettibili di spiegare, almeno in gran parte, il contenuto e il carattere formale di questi scritti, d’altro lato la dimo­ strazione sia dell’omologia sia della possibilità di trovare un rapporto significativo tra le strutture di questo universo letterario e un certo numero di altre strutture sociali, eco­ nomiche, politiche, religiose, ecc. Ora, la nostra ricerca si situa ancora al primo gradino, quello dell’analisi interna, intesa a fornire un primo ab­ bozzo di strutture significative immanenti all’opera, abboz­ zo destinato molto probabilmente ad essere modificato e precisato dalla successiva ricerca delle omologie e delle relazioni significative tra le strutture intellettuali, sociali, po­ litiche o economiche dell’epoca in cui sono state elaborate. Tuttavia, anche a questo stadio provvisorio e ipotetico, i risultati di questo studio ci sono parsi abbastanza inte­ ressanti per far l’oggetto di una pubblicazione.

Studiando l’opera di Malraux, colpisce una prima consta­ tazione: tra i suoi primi scritti: Royaume Farfelu, Lunes en Papier, La Tentation de l’Occident, che affermano la morte degli dèi e la decomposizione universale dei valori, e gli scritti successivi: Les conquérants, La voie royale, La

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condition humaine, ce non solo una differenza di conte­ nuto ma anche di jorma. Pur trattandosi, infatti, in en­ trambi i casi, d’opere di fantasia, solo gli scritti del secondo gruppo danno luogo ad un universo d’intento realistico co­ stituito da esseri immaginari ma individuali e vivi, e quindi hanno un carattere romanzesco; mentre i primi scritti, come La Tentation de l’Occident, sono saggi, mentre Roy­ aume Farfelu e Lunes en Papier sono storie fantastiche e allegoriche (malgrado la premessa di Malraux a Lunes en Papier, secondo cui “non ci sono simboli nel libro”). Se inoltre constatiamo che tutti i successivi romanzi di Malraux creeranno universi retti da valori positivi e uni­ versali, e che il primo scritto, che indica una nuova crisi, La Lutte avec l’Ange, sarà insieme l’ultimo e il meno ro­ manzesco, il piu intellettuale degli scritti di fantasia di Mal­ raux, ci pare che si potrebbe formulare una prima ipotesi: in quest’opera dominata dalla crisi dei valori che caratteriz­ zava al tempo della sua redazione l’Europa occidentale, l’in­ venzione propriamente romanzesca corrisponde al periodo in cui lo scrittore credette di potere, avverso e contro ogni cosa, salvaguardare l’esistenza di certi valori universali au­ tentici. Insomma, gli stessi titoli dei libri: da una parte Lunes en Papier, Royaume Farfelu, e, dall’altra, Les conqué­ rants, La voie royale, La condition humaine, Le Temps du Mépris, L’Espoir, mostrano la differenza di contenuto che ha portato con sé le trasformazioni formali e ha reso possibile il periodo propriamente romanzesco nell’opera dello scrittore. Questo periodo propriamente romanzesco, prendendo le parole in senso stretto, si limita però a tre libri, Les con­ quérants, La voie royale e La condition humaine che, nel­ l’opera di Malraux, sono i soli veri romanzi, dal momento che Le Temps du Mépris e L’Espoir, sono racconti che tendono ad una forma epico-lirica, Les Noyers de ΐAlten­ burg una serie strutturata di racconti intesi in primo luogo a porre un problema concettuale. Occorre anche precisare che in questo saggio ci serviremo del termine “periodo romanzesco” in senso meno rigoroso e più ampio, in modo

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da abbracciare le sei opere d’intento realistico che, nella pro­ duzione di Malraux, descrivono un universo di personaggi individuali e vivi. Un principio concreto di qualsiasi ricerca sociologica e genetica impone però di analizzare, nella misura del pos­ sibile, il contenuto e la struttura delle opere di qualsiasi scrittore nel loro ordine cronologico, sicché, prima di ini­ ziare lo studio dei libri romanzeschi, dobbiamo soffermar­ ci, sia pure brevemente, su tre opere precedenti, che, in difetto di notizie precise sulle date di composizione, af­ fronteremo nell’ordine che ci sembra più conveniente al­ l’analisi'. Royaume Farjelu (sottotitolo: "Storia”) si compone di due parti delle quali l’una, stando ad una nota dell’edizio­ ne Skira, fu scritta nel 1920, mentre il libro fu pubblicato integralmente la prima volta nel 1927. Il contenuto essenziale ci sembra la coscienza della va­ nità e della morte universale dei valori, e insieme l’aspira­ zione romantica ad un valore ignoto e inconoscibile. Nella prima parte, l’incarnazione di questo valore è la principessa della Cina, di cui sogna il principe del paese — principessa ch’egli non ha mai vista e che assomiglia, come si assomi­ gliano due gocce d’acqua, all’azzurro fiore dei romantici tedeschi. Tuttavia, e nonostante questa aspirazione ad un valore ignoto e irraggiungibile costituisca lo sfondo globale del libro, se ne accenna esplicitamente solo due volte nelle venti pagine che compongono il testo dell’edizione Skira; è vero che i due passaggi corrispondono ad episodi particolarmen­ te significativi, uno alla fine della prima parte1 2, l’altro alla fine del libro. 1 E che corrisponde d’altronde a quello adottato dallo stesso Malraux nel l’edizione delle opere pubblicate da Skira. 2 “Come potrei dimenticarti, principessa della Cina?... — Parlami, disse rivolgendosi a me, della principessa della Cina. Non l’avevo mai vista? “Ah! stanchezza, sospirò il principe, stanchezza... Neanch’io, povera creatura...,” e dopo un attimo di silenzio: “Conducetelo all’esercito.”

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Le altre diciannove pagine del testo svolgono invece il tema della morte universale dei valori. Questa morte definisce anche il tempo della prima parte: gli esseri sono stati vivi e significativi, ora non lo sono piu. È già detto nelle prime righe. Diavoli e luoghi santi, papi e antipapi, imperatori e conquistatori sono stati ma non sono piu, e solo il ricordo della loro passata grandezza co­ lora la vanità di un presente duraturo ed eterno:

“Attenti, diavoli crespi: pallide silenti immagini si formano sul mare; quest’ora non è più vostra. Guar­ date, guardate: di fronte alle tombe dei luoghi santi, i veglianti caricano lentamente gli orologi che misu­ rano l’eternità ai sultani morti — i papi e gli antipapi dorati si inseguono nelle fogne deserte di Roma; dietro di loro ridono sommessi demoni dalle code setose che sono gli antichi imperatori — ... — un re che ama ormai soltanto la musica e i supplizi erra nottetempo, desolato, soffiando in lunghe trombe d'argento e tiran­ dosi dietro il suo popolo che danza... ed ecco che al confine delle due Indie, sotto alberi dalle foglie chiuse simili ad animali, un conquistatore abbandonato s’ad­ dormenta nella sua armatura nera, attorniato da scim­ mie inquiete..." (Qui, come il piu delle volte in questo saggio, le sottolineature sono nostre.)

Persino ciò che esiste ancora è definito dalla consapevolez­ za della propria distruzione futura e dalla fuga dalla vita. Nella città in cui arrivano i viaggiatori, un mercante che vendeva fenici ne bruciò una in loro presenza.

“L’animale rinacque subito dalle sue ceneri, ma ap­ profittò dell’incauta gioia del venditore per fuggir via, con un volo d’altronde pesante e sgraziato. Costerna­ zione. Tutti i visi si alzarono, ognuno segui l’uccello con lo sguardo; nel silenzio, s’udirono solo voci che gri­ davano in lontananza: ‘Città nata dal mare, un giorno i pesci delle tenebre invaderanno i tuoi palazzi dalle forme animali...’” 36

I draghi immortali, cosi belli che la loro contemplazione "vince le piu grandi sofferenze, le pene piu acute” possono anche "essere adoperati come barometri"; preti rimestano in grandi calderoni innumerevoli minuscole divinità di rame giallo. Chiuso in una segreta, il narratore è penetrato da una grande tristezza, ...stanco..., senza gioia... Vede degli “alberghi abbandonati", ecc. È condotto alla presenza del principe del paese che aspetta i rapporti dei messaggeri; co­ storo gli annunciano una morte universale ch’egli però non vuole ammettere, perché sogna la principessa della Cina.

“Principe, mi sono recato a Babilonia, la deserta... la città è soltanto polvere... — Bene, io andrò più lontano, molto più lontano. Tu conosci l’inferno, l’inferno con il suo cielo pieno di stelle viola... e, nel profondo, i suoi canti gravi?... — Non ci sono canti, principe..." Un altro messaggero ha condotto la figlia del principe allo czar mangiatore di pesci; nel suo racconto, c’è una delle immagini più importanti del testo, immagine in cui ci imbatteremo più volte nei primi scritti di Malraux e che ci sembra possedere un significato particolare; l’imma­ gine degli dèi che regnavano un tempo nascosti nei templi, nelle cantine o nei sotterranei e che, usciti durante un in­ cendio o un’invasione, sono diventati semplici giocattoli meccanici, se ne sono andati, o comunque hanno perduto qualsiasi potere. “...Si preparavano silenziose invasioni... La princi­ pessa, attorniata da gattini bianchi, si faceva portare tutti gli dèi dei popoli vinti in una cantina piena di millepiedi e li incatenava uno per uno... Un giorno, il tempio prese fuoco: gl’idoli anneriti uscivano dalle fiamme, le guardie dello czar combattevano con le scuri azzurre contro le torme di cavalieri ribelli che brandivano crani oliati di grandi animali... — E adesso? — Adesso, la czarina regna sola. Al disgelo, gli ul­

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timi idoli hanno sceso il fiume come pesanti barche (ve n’è un grande cimitero alla foce...). Dal palazzo, la czarina mostrava la loro morta flottiglia agli dèi prigionieri dei tributari, agli, dèi incatenati, ammuffiti, ch’ella aveva fatto legare alle sbarre della finestra men­ tre cantavano i preti cristiani." La seconda parte del libro narra la spedizione e la di­ sfatta di un esercito che non ha dato battaglia perché non ha incontrato nessuna resistenza, ma solo una città abban­ donata, trasformata in labirinto e dominata dagli uccelli, dalle lucertole e dagli scorpioni; la storia di un esercito che è affondato — al punto da cader vittima degli scor­ pioni (perché privo ormai di qualsiasi energia per difen­ dersi) — nella massa molle di una realtà priva di strutture perché priva di valori. È la ripresa della prima parte del libro secondo un mo­ dulo narrativo. Osserviamo soltanto, come particolarmente significativa, la ricomparsa dell’immagine degli dèi usciti dai sotterranei e che alla luce del giorno hanno perduto ogni potere.1 Osserviamo anche l’epilogo in cui il narra1 “Uomini uscirono, carichi di splendidi oggetti sui quali si scorge­ vano seta e perle: manichini, grandi bambole riccamente vestite, gio­ cattoli antichi... Questi soldati appartenevano alle truppe afgane e sarti­ che, alla parte piu selvaggia dell’esercito; avanzavano pesantemente, al­ lucinati, con un mormorio prima confuso che crebbe d’intensità e divenne clamore: ‘Gli dèi! Gli dèi! gli Dèi!* Sai che da parecchi secoli i Signori dei Porti prelevavano sulle me­ raviglie che inviavano loro di continuo le nazioni inferiori, una decima di oggetti rari destinati al Trono. Una spessa polvere copriva talune ca­ mere dei sotterranei, cenere dei piu bei fiori e dei più singolari frutti del secolo scorso. Sopra, innumerevoli giocattoli, attaccati tra loro, affon­ davano in prospettiva; i principi di questa dinastia ne avevano la passione ereditaria. Al Re dei re, i signori della terra con rispettosi inchini ave­ vano per tre secoli presentato questa offerta puerile e complicata... Per uscire dalla mischia, ogni soldato mostrava in alto il trofeo che portava con sé; e, sopra le sagome attaccate le une alle altre, gli automi, gli animali meccanici e le bambole avanzavano lentamente, neri, conser­ vando della luce dell’incendio che cresceva solo i rossi riflessi dei loro gioielli falsi. Quella fu certo una delle grandi notti del mondo, una di quelle in cui gli dèi abbrutiti abbandonano la terra ai geni selvaggi della poesia. Tutta la notte, capisci, tutta la notte, in lunga farandola i soldati irsuti si aggirarono urlando intorno al palazzo incandescente e ai fuochi del-

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tore, che sopravvive al massacro, è un giovane vegliardo, che conduce una vita priva d’interesse, nel ricordo dell’an­ tica disfatta. Questo epilogo conclude il racconto con una immagine romantica omologa a quella della principessa della Cina che chiudeva la prima parte:

“forse m’imbarcherò su una delle navi che fanno vela per le isole Fortunate. Ho solo sessantanni..." Beninteso, questo libro di un giovane di venti o venti­ sette anni che si sente già vecchio e per il quale i valori sono solo un ricordo, non ha una grande importanza letteraria. Un critico che disponesse solo di questo testo ci vedrebbe forse il disincanto superficiale e magari puramente verbale di un adolescente troppo dotato e insieme troppo preoccu­ pato di sé. Dal seguito del libro risulta però che si trattava di qual­ che cosa di molto diverso: un’acuta sensibilità per la crisi intellettuale e morale del mondo occidentale come la sen­ tiva uno degli spiriti più inquieti e potenti dell’epoca. È quindi soprattutto come studio della radice su cui crebbe l’opera successiva di Malraux che abbiamo dedicato alcune pagine all’analisi di questo libro e che ci soffermeremo sul contenuto dei due immediatamente posteriori. In effetto, un’analoga concezione troviamo in Lunes en Papier, la cui prima edizione è del 1920. Il libro si richia­ ma esplicitamente a Royaume Farfelu, dal momento che ci si dice che questo è l’impero della morte1. Anch’esso si compone di due parti: un prologo di cinque l'accampamento, reggendo con dolcezza, come bambini, quei giocattoli de­ licati, accarezzando al passaggio gli automi che vagavano a casaccio nei giardini saccheggiati e le cui viole e i cui flauti erano tutto ciò che si udiva nel caldo, quando si smorzavano le grida... Lontano lungi dai fuo­ chi, nel piu profondo delle tenebre, i boia e gli arcieri cinesi portavano via di nascosto, tra le mani a coppa, le perle vere dei principi decaduti per venderle nei reami del Sud dove i re sono dipinti..." 1 "Ora, disse la Lussuria, all’impero della Morte!" L’orgoglio protestò. "Signore, le sarei molto grato se non ci rendesse ridicoli. Tutti sanno che ‘l’Impero della Morte’ ha nome Royaume Farjelu.”

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pagine, nell’edizione Skira, e una narrazione di ventidue pagine che d’altronde, come nel Royaume Farjelu, ripren­ de un tema analogo alla prima parte. L’influsso della letteratura avanguardistica vi è notevole, non solo nella forma, ma nel contenuto; il libro narra in­ fatti la lotta degli scrittori non conformisti contro il Royau­ me Farjelu, l’Impero della Morte, la società borghese del­ l’epoca1. A questa lotta, però, Malraux non crede, ed è la propria vanità ch’egli racconta due volte in modo simbo­ lico e persino allegorico. Nel prologo l’universo è rappresentato da un lago gover­ nato da un genio in forma di gatto e rischiarato dalla luna. I denti della luna si staccano per volteggiare sull’acqua dove incontrano i palloni che entreranno in guerra col castello disegnato dal riflesso della luna e con lo stesso genio del lago. Il contesto ci chiarisce che i palloni sono scrittori, mentre i bimbi di luna, il castello e il genio del lago sono simboli della società intera. I bimbi di luna credono dapprima che gli scrittori siano gente non conformista, forse misteriosa, ma seria e impor­ tante. Svanita questa illusione, scoppia il conflitto. Avendo incontrato i palloni, "z bimbi di luna, giovanissimi, credevano ch’essi ac­ cudissero a opere invisibili e complicate. Risaputa la verità, jurono presi da indignazione: i loro nasi tra­ sformati in stecche da biliardo, proiettarono gli aero­ stati sul lago. Leggeri ancorché paffuti, questi rimbal­ zarono e la loro armoniosa eleganza suscitò la gelosia delle lune che si augurarono la loro morte. Questo desiderio non fu esaudito. Non potendo pili indugiare, i palloni erano, ahimè! costretti ad agire!"...

Scorto sul lago il castello disegnato dal riflesso lunare, decidono di invaderlo.

1 Tenendo presente ia data (1920), si tratta probabilmente di Dada ; dei primi surrealisti ancora raggruppati intorno a Tzara.

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"A questo scopo, uno di loro avanzò e cominciò a leggere un dramma a tesi scritto quando era ancora collegiale. Il palazzo, sprezzante, non rispose. Fatale sdegno! L’aerostato continuò a leggere. Alla parola 'sipario', il palazzo era assopito. Tutti i palloni bal­ zarono su e uno ne apparve nel riquadro d'ogni fine­ stra. Penetrarono senza difficoltà."

Nel castello conquistato trovano “marionette, gendarmi, guardie campestri, donne spo­ sate, diavoli, campagnoli con ombrelli rossi, portinai, Mères Michel, fantocci d’ogni sorta”.

Li legano e li attaccano alle finestre per gettar sopra di loro i propri bimbi e delle radici nere piene di suono che rappresentano i filosofi. I fantocci cadono con uno scatto. Ma dinanzi a questa disfatta il genio del lago passa all’offensiva. Porta un barile che riempie di terrore i pal­ loni, che temono sia pieno di esplosivo; i piu coraggiosi osano però avvicinarsi. Il barile ha un contenuto molto più pericoloso: dello champagne di ottima qualità e ben in­ vecchiato. I palloni si ubriacano e il genio del lago può assalirli. Vittorioso esclama: “Guardate i bei palloni prigionieri, non li vendo, li regalo. Come, nessuno ne vuole uno?... Dal momento che nessuno desidera i crudeli palloni, noi Genio del lago... li condanniamo a morte... Saranno impiccati.’

Cerca di attaccare i palloni a una pompa per appiccarli c far loro tirare la lingua, ma quelli resistono. "Le loro lingue si ostinano a giocare a nasconde­ rella! Si ostinano! — Si ostinano. La mia vita è irrimediabilmente fal­ lita. O passione, perderai il tuo gattino di lusso!...”

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E il genio del lago

“s’impiccò a un capo del rosario, le zampe in croce come si conveniva. Allora, essendo il suo peso aumentato, il rosario si tese; ogni grano sporse la lingua; e dal ciondolo, ch’era un gatto con le zampe in croce, sporse una lingua vit­ toriosa che parve voler colpire le altre ma ricadde, flaccida, come punta da uno spillo". Non occorre commento: si tratta chiarissimamente di una satira degli scrittori e dei pensatori non conformisti partiti in guerra contro la società dei fantocci che occupa il castello, corrotti da un barile di champagne e precipi­ tanti infine nella morte universale che invade l’universo. La seconda parte, divisa in tre capitoli — Combattimenti, Viaggi, Vittorie —, racconta la lotta di questi stessi intel­ lettuali non conformisti (che assumono qui la forma dei sette peccati capitali che camminano sulle mani'; cinque di loro sono nati direttamente da un frutto, a sua volta pro­ dotto dalla trasformazione di uno dei palloni, e gli altri due derivano dalla sostituzione con uno scienziato e un mu­ sicista di due personaggi deceduti) contro la morte e il suo "Royaume Farfelu”. Beninteso, è inutile insistere sui diversi episodi per lo pili simbolici che scaturiscono da questo viaggio e da que­ sto combattimento; ricordiamo solo che, per combattere i sette peccati capitali, la morte manda due armi estremamente pericolose, i serpenti bigofoni che si mettono a can­ tare "vieni, carina” e i tubi di Geissler che i peccati capi­ tali combatteranno valendosi di un fonografo e di una pa­ stiglia di elettricità. Vale a dire che le due armi piu potenti dell’Impero della Morte contro gli scrittori e i pensatori sono la pseudo cultura dei “mass media” e la tecnica in­ dustriale, ma anche che per combatterle gli scrittori usano 1 "I peccati non amavano i gesti suscettibili d'esser compiuti da chicchessia, per cui si rifiutavano di adoperare i piedi e ritenevano opportuno camminare sulle mani.”

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armi a quelle strettamente apparentate, il che rende la loro lotta discutibile e ambigua. Il finale del racconto chiarisce la posizione di Malraux. La morte si è modernizzata, o più esattamente industrializzata. Ha vertebre d’alluminio e articolazioni di ottone. Travestito da medico, l’orgoglio le prescrive un bagno d’acido azotico da cui essa sarà cor­ rosa e distrutta. Solo quando la vittoria dei peccati sembra finalmente assicurata, Malraux chiude in questo modo:

“La Morte era morta. Seduti sui merli della torre piu alta del castello, i peccati guardavano la sera che accarezzava la città tranquilla. Nessun mutamento era ancora visibile. — E adesso, al lavoro! — disse l’Orgoglio. — Al lavoro! — ripeterono i peccati. — Da dove cominceremo? — soggiunse Hifili. Ci fu un lungo silenzio, cui pose termine il musicista dicendo dopo un momento di esitazione: — Perdonatemi amici... Quando ero un uomo, sof­ frivo di anemia mentale... Sicché, non meravigliatevi della mia domanda: Perché abbiamo ucciso la Morte? I peccati avevano appeso alle cinture, come dei ‘pense-bétes’, pezzi del suo scheletro. Li toccarono e ripe­ terono... — Si, perché abbiamo ucciso la Morte? Poi si guardarono, con tristezza. Si presero la testa tra le mani e piansero. Perché avevano ucciso la Morte? Se n’erano tutti dimenticati.’ Il finale cosi è diverso e al tempo stesso simile alla pri­ ma parte. La prima volta, il mondo aveva vinto gli scrit­ tori, la seconda volta, sono costoro i vincitori, ma nell’uno e nell’altro caso la vittoria è priva di significato, perché vincitori e vinti precipitano nella stessa morte universale.

Le stesse idee saranno riprese su di un piano concet­ tuale in quel libro costituito da uno scambio di lettere tra un intellettuale orientale in viaggio nell’Europa e un in­ 43

tellettuale occidentale stabilito in Cina, che è La Tentation de l’Occident. Il titolo allude alla tentazione che rappresenta per l’Oc­ cidente il resto del mondo e, in primo luogo, l’Oriente, dopo che i suoi valori hanno perduto vitalità e che una malattia mortale lo ha colpito. Ma anche se, in modo espli­ cito, il titolo e la maggior parte del libro riguardano la crisi della cultura occidentale, le ultime lettere mostrano che la cultura cinese subisce anch’essa una crisi comple­ mentare, che implica conseguenze analoghe. Allo stesso mo­ do che l’Occidente ripiega sui costumi stranieri che capisce senza amarli, i giovani cinesi si sentono attirati dalla cul­ tura occidentale che detestano. Nell’un caso e nell’altro, l’atteggiamento è dovuto al declino che subiscono in en­ trambe queste civiltà i valori specifici (l’individualismo in Occidente e il panteismo della sensibilità in Oriente) e gli ostacoli che la vitalità di questi valori opponeva un tempo ai richiami e alla seduzione delle culture forestiere. Per non allungare eccessivamente questo saggio, ci ac­ contenteremo di citare due passaggi a nostro avviso par­ ticolarmente significativi. Innanzitutto, per indicare la crisi della cultura cinese, il ritorno dell’immagine del grande incendio distruttore di tutti i valori: “...io vorrei che la data della nostra festa nazionale non fosse più l’anniversario della nostra rivoluzione di bambini malati, ma di quella sera quando gli in­ telligenti soldati degli eserciti alleati fuggirono dal Pa­ lazzo d’estate, portandosi via i preziosi giocattoli mec­ canici che, nel corso di dieci secoli, erano stati offerti all’Imperatore, calpestando le perle e pulendosi gli sti­ vali sui manti di corte dei re tributari...” La parola “dèi" manca in questo libro — che per il re­ sto è assolutamente analogo ai due brani già citati del Royaume Farfelu e a quello che incontriamo piu tardi in Les conquérants — per il semplice fatto che Malraux, per bocca del vecchio pensatore cinese Wang Lo, aveva appena

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definito l’antica cultura cinese come una cultura senza dèi, dicendo della crisi attuale: "...È la distruzione, lo schiacciamento del più gran­ de sistema umano, un sistema che riuscì a vivere sen­ za appoggiarsi né sugli dèi né sugli uomini. Lo schiacciamentol..."

In secondo luogo, la descrizione della crisi della cultura occidentale. Dopo la scomparsa dei valori trascendenti del Medio Evo, questa crisi risulta — e a questo proposito Malraux dà prova di notevole penetrazione — dall’altra crisi, dei valori individualisti che, nella cultura classica, avevano preso il posto della divinità, e dalla impossibilità di dar vita a delle strutture o a forme nuove che non po­ trebbero più appoggiarsi né sul superindividuale né sul­ l’individuo : “...la realtà assoluta è stata per voi Dio, in seguito l’uomo; ma l’uomo è morto, dopo Dio, e voi cercate con angoscia a chi affidare la sua strana eredità. I vo­ stri piccoli sforzi strutturali per dar luogo a dei nichi­ lismi moderati non mi sembrano destinati a durare a lungo..."

Ma, cosa che riveste particolare interesse alla luce degli ultimi scritti di Malraux sull'arte, e interessante per noi qui per illustrare a che punto gli stessi fatti possano avere significati e valori opposti quando siano integrati in strut­ ture mentali diverse, Malraux indica come sintomo della crisi e della decadenza della cultura occidentale la com­ parsa del Museo Immaginario che gli sembrerà, qualche decina d’anni dopo, la più solida base di questa cultura e addirittura della condizione umana: "...gli Europei sono lante individualismo, li sorregge è, più che di negazioni. Capaci

stanchi di se stessi, del loro crol­ della loro esaltazione. Ciò che il pensiero, una sottile struttura di azione fino al sacrificio, ma 45

pieni di disgusto di fronte alla volontà di azione che tormenta oggi la loro razza, vorrebbero cercare sotto i gesti degli uomini una ragion d’essere piu profonda. Le loro difese vengono meno una per una. Non vo­ gliono esporsi a ciò che si offre alla loro sensibilità, non possono più non capire. La tendenza che li spin­ ge a disertare se stessi, li domina in sommo grado quando volgono la loro attenzione alle opere d’arte. L’arte diventa allora il più raffinato pretesto: la ten­ tazione piu insidiosa è quella di cui sappiamo che è riservata ai migliori. Non esiste mondo fantastico alla cui conquista non puntino oggi in Europa gli artisti inquieti. Palazzo abbandonato, investito dal vento in­ vernale, il nostro spirito si disgrega a poco a poco, e le sue crepe, che fanno un bell’effetto decorativo, si estendono continuamente. (...) Queste opere, e il pia­ cere ch’esse arrecano, possono essere ‘apprese’ come una lingua straniera, ma, celata dal loro succedersi, si indovina la presenza di una forza angosciosa che domina lo spirito. Rinnovare di continuo taluni aspet­ ti del mondo guardandoli con occhi nuovi, c'è in que­ sta ricerca un’ardente ingegnosità che agisce sull’uomo come uno stupefacente. I sogni da cui siamo stati pos­ seduti chiamano altri sogni, comunque si eserciti la loro magia: pianta, quadro o libro. Il particolare pia­ cere che si prova scoprendo arti ignote, cessa con la scoperta e non si trasforma in amore. Vengano altre forme che ci toccheranno e che noi non ameremo, re malati cui ogni giorno reca in dono i piu begli oggetti del regno, cui ogni sera riporta una brama fedele e disperata...” (...) "...È il mondo che invade l’Europa, il mondo con tutto il suo presente e il suo passato, le sue offerte a mucchi, di forme viventi o morte e di meditazioni... Questo grande confuso spet­ tacolo che inizia, caro amico, è una delle tentazioni dell’Occidente.” La crisi profonda della civiltà occidentale, la crisi dei valori individualisti e delle speranze su cui si sostengono,

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si manifesta tra l’altro attraverso una crisi dell’azione e an­ che, come abbiamo visto, una crisi dell’amore, crisi generale dei valori nella quale sopravvive un solo atteggiamento, la conoscenza :

“Il reale in declino s’allea ai miti e predilige quelli nati dallo spirito. Che cosa richiama la visione delle forze inafferrabili, che lentamente rimettono in auge la vecchia effigie del fato, nella nostra civiltà la cui splendida e forse mortale legge è ogni tentazione vi si risolve in conoscenza?... Nel cuore del mondo oc­ cidentale c’è un conflitto senza speranza, qualunque sia la forma sotto cui lo scopriamo: il conflitto tra l’uomo e le umane creazioni.” Il libro termina cosi col rifiuto del sonnifero rappresen­ tato dal cristianesimo: "...una fede più alta: la fede proposta da tutte le croci dei villaggi e da quelle croci che sovrastano i no­ stri morti." “...Non l’accetterò mai; non mi abbasserò a chie­ dergli la pace cui mi chiama la mia debolezza...”

e con una presa di coscienza chiara e disperata che, a tutt’oggi, rappresenta l’ultima parola di Malraux:

“Lucidità bramosa, ardo ancora dinanzi a te, fiam­ ma solitaria e diritta, in questa breve notte in cui il vento giallo urla, come in tutte quelle notti straniere in cui il vento del lago ripeteva intorno a me l’orgo­ glioso clamore del mare sterile..." Tra Royaume Farfelu, Lunes en Papier, La Tentation de l’Occident da un lato e Les conquérants dall’altro, c’è un salto qualitativo: la trasformazione di un giovane che scrive in modo notevole ma la cui visione non è né ori­ ginale né profonda, in uno dei piu grandi scrittori del­ l’Europa occidentale della prima metà del XX secolo. Que­

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sta trasformazione implica certo un progresso nella tecnica della scrittura e nel dominio dello stile; ma se fosse do­ vuta solo a questo, dovrebbe offrire un aspetto graduale e progressivo, e non potrebbe in alcun modo spiegare una trasformazione che si presenta come brusca e qualitativa. Altre due considerazioni appoggiano questa tesi: da un lato una vecchia esperienza dei sociologi della cultura, qua­ si sempre confermata dalle ricerche pratiche, insegna che i mutamenti qualitativi all’interno di un’opera, di uno stile, di un genere letterario o artistico, si sono sempre prodotti, anche quando comportano mutamenti tecnici di rilievo, mercé un nuovo contenuto che finisce per creare i propri modi espressivi; d’altra parte c’è l’evoluzione successiva dello stesso Malraux, che a partire dal 1939, epoca nella quale senza dubbio aveva raggiunto l’apice della sua scrit­ tura e del suo stile, smise tuttavia di comporre opere let­ terarie per tornare, senza dubbio ad un livello molto più alto, ai saggi e alle opere di pensiero. Sarebbe eccessivo richiamare a questo punto la nostra ipotesi iniziale secondo cui l’opera propriamente letteraria dello scrittore, la sua possibilità di dar vita ad universi immaginari concreti di portata realistica era strettamente legata ad una fede in valori umani accessibili all’universo degli uomini, mentre gli scritti di pensiero corrispondereb­ bero all’assenza di tale fede, si manifesti questa assenza sotto forma di disillusione iniziale o sotto forma della teo­ ria delle élites creatrici annunciata in Les Noyers de ΓAl­ tenburg e svolta a partire dal Musée Imaginaire. Il romanziere Malraux, tra Les conquérants e La con­ dition humaine è un uomo che crede a dei valori univer­ sali benché problematici. Lo scrittore Malraux de Le Temps du Mépris e de L’Espoir è un uomo che crede a valori umani universali e trasparenti benché gravemente minac­ ciati. L’autore de Les Noyers de l'Altenburg, libro che sta tra la creazione letteraria e la riflessione concettuale, è un uomo che racconta la propria disillusione e cerca ancora un fondamento per la sua fede nell’uomo. Verranno poi il saggista e lo storico dell’arte, che non riguardano più il nostro studio, perché qui noi vogliamo 48

occuparci dello scrittore Malraux e della sua concezione, o più esattamente delle sue concezioni e delle loro espres­ sioni letterarie. Non sappiamo in quale ordine siano stati scritti Les conquérants e La voie royale. 11 problema ha importanza, però non decisiva, perché i due libri hanno una struttura analoga e si completano a vicenda. Essi pongono decisa­ mente Malraux tra i grandi scrittori del XX secolo, perché danno una soluzione nuova e originale al problema più importante che, in forme diverse e complementari, si po­ neva sia alla filosofia che alla letteratura occidentali del tempo: dare un significato alla vita all’interno della crisi generale dei valori. Cerchiamo, entro il modesto àmbito di una ricerca ch’è ancora agli inizi, di delineare la situazione in letteratura e filosofia. Nei nostri saggi sulla sociologia del romanzo, abbiamo caratterizzato questo periodo come un periodo di transi­ zione tra due forme romanzesche che si trovavano intel­ ligibilmente legate con l’insieme della struttura sociale ed economica: la prima, quella del romanzo ad eroe proble­ matico, corrispondente all’economia liberale e legata al va­ lore universalmente riconosciuto e fondato nella realtà di ogni vita individuale in quanto tale; e l’altra, il romanzo a carattere non biografico, corrispondente alle società in cui l’economia liberale e con essa l’individualismo sono già su­ perati. Ora, se il romanzo ad eroe problematico e il romanzo non biografico rappresentano strutture relativamente uni­ tarie e stabili, tra i due si colloca un periodo di transizione molto più vario e ricco in tipi di creazione romanzesca: periodo originato dal fatto che da un lato il venir meno della base economica e sociale dell’individualismo non con­ sente più agli scrittori di accontentarsi del personaggio problematico in quanto tale senza legarlo ad una realtà che gli è esterna, mentre, d’altra parte, l’evoluzione eco­ nomica, sociale e culturale non è ancora abbastanza avan­ zata per creare le condizioni di una definitiva cristalliz­

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zazione del romanzo senza eroe e senza personaggio. Be­ ninteso, non si deve pensare che questi tre periodi siano chiaramente circoscritti nel tempo. La vita sociale è una realtà complessa e i suoi diversi aspetti si sovrappongono: alcuni scrittori elaborano già romanzi senza personaggio, altri sono rimasti al romanzo ad eroe problematico, mentre alcuni si pongono sul piano di ciò che abbiamo chiamato periodo di transizione, la distinzione in tre periodi succes­ sivi essendo anzitutto una schematizzazione intesa a orien­ tare la ricerca1. Comunque, i primi romanzi di Malraux si situano nella linea globale del romanzo di transizione, la cui problema­ tica è quella del soggetto e del senso dell’azione e, per quanto possibile, dell’azione individuale in un mondo in cui l’individuo ha smesso di rappresentare un valore per il semplice fatto d’essere individuo. E l’importanza di Les conquérants e de La voie royale, sta in ciò che avendo integrato ad un grado altissimo la coscienza del problema della crisi dei valori già espressa in modo radicale nei suoi tre primi scritti, Malraux offre tuttavia una soluzione sul piano della biografia individuale, mentre alcuni altri scrit­ tori (ed anche lui a partire da Lđ condition humaine), si orientano verso la sostituzione dell’eroe individuale con un personaggio collettivo. Insomma, Les conquérants e La voie royale si collocano fra tutti i grandi tentativi di romanzo ad eroe problema­ tico, e ciò con la piena consapevolezza del fatto che la vita degli eroi di questo tipo non basta più a se stessa, e che per renderla significativa bisogna superarla tendendo ad un certo contesto sociale e storico. Diciamo subito, prima di iniziare la descrizione strutturale dei due libri, che in questa prospettiva i loro eroi debbono essere necessaria­ mente uomini d’azione. Don Chisciotte, Julien Sorel, Emma Bovary erano in­ 1 Schematizzazione che ha però un fondamento nella realtà. Sarebbe infatti difficile pensare ad uno scrittore che nell'Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale creasse un’opera che avesse insieme l’am­ piezza di respiro e la struttura dei romanzi di Malraux (benché la cosa non sia del tutto inconcepibile).

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fatti interessanti per la loro psicologia; Garine e Perken non sono separabili dal loro agire. Questo agire non è un dettaglio accidentale o l’espressione di una preferenza psi­ cologica di Malraux, ma una necessità strutturale del loro personaggio. Senza il loro sforzo per attuare certi fini nel mondo esterno, senza la serietà di questo sforzo (e l’espressione di questa serietà si ritrova nel fatto ch’essa giunge natu­ ralmente ad accettare la possibilità del suicidio e il rischio della morte), i loro personaggi sarebbero del tutto privi d’interesse. Si è rimproverato spesso agli eroi di Malraux, specialmente a Garine e a Perken, d’essere avventurieri. Lo stesso Malraux ha tentato di differenziarli dagli avven­ turieri, contrapponendo per esempio Perken al re Mayrena o Claudio al padre. Naturalmente la terminologia non ci interessa e ci è del tutto indifferente sapere cos’è un "avventuriero”, ma la distinzione che instaura Malraux ci sembra molto impor­ tante ai fini della comprensione delle sue opere. Mayrena e il nonno Claudio hanno per se stessi, per lo stile della propria azione e della propria vita, un interesse diretto. Invece Garine, Perken e anche Claudio, si interessano esclusivamente ai fini che perseguono, la loro azione è seria perché tesa innanzitutto alla vittoria e perché lo stile della loro vita risulta appunto dal fatto ch’essi non ci pen­ savano al momento dell’azione. Prima di procedere nell’analisi, dobbiamo soffermarci al­ quanto sul contesto intellettuale entro il quale si è formata la risposta di Malraux, sul modo in cui si poneva, durante questo periodo critico della coscienza occidentale, il pro­ blema dei valori sul piano del pensiero concettuale e filo­ sofico in particolare. La crisi deU’individualismo aveva infatti, per un altro verso, posto al centro della problematica filosofica questi problemi dell’azione e della morte1. 1 Può darsi d’altra parte che Malraux si sia imbattuto in questi come in altri problemi per il tramite delle filosofie esistenzialista e marxista che stavano penetrando in Francia. L’esame di questa penetrazione sarà il tema delle nostre prossime ricerche.

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Nel pensiero cristiano del Medio Evo, la morte rappre­ sentava per l’individuo un problema particolarmente im­ portante, perché corrispondeva al bilancio della sua vita, costituiva il momento in cui si sarebbe deciso, una volta per sempre, il carattere della sua esistenza eterna, la sua eterna condanna o salvezza. Non era tuttavia il problema essenziale, subordinato com’era a quello della salvezza. Però, piu tardi, l’individuo, diventato in quanto indi­ viduo valore universale, non si imbatterà piu, o sempre meno, nel problema dell’istante in cui smetterà d’esistere; i valori individualisti della ragione e dell’esperienza restano valori eterni nella misura in cui ci saranno sempre indi­ vidui che li perseguiranno realmente o avranno virtual­ mente la possibilità di perseguirli. Finché esiste l’individuo, esso è un valore in quanto individuo; quando è morto, smette di esistere come valore e come problema; è per questo, l’abbiamo detto in altra sede, che le filosofie indi­ vidualiste sono di tendenza virtualmente amorali, non este­ tiche' e areligiose. Nel XX secolo, la crisi dei valori individualisti, che come abbiamo già osservato, nacque dalla fine dell’economia li­ berale ed ebbe come conseguenza in letteratura la deca­ denza del romanzo tradizionale ad eroe problematico, ha non solo riportato ad attualità a livello del pensiero con­ cettuale il problema della morte, ma lo ha addirittura col­ locato al centro della problematica filosofica. Se il comportamento dell’individuo non può infatti fon­ darsi né su valori superindividuali (perché l’individualismo li ha eliminati tutti) né sul valore incontestabile dell’indi­ viduo (oggi posto in forse), il pensiero doveva necessaria­ mente imperniarsi sulle difficoltà di questo fondarsi sui limiti dell’essere umano in quanto individuo e sul più importante di questi limiti, la sua inevitabile fine, la morte. La posizione pascaliana tornava cosi di attualità e non è certo a caso se verso il 1910 la si trova per la prima 1 A meno che non si tratti di un'estetica meramente edonista, che riduca l’arte al piacevole o al gradevole individuali eliminando ogni rapporto con la trascendenza.

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volta riespressa in una grande opera filosofica: la Meta­ fisica della Tragedia di Georg Lukacs. Il problema che si poneva in modo sempre piu acuto e consapevole ai filo­ sofi di quel tempo, era infatti quello della mancanza di fondamento dei valori e delle possibilità di superarla; in questa prospettiva, il comportamento individuale si pre­ sentava sotto due aspetti complementari: riferito all’indi­ viduo come sostanzialmente limitato dalla morte e cozzantesi contro nel suo sforzo per trovare un significato (poi­ ché ogni significato individuale era necessariamente an­ nullato dalla morte dell’individuo che lo stabiliva); riferito alla società e alla comunità degli uomini, come mancanza d’ogni forma di realtà superindividuale e per ciò stesso come difficoltà di trovare nell’azione esterna un significato pieno e valido. In breve, privo di due possibili fondamenti, ^individuo e le realtà transindividuali, il comportamento umano era posto in questione e la crisi assumeva per il pensiero filosofico la forma del duplice problema della morte e àc\\'azione. Orbene, è a questa problematica che i due primi romanzi di Malraux danno una risposta coe­ rente e originalissima. Nel momento infatti in cui usciva Les conquérants, Lukacs aveva già dato due risposte contraddittorie a que­ sti problemi. Nel 1908 nella Metafisica della Tragedia ave­ va affermato che la realtà assoluta della morte come li­ mite e la mancanza d’ogni realtà superindividuale rende­ vano impossibili nel mondo qualsiasi vita autentica, qual­ siasi azione valida, sicché secondo lui l’autenticità poteva trovarsi ormai solo nella chiara coscienza di questo limite e nella grandezza di un rifiuto voluto e radicale. Nel 1923, diventato marxista, affermava la realtà di un soggetto superindividuale della storia, il proletariato rivo­ luzionario e, quindi, la possibilità di una vita e di un’azio­ ne significative, e il carattere in ultima istanza secondario della morte, che era ormai soltanto un fatto individuale incapace di intaccare il vero soggetto del pensiero e del­ l’azione. Per quanto diverse siano queste due posizioni, il lettore ha senza dubbio notato che presentano un elemento co­

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mune: la vicendevole esclusione dell’azione significativa e della morte in quanto realtà umane fondamentali; nel 1908 la realtà sostanziale della morte elimina per Lukàcs ogni possibilità d’azione significativa, nel 1923 la possibilità del­ l’azione relega inversamente il problema della morte in secondo piano. Su questo punto, nonostante lavorasse con gli stessi ele­ menti, il pensiero di Heidegger in Sein und Zeit è sostan­ zialmente diverso. In ultima analisi, si tratta di una sin­ tesi conservatrice delle due posizioni di Lukàcs, che con­ clude affermando una possibilità di coesistenza tra l’au­ tenticità, la consapevolezza acuta della realtà della morte e un certo modo di azione significativa inframondana. Come Lukàcs nel 1908, Heidegger pensa nel 1927 che la sola possibilità di un’esistenza autentica è quella della vita per e verso la morte {Sein zum Tode). Però, come Lukàcs nel 1923, Heidegger pensa che questa esistenza individua­ le autentica può attuarsi nell’azione storica, non mercé la realtà di un soggetto collettivo superindividuale, ma con la ripetizione (autentica e non meccanica) dell’atteggia­ mento e del comportamento delle grandi figure del passa­ to nazionale. È un arduo problema filosofico quello del fondamento nella filosofia di Heidegger di questa sopravvivenza dei va­ lori alla morte dell’individuo. Forse essa sottende l’idea d’una comunità autentica non degli uomini in quanto tali ma di individui che costituiscono una élite creatrice. Se questa interpretazione fosse valida, si tratterebbe in fondo di un pensiero assai simile a quello che svilupperà Mal­ raux nei suoi saggi sull’arte. È un problema però che in questo momento non ci riguarda. Basta dire che per ogni scrittore o pensatore che cercava ancora una visione indi­ vidualista universale, nelle ambizioni, la posizione di Lu­ kàcs nel 1908 presentava la difficoltà di negare ogni possi­ bilità di vita autentica nel mondo, quella del 1923 la diffi­ coltà di negare il carattere primordiale dell’individuo, e quella di Heidegger in Sein und Zeit la difficoltà di con­ ciliare l’importanza essenziale della morte per ogni co­ scienza individuale autentica con la sopravvivenza del va-

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lore dei progetti e delle azioni individuali al di là della scomparsa dell’individuo. Allo stato attuale della nostra ricerca, nulla ancora sap­ piamo della genesi biografica e storica delle idee di Mal­ raux; ma la concezione che si trova alla base di Les con­ quérants e de La voie royale, e che ha permesso a Malraux di creare una forma particolare di romanzo ad eroe pro­ blematico, si colloca, chiarissimamente, nel contesto intel­ lettuale che abbiamo descritto. Perché in questi romanzi la morte e l’azione significativa si escludono senz’altro in quanto presente, però possono egualmente costituire una struttura nella misura in cui si succedono nel tempo. Finché l’individuo vive, l’autenticità della sua vita sta nella sua totale partecipazione all’azione rivoluzionaria di liberazione, nella preoccupazione esclusiva della vitto­ ria, e questa azione relega la morte ad un posto reale certo, ma secondario. La morte per l’eroe esiste solo in quanto limite sempre presente la cui incorporazione nella coscien­ za è la sola cosa che rende la sua azione veramente seria. D’altra parte essa rappresenta anche una realtà virtuale e inevitabile estranea all’azione, e la cui attualizzazione non può che togliere retroattivamente ogni valore ad un’azione che trovava il suo fondamento solo nell’individuo. Finché Garine o Perken agiscono, la morte per loro esi­ ste solo come rischio e limite dell’azione, e l’assunzione del­ la morte è ciò che rende l’azione seria e valida. A partire dal momento in cui la morte fa la sua comparsa, la loro azione perde retroattivamente qualsiasi valore ed essi si ritrovano soli come l’uomo di Pascal o l’uomo di Lukacs nella Metafisica della Tragedia. Quanto alla struttura formata da questa sintesi di azio­ ne e morte, crea un individuo sui generis che non è l’uo­ mo tragico di Pascal e del primo Lukacs né il genio ro­ mantico di Heidegger, ma Garine e Perken, gli uomini d’azione non conformisti, rivoluzionari, problematici e ma­ lati dei due primi romanzi di Malraux. È in questa prospettiva che ora analizzeremo i due libri di cui abbiam già detto che sfortunatamente ignoriamo l’ordine cronologico. 55

Les conquérants, pubblicato nel 1927, si compone di tre parti i cui titoli riassumono la narrazione: "Avvicinamen­ ti”, “Potenze", "L’uomo”. La vicenda è raccontata da un giovane che lascia l'Euro­ pa e giunge nei luoghi dove incontrerà l’eroe del roman­ zo e dove si svolge un episodio decisivo del divenire sto­ rico. Fin dalla prima riga Malraux dice però che Garine non ha un’esistenza autonoma, non esiste per se stesso. Nel pia­ no complessivo Yuomo arriva solo dopo le potenze·, e gli avvicinamenti hanno un bell’essere quelli che conducono il narratore a Garine, sono dapprima gli avvicinamenti al luo­ go che permette a Garine d’avere un’esistenza significati­ va, d’essere se stesso; il romanzo comincia col constatare nella stessa frase il luogo dell’azione e la natura del luogo, l’essenza dell’universo descritto: LO SCIOPERO GENERALE È PROCLAMATO A CANTON

Non si tratta solo di un fatto di cronaca, forse impor­ tantissimo ma sempre della stessa natura di molti altri; si tratta, nel romanzo, di una trasformazione radicale del­ l’universo, nell’istante in cui esso comincia ad esistere e la vita diventa finalmente possibile. Nel mondo passivo e in decomposizione che Malraux aveva descritto nelle opere precedenti, si affaccia qualcosa che riporta la vita e rappre­ senta un nuovo valore: l’azione e più precisamente l’azio­ ne rivoluzionaria storica. In questo mondo, col quale non si identifica (non è né cinese né rivoluzionario professionista, e perciò può essere l’eroe del romanzo), Garine potrà diventare un personag­ gio essenziale e dar significato e valore alla propria esi­ stenza. Ad un livello molto generale, potremmo appagarci di constatare che Malraux ha scoperto nell’azione storica la possibilità di una creazione letteraria originale. Basterebbe forse per un saggio fenomenologico. Ma poiché siamo so­ ciologi, dobbiamo altresì constatare che questa azione assu­ me, nell’opera romanzesca di Malraux, una forma concre-

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ta, determinata dall’epoca, quella dell’incontro tra il mondo e l’ideologia comunista; dobbiamo quindi soffermarci un poco ad analizzare questo incontro. Pur non avendo ancora proceduto all’esame approfon­ dito non fosse che della sola parte più importante della letteratura romanzesca tra le due guerre, ci sembra che Malraux sia con Victor Serge il solo scrittore noto che ab­ bia fatto della rivoluzione proletaria un elemento strut­ turale importante delle sue creazioni letterarie. In fondo, tra il 1927 e il 1939, Malraux è il solo grande romanziere di questa rivoluzione. Ciò mostra l’importanza ch’ebbe per lui l’incontro che gli consenti di dar vita a un vero mon­ do romanzesco, l’incontro con l’ideologia comunista che evidentemente gli apparve in un primo tempo l’unica real­ tà autentica in un mondo in decomposizione. È anche chiarissimo che Malraux non è comunista, né nelle sue prime tre opere romanzesche, Les conquérants, La voie royale e La condition humaine, né nell’ultima ope­ ra propriamente letteraria, Les Noyers de ΐAltenburg, poiché le opere scritte nella prospettiva piu vicina al pen­ siero comunista ufficiale sono Le Temps du Mépris, e so­ prattutto L’Espoir. Questa constatazione pone a chi voglia intraprendere uno studio sociologico degli scritti di Malraux almeno due grup­ pi di problemi importanti. Il primo, che suppone un’ampia ricerca empirica, è di sapere in che misura il rapporto tra il pensiero di Malraux col pensiero comunista tra il 1925 e il 1933 è un fenomeno individuale o esprime invece un fatto generale risultante dall’incontro delle preoccupazioni che dominano taluni gruppi d’intellettuali francesi con la real­ tà della rivoluzione russa e del movimento rivoluzionario mondiale; il secondo, d’ordine propriamente estetico, è quello del rapporto tra il posto che occupa in questa visio­ ne il movimento comunista e la forma letteraria delle ope­ re stesse. Non è infatti casuale che la forma romanzesca dei tre primi libri (Les conquérants, La voie royale, La condition humaine) coincida con un rapporto complesso che implica a un tempo una comunanza e una distanza tra lo scrittore

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e il movimento, mentre, ne Le Temps du Mépris e ne L’Espoir, quando l’avvicinamento si sostituisce alla distan­ za, vediamo questa forma propriamente romanzesca rom­ persi per far posto ad una forma letteraria nuova sui gene­ ris che bisognerebbe ancora analizzare. Diciamo infine che Les Noyers de l’Altenburg, libro intermedio dal punto di vista formale tra la creazione letteraria e il saggio, si chia­ risce anch’esso in gran parte come il rapporto tra Malraux e il comuniSmo, nella misura in cui uno degli aspetti del libro ne esprime appunto la rottura radicale. Prima di passare all’analisi di Les conquérants, aggiun­ giamo che esistono su questo romanzo due scritti impor­ tanti che ci sembrano fondati su di un solo e identico ma­ linteso. Una lettera di Trotsky che parla del libro come se si trattasse di uno scritto politico, ignorandone compietamente il carattere letterario e le esigenze formali della struttura romanzesca, e, cosa curiosa, una nota aggiunta da Malraux in occasione della riedizione nella "Plèiade", in cui egli spiega il perché del suo rifiuto del comuniSmo e si pone, certo in una prospettiva opposta, sullo stesso piano della lettera di Trotsky. Va da sé che nella nostra analisi cercheremo invece di attenerci allo studio di un universo immaginario che ha certo il suo fondamento nella realtà sociale e politica dell’epoca, e per studiare il quale le con­ vinzioni politiche dello scrittore rappresentano uno dei fattori esplicativi, ma uno solo tra altri, e non sempre il piti importante (il sociologo della letteratura sa che molto spes­ so le esigenze formali hanno la meglio sulle convinzioni in­ tellettuali dell’autore), universo che ha però le proprie esi­ genze strutturali che si tratta appunto di capire e di evi­ denziare.

“Lo sciopero generale è proclamato a Canton.” Per la vita dei coolies cinesi e per la civiltà cinese questo evento rappresenta una svolta decisiva. "La Cina ignorava le idee che tendono all'azione e queste idee la conquistavano come l’idea d’eguaglian-

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za conquistava in Francia gli uomini dell’89: come una preda... A Canton... non si aveva alcuna nozione nean­ che del piu elementare individualismo. 1 coolies stan­ no per scoprire che esistono, semplicemente che esi­ stono... La propaganda... di Garine... ha agito su di essi in modo torbido e profondo — e imprevisto — con straordinaria violenza, dando loro la possibilità di credere alla propria dignità... la rivoluzione francese, la rivoluzione russa sono state forti perché hanno dato a ciascuno la terra; questa rivoluzione sta per dare a ciascuno la vita."

Le ultime frasi mostrano subito che nel romanzo la ri­ voluzione cinese assume un’importanza particolare, diver­ sa da quella della rivoluzione russa e del comuniSmo in­ ternazionale. D’altronde, il testo lo sottolinea :

"Borodine forse non lo ha ancora ben capito." Altri passaggi indicano la stessa cosa; il narratore che, in viaggio per Canton, legge i messaggi e reagisce secondo l’importanza che hanno i luoghi e le cose nell’universo del romanzo.

"Svizzera, Germania, Cecoslovacchia, Austria, sal­ tiamo, — Russia, vediamo. No, nulla d'interessante. Cina, ah! Mukden; Ciang-Tso-Lin... Saltiamo. Canton.” In questo brano, i nomi dei paesi o delle città non sono semplici constatazioni geografiche o sociologiche, ma la descrizione della struttura dello spazio romanzesco. Canton e la Cina al centro, piu lontano la Russia, la Svizzera, la Germania, ecc., fuori dei loro confini e perciò stesso indifferenti. Orbene, come la maggior parte dei critici ha avvertito, Malraux resta uno scrittore occidentale preoccupato dai problemi dell’Occidente. Se per scrivere i romanzi della ri­ 59

voluzione colloca la loro azione in Cina e in Spagna, è perché i movimenti rivoluzionari hanno luogo li e, per at­ tribuire un carattere realistico all’azione, egli deve situar­ la il piu vicino possibile alla realtà. Ci sembra tuttavia che in questi romanzi e forse nel pensiero della maggior parte degli intellettuali di sinistra di quel tempo, non si noti nes­ suna coscienza di un fatto che oggi per noi è diventato evidente: che la Cina in particolare e i paesi industrializ­ zati in generale hanno i loro problemi, diversi da quelli che si pongono alle società occidentali e che nei due gruppi di paesi si delineano due processi evolutivi diversi. Parlando della Cina, Malraux non vuole rifugiarsi nel­ l’esotismo né dipingere una situazione particolare, ma par­ lare dell’uomo universale e, implicitamente, dell’uomo oc­ cidentale, di sé e di tutti i suoi compagni. In questa prospettiva, la Cina, Canton, la lotta contro l’Inghilterra rappresentano l’azione storica e rivoluzionaria universale, l’azione liberatrice che dà all’uomo una nuova coscienza della propria esistenza e dignità. E, beninteso, l’universo del romanzo si dispone interamente sull’asse di questa azione: il capitalismo straniero — rappresentato soprattutto dall’Inghilterra con i suoi alleati in Cina — vi incarna le potenze antagoniste e, cosa importante, la Rus­ sia sovietica, coi suoi rappresentanti nel romanzo, Klein, Borodine, Nikolaïev, rappresenta una forza alleata positiva e tuttavia straniera e diversa dalla rivoluzione cinese. La prima parte, “Avvicinamenti”, racconta come il viag­ giatore veda delinearsi progressivamente nel corso del viag­ gio l’universo del romanzo, universo di cui già sappiamo che è formato dagli elementi indicati dai titoli delle altre due parti: “Potenze", la rivoluzione cinese sostenuta dalla Russia e dai comunisti, e contro di essa l’Inghilterra; “L’uo­ mo”, Garine. All’interno di questo quadro generale rappresentato dal­ le potenze in lotta, esaminiamo la struttura interiore della potenza rivoluzionaria e i principali personaggi che l’in­ carnano. C’è innanzitutto la massa cinese, descritta nella sua complessa strutturazione, dai poveri d’Indocina, simpa­ tizzanti passivi che s’accontentano d’appoggiare finanzia­ 60

riamente la rivoluzione, ai quadri sindacali e agli allievi della scuola militare. Non insisteremo nella analisi di que­ sti aspetti. È certo un problema importante, ai fini di uno studio esauriente dell’opera, ma affrontandolo rischierem­ mo di allargare eccessivamente i limiti di questo saggio. Questa massa rappresenta lo sfondo dell’opera. Quanto agli individui, in primo piano stanno Garine e Borodine, “i due manitu". Di primo acchito si potrebbe provar la tentazione di scrivere “gli eroi di Malraux e il militante comunista”, ma sarebbe un semplificare all’estremo perché nel romanzo il comuniSmo è rappresentato da tre personaggi che incarna­ no con tutta evidenza, nella concezione di Malraux e di Garine, tre elementi costitutivi e distinti del movimento co­ munista, ciascuno dei quali possiede un valore umano di­ verso: Klein, Borodine e Nikolaïev. Il primo, Klein, è il militante votato senza riserve alla causa, strettamente legato al popolo (nel romanzo il lega­ me è espresso dal suo rapporto con la moglie, perfetta in­ carnazione del popolo oppresso), che dedica tutta la vita al partito e che finirà, per la sua attività, torturato e ucciso. Borodine è il capo rivoluzionario, l’uomo d’azione per cui però l’azione può esistere solo in quanto lotta contro l'oppressione. Diciamo subito che, come l’azione di Garine è strutturata e minacciata dal limite della morte, quella di Borodine è strutturata e minacciata da un diverso limite che ha tuttavia una funzione analoga, quello della vittoria. Rivoluzionario di professione, Borodine non potrebbe mai diventare governante o uomo di stato. Per questo, nel ro­ manzo, in cui la malattia è espressione di un’azione il cui futuro minaccia di distruggere retroattivamente il signifi­ cato, egli è come Garine, gravemente ammalato, benché per ragioni diverse. Infine, Nikolaïev, l’eterno poliziotto, che tale è stato sot­ to lo zarismo, tale è in Cina e tale sarà sempre, per il quale la vittoria non può portare nessun mutamento. È un uomo limitato, ma energico, e svolge delle funzioni utili, che rie­ scono però a stento ad avere un valore umano. In questo romanzo della rivoluzione Garine e Borodine 61

sono "i due manitu” perché la loro esistenza è strettamente legata all’azione rivoluzionaria in quanto tale e non si con­ cepirebbe fuori di essa; la loro esistenza perderà ogni si­ gnificato nel momento in cui quest’azione cesserà, per Garine in conseguenza della sua morte, per Borodine in con­ seguenza della vittoria del partito cui appartiene. Attorno a loro, i due personaggi principali, Hong e Ceng Dai, incarnano entrambi l’atteggiamento astratto, di principio, senza legame con la situazione concreta e con le conseguenze dei loro atti. Hong, l’anarchico, sul piano pratico dell’azione, Ceng Dai sul piano spirituale e astrat­ to dei principi. Hong giunge fino a volere uccidere a qual­ siasi costo i ricchi e i potenti; Ceng Dai si oppone per prin­ cipio a qualsiasi violenza. In fondo sono entrambi, ciascuno a suo modo, dei moralisti kantiani e degli idealisti. Avendo incontrato cosi durante il viaggio le potenze che rappresentano non il quadro ma gli elementi stessi della struttura romanzesca, il narratore e Malraux sono finalmen­ te in grado di evocare, mercé la lettura d’una scheda di po­ lizia, movendo dall’esteriore all’essenziale, il personaggio centrale del romanzo: Garine. La scheda dà come prima caratteristica "militante anar­ chico”, ma il narratore, che lo ha conosciuto in altri tempi, corregge: "pur avendo frequentato degli ambienti anarchi­ ci, non lo è mai stato". Ciò che gli premeva non era que­ sto o quell’ideale, ma il mezzo per dare senso alla propria vita.

