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KAZIMIERZ TWARDOWSKI
CONTENUTO E OGGETTO
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KAZIMIERZ TWARDOWSKI

CONTENUTO E OGGETTO

INTRODUZIONE DI STEFANO BESOLI

BOLLATI BORINGHIERI

Prima edizione giugno 1988

© 1988 Bollati Boringhieri editore s.p.a., Torino, corso Vittorio Emanuele 86 I diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie' fotostatichc) sono riservati Stampato in Italia dalla tipografia Capretto e Macco di Torino -, CL 74-9265-0 ISBN 88-339-5428-5 Titoli originali Idee und Perception Eine erkenntnis-theoretische Untersuchung aus Descartes Carl Konegen - Wien - 1892 Zur Lehre vom Inhalt und Gegenstand der Vorstellungen Eine psychologische Untersuchung Alfred Holder - Wien - 1894

Traduzione di Stefano Besoli

INDICE

Introduzione di Stefano Besoli La rappresentazione e il suo oggetto: dalla psicologia descrittiva alla metafisica

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Idea e percezione: una ricerca teoretico-conoscitiva su Descartes

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o. Premessa i.Le diverse formulazioni del criterio 2. Natura e og­ getto della percezione 3. Percezione e giudizio 4. Idea e percezione. Percezione significa prensione del vero 5. La percezione chiara 6. La percezione distinta 7. La percezione chiara e distinta come criterio di verità 8. Il giudizio evidente 9. La rappresentazione distinta io. La rappresentazione chiara 11. La rappresentazione chiara e distinta 12. Riepilogo e conclusione Note

Sulla dottrina del contenuto e dell’oggetto delle rappresentazioni: una ricerca psicologica

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i.Atto, contenuto e oggetto della rappresentazione 2. Atto, contenuto e oggetto del giudizio 3. Nomi e rappresentazioni 4. Il «rappresen­ tato» 5.Le cosiddette rappresentazioni «senza oggetto» 6.Differen­ za tra contenuto e oggetto della rappresentazione 7. Descrizione del­ l’oggetto di una rappresentazione 8. L’ambiguità inerente al termine «nota caratteristica» 9. Le componenti materiali dell’oggetto io. Le componenti formali dell’oggetto 11. Le componenti del contenuto della rappresentazione 12. Relazione tra oggetto e contenuto di una rappre­ sentazione 13. La nota caratteristica 14. Le rappresentazioni indirette 15. Gli oggetti delle rappresentazioni generali Note

Indice dei nomi

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INTRODUZIONE DI STEFANO BESOLI

La rappresentazione e il suo oggetto: dalla psicologia descrittiva alla metafisica

o. L’intrinseca rilevanza dell’opera di Twardowski (1866-1938) e l’influenza che essa ha storicamente esercitato si possono rintracciare lungo una duplice direttrice problematica.1 Da un lato, infatti, Twardowski è stato il fondatore della prima scuola filosofica polacca, dall’altro le sue acquisizioni analitico-concettuali rappresentano una fase di transizione spesso ignorata o, per così dire, una sorta di «anello mancante» situabile tra rimpianto intenzionalistico della psicologia di Brentano e i successivi sviluppi delle riflessioni feno­ menologiche di Husserl e della Gegenstandstheorie elaborata da Meinong. Sul piano dell’impegno accademico e dottrinario l’im­ postazione filosofica di Twardowski ha largamente ispirato quella che è perlopiù conosciuta come la scuola di Leopoli-Varsavia, all’interno della quale si sono formati filosofi quali Lukasiewicz, Leéniewski, Ajdukiewicz, Kotarbinski e Tarski, che hanno in se­ guito progressivamente promosso, nell’ambito di tale scuola, gli studi di logica, matematica e semantica filosofica. Inserendosi nel clima alquanto disarticolato e privo di una vera identità filosofica che ca­ ratterizzava, in senso derogatorio, l’arretratezza dei diversi orienta­ menti filosofici presenti in Polonia all’inizio del secolo, l’insegnamento di Twardowski istituisce un quadro disciplinare in cui convergono, in qualità di tratti qualificanti, l’opzione in favore di un realismo di derivazione scolastico-aristotelica, il carattere obiettivistico dell’ap­ proccio metodico, la strenua difesa di una concezione corrispondentistica della verità, unitamente a una sensibilità vieppiù accentuata per le questioni linguistiche nonché per la centralità che esse rive­ stono nei singoli comparti tematici di cui l’edificio filosofico in genere si compone. Oltre a ciò, l’interesse che Twardowski ereditò

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da Brentano per un assetto apriorico e insieme descrittivo della psicologia gli consentì, senza per questo incorrere in nuove accen­ tuazioni psicologistiche, di informare un settore di indagini psico­ logiche che, in linea del resto con alcune delle esigenze già fatte emergere dalla scuola kiilpiana di Würzburg e da quella meinongiana di Graz, tendevano a contenere il significato e il ruolo acquisito dalla psicologia fisiologica e sperimentale, favorendo analisi di stampo non positivistico e in qualche modo rivolte al campo delle scienze dello spirito.2 Sul versante che rimanda invece ai momenti della sua formazione culturale, per l’evoluzione intellettuale di Twardoswki assume un’im­ portanza decisiva l’incontro con la filosofia di Brentano, sotto la guida del quale egli compì i propri studi universitari a Vienna, tra il 1885 e il 1889. Della teoria della conoscenza di Brentano egli ac­ cettò la netta divaricazione tra rappresentazione e giudizio, la distinzione tra un aspetto genetico della psicologia e uno descrit­ tivo, il décalage tra esperienza interna ed esterna, il carattere fon­ dante attribuito all’evidenza immediata dei giudizi riguardanti l’espe­ rienza interna, la dottrina idiogenetica del giudizio, e infine la riducibilità degli enunciati categorici in forma esistenziale. In piena sintonia con il tenore psicognostico delle indagini che Brentano aveva condotto a partire dal 1887, le ulteriori scansioni analitiche che Twardowski apporta entro la cornice classificatoria dei feno­ meni psichici improntata al criterio dell’intenzionalità prelude alle chiarificazioni fenomenologiche di Husserl circa i vissuti coscienziali e i relativi contenuti. Sotto il profilo coordinato dei risvolti ontologici le analisi di Twardowski prefigurano, nei loro linea­ menti essenziali, alcuni aspetti cruciali del programma meinongiano. In particolare, l’individuazione di oggetti non esistenti e nondi­ meno forniti di proprietà introduce al principio di indipendenza del Sosein dal Sein, la cui prima formulazione si deve peraltro attri­ buire a Mally, e alla connotazione compiutamente daseinsfrei che la teoria dell’oggetto di Meinong si aggiudica. Oltre alla funzione propulsiva che l’opera di Twardowski assolve nell’indirizzo della cosiddetta Brentano-Schule, un merito non certo indifferente le deriva dal fatto di aver criticamente rivisitato e ri­ proposto all’attenzione — ancor prima di Husserl — il realismo logico di Bolzano, al pensiero del quale egli fu introdotto attra­ verso il magistero di Zimmermann, la lettura degli scritti di Kerry e, non da ultimo, dalle indicazioni provenienti da Marty.

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i. All’epoca in cui Twardowski presentò la sua tesi di dottorato su Idea e percezione. Una ricerca teoretica-conoscitiva su Descartes (1892) Brentano svolgeva già da tempo, a Vienna, funzioni di semplice Privatdozent. Per questa ragione Twardowski dovette formalmente sostenere la discussione della sua tesi con Robert Zimmermann che, oltre a essere stato allievo di Bolzano, si collo­ cava in prossimità della filosofìa herbartiana ed era comunque estraneo alla tradizione di pensiero idealistica e kantiana. Tuttavia, malgrado tale necessaria sostituzione, il contenuto della disserta­ zione di Twardowski, sia per ciò che concerne l’affinità tematica sia per i riferimenti concettuali che vi figurano, appare come del tutto interno alle coordinate della psicologia di Brentano; in essa, in maniera affatto omologa a quella sottesa al tentativo eser­ citato da Natorp in piena congiuntura neokantiana, si attua un investimento sistematico di alcune idee guida della filosofia carte­ siana, a partire dalla valorizzazione del paradigma della riflessività coscienziale o «percezione interna» e dalla ripresa delle radici e dei motivi medievali su cui la filosofia di Descartes poggia. Nel primo dei suoi scritti Twardowski prende in esame i fon­ damenti della gnoseologia cartesiana e, più in particolare, riferen­ dosi all’attività di giudizio e delineando la fisiologia concettuale che le è propria, cerca di individuare ciò che in quest’ambito funge da criterio di verità. Nel riconoscere al giudizio una struttura com­ posita, qualificata dal concorso in esso di una funzione dianoetica e di un momento volontaristico, Twardowski inscrive di fatto la dottrina del giudizio cartesiana in quella tradizione di pensiero stoica che ha in qualche modo influenzato, tra l’altro, la nozione empiristica di belief e quella di Anerkennung, in cui Brentano aveva risolto la natura del giudizio affermativo. Il compito preliminare che Twardowski affronta è quello di analizzare le distinte funzioni che l’idea e la percezione svolgono internamente al giudizio. Nel disporre tale differenziazione, Twardowski ascrive alla cosiddetta percezione «intellettuale» la funzione etimologica di prensione del vero (Wahr-nehmung'), criticando con ciò tutti coloro — com­ preso Brentano — che avevano inteso rendere la percezione per mezzo della semplice rappresentazione, basandosi in parte sull’as­ senza della percezione dalla classificazione dei fenomeni psichici predisposta da Descartes e sul carattere mediano che essa si aggiu­ dica tra la classe delle rappresentazioni e quella dei giudizi. La

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considerazione critica che Twardowski rivolge nei riguardi di Brentano non è tuttavia pienamente condividibile. Se è pur vero infatti che Brentano, in sede di ricomprensione cartesiana, assi­ mila la percezione stessa alla rappresentazione — designandola pe­ raltro solo come Perzeption —3 è innegabile altresì che nel decorso propositivo della propria filosofia egli avvicini considerevolmente la percezione al giudizio, ravvisando in essa la presenza di un Fürwahrhalten? I rilievi che Brentano oppone a Descartes riguar­ dano, in senso stretto, il carattere naturalistico della dottrina del­ l’evidenza cartesiana, ovvero il fatto di non avere sufficientemente staccato rappresentazione e giudizio e di avere di conseguenza reso la Vor-stellung una sorta di pre-giudizio, rimanendo in tal modo — al pari di Leibniz — «im Vorzimmer der Wahrheit».5 Al limite «psicologistico» della gnoseologia cartesiana Brentano aveva ri­ condotto altresì gli errori insiti nel modulo conoscitivo di Thomas Reid,6 al quale imputava inoltre di aver fornito il modello all’errata dottrina kantiana dei giudizi sintetici a priori. Coniugato al tema dell’evidenza e alla relativa applicazione all’argomento del cogito è il rimprovero che Brentano muove infine a Descartes per non aver saputo distinguere l’evidenza assertoria, ottenuta tramite la per­ cezione interna, dall’evidenza apodittica propria dei princìpi ana­ litici o a priori, ai quali tuttavia corrispondono giudizi negativi sprovvisti di qualunque existential import. Tale commistione si deve essenzialmente al fatto che la percezione interna, dalla quale pro­ viene ogni forma di evidenza immediata e alla quale è strettamente correlato il criterio di verità, si applica cartesianamente non solo agli atti o fenomeni psichici, ma anche agli oggetti loro immanenti, alle idee obiettivamente in-esistenti, alle quali finisce così per spet­ tare, in ragione di questa impropria attribuzione di realtà, una no­ zione di verità o falsità materiale, che contrasta con quella formale che risiede unicamente entro lo spazio logico del giudizio. Per quanto Twardowski sottolinei con correttezza la necessità di emen­ dare la concezione cartesiana dell’evidenza, egli resta certo al di qua del grado di riflessione critica a cui Brentano sottoponeva — come esito del suo work in progress — la dottrina degli oggetti imma­ nenti e l’equivoco raddoppiamento dell’oggetto intenzionale a cui essa ricorreva.7 Il richiamo cartesiano alla realtà obiettiva e non solo formale delle idee nell’intelletto, scaturito da un’interpretazione forzatamente realista e ontologicamente impegnata dell’« objective inesse»

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di Suarez, costituisce dei resto un antecedente della nozione di contenuto alla cui definizione Twardowski era già intento.8 Per questo, l’impegno che la sua dissertazione assume prescinde fatalmente dall’affrontare tali questioni per dedicarsi piuttosto a rilevare la difformità di ruoli che l’idea e la percezione rico­ prono nell’ambito dell’ Urteilslehre cartesiana. La percezione, in­ fatti, non è mera rappresentazione, ma non coincide nemmeno con l’intera formulazione del giudizio. Mentre l’idea o rappresentazione funge dunque da elemento materiale o sostrato del giudizio, la percezione è invece ciò che, in qualità di componente catalettica del medesimo, ne costituisce l’intima ragione formale: vale a dire, è ciò che è in grado di motivare la nostra presa di posizione nei riguardi dell’oggetto del giudizio e di condurci perciò a decretarne l’assenso. Sulla base dell’analisi del «cogito ergo sum» e della ve­ rità che pertiene a tale principio, Twardowski giunge così a indi­ viduare nella «percezione chiara e distinta» il criterio che con­ sente di riconoscerlo come vero. Tuttavia, pur identificando tale genere di percezione con quella «ab intellectu», interna ed evi­ dente, Twardowski sembra far propria e accettare la conclusione cartesiana secondo cui la conoscenza che ne deriva risulta essere necessariamente vera e sottratta a ogni possibilità di errore. Al posto di interrogarsi sul significato profondo di tale criterio per­ cettivo, Twardowski si ferma semplicemente a considerare l’espres­ sione linguistica in cui esso compare e a esaminare la valenza che i requisiti della chiarezza e della distinzione assumono in rapporto alla percezione e, parallelamente, all’idea. Dalla disamina che Twardowski conduce emerge che, mentre la distinzione conserva in entrambi i casi lo stesso significato, per ciò che riguarda la chia­ rezza le cose stanno però diversamente. Applicata all’idea, la chia­ rezza sta infatti a significare che quella contiene la sua essenziale nota caratteristica; in un contesto percettivo, la chiarezza denota invece che la percezione, con il concorso necessario dell’attenzione di colui che percepisce, coglie l’oggetto «in modo completo e in tutte le sue parti». In assenza di un effettivo luogo definitorio, la nozione di chiarezza — che è condizione necessaria della distin­ zione — viene reperita mediante un semplice raffronto con la per­ cezione visiva. In tal senso, l’interpretazione che Twardowski nel­ l’insieme delinea non riesce pertanto a sortire risultanze soddisfa­ centi. Resta infatti assai problematico concepire come dalla natura «empirica» di un tale riscontro di completezza percettiva, che con

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trasta tra l’altro con l’improbabile adeguazione di un’idea o con­ cetto all’oggetto corrispondente,9 possa conseguire la condizione determinante di un giudizio per di più dotato di indubitabile cer­ tezza. La sostanziale condiscendenza che Twardowski manifesta nei confronti delle argomentazioni cartesiane può spiegarsi, forse, con l’implicita accettazione di alcune presupposizioni ontologiche che una più «fedele» adesione all’opinione che il «secondo» Bren­ tano legittimerà, à rebours, come quella univocamente autentica, non avrebbe invece consentito.

2. La trattazione che Twardowski sviluppa nella breve ma densa tesi di abilitazione sulla Dottrina del contenuto e deW oggetto delle rappresentazioni (1894) si colloca — come è stato già correttamente osservato —10 lungo quel tratto della filosofia meinongiana che da un approccio conoscitivo fondato su un rappresentazionalismo or­ todosso conduce a delineare una teoria del contenuto e delle sue relazioni con l’oggetto pienamente emancipata da tali condiziona­ menti. Nella Logica (1890) di Höfler, scritta con il contributo e la supervisione di Meinong, viene esposta una dottrina del riferimento resa ancora nei termini di una classica Bildertheorie. In essa figura infatti la riproposizione della dualità tra un oggetto trascendente, indipendente dal soggetto che pone in atto il riferimento, e un oggetto immanente, altrimenti contrassegnato come il contenuto della rappresentazione. Tale schema contrappositivo, entro il quale l’oggetto immanente — adibito a funzioni di rappresentanza — con­ sente la rappresentazione indiretta e approssimata dell’oggetto tra­ scendente — è ciò che impedì per un certo tempo a Meinong di servirsi delle nozioni di contenuto e oggetto se non in maniera si­ nonimica e promiscua.11 Analoghe difficoltà compaiono nella tradi­ zione dell’idealismo berkeleyano per il quale, nell’attività percettiva, è l’oggetto stesso a divenire il «contenuto» della coscienza. Da ul­ timo, anche nella Psicologia dal punto di vista empirico (1874) di Brentano, che pur distingue tra l’atto e l’oggetto relativo, non si procede tuttavia a definire un’ulteriore scansione tra contenuto e oggetto, in quanto tali termini rinviano in modo convergente ed equivoco a qualcosa che ha «in-esistenza intenzionale» nell’atto. Con tale identificazione Brentano non intende peraltro presentare l’oggetto intenzionale come tramite o correlato fenomenico dell’og­ getto reale. Ciò che è intenzionalmente preso di mira è soltanto l’oggetto mentale o immanente che inabita nel dominio della co­

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scienza. In tal modo, l’intenzionalità viene a essere alquanto pregiu­ dicata nelle sue potenzialità di relazione tendente ad assicurare una trascendenza effettiva. Essa, infatti, si limita più modestamente a esemplificare una forma di trascendenza che appartiene interamente all’ordine psicologico. In sostanza, sia che si voglia considerare ì'in-esistenza brentaniana come la designazione dello statuto onto­ logico che contraddistingue gli oggetti a cui si rivolgono i feno­ meni psichici, sia che si inclini invece a considerarla come la tipica modalità relazionale che fornisce la base per una differenziazione epistemica tra i fenomeni psichici e quelli fisici, in entrambe le pro­ spettive esegetiche è a Twardowski che va comunque attribuito il merito di aver fatto emergere la distinzione tra atto, contenuto e oggetto. La concezione riformata per cui Twardowski propende si muove da alcuni requisiti fondamentali della psicologia di Brentano che rilevano la natura basica della rappresentazione nei riguardi delle altre attività psichiche e che individuano nella forma intenzionale del riferimento ciò che consente all’atto di rivolgersi verso qual­ cosa che è altro da sé. Nondimeno, nella dottrina che Twardowski appronta, la relazione istituita tra l’atto e l’oggetto a cui esso tende non è affatto caratterizzata in modo semplice e immediato. Il movimento di trascendenza dell’atto che lo porta realisticamente a cogliere qualcosa che si situa «al di fuori» di esso non può essere tematizzato e compreso se non in ragione di un tramite o elemento intermedio che renda tale autotrascendenza possibile. Il contenuto è propriamente ciò che consente di operare questo passaggio: è un’entità che ci permette di cogliere l’oggetto in un determinato modo. La nozione di contenuto sebbene allunghi il tragitto dell’in­ tenzionalità, non opera una regressione a un modo di pensare psi­ cologistico. Dal fatto che, nella dottrina che Twardowski espone, l’oggetto, per quanto realmente trascendente, sia sempre dato per mezzo di un contenuto, scaturiscono invece una serie di implica­ zioni teoriche che hanno un’incidenza diretta nelle analisi che con­ durranno Husserl a isolare la materia intenzionale dell’atto — in seguito ridefinita come Sinn noematico — e a rendere con ciò con­ testuale il concetto fenomenologico di immanenza e l’apertura ai modi di datità di un oggetto. Di certo, la tripartizione che Twardowski realizza ha tratto forti suggestioni da quella che Bolzano stabilisce tra «rappresentazione soggettiva» o «pensata», «rappresentazione obiettiva» e oggetto.