“A vent’anni... ancora sotto l’influsso degli studi di lettere che aveva appena terminati e di cui restava in lui solo la rivelazione di grandi esistenze opposte ('Qua­ li libri valgono la pena d’esser scritti, tranne le Me­ morie?’), era indifferente ai sistemi, deciso a scegliere quello che le circostanze gli avrebbero imposto." Un po’ piu avanti, parlando degli anarchici: "Quei cretini vogliono aver ragione. All’occorrenza, c’è una sola ragione che non sia ostentazione: l’uso piu efficace possibile della propria forza."

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E l’unico uso possibile, non autolesionistico, è nella lotta volta ad una meta precisa. ‘“Non è tanto l’uomo quanto la conquista, a fare il capo,’ m’aveva detto un giorno. E aveva soggiunto ironicamente ‘Purtroppo!’ Alcuni giorni dopo (stava leggendo il Memoriale/· Soprattutto, è la conquista che tiene vivo lo spirito del capo. Napoleone a Santa Elena arriva a dire: ‘Eppure, che romanzo è stata la mia vita!’ Anche il genio marcisce..." Implicato in un’oscura storia di aiuto finanziario a delle giovani che volevano abortire, si trova un giorno accusato a Ginevra e deve affrontare il Tribunale. Il solo sentimento che gli ispira il processo è quello dell’assurdità totale della commedia che si recita sotto i suoi occhi e della sua parteci­ pazione sia pure esterna ad una società alla quale si scopre completamente estraneo. Arruolato in seguito nella Legione Straniera, trova la guerra lontana dall’azione autentica come l’anarchia e pre­ sto diserta. A Zurigo entra in contatto con degli emigrati bolscevici: in un primo momento ha l’impressione che si tratti di puri teorici fino al giorno che scopre con meravi­ glia che quei dottrinari hanno organizzato con successo una rivoluzione. Imbattutosi per la prima volta in un esempio di efficien­ za rivoluzionaria, cerca di sfruttare le sue relazioni per andare in Russia, non ci riesce ma riesce a farsi chiamare in Cina dove farà dell’ufficio della propaganda che gli vie­ ne affidato più o meno casualmente, e ch’era una istituzio­ ne di scarsa importanza, uno dei principali centri d’azione rivoluzionaria. È proprio grazie a lui e alla sua organizza­ zione che è diventata possibile quella trasformazione della Cina che paralizza l’avversario con lo sciopero di Canton. Aggiungiamo che, durante il viaggio, il narratore ha avuto modo d’apprendere che questa azione, cosi grandiosa ed efficace se vista dal di fuori, è invece internamente mina­ ta da molti pericoli: la mancanza di denaro, la potenza del­ l’avversario, i suoi emissari tra le file cinesi, l’immensa au­

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torità di cui gode un nemico della violenza come Ceng Dai, ecc. La partita non è affatto chiusa, anzi è il momento in cui si decide, in cui la vittoria o la disfatta attribuiranno si­ gnificato a quella che è la posta di Garine: la sua vita. Infine, in questa descrizione del personaggio romanze­ sco e della sua problematica, Malraux ha lasciato per le ultime righe della prima parte la conclusione della scheda poliziesca, l’elemento decisivo che definisce lo statuto strut­ turale di Garine:

“Mi permetto di attirare particolarmente la vostra attenzione sul fatto che quest’individuo è gravemente malato.” Beninteso, la scheda non accenna né alla natura né alle conseguenze di questa malattia. Precisa però che "sarà costretto ad abbandonare tra poco il Tropico”,

la qual cosa il narratore commenta in due parole:

“Ne dubito.” La seconda e la terza parte del libro ci mostreranno que­ sta struttura che già conosciamo (le potenze e l’eroe) in azione. Naturalmente non è possibile, in un saggio limi­ tato, analizzare dettagliatamente ciascun romanzo di Mal­ raux; una volta delineata la struttura, bisogna procedere per sommi capi. L’azione ruota intorno allo sforzo dei rivoluzionari, la cui organizzazione è diretta da due personalità di rilievo, Garine e Borodine, per ottenere dal governo un decreto che vieti alle navi dirette in Cina di far scalo a Hong-Kong e che paralizzi cosi il porto. Il governo, di cui fanno parte oltre agli elementi rivoluzionari i rappresentanti della bor­ ghesia moderata, esita e tergiversa. Uno dei personaggi piti importanti che lo spingono a temporeggiare è Ceng Dai, rappresentante le tradizioni cinesi, moralista nemico della

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violenza, che gode di un prestigio considerevole. Con lui è schierato un altro membro del Kuomintang, il gene­ rale Tang che, appoggiandosi all’Inghilterra, prepara l’in­ tervento militare contro le forze rivoluzionarie di Canton. E Ceng Dai, sostenitore della lotta puramente spirituale e dell’unità nel Kuomintang, lo appoggia, ignorando, natu­ ralmente, o fingendo d’ignorare che in questo modo fa il gioco dell’avversario. Di fronte a costoro, Hong, moralista dell’azione e della violenza rivoluzionaria, finirà per volere uccidere tutti i ricchi, indipendentemente dalle conseguenze politiche del suo gesto e senza preoccuparsi del fatto che i rivoluzionari hanno bisogno dell’appoggio di una parte della borghesia democratica. Ora, terrorizzando questa borghesia e ribut­ tandola verso i moderati, il suo gesto avrà obiettivamente le stesse conseguenze di quello di Ceng Dai. Aggiungiamo infine che se tema del romanzo è la vitto­ ria delle forze rivoluzionarie sul tentativo d’intervento mi­ litare del generale Tang e se questa vittoria nell’universo del romanzo appare definitiva (tutti gli avversari imme­ diati della rivoluzione, Tang, Ceng Dai e lo stesso Hong sono battuti e il decreto è varato), ci si lascia intendere tut­ tavia che la lotta continua e che ci saranno ancora parec­ chi episodi del tipo della rivolta di Tang. Nell’ambito di questo quadro, sceglieremo alcuni episodi che caratterizzano i personaggi principali. Cominciamo con quello di Ceng Dai, come lo vede Garine. L’essenza di Ceng Dai è formulata in una parola: egli è “l’avversario”. La radice della sua forza è la sua adesione alla mentalità e alla tradizione cinese:

“Sun Yat Sen disse prima di morire: ‘La parola di Borodine è la mia parola.’ Ma anche la parola di Ceng Dai è la sua parola, e non ha avuto bisogno di dirlo." La nobiltà è uno dei tratti maggiori del carattere di Ceng Dai, ma “la sua nobiltà, per il fatto d’esser reale, non è priva di abilità”.

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“'La sua autorità è anzitutto morale. Non hanno tor to', disse Garine, ‘di fare a proposito di lui l’esempio di Gandhi... Ma, se le due azioni sono parallele, gli uomini sono diversissimi.’ Perché Gandhi vuole inse­ gnare agli uomini a vivere mentre Ceng Dai ‘non vuo­ le essere né esempio, né capo, ma consigliere (...) tutta la sua vita è una protesta morale e la sua speranza di vincere con la giustizia esprime soltanto la piu grande forza di cui possa rivestirsi la profonda, irrimediabile debolezza cosi diffusa nella sua razza (...) È molto piu affezionato alla sua protesta che deciso a vincere; gli si addice essere l’anima e l’espressione di un popolo op­ presso (...) Nobile figura di vittima che cura la propria biografa (...)’ Garine, un giorno, termina una discus­ sione sulla Terza Internazionale con queste parole: 'Ma la Terza Internazionale ha fatto la Rivoluzione.’ Ceng Dai risponde solo con un gesto evasivo e re­ strittivo insieme (...) Garine dice di non aver mai capi­ to cosi bene la distanza che li separa (...) Il disinte­ ressato Ceng Dai non vuole che il disinteresse sia ignorato." Dietro Ceng Dai si sono organizzati Tang e le forze reazionarie che s’appoggiano all’Inghilterra, e quando il narratore si stupisce “che un tale movimento possa prepa­ rarsi all’insaputa del vecchio”, Garine risponde:

“Non vuol sapere, non vuol impegnare la propria responsabilità morale, ma credo che voglia sospettare...” Dopo questa descrizione, si comprende facilmente il suo incontro con Garine. Ceng Dai ha chiesto di vederlo e co­ mincia col protestare contro gli attentati che Hong, il mo­ ralista della violenza, organizza tra i suoi amici. Garine, che non vede di buon occhio gli attentati, vuole però ri­ servarsi la possibilità di usare Hong contro Ceng Dai’. ' Da ultimo, iascerà che costui ordini l’esecuzione di Hong e che Hong assassini Ceng Dai prima d’essere arrestato.

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Per il momento però cerca ancora di convincere Ceng Dai ad approvare il decreto di boicottaggio e ad opporsi al­ le imprese di Tang; il loro incontro sarà, naturalmente, un dialogo tra sordi:

“Signor Gavine... Non credo di doverle chiedere se è a conoscenza degli attentati che si sono succeduti in questi ultimi giorni... Signor Gavine, questi attentati avvengono con troppa frequenza. Garine risponde con un gesto che significa: ‘Cosa ci posso fare?’ — Noi ci capiamo, signor Garine, ci capiamo. — Signor Ceng Dai, lei conosce il generale Tang, vero? — Il signor generale Tang è un uomo leale e giusto... Conto di ottenere dal Comitato Centrale delle misure effettive per reprimere gli attentati. Credo che sarebbe bene far mettere sotto accusa gli individui noti a tutti come capi dei gruppi terroristi...” Precisata in questo modo la situazione, la discussione di­ venta ideologica. Garine: "Mi sembra che lei non contesti il valore della nostra azione. Eppure tenta di indebolirla... — Le qualità di alcuni membri del comitato e le sue, signor Garine, sono eminenti. Ma lei attribuisce gran peso a uno spirito che noi non possiamo piena­ mente approvare. Quanta importanza attribuisce, lei, alla scuola militare di Wampoal... io sono convinto che il partito non sarà degno di ciò che da esso ci aspet­ tiamo se non a patto di rimanere fondato sulla giusti­ zia. Lei vuole attaccare... No... Si assumano gli imperialisti tutte le loro responsa­ bilità... qualche altro sciagurato assassinio farà per la causa piu di tutti i cadetti di Wampoa.”

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Esprimerà poi l’impressione che Garine e Borodine non vedrebbero di cattivo occhio la guerra e che i Cinesi sono da loro trattati come cavie. Garine obietta: "A me pare che se c’è una nazione che è servita d’esperienza al mondo intero, non è la Cina ma la Russia." — Certo, certo... ma forse ne aveva bisogno. Non abbiamo il diritto d’attaccare apertamente l'In­ ghilterra, con un atto ufficiale del Governo. — Se Gandhi non fosse intervenuto — anche lui in nome della giustizia — a spezzare l’ultimo Hartal, gli Inglesi non sarebbero piu in India. — Se Gandhi non fosse intervenuto, signor Garine, l’India, che sta dando al mondo la piu alta lezione cui oggi possiamo assistere, sarebbe solo un paese asiatico in rivolta."

Quando l’incontro termina,

“Ceng Dai si alza, non senza fatica, e si avvia alla por­ ta a piccoli passi. Garine lo accompagna. Chiuso l’uscio, si volta verso di me: Dio buono, Signore, liberaci dai santi!"

Se Ceng Dai è il moralista dell’intenzione, Hong che è al tempo stesso il suo contrario e il suo complemento, è il moralista della violenza e dell’assassinio terroristico. Come ci è arrivato? Non scoprendo un principio universale, ma una possibilità di esistere in quanto individuo. Lo spiega Garine :

“1 poveri hanno capito che la loro miseria è senza speranza. I lebbrosi che smettevano di credere in Dio, avvelenavano i pozzi... lo vedrai chiaramente con Hong e quasi tutti i terroristi... Insieme con la paura di una morte senza significato... nasce l’idea della possibilità, per ogni uomo, di superare la vita collettiva degli in68

felici, di giungere a questa vita individuale, ch'essi con­ fusamente considerano il bene più prezioso dei ricchi."

E piu avanti, parlando di Hong: "... non cerca né potere né ricchezza... ha scoperto di non odiare la felicità dei ricchi, ma il rispetto ch’essi hanno di se stessi... Attaccato al presente con tutte le energie che gli dà la scoperta della morte, non accetta più, non cerca piu, non discute piu, odia..." Il suo individualismo è cosi fatto: non si subordina a nulla e non riconosce nessun valore al disopra di sé. “Non vuole che le cose si aggiustino. Non vuole de­ porre a vantaggio di un futuro incerto il suo odio di adesso..." Non è "Λ coloro che hanno bambini o che si sacrificano, o che hanno ragione per altri che se stessi..." Vuol vedere in Ceng Dai "solo colui che in nome della giustizia pretende di sottrargli la sua ven­ detta." È “ancora pieno di forza, ma senza speranza... un anarchico." E Garine spiega il suo rapporto con lui:

“La nostra rottura è vicina... pochi nemici compren­ do meglio..." Se Ceng Dai e Hong sono opposti e analoghi al tempo stesso, moralista l’uno dello spirito e l’altro della violen­ za rivoluzionaria, ci restano da analizzare le due defini­ zioni che Garine dà dei suoi rapporti con l’uno e con l’al­ tro: Ceng Dai, l’avversario, Hong, il nemico, che gli è piu vicino e ch’egli comprende meglio. Queste due frasi basterebbero quasi a definire Garine, per il quale il nemico non è, naturalmente, né Ceng Dai né Hong ma l’Inghilterra, tranne che entrambi lo diven­ tano nella misura in cui, con il loro comportamento, dan­ no un obiettivo aiuto all’avversario e indeboliscono la ri­ voluzione. Ma Garine non s’identifica nemmeno con la ri­

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voluzione che per lui è solo la realtà mediatrice che, strut­ turando l’universo, dà un significato alla sua azione e per ciò stesso alla sua esistenza. È per questo che Ceng Dai e Hong, obiettivi ostacoli al­ la rivoluzione e, in quanto tali, avversari, lo sono però in modo diverso. Ceng Dai lo è anche soggettivamente, per­ ché nega il valore dell’azione e, predicando un principio universale, ignora il problema dell’autenticità individuale. D’altro lato, Hong è preso dallo stesso problema di Garine, il problema di esistere in quanto individuo, e sceglie i suoi stessi mezzi: l’azione e la lotta violenta contro l’op­ pressione. La differenza tra i due sta in ciò che questa vio­ lenza per Hong basta in quanto realtà astratta, mentre Garine, che è anche lui alla ricerca del significato della pro­ pria esistenza, ha compreso di non poterla realizzare in modo autentico e senza menzogna se non da un lato ces­ sando di occuparsi di sé, dall’altro lato rifiutando qualsiasi idea generale e quindi astratta, per allearsi alle forze reali della storia. Quanto a Nikolaïev e a Borodine, per caratterizzarli ba­ sta analizzare un brano particolarmente importante, la di­ scussione che il narratore ha con Nikolaïev sul conto di Garine. Dapprima, in questo brano, Nikolaïev oppone l’in­ dividualista Garine al comunista Borodine, però ci fa già capire di non accettare completamente neanche quest’ul­ timo.

"Eh! Borodine..." Ficca le mani in tasca e sorride, non senza ostilità. "Ce ne sarebbero cose da dire sul suo conto..." E quando il narratore, opponendo Garine al partito co­ munista, parla “dei comunisti di tipo romano...", che a Mosca difendono le conquiste della rivoluzione e non vo­ gliono accettare i rivoluzionari del tipo conquistatore, Nikolaïev corregge...

"Non capisci nulla. A torto o a ragione, Borodine, nella misura in cui gli è possibile, ja ciò che qui rap­ 70

presenta il proletariato. Serve per prima cosa questo proletariato, questa specie di nocciolo che deve pren­ dere coscienza di sé, crescere per impadronirsi del po­ tere. Borodine è una specie di cavallo da tiro che...” Il dialogo ritorna poi sul paragone Borodine-Garine e ve­ niamo a sapere che la rivoluzione è un asse solo finché non è compiuta (la qual cosa vale per entrambi) e che Garine al potere rischierebbe di diventare un mussoliniano. Il brano distingue cosi tre tipi umani: i comunisti di tipo romano (Nikola'iev e la gente di Mosca); Borodine che, in­ carnando il proletariato rivoluzionario, ha abbandonato ogni individualismo, ma per il quale la rivoluzione è un as­ se solo finché non è compiuta; e infine Garine, l’individua­ lista che trova anche lui nella rivoluzione il senso della propria esistenza ma per il quale la fine della rivoluzione potrebbe provocare, s’egli sopravvivesse, il rischio di diven­ tare un avventuriero mussoliniano. Tutto ciò è ripreso in modo particolarmente chiaro nelle ultime parole di Nikolai’ev :

"Certo, il comuniSmo può servirsi di rivoluzionari di questo tipo (...) ma facendoli... sostenere da due cechisti risoluti. Cos’è questa polizia limitata? Borodine, Garine, tutta questa roba..." Sembra, con gesto molle, mescolare dei liquidi. “Finirà pure come il tuo amico Borodine: la coscien­ za individuale è la malattia dei capi. Quel che piu manca qui è una vera Ceca..." Continuando dalla periferia verso il centro la nostra ana­ lisi dell’universo di Les conquérants, ci imbattiamo final­ mente in Garine. Costui ha trovato il significato della propria esistenza partecipando all’azione storica, alla lotta per il trionfo della libertà e cercando in questo modo di lasciare traccia di sé nell’universo degli uomini. La struttura della sua condi­ zione è complessa perché egli non si definisce come gli autentici rivoluzionari — per esempio Borodine — soltanto,

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o anche soprattutto, per la sua partecipazione alla lotta e la sua aspirazione alla vittoria. Il significato della sua par­ tecipazione è mediato e risulta dal suo desiderio di dar sen­ so alla propria esistenza. Garine è anzitutto un individua­ lista e, di più, un individualista di un tipo particolare; è infatti il desiderio di affermarsi come individuo contro una minaccia permanente e in ultima analisi inevitabile: quella dell’annientamento nel Royaume Farfelu, nel regno della Morte descritto nei primi libri di Malraux e di cui Les conquérants ci dicono che Garine aveva sentito la mi­ naccia e la presenza al tempo del suo assurdo processo di Ginevra. È la sua partecipazione alla rivoluzione cinese che gli ha fornito, ciò che non aveva trovato nell’anarchia né nel­ la Legione Straniera, un modo per sottrarsi all’assurdo. Ma non si è mai identificato con la rivoluzione. Immerso nella lotta per una causa valida, Garine, grazie a quest’impe­ gno, è in grado di imporre al mondo con la sua azione i valori cui ha aderito. È però importante, per capirlo, sa­ pere che non sono i valori a costituire per lui l’essenziale, ma l’aziowe1. Ora, questa azione è messa in causa per la intrusione sempre minacciosa di una realtà inevitabile ad essa totalmente estranea: la morte. La morte toglierà ne­ cessariamente e soprattutto retroattivamente ogni significa­ to alla sua vita e alla sua azione, e lo ributterà nello stesso nulla cui l’azione gli aveva permesso di sottrarsi’. In que* Malraux ci ha già detto che dopo la vittoria della Rivoluzione, Ga­ rine potrebbe diventare mussoliniano. Nell’universo del romanzo, ciò to­ glierebbe evidentemente qualsiasi significato autentico alla sua azione. Ma l’esistenza stessa di questa minaccia, il pericolo di sbagliare come elemen­ to costitutivo del personaggio — in ciò opposto al personaggio di Borodine — deriva dai fatto ch’egli non cerca i valori in se stessi, ma solo in quanto elemento indispensabile di un'azione significativa. 2 Per evitare ogni malinteso è necessario sottolineare che la morte, per gli eroi di Malraux, presenta due aspetti diversi e complementari. Se­ condo le circostanze, rispetto all’azione essa è infatti una realtà imma­ nente e significativa o trascendente e assurda. In quanto realtà imma­ nente all’azione, ne costituisce un elemento essenziale sotto il duplice aspet­ to del rischio d’essere ucciso che ogni seria azione storica comporta (in ciò è eguale per tutti i rivoluzionari: Klein, Borodine, Nikolaiev) e della possibilità, essenziale per Garine — e, in seguito, per Perken — del sui­ cidio che consente di evitare la decadenza in caso di disfatta e di ridu-

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sta prospettiva, una frase indica l’asse essenziale del roman­ zo, la struttura che vi ha la rivoluzione. Garine scrive un rapporto destinato a Borodine e il narratore commenta: "La più antica potenza dell’Asia ricompare. Gli ospedali di Hong Kong, abbandonati dalle infermiere, pullulano di malati e, su questa carta ingiallita dalla luce, è ancora un malato che scrive a un altro malato.” La malattia non ha però nel libro una struttura statica. Formata dal rapporto tra l’azione e il nulla, i suoi accessi avvicinano progressivamente, nella misura stessa della loro gravità, Garine alla morte e al nulla, e ciò fino allo sciogli­ mento, sul quale dovremo tornare e che sarà la rottura de­ finitiva con la rivoluzione. Precisiamo anche che piu Garine è impegnato nell’azio­ ne, più la sua vita raggiunge un significato autentico, in guisa che piu egli esiste, meno pensa a sé, alla malattia, alla morte e al nulla. Nel momento dell’azione, il fine da rag­ giungere, la ricerca della vittoria, la paura della sconfitta occupano interamente la sua coscienza. Per contro, la ma­ lattia, nella misura della sua intensità, lo riporta a se stes­ so, alla morte, allontanandolo dalla rivoluzione. Ma assurdità, morte, nulla sono concetti astratti, mentre in un romanzo ci sono solo personaggi individuali e si­ tuazioni concrete. In Les conquérants essi assumono prima la forma del ricordo del processo di Ginevra cui gli accessi della malattia riportano continuamente Garine — processo la cui assurdità esprime naturalmente quella dell’intera so­ cietà occidentale e anche dell’Asia, nella misura in cui non /.ione alla passività. (Torneremo sull’importanza del suicidio nei due pri­ mi romanzi di Malraux.) Ma al di fuori di quest’aspetto piu immanente e significativo, la morte è anche, per gli eroi come per tutti gli altri uomini, una minaccia per­ manente, estranea ad ogni problema dell’azione e senza legame con que­ sta. Come tutti gli uomini, Garine corre il rischio di morire in qualsiasi momento e, come avverrà nel romanzo, addirittura nel momento in cui questa morte avrà l’aspetto piu assurdo: quello della vittoria. E beninteso, la morte, sopraggiungendo distruggerà retroattivamente il significato che l’individuo era provvisoriamente riuscito a trovare in quan­ to individuo nell’azione storica.

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è in rivoluzione. D’altra parte Garine è cosciente di questo legame tra la malattia e il ritorno a se stesso e all’assurdo. In ospedale, il narratore vuole lasciarlo:

"— Vuoi che ti lasci? — No, anzi. Non desidero restar solo. Non amo più pensare a me e quando sono malato ci penso sem­ pre... (...) — Strano. Dopo il mio processo, provavo — ma mol­ to intensa — la sensazione della vanità di qualsiasi esistenza, di un'umanità trascinata da forze assurde. Questa sensazione adesso ritorna... È stupido, la ma­ lattia... Eppure, mi sembra di lottare contro l’assurdo umano, facendo quel che faccio qui... L’assurdo ritro­ va i propri diritti... (■■■) — Ah! Questo insieme inafferrabile che consente ad un uomo di sentire che la propria vita è dominata da qualcosa... È strana la forza dei ricordi, quando si è malati. Tutto il giorno, ho pensato al mio processo, mi chiedo davvero perché. È dopo questo processo che l'im­ pressione d’assurdità che mi dava l'ordine sociale a poco a poco si è allargata a tutto ciò che è umano... Non ci vedo nessun inconveniente, d’altronde... Tutta­ via, tuttavia... Perfino in quest’istante, quanti uomini stanno sognando vittorie di cui, due anni fa, non im­ maginavano nemmeno la possibilità! La loro speran­ za è opera mia. Non ci tengo a dir delle frasi, ma in­ fine, la speranza degli uomini, è la loro ragione di vita e di morte... E poi?... Naturalmente, non si dovrebbe parlare tanto quando si ha la febbre troppo alta... È sciocco... Pensare a sé tutto il giorno!... Perché penso a quel processo? Perché? È cosi lontano. È sciocco, la febbre, ma si hanno visioni..." Naturalmente, a parte l’immagine privilegiata del pro­ cesso, altre immagini avranno lo stesso significato. Per il momento, ci accontenteremo di citarne una, particolarmen­ te importante sia per il suo significato generale che per il 74

suo insistente tornare in un’opera in cui la incontriamo per la terza volta... L’immagine dell’incendio che, distrutti gli dèi che un tempo regnavano sulla terra, oggi lascia solo la rivoluzione che, senza esser completamente valida (Garine, ammalato, sta per distaccarsene), resta pur sempre la sola promessa degna di fede: "A Kazan, la notte di Natale, quella processione in­ credibile... Borodine c’era, come sempre... Come? Por­ tano tutti gli dèi davanti alla cattedrale: grandi figu­ re come quelle dei carri di Carnevale, una dea-pesce, il corpo in una guaina da sirena... Duecento, trecento dèi... anche Lutero. Musicisti impellicciati fanno un fracasso del diavolo con tutti gli strumenti che hanno potuto trovare. Un rogo arde. Sulle spalle delle figure, gli dèi fanno il giro del posto, neri sul rogo, sulla ne­ ve... Un baccano trionfale! I portatori stanchi buttano gli dèi sulle fiamme: una grande luce percuote le te­ ste, fa uscire la cattedrale bianca dalla notte... Che? La Rivoluzione? Si, cosi per sette o otto ore! Avrei vo­ luto vedere l’alba. Marciume!... Si hanno queste visio­ ni. La Rivoluzione, non si può buttarla nel fuoco: tutto ciò che non è lei è peggio di lei, bisogna dirlo, anche quando se ne è disgustati... Come se stessi! Né con, né senza. Al liceo l’ho imparato... in latino. Si scoperà. Come? Forse c’era anche la neve... Come?"

Poco posto è dato all’erotismo e perfino ai rapporti tra uomini e donne in Les conquérants (a parte il brano in cui la moglie di Klein viene a vedere il cadavere del ma­ rito, c’è una sola scena in cui Garine fa l’amore con due prostitute cinesi). Il tema è invece ampiamente discusso e commentato ne La voie royale, che risponde alla stessa concezione. Per comprendere questi brani, ci sembra importante fare una considerazione: che nei romanzi di Malraux i rap­ porti tra uomini e donne sono omologhi a quelli tra gli eroi e il mondo sociale e politico. Abbiamo già avuto oc­ casione di osservarlo nei rapporti di Klein con la moglie, 75

che sono la fedele riproduzione dei rapporti quali sono vi­ sti nel romanzo — tra i militanti rivoluzionari di base, incarnati da Klein, e il proletariato o, se si vuole, il popo­ lo oppresso e passivo incarnato dalla moglie. È un rapporto stretto, quasi organico, in cui la donna e il popolo sentono che il militante fa parte di loro senza ch’essi partecipino però alla lotta o, piu esattamente, limitando la loro par­ tecipazione ad un aiuto materiale e al dolore davanti al suo cadavere torturato. Allo stesso modo, i rapporti tra le donne di Garine e di Perken, sono analoghi ai loro rapporti con la realtà storica, il che significa che si tratta di rapporti meramente erotici. Garine e Perken, l’abbiamo già detto, sono uomini d’azio­ ne, conquistatori che non si identificano con la comunità degli uomini ma se ne servono organizzandola e dominan­ dola per dare la loro impronta all’universo; per loro le donne hanno una funzione analoga a quella del gruppo umano cui s’associano; la rivoluzione per Garine, i Moi per Perken. Nei rapporti erotici con le loro compagne, si crea una comunità ch’essi governano e nella quale sono i padro­ ni. Questo rapporto, nel quale trattano la donna come og­ getto e grazie al quale si sentono vivi dà loro, sul piano limitato e ridotto dell’erotismo, la stessa salvezza provviso­ ria, la stessa precaria coscienza d’esistere che, su un piano piu vasto, dà l’azione storica. Dà loro la sensazione di aver evitato per il momento lo stesso pericolo, virtuale e per­ manente a un tempo, cui di necessità soccomberanno alla fine di ogni scena erotica e definitivamente al termine del­ la vita: il nulla e l’impotenza. Il possesso della donna, so­ prattutto quando si tratta di possesso psichico come ne La voie royale, non può essere che provvisorio. La compa­ gna sfugge necessariamente alla conclusione. Del pari, le prostitute con cui fa l’amore Garine non si lasciano posse­ dere che provvisoriamente e in modo esteriore e fuggevole. È un rapporto omologo a quello che hanno Garine e Per­ ken con la realtà storica che finirà di necessità per sfuggire al loro dominio. Conquistatori, ma conquistatori malati e provvisori, l’erotismo dà loro su un piano limitato ciò che l’azione dà su un piano più vasto ed essenziale: la coscien­ 76

za d’esistere, un fine che si possa validamente perseguire e la possibilità di sottrarsi per un tempo sia pure brevissimo all’impotenza e al nulla. Per evitare ogni malinteso, sottolineiamo fin da questo momento che i rapporti tra uomini e donne cambieranno negli scritti successivi di Malraux parallelamente al modi­ ficarsi della sua concezione globale dell’uomo e della con­ dizione umana. Infine, per chiudere questa breve analisi di Les conqué­ rants, soffermiamoci brevemente sullo scioglimento del ro­ manzo, sulla morte di Garine (badando a tener presente che la struttura di questo scioglimento è ripresa in modo pressoché identico ne La voie royale). Sappiamo già in che cosa consiste: l’imminenza della morte separerà definiti­ vamente Garine dal movimento rivoluzionario e lo resti­ tuirà ad una solitudine rispetto alla quale perfino il pas­ sato ha perso ogni significato reale ed effettivo. Essendo vissuto durante tutto il racconto solo per assicurare il trion­ fo della rivoluzione, Garine udrà i passi cadenzati dell’Ar­ mata Russa vittoriosa, con l’acuta sensazione d’essere già altrove e che non vi sia più rapporto reale tra lui e la lotta di cui questa vittoria è la conclusione. Questa fine ci sembra presenti analogie e differenze ri­ spetto al romanzo classico. La maggior parte dei romanzi ad eroe problematico finiscono infatti con una conversione in cui l’eroe riconosce la vanità dei propri sforzi e della propria ricerca anteriore. Ora, i finali di Les conquérants e de La voie royale presentano per certi aspetti un carat­ tere analogo. Come Don Chisciotte, Julien Sorel, Frédéric Moreau e Emma Bovary, Garine e Perken sentono brusca­ mente che la loro azione smette di fornir loro un significa­ to autentico e che si trovano assolutamente soli. La diffe­ renza non è tuttavia meno reale, nella misura in cui le ri­ cerche di Don Chisciotte, di Julien Sorel, di Madame Bo­ vary o di Frédéric Moreau erano da sempre vane nonostan­ te l’eroe non ne avesse coscienza, mentre l’azione rivolu­ zionaria rimane in sé valida, poiché la morte ne ha solo al­ lontanato Garine e ha perfino retrospettivamente intaccato il valore dei suoi precedenti legami con essa.

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Rapportate alle analisi precedenti, queste poche righe do­ vrebbero bastare per rivelare la funzione centrale e il si­ gnificato della morte dell’eroe nel romanzo. Ci sembra tut­ tavia importante sottolineare che, nei due libri scritti in questa prospettiva, Malraux ha scelto lo stesso tipo di scio­ glimento per dare il massimo rilievo all’incompatibilità tra l’azione e la morte. Garine è già isolato, sottratto all’azione dall’imminenza della morte quando gli riferiscono che Ni­ colaïev ha appena arrestato due Cinesi che avevano pensato di avvelenare col cianuro i pozzi cui attinge l’esercito. Il pericolo lo riporta all’azione e immediatamente, per questo stesso fatto, l’isolamento e la morte spariscono per tornare nel momento in cui, rimediate le gaffes di Nicolaïev, asso­ data l’esistenza di un terzo agente, il pericolo sarà superato. Garine, tornato alla sua solitudine, constata lui stesso que­ sto brusco passaggio da un mondo all’altro: “ ...Basta una gaffe della Sûreté per jarmì rientrare in questa vita di Canton come nella mia giacchetta, eppure, in questo istante, mi sembra d’essermene già andato...”

Dopo di che, tutto è finito. Alla domanda, d’altronde pu­ ramente formale, dal momento ch’egli è sicuro di dover morire subito:

“Dove diavolo vorresti dunque andare?" Garine risponde:

“In Inghilterra. Adesso so cos’è l'Impero. Una vio­ lenza tenace, continua. Dirigere. Determinare. Costrin­ gere. Questa è la vita..." Ma è già lontano da Canton e dall’Inghilterra, dalla par­ te del nulla e del suo informe reame. Abbracciandolo per l’ultima volta, il narratore sente l’abisso invalicabile che li separa e il romanzo termina con tre parole chiave: Morte, Disperazione, Gravità Fraterna: 78

“...Una tristezza ignota nasce in me, profonda, di­ sperata, chiamata da tutto quel che vi è in ciò di vano, dalla presenza della morte... Quando la luce colpisce di nuovo i nostri visi, egli mi guarda. Cerco nei suoi oc­ chi la gioia che ho creduto di scorgervi; ma non vi trovo niente di simile, solo una dura e tuttavia fraterna gravità." È curioso constatare che, come in Royaume Farfelu e in Lunes en Papier, Malraux ha ripreso due volte nei primi romanzi — naturalmente con un certo numero di varianti — lo stesso argomento: Perken è infatti l’omologo di Garine e Claude l’omologo del narratore; la lotta per la di­ fesa degli indigeni indomiti contro gli Stati costituiti, è l’omologo della rivolta cinese contro l’Inghilterra e, benin­ teso, all’interno di queste due strutture apparentate, Per­ ken ha gli stessi problemi di Garine e li risolve nello stesso modo. Impegnato nella lotta degli indigeni contro gli Stati organizzati — come Garine nella rivoluzione cinese — Perken non si è identificato agli indigeni, ma ha trovato nell’organizzazione della loro lotta e della loro resistenza contro la civiltà di tipo statale, la realtà mediatrice che gli consente di sentirsi esistere e di dare un senso alla propria vita1. Accanto a questa struttura comune, i due romanzi pre* Ecco com’egli definisce la propria azione e i propri progetti — progetti che situa ai passato già nei momento in cui comincia il racconto: “...Essere re è stupido: ciò che conta è creare un regno. Io non ho fatto lo scemo con la sciabola, rni sono servito pochissimo del fucile (e vi garantisco che sono un buon tiratore). Ma per un verso o per l'altro sono legato a quasi tutti i capi delle tribù libere, fino all'Alto Laos. E questo dura da quindici anni. Li ho raggiunti uno per uno, abbrutiti o coraggiosi. E non è il Siam che essi conoscono, ma me. — Cosa si propone di farne? — Volevo... Una forza militare, innanzitutto. Grezza ma rapidamente trasformabile. E aspettare l'inevitabile conflitto, sia tra colonizzatori e co­ lonizzati, sia tra i colonizzatori solo. Allora, il gioco varrebbe la candela. Esistere in un gran numero d’uo­ mini, forse per sempre. Voglio lasciare una cicatrice su questa carta. Dal momento che devo giocare con la mia morte, preferisco giocare con venti tribù che con un bimbo... Lo volevo come mio padre voleva la proprietà del suo vicino, come voglio le donne."

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sentano delle differenze. Proprio come le due parti di Lu­ nes en Papier raccontavano una volta la disfatta e un’altra volta la vittoria degli scrittori, per mostrare che in entram­ bi i casi i problemi fondamentali erano gli stessi, La voie royale oppone alla vittoria della rivoluzione cinese in Les conquérants la disfatta delle tribù libere. D’altra parte, pur puntando su un universo analogo, la prospettiva è diversa nei due romanzi: Les conquérants delineavano la struttu­ ra globale e ci mostravano Carine al centro della lotta tra due gruppi di forze storiche notevoli; La voie royale punta i proiettori quasi esclusivamente sulla coppia Claude-Perken; quanto alle forze storiche in lotta, relegate alla perife­ ria dell’universo del romanzo, hanno per cosi dire solo una realtà astratta, appena sufficiente per segnare la loro esi­ stenza, e nel romanzo non incontriamo né gli indomiti organizzati da Perken, né il governo del Siam, con tutto che la loro realtà sia avvertibile e la loro natura delineata dalla presenza di vicini a loro somiglianti (gli Stieng e i Moi per le tribù libere, l’amministrazione francese per il governo del Siam). In questa prospettiva, la guerra si al­ lontana con le forze in conflitto. Il suo posto sarà preso in parte da un certo numero di discussioni e di riflessioni intel­ lettuali. D’altronde, è il fatto che queste discussioni con­ ducono il più delle volte a degli aspetti reali ma appena ab­ bozzati dell’eroe in Les conquérants, che ci ha fatto sup­ porre che il libro sia stato scritto contemporaneamente o subito dopo l’altro, con una certa preoccupazione di com­ plementarità. Infine, ne La voie royale c’è un personaggio apparente­ mente nuovo, Grabot, che però non ha realtà propria e incarna soltanto uno dei principali pericoli che minacciano costantemente i conquistatori del tipo Garine e Perken. Fatte queste osservazioni preliminari, possiamo acconten­ tarci di riassumere la trama del libro soffermandoci su al­ cune discussioni e scene particolarmente significative. Il quadro generale del racconto è la lotta permanente tra il nulla informe incarnato dalla vegetazione della foresta tropicale e lo sforzo degli uomini per introdurvi delle for­ me significative: la via dei re delle città e dei templi che

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un tempo attraversava il deserto, coperta e vinta poi dal de­ serto stesso, e che Claude e Perken cercheranno di far ri­ vivere in nuovi significati cercando l’uno il denaro, l’altro i mezzi materiali per difendere la libertà delle tribù indo­ mite. A un livello piu immediato, l’argomento del rac­ conto è la lotta tra il deserto e la via dei re: è lo stesso Malraux a dirci che se l’opera porta questo titolo, è perché doveva rappresentare il primo tomo di una serie intitolata "Le Potenze del Deserto". Su una nave in partenza per l’Indocina, il giovane Clau­ de incontra Perken, un personaggio leggendario che ha vis­ suto a lungo fra i selvaggi presso i quali si è creato una specie di impero opposto al regno del Siam e al dominio amministrato dai Francesi. Perken ritorna in Indocina dopo un soggiorno in Occidente, ossessionato e deluso da un pro­ blema importante che non è riuscito a risolvere: non è riuscito a trovare il denaro di cui aveva bisogno per com­ perare le mitragliatrici necessarie per il proseguimento del­ la sua impresa. Psichicamente, Perken si trova in uno di quegli stati di vuoto che abbiamo già incontrati in Les conquérants in coincidenza con ogni manifestarsi della malattia di Garine; ci spiegherà d’altronde lui stesso che il suo disincanto e il suo allontanamento dall’azione non nascono solo dal fal­ limento del suo tentativo di trovare il denaro, ma anche, e innanzitutto, dalla coscienza dell’invecchiamento e dall’avvicinarsi della morte. Per caratterizzare la situazione, si de­ ve aggiungere che, nella misura in cui, ad onta delle sue disposizioni attuali, Perken pensa ancora alla sua terra e al suo regno, è preoccupato dalla sorte di un certo Grabot, un personaggio simile a lui, ch’era partito per crearsi un altro impero vicino a quello di Perken e la cui esistenza e atti­ vità sembrano a costui tanto piu inquietanti in quanto, da qualche tempo, Grabot è sparito senza lasciar tracce. Quanto a Claude, si propone di recuperare, nei templi abbandonati dell’antica via dei re, statue e bassorilievi per rivenderli in Europa dove raggiungono delle quotazio­ ni esorbitanti. Una amicizia omologa a quella che c’era tra il narratore di Les conquérants e Garine si stabilisce rapi-

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damente e con naturalezza tra Claude e Perken, fondata non solo sul comune bisogno di denaro, ma sulla comune natura dei due personaggi, che sono entrambi dei conqui­ statori. Dopo un incontro descritto in chiave satirica con un fun­ zionario dell’amministrazione francese, Claude e Perken, proseguendo il cammino, trovano effettivamente dei bassorilievi nel cuore della foresta tropicale ma, sulla via del ri­ torno, sono abbandonati dai conduttori dei carri in un pae­ se di selvaggi dove sembra loro di avvertire la invisibile pre­ senza di Grabot. In seguito, scopriranno la verità: accolti nel villaggio dal capo dei selvaggi, apprendono che Grabot, mossosi per la sua difficile e arrischiata impresa con la con­ vinzione che in caso estremo gli resterebbe sempre la so­ luzione del suicidio, non ha avuto il coraggio di uccidersi ed è diventato schiavo dei selvaggi. Costoro lo hanno ac­ cecato e lo costringono a girare una macina. Claude e Perken si impadroniscono di Grabot e lo con­ ducono nella loro capanna, il che procura loro l’assedio de­ gli Stieng, che non possono ammettere un simile compor­ tamento da parte dei loro ospiti. Dopo parecchie ore di estrema tensione, durante le quali Perken si ferisce al gi­ nocchio cadendo, si arriva a un compromesso: gli Stieng permettono ai due bianchi di partire, dietro loro promessa di inviare, come contropartita della liberazione di Grabot, una giara per ogni selvaggio. La promessa sarà mantenuta e Grabot, che non offre più alcun interesse, è spedito in un ospedale. Ma Perken apprende che la sua ferita è mortale e che gli restano pochi giorni di vita. Strappato dalla malat­ tia al mondo, tenta invano di ritrovare per un’ultima volta il contatto con esso durante una scena erotica — sulla quale torneremo — quando viene a sapere che il governo del Siam, che per sottomettere le tribù libere sta per costruire una ferrovia, ha preso pretesto dalla mutilazione di Grabot per mandare, insieme alle giare, una spedizione punitiva contro gli indigeni. Come Garine alla fine di Les conqué­ rants, Perken avverte la minaccia che grava sulla sua opera e ritrova immediatamente l’universo dell’azione. Accompa­ gnato da Claude si fa condurre il più in fretta possi­

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bile sulle montagne per precedere la colonna e organizzare la resistenza, ma la morte lo coglie prima che arrivi alla meta, e la sua disfatta personale prefigura la fine prossima ed inevitabile del suo regno. Il nucleo del romanzo è formato innanzitutto dalla lotta degli uomini — Perken e Claude — contro le potenze in­ formi e distruggitrici di forme della natura. Si potrebbero citare per intero moltissime pagine, ma ci accontenteremo di tre esempi:

“La foresta e il caldo erano tuttavia piu forti del­ l’inquietudine: Claude sprofondava come in una ma­ lattia in questa fermentazione in cui le forme si gon­ fiavano, s’allungavano, marcivano fuori del mondo nel quale l’uomo conta, che lo separava da lui stesso con la forza dell’oscurità.” “L’unità della foresta, ora, s'imponeva; da sei gior­ ni Claude aveva rinunciato a separare gli esseri dalle forme, la vita che si muove da quella che trasuda; un potere sconosciuto legava agli alberi le fungosità, fa­ ceva muovere tutte quelle cose provvisorie su un suolo simile alla schiuma delle paludi, in quei boschi fu­ manti da inizio del mondo. Quale atto, li, aveva un senso? Quale volontà conservava la sua forza? Tutto si ramificava, s’ammolliva, si sforzava di accordarsi con quel mondo ignobile e insieme attraente come lo sguar­ do degli idioti..." “La cancrena è padrona della foresta come l’insetto.'’ Quanto al personaggio di Perken abbiamo già detto che presenta una struttura omologa a quella di Garine, una struttura nella quale si ritrovano gli stessi elementi: l’azio­ ne, l’erotismo, la malattia, la minaccia del nulla, la soli­ tudine, la morte. Per questo, rinunciamo ad un’analisi det­ tagliata che non farebbe che riprendere quella che abbiamo già abbozzato parlando di Les conquérants e ci sofferme­ remo solo su alcune delle discussioni concettuali sparse nel­ 83

l’opera che permettono d’osservare, per cosi dire con la lente, gli elementi appena abbozzati in Les conquérants. La voie royale comincia con una lunga discussione sul­ l’erotismo. L’erotismo, contrariamente a ciò che avviene in Les conquérants, occupa un posto particolarmente impor­ tante, spiegabile probabilmente con la preoccupazione del­ l’autore di sviluppare un elemento che prima si era accon­ tentato di abbozzare, ma si giustifica anche sul piano psi­ cologico e strutturale perché se i rapporti tra uomini e donne sono, nell’insieme dell’opera di Malraux, una ripro­ duzione dei rapporti tra gli uomini e l’universo, e se nei casi particolari di Garine e di Perken questi rapporti han­ no un carattere puramente erotico, nella vita di questi per­ sonaggi hanno anche una funzione complementare: ogni volta che la malattia ha la meglio e che il loro rapporto con la società e il mondo è messo in questione, essi cercano di ritrovare il senso del dominio e dell’esistenza sul piano piu angusto ma anche piu immediato dell’erotismo. Ora, ne La voie royale, Perken si trova precisamente in un vuoto del genere; perciò, sia al principio che alla fine del roman­ zo, quando la morte gli è prossima, il desiderio erotico passa in primo piano. Sulla natura di questo desiderio non c’è molto da aggiungere a quel che abbiamo già a lungo discusso esaminando Les conquérants. Limitiamoci a citare alcune formule che chiariscono la nostra analisi. L’eroti­ smo di Perken, come quello di Grabot (e probabilmente di Garine se fosse stato messo piu in evidenza), esclude l’a­ more e consta essenzialmente di desiderio di dominio e di paura dell’impotenza. All’inizio del libro, Perken adopera delle espressioni molto radicali.

“1 giovani capiscono poco... l'erotismo. Fino alla qua­ rantina, ci si sbaglia, non ci si sa liberare dell’amore: un uomo che pensa non ad una donna come al com­ plemento di un sesso, ma al sesso come al complemen­ to di una donna è maturo per l’amore: tanto peggio per lui...” “L’essenziale è di non conoscere la compagna. Ella dev’essere l'altro sesso.” 84

In seguito, Claude ricorda unà scena vissuta con Perken in un bordello di Gibuti, di cui ci dirà che si è "risolta in un fiasco”. Questo passaggio d’altronde è particolarmente significativo. Perken comincia con lo spiegare di avere ab­ bandonato l’azione perché, mancando le mitragliatrici, era comunque votata all’insuccesso, essendo impossibile resi­ stere alla penetrazione della ferrovia che il governo del Siam stava per costruire. Claude, un po’ scettico, pensa che il vero motivo di questo abbandono stia nell’impotenza ero­ tica di cui egli è stato testimone a Gibuti. Perken, indovinando il suo pensiero, gli obietta che se le due cose sono vere e si giustappongono, il motivo pili pro­ fondo' di questo abbandono è la presa di coscienza di un fatto ben altrimenti irrimediabile: l’invecchiamento che, at­ traverso questo fallimento erotico, egli ha intravisto, ma di cui in effetti si era reso conto la prima volta guardando Sara la compagna della sua vita:

“— Sono state soltanto riflessioni a farle abbandonare il suo progetto? — Non l’ho dimenticato: se l’occasione... Ma non posso vivere soprattutto per lui. Ci ho pensato molto anche dopo il fiasco nel bordello di Gibuti... Bene, io credo che ciò che mi ha, come lei dice, separato dal mio progetto, sono le donne che non sono riuscito ad avere. Non è l’impotenza, capisce. Una minaccia... Come la prima volta che mi accorsi che Sara invec­ chiava. La fine di qualcosa soprattutto... mi sento svuo­ tato della mia speranza, con una forza che mi sale dentro, contro di me — come la fame." La stessa idea in un altro punto: "... Lutti pensano al fatto di... ah! Come farle capire... d’essere uccisi, ecco. Il che non ha nessuna importan­ za. La morte, è un'altra cosa: è il contrario. Lei è trop1 Le difficoltà dell’azione e la paura dell’impotenza esistevano in­ fatti per Perken, Garine e Grabot allo stesso modo durante i momenti culminanti dell’azione come elementi costitutivi della medesima.

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po giovane, lo l’ho capita la prima volta vedendo invecchiare una donna che... insomma una donna. (Le ho parlato di Sara, del resto.) Poi, come se quell'av­ vertimento non bastasse, quando mi scopersi impoten­ te per la prima volta...” Su questa linea, veniamo a sapere che Grabot non rag­ giungeva il piacere erotico se non facendosi legare e fru­ stare da donne, e che ne era terribilmente umiliato:

“— Le ho parlato di un uomo che si faceva legare nudo da delle donne, a Banghof;... Era lui. Non è mol­ to piti assurdo della pretesa di andare a letto e di vi­ vere — vivere — con un’altra creatura umana... Ma lui ne è atrocemente umiliato... — Del fatto che lo si sappia? — Non lo si sa. Di farlo. Allora, compensa. È cer­ tamente soprattutto per questo che è venuto qui... Il coraggio compensa..." Aggiungiamo che nel momento in cui viene a sapere che la sua ferita è mortale, Perken chiederà “delle donne” e che se ritrova la sensazione dell’esistenza nel momento del possesso, avverte subito quanto è effimera: “...questo corpo follemente innamorato di se stes­ so si allontanava da lui senza speranza; mai, mai avreb­ be conosciuto le sensazioni di quella donna, mai avreb­ be trovato nella frenesia che lo scuoteva qualcosa di di­ verso dalla peggiore delle separazioni. Si possiede solo ciò che si ama. Preso dal proprio movimento (...) chiu­ se anche lui gli occhi, si ributtò su se stesso come su di un veleno, bramoso di annullare a forza di violenza quel viso anonimo che lo spingeva verso la morte."

Un altro passaggio importante e significativo è quello che riguarda la distinzione tra due tipi umani che Malraux qualche volta chiama l’avventuriero e il conquistatore, a cui Claude fa corrispondere qui due modalità dell’avven­

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tura: la distinzione sta nel fatto che, pur avendo in co­ mune il rispetto delle convenzioni e della società borghe­ se, gli avventurieri pensano a se stessi e allo stile del per­ sonaggio che incarnano, mentre i conquistatori sono im­ pegnati in una lotta effettiva e tutto subordinano alla riu­ scita di una causa che li supera: “...Ciò eh’essi chiamano avventura, pensava, non è una fuga, ma una caccia; l’ordine del mondo non si distrugge a vantaggio del caso, ma della volontà di profittarne. Coloro per cui l’avventura è solo alimento dei sogni, egli li conosceva; (gioca e potrai sognare); l’elemento suscitatore di tutti i mezzi per possedere la speranza, egli lo conosceva anche. Povertà...

Parlando di Mayrena, Perken dirà:

“Penso ch’era un uomo avido di recitare la propria biografia come un attore una parte. Voi Francesi ama­ te questi individui, che considerano più importante... vediamo, si... recitare bene la parte che vincere." “Ogni avventuriero è nato da un mitomane,” dirà il capitano a Claude, mentre Perken "è indifferente al piacere di recitare la propria biografia, distaccato dal bisogno di ammirare i propri atti." E quando evoca la differenza fra Mayrena e se stesso, Perken aggiunge: “...ho tentato seriamente ciò che Mayrena ha voluto tentare credendosi sulla scena dei vostri teatri. Essere re è una stupidaggine: quel che conta, è costruire un regno...”

In questo stesso ordine di idee, un grande rilievo è dato alla figura del nonno di Claude. Costui, senza impegnarsi in nessuna causa, è vissuto isolato e indipendente, nel di­ sprezzo di tutte le convenzioni sociali, ed è morto a settantatré anni “di una morte da vecchio Vichingo”, e Claude,

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che l’ha molto ammirato, crede di aver trovato in Perken un personaggio simile. Ma Perken precisa: "Penso che suo nonno era meno significativo di quel che lei crede, e che lei lo è molto di più." Molti brani sono dedicati a un altro problema particolar­ mente significativo: il problema del suicidio, che era già stato sfiorato in Les conquérants, in occasione dell’assas­ sinio di Ceng Dai da parte di Hong, assassinio camuffato dai partigiani della vittima da suicidio ideologico. Klein in quell’occasione aveva espresso dubbi sulla verosimiglian­ za di questo suicidio "con una inesplicabile violenza”, per­ ché non credeva alla possibilità di un suicidio ideologico.

"— Il suicidio non mi interessa. — Perché? — Colui che si uccide insegue un’immagine che si è fatta sul proprio conto: ci si uccide sempre solo per esistere. Non mi piace che si sia zimbelli di Dio.” Ma se il suicidio non è mai considerato dal conquistatore un mezzo di lotta, la sua virtualità resta tuttavia un ele­ mento decisivo della sua coscienza in quanto possibilità di evitare la decadenza di un’esistenza in cui la lotta e l’azione diventassero impossibili. La menzogna di Grabot consiste propriamente nel fatto ch’egli ha voluto vivere e comportarsi da conquistatore mentre nel momento deci­ sivo non ha avuto il coraggio di uccidersi. Diciamo tra pa­ rentesi che la sua debolezza era già annunciata nel para­ grafo citato sopra, riguardante i suoi particolari rapporti con l’erotismo. A questo proposito, c’è nel libro una scena particolarmente significativa: circondato dagli Stieng, Clau­ de pensa che lui e Perken potrebbero uccidersi con le ul­ time pallottole se non riuscissero ad andarsene:

“Mostrò il posto delle pallottole nel caricatore. — Ne resteranno sempre due... - Eh? Era Grabot. Una voce, una voce sola poteva espri­ 88

mere cosi intensamente l’odio (...) E non c’era solo odio, cera anche certezza. Claude, atterrito, lo guar­ dava: (...) Una grandiosa rovina. Ed era stato piu che coraggioso. Anche costui marciva sotto l’Asia, come i templi... (...) Lo spavento gli si aggirava accanto, in quell’attimo, come accanto ai Moi. — Santo cielo. Eppure non è impossibile... — Coglione!... Molto piu dell’ingiuria e della voce stessa, parlava il viso devastato di Grabot: non si può quando è inuti­ le, e quando occorre capita che non si possa piu."

Per terminare questo elenco, che potremmo naturalmen­ te allungare assai, insisteremo su alcuni passaggi de La vote royale riguardanti il senso della vita, e cosi pure sullo scioglimento, analogo sotto tutti i punti di vista a quello di Les conquérants. Per Perken come per Garine il senso della vita sta nell’a­ zione in quanto solo ed unico mezzo per superare la mi­ naccia del nulla, dell’impotenza e soprattutto della morte. A titolo d’esempio citiamo questo dialogo di Claude sulla na­ ve, in un momento in cui, stanco, Perken è deciso ad ab­ bandonare l’azione: "... A conti fatti, cosa vuol dire per lei arrivare? — Agire invece di sognare. E per lei? (...) — Perder tempo. (...) — Torna dai selvaggi? — Non è quel che chiamo perdere il tempo, anzi. (...) — Anzi? — Laggiù, ho trovato quasi tutto. — Salvo denaro, vero?" E in un altro punto del libro:

"— Non sono io che scelgo: è ciò che resiste. 89

— Ma a che? (...) — Alla coscienza della morte. — La morte vera è la decadenza. (...) Invecchiare è molto peggio! Accettare il pro­ prio destino, la propria (unzione, la cuccia di cane sul­ la propria unica vita... non si sa cose la morte quando si è giovani... E, d’un tratto, Claude scopri cosa lo legava a que­ st’uomo che l’aveva accettato senza che egli sapesse be­ ne perché·, l’ossessione della morte.”

O ancora: Essere ucciso, sparire, poco gli importava: non te­ neva a se stesso, e avrebbe cosi trovato la propria lotta, in mancanza della vittoria. Ma accettare da vivo la va­ nità della propria esistenza come un cancro, vivere con quel tepore di morte sulla mano... Cos’era quel bisogno di ignoto, quella distruzione provvisoria dei rapporti da prigioniero a padrone, che coloro che non la cono­ scono chiamano avventura, se non la sua difesa con­ tro di essa? (...) “Liberarsi di questa vita dedita alla speranza e ai so­ gni, sottrarsi a questo traghetto passivo.”

Quanto allo scioglimento, la sua struttura è omologa a quella di Les conquérants, il che prova quanto Malraux tenesse esplicitamente o implicitamente a far capire ai suoi lettori i rapporti fra la coscienza della morte e l’azione nella struttura dei personaggi di Garine e Perken. Isolato, solo di fronte alla morte, Garine l’aveva dimenti­ cata per ritemprarsi nell’azione nel breve tempo ch’era du­ rato l’interrogatorio dei due agenti nemici che avevano ten­ tato di avvelenare i pozzi, per ritrovare, beninteso in se­ guito, una volta chiuso l’episodio, la solitudine radicale. Il motivo di questo episodio ci sembra evidente: si tratta di far capire al lettore in che misura la partecipazione al­ l’azione, anche quando questa azione è chiarissimamente 90

provvisoria, condannata a durare solo pochi istanti, esclu­ da con la sua sola presenza qualsiasi pensiero concentrato sulla malattia, la solitudine, la morte. Allo stesso modo, quando Perken, consapevole della pro­ pria morte prossima e della vanità di qualsiasi tentativo di dimenticare mediante l’erotismo, apprendendo bruscamen­ te che le sue tribù sono minacciate dall’avanzata della co­ lonna governativa, si rituffa nell’azione, questa coscienza perderà ogni importanza e fino ogni realtà, benché egli si sappia irrimediabilmente condannato. Il testo lo dice espli­ citamente: Savan, capo di una delle tribù selvagge, vor­ rebbe differire il combattimento. Perken, che sta parlando con lui, si rivolge in francese a Claude:

“Ma a quel momento... forse sarò morto. Voce commovente, tornava a credere alla propria ■ w vita. In un’altra circostanza, sotto la minaccia di avere ta­ gliata la strada:

“— Ci sono momenti in cui ho l’impressione che questa storia non abbia nessun interesse — borbottò tra i denti, come per se stesso. — D’esser tagliato fuori? — No: la morte." Ma la malattia progredisce e la morte è inevitabile; Per­ ken, costretto a prenderne coscienza, cercherà dapprima di legarla all’azione: “... Questo schifo di febbre... Quando ne uscirò, vor­ rei almeno... Claude? — T’ascolto, dimmi. — Bisognerebbe almeno che la mia morte li costrin­ gesse a essere liberi. — Ma a te, cosa può importarne? Perben aveva chiuso gli occhi: impossibile farsi capire da un vivo."

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In seguito, col progredire della malattia, l’azione sfuma per lasciare posto soltanto alla solitudine; Perken vorrebbe ancora arrivare a casa, morire dove la sua esistenza aveva trovato un significato, anche se questo significato gli è diventato estraneo: "... sapeva anche che, a casa, sarebbe guarito, e che stava per morire, che sul grappolo di speranze ch’egli era, il mondo gli sarebbe chiuso, stretto da quella fer­ rovia come dal laccio che avvince il prigioniero; che mai piu nulla nell’universo lo avrebbe compensato del­ le sue sofferenze passate e presenti: essere un uomo, ancor più assurdo che essere un morente..."

Morirà, nel mondo dell’assurdo e del nulla, diventato estraneo a tutto ciò che lo circonda, compreso Claude e il proprio corpo: “... Accanto a lui, Claude che sarebbe vissuto, che credeva alla vita come altri credono che i boia che vi torturano sono uomini; odiosi. Solo. Solo con la febbre che lo percorreva dalla testa alle ginocchia e quella cosa fedele posata sulla coscia: la sua mano.” "...Nulla avrebbe mai dato senso alla sua vita, nep­ pure quell’esaltazione che lo dava in preda al sole. C’erano uomini sulla terra che credevano alle loro pas­ sioni, ai loro dolori, alla loro esistenza. (...) Eppure, nessun uomo era mai morto: erano passati come le nu­ vole che poco fa si riassorbivano nel cielo, come la fo­ resta, come i templi; solo lui stava per morire; per es­ sere strappato via." "Non ce... morte... ci sono solo... io... (...) ...io... che sto per morire.” Claude si ricordò, con odio, la frase della sua infan­ zia: “Signore assistici nella nostra agonia..." Esprime­ re con le mani e con gli occhi, se non con le parole, quella fraternità disperata che lo faceva uscire di sé! Gli strinse le spalle.

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Perlen guardava quel testimone, estraneo come una creatura dell’altro mondo. A proposito di Les conquérants, possediamo due docu­ menti interessanti, non solo per la personalità eccezionale dei loro autori, Trotsky e Malraux, e per i problemi che pongono, quello della strategia rivoluzionaria e dei rappor­ ti tra la politica e la letteratura, ma anche perché è possi­ bilissimo che questo dibattito abbia giocato un ruolo di pri­ maria importanza nel processo evolutivo che portò Mal­ raux da Les conquérants e da La voie royale a La condition humaine, perché in questo terzo romanzo, la prospettiva trotskista occupa un posto considerevole. Trotsky, che aveva letto Les conquérants con due anni di ritardo, ci aveva visto innanzi tutto un documento politico più o meno importante e aveva mandato alla Nouvelle Revue Française un articolo nel quale giudicava il libro in questa prospettiva, e difficilmente si potrebbe immaginare una cosi marcata mancanza di comprensione per i suoi aspetti letterari. Fin dal principio dell’articolo, dopo aver constatato che Garine è il porta parola di Malraux, Tro­ tsky scrive che "il libro si dà il nome di romanzo”. “In effetto, — sottolinea, — ci troviamo di fronte alla crona­ ca romanzata della rivoluzione cinese nel suo primo pe­ riodo, quello di Canton.” In un altro punto, parla del "ro­ manzo” di Malraux, preoccupandosi di mettere la pa­ rola tra virgolette. Tutto ciò dimostra a che punto, chiuso nella propria prospettiva d’uomo politico, Trotsky sfiora senza vederla la struttura propriamente letteraria dell’ope­ ra, che è effettivamente un romanzo, senza virgolette, e il cui eroe è Garine non la rivoluzione. Partendo da quella affermazione, nella sua prospettiva, che d’altronde conosciamo, quella del proletariato rivo­ luzionario che deve darsi ad una politica offensiva opposta a tutti i compromessi e a tutte le forze politiche della bor­ ghesia, Trotsky svilupperà la sua critica fondandola sulla descrizione che Malraux ha dato della rivoluzione cinese. La situazione in Cina gli sembra analoga alla situazione ri­ voluzionaria che si era creata in Russia nell’ottobre del 1917.

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Notiamo tra parentesi ch’egli rimprovera tra le altre cose a Malraux di aver fatto di Borodine un rivoluzionario, mentre in realtà era solo un burocrate del Komintern che non aveva partecipato né alla rivoluzione del 1905 né a quella del 1917 (ce lo ricordiamo perché ne La condition humaine, Borodine apparirà effettivamente come un sem­ plice burocrate del partito). La risposta di Malraux, molto più breve, si divide in due parti e si situa su due piani diversi. Nella prima parte, egli spiega, a ragione, a Trotsky che il suo libro è un romanzo e non una cronaca della rivoluzione: “...questo libro non è una ‘cronaca romanzata’ della rivoluzione cinese, perché l’accento principale è posto sul rapporto tra alcuni individui e un’azione collettiva, non sull’azione collettiva sola." Egli tratterà dunque separatamente ciò che, nella critica di Trotsky, "nasce dalle condizioni della finzione”, cioè dalla necessità di risolvere un problema tecnico di cui Trotsky non si era nemmeno reso conto. In questa sfera si colloca innanzitutto il personaggio di Borodine che, buro­ crate forse secondo la visuale di Trotsky, appare in quel­ la di Garine e di tutta la sua cerchia un rivoluzionario pro­ fessionista. In breve, "l’ottica del romanzo domina il ro­ manzo”. Detto questo però, e poiché anche Trotsky rico­ nosce ai personaggi “valore di simboli sociali”, Malraux affronta "la discussione dell’essenziale”, vale a dire dei pro­ blemi politici posti da Trotsky. Questa seconda parte della risposta è una difesa, rispet­ tosa ma molto energica, della politica dell’Internazionale. Trotsky confonde infatti la situazione in Cina e nel mon­ do con quella del 1917 in Russia. Se la tattica offensiva era giustificatissima in una situazione di forza, una situa­ zione di debolezza esige una tattica difensiva, quale è stata quella dell’Internazionale Comunista nel momento in cui si svolsero i fatti descritti da Les conquérants. A questo proposito, occorre osservare che se nella prima parte ri­ guardante i problemi estetici e letterari Malraux aveva com­

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pletamente ragionè contro Trotsky, che si lasciava sfug­ gire l’essenziale, ha parzialmente ragione anche quando affronta problemi politici. La grande differenza tra la po­ litica preconizzata da Trotsky e quella scelta e imposta dall’Internazionale Comunista, era in effetto la differenza tra una politica offensiva e una difensiva, corrispondenti la prima ad un giudizio ottimistico, l’altra ad un giudizio pessimistico dei rapporti tra le forze in gioco. Ma Malraux descrive la politica dell’Internazionale come se si trattasse solo di un giudizio particolare della situazione cinese e del problema di un provvisorio temporeggiare, inteso a permettere una raccolta delle forze in vista di una nuova offensiva, mentre in realtà l’opposizione tra il trotskismo e la politica dell’Internazionale — diventata successivamente la politica staliniana — era molto piu profonda e aveva un carattere internazionale. Le stesse formule usate dai due gruppi antagonisti esprimono molto chiaramente la cosa. Entrambi hanno ritenuto la opposizione tra politica offensiva e difensiva importante certo, ma derivata da una altra opposizione assai più profonda, tra le strategie della "rivoluzione permanente” e del "socialismo in un solo paese”. Trotsky sapeva che il rapporto di forze non era sempre favorevole alla rivoluzione, ma pensava che la società so­ cialista non avrebbe potuto essere edificata in un paese arretrato come la Russia senza l’appoggio di una rivolu­ zione internazionale e vedeva nella politica da lui sugge­ rita l’unica speranza di rafforzare le probabilità di riuscita della rivoluzione e di sopravvivenza del socialismo nel1’U.R.S.S. Invece, la direzione dell’Internazionale partiva dall’idea che l’essenziale era conservare il bastione sovietico ormai costituito e che, dato il rapporto di forze sfavorevole creato dalla stabilizzazione del capitalismo (si trattava allora di una "stabilizzazione relativa”), qualsiasi movimento rivo­ luzionario rischiava, se non si fosse esteso ad una porzione importante del mondo e se non fosse riuscito vittorioso, di suscitare una coalizione internazionale antisovietica e di mettere in pericolo l’esistenza stessa dell’U.R.S.S. Fu mo­

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vendo da queste considerazioni che si sviluppavano i di­ versi stadi della politica difensiva, dal periodo stalinoboukhariniano durante il quale si faceva ancora assegna­ mento sull’alleanza delle forze democratiche e pseudode­ mocratiche (in Cina con il Kuomintang e implicitamente con Chiang Kai-shek), fino al periodo staliniano durante il quale si preconizzò una politica difensiva assoluta che condusse al patto di non aggressione con la Germania hi­ tleriana del 1939 e che implicava l’impiego della macchina dell’Internazionale e dei partiti comunisti contro ogni ri­ schio di sviluppo e di approfondimento del movimento rivoluzionario nei vari paesi del mondo. Se abbiamo affrontato questi problemi, è perché ci sem­ brano di capitale importanza per la comprensione del successivo romanzo di Malraux, La condition humaine, di cui iniziamo l’esame, che ha per argomento la rivoluzione cinese e, all’interno di questa, il conflitto tra il gruppo dei rivoluzionari di Sciangai da una parte e, dall’altra parte, la direzione del partito dell’Internazionale che chiede loro di non resistere a Chiang Kai-shek, e tra i due valori in­ carnati da queste forze: il valore trotskista della comunità rivoluzionaria immediata e il valore staliniano della disci­ plina'. Apparso dopo Les conquérants e La voie royale, questo stesso romanzo di Malraux avrà una risonanza enorme e lo renderà famoso in tutto il mondo. Pur trattandosi ancora di uno di quei romanzi che ab­ biamo definiti “di transizione” (tra il romanzo a eroe 1 "Trotskista” e “staliniano” non in assoluto, perché Trotsky non aveva mai negato il valore della disciplina allo stesso modo che gli stali­ niani non avevano mai negato quello della comunità rivoluzionaria, ma nella misura in cui ciascuna delle due tendenze affermava, per i motivi politici che abbiamo accennati, la priorità di un valore rispetto all'altro. Ne La condition humaine, Malraux non si schiera dall'una o dall’al­ tra parte, accontentandosi di indicare gli argomenti che giocano a favore delfuno o dell’altro valore e le conseguenze della loro reciproca predominanza, ma è chiaro che le simpatie vanno ai rivoluzionari di Sciangai. Invece ne L’Espoir — nonostante i problemi che si ponevano in Spagna siano stati assimilati a quelli ch’egli aveva descritti per la Cina — il conflitto tra la disciplina e la volontà di sviluppare la rivoluzione scom­ pare completamente, e il libro s’impernia unicamente sul valore esclusivo della disciplina intesa come problema militare c non politico.

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problematico e il romanzo senza personaggio), e nono­ stante l’argomento sia ancora, come in Les conquérants la rivoluzione cinese, l’universo de La condition humaine è, rispetto ai due romanzi precedenti, diversissimo. Forse l’autore è stato influenzato dalla discussione con Trotsky? È impossibile stabilirlo con sicurezza. È però vero che per certi aspetti — solo per certi aspetti — il libro è assai vicino alla concezione trotskista. Ma per quanto importante sia la “cronaca della rivo­ luzione" (e lo è molto di piu ne La condition humaine di quanto lo fosse in Les conquérants}, resta secondaria ai fini di una analisi strutturalista o anche semplicemente let­ teraria. La vera novità del libro sta nel fatto che, rispetto agli universi de La voie royale e di Les conquérants, do­ minati dal problema della realizzazione individuale del­ l’eroe, l’universo de La condition humaine è governato da tutt’altre leggi e soprattutto da un diverso valore: quel­ lo della comunità rivoluzionaria. Affrontiamo subito l’essenziale: romanzo nel senso piu stretto del termine, La condition humaine comporta un eroe problematico, ma, romanzo di transizione, ci descri­ ve non un individuo, ma un personaggio problematico collettivo·, la comunità rivoluzionaria di Sciangai rappre­ sentata non solo da tre personaggi individuali Kio, Katov, May, ma anche da Hemmelrich e da tutti i militanti ano­ nimi da cui li sappiamo circondati'. 1 Ci sembra però importante sottolineare che passando dall’individuo alla comunità, il carattere problematico dell’eroe romanzesco muta, fino a un certo punto, natura; i problemi individuali di Kio, May e Katov sono in effetti risolti, ne La condition humaine, e la loro vita è perfet­ tamente significativa; è invece l’azione del gruppo tutt’intero che è pro­ blematica per via del suo attaccamento ai valori contraddittori dell’azione rivoluzionaria immediata che crea la comunità e della disciplina all’in­ terno deirinternazionale, e dell’impossibilità di concettualizzare la con­ traddizione che ne deriva. Ne risulta tra l’altro un mutamento importante nello scioglimento: non c’è piu infatti ne La condition humaine “conversione”, presa di co­ scienza del carattere provvisorio o problematico della ricerca interiore. Lo scioglimento è una massima intensificazione della situazione che ca­ ratterizza tutto il racconto: apoteosi degli individui, totale fallimento dell’azione esterna del gruppo, almeno sul piano immediato (il futuro che si delinea nelle ultime pagine è non solo, come mostreremo, sovrap-

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Eroe collettivo e problematico·, quest’ultimo aspetto, che fa de La condition humaine un vero romanzo, nasce dal fatto che i rivoluzionari di Sciangai hanno due esigenze essenziali e, nell’universo del romanzo, contraddittorie: da un lato l’approfondimento e lo sviluppo della rivoluzione e, dall’altro lato, la disciplina nei confronti del partito e dell’Internazionale. Ora, partito e Internazionale, impegnati in una politica puramente difensiva, si oppongono rigidamente a qualsia­ si azione rivoluzionaria in città, ritirano le truppe fedeli ed esigono la consegna delle armi a Chiang Kai-shek no­ nostante costui si prepari evidentemente a massacrare i di­ rigenti e i militanti comunisti1. In queste condizioni è inevitabile che i militanti di Sciangai scelgano la sconfitta e il massacro. Si capisce perché, nella misura in cui il libro è anche una "cronaca della rivoluzione", la sua concezione sia assai vicina al pensiero dell’opposizione. Scritto nella prospettiva di Kio, May, Katov e dei loro compagni, pone implicita­ mente l’accento sul sabotaggio della loro lotta da parte della direzione del partito e sulla responsabilità di questa direzione nella disfatta, nel massacro e nella tortura dei militanti2. posto, ma è il futuro di una comunità diversa da quella del gruppo dei rivoluzionari di Sciangai). Un’altra precisazione si dimostrò necessaria, durante la discussione di questo testo tra i ricercatori di Bruxelles. Se infatti nella struttura de Lđ condition humaine l'eroe è rappresen­ tato dal gruppo dei rivoluzionari di Sciangai, il mondo è rappresentato non solo da Chiang Kai-shek, da Ferrai e dalle forze esplicitamente e co­ scientemente controrivoluzionarie, ma anche dalla direzione comunista di Han Keu che, soggettivamente rivoluzionaria, favorisce obiettivamente nel tempo limitato in cui si svolge l'azione del romanzo, il fallimento dei rivoluzionari di Sciangai e la vittoria di Chiang Kai-shek. Quanto al legame che nel racconto unisce il gruppo di Sciangai e la direzione di Han Keu in quanto gruppi comunisti che si oppongono al­ l’oppressione capitalistica, è proprio questo legame a costituire la relazione dialettica tra l'eroe e il mondo che Lukàcs ha cosi ben descritta e che rende possibile la struttura romanzesca. 1 In ultima analisi, di fronte alla resistenza dei militanti di Sciangai, il partito accetterà solo che si sotterrino le armi non ancora consegnate. 2 Occorre tuttavia sottolineare che, sul piano concettuale, Malraux non adotta la posizione di Trotsky e dell’opposizione che parlavano di

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In questo quadro, il valore che domina l’universo de La condition humaine è quello della comunità, che, nella fattispecie, non potrebbe essere che la comunità della lotta rivoluzionaria. Il modo in cui si svolge l’azione è lo stesso di Les con­ quérants, e quindi i personaggi sono necessariamente pres­ sappoco gli stessi nonostante siano visti in tutt’altra pro­ spettiva. Per meglio lumeggiarli non sarebbe inutile ana­ lizzarli a turno, ponendo ciascuno d’essi in rapporto con il corrispondente personaggio del precedente romanzo. Cominceremo beninteso con il personaggio principale: il gruppo dei rivoluzionari. In Les conquérants, era personi­ ficato da Borodine1. La differenza salta agli occhi, ma si giustifica con la differenza di prospettiva. Visto dall’individualista Garine, il rivoluzionario non potrebbe essere che un individuo il cui carattere distintivo è il fatto ch’egli non è solo strettamente legato al prole­ tariato e all’organizzazione che dirige la rivoluzione, ma arriva fino ad identificarsi con questo proletariato e questa rivoluzione, mentre, visto dall’interno, questo carattere di­ stintivo è precisamente ciò che trasforma l’individuo in comunità. Cosi, la storia narrata da La condition humaine non è solo l’azione di Kio, di May, di Katov e dei loro compagni, la loro disfatta è la loro morte, ma anche, stret­ tamente connessa con questa azione, la loro comunità che è una realtà psichica, viva e dinamica. Intorno a loro, trascurando alcune figure episodiche, in­ contriamo quattro personaggi che non si integrano in nesutradimento” della burocrazia, perché nell’atteggiamento dell’Internazio­ nale vede — come d’altronde esplicitamente l’Internazionale sosteneva — una tattica provvisoria sulla cui giustezza o errore lascia la discussione aperta. Inoltre, l’ultima parte del romanzo difende la linea "ufficiale” del "socialismo in un solo paese” e indica che l'edificazione dell’U.R.S.S. e la successiva lotta del partito comunista integrano e continuano la lotta dei militanti di Sciangai. 1 Lo stesso Borodine compare ne La condition humaine, ma si tratta di tutt’altro personaggio da quello di Les conquérants. È adesso il diri­ gente dell’Internazionale comunista, il burocrate come l’aveva visto Trotsky, e ha solo il nome in comune con il militante strettamente legato alla rivoluzione di Les conquérants. Ne La condition humaine l’omologo di costui è rappresentato, come abbiamo detto, dai militanti di Sciangai.

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suna comunità e restano individui più o meno isolati: un alleato, il terrorista cinese Cen, un nemico, Ferrai, e due personaggi intermedi, Clappique e Gisors. Abbiamo scritto “un alleato, il terrorista cinese Cen", mentre in Les conquérants Hong restava nonostante tutto un nemico che Garine — malgrado tutta la sua simpatia e comprensione — doveva alla fine far giustiziare. La dif­ ferenza deriva dal fatto che, lungi dall’essere l’omologo di Hong, Cen è un mito di costui e di Garine, un miscuglio in cui gli elementi apparentati a quelli che formavano la personalità di Garine predominano. Ciò d’altronde si spie­ ga e giustifica con la stessa diversità di prospettiva. Vista con gli occhi di Garine, la differenza tra lui e Hong era considerevole. Quest’ultimo infatti ha un atteggiamento astratto, estraneo ad ogni preoccupazione di efficienza, men­ tre Garine non riuscirebbe a trovare il senso — precario e provvisorio — della propria esistenza se non in un’azio­ ne rivoluzionaria totalmente subordinata all’efficienza della lotta. Nella prospettiva di Borodine, tuttavia, questa differen­ za perde molta della propria importanza, Hong e Garine si assomigliano nella misura in cui sono entrambi indivi­ dui che, pur nemici dichiarati e attivi della borghesia, non s’identificano con la rivoluzione. Dalla parte degli avversari della rivoluzione, un solo personaggio è veramente presente nel romanzo: Ferrai, che dirige un consorzio industriale, partecipa al rovesciamento delle alleanze di Chiang Kai-shek e organizza l’intesa tra costui e la borghesia di Sciangai. È un personaggio del tipo conquistatore ma naturalmente molto piu superficiale di Garine e Perken, perché invece di unirsi alla rivolu­ zione, se messo dalla parte dei falsi valori, di ciò che nel romanzo incarna il male e la menzogna. In effetto rap­ presenta uno dei rischi cui è soggetto questo tipo umano, rischi evocati in Les conquérants da Nicolaïev, quando diceva al narratore che Garine avrebbe potuto diventare un "mussoliniano”. Infine, tra i rivoluzionari e la reazione, due personaggi occupano nel romanzo un posto parecchio importante: 100

Gisors, il padre di Kio, e Clappique. Quest’ultimo è una vecchia conoscenza, che nei due precedenti romanzi di Malraux era scomparsa: personifica gli aerostati e i peccati capitali di Lunes en Papier, l’uomo che vive nell’immagi­ nazione; l’artista non conformista. Occorre anche precisare che nel momento in cui scrive La condition humaine, Mal­ raux prova molta piu simpatia per lui di quanta ne pro­ vasse prima, quando scriveva Lunes en Papier. Anche que­ sto d’altronde si può spiegare; in Lunes en Papier si trat­ tava di smascherare dei tipi che pretendevano di essere i soli rivoluzionari validi in un mondo in cui non c’era posto per la speranza, mentre adesso Clappique, tra i ri­ voluzionari da un lato Chiang Kai-shek o Ferrai dall’altro, fa piu o meno la figura della mosca cocchiera. Bisogna tuttavia rendere omaggio allo scrittore che, nonostante la sua simpatia per Clappique, ha spietatamente messo in luce il fatto che il suo atteggiamento distaccato dalla realtà può essere utile ma allo stesso modo nefasto, ossia fatale, ai rivoluzionari che lottano per i valori autentici. Gisors infine incarna la vecchia cultura cinese, in ultima analisi estranea ad ogni violenza reazionaria o rivoluzio­ naria. In fondo, rispetto a Les conquérants, corrisponde a Ceng Dai. Ma per il fatto d’essere reale, questa corrispon­ denza non smette d’essere più complessa e mediata che nel caso degli altri personaggi. Ceng Dai si opponeva per principio alla violenza rivoluzionaria, invece Gisors è le­ gato alla rivoluzione non direttamente — per motivi ideo­ logici — ma per l’attaccamento a suo figlio' che vi è im­ pegnato corpo e anima. Ora, ci sembra che questi siano due aspetti complementari della vecchia Cina e che non sarebbe impossibile immaginare Gisors in Les conquérants e Ceng Dai ne La condition humaine. Ma esiste anche una ragione strutturale che milita in favore della soluzio­ ne adottata da Malraux: Les conquérants narrano infatti la vittoria della rivoluzione, Lđ condition humaine la sua sconfitta; e appartiene alla natura dei Gisors e dei Ceng 1 Ricordiamo che in Les conquérants Ceng Dai parlava anche dei figli dei suoi amici che aveva stimolati a entrare nella Scuola dei Cadetti.

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Dai opporsi alla violenza trionfante e trovarsi, certo in modo pochissimo efficace, dalla parte dei vinti. La trama del romanzo è pungente e tragica ma molto semplice : Di fronte all’avanzata dell’esercito del Kuomintang (di cui fanno ancora parte Chiang Kai-shek e il partito co­ munista cinese) l’organizzazione comunista clandestina di Sciangai, sostenuta dai sindacati, prepara l’insurrezione sia per facilitare la vittoria degli attaccanti, sia per assicurarsi la direzione del movimento dopo la vittoria. In effetto, tra Chiang Kai-shek e i comunisti, il conflitto si è fatto sempre piu acuto nella misura in cui diventava imminen­ te la vittoria del Kuomintang. Uniti nella lotta contro un nemico comune, essi dovranno risolvere adesso il problema della struttura sociale e politica della nuova Cina che la disfatta del nemico fa passare in primo piano. Una parte importante dei militanti di base del partito comunista cinese e, tra essi, i rivoluzionari di Sciangai, organizzano i contadini e i sindacati promettendo ai primi la riforma agraria e ai secondi il potere nelle città. Per resistere a costoro e per mantenere il controllo del Kuomin­ tang, Chiang Kai-shek prepara l’alleanza con i propri ne­ mici di un tempo, la rottura coi comunisti, il massacro dei militari. La direzione dell’Internazionale e il partito comunista cinese, ritenendosi troppo deboli per combat­ tere, decidono di vietare qualsiasi azione rivoluzionaria e di lasciare via libera a Chiang Kai-shek, nella speranza che questo atteggiamento timorato inciti costui a giudicare inutile la repressione e a continuare la sua vecchia politica o, almeno, a differire il rovesciamento delle alleanze. I militanti di Sciangai, ormai impegnati a fondo nel­ l’azione, sono giustamente convinti del contrario. Però, per ragioni pratiche e ideologiche, non possono agire isolati e in opposizione con la direzione del partito. Non resta quin­ di loro altra soluzione che lasciarsi vincere e massacrare. Il romanzo racconta la loro azione alla vigilia dell’ingresso del Kuomintang a Sciangai, la loro reazione quando ap­ prendono le decisioni della direzione del partito, la loro sconfitta dopo l’ingresso di Chiang Kai-shek, e infine, la 102

tortura e il massacro dei comunisti da parte di costui, mas­ sacro in cui verranno uccisi, insieme a molti altri, due dei tre eroi del romanzo: Kio e Katov. Il libro comincia con una scena famosa: l’assassinio da parte di Cen di un trafficante d’armi o, piu esattamente, di un sensale, allo scopo di sottrargli il documento che consentirà ai rivoluzionari di impadronirsi di un certo nu­ mero di pistole. Assassinio il cui carattere mostra subito la differenza tra Cen e Hong: sul piano psicologico questo assassinio è un atto terroristico che permetterà a Cen di prender coscienza dei suoi problemi individuali; sul piano pratico, è un gesto ordinato dall’Organizzazione rivoluzio­ naria e che, di conseguenza, rientra in un’azione organiz­ zata. Ce nel libro un passaggio che mostra al tempo stesso l’importanza dell’assassinio per la lotta collettiva e il par­ ticolare significato che esso riveste per Cen:

“...l'insurrezione imminente che voleva dare Sciangai in mano alle truppe rivoluzionarie non possedeva nemmeno duecento fucili. Il fatto che possedesse le rivoltelle (quasi trecento) di cui questo intermediario, il morto, aveva appena negoziato la vendita col Go­ verno, e gli insorti, il cui primo atto avrebbe dovuto essere di disarmare la polizia per armare le loro trup­ pe, raddoppiavano le loro probabilità di successo. Ma negli ultimi dieci minuti Cen non ci aveva pensato nemmeno una volta”. Compiuto l’assassinio, Cen, per scendere, è costretto ad attraversare un albergo in cui la vita continua col ritmo abituale. L’episodio è pretesto ad una notevole descrizione della opposizione tra due mondi qualitativamente diversi: il mondo dell’azione rivoluzionaria e quello della vita quo­ tidiana, indifferente alle idee e alla politica. Ne La con­ dition humaine questa opposizione serve a mostrare la presa di coscienza da parte di Cen della differenza tra il mondo dell’azione terrorista cui egli appartiene e quello della “vita degli uomini che non uccidono”. Alcuni anni

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dopo, in Les Noyers de ΓAltenburg, Malraux farà una de­ scrizione analoga per spiegare la scoperta da parte di Victor Berger, a Marsiglia, nel momento in cui abbandona la lotta per la vittoria del Turanismo (pensiamo natural­ mente che si debba leggere "ComuniSmo”), dell’esistenza del mondo della vita quotidiana indifferente alle idee e all’azione, in cui, nonostante la sua disponibilità, egli non arriva ad integrarsi. Cen, imbattendosi nell’ascensore in un “Birmano o Siamese un po’ sbronzo" che gli dice che “la dancing-girl in rosso è formidabile" ebbe voglia, ci dice Malraux, “allo stesso tempo di schiaffeggiarlo per farlo tacere e di abbracciarlo perché era vivo". Ma se in Les Noyers de ΓAltenburg solo l’opposizione tra i due mondi, dell’azione e delia vita quotidiana, è sottolineata, ne La condition humaine, al mondo della vita quotidiana indiffe­ rente alla politica e a quello dell’azione terrorista che isola, si aggiunge e si oppone un terzo mondo il cui divenire rappresenta il tema fondamentale del romanzo: quello della comunità rivoluzionaria, cui in parte appartiene l’a­ zione di Cen e la cui funzione e scopo sono appunto di integrare gli altri due. Dopo l’uccisione del mediatore e l’attraversamento dell’albergo pieno di gente indifferente che si sta divertendo, Cen ritrova i compagni:

“La loro presenza strappava Cen alla sua terribile solitudine, dolcemente, come una pianta strappata dal terreno cui la trattengono ancora le sue piti sottili ra­ dici. E mentre a poco a poco s’avvicinava ad essi, sem­ brava che li scoprisse — come sua sorella la prima volta ch’era tornato da una casa di prostituzione..." Abbiamo detto che Cen corrisponde molto di piu al per­ sonaggio di Carine che a quello di Hong e che, in ultima analisi, è una sintesi di tutti e due. Come per Hong, la sua prima uccisione sarà un’ebbrezza, una svolta decisiva nella sua vita. Però, come Garine, dopo l’assassinio troverà l’or­ ganizzazione dei militanti rivoluzionari che Hong invece non aveva più ritrovata, e, per tutto il romanzo, non agirà

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mai in contrasto con essa. Come Garine, inoltre, egli si in­ serisce nella lotta collettiva ma non vi si identifica'. Raggiunto, dopo l’assassinio, il gruppo dei rivoluzionari, Cen incontra tra altri compagni due personaggi che sono al centro del romanzo, non in quanto individui ma in quan­ to rappresentanti di tutto il gruppo, della comunità rivolu­ zionaria: Katov e Kio. Ciò che caratterizza entrambi è la loro dedizione totale all’azione. Nel romanzo, Katov sarà visto solo come mili­ tante nella lotta, nel momento del suo arresto e successi1 Lo dirà, d’altronde, durante la conversazione che avrà poi con il vecchio Gisors, il suo padre spirituale: "Sono estremamente solo," disse, guardando finalmente Gisors in viso. Costui era turbato. (...) Quel che non comprendeva, era il fatto che Cen, che aveva certamente rivisto quella notte i suoi, dal momento che aveva appena rivisto Kio, sembrasse cosi lontano da loro. — Ma gli altri? — chiese. (...) — Non sanno. — Che sei tu? — Questo lo sanno: non ha nessuna importanza. (...) Che è la prima volta. (...) Lei non ha mai ammazzato nessuno, vero?” La stessa conversazione sottolinea un’altra parentela con Garine. La prima donna con cui fa l’amore è una prostituta (May dirà in un altro punto del romanzo che Cen "ha orrore dell’amore”). La natura dei suoi rapporti con le prostitute con cui fa l’amore è una sintesi di dominio e di solidarietà: — Cos’hai provato, dopo? — chiese Gisors. (-) — Orgoglio. — D'essere uomo? — Di non essere donna. La sua voce non esprimeva più rancore ma un complicato disprezzo. — Penso che voglia dire — riprese — che ho dovuto sentirmi separato? (...) si. Terribilmente. E ha ragione di parlare di donne. Forse si di­ sprezza molto colui che si uccide. Meno però degli altri. (...) — Di quelli che non uccidono? — Di quelli che non uccidono: i ragazzini. Allo stesso modo, molto più di un Cinese, egli, come Garine è innan­ zitutto un intellettuale, un uomo la cui vita è strutturata da una idea. "Sono cinese,” rispose Cen risentito. "No,” pensò Gisors. "Cen, fatta eccezione forse per la sua sessualità, non era cinese. Gli emigrati di ogni paese di cui pullulava Sciangai, avevano fatto capire a Gisors il modo nazionale che l’uomo usa nel separarsi dalla propria nazione, ma Cen non apparteneva alla Cina anche per il modo con cui l’aveva abbandonata: una libertà totale, quasi inumana lo asservi­ va totalmente al suo pensiero.”

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vamente della sua esecuzione. Kio invece sarà visto anche nella sua vita privata, nei suoi rapporti con May, ma non si tratta dell’acquisizione di un campo nuovo e diverso, per­ ché May e Kio sono caratterizzati dalla sintesi organica della loro vita pubblica e della loro vita privata o, per usare l’espressione di Lukacs, dalla sintesi totale dell’individuo e del cittadino; precisamente perché, nella vita quotidiana, questa sintesi — che non esisteva neppure negli scritti pre­ cedenti di Malraux — è estremamente rara, importava sot­ tolineare a che punto il pensiero e la coscienza di Kio sono completamente calati nell’azione. Malraux ci spiegherà a piu riprese che ogni riflessione di Kio era organicamente strutturata dall’imminente lotta. Nel momento in cui, deciso l’attacco alla nave per im­ padronirsi delle rivoltelle, egli entra nel quartiere cinese: “Un buon quartiere" pensò Kio. Da piti di un mese che, di comitato in comitato, preparava l’insurrezione, non vedeva piu le strade: non camminava piti sul fan­ go, ma su un piano. (...) Svoltando da una viuzza, il suo sguardo d’un tratto si ingolfò nella profondità lu­ minosa di un’ampia strada; nonostante la pnoggia scrosciante che la velava, la strada conservava per lo spirito di Kio la sua prospettiva, perché sarebbe bisogna­ to attaccarla contro fucili, contro mitragliatrici che avrebbero sparato orizzontalmente...

Cosi pure, nel momento in cui, attraversato il quartiere cinese raggiunge i cancelli della Concessione: Due fucilieri annamiti e un sergente della coloniale vennero ad esaminare le sue carte: egli aveva il pas­ saporto francese. Per tentare gli uomini del posto, un mercante aveva infilzato dei pasticcini sulle punte della cancellata (“Buon sistema per avvelenare un posto di guardia, caso mai," pensò Kio.)

Dentro la Concessione, cerca Clappique. Costui, l’abbia­ mo già detto, non vive nella realtà ma neH’immaginazione. Ciò si vede tra l’altro dal suo aspetto esteriore: 106

“In qualunque modo fosse vestito — e quella sera portava lo smoking — il barone di Clappique sembra­ va in maschera." Kio lo trova intento a delineare, per lo spasso di due entraîneuses, il quadro immaginario dell’ingresso di Chiang Kai-shek. Ma lui, come si vede nel quadro?

“— E lei, cosa ci farà? Lamentoso, con un singhiozzo: — Come, cara amica, non lo indovina? Sarò astro­ logo di corte, morirò nell’atto di prendere la luna in uno stagno, una sera che sarò sbronzo — stasera?” Torneremo in seguito sugli altri due personaggi che ci rimangono da descrivere: Gisors e Ferrai. Ciò che caratterizza La condition humaine rispetto ai ro­ manzi precedenti, è in primo luogo la mancanza dell’ele­ mento che in quelli era il piu importante, la principale ca­ ratteristica di Garine, di Perken e persino di Borodine: la malattia. La malattia esiste, beninteso, ne La condition humaine, ma solo nella misura in cui il libro presenta an­ che un aspetto di cronaca sociale: malattia dei figli del popolo, conseguenze del mancato suicidio di una donna che ha voluto morire per evitare di sposare un vecchio ricco, ecc. Quanto agli eroi, militanti rivoluzionari, possono es­ sere massacrati, torturati, non per ciò diminuisce la loro salute; arrivano addirittura a definire, mercé la loro esi­ stenza, il culmine della condizione umana e, per ciò stesso, il culmine della salute. Se la malattia esiste, non concerne gli individui, ma la collettività rivoluzionaria che è il vero eroe del romanzo e di cui abbiamo già spiegato il carat­ tere problematico. Quanto alla psicologia di questa comu­ nità, data l’impossibilità di studiarla capillarmente, raf­ fronteremo in due occasioni particolarmente importanti : l’amore e la morte, i rapporti tra Kio e May da una parte e la tortura, l’esecuzione dei rivoluzionari nel momento della vittoria di Chiang Kai-shek, dall’altra. Amore e morte sono infatti due elementi importanti ai

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fini della caratterizzazione dei personaggi romanzeschi in genere e in particolare di quelli di Malraux. Soltanto, ne La condition humaine, hanno una natura e una funzione diverse da quelle che avevano nelle opere anteriori. Abbia­ mo già detto che, nell’universo di Malraux, i rapporti tra uomini e donne riflettevano sempre il rapporto globale tra uomini e universo. Per questo nell’universo di Perken e di Carine si incontravano solo l’erotismo e i rapporti di domi­ nio, mentre ne La condition humaine, romanzo della co­ munità rivoluzionaria autentica, l'erotismo, come l’indivi­ duo, è integrato e superato in una comunità autentica e superiore: quella dell’amore. Una frase, ma una sola, annunciava ne La voie royale la possibilità di questo rapporto che sarà al centro de La condition humaine. L’abbiamo già citata: nel momento in cui Perken, rendendosi conto della imminenza della sua fine, cerca rifugio in un tentativo erotico, nell’attimo in cui prende coscienza dell’impossibilita di qualsiasi possesso ero­ tico duraturo, capisce anche "che non si possiede se non ciò che si ama”. Questa frase, che non ha senso nell’universo de La voie royale in cui l’amore è inesistente, annuncia La condition humaine con cui Malraux creerà, con Kio e May, la prima coppia di innamorati della sua opera e una delle piu belle e pure storie d’amore che siano state descritte nei libri del XX secolo che contano qualcosa1. Quanto all’erotismo e al dominio, non sono, naturalmen­ te, assenti dal libro, che contiene anche due scene, giusta­ mente famose, di questo tipo, ma non concernono Kio e May, eroi del romanzo, bensì il personaggio marginale di Ferrai, che come già abbiamo detto corrisponde per certi aspetti a Garine-Perken. D’altra parte, ritroveremo, in un contesto certamente più umano, lo stesso rapporto mera­ mente erotico con le donne in Cen, personaggio che in buona misura corrisponde anche lui a Garine. 1 Data la particolare importanza dell’amore di Kio e di May nel­ l’insieme dell’opera di Malraux, e la difficoltà di rendere questo amore con una analisi concettuale, lasceremo parlare il testo servendoci di lunghe citazioni.

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Tuttavia tra erotismo e dominio nei romanzi anteriori, e questi stessi rapporti nella Condition humaine, c’è un’im­ portante differenza, fondamentale per la comprensione dei personaggi. Nei romanzi precedenti, erotismo e dominio rappresentavano valori precari ma positivi, essi appaiono modificati e soprattutto svalutati dalla presenza stessa del­ l’amore in quel romanzo della Comunità rivoluzionaria che è La condition humaine. Ci ritorneremo. Cominciamo co­ munque con l’amore di Kio e May che, ne La condition humaine, è la storia di un amore del XX secolo, epoca in cui un sentimento del genere non è piu accessibile a qual­ siasi uomo e donna. Per questo non può riuscire se non nella misura in cui è organicamente legato all’azione ri­ voluzionaria dei due amanti. La sua vicenda è quella di un sentimento del tutto nuo­ vo che entra in conflitto con le sopravvivenze, esistenti nel­ l’uno e nell’altra, di un tipo di sentimento e di erotismo ch’essi hanno in realtà superato. In altri termini, Kio e May non sono sempre all’altezza della loro esistenza e la debo­ lezza che resta in ciascuno di loro non sarà definitivamente superata che grazie all’azione e alla morte prossima che li aiutano e li obbligano a riportarsi al loro livello. I fatti sono noti: sapendo che, nel loro rapporto, cia­ scuno ha conservato la propria libertà e ha deciso di ri­ spettare la libertà dell’altro, May, in un momento di fatica — e in parte commossa dalla pietà e solidarietà che la le­ gano a un uomo di cui sa che rischia d’essere ucciso tra poche ore — ha fatto l’amore con un collega che la deside­ rava, pur non amandolo. Convinta che la cosa non abbia nessuna importanza per la sua relazione con Kio, che sof­ frirebbe invece per la minima bugia, racconta a costui il fatto, ed egli prova un’intensa pena e un vivo sentimento di gelosia:

Kio soffriva del piu umiliante dei dolori: quello per cui ci si disprezza. Effettivamente, ella era libera di andare a letto con chi voleva. Da che nasceva dunque la sofferenza alla quale egli non si riconosceva alcun diritto e che vantava invece tanti diritti su di lui? 109

— Kio, ti dirò una cosa strana, che pure è vera... Fino a cinque minuti fa, credevo che non mi sarebbe importato. Forse mi faceva comodo crederlo... Ci sono dei richiami, specialmente quando si è cosi vicini alla morte (è alla morte degli altri che sono abituato, Kio...) che non hanno nulla a che fare con l’amore... Tuttavia la gelosia era li tanto piti torbida in quanto il desiderio sessuale ch’ella gli ispirava si fondava sulla tenerezza. Con gli occhi chiusi, continuando ad ap­ poggiarsi al gomito, Kio cercava, penosa occupazione, di capire. Sentiva solo la respirazione soffocata di May e il raspare delle zampe del cagnolino. La sua ferita veniva per il momento (e purtroppo ci sarebbero stati i postumi) dal fatto ch’egli attribuiva all’uomo che era andato a letto con May (“non posso però chiamarlo il suo amante!") un sentimento di disprezzo per lei. Era un vecchio collega di May, Kio lo conosceva appena. Ma conosceva la fondamentale misoginia di quasi tutti gli uomini. “L’idea che avendo fatto l’amore con lei, perché lo ha fatto, possa pensare: ‘quella puttanella’, mi fa venir voglia di ammazzarlo. Saremmo dunque gelosi solo di ciò che immaginiamo un altro immagini? Povera umanità..." Per May il sesso non aveva nulla di impegnativo. Bisognava che quel tipo lo sapesse. An­ dasse pure a letto con lei, ma non pensasse per questo di possederla. “Sto diventando indecente..." Ma non poteva farci nulla e sapeva che quello non era l’aspetto essenziale della faccenda. L’essenziale, la cosa che lo turbava fino all’angoscia, era il suo sentirsi d'un tratto separato da lei non dall’odio — benché ci fosse odio in lui — non dalla gelosia (o forse la gelosia era proprio questo?); ma da un sentimento senza nome, distrut­ tore come il tempo o la morte: non riusciva piu a ri­ trovarla. Kio se ne andrà senza che il loro rapporto si sia riag­ giustato :

"May gli porse le labbra. Lo spirito di Kio voleva baciarla, ma la bocca no — come se avesse serbato ran­ core per conto suo. La baciò infine, ma male. Ella lo guardò con tristezza, le palpebre afflosciate; i suoi oc­ chi pieni d’ombra diventavano potentemente espres­ sivi quando l’espressione veniva dai muscoli. Egli se ne andò." È solo in strada, ritrovata l’azione, che Kio si renderà conto della profondità del loro amore:

“G/i uomini non sono miei simili, son quelli che mi osservano e giudicano; i miei simili sono coloro che mi amano e non mi osservano, che mi amano contro ogni cosa, che mi amano contro il decadimento, contro la bassezza, contro il tradimento, che amano me e non ciò che ho fatto o che farò, che mi ameranno fino a che io amerò me stesso — fino anche al suicidio... con lei sola ho in comune questo amore straziato o no, come altri dei bambini malati che possono morire..." LIon era certo la felicità, era qualcosa di primitivo che si into­ nava alle tenebre e faceva montare in lui un calore che finiva in una stretta immobile come di una guancia contro una guancia — la sola cosa che in lui fosse forte come la morte. Sui tetti, c erano già ombre ai loro posti. La crisi sarà superata solo nel momento della sconfitta, nel momento in cui Kio parte per recarsi alla seduta del co­ mitato centrale; egli sa, come lo sa May, che probabilmen­ te sarà arrestato e ucciso. Dapprima però sembra che la tensione si accumuli:

— Dove vai? — Con te, Kio. — A far che? Ella non rispose. — È piti facile che ci riconoscano insieme che sepa­ rati — osservò Kio. Ili

— Ma no, perché? Se sei indiziato, è lo stesso... — Non mi servirai a nulla. — E qui, a cosa servirei nel frattempo? Gli uomini non sanno cosa significhi aspettare... Kio fece qualche passo, si fermò e si voltò verso di lei: — Ascoltami, May: quando si è trattato della tua li­ bertà, te l'ho riconosciuta. Ella capi a cosa alludeva ed ebbe paura: l'aveva di­ menticato. Infatti egli aggiungeva in tono piu sordo: — E tu te la sei saputa prendere. Adesso si tratta della mia. — Ma, Kio, che cosa c entra? — Riconoscere la libertà di un altro, e dargli ragio­ ne contro la propria sofferenza, lo so per esperienza. — Sono un altro, io, Kio? Egli tacque di nuovo. Si, in quel momento May era un altro. Qualcosa tra loro era mutato. — Allora — riprese lei — perché mi sono... insomma, non possiamo più neanche stare assieme nel pericolo?... Rifletti, Kio: si direbbe quasi che tu voglia vendicarti... — Del senno di poi... — Ma se a tal punto me ne volevi, non avevi che da prenderti uriamante... Ma no! Perché ti dico cosi, non è vero, io non mi sono presa un amante! E tu sai bene che puoi andare a letto con chi vuoi... — Tu mi basti — rispose Kio amaramente. Il suo sguardo stupì May: era un miscuglio di sen­ timenti diversi. E — piti conturbante di tutti — sul suo viso si leggeva l’inquietante espressione di una vo­ luttà che lui stesso ignorava. — In questo momento — riprese — non è di far l'amo­ re che ho voglia. Non dico che tu abbia torto: dico che voglio andar solo. La libertà che mi riconosci è la tua. La libertà di fare quel che ti piace. La libertà non è uno scambio, è la libertà. — E un abbandono... Silenzio.

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— Perché degli esseri che si amano sono davanti al­ la morte, se non è per rischiarla insieme? May indovinò che stava per andarsene senza discu­ tere e gli sbarrò la porta. — Non dovevi darmi la libertà, se ora ci deve disu­ nire — gli disse. — Non me l'hai chiesta. — Ma tu me l’avevi riconosciuta fin da principio. ‘Non dovevi credermi,’ pensò Kio. Era vero, gliela aveva sempre riconosciuta. Ma il fatto che ora ella di­ scutesse di questi diritti, la separava ancor più da lui. — Ci sono dei diritti che si concedono solo perché non vengano usati — osservò amaramente May. — Se te li avessi riconosciuti solo perché ti ci potes­ si attaccare in questo momento, non sarebbe cosi gra­ ve... Questo istante li separava più della morte: palpe­ bre, bocca, tempie, il luogo di tutte le tenerezze è vi­ sibile sul viso di una morta, e quegli zigomi sporgenti e quelle lunghe palpebre appartenevano solo a un mon­ do estraneo. Le ferite del più profondo amore bastano a generare un grande odio. Forse May, cosi vicino al­ la morte, indietreggiava sulla soglia di quel mondo di ostilità che andava scoprendo? Disse: — Non m’attacco a niente, Kio, diciamo che ho tor­ to, che ho avuto torto, tutto quello che vuoi, ma ades­ so, in questo momento, subito, voglio venir via con te. Te lo chiedo. Egli taceva. — Se non mi amassi — riprese May — non ti importe­ rebbe di lasciarmi venire con te... Allora? Perché tor­ turarci? — Come se fosse il momento, — soggiunse stanca­ mente. (...) — Andiamo? — chiese. — No. Troppo leale per nascondere i propri istinti, ella tor­ nava ai suoi desideri con un’ostinazione da gatta, che

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spesso urtava Kio. S’era scostata dalla porta, ma egli s’accorse di aver avuto voglia di oltrepassarla solo fin ch’era stato sicuro che non l’avrebbe oltrepassata. — May, dobbiamo proprio lasciarci di sorpresa? — Sono forse vissuta come una donna che va pro­ tetta?... Restavano faccia a faccia, non sapendo più che dire e senza accettare il silenzio, sapendo entrambi che quel­ l’attimo, uno dei piu gravi della loro vita, veniva cor­ roso dal tempo che passava: il posto di Kio non era li, ma al comitato, e sotto tutti i suoi pensieri l’impazien­ za stava in agguato. May accennò col viso la porta. Egli la guardò, le prese la testa tra le mani, la strinse dolcemente senza baciarla, come se in quella stretta del volto avesse potuto mettere quel miscuglio di tenerez­ za e di violenza che hanno tutti i gesti virili dell’amore. Poi le sue mani si scostarono. Le due porte si richiusero. May continuava ad ascol­ tare come aspettandosi che si chiudesse una terza por­ ta che non esisteva, — la bocca aperta e molle, ebbra di dolore, scoprendo che, se gli aveva fatto cenno di andarsene solo, era perché pensava di fare cosi l’ultimo, il solo gesto che potesse indurlo a portarla con sé. Ma, solo, per strada, Kio sente di nuovo la forza che lo unisce a May:

"La separazione non aveva liberato Kio. Anzi: May era piu forte in quella strada deserta — avendo accet­ tato — che di fronte a lui, mentre gli si opponeva. Entrò nella città cinese non senza accorgersene, ma con indifferenza. 'Ho vissuto come una donna che va protetta?...’ Con che diritto lui esercitava la sua ono­ revole protezione sulla donna che aveva accettato an­ che di lasciarlo andare? In nome di che la lasciava? Era sicuro che in ciò non ci fosse della vendetta? Cer­ to May era ancora seduta sul letto, schiacciata da una pena che sfuggiva agli schemi della psicologia...

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Tornò correndo sui suoi passi. La stanza delle fenici era vuota, suo padre era uscito, May era sempre nella camera. Prima di aprire si fer­ mò atterrato dalla fraternità della morte, scoprendo co­ me, davanti a quella comunione, la carne restasse una cosa da nulla nonostante la sua potenza. Capiva che accettare di trascinare l’essere amato nella morte è for­ se la forma totale dell’amore, quella che non può es­ sere superata. Apri. May si buttò il soprabito sulle spalle e lo se­ gui senza dir nulla."

Arrivati al luogo della riunione, May sarà tramortita, Kio arrestato. In seguito, al momento d’essere ucciso, egli inghiottirà il cianuro che portavano addosso quasi tutti i capi rivoluzionari in vista di una simile eventualità e si ucciderà per sfuggire alla tortura. Nell’attimo della morte ritroverà integralmente, senza riserve, May e tutti i suoi compagni di lotta:

“Kio chiuse gli occhi (...) Aveva visto molti morire e, aiutato dalla sua educazione giapponese, aveva sem­ pre pensato che è bello morire la propria morte, una morte che somigli alla propria vita. E poi, morire è passività, ma uccidersi è un atto. Quando sarebbero venuti a prendere il primo di loro, si sarebbe ucciso in piena coscienza. Si ricordò — col cuore sospeso — dei dischi del fonografo. Tempo in cui la speranza aveva ancora un senso! Non avrebbe piti rivisto May e il solo dolore per cui fosse vulnerabile era il dolore di lei, come se la sua morte fosse stata una colpa: ‘Il rimor­ so di morire,’ pensò con un guizzo di ironia. Nulla di simile nei confronti del padre che gli aveva sempre dato un’impressione non di debolezza, ma di forza. Da più di un anno, May l’aveva liberato da ogni solitudi­ ne, se non da tutte le amarezze. Risentiva dolorosa­ mente la lancinante evasione nella tenerezza dei corpi allacciati, pensando a lei, ormai separato dai vivi... ‘Adesso mi deve dimenticare...’ Scrivendoglielo, non 115

l'avrebbe che afflitta e legata maggiormente a sé. “E significa dirle di amarne un altro.’ O prigione, luogo in cut si jerma il tempo che altrove continua..." Accanto a questa unione totale di Kio e di May, nella quale in nessun modo si potrebbe scindere il rapporto pri­ vato dell’attività rivoluzionaria, accanto a questa totalità realizzata, l’altra rapporto tra uomo e donna descritto nel romanzo, quello tra Ferrai e Valérie (ci sono solo poche allusioni ai rapporti erotici di Cen con le prostitute), è na­ turalmente svalutato e degradato; e non c’è da stupirsi che la sua svalutazione porti con sé ne La condition humaine un mutamento di natura. Non c’è più alcun dominio, al­ cuna superiorità dell’uomo. Valérie si ribella e, per umilia­ re Ferrai, gli dà appuntamento con un canarino nell’atrio dell’albergo contemporaneamente ad un altro personaggio dello stesso ambiente. Valérie non verrà e i due uomini si troveranno naso a naso, buffi, seguiti dai boys con le gab­ bie degli uccelli. Per vendicarsi, Ferrai riempirà d’uccelli la camera di Va­ lérie in assenza di costei. Il seguito non è detto, e d’altron­ de non offre piu interesse: il rapporto si perde nel ridicolo. E tuttavia questo rapporto di dominio erotico era in Les conquérants e in La voie royale, sul piano della vita pri­ vata, il valore per eccellenza, che permetteva a Garine e a Perken di affermarsi e di sentirsi esistere. Accanto all’amore, la morte è un alto avvenimento co­ stitutivo dell’esistenza dei principali personaggi del roman­ zo. Evocando l’istante in cui Kio, inghiottendo il cianuro, ritrova con la massima intensità la presenza di May, abbia­ mo già precisato il significato e la funzione che la morte ha per i rivoluzionari ne La condition humaine, significato e funzione diversi e persino opposti a quelli che aveva per Garine e Perken nei romanzi anteriori. In Les conquérants e ne La voie royale la morte era infatti la realtà inevitabile che rendeva precari e provvisori tutti i valori inframondani legati all’azione, che li annientava retrospettivamente e riportava l’eroe all’informe e all'assoluta solitudine, mentre invece, ne La condition humaine, essa è l’attimo che rea­

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lizza integralmente l’unità organica con l’azione e la co­ munità coi compagni. Nei romanzi precedenti, la morte spezzava tutti i iegami tra l’individuo e la comunità. Ne La condition humaine garantisce il superamento definitivo della solitudine. Tra i personaggi che incarnano il gruppo rivoluzionario propriamente detto, ci sono descritte due morti, quella di Katov e quella di Kio. Abbiamo già par­ lato della morte di quest’ultimo: Kio muore ritrovando non solo May, ma Katov, i compagni e soprattutto il senso stesso della propria lotta e della propria esistenza. Per que­ sto la morte non è un fine, perché la sua vita e la sua lotta saranno ripresi da coloro che dopo di lui continueranno l’azione : "Aveva combattuto per quello che, nel suo tempo, aveva la maggior carica di significato e di speranza; moriva in mezzo a coloro coi quali avrebbe voluto vi­ vere; moriva come tutti quegli uomini distesi, per aver dato un senso alla propria vita. Cosa sarebbe valsa una vita per la quale non avesse accettato di morire? È facile morire quando non si muore soli. Morte satura di quel mugolio fraterno, assemblea di vinti, in cui le jolie avrebbero riconosciuto i loro martiri, leggenda sanguinosa con cui si costruiscono le leggende dorate! Come, già guardati in viso dalla morte, non sentire quel mormorio di sacrificio umano che gli gridava che il cuore virile degli uomini è per i morti un rifugio che equivale allo spirito?... "No, morire poteva essere un atto esaltato, la supre­ ma espressione di una vita cui quella morte somiglia­ va tanto; e significava sfuggire a quei due soldati che si avvicinavano esitando. Si schiacciò il veleno tra i denti come in un gesto di comando, udì ancora Katov interrogarlo con angoscia e toccarlo, e nei momento in cui voleva aggrapparsi a lui, perché soffocava, senti tutte le forze superarlo, inarcate al di là del suo essere contro una poderosa convulsione."

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Cosi pure la morte di Katov è il momento in cui costui raggiunge con maggiore intensità la comunità rivoluziona­ ria. Accanto a lui, stanno sdraiati due militanti cinesi, at­ territi dal fischio della locomotiva nella quale Chiang Kaishek fa buttare vivi i prigionieri. Katov, in un gesto di su­ prema fraternità, passa loro il suo cianuro. Sciaguratamen­ te, uno dei Cinesi, che è ferito alla mano, lo lascia cadere. Per qualche istante si può pensare che il gesto di Katov non abbia avuto nessuna utilità. Ma al di là della realtà mate­ riale, la fraternità è più forte e presente che mai. I suoi due compagni cinesi non si sentono piu soli. "Le loro mani sfioravano la sua. E d'un tratto uno dei due gliel'afferrò, la trattenne. — Anche se non troviamo niente... disse una delle due voci."