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In quest’ultima, la «rappresentazione soggettiva»12 indica quel ge­ nere di fenomeni o atti nominali che presuppongono appunto un soggetto al quale inerire e nel quale svolgersi, ottenendo con ciò un’ovvia determinazione spazio-temporale. La «rappresentazione obiettiva»13 o «in sé» costituisce, per contro, la materia della prece­ dente forma di attività psichica. Le «rappresentazioni in sé» che, insieme alle «proposizioni in sé» e alle «scienze in sé», costitui­ scono una delle categorie di oggetti logici che Bolzano ammette, hanno altresì a che fare con ciò che husserlianamente viene definito come «l’unità ideale del significato»,14 ovvero come l’invarianza del senso correlata alle espressioni linguistiche o intenzioni signifi­ canti. La «rappresentazione in sé» non è quindi, per Bolzano, al­ cunché di reale; purtuttavia essa è «qualcosa» che c’è anche in assenza di un soggetto che la colga o di un’espressione che la inten­ zioni. Inoltre, tale forma di rappresentazione non si pluralizza o moltìplica anche se viene contemporaneamente concepita da più persone o da una stessa persona in tempi diversi. Tutto ciò significa che l’assenza della «rappresentazione obiettiva» non risiede nel suo essere pensata o espressa. In tal modo, il dominio oggettuale della logica ottiene un contrassegno di purezza, idealità e indipendenza, tale da renderlo trascendentalmente «in sé» rispetto agli ambiti disciplinari della psicologia e della linguistica. Per contro, nessuna «rappresentazione soggettiva» può manifestarsi senza che «ci sia» una «rappresentazione obiettiva» verso la quale dirigersi e alla quale corrispondere. Un’ulteriore complicazione analitica si mo­ stra nel fatto che per Bolzano, a differenza delle «rappresentazioni soggettive» che sono sempre realmente esistenti e di quelle «obiet­ tive» alle quali non spetta peraltro alcuna assegnazione di realtà, gli oggetti delle rappresentazioni possono ugualmente esistere o meno. Da questa bilaterale indifferenza nei confronti dell’esistenza degli atti di rappresentazione, nonché della possibile non-esistenza dei loro oggetti ha luogo per Bolzano una conferma definitiva del­ l’essenziale immutabilità delle «rappresentazioni in sé» e degli og­ getti logici in generale.15 Pur costituendo una tangibile progressione sul piano dell’inda­ gine descrittiva delle componenti strutturali delle attività psichiche, l’analisi di Twardowski non appare del tutto svincolata da certe commistioni teoriche che ne limitano la portata concettuale. Pren­ dendo spunto dalle differenziazioni avanzate da Bolzano, Twar­ dowski accede a un’interpretazione della «rappresentazione in sé»

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tendente a identificarla con il «rappresentato» puro e semplice, ovvero con l’oggetto in quanto rappresentato.16 Interrogandosi in­ torno all’ambiguità dell’espressione «rappresentato»,Twardowski si serve della distinzione tra gli aggettivi attributivi e quelli invece modificanti per mostrare l’effettiva alterità tra il contenuto e l’og­ getto. A conclusione del suo ragionamento — condotto in base a un’analogia con l’attività del dipingere — emerge infatti che, men­ tre la determinazione «rappresentazione» svolge in rapporto al contenuto una funzione attributiva, rispetto all’oggetto essa funge da vera e propria modificazione di significato. In ragione di ciò, l’oggetto «rappresentato» non si identifica con la rappresentazione dell’oggetto, bensì con il contenuto della rappresentazione. Un ri­ corso alle funzioni contrapposte degli aggettivi era già stato adot­ tato da Brentano, ma in tutt’altro senso, per dimostrare, contro le obiezioni che gli provenivano da John Stuart Mill, la completa ri­ ducibilità degli enunciati categorici a proposizioni esistenziali.17 Per Brentano, infatti, la proposizione «il centauro è un’invenzione dei poeti» non esige, per essere vera, che esista l’oggetto «cen­ tauro ». La sua verità non richiede altro che l’esistenza della fin­ zione poetica. Attraverso tale esemplificazione Brentano nega dun­ que non solo un riconoscimento ontologico agli oggetti immanenti, ma altresì la necessità di introdurre una nozione complementare come quella di contenuto. A partire dall’insieme delle proprie ar­ gomentazioni — una delle quali, invero, ampiamente fallace — Twardowski giunge invece a richiedere l’effettiva distinzione tra contenuto e oggetto. Se, infatti, il contenuto è qualcosa di neces­ sariamente mentale che costituisce una parte inseparabile dell’atto, l’oggetto possiede invece caratteristiche eterogenee rispetto ad esso. E inoltre, mentre il contenuto è, quanto alla sua esistenza, strettamente dipendente dall’atto psichico, l’oggetto può nello stesso tempo non esistere. Malgrado ciò, Twardowski ascrive la realtà — intesa come sinonimo di esistenza concreta — solamente all’atto, attri­ buendo rispettivamente al contenuto non più che l’esistenza. Sul fronte degli oggetti, a fianco di quelli reali o concreti Twardowski ne riconosce altri — come la mancanza, l’assenza, la possibilità — che, pur non essendo reali, possono nondimeno esistere o, per dirla nel linguaggio di Meinong, sussistere. Ma la visione ontologica che Twardowski traccia non contempla, certo, alcun pregiudizio in favore della realtà o esistenza. In contrasto con la dottrina delle «rappresentazioni senza oggetto» di Bolzano, essa accorda altresì

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la possibilità di rappresentare o formulare enunciati su oggetti che, in quanto comportano proprietà contraddittorie, non risultano af­ fatto esistenti. La mancata esistenza dell’oggetto non ne pregiudica tuttavia, per Twardowski, la possibilità di essere ugualmente rap­ presentato. E poiché ogni genere di attività psichica esige, come momento di necessaria complementazione relazionale, resistenza di un contenuto, quest’ultimo non può in alcun modo mostrarsi con­ traddittorio. Il contenuto, in maniera dissimile da ciò che caratte­ rizza il Sosein o natura descrivibile di un oggetto, si dice dunque presente, mentale ed esistente. Lungi dal perseguire un’equivoca si­ tuazione di overlapping, la radicale distinzione tra contenuto e og­ getto fa scaturire una più netta demarcazione tra il dominio della psicologia, analiticamente incrementato dalla nozione di contenuto, e l’orizzonte dei riferimenti oggettuali, tendenzialmente rivolto a un’essenziale indifferenza ontologica. Tuttavia, le considerazioni che Twardowski sviluppa in ordine alla tripartizione evidenziata non si arrestano semplicemente al campo delle rappresentazioni. Il com­ pito che egli si prefigge lo spinge infatti a cercare una conferma della distinzione istituita tra atto, contenuto e oggetto all’interno dello stesso ambito giudicativo. Pur attenendosi formalmente ai requisiti innovativi della teoria brentaniana del giudizio, che rico­ nosce l’essenza di tale attività nell’affermare o negare un oggetto e che fa derivare il concetto di esistenza da una riflessione sull’espe­ rienza interna e, precisamente, dall’enunciazione di un giudizio af­ fermativo vero, Twardowski interrompe questa continuità dottri­ naria, pretendendo di rilevare nell’esistenza il tipico contenuto giudicativo. Il contenuto dell’attività di giudizio non viene così identificato con il contenuto della rappresentazione su cui essa è fondata, bensì con l’esistenza dell’oggetto affermativamente giudi­ cato. Con tale shift Twardowski non intende peraltro rilanciare una concezione predicativa del giudizio. L’esistenza, infatti, non precede l’esperienza del giudizio, ma è riconosciuta piuttosto come il contenuto della medesima. Diversamente, egli si pone il problema di discernere ciò su cui il giudizio verte (das Beurteilte} da ciò che in esso è effettivamente giudicato (das Geurteilte). In maniera para­ digmatica Twardowski si sofferma, a tal riguardo, sul caso dei giu­ dizi negativi, la cui verità richiede, per l’appunto, che l’oggetto giudicato non sia esistente. Tale condizione non contrasta tuttavia con l’esigenza che, al fine di poter essere negato, l’oggetto del giu­ dizio debba essere comunque rappresentato per mezzo di un con­

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tenuto, la cui esistenza non è pertanto in discussione. Che un oggetto contraddittorio o non esistente sia dunque sottoposto a giu­ dizio per mezzo di un contenuto che invece esiste dimostra, da un lato, l’assoluta alterità tra contenuto e oggetto, dall’altro che esiste, in qualità di contenuto, il fatto che «l’esistenza dell’oggetto pri­ mario del giudizio non si dà» e che, di conseguenza, deve essere negata. Come effetto di tale distinzione Twardowski sembra voler conseguire il risultato di mantenere in vigore, anche per i giudizi negativi veri, una sorta di corrispondentismo immanente all’atto o, per meglio dire, un’effettiva adaequatio cogitantis et cogitati. Ma a prescindere da questa risultanza indotta, che pone di diritto Twardowski tra coloro che Brentano designò, nel suo periodo teistico, come Sezessionisten13 rispetto all’indirizzo filosofico che egli aveva tracciato, l’individuazione di un contenuto del giudizio la­ vora nel senso di un’evidente riproposizione tematica della nozione bolzaniana di Satz an sich e precede, in termini di emersione con­ cettuale, VObjektiv di Meinong, il Sachverhalt di Stumpf, VUrteilsinhalt di Marty e il Gedanke di Frege. Il contenuto del giudizio non corrisponde dunque, per Twardowski, al contenuto della rap­ presentazione soggiacente, né fa la sua comparsa per via di un semplice mutamento qualitativo dell’atto, ma costituisce bensì un elemento la cui esistenza può essere riconosciuta o negata da un giudizio rivolto ad esso. Ma proprio per questo il modo di essere che gli spetta — sia esso l’esistenza o la sussistenza —19 non coincide affatto con la realtà, anche solo psichica. Dal fatto che Twardowski non avverta poi nessuna difformità per ciò che riguarda l’occorrenza di contenuti nel campo delle rappresentazioni e in quello dei giudizi si evince implicitamente che egli fosse convinto della pre­ senza di Inhalte anche nel caso degli stessi giudizi falsi. Se è così, la perfetta analogia strutturale che egli rinviene tra le componenti delle rappresentazioni e dei giudizi lo colloca in una linea di conti­ nuità tra Bolzano e Meinong20 e in aperto disaccordo con l’interpre­ tazione di Marty e Bergmann, per i quali l’esistenza di contenuti nei giudizi falsi assume, al massimo, una valenza controfattuale.21 Per Twardowski il giudizio si risolve quindi in un atto di conformità a un contenuto, indipendentemente dal fatto che esso sia vero o falso. Tuttavia i contenuti, sebbene possiedano — a differenza dei puri oggetti immanenti — una loro ideale obiettività distinta dal carat­ tere di realtà dell’atto, non mostrano ancora di poter attingere quel tratto di indipendenza nei confronti teWErlebnis giudicativo che

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li contrassegnerebbe nel segno di una reale trascendenza. In ragione della permanente inerenza psicologica dei contenuti, la dottrina che Twardowski delinea non riesce dunque a promuoverli interamente a oggetti della logica, la qual cosa invece avviene — e in maniera ben più compiuta — per le Sätze an sich di Bolzano e gli Objektive di Meinong. In modo simile a come le riflessioni condotte intorno alla nozione di contenuto non consentono di enucleare — a causa di una loro caratterizzazione prevalentemente psichica — un do­ minio logico sottratto a tali influenze, anche dalle considerazioni riguardanti l’oggetto non scaturisce un quadro teorico emendato da presupposizioni metafisiche. Al contrario, il portato della distin­ zione tra contenuto e oggetto implica un accesso diretto dal terreno della psicologia a quello della metafisica. È noto come, nei confronti di Bolzano, Twardowski rivendichi, in qualità di premessa fon­ dante, il fatto che tutte le rappresentazioni abbiano contenuto e oggetto. Bolzano, da parte sua, riteneva infatti che ci fossero rappre­ sentazioni che, benché riferite a un oggetto, non ne avevano tutta­ via alcuno. Da tale costatazione, che dimostra come Bolzano abbia perfettamente rilevato la natura relazionale delle attività psichiche anche nel caso in cui l’oggetto relativo non esiste, non si deve peraltro estrapolare che alle rappresentazioni «soggettive» e «prive di oggetto» non corrisponda una rappresentazione «in sé». Tali rappresentazioni si definiscono vuote non in quanto sprovviste di una materia «obiettiva», ma in quanto non hanno alcuna estensione o dominio. Per Bolzano, la coscienza viene vista, in definitiva, come una relazione reale o possibile alla quale, in taluni casi, non corrisponde alcunché di oggettuale.22 Benché Twardowski accetti la soluzione argomentativa di Höfler, in base alla quale la «sussi­ stenza» di una relazione non dipende affatto dall’esistenza di en­ trambi i termini, egli tuttavia non rinuncia, anche nel caso della rappresentazione di oggetti non esistenti, a distinguere tra conte­ nuto e oggetto e ad assicurare pertanto a tale relazione una qualche referenzialità oggettuale. Nel caso dei giudizi negativi veri il ter­ mine del riferimento relazionale non può essere infatti costituito dal contenuto in quanto — pena la loro stessa pensabilità — esso risulta sempre e comunque esistente. Tale impasse necessita dunque, per Twardowski, l’ammissione di oggetti non esistenti, il cui ca­ rattere contraddittorio o impossibile non ne impedisce, peraltro, la rappresentabilità. A fronte dell’esistenza reale di un oggetto, Twar­ dowski giunge così a legittimare 1’esistenza fenomenica e intenzio-

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naie dell’oggetto non esistente, ovvero il suo essere semplicemente rappresentato. Appropriandosi di un significato di «esistenza» mo­ dificato, l’oggetto non esistente è ciò che funge da correlato rela­ zionale di tale genere di rappresentazioni ed è inoltre ciò al quale ineriscono quegli attributi contraddittori che ne implicano, ap­ punto, la mancata esistenza. Alle rappresentazioni senza oggetto di Bolzano, Twardowski contrappone, pertanto, rappresentazioni di oggetti non esistenti. Nella concezione che Twardowski elabora, l’oggetto è dunque qualcosa di diverso dall’esistente. Ad esso — in conformità con il principio neotomistico secondo il quale Vessentia precederebbe Vexistentia — appartiene anzitutto l’oggettualità, in­ tesa come la proprietà di essere rappresentato. In tal modo, la no­ zione di oggetto riassume in sé tutte le categorie di ciò che è rappresentabile. Il senso di apertura che promana da tali indicazioni introduce, in maniera indiscutibile, alla Gegenstandstheorie di Meinong. All’oggetto puro o überhaupt che si colloca «jenseits von Sein und Nichtsein», Meinong infatti assegna — dopo una corre­ zione di percorso — quella qualifica di Aussersein che, per la sua assoluta indifferenza ontologica, non si presta a essere ricondotta a «Sein des Seienden».23 Trattandosi di una caratteristica che spetta a ogni genere di entità, e non già di uno statuto ontologicamente sovraordinato, la teoria dell’oggetto meinongiana si dichiara perciò estranea al frame'work della metafisica classica. Assai più esposta a risultanze equivoche appare invece la pro­ spettiva in cui opera Twardowski. In essa, infatti, il nome «og­ getto» è univocamente predicabile di tutto ciò che può essere rap­ presentato e che, in quanto tale, è pur sempre qualcosa. Da ciò consegue che la nozione di oggetto tende a qualificarsi come ge­ nere sommo, predicato trascendentale o, forse anche, come «cate­ goria delle categorie». Ed è per questo che Twardowski, invece di limitarsi a tracciare quelle coordinate teoriche entro le quali risulti lecito ospitare gli oggetti solitamente ritenuti heimatlos, riserva loro ampia cittadinanza in seno a una metafisica adibita, non certo in maniera ortodossa, a «scienza degli oggetti in genere».

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NOTE i. Sui caratteri della filosofia di Twardowski e sull’incidenza che essa ha eser­ citato si veda: T. Czezowski, Kazimierz Twardowski as Teacher, in «Studia philosophica» (1939-40); R. Ingarden, The Scientifìc Activity of Kazimierz Twardowski, ibid.-, T. Czezowski, Tribute to Kazimierz Twardowski on thè loth Anniversary of His Death in 1938, in «The Journal of Philosophy» (i960); Z. A. Jordan, Philosophy and Ideology, Dordrecht 1963; H. Skolimowski, Polish Analytical Philosophy, London 1967; B. Bakies, Konzeption des Ge­ genstandes als Korrelat des Aktes bei Twardowski, in «Studia Philosophiae Christianae», XI (1975), 2 (testo in polacco con riassunto in lingua tedesca); B. Bakies, Theorie des inneren Struktur der Gegenstandes bei Twardowski, ibid., XII (1976), t (testo in polacco con riassunto in lingua tedesca); E. Paczkowska, Twardowski’s Refutation of Psychologism, in «Zeszyty naukowe Uniwersytetu jagiellonskiego» (Krakow 1976), 446: «Prace Filozoficzne», 6; E. PaczkowskaÉagowska, On Kazimierz Twardowski's Ethical Investigations, in «Reports on Philosophy » (Warszawa 1977), 1; R. Grossmann, Introduction a K.Twardowksi, On thè Content and Object of Presentations, trad, ingl., s’Gravenhage 1977; I. Dambska, Francois Brentano et la pensée philosophique en Pologne: Casimir Twardowski et son École, in «Grazer philosophische Studien», voi. 5 (1978); J. Pelc (a cura di), Semiotics in Poland, Dordrecht-Boston-Warszawa 1979; H. Buczynska-Garewicz, Twardowski’s Idea of Act and Meaning, in «Dialectics and Humanism», VII (1980), 3; R. Haller, Einleitung a K.Twardowski, Zar Lehre vom Inhalt und Gegenstand der Vorstellungen, München-Wien 1982 (rist. anast. della ia ed.); F. Modenato, Atto, contenuto, oggetto: da F. Brentano a K. Twardowski, in «Verifiche», XIII (1984), 1. 2. Cfr. E. Paczkowska-Eagowska, Psychologie, aber nicht Psychologismus: Dilthey und Twardowski zum Verhältnis von Psychologie und Geisteswissen­ schaften, in E. W. Orth (a cura di), Dilthey und der Wandel des Philosophie­ begriffs seit dem 19.Jahrhundert, Freiburg i.B. 1984.

3. Cfr. F. Brentano, Vom Ursprung sittlicher Erkenntnis, Leipzig 1889; rist. anast. della 4a ed. del 1955, Darmstadt 1969, p. 65. 4. F. Brentano, Psychologie vom empirischen Standpunkt, voi. 2, Leipzig 1925; rist. anast., Darmstadt 1971, p. 50.

5. Brentano, Vom Ursprung sittlicher Erkenntnis cit., p. 65. 6. Cfr. G. Katkov, Descartes und Brentano. Eine erkenntnistheoretische Ge­ genüberstellung, in «Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie», XXX (1937), 4, p. 603; F. Brentano, Was an Reid zu loben. Ueber die Philosophie von Tho­ mas Reid (aus dem Nachlass), in « Grazer philosophische Studien », voi. 1 ( 1975). 7. Cfr. F. Brentano, Psychologie vom empirischen Standpunkt, ibid., voi. 2, pp. 158 sgg. (Appendice del 1911). 8. Cfr. A. Kastil, Studien zur neueren Erkenntnistheorie, l. Descartes, Halle a.S. 1909, pp. 180 sgg.

9. Cfr. R. Descartes, Meditationes de prima philosophia, Quintae Resp. (A.T. VII), pp. 364 sgg.

10. Cfr. J. N. Findlay, Meinongs Theory of Objects and Value, Oxford 1933, 2a ed. 1963, p. 8. 11. Cfr. A. Meinong, Ueber Gegenstände höherer Ordnung und deren Ver­ hältnis zur inneren Wahrnehmung, 1899 [trad. E. Melandri, Gli oggetti d’or­ dine superiore in rapporto alla percezione interna, Faenza 1979, p. 33].

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12. Cfr. B. Bolzano, Wissenschaftslehre, Sulzbach 1837; Leipzig, 2a ed. 1929-31, risr. anast., Aalen 1970, voi. 1, pp. 216 sg., voi. 3, p. 5.

13. Cfr. Bolzano, Wissenschaftslehre cit., voi. 1, p. 216. 14. Cfr. H. Bergmann, Das philosophische Werk Bernard Bolzanos, Halle a. S. 1909, pp, 27 sg.; Bolzano, Wissenschaftslehre cit., voi. 1, p. 224. 15. Sulla tematica del cosiddetto «realismo logico», cfr. E. Morscher, Von Bolzano zu Meinong: Zur Geschichte des logischen Realismus, in R. Haller (a cura di), Jenseits von Sein und Nichtsein. Beiträge zur Meinong-Forschung, Graz 1972. 16. Cfr. Bergmann, Das philosophische Werk Bernard Bolzanos cit., pp. 29Sgg. 17. Cfr. F. Brentano, Psychologie vom empirischen Standpunkt cit., pp. 60 sgg., nota. 18. Cfr. F. Brentano, Vom Denken und vom «ens rationis» (ca. 1907-1908), in F. Mayer-Hillebrand (a cura di), Die Abkehr vom Nichtrealen, Bem 1966, P- 37519. Cfr. Philosophenbriefe. Aus der wissenschaftlichen Korrespondenz von A. Meinong, p. 144. 20. Sia Bolzano sia Meinong ammettono infatti l’occorrenza di «proposizioni in sé» e di «obiettivi» anche nel caso di giudizi falsi. Cfr. Bolzano, Wissen­ schaftslehre cit., voi. 1, p. 77; A. Meinong, Ueber Annahmen, Leipzig 1902, 2a ed. 1910, in Gesamtausgabe, voi. 4, Graz 1977, p. 45. 21. Cfr. A. Marty, Untersuchungen zur Grundlegung der allgemeinen Gram­ matik und Sprachphilosophie, Halle a. S. 1908; Hildesheim-New York 1976, pp. 423 sgg.; Bergmann, Das philosophische Werk Bernard Bolzanos cit., pp. 11 sgg. 22. Su tale identificazione che anticipa la distinzione di Marty tra correlazione e determinazione relativa, cfr. Bergmann, ibid., pp. 34 sgg. 23. Cfr. F. Freundlich, Die beiden Aspekte der Meinongschen Gegenstands­ theorie, in K. Radakovic, S. Tarouca e F. Weinhandl (a cura di), MeinongGedenkschrift, Graz 1952, p. 23. A tale scorretta ricomprensione si oppone R. Haller, Meinongs Gegenstandstheorie und Ontologie, in «Journal of thè History of Philosophy», IV (1966) p. 322 (tale saggio è stato ora ripubblicato in R. Haller, Studien zur Österreichischen Philosophie. Variationen ueber ein Thema, Amsterdam 1979).