Ma il cianuro è ritrovato e i suoi due compagni scampa­ no alla tortura. Katov è condotto alla locomotiva. È forse l’istante piu solenne e intenso della narrazione. Egli attra­ versa la scena circondato dalla fraternità degli altri prigio­ nieri, feriti, prostrati a terra e votati allo stesso destino. “...il fanale proiettò l'ombra, adesso nerissima, di Katov sulle grandi finestre notturne; camminava pe­ santemente, un passo dietro l’altro, impacciato dalle ferite; quando il suo movimento ondeggiante s’avvici­ nava al fanale, la sagoma della sua testa si perdeva sul soffitto. Tutta l’oscurità del grande locale era viva e seguiva i suoi passi con lo sguardo. Il silenzio era di­ ventato tale che il suolo risonava ogni volta ch’egli lo percuoteva col piede; tutte le teste, battendo dall’alto in basso, seguivano il ritmo della sua marcia, con amore, con terrore, con rassegnazione, come se, nonostante la somiglianza dei movimenti, tutti si fossero visti cam­ minare seguendo quella barcollante partenza. Rimasero con le teste sollevate: la porta si chiudeva. Un rumore di respirazioni profonde, eguale a quello

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del sonno, cominciò a salire dal suolo: respirando dal naso, con le mascelle saldate dall’angoscia, immobili adesso, tutti quelli che non erano ancora morti aspet­ tavano il fischio.” Come si vede, il tema de La condition humaine non è so­ lo la cronaca degli avvenimenti di Sciangai, ma anche, e innanzitutto, questa realizzazione straordinaria della co­ munità rivoluzionaria attraverso la sconfitta dei militanti e la sopravvivenza di costoro nella lotta rivoluzionaria che prosegue dopo la loro morte. Cosi pure, è in rapporto a questa lotta che si pone il destino futuro degli altri per­ sonaggi. Due, Hemmelrich e Cen, saranno recuperati alla lotta. Il primo aveva esitato tutta la vita tra i suoi doveri verso la moglie e il figlio, vittime passive, incapaci di di­ fendersi in un mondo barbaro e ingiusto, e le sue aspira­ zioni rivoluzionarie; sarà liberato dalla repressione che, massacrando i suoi, gli rende la libertà ch’egli non aveva smesso di sognare e gli consente di buttarsi nell’azione. Quanto a Cen che, sostenuto ufficiosamente dal gruppo dei rivoluzionari, ha cercato due volte di organizzare un attentato contro Chiang Kai-shek, che è orribilmente fe­ rito durante il secondo tentativo e si suicida, si trova com­ pletamente solo quando lancia la bomba e muore, pren­ dendo coscienza che in questo mondo "perfino la morte di Chiang Kai-shek gli è diventata indifferente". È, sul piano immediato, la morte di Garine e di Perken, ma al termine del romanzo apprendiamo che il suo discepolo Pei, col qua­ le egli sperava di assicurare la continuità della propria azio­ ne anarchica, è andato a raggiungere i comunisti in Russia. Cosi, lo stesso gesto di Cen e la solitudine totale nella qua­ le egli si trova ributtato nel momento della morte sono sta­ te superate e integrate dall’azione storica. Tre personaggi abbandoneranno l’orbita dell’azione: Gisors, per il quale la morte di Kio ha rotto ogni legame con la rivoluzione, ritorna al panteismo passivo della cultura cinese tradizionale; Ferrai si troverà tagliato fuori dall’a­ zione da un consorzio di banchieri e di amministratori

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che gli sottrarranno la sua opera'; Clappique, costretto a sfuggire alla repressione che lo prende di mira nella misu­ ra in cui ha aiutato Kio, si travestirà da marinaio e trove­ rà nel travestimento il vero significato della propria vita. Restano i combattenti, May, e dietro di lei, Pei e Hemmelrich, sui quali dobbiamo un poco soffermarci. Il rac­ conto ci dice semplicemente che tutti e tre raggiungono l’U.R.S.S. dove proseguono la lotta e che in seguito torne­ ranno in Cina, perché la costruzione dell’U.R.S.S., la rea­ lizzazione del piano quinquennale sono diventati per il momento ‘‘l’arma principale della lotta di classe”. Vale a dire che la posizione concettuale di Malraux, nel momento in cui scrive il romanzo, non è trotskista, ma anzi molto vicina alle posizioni staliniane. Ciò non toglie che i due capitoli che la espongono, vale a dire le venti pagine della terza parte che si svolgono a Hang Keu, come pure le sei ultime pagine del libro, siano molto piu astratte e schematiche del resto della narrazione, e sembrino fino a un certo punto dei corpi estranei, sovrapposti12. Se l’unità del libro non ne soffre, c se La condition hu­ maine resta un romanzo di potente coerenza e unitarietà, è innanzitutto perché questi frammenti rappresentano ap­ pena un decimo dell’opera e per giunta questo decimo non è tutto inteso ad esprimere questa posizione intellettuale. Insomma, l’ideologia esplicita di Malraux, ne La condi­ tion humaine, occupa solo un posto trascurabile, mentre la linea non ortodossa dei rivoluzionari di Sciangai rap­ presenta la prospettiva unitaria secondo la quale il libro è scritto. Ciò non toglie che, in ciascuno di questi due pas­ saggi, Malraux sia costretto ad operare una transizione tra queste due posizioni difficilmente conciliabili. Lo farà nel 1 Lo constaterà anche Saint-Exupéry che nel mondo, cosi com è con­ gegnato, i conquistatori preparano la via ai tecnocrati e sono da" costoro eliminati. 2 È un fenomeno frequente nella storia della letteratura, e risulta dalla immissione nella creazione originaria, che tende a seguire le proprie leggi e a orientarsi verso la propria coerenza, delle convinzioni ideologiche dello scrittore; lo storico sociologo della letteratura potrebbe citare casi analoghi nell’opera dei più grandi scrittori (per esempio nell’opera di Goe­ the e di Balzac).

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capitolo ambientato a Hang Keu, quando esprimendo i dubbi di Vologuine, il rappresentante dell’Internazionale, che

"era molto piu a disagio di quanto lasciasse scorgere”; dubbi che tra l’altro si materializzano nel fatto che, pur dichiarandosi ostile ad ogni attentato individuale, partico­ larmente all’attentato contro Chiang Kai-shek proposto da Cen, Vologuine permette tuttavia a costui di andar­ sene, favorendo cosi la sua azione terroristica. Lo esprimerà anche sul finire del libro, nella psicologia di May il quale, raggiungendo il partito e l’Internazionale, si integra in una lotta che deve recuperare ed integrare quel­ la dei rivoluzionari di Sciangai; di May, che, ci si lascia intendere, ricomincerà una vita nuova, ma, come ci è det­ to nell’ultima frase, "senza entusiasmo”, col cuore greve e senza avere evidentemente risolto i suoi problemi:

“Non piango più, adesso, ella disse, con amaro or­ goglio.” In Les conquérants e ne La condition humaine, Malraux, pur scrivendo i due primi romanzi francesi della rivolu­ zione proletaria del XX secolo, non si identifica col partito comunista che guida la rivoluzione. Infatti, abbiamo con­ statato che i valori fondamentali che strutturavano gli uni­ versi delle due opere erano diversi da quelli del partito, nonostante, in entrambi i casi, il partito avesse un valore positivo e nonostante, evidentemente, il passaggio dal ro­ manzo di Carine a quello della comunità dei rivoluziona­ ri di Sciangai abbia rappresentato un passo importante nel­ la direzione di una concezione rivoluzionaria.

Paragonati a questi due romanzi, Le Temps du Mépris e L’Espoir segnano un mutamento importante: l’accetta­ zione integrale del partito comunista. Sottolineiamo tuttavia che la struttura dell’universo non è omologa nei due libri. Le Temps du Mépris è la narrazione di un episodio della

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lotta rivoluzionaria, che rende possibile la dignità umana, la comunità immediata e la riconciliazione dell’uomo e dell’universo, dal momento che il partito comunista vi è naturalmente e implicitamente valorizzato in quanto or­ ganizza e dirige la lotta, mentre ne L’Espoir il partito è valorizzato coscientemente in quanto organizzazione che attua la disciplina militare contro le aspirazioni spontanee del popolo in genere e del proletariato in particolare. Si potrebbe, a nostro avviso, caratterizzare in questo mo­ do i quattro libri che, nell’opera di Malraux, hanno per argomento la rivoluzione proletaria. Les conquérants è il romanzo dei rapporti tra Yindividuo problematico' — Garine — e la rivoluzione che gli consen­ te di dare, provvisorio e precario, un senso autentico alla propria esistenza. La condition humaine è il romanzo dei rapporti tra la comunità problematica dei rivoluzionari di Sciangai che, in quanto individui, hanno trovato definitivamente un si­ gnificato autentico per la loro esistenza nella lotta e nella sconfitta, e l’insieme dell’azione rivoluzionaria all’interno della quale la tattica dell’Internazionale comunista rende inevitabili la loro morte e la loro sconfitta. Le Temps du Mépris è il racconto del rapporto non pro­ blematico dell'individuo Kassner con la comunità non problematica dei combattenti rivoluzionari e, implicitamen­ te, col partito comunista che ne fa parte e la dirige. L’Espoir, infine, ha per tema il rapporto non proble­ matico del popolo spagnolo e del proletariato internazio­ nale col partito comunista disciplinato e opposto alla spon­ taneità rivoluzionaria. Questa elencazione solleva subito due tipi di problemi: il passaggio dalla distanza rispetto al partito comunista al­ la sua accettazione senza riserve·, la scomparsa dell’eroe 1 Per evitare ogni malinteso, precisiamo che usiamo il termine "personaggio problematico” non nel senso di “uno che pone dei problemi”, ma in quello di personaggio la cui esistenza e i cui valori lo pongono di fronte a dei problemi insolubili e di cui egli non saprebbe prendere chiara e rigorosa coscienza (quest’ultima caratteristica separa l’eroe romanzesco dall’eroe tragico).

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problematico e con lui della forma strettamente roman­ zesca. Il primo appare subito un fatto d’ordine biografico e psi­ cologico, del quale non potremmo dare nessun chiarimento. Non è però escluso che si tratti di un fenomeno piu gene­ rale che va oltre la pura biografia dello scrittore. La con­ dition humaine, pubblicata nel 1933, è stata scritta prima, Le Temps du Mépris è del 1935. Tra le due opere si situa la presa di potere da parte del nazionalsocialismo in Ger­ mania, ch’ebbe profonde ripercussioni negli ambienti in­ tellettuali e politici della sinistra europea. Molti militanti, dopo questa presa di potere, si ritennero costretti dalle esi­ genze della lotta antifascista a relegare in secondo piano le loro riserve nei confronti del partito comunista, tanto più che questo, abbandonando la teoria e la politica del socialfascismo, si orientava a partire dal 1934 verso una politica di lotta antifascista e di fronte popolare. Per limitarci ai nomi di rinomanza internazionale della sinistra indipendente e dell’opposizione comunista, accan­ to a Malraux, altre due importanti figure della vita intel­ lettuale, Georg Lukacs e Ilya Ehrenburg raggiungevano, prima della presa di potere dell’hitlerismo poco prima del 1933, le posizioni ufficiali del partito e, nel 1933, uno dei principali dirigenti dell’opposizione russa, Christian Rakowsky, faceva lo stesso. Beninteso, questo riavvicinamento, che probabilmente, ol­ tre i quattro nomi internazionalmente noti che abbiamo citati, riguardava alcune migliaia di militanti poco noti o sconosciuti, rivesti per ogni caso individuale un aspetto par­ ticolare, e ciascuno di questi militanti conservava delle ri­ serve più o meno esplicite nei confronti della dottrina o del pensiero "ufficiali”. Anche se ci limitiamo ai quattro nomi sopracitati, è evidente che i due teorici Lukacs e Rakowsky conservavano, sul piano esplicito dei loro scritti e delle loro professioni di fede, riserve più forti di Ehrenburg e di Malraux. Bisognerebbe dunque studiare molto più da vicino le ripercussioni dello sviluppo dell’hitlerismo e della presa di potere di Hitler sugli intellettuali marxisti e paramarxisti,

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per sapere in che misura l’evoluzione di Malraux è un puro fatto biografico o la manifestazione di una tendenza piu profonda corrispondente a talune correnti della coscienza collettiva. Sul piano della forma letteraria, ci sembra che la scom­ parsa dell’eroe problematico porti naturalmente con sé l’ab­ bandono della struttura propriamente romanzesca; cosi, né Le Temps du Mépris né L’Espoir sono piu romanzi nel senso stesso della parola, ma forme intermedie tra l’epica e la lirica'. In queste opere, la mancanza di leggerezza pro­ pria del poema epico e al tempo stesso della "storia” strut­ turata del romanzo, consente ormai solo la forma del breve episodio isolato o ripetuto che sola può evitare insieme la incoerenza e l’astrazione. È per questo, secondo noi, che Le Temps du Mépris è diventato una novella e L'Espoir una serie di episodi i cui nessi sembrano molto deboli. Le Temps du Mépris è composto di tre parti strettamen­ te legate l’una all’altra ma che però non fanno un roman­ zo. Si potrebbe definire il testo come una novella a tenden­ za lirica e già abbiamo formulato l’ipotesi che la brevità del racconto, come pure il suo carattere lirico, provengano dal­ la frattura tra il soggetto cui si mira, l’unità totale dell’in­ dividuo e della comunità, e il contenuto reale del libro in cui questa unità appare solo come risultato finale di una lotta nel corso della quale essa è più volte minacciata (men­ tre il poema epico propriamente detto non sopporta mi­ nacce del genere). Come diceva Lukàcs: “il poema epico conosce risposte, non domande”. Ora, il racconto di Malraux è in gran par­ te il racconto di una domanda la cui minaccia pervade tut­ to il libro, anche se finisce per esser vinta. In fondo, se ci si consente l’espressione, si tratta di un racconto preepico che si situa nel momento in cui, come dice Malraux, "un dio” o, che è lo stesso sul piano della critica letteraria, il poema epico, sta nascendo. 1 All’epica si mira con l’affermazione della riconciliazione tra indi­ viduo c comunità, la lirica è presente come aspetto complementare del carattere malgrado tutto postulato e non organico di questa riconciliazione.

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D’altronde sulla natura e sull’universo di questo raccon­ to possediamo un testo particolarmente importante, una breve prefazione di Malraux, una specie di manifesto let­ terario. Malraux vi esprime infatti la consapevolezza di situarsi con questo scritto alla svolta tra due forme di letteratura narrativa: quella del romanzo a eroe individuale e proble­ matico e quella cui si lega la sua nuova opera, ch’egli dice, secondo noi a torto, tragica, mentre in realtà si tratta solo di un universo della grandezza totale e non problematica dell’uomo nata dalla sua possibilità di creare e di mante­ nere un legame organico con la comunità. Se il termine tragico ci sembra improprio, pensiamo in­ vece che Malraux abbia fondamentalmente ragione quan­ do distingue queste due forme letterarie, facendo dell’una quella dell’individualismo degli scrittori e degli artisti del XIX secolo, come Flaubert o Wagner, orientati soprattut­ to verso il mondo interiore e verso le differenze individua­ li, e dell’altra, cui a torto o a ragione lega i nomi di Eschilo, di Omero, di Chateaubriand, di Nietzsche e perfino di Dostoevskij quella la cui arte tende a dare agli uomini co­ scienza "della grandezza ch’essi ignorano di possedere”. Va da sé che il libro si colloca in quest’ultima categoria. Dopo aver cosi situato la sua opera in una sorta di tipo­ logia storica delle forme romanzesche, Malraux enumera le componenti costitutive dell’universo di un libro di cui ci dice che comporta solo due personaggi, “l’eroe e il suo senso della vita", e che non vi si trovano gli antagonismi individuali che “permettono al romanzo la sua comples­ sità”: queste componenti sono: “l’uomo, la folla, gli ele­ menti, la donna, il destino". Questa analisi ci sembra valida. Notiamo semplicemen­ te che uno dei principali elementi costitutivi dell’universo dei primi romanzi, la morte, non vi compare più e che Malraux ha avuto ragione di eliminarla sia nella elenca­ zione della prefazione che nel corpo della narrazione, nella misura in cui — come abbiamo già detto nella prima parte di questo saggio — quando l’individuo riesce ad inserirsi in modo organico in un universo governato da valori su-

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perindividuali, la morte perde — siano questi valori tra­ scendenti o immanenti, si tratti di Dio o della comunità umana — non certo la sua realtà empirica, ma il suo si­ gnificato primordiale. Segnaliamo ancora due idee particolarmente importanti che si trovano espresse in questa prefazione: a) l’universo dell’uomo organicamente legato alla co­ munità, l’universo dell’unità ritrovata, che non può più es­ sere centrato sulla psicologia delle diversità individuali e sull’originalità dell’eroe, diventa necessariamente nella no­ stra epoca un universo dell’azione e della lotta·, b) descrivendo l’umanità del militante comunista Kas­ sner, e avendo per ciò stesso rotto con gli Alessandrini e con gli scrittori del XVIII e XIX secolo, Malraux pensa d’aver ritrovato la tradizione delle grandi epoche di in­ tegrazione degli individui nella totalità, la tradizione della persona cristiana, dell’impero romano e dei soldati dell’ar­ mata del Reno. Riassumere questo testo introduttivo, significa già deli­ neare la struttura essenziale di un universo che Malraux ca­ ratterizza come quello della fraternità virile. E adesso veniamo al racconto. Il libro ci narra la storia dell’intellettuale comunista Kas­ sner che, avendo deciso di recarsi in una casa circondata dai poliziotti nazisti per distruggere una lista di nomi che un compagno distratto vi ha dimenticato, è subito arresta­ to e chiuso in un campo di concentramento. Liberato gra­ zie all’intervento di un altro militante che, vuoi spontanea­ mente, vuoi per ordine del partito (non lo si saprà mai), si sostituisce a lui consegnandosi col suo nome alla polizia, va a Praga dove ritrova la moglie, il figlio e i compagni con cui riprende la lotta. I tre episodi costitutivi del racconto sono rispettivamente quello del campo di concentramento, del viaggio in aereo e dell’arrivo a Praga. Malraux ci dice nella prefazione che il libro comporta solo due personaggi: l’eroe e il suo senso della vita. Ciò è vero nella misura in cui si tratta del tema essenziale dell’o­ pera visto nella prospettiva dell’eroe. Ma il senso della vita 126

per costui si identifica con l’indebolimento o con la con­ servazione, nel momento più critico (quando è chiuso in prigione e solo nelle mani dei bruti nazisti), dei suoi lega­ mi con la comunità rivoluzionaria (incarnata in questo libro, diversamente dagli altri libri di Malraux compreso L'Espoir, naturalmente e aproblematicamente dal partito comunista). Si tratta dunque di sapere in che misura la fraternità vi­ rile che lega Kassner ai compagni e, attraverso essi, all’umanità e all’universo, potrà serbare intatta la sua presenza nel­ la solitudine del campo di concentramento, di fronte a dei poliziotti che vengono a torturarlo, che possono in qual­ siasi momento ucciderlo e che molto probabilmente lo uc-, cideranno mentre per tener loro testa egli possiede solo l’ap­ parenza, appena verosimile, della sua falsa identità e la forza della sua resistenza fisica e morale; precisiamo anche che questo non ha nulla a che vedere con l’atteggiamento individualista dello storico che oppone la propria autono­ mia alla realtà del mondo umano e dell’universo, e che si appoggia unicamente sulla coscienza della comunità con gli altri uomini; facoltà di sentirsi sempre in casa propria nel mondo, essa si indebolisce infatti e tende a sparire dal mo­ mento in cui l’individuo si sente invece solo ed estraneo. La frase chiave del racconto è quella che Kassner sente dire in sogno dai cammellieri tartari sotto il cielo della Mongolia :

"E se questa notte è una notte del destino... — Bene­ dizione su di essa fino alla comparsa dell'aurora...", perché, nella sua prigione, anch’egli si trova immerso in una notte che sarà forse per lui quella del destino e, nono­ stante come i cammellieri sia certo dell’arrivo dell’aurora, non è come loro del tutto sicuro che sarà ancora li a ve­ derla. Avrà, in questa situazione, la forza di far sua la frase dei cammellieri, di accettare, qualunque cosa accada, gli avve­ nimenti ? Tutta la prima parte del libro è una continua oscilla­

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zione tra il sentimento d’abbandono e di solitudine e, d’al­ tro lato, quello della presenza della comunità virile dei combattenti. Oscillazione determinata dapprima dall’ambiente imme­ diato e dall’atteggiamento del suo corpo. Quando sente lon­ tano i passi dei carcerieri, il rumore dei colpi nella cella vi­ cina, i lamenti del compagno torturato, si sente solo e de­ bole; ma quando i carcerieri entrano nella sua cella e co­ minciano a picchiarlo, la sua resistenza si rafforza ed egli ritrova le sue energie vive. In seguito, di nuovo isolato, do­ po alcuni momenti durante i quali "la sua prima sensa­ zione fu di sollievo" Kassner sente una volta di piu la sua volontà decomporsi:

"La sua forza, diventata parassita, lo rodeva impla­ cabile. Egli era un animale d'azione e le tenebre lo di­ sintossicavano della volontà. Bisognava attendere. Questo era tutto. Resistere. Vi­ vere col lume acceso, come i paralitici, come gli ago­ nizzanti, con quella volontà testarda e sepolta, come un viso in fondo alle tenebre. Se no la follia." Cosi pure, quando durante un accesso di debolezza pro­ va il desiderio di suicidarsi e riflette a quanto gli ci vor­ rebbe per affilare un’unghia contro i muri in modo da po­ tersene servire per aprirsi le vene, basta che i carcerieri gli buttino una corda in cella nella speranza di indurlo al sui­ cidio, perché tutte le forze gli tornino e la sua sola vera preoccupazione diventi di sapere se nelle celle vicine altri compagni non rischiano di cedere alla pressione dei tortu­ ratori. Quando, nella solitudine, gli accade di provare brusca­ mente l’impressione angosciosa e irrecusabile che sua mo­ glie è morta, che lo ha abbandonato, dovrà reagire, fare per parecchie volte il giro della cella, contare fino a cento tra due passaggi del custode, per ritrovare la convinzione che ella vive e che la loro comunità continua ad esistere. La presenza dei compagni si manifesterà nella prigio-

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ne anche negli sforzi per trovare, picchiando contro i mu­ ri, il contatto con gli altri detenuti, nei colpi che batte il suo vicino e ch’egli finisce per percepire, nella difficoltà di capire il messaggio di costui, nell’importanza acquistata da questa comprensione, nella coscienza della fraternità che lo lega a questo compagno, scoperto dalle guar­ die e trascinato via. Si esprime anche nelle iscrizioni che hanno lasciato sui muri coloro che hanno occupato la cel­ la prima di lui, iscrizioni in cui si è rivelato il loro abbat­ timento, il loro coraggio, la loro volontà di persistere nella lotta e alle quali egli aggiunge la sua, diretta individual­ mente ad ogni prigioniero a venire:

“Siamo con te." Tra i due termini di questa alternativa, da una parte la depressione, le minacce del nulla e della follia, e dall’altra parte il coraggio, l’accettazione del destino, la decisione fi­ nale dipenderà in ultima analisi dal fatto che Kassner potrà o non potrà far vivere in sé la coscienza della lotta che conducono nel mondo intero, e che hanno condotto particolarmente nella rivoluzione russa cui egli ha parteci­ pato, tutti coloro cui lo unisce una fraternità virile che sola può dare senso all’esistenza degli uomini. La sua immagi­ nazione gli rappresenti il nemico sotto la forma

“ d’un avvoltoio chiuso con lui in una gabbia, che gli strappasse brandelli di carne ad ogni colpo di bec­ co, senza smettere dì guardargli bramosamente gli occhi",

avvoltoio che s’allontana ogni volta che in sogno la musica interiore che lo penetra fa rivivere la lotta e la fraternità. Vede i militanti feriti, uccisi o, al contrario, vincitori; pen­ sa alla freddezza e all’inumanità del mondo contro il quale lotta con loro, mondo che condanna gli uomini all’impoverimento psichico e alla solitudine; vede l’interminabile sfilata dei giovani comunisti sulla Piazza Rossa, sfilata che dura da piti di sette ore e cui partecipano centinaia di mi-

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gliaia di ragazzi e ragazze che, grazie alla rivoluzione, non hanno mai vissuto le difficoltà e la lotta, e ignorano l’età del disprezzo; vede Lenin morto sulla Piazza Rossa e ode le parole di sua moglie, pronunziate alla sua sepoltura: “Compagni, Vladimir ll'ié amava profondamente il popolo...".

E quando i carcerieri portano via il suo vicino di cella che batteva sul muro, quando sente di nuovo la minaccia della solitudine, potrà lottarvi contro appoggiandosi ad un’altra realtà definitivamente trionfante: la fratellanza tra coloro che, nell’età del disprezzo, lottano dovunque con­ tro la barbarie:

“Kassner, svuotato di fratellanza com’era stato svuo­ tato di sogni e di speranza, restava sospeso al silenzio che ricopriva le centinaia di volontà tese nel nero ter­ mitaio. Parlare per degli uomini, anche se costoro non l’avrebbero mai udito! Compagni, intorno a me nel buio... Per tante ore e tanti giorni quanti ne sarebbero oc­ corsi, avrebbe preparato ciò che doveva esser detto alle tenebre..." E questa fratellanza si manifesta sotto la forma piu alta: un uomo che Kassner non conosce si è consegnato — forse spontaneamente, forse per ordine del Partito — alla poli­ zia sostenendo di essere il ricercato Kassner, accettando di essere ucciso al posto suo per restituirlo alla libertà e alla lotta. La seconda parte del racconto è costituita dalla fuga in aereo verso la Cecoslovacchia. Kassner sa che non sarà li­ bero — tranne tornare in seguito in Germania sotto altra identità — fin che non avrà passato il confine. L’organiz­ zazione clandestina gli mette a disposizione un aereo e un pilota, ma il cielo si copre e minaccia tempesta. Tuttavia bisogna partire subito e di nuovo, un uomo, un compagno 130

rischierà la vita per salvarlo e per riportarlo là dove lo chiama la fraternità della lotta. L’ammirevole descrizione della lotta dell’aereo con la tempesta rivela chiaramente l’influenza di Saint-Exupéry1. Per questo ci sembra interessante analizzare ciò che vi è di comune e di diverso tra le scene del volo tra SaintExupéry e questa prima scena in aereo di Malraux. Per limitarci all’essenziale ci sembra che in Saint-Exupéry sia la lotta contro gli ostacoli naturali a creare la fraternità virile dei combattenti e l’unità tra essi e la natura, oppo­ nendoli al mondo meschino dei travets e dei burocrati, mentre in Malraux è la fraternità virile della lotta per la li­ bertà — attuata qui nella lotta contro l’uragano — che si espande in fraternità universale e in panteismo cosmico. Sull’aereo, al colmo del pericolo, Kassner sente che in questa lotta contro la natura scatenata il suo sostegno piu sicuro è ancora la stessa fratellanza che lo lega innanzitut­ to al pilota e poi a tutti coloro che, nel mondo, nelle car­ ceri, sotto la tortura lottano allo stesso modo:

“Parve a un tratto a Kassner che sfuggissero alia legge di gravitazione, che fossero sospesi con la loro fratellanza in qualche luogo, nel mondo, attaccati alla nube in un combattimento primitivo, mentre la terra e le sue carceri continuavano sotto di loro la corsa che essi non avrebbero mai piu incontrata (...) le ispezioni nelle celle, le grida, i colpi sul muro, il bisogno di ri­ vincita erano con loro nella carlinga contro l’uragano...” La terza parte del racconto narra l’arrivo a Praga di Kas­ sner, che vi ritrova immediatamente la vita quotidiana, gli uomini per strada, il lavoro, le mani che fanno tutti gli oggetti utili. Compera un pacchetto di sigarette e cerca di raggiungere la moglie e il figlio, ma la casa è chiusa, sulla porta c’è un biglietto che dice che Anna si è recata a un 1 Cosi come Saint-Exupéry probabilmente aveva delineato la sua im­ magine del conquistatore facendo implicito riferimento a quella di Malraux.

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raduno per la liberazione degli antifascisti detenuti in Ger­ mania. Durante i peggiori momenti di depressione l’aveva cre­ duta morta, s’era creduto separato da lei. In realtà Anna aveva continuato a lottare per lui e con lui. Alla riunione incontra centinaia di uomini e di donne e più di una volta crede di riconoscere tra di loro Anna. Un uomo si era sacrificato per lui, un altro aveva rischia­ to la vita per permettergli di arrivare fin li; migliaia d’uo­ mini lottavano per la sua libertà e per quella di tutti gli altri :

"O derisione, chiamare fratelli quelli che lo sono soltanto per il sangue." Ritrova qui la vera fratellanza, il fervore della folla che "intorno all’invisibile Anna rispondeva finalmente al corpo massacrato contro il muro".

Si era chiesto molte volte cosa valesse il pensiero di fronte alla morte dell’individuo:

“Nessuna parola umana era cosi profonda come la crudeltà, ma la fratellanza virile la raggiungeva fin negli abissi del sangue, fino nei penetrali inaccessibili del cuore dove se ne stanno accovacciate la tortura e la morte." Più tardi, rincasando, trova Anna e il figliolo e, pren­ dendo coscienza al tempo stesso dell’intensità della loro unione e del fatto ch’essa esiste solo grazie alla loro comune partecipazione alla più vasta fratellanza di tutti coloro che lottano per la dignità dell’uomo e contro l’oppressione, Kassner e Anna pronunceranno insieme la solenne pre­ ghiera dei cammellieri mongoli:

"E se questa notte è una notte del destino..." Ella gli prese la mano, se ne accostò il dorso alla tempia e se la passò carezzevole sul viso: 132

“—...benedizione su di essa fino all’apparizione del­ l’aurora..." Per caratterizzare questo momento culminante della nar­ razione, Malraux riprenderà una delle immagini chiave della sua opera romanzesca, quella della vita o della morte degli dèi, immagine che in questa configurazione assumerà però un nuovo aspetto e un nuovo significato: alla morte degli dèi si sostituisce la loro nascita. “Uno di quegli attimi che fanno credere agli uomini che un Dio sta nascendo pervadeva la casa."

Raggiunto finalmente quest’acme di pienezza, non solo di questo libro in particolare ma forse in tutta l’opera ro­ manzesca di Malraux, attimo che nasce da una fratellanza libera da ogni preoccupazione d’originalità e da ogni egoi­ smo, Anna e Kassner sentono di non potere restare soli e isolati, di dovere ritrovare gli altri, la base essenziale, il terreno che nutre la loro esistenza: “Ho voglia di camminare, di uscire con te, non im­ porta dove... Adesso stavano per parlare, per ricordare, per raccontare... Tutto ciò stava per diventare vita di ogni giorno, una scala scesa fianco a fianco, passi per via, sotto il cielo sempre uguale da che muoiono o vin­ cono volontà umane." La condition humaine e Le Temps du Mépris, i due ro­ manzi della comunità rivoluzionaria, sono anche nell’ope­ ra di Malraux i soli libri in cui si trovino due creature che si amano, la qual cosa è d’altronde naturale e coerente, poiché l’amore è l’aspetto che nella vita privata assume la comunità autentica degli uomini. Per gli stessi motivi, si capisce che in questo universo della comunità rivoluzio­ naria le due coppie siano ogni volta coppie di militanti, che l’uomo e la donna partecipino entrambi alla lotta. D’al­ tronde a questo proposito c’è un elemento che illumina con particolare efficacia la differenza tra l’umanesimo di Saint-

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Exupéry e quello di Malraux. I conquistatori di Malraux, Perken, Garine, Claude, ignorano l’amore e vi si rifiutano, ma quando l’amore appare in quest’opera è quello di due es­ seri uguali che partecipano entrambi alla lotta per la liber­ tà. I personaggi di Saint-Exupéry hanno invece una strut­ tura aristocratica e conservatrice. Cavalieri medioevali le­ gati alla tecnica moderna dell’aviazione, sentono l’amore come un elemento essenziale della loro esistenza. La don­ na che amano è ciò che li lega alla vita, ciò che permette loro di resistere alle più dure prove e impedisce loro ogni volta di cedere. E tuttavia, questa donna rimane un essere idealizzato, si, ma inferiore, perché nessuno di loro ammet­ terebbe ch’essa partecipi attivamente alla lotta. Fraternità e amore sono in quest’opera realtà complementari ed es­ senziali ma che si situano su piani diversi, mentre si si­ tuano sullo stesso piano nei due romanzi di Malraux. Torniamo comunque alla comunità rivoluzionaria nel­ l’opera di Malraux e al suo complemento, l’amore. Sappia­ mo che ci sono entrambi ne La condition humaine e ne Le Temps du Mépris. La differenza di natura della comu­ nità nei due romanzi comporterà tuttavia una differenza omologa nella natura dell’amore. I rivoluzionari di Sciangai, come abbiamo già detto, rap­ presentano una comunità problematica, priva d’avvenire, che, pur attribuendo un significato definitivo alla vita di cia­ scuno dei propri membri, non può che condurli alla di­ sfatta e alla morte'. Cosi pure l’amore di Kio e di May è un amore profondo, intenso, insuperabile, ma che non ha avvenire e finirà con essi. Né Kio né May, per motivi che attengono alla coe­ renza estetica del romanzo, potrebbero aver bambini1 2. 1 Quanto alla ripresa della loro lotta nell’Internazionale comunista e nella costruzione della Russia Sovietica, ci sembra, come già osservavamo, un elemento molto artificiale nel romanzo. 1 Basta pensare al significato dei figli dei militanti che incontriamo nel romanzo: il figlio di Hemmelrich impedisce a costui di partecipare alla lotta e sarà ucciso dalla repressione; quanto a Pei, che fa da figlio per Cen, si recherà in Russia per partecipare al comuniSmo e alla costruzione dell’U.R.S.S., separandosi perciò stesso da colui che sperava ch’egli avreb­ be proseguito la sua opera.

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Per contro, la comunità non problematica dei combatten­ ti rivoluzionari in Le Temps du Mépris, si apre al futuro ed è per questo che l’esistenza del bimbo di Kassner e An­ na è una necessità estetica del racconto come la mancanza di figli per Kio e per May lo era ne La condition humaine. Come Les conquérants, La condition humaine e Le Temps du Mépris, L’Espoir rappresenta una tappa nuova nell’opera di Malraux, quella della esplicita identificazione con la linea del partito comunista in quanto partito che si oppone alle tendenze spontanee della comunità rivoluzio­ naria. In fondo è l’universo de La condition humaine, visto non secondo la prospettiva del gruppo dei rivoluzionari di Sciangai, ma secondo quella dei dirigenti di Hang keu. Tutt’al più è da aggiungere che alla fine dell’opera, Malraux, scrittore coerente, trae tutte le conseguenze da questa po­ sizione, comprese quelle che i dirigenti staliniani forse ave­ vano in mente ma che si rifiutavano d’affermare esplicita­ mente, e arriva a negare, per la prima volta nei suoi ro­ manzi sulla rivoluzione, il carattere assoluto, privilegiato e incontestabile della rivoluzione stessa in quanto valore primigenio e fondamentale. Avendo infatti praticamente per tutto il libro attribuito alla disciplina un valore primario, in nome dell’efficienza e della vittoria; avendo, sulla scorta di questa concezione, giustificato il sacrificio di tutti i valori immediati dell’au­ tentica comunità rivoluzionaria, Malraux arriva a consta­ tare, per bocca del comunista Garcia, che la lotta fondamen­ tale non è piu tra la rivoluzione e la reazione, l’umanesi­ mo e la barbarie, né tra il nazionalismo e il comuniSmo o il nazionalismo e il proletariato, ma tra i partiti organiz­ zati e, che almeno due di questi partiti, il comunista e il fascista, si pongono come meta la conquista del mondo: "... Aliinizio della guerra, i falangisti sinceri mori­ vano gridando: Viva la Spagna, ma in seguito: Viva la falange... Lei è certo che, tra i vostri aviatori, il tipo di comunista che prima moriva gridando: Viva il pro-

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letariato o: Viva il comuniimo, non gridi oggi nelle stesse circostanze: Viva il partito?... — Non dovranno più gridare nulla, perché son qua­ si tutti all'ospedale o sottoterra. Dipende dagli indivi­ dui, jorse. Attegnies griderebbe certo: Viva il partito. Altri griderebbero altre cose... — La parola partito d’altra parte è ingannevole. È molto difficile raggruppare sotto la stessa etichetta gente unita per la natura del suo voto e i partiti le cui principali radici si attaccano ai dati profondi e irra­ zionali dell’uomo... Comincia l’era dei partiti, amico mio... (...) “Non esageriamo la nostra vittoria; questa battaglia non è la battaglia della Marna. Ma resta pur sempre una vittoria. Contro di noi qui cerano piu disoccupa­ ti che camicie nere; per questo, lei lo sa, ho fatto fare propaganda con gli altoparlanti. Ma i quadri erano fascisti. Possiamo guardare questo nostro paesello ag­ grottando le sopracciglia, amico mio, è la nostra Val­ my. Per la prima volta, qui, i due veri partiti si sono scontrati...” Beninteso, non si deve né sopra né sottovalutare l’importanza di questo brano. L’Espoir si fonda tutto sulla differenza di natura tra i "due veri partiti”, tra il fascismo barbaro che difende l’interesse di alcuni privilegiati e il comuniSmo rivoluzionario che lotta per il trionfo della di­ gnità umana e della fratellanza universale. Ciò non toghe che accentuando, lungo tutto il racconto, il carattere pri­ mario della disciplina rispetto a tutti gli altri valori, Mal­ raux alla fine del libro, nel momento in cui, per usare le sue stesse parole, "la guerra entra in una fase nuova”, giun­ ge ad intravedere le estreme conseguenze di questa im­ postazione. Diremmo volentieri che il rapporto tra il brano che ab­ biamo citato e l’insieme de LiEspoir è analogo, benché in­ verso, a quello che abbiamo già riscontrato tra la frase iso­ lata sull’amore ne La voie royale e l’universo del romanzo

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che ignora ed esclude l’esistenza dell’amore stesso. Nel­ l’uno e nell’altro caso si tratta di elementi che non fanno parte dell’universo del romanzo ma che si situano al pro­ lungamento delle linee di forza di questo universo, ad un livello dove l’universo si supererebbe una volta nel senso del­ la comunità umana e della libertà, un’altra volta nel senso della disciplina rigida e della barbarie. Ma torniamo a L’Espoir. Tra i romanzi di Malraux è il più voluminoso e il più difficile da analizzare per la sem­ plicità e povertà di struttura del suo universo: semplicità e povertà che, volute o no, lo scrittore Malraux dovette avvertire, perché invece di una narrazione coerente, simile a quella che formava le sue opere anteriori, ci ha dato un buon numero di scene isolate e parziali che avrebbe potuto ripetere all’infinito. Per questo stesso motivo è assai difficile ricordare i per­ sonaggi del racconto. In fondo non ci sono personaggi in­ dividuali, ma gruppi di personaggi all’interno dei quali gli individui si assomigliano al punto da ingenerare confu­ sione. Ossia, ciascuno di loro è solo la frazione di un per­ sonaggio collettivo astratto; i più importanti sono gli anar­ chici coraggiosi e indisciplinati; i cattolici, efficienti, di­ sciplinati ma inceppati da scrupoli di coscienza; e i comu­ nisti coscientemente disciplinati e altamente efficienti nella misura in cui ricacciano in secondo piano tutte le consi­ derazioni suscettibili di limitare l’efficienza. Accanto a que­ sti tre archetipi principali, esistono altri gruppi meno im­ portanti: artisti, mercenari, popolo, ecc. I tre tipi schematici che abbiamo indicati corrispondono rigorosamente all’immagine stereotipata che il partito co­ munista si è sforzato di dare della rivoluzione spagnola. Immagine che conteneva una qualche verità, ma era però estremamente faziosa. Comunque, checché si debba pensare di questa validità, due conseguenze derivano per l’universo del racconto da questa impostazione: l’una, estremamente importante, l’al­ tra più marginale. La prima è che la dimensione politica dei conflitti è elusa e eh’essi sono totalmente trasposti sul piano militare men­

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tre ne La condition humaine erano visti nella loro com­ plessità. Accontentiamoci di notare l’opposizione tra anarchici (cui bisognerebbe aggiungere il P.O.U.M. che Malraux ap­ pena cita) e comunisti. In realtà non si trattava solo di un problema di disciplina ma di due concezioni della strate­ gia rivoluzionaria, le stesse che ne La condition humaine opponevano il gruppo di Sciangai alla direzione di Ilangkeu. Bisognava far progredire la rivoluzione, distribuire le terre ai contadini, affidare al consiglio operaio la gestione delle fabbriche e, per ciò stesso, attirarsi contro tutte le for­ ze antisocialiste cui si sarebbe opposta solo l’unione delle forze rivoluzionarie nazionali e internazionali, oppure era meglio limitarsi, in Cina alla lotta contro l’imperialismo straniero, in Spagna alla lotta contro il fascismo, nella spe­ ranza di salvaguardare l’alleanza tra comunisti e demo­ cratici borghesi (nazionalisti in Cina, repubblicani in Spa­ gna), l’alleanza tra il proletariato e la borghesia democra­ tica o nazionalista? A questo proposito, esisteva un antagonismo radicale tra la sinistra non comunista da un lato e la direzione stali­ niana dall’altro. Qualunque sia la posizione che si sceglie, è comunque evidente che si trattava di un problema po­ litico e militare a un tempo, di cui la sinistra non comuni­ sta si sforzava di diffondere la conoscenza e di cui la di­ rezione comunista tentava invece di nascondere l’aspetto vero trasferendolo completamente sul piano della discus­ sione militare con gli anarchici e sul piano del sabotaggio e del tradimento con i comunisti all’opposizione. Ê cosi che La condition humaine, che metteva in luce le implicazioni globali, politiche e militari del contrasto, era per ciò stesso un libro trotskista (benché Malraux pendesse piuttosto dal­ la parte della direzione del partito comunista), mentre L’Espoir, che ne elimina quasi completamente l’aspetto po­ litico ponendolo esclusivamente sul piano della disciplina e dell’organizzazione, diventa un libro scritto in una pro­ spettiva stalinista. Inoltre, benché sia in questo racconto che si trova in boc138

ca al comunista Garcia la frase divenuta poi famosa, che ciò che può fare di meglio un uomo nella vita è di

“trasformare in consapevolezza un'esperienza il più possibile vasta" i valori del libro la contraddicono recisamente, poiché, do­ dici righe avanti, lo stesso Garcia ci dice che per l’intellet­ tuale

"...il capo politico è necessariamente un impostore, perché insegna a risolvere i problemi della vita non ponendoli ”, e che il libro è tutto inteso a valorizzare il comando e il capo, poiché il nucleo della vicenda si fonda sulla trasfor­ mazione in campo politico di Manuel, rivoluzionario en­ tusiasta e spontaneo1. I pochi brani in cui sono evocati problemi politici appaio­ no d’altronde oggi per lo meno sorprendenti. C’è, è ve­ ro, quello in cui l’intellettuale Alvear difende i fondamen­ tali valori umani contro le esigenze dell’azione. Ma Alvear è un personaggio secondario e di fronte a questo brano ci sono gli attacchi contro gli intellettuali e le prese di posi­ zione in favore di Stalin:

"Gli intellettuali sono sempre un po' convinti che un partito sia formato da uomini uniti intorno a un’idea. Ma un partito assomiglia molto di più a un carattere agente che a un’idea!" (...) Il grande intellettuale è l'uomo della sfumatura, del grado, della qualità, della verità in sé, della comples­ sità. È per definizione, per natura, antimanicheo. Ora, i mezzi dell'azione sono manichei perché ogni azione 1 È interessante notare che pressappoco nello stesso periodo Sartre affrontava questo problema secondo una prospettiva diametralmente opposta nella novella: L’enfance d'un Chef. Nonostante la diversità dei due testi, è importante constatare che il problema esisteva per alcuni intellettuali.

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è manichea. Lo è allo stato acuto a partire dal mo­ mento in cui tocca le masse; ma lo è anche quando non le tocca. Ogni vero rivoluzionario è un manicheo nato. E cosi pure ogni politico. (■■■) — Rifletta, Scali: in tutti i paesi — in tutti i parti­ ti — gli intellettuali si compiacciono dei dissidenti: Adler contro Freud, Sorel contro Marx. Solo che in politica i dissidenti sono gli esclusi. Il piacere dell’e­ sclusione è molto vivo nell'ambiente intellettuale: per generosità, per amore dell’ingegnosità. Gli intellettuali dimenticano che, per un partito, aver ragione non vuol dire avere una ragione valida, vuol dire avere ottenuto qualcosa. — Quelli che potrebbero tentare, umanamente e tec­ nicamente, una critica della politica rivoluzionaria, igno­ rano, se vuole, la materia della rivoluzione. Quelli che hanno esperienza della rivoluzione, non hanno né il talento di Unamuno né, spesso, i mezzi per esprimersi... — Se in Russia ci sono troppi ritratti di Stalin, co­ me dicono, non è perché il cattivo Stalin, asserraglia­ to in un cantuccio del Cremlino, ha deciso cosi. Vede che anche qui a Madrid c'è la follia delle immagini, e Dio sa quanto se ne infischia il Governo. Interessan­ te sarebbe spiegare il perché di questi ritratti. Solo che per parlar d’amore agli innamorati bisogna essere stali innamorati, non bisogna aver fatto una inchiesta sull’amore. La forza di un pensatore non è né nella sua approvazione né nel suo consenso né nella sua pro­ testa, amico mio, ma nella sua spiegazione. Spieghi un intellettuale perché e come le cose stanno cosi, e poi protesti, se lo ritiene necessario (ma non ne varrà più la pena). L’analisi è una grande forza, Scali. Io non credo alle morali senza psicologia."

Citiamo infine uno dei pochi brani in cui si sfiora l’a­ spetto politico del conflitto tra anarchici e comunisti, e in cui si traggono conseguenze assai spinte dalla concezione 140

che informa il romanzo. Si tratta di una discussione tra il comunista Garcia e il rivoluzionario cristiano Hernandez, nella quale quest’ultimo espone le difficoltà che incontra nei suoi rapporti coi comunisti, pur essendo sui punti es­ senziali politicamente d’accordo con loro. Trattandosi di un cristiano, questi scrupoli sono in primo luogo d’ordine morale :

"La settimana scorsa uno dei miei... insomma... uno dei miei vaghi compagni, anarchici o sedicenti tali, è accusato di aver messo le mani nella cassa. Innocen­ te, si appella alla mia testimonianza. 'Naturaim ente io 10 difendo. Aveva attuato la collettivizzazione obbliga­ toria nel villaggio di cui era responsabile e i suoi uo­ mini cominciavano ad estenderla ai villaggi vicini. Sono d’accordo che sono misure impopolari, che un contadino che deve mollare dieci bigltettoni per avere una falce va in bestia, e che i comunisti, per questo problema, hanno un buon programma. Io sono in cattivi rapporti con loro per via della mia testimonianza... Tanto peggio. Cosa vuole, mica lascerò trattare da ladro un uomo che si appella a me, se lo so innocente. 1 comunisti (e quelli che tentano di organizzare qualcosa in questo momento) pensano che la purezza di cuore del suo amico non significhi che egli non dia un aiuto obiettivo a Franco, se provoca rivolte di con­ tadini... I comunisti vogliono fare qualcosa. Voi e gli anar­ chici, per diversi motivi, volete essere qualcosa... È 11 dramma di tutte le rivoluzioni come questa. I miti su cui viviamo sono contraddittori: pacifismo ed esi­ genze di difesa, organizzazione e miti cristiani, effi­ cienza e giustizia, e cosi via. Dobbiamo ordinarli, tra­ sformare il nostro Apocalisse in eserciti, se non voglia­ mo crepare. E questo è tutto." Sulla scorta di quanto abbiamo detto, potremmo riem­ pire pagine e pagine di citazioni che ribadiscono i temi 141

fondamentali del racconto: coraggio, disorganizzazione e indisciplina degli anarchici; senso di responsabilità, effi­ cienza e disciplina dei comunisti; difficoltà morali dei cat­ tolici, ch’essi però superano sotto l’influsso delle lezioni tratte dalla realtà e dalla lotta; pericolo di mischiare il sentimento e la morale alle considerazioni politiche e mi­ litari; ripetuta affermazione che ogni crisi è in ultima ana­ lisi una crisi di comando; necessità dell’organizzazione e della disciplina; esistenza di una virile fratellanza tra i combattenti. Ci accontenteremo dì pochi esempi. A proposito degli anarchici e dei comunisti:

“...Per la prima volta Puig, invece che a un tenta­ tivo disperato, come nel 1934 — come sempre — si sentiva di fronte ad una possibile vittoria. Nonostante quel che sapeva di Bakunin (ed era senza dubbio di tutto il gruppo il solo che l’avesse leggiucchiato), la ri­ voluzione ai suoi occhi aveva sempre l'aria di una facquerte. Di fronte a un mondo senza speranza, egli dall’anarchia s’aspettava solo delle rivolte esemplari; qualsiasi problema politico si risolveva dunque per lui con l’audacia e il carattere.”

Nel corso di una conversazione con Ximenez, Puig ave­ va fatto osservare a costui che l’attacco era riuscito: “— Si, i suoi uomini sanno battersi, ma non sanno combattere." Ancora, in una conversazione tra Manuel e Ramos:

“— Ho appena passato mezz’ora a insultarmi come un coglione con i compagni, disse Ramos: ce riè piu di dieci che vorrebbero andare a pranzo a casa, e tre a Madrid! — È la stagione della caccia, si confondono. Risul­ tato dei tuoi negoziati insultatori? — Cinque restano, sette partono. Fossero comunisti, resterebbero tutti..." 142

O tra Hernandez e Garcia:

"— Cosa pensa di queste barricate? chiese Garda, sbirciandolo di traverso. — Quel che pensa lei. Ma vedrà (...) — Bisognerebbe alzare la barricata di un mezzo metro, distanziare i tiratori e metterne alcuni alle fi­ nestre, a V. — Do...men...ti? borbottò il Messicano in un rumo­ reggiare vicino di fucileria. — Come? — I documenti, ehi, i documenti! — Capitano Hernandez, comandante la sezione del Zocodover. — Allora, non sei della C.N.T. Allora ti riguarda, la mia barricata.” Si scopre un traditore:

"— (...) ho spedito tre compagni a saldargli il conto. — Ma io l’avevo destituito, cosa vuole, e se la F.AJ. non iavesse rimesso là..." Garcia discorre con Magnin:

“— Per me, signor Magnin, il problema sta in questi termini: un’azione popolare come questa — o una ri­ voluzione — o addirittura un’insurrezione — può con­ servare la vittoria solo usando una tecnica opposta ai mezzi con cui se l’è procurata. E qualche volta opposta anche ai sentimenti. Rifletta, servendosi della sua espe­ rienza. Perché dubito che lei per la sua squadriglia faccia affidamento solo sulla fratellanza. L·’Apocalisse vuole tutto e subito; la rivoluzione ot­ tiene poco — lentamente e duramente. Il pericolo è che tutti gli uomini si portano addosso il desiderio di un’Apocalisse. E nella lotta, questo desiderio, si ri­ solve dopo poco in una sconfitta sicura, per un mo­ tivo semplicissimo: l'Apocalisse, per la sua stessa na­ tura, non ha futuro. 143

Anche quando pretende d’averne uno (...) la no­ stra umile funzione, signor Magnin, è di organizzare l’Apocalisse..." E più avanti, per bocca di Enriquez:

* — I comunisti sono disciplinati. Obbedivano ai se­ gretari di cellula, obbediscono ai delegati militari che spesso sono le stesse persone. Molti aspiranti combat­ tenti vengono da noi perché amano la serietà in un’or­ ganizzazione. Un tempo, i nostri erano disciplinati per­ ché erano comunisti. Adesso molti diventano comuni­ sti perché sono disciplinati..."

O, ancora, Sembrano:

"— (...) Come credi che abbiano fatto i Russi? (■■■) — Avevano fucili. Quattro anni di disciplina e di fronte. I comunisti, loro, erano una disciplina..."

A proposito dell’importanza del comando: Ximenez : “— Discutere delle loro debolezze è del tutto inu­ tile. A partire dal momento in cui gli uomini vogliono battersi, ogni crisi dell’esercito è una crisi di comando." Heinrich:

“— In un caso come questo, la crisi è sempre1 una crisi di comando." Manuel :

Se la sono data a gambe perché non erano co­ mandati. Prima, si battevano bene come noi." 1

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Sottolineatura di Malraux.

Gli episodi che con la loro frequente presenza fanno la maggior bellezza del libro sono quelli che mettono l’ac­ cento sul coraggio dei combattenti e sulla fratellanza virile che li unisce tra loro come li unisce al popolo. Per quante riserve si possano fare sul valore letterario dell’opera nel suo complesso, ci sono alcune scene che probabilmente non si dimenticano una volta lette, come quella della calata degli aviatori feriti sulla montagna, l’attacco deli’Alcazar, l’emo­ zione del contadino cui hanno chiesto di identificare il suo villaggio e che dall’aereo non lo riconosce, ecc. Constatar­ lo vuol dire anche constatare che Malraux, che è un gran­ dissimo scrittore, ha, coscientemente o no, rimediato alla impossibilità di un racconto denso e strutturato con una serie di schizzi, senza dubbio commoventi e magnifica­ mente scritti, ma succedentisi senza nemmeno un vero montaggio. Torniamo comunque ad alcuni elementi della narrazione che ci sembrano particolarmente importanti e caratteristici. La trama del libro, molto vaga e tendente a sciogliersi nella massa degli episodi, è il doppio passaggio: a) dalla rivoluzione spagnola dell’anarchia all’organizzazione, dall’apocalisse alla disciplina, dalla guerriglia al­ l’esercito; b) dal personaggio di Manuel, dal rivoluzionario sen­ timentale, pieno d’amore e d’entusiasmo al comunista co­ sciente che domina i sentimenti e al capo militare; questo passaggio, per le forze rivoluzionarie, comporta un’orga­ nizzazione sempre piu stretta e rigida e, per Manuel, che diventa uno dei capi dell’organizzazione, un progressivo allontanamento dagli uomini e un sempre maggiore iso­ lamento. Prendiamo Manuel in quattro momenti della narrazione. Conversando con Ximenez, costui gli dice:

“— Presto, dovrà anche lei formare dei giovani uffi­ ciali. Vogliono essere amati, cosa naturale negli uo­ mini. E nulla di meglio, a patto di far loro compren­ dere che un ufficiale dev’essere amato per la natura del suo comando — piu giusto, più efficiente, miglio­

ri

re — e non per i dettagli della sua personalità. Ragaz­ zo mio, mi capisce se le dico che un ufficiale non deve mai sedurre? — È sempre pericoloso voler essere amati (...) C’è piti nobiltà nell’essere un capo che nell’essere un indi­ viduo (...): è piti difficile..."

Nella scena in cui uscendo dal consiglio di guerra che ha condannato a morte i disertori, due giovani condannati gli si afferrano alle gambe:

"— Non possono fucilarci! gridava uno dei due. Siamo volontari! Bisogna dirglielo! (■■■) — Non possono! Non possono! gridava anche l’altro. (...) lo non sono il consiglio di guerra, stava per rispon­ dere Manuel, ma ebbe vergogna di questa sconfessione. (■■■) Cosa potrei dire? pensava Manuel. La difesa di que­ gli uomini stava in ciò che nessuno avrebbe mai po­ tuto dire, in quel viso lacrimoso, nella bocca aperta, che aveva fatto capire a Manuel di trovarsi di fronte all’e­ terno volto di colui che paga. Non aveva mai sentito cosi forte che bisognava scegliere tra la vittoria e la • αΛ tr pietà. In seguito, raccontando questa scena a Ximenez :

“— Sapevo cosa bisognava fare, e l’ho detto. Sono deciso a servire il partito e non mi lascerò fermare da reazioni psicologiche. Non sono un individuo che ab­ bia rimorsi. Il problema è un altro (...) Prendo su di me queste esecuzioni: sono state fatte per salvare gli altri, i nostri. Soltanto m’ascolti: non c’è progresso ch’io abbia fatto nel senso di una maggiore efficienza, di un miglior comando, che non m’allontani dagli uo­ mini. Ogni giorno divento un po’ meno umano." 146

Infine, quando termina il racconto: "Gli ultimi soprassalti della battaglia rumoreggia­ vano lontano. Manuel, schierati i suoi uomini, faceva il giro del villaggio per requisire dei camions, seguito dal cane. Aveva adottato uno splendido cane lupo, ex fascista, ferito quattro volte. Piu si sentiva separato dagli uomini, più amava gli animali, tori, cavalli mi­ litari, cani lupi, galli da combattimento."

La natura di questa educazione di Manuel, dei combat­ tenti rivoluzionari e del popolo spagnolo mediante la real­ tà della lotta, risulta chiara: tutto ciò che è immediata­ mente e spontaneamente umano dev’essere messo in di­ sparte e addirittura abolito in nome di una ricerca esclusiva di efficienza. La tematica essenziale de L’Espoir è formu­ lata in poche righe da Garcia:

“Ci sono guerre giuste (...) Come in questo momen­ to la nostra. Non ci sono eserciti giusti. E che un in­ tellettuale, un uomo la cui funzione è di pensare ven­ ga a dirci, come Miguel: vi abbandono perché non siete giusti, mi sembra immorale, amico mio! C’è una politica della giustizia ma non c’è un partito giusto." E certo egli ha ragione, ma forse solo in parte, perché, tra la morale impotente che Malraux sembra sempre at­ tribuire ai cattolici e agli anarchici e la subordinazione dei mezzi al fine che è sempre stata la dottrina dei teorici dello stato da Machiavelli a Stalin, esiste una terza posizione che vede nel rapporto mezzi-fini una totalità nell’ambito della quale i fini agiscono sui mezzi e viceversa. Ma qui non si tratta di discutere la fondatezza della con­ cezione di Malraux, che sarebbe del tutto fuori luogo in un saggio di critica letteraria, ma solo di dimostrare che la stessa struttura di questa concezione elimina compietamente una delle dimensioni importanti delle realtà che l’opera descrive. Per concludere quest’analisi ancora più schematica — il

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che non significa poco, lo ammettiamo volentieri — di quel­ la che abbiamo fatta per gli altri scritti di Malraux, vor­ remmo ancora sottolineare due caratteristiche del roman­ zo che, a nostro avviso, derivano da questa stessa struttura. In primo luogo, come in tutti gli altri libri di Malraux, la coerenza tra la visione globale e la vita privata dei per­ sonaggi è rigorosa. Per cui, essendo l’uomo ridotto alla lot­ ta disciplinata e all’organizzazione militare, non ce piu po­ sto per rapporti erotici o amorosi, di qualunque natura siano, tra uomini e donne. L’Espoir è un libro di guerra in cui non si trovano piu né amore, né erotismo, né famiglia o, più esattamente, in cui questi dati sono presenti soltanto in quanto ostacoli ai valori del racconto.

“La guerra rende casti" dice una volta Manuel e — eccezion fatta per l’episodio della trasmissione di una lettera alla moglie del coman­ dante dell’Alcazar, di quello della miliziana che porta i pacchi ai combattenti e di un’allusione al figlio di Cabal­ lero, prigioniero dei fascisti a Segovia e che sarà fucilato — tutti i brani concernenti le donne e la famiglia dicono solo che la loro presenza sarebbe nociva, e quindi fatale, ai combattenti. Tipico è il brano della donna che vuol restare accanto al marito :

“— Credi che me ne debba andare? — È una compagna tedesca, disse Guernico a Gar­ da, senza risponderle. — Lui dice che devo andarmene, riprese costei. Di­ ce che se resto non può combattere bene. — Senza dubbio ha ragione, disse Garcia. — Ma non posso vivere se so che si batte qui... se non so neanche cosa succede... (-) Tutte eguali, pensò Garcia. Se se ne va, lo soppor­

ti

terà con molta agitazione, ma lo sopporterà. Se invece resta, lui ci lascerà la pelle. (■■■) — Perché vuoi restare? le chiese Guernico con sim­ patia. — Non mi importa morire... Il guaio è che devo nu­ trirmi bene, e qui non sarà piu possibile. Sono in­ cinta...” E dopo, quando Garcia e Guernico si ritrovano soli:

“— Il piu difficile, riprese Guernico sottovoce, è questo problema della donna e dei bambini... Abbassando ancora la voce: — lo almeno ho una jortuna: che loro son via...” O ancora, per bocca di Manuel, quando racconta a Ximenez la scena dei disertori:

“...La settimana scorsa sono andato a letto con una donna che per anni avevo amata senza successo. E ave­ vo voglia di tagliar la corda. Non rimpiango nulla, ma se la lascio è per un motivo. Si può comandare solo per servire, se no..." In secondo luogo, occorre notare che L'Espoir descrive non la sconfitta della rivoluzione, ma la vittoria a conclu­ sione di una battaglia e che, nel contesto della narrazione, questa vittoria suggerisce quella della rivoluzione spagnola. Naturalmente, ci può essere una spiegazione molto sem­ plice, ossia che Malraux, che stampò il romanzo nel 1937 prima della fine della guerra, in seguito non volle modifi­ care nulla di un libro già pubblicato. Ammettiamo volentieri la plausibilità dell’ipotesi. Ma può anche darsi — e non ci sembra inutile farne cenno — che il rifiuto di tener conto degli avvenimenti successivi nasca da una necessità interna della struttura del raccon­ to: essendo l’universo del libro imperniato sull’obbligo di sacrificare alla disciplina, in nome dell’efficienza, tutti gli 149

altri valori, questo sacrificio rischierebbe infatti di sembra­ re ingiustificato e ridicolo se, anziché essere efficace, desse luogo non alla vittoria ma alla disfatta. Può darsi sia questo il motivo per cui gli ultimi tre bre­ vi paragrafi con cui il libro si conclude si aprono a una vi­ sione di pace e persino di futuro che relega la guerra nel passato. Manuel, durante la lotta, aveva infatti rotto con la musica, con le donne, con tutto ciò ch’era godimento in­ dividuale; aveva detto a Gartner di avere abbandonato la musica e si accorgeva che ciò che più desiderava, nel mo­ mento in cui si trovava solo nella strada di una città con­ quistata, era di ascoltarne. Ma ciò ch’egli ascolta, non è {'Internazionale o qualsiasi altro canto di guerra, ma le sin­ fonie di Beethoven e gli Addii·.

“Sentiva intorno a sé la vita, brulicante di presagi, come se, dietro le nuvole basse che il cannone non la­ cerava piu, l’avessero atteso in silenzio dei destini cie­ chi. Il cane lupo ascoltava, allungato come gli animali dei bassorilievi. Un giorno ci sarebbe stata la pace. E Manuel sarebbe diventato un uomo diverso, ignoto a se stesso, come il combattente d’oggi era stato ignoto a colui che aveva comprato una macchinetta per an­ dare a sciare sulla Sierra. E certo era lo stesso per ciascuno degli uomini che passavano per strada, che battevano con un dito sui pianoforti, all’aria aperta, le loro cocciute romanze, che avevano combattuto ieri sotto i pesanti cappucci puntuti...” (■■■) "Si scopre la guerra una volta sola, ma la vita pa­ recchie volte. Quei movimenti musicali che si succedevano, avvol­ ti nel suo passato, parlavano come avrebbe dovuto parlare la città che un tempo aveva fermato i Mori, e quel cielo e quei campi eterni; Manuel ascoltava per la prima volta la voce di ciò che è piu grave del san­ gue degli uomini, piti inquietante della loro presenza sulla terra — l’infinita possibilità del loro destino; e 150

sentiva in sé questa presenza mista al brusio dei ru­ scelli e al passo dei prigionieri, eterna e profonda come il battito del suo cuore." Come Le Temps du Mépris, L'Espoir è un libro che sfiora l’epica ma che, ci sembra, non l’ha raggiunta, ben­ ché per motivi sostanzialmente diversi e persino opposti. Ne Le Temps du Mépris, il superamento dell’individuo rappresentava un problema, e anche dimostrando che il problema era risolvibile e il superamento realizzabile, la presenza stessa dell’individuo e del superamento creava un universo preepico. Come lo aveva notato lo stesso Malraux, il libro si concludeva nell’attimo in cui “un Dio stava per nascere”, mentre l’epopea che non pone problemi e non co­ nosce individui separati dalla comunità, suppone propria­ mente la presenza reale, incontestata e non problematica degli dèi. L’Espoir al contrario appare come un universo che si po­ trebbe definire postepico nella misura in cui l’individuo, invece di realizzarsi nella comunità e di formare con essa un’unità organica, si trova negato nella sua spontaneità e nella sua pienezza dalla disciplina e dall’organizzazione. In fondo Malraux, con questi due libri il cui universo si impernia sulla riconciliazione tra individuo e collettività, è passato dallo stadio anteriore a questa riconciliazione a quello in cui ha fatto della tecnocrazia politica e militare il vero soggetto della storia. Per il sociologo, il problema che pone questo passaggio è molto meno un problema di evo­ luzione personale di Malraux che un problema di sapere se, nel momento in cui furono scritti i due libri, non c’era in atto un processo più generale. Ancora una volta si trat­ ta di ricordare che lo scrittore non sviluppa idee astratte, ma crea una realtà immaginaria e che le possibilità di que­ sta creazione non dipendono in primo luogo dalle sue in­ tenzioni ma dalla realtà sociale in seno alla quale egli vive e dagli schemi mentali ch’essa ha contribuito ad elabora­ re. Sicché, il primo passo che bisognerà fare per risponde­ re alla domanda, sarà certamente di passare in rassegna la letteratura francese tra le due guerre per vedere in che mi-

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sura vi si trovino libri abbastanza importanti che siano riu­ sciti a descrivere un universo imperniato sul valore della spontaneità rivoluzionaria o almeno sull’unità dell’uomo e della comunità invece di libri centrati sul valore della di­ sciplina e dell’efficienza. Intanto, per concludere questo saggio, ci resta da analiz­ zare Les Noyers de ΓAltenburg, l’ultima opera di imma­ ginazione di Malraux, uscito nel 1943. È un libro che sem­ bra di primo acchito piuttosto curioso, perché a leggerlo si avverte la presenza di un’unità interna molto stretta c ri­ gorosa, mentre si presenta con una serie di scene isolate si­ tuate ad epoche diverse, con per lo meno due eroi e il cui legame è lungi dall’essere evidente. In effetti, cerchere­ mo di dimostrare che l’unità del testo diventa evidente se ci si rende conto che si tratta di un genere letterario parti­ colare molto piu vicino al saggio che alla letteratura ro­ manzesca o epica. Cose un saggio? Lukàcs lo ha spiegato in un’opera fa­ mosa: è una forma letteraria autonoma che si colloca a metà strada tra la filosofia, espressione concettuale di una visione del mondo, e la letteratura, creazione immagina­ ria di un universo di persone individuali e di situazioni concrete. Tra i due, il saggio è un genere intermedio nella misura in cui pone dei problemi concettuali (e i grandi saggi della storia letteraria pongono piu problemi di quan­ to non diano risposte) in coincidenza con questa o quella situazione concreta o di questo o quel personaggio indivi­ duale. E per questo il saggio ha sempre una dimensione ironica, perché apparentemente tratta della vita o del pen­ siero di questo o di quel personaggio, oppure racconta co­ me si sono svolti questi o quegli avvenimenti, mentre in realtà personaggi e avvenimenti sono solo {'occasione che consente al saggista di sollevare un certo numero di pro­ blemi di valore universale. Per l’esattezza, occorre aggiun­ gere che la forma del saggio è molto spesso, dal punto di vista storico e persino biografico, una forma di transizione che l’autore adotta proprio perché né le domande né le ri-

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spaste sono abbastanza mature per essere espresse in una forma concettuale diretta. Detto questo, ci sembra che Les Noyers de l'Altenburg abbia una forma molto vicina al saggio senza però essere un saggio propriamente detto. In comune col saggio esso ha la doppia dimensione: pone in effetto dei problemi con­ cettuali in coincidenza con una serie di realtà individuali e concrete·, se ne diversifica perché invece di attingere le situazioni concrete e i personaggi individuali della realtà presente o passata come hanno fatto alcuni grandi saggi­ sti, o dalla letteratura come hanno fatto la maggior parte dei saggisti, Malraux, che è uno scrittore, ha immaginato lui, in una serie di episodi, le situazioni concrete serven­ dosi delle quali ha sollevato i problemi su cui voleva intrat­ tenere i lettori; se ne diversifica anche perché non si appaga di sollevare problemi, ma dà una risposta più o meno ela­ borata, ciò che gli toglie la dimensione ironica e sostituisce, sul piano delle idee, l’ironia spontanea propria alla maggior parte dei saggi con lo svolgimento di una dimostrazione approssimativamente coerente. È in questa prospettiva che si devono leggere, a nostro avviso, i vari episodi del libro, che presenteranno allora un ordine stretto e irreversibile nell’esposizione di ciò che è il vero tema, la nuova conce­ zione dell’uomo di Malraux, e i motivi che l’hanno spinto ad abbandonare il movimento e l’ideologia comunista. Questa evoluzione di Malraux è un fenomeno individua­ le o invece un fatto connesso con gli avvenimenti social­ politici dell’epoca e, come tale, con le correnti ideologiche della coscienza collettiva, almeno negli ambienti intellet­ tuali? Come ogni volta che in questo studio abbiamo solle­ vato problemi del genere, la risposta dipende da una ri­ cerca piu o meno ampia e approfondita svolta sul comples­ so dei documenti dell’epoca e, siccome questa ricerca non è stata ancora effettuata, non possiamo naturalmente che sottolineare la necessità di iniziarla. Ricordiamo tuttavia che, chiarissimamente, il patto di non aggressione tedesco­ sovietico del 1939, comprensibilissimo nella prospettiva del­ la politica estera anticapitalista (e perciò stesso antihitle­ riana) dell’U.R.S.S., aveva provocato una crisi nella coscien­

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za di molti intellettuali socialisti occidentali, nella misura in cui evidenziava una realtà molto più profonda di cui la maggior parte d’essi non erano affatto consapevoli; cioè che l’appartenenza al movimento comunista richiedeva duran­ te l’epoca staliniana, o almeno poteva richiedere, una op­ zione tra gli interessi immediati dello Stato sovietico con­ siderato principale conquista del socialismo e gli interessi immediati della società e del proletariato del paese in cui vivevano. Questo problema Malraux l’aveva certo già descritto per la Cina ne La condition humaine e, in quel tempo, nono­ stante il suo libro avesse messo in luce tutto ciò che vi era di pungente e di tragico, egli aveva concluso il romanzo con l’affermazione che

"il lavoro deve diventare l'arma principale della lotta di classe. Il piano di industrializzazione... è allo stu­ dio: si tratta di trasformare in cinque anni tutta ÏU.R.S.S., di farne una delle maggiori potenze indu­ striali d’Europa, poi di raggiungere e di superare l’A­ merica...", e con la speranza che l’evoluzione storica avrebbe integra­ to la lotta e il sacrificio dei rivoluzionari di Sciangai nella lotta per il socialismo. Nel 1939 un problema certo molto diverso — poiché non si trattava di lotta rivoluzionaria ma di alleanze militari e di strategia nella politica internazionale — ma però analo­ go nel suo schema fondamentale (necessità di una scelta tra gli interessi immediati dell’U.R.S.S. e gli interessi imme­ diati della società occidentale e dei proletariati occidentali) — si poneva nella propria società e nel proprio paese. Sap­ piamo che il problema provocò una crisi gravissima di cui non si può, è vero, misurare la dimensione, negli intellet­ tuali francesi di sinistra, crisi che fu superata dalla mag­ gior parte di loro poco dopo, quando, scoppiata la guerra tra la Germania e l’U.R.S.S., l’U.R.S.S. si schierò dalla parte degli Alleati, ciò che rese di nuovo evidente il carat­ tere di strategia politica del patto e quello profondamente

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antihitleriano della politica comunista e della politica stra­ niera della Russia sovietica. Ciò non toglie che la crisi globale provocata dal patto tedesco-sovietico potesse rap­ presentare un fattore importante nel mutamento di pro­ spettiva di Malraux e che uno studio sociologico dovesse accennare a questa possibilità. Torniamo comunque al racconto il cui primo episodio si svolge nel giugno 1940 dopo la sconfitta. Migliaia di pri­ gionieri sono ammassati prima nella cattedrale di Char­ tres, poi in un cantiere di lavori pubblici. In questa situa­ zione eccezionale, rifanno la loro comparsa le preoccupa­ zioni e le attività arcaiche: costruzione di rifugi, ricerca dell’ultima scatola di conserve, delle ultime briciole in fon­ do alle tasche, affollamento davanti alle sbarre per affer­ rare il pezzo di pane che una donna porta tutti i giorni di nascosto ai prigionieri. A un certo punto, nella cattedrale, si distribuiscono dei fogli perché i prigionieri scrivano alle famiglie : alcuni scrivono lettere un po’ lunghe e vengono avvertiti che que­ ste non saranno spedite. Poco dopo, il vento porta nel can­ tiere dei fogli volanti. Sono le lettere che i prigionieri han­ no scritto e che l’amministrazione tedesca ha buttato ai quattro venti. Qualche momento dopo il narratore incontra un carri­ sta che si è rimesso a scrivere:

“— Scrivi un diario? Alza gli occhi stupito: — Un diario? Finalmente capisce: — No... io, quella roba... e, come cosa ovvia: — Scrivo a mia moglie." Piu avanti parlando con un altro prigioniero:

"— lo, aspetto che si consumi... — Cosa? — Tutto... Aspetto che si consumi..." 155

Raccontando questi fatti, Malraux implicitamente svi­ luppa la sua nuova concezione dell’uomo. Alla base del pensiero marxista e delle opere precedenti di Malraux, c’era la convinzione che tutti gli uomini tendono natural­ mente a dare un senso alla propria vita e ad affermare con ciò la propria dignità. Certo, l’oppressione, le condi­ zioni economiche e sociali possono schiacciare e annientare in loro questa naturale tendenza all’azione e alla dignità, ma tra le strutture oppressive che continuamente mutano nel corso della storia, rimane la sola realtà umana dure­ vole, la condizione umana che è l’aspirazione alla dignità e al significato. Sicché i rivoluzionari, intellettuali e uomini d’azione al tempo stesso, secondo questa concezione non fanno che aiu­ tare gli uomini a prender coscienza delle aspirazioni na­ turali sepolte al fondo di loro stessi, deformate da una ci­ viltà oppressiva, riportandoli a quella ch’era la loro vera vocazione, il fare costruendo la comunità e per ciò stesso la storia. Orbene, è proprio questa concezione che pone in discussione il primo episodio di Les Noyers de ΓAltenburg. Esiste effettivamente non un uomo fondamentale ma un uomo eterno. Il racconto lo dice continuamente: "Nella casupola babiloniana, fatta di tozzi pilastri, di tubi e di rami, sono in tre a scrivere sulle ginoc­ chia, raggricchiati come i momies del Perù (...) Quel­ lo ha uno di quei visi gotici, che diventano sempre piti numerosi da quando le barbe non vengono taglia­ te. La memoria secolare della calamità. La calamità doveva arrivare, ed eccola arrivata. Mi ricordo dei co­ scritti silenziosi in settembre, in marcia attraverso la polvere bianca delle strade e delle dalie di fine estate, che mi sembravano partire contro l'inondazione, con­ tro l’incendio. Ma sotto questa familiarità secolare con la sventura, preme l’astuzia non meno secolare dell'uo­ mo, la sua fede clandestina in una pazienza tuttavia colma di disastri, forse la stessa pazienza, di fronte alla fame, degli uomini delle caverne.”

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La presenza dei prigionieri nella cattedrale di Chartres aveva anch’essa un valore simbolico.

“Dall'inizio della guerra, da che l’uniforme ebbe can­ cellato il mestiere, cominciai a intravedere quelle fac­ ce gotiche. Ciò che appare oggi nella folla triste che non può più sbarbarsi non è la galera, ma il medioe­ vo (■■■) Ogni mattina guardo migliaia d'ombre nell'inquieta luce dell’alba, e penso: è l'uomo..."

Ma quest’uomo non crea più degli dèi, i valori, anzi è colui che da millenni "vive nella sonnolenza”, che non muta e che, di fronte alla storia, ha una sola reazione, su­ birla, trovar modo di esistere attraverso e malgrado essa, e, quando diventa difficile, opporre ai suoi prodotti antiuma­ ni, grandiosi e barbari, le sue furberie, la sua millenaria e corrosiva pazienza che finisce sempre per logorarli. L’uomo eterno, lo stesso attraverso gli evi e la storia significativa e mutevole; l’umanità e gli "intellettuali”; sono realtà di­ verse e per lo piu opposte.

“Credevo di conoscere piti della mia cultura, perché mi ero imbattuto nelle folle combattenti di una fede, religiosa o politica; ora so che un intellettuale non è solo uno cui occorrono libri, ma ogni uomo la cui vita è impegnata e ordinata da un’idea, per quanto elemen­ tare. Quelli che mi circondano, da millenni vivono alla giornata.” Cosi per l’intellettuale che parla nel racconto — conscio adesso che l’azione non è l’attuazione di una comunità vir­ tuale ma sempre effettiva tra lui e l’umanità, e quindi che l’ideologia rivoluzionaria nel suo complesso era errata — nascono problemi nuovi che bisogna affrontare. Riguardano anche coloro che

“vivono alla giornata da millenni" e quelli in cui una idea

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“impegna e ordina la vita" riguardano soprattutto i loro reciproci rapporti. “Questi incontri, il vento instancabile me li resti­ tuisce come riporta a volo le lettere dei miei compagni. Ch’io li interroghi dunque, ch’io li confronti ai miei, mentre richiamati dall’acquazzone notturno i rosei ver­ mi risbucano dal terreno indurito dal calpestio di cin­ quemila uomini — mentre la vita continua fino al mo­ mento in cui al fondo fraterno della morte si mischia­ no le mie e le sue domande... Qui scrivere è il solo modo per continuare a vivere."

Questi problemi il narratore li affronterà attraverso l’e­ sperienza di suo padre. Il primo episodio ha posto il problema teorico, i due suc­ cessivi descrivono con un’appena avvertibile trasposizione la situazione storica, le forze in atto e l’esperienza che ha indotto Malraux ad abbandonare il movimento rivoluzio­ nario. Il primo riguarda l’opposizione non conformista, rispet­ tabile, simpatica ma che si è suicidata lasciando solo un messaggio ambiguo e perciò inutilizzabile e come esecu­ tori testamentari gli intellettuali e gli uomini d’azione che se la devono cavare da soli con questa eredità. Il secondo ri­ guarda lo stalinismo. Ritornato in Europa, il padre del narratore, Victor Ber­ ger, ha ritrovato suo padre che, qualche giorno dopo, si suicida. Era una personalità fondamentalmente non con­ formista. Sindaco del suo comune, di fronte all’invincibi­ le ostilità del villaggio e della municipalità, aveva dato ri­ fugio nella sua proprietà alla sinagoga e ai circhi di pas­ saggio. Cattolico credente, ostile a certe rilassatezze della Chie­ sa, aveva prima protestato col curato e di fronte al rifiuto di costui:

“Ma, signor Berger, forse che un povero prete può discutere le decisioni della curia romana?" 158

era andato a protestare e a formulare le proprie riserve a Roma.

“Aveva fatto il pellegrinaggio a piedi. Presidente di diverse associazioni, aveva ottenuto senza difficoltà udienza dal Pontefice. Si era trovato con una ventina di fedeli in una delle stanze del Vaticano. Non era ti­ mido, ma il Papa era il Papa, e lui era cristiano: tutti s’erano inginocchiati, il Santo Padre era passato e i presenti gli avevano baciato la pantofola. Dopo di che erano stati congedati (...) Di ritorno, i suoi amici pro­ testanti lo avevano creduto pronto alla conversione. Non si cambia religione alla mia età! Ormai, tagliato fuori dalla Chiesa ma non dal Cri­ sto, ogni domenica aveva assistito alla messa da fuori, ritto tra le ortiche, nell’angolo dove il transetto s’in­ crocia con la navata, seguendo l’ufficio a memoria, at­ tento a cogliere attraverso i vetri il lieve suono del campanello annunciante l’Elevazione. Finalmente si suicida, con calma, con fermezza, accettan­ do il proprio destino. La sua prima conversazione col figlio riprendeva, appena un po’ piu tesa, la preghiera dei cam­ mellieri tartari di Le Temps du Mépris.

“— Se potessi sceglierti una vita, quale sceglieresti? — E tu? Rifletté a lungo e d’un tratto disse gravemente: — Be’, in fede mia, qualunque cosa dovesse succe­ dere, se dovessi rinascere un’altra volta, non vorrei una vita diversa da quella di Dietrich Berger...” Come gli oppositori del partito, egli lascia un testamen­ to ambiguo nei riguardi della Chiesa.

“Ciò che è accaduto mi sembra molto penoso. Sa­ pete che il testamento era sigillato. La frase: ‘La mia volontà formale è di essere sepolto religiosamente’, era scritta su un foglietto staccato, posato sul comodi-

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no dove stava la stricnina; ma la prima redazione era: 'La mia volontà formale è di non essere sepolto religio­ samente.’ Ha cancellato la negazione con parecchi fre­ gi... Certo non aveva più la forza per strappare il fo­ glio e per riscrivere." Quanto al giudizio del narratore sul suicidio, è esplicito:

"Mi è capitato di sentire molte bestialità sul suici­ dio... Ma davanti a un uomo che si è ucciso con fer­ mezza, non ho mai notato un sentimento che non fos­ se rispetto. Il problema di sapere se il suicidio è un at­ to di coraggio o no, si pone solo davanti a quelli che non si sono uccisi.” Come già abbiam detto, il terzo episodio pone, attra­ verso il racconto dell’azione di Victor Berger, il problema del comuniSmo ufficiale. La trasposizione è appena masche­ rata. Orientalista, professore nell’Università di Costantinopo­ li, ufficiale tedesco1, Victor Berger si trova ad agire in Tur­ chia, d’accordo in parte con i servizi segreti dell’ambascia­ ta tedesca, in parte indipendentemente e contro l’amba­ sciata. Stato plurinazionale, minacciato di smembramento, la Turchia è governata dal sultano Abdul-Hamid. Costui basa tutta la sua politica sulle possibilità di sviluppo del panislamismo, che gli sembra possa rappresentare il solo contrappeso alle forze di smembramento. Ostile al sultano, Victor Berger entra in contatto con l’opposizione dei Gio­ vani Turchi, nella quale vede l’avvenire della Turchia, e convince i servizi segreti tedeschi ad appoggiarlo. Riesce con il loro aiuto ad organizzare un servizio di propaganda di cui, come Garine, farà uno strumento d’azione impor­ tante.

1 II narratore è alsaziano, il che spiega che suo padre nel 1914 sia un ufficiale tedesco.

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“Della propaganda semplice orpello, era deciso a fare un mezzo d’azione politica.” Una prima rivoluzione scoppia. Abdul-Hamid è depo­ sto e sostituito da Maometto V,

“il potere del parlamento è definitivamente affermato.” I servizi segreti tedeschi si rifiutano di andare oltre e di seguitare ad appoggiare Victor Berger che rimane legato ai Giovani Turchi. Il movimento si sviluppa. Un giorno, un inviato speciale di Bülow chiederà a Victor Berger:

"— Quali sono le intenzioni, i... progetti di EnverPascià? — Tornare al più presto e prendere il potere. — Nonostante non manchi di debolezza, io... — Lo prenderemo. L’inviato, a questo plurale, drizzò l'orecchio." Victor Berger era infatti passato completamente dalla parte di Enver e dei Giovani Turchi. In seguito, con o senza l’appoggio del suo governo (che qualche volta trova utile mantenere contatti coi Giovani Turchi e anche aiutarli), Victor Berger sostiene Enver-Pascià che prende il potere e fa della Turchia uno stato mo­ derno dotato di un esercito bene organizzato. Enver incarna anche lui un’ideologia sovrannazionale, il t uranismo e, malgrado i sospetti dell’ambasciata tedesca, Victor Berger diventa uno degli agenti propagandisti di questa ideologia in Asia. Un giorno però, massacrato di botte da un pazzo fanatico che gli rimprovera di non es­ sere turco,

“rincasò pesto e furibondo, inesplicabilmente liberato da una magia: d’un tratto, la verità gli appariva cruda: il Turano che animava le nuove passioni turche, che aveva per cosi dire salvato Costantinopoli, il Turano non esisteva." 161

Se l’azione di Enver e la sua avevano avuto una certa efficacia, era in quanto corrispondevano agli interessi reali di certe tribù o potevano fondarsi su ciò che, tutto somma­ to, s’era in un certo senso rivelato una forza effettiva: il panislamismo di Abdul-Hamid: "Sapeva ormai cosa attendersi da quella gente. Si sarebbero battuti volentieri per Enver, generale vitto­ rioso diventato genero del califfo, a patto che li pa­ gasse bene e il rischio fosse modesto (contro l’Inghil­ terra, ci avrebbero pensato due volte). In nome del Turano? Sicuro. L’Islam sarebbe bastato. D’altronde, là dove mio padre lasciava qualche traccia, era grazie a vecchi agenti panislamici di Abdul-Hamid..."

Dietro il turanismo di Enver, si nascondevano semplicemente gli interessi dello stato turco. Una spiegazione di­ sperata, tentata per lealtà con Enver, non approda natural­ mente a nulla.

"La discussione mi sembrava inutile. Gravemente ammalato a Ghazni, s’era chiarito le idee a proposito dell’errore che aveva impegnato una parte cosi impor­ tante di lui, ma col ritorno della salute gli tornava l’o­ dio: come se fosse stato ingannato non da se stesso, ma da quell’Asia Centrale bugiarda, idiota, che si ribella­ va al proprio destino — e da tutti coloro di cui aveva condiviso la fede. — Avrei dovuto per prima cosa mandare un musul­ mano... disse Enver." La trasposizione della situazione contemporanea è evi­ dente: naturalmente, si deve leggere Russia per Turchia, governo czarista per Abdul-Hamid, panslavismo per pani­ slamismo, rivoluzione di febbraio sostenuta dalle potenze occidentali per prima rivoluzione turca sostenuta dalla Ger­ mania, comuniSmo per turanismo e infine probabilmente Stalin per Enver-Pascià'. 1 Benché la presa di potere nel 1917 sia stata effettuata sotto la dire­ zione di Lenin — la trasposizione semplifica egualmente un pochino.

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Passando in rassegna questi episodi, soffermiamoci sul­ la figura di Victor Berger, intellettuale diventato uomo di azione perché secondo lui questo è il solo modo di im­ pegnare e ordinare la propria vita secondo un’idea (a suo zio, che definisce l’uomo con i suoi segreti, egli opporrà la breve e laconica definizione: "L’uomo è ciò ch’egli fa”). Il testo ci chiarisce, con la conversazione con l’inviato speciale di Biilow, il motivo per cui Berger ha abbraccia­ to il turanismo:

"— Com’è possibile, egli chiese, che lei si senta cosi... personalmente interessato dal turanismo? Appassiona­ lo, oserei dire... (...) — Pochi sono gli atti che i sogni nutrono anziché farli imputridire, disse, sorridendo a mezzo. E accen­ tuando il sorriso: ‘Lei avrebbe qualcosa di meglio da propormi?’" I tre primi episodi del libro hanno permesso a Malraux di precisare la sua nuova concezione dell’uomo e di chia­ rire le ragioni per cui si è separato sia dal comuniSmo ufficiale che in realtà non è se non l’ideologia di uno stato c dall’opposizione di accento moralmente rispettabile ma che si è da se stessa suicidata. In due pagine particolar­ mente importanti si descrive il ritorno di Victor Berger a Marsiglia. Egli vi scopre la realtà quotidiana, la gente che vive alla giornata, le vetrine dei magazzini, "le cose più semplici, le strade, i cani"

ma vi scopre anche che quando si è stati immersi nell’a­ zione, non si può piu tornare indietro. La frase di un anarchico apparsa sui giornali gli ronza nella testa:

"L’individuo ucciso non conta! Ma poi, capita qual­ cosa di inaspettato: tutto è cambiato, le cose piti sem­ plici, per esempio, i cani..." Ricorda una grande delusione della sua pia giovinezza:

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“Stasera come allora, si sentiva libero — di una li­ bertà pungente che non si distingueva dall’abbandono." Il quarto episodio piu importante del libro è il colloquio di Altenburg, modellato probabilmente sugli incontri di Pontigny. Come Pontigny, Altenburg è infatti un posto dove s’incontrano i primi pensatori d’Europa. La discus­ sione — cui partecipa Victor Berger, aureolato dal suo pre­ stigio d’uomo dazione che ancora per molto affascinerà gl’intellettuali mentre lui in effetti ha cessato di esserlo, — si avvia dopo la partenza di quasi tutti gli intellettuali tranne Mölberg, un antropologo e africanista, una sorta di miscuglio probabilmente di Frobenius, di Spengler e dello stesso Malraux, di cui il mondo scientifico attende con im­ pazienza la grande sintesi di filosofia hegeliana della sto­ ria. In realtà Mölberg ha scoperto anche lui, come il nar­ ratore, la rottura tra le idee e l’uomo eterno e, come con­ seguenza, l’impossibilità di qualsiasi filosofia del genere. Cosi, sotto l’influsso della sua esperienza africana, egli ha distrutto ciò che aveva già scritto del suo libro e ne ha attaccato le pagine "ai rami bassi di varie specie d’alberi, tra il Sahara e Zanzibar".

II colloquio è preparato da diversi episodi significativi, dei quali ci accontenteremo di citarne due: Il racconto dell’ultimo viaggio che Walter1 ha fatto con Nietzsche impazzito, per ricondurlo a Basilea in un vago­ ne di terza classe. All’uscita da una galleria Friedrich can­ tava

“un poema a noi ignoto. Ed era il suo ultimo poema, Venezia. Non mi piace la musica di Friedrich; è me­ diocre. Ma questo canto era... ebbene, sublime."

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Zio del narratore è animatore dei colloqui di Altenburg.

Ascoltando il canto, Walter aveva avvertito che certe ope­ re umane erano piu forti della morte, della pazzia, dell’as­ surdità della vita che

“resistono alla vertigine che nasce dalla contemplazio­ ne dei nostri morti, del cielo stellato, della storia...”. Victor Berger sarebbe propenso a dargli ragione, ma nella sua coscienza il canto di Nietzsche si confonde col volto di suo nonno morto a Reichbach; per la prima volta fa la sua comparsa nel libro il tema centrale, il rapporto tra la crea­ zione e la vita.

“Il privilegio di cui parlava Walter, d’essere più po­ tente contro il cielo stellato che contro il dolore! E for­ se avrebbe avuto ragione del volto di un morto, se que­ sto volto non fosse stato un volto amato... Per Walter, l’uomo era solo ‘un miserabile cumulo di segreti’ fat­ to per nutrire le opere che circondavano fino alla pro­ fondità dell’ombra il suo viso immobile; per mio pa­ dre, questo cielo stellato era imprigionato nel sentimen­ to che aveva fatto dire ad una creatura già tutta abitata dal desiderio di morte, al termine di una vita senza lume e spesso dolorosa: ‘Se dovessi scegliere un’altra vita, sceglierei la mia...'" Più avanti, apprendiamo che Mölberg modellava e orna­ va la propria camera con straordinarie figurine d’argilla ihe chiamava i suoi mostri. Erano tutte

“di una commovente tristezza, la tristezza di Goya che sembrano ricordarsi d’esser stati uomini... alcuni bene­ fici, altri malefici. Ne mandava agli amici." Naturalmente questi mostri privi di significato che han­ nostalgia di un’umanità che non possono più attingere, i oi rispondono al messaggio che adesso, distrutta la sua opera, Mölberg può ancora trasmettere. Descrivendo il colloquio, non possiamo entrare nei det­ no

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tagli delle opinioni che si scontrano e trascureremo anche l’ironia di Malraux verso alcuni intellettuali. La figura centrale è quella di Mölberg che, abbandonata l’opera che doveva dare

“un’interpretazione dell'uomo rigorosa e potentemen­ te coerente" svolge ora la tesi spengleriana delle civiltà rigorosamente chiuse l’una all’altra, sotto le quali non v’è altra realtà du­ revole all’infuori dell’informe contadino. Le culture per lui sono solo insiemi di forme significative sovrapposte a un materiale neutro e indifferente; l’uomo eterno non è storico.

“— L’uomo fondamentale è il mito, un sogno di intellettuali concernente i contadini: pensate dunque un po’ all’operaio fondamentale! Volete che per i con­ tadini il mondo non sia fatto di oblio? Quelli che non hanno imparato nulla non hanno nulla da dimentica­ re. Un contadino saggio, so cos’è, ma non è l'uomo fondamentale! Non esiste l’uomo fondamentale, ac­ cresciuto, secondo le epoche, da ciò che pensa e crede: c'è l’uomo che pensa e crede, o nulla. La civiltà non è orpello, ma struttura. Guardate: conosciamo tutti la passione del nostro amico Walter: questi due gotici e questa figura di prora sono, lo sapete, dello stesso le­ gno; ma sotto queste forme non c'è il fondamentale noce, ci sono dei ceppi."

Quanto all’idea della storia è solo la forma che la nostra cultura ha cercato di imporre a questa natura indifferente. Però, dietro la storia, può darsi che ci sia ancora, dice Möl­ berg, "qualcosa che sta alla storia come la storia alla nazio­ ne, alla rivoluzione. Forse la nostra coscienza del tem­ po — non dico la nostra concezione — che è recente...".

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Il colloquio è finito. La risposta che se ne trae è, benché piti ampia e piu ricca, la stessa di quella che dava Walter parlando del proprio viaggio con Nietzsche: esiste una realtà umana assurda, informe, in cui le creazioni degli intellettuali, le culture impongono significati temporanei, certo localizzati, ma che rappresentano la sola umana spe­ ranza di attribuire un senso provvisorio alla vita e di trion­ fare dell’assurdo del nulla. Ma, uscendo dal locale, le stesse riserve che gli si erano affacciate durante la conversazione con Walter sul viaggio di Nietzsche, prenderanno forma nella coscienza di Victor Berger. Egli scopre la realtà che le fa nascere e le giustifica, la realtà che i partecipanti al colloquio avevano dimentica­ la: i noci dell’Altenburg. Infatti, tra il ceppo, il legno come materia bruta e la for­ ma gotica creata dallo scultore, c’è l’albero vivo che cresce e respira. "Aveva raggiunto i grandi alberi: abeti già colmi di notte, una goccia ancora trasparente all’estremità d’ogni ago, iuitl rumoreggianti di passeri. I piti belli erano due noci: ricordò le statue della biblioteca (...) Mio padre pensava ai due santi, all’Atlante; il legno convulso di questi noci, invece di reggere il peso del mondo, si espandeva in vita eterna nelle foglie bril­ lanti contro il cielo e nelle noci quasi mature, in tutta la massa solenne sopra il grande anello dei giovani ger­ mogli e delle noci morte dell’inverno. ‘Le civiltà o l'animale, come l’estate o i ceppi...’ Fra l’estate e i cep­ pi, cerano gli alberi e il loro disegno oscuro come quel­ lo della vita. E l’Atlante, e il volto di San Marco de­ vastato di fervore gotico vi si perdevano come la cul­ tura, come lo spirito, come tutto ciò che mio padre aveva udito — sepolti nell’ombra della statua indulgen­ te che le forze terrestri si scolpivano da se stesse e che il sole a fior di collina stendeva sull’angoscia degli uo­ mini fino all’orizzonte. Erano quarantanni che non cerano guerre in Eu­ ropa.” 167

La guerra, insieme all’abbandono dell’ideologia rivolu­ zionaria, è la seconda realtà fondamentale intorno alla qua­ le si organizza l’universo del libro. Se gli episodi ch’esso racconta si situano tra il 1914 e il 1940, è forse anche per mostrare che non si tratta di questa o quella guerra in par­ ticolare, ma della guerra in quanto tale nei suoi rapporti con gli uomini e, al di là di essa, di tutto ciò che le culture create dagli intellettuali e dagli uomini dazione possano avere in sé di antiumano e barbaro. È rispetto alla guerra che Les Noyers de iAltenburg assumono tutta la loro importanza. Gli intellettuali dell’Altenburg, i Walter, i Mölberg, ave­ vano visto solo un dualismo semplificato: da una parte l’uomo eterno che campava alla giornata, il contadino, il le­ gno informe, indifferente e neutro; dall’altra parte la crea­ zione intellettuale, le opere d’arte, le culture. In realtà, lungi dall’essere indifferente e neutro, l’uomo eterno, l’uomo che vive alla giornata, il contadino di Möl­ berg, era vivo come i noci del parco di Altenburg e se non faceva la storia, si sforzava nella sua vita quotidiana di cam­ pare, di mangiare, di vestirsi, d’amare gli altri uomini, d’a­ vere bambini e di esser felice. Vale a dire, non era passivo rispetto alle culture, ma in esse separava ciò ch’era favore­ vole al perseguimento della vita e della felicità da ciò ch’era nocivo e malsano, e se solo di rado resisteva in modo at­ tivo alla barbarie, ciononostante agiva, con la sua perma­ nenza, con la sua millenaria pazienza che finivano sem­ pre per logorare le istituzioni e le culture minacciose per la sua natura e per le sue aspirazioni. Detto questo, non abbiamo piu bisogno di insistere a lungo sui tre ultimi epi­ sodi, particolarmente importanti, del libro, il cui signifi­ cato diventa facile da afferrare. Due ci mostrano cosa possano diventare gli uomini di azione e gli intellettuali creatori quando la loro attività si esercita in favore della guerra e contro l’uomo e la vita. Victor Berger, lavorando per il servizio di controspionag­ gio, un giorno assiste a un episodio durante il quale il ca­ pitano Wurtz cerca di servirsi dell’amore di un bimbo per sua madre, cioè di quanto vi è di piu intimo, di più pro-

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fondo ed essenziale nella vita, per smascherare una donna che sospetta essere una spia. Avvertendo la ripugnanza di Victor Berger per questi sistemi, gli obietta: “Questi gesti, di cui lei ha paura, salvano la vita di migliaia di nostri soldati.”

Un po’ piu avanti, Victor Berger è incaricato di accom­ pagnare insieme al capitano Wurtz, il professor Hoffman, un valente scienziato, che ha messo a punto con precisione un nuovo gas da combattimento enormemente efficace e che deve organizzare il primo attacco sperimentale con­ tro le linee russe; di fronte alla repulsione del capitano Wurtz, ancora attaccato ai vecchi concetti del coraggio mi­ litare, Hoffman riprende le risposte che Wurtz aveva dato in altra occasione a Berger:

"— Ponendosi da un punto di vista superiore, disse il professore in tono imperativo, i gas rappresentano il mezzo di combattimento piti umano (...) Per il capitano, quei due uomini erano nemici. Uo­ mini di parole e di cifre, ‘intellettuali’ ohe volevano annientare il coraggio. Lo derubavano. Il suo corag­ gio era reale: catturato dai russi, condannato a morte, si era rifiutato di dare la minima informazione nono­ stante gli proponessero centomila rubli e la libertà in Russia — ed era evaso. Quella fermezza giustificava ai suoi occhi ogni cosa, gli attribuiva tutti i diritti. Dondolava la testa rotonda, col naso all’insu, come in­ fastidito da inesistenti mosche. — Sarà una grande sventura, se daiïimpero sparirà il vecchio senso tedesco della guerra. Mio padre ascoltava, guardava Wurtz diventare mo­ ralista (senza parlare dell’altro moralista). Come si guarda un pazzo con cui si ha un certa somiglianza. Il capitano aveva difeso contro di lui l’arrivo del bim­ bo in nome dei soldati che in quel modo salvava, e adesso il professore riprendeva l’argomentazione. Suv­ via, quella camera era piena di santi!’’ 169

L’episodio successivo parla dell’assalto che, per fortuna o sfortuna, non è fatto solamente dagli intellettuali, dai tecni­ ci, da Wurtz, Hoffman e Victor Berger, ma, dietro loro istruzioni, dalla massa dei soldati, da quegli uomini che campano alla giornata, presentati da Malraux con le loro conversazioni che riguardano l’esistenza di tutti i giorni, fatte all’alba, nelle trincee in attesa dell’attacco. E quando finalmente scatta l’attacco, sarà la mirabile de­ scrizione del soprassalto umano, della resistenza contro la barbarie, di quei soldati che, arrivando nelle trincee in cui si trovano migliaia di nemici colpiti dai gas, dimenticano la guerra e la realtà immediata per provare innanzitutto solidarietà nei confronti del loro prossimo, vittima del bar­ baro destino impostogli dalla civiltà. Trascurando l’ordine di avanzare, si occupano dei loro nemici intossicati, torna­ no indietro, si precipitano alle ambulanze in cerca d’aiuto. Victor Berger, dapprima smarrito, non comprendendo quel­ lo che accade, man mano che avanza sarà conquistato da questa animazione e come gli altri finirà per prendersi cu­ ra di un russo e per ritirarsi. In quel mentre, incrocia au­ tocarri carichi di soldati che lo esaminano stupefatti:

“... Lo osservavano con l’inquietudine di chi in un paese sconosciuto s’imbatte nel primo indigeno. Cosi, presto, avrebbero guardato il primo intossicato (...) Mio padre li guardava anche lui, uno dopo l’altro: La diga della pietà non si sarebbe rivelata efficace piu volte. So­ lo alla morte l’uomo non si abitua.” Questa terza parte si conclude con la presa di coscienza da parte di Victor Berger, nel momento in cui crede di essere anche lui gassato,

" d’urievidenza folgorante, perentoria come il fischio trattenuto nella gola: il senso della vita era la felicità e lui, cretino, si era preoccupato d'altro che d'esser felice! Scrupoli, dignità, pietà, pensiero erano una mo­ struosa impostura, solo i richiami di una sinistra po­ tenza di cui nell’istante supremo si doveva sentire il 170

riso beffardo. In questa selvaggia discesa sotto il pu­ gno della morte, gli restava solo un truce rancore con­ tro tutto ciò che gli aveva impedito d’esser felice. Gli parve di intravedere l'ambulanza e tentò di correre ancora più in fretta, ma le gambe non lo reggevano, l’universo di colpo si capovolse, la foresta balzò verso il cielo e il cielo gli fini sotto i piedi.”

L’ultimo episodio ci riporta al 1940, al campo di prigio­ nia di Chartres. Un solo problema cruccia il narratore: cos’è l’uomo:

“...penso soltanto a ciò che resiste al fascino del nulla. E, nel succedersi di giorni perduti, mi ossessio­ na sempre più il mistero che non oppone, come soste­ neva Walter, ma unisce con un sentiero cancellato la parte informe dei miei compagni ai canti che resi­ stono all’eternità del cielo notturno, alla nobiltà che gli uomini ignorano di possedere — alla parte vitto­ riosa del solo animale che sappia di dover morire." Il libro termina con il racconto dell’assalto cui partecipa il narratore e durante il quale si trova rinchiuso in un carro con tre compagni: Bonneau, magnaccia, che vive quasi sempre nell’immaginazione; Léonard, pompiere al casinò di Parigi, che è stato a letto una volta per caso con la pri­ ma ballerina e rivive continuamente questa che è la grande fortuna della sua vita; Pradé, cui la prima guerra impedì di farsi un’istruzione e che pensa ai figlio,

“il solo frammento di assoluto nell’umiliante, triste c inquietante avventura che si chiama vita", al figlio di cui spera di fare un uomo istruito. Un camera­ tismo virile, intenso e indefinibile nasce tra i quattro uo­ mini. A un certo punto, hanno l’impressione d’esser ca­ duti in un fossato alla mercé del primo obice che verrà loro addosso. Pradé immagina già irrimediabilmente com­ promesso l’avvenire di suo figlio! Riescono invece a libe­ rarsi:

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“Non era per questa volta... La guerra non è finita... forse domani torneremo vivi." L’indomani, i combattenti si trovano davanti a un vil­ laggio evacuato dagli abitanti. Anitre, galline, uova, uten­ sili della vita quotidiana sono ancora li, rendono attuale la presenza eterna di quelli che son partiti ma presto ritor­ neranno :

“Davanti a me due annaffiatoi, con le loro teste a forma di fungo che, bambino, amavo. E a un tratto mi sembra che l'uomo sia venuto dalle profondità del tempo solo per inventare un annaffiatoio..." (■■■) Noi e quelli che ci stanno di fronte, siamo ormai ca­ paci soltanto dei nostri meccanismi, del nostro corag­ gio e della nostra viltà: ma la vecchia razza umana che abbiamo cacciato e che ha lasciato solo i suoi strumen­ ti, la sua biancheria e le sue iniziali su dei tovaglioli, mi sembra venuta, attraverso i millenni, dalle tenebre incontrate questa notte — lentamente, avaramente ca­ rica di tutti i relitti che ha abbandonato davanti a noi, le carriole e gli erpici, gli aratri biblici, le cucce e le gabbie dei conigli, i fornelli vuoti..." E l’immagine finale del libro è quella di “due vecchissi­ mi contadini" seduti su una panca, ch'essi a un tratto scor­ gono. Sono i contadini di cui Mölbcrg diceva che rappre­ sentano la massa informe, quelli che vivono alla giornata, eppure qui, di fronte alla barbarie meccanica delia guerra, rivelano bruscamente il loro vero significato:

"Allora, nonno, ci si riscalda? (■■■) k lei a rispondere: — Cosa potremmo fare? Voialtri siete giovani. Quan­ do si è vecchi resta solo il logorio...”

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Sono le stesse parole che aveva pronunciate il soldato all’inizio del libro: “Aspetto che si consumi”, e repentina­ mente, in questa lotta eterna tra il rischio di barbarie im­ plicito nella cultura e nella vita fondamentale, secolare e paziente, il narratore coglie la vera funzione di questa vita che permette e garantisce ogni volta la sopravvivenza e la rinascita dell’uomo:

“In armonia con il cosmo come una pietra... Ella sor­ ride tuttavia, di un lento sorriso ritardatario, riplesso: al di là di un campo di football, al di là delle torrette dei carri brillanti di rugiada come i cespugli che li mi­ metizzano, sembra guardare lontano la morte con in­ dulgenza e addirittura — oh, misterioso ammiccare, ombra acuta dall’angolo delle palpebre — con ironia... Porte schiuse, biancheria, granai, tracce umane, alba biblica in cui i secoli si toccano, come tutto l'accecan­ te mistero del mattino s’approfondisce in quello che affiora su quelle labbra logorate! Riappaia con un oscu­ ro sorriso il mistero dell’uomo, e la resurrezione della terra sarà solo fremente scenario. Io so però cosa significano gli antichi miti degli es­ seri strappati al regno dei morti. Appena mi ricordo il terrore; ciò che porto in me, è la scoperta di un se­ greto semplice e sacro. Cosi, forse, Dio guardò il primo uomo..." Interrompiamo qui il nostro esame, per diverse ragioni forse non indipendenti le une dalle altre. La prima è che Les Noyers de l'Altenburg è l’ultimo li­ bro di Malraux che si presenti ancora in buona misura co­ me opera di immaginazione. Dopo, si sa, Malraux inizie­ rà una nuova opera, certo importante, ma assolutamente diversa: i suoi studi sull’arte, un esame piu approfondito dei quali dovrebbe stabilirne innanzitutto la natura per de­ cidere se si tratta effettivamente di studi scientifici o di saggi in cui l’analisi delle opere artistiche offre a Malraux Voccasione di porre su piano concettuale un certo numero di problemi e di suggerire un certo numero di risposte. 173

Il secondo è che, almeno nel libro successivo, Les Voix du Silence, qualsiasi idea 'di valore umano universale (sia l’idea della condizione umana in quanto virtualità d’aspi­ razione rivoluzionaria alla dignità e alla costruzione della storia, sia quella dell’uomo eterno in quanto aspirazione alla felicità e resistenza alla barbarie, Kio, May, Katov, Kassner, Manuel, come i prigionieri e i contadini de Les Noyers de ΓAltenburg) è completamente scomparsa. Il terzo, infine, è che con la seconda guerra mondiale si conclude non solo il periodo che interessa la nostra attua­ le ricerca e di cui questo saggio rappresenta una prima tap­ pa, ma un periodo particolarmente importante nella storia dell’Europa industriale capitalista: quello che volentieri de­ finiremmo come la grande crisi strutturale dell’Europa e di cui le due guerre mondiali, il fascismo italiano, la crisi eco­ nomica del 1929-33 e il nazionalsocialismo sono stati sol­ tanto le manifestazioni piu importanti. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, infatti, tut­ ta una serie di mutamenti qualitativi sono intervenuti nella vita economica, sociale e culturale delle società industriali occidentali, mutamenti che, beninteso, non siamo in grado di analizzare. Accontentiamoci di citare i due piu importanti: la sco­ perta dell’energia nucleare con le conseguenze che ha ar­ recato sul piano della strategia militare e della politica internazionale, e, probabilmente ancora piu importante, la creazione di meccanismi di regolazione economica e di intervento statale che si sono dimostrati abbastanza efficaci per evitare fino ad oggi qualsiasi seria crisi di sovrappro­ duzione e di cui si può ammettere con una certa verosimi­ glianza che scongiureranno, forse a lungo, forse per sem­ pre, il ripresentarsi di una crisi del tipo di quella del 192933, Studiata dall’angolo visuale in cui ci poniamo, la storia del capitalismo occidentale sembra divisibile in tre grandi periodi : a) quello del capitalismo liberale e del suo slancio du­ rante la seconda metà del XIX secolo e i primi anni del XX secolo: slancio legato alla possibilità di un’espansione coloniale prolungata e continua;

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b) quello della grande crisi strutturale del capitalismo occidentale che abbraccia l’arco di tempo dal 1912 al 1945 all’incirca, e che deriva in primo luogo dal rallentamento e poi dall’arresto delle possibilità di penetrazione econo­ mica in paesi nuovi (cui s’aggiungeva, a partire dal 1917, il venir meno di due mercati sottosviluppati particolarmen­ te importanti: mercato russo e, piu tardi, a cagione delle continue guerre civili, il mercato cinese); c) l’avvento, dopo la seconda guerra mondiale, d’una società capitalista progredita che, mercé la creazione di po­ tenti meccanismi di intervento statale e di regolazione del­ l’economia, può fare a meno dell’esportazione massiccia di capitali e può investire sul mercato interno. Si vede a che punto, al di là della sua importanza spe­ cifica per l’opera di Malraux o per la storia delle sue idee filosofiche e politiche, la fine della seconda guerra mondiale rappresenti una svolta primaria nella storia della società occidentale nel suo complesso, e forse, come già abbiamo os­ servato, l’evoluzione ideologica di Malraux è in gran parte l’espressione di questo mutamento del mondo in cui egli viveva e sulla scorta del quale scriveva le sue opere. In questo saggio, abbiamo cercato nella misura del possi­ bile d’evitare i giudizi di valore d’ordine estetico o poli­ tico, e ciò pur sapendo, come abbiam detto altrove, che la loro eliminazione totale non è possibile e che il ricerca­ tore può solo cercare di ridurne al massimo l’incidenza sul suo lavoro. Ci si consenta tuttavia di dire che gli stretti legami che abbiamo potuto stabilire tra l’evoluzione del­ l’opera di Malraux e la storia culturale, sociale e politica dell’Europa occidentale dopo la fine della seconda guerra mondiale, come pure l’interna coerenza dei suoi scritti che ci siamo sforzati di metter in luce, sembrano suggerire che ci troviamo di fronte ad uno scrittore particolarmente rap­ presentativo e che la sua evoluzione pone, nel duplice senso della sua natura e dei pericoli che nasconde, i problemi principali sollevati dai rapporti tra la cultura e la fase più recente della storia delle società industriali occidentali. Scomparsa delle prospettive e delle speranze rivoluzio­ narie, nascita di un mondo in cui tutti i gesti importanti

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sono riservati a una élite di specialisti (che si possono chia­ mare creatori o tecnocrati a seconda che si tratti della vita spirituale o economica, sociale e politica), riduzione della massa degli uomini a puri oggetti dell’azione di questa élite, senza alcuna funzione reale nella creazione culturale e nelle decisioni sociali, economiche e politiche, difficoltà di perseguire la creazione immaginaria in un mondo in cui essa non può appoggiarsi a valori umani universali, tutti problemi che evidentemente riguardano anche l’ul­ timo saggio dell’opera di Malraux, tanti problemi che evi­ dentemente riguardano sia l’ultimo stadio dell’opera di Malraux sia l’evoluzione recente delle nostre società. Ag­ giungiamo anche (visto che all’inizio di questo saggio ab­ biamo accostato la teoria delle élites creatrici dell’ultimo Malraux alla posizione implicita di Heidegger in Sein und Zeit) che, tra l’opera nel 1926 e i libri successivi alla seconda guerra mondiale, tra il libro di Heidegger e i saggi stessi di Malraux, c’è una differenza analoga a quella che separa il capitalismo d’allora, ch’era un capitalismo in crisi, dal capitalismo riorganizzato d’oggigiorno : il venir meno dell’importanza essenziale dell’angoscia. Queste comunque sono solo ipotesi che occorrerà preci­ sare e ulteriormente verificare. L’opera di Malraux è espressione più o meno tipica del pensiero e dell’affettività di un gruppo sociale e particolare? S’iscrive in una struttura piu ampia che comprende altre opere con le quali si potrebbe mettere in luce una relazio­ ne strutturale? Se si, che rapporto c’è tra queste strutture della vita intellettuale, che dobbiamo ancora mettere in luce, e le strutture della vita economica, sociale, politica tra le due guerre in Francia e in Europa occidentale? Quali sono i rapporti tra l’evoluzione di Malraux e quella degli altri intellettuali scrittori che anch’essi, nello stesso periodo, hanno rinunciato ai valori rivoluzionari? Quali sono i li­ bri piu o meno importanti della letteratura francese tra le due guerre, scritti in una prospettiva umanistica, che affer­ mano l’esistenza di valori umani universali? Quali sono le strutture dei loro universi? Ci siamo limitati ad elencare i problemi cui per il mo­ 176

mento non possiamo dare risposta seria, per ricordare che questo saggio rappresenta solo la prima piattaforma, prov­ visoria e soprattutto parziale, nel quadro di una ricerca molto più vasta del pensiero, della letteratura e della socie­ tà francese tra le due guerre, ricerca che cercheremo di av­ viare negli anni prossimi.

APPENDICE

Questo studio era già pubblicato quando ci siamo accorti che, in L'Être

et le néant (pp. 615-618) Sartre conduce, contro Heidegger e contro Malraux (a cui attribuisce solo la posizione de L'Espotr, secondo la quale “la morte trasforma la vita in destino”), una analisi assai simile alle nostre osservazioni sui Conquérants e la Voye Royale. Certo l’azione sto­ rica non ha alcun privilegio in questo libro cosi individualista, ma per Sartre l’uomo si definisce attraverso il progetto fondamentale e i progetti secondari che vi si inseriscono, nella prospettiva dei quali la morte futura non è una possibilità del soggetto ma un dato esteriore, un impedimento improvviso, inatteso, di cui bisogna tener conto sempre conservandogli il suo carattere specifico di fatto inaspettato. Questi progetti tolgono cosi ogni importanza decisiva alla coscienza della morte, sino al giorno in cui la morte imprevista distrugge retroattivamente il valore di quei pro­ getti. Esclusa ogni influenza cosciente, il fatto che due scrittori cosi im­ portanti sviluppino in Francia, a cosi breve distanza di tempo, delle po­ sizioni a un tempo cosi complesse e cosi vicine, lascia supporre l’influenza di fattori trans-individuali e probabilmente sociali; ma per il momento questa constatazione pone soltanto un problema, e noi non abbiamo al­ cuna ipotesi da proporre per chiarirlo.