IDEA E PERCEZIONE: UNA RICERCA TEORETICO-CONOSCITIVA SU DESCARTES (1892)

o. Premessa

La verità della proposizione «cogito ergo sum», ovvero del principio della gnoseologia cartesiana, si fonda sul fatto che in que­ sta proposizione non si asserisce nient’altro che qualcosa è percepito in modo chiaro e distinto. Peraltro, non solo questa, ma pressoché tutte le forme di conoscenza, secondo Descartes, sono appunto per questo conoscenze, e cioè giudizi enunciati con la convinzione che siano veri, in quanto si ritiene per vero in essi solo ciò che è per­ cepito in modo chiaro e distinto. Se ci si limitasse, pertanto, a for­ mulare quei giudizi il cui oggetto viene percepito in modo chiaro e distinto, si rimarrebbe preservati da ogni genere di errore. Per la gnoseologia cartesiana la «percezione chiara e distinta» costituisce fondamentalmente il criterio della verità. Ciò è stato ri­ conosciuto senza eccezioni da coloro che hanno di recente trattato della filosofia cartesiana.1 In particolare divergono quei tentativi, per quanto rari, di spiegare l’essenza della «percezione chiara e distinta», mentre sul ruolo di rilievo che essa svolge nell’ambito della filosofia cartesiana regna un completo accordo. Tanto più sorprendente deve apparire il fatto di sostenere che in Descartes l’uso dell’espressione «idea chiara e distinta» non venne considerato accanto all’espressione «percezione chiara e di­ stinta», o che le due espressioni furono identificate. Il primo caso compare in Koch e in Natorp; il secondo in Bolzano e in Peter Knoodt.2 Eppure già Antoine Arnauld3 compie una distinzione tra percezione e idea, definendo la percezione come atto di rappresen­ tazione e l’idea, per contro, come contenuto di rappresentazione.

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Il compito del presente lavoro è quello di stabilire il rapporto che intercorre tra la percezione chiara e distinta e l’idea chiara e distinta, integrando in tal modo le precedenti ricerche. C’è un apparente difetto di queste ricerche che esige una giusti­ ficazione. Vale a dire, esse hanno del tutto evitato di occuparsi del punto di vista teologico di Descartes. Tale mancanza potrebbe tro­ vare una spiegazione nel fatto che Descartes stesso, nell’esporre il suo criterio, elimina — se così si può dire — la divinità. La «regola generale» è valida anche alla condizione che la divinità inganni gli uomini o, perfino, che essa non esista. Ciò si può facilmente desu­ mere dal modo stesso in cui Descartes perviene alla formulazione della «regola». A tal riguardo, il suo ragionamento è il seguente. Se io mi rappresento privo del corpo e dei sensi, e se assumo che le rappresentazioni di corpi, l’estensione, il movimento e simili siano in qualche modo formate da me stesso; e se assumo che io non abbia bisogno, fuori di me, di nessuna di quelle cose che danno origine in me a queste rappresentazioni, nemmeno così io vengo eliminato dal mondo, rispetto al quale faccio le suddette conget­ ture e del quale ho le menzionate rappresentazioni. Ma è forse solo un’illusione da parte mia se, pur negando l’esistenza delle cose no­ minate, assumo me stesso come esistente? Può darsi, posso ingan­ narmi, quest’illusione può essere opera di un essere onnipotente: ma anche se io vengo ingannato, è vero nondimeno che io, che pur sono ingannato, esisto. Questo «io» è la mia «attività di pensiero» (intesa nel senso più ampio di insieme dei fenomeni psichici). Su che cosa si basa, dunque, questa mia irrefutabile convinzione? Sul fatto che io percepisco in modo chiaro e distinto ciò che da parte mia ho asserito, e che ciò che percepisco in modo chiaro e distinto è necessariamente vero. Perciò io posso enunciare come principio generale che tutto ciò che percepisco in modo chiaro e distinto è vero. Un’obiezione alquanto evidente, alla quale lo stesso Descartes mostra di porgere il destro, fu sollevata anche dai suoi contempo­ ranei. Descartes afferma infatti più volte che se la sua «regola» non offrisse realmente la massima certezza possibile, si dovrebbe assu­ mere allora che Dio sia un ingannatore. Ma che Dio non sia un ingannatore e che gli appartenga, al contrario, un’assoluta veridi­ cità, è proprio ciò che Descartes asserisce di nuovo in virtù della sua «regola». Per mezzo della distinzione tra l’evidenza mediata e quella immediata, Descartes respinge l’addebito di aver commesso,

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in tale argomentazione, un circolo vizioso.4 Descartes ricorre quindi alla veridicità divina solo in rapporto all’evidenza della memoria, una circostanza che fa apparire superfluo, in ordine alla presente ricerca, occuparsi di tale questione. 1. Le diverse formulazioni del criterio

Le formulazioni che Descartes fornisce della sua «regola gene­ rale» non concordano quanto al tenore delle parole. Le principali espressioni di cui Descartes si serve sono le seguenti: a) Tutte le cose che noi concepiamo molto chiaramente (dare) e molto distintamente sono vere (Terza meditazione) [voi. 1, pp. 215-16]. è) Le cose, le quali noi concepiamo in modo del tutto chiaro (dilucide) e distinto, sono tutte vere (Discorso sul metodo, p. 18) [voi. 1, p. 152]. c) È provato che le cose che noi concepiamo chiaramente e di­ stintamente sono tutte vere (Riassunto della quarta meditazione) [voi. 1, p. 197]. d) Ma io so già che non posso ingannarmi nei giudizi (in illis) di cui conosco chiaramente le ragioni (Quinta meditazione) [voi. 1, p. 247]. e) Appena comprendo qualcosa molto chiaramente e distinta­ mente, sono naturalmente portato a crederla vera (ibid.) [voi. 1, p. 246]. f) Tutto quel ch’io concepisco chiaramente e distintamente non può non essere vero (ibid?) [voi. 1, p. 247]. g) Nulla può essere chiaramente e distintamente concepito da chicchessia, senza essere quale lo concepisce, cioè senza esser vero (Risposte alle settime obiezioni) [voi. 1, p. 616]. Queste e altre formulazioni della «regola generale», dal tenore simile, possono facilmente essere riconosciute come espressioni dif­ ferenti di uno stesso pensiero. Tanto poco dovrebbe dunque scan­ dalizzare il fatto di considerare sinonimi dilucide e clare, come pure l’equiparazione di perspicuitas e claritas che Descartes stesso auto­ rizza (Risposte alle seconde obiezioni, p. 69) [voi. 1, p. 320]. L’omis­ sione della determinazione distincte nella formulazione d) non deve tuttavia trarre in inganno, poiché Descartes spiega esplicitamente che la chiarezza da sola non è sufficiente a stabilire la validità della

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regola, ma che alla medesima dovrebbe sempre essere unita la di­ stinzione.5 Se una volta Descartes parla di «molto chiaramente» e un’altra volta, semplicemente, di «concepire (percipere') chiara­ mente», questo fatto non potrà far sorgere alcuna supposizione circa una gradazione della chiarezza e, condizionata da ciò, sulla minore o maggiore certezza della percezione, in quanto Descartes esige l’assoluta chiarezza per tutte le percezioni che devono offrire una conoscenza certa.6 Le maggiori difficoltà sono rappresentate dall’impiego delle espressioni concipere e intelligere accanto a per­ cipere. La terminologia del Medioevo, alla quale Descartes si at­ tiene quasi costantemente, distingue con precisione tra intelligere, concipere e percipere. Ciò nonostante, si deve prescindere da questa distinzione e si deve prendere esclusivamente in considerazione, nel corso della ricerca, l’espressione percipere-, in primo luogo per­ ché nel criterio il senso delle tre espressioni menzionate non può essere che unico e, in secondo luogo, perché Descartes usa l’espres­ sione percipere in un numero prevalente di casi.

2. Natura e oggetto della percezione

La percezione è o «una percezione per mezzo dei sensi» o «una percezione per mezzo dell’intelletto». Solo quest’ultima forma di percezione è tenuta in considerazione per ciò che riguarda il cri­ terio della verità.7 Che cosa deve essere percepito, quindi, «per mezzo dell’intel­ letto»? Descartes formula il criterio sulla base della percezione chiara e distinta della sua attività di pensiero. Ma che cosa signi­ fica, esaminando ciò più attentamente, che io percepisco il mio pen­ siero? Nient’altro che io percepisco di pensare, che il mio pensiero è, esiste. Di conseguenza, ciò che è percepito in modo chiaro e di­ stinto è sotto l’aspetto linguistico una proposizione, sotto quello psicologico, invece, un giudizio. Lo stesso Descartes dice, in una lettera a Mersenne, che ciò che deve essere percepito in modo chiaro e distinto è, ad esempio, «qualcosa che non può non esi­ stere», oppure «l’esistenza di questa o quella cosa è possibile».8 Con ciò concorda anche un altro punto della dottrina di Descartes, in base alla quale la verità e l’errore possono trovarsi solo nel giu­ dizio.9 Quando si parla, pertanto, di un criterio di verità, deve es­ sere dato un giudizio. Ma Descartes parla altresì di un giudizio chiaro e distinto.10

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È forse dunque la «percezione chiara e distinta» un’ulteriore espressione — non propriamente felice — per designare un «giu­ dizio chiaro e distinto»? Il seguente paragrafo dovrà occuparsi di tale questione. 3. Percezione e giudizio

Il giudizio consiste, per Descartes, nell’affermazione o nella ne­ gazione».11 Esso si distingue da tutti gli altri fenomeni psichici per il fatto che solo in esso possono trovarsi la verità e l’errore.12 Il giudizio si riferisce in primo luogo alle idee,13 e cioè alle rappre­ sentazioni.14 Che cosa viene dunque affermato o negato nel giudizio? Ri­ guardo a ciò Descartes risponde in maniera inequivocabile. «Si può — egli dice — considerare le rappresentazioni di quelle nature nelle quali è contenuto un complesso di più attributi, come, ad esempio, la natura del triangolo, del quadrato o di un’altra figura. Come pure la natura dello spirito, del corpo e, soprattutto, la natura di Dio, l’essere più perfetto. Si osservi, inoltre, che tutto ciò che noi percepiamo come contenuto nelle medesime può essere asserito di loro con verità. »15 In una lettera in cui Descartes discute intorno al problema dell’astrazione, si dice: «Se io considero una figura senza pensare alla sua materia o estensione, in questo modo io compio nello spirito un’astrazione che posso facilmente ricono­ scere, in seguito, esaminando se la rappresentazione che ho della figura io non l’abbia tratta da un’altra rappresentazione avuta in precedenza, la quale le è così legata che si può certamente avere una rappresentazione senza l’altra, ma che non è possibile negare l’una dell’altra. In questo modo io vedo chiaramente che la rap­ presentazione della figura è legata a quella dell’estensione e della materia, poiché è impossibile rappresentarsi una figura e nello stesso tempo assumere che essa non abbia alcuna estensione (...) La rappresentazione di una materia estesa di una certa forma co­ stituisce, invece, un intero (è completa), poiché io sono in grado di averla di per sé, e posso negare di essa ogni altra cosa di cui ho rappresentazioni. »16 «Affermare» e «negare» consistono dunque nel fatto che si af­ ferma o si nega alcunché di una cosa; così di una materia estesa si nega non già la forma, ma di certo il pensiero; così si afferma di Dio l’esistenza, mentre gli si nega l’estensione.

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Natorp sbaglia quando, a pagina 35 del suo scritto citato [vedi nota 2], afferma che «il giudizio significa senz’altro, per Descartes, connessione di rappresentazioni, e non analisi di un contenuto di rappresentazione secondo i suoi diversi modi di considerarlo». A tale concezione si oppone sia quanto Cartesio dice nell’opera ci­ tata nella nota 15, sia il passo riportato sopra (p. 29), in base al quale di una rappresentazione si afferma (non come connesso ad essa) proprio ciò che viene percepito come contenuto in questa rappre­ sentazione e che, pertanto, è certamente ottenuto attraverso l’ana­ lisi di un contenuto di rappresentazione. E tanto più incompren­ sibile appare l’affermazione di Natorp se la si raffronta con la citazione riportata dallo stesso Natorp a pagina 17 nel suo scritto, nella quale si dice esplicitamente che quel concetto è contenuto nell’altro in modo confuso. Là, dove Natorp si vede costretto a riconoscere, per necessità, che in base all’effettiva esposizione di Descartes il giudizio «il corpo è esteso» deve essere designato come un giudizio analitico, al fine di salvaguardare la propria teoria egli afferma che «il giudizio analitico non svolge in Descartes nes­ sun ruolo, e poiché in senso proprio esso non esprime alcuna con­ nessione, di fatto, dunque, non è un giudizio» (p. 19). Qui Natorp avrebbe dovuto dire dapprima che cosa egli intenda per «connes­ sione propria» e «impropria». Avrebbe anche dovuto dimostrare che per Descartes «l’oggetto del giudizio consiste sempre nella connessione di concetti» (p. 17). È lo stesso Descartes, tuttavia, ad affermare che l’oggetto del giudizio sono le idee e che la forma del giudizio — poiché a questo Natorp probabilmente si riferisce quando parla in questo contesto di «oggetto» — consiste nell’affermare o nel negare. (Vedi più avanti.) Oltre a ciò, Descartes offre anche una spiegazione di come il giudizio si risolva in una relazione psicologica. Nelle Notae ad -programma quoddam egli infatti dice: «Vedendo che per costi­ tuire la forma del giudizio, oltre alla percezione, che è una con­ dizione preliminare del giudizio, sono necessarie l’affermazione o la negazione, e osservando inoltre che è lecito sospendere l’assenso anche quando percepiamo la cosa, in tal modo io presi in conside­ razione l’atto di giudizio in sé, che consiste unicamente nell’assenso — e cioè a dire nell’affermazione o negazione — non dunque nella percezione dell’intelletto, bensì nella determinazione della volontà.» (Vedi nota 11.) In modo analogo egli si esprime nella Quarta medi­ tazione-. «Io osservo che i miei errori dipendono dal concorso reci­

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proco di due cause e cioè dalla facoltà di conoscere che è in me, e dalla facoltà di scegliere, ossia dal mio libero arbitrio. Ciò signi­ fica che essi dipendono dall’intelletto e insieme dalla volontà. In­ fatti, per mezzo del solo intelletto io concepisco unicamente le idee sulle quali posso formulare un giudizio, e nell’intelletto, qualora lo si concepisca esattamente in tal modo, non può essere trovato nes­ sun errore nel senso proprio del termine. »17 In ragione di quanto si è detto, diviene impossibile identificare percezione e giudizio. La percezione è, per esplicita attestazione di Descartes, solo una condizione preliminare del giudizio.18 Per co­ stituire un giudizio sono necessarie, infatti, quattro componenti: idee, percezione, determinazione della volontà, affermazione o ne­ gazione. Ciò che determina la volontà è o la chiarezza e distinzione della percezione o la credenza prodotta dalla grazia divina.19 4. Idea e percezione. Percezione significa prensione del vero10 Poiché la percezione non appartiene alla classe dei sentimenti affettivi — almeno nel senso in cui l’espressione perceptio deve essere assunta nel criterio di verità — e non può essere posta, al­ tresì, in una stessa classe insieme al giudizio, dal momento che in questo caso dovrebbero esserci delle percezioni vere e false, ovvero percezioni dotate di quelle proprietà che Descartes riserva esclu­ sivamente al giudizio, non resta così che associare le percezioni alla classe delle idee. (Brentano, nella nota 21 dello scritto citato, tratta in maniera esauriente della suddivisione cartesiana dei feno­ meni psichici, qui presa a base.) Idea significa per Descartes rap­ presentazione; egli la designa «come l’immagine di una cosa» (Terza meditazione) [voi. 1, p. 217], nonché come «la stessa cosa conce­ pita o pensata, in quanto essa è oggettivamente nell’intelletto» (Ri­ sposte alle prime obiezioni) [voi. 1, p. 280]. Se dunque l’idea è si­ nonimo di rappresentazione, e precisamente lo è — in relazione ai passi citati — nel senso del contenuto di una rappresentazione, nulla allora è in realtà più evidente che concepire la percezione, insieme ad Arnauld, come atto di rappresentazione. Ma anche ciò non ap­ pare possibile, poiché altrimenti si dovrebbe assumere che esistano dei contenuti di rappresentazione che vengono rappresentati21 me­ diante i sensi, mentre invece, anche per Descartes, il rappresentare è un’attività dell’anima e non dei sensi. Da ultimo, è forse la percezione sinonimo della rappresentazione,

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intesa come contenuto di una rappresentazione? A questo fatto, peraltro, si oppone già la forma grammaticale dell’espressione, nella sua qualità di sostantivo che sta a indicare un’attività. Ma un fatto, forse ancora più rilevante, contrasta una tale concezione. Infatti, se idea e percezione significassero la medesima cosa, allora il loro ruolo nel processo di giudizio non potrebbe essere altro che uno. Ma si tratta proprio del caso opposto. Le idee sono il sostrato del giudizio; esse sono l’oggetto di cui qualcosa è affermato o negato. La percezione, per contro, è ciò che determina la volontà per giu­ dicare; l’idea è — per usare le stesse parole di Descartes — la «ma­ teria» del giudizio, la percezione, invece, ne è la «ragione for­ male ».22 Se la percezione non è, pertanto, né un sentimento affettivo, né un giudizio, né un’idea, essa non rientra allora in nessuna delle tre classi fondamentali che comprendono tutti i fenomeni psichici e che Descartes elenca nella Terza meditazione. Per questa ragione Brentano parla di «ambiguità» (7.rwitterbaftigkeit) della percezione in Descartes (loc. cit., nota 27), in quanto essa è purtuttavia un fe­ nomeno psichico. Il fatto che essa non si lasci inquadrare in nes­ suna delle tre classi si può spiegare soltanto assumendo che Descar­ tes non abbia riconosciuto l’essenza della percezione. Che cosa significa dunque «percepire»? Descartes non ha forse usato al po­ sto di percipere altre espressioni che, in forza del contesto, signi­ ficano la stessa cosa, lasciando nondimeno minor margine alle false interpretazioni? Le cose stanno proprio così, e ci sono precisamente dei termini come animadvertere, apprehendere e deprehendere che Descartes applica nello stesso contesto e senso in cui è solito usare l’espressione percipere.23 Che le espressioni citate non significhino dunque altro che osservare o cogliere con verità risulta massimamente evidente tramite l’assunzione — e anzi solo attra­ verso essa — che il criterio cartesiano mantiene un significato cor­ rispondente. Quando per esempio Descartes dice che ciò che egli percepisce come contenuto nell’idea del triangolo, del quadrato o di Dio, vale a dire ciò che coglie con verità od osserva, egli lo può affermare del triangolo, del quadrato o di Dio con convinzione della correttezza della sua affermazione, nessuno potrà allora di­ sconoscere qui la forma e il modo in cui si realizzano i giudizi che Kant chiama analitici, e che sono enunciati parimenti con pieno convincimento riguardo alla loro correttezza. Ma altre prove si possono ancora addurre in favore di una con­

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cezione della percezione intesa come prensione del vero (Wahr­ nehmung). Da tale concezione risulta prima di tutto comprensibile come mai un fenomeno psichico, di così grande importanza per la gno­ seologia cartesiana, non si possa opportunamente collocare all’in­ terno della suddivisione dei fenomeni psichici che Descartes stesso stabilisce. La ragione di ciò non è altra che quella che Descartes certamente riconobbe, e cioè il fatto che la percezione si distingue in maniera essenziale dalla rappresentazione. Ma Descartes non potè d’altro canto risolversi ad affermare che il percepire (wahrnehmen) sia un giudicare. E precisamente perché, secondo lui, da un lato nella percezione (Wahrnehmung) manca la forma del giudizio, dal­ l’altro perché, in base alla sua teoria del giudizio, non è data nelle percezioni (Wahrnehmungen) la necessaria determinazione della volontà. La spiegazione della percezione che noi abbiamo dato si accorda, inoltre, con la divisione tra percezioni «per mezzo dei sensi» e perce­ zioni «per mezzo dell’intelletto». E questa è la distinzione ammessa da tutta la moderna psicologia tra percezione sensibile e percezione non sensibile. Infine — e ciò è decisivo — Descartes parla di percezioni in un modo che non consente alcun dubbio sul fatto che egli abbia in mente la prensione del vero. Egli infatti dice: «Le nostre percezioni sono di due tipi; alcune hanno la loro causa nell’anima, altre nel corpo. Quelle che hanno la loro causa nell’anima sono le perce­ zioni dei nostri atti di volontà, di tutti gli atti immaginativi o degli altri fenomeni psichici che da essi dipendono. Poiché, di certo, noi non potremmo volere nessuna cosa senza percepire, contempora­ neamente, che la vogliamo.»24 E inoltre: «Le percezioni che si ri­ feriscono agli oggetti del mondo esterno, e cioè agli oggetti dei nostri sensi, sono causate — quando noi non sbagliamo — da questi oggetti, i quali, provocando certi movimenti negli organi del senso esterno, eccitano altresì, con l’aiuto dei nervi, alcuni movimenti nel cervello che, a loro volta, fanno sì che l’anima avverta quegli og­ getti. Quando noi, ad esempio, vediamo la luce di una fiaccola e sentiamo il suono di una campana, questo suono e questa luce sono due processi distinti che per il solo fatto di provocare due movi­ menti diversi in certi nervi e, per mezzo di questi, nel cervello, forniscono all’anima due diverse sensazioni. In tal modo noi met­ tiamo in relazione queste sensazioni con gli oggetti che reputiamo 3

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ne siano la causa, sì che riteniamo di vedere la fiaccola stessa e di sentire proprio la campana, e non crediamo di sentire soltanto i movimenti provocati da loro.»25 E Descartes infatti non sbaglia. Se nell’ultimo passo citato al posto di «movimenti» si pone, per prudenza, «mutamenti», allora la descrizione di Descartes corrisponde interamente a ciò che oggi si può asserire, con precisione, della percezione sensibile. Si pos­ sono girare e rigirare le cose come si vuole ma entrambi i passi, qualora si comprenda con il termine percezione la prensione del vero, consentono razionalmente un unico significato. Perciò anche la percezione, per Descartes, non può mai essere resa per mezzo della rappresentazione, come invece anche Brentano — tra gli al­ tri — ha fatto (op. cit., nota 27).