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t

I

NUOVO ROMANZO E REALTÀ*

Dopo questi due interventi di scrittori, vi parlerò dal punto di vista, molto diverso, di un sociologo. Tra il punto di vista del sociologo e quello dello scrittore c’è infatti la stessa differenza che tra il punto di vista del corridore o del­ l’atleta e quello dello psicologo o del fisiologo che studiano la struttura psichica o fisiologica del loro comportamento. Ciò non significa che i due punti di vista non possono essere, allo stesso modo che contraddittori, complementari. Senza parlare della possibilità che un sociologo o un cri­ tico oppure uno psicologo o un fisiologo si sbaglino e for­ mulino delle teorie errate, può darsi che il corridore o l’atle­ ta non conoscano le strutture psichiche e fisiologiche mercé le quali possono compiere le loro prove, o che lo scrittore non sia del tutto cosciente del meccanismo della propria creazione, e ciò indipendentemente dalla rispettiva qualità di queste prove e di questa creazione. Fortunatamente, ac­ cade molto spesso che i due punti di vista si completino e si illuminino vicendevolmente. Sarà in buona parte cosi oggi, perché, senza essere sociologi e critici, Nathalie Sarraute e Robbe-Grillet ci hanno parlato da teorici, il che si­ gnifica che hanno fatto — brillantemente d’altronde e con molta penetrazione — opera di critici letterari. • Questo saggio rappresenta il testo di un intervento ad una tavola ro­ tonda, tenutasi a Bruxelles con Nathalie Sarraute e Robbe-Grillet, fuso con un’analisi dei romanzi di Robbe-Grillet pubblicata nella rivista Médita­ tions, n. 4, 1962. Gli interventi di Nathalie Sarraute e di Robbe-Grillet sono stati pubblicati nella Revue de Sociologie dell'Università di Bruxel­ les, n. 2, 1963.

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Parlando per terzo e da sociologo, quel che mi rimane da dire sarà in buona parte complemento di ciò che avete già ascoltato. Varrà comunque la pena di cominciare sottoli­ neando ciò che, nei due interventi precedenti, mi sembra non solo valido, ma particolarmente importante, e cosi pu­ re ciò che mi separa — benché si tratti di divergenze in ultima analisi secondarie — dall’analisi che ha fatto Na­ thalie Sarraute. Cominciamo con un punto comune ai due interventi: la loro professione di fede nel realismo letterario. In effetti, mentre parecchi critici e gran parte del pubblico vedono nel nuovo romanzo un complesso di esperienze puramen­ te formali e, nel migliore dei casi, un tentativo di evasione dalla realtà sociale, due dei principali rappresentanti di que­ sta scuola mi hanno appena detto che la loro opera nasce­ va da uno sforzo il piu rigoroso e il piu radicale possibile per cogliere, in ciò che essa ha di piu essenziale, la realtà del nostro tempo. Il mio commento agli interventi e ai li­ bri di questi due scrittori si proporrà innanzitutto di illu­ strare e di concretare questa affermazione che mi sembra importante e valida. Un altro elemento comune ai due interventi, che mi sem­ bra utile sottolineare, è un’affermazione che i due scrittori hanno fatta: che se essi hanno adottato una forma diversa da quella dei romanzieri del XIX secolo, è in primo luogo perché dovevano descrivere ed esprimere una realtà uma­ na (il sociologo direbbe una realtà sociale, nella misura in cui per lui ogni realtà umana è sociale) diversa da quel­ la che dovevano descrivere ed esprimere i romanzieri ot­ tocenteschi. Infine, l’intervento di Nathalie Sarraute mi sembra no­ tevole per penetrazione e per esattezza quando mostra co­ me le abitudini psichiche, le vecchie strutture e le vecchie categorie mentali che perdurano nella coscienza della mag­ gior parte degli uomini impediscano loro di cogliere la realtà nuova, che è essenziale nella misura in cui struttura effettivamente la vita quotidiana degli individui, anche se parecchi di costoro non ne sono consapevoli. Il solo punto dove temo che il suo mestiere di scrittrice le abbia impedi-

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to di cogliere l’importanza della realtà sociale e storica, è la concezione che Nathalie Sarraute ha del processo di tra­ sformazione della realtà che ha reso necessario il passaggio del romanzo classico al nuovo romanzo e delle forze che hanno contribuito a produrlo. Temo che Nathalie Sarrau­ te sopravvaluti l’importanza che gli scrittori hanno avuto in questo processo e sottovaluti implicitamente quella di tut­ ti gli altri uomini. Parlando, a buon diritto, del progresso degli studi letterari, Nathalie Sarraute li immagina un po’ troppo, a mio modo di vedere, secondo la formula della storia delle scienze fisico-chimiche. Sembra che per lei esi­ sta una realtà umana data una volta per tutte (analoga alla realtà cosmica) che gli scrittori, come gli scienziati, esplo­ rano uno dopo l’altro, determinando nel succedersi delle generazioni, un semplice spostamento dell’interesse verso nuove aree che, chiariti i vecchi problemi, diventa impor­ tante esplorare. È perché Balzac e Stendhal hanno analiz­ zato la psicologia del personaggio, e per ciò stesso gene­ ralizzata e resa banale la sua conoscenza, che, secondo Na­ thalie Sarraute, questa conoscenza non offre piu interesse e gli scrittori successivi, Joyce, Proust, Kafka hanno dovu­ to volgersi a realtà piu sottili e fini, aprendo cosi una strada che i romanzieri d’oggi debbono sforzarsi di proseguire. Mi sembra che a questo proposito Robbe-Grillet abbia le idee più chiare. Non c’è, nella sfera dell’umano, una realtà immutabile, data una volta per tutte, che si tratta solo di esplorare con maggiore sottigliezza attraverso gene­ razioni d’artisti e di scrittori. L’essenza della realtà umana è essa stessa dinamica e muta nel corso della storia; per giunta, il mutamento avviene, naturalmente in grado di­ verso, per opera di tutti gli uomini, e se gli scrittori vi han­ no parte, questa parte non è né esclusiva né preponderante. Se la storia e la psicologia del personaggio diventano sem­ pre piu difficili da descrivere senza cadere nell’aneddoto e nella stranezza, non è solo perché Balzac, Stendhal e Flau­ bert le hanno già descritte, ma perché noi viviamo in una società diversa da quella in cui vivevano loro, una società in cui l’individuo in quanto tale e, implicitamente, la sua biografia e psicologia hanno perso qualsiasi importanza ve­

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ramente primordiale e si sono trasferiti a livello dell’aned­ doto e della stranezza. Come ha detto Robbe-Grillet nel suo intervento, se il nuovo romanzo descrive in modo di­ verso i rapporti di un geloso con la moglie, con l’amante di costei e con gli oggetti che li circondano, non è perché l’autore cerchi ad ogni costo una forma originale, ma per­ ché la stessa struttura di cui partecipano tutti questi ele­ menti ha mutato natura. In effetto, la moglie e, bisogne­ rebbe aggiungere, l’amante e lo stesso geloso sono diventa­ ti oggetti e, nell’insieme di questa struttura e di tutte le strutture essenziali della società contemporanea, i sentimen­ ti umani (che sono e sono sempre stati espressione delle relazioni infraumane e delle relazioni tra gli uomini e il mondo materiale, naturale o manifatturato) esprimono ora relazioni in cui gli oggetti hanno una durata e una auto­ nomia che i personaggi vanno mano a mano perdendo. Dopo queste poche osservazioni preliminari su due in­ terventi che mi sembrano importantissimi per la compren­ sione della letteratura contemporanea, permettetemi — dal momento che vi parlo da sociologo — di sollevare il pro­ blema della natura delle trasformazioni sociali che hanno effettivamente creato il bisogno di una forma romanzesca nuova e di illustrare alla luce di alcuni esempi il modo in cui alcuni dati essenziali di questa nuova realtà umana si trovano espressi nell’opera di Nathalie Sarraute e di RobbeGrillet. Naturalmente non è possibile, nei limiti di una breve esposizione, fare una storia generale delle società occiden­ tali dall’inizio del XIX secolo. Dovrò dunque accontentar­ mi, per forza di cose, di citare alcuni elementi particolar­ mente importanti per il problema di cui ci occupiamo og­ gi, quello del nuovo romanzo. Come punto di partenza prenderò una correlazione che mi sembra, di primo acchito, altamente suggestiva. Sul piano letterario, la trasformazione essenziale riguar­ da in primo luogo — Nathalie Sarraute e Robbe-Grillet ce Io hanno appena detto — l’unità strutturale personaggiooggetti, modificata nel senso di una scomparsa piu o meno radicale del personaggio e da un correlativo e non meno

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considerevole rafforzamento dell’autonomia degli oggetti. Ora, le ricerche sulla forma romanzesca condotte presso la sezione di sociologia letteraria dell’Istituto dell’Univer­ sità di Bruxelles, ci avevano già portati ad ipotizzare che la forma romanzesca è, fra tutte le forme letterarie, la più immediatamente e direttamente legata alle strutture eco­ nomiche nel senso stretto del termine, alle strutture dello scambio e della produzione per il mercato. Su questa li­ nea, mi sembra significativo constatare che, dal 1867 e ad­ dirittura dal 1859, quando nessuno ancora pensava ai pro­ blemi letterari che hanno sollevato Nathalie Sarraute e Robbe-Grillet, Carlo Marx, studiando le principali trasfor­ mazioni prodottesi nella struttura della vita sociale in con­ seguenza della nascita e dello sviluppo dell’economia, le poneva precisamente sul piano del binomio individuo-og­ getto inerte e sottolineava il progressivo trasferimento del coefficiente di realtà, d’autonomia e d’attività dal primo al secondo termine. È la celebre teoria marxista del feticismo della merce o, per usare il termine pressoché unanimemen­ te adottato nella letteratura marxista dopo gli scritti di Lukàcs, della reificazione. Per quanto incoraggianti per la nostra ipotesi e signifi­ cative siano le concordanze tra le analisi teoriche di Marx nel XIX secolo e le scoperte di alcuni scrittori contempo­ ranei, ci sembrano però ancora troppo generiche perché una ricerca sociologica possa appagarsene. Resta infatti da chiedersi come si spieghi l’intervallo di piu di un secolo tra la scoperta del fenomeno della reificazione e la nascita del romanzo senza personaggio. In fondo il problema che si pone è questo: esiste vuoi un rapporto intelligibile, vuoi una omologia tra la storia delle strutture reificazionali e quella delle strutture roman­ zesche? Per rispondere bisogna, a mio modo di vedere, te­ ner conto di quattro elementi decisivi di cui occorrerà de­ finire brevemente la natura, cioè: a) la reificazione in quanto processo psicologico per­ manente e agente senza interruzione da parecchi secoli nel­ le società occidentali produttrici per il mercato, e tre ele­ menti particolari che determinano l’aspetto concreto delle

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strutture reificazionali nella storia di queste società e per ciò stesso la periodicizzazione di questa storia; b) l’economia liberale che, fino all’inizio del XX seco­ lo, tiene ancora viva la funzione essenziale dell’individuo nella vita economica e, quindi, nel complesso della vita so­ ciale; c) lo sviluppo, alla fine del XIX e soprattutto al princi­ pio del XX secolo, dei trusts, dei monopoli e del capitale finanziario, che reca con sé un mutamento qualitativo nella natura del capitalismo occidentale, mutamento che i teori­ ci marxisti hanno definito come passaggio dal capitalismo liberale all’imperialismo. La prima conseguenza di questo passaggio — la cui svolta qualitativa si colloca verso la fine della prima decade del XX secolo — è stata, dal punto di vista che ci interessa, la eliminazione d'ogni importanza es­ senziale dell'individuo e della vita individuale all’interno delle strutture economiche e, di conseguenza, nel comples­ so della vita sociale', d) lo sviluppo, negli anni precedenti la seconda guerra mondiale e soprattutto alla fine della medesima, di un in­ tervento statale nell’economia e il sorgere, in virtù di que­ sto intervento, di meccanismi d’au/oregolazione che fan­ no della società contemporanea una terza tappa qualitativa nella storia del capitalismo occidentale. Supponendo che i concetti di economia liberale, di mo­ nopolio, di trust, di capitale finanziario e di intervento sta­ tale siano piu o meno noti, ci accontenteremo di insistere sul concetto di reificazione. Cosa intendiamo con questa parola? Il fenomeno, stan­ do alla definizione che ne dà Marx di feticismo della mer­ ce, è estremamente semplice e di facile comprensione. La società capitalista, nella quale tutti i beni sono pro­ dotti per il mercato, differisce in maniera sostanziale da tutte le altre forme anteriori (e probabilmente posteriori) di organizzazione sociale della produzione. Queste differen­ ze presentano naturalmente diversi aspetti, ma derivano per lo più da una prima differenza fondamentale: la mancan­ za, nella società capitalista liberale, di qualsiasi organismo 184

in grado di regolare coscientemente sia la produzione che la distribuzione all’interno di un’unità sociale. Organismi del genere esistevano in tutte le forme di so­ cietà precapitaliste, si trattasse di una società primitiva vi­ vente di caccia o di pesca o, nel Medio Evo, della famiglia contadina o dell’unità costituita dal castello del feudatario e da un certo numero di famiglie contadine costrette a pre­ stazioni lavorative o a tributi; si trattasse anche, fino a un certo punto, dell’economia mercantile della città europea ai suoi inizi (benché in questa città il piano esistesse sotto forma di una specie di coscienza non tematizzata e translucida, e un approfondito esame potrebbe probabilmente rintracciarvi le prime manifestazioni del fenomeno della reificazione). Questa regolazione della produzione poteva essere tra­ dizionale, religiosa, oppressiva, ecc., comunque aveva ca­ rattere cosciente (o per lo meno translucido come nel ca­ so della città del Medio Evo). Allo stesso modo, è cosciente in una società socialista o a carattere socialista in cui la produzione sia organizzata da una commissione centrale di pianificazione. Ora, nella società liberale e classica non esiste, appunto, a nessun livello una regolamentazione cosciente della pro­ duzione e del consumo. Ovviamente, la produzione è lo stesso regolata e alla lunga non vi si produce che la quan­ tità di grano, di scarpe o di cannoni che rispondono alla domanda pagante e, di conseguenza, all’effettivo consumo della società. Questa regolamentazione avviene però in mo­ do implicito, estraneo alla coscienza degli individui, e si impone a costoro come l’azione meccanica di una forza esterna. Avviene attraverso il mercato, attraverso la legge della domanda e dell’offerta, e soprattutto attraverso le cri­ si che periodicamente correggono gli squilibri. Sul piano immediato delle coscienze individuali, la vita economica assume l’aspetto dell’egoismo razionale dell’Aomo oeconomicus, della ricerca esclusiva del massimo profit­ to senza preoccupazione alcuna per i problemi di relazio­ ne umana con gli altri e soprattutto senza nessuna conside­ razione per l’insieme. In questa società, gli altri uomini di­

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venteranno per il venditore e il compratore oggetti simili agli altri oggetti, semplici mezzi che gli consentono di fare il proprio interesse e la cui sola e importante qualità uma­ na sarà la loro capacità a concludere dei contratti e ad as­ sumere obbligazioni costrittive. Tuttavia, siccome le regolamentazioni poste dalle esigen­ ze del complesso seguitano ad agire, la loro esistenza deve manifestarsi in un modo o in un altro, e avviene che, eli­ minate dalla coscienza degli uomini, le regolamentazioni ricompaiono nella società sotto forma di nuove proprietà degli oggetti inerti, che s’aggiungono alle loro proprietà na­ turali: valore di scambio e prezzo. Beninteso, gli alberi sono e sono sempre stati verdi d’e­ state e spogli d’inverno, grandi o piccoli, robusti o bacati, ecc. In un’economia di mercato, essi hanno tuttavia una proprietà che non avevano in nessuna economia naturale (e che, a dispetto delle apparenze, non hanno nemmeno in una economia pianificata): quella di valere una somma di denaro, di avere un prezzo legato all’offerta e alla doman­ da e determinante in ultima analisi il numero d’alberi che in questo o quell’anno saranno abbattuti e utilizzati nella produzione — e ciò vale, naturalmente, per tutte le altre merci. Cosi tutto un insieme di elementi fondamentali della vita psichica, tutto ciò che nelle forme sociali precapitali­ ste era — e nelle forme future, speriamo, sarà — rappre­ sentato dai sentimenti sovraindividuali, dai rapporti coi valori che superano l’individuo — e ciò significa la morale, l’estetica, la carità e la fede — sparisce dalle coscienze in­ dividuali nella sfera economica, il cui peso e importanza aumentano ogni giorno nella vita sociale, per delegare le sue funzioni ad una nuova proprietà degli oggetti inerti: il loro prezzo. Le conseguenze del mutamento sono notevoli e non ab­ biamo qui la possibilità di esaminarle'. Esse comportano 1 Vedere a questo proposito: Histoire et Conscience des Classes, di G. Lukâcs (Ed. de Minuit, Paris), e La Réification, in Recherches dialecti­ ques, di L. Goldmann, Gallimard, Paris.

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d’altronde anche aspetti positivi e hanno permesso lo svi­ luppo di un certo numero di idee fondamentali della cul­ tura europea occidentale (tra le altre, le idee d’eguaglianza, di tolleranza e di libertà individuale). Ma hanno progres­ sivamente aumentato lo sviluppo della passività delle co­ scienze individuali e il venir meno dell’elemento quali­ tativo nelle relazioni tra gli uomini da un lato e tra gli uomini e la natura dall’altro. È questo fenomeno d’abolizione, di riduzione all’impli­ cito di un settore estremamente importante delle coscien­ ze individuali cui si sostituisce una nuova proprietà, di de­ rivazione puramente sociale, degli oggetti inerti, nella mi­ sura in cui penetrano nel mercato per esservi scambiati e, di conseguenza, il trasferimento delle funzioni airtVe degli uomini agli oggetti; è questa fantasmagorica illusione (che Marx ha assomigliato alla concezione del personaggio sha­ kespeariano per il quale saper leggere e scrivere era una qualità naturale e la bellezza un merito) che è stata defini­ ta col termine estremamente suggestivo di feticismo della merce e, in seguito, di reificazione. Nella struttura della società liberale analizzata da Marx, la reificazione ri duceva cosi ad implicito tutti i valori sovraindividuali, trasformandoli in proprietà delle cose e lascia­ va come realtà umana essenziale e manifesta solo un indi­ viduo privo d’ogni legame immediato, concreto e coscien­ te con l’insieme. Un móndo equilibrato corrispondente a questa struttu­ ra sarebbe stato, in ultima analisi, quello di Robinson, l’in­ dividuo isolato di fronte ad un universo di oggetti, piante e animali (nel quale gli altri uomini esistono solo come salariati, la qual condizione è esemplificata nel personaggio di Venerdì). Ma, come ha notato Lukàcs in un’analisi mol­ to piu progredita, l’uomo non può restare umano e accet­ tare la mancanza di contatti concreti e univoci con gli altri uomini, sicché la creazione umanistica realmente corri­ spondente alla struttura reificazionale della società liberale era la storia dell’individuo problematico quale si esprime nella letteratura occidentale dopo Don Chisciotte fino a Stendhal e a Flaubert, passando attraverso Goethe (e, come

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ha mostrato Girard, con certe modifiche fino a Proust e, in Russia, fino a Dostoevskij). Robbe-Grillet lo ha appena detto: il romanzo classico è un romanzo in cui gli oggetti hanno un’importanza pri­ mordiale, ma esistono solo per le loro relazioni con gli individui. I due periodi successivi della società capitalistica occidentale, il periodo imperialista — che va pressappoco dal 1912 al 1945 — e il periodo dell’attuale capitalismo di organizzazione si definiscono sul piano strutturale: il pri­ mo con la scomparsa progressiva dell’individuo in quanto realtà essenziale e, correlativamente, con la crescente indipendenza degli oggetti; il secondo con il costituirsi di que­ sto mondo degli oggetti — in cui l’umano ha perso ogni realtà essenziale sia come individuo che come comunità — in universo autonomo avente una propria strutturazione che sola permette ancora, ma raramente e difficilmente, al­ l’umano di esprimersi. Consentitemi a questo punto di formulare un’ipotesi che naturalmente bisognerà verificare con altre ricerche. Mi sembra che ai due ultimi periodi della storia dell’econo­ mia e della reificazione nelle società occidentali corrispon­ dano effettivamente due grandi periodi nella storia delle forme romanzesche: quello che volentieri caratterizzerò con la dissoluzione del personaggio e in cui si situano ope­ re importantissime come quelle di Joyce, Kafka, Musil, La nausea di Sartre, Lo straniero di Camus e, molto probabil­ mente, come una delle sue manifestazioni più radicali, l’o­ pera di Nathalie Sarraute; il secondo, che comincia ap­ pena a trovare la sua espressione letteraria di cui RobbeGrillet è uno dei rappresentanti piu autentici e brillan­ ti, è appunto quello che segna il sorgere di un universo au­ tonomo d’oggetti avente una propria struttura e proprie leggi, e solo attraverso il quale può ancora esprimersi in una certa misura la realtà umana. Affrontando ora in concreto l’opera dei due romanzieri, vorrei cominciare con una constatazione: che, scrivendo nello stesso periodo, il nostro, ciò ch’essi ci dicono sulla realtà non è forse — a dispetto delle divergenze — tanto diverso. 188

La diversità tra Nathalie Sarraute e Robbe-Grillet sta piuttosto in ciò che li interessa, in ciò che cercano, in ciò che osservano. Nathalie Sarraute è ancora in forma spinta, estremistica, una scrittrice del periodo che abbiamo carat­ terizzato come quello della dissoluzione del personaggio. Le strutture globali del mondo sociale non la interessano molto, ella cerca dovunque l’umano autentico, il vissuto immediato, mentre Robbe-Grillet cerca anche lui l’umano, ma in quanto espressione esteriorizzata, in quanto realtà inserita in una struttura globale. Ma, una volta formulata questa differenza, le constata­ zioni cui essi arrivano mi sembrano molto simili. Cercan­ do il vissuto immediato, Nathalie Sarraute constata che questo vissuto non esiste piu nelle esteriorizzazioni che sono tutte, quasi sempre senza eccezione, non autentiche, distorte e deformate. Cosi, di fronte a questa estrema dis­ soluzione del personaggio, ella restringe l’universo dei suoi libri alla sola sfera in cui può ancora trovare la realtà che le sembra essenziale (benché, naturalmente, anche in questa sfera la trovi altrettanto deformata ed esasperata dall’im­ possibilità d’esteriorizzazione), ai sentimenti umani e al vissuto umano antecedenti ad ogni espressione, a ciò che ella chiama tropismi, la sottoconversazione, la sottocrea­ zione. In questo senso, e spero ch’ella non me ne voglia, Nathalie Sarraute mi sembra una scrittrice che esprime un aspetto essenziale della realtà contemporanea in una forma per la quale ella crea certo una modalità nuova, ma che è ancora quella degli scrittori della scomparsa del personag­ gio, Kafka, Musil, Joyce, cui d’altronde fa spessissimo rife­ rimento. Interessata principalmente dalla psicologia e dalle rela­ zioni interumane, Nathalie Sarraute non è vittima della il­ lusione reificante e serba coscienza del fatto che tutti gli aspetti, anche i piu falsi e privi di autenticità di tali re­ lazioni, quelli che soprattutto impediscono la comunica­ zione, derivano in ultima analisi da una degradazione del­ l’umano, dello psichico. Avremmo voluto poter aggiungere ch’ella si rende conto che la crescente autonomia degli og­ getti non è se non la manifestazione esterna di questa de­

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gradazione; ma sarebbe inesatto perché, accordando po­ chissimo interesse a tutto ciò che è esteriorizzazione, Na­ thalie Sarraute non registra il nuovo statuto degli oggetti nella vita sociale. Basta, a titolo d’esempio, scegliere le qua­ ranta pagine dedicate ad una maniglia di porta del Plane­ tario-, in nessun momento l’autrice concede la minima au­ tonomia a questa maniglia; tutto è immediatamente tra­ dotto in reazioni psichiche della vecchia, degli operai, del nipote, di suo padre, di sua madre e dei loro amici. La struttura essenziale del rapporto oggetto-individuo resta la stessa del romanzo classico. Nathalie Sarraute ha solo registrato le trasformazioni psichiche che formano il con­ tenuto di questa relazione; da questo punto di vista non ce differenza essenziale tra la "funzione all’interno dell’o­ pera” della maniglia di porta e quello di tutte le manife­ stazioni esterne degli uomini, quali ad esempio quello del­ lo scrittore celebre che ha scritto "un saggio su Husserl" o quello di Germaine Lemaire nell’episodio della libreria. Viceversa, Robbe-Grillet, che è tutto teso alle manifesta­ zioni esteriori della vita sociale, non registra il carattere essenzialmente umano e psichico delle relazioni che sono all’origine della reificazione e della crescente autonomia degli oggetti. Forse si potrebbero caratterizzare gli scrit­ ti dei due autori applicando al nuovo romanzo la distin­ zione lukäcsiana tra il romanzo dell’idealismo astratto im­ perniato sull’azione esterna dell’eroe e la sua inadeguatez­ za al mondo, e il romanzo psicologico della disillusione im­ perniato sull’impossibilità d’agire prodotta da una inade­ guatezza di tipo complementare. Occorre ancora sottoli­ neare che nell’uno e nell’altro caso, questi due tipi di una stessa struttura subiscono una modificazione dovuta alla scomparsa del personaggio*. Robbe-Grillet esprime questa stessa realtà della società contemporanea in una forma sostanzialmente nuova. Anche per lui la scomparsa del personaggio è un fatto 1 Un passo decisivo verso una letteratura realista, lo farebbe proba­ bilmente uno scrittore che riuscisse ad integrare i due aspetti della realtà registrati con tanta penetrazione da Nathalie Sarraute e Robbe-Grillet.

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acquisito, ma egli constata che il personaggio è già sosti­ tuito da un’altra realtà autonoma, che invece non interessa Nathalie Sarraute: l’universo reificato degli oggetti. E sic­ come anch’egli cerca — è un altro punto in comune tra i due scrittori — la realtà umana, osserva che questa, che non si può piu trovare nelle strutture globali in quanto realtà spontanea, immediatamente vissuta, si può trovare solo nel­ la misura in cui continua ad esprimersi nella struttura e nelle proprietà degli oggetti. Capite perché, da sociologo, io penso che nella nostra epoca, coi limiti che la contrazione dell’universo umano pone ad ogni creazione culturale, le opere di Nathalie Sar­ raute e di Robbe-Grillet siano fenomeni particolarmente importanti. Penso però che l’opera di Robbe-Grillet (e spe­ ro che neanche lui me ne vorrà) lo è forse meno per ciò ch’egli ha voluto metterci che per ciò che ci ha effettiva­ mente messo. Perché può darsi che nel quadro che abbiamo traccia­ to, il quadro dell’universo autonomo essenzialmente reale e umanamente estraneo delle cose, Robbe-Grillet abbia an­ cora cercato delle realtà psicologiche: il complesso d’Edipo ne Le gomme, un’ossessione ne 11 voyeur, un sentimento di gelosia nel romanzo che porta lo stesso titolo e forse una cura psicanalitica ne L'anno scorso a Marienbad. Ma la cosa importante mi sembra che queste intenzioni — sup­ ponendo che vi siano veramente state — non siano riuscite a incorporarsi nell’opera se non nella misura in cui pote­ vano legarsi ad una analisi ben altrimenti essenziale delle strutture globali della realtà sociale. Il complesso d’Edipo rimane un orpello esterno in Le gomme·, l’ossessione di Mathias, la gelosia del marito sono solo punti di partenza, materiali che permettono d’espri­ mere strutture altrimenti essenziali che avrebbero potuto essere altrettanto bene espresse muovendo da sentimenti di­ versi; i rapporti tra uomo e donna ne L'anno scorso a Marienbad diventano espressione della generalità dei rappor­ ti umani. Inoltre, a rischio di deludere la maggior parte dei critici che hanno concentrato la loro attenzione sui pro­ blemi formali dell’opera di Robbe-Grillet, dirò che leggen­

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do i suoi scritti ho avuto l’impressione che i problemi for­ mali, pur essendo importantissimi, non vi abbiano mai un carattere autonomo; Robbe-Grillet ha qualcosa da dire e come tutti i veri scrittori cerca istintivamente le forme piu adatte. Il contenuto dei suoi libri non può essere disgiunto dalla creazione né questa dall’insieme dell’opera. Si è mol­ to parlato dei problemi formali nei romanzi di RobbeGrillet, forse è ora di parlare del loro contenuto. Non si tratterà ovviamente di trovarvi un contenuto eso­ terico. La ricerca formale di Robbe-Grillet è un tentativo di rendere il contenuto il più manifesto, il piu accessibile che si possa, e se i critici e i lettori provano tanta difficoltà a coglierlo, non è colpa dello scrittore, ma delle abitudini mentali, dei sentimenti e giudizi precostituiti con cui la maggior parte di loro affronta la lettura. Robbe-Grillet ha cominciato a pubblicare nel 1953 con una specie di romanzo poliziesco intitolato L·? gomme. In questo libro egli conserva ancora in buona misura lo sche­ ma tradizionale del genere (un assassinio, d’altronde non riuscito, una inchiesta poliziesca, ecc.), all’interno del qua­ le si inserisce però un nuovo contenuto che porta natural­ mente con sé un certo numero di modifiche formali molto importanti. Ma mi sembra che sia questa disparità tra il contenuto nuovo e la forma ancora solo in parte rinno­ vata a indurre Robbe-Grillet a richiamare con tutta una serie di dettagli marginali quello che ha voluto dire. È tutto il problema delle allusioni al mito di Edipo che l’au­ tore moltiplica in modo piu o meno esteriore nel corpo stesso del libro (motivi delle tendine di una finestra, deco­ razioni di un camino, enigma della sfinge, il passaggio ri­ guardante la eventuale esistenza di un figlio della vittima, ecc.), per attirare l’attenzione del lettore sul fatto che non si tratta di un semplice romanzo poliziesco di tipo cor­ rente, ma di un libro il cui contenuto essenziale richiama la tragedia antica. Ben inteso, quelle allusioni sarebbero state inutili (e infatti non se ne trova piu traccia nelle suc­ cessive opere di Robbe-Grillet), se la forma del libro fos­ se stata adeguata al contenuto. In che consiste d’altronde la parentela che Robbe-Grillet vuol stabilire tra Le gomme

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e il mito di Edipo? In ultima analisi ci sembra molto de­ bole e perfino discutibile. Il libro non riprende certo il mito. È quasi certo che Daniel Dupont non è stato assassinato da suo figlio: in ogni caso, nulla nel libro rende plausibile una simile ipotesi. La parentela sta nel fatto che, in entram­ bi i casi, si tratta di una concatenazione di eventi che si svolge secondo un’inevitabile necessità e cui le intenzioni e i gesti degli uomini non possono mutar nulla. Tuttavia, dal punto di vista strutturale, la necessità della tragedia antica che risulta dal conflitto tra la volontà degli dèi e gli sforzi degli uomini che trasforma la vita umana in destino, ha assai poco in comune (e Robbe-Grillet, che in seguito rinuncerà a qualsiasi allusione a questa tragedia, se ne è probabilmente accorto anche lui) col processo meccanico e inevitabile che si svolge all’interno di un universo nel quale gli individui e la loro ricerca di libertà hanno per­ so ogni realtà e ogni importanza. Il contenuto dell’opera è proprio questa necessità mec­ canica e ineluttabile che governa i rapporti tra gli uomini, come i rapporti tra gli uomini e le cose, in un universo che assomiglia ad una macchina moderna dotata di mec­ canismi d’autoregolazione. Un’organizzazione clandestina antigovernativa ha deciso di uccidere ogni giorno un uomo e prende di mira un certo Daniel Dupont. Sfortunatamen­ te, e questo può succedere nel meccanismo piu perfetto, si verifica un incidente: Daniel Dupont ha acceso troppo pre­ sto la lampada nel suo studio; l’assassino, impaurito, sba­ glia mira e lo ferisce solo leggermente al braccio. Dupont, che si sa preso di mira e che ha importanti relazioni nel­ l’ambiente governativo, per proteggersi farà credere che l’assassino è riuscito nel suo intento e si nasconde per un po’, sperando cosi di sfuggire alla vigilanza dei suoi per­ secutori. Un detective è inviato a fare un’inchiesta su di un delitto che in realtà non è avvenuto. Parrebbe che qual­ cosa abbia turbato il carattere fatale e meccanico del pro­ cesso, che si sia verificata lina deviazione dalla linea normale. Ma è un’illusione: il processo è fatale e il meccanismo per­ fetto. Perché, per il semplice gioco degli eventi, senza che nessuno ne sia cosciente o lo voglia, il detective ucciderà

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la sedicente vittima, diventata cosi vittima reale, il che per­ metterà di proseguire l’inchiesta su di un assassinio real­ mente avvenuto. Quanto alla banda d’assassini, continue­ rà il suo lavoro senza neanche esser venuta a conoscenza dell’errore e l’indomani farà uccidere un’altra persona, Al­ bert Dupont. Un ultimo problema potrebbe porsi. Perché questo ti­ tolo, Le gomme, che ha un debole rapporto con l’azione, consistente nel fatto che diverse volte il detective Wallace entra in una libreria per comperar gomme. Mi pare che si tratti, come per le allusioni al mito d’Edipo, di un richia­ mo molto esteriore del contenuto del romanzo: a un li­ vello immediato, le autoregolazioni che cancellano il falli­ mento, a un livello piu generale il meccanismo di una so­ cietà che cancella ogni traccia di disordine vivente e di realtà dell’individuo. Questi stessi temi, ma ad un livello letterario incompa­ rabilmente piu elevato, si ritroveranno nel secondo roman­ zo dell’autore, quello che ha suscitato tra i critici le di­ scussioni piu vivaci: Il voyeur. Alcuni ricorderanno il pri­ mo violento e indignato articolo di E. Henriot in Le Mon­ de e la sua successiva ritrattazione, quando propose di in­ cludere il libro tra i dieci migliori da portare in vacanza. Il voyeur pone gli stessi problemi de Le gomme, ma a un livello molto più radicale che implica profonde trasforma­ zioni formali. Naturalmente sono solo queste ultime che hanno attirato l’attenzione dei critici, i quali, al livello del contenuto, hanno visto solo l’aneddoto, il resoconto di un semplice avvenimento insolito che li lasciava indifferenti o, al limite, li scandalizzava; e naturalmente, se non si par­ tisse dal contenuto che le giustifica e le rende necessarie, le modifiche "formali” potrebbero sembrare arbitrarie o ar­ tificiose. Pochi critici, ch’io sappia, hanno sollevato sia pu­ re solo il problema del titolo, che pure chiarisce il conte­ nuto del libro, per farlo oggetto della considerazione che meritava. Perché chi è il voyeur? È chiaro che la defini­ zione si applica molto parzialmente al commesso viaggia­ tore Mathias, che ha effettivamente commesso l’assassinio di cui il libro parla. Un critico ha osservato che la defini­

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zione si attaglierebbe molto di più al giovane Marek. Una obiezione importante si oppone però a questa interpreta­ zione: sarebbe difficile fare del giovane Marek il personag­ gio centrale del libro, Ma domandiamoci qual è il contenuto del libro e vedre­ mo che la risposta si impone da sé. Beninteso, non è la sem­ plice cronaca di un fatto singolare, nella fattispecie del­ l’assassinio di una ragazzina. Non ci sarebbe nessuna no­ vità rispetto al romanzo tradizionale. Al livello più immediato, l’autore ritrascrive la cronaca che il viaggiatore di commercio Mathias tenta di ricostrui­ re della sua dimora di ventiquattr’ore in un’isola dove si era recato a vendere degli orologi. Mathias, che in questo lasso di tempo ha ucciso una ragazzina, è ossessionato dal ricordo del suo delitto e dalla paura dell’arresto. Il suo rac­ conto è cosi subito caratterizzato da due elementi: da un lato il desiderio di dare una versione plausibile e non la­ cunosa del suo soggiorno nell’isola, eliminando qualsiasi allusione all’assassinio; d’altro lato, la paura d’essere sco­ perto e arrestato che si traduce nell’ossessione delle ma­ nette e di tutto ciò che gli ricorda "l’otto coricato” che, se­ condo lui, ne rappresenta la forma. Questa paura deforma la struttura intenzionale del rac­ conto, gli impedisce di seguire una traiettoria conforme all’intenzione iniziale e le riporta di continuo sia all’as­ sassinio della ragazzina che si tratta di camuffare sia a ta­ luni avvenimenti occorsi nell’infanzia di Mathias e che, nel vissuto personale di costui (Robbe-Grillet si serve qui in una certa misura della psicanalisi), sono connessi con l’as­ sassinio e gli conferiscono il suo significato psicologico. Questo contenuto spiega lo stile del libro e in particolare la continua fluttuazione all’interno di una sola e identica frase tra personaggi diversi e avvenimenti che si situano in epoche diverse. Il voyeur è dunque, al livello immediato, lo stesso Ma­ thias, perché il racconto non avviene nel momento in cui lui commette il delitto, ma più tardi, quand’egli cerca di costruire una versione della sua giornata nell’isola tale da eliminare ogni ricordo dell’assassinio, nonostante la sua

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memoria sia continuamente ricondotta sia al delitto sia ai vari avvenimenti e oggetti che gli sono connessi. La grande scoperta di Mathias, tuttavia, che avverrà gra­ datamente durante il racconto1, è che non solo gli è impos­ sibile nascondere un assassinio cui la sua ossessiva paura lo riconduce continuamente, ma soprattutto che il suo sforzo è superfluo, fondandosi su una rappresentazione comple­ tamente falsa della realtà sociale. Mathias comincia infat­ ti con lo scoprire che nell’isola ci sono due persone che sono state testimoni del delitto (la cosa è sicura almeno per una delle due e probabilissima per l’altra), ed entrambe si acca­ niscono a dimostrare l’inesattezza delle sue affermazioni ogni volta che esse tentano di mascherare il suo gesto. Que­ sta constatazione fa nascere in lui un’angoscia, però pas­ seggera, perché ben presto si accorge che se è vero che en­ trambi i testimoni si danno da fare per correggere le sue affermazioni, lo fanno solo per amore della verità e non hanno nessuna intenzione di denunciarlo: sono dei sempli­ ci voyeurs. Presto Mathias scoprirà che tutti gli abitanti del­ l’isola, che in questo romanzo come in tutte le opere d’ar­ te rappresentano non una fetta dell’universo globale, ma l’universo intero, potrebbero facilissimamente, con un mi­ nimo sforzo scoprire l’assassino, ma che non se ne interes­ sano più di quanto se ne interessino il giovane Marek o la piccola Maria. In fondo questo assassinio, come quello de Le gomme, è inserito nell’ordine delle cose e, nella misura in cui la ragazzina assassinata non assomigliava agli altri abitanti dell’isola e rappresentava un elemento di sponta­ neità e di disordine, la sua scomparsa rappresenta addirit­ tura per gli abitanti un sollievo2. 1 II racconto, contrariamente a ciò che spesso Robbe-Grillet dice dei propri romanzi, non si situa strettamente al livello del personaggio cen­ trale, ma, fino a un certo punto, al di sopra di lui, come in tutti i ro­ manzieri classici. 2 Forse qui c’è un ultimo elemento esterno sovrapposto al contenuto essenziale del romanzo, benché molto più strettamente legato al contenuto di quanto fossero le allusioni al mito di Edipo nel libro precedente. Ri­ spetto al problema della natura dell’universo umano immaginato da RobbeGrillet, universo che, come già abbiamo osservato, corrisponde molto da vicino all’essenza della società industriale occidentale, il fatto che la vit-

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Sicché l’universo è formato solo da voyeurs passivi che non hanno né l’intenzione né la possibilità di intervenire nella vita della società per trasformarla qualitativamente e per renderla più umana. Il solo individuo che abbia potuto pensare per un attimo che l’assassinio della ragazza era un’azione punibile e suscettibile di eliminarlo dalla vita sociale, era lo stesso Mathias che, alla fine del racconto, comprendendo il proprio errore, respinge le possibilità di fuga che gli si offrono e aspetta tranquillamente il mattino dopo per riprendere il battello che fa servizio regolare tra l’isola e il continente. È cosi che l’assassinio si integra nell’ordine universale caratterizzato ne Le gomme dall’autoregolazione che eli­ minava ogni possibilità di modificazione originata da un elemento imprevedibile del temperamento individuale, da una colpa individuale inaspettata e, ne II voyeur, dalla pas­ sività di tutti i componenti della società (v. App., p. 203). Spendiamo qualche parola (anche se forse è inutile) per evitare qualsiasi possibilità di malinteso. Il tema dei due romanzi, il venir meno di ogni importanza e significato dell’azione individuale, ne fa a mio modo di vedere due dei libri più realisti della letteratura romanzesca contem­ poranea. Qualche lettore o critico potrebbe però oppormi un argomento apparentemente dettato dal buon senso: non è vero che ogni volta che un assassino manca la sua vitti­ ma interviene un meccanismo sociale a correggere l’erro­ re, cosi come non è vero che quando un commesso viag­ giatore assassina una ragazza i vicini restano indifferenti e le autorità non si preoccupano di arrestarlo e di conse­ gnarlo alla giustizia. Le due obiezioni, da un punto di vista immediato, sono naturalmente fondate; ma il problema si pone ad un li­ vello molto piu radicale. Avvengono ogni giorno innume­ revoli delitti contro l’umanità che fanno parte dell’ordine sociale stesso, che sono ammessi o tollerati dalla legge della tima sia stata in una certa misura un essere marginale, estraneo, e che la sua eliminazione abbia tolto di mezzo un elemento di turbamento, rimane, per quanto importante, aneddotico.

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società e dalla struttura tipica dei suoi componenti. Un tempo, nelle forme sociali anteriori, l’esistenza di questi elementi inumani (basta pensare ai privilegi feudali o alle lettres de cachet) poteva e doveva, ad un certo stadio dello sviluppo, provocare un’indignazione tale nei componenti di certi gruppi sociali, e negli scrittori e pensatori che ser­ vivano loro da interpreti (basta pensare a Voltaire o a Lessing), che poteva sfociare in una trasformazione sociale intesa a rendere la loro sopravvivenza impossibile, tranne suscitare altre ingiustizie e altri costumi inumani, che avrebbero poi finito a loro volta per suscitare indignazione, e cosi via. Quel che constata Robbe-Grillet, ciò che fa l’argomento dei suoi due primi romanzi, è la grande trasformazione sociale e umana nata dalla comparsa di due fenomeni nuo­ vi e di capitale importanza, da un lato le autoregolazioni della società e d’altro lato la crescente passività, il caratte­ re di "voyeurs” che assumono mano a mano nella società moderna gli individui, la mancanza di partecipazione at­ tiva alla vita sociale, quel che, nella sua manifestazione più appariscente, i moderni sociologi chiamano depoliticizza­ zione ma che in fondo è un fenomeno molto più radicale di quanto si possa esprimere, in gradazione progressiva, con parole come: depoliticizzazione, desacralizzazione, di­ sumanizzazione, reificazione. Questa reificazione, ad un livello ancor più radicale, è il tema del terzo romanzo di Robbe-Grillet: La gelosia. La espressione stessa usata da Lukàcs indicava che il venir meno di ogni importanza e significato dell’azione degli in­ dividui1, la trasformazione in voyeurs, in esseri meramen­ te passivi, erano solo manifestazioni marginali di un feno­ meno fondamentale, quello appunto della reificazione, del­ la trasformazione degli esseri umani in cose, in guisa che diventa sempre più difficile distinguerli da queste. Ora, è a questo livello che Robbe-Grillet riprende l’analisi della so­ 1 Un economista moderno constatava lo stesso fenomeno ricordando che non ci sono più nella vita economica persone abbastanza importanti perché la loro morte sia registrata dalla Borsa.

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cietà contemporanea ne La gelosia. Il romanzo è scritto dal punto di vista di uno spettatore geloso, probabilmente il marito, che guarda attraverso una gelosia. Lo stesso titolo del romanzo dice che è impossibile in questo universo se­ parare il sentimento dall’oggetto. L’insieme del libro mo­ stra l’autonomia crescente degli oggetti che sono la sola concreta realtà e al di fuori dei quali le realtà umane e i sentimenti non possono avere nessuna attualità autonoma. La presenza del geloso è indicata solo dalla presenza di una terza sedia, di un terzo bicchiere, ecc. Diversi passaggi del romanzo affermano l’impossibilità di separare il fisico, il sapere, il sentimento dall’oggetto:

“Occorre uno sguardo al proprio piatto vuoto, ma sporco, per convincersi ch’ella non ha omesso di ser­ virsi... Ora il boy toglie i piatti. Cosi diventa impos­ sibile controllare di nuovo le tracce che macchiano quello di A... — o la loro mancanza, se ella non si fosse servita." Quel che però importa, più di simili dettagli, è la strut­ tura di un mondo nel quale gli oggetti hanno acquistato una realtà propria, autonoma, in cui gli uomini, lungi dal dominare quegli oggetti, sono ad essi assimilati, e in cui i sentimenti non esistono più se non nella misura in cui possono ancora manifestarsi attraverso la reificazione. Finché la discussione riguardava questi tre primi roman­ zi, Robbe-Grillet si dava da fare per sottolineare una diffe­ renza importante tra il suo mondo romanzesco e qualsiasi tentativo marxista di interpretarlo come una rivolta contro la disumanizzazione. I marxisti, diceva, sono gente che prende posizione. Io sono uno scrittore realista, obiettivo; creo un mondo immaginario, che non giudico, che non approvo né condanno, ma di cui registro l’esistenza in quanto realtà essenziale. D’altra parte questo rappresentava effettivamente l’ori­ ginalità di Robbe-Grillet all’interno di un divenire del ro­ manzo moderno che da parecchio aveva fatto della reifi­ cazione il fulcro della creazione artistica. Kafka, Sartre 199

ne La nausea, Camus ne Lo straniero conservavano ancora delle prospettive umanistiche, esplicite o implicite, che fa­ cevano chiaramente di questi libri opere dell’assenza. Il mondo freddo di Robbe-Grillet respingeva talmente in se­ condo piano la constatazione dell’assenza, al livello del­ l’implicito, ch’essa restava appena visibile al critico che cercava di trovare la significazione globale del suo universo. Con II labirinto, l’ultimo romanzo di Robbe-Grillet fino ad oggi pubblicato, il giudizio umano sull’universo che Robbe-Grillet descrive penetra per la prima volta nell’ope­ ra dello scrittore. Dalla prima all’ultima pagina, il libro è dominato dal sentimento d’angoscia. È l’elemento nuovo che s’aggiunge ai beni e ai mezzi formali che Robbe-Gril­ let aveva già scoperti e utilizzati nelle opere precedenti. È in questo senso che questo libro ci interessa piu come tap­ pa, come anello di una catena tesa verso il futuro che per la sua estetica. Robbe-Grillet in tutte le sue opere si era mostrato scrittore troppo radicale per accontentarsi di una presenza umana ridotta all’angoscia, tema diventato qua­ si banale e cui egli attribuisce a stento un significato nuo­ vo inserendolo nell’universo vuoto dei suoi libri preceden­ ti. Cosi pure, nella sua recente opera che non è più un li­ bro, ma un film, ILanno scorso a Marienbad, egli ha ag­ giunto all’angoscia l’altra sua faccia, la sola che consente di attribuire alla realtà umana nel mondo contemporaneo la sua dimensione globale: la speranza. Non è che RobbeGrillet sia diventato ottimista nei confronti dei valori che animano quest’opera, ed è certo che nella società attuale l’ottimismo non sarebbe che una facile menzogna a buon mercato, ma in questa società come in tutte le altre, quando si pone il problema dell’esistenza umana autentica, esso ap­ pare subito come il problema della natura del tempo indi­ viduale e storico. I primi tre romanzi di Robbe-Grillet esprimevano tra l’altro il carattere reificato del suo universo con l’eliminazione di qualsiasi dato temporale. La gelosia, che è tra questi libri il piu radicale, si situa in un presente continuo; quattro capitoli su sette cominciano con la pa­ rola “adesso”. Una delle modalità di introduzione del tem­ po in un mondo atemporale era naturalmente l’angoscia.

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Ma, come abbiamo già detto, la descrizione dell’angoscia sarebbe stata incompleta finché non le si fosse aggiunto l’altro aspetto del vissuto temporale di cui essa non è che il rovescio negativo: la speranza (reale e giustificata, oppure illusoria e delusa). È questo il tema che è passato inosser­ vato dalla maggior parte dei critici, benché, proprio come nei romanzi, non occorra cercarlo a profondità straordi­ narie e difficili da raggiungere, ma al semplice livello della storia come è raccontata con immediatezza ne L’anno scorso a Marienbad. Il castello barocco di Marienbad, tra­ sposto nel cinema, è lo stesso mondo del vuoto e della mor­ te in cui non può mai accadere nulla, in cui ci si dedica a giochi che presuppongono la possibilità per il giocatore di perdere, ma in cui alcuni giocatori vincono e altri perdo­ no sempre (benché questi ultimi non siano presenti nel film)' e in cui, infine, due esseri sollevano ancora il pro­ blema della speranza. La speranza e l’angoscia sono solo i due aspetti soggettivi di una realtà il cui aspetto ontologico è il tempo, e ciò non solo nella sua dimensione futura, ma in tutte le sue dimensioni e, implicitamente, in quella del passato. Ai livello del buon senso, il problema di sapere se qualcosa è o non è accaduto l’anno scorso è un problema di concordanza degli indizi, delle testimonianze e dei ri­ cordi; nel mondo di Robbe-Grillet, il problema di sapere se i due protagonisti si sono davvero incontrati o se invece l’anno scorso a Marienbad si sono verificati solo degli pseu­ doavvenimenti privi di significato e di temporalità, simili a tutti quelli che si verificano ad ogni momento nel castello, non può essere risolto con nessun ricordo e con nessuna te­ stimonianza. Né una fotografia, né un tacco rotto, né il ricordo comune di un freddo eccezionale possono avere importanza decisiva. Il fatto che l’uomo e la donna si siano o non si siano incontrati l’anno scorso a Marienbad dipen­ de unicamente dal carattere fondato o illusorio della spe­ ranza che sopravvive nella loro coscienza e la cui realtà 1 I giocatori che perdono sono solo la contropartita ai quello che vince e non hanno realtà propria. In ciò Robbe-Grillet ha avuto ragione, perché quelli che perdono davvero nella vita non potevano entrare in que­ sto film senza distruggerne l’unità.

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rappresenta il contenuto del film. Se essi riescono non solo a lasciare il castello, ma a trovare altrove (nel film: in giardino) una vita autentica, una vita in cui gli uomini e i sentimenti umani possano esistere realmente, in cui po­ trebbero verificarsi degli avvenimenti, allora è certo che si sono incontrati a Marienbad. In caso contrario, né le foto­ grafie, né le testimonianze piu irrefutabili modificheranno minimamente il fatto che l’incontro non c’è stato. E RobbeGrillet è uno scrittore troppo radicale per ignorare che la risposta al problema del film non dipende solo dalla volontà dei due protagonisti, ma in primo luogo dalla natura del castello e del giardino. È ciò che i sociologi hanno scoper­ to da parecchio, affermando il carattere storico e sociale del significato obiettivo della vita affettiva e intellettuale degli individui. E anche qui Robbe-Grillet non è solo uno scrit­ tore robusto, ma anche (può darsi che sia la stessa cosa) as­ solutamente onesto. La risposta che ci dà due volte alla fine del film e anche all’inizio (per quanto lo spettatore che vede il film per la prima volta non ci presti attenzione) è inequivocabile. I due protagonisti hanno fatto ciò che al­ l’interno della società in cui viviamo gli uomini possono fa­ re di meglio: sono partiti per un mondo diverso, in cui si recavano a cercare la vita, pur non potendosi rappresen­ tare chiaramente (lo dicono essi stessi nel film) in che cosa essa potesse consistere. Si sono recati nel giardino, speran­ do che sarebbe stato per loro un mondo nuovo, un mondo che consentisse agli uomini d’essere se stessi; ma non ci hanno trovato nulla, perché il giardino, come il castello, è solo un cimitero: "Il parco dell'albergo era una specie di giardino alla francese, senza alberi, senza fiori, senza vegeta­ zione alcuna... la ghiaia, la pietra, il marmo, la linea retta vi segnavano spazi rigidi, superfici senza mistero. Sembrava, dapprima, impossibile perdercisi... dappri­ ma... lungo i viali rettilinei, tra le statue dai gesti con­ gelati e le lastre di granito dove voi stavate già per perdervi, per sempre, nella notte tranquilla, sola con

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L’opera di Robbe-Grillet pone naturalmente molti altri problemi propriamente estetici e concernenti in primo luo­ go le modificazioni che il contenuto ha fatto subire alla forma romanzesca. Ci sembra tuttavia che questa sempli­ ce analisi del contenuto piu immediato degli scritti di Na­ thalie Sarraute e di Robbe-Grillet ed il film di quest’ulti­ mo, come l’abbiamo abbozzata, basti già a mostrare che se si attribuisce alla parola realismo il significato di creazione di un mondo la cui struttura è analoga alla struttura es­ senziale della realtà sociale in seno alla quale l’opera è stata scritta, Nathalie Sarraute e Robbe-Grillet sono da annove­ rare tra gli scrittori più radicalmente realisti della lettera­ tura francese contemporanea.

APPENDICE

Claude Ollier ç Jean Catrysse, professore all’Università di Caracas, indipendentemente l’uno dall’altro, hanno attirato la nostra attenzione sul fatto che il testo di Robbe-Grillet, invece di affermare che Mathias ha effettivamente ucciso la ragazza, suggerisce al contrario il dubbio e la possibilità di un delitto puramente immaginario. Questa osservazione ci pare giustificata, e noi oggi pensiamo che, nella misura in cui Mathias prende progressivamente coscienza della passività del mondo, la realtà del suo atto tenda — come quella di ogni atto — a sparire, e l’atto si trasformi in sogno, allucinazione o immaginazione pura. Mathias, che ha iniziato uccidendo la ragazza, finisce con il non averla più uccisa, diven­ tando egli stesso un semplice voyeur. D’altra parte, partendo da un’analisi de L’immortelle, Anne Olivier ha attirato la nostra attenzione sulla possibilità di una interpretazione diversa e complementare del Voyeur, della Jalousie e de L’annèé dernière à Marienbad. In effetti è possibile che, in opere come il suo ultimo film, Robbe-Grillet abbia voluto opporre una coscienza orientata verso l’imma­ ginario che vede, e che vive, a un mondo in cui gli uomini, diventati oggetti, Pignorino e l’eliminino (e dove questa coscienza rimane al mas­ simo accessibile ai bambini). La validità eventuale — che ci sembra probabile — di una tale ana­ lisi, che forse corrisponderebbe anche alle intenzioni coscienti dello scrit­ tore, non solo ci pare compatibile con la realtà delle strutture che ab­ biamo cercato di mettere in luce, ma anche chiarificatrice e complemen­ tare in rapporto ad esse. Robbe-Grillet ha colto coscientemente o incoscientemente, ma in ogni

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caso con realismo, i problemi, la natura, le leggi di un insieme che ab­ braccia i personaggi umani (l’antico eroe problematico ridotto alla condi­ zione di voyeur dell’immaginario) e un mondo omologo alla realtà in­ dustriale contemporanea — insieme che costituirebbe l’universo delle sue opere. Anne Olivier si propone di studiare l’opera di Robbe-Grillet in questa prospettiva.

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L’IMMORTELLE1

Dopo aver subito un insuccesso al momento della sua ap­ parizione, l’ultimo film di Robbe-Griilet, L’Immortelle1, ope­ ra interessante tanto in se stessa che per il posto che occupa nell’evoluzione intellettuale di uno scrittore particolarmente importante, è stato poi proiettato per una settimana di se­ guito in una piccola sala cinematografica del quartiere la­ tino. Questo film, molto chiaro, è nondimeno difficilmente ac­ cessibile al pubblico medio delle sale cinematografiche, ciò che spiega il suo insuccesso quasi totale; ma speriamo che questo insuccesso sia provvisorio, poiché non è escluso che il film divenga un giorno — pur senza aver raggiunto il grosso pubblico — un classico dei cineclub. Dato il poco spazio che abbiamo a disposizione, lasceremo ora da parte l’aspetto tecnico ed estetico de UImmortelle, per parlare soprattutto del suo contenuto e del posto che occupa nell’opera del romanziere e del regista. Su di un piano immediato, il film racconta una storia molto semplice. Un francese, professore di liceo in Turchia (noi lo chiameremo il narratore), si ricorda in modo fram­ mentario e apparentemente disordinato un’avventura dal carattere più o meno sado-masochista che egli ha avuto, in questo paese di cui ignora la lingua, con una donna di cui non ha mai conosciuto né il vero nome, né l’indirizzo, né i 1 Questo testo è stato scritto in collaborazione con Anne Olivier. 3 Di cui è insieme il regista e lo sceneggiatore.

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dati sociali. Entrata come una meteora nella sua vita, la don­ na sparisce bruscamente in seguito. Dopo una ricerca lunga e infruttuosa, l'eroe l’incontra di colpo all’angolo di una strada, spaventata, essa lo fa salire sulla sua macchina e tutti e due partono per una lunga passeggiata notturna. Brusca­ mente, a metà della strada, appare uno dei due cani di un personaggio enigmatico che noi abbiamo visto durante il film ; sconvolta, la donna butta la vettura contro un albero e si uccide. Più tardi, il narratore cerca di capire cosa è avve­ nuto, di capire quale sia il proprio posto in un mondo in­ comprensibile in cui si parla “turco", i rapporti tra Laïlé e questo mondo, e finisce per riprendere la stessa automobile riti ovata presso un venditore di rottami, rifare lo stesso cam­ mino ed uccidersi nelle stesse circostanze, nello stesso punto in cui aveva avuto luogo il primo incidente. Raccontato in modo un po’ schematico, l’aneddoto può sembrare banale, ma su questa trama Robbe-Grillet ha ri­ preso una volta ancora i problemi che dominano tutta la sua opera e che strutturavano già L’année dernière à Marienbad, vale a dire i problemi del rapporto tra il soggetto, il mondo disumanizzato della reificazione e le possibilità della spe­ ranza umana. In questo film, Lai'lé o Leila (il suo nome non è sicuro e capita che essa lo cambi più volte) ha una funzione molto precisa nella struttura globale costituita da questi tre ele­ menti. Essa è l’immaginario, ad un tempo reale e irreale, che permetta all’uomo di realizzarsi in quanto tale, di af­ fermarsi, e — benché la cosa non sia detta esplicitamente nel film — di volere qualcosa, di sperare. Ma Robbe-Grillet è3 il contrario di un romantico; egli sa che la speranza, l’a­ pertura sull’immaginario, non sono indipendenti dal mondo della quotidianità né gli sono semplicemente estranei. C’è tra Laïlé e il mondo una relazione essenziale, tanto enigma­ tica e incomprensibile quanto questo stesso mondo è intera­ mente privo di significato. Di questa relazione Robbe-Grillet ci indica solo gli elementi pertinenti. Il mondo è ostile all’im­ maginario, esso si presenta sotto la forma di due enormi cani 3

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Almeno sino a questo punto.

minacciosi che accompagnano un grosso borghese muto ed enigmatico; dello sguardo fisso di pescatore muto anch’egli, sulla riva del mare, dell’attitudine ostile degli operai nella ca­ va, che creano un’atmosfera di minaccia permanente. Nep­ pure per un istante è dubbio che questo mondo sia ostile a Laïlé. Ma anche lei mette a sua volta tutto il mondo in que­ stione. Quando è presente, le case e i bastioni diventano delle rovine, le moschee delle scenografie in cartapesta, i cimiteri o i sotterranei, delle menzogne per turisti; in breve, il mon­ do perde la sua realtà. All’inizio del film si sa che il mondo e l’immaginario si escludono mutuamente; che essi alla lun­ ga sono incompatibili e che, pertanto, il mondo non è sop­ portabile che grazie alla presenza di Laïlé, di questa Laïlé, simbolizzata dal cane che appare in mezzo alla strada, che il mondo finirà per distruggere. Ma Laïlé è veramente uccisa fisicamente? E chi l’ha uc­ cisa? Nel film un’altra donna (la serva), che le assomiglia e che porta lo stesso nome, si è integrata al mondo per di­ ventare un semplice oggetto; una terza donna sembra terro­ rizzata e non può né manifestarsi né esprimersi; quando essa parlerà, sarà per dire al narratore che la morte di Laïlé non era stata accidentale, che costei è stata uccisa e che egli ne è l’assassino. Ed è ciò che spingerà il narratore al suicidio. In realtà tutte queste affermazioni in apparenza contrad­ dittorie sono vere e si completano. Laïlé è stata uccisa dal narratore che non è riuscito a salvaguardare la propria pre­ senza nel mondo, ma essa è stata uccisa anche dal mondo, che non permette all’uomo di realizzarsi. Essa è stata ancora uccisa ogni volta dal mondo nel triplice modo dell’assassinio (con l’accidente provocato), dell’integrazione alla sua obiet­ tività e dell’oppressione. Ci sarebbe molto da dire su tante scene isolate, ricche di significati, ma questo studio richiederebbe un lavoro piu approfondito. Vediamo che Robbe-Grillet ha voluto questa volta sottolineare espressamente che il mondo reificato e inu­ mano, nel quale né Laïlé né il narratore riescono a vivere, abbraccia tutte le classi sociali; ed è quello che egli ha espres­ so inizialmente in un momento molto importante del film, quello della sparizione di Laïlé, in una scena dove gli operai 207

la guardano con la stessa ostilità con cui i borghesi guardano i cani, scena seguita immediatamente da un’altra dove degli uomini del popolo stanno trasportando una bara da qualche parte, probabilmente verso un falso cimitero. Il film ha d’altra parte una struttura regolare e dialettica insieme. Si compone di tre parti (si potrebbe senza sforzo dire: la tesi, l’antitesi e la sintesi) pressappoco uguali. La prima parla dell’apparizione di Lailé che distrugge il mondo e lo rende irreale; quando ella é là, le mura sono in rovina, i palazzi distrutti, il pescatore è assente, la sua sedia sulle rive del fiume non c’è, l’uomo non ha piu i suoi cani. Talvolta, è vero, nel corso di un ricevimento, degli uomini le passano davanti e la cancellano, ma essa riappare altrove e continua la propria azione “derealizzante”. Nella seconda parte, Laide scomparsa, il processo si rove­ scia; il mondo riprende la propria realtà, alle mura in rovina si sostituiscono delle fortificazioni intatte, gli uomini comin­ ciano a parlare, ma le loro risposte alle domande del narra­ tore sono vaghe e evasive, essi evitano chiaramente di par­ larne; è possibile che essi non abbiano mai conosciuto l’esi­ stenza di Laide ed è possibile che essi non abbiano visto l’op­ posizione tra costei e il mondo; ed è possibile infine che essi provino un certo disagio a evocare il suo ricordo. Nella terza parte, infine, dopo la morte di Laide, il narra­ tore cerca di comprendere cosa sia avvenuto, la propria si­ tuazione nell’insieme, e rivivere nel ricordo le scene prece­ denti, ma in modo diverso. Mentre nella prima parte non vi era stato alcun contatto tra Laide e il mondo (al massimo, dormendo sulla spiaggia lei si era spaventata per l’abbaiare di un cane udito in sogno), evocando invece i propri ricordi il narratore li trasforma e li corregge. Ora Lailé e il mondo sono strettamente legati: Lailé si trova permanentemente minacciata dal mondo. Il sotterraneo assume l’aspetto di una torre di prigione, l’uomo ritrova i suoi cani in una scena dove questi non lo accompagnavano affatto durante la pri­ ma parte, e ben presto il narratore rivedrà Lailé prigioniera dietro una gabbia da dove l’abbaiare dei cani la farà sparire. Comprendendo infine cosa è avvenuto (cosa avviene ancora tutti i giorni), e cioè che il mondo non può tollerare l’esi­ 208

stenza di Laïlé, il narratore seguirà colei a cui non può ri­ nunciare, quella che ha dato titolo al film, L’Immortelle. Ciascuna delle tre parti termina con una scena particolar­ mente eloquente e significativa che dovrebbe aiutare a com­ prendere meglio. La sparizione di Laïlé che chiude la pri­ ma parte è segnata dallo sguardo ostile degli operai e dalla bara che viene trasportata; la sua riapparizione è segnata dalla passeggiata in mezzo a un mondo di cui essa ha paura perché ne conosce il carattere minaccioso, e dall’incidente fi­ nale. La terza parte infine, durante la quale il narratore arriva lentamente a comprendere cosa sia avvenuto e a com­ prendere la propria responsabilità, termina col suo suicidio.4 Per la prima volta appare il suicidio nell’opera di RobbeGrillet. Quale sarà l’evoluzione successiva dello scrittore? Il romanticismo, l’affermazione che l’essenza può abbandonare il mondo e situarsi nell’immaginario’, soluzione verso la qua­ le si sono orientati molti scrittori importanti di oggi? La tragedia a cui si è già vicini ne L'Immortelle? II ritor­ no al realismo contemplativo dei suoi primi romanzi, che si accontentavano di registrare implacabilmente la struttura di una società reificata o infine6 una presa di posizione combat­ tiva esplicitamente umanistica e critica? Un fatto è certo: con L’Immortelle, Robbe-Grillet si trova ad una svolta. Ac­ contentiamoci per ora di constatare un’analogia che lo lega a uno scrittore molto diverso, le cui preoccupazioni sembrano avere tutta un’altra natura. Nella sua ultima opera teatrale, I sequestrati di Altona, Sartre, ponendo i problemi morali e politici che da anni dominano il suo teatro, arriva anch’egli per la prima volta al suicidio del protagonista7. Anche là, l’opera indica una svolta, anche là si pone, sia pure in modo diverso, il problema di una evoluzione successiva. * In realtà la parola suicidio è forse troppo forte, perché il perso­ naggio non cerca la morte, ma cerca di raggiungere Laïlé che è, ci dice Robbe-Grillet, "l’Immortelle”. 5 Se non il contenuto, almeno il titolo del film, L'Immortelle, sem­ bra andare in questa direzione. 6 Ciò che ci pare poco probabile. ’ La morte di Hugo alla fine delle Mani sporche non è un suicidio, ma il risultato di una presa di posizione morale incompatibile con la vita.

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Per il sociologo e per lo storico, il fatto che l’evoluzione della società contemporanea abbia portato due scrittori cosi diversi e persino opposti alla stessa "impasse”, o meglio, a due "impasses” cosi vicine, appare assai significativo.

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IL METODO STRUTTURALISTA GENETICO NELLA STORIA DELLA LETTERATURA

L’analisi strutturalistica genetica nella storia della let­ teratura non è che l’applicazione a questo campo specifico di un metodo generale che riteniamo il solo valido nelle scienze dell’uomo. Vale a dire, consideriamo la creazione culturale come una sfera privilegiata, si, ma che ha la stessa natura di tutte le altre sfere del comportamento uma­ no e, come tale, è sottoposta alle stesse leggi e offre all’in­ dagine scientifica difficoltà se non identiche, per lo meno analoghe. In questo articolo, cercheremo di* esporre alcuni principi fondamentali dello strutturalismo genetico applicato alle scienze dell’uomo in genere e alla critica letteraria in parti­ colare, e alcune considerazioni riguardanti l’analogia e la opposizione tra le due grandi scuole complementari di cri­ tica letteraria che si rifanno a questo metodo: il marxismo e la psicoanalisi. Lo strutturalismo genetico parte dall’ipotesi che qualsiasi comportamento umano è un tentativo di dare una risposta significativa ad una situazione specifica e per ciò stesso tende a creare un equilibrio tra il soggetto dell’azione e l’oggetto cui l’azione si riferisce, il mondo circostante. Que­ sta tendenza all’equilibrio ha però sempre un carattere la­ bile e provvisorio, nella misura in cui ogni equilibrio piu o meno soddisfacente tra le strutture mentali del soggetto e il mondo esteriore si risolve in una situazione all’interno della quale il comportamento degli uomini trasforma il mondo e in cui questa trasformazione rende il vecchio 211

equilibrio insufficiente a generare una tendenza ad un equi­ librio nuovo che a sua volta sarà superato. Cosi le realtà umane si presentano come processi a due facce: destrutturazione di strutturazioni antiche e struttu­ razione di totalità nuove atte a produrre equilibri che pos­ sono soddisfare le nuove esigenze dei gruppi sociali che li elaborano. Da questo punto di vista, lo studio scientifico dei fatti umani, siano economici, sociali, politici o culturali implica 10 sforzo di mettere in luce questi processi evidenziando gli equilibri che essi mettono in crisi e quelli verso cui puntano. Detto questo, basta accingersi a una ricerca con­ creta per imbattersi in tutta una serie di problemi: ed ac­ cenneremo ad alcuni tra i più importanti. Innanzitutto, si tratta di sapere chi, in realtà, è il soggetto del pensiero e dell’azione. Sono possibili tre tipi di ri­ sposta che comportano atteggiamenti essenzialmente diver­ si. Si può infatti, ed è il caso delle posizioni empiriste, razionaliste e ultimamente fenomenologiche, vedere questo soggetto ne\Vindividuo·, si può anche, ed è il caso di alcuni tipi di pensiero romantico, ridurre l’individuo ad un sem­ plice epifenomeno e vedere nella collettività il solo sogget­ to reale e autentico; infine, ed è il caso del pensiero dialet­ tico, hegeliano e soprattutto marxista, si può ammettere, con il romanticismo, la collettività come soggetto reale, sen­ za tuttavia dimenticare che questa collettività non è altro che un tessuto complesso di relazioni interindividuali e che occorre sempre precisare la struttura di questo tessuto e 11 posto che vi occupano gli individui che appaiono mani­ festamente come i soggetti se non ultimi per lo meno im­ mediati del comportamento studiato. Lasciando da parte la posizione romantica, orientata verso il misticismo, che nega ogni realtà ed autonomia all’individuo nella misura in cui pensa che costui possa e debba identificarsi integralmente con l'insieme, può porsi seriamente il problema di sapere perché riferire in primo luogo l’opera al gruppo sociale e non all’individuo che l’ha scritta, tanto piu che se la prospettiva dialettica non nega l’importanza dell’individuo, le posizioni raziona212

liste, empiriste o fenomenologiche non negano nemmeno la realtà dell’ambiente sociale, a patto di scorgervi solo un condizionamento esterno, vale a dire una realtà la cui azione sull’individuo ha un carattere causale'. La risposta è semplice: quando si sforza di cogliere l’o­ pera in ciò che ha di specificamente culturale (letterario, filosofico, artistico), l’indagine che la rapporta unicamente o in primo luogo al suo autore può, allo stato attuale delle possibilità di indagine empirica, dar conto, nel migliore dei casi, della sua unità interna e della relazione tra l’insieme e le sue parti; ma non può in nessun caso stabilire in modo positivo una relazione dello stesso tipo tra l’opera e il suo creatore. Su questo piano, se si assume l’individuo come soggetto, la maggior parte dell’opera studiata rimane acci­ dentale ed è impossibile andare oltre il livello delle rifles­ sioni più o meno intelligenti e ingegnose. Abbiamo già .'etto infatti che la struttura psicologica è una realtà trcppo complessa perché si possa analizzarla alla luce di qu:sto o quel gruppo di testimonianze concer­ nenti un individuo che non è piu in vita, o un autore che non si conosce direttamente, o persino basandosi sulla co­ noscenza intensiva o empirica di una persona cui si è le­ gati da rapporti di amicizia più o meno stretti. In breve, nessuna indagine psicologica può rendere con­ to del fatto che Racine ha scritto proprio il complesso dei suoi drammi e delle sue tragedie e spiegare perché non avrebbe potuto in nessun caso scrivere i drammi di Corneil­ le o di Molière2. Ora, per quanto curioso ciò possa sembrare, quando si tratta di studiare i grandi prodotti della cultura, l’indagine 1 In questa prospettiva, uno studio sociologico può, al limite, contri­ buire a spiegare la genesi dell’opera, ma non può in alcun modo aiutare a comprenderla. * Però, se è impossibile inserire nella struttura biografica il contenuto c la forma, in breve la struttura propriamente letteraria, filosofica o arti­ stica delle grandi opere culturali, una scuola psicologica di tipo strutturalista genetico, la psicoanalisi, è riuscita in qualche misura ad evidenziare accanto a questa essenza culturale specifica una struttura e un significato individuale di questi libri, ch’essa ritiene di poter inserire nel divenire biografico. Alla fine di questo articolo, riprenderemo brevemente in esa­ me le possibilità e i limiti di tale inserimento.

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sociologica arriva piu facilmente a evidenziare dei legami necessari riferendoli a delle unità collettive la cui struttu­ razione è molto piu facile da mettere in luce. Certo, queste unità sono degli intrecci complessi di rela­ zioni interindividuali, ma la complessità della psicologia degli individui deriva dal fatto che ciascuno di loro appar­ tiene ad un numero più o meno grande di gruppi diversi (familiari, professionali, nazionali, di amicizia, di classi sociali, ecc.) e che ciascuno di questi gruppi agisce sulla sua coscienza, contribuendo cosi a produrre una struttura uni­ ca, complessa e relativamente incoerente, mentre vicever­ sa, a partire dal momento che esaminiamo un numero ab­ bastanza grande di individui appartenenti ad un solo e identico gruppo sociale, l’azione degli altri vari gruppi so­ ciali cui appartiene ciascuno d’essi e gli elementi psicolo­ gici di questa appartenenza si annullano reciprocamente e ci troviamo di fronte ad una struttura molto più sempli­ ce e più coerente1. Su questa linea, le relazioni tra l’opera veramente im­ portante e il gruppo sociale che — grazie alla mediazione del creatore — si trova ad essere, in ultima analisi, il vero soggetto della creazione, sono dello stesso ordine delle rela­ zioni tra gli elementi dell’opera e il suo insieme. Nell’uno e nell’altro caso, ci troviamo di fronte a relazioni tra gli ele­ menti di una struttura comprensiva e la totalità di questa, relazioni di tipo comprensivo ed esplicativo a un tempo. È per questo che, se non è del tutto assurdo immaginare che se l’individuo Racine avesse ricevuto un’educazione diver­ sa o fosse vissuto in un altro ambiente avrebbe potuto scri­ vere drammi del tipo di quelli di Corneille o di Molière, 1 La statistica empirica conosce d’altronde conseguenze analoghe dello stesso fattore: è praticamente impossibile prevedere senza un largo mar­ gine d’errore che Pietro, Giacomo o Giovanni si sposeranno, avranno un incidente di macchina o moriranno l’anno prossimo, ma, invece, non è difficile prevedere con un minimo margine d’errore il numero di matri­ moni, incidenti, morti che si verificheranno in Francia in questa o quella settimana dell’anno. Detto questo, pur trattandosi di fenomeni apparentati, differenze notevoli esistono tra queste previsioni statistiche, concernenti una realtà di cui non si sono liberate le strutture, e una analisi strutturalista genetica.

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è assolutamente inimmaginabile che la nobiltà di toga del XVII secolo potesse elaborare un’ideologia epicurea o ra­ dicalmente ottimista. Vale a dire che, nella misura in cui la scienza è uno sfor­ zo per mettere in evidenza delle relazioni necessarie tra i fenomeni, i tentativi di mettere in rapporto le opere cul­ turali con i gruppi sociali in quanto soggetti creatori si ri­ velano — al livello attuale delle nostre conoscenze — mol­ to più operativi di tutti i tentativi di considerare l’indivi­ duo come vero soggetto della creazione. Però, una volta accettata questa posizione, insorgono due problemi. Il primo, di determinare qual è l’ordine di rela­ zioni tra il gruppo e l’opera, il secondo, di sapere quali sono le opere e quali i gruppi tra cui si possono stabilire delle relazioni di questo tipo. Per il primo punto, lo strutturalismo genetico (e piu pre­ cisamente l’opera di Georg Lukàcs) rappresenta una vera svolta nella sociologia della letteratura. Tutte le altre scuo­ le di sociologia letteraria, vecchie o contemporanee, cerca­ no infatti di istituire relazioni tra i contenuti delle opere letterarie e quelli della coscienza collettiva. Questo proce­ dimento, che può qualche volta dar luogo a dei risultati nella misura in cui simili transfert esistono realmente, dà luogo però a due gravi inconvenienti: a) la ripresa da parte dello scrittore degli elementi di contenuto della coscienza collettiva o, semplicemente, del­ l’aspetto empirico immediato della realtà sociale che lo cir­ conda non è quasi mai sistematica o generale e si trova solo in certi punti della sua opera. Vale a dire che nella misura in cui lo studio sociologico si indirizza esclusivamente o principalmente alla ricerca di corrispondenze di contenuto, si lascia sfuggire l’unità dell’opera, e ciò significa il suo carattere specificamente letterario·, b) la riproduzione nell’opera dell’aspetto immediato del­ la realtà sociale e della coscienza collettiva è, in genere, tanto piu frequente quanto meno lo scrittore ha forza crea­ tiva e si accontenta di descrivere o di raccontare senza tra­ sposizioni la sua esperienza personale. Per questo, la sociologia letteraria orientata al contenuto 215

ha spesso un carattere aneddotico e si rivela operativa ed efficace soprattutto quando studia opere di livello medio e movimenti letterari, ma perde progressivamente interesse via via che accosta le grandi creazioni. A questo proposito, lo strutturalismo genetico ha rappre­ sentato un cambiamento d’orientamento totale, poiché la sua ipotesi fondamentale è appunto che il carattere col­ lettivo della creazione letteraria deriva dal fatto che le strutture dell’universo dell’opera sono omologhe alle strut­ ture mentali di determinati gruppi sociali o in rapporto intelligibile con esse, mentre sul piano dei contenuti, vale a dire della creazione d’universi immaginari governati da quelle strutture, lo scrittore gode di una libertà totale. L’utilizzazione dell’aspetto immediato della sua esperien­ za individuale per creare quegli universi immaginari è cer­ to frequente e possibile ma per nulla essenziale e la sua evidenziazione non rappresenta che un compito utile ma secondario dell’analisi letteraria. In realtà, la relazione tra il gruppo creatore e l’opera si presenta per lo piu secondo questo modello: il gruppo rappresenta un processo di strutturazione che elabora nella coscienza dei suoi componenti tendenze affettive, intellet­ tuali e pratiche ad una risposta coerente ai problemi sol­ levati dai loro rapporti con la natura e dai loro rapporti in­ terumani. Tranne eccezioni, queste tendenze restano però lontane dalla effettiva coerenza, nella misura in cui, come l’abbiamo detto prima, sono controbilanciate nella coscien­ za degli individui dall’appartenenza di ciascuno d’essi a pa­ recchi altri gruppi sociali. Cosi pure, le categorie mentali non esistono nel gruppo se non sotto forma di tendenze piu o meno progredite ad una coerenza che abbiamo chiamato concezione del mondo, concezione che il gruppo non crea, ma di cui elabora (ed è il solo che possa elaborarli) i dati costitutivi e l’energia che consente di raggrupparli. Il grande scrittore è appunto l’individuo eccezionale che riesce a creare entro una certa sfera, quella dell’opera letteraria (o pittorica, concettuale, musicale, ecc.), un universo immaginario, coerente o quasi totalmente coerente, la cui struttura corrisponde a quella 216

cui tende il complesso del gruppo; quanto all’opera, è tanto piu mediocre o tanto piu importante quanto piu la sua struttura è lontana o vicina alla coerenza rigorosa. È evidente la differenza notevole che separa la sociolo­ gia dei contenuti dalla sociologia strutturalista. La prima scorge nell’opera un riflesso della coscienza collettiva, la seconda vi scorge invece uno degli elementi costitutivi più importanti della coscienza collettiva, quello che permette ai membri del gruppo di prender coscienza di ciò che pen­ savano, sentivano e facevano senza conoscerne obiettiva­ mente il significato. Si capisce perché la sociologia dei con­ tenuti si dimostri più efficace quando è applicata ad opere di livello medio, mentre la sociologia letteraria e struttu­ ralista genetica si dimostra tale quando si tratta di studia­ re i capolavori della letteratura mondiale. Occorre anche sollevare un problema di epistemologia: se tutti i gruppi umani agiscono sulla coscienza, sull’affet­ tività e sul comportamento dei loro membri, solo però l’a­ zione di certi gruppi particolari e specifici è di natura tale da favorire la creazione culturale. È dunque particolar­ mente importante, per la ricerca pratica, delimitare questi gruppi per sapere in che direzione orientare le ricerche. La stessa natura delle grandi opere culturali mostra quali de­ vono essere le loro caratteristiche. Queste opere rappre­ sentano infatti, l’abbiamo già detto, l’espressione di con­ cezioni del mondo, vale a dire di fette di realtà immagina­ ria o concettuale, strutturate in guisa che, senza che occor­ ra completare sostanzialmente la loro struttura, si possano sviluppare in universi globali. Cioè, questa strutturazione non si può riferire che ai gruppi la cui coscienza tende ad una visione globale del­ l’uomo. Dal punto di vista della ricerca empirica è certo che, per un lunghissimo periodo, le classi sociali sono state i soli gruppi di questo genere, per quanto si possa porre il pro­ blema di sapere se questa affermazione vale anche per le società non europee, per l’antichità greco-romana e per i periodi che l’hanno preceduta e forse anche per certi set­ tori della società contemporanea; ma una volta di più, te­ 217

niamo a sottolinearlo, si tratta di un problema di ricerca empirica positiva e non di simpatie o di antipatie ideolo­ giche come si trovano alla base di troppe teorie sociologi­ che. Comunque sia, l’asserzione dell’esistenza di un legame tra le grandi opere culturali e quelle dei gruppi sociali orientati ad una ristrutturazione globale della società, o verso la sua conservazione, elimina d’acchito ogni tenta­ tivo di collegarle ad un certo numero di altri gruppi so­ ciali, particolarmente alla nazione, alle generazioni, alle province, alla famiglia, per citare solo i più importanti. Non che questi gruppi non agiscano sulla coscienza dei loro componenti e, all’occorrenza, sulla coscienza dello scrittore, ma possono spiegare solo alcuni elementi mar­ ginali dell’opera e non la sua struttura essenziale'. I dati empirici corroborano d’altronde questa affermazione. L’ap­ partenenza alla società francese del XVII secolo non può né spiegare né far capire l’opera di Pascal, di Descartes, di Gassendi, o di Racine, di Corneille, di Molière, nella mi­ sura stessa in cui queste opere esprimono concezioni di­ verse e addirittura opposte, benché i loro autori apparten­ gano tutti a quella società. In cambio, questa comune ap­ partenenza, può spiegare taluni elementi formali comuni ai tre pensatori e ai tre scrittori. Dopo queste considerazioni preliminari arriviamo al pro­ blema piu importante di ogni ricerca sociologica di tipo strutturalista genetico: quello del taglio dell’oggetto. Quan­ do si tratta di sociologia della vita economica, sociale o po­ litica, il problema è particolarmente difficile e assolutamen­ te primordiale. Infatti, non si possono studiare le strutture se non si è delimitato in modo piu o meno rigoroso l’insie­ me dei dati empirici immediati che ne fanno parte, e in­ versamente, non si possono delimitare questi dati empirici se non nella misura in cui già si possiede una ipotesi piu o meno elaborata circa la struttura che ne fa l’unità. 1 I lavori sociologia di questo genere si pongono sullo stesso piano della sociologia del contenuto che non può, neanch’essa, dar conto se non di taluni elementi marginali e secondari delle opere.

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Dal punto di vista della logica formale, la soluzione può sembrare impossibile: in pratica, come in tutti i casi del genere, alla soluzione si arriva per approssimazioni succes­ sive. Si parte dall’ipotesi che si possa raggruppare un certo numero di fatti in un’unità strutturale; si tenta di stabili­ re tra questi fatti il maggior numero di relazioni compren­ sive ed esplicative cercando di inglobarvi altri fatti che sembrano estranei alla struttura che si vuole evidenzia­ re; si giunge cosi ad eliminare alcuni dei fatti da cui si era partiti, ad aggiungerne altri e a modificare l’ipotesi ini­ ziale; si ripete l’operazione per approssimazioni successi­ ve, finché si arriva (questa è la meta ideale, che si raggiun­ ge in misura maggiore o minore, a seconda dei casi) ad una ipotesi strutturale in grado di spiegare un insieme di fatti perfettamente coerente1. Quando si studia la creazione culturale, ci si trova, è vero, in una situazione privilegiata per ciò che riguarda l’ipotesi di partenza. Infatti è probabile che le grandi ope­ re letterarie, artistiche o filosofiche rappresentino strutture significative coerenti, in guisa che il primo taglio dell’og­ getto si trova per cosi dire preventivamente dato. Bisogna anche mettere in guardia contro la tentazione di fidarsi troppo assolutisticamente di questa supposizione. Accade in effetto che l’opera contenga elementi eterogenei che bi­ sognerà appunto distinguere dalla sua unità essenziale. Per giunta, se l’ipotesi dell’unità dell’opera possiede grande ve­ rosimiglianza per le opere veramente importanti conside­ 1 Ad esempio, si può partire dall’ipotesi dell’esistenza di una struttura significativa come sarebbe la dittatura; s’arriverebbe cosi a raggruppare un insieme di fenomeni, come, per esempio, i regimi politici nei quali il go­ verno dispone di poteri assoluti; ma se si cerca di spiegare con una sola ipotesi strutturale la genesi di tutti questi regimi, ci si accorge ben presto che la dittatura non è una struttura significativa e che si debbono distin­ guere gruppi di dittature che hanno nature e significati diversi; mentre, per esempio, i concetti di dittatura rivoluzionaria o, invece, di dittatura bonapartista postrivoluzionaria sembrano rappresentare concetti operativi. Cosi pure, ogni tentativo di interpretazione unitaria delle opere di Pa­ scal (e ce n’è parecchi) fallisce di fronte al fatto che le sue due opere più importanti, Le provinciali e I pensieri, esprimono concezioni essenzial­ mente diverse. Se le si vuol comprendere, bisogna considerarle espressioni di due strutture distinte benché, per certi aspetti, apparentate.

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rate isolatamente, la verosimiglianza diminuisce assai quan­ do si tratta dell’insieme di scritti di un solo scrittore. Per questo, nella ricerca concreta, occorre partire dal­ l’analisi di ciascuna delle opere dello scrittore, studiandole nel loro ordine cronologico, nella misura in cui quest’ordi­ ne si può ricostruire. Lo studio consentirà di effettuare raggruppamenti prov­ visori di opere muovendo dai quali si tratterà di cercare nella vita intellettuale, politica, sociale ed economica del­ l’epoca raggruppamenti sociali strutturati, entro i quali si potranno integrare, in quanto elementi parziali, le opere studiate, stabilendo tra esse e l’insieme relazioni intelli­ gibili e, nei casi più favorevoli, omologie. Il progresso di un’analisi strutturalista genetica sta nella delimitazione di gruppi di dati empirici che rappresentano strutture, totalità relative' e nel fatto di inserirli poi come elementi in altre strutture piu vaste ma della stessa natura, e cosi via. Questo metodo offre, tra gli altri, il duplice vantaggio di concepire in partenza l’insieme dei fatti umani in modo unitario e, poi, di essere insieme comprensivo ed esplica­ tivo, perché la messa in luce di una struttura significativa rappresenta un processo di comprensione mentre il suo in­ serimento in una struttura piu vasta è, rispetto ad essa, un processo di spiegazione. Ad esempio: mettere in luce la struttura tragica dei pensieri di Pascal e del teatro raciniano è un procedimento di comprensione; inserirli nel gian­ senismo estremista liberando la struttura del medesimo è 1 Su questo piano, soprattutto nella sociologia della cultura, è utile servirsi di un parapetto esterno e quantitativo. Se si tratta di interpretare uno scritto, va da sé che si possono avere diverse interpretazioni che spie­ gano il sessanta o settanta per cento del testo. Per questo non si deve con­ siderare il risultato come una conferma scientifica. In cambio, è raro che si possano trovare due interpretazioni diverse che integrino l’ottanta o il novanta per cento del testo e l’ipotesi che vi riesce ha ogni probabilità di essere valida. La probabilità aumenta molto se si riesce ad inserire la struttura liberata nell’analisi genetica all’interno di una totalità pili vasta, se si riesce ad utilizzarla in modo efficace per spiegare altri testi cui non si era pensato e soprattutto se, come è accaduto nel nostro studio sulla tragedia del XVII secolo, si riesce a mettere in luce ed anche a prevedere un certo numero di fatti ignorati dagli specialisti e dagli storici.

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un procedimento di comprensione rispetto al giansenismo, ma un procedimento di spiegazione rispetto agli scritti di Pascal e di Racine; inserire il giansenismo estremista nel­ la storia globale del giansenismo, è spiegare il primo e com­ prendere il secondo. Inserire il giansenismo in quanto mo­ vimento di espressione ideologica nella storia della nobil­ tà di toga del XVII secolo, è spiegare il giansenismo e com­ prendere questa nobiltà. Inserire la storia della nobiltà di toga nella storia globale della società francese è spiegarla comprendendo quest’ultima e cosi via. Spiegazione e comprensione non sono dunque due pro­ cessi intellettuali diversi ma un solo e identico processo rap­ portato a due quadri di riferimento. Sottolineiamo infine che secondo questa concezione — secondo cui il passaggio dall’apparenza all’essenza, dal dato empirico parziale e astratto al suo significato concreto e obiettivo, avviene per inserimento in totalità relative, strut­ turate e significative — ogni fatto umano può, anzi deve possedere un certo numero di significati concreti, diversi secondo il numero di strutture in cui può essere inserito in modo positivo e operativo. Cosi, per esempio, se il gianse­ nismo dev’essere inserito, grazie alle mediazioni già indi­ cate, nella società francese del XVII secolo nella quale rap­ presenta una corrente ideologica retrograda e reazionaria che si oppone alle forze storiche progressiste incarnate in primo luogo dalla borghesia e dalla monarchia e, sul piano ideologico, dal razionalismo cartesiano, è del pari legitti­ mo e necessario inserirlo nella struttura globale della so­ cietà occidentale quale s’è sviluppata fino ai nostri giorni, e in questa prospettiva esso diventa progressista nella misu­ ra in cui rappresenta uno dei primi passi nel senso del su­ peramento del razionalismo cartesiano verso il pensiero dia­ lettico. Beninteso i due significati non sono né esclusivi né contraddittori. In questo stesso ordine di idee, vorremmo soffermarci, per concludere, su due problemi particolarmente impor­ tanti allo stato attuale della critica letteraria: a) quello dell’inserimento delle opere letterarie in due totalità reali e complementari che possono fornire elemen­ 221

ti di comprensione e di spiegazione, cioè l’individuo e il gruppo e, b) quindi, il problema della funzione della creazione culturale nella vita degli uomini. Sul primo punto esistono oggi due scuole scientifiche di tipo strutturalista genetico che corrispondono ai tentativi di inserire le opere nelle strutture collettive e nella biogra­ fia individuale: il marxismo e la psicoanalisi. Tralasciando le difficoltà già accennate di liberare strut­ ture individuali, cominciamo con il considerare queste due scuole sul piano metodologico. Entrambe si propongono di comprendere e di spiegare i fatti umani con l’inserimento nelle totalità strutturali rispettivamente della vita colletti­ va e della biografia individuale. Rappresentano anche metodi apparentati e complemen­ tari, e i risultati di ciascuna delle due dovrebbero, almeno apparentemente, rafforzare e completare quelli dell’altra. Sfortunatamente, come strutturalismo genetico, la psicoa­ nalisi, almeno nella formulazione di Freud1, non è abba­ stanza conseguente ed è troppo viziata dallo scientismo che dominava la vita universitaria alla fine del XIX e al prin­ cipio del XX secolo. Ciò si rivela soprattutto in due punti fondamentali. In primo luogo, nelle spiegazioni freudiane, la dimen­ sione temporale dell’avvenire è assente in modo radicale. In ciò subendo l’influenza dello scientismo determinista della sua epoca, Freud trascura del tutto le forze positive di equilibrio che agiscono in ogni struttura umana, indivi­ duale o collettiva; spiegare per lui vuol dire tornare alle esperienze dell’infanzia, alle forze istintive represse o op­ presse, e trascura completamente la funzione positiva che potrebbero avere la coscienza e il rapporto con la realtà12. 1 Conosciamo troppo poco i suoi sviluppi ulteriori per poterne parlare. 2 Certo, si sarebbe tentati, di spiegare questa caratteristica dell’opera di Freud col fatto ch’egli era medico e aveva soprattutto studiato dei mala­ ti, cioè degli esseri nei quali le forze del passato e i blocchi predominano sulle forze positive tese all’equilibrio e all’avvenire. Purtroppo, la critica che abbiamo formulata vale anche per gli studi filosofici e sociologici di Freud. La parola "futuro” si trova nel titolo di uno solo dei suoi scritti, e

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in secondo luogo, l’individuo, per Freud, è un soggetto assoluto per il quale gli altri uomini possono essere solo oggetti di soddisfazione o di frustrazione. Questo fatto è forse la radice della mancanza di futuro di cui abbiam par­ lato. Certo sarebbe sbagliato ridurre in modo troppo angusto la libido freudiana alla sfera sessuale: questo non significa però ch’essa non sia sempre individuale e che, nella conce­ zione che Freud ha dell’umanità, il soggetto collettivo e la soddisfazione che un’azione collettiva può dare all’indivi­ duo non facciano completamente difetto. Si potrebbe insistere a lungo, col sussidio di parecchi esempi concreti, sulle distorsioni che queste concezioni ge­ nerano nelle analisi freudiane dei fatti culturali e storici. Da questo punto di vista, il marxismo ci sembra incompa­ rabilmente più avanti, nella misura in cui integra non so­ lo il futuro come fattore esplicativo ma anche il significato individuale dei fatti umani accanto al loro significato col­ lettivo. Infine, sul piano che qui ci interessa, che è quello delle opere culturali e, particolarmente, letterarie, ci sembra in­ contestabile che queste ultime possano essere validamente integrate in strutture significative di tipo individuale e col­ lettivo. Soltanto, e ciò va da sé, i significati reali e validi che possono liberare queste due integrazioni sono di natura diversa e insieme complementare. L’integrazione delle ope­ re nella biografia individuale non può infatti rivelare che il loro significato individuale e la loro relazione coi proble­ mi biografici e psichici dell’autore. Vale a dire che, qualun­ que sia la validità e il rigore scientifico delle ricerche di que­ sto tipo, esse debbono necessariamente situare l’opera fuo­ ri del suo contesto culturale ed estetico, per porla sullo stesso livello dei sintomi individuali di questo o di quel malato curato dallo psicoanalista. Supponendo — senza concederlo — che si possano vali­ date caratteristico per il complesso della sua opera, questo libro si intitola Futuro di un’illusione. Il suo contenuto prova d’altronde che questo fu­ turo non esiste.

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damente rapportare su piano individuale gli scritti di Pa­ scal ai rapporti con sua sorella oppure quelli di Kleist ai rapporti con sua sorella e suo padre, si sarà messo in evi­ denza un significato affettivo e biografico di questi libri, ma non si sarà toccato né sfiorato il loro significato filoso­ fico o letterario. Migliaia e decine di migliaia di individui hanno certamente avuto relazioni analoghe coi membri della loro famiglia e non vediamo in che misura uno studio psicoanalitico di questi sintomi potrebbe minimamente spie­ gare la differenza di natura tra gli scritti di questo o quel pazzo e l pensieri o 11 Principe di Homburg. La sola utilità, d’altronde assai modesta, delle analisi psi­ cologiche e psicoanalitiche ai fini della critica letteraria, ci sembra la possibilità di spiegare perché in una certa situa­ zione concreta nella quale un gruppo sociale ha elaborato una concezione del mondo, un certo individuo ha potuto, grazie alla sua biografia individuale, essere particolarmen­ te in grado di creare un universo concettuale e immagina­ rio, nella misura in cui, tra l’altro, poteva trovarci anche una soddisfazione derivata o sublimata delle proprie aspi­ razioni incoscienti1. Ciò significa che è solo muovendo da un’analisi storico-sociologica che il significato filosofico dei Pensieri, il significato letterario ed estetico del teatro di Kleist e la genesi degli uni e degli altri possono essere com­ presi in quanto fatti culturali. Quanto agli studi psicologici, possono tutt’al più aiutarci a comprendere perché, tra centinaia di giansenisti, furono proprio Racine e Pascal che riuscirono ad esprimere la visione tragica su piano letterario e filosofico senza tutta­ via fornire alcuna indicazione (tranne qualche dettaglio secondario e trascurabile) circa la natura, il contenuto e il significato di questa espressione. Per concludere, ci rimane da affrontare schematicamen1 Inversamente, lo studio sociologico non può fornire alcuna indicazione sul significato biografico individuale delle opere e non può fornire allo psicoanalista se non informazioni relativamente secondarie circa le forme di soddisfazione reali o immaginarie delle aspirazioni individuali che, in una data epoca e in una data società, le strutture collettive favori­ scono o impongono.

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te un problema di particolare importanza: quello della funzione individuale (giochi, sogni, sintomi morbosi, su­ blimazioni) e collettiva (valori letterari, culturali e artisti­ ci) dell’immaginario in rapporto alle strutture significative umane che presentano tutte le caratteristiche comuni d’es­ sere relazioni dinamiche e strutturate tra un soggetto (col­ lettivo o individuale) e un ambiente. Il problema è complesso, poco studiato e, terminando questo scritto, non possiamo che formulare un’ipotesi vaga e provvisoria. Ci sembra infatti che, sul piano psichico, l’azione del soggetto si presenti sempre sotto forma di un insieme d’aspirazioni, di tendenze, di desideri di cui la realtà impedisce la soddisfazione integrale. Marx e Lukàcs su piano collettivo, Piaget su piano indi­ viduale, hanno studiato da vicino le modificazioni che le difficoltà e gli ostacoli suscitati dall’oggetto introducono nella natura stessa di questi desideri e di queste aspirazio­ ni. Freud ha mostrato che, su piano individuale, i desideri, anche modificati, non possono appagarsi di una soddisfa­ zione parziale e accettare tranquillamente la repressione. Il suo grande merito è di aver scoperto che la relazione ra­ zionale con la realtà esige come complemento una soddi­ sfazione immaginaria, che può assumere le piu diverse forme, dalle strutture adattate del lapsus e del sogno fino alle strutture disadattate dell’alienazione e della follia. Può darsi che la funzione della cultura sia, ad onta di tutte le differenze (non crediamo che esista un inconscio collettivo), analoga. I gruppi umani non possono agire ra­ zionalmente sulla realtà e adattarsi alle frustrazioni e alle soddisfazioni parziali che derivano da questa azione e da­ gli ostacoli contro cui essa cozza, se non nella misura in cui l’azione razionale e trasformatrice s’accompagna a sod­ disfazioni integrali sul piano della creazione concettuale o immaginaria. Bisogna anche aggiungere che se, su piano individuale, gli istinti repressi sussistono nell’inconscio e tendono ad una soddisfazione simbolica che è sempre possesso dell'og­ getto, le tendenze collettive spesso implicite ma non inco­

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scienti mirano non ad un possesso ma alla realizzazione di una coerenza. La creazione culturale compensa cosi il miscuglio e i com­ promessi che la realtà impone ai soggetti e facilita il loro inserimento nel mondo reale, il che è forse la base psico­ logica della catarsi. Un’ipotesi di questo tipo, che integrasse senza difficoltà ciò che vi è di valido nelle analisi freudiane e negli studi marxisti sull’arte e sulla creazione culturale, potrebbe chia­ rire sia la parentela — spessissimo presagita da parecchi teorici — sia la differenza di natura che non per ciò smette di esistere tra — da un lato — il gioco, il sogno e anche certe forme di immaginazione morbosa e — d’altro lato — le grandi creazioni letterarie, artistiche e persino filosofiche.

Maggio 1964

L’ipotesi formulata nel primo saggio di questo volume ci porta ad aggiungere alcune considerazioni agli scritti metodologici (che sino a questo momento abbiamo pubbli­ cato) riguardanti la sociologia della cultura, e in particolare a questo lavoro. Si dà in effetti il caso che il rapporto tra l’opera e la struttura sociale cui essa si riferisce sia molto più comples­ so nella società capitalistica, soprattutto per ciò che concer­ ne la forma letteraria che si riferisce al settore economico di questa società, cioè il romanzo, di quanto non fosse per altre creazioni letterarie e culturali prese in esame nelle nostre precedenti indagini. Per queste ultime creazioni letterarie e culturali, le no­ stre ricerche ci hanno portati a formulare un’ipotesi; che l’opera si situi al punto di incontro tra le forme più alte delle tendenze alla coerenza proprie della coscienza collet­ tiva, e le forme piu alte di unità e di coerenza della co­ scienza individuale del creatore. Le opere culturali importanti potevano probabilmente avere un carattere critico, e anche d’opposizione, nei con­ fronti della società globale, nella misura in cui si riferivano

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a un gruppo sociale tendente a un simile atteggiamento cri­ tico e d’opposizione nei confronti di questa società. Asso­ dato questo, la creazione culturale non era però meno co­ stantemente fondata su di una stretta coincidenza tra la struttura e i valori della coscienza collettiva e la struttura e i valori dell’opera. Questa situazione si fa comunque assai piu complessa nella società che produce per il mercato e praticamente nel­ la società capitalistica, nella quale l’esistenza e lo sviluppo di un settore economico hanno appunto come conseguen­ za una tendenza alla scomparsa e, per lo meno, a una ridu­ zione alla condizione di semplice riflesso, della coscienza collettiva. In questo caso, l’opera letteraria non potrebbe più fon­ darsi sulla coincidenza assoluta o quasi assoluta con questa coscienza collettiva e si situa invece in un diverso rapporto dialettico con la classe cui si riferisce. Per ciò che attiene al romanzo tradizionale a eroe pro­ blematico, abbiamo già mostrato che l’omologia si limita alla struttura globale dell’universo descritto nel romanzo e ai valori dell’individuo, dell’autonomia e dello sviluppo del­ la personalità, che corrispondono alla struttura dello scam­ bio e ai valori espliciti del bberabsmo. È proprio in nome soltanto di questi valori espliciti che ancora strutturano la coscienza della borghesia nei suoi periodi di ascesa e ulte­ riormente liberali (mentre questa stessa coscienza riduce all’implicito tutti i valori superindividuali), che il romanzie­ re si oppone a una società e a un gruppo sociale che neces­ sariamente negano nella pratica i valori che affermano esplicitamente. Cosi il romanzo a eroe problematico è, per la sua stessa struttura, critico e realista: constata e afferma l’impossibilità di basare un autentico sviluppo della perso­ nalità su qualcosa di diverso dai valori superindividuali di cui la società, creata dalla borghesia, ha appunto soppres­ so qualsiasi espressione autentica e manifesta. Notiamo in­ cidentalmente che, tutto sommato, ciò porta — come ov­ vio con alcune eccezioni — a una rottura con la filosofia individualista che, nelle varie forme (razionalista, empiri­ sta e sintetica nella filosofia dei lumi), accetta e assume 227

l’universo costituito dalle coscienze individuali e autonome di cui il romanzo mette proprio in dubbio l’autenticità. Aggiungiamo anche che questa complessa strutturazione dei rapporti tra società e creazione letteraria è forse resa possibile da una società che afferma esplicitamente il va­ lore della coscienza individuale critica indipendente da ogni attacco esterno e che per ciò stesso ha potuto aumentare il grado di autonomia di questa società1. In seguito, la succes­ siva evoluzione, con le due maggiori svolte che abbiamo citate nel primo saggio di questo libro, cioè: a) il passaggio all’economia dei monopoli e dei trusts e, su piano letterario, al romanzo della dissoluzione del per­ sonaggio e b) lo sviluppo del capitalismo d’organizzazione e della società dei consumi, e la nascita del nuovo romanzo e di un teatro imperniato sull’assenza e suH’impossibilità di comu­ nicare, modifica ancora fino a un certo punto il rapporto che ci interessa, perché le concomitanti scomparse dell’ideologia individualista e liberale nel romanzo sopprimono il prin­ cipale elemento comune che ancora sussisteva tra la co­ scienza collettiva e la creazione letteraria, accentuando il carattere d’opposizione e critico di quest’ultima. In questa seconda fase della storia della società borghe­ se, fase che i marxisti hanno definita crisi del capitalismo e ch’era caratterizzata dall'esistenza di labili e precari equi­ libri, periodicamente restaurati mercé crisi sociali e politi­ che estremamente violente e ravvicinate (prima e seconda guerra mondiale, rivoluzione russa, crisi rivoluzionarie fra il 1917 e il 1923 in Europa, fascismo italiano, crisi eco­ nomica di enorme portata tra il 1929 e il 1933, nazionalso­ cialismo tedesco), il pensiero filosofico, che abbandona anch’esso il valore incontestato della coscienza individuale au­ tonoma che si fonda sui concetti di limite, d’angoscia e di morte, raggiunge con l’esistenzialismo il livello piu alto 1 Una situazione particolarmente complessa può verificarsi, per esem­ pio, quando l’atteggiamento critico e l’opposizione dell’individuo alla men­ talità collettiva globale costituiscono di per sé valori esaltati da alcuni settori di questa mentalità.

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toccato dalla creazione letteraria. Il rapporto tra i romanzi di Kafka e il pensiero esistenzialista è stato spesso sottoli­ neato e, in Francia, Sartre e Camus sono filosofi e scritto­ ri al tempo stesso. Infine, nel periodo contemporaneo, la rinascita da un la­ to di un razionalismo astorico e non individualista imper­ niato sull’idea di strutture permanenti e invariabili, e d’altro lato l’apparizione delle piu recenti forme d’avanguardia letteraria creano una situazione complessa e difficile da formulare prima d’avere proceduto a un’approfondita ana­ lisi di entrambi i settori della realtà. Tuttavia vogliamo sottolineare che, dal punto di vista della creazione letteraria, il fenomeno piu importante ci sembra la scomparsa di questo strato, teoricamente univer­ sale, di fatto molto piu limitato (e ulteriormente ridotto nell’epoca imperialista rispetto all’epoca del capitalismo li­ berale), di individui che partecipano attivamente e in mo­ do responsabile alla vita economica, sociale e politica, e quindi alla vita culturale. Le società dei consumi hanno notevolmente aumentato la diffusione delle opere culturali grazie a quelli che i socio­ logi chiamano mass media (radio, televisione, cinema), cui recentemente s’è aggiunto il libro tascabile1. Ma la natura della lettura dei libri e dell’audizione delle opere teatrali si è sostanzialmente modificata, essendo evidente che è del tutto diverso leggere un libro o ascoltare un dramma ac­ cettandoli o rifiutandoli, ma in ogni caso tenendo viva la discussione e la comunicazione intellettuale col testo o con lo spettacolo, dal rimanere allo stadio della consumazione passiva, della distrazione e dell’ozio. Anche qui, essendo scomparso lo strato sociale che par­ tecipava piu attivamente all’elaborazione di una coscienza collettiva, lo scrittore si trova di fronte a una società che consuma una molto maggiore quantità di beni di quanti se ne consumassero in passato e, tra gli altri beni, le sue 1 Che, come abbiamo già detto altrove, rappresenta una sorta di enci­ clopedia senza valori propri e caratteristici, la cui comparsa ci sembra omologa alla rinascita d’un reazionalismo non individualista.

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opere; una società che in questo modo garantisce ad al­ cuni scrittori privilegiati un livello di vita particolarmente elevato, ma che non li sa piu aiutare, se non molto debol­ mente, a livello della creazione. Per chiarire questi problemi bisognerebbe avviare un certo numero di ricerche empiriche, che appaiono partico­ larmente urgenti, soprattutto sulla natura della lettura e della partecipazione allo spettacolo (è significativo che Proust parli sempre di ascoltare la Berma, mentre oggi per lo più si dice che si vede un grande attore) e anche sui rapporti tra i creatori e il gruppo relativamente ristretto di indivi­ dui che, nelle società odierne, partecipano alle decisioni in campo economico, sociale e politico. Per il momento, abbiamo voluto formulare queste poche considerazioni molto più per sollevare alcuni problemi che per darvi delle soluzioni*.

1 Abbiamo sviluppato in modo un po’ meno schematico queste idee in un testo che sarà pubblicato dall’U.N.E.S.C.O., come schema prepara­ torio a un’inchiesta sui valori e sulle nuove espressioni della creazione artistica.

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GENET

Tra gli esteti, i critici e gli storici della letteratura, la so­ ciologia era considerata un approccio valido, ma al quale si riconosceva soltanto un valore periferico e un’importanza se­ condaria come metodo di ricerca. Ora, grazie alla diffusione delle opere giovanili di Georg Lukacs e alla comprensione della dialettica come strutturalismo genetico, e grazie anche alle opere psicologiche ed epistemolo­ giche di Jean Piaget, si è elaborato un modo nuovo per abbor­ dare le opere culturali, e in particolare gli scritti letterari. Que­ sto modo rappresenta una vera e propria rivoluzione. La sociologia letteraria tradizionale, che d’altronde continua a dominare in grandissima parte l’insegnamento universitario, si sforzava di stabilire dei rapporti tra il contenuto dell’opera letteraria e quello della coscienza collettiva, vale a dire i modi di pensare e di comportarsi degli uomini nella vita di tutti i giorni. Il risultato cui essa approdava era che questi rapporti erano sempre più numerosi e la sociologia letteraria tanto piu efficace quanto meno immaginazione creativa aveva usato l’au­ tore degli scritti presi in esame e quanto più s’era accontentato di raccontare le sue esperienze riducendo al minimo la loro trasposizione. Inoltre, questo tipo di ricerca, in virtù del metodo stesso, doveva rompere l’unità dell’opera, interessandosi soprat­ tutto di quel che in essa era mera riproduzione della realtà empirica e della vita quotidiana. In breve, tanto più feconda era questa sociologia quanto più mediocri le opere prese in esame. Per giunta, ciò eh’essa cercava in queste opere era più il documento che la letteratura. Nulla di strano se, in queste condizioni, la grande maggio­ ranza di coloro che si interessavano di letteratura considera­ rono questo tipo di ricerche, nel migliore dei casi, come con­

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tributi ausiliari, di maggiore o minore utilità quando non li rifiutavano totalmente. La sociologia strutturalista genetica parte però da premes­ se diverse, anzi opposte, e ne vogliamo citare cinque tra le piu importanti: a) il rapporto essenziale tra la vita sociale e la creazione letteraria non riguarda, secondo questa sociologia, il conte­ nuto di queste due aree della realtà umana, ma solo le strut­ ture mentali, quelle che si potrebbero definire le categorie che organizzano al tempo stesso la coscienza empirica di un certo gruppo sociale e l’universo immaginario creato dallo scrittore; b) l’esperienza di un solo individuo è troppo breve e li­ mitata per poter creare una simile struttura mentale; questa struttura può risultare solo dalle attività congiunte di un con­ siderevole numero di individui che si trovino in una situa­ zione analoga, vale a dire che rappresentino un gruppo sociale privilegiato, individui che abbiano vissuto a lungo e intensa­ mente un insieme di problemi e che si siano sforzati di tro­ vare ad essi una soluzione indicativa. Cioè, le strutture men­ tali o, per usare una parola più astratta, le strutture catego­ riali significative non sono fenomeni individuali ma sociali; c) il rapporto già menzionato tra la struttura della co­ scienza empirica d’un gruppo sociale e quella che regge l’u­ niverso dell’opera costituisce, nei casi più favorevoli del ri­ cercatore, una omologia più o meno rigorosa ma anche spes­ so un puro rapporto significativo. Può dunque accadere, e per lo più accade, che contenuti del tutto eterogenei e persino opposti siano strutturalmente omologhi o si trovino in un rapporto comprensivo sul piano delle strutture categoriali. Un universo immaginario, apparentemente del tutto estraneo al­ l’esperienza empirica, per esempio l’universo di un racconto di fate, può essere rigorosamente omologo, nella sua struttura, all’esperienza d’un determinato gruppo sociale o, per lo meno, legato ad essa in modo significativo. Non vi è più contraddi­ zione tra l’esistenza d’uno stretto rapporto tra creazione let­ teraria e realtà sociale e storica, e una molto potente imma­ ginazione creatrice; d) i capolavori della creazione letteraria possono non solo essere studiati in questa prospettiva sociologica come le opere di medio valore, ma si rivelano addirittura particolarmente accessibili a uno studio del genere. D’altra parte, le strutture categoriali di cui si occupa questo genere di sociologia lette­

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raria costituiscono precisamente ciò che conferisce all’opera l’unità, il carattere specificamente estetico e, nel caso che ci interessa, la qualità propriamente letteraria; e) le strutture categoriali che governano la coscienza col­ lettiva e che sono trasposte nell’universo immaginario creato dall’artista non sono né consce né inconsce, nel senso freu­ diano della parola che suppone una repressione, ma sono pro­ cessi inconsci dello stesso tipo, per certi aspetti, di quelli che regolano il funzionamento delle strutture muscolari o nervose e determinano il carattere particolare dei nostri movimenti e dei nostri gesti, senza perciò essere né consce né represse. Perciò, nella maggior parte dei casi, la messa in luce di que­ ste strutture, e, implicitamente, la comprensione dell’opera, non è accessibile né ad uno studio letterario immanente né ad uno studio orientato verso le intenzioni coscienti dello scrit­ tore o verso la psicologia del profondo, ma solo a una ricerca di tipo strutturalista e sociologico. Per un sociologo strutturalista della letteratura, l’opera tea­ trale di Jean Genêt cui è dedicato questo saggio rappresenta un oggetto di ricerca particolarmente interessante, già per il fatto che Genêt, senz’altro uno degli scrittori più importanti della letteratura francese contemporanea, d’origine sottoprole­ taria, appartenente al mondo dei ladruncoli e degli omosessua­ li, ha raccontato e trasposto nei suoi primi scritti la sua espe­ rienza in questa sfera marginale della società. Quello però che è particolarmente interessante, sia per la comprensione delle opere di Genêt che per l’approfondimento della nostra conoscenza dei rapporti tra la società industriale moderna e la creazione letteraria, è il fatto che una parte im­ portante di quest’opera è nata dall’incontro tra il rifiuto impli­ cito — ma non perciò meno radicale — della società, nella concezione del sottoproletariato, da questa eliminato ma che ha interiorizzato con fierezza questa eliminazione e l’ha innalzata al rango d’una concezione del mondo, coi problemi di untntelligentzia ancora molto viva in Francia e in altri paesi del­ l’Europa occidentale, dov’essa esercita una vera influenza sulla vita culturale; intelligentzia che ha un atteggiamento critico e ostile nei confronti del capitalismo contemporaneo dell’organiz­ zazione e si rifiuta di accettarlo tranquillamente. Questi fatti devono però essere analizzati in modo un po’ più differenziato. I^a reazione negativa nei confronti della so­ cietà industriale occidentale in via di formazione è un feno­

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meno se non generale per lo meno diffusissimo nella vita psi­ chica d’oggigiorno. Questa società procura probabilmente agli individui che ne fanno parte un innalzamento del loro livello di vita e una quantità per l’addietro sconosciuta di possibilità di consumo (automobili o motociclette, appartamenti, vacanze, ecc.) che li integrano in gran parte, ma d’altro lato reprime i bisogni fondamentali d’autenticità, di comunicazione col pros­ simo, di comunità, di sviluppo della vita intellettuale e affettiva, ecc. Nella piccola borghesia si forma quindi uno strato relati­ vamente numeroso che, pur essendo integrato nell’ordine sociale esistente, si sente oppresso e frustrato nella sua vita cosciente e, soprattutto, affettiva. Un’analisi sociologica del teatro francese moderno potrebbe, a nostro avviso, mettere in rapporto con questo strato sociale un’opera come quella di Ionesco e il personaggio di Béranger, insoddisfatto, disadattato, ma incapace di resistere e ignaro ad­ dirittura della minima possibilità di resistenza. Accanto a questo fenomeno relativamente vasto, c’è però, so­ prattutto in paesi come la Francia che hanno ancora una tradi­ zione socialista e anarchico-sindacalista relativamente potente, uno strato piu ridotto di operai, di intellettuali creatori e persino uno stato medio colto, deciso a rifiutare categoricamente le for­ me attuali del capitalismo moderno, che si pone seriamente il problema di trovare una via verso un ordine umano che ga­ rantisca effettivamente la libertà dell’individuo. Ora, per la co­ scienza di questo gruppo, il venir meno della speranza in una rivoluzione socialista in Occidente, e lo sviluppo dello stalinismo nell’Europa orientale, rappresentano un insieme di problemi importanti, decisivi e innanzitutto difficili da risolvere. Il grup­ po viene dunque ad avere al tempo stesso un atteggiamento veramente negativo nei confronti della società industriale mo­ derna, eh’esso rifiuta con molta maggior decisione di quanto non facciano gii altri gruppi che abbiamo citati e che, nono­ stante le loro proteste intellettuali e affettive, sono già piti o meno integrati in questa società, ma d’altra parte viene anche ad avere, all’interno di questo rifiuto, difficoltà intellettuali e pratiche incomparabilmente piu serie e piu determinanti per il suo destino. È come trasposizioni letterarie delle concezioni del mondo di quest’ultimo gruppo che bisognerebbe, ci sembra, studiare opere come i primi romanzi di Malraux, i primi romanzi di Robbe-Grillet, un film come L'anno scorso a Marienbad, e forse

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anche certe opere di Beckett, ma comunque, e in primo luogo, l’opera teatrale di Jean Genêt.