5. La percezione chiara

Nei Princìpi della filosofia Descartes dà una definizione della percezione chiara. A tale definizione rimanda Natorp (op. cit., p. 170). Ma a proposito di come sia facile, tuttavia, fraintendere la defi­ nizione cartesiana parla, in modo abbastanza eloquente, la deter­ minazione concettuale che Koch fornisce (op. cit., p. 54) circa la chiarezza della percezione. Traducendo perceptio con intuizione (Einsicht), Koch dice: «Dubitare significa pensare, essere mental­ mente attivo. L’attività è qualcosa, è essa stessa un modo dell’es­ sere. L’essere è, in un certo qual modo, del tutto identico all’atti­ vità, come lo sono attività ed essere attivo e, sul versante opposto, non essere ed essere nulla. L’intuizione di questa, che è la più stretta connessione possibile, e la completa identità di essere e pensare nel­ l’atto di pensiero è per Descartes chiara, il che significa delimitata nei riguardi di un altro essere.»26 Ciò può voler dire di certo solo la seguente cosa: l’atto di intuizione (Einsehen), che si può conce­ pire come un modo dell’essere, poiché altrimenti non potrebbe a sua volta risultare delimitato nei riguardi di un «altro essere», è chiaro quando è delimitato rispetto a un altro essere. Come deve essere dunque delimitato l’atto di intuizione e, per giunta, nei confronti di quale «altro essere»? Quanto a ciò, la concezione che esprime Koch sull’argomento non offre alcun chia­ rimento. O forse Koch intende dire che se il mio essere, come essere-mentalmente-attivo, dovesse risultare delimitato nei riguardi di un «altro essere», in tal caso la mia intuizione risulterà chiara

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come un modo dell’essere-mentalmente-attivo? Per risultare intel­ ligibile, Koch non avrebbe soltanto dovuto formulare diversamente la sua definizione; egli resta, infatti, ancora in debito di risposta rispetto alla domanda: In qual modo il mio atto di intuizione deve essere delimitato, in qualità di essere-mentalmente-attivo, nei con­ fronti di un altro essere di questa natura? Quale termine nei passi dei Princìpi della filosofia (1.45), citati dallo stesso Koch, gli dà il diritto di cercare l’essenza della percezione chiara in una «delimi­ tazione»? Là dove Descartes definisce la percezione evidente si parla effettivamente, come risulterà anche in seguito, di una deli­ mitazione; ma in ordine alla definizione della percezione chiara non si può assolutamente mostrare qualcosa di simile. Perciò si devono rifiutare, in quanto inadeguate, le considerazioni di Koch relative a tale questione. Descartes stesso definisce la percezione chiara nel seguente modo: «Chiamo chiara quella percezione che è presente e manifesta a uno spirito attento, così come diciamo di vedere qualcosa chiaramente quando è presente all’occhio rivolto ad esso, e quando il medesimo eccita l’occhio apertamente e in maniera sufficientemente intensa.»27 Ma questa non è tanto una definizione, quanto piuttosto un raf­ fronto con la percezione visiva. Affinché una percezione sia chiara devono essere soddisfatte tre condizioni: 1) attenzione, 2) vivacità, 3) chiarezza. In modo più conciso si esprime Arnauld nella sua Logica (1.9), e tuttavia precisamente nel medesimo senso, se si pre­ scinde dalla sostituzione del termine «percezione» con «idea»: «Infatti possiamo dire che un’idea ci è chiara, quando ci colpisce vivamente. »28 1) La prima condizione — l’attenzione — non richiede nessuna spiegazione ulteriore: essa è perlopiù volontaria, e inoltre una cosa che in principio non era nient’affatto chiara può, mediante un’at­ tenta riflessione, essere percepita chiaramente.29 2) Percezioni molto vivaci si manifestano contro o senza la vo­ lontà di chi le percepisce; esse dunque lo costringono all’attenzione come è il caso, ad esempio, di un dolore violento.30 3) Appare difficile dire che cosa sia la chiarezza della percezione; la difficoltà è, peraltro, solo apparente e immediatamente supera­ bile se si fa ricorso, in base all’esempio di Descartes, al raffronto con la percezione visiva. E ciò si può fare senza alcuna esitazione, in quanto Descartes non si serve di tale raffronto solo nel passo ci­ tato, ma con una certa frequenza.31 Si parla di una visione chiara

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se ad essa non sfugge nulla; si dice che ci si trova di fronte a qualcosa di manifesto se si domina con lo sguardo tutto e, in ciò che si è visto, nulla resta nascosto, e dunque se la vista penetra con lo sguardo e coglie fino in fondo l’oggetto osservato.32 Questa spiegazione, ricavata per analogia, è altresì convalidata dal fatto che Descartes, come già accennato, usa le espressioni claritas e perspicuità! senza alcuna distinzione. Non è stato tenuto in considerazione il fatto che la percezione chiara debba possedere la proprietà di essere «presente» poiché, in base all’esposizione che dimostra come la percezione sia «pren­ sione del vero», si comprende da sé che una percezione avuta in precedenza sia tanto poco una percezione effettiva quanto l’aver avuto una proprietà costituisca un possesso reale. Se tuttavia Descartes con ciò vuole dire che le percezioni chiare che si sono avute non entrano in considerazione per quanto riguarda il criterio della verità, allora ciò si accorda pienamente con la sua dottrina già menzionata, secondo la quale, in relazione all’affidabilità delle percezioni avute in precedenza e riprodotte soltanto tramite me­ moria, deve essere usato un altro criterio, in quanto la memoria può ingannare. Riassumendo in conclusione quanto si è detto, si può affermare che è chiara ogni percezione (Wahrnehmung) che, con la necessaria attenzione da parte di chi percepisce, coglie l’oggetto della perce­ zione completamente e in tutte le sue parti. 6. La percezione distinta

La distinzione di una percezione ha quale presupposto la chia­ rezza stessa, ma non viceversa; poiché una percezione può essere chiara senza essere evidente.33 Per ritornare nuovamente all’inter­ pretazione che Koch dà della definizione di una percezione di­ stinta, egli dice: «L’intuizione di questa che è la più stretta connes­ sione possibile (si veda il passo citato in precedenza) (...) è tanto chiara, e cioè delimitata nei confronti di un altro essere, quanto distinta, vale a dire delimitata in una sfera propria.» Questa inter­ pretazione deve essere ugualmente ritenuta insufficiente, in quanto non solo non coglie il fatto in sé stesso, ma anche sotto il profilo linguistico risulta inconcepibile. Che cosa significa, infatti, «deli­ mitare qualcosa in una sfera propria»? Non significa già «delimi­ tare qualcosa» in sé e per sé, delimitare questo qualcosa nei con-

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fronti di qualcosa di diverso, stabilire dove cessa l’uno e incomincia l’altro, tracciare in primo luogo la linea di demarcazione tra due cose differenti? La locuzione di Koch circa un «delimitare in una sfera propria» non deve in questo caso apparire come una contrad­ dizione interna, come una violenza dell’espressione linguistica? Natorp tralascia anche qui di spiegare la definizione cartesiana della distinzione e rimanda — come fa del resto anche riguardo alla chiarezza della percezione — a Descartes stesso. E quest’ultimo dice: «Chiamo distinta quella percezione che, essendo insieme anche chiara, è separata dalle altre così precisamente da contenere esclu­ sivamente ciò che è chiaro.»34 Si tratta dunque di separare la per­ cezione chiara dalle altre che si manifestano quasi contemporanea­ mente ad essa, ma che non sono percezioni chiare. Descartes, in un esempio di cui si serve, con lo stesso significato, anche Amauld, mostra come ciò debba essere inteso. Dice Descartes: «Mentre uno sente un dolore violento, la percezione del dolore è certamente in lui del tutto chiara, ma non sempre è distinta. Gli uomini, infatti, confondono abitualmente la percezione con il loro oscuro giudizio sulla natura di ciò che ritengono essere nella parte dolorante del corpo e che reputano simile alla facoltà di percepire il dolore, che sola, invece, è percepita con chiarezza.»35 E Arnauld: «Così l’idea di dolore ci colpisce assai vivamente, e di conseguenza può essere detta chiara, e nondimeno essa è molto confusa, in quanto ci rap­ presenta il dolore come sito nella parte ferita, benché esso non sia che nel nostro spirito.» E inoltre: «Come nel dolore la sola sensa­ zione che ci colpisce è chiara» (Logique 1.9) [p.i35]. Descartes, e in accordo con lui Arnauld, diffida dall’inserire nella percezione chiara del dolore qualcosa che difatti non è per­ cepito, o che non lo è nella maniera chiara in cui lo è quella. Se si sente un dolore, solo la stessa percezione del dolore è dunque chiara; a dire il vero, anche il dolore si localizza nelle parti del corpo stimolate, ma la percezione della localizzazione del dolore non è, per Descartes e Arnauld, chiara, anche se la nostra perce­ zione del dolore stesso mostra di dare indicazioni circa il luogo e la natura di ciò che lo causa. Ogni percezione chiara è come tale distinta, nel caso che tutte le percezioni non chiare che si manifestano contemporaneamente o quasi contemporaneamente ad essa ne siano separate. Una per­ cezione può essere chiara in sé e per sé; diviene distinta me­ diante la precisa delimitazione nei confronti delle altre percezioni.

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7. La percezione chiara e distinta come criterio di verità Se le determinazioni concettuali enunciate da Descartes riguardo alla chiarezza e alla distinzione devono avere validità, occorre al­ lora mostrare che la percezione chiara e distinta — nel senso stabi­ lito dalla ricerca svolta in precedenza — non solo non contraddice la dottrina della conoscenza cartesiana, ma al contrario è in grado di ricoprire, in tale dottrina, quel posto che Descartes le assegna. D’ora in poi si dovrà stabilire, senza difficoltà, che cosa Descar­ tes intenda propriamente con percezione chiara e distinta. Se, di­ fatti, la percezione chiara e distinta è la condizione di un giudizio formulato con assoluto convincimento della sua correttezza,36 e la percezione non significa altro che prensione del vero, è indubbio che la percezione chiara e distinta deve coincidere con il concetto di percezione (Wahrnehmung') evidente. A questo proposito, non si deve dimenticare che Descartes non può concepire correttamente l’evidenza, in quanto l’attribuisce a un atto psichico che, a suo parere, non è affatto un giudizio. Con una tale concezione della percezione chiara e distinta ci si pone tanto meno in contraddizione con la dottrina di Descartes, in quanto si può dimostrare che Descartes stesso non ha inteso niente di diverso. A tal fine, un argomento importante è offerto dal fatto che invece di dare et distincte Descartes dice semplicemente evidenter?1 Oltre a ciò, Descartes attribuisce alla percezione chiara e distinta tutte quelle proprietà che appartengono, come note caratteristiche, soltanto all’evidenza. Infatti, la conoscenza ot­ tenuta sulla base di una percezione chiara e distinta è necessaria­ mente vera;38 c’è dunque una forma di conoscenza in relazione alla quale risulta evidente trattarsi di una conoscenza vera.39 In un giudizio fondato sulla percezione chiara e distinta ogni errore è escluso.40 La conoscenza che proviene dalla percezione chiara e distinta si impone in ragione di una forza, per così dire, elementare: non è possibile, infatti, chiudere gli occhi davanti ad essa.41 Un sapere che si limitasse a una conoscenza ottenuta per mezzo della percezione chiara e distinta sarebbe quindi libero dal problema del­ l’errore e non soggetto a obiezioni di sorta.42 L’ipotesi che Descartes abbia inteso con la percezione chiara e distinta la percezione (Wahrnehmung) evidente, riceve un’ulteriore conferma dal fatto che Descartes fa valere la percezione chiara e

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distinta, in qualità di origine della conoscenza, solo in quel dominio in cui c’è una percezione (Wahrnehmung) evidente, e cioè nell’am­ bito della percezione (Wahrnehmung) interna. A tal riguardo, si è già fatto notare che Descartes limita la sua «regola generale» al «percepire per mezzo dell’intelletto»; inoltre, egli dice esplicita­ mente che le stesse percezioni sensibili, dotate della massima par­ venza di verità, possono tuttavia trarci in inganno.43 E questo è vero; non c’è, infatti, alcuna percezione sensibile che sia evidente. Descartes osserva poi, in modo del tutto corretto, che la memoria, nel conservare la percezione chiara e distinta precedentemente avuta, non offre il medesimo grado di certezza della stessa percezione reale.44 Per questo, tra le proprietà della percezione chiara, Descar­ tes menziona anche quella di dover essere «presente». Da ciò che si è detto, si spiega come mai Descartes, pur non ri­ tenendo la percezione chiara e distinta un giudizio, possa tuttavia elevarla a origine della verità che, secondo lui, deve essere trovata solamente nel giudizio. Infatti, la percezione evidente offre real­ mente una conoscenza, e Descartes ne era certamente consapevole, giacché egli deve la conoscenza della sua esistenza all’evidenza della percezione interna. Peraltro egli si attiene fermamente alla dottrina del giudizio aristotelico-scolastica. Nel giudizio percettivo egli non trova la «forma» del giudizio, e pertanto non considera affatto la percezione come un giudizio. Ma in quanto non gli sfuggì che anche la percezione può concorrere alla conoscenza, egli fece della percezione (Wahrnehmung) la condizione preliminare del giudizio (percettivo). Il criterio di verità cartesiano trova applicazione solo nei giudizi percettivi. Come abbiamo più volte accennato, si tratta precisamente della percezione interna. Essa presenta oggetti di due specie diverse: da un lato, gli stessi fenomeni psichici (rappresentare, giu­ dicare, sentire o volere), dall’altro, gli oggetti a loro immanenti (ciò che è rappresentato, affermato o negato, sentito o voluto). Sulla base della prima classe di percezioni interne, Descartes per­ viene alla conoscenza del «cogito ergo sum»; sulla base della se­ conda classe si ottengono, invece, quelle forme di conoscenza, di cui Descartes dà esempi nell’opera già citata nella nota 15. Il criterio di Descartes è pensato in modo del tutto corretto; soltanto che la condizione preliminare del giudizio — come Descartes chiama la percezione — deve essere riconosciuta come il giudizio stesso e deve essere operata una restrizione, nel senso che gli oggetti della

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seconda classe di percezioni debbono essere concetti a priori. Solo in questo caso, infatti, le note caratteristiche date nei concetti risul­ tano essere le loro note caratteristiche necessarie. Solo in questo caso, quindi, si può asserire di un concetto, con validità obiettiva, ciò che è contenuto in esso come nota caratteristica. Quanto si è detto è confermato dallo stesso Descartes. Egli cita infatti il colore, il dolore e simili come oggetti delle percezioni chiare, in quanto essi costituiscono il contenuto dei fenomeni psi­ chici. Allo stesso modo egli elenca, tra gli oggetti delle percezioni chiare e distinte, l’estensione, la durata, la figura e il numero, e pertanto esempi che — in quanto a priori — appartengono alla se­ conda classe di percezioni interne.45 Descartes designa la matema­ tica a scienza ideale, poiché essa, operando con concetti a priori e relativi, quindi, a giudizi evidenti, offre una certezza assoluta.46 8. Il giudizio evidente Se tuttavia la percezione stessa non è un giudizio, come si rea­ lizza allora il giudizio evidente, enunciato con infallibile convinci­ mento della sua correttezza? Ciò accade per il fatto che esso viene enunciato nel senso della percezione chiara e distinta, che precede il giudizio in qualità di sua condizione preliminare.47 Considerando gli esempi citati da Descartes e la bipartizione formulata entro il dominio della percezione interna, questo processo si può pensare nel seguente modo: Si consideri, con evidenza, il fatto che i propri fenomeni psichici sono veri. Sulla base di tale percezione (Wahr­ nehmung) si asserisce poi 1’esistenza di questi fenomeni e, nell’asserire alcunché di una cosa, si perviene alla forma del giudizio e si giudica: i miei fenomeni psichici (la cui totalità costituisce appunto la mia personalità) esistono, o per dirla in breve: io sono. Oppure: Si ha il concetto di triangolo. Si consideri, con evidenza, come vera in questo concetto la nota caratteristica della trilateralità. Si affermi, quindi, del concetto di triangolo questa nota caratteristica, per cui si ottiene la forma del giudizio: ogni triangolo ha tre lati. Se si elimina ciò che è erroneo nella concezione di Descartes, si ottengono due classi di giudizi realmente evidenti: e cioè, i giudizi percettivi che appartengono al dominio della percezione interna e i giudizi analitici. Con ciò, la prima parte della ricerca è conclusa. Si è mostrato che la percezione, come qualcosa di distinto dall’idea, occupa nel

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giudizio un posto diverso rispetto alla rappresentazione. In seguito, resta da stabilire quale significato si debba annettere alla chiarezza e alla distinzione intese come proprietà dell’idea, e quale ruolo idee di questo tipo svolgano all’interno del giudizio. 9. La rappresentazione distinta

Perché si è mostrato che la percezione è qualcosa di diverso rispetto all’idea, non si può allora, al fine di determinare il concetto di idea distinta, utilizzare la definizione data da Descartes per la distinzione della percezione, come invece ha fatto Knoodt, a pa­ gina 15 della già citata dissertazione inaugurale. Senza dubbio Knoodt identifica la percezione con l’idea e dice: «percezione o immagine della rosa» (p. 31), sebbene Descartes dica esplicitamente e in più punti: «idea o immagine della cosa». Lo stesso Descartes non dà in alcun luogo una definizione del­ l’idea chiara o di quella distinta; pertanto, ci si deve rivolgere a quelle espressioni occasionali, dalle quali si possono costruire le ri­ spettive definizioni. Di proposito, si deve porre mano dapprima alla definizione del­ l’idea distinta e solo allora a quella dell’idea chiara, in quanto sono numerosi e fecondi i passi che offrono chiarimenti sul significato dell’idea distinta. Di conseguenza sarà utile stabilire, in primo luogo, tale determinazione. Quelle proprietà che nella rappresentazione chiara e distinta non si potranno attribuire alla distinzione stessa, si dovranno ritenere come costitutive della chiarezza della rappre­ sentazione. Descartes chiama distinta una rappresentazione in relazione ad altre rappresentazioni; perciò «idea distinta» significa la stessa cosa di «idea distinta da altre idee».48 Più particolareggiatamente Descartes si esprime nel seguente modo: «Un concetto non diviene maggiormente distinto per il fatto che in esso noi comprendiamo un numero minore di cose, bensì per il fatto che noi distinguiamo accuratamente da ogni altra cosa ciò che noi comprendiamo in esso (e dunque nel suo contenuto).»49 Così, ad esempio, appartiene al contenuto della rappresentazione distinta di un modo — per mezzo del quale tale contenuto di rappresentazione è «distinto accurata­ mente da ogni altra cosa» — la nota caratteristica dell’impossibilità dell’esistenza indipendente. Questa nota caratteristica spetta esclu­ sivamente alla rappresentazione del modo (o attributo, laddove

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Descartes concepisce come identiche tali espressioni)50 nei confronti di ogni altro contenuto di rappresentazione. Se si omette dalla rap­ presentazione del modo questa nota caratteristica, si confonde la rappresentazione del modo con la rappresentazione della sostanza, e la rappresentazione del modo cessa allora di essere distinta.51 Se si rappresenta una parte materiale distinta, in tale rappresentazione deve essere altresì dato, come nota caratteristica, il luogo della parte materiale; infatti, attraverso la sua posizione nello spazio questa parte materiale determinata si distingue da tutte le altre parti omogenee della materia.52 La rappresentazione di una sostanza incorporea non è in alcun modo distinta, quando si trovano in essa solo le determinazioni negative della mancanza di estensione e di quantità.53 In essa deve essere contenuta piuttosto la nota caratte­ ristica che la distingue dalla sostanza corporea, e che consiste nel fatto che la sostanza incorporea è il supporto dei fenomeni psi­ chici.54 Rispetto a ciò che si è detto, la definizione della chiarezza e della distinzione data da Knoodt appare come qualcosa di totalmente arbitrario. Non solo per il fatto che egli concepisce come chia­ rezza la proprietà dell’idea che si è appena dimostrato essere invece la distinzione, ma anche per il fatto che egli interpreta la distin­ zione in un modo che non potrebbe mai trovare conferma in Descartes.55 È in rapporto alla determinazione concettuale della distinzione che Descartes afferma che le rappresentazioni, formatesi da un ma­ teriale ottenuto per mezzo di un unico senso, risultano confuse. Quanti più sensi contribuiscono, infatti, a formare una rappresen­ tazione, tanto più la rappresentazione diviene distinta.56 Che cosa ciò voglia dire, può essere ricavato dal seguente esempio: Una rappresentazione dell’acqua di mare, ottenuta soltanto per mezzo della percezione visiva, potrà essere facilmente confusa con la rap­ presentazione dell’acqua del fiume, in quanto l’occhio non coglie nulla di ciò per cui si distingue un tipo di acqua dall’altro. Se si forma, tuttavia, una rappresentazione dell’acqua di fiume e del­ l’acqua di mare non solo sulla base delle percezioni visive, ma an­ che sulla base di quelle gustative, si ottiene immediatamente, per entrambe le rappresentazioni, quella nota caratteristica che con­ sente di distinguerle l’una dall’altra. Un’obiezione nei confronti della definizione di idea distinta or ora formulata potrebbe essere basata su un’affermazione di Descar­

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tes nella quale si dice che l’idea di Dio diverrebbe maggiormente distinta, qualora in Dio venissero scoperte nuove forme di perfe­ zione che fossero a loro volta incluse come note caratteristiche nell’idea di Dio.57 Peraltro — e tale supposizione non dovrebbe fal­ lire — Descartes si è servito in questo passo dell’espressione distincta idea in un senso ordinario, e non già in quello tecnico che si è scoperto stare a fondamento della rappresentazione distinta. Anzi, tale supposizione è probabilmente dimostrata dal fatto che Descar­ tes, nel passo in questione, designa come «più chiara e distinta» soltanto quella rappresentazione di Dio arricchita di nuove note caratteristiche. E a favore del fatto che Descartes usi il termine «distinto» anche in un senso improprio parla, e nel modo più con­ vincente, il seguente passo della Sesta meditazione : «E poiché le idee che ricevevo per mezzo dei sensi erano molto più vivaci, ap­ pariscenti ed anche, a lor modo, più distinte ecc.» [voi. i, p. 252]. Anche in questo caso, dove si usa distincta idea in un senso im­ proprio messo in risalto dallo stesso Descartes, tale locuzione è accompagnata dalla notazione expressae. Ricapitolando, in senso stretto è distinta quella rappresentazione che è delimitata con precisione nei riguardi di tutte le altre o, il che è lo stesso, la cui estensione è determinata con precisione.

io. La rappresentazione chiara Descartes non dà in nessun luogo una definizione della rappre­ sentazione chiara, ma ne offre soltanto un esempio, nel quale do­ vrebbe essere escluso ogni dubbio circa il fatto che egli abbia in mente effettivamente l’idea e non la percezione. Solo nel modo indicato nei paragrafi precedenti è possibile giungere a una deter­ minazione concettuale della rappresentazione chiara in senso carte­ siano. Un passo tratto dai Princìpi della filosofia è, a tal riguardo, decisivo e può trovare posto, in questo contesto, nella dovuta am­ piezza. Esso dice: «Certo si può riconoscere una sostanza da uno qualsiasi dei suoi attributi; tuttavia, in ogni sostanza, una sola è la proprietà principale che costituisce la sua natura e la sua essenza, e alla quale si possono ricondurre tutte le altre proprietà. Così l’estensione in base alla lunghezza, larghezza e profondità costi­ tuisce la natura della sostanza corporea. Il pensiero costituisce, in­ vece, la natura della sostanza pensante. Infatti, tutto ciò che è ascri­ vibile a un corpo esteso presuppone l’estensione e non è altro che

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un certo modo della cosa estesa. Parimenti, tutto ciò che noi tro­ viamo nella mente non sono che modi differenti di pensare. Così, ad esempio, una forma può essere concepita soltanto in una cosa estesa, il movimento solo in uno spazio esteso. Allo stesso modo l’immaginare, il sentire e il volere sono concepibili soltanto in una sostanza pensante. Per contro, si può concepire l’estensione senza forma o movimento e il pensiero senza immaginazione o senti­ mento. Ciò vale, del resto, per tutte le altre cose, come risulta evidente per chiunque vi presti attenzione. In tal modo noi pos­ siamo facilmente ottenere due nozioni o rappresentazioni chiare e distinte: l’una della sostanza creata che pensa, l’altra della sostanza corporea, a condizione di distinguere accuratamente tutti gli at­ tributi del pensiero da quelli dell’estensione. Così facendo, noi pos­ siamo altresì avere una rappresentazione chiara e distinta della so­ stanza increata che pensa e che è indipendente, vale a dire di Dio.»58 Se nella rappresentazione della sostanza estesa si separano dunque accuratamente gli attributi della sostanza estesa o, più precisamente, gli attributi dell’estensione da quelli del pensiero nella rappresenta­ zione della sostanza pensante, si ottiene, nel senso delle considera­ zioni precedenti, la rappresentazione distinta della sostanza estesa, e viceversa. Ma una rappresentazione di tal genere viene designata da Descartes non solo come distinta, ma anche come chiara. La chiarezza non può scaturire dalle medesime condizioni della di­ stinzione. Essa può solo fondarsi sul fatto che nella rappresenta­ zione relativa è presente quella nota caratteristica indicata da Descartes come la principale (praecipua proprietasy, e pertanto nella rappresentazione della sostanza corporea la nota caratteristica dell’estensione, nella rappresentazione della mente umana quella del pensiero, nella rappresentazione di Dio quella della sostanza pensante non creata. Una conferma dell’asserzione secondo cui l’essenza di una rappresentazione chiara consiste nel fatto che in essa non manca la nota caratteristica fondamentale — quella cioè essenziale nel senso più proprio — si può trovare in Descartes stesso quando dice che i concetti più semplici sono anche i più chiari.5’ In base a quanto si è detto, ciò è del tutto naturale e perfino neces­ sario, poiché nel caso in cui una rappresentazione non si possa scomporre in più di una nota caratteristica e contenga dunque, per il soggetto della rappresentazione, solo una nota caratteristica, questa è appunto la sua unica nota caratteristica essenziale. In caso

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contrario, si rappresenterebbe e si asserirebbe di rappresentare qualcosa di diverso; l’espressione linguistica che sta per ciò che è rappresentato non corrisponderebbe, infatti, alla stessa cosa rap­ presentata. Chiara è quindi ogni rappresentazione che contiene la sua nota caratteristica particolare ed essenziale. ii. La rappresentazione chiara e distinta Se la chiarezza di una rappresentazione si basa sul fatto che essa non difetta della nota caratteristica essenziale, la distinzione invece si fonda sul fatto che la rappresentazione è distinta e delimitata con precisione nei riguardi di ogni altra. La chiarezza e la distin­ zione sono proprie, quindi, di tutte le rappresentazioni prive di ambiguità e determinate con precisione quanto all’estensione e al contenuto. La rappresentazione chiara e distinta non è così nient’altro di ciò che la logica, oggi, chiama «concetto».60 Quando Descartes parla, dunque, di concetti chiari e distinti, questo fatto — preso in senso stretto — costituisce un pleonasmo. La chiarezza e la distinzione di una percezione hanno come con­ seguenza il fatto che la percezione è vera. La chiarezza e la distin­ zione di un’idea presentano, invece, una duplice conseguenza. In primo luogo, ogni rappresentazione chiara e distinta è priva di contraddizione; infatti, nessuna rappresentazione affetta da una contraddizione interna può essere chiara e distinta.61 L’esistenza dell’oggetto di una rappresentazione chiara e distinta è possibile, perciò, al di fuori di chi lo rappresenta.62 In secondo luogo, ogni rappresentazione chiara e distinta è vera. Peraltro, nel caso delle idee si può parlare di verità solo in un senso improprio.63 E precisamente nel senso in cui si dice falsa ogni idea che provoca un giudizio falso, mentre un’idea di opposta na­ tura si dice vera. Ma in quanto le idee forniscono l’oggetto, la materia per i giudizi, esse vengono designate allora come « material­ mente» vere o false.64 Questa caratterizzazione proviene da Suarez,65 dal quale Descartes la desume e al quale egli fa deliberatamente riferimento.66 Il genere più importante di esempi di tali idee è rap­ presentato da quelle in cui si incontra la nota caratteristica della realtà (Realität). A queste idee corrisponde, nel mondo esterno, qualcosa di reale, e quindi esse sono materialmente vere; in caso contrario, esse sono nel medesimo senso false.67 Un altro genere



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di esempi è rappresentato da quelle idee, nel cui contenuto è data una certa altra nota caratteristica che non appartiene all’oggetto rappresentato. Anche in questo caso l’idea sarà falsa, mentre nel caso opposto essa risulterà materialmente vera. Prima di enunciare un giudizio corrispondente, ci si deve accertare che la nota carat­ teristica in questione appartenga realmente all’idea, poiché solo in tal caso essa può essere asserita dell’idea in qualità di predicato.68 Se un’idea dunque è chiara e distinta, essa, in ragione della de­ terminatezza delle sue note caratteristiche, non offrirà di certo oc­ casione di errore, come invece si verificherà nel caso delle rap­ presentazioni che, essendo vaghe per contenuto ed estensione, risulteranno oscure e confuse. Descartes illustra questo punto per mezzo delle rappresentazioni del caldo e del freddo, riguardo alle quali resta incerto il contenuto delle rappresentazioni, se l’una sia di grado inferiore o più elevato o, finanche, la negazione del­ l’altra, o se nelle rispettive rappresentazioni sia dato qualcosa di reale in sé. E questo dubbio ha origine precisamente dal fatto che le rappresentazioni del caldo e del freddo, non essendo delimitate con precisione l’una rispetto all’altra, sono dunque confuse, men­ tre per il fatto che non è data la nota caratteristica che costituisce il loro contenuto — vale a dire la praecipua proprietas — le rap­ presentazioni sono di conseguenza oscure.69 Ma una cosa è trarre come conseguenza dal contenuto di una rappresentazione la realtà (Realität) di ciò che è rappresentato, un’altra, invece, è derivarne l’esistenza (Existenz). Poiché trarre conclusioni circa la realtà sarà sempre qualcosa di condizionato e suonerà così: Se l’oggetto della rappresentazione esiste al di fuori di chi lo rappresenta, allora la sua esistenza è reale. Ma riguardo al fatto se esso in generale esista, si deve tentare di giungerne a cono­ scenza per un’altra via;70 solo nell’idea di Dio, infatti, l’esistenza appare come nota caratteristica necessaria.71 Tutti i giudizi sulla cui verità o falsità influisce l’idea che ne sta a fondamento sono analitici, in quanto solo in questi giudizi può essere ascritta alla rappresentazione del soggetto un’influenza di­ retta sulla correttezza o inesattezza del giudizio. La formulazione della rappresentazione chiara e distinta, intesa come qualcosa di diverso dalla percezione chiara e distinta, colma dunque una lacuna già menzionata, la quale potrebbe facilmente divenire il motivo per cui uno stesso giudizio, fondato su una per­ cezione chiara e distinta, sarebbe falso.

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Riepilogo e conclusione

Dapprima si è mostrato che idea significa rappresentazione e perceptio vuol dire prensione del vero (Wahrnehmung). In se­ guito si è analizzato quale significato si debba attribuire alla chia­ rezza e alla distinzione nell’ambito della percezione, e quale invece in quello della rappresentazione. Alla distinzione si deve annettere il medesimo senso tanto nella rappresentazione, quanto nella per­ cezione. Per quanto riguarda la chiarezza le cose stanno, invece, in modo diverso. Infatti, come la nostra ricerca ha delineato, la chia­ rezza consiste nel fatto che la percezione, intesa come prensione del vero, è completa in rapporto al suo oggetto, e coglie l’oggetto come un intero e in tutte le sue parti. Per Descartes non si dice chiara, ma adeguata una rappresentazione che, corrispondendo a condizioni analoghe, contenga quindi tutte le note caratteristiche che appartengono all’oggetto rappresentato.72 Per contro, una rap­ presentazione è chiara quando ad essa non manca la sua nota carat­ teristica essenziale. Per quanto riguarda la dottrina della conoscenza, all’idea chiara e distinta, da un lato, e alla percezione chiara e distinta, dall’altro, spettano ruoli diversi. Entrambe certo influiscono sulla correttezza del giudizio. Ma mentre l’idea chiara e distìnta costituisce per il giudizio — se esso deve risultare un giudizio corretto — solamente una condizione (condicio), la percezione chiara e distinta è invece la causa della correttezza del giudizio, la causa o, come Descartes dice, la ratio, la ragione formale del giudizio corretto. In questo rapporto tra l’idea chiara e distinta e la percezione chiara e distinta si esprime di certo, e nella maniera più esplicita, la loro diversità. Attraverso la costatazione di tale diversità, si potrebbero forse apportare maggiori chiarimenti su alcune questioni concernenti la teoria della conoscenza cartesiana. E se la presente ricerca può contribuire anche solo minimamente a fare questo, essa ha allora raggiunto completamente il proprio scopo.

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NOTE I passi cartesiani sono citati dall’edizione di Friedrich Knoch, Frankfurt a.M. 1697. [Ai rimandi di pagina alla suddetta edizione forniti da Twardowski si fa seguire l’indicazione, tra parentesi quadre, delle pagine corrispondenti all’edizione italiana delle opere di Cartesio. A tal riguardo, le traduzioni utiliz­ zate sono le seguenti: Regole per la guida dell’intelligenza, La ricerca della verità mediante il lume naturale, Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima, Obie­ zioni fatte da persone dottissime contro le precedenti meditazioni con le risposte dell’autore, Discorso sul metodo, 1 princìpi della filosofia, Le passioni del­ l’anima, in Cartesio, Opere, a cura di E. Garin, 2 voli., Laterza, Bari 1967. I passi cartesiani che Twardowski cita in lingua tedesca sono invece stati tra­ dotti direttamente dal suo testo.]

1. Talvolta Descartes menziona anche altri criteri di verità. Vedi / princìpi della filosofia, 11.20, 111.43, laddove si adduce come criterio la corrispondenza tra esperimento e deduzione. Inoltre, ibid., iv.205, 206. 2. M. Koch, Die Psychologie des Descartes, München 1881. P. Natorp, Des­ cartes’ Erkenntnistheorie, Marburg 1882. B. Bolzano, Wissenschaftslehre, Sulzbach 1837. P. Knoodt, De Cartesii sententia «cogito ergo sum», Breslau 1845 ( dissertazione inaugurale ). 3. A. Arnauld, Des vraies et fausses idées, voi. 38 dell’edizione completa delle sue Opere pubblicata nell’anno 1780, p. 198, def. in. 4. «Infine ho già fatto vedere assai chiaramente, nelle risposte alle seconde obiezioni, numeri 3 e 4, di non essere caduto nell’errore che si chiama circolo, quando ho detto che non siamo certi che le cose da noi concepite con chiarezza e distinzione sono tutte vere, se non perché Dio è o esiste; e che non siamo certi che Dio è o esiste, se non perché concepiamo ciò con tutta chiarezza e distinzione: facendo distinzione fra le cose che concepiamo in effetti con chia­ rezza e quelle che ci ricordiamo di aver altra volta concepito affatto chiara­ mente. Poiché, in primo luogo, noi siamo sicuri che Dio esiste perché prestiamo la nostra attenzione alle ragioni che ci provano la sua esistenza; ma, dopo questo, basta che ci ricordiamo di aver concepito una cosa chiaramente per essere sicuri che è vera: il che non basterebbe, se non sapessimo che Dio esiste e che non può essere ingannatore» (.Risposte alle quarte obiezioni) [voi. 1, pp. 4135g.]. 5. «Poiché la conoscenza sulla quale si può stabilire un giudizio indubbio de­ v’essere non solo chiara, ma anche distinta» (Z princìpi della filosofia, 1.45) [voi. 2, p. 48]. 6. «E, certo, non si può avere una ferma e immutabile persuasione delle cose oscure e confuse, per poco di oscurità o confusione che vi osserviamo» (Ri­ sposte alle seconde obiezioni, p. 67) [voi. 1, p. 318]. 7. «Non si può neppure avere una ferma e immutabile persuasione delle cose che non sono percepite se non dai sensi, per quanta chiarezza vi sia nella loro percezione (...) Resta, dunque, che, se tale certezza si può avere, sia solamente delle cose che lo spirito concepisce chiaramente e distintamente» (ibid.) [voi. 1, p.318]. 8. Epistulae, 11.60.

9. «Perché, sebbene abbia notato sopra che solo nei giudizi si può trovare la vera e formale falsità. — Ora, per ciò che concerne le idee (...) esse non pos­ sono, a parlar propriamente, essere false. — Egualmente, non bisogna temere falsità nelle affezioni o volontà» (Terza meditazione) [voi. 1, pp. 223 e 217].

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io. Epistulae, 11.60. 11. «Lo stesso atto di giudicare, che non consiste altro che nell’assenso, e cioè nell’affermazione o negazione» ecc. {Notae in programma quoddam, edito in Belgio alla fine dell’anno 1647, p. 161).

12. «Cosi restano i soli giudizi, nei quali debbo badare accuratamente a non ingannarmi» {Terza meditazione) [voi. 1, p. 217]. Vedi nota 9. 13. «Poiché, con l’intelletto solo, io non affermo né nego alcuna cosa, ma con­ cepisco solamente le idee delle cose, che posso affermare o negare» {Quarta meditazione) [voi. 1, p. 235]. 14. «Tra i miei pensieri, alcuni sono come le immagini delle cose, e a quelli soli conviene propriamente il nome d’idea: come quando mi rappresento un uomo, o una chimera, o il cielo, o un angelo, o Dio stesso» {Terza meditazione) [voi. 1, p. 217]. Vedi Epistulae, 11.49 e 50.

15. Ragioni disposte in modo geometrico, in Risposte alle seconde obiezioni, Postulato iv [voi. 1, p. 332]. 16. Epistulae, 1.105; Regole per la guida dell’intelligenza, Regola xn [cfr. voi. 1, pp. 59sgg.]; Risposte alle seconde obiezioni, Def. x, p. 70 [voi. 1, p. 331]. 17. [Il lettore può confrontare la trad. it. cit., voi. 1, p. 235.]

18. Cfr. F. Brentano, Vom Ursprung sittlicher Erkenntnis, nota 28. 19. «Oltre a ciò, bisogna osservare che la chiarezza o l’evidenza, per mezzo della quale la nostra volontà può essere eccitata a credere, è di due sorte: l’una che parte dalla luce naturale, e l’altra che viene dalla grazia divina. Ora, benché si dica ordinariamente che la fede è delle cose oscure, tuttavia ciò s’intende solo della sua materia, e non già della ragione formale per la quale noi crediamo» {Risposte alle seconde obiezioni, p. 69) [voi. 1, p. 320]. Sebbene Descartes usi l’espressione perceptio in un duplice senso, non può sussistere tuttavia alcun dubbio su ciò che egli intende significare nel criterio. «Si possono chiamare "percezioni" quando, in generale, ci si serva di questo termine per indicare tutti i pensieri che non sono azioni dell’anima, o atti di volontà, ma non quando lo si usi per indicare delle conoscenze evidenti» {Le passioni dell’anima, art. 28) [voi. 2, pp. 418 sg.]. 20. [Tale traduzione del termine Wahrnehmung risponde al senso etimologico con il quale, nell’ambito della filosofia di Franz Brentano e della sua scuola alla quale appartiene anche Kazimierz Twardowski, si è inteso connotare il ca­ rattere proprio della percezione. In tale contesto dottrinario la percezione si configura infatti come un giudizio o una conoscenza che, per quanto erronea, costituisce purtuttavia un ritenere o prendere per vero {fürwahrhalten o fiìrwahrnehmen). Questa caratterizzazione è ciò che consente per l’appunto a Brentano di distinguere, sotto il profilo dell’affidabilità conoscitiva, la perce­ zione interna da quella esterna, cosicché per Brentano la percezione interna risulterebbe essere, in senso proprio, l’unica forma di percezione o prensione del vero ( Wahr-nehmung). Cfr. F. Brentano, Psychologie vom empirischen Standpunkt (1874) voi. 1, Leipzig, 2a ed. 1924, a cura di O. Kraus, rist. Hamburg 1973, P- 128, v°l. 2, Leipzig 1925, a cura di O. Kraus, rist. Hamburg 1971, p. 50.] 21. «E poiché le idee che ricevevo per mezzo dei sensi (... ) » {Sesta medita­ zione, p. 33) [voi. 1, p. 252].

22. Vedi nota 19.

23. «Benché i geometri possano conoscere molte altre proprietà del triangolo, e osservare nella sua idea una quantità di cose (...) {Risposte alle quinte obie­ zioni,'m, p. 221) [voi. 1, p. 534]. In modo simile, ibid., p. 223 [voi. 1, p. 537] e l princìpi della filosofia,1.22. «Tutte le cose che io riconoscerò essere conte­ nute nell’idea del triangolo» {Risposte alle prime obiezioni, p. 53) [voi. 1, p. 293]. «{...) da quante non comprenda se non con confusione e oscurità» {Quarta meditazione) [voi. 1, p. 240].

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24. Le passioni dell’anima, 1, art. 19. [Cfr. trad. it. cit., voi. 2, p. 414.] 25. Ibid., 1, art. 23. [Cfr. trad. it. cit., voi. 2, p. 416.] Vedi Risposte alle seste obiezioni, 9, p. 141 [voi. 1, p. 585]. Come Descartes fosse prossimo a concepire correttamente l’essenza della percezione, può essere mostrato dal seguente passo: «E, tuttavia, che vedo io da questa finestra, se non dei cappelli e dei man­ telli, che potrebbero coprir degli spettri o degli uomini finti, mossi solo per mezzo di molle? Ma io giudico che sono veri uomini, e così comprendo per mezzo della sola facoltà di giudicare, che risiede nel mio spirito, ciò che cre­ devo di vedere con i miei occhi» (Seconda meditazione) [voi. 1, p. 212]. 26. Koch, Die Psychologie des Descartes cit., p. 24. 27. 1 princìpi della filosofia, 1.45. [Cfr. trad. it. cit., voi. 2, p. 48.]

28. [A. Amauld e P. Nicole, La logique ou l’art de penser (1662), a cura di P. Clair e F. Girbal, Paris 1965; trad. it. Logica o Arte di pensare, in Gramma­ tica e logica di Port-Royal, a cura di R. Simone, Ubaldini-Astrolabio, Roma 1969. P- B5-] 29. «Meditando e ripassando le cose con attenzione nel nostro spirito, pos­ siamo far si che quelle che conosciamo solo confusamente e indeterminatamente ci siano note chiaramente e determinatamente » (Risposte alle settime obiezioni) [voi. 1, p. 66;].

30. «Per esempio, quando qualcuno sente un dolore cocènte, la conoscenza che egli ha di questo dolore è chiara a suo riguardo» (/ princìpi della filosofia, 1.46 [voi. 2, p. 48]. Vedi Arnauld, La logique cit., 1.9: «Così l’idea di dolore ci colpisce assai vivamente, e di conseguenza può essere detta chiara» [p. 135]. 31. Si confronti: «contemplare con estrema evidenza con gli occhi della mente» (Terza meditazione) [voi. 1, p. 216], oppure: «volgere lo sguardo della mente verso qualcosa» (Quinta meditazione) [voi. 1, p. 242].

32. « Ma io so già che non posso ingannarmi nei giudizi di cui conosco chiara­ mente le ragioni» (Quinta meditazione) [voi. 1, p. 247]. «Anche le verità ma­ tematiche non ci saranno più sospette, perché sono evidentissime» (l princìpi della filosofia, 1.30) [voi. 2, p. 41]. «La luce naturale mi fa conoscere evidente­ mente (...) » (Terza meditazione) [voi. 1, p. 222]. 33. «Cosi la conoscenza (perceptio) può essere chiara senza essere distinta, ma non può essere distinta senza essere in pari tempo chiara» (1 princìpi della filosofia, 1.46) [voi. 2, p. 48].

34. I princìpi della filosofia, 11.45. [Cfr. trad. it. cit., voi. 2, p. 48.] 35. «Per esempio, quando qualcuno sente un dolore cocente, la conoscenza che egli ha di questo dolore è chiara a suo riguardo, ma non per questo è sempre distinta, poiché egli la confonde ordinariamente col falso giudizio che fa sulla natura di quello che crede essere nella parte ferita, che egli crede simile all’idea o alla sensazione del dolore che è nel suo pensiero, benché non perce­ pisca chiaramente null’altro che la sensazione o il pensiero confuso che è in lui » (I princìpi della filosofia, 1.46) [voi. 2, p. 48].

36. Vedi nota 5. 37. «Per esempio, esaminando nei giorni passati se qualcosa esistesse nel mondo, e conoscendo che, per ciò solo che esaminavo questa questione, seguiva con tutta evidenza che esistevo io stesso, non potei trattenermi dal giudicare che una cosa che concepivo cosi chiaramente era vera, non perché vi fossi forzato da alcuna causa esteriore, ma solo perché, a una grande chiarezza che era nel mio intelletto, è seguita una grande inclinazione nella mia volontà, e io mi sono indotto a credere con tanto maggior libertà, quanto minore era l’indifferenza, nella quale mi sono trovato» (Quarta meditazione) [voi. 1, p. 237].

38. « In seguito a ciò ho giudicato che tutto quel ch’io concepisco chiaramente e distintamente non può non essere vero» (Quinta meditazione) [voi. 1, p. 247I.

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39. «Quando noi percepiamo qualcosa, non corriamo il rischio di ingannarci, se non ne portiamo giudizio in nessun modo; e quand’anche ne giudicassimo, purché non dessimo il nostro consenso se non a ciò che conosciamo chiara­ mente e distintamente dover essere compreso in quello di cui giudichiamo, nemmeno potremmo sbagliare» (Z princìpi della filosofia, 1.33) [voi. 2, p. 42].

40. « (...) una chiara e distinta percezione del fatto che io conosco; perce­ zione, la quale, a dir vero, non sarebbe sufficiente per assicurarmi che essa è vera se potesse mai accadere che si trovasse esser falsa una cosa, che io conce­ pissi cosi chiaramente e distintamente» (Terza meditazione) [voi. 1, p. 215]. 41. «E al contrario, tutte le volte che mi volgo verso le cose che penso di concepire assai chiaramente, io sono talmente persuaso da esse, che da me stesso mi lascio trascinare a queste parole: — M’inganni chi può: non potrà mai fare ch’io sia niente, finché penserò di essere qualcosa» (Terza meditazione) [voi. 1, p. 216]. «È certo che noi non prenderemo mai il falso per il vero, fino a che non giudicheremo se non di ciò che percepiamo chiaramente e distintamente» (I princìpi della filosofia, 1.43) [voi. 2, p. 47]. «La natura del mio spirito è tale che non mi saprei trattenere dallo stimarle vere fintantoché le concepisco chia­ ramente e distintamente» (Quinta meditazione) [voi. 1, p. 243]. «Poiché, seb­ bene io sia di una tale natura, che, appena comprendo qualcosa molto chiara­ mente e distintamente, sono naturalmente portato a crederla vera» (ibid.) [voi. 1, p. 246]. «(...) bisogna sempre ritornare qui: che solo le cose che conce­ pisco chiaramente e distintamente hanno la forza d’interamente persuadermi» (ibid.) [voi. 1, p. 245]. 42. «Perciò tutte le volte che tengo la mia volontà nei limiti della mia cono­ scenza, in modo tale che essa non rechi alcun giudizio se non sulle cose chia­ ramente e distintamente rappresentate dall’intelletto, non può accadere che io m’inganni» (Quarta meditazione) [voi. 1, p. 240]. 43. «Non si può neppure averla delle cose che non sono percepite se non dai sensi, per quanta chiarezza vi sia nella loro percezione, perché noi abbiamo so­ vente osservato che nel senso può esservi errore, come quando un idropico ha sete, o la neve sembra gialla a chi ha l’itterizia, benché la veda meno chiara­ mente e distintamente di noi, cui sembra bianca. Resta, dunque, che, se tale certezza si può avere, sia solamente delle cose che lo spirito concepisce chiara­ mente e distintamente» (Risposte alle seconde obiezioni) [voi. 1, p. 318].

44. Vedi nota 4. 45. «(...) e notiamo in questi medesimi oggetti molte proprietà, come la gran­ dezza, la figura, il numero ecc., che esistono in essi, nella stessa maniera con la quale i nostri sensi o piuttosto il nostro intelletto ce le fa percepire » (I princìpi della filosofia, 1.70 [voi. 2, p. 64]. «Ma affinché possiamo distinguere qui ciò che v’ha di chiaro nelle nostre sensazioni da ciò che è oscuro, noteremo in primo luogo che noi conosciamo chiaramente e distintamente il dolore, il colore e le altre sensazioni, quando le consideriamo semplicemente come pensieri » (ibid., 1.68 [voi. 2, pp. 62 sg.]. Vedi ibid., 1.53. 46. «Anche le verità matematiche non ci saranno più sospette, perche sono evidentissime» (l princìpi della filosofia, 1.30) [voi. 2, p. 41]. 47. «Si tratta di quei pensieri che sono percezioni chiare e distinte, e dei giu­ dizi che ciascuno deve in sé enunciare in modo conforme a codeste percezioni » (R. Descartes, Lettera a C.L.R., pubblicata nell’edizione Knoch cit., voi. 1, pp. 123 sgg.). «Poiché la conoscenza sulla quale si può stabilire un giudizio indubbio dev’essere non solo chiara, ma anche distinta» (I princìpi della filosofia, 1.45) [voi. 2, p. 48].

48. Epistulae, 11.57. 49. «E la nostra concezione non è più distinta perché comprende poche cose, ma perché distinguiamo accuratamente ciò che comprende, e badiamo a non

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confonderlo con altre nozioni che la renderebbero più oscura » (Z princìpi della filosofia, 1.63) [voi. 2, p. 60].

50. «Quando io dico qui maniera o modo, non intendo altro che quello che chiamo altrove attributo o qualità» (Z princìpi della filosofia, 1.56) [voi. 2, p. 54].

51. « (...) mentre, se volessimo considerarli senza sostanza, questo potrebbe es­ sere causa che li prendessimo per cose che sussistono da loro sole; si che con­ fonderemmo l’idea che dobbiamo avere della sostanza con quella che dobbiamo avere delle sue proprietà» (Z princìpi della filosofia, 1.64) [voi. 2, pp. 60 sg.]. 52. Epistulae, 11.43. 53. «Poiché quando distinguono la sostanza dall’estensione e dalla grandezza, o non intendono nulla con la parola sostanza, o formano soltanto nel loro spirito un’idea confusa della sostanza immateriale » (Z princìpi della filosofia, 11.9) [voi. 2, pp. 76 sg.]. 54. «Noi possiamo anche considerare il pensiero e l’estensione come le cose principali, che costituiscono la natura della sostanza intelligente e corporea; e allora non dobbiamo concepirla altrimenti che come la sostanza stessa che pensa ed è estesa, cioè come l’anima e il corpo: poiché le conosciamo in questo modo con tutta chiarezza e distinzione » (Z princìpi della filosofia, 1.63) [voi. 2, PP- 59 sg.]. 55. «In quanto è possibile discernere la colomba dagli altri uccelli la sua idea è chiara; distinta, invece, è l’idea del quadrato se io sono in grado di enumerare le sue note caratteristiche (Knoodt, op. cit., p. 15).

56. «Noi sperimentiamo la verità di questo tutti i giorni, non per mezzo di un sol senso, ma per mezzo di molti, cioè del tatto, della vista e dell’udito; la nostra immaginazione ne riceve idee distintissime, e il nostro intelletto lo concepisce con tutta chiarezza. Il che non può dirsi di nessuna delle altre cose che cadono sotto i nostri sensi, come sono i colori, gli odori, i suoni e simili: poiché ognuna di queste cose non tocca che uno solo dei nostri sensi, e non imprime nella nostra immaginazione che un’idea di sé, la quale è assai confusa, e infine non fa conoscere affatto al nostro intelletto quello che essa è» (Z princìpi della filo­ sofia, iv.200) [voi. 2, p. 361]. 57. « Ma dopo che si è concepita una volta l’idea del vero Dio, benché si pos­ sano scoprire in lui nuove perfezioni, che non erano state percepite ancora, la sua idea non è pertanto accresciuta o aumentata, ma è solamente resa più di­ stinta e più espressa, in quanto esse han dovuto essere tutte contenute in quella stessa idea che si aveva prima, poiché si suppone che fosse vera » (Risposte alle quinte obiezioni, x, p. 223) [voi. 1, pp. 536 sg.].

58. Z princìpi della filosofia, 1.53 e 54. [Cfr. trad. it. cit., voi. 2, pp. 52 sg.]

59. « Oltre di che, ho notato che i filosofi, cercando di spiegare, con le regole della loro logica, cose che sono manifeste di per sé stesse, non hanno fatto null’altro che oscurarle» (Z princìpi della filosofia, 1.10) [voi. 2, p. 29]. «E oltre a ciò osservo che si danno cose le quali, quando vogliamo definirle, facciam di­ ventare più oscure, perché essendo esse semplicissime e chiarissime, non pos­ siamo conoscerle e percepirle meglio che per sé medesime » (La ricerca della ve­ rità mediante il lume naturale) [voi. 1, p. 123]. 60. Cfr. A. Höfler, Qrundlehren der Logik, Wien 1890. 61. «Ora, l’impossibilità che noi troviamo nei nostri pensieri non viene che dal fatto che essi sono oscuri e confusi; e non può esservene alcuna in quelli che son chiari e distinti» (Risposte alle seconde obiezioni) [voi. 1, p. 324]. 62. «Quante volte si discute intorno al concetto chiaro e distinto in cui è con­ tenuta la possibilità della cosa» (Notae in programma quoddam).

63. «Perché, sebbene abbia notato sopra che solo nei giudizi si può trovare là vera e formale falsità, si può, tuttavia, trovare nelle idee una certa falsità materiale» (Terza meditazione) [voi. 1, p. 223].

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64. «Quanto alle idee confuse degli dèi, foggiate dagli idolatri, non vedo perché non potrebbero essere dette anch’esse materialmente false, in quanto servono di materia ai loro falsi giudizi. Benché, a dir vero, le idee, che, per così dire, non danno al giudizio nessuna occasione di errore, o che la danno leggerissima, non debbano esser dette materialmente false quanto quelle che la danno grandissima» (.Risposte alle quarte obiezioni, p. ni) [voi. 1, p. 404]. 65. «La falsità impropriamente detta, che si attribuisce alle cose e ai concetti semplici, è soltanto una denominazione estrinseca del segno o della causa, del­ l’occasione o dell’oggetto del giudizio falso» (Suarez, Disputationes metaphysicae ix, sezione 1.19). Anche la qualifica materialiter per questo tipo di verità o falsità si trova già in Suarez (ibid., sezione 11.4). 66. Risposte alle quarte obiezioni, p. 112 [voi. 1, p. 405]. 67. « Quanto alle altre cose, come la luce, i colori, i suoni, gli odori, i sapori, il calore, il freddo, e le altre qualità che cadono sotto il tatto, esse si trovano nel mio pensiero con tanta oscurità e confusione, che ignoro perfino se esse siano vere o false e solo apparenti, cioè se le idee, che io concepisco di queste qualità, siano in effetti le idee di cose reali, oppure se non mi rappresentino che esseri chimerici, i quali non possono esistere (...) Si può, tuttavia, trovare nelle idee una certa falsità materiale, quando esse rappresentano ciò che non è nulla come se fosse qualche cosa» (Terza meditazione) [voi. 1, p. 223]. 68. «E dal fatto che qualcosa è contenuta in un’idea, non concludo che questa cosa esiste attualmente, se non quando non può assegnarsi nessun’altra causa di quest’idea che la cosa stessa (...) il che ho dimostrato non potersi dire di molti mondi, né di alcuna altra cosa, tranne di Dio solo » (Risposte alle quinte obiezioni) [voi. 1, p. 534]. 69. «Per esempio, le idee che ho del freddo e del caldo sono così poco chiare e così poco distinte, che, per loro mezzo, non posso discernere se il freddo è solo una privazione del caldo, o il caldo una privazione del freddo, oppure se l’uno e l’altro sono delle qualità reali, o se non lo sono; e poiché, essendo le idee come delle immagini, non può essercene nessuna che non ci sembri rap­ presentare qualche cosa, se è vero il dire che il freddo non è altro che priva­ zione del caldo, l’idea che me lo rappresenta come qualcosa di reale e di posi­ tivo non sarà male a proposito chiamata falsa, e così delle altre simili idee» (Terza meditazione) [voi. 1, pp. 223 sg.] 70. «Finalmente, bisogna notare che io non ho affermato che "le idee delle cose materiali derivavano dallo spirito", come mi volete qui far credere; poi­ ché ho mostrato espressamente dopo che esse procedevano spesso dai corpi, e che così si prova l’esistenza delle cose corporee» (Risposta alle quinte obie­ zioni) [voi. 1, p. 533]. 71. «E, innanzitutto, non saprei concepire altra cosa se non Dio solo, alla cui essenza l’esistenza appartenga con necessità» (Quinta meditazione) [voi. 1, P- Z45]72. «E quanto alla cosa infinita, noi la concepiamo, a dire il vero, positivamente, ma non secondo tutta la sua estensione, cioè non comprendiamo tutto ciò che è intelligibile in essa» (Risposte alle prime obiezioni) [voi. 1, p. 290]. Cfr. 1 princìpi della filosofia, 1.54; Risposte alle quarte obiezioni, p. 105 [voi. 1, P- 393]-

SULLA DOTTRINA DEL CONTENUTO E DELL’OGGETTO DELLE RAPPRESENTAZIONI: UNA RICERCA PSICOLOGICA (1894)

i. Atto, contenuto e oggetto della rappresentazione Una delle più note tesi della psicologia, di certo non contestata da nessuno, è che ogni fenomeno psichico si riferisca a un oggetto immanente. L’esistenza di una relazione di questo tipo è un tratto caratteristico dei fenomeni psichici che, proprio attraverso di essa, si distinguono dai fenomeni fisici. Ai fenomeni psichici del rap­ presentare, del giudicare, del desiderare e del detestare corrisponde sempre qualcosa di rappresentato, di giudicato, di desiderato e di detestato, e i primi termini sarebbero un’assurdità senza gli ultimi. Questo fatto — menzionato dagli scolastici e in precedenza già da Aristotele — è stato di recente apprezzato in tutta la sua grande importanza da Brentano che, tra l’altro, ha fondato la classifica­ zione dei fenomeni psichici sui generi di relazioni che sussistono tra la rappresentazione e ciò che è rappresentato ecc.1 Sulla base di questo riferimento a un «oggetto immanente», proprio dei fenomeni psichici, ci si è abituati a distinguere in ogni fenomeno psichico tra atto e contenuto, e in tal modo ognuno di questi fenomeni si presenta sotto un duplice aspetto. Quando si parla di «rappresentazioni», talvolta si può comprendere con ciò l’atto di rappresentazione, ovvero l’attività del rappresentare, tal­ volta invece con tale espressione si può intendere ciò che è rappre­ sentato, il contenuto della rappresentazione. E così è divenuto abi­ tuale in generale servirsi — laddove può esserci anche solo la minima possibilità di equivocazione — di una delle due espressioni «atto di rappresentazione» e «contenuto di rappresentazione» al posto del­ l’espressione « rappresentazione ». Ma se in tal modo si previene la confusione tra atto psichico e

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suo contenuto, resta tuttavia ancora da superare un’ambiguità, sulla quale Alois Höfler richiama l’attenzione. Dopo aver discusso del riferimento a un contenuto, proprio dei fenomeni psichici, egli così prosegue: « i) Ciò che noi chiamammo “contenuto della rap­ presentazione e del giudizio” si trova del tutto all’interno del sog­ getto, alla pari dello stesso atto di rappresentazione e di giudizio. 2) La parola "oggetto” {Gegenstand o Objekt) è usata in un du­ plice senso: da un lato per ciò che sussiste in sé (...) e al quale si rivolgono, per così dire, le nostre attività di rappresentazione e di giudizio; dall’altro, per 1’"immagine” psichica sussistente “in" noi, che è più o meno approssimata a quell’oggetto reale; quasi-immagine (o, più correttamente, segno) che è identica a ciò che in 1) si è chiamato contenuto. Al fine di distinguerlo dall’oggetto, il conte­ nuto di un atto di rappresentazione e di giudizio (e parimenti del sentire e del volere) si designa altresì come “l’oggetto immanente o intenzionale" di questi fenomeni psichici.»2 Di conseguenza si deve distinguere l’oggetto sul quale «per così dire si dirige» il nostro rappresentare dall’oggetto immanente o contenuto della rappresentazione. Questa distinzione non sempre è stata fatta ed è stata ignorata, tra gli altri, anche da Sigwart.3 Il linguaggio facilita anche in questo caso — come di frequente accade — la confusione tra due cose distinte, lasciando che tanto il contenuto quanto l’oggetto siano «rappresentati». Ne risulterà inoltre che l’espressione «rappresentato» è ambigua in modo simile a come lo è l’espressione «rappresentazione». Questa serve a designare parimenti l’atto e il contenuto, così come quella serve a designare tanto il contenuto, l’oggetto immanente, quanto l’oggetto non immanente, vale a dire l’oggetto della rappresentazione. La presente ricerca si occuperà pertanto di distinguere ciò che è rappresentato, nel senso di significare il contenuto, da ciò che è rap­ presentato nell’altro senso, in quello di servire a designare l’oggetto; in breve, il nostro studio dovrà effettuare la distinzione tra il con­ tenuto e l’oggetto della rappresentazione ed esaminare la loro rela­ zione reciproca. 2. Atto, contenuto e oggetto del giudizio

Appare evidente l’assunto che i giudizi, in rapporto alla distin­ zione tra contenuto e oggetto, si mostreranno del tutto simili alle rappresentazioni.

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Se si riesce dunque a scoprire anche nell’ambito del giudizio una distinzione tra il contenuto e l’oggetto di tale fenomeno, ciò po­ trebbe allora costituire un vantaggio al fine di chiarire le analoghe relazioni riguardanti le rappresentazioni. Ciò che distingue tra loro rappresentazioni e giudizi e li costi­ tuisce come classi nettamente separate di fenomeni psichici è il particolare tipo di riferimento intenzionale all’oggetto. In che cosa tale riferimento consista non si può descrivere, ma soltanto chia­ rire attraverso il rimando a ciò che l’esperienza interna presenta. E qui la distinzione tra i modi in cui un atto psichico può riferirsi al suo oggetto emerge in maniera del tutto chiara. È infatti evi­ dente a tutti che si tratta di un rapporto diverso se qualcuno si rappresenta semplicemente qualcosa, o se invece lo afferma o lo nega. Tra questi due generi di riferimento intenzionale non c’è al­ cuna forma di transizione, né graduale né discontinua. È un mani­ festo misconoscimento dei fatti se si crede che per caso ci siano tra rappresentazione e giudizio certe forme di passaggio che si si­ tuerebbero a metà strada. Benno Erdmann sostiene invece l’esi­ stenza di queste forme di passaggio. «Quando ricordiamo un og­ getto — egli dice — quando ci formiamo una rappresentazione astratta o quando tentiamo di illustrare le note caratteristiche di un certo oggetto complesso, noi mettiamo allora in relazione con l’oggetto le note caratteristiche che compaiono in successione in modo automatico e quasi senza eccezione con l’ausilio di rappre­ sentazioni di parole. E ciò in modo che esse sono asserite, predi­ cate dell’oggetto, così che questo viene a essere concepito come il soggetto e quelle come i predicati di un giudizio. Le rappresenta­ zioni, dunque, si trasformano in giudizi; esse compaiono in un de­ corso di rappresentazioni predicativo.» E inoltre: «Anche dalla parte opposta la distinzione tra rappresentazione e giudizio diviene in qualche modo fluida (...) D’altronde siamo in grado di riassu­ mere i giudizi con una sola parola. Parole come "imperativo cate­ gorico", "Stato", "diritto", "polizia", "religione", "valore" (nel senso dell’economia politica), "merci", “leggi di natura” hanno il loro significato non tanto nelle rappresentazioni quanto nei giudizi che, alla maniera delle rappresentazioni, vengono riassunti in una sola parola, ma che nondimeno compaiono nella coscienza solo in forma di giudizi. Il loro significato, dovunque sia chiaro, è dato attraverso giudizi, per mezzo della loro definizione, in cui si com­ pie quel procedimento di astrazione nel quale tali parole si formano

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con la mediazione del linguaggio.»4 Questi sono gli argomenti di Erdmann relativi all’esistenza di un passaggio — sostenuto anche da altri — delle rappresentazioni in giudizi e viceversa.5 È facile tut­ tavia dimostrare l’errore insito nelle conclusioni di Erdmann. Per ciò che concerne il primo argomento di Erdmann, secondo cui noi riferiamo sempre meccanicamente le note caratteristiche di un oggetto composto all’oggetto stesso in modo che esso viene a essere concepito come soggetto e le note caratteristiche come predicati di un giudizio, questo argomento dunque non è probante. Poiché, anche se si dovesse convenire che l’atto di rappresenta­ zione di un oggetto composto si svolge esattamente nel modo de­ scritto da Erdmann, con ciò non sarebbe ancora dimostrato il manifestarsi di giudizi o di una forma di passaggio tra rappresenta­ zioni e giudizi. Se si pensa un oggetto come soggetto di un giu­ dizio e le sue note caratteristiche come predicati, in questo modo ci si rappresenta il soggetto del giudizio, i predicati del giudizio e il giudizio stesso, poiché soggetto e predicato come tali possono essere rappresentati soltanto in una contemporanea riflessione su un giudizio. È chiaro tuttavia che c’è una grande differenza tra rap­ presentarsi un giudizio ed enunciare un giudizio. Un giudizio rap­ presentato è tanto poco un giudizio, quanto «cento talleri» rappre­ sentati costituiscono un possesso. Se, perciò, un oggetto composto può essere rappresentato solo con l’aiuto di un «decorso di rap­ presentazioni predicativo», allora questo asserire determinate note caratteristiche di un oggetto preso come soggetto è tuttavia sol­ tanto un asserire rappresentato al quale manca per divenire un asserire reale, ovvero un giudicare, né più né meno di quanto manca a un castello delle fate dipinto per diventare con ciò un castello reale. Se si rappresenta l’oggetto composto «oro», lo si rappresenta come giallo, metallico, scintillante, pesante ecc. Ciò significa che i giudizi «l’oro è giallo», «l’oro risplende in maniera metallica», «l’oro è pesante» e cosi via sono tutti rappresentati; ma questi giu­ dizi sono appunto solamente rappresentati, non enunciati. Se le cose stessero così come Erdmann sostiene, non ci si potrebbe quindi mai rappresentare un oggetto composto, analizzato nelle sue note caratteristiche, senza asserire il vero o il falso intorno all’oggetto. Questa conseguenza, se perseguita in tutte le direzioni, produrrebbe come ulteriore conseguenza che ci siano solo rappresentazioni sem­ plici nel vero senso della parola; e con ciò non si dichiarerebbe d’accordo neppure lo stesso Erdmann.

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Il secondo argomento di Erdmann circa l’esistenza di forme di transizione dalla classe delle rappresentazioni a quella dei giudizi è, esaminato con attenzione, solo l’inverso del primo ed è altrettanto poco probante. Si deve ammettere, certo, che i giudizi possono essere riassunti mediante una parola. E ciò precisamente è possi­ bile in un duplice modo. Un giudizio che trova la sua abituale espressione linguistica per mezzo di una proposizione, può essere espresso o in una proposizione che consiste soltanto di una parola, o altrimenti può essere espresso senza che ci sia una proposizione. Il primo è il caso, in molte lingue, delle cosiddette proposizioni senza soggetto, come ad esempio in greco, in latino e in tutte le lingue slave. In questo caso il giudizio è riassunto per mezzo di una parola, poiché la proposizione che sta a significare il giudizio appare espressa da una sola parola. Ma il giudizio può anche essere riassunto per mezzo di una parola, senza che attraverso la stessa venga rappresentata una proposizione in senso grammaticale. Chi grida «Fuoco!» o qualcosa di simile riassume in un’unica parola la proposizione «C’è un incendio» e il giudizio significato attra­ verso questa proposizione. Diverso è il caso che Erdmann ha di mira. È vero che, ogni­ qualvolta sia chiaro, il significato di parole come Stato, diritto ecc. è dato per mezzo di definizioni. Ora, le definizioni sono senza dub­ bio delle proposizioni. Erdmann tuttavia ha trascurato il fatto che alle proposizioni possono corrispondere in qualità di correlato psi­ chico non semplicemente giudizi, ma anche molti altri fenomeni come, ad esempio, desideri e simili. Oltre ai giudizi reali anche i giudizi meramente rappresentati sono comunicati tramite proposi­ zioni. Quando qualcuno descrive l’oggetto della sua rappresenta­ zione, si serve a tal fine di proposizioni. Egli dice infatti: «Il pezzo d’oro che io mi rappresento è giallo ecc.» Ma con ciò non viene reso noto nessun altro giudizio, tranne quello che chi parla ha una determinata rappresentazione; intorno all’oggetto della rappresen­ tazione stessa non viene enunciato alcun giudizio, ma sono rappre­ sentati solamente giudizi sulla natura del pezzo d’oro. E sono questi giudizi rappresentati che appaiono espressi nella definizione la quale, a sua volta, è essa stessa espressa in forma di una o più proposi­ zioni. Se la definizione, come Erdmann ritiene, non ha altro compito che fornire il chiaro significato di una parola, allora il singolo giu­ dizio che essa contiene è un giudizio riguardante la connessione, valida per colui che parla, tra un nome determinato e un determi­

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nato significato. Se qualcuno dice: «Lo Stato è una comunità pub­ blica comprendente un popolo che risiede in un determinato terri­ torio, nell’unione di governanti e governati», in questo caso egli non ha espresso alcun giudizio riguardante lo Stato, ma ha sola­ mente asserito di designare con la parola «Stato» un oggetto, la cui rappresentazione è composta nel modo indicato. E la descrizione di questa rappresentazione avviene con l’aiuto di proposizioni che consistono di soggetto e predicato, ma i cui correlati psichici, ben lungi dall’essere giudizi, si presentano come rappresentazioni di giudizi. Si veda, dunque, come il secondo argomento di Erdmann sia in stretta connessione con il primo e stia in piedi o cada con esso. Noi dovremo pertanto essere fermi nel considerare il fatto che rappresentazione e giudizio costituiscono due classi nettamente di­ stinte di fenomeni psichici, senza che tra di loro si trovino forme di transizione. Per quanto concerne l’oggetto del giudizio, è l’oggetto stesso che può in un caso essere semplicemente rappresentato, e in un altro caso anche giudicato, affermato o negato. Che l’essenza del giudizio consista appunto nell’affermare o nel negare è stato mo­ strato da Brentano.6 Ciò che è affermato o negato è l’oggetto del giudizio. A questa attività psichica rivolta a un oggetto è intrec­ ciata dunque, in un modo particolare, l’esistenza o la non-esistenza dell’oggetto. L’oggetto è infatti giudicato; ma nell’essere affermato, appare nel contempo affermata anche la sua esistenza. Se l’oggetto è negato, in tal caso appare negata anche la sua esistenza. Chi cre­ desse, quindi, che l’affermazione e la negazione di un oggetto con­ sistano nel fatto che si afferma o si nega la connessione tra la nota caratteristica «esistenza» e l’oggetto non riesce a cogliere che nel­ l’affermazione di una connessione sono implicitamente affermate le stesse parti connesse, mentre attraverso la negazione di una con­ nessione le singole parti non sono negate. Nell’asserire l’esistenza di A, lo stesso A è dunque già affermato; attraverso la negazione dell’esistenza di A, anche A viene negato, la qual cosa non potrebbe darsi se si trattasse di una connessione tra A e la nota caratteristica «esistenza».7 E tuttavia, mediante l’affermazione di A appare affer­ mata la sua esistenza, e mediante la negazione dell’esistenza di A, anche A viene negato. Tale circostanza richiama l’attenzione su quella, funzione del­ l’atto di giudizio che costituisce l’analogo della funzione dell’atto di rappresentazione, per mezzo della quale oltre all’oggetto anche

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il suo contenuto è «rappresentato». Come nel rappresentarci un oggetto, sul quale questo atto di rappresentazione si dirige in senso proprio, fa la sua comparsa anche un secondo elemento, e cioè il contenuto della rappresentazione che è ugualmente «rappresen­ tato» ma in un senso diverso rispetto all’oggetto, così ciò che è affermato o negato per mezzo di un giudizio è, senza essere l’og­ getto del comportamento giudicativo, il contenuto del giudizio. Con il contenuto del giudizio si deve intendere, quindi, l’esistenza di un oggetto della quale si tratta in ogni giudizio. Infatti chi enun­ cia un giudizio, asserisce qualcosa sull’esistenza di un oggetto. Nell’affermare o negare l’oggetto stesso, egli afferma o nega anche la sua esistenza. Ciò che è giudicato in senso proprio è l’oggetto stesso; nel suo essere giudicato anche la sua esistenza appare giu­ dicata, ma in un altro senso. L’analogia con le relazioni presenti nell’ambito dell’atto di rap­ presentazione è perfetta. Qui come là si ha un atto psichico; qui il giudicare, là il rappresentare. Tanto questo quanto quello si rife­ riscono a un oggetto assunto come indipendente dal pensiero. Sia quando l’oggetto è rappresentato, sia quando è giudicato, com­ pare a fianco dell’atto psichico e del suo oggetto un terzo elemento che è, per così dire, un segno dell’oggetto: la sua «immagine» psi­ chica nel caso che esso sia rappresentato e la sua esistenza se esso, invece, è giudicato. Tanto dell’«immagine» psichica di un oggetto, quanto della sua esistenza si dice che quella è rappresentata e que­ sta, invece, giudicata. L’oggetto proprio del rappresentare e del giudicare non è, tuttavia, né l’immagine psichica dell’oggetto, né la sua esistenza, bensì l’oggetto stesso. Ma tanto poco l’immagine psichica o l’esistenza di un oggetto sono identiche all’oggetto stesso, quanto poco è medesimo il senso dei rispettivi verbi quando si de­ signano il contenuto e l’oggetto di una rappresentazione come «rappresentati», e il contenuto e l’oggetto di un giudizio come «giudicati».

3. Nomi e rappresentazioni

Anche se parlare e pensare non stanno tra loro in un perfetto parallelismo, esiste nondimeno un’analogia tra i fenomeni psichici e le forme linguistiche che li designano, un’analogia che può ser­ vire a illustrare le particolarità vigenti in un ambito determinato, adducendo le peculiarità proprie dei fenomeni dell’altro ambito. Ri­

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guardo alla distinzione che si sta discutendo tra contenuto e oggetto di una rappresentazione, una considerazione dei nomi intesi come segni linguistici di rappresentazioni potrà rendere questo servizio. Una questione già sollevata in riferimento ai nomi fornisce la dimostrazione che riguardo alla rappresentazione dovrebbero essere distinti tre aspetti. Mill si chiede, laddove egli tratta dei nomi, se sia più adeguato considerare i nomi come nomi delle cose o, invece, come nomi delle nostre rappresentazioni delle cose.8 Per cose egli qui intende lo stesso di ciò che noi designiamo come oggetti delle rappresentazioni; ma con rappresentazioni egli può intendere sol­ tanto i contenuti di rappresentazione e non gli atti di rappresenta­ zione. La risposta che Mill, seguendo Hobbes, dà circa la questione menzionata presuppone, in modo inequivocabile, una distinzione tra il contenuto e l’oggetto di una rappresentazione. La parola «sole», sostiene Mill, è il nome del sole e non il nome della nostra rappre­ sentazione del sole; peraltro, egli non vuole negare che la sola rappresentazione e non la cosa stessa venga richiamata mediante il nome o sia comunicata a un ascoltatore. Il compito del nome ap­ pare essere, quindi, duplice: il nome comunica a colui che ascolta il contenuto di una rappresentazione e, nello stesso tempo, esso no­ mina un oggetto. Tuttavia, noi abbiamo creduto di dover distin­ guere in ogni rappresentazione non già un duplice, bensì un triplice aspetto: l’atto, il contenuto e l’oggetto. E se il nome presenta real­ mente una precisa immagine linguistica delle relazioni psichiche che gli corrispondono, allora deve anche mostrare un correlato del­ l’atto di rappresentazione. In effetti tale correlato esiste, e ai tre aspetti della rappresentazione — l’atto, il contenuto e l’oggetto — corrisponde un triplice compito che ogni nome deve soddisfare. Con nome si deve intendere tutto ciò che i logici antichi hanno chiamato un segno categorematico. I segni categorematici sono tutti i mezzi linguistici di designazione che non sono semplicemente consignifìcanti (come «del padre», «interno», «ciò nonostante» e simili), ma che purtuttavia di per sé non costituiscono l’espressione completa di un giudizio (di un’asserzione), di un sentimento, di una decisione volontaria e simili (chiedere, domandare, comandare ecc.), ma per l’appunto sono quelli che costituiscono puramente l’espres­ sione di una rappresentazione. «Il fondatore dell’etica», «Un figlio che ha offeso suo padre» sono nomi.9 Quale compito devono pertanto adempiere i nomi? Ovviamente quello di destare in colui che ascolta un determinato contenuto di

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rappresentazione.10 Chi pronuncia un nome intende suscitare in chi ascolta il medesimo contenuto psichico che in lui stesso si realizza; quando qualcuno dice: «sole, luna, stelle», egli vuole che quelli che lo ascoltano pensino, proprio come lui, al sole, alla luna e alle stelle. Ma nel voler destare in chi ascolta, con la pronuncia di un nome, un determinato contenuto psichico, chi parla nel contempo rivela a chi ascolta che egli — lo stesso che parla — trova in sé questo contenuto, e che quindi si rappresenta la medesima cosa che egli desidera l’ascoltatore si rappresenti.11 In questo modo il nome soddisfa già un duplice compito. In primo luogo, esso rende noto che colui che usa il nome si rappresenta qualcosa; esso indica la presenza in colui che parla di un atto psichico. In secondo luogo, esso fa sorgere in chi ascolta un determinato contenuto psichico. Que­ sto contenuto è ciò che si intende come «significato» di un nome.12 Con ciò tuttavia non sono esaurite le funzioni del nome. Esso ne adempie ancora una terza, e cioè la funzione di designare og­ getti. I nomi sono nomi di cose, dice Mill, e per giustificare tale affermazione si richiama al fatto che noi ci serviamo dei nomi al fine di comunicare qualcosa intorno a cose e simili. La designazione di oggetti compare quindi come il terzo compito che un nome deve adempiere. Di conseguenza, le tre funzioni del nome sono: primo, il render noto un atto di rappresentazione che ha luogo in colui che parla; secondo, il destare un contenuto psichico, il significato di un nome, in colui al quale ci si rivolge; terzo, il designare un og­ getto che è rappresentato mediante la rappresentazione significata dal nome. Il riferimento ai tre compiti che ogni nome adempie conferma dunque, perfettamente, la distinzione tra contenuto e oggetto di una rappresentazione. E così la considerazione del segno linguistico in rapporto alla rappresentazione ci offre un mezzo per distinguere ciò che può facilmente essere confuso o considerato come una stessa cosa, a causa di un’imperfezione linguistica che designa tanto il contenuto, quanto l’oggetto come «qualcosa di rappresentato». 4. Il «rappresentato» Se la parola «rappresentare» è ambigua, poiché sia del contenuto sia dell’oggetto si dice che sono «rappresentati», questo fatto può certo contribuire non poco a rendere più difficile un’esatta distin­ zione tra contenuto e oggetto. Noi abbiamo già detto che il con­

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tenuto e l’oggetto di una rappresentazione non sono nello stesso senso «qualcosa di rappresentato». In seguito, noi cercheremo di stabilire che cosa significhi l’espressione «rappresentato» quando è asserita dell’oggetto di una rappresentazione, e quale sia invece il suo senso quando essa è riferita al contenuto di una rappresenta­ zione. Il richiamare alla memoria la relazione che sussiste tra gli aggettivi attributivi e determinativi da un lato, e gli aggettivi mo­ dificanti dall’altro ci fornisce il modo per stabilire tale differenza di significato.13 Una determinazione si dice attributiva o determi­ nativa se completa o amplia — in direzione sia positiva che nega­ tiva — il significato dell’espressione alla quale essa appartiene. Una determinazione è allora modificante se muta completamente il si­ gnificato originario del nome al quale si accompagna. Così in «uomo buono» la determinazione «buono» è veramente attributiva: se si dice, invece, «uomo morto» ci si serve in tal caso di un ag­ gettivo modificante, in quanto un uomo morto non è affatto un uomo. Ugualmente, aggiungendo l’aggettivo «falso» a un nome, il significato originario di questo nome viene a essere sostituito da un altro. Infatti, un falso amico non è un amico e un diamante falso non è un diamante. È possibile che la stessa parola possa es­ sere usata talvolta in maniera modificante, talvolta in maniera real­ mente attributiva o determinativa. Come è il caso, ad esempio, dell’aggettivo «falso» appena menzionato: nei casi scelti come esempi è indubbiamente un aggettivo modificante; non così in unioni come «un falso giudizio», «un uomo falso (non fedele)». Lo stesso vale della determinazione relativa al fatto che qual­ cosa sia «rappresentato». Tuttavia, prima di esaminare a fondo l’ambiguità che inerisce a questa espressione, vogliamo considerare un caso del tutto analogo che, desunto dall’esperienza esterna, offre il vantaggio di essere ben conosciuto e di renderci più abili a co­ gliere l’equivocazione che compare nella parola «rappresentato». Com’è noto, si dice che un pittore dipinge un quadro, ma anche che dipinge un paesaggio. La medesima attività del pittore si ri­ volge, cioè, a due oggetti; il risultato di questa attività è invece uno solo. Il pittore, quando ha terminato di dipingere il quadro o, rispettivamente, il paesaggio, ha davanti a sé tanto un quadro di­ pinto quanto un paesaggio dipinto. Il quadro è dipinto: non è né un’incisione, né un’acquafòrte, né simili cose; è un dipinto, un vero e proprio quadro. Anche il paesaggio è dipinto; tuttavia non è un

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paesaggio reale, bensì soltanto «dipinto». Il quadro dipinto e il paesaggio dipinto sono in verità una cosa sola; il quadro rappre­ senta realmente un paesaggio ed è, quindi, un paesaggio dipinto; il paesaggio dipinto è, a sua volta, un quadro del paesaggio. La parola «dipinto» svolge pertanto un doppio ruolo. Essa è usata a proposito del quadro, e così appare come una determina­ zione: essa determina in maniera dettagliata la natura del quadro, secondo la quale esso è quindi un dipinto e non già un’incisione, un’acquafòrte, una xilografia, una fototipia ecc. Se per contro del paesaggio si dice che è dipinto, la determinazione «dipinto» ap­ pare allora come una determinazione modificante, poiché il paesag­ gio dipinto non è affatto un paesaggio, bensì una superficie di tela trattata dal pittore secondo determinate leggi della distribuzione del colore e della prospettiva; il paesaggio dipinto non è più un paesaggio, ma un quadro. Questo paesaggio dipinto, il quadro, rappresenta tuttavia un paesaggio reale. Il paesaggio che il pittore ha dipinto — sia secondo natura sia in base alla sua fantasia — è rappresentato sul quadro ed è stato quindi dipinto dal pittore. Per il fatto di essere stato dipinto da un pittore, esso non cessa tuttavia di essere un paesaggio. Quando io indico un certo paesaggio e aggiungo: io mi ricordo di questo paesaggio; alla mostra d’arte si poteva vedere un quadro che lo rappresentava; esso è stato dipinto dal pittore X, designando in questo senso il paesaggio come «dipinto», io parlo allora del pae­ saggio reale che è stato dipinto, e non del paesaggio dipinto, e di come esso adorna la parete della mostra d’arte. L’aggiunta «di­ pinto», apposta in questo senso alla parola «paesaggio», non mo­ difica in nessun modo il significato della parola «paesaggio»; è un’aggiunta realmente determinante, la quale indica che il paesag­ gio sta in una relazione determinata rispetto a un quadro, e precisamente in una relazione che tanto poco fa sì che il paesaggio cessi di essere un paesaggio, quanto poco un uomo cessa di essere un uomo se, in ragione dei suoi lineamenti del viso, sta in una rela­ zione di somiglianza con un altro uomo. Ciò che abbiamo osservato intorno alla parola «dipinto», nella sua applicazione al quadro e al paesaggio, vale ora, mutatis mutandis, della determinazione «rappresentato» in quanto si applica al contenuto e all’oggetto di una rappresentazione. E poiché si è soliti designare il rappresentare come un genere di raffigurazione

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mentale, così diviene sostanzialmente più facile fare il confronto tra il paesaggio dipinto e l’oggetto rappresentato, e appare meno improprio di come altrimenti risulterebbe il raffronto tra relazioni dell’esperienza interna ed esterna. Anzitutto, al verbo rappresentare corrisponde, in modo simile al verbo dipingere, un duplice oggetto: un oggetto che è rappre­ sentato e un contenuto che è ugualmente rappresentato. Il conte­ nuto è il quadro, l’oggetto è il paesaggio. Il risultato dell’attività di rappresentazione che si muove in una duplice direzione è di nuovo uno solo. L’oggetto rappresentato, nel senso in cui il paesaggio di­ pinto è un quadro, è il contenuto della rappresentazione. Il conte­ nuto rappresentato in una rappresentazione è in verità un contenuto; l’aggiunta «rappresentato», applicata al contenuto, ha tanto poco un effetto modificante, quanto l’aggiunta «dipinto» riguardo al quadro. Il contenuto rappresentato è ugualmente un contenuto, allo stesso modo di come il quadro dipinto è un quadro. Ma così come un quadro può essere solamente dipinto o realizzato per mezzo di un’attività che rimpiazzi il dipingere, parimenti un con­ tenuto di rappresentazione può essere solo rappresentato; non c’è neppure un’attività che potrebbe in questo caso sostituire il rap­ presentare. Il contenuto della rappresentazione e l’oggetto rappre­ sentato sono la stessa cosa; e cioè, l’espressione «rappresentato» come determinazione dell’oggetto è un’espressione modificante, poiché l’oggetto rappresentato non è più un oggetto, ma soltanto il contenuto di una rappresentazione. Abbiamo detto infatti che anche il paesaggio dipinto non è più un paesaggio, bensì un quadro. Ma noi abbiamo visto altresì che il paesaggio dipinto — il qua­ dro — rappresenta qualcosa che per l’appunto non è, in questo senso, un dipinto. Così pure il contenuto di una rappresentazione si riferisce a qualcosa che non è un contenuto di rappresentazione ma è, in modo analogo, l’oggetto di questa rappresentazione, nella quale il paesaggio è il «soggetto» del quadro che lo rappresenta. E come il paesaggio raffigurato in questo quadro — quello che esso conduce a rappresentazione — è «dipinto» dunque in un senso diverso dal precedente, anche l’oggetto che corrisponde a tale rap­ presentazione viene, come si è soliti dire, raffigurato mentalmente e quindi rappresentato mediante il contenuto della rappresentazione. Se dell’oggetto, in questo ultimo senso, si dice che è rappresentato, in tal modo non viene in nessun caso modificato il significato della parola oggetto; «l’oggetto è rappresentato» vuol dire soltanto che

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un oggetto è entrato in un rapporto del tutto determinato con un essere capace di avere rappresentazioni, senza cessare per questo di essere un oggetto. Quando si parla pertanto di «oggetti rappresentati», si possono in­ tendere due cose distinte. Il fatto che un oggetto è «rappresentato» può significare che un oggetto, a fianco di molte altre relazioni nelle quali è coinvolto con altri oggetti, entra a far parte anche di un rapporto determinato con un soggetto di conoscenza, in qualità di uno dei due termini della relazione stessa. In questo senso l’og­ getto rappresentato è davvero un oggetto, allo stesso modo del­ l’oggetto esteso, smarrito e simili. Ma in un altro senso l’oggetto rappresentato significa l’opposto di un oggetto vero e proprio, in quanto l’oggetto rappresentato non è più un oggetto, bensì il conte­ nuto di una rappresentazione e quindi qualcosa di totalmente di­ verso da un oggetto reale. Nel primo senso l’oggetto rappresentato è ciò che può essere affermato o negato attraverso un giudizio. Per poter essere giudicato, un oggetto deve anzitutto essere rap­ presentato; ciò che non è rappresentato può essere tanto poco affer­ mato o negato, quanto poco lo si può amare od odiare. Peraltro, l’oggetto affermato o negato, desiderato o detestato è un oggetto rappresentato sempre solo nel secondo dei significati menzionati. L’oggetto rappresentato, nel primo tra i due sensi addotti della parola «rappresentato», non è tuttavia ciò che è affermato o ne­ gato; non lo si ha infatti in mente, in quel senso, quando si dice che un oggetto esiste o non esiste. L’oggetto rappresentato in que­ sto senso è il contenuto della rappresentazione, «la raffigurazione mentale» di un oggetto. < L’ambiguità appena discussa del termine «rappresentato» non è sempre stata sufficientemente considerata. Sigwart ad esempio, lad­ dove polemizza con la dottrina idiogenetica del giudizio,14 con­ fonde l’oggetto rappresentato nel senso dell’oggetto di una rappre­ sentazione con l’oggetto rappresentato nel senso del contenuto di una rappresentazione. In modo simile anche Drobisch non rispetta la distinzione tra l’oggetto rappresentato in un senso e l’oggetto rappresentato nel­ l’altro senso. Dove parla del compito che i nomi devono adem­ piere, egli infatti dice:15 «L’attività di pensiero, in quanto considera nelle rappresentazioni solamente ciò che vi è rappresentato, vale a dire il rappresentato, e prescinde da tutte le condizioni sogget­ tive del rappresentare, forma concetti. La designazione linguistica

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del concetto è il nome. Si è soliti, è vero, considerare il nome come la designazione della cosa (Sache), dell’oggetto reale della rappre­ sentazione (se questa ne ha uno); ma ciò che nel concetto è rap­ presentato non è appunto nient’altro della cosa venuta a conoscenza ecc.» È chiaro che Drobisch non si accorge, parlando del «rap­ presentato», di usare la parola in modo equivoco, una volta con un significato, un’altra volta con un significato diverso. Quando carat­ terizza il concetto come ciò che è rappresentato in una rappresen­ tazione, egli intende allora con il rappresentato il contenuto della rappresentazione; ma quando dice che il rappresentato non è nient’altro che la cosa venuta a conoscenza, in questo caso si deve allora comprendere con il rappresentato l’oggetto della rappresentazione, in quanto questo è appunto l’oggetto di una rappresentazione rela­ tiva ad esso. Se Drobisch avesse tenuto conto di questa distinzione, non avrebbe esclusivamente definito il nome come designazione linguistica del concetto, ma avrebbe trovato piuttosto che il nome significa certamente il concetto (nel senso di Drobisch, quindi, il contenuto della rappresentazione), ma che proprio grazie a ciò esso nomina l’oggetto, la cosa. Drobisch commette la stessa confusione laddove spiega la di­ stinzione tra «note caratteristiche» e «componenti».16 «Questa di­ stinzione — vi si dice — non è da porsi nel fatto che quelle siano parti del concetto, mentre queste, per contro, siano parti della cosa, dell’oggetto stesso. Questa stessa cosa e le sue componenti sono anch’esse solo qualcosa di rappresentato; anche in questo caso non andiamo al di là dei concetti» ecc. Drobisch, pertanto, non coglie in senso proprio nessuna differenza tra il concetto e la cosa, poiché entrambi sono «qualcosa di rappresentato». Ma il fatto che ci siano differenti sensi in cui qualcosa possa essere un «qualcosa di rap­ presentato», ora come contenuto ora come oggetto, sembra essere sfuggito alla sua attenzione. Nel contempo tuttavia si è spesso richiamata l’attenzione con forza sulla distinzione che esiste tra il contenuto di una rappresen­ tazione e il suo oggetto. Bolzano ha sottolineato tale differenza e vi si è attenuto in maniera assai conseguente.17 Zimmermann mette espressamente in guardia dal confondere il contenuto con l’og­ getto,18 e Kerry ha di recente dimostrato questa distinzione a pro­ posito delle rappresentazioni di numeri e, quindi, di rappresenta­ zioni i cui oggetti non sono reali.19 In seguito avremo l’opportunità di richiamarci, in ordine ad alcune delle questioni trattate, agli

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studiosi citati e di basarci sui risultati delle loro ricerche; per ora, vogliamo soltanto precisare il rapporto in cui stanno il contenuto e l’oggetto di una rappresentazione con l’atto stesso della rappresen­ tazione, come pure la designazione linguistica da stabilire, in se­ guito, riguardo a tale relazione. Avendo comparato l’atto di rappresentazione con il dipingere, il contenuto con il quadro e l’oggetto con il soggetto fissato sulla tela, ci siamo avvicinati a esprimere anche la relazione in cui sta l’atto nei confronti del contenuto e dell’oggetto della rappresenta­ zione. Per il pittore il quadro è un mezzo attraverso cui rappresen­ tare il paesaggio; egli vuole raffigurare, «dipingere» un paesaggio — reale o che gli sta davanti agli occhi nella fantasia — e lo fa dipingendo un quadro. Egli dipinge un paesaggio e, nel fame un quadro, dipinge. Il paesaggio è l’oggetto «primario» della sua atti­ vità pittorica, il quadro l’oggetto «secondario». Analogo è il di­ scorso per l’atto di rappresentazione. Colui che compie un atto di rappresentazione pone davanti a sé un certo oggetto, ad esempio un cavallo. Ma nel far ciò, egli si rappresenta un contenuto psi­ chico. Il contenuto è l’immagine del cavallo in senso analogo a quello in cui il quadro è la raffigurazione del paesaggio. Nel rap­ presentarsi un oggetto, una persona si rappresenta nello stesso tempo un contenuto che si riferisce a questo oggetto. L’oggetto rappre­ sentato, vale a dire l’oggetto sul quale si dirige l’attività rappresen­ tativa, l’atto di rappresentazione, è l’oggetto primario del rappre­ sentare; il contenuto, per mezzo del quale l’oggetto è rappresentato, è l’oggetto secondario dell’attività di rappresentazione.20 Al fine dunque di distinguere il duplice significato che spetta alla parola «rappresentare», nel suo essere applicata ora a un con­ tenuto ora a un oggetto, vogliamo servirci dell’espressione che tro­ viamo in Zimmermann.21 Del contenuto diremo che è pensato, rappresentato nella rappresentazione; dell’oggetto diremo che è rappresentato per mezzo del contenuto di una rappresentazione (o per mezzo di una rappresentazione). Ciò che è rappresentato in una rappresentazione è il suo contenuto; ciò che è rappresentato per mezzo di una rappresentazione è il suo oggetto. In questo modo sarà possibile conservare la parola «rappresentare» — il sostituirla con un’altra accrescerebbe soltanto la confusione — e nondimeno evitare gli equivoci che questa parola, per la sua ambiguità, sembra atta a suscitare. Se si parla di qualcosa che è rappresentato, oc­ corre soltanto aggiungere se è rappresentato nella rappresentazione

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o per mezzo della rappresentazione. Nel primo caso, con rappre­ sentato si intende il contenuto della rappresentazione, nel secondo, l’oggetto della rappresentazione. Abbiamo detto che il contenuto è, per così dire, il mezzo attra­ verso cui un oggetto è rappresentato. Da questo punto di vista ricompare chiaramente l’analogia che abbiamo trovato per la rap­ presentazione e la sua espressione linguistica, il nome. Abbiamo visto che la funzione originaria del nome è quella di rendere noto un atto psichico, e precisamente quello del rappresentare. In tal modo il nome desta in colui al quale ci si rivolge un significato, un contenuto psichico (di rappresentazione); e in virtù di questo signi­ ficato il nome nomina un oggetto.22 Come, dunque, il destare un contenuto di rappresentazione è il mezzo attraverso cui il nome de­ signa un oggetto, così lo stesso contenuto di rappresentazione è il mezzo attraverso cui l’atto di rappresentazione (reso noto per mezzo del nome) rappresenta un oggetto. Kerry tenta di ovviare alle equivocazioni che in tal modo sor­ gono se si parla di un oggetto «rappresentato» senza alcuna ag­ giunta applicativa, mediante la distinzione tra il «rappresentato come tale» e il «rappresentato puro e semplice».23 Appare tuttavia discutibile se con ciò si raggiunga il fine che si ha di mira. Infatti, attraverso l’aggiunta connessa a un nome con le particelle «come», «in quanto» e simili, chi ascolta è indotto a rappresentarsi l’og­ getto nominato da un punto di vista del tutto determinato, tramite note caratteristiche ben definite rese note appunto dall’aggiunta. È il caso, ad esempio, in cui qualcuno parla del cerchio «come» caso limite dell’ellisse, o delle scimmie americane «in quanto» sono tutte munite di coda. Ma se anche l’aggiunta connessa al nome con le particelle «come», «in quanto» risulta essa stessa ambigua, allora l’equivocità del nome non è eliminata. Se si designa dunque un oggetto come «rappresentato», non si è in tal modo preservati dalle equivocità che possono essere provocate dall’ambiguità della parola «rappresentato». Infatti qualcosa può essere considerato ap­ punto come «qualcosa di rappresentato» in un duplice senso, o in quanto è oggetto, o in quanto è contenuto di un atto di rappresen­ tazione. Nel primo caso l’aggiunta «come rappresentato» opera effettivamente da determinazione, poiché attraverso di essa l’atten­ zione viene rivolta a una relazione, in cui sta l’oggetto con un sog­ getto conoscitivo; nel secondo caso, l’aggiunta opera una modifi­

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cazione, in quanto rappresentato in tal senso non è l’oggetto, bensì il contenuto di una rappresentazione. Noi ci atterremo pertanto all’espressione dovuta a Zimmermann, mediante la quale sembra che si possano evitare nel migliore dei modi tutte le equivocità, e lasceremo che il contenuto sia rappre­ sentato nella rappresentazione, mentre l’oggetto lo sia per mezzo della rappresentazione.

5. Le cosiddette rappresentazioni «senza oggetto» Alla base delle considerazioni svolte finora c’è il tacito presup­ posto che ad ogni rappresentazione, senza eccezione, corrisponda un oggetto. Abbiamo detto che in ogni rappresentazione non si debba distinguere solamente il contenuto e l’atto, ma che a fianco di questi due, come terzo elemento, si debba distinguere anche il suo oggetto. Contro tale concezione risulta abbastanza ovvia l’obie­ zione secondo cui ci sono, tuttavia, rappresentazioni «senza og­ getto», rappresentazioni alle quali non corrisponde nessun oggetto. In un caso del genere le conclusioni precedenti dovrebbero essere considerevolmente limitate; in nessun modo, infatti, potrebbero es­ sere valide per tutte le rappresentazioni. In effetti, anche coloro che hanno esplicitamente difeso la distinzione tra contenuto e og­ getto di una rappresentazione hanno creduto di poter far valere questa distinzione solo per un gruppo di rappresentazioni e hanno contrapposto a questo un secondo gruppo, ugualmente ampio o con un numero ancora maggiore di rappresentazioni, alle quali non corrisponde nessun oggetto e che, pertanto, si devono designare come rappresentazioni «senza oggetto». Così Bolzano dice che ci sono rappresentazioni prive di og­ getto, e cioè rappresentazioni che non hanno nessun oggetto. Bol­ zano sostiene che se qualcuno vuole trovare assurdo affermare che una rappresentazione non ha alcun oggetto e che, quindi, non deve rappresentare alcunché, ciò avvenga certamente solo per il fatto che costui confonde il contenuto di una rappresentazione — che senza dubbio appartiene ad ogni rappresentazione — con l’oggetto della rappresentazione. E come esempi di tali rappresentazioni «senza oggetto» Bolzano cita le seguenti rappresentazioni: niente, quadrato rotondo, virtù verde, montagna d’oro.24 In modo simile Kerry ritiene che colui che mostra l’incompatibilità tra le parti di una rappresentazione abbia con ciò anche dimostrato che sotto

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questa rappresentazione non possa cadere alcun oggetto. Una rap­ presentazione del genere è, ad esempio, quella di un numero mag­ giore di zero che, sommato a sé stesso, dà come risultato sé stesso.25 Anche Höfler insegna che ci sono rappresentazioni «la cui esten­ sione è uguale a zero, e cioè alle quali non corrisponde alcun og­ getto»; come esempi di tali rappresentazioni Höfler cita, oltre a quelle menzionate da Bolzano, le rappresentazioni di un aerostato dirigibile e di un diamante della grandezza di un metro cubo ecc.26 Le rappresentazioni alle quali si suppone non corrisponda alcun oggetto sono dunque di tre tipi. Primo, rappresentazioni che im­ plicano apertamente la negazione di qualsiasi oggetto, come la rap­ presentazione di niente. Secondo, rappresentazioni alle quali non corrisponde alcun oggetto per il fatto che nel loro contenuto com­ paiono riunite determinazioni tra loro contraddittorie, ad esempio quadrato rotondo. Terzo, rappresentazioni alle quali non corri­ sponde nessun oggetto, poiché finora non si è potuto mostrare, in base all’esperienza, nessun oggetto del genere. Per quanto riguarda questi tre tipi di rappresentazioni «senza oggetto», vogliamo esa­ minare gli argomenti fatti valere per l’esistenza di tali rappresen­ tazioni. i. Per quanto concerne la rappresentazione designata da «nien­ te», sembra esserci un errore che si propaga da secoli in tutte le ricerche di carattere logico e dialettico. Si è infatti riflettuto non poco intorno al /zi? ov, al non-ens e al mbil-, si è creduto di dover distinguere tra diversi tipi di «niente», e lo stesso Kant formula un prospetto dei quattro tipi di niente. Tra questi si trova anche il «niente come concetto vuoto senza oggetto».27 Appare tuttavia discutibile se la parola «niente» sia un’espres­ sione categorematica, se cioè con essa venga designata in generale una rappresentazione, come ad esempio con le parole padre, giu­ dizio, fogliame. In generale il significato di nihil è stato equiparato a quello di non-ens e oggi si ritiene altresì che «niente» sostituisca semplicemente l’espressione «non qualcosa». Ma se è così, appare allora necessario sollevare la questione di che cosa significhino pro­ priamente espressioni come non-ens e «non qualcosa». Ciò che gli scolastici chiamarono «infinitazione», e cioè la com­ binazione di un’espressione categorematica con non, dà luogo in generale a una nuova espressione di significato del tutto determi­ nato. Una rappresentazione è dicotomicamente divisa da un’espres­ sione composta con «non».

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Non è stata tuttavia suddivisa dicotomicamente quella rappre­ sentazione al cui nome si antepone la particella negativa. Quando si dice «non-greci», non si suddividono i greci tra quelli che sono greci e quelli che non lo sono; ciò che si suddivide, invece