Questi drammi ci sembrano in effetto il risultato dell’incon­ tro tra il no radicale del poeta sottoproletario che, per sua stessa affermazione, non ha nessuna rivendicazione da avan­ zare nei confronti della società d’oggi e non le si rivolta, e la coscienza, che s’impernia appunto su simili rivendicazioni e sulla difficoltà diventata sempre più evidente negli anni di im­ porne il riconoscimento con l’azione rivoluzionaria, degli operai progressisti e della intelligentzia piu radicale; un’altra, caratte­ ristica del teatro di Genêt, che pone d’altronde al sociologo della cultura un problema interessante e metodologicamente im­ portante, è il fatto che accanto all’assimilazione della proble­ matica storica di questo gruppo e della sua trasposizione in un universo poetico e immaginario, Genêt ha anche integrato nella sua opera — probabilmente in modo molto inconscio — alcune esperienze storiche decisive fatte dalla sinistra europea negli ultimi decenni; sicché un dramma come Le Balcon sem­ bra incoerente e riuscirebbe incomprensibile a chi non tenesse conto di queste esperienze. Il sociologo deve naturalmente chiedersi come tale integrazione — soprattutto se risulta incon­ scia e involontaria — sia potuta avvenire sul piano psichi­ co, tanto piu ch’egli s’imbatte in analoghi fenomeni presso al­ tri scrittori, per esempio nel Gombrowicz de Le Mariage·, qua­ lunque sia comunque la risposta a quest’ultimo problema, quel che ci sembra decisivo è il fatto che Jean Genêt, il sottopro­ letario non conformista, autore di un’opera innanzitutto mo­ rale e lirica, sia diventato il solo poeta del teatro francese mo­ derno nei cui drammi i problemi della storia nel suo insieme abbiano preso non solo un posto importante ma siano diven­ tati l’elemento centrale a partire dal quale l’opera diventa comprensibile nella sua unità. Quel che altri scrittori si sono proposti in modo cosciente e hanno espresso piu o meno felicemente nei loro scritti, e sfociato con Genêt in un risultato poetico straordinario, nono­ stante egli non se lo sia proposto, e nonostante si tratti pro­ babilmente della conclusione di una evoluzione naturale e spontanea.

Vediamo tuttavia le opere. Genêt, finora, ha scritto cinque drammi: Haute Surveillance, Les Bonnes, Les Nègres, Le Balcon, Les Paravents, che esprimono in quest’ordine una so­

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la e identica problematica sempre piu ricca, sempre piu com­ plessa, ma anche sempre piu unitaria. Haute Surveillance appartiene ancora all’universo poetico del sottoproletario non conformista. L’azione si svolge tra tre de­ tenuti, in una cella di prigione: Lefranc, Maurice e Yeux-Verts. Maurice e Lefranc sono innamorati di Yeux-Verts che ha uc­ ciso una ragazza e che probabilmente sarà condannato a morte e giustiziato. Lottano tra loro per ottenere i suoi favori. Ma apprendiamo che Yeux-Verts riconosce solo Boule-de-Neige, un negro che è anche lui un assassino. Per farsi riconoscere da Yeux-Verts, per diventare eguale a Boule-de-Neige, Lefranc sgozza Maurice, ma questo non gli serve a nulla, come dice Yeux-Verts: "Non rivolgermi piu la parola, non toccarmi piu. Sai cos’è la sven­ tura? Sai che ho tanto sperato di evitarla? E tu ti credevi capace di di­ ventare, da solo, senza l’aiuto dei Cielo, grande come me! Forse anche di piu? Ma, sventurato, non sai che non è possibile superarmi? Io non ho voluto nulla, capisci, nulla di quel che mi è accaduto. Tutto mi è stato dato. Un dono del buon Dio o del diavolo, ma qualcosa che non ho voluto...'”

e più avanti: "Vuol dire non sapere niente della sventura, se si crede di poterla scegliere. Io non ho voluto la mia. È stata lei a scegliermi. Mi è caduta sul capo, io ho fatto tutto quel che potevo per liberarmene. Ho lottato, ho fatto a cazzotti, ho ballato, anche cantato, e (si può sorriderne) la sventura dapprima, l’ho rifiutata. È solo quando ho visto che tutto era senza rimedio, che mi sono calmato. L’ho accettata da poco. Mi ci vo­ leva una sventura totale” (p. 95).

Già questo primo dramma di Genêt è un’opera di rigorosa coerenza. Racconta la lotta dell’individuo per riconoscersi mo­ ralmente in un mondo nel quale, è vero, ha un valore morale solo ciò che è condannato dalla società reale, e tanto maggiore è questo valore quanto più rigorosa ed energica è la condan­ na. Da ciò deriva anche la divisione dell’universo in due ca­ tegorie d’uomini: i deboli, i ladruncoli e i truffatori da una parte, e i forti, gli assassini per natura, il cui carattere cri­ minale fa parte della natura stessa ed è assunto volontaria­ mente. In breve, per quanto paradossale possa sembrare, si tratta '

Haute Surveillance, 1965, p. 93.

di un dramma di profonda moralità, anche se la morale vi appare in una luce negativa. A partire però da L« Bonnes, l’universo di Genêt è di­ ventato più complesso e soprattutto è cambiato per alcuni aspetti fondamentali. Nonostante questo dramma sia almeno radicale e anticon­ formista come Haute Surveillance e come i tre successivi, il problema si è completamente spostato. In Haute Surveillance come nel Journal du Voleur, uscito pressappoco nella stessa epoca, è l’universo marginale del sottoproletariato escluso dal­ la società o che se ne è allontanato, a costituire tutto l’uni­ verso nel quale si svolge l’azione. I potenti compaiono solo qua e là, in modo sporadico, come i viaggiatori nel Journal o il sorvegliante in Haute Surveillance. In Les Bonnes invece, l’opposizione tra le cameriere e la signora è il centro dell’opera, e sarebbe impossibile compren­ dere Claire e Solange a prescindere dal loro odio contro co­ stei. Troviamo in quest’opera la struttura fondamentale del nuovo universo entro il quale si svolgeranno anche i due dram­ mi successivi, Les Nègres e Le Balcon, e in parte Les Para­ vents. Universo al centro del quale si trova innanzitutto il rapporto tra dominati e dominatori, le cameriere e la Signo­ ra, i Negri e i Bianchi, i Rivoltosi e il Balcone, vale a dire il capo della polizia, la regina, il generale, i vescovi e i giu­ dici, e infine, nelle prime scene di Les Paravents, i Coloniz­ zati e i Colonizzatori. Un rapporto dialettico, fatto di odio e fascino, che dobbiamo analizzare. In tutte queste opere, l’odio è fondamentale e primario, e diventa odio amoroso non solo per il fascino che i domina­ tori esercitano sui dominati muovendo dall’impossibilità di co­ storo di vincere. Perché, fino a Les Paravents, il potere dei dominatori è incrollabile e invincibile. Non si può uccidere la Signora, solo nell’immaginazione i Bianchi potrebbero es­ sere cacciati e in Le Balcon la rivolta è stroncata. L’azione di questi drammi si svolge cosi in un universo statico e insufficiente, un universo la cui insufficienza è però compensata dal fatto che i dominati si identificano con un ri­ tuale immaginario ai dominanti e a dei dominati che sareb­ bero capaci di por termine con la violenza a questo dominio. È cosi che i valori che, nella loro essenza per cosi dire pura e platonica, non potrebbero essere trovati dagli uomini nella realtà, possono essere realizzati dai dominati nell’immagina­ zione e solo neU’immaginazione.

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In Les Bonnes, Claire sostiene la parte della Signora e So­ lange la parte di Claire. In Les Nègres, i Negri sul balcone fanno la parte dei Bianchi e sotto, sulla scena, recitano l’assas­ sinio puramente immaginario di una donna bianca. In Le Bal­ con, degli impiegatini fanno la parte di un vescovo, di un giudice, di un generale e, è vero, anche di uno schiavo. In Lei Paravents, prima che scoppi la rivolta, Said sostiene la parte di un fidanzato che si presenta carico di ricchi doni al futuro suocero; dopo, sua moglie e sua madre sosterranno la parte di padrone di un cortile pieno di pollame; in un angolo della scena, Wanda, diventata grazie a enormi sforzi una per­ fetta prostituta, consentirà agli oppressi di ritualizzare nell’im­ maginario il rapporto poetico e intensamente vissuto dell’uo­ mo con la donna. In breve, in un mondo in cui il potere dei dominatori è ineliminabile, in cui i dominati sono mossi da un intenso odio amoroso nei confronti dei dominatori, questa realtà del tutto insufficiente fornisce tuttavia la possibilità di un rituale poetico-religioso secondo il quale da un lato i dominati si iden­ tificano coi dominatori e dall’altro lato riescono, sul piano immaginario, a vincerli e a cacciarli. È in questo mondo che si svolgerà l’azione di tutti i dram­ mi, con caratteri sempre più complessi e unitari.

Raffrontiamo tuttavia di nuovo le strutture di Haute Sur­ veillance e di Les Bonnes. L’universo del primo dramma è semplice e, in ultima ana­ lisi, strutturalmente omologo a quello della società borghese, non qual è in realtà, ma quale si crede e vuole essere. Pre­ senta però dei segni contrari. Al centro ce l’amore, ma l’amo­ re omosessuale; allo stesso modo, il valore e la riconoscenza sono in funzione del tipo di vita pericoloso che conducono i personaggi. Il pericolo non è rappresentato dalla scelta di un certo mestiere o da un eroismo riconosciuto e confermato dalla società, ma dal delitto e daU’assassinio che recano con sé la condanna e l’esecuzione. Troviamo cosi in questo dramma una concezione d’élite che corrisponde a una certa ideologia rico­ nosciuta e approvata dalla società contemporanea. Yeux-Verts e Boule-de-Neige sono marchiati dalla sventura, sono destinati dalla loro natura, volenti o nolenti, a essere degli assassini e a finire giustiziati. Perciò, Lefranc che uccide intenzionalmente e volontariamente non potrà mai essere accolto nella loro co­ munità.

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Si può, credo, affermare che i primi drammi di Genêt si servono a propri fini di una morale in gran parte romantica, predicata dalla società borghese, e di una concezione aristocra­ tica che ha la stessa origine e ch’essi si limitano a trasporre modificandone i connotati nel mondo dei ladri, dei criminali e del sottoproletariato non integrato nella società. Va da sé che la forza particolare di quest’opera non è dovuta soltanto al talento del poeta, ma alla implicita critica dei valori meramente verbali e spesso menzogneri della morale riconosciuta e all’in­ tensità con cui gli eventi umani sono vissuti quando hanno un carattere proibito, mentre quelli che li vivono sono dei reprobi e dei condannati. In che misura, tuttavia, l’universo di Les Bonnes è diverso, al tempo stesso piu complesso, meno romantico e piu vicino alla realtà? Innanzitutto, è un universo diviso: da un lato i potenti, che vivono tra menzogne e chiacchiere, ma che però sono in­ vincibili, la Signora e il Signore; dall’altra parte le cameriere, autentiche, che vivono intensamente, odiano e ammirano i loro padroni. Quindi un universo dove tutto è insieme negativo c positivo e in cui il solo valore autentico è la realizzazione im­ maginaria del fascino e dell’odio, nel rito che le cameriere ri­ prendono ogni sera e che anche adesso recitano, davanti agli spettatori, sulla scena. Le cameriere hanno cercato di uccidere la Signora e, non essendoci mai riuscite, ricorrono a una falsa denuncia, a seguito della quale il Signore è arrestato, ma sarà liberato prima della fine del dramma. Per il momento, le cameriere recitano il loro solito rituale. Claire fa la parte della Signora, Solange di Claire. Fiere della loro degradazione, decise a viverla fino al limite estremo e al tempo stesso in rivolta contro di essa, disprezzandosi e odiandosi, piene d’odio contro la Signora e da lei affascinate, vivono la loro esistenza e il loro rituale con un’intensità e una forza straordinarie che sole attribuiscono senso e valore alla vita. Contrariamente a loro, la Signora è un personaggio far­ sesco, ridicolo e superficiale, nel quale non c’è più nulla d’au­ tentico o di veramente vissuto. Vivendo nella realtà, la vera Signora, potente e invincibile, è solo una marionetta; mentre, trasponendo e vivendo neH’immaginazione questa stessa Signora quale dovrebbe essere, dando sfogo all’odio che hanno nei suoi confronti, le cameriere riescono drammatiche e persino tragiche. Citeremo solo un esempio: Solange e Claire hanno sognato

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con molta intensità di identificarsi con la Signora e, per amore del loro amante condannato, accompagnarlo nella deportazione. Claire·. "Tu accompagnavi il Signore, il tuo amante... fuggivi la Fran­ cia. Parlavi dell’Isola del Diavolo, o della Guiana, insieme a lui: bel sogno! Perché io avevo il coraggio di spedire le mie lettere anonime, tu ti concedevi il lusso di fare la prostituta d’alto bordo, l’etera. Eri contenta de! tuo sacrificio, di portare la croce del cattivo ladrone, di asciugargli il viso, di sostenerlo, di darti alle ciurme perché lui potesse avere un po’ di sollievo.1”

Quando in seguito arriva in scena la Signora e racconta ogni sorta di cose che né lei né lo spettatore prendono sul serio, abborderà lo stesso tema servendosi pressappoco delle stesse parole: Signora·. "...Ma innocente o colpevole, non l'abbandonerò mai. Ecco come si riconosce il proprio amore per qualcuno: il Signore non è colpe­ vole, ma se lo fosse diventerei sua complice. L’accompagnerei fino in Guia­ na, fino in Siberia. So che se la caverà. Per lo meno, grazie a questa stu­ pida storia, posso prendere coscienza del mio attaccamento a lui..." (p. 56).

Il verbo al condizionale, la soddisfazione di sé e soprattutto la supposizione esplicita che il Signore non sarà condannato e che comunque se la caverà, tolgono alle sue espressioni ogni sincerità. D’altronde ella continua: Signora: "...il Signore non è colpevole, ma se lo fosse, con che gioia accetterei di portare la sua crocei Di tappa in tappa, da prigione a pri­ gione, fino nei penitenziario lo seguirei. A piedi se occorresse. Fino ne! penitenziario, fino nel penitenziario, Solange!...”

Questa semplice parola, Solange, alla fine di questo brano, denuncia a che punto si tratta solo d’apparenza, di una semplice commedia per le cameriere. Ma per portare la farsa all’estremo, Genêt le farà dire anche che questa situazione la rende “quasi piu felice duna mostruosa felicità!...” fino al momento che, sfinita, ella concluderà la sua risposta con queste parole: “...fa­ temi fumare! Una sigaretta!” Si potrebbe continuare facilmente, ma l’esempio dovrebbe bastare. Per ciò che riguarda l’azione in sé, le cameriere saranno sorprese, verso la metà del dramma, dalla chiamata telefonica del Signore che annuncia la sua liberazione. Erano cosi im­ 1

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Les Bonnes, L’Arbalète, 1948, p. 36.

merse nel loro rituale immaginario che Solange esclama: "I giudici hanno avuto la faccia tosta di lasciarlo libero. Ci si fa beffe della giustizia. Ci insultano!" (p. 44). Tuttavia si fa chiaro che la verità sarà scoperta, che le cameriere saranno arrestate e condannate a seguito di una denuncia calunniosa. Nel mondo di Haute Surveillance, Solange e Claire avreb­ bero accettato fieramente la condanna e vi avrebbero trovato conferma del loro essere. L’universo delle cameriere è però radicalmente diverso. La condanna qui sarebbe per Claire e Solange una definitiva disfatta, vergognosa nella loro opposi­ zione alla Signora. Cercano ancora una volta di avvelenarla e quando, come sempre, non riescono, Claire, che fa la parte della Signora, obbligherà Solange a offrirle con gesto solenne, nella coppa più lussuosa, il veleno che berrà mentre Solange, rivolta al pubblico, rimane immobile, con le mani incrociate come se fosse ammanettata (p. 93). Prima, il testo ci aveva detto che Solange, con la sua con­ danna, non era più solo una cameriera, ma "... la signorina Solange Lemercier... l’eguale della Signora (che) cammina con la testa alta...” (pp. 86-87), che è diventata per l’eternità un essere autonomo. Ella intravede il prossimo seppellimento di Claire, la Signora che sosterrà il suo ruolo sempre ridicolo, vede anche la propria imminente esecuzione e la propria se­ poltura. Prima di morire, Claire le dirà ancora: "...andremo fino alla fine. Sarai sola a portare le nostre due vite. Do­ vrai avere molta forza... e soprattutto, quando sarai condannata, non di­ menticare che mi porti dentro di te. Come una cosa preziosa. Saremo belle, libere e gaie. Solange, non abbiamo un minuto da perdere...” (pp. 91-92).

Sappiamo lo scioglimento. Umanamente e psichicamente, le cameriere hanno avuto la meglio sulla potente marionetta, sulla Signora. Vivono real­ mente nell’apparenza, mentre la Signora — bugiarda e ridi­ cola — vive solo apparentemente nella realtà. Ma era cosi fin dall’inizio del dramma, e nulla potrebbe mutare in questa situazione. La Signora non può essere vinta e per salvare la serietà e l’autenticità della loro esistenza, le cameriere hanno dovuto distruggersi, anche se questa autodistruzione è diven­ tata un’apoteosi. L’opera è un dramma staticamente dialettico della disperazione. Interiorizzando l’opposizione che gli sembra ancora insuperabile tra dominanti e dominatori, Genêt, Youtsider non conformista, è diventato un pessimista radicale, per il qua-

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!e soltanto l’arte e l’apparenza possono rappresentare un com­ penso estetico per una realtà menzognera e insufficiente. La sua concezione, classica e disperata insieme, potrebbe essere riassunta in un famoso verso di Goethe: “È nella buia appa­ renza che troviamo la vita.” Con Le Balcon siamo a una svolta nuova e decisiva nel­ l’opera di Genêt. La realtà sociale e politica adesso è integrata non solo come struttura ma come divenire e come esperienza, e ciò conferisce al dramma una dimensione nuova che lo ar­ ricchisce notevolmente. Dal punto di vista statico, l’universo di Le Balcon ha la stessa struttura di quello di Les Bonnes e di Les Nègres. I personaggi principali sono gli stessi che ab­ biamo incontrato in Les Nègres sul balcone: la regina, il val­ letto, il generale, il vescovo, il giudice. Il titolo indica il rap­ porto con il dramma precedente. Ma in questo universo han­ no fatto la loro comparsa un divenire, una dinamica, un com­ plesso di eventi senza cui non è piu possibile comprendere l’unità dell’opera, anche se questo divenire è solo provvisorio e finisce per sopprimersi. Il dramma comincia col rituale che già conosciamo grazie ai due drammi precedenti; in una casa d’illusioni, che rap­ presenta la società, dei piccoli personaggi recitano l’attuazione dei loro sogni. Quattro quadri, nei quali compaiono un ve­ scovo, un giudice, un generale e uno schiavo. Ritroviamo, espresse in una lingua di eccezionale bellezza, le leggi fondamentali dell’universo di Genêt. Il vero valore, la vera essenza del vescovo esiste solo nel rituale immaginario di questa casa illusionistica. Il vescovo reale è un uomo insufficiente e incom­ pleto, che deve accettare compromessi che non han piu nulla in comune con il vescovo essenziale. "Mai, Io giuro davanti a Dio che mi vede, mai ho desiderato il trono episcopale. Diventare vescovo, salire nella gerarchia — a forza di virtù o di vizi — sarebbe stato allontanarmi dalla definitiva dignità episcopale. Mi spiego: per diventar vescovo, avrei dovuto accanirmi a non esserlo, e a fare invece ciò che mi avrebbe portato a quel punto... Una funzione è una funzione, non un modo d’essere. Ora, vescovo, è un modo d'essere1.’’

Irma dal canto suo dice: “Gli altri. Nella vita sono sostegni d’un pomposo apparato che devono trascinare nei fango del reale e del quotidiano. Qui la Commedia, l'Appa­ renza si conservano pure, la Festa intatta" (p. 76).

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Le Balcon, L'Arbalète, 1962, ρρ. 21-22.

D’altra parte, i dominatori non possono esistere senza i do­ minati; è infatti l’esistenza di questi ultimi che li costituisce in quanto dominanti. Naturalmente accade anche l’inverso. Il giudice non esisterebbe senza la ladra che condanna e lo schia­ vo senza la padrona che lo frusta. Tuttavia dall’inizio, e soprattutto a partire dalla quinta scena, due tensioni supplementari compaiono nel dramma e struttu­ rano l’azione, due tensioni il cui svolgimento ci rivelerà che sono strettamente legate tra loro. Da un lato apprendiamo che è scoppiata una rivolta, che minaccia l’ordine costituito e la casa delle illusioni, e d’altra parte che questa casa appartiene in realtà al capo della poli­ zia e alla sua amica Irma, profondamente delusi di non sentirsi mai chiedere da un cliente di poter recitare la parte del poli­ ziotto. L’opera ci racconterà come l’immagine del capo della poli­ zia sia penetrata nel rituale della casa, e come questo evento sia strettamente connesso con la rivolta e, innanzitutto, con la sconfitta di questa. Col quinto quadro ci troviamo sullo sfondo della casa, nelle stanze dalle quali la casa è diretta e amministrata. Incontriamo quattro personaggi, il capo della polizia, il mezzano Arthur (che rappresenta nella casa il capo della poli­ zia perché il padrone non è ancora penetrato nel rituale; e poiché in questo rituale Arthur sta per entrare, sarà ucciso da una pallottola che lo colpisce per caso), Irma la proprietaria e Carmen una ragazza allegra che Irma ha portato con sé per farsi aiutare nell’amministrazione e direzione della casa. Qualche parola sul personaggio Carmen. Rappresenta in pic­ colo la problematica generale del dramma (incontreremo lo stesso procedimento artistico in Les Paravents). La lotta dei rivoltosi contro il balcone è una lotta tra la morte e la vita, tra l’ordine alfinterno del quale i valori esistono solo nell’im­ maginazione e nel rituale, e il tentativo di creare un ordine nuovo ne! quale la vita stessa sia penetrata da questi valori e la fuga dell’immaginazione non sia più necessaria perché la vita è diventata autentica. Come il mondo, Carmen dovrà scegliere tra due possibilità: l’amore reale per la sua bimbetta che ha messo in pensione in campagna e la sua attività di prostituta nel bordello dove, prima, aveva incarnato il ruolo della Vergine. Irma le comunica che deve Rinunciare a sua figlia, e poiché Carmen risponde

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che allora vuol lasciare l’amministrazione per tornare al rituale, le offre il ruolo di santa Teresa: Irma·. "Morta o viva, tua figlia è morta. Pensa alla tomba adorna di margherite e di corone di perle, in fondo a un giardino... e questo giar­ dino nel tuo cuore, dove potrai conservarla...” Carmen·. "Mi sarebbe piaciuto rivederla...” Irma·. "Serberai la sua immagine nell’immagine del giardino e il giar­ dino nel tuo cuore sotto la veste ardente di santa Teresa. Ed esiti? Ti of­ fro la più splendida delle morti e tu esiti? Sei vile?" (p. 85).

Carmen rinuncerà alla vita per l’illusione, cosi come la rivolta sarà schiacciata e la casa delle illusioni restaurata nel suo pieno splendore. Tuttavia, nel frattempo, i rivoltosi hanno ucciso il vescovo, il giudice, il generale e forse anche la regina, nonostante, come ci dice l’inviato, costei fosse morta da tempo ed esistesse solo nell’immaginario. Ma poiché la società ha sempre bisogno di una regina, di un vescovo, di un giudice e di un generale, si sostituirà la regina morta con Irma e gli altri tre dignitari con i tre borghesucci che a causa della rivolta non sono potuti uscire e sono rimasti chiusi nella casa delle illusioni. La rivolta stessa è condannata ad essere schiacciata, perché si è divisa in due rivolte minori, una delle quali, con la fa­ zione Andromeda, tende alla libertà e all’immaginario, men­ tre l’altra, sotto la direzione di Roger, si organizza in guisa disciplinata e repressiva. Chantal, la ragazza della casa delle illusioni che è diventata la Musa dei rivoltosi, sarà uccisa, il suo nome e la sua immagine beatificati e scritti sugli sten­ dardi della repressione. Nella casa delle illusioni restaurata, con ancora alcune frizioni da una parte tra il vescovo, il ge­ nerale e il giudice diventati veri dignitari e perciò stesso ma­ rionette, e dall’altra parte il capo della polizia, frizioni però di cui quest’ultimo avrà ragione senza difficoltà, si verifica finalmente l’evento che da tempo si attendeva. Roger, il capo della rivolta soffocata, chiede di sostenere il ruolo del capo della polizia. Lo schiavo canta la propria gloria. Ma Roger farà presto a rendersi conto che si tratta solo di un gioco immaginario, di un rito. La sua essenza di rivo­ luzionario era rappresentata appunto dal tentativo di dar vita a una realtà che non avesse più bisogno di immaginazione e di rituale. Al colmo della disperazione — “Nulla! Non mi resta più nulla...” (p. 199) — si castrerà, accordando cosi l’immaginario con la realtà della rivolta vinta.

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Col suo gesto sporca i tappeti, la qual cosa suscita lo sdegno dei rappresentanti dell’ordine, che lo sbattono fuori. Il duro capo della polizia ne prende il posto. Lui non si è castrato. Definitivamente vittorioso, egli potrà trovar posto nel mau­ soleo che da tempo lo aspettava, mausoleo grazie al quale la sua immagine regnerà sul mondo. Fuori s’ode il crepitio duna mitragliatrice, e la regina chiede chi ha sparato: “Chi è? I nostri... o i rivoltosi...? op­ pure...?” Giunge la risposta: "Qualcuno che sogna, signo­ ra...” (p. 203). Irma spegne le luci. Di li a poche ore, la casa delle illu­ sioni riaprirà come di consueto le porte, dopo un breve riposo. Fuori continua il crepitio delle mitragliatrici. Questo brano pone al sociologo un problema di cui non si può sottovalutare l’importanza. Se infatti la penetrazione del problema sociale, della rivalità tra dominatori e dominati nella concezione di Genêt è potuta avvenire in modo piu o meno conscio, il succedersi degli eventi in Le Balcon rappresenta invece una trasposizione molto probabilmente inconscia e in­ volontaria degli avvenimenti storici decisivi della prima metà del XX secolo. Senza per nulla alterare la successione degli eventi nell’a­ zione del dramma, si potrebbe affermare che il suo tema è la presa di coscienza dell’importanza dell’esecutivo in una società da tempo dominata e diretta da questo esecutivo e dai pro­ prietari, ma nella quale gli uomini immaginano ancora il potere sotto le sembianze tradizionali e da gran tempo supe­ rate del vescovo, del giudice e del generale. Genêt ci dice che questa presa di coscienza ha luogo in coincidenza con la minaccia rivoluzionaria e con la repressione della rivolta, il che corrisponde abbastanza esattamente alla realtà storica degli avvenimenti che hanno avuto luogo nell’Europa occi­ dentale tra il 1917 e il 1923. Purtroppo, come una simile integrazione, cosciente o meno, volontaria o involontaria, degli avvenimenti nel mondo imma­ ginario dell’opera abbia potuto prodursi, è un quesito cui non possiamo rispondere in modo soddisfacente. Vorremmo tuttavia sottolineare che il caso di Genêt non è unico e che un altro scrittore, l’aristocratico polacco Gombrowicz, ha scrit­ to con Le Mariage il dramma che corrisponde a Le Balcon, integrando l’esperienza opposta e complementare dell’Europa orientale. E anche nel caso di Gombrowicz è pochissimo pro­

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babile che l’integrazione abbia avuto luogo coscientemente e volontariamente. Raccontata in modo estremamente schematico — perché qui ci occupiamo soprattutto di Genêt — la trama del dramma di Gombrowicz corrisponde al cammino della società dell’Europa orientale, attraverso la rivoluzione vittoriosa, verso il potere dell’esecutivo. Henri e Jean tornano dalla guerra nelle Fiandre e si trovano davanti a una chiesa in rovina; li, cominciano a sognare un sogno che si trasforma molto presto in incubo. Si trovano in un posto che sembra loro noto e sconosciuto al tempo stesso, e che non riescono a identificare. Entra in scena una coppia di vecchi, parlando una lingua che anch’essa sem­ bra loro nota e sconosciuta a un tempo. Finalmente, ricono­ scono il posto dove si trovano e capiscono la lingua: è la casa paterna di Henri, degradata e trasformata in albergo; i parenti di Henri sono diventati albergatori, sono vestiti di cenci e la sua fidanzata è diventata una specie di puttana. Il padre li autorizza a trascorrere li la notte, purché si com­ portino correttamente e "rispettino le forme" per tutta la sera specialmente durante il pasto. Tuttavia da mangiare c’è solo una minestra di trippe di cavallo e urina di gatto. Essendo il contenuto quello che è, le forme son diventate ridicole e strambe. Veniamo anche a sapere che questa degradazione viene dalle minacce di un ubriacone che però non osa servirsi della forza contro il padre, la cui immobile figura lo spaventa. Ma quando Henri cade in ginocchio, riconoscendo implicitamente con questo gesto la religione tradizionale, il padre diventa re e mette l’ubriacone in prigione. Poi cerca di celebrare il ma­ trimonio del figlio con la fidanzata ridiventata principessa e di restaurare in questo modo la legittimità. Presto però il figlio si allea con l’ubriacone evaso di carcere, che gli ha rivelato d’essere il sacerdote di una religione terrena, umana, triste e selvaggia. Mercé questa alleanza, l’ubriacone di­ venterà a sua volta ambasciatore di una potenza straniera, con il cui aiuto il figlio rovescerà il re suo padre, lo imprigionerà e si autonominerà capo dello stato. A sua volta, arresterà l’u­ briacone per essere unico detentore del potere. Ma prima di sparire in prigione, l’ubriacone unirà — sappiamo che è sacer­ dote d’una religione umana — la fidanzata e Jean. Questa unione rappresenta adesso l’ostacolo decisivo al re­ gno di Henri e al suo tentativo di fondare una nuova legit­ timità. Per sbarazzarsene egli costringerà Jean a confessare

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la sua colpa e a suicidarsi. Jean lo fa, nello sfondo mentre ha luogo la cerimonia nuziale, ma l’unione non avrà più luogo, la legittimità non sarà restaurata. E mentre lontano sol­ levano da terra il cadavere di Jean per portarlo via, Henri rimasto solo, circondato dagli sbirri che gli obbediscono ma al tempo stesso lo tengono prigioniero, dominerà a lungo la so­ cietà. Anche in questa descrizione estremamente schematica, non è difficile riconoscere la trasposizione degli avvenimenti reali: la crisi sociale e politica che corrisponde alla chiesa in ro­ vina e alla degradazione della casa paterna ad albergo, crisi seguita alla prima guerra mondiale in Russia e alla seconda in Polonia, l’equilibrio tra l’antica classe dominante e il popolo ora tenuto a freno dalla sua fede, in parte ancora viva, nella maestà e nella impassibilità dell’ordine antico; il ritorno degli intellettuali, che avrebbero potuto restau­ rare l’antica legittimità se si fossero schierati dalla parte dei valori tradizionali e se avessero serbato l’antica fede, ma che sventuratamente si sono alleati con il popolo selvaggio e mi­ naccioso (l’ubriacone) e hanno cosi reso possibile la vittoria della rivoluzione; la religione umana priva di trascendenza che, nella conce­ zione di Gombrowicz, non può restaurare la legittimità e porta alla dittatura; l’eliminazione e il suicidio dei rivoluzionari rimasti fedeli ai vecchi ideali e ai legami col popolo; la dominazione solitaria e brutale dell’esecutivo misterioso che s’appoggia ormai solo sugli sbirri e ne è controllato. L’opera di Gombrowicz, che racconta sotto forma di spa­ ventoso incubo lo svolgimento di una storia che si è da se stessa soppressa, che corrisponde perciò a Le Balcon di Genêt al tempo stesso opponendoglisi, mette ovviamente i sociologi di fronte a problemi apparentati e persino simili. Bisogna tuttavia aggiungere non solo che la parentela dei due drammi (la comparsa in entrambi delle stesse immagini, per esempio la prostituta e il lupanare) si spiega con il loro tema comune, ma anche che le differenze letterarie piu rimarchevoli tra quete due opere ci appaiono comprensibili alla luce della diversità di concezione che sta loro dietro. Gombrowicz non è solo un aristocratico emigrato dalla Polonia e residente all’estero: il suo dramma è scritto alla luce dei valori tradizionali dell’aristocrazia, di una classe cioè che non esiste piu nelle società dell’Europa orientale. Si capisce

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che gli eventi che vi si svolgono appaiano all’autore come un incubo che si è prodotto in un mondo lontano oggi total­ mente scomparso. È in questa luce che Gombrowicz ha potuto capire ciò che coloro che ancora sono immersi in quel mondo avrebbero potuto capire piu difficilmente: il fatto che Henri e Jean (in ultima analisi Stalin e i suoi oppositori), queste due figure in opposizione l’una all’altra alla fine del dramma, in origine erano solo una copia d’amici, anzi gemelli, evolutisi però in direzioni diverse. Genêt invece ha scritto il suo dramma, sia per ciò che lo concerne personalmente, sia dal punto di vista sociologico, se­ condo la visuale di coloro che devono continuare a vivere nel mondo del Balcon e che, perciò, rimangono strettamente legati agli eventi e continuano a parteciparvi. Ciò spiega l’intensità e l’attualità dell’odio e del fascino che animano i personaggi e la loro partecipazione affettiva agli eventi e all’ordine presen­ tati sulla scena. Con Les Nègres si compie un altro passo importante nella evoluzione del teatro di Genêt. La speranza, la prospettiva di vittoria penetrano, sia pure marginalmente, nell’unità del dramma. Esternamente, lontano, i Negri sostengono un vero combatti­ mento e hanno appena condannato e giustiziato un capo tradi­ tore. Un altro, che continuerà il combattimento sta però già ar­ rivando a sostituirlo. Ville de Saint-Nazaire: "Adesso’ Quando un tribunale condannava colui che è stato giustiziato, un congresso ne acclamava un altro. È per via, va laggiù a organizzare e a continuare la lotta. Il nostro scopo non è solo di corrodere, di dissolvere l’idea che essi vorrebbero che noi aves­ simo di loro. Dobbiamo anche cambiarli nelle loro persone di carne e ossa1.”

Questo combattimento è legato al gioco che si svolge sulla scena e ne modifica il significato. Ville de Saint-Nazaire in­ carna ed esprime questo legame per tutta la durata dell’azione. Ville de Saint-Nazaire: "Voi eravate solo là per la parata. Dietro...” Colui che sosteneva il ruolo del valletto (seccamente): "Sappiamo. Grazie a noi, non si è capito nulla del dramma che si svolge altrove” (p. 161). Archibald (solenne): "Visto che non possiamo permettere ai Bianchi

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Les Nègres, L’Arbalète, 1963, p. 161.

di assistere a una deliberazione, né mostrare loro gli interessa, e che per dissimularlo abbiamo dovuto riguarda, dobbiamo terminare questo spettacolo e (a quella che era la Regina): "come previsto” (p.

un dramma che non uccidere il solo che li liberarci dei giudici... 164).

Sulla scena tuttavia — nel mondo presente — la situazione è ancora analoga a quella che abbiamo conosciuta in Les Bon­ nes e in Le Balcon. Come Solange e Claire, i Negri svolgono anch’essi ogni se­ ra il loro rito: l’assassinio di una donna bianca. Come le ca­ meriere, possono vincere i Bianchi solo neU’immaginazione. Come in Les Bonnes e in Le Balcon l’immaginario fatto di ri­ volta, d’odio e di fascino è il solo vissuto intenso e autentico, il solo valore vero, diversamente dall’essere caricaturale dei Bianchi (anch’essi rappresentati sul balcone da altri Negri) — e che sono d’altronde di nuovo la regina, il suo valletto, il ve­ scovo, il giudice e il generale. (Questa composizione identica segna il legame con il dramma precedente.) Ma all’interno di questa struttura analoga, quali sono le dif­ ferenze? Non sono prive di importanza e tutte indicano la penetrazione progressiva d’una realtà sociale combattiva e l’ac­ centuazione a vantaggio dei dominati, di coloro che stanno in basso, dell’opposizione che struttura il dramma. Sulla scena, come le cameriere, come i rivoluzionari de Le Balcon, i Negri non possono nemmeno vincere coloro che li do­ minano, e anche dietro la scena, nel combattimento reale, pos­ sono per il momento distruggere soltanto uno di loro. La vit­ toria è ancora solo una speranza lontana nel tempo e nello spazio. Ma il rituale ha cambiato natura, e ciò diventa evidentissi­ mo nel modo in cui sbocca nel reale. Claire e Solange si ucci­ dono, Roger si mutila, i Negri uccidono un altro dei loro, ma ciò all’interno di un combattimento che conserva e rafforza le speranze della vittoria. Sulla scena, il dramma termina, come Les Bonnes, con un’apoteosi. Ma mentre in Les Bonnes era l’apoteosi di un suicidio reale, qui si tratta dell’apoteosi puramente immagina­ ria della vittoria riportata sui Bianchi e della presa di coscien­ za di sé. Le ultime repliche sono un dialogo della coppia d’innamo­ rati rimasti soli sulla scena, Village e Vertu. Village vorrebbe dire a Vertu il suo amore, ma può farlo solo servendosi di pa-

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role e di immagini prese a prestito dai Bianchi. Vertu è delusa: Vertu·. “Tutti gli uomini sono come te. Imitano. Non puoi inventare qualcos’altro? ” Village: “Per te, potrei inventare qualsiasi cosa: frutti, parole piu fre­ sche, una carriola a due ruote o arance senza semi, un letto a tre piazze, un ago che non punge. Ma, gesti d’amore, è più difficile... Comunque, se ci tieni...” Vertu: "T’aiuterò. Quel che è certo, almeno, è che non potrai avvol­ gerti tra le dita i miei lunghi capelli biondi...1”

La distruzione, sia pure immaginaria, dei Bianchi caricatu­ rali, obbligherà i Negri a trovare, sulla scorta dal loro essere che hanno scoperto, autentiche parole d’amore, immagini ori­ ginali e autentiche, una cultura veramente negra. Neanche il rapporto fra dominati e dominatori in Les Nègres è lo stesso che in Les Bonnes. Probabilmente si tratta sempre di una sintesi d’odio e di fascino, ma in Les Bonnes il fascino predominava, l’odio era aggiunto. Qui, è il rovescio: i Negri vogliono coscientemente recitare il loro odio per i Bianchi, che per essi è l’autenticità, la verità. Ma non possono sottrarsi al fascino dei Bianchi: quando Village recita l'assas­ sinio deila ragazza bianca, non può impedirsi d’essere attratto da lei e di innamorarsene. Quanto ai Bianchi del balcone, fino all’ultimo istante della loro ridicola sconfitta, si preoccupano delle quotazioni di Borsa. Veniamo al problema particolarmente importante del gruppo sociale secondo la cui concezione sono scritti Les Bonnes, Les Nègres e Le Balcon. Si tratta semplicemente di una concezione individuale oppu­ re, come nel caso della maggior parte delle grandi opere lette­ rarie, della concezione del mondo di un gruppo sociale, ela­ borata in modo ir. parte cosciente, in parte inconscio, con un grado di coerenza tale da offrire al poeta le categorie strut­ turate che serviranno di base alla trasposizione letteraria? Vorremmo, se non dare una risposta, formulare un’ipotesi: ci sembra almeno possibile che la struttura fondamentale di questi tre drammi corrisponda alla struttura mentale e psichi­ ca, che non è sempre cosciente e comunque non sempre espres­ sa, di una parte importante della sinistra radicale francese: struttura psichica la cui concezione del mondo, in via d’elabora­ 1

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Nègres, L’Arbalète, 1963, p. 180.

zione, sarebbe tra l’altro costituita da cinque elementi prin­ cipali: 1) l'affermazione dell’esistenza d’una radicale opposizione tra le classi e della necessità di conservare e accentuare questa opposizione; 2) il riconoscimento dell’impossibilità di vincere con la violenza le classi dominanti della società occidentale e soprat­ tutto la mancanza d’ogni prospettiva rivoluzionaria all’interno di questa società; 3) il fascino esercitato dal successo politico dei tecnocrati del capitalismo organizzativo e della classe che lo dirige e co­ struisce; 4) la condanna morale e umana della realtà sociale creata da questa classe tecnocratica, cioè dal moderno capitalismo di tipo organizzativo; 5) la giustificazione dell’opposizione radicale e della lotta contro questa società in nome dei valori morali, estetici e uma­ ni che nascono nella coscienza, nell’immaginazione e nel vis­ suto alla luce del rifiuto del compromesso e dell’oppressione; questi valori sono i soli che ancora possono dare un senso alla vita in una società fondata sul compromesso, sul dominio di una minoranza, sulla menzogna e sulla decadenza della vita culturale. Se questa ipotesi si dimostrasse giusta, se ne ricaverebbe una volta di più che non solo qualsiasi grande opera letteraria e poetica è un prodotto sociale e non può essere compresa nella sua unità se non alla luce della realtà storica, ma anche che l’analisi strutturale della vita culturale e particolarmente del­ l’opera letteraria rappresenta una chiave molto importante per la comprensione delle strutture della coscienza e della prassi dei gruppi sociali esistenti. Ci rimane da analizzare Les Paravents, l’ultimo e più in­ teressante dei drammi di Genêt, quello che ci sembra tanto piu importante, indipendentemente dal suo incontestabile va­ lore letterario, in quanto rappresenta, nel teatro francese mo­ derno, una delle prime opere ottimiste, animate dalla fede nelle possibilità dell’uomo, di resistere all’ordine e alla costrizione. L’azione si svolge in Algeria e ha come sfondo la rivolta vittoriosa del popolo algerino. I principali personaggi sono Said, l’uomo piu povero della sua regione, che ha sposato la donna più brutta e insieme a lui, legata a lui, sua madre. L’azione è articolata in quattro momenti che rappresentano

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al tempo stesso un progresso nello sviluppo della società e una progressiva radicalizzazione dell’eroe. All’inizio, troviamo l’ordine dei dominati e dei dominatori che già conosciamo dai drammi precedenti di Genêt, con l’odio amoroso e il rito; dobbiamo tuttavia sottolineare che, dato il carattere estremamente provvisorio di quest’ordine sociale (giac­ ché la rivolta sarà vittoriosa), da un lato l’odio sarà temperato, d’altro lato il rituale (bordello, valigia coi doni, cortile) respin­ to alla periferia; infine, i colonialisti, la classe dominante, che sta per sparire, si sono presentati in modo particolarmente spassoso e caricaturale. All’inizio del dramma, Said vive in quest’ordine e vi occu­ pa lo stesso posto che in opere precedenti occupavano le came­ riere, i Negri e lo schiavo. Successivamente, con accanto la moglie e la madre, Said entra in conflitto con l’ordine e si trova respinto come ladro e intruso. A partire da questo momento, il rituale perde qual­ siasi importanza per i tre. Said smette di frequentare il bor­ dello, l’universo della bella apparenza, perché per lui comincia la lotta per una vita autentica. Il villaggio arabo che riconosce ancora il dominio e la mo­ rale dei colonizzatori, comincia col rifiutarli tutti e tre in quanto famiglie di ladri. Kadidja e le donne del villaggio im­ pediscono alla madre di Said di partecipare alle esequie di un morto particolarmente importante. La madre ricorre alla magia e fa appello alla bocca del morto per chiedergli aiuto. Ma anche lui la respinge, in una scena che riassume il dramma (il morto era un resistente, incarna quindi i tre ordini che in­ contreremo nell’opera: il villaggio arabo, la resistenza e il re­ gno dei morti). Said e Leila, buttati in carcere, si avvicinano pian piano l’uno all’altra diventando sempre più radicali e avanzando in­ sieme sul cammino della mostruosità, del male e della nega­ tività. Alcune scene, scritte in uno stile farsesco, ci mostrano i colonizzatori come figure ridicole, chiacchieroni e ripugnanti al tempo stesso. Il terzo momento comincia con lo scoppio della rivolta. Kadidja, incarnazione del villaggio, che aveva impedito alla madre di partecipare alla cerimonia funeraria, sarà uccisa. Prima di morire definitivamente, chiama il villaggio alla ri­ volta e alla violenza, e cosi facendo fa propria la posizione di Said e di Leila che aveva prima condannata.

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Kadidja: “Sono morta? È vero. Ebbene, non ancora! Non ho finito la mia opera. Sicché, a noi due, Morte! Said, Leila, miei diletti! Anche voi di sera vi raccontavate il male della giornata. Avevate capito che non c’era piu speranza se non nel male. Male, meraviglioso male, tu ci rimani quando tutto ci ha piantato in asso, male miracoloso. E tu ci aiuterai. Te ne prego, e te ne prego in piedi, male, vieni a fecondare il mio popolo..."’

Ma Said, sua moglie e sua madre, che avevano cominciato sul piano individuale la resistenza contro gli oppressori facen­ do i ladri e gli incendiari, se ne allontaneranno adesso che la resistenta, organizzatasi, è assunta dalla comunità intera. Alla domanda di Kadidja "Cosa facevi?” (p. 137), la madre ri­ sponde: Madre·. “Mentre gli uomini ammucchiavano teste, cuori e mani ta­ gliate, io facevo il palo, Leila rubava abiti e macinini da caffè, e Said l’aiutava.” Kadidja: “Continua e fa’ bene quel che devi fare." Madre: “I consigli, io li do, non li ricevo. La mia semente, la semino come mi pare.” Kadidja: “So che sei in intimità con ciò che non ha piu nome sulla terra, ma me, devi...” (p. 137).

Said e Leila continueranno il loro cammino nel male, fino all’estremo, fino alla mostruosità. Lui avvelenerà le fontane, facendo cosi del male piu ai resistenti che ai colonialisti, perché costoro possiedono pozzi privati; Salem, un resistente, dichiara: "...Said, quando lo prenderemo, lo metteremo in pentola!” (p. 175). La madre uccide — apparentemente per caso — un soldato. In seguito, nel regno dei morti, confesserà d’averlo fatto appo­ sta: “Ma ho messo le cose in modo che sembrasse fatto a ca­ so..." (p. 193). Anche quando col suo esercito partecipava obiettivamente alla resistenza, si rifiutava di ammetterlo. Quarto momento: la rivolta è vittoriosa, è appena nato un nuovo ordine, nel quale non ci sono piu oppressi e oppressori e che Genêt non descrive più in modo caricaturale, ma serio c dignitoso. Però è pur sempre un ordine, che non può non riprendere molti elementi dell’ordine costituito. Compare infine nell’opera il terzo ordine, quello dei morti, in cui sono superate le contraddizioni e tutto ciò che prima era amico o nemico convive nell’armonia e nell’accordo prima di entrare nel regno dei morti, nel nulla. La madre che, anche se non aveva voluto ammetterlo, aveva 1

Le Paravents, L’Arbalète, 1961, p. 130.

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partecipato alla resistenza, arriva in questo regno e vi aspetta i suoi due figli. Sulla terra, sarà sostituita, come Kadidja, da una terza figura mitica, Ommou, che dice: “ Kadidja I Dicono che sei morta, perché sei nella terra, ma entra nel mio corpo e ispirami. Quanto a Said, sia benedetto!" (p. 173).

In seguito, nel regno dei morti, Kadidja dirà alla madre: “Si. È Ommou che ci ha sostituite, te e me...” (p. 236). Said torna al villaggio e si trova davanti i rappresentanti dell’ordine nuovo. Ommou, che incarna l’attesa del villaggio, constata che Said ha fatto quel che ha potuto per tradire ma che “...non ce riuscito molto” (p. 246) e che potrà sparire se nell’ordine nuovo che i rivoluzionari stanno per instaurare ci sarà un posto per Said, la cui verità non è di quelle che si devono seguire e attuare, ma è la sola che possa diventare canto e dare un senso alla nuova società: Ommou: “Soldato! Soldato di casa nostra, giovane coglione, ci sono verità che non devono mai essere applicate. Sono queste che bisogna far vivere con il canto che son diventate. Va’ a crepare in faccia al nemico. La tua morte non è piu vera del mio delirio. Tu e i tuoi compagni siete la prova che abbiamo bisogno di un Said..." (p. 254). 11 combattente: "Né io né i miei amici ci siamo battuti perché questo canti in te, Caroline. Ci siamo battuti, se vuoi, per amore del combatti­ mento, per la gloriosa parata e per l’ordine nuovo...” (p. 255). Ommou: "Io mi scanno a ripetertelo! Non fatto uccidere per proteg­ gere pascià, caid, droghiere, palla di gomma parrucchiere, geometra ce ne fottiamo, ma conservare prezioso nostro Said... e sua santa sposa..." (p. 255).

Imperiosi, i rappresentanti dell’ordine offrono l’oblio del passato e il perdono a Said. Anzi, lo considerano un dovere. Ommou non può che riderne, Said è quasi pronto a un ultimo tradimento: "Sono molto ricercato. Posso fissare il mio prez­ zo...” (p. 257) ma la madre grida, dal regno dei morti: "Said! Said! Non desisterai? Cagna ch’io sono, cagna e gravida di un bastardo, t’ho tenuto in pancia non perché tu diventassi uno di più o uno di meno! Una vita da cagna, calci sulle reni e tutta la rabbia pos­ sibile!... Meno di un quadrato d’ortiche, meno di quello che vali, fino a oggi mezzogiorno — è mezzogiorno in punto — pensavo che fosse l’odio a guidarmi, a me, Said!...” (p. 257).

Said si riprende, vuole abbandonare la scena quando è uc­ ciso da uno degli algerini. Nel nuovo ordine, come nel pre­

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cedente, non c’è ancora posto per lui. Ommou, che incarna le speranze del villaggio, dovrà invece rimanere sulla terra: Ommou: “Non è neanche oggi che troverò il tempo di crepare. Seppel­ lire uno, insultare gli altri. Arriverò a cent'anni” (p. 259).

Nel regno dei morti, la madre aspetta Leila, morta prima di lei, e Said. Ma non arriveranno. Di Leila sarà portato solo il velo, da Wanda. Quanto a Said, ha completamente ignorato il regno dei morti per entrare direttamente nel nulla. Per non trascurare, in questo disegno schematico, un ele­ mento particolarmente importante, aggiungiamo che il bordello, la casa delle illusioni e la figura che soprattutto incarna Wanda, si sviluppano anch’essi parallelamente agli eventi; essenziali e autonomi nella società degli oppressi e degli oppressori (lo sappiamo già dai due drammi precedenti) le prostitute diven­ tano, con la rivolta e la resistenza, come tutti gli altri membri della comunità, cittadine rispettate che partecipano alla lotta e hanno una funzione riconosciuta e rispettata nella società; non troveranno piu posto nell’ordine che segue la vittoria. Alla fine Wanda sarà uccisa dalle donne del villaggio. Come si inserisce Les Paravents nell’opera teatrale di Ge­ nêt, e che posto occupa nell’evoluzione di quest’opera? Sarebbe, a nostro avviso, facile e insufficiente al tempo stesso dire che Genêt è tornato al punto di partenza, alla posizione anarchica delle sue prime opere. Probabilmente Said ha molti importanti elementi in comune con il narratore del tournai du Voleur, la cui concezione è quella che compare anche nel pri­ mo dramma di Genêt, Haute Surveillance. Ma non si devono dimenticare neanche le differenze fondamentali. Nelle prime opere, il problema del senso e del valore degli ordini sociali, che occupa tanto posto e ha cosi grande importanza in Les Paravents non era nemmeno sfiorato. I personaggi del primo dramma erano moralisti non con­ formisti esclusi dalla società o almeno ad essa completamente estranei. Said è un personaggio universale, probabilmente mo­ rale, ma anche per la sua negatività politico. Come dice Ommou ai soldati della rivolta vittoriosa: "Voi, tu e i tuoi compagni, siete la prova che abbiamo bisogno di un Said...”, e per bocca di Ommou parlano anche Kadidja che ha scatenato la rivolta, la madre e la totalità del villaggio. Dopo i drammi dell’opposizione e dell’odio affascinato tra

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dominati e dominatori, Genêt, l'anarchico non conformista, non è più lo stesso di prima. Se non è facile stabilire che posto occupa Les Paravents nell opera di Genêt e nel teatro francese moderno, ci sembra possibile tuttavia fissare fin da questo momento alcuni punti: alcune decisive esperienze della sinistra europea sono state inte­ grate nell’universo del dramma. Innanzitutto la possibilità di una rivolta vittoriosa in Algeria e forse anche in altri paesi del mondo; poi il fatto che questa vittoria non basta da sé a garantire la vera felicità e la vera libertà degli uomini, né ad assicurare all'interno dell’ordine nuovo un posto a questi valori che, come dice Ommou, non si devono attuare, ma devono di­ ventare canto. I tre ordini del dramma corrispondono a tre concetti fon­ damentali del pensiero socialista europeo: la società di classe basata sull’oppressione, la società nata dalla vittoria della rivolta e del movimento di liberazione, che ha eliminato l’oppressione ma è ancora fondata sulla costrizione, e l'immagine avveniri­ stica di una società senza classi e senza costrizione, che nel pensiero socialista occupa il posto del regno dei cieli nell’esca­ tologia cristiana. A questi tre ordini e alla loro successione. Said, e con lui Genêt, oppongono un rifiuto deciso e univoco. C’è un’altra strada, che si può e si deve seguire se si vuole rimanere uo­ mini, qualunque sia il prezzo da pagare per seguirla. Nel teatro avanguardista francese, Les Paravents è il primo dramma importante che ci parli della forza e delle possibilità ancora intatte dell’uomo e che, per quanto paradossale possa sembrare l’affermazione, mette in scena un eroe — nella sua negatività e attraverso la sua negatività — in ultima analisi positivo. Perché, qualunque sia l’atteggiamento che si ha nei confronti dei valori di Said — ed è inutile dire che questi valori non sono i nostri — nell’universo del dramma essi sono autentici e incontestati. Diversamente da Solange e da Claire, diversamente dai Negri, diversamente dai rivoltosi del Balcon, Said li attua fuori del rituale, nella vita, e fino alla fine resta in piedi, incontaminato. Riuscito a liberarsi da ogni fascino e odio nei confronti dei vecchi e nuovi padroni, segue la sua via ed entra naturalmente e invitto nel nulla. II fatto che uno scrittore abbia potuto scrivere oggi questo dramma è un puro caso, si spiega con l’evoluzione intellettuale di Genêt, oppure si tratta di qualcosa di molto più importante, del primo dntomo di una svolta storica?

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Per quanto difficile possa essere rispondere a questo quesito, constatiamo che nel pensiero marxista dell’Europa occidentale si è affermata una corrente il cui programma domina il dibat­ tito sulle prospettive del socialismo nel mondo contemporaneo, e afferma l’insufficienza dell antico schema rivoluzionario e so­ prattutto l’impossibilità di attuarlo nella odierna società occiden­ tale. Una corrente che vede anche i pericoli che questo schema comporta per la libertà e la necessità di sostituirlo con una concezione più adatta all’evoluzione della società industriale moderna. Beninteso, i maggiori sostenitori di questa corrente avvertono come problematico, pesante e doloroso l’allontanamento dall’an­ tica tradizionale concezione. Trasposta su piano politico, que­ sta sensazione corrisponde al “tradimento" (che tuttavia non è tale, giacché per ciò che riguarda il tradimento, Said non è riuscito a combinare gran che) della vecchia concezione e del valore tradizionalmente attribuito alla rivoluzione. Di piu, nella misura in cui questi pensatori sono veramente socialisti, sanno che la nuova concezione che sostengono im­ plica un pericolo considerevole di compromesso e d'integrazione nell’ordine esistente. Sanno che il pericolo di corruzione è con­ nesso ad ogni frase riformista, qualunque sia la sua natura, e che si può opporvisi, tra l’altro, solo con il rifiutare radical­ mente ogni minimo compromesso psichico o intellettuale con la società tecnocrata in costruzione. Questa problematica — che ha rappresentato per esempio il tema centrale di discussione all’incontro di Korùla del 1964, tra il sociologo francese Serge Mallet e il filosofo americano, in ultima analisi appartenente però alla scuola di Francoforte, Herbert Marcuse — aveva fino ad oggi solo un carattere teorico e concettuale. Tuttavia, il fatto che uno scrittore che nei suoi ultimi drammi aveva posto al centro della sua opera il problema della storia possa oggi portare in scena un personaggio che, pur rifacendosi alla via tradizionale della rivolta, rifiuta i suoi ordini senza peraltro situarli sullo stesso piano — in effetto non si può, senza com­ pletamente modificare la struttura del dramma, mettere l’ordine caricaturale degli oppressori e dei colonialisti sullo stesso piano degli ordini della rivolta vittoriosa e della morte, anch’essi rifiutati ma descritti in modo dignitoso e serio; il fatto che questo personaggio resti fino alla fine nella sua negatività, sen­ za che nulla abbia potuto spezzarlo, e che abbandoni in piedi, senza aver ceduto al minimo compromesso, un universo nel quale Ommou e con lei tutta la comunità del villaggio de­

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vono ancora aspettare un avvenire in cui un altro Said troverà finalmente il suo posto: tutto questo presenta per il sociologo della cultura, che deve non solo comprendere la letteratura alla luce della società, ma la società alla luce della letteratura — anche se non condivide le opinioni di Genêt — un’importanza particolare. Les Paravents è soltanto un fenomeno isolato e accidentale? È la rondine che annuncia l’arrivo della primavera, rappresenta una svolta nella vita intellettuale e sociale odierna? Per quanto importante possa essere questo problema, porselo è certo pre­ maturo e nessuno sarebbe oggi in grado di rispondere.

1966

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INDICE «ι

Ί

Prefazione

p.

7

Introduzione ai problemi di una sociologia del romanzo

11

Introduzione ad uno studio strutturale dei romanzi di Malraux

33

Nuovo romanzo e realtà

179

L’immortelle

205

Il metodo strutturalista genetico nella storia della letteratura

211

Genêt

231

Finito đi stampare nel mese di febbraio 1981 dalla Milanostampa - Farigliano (CN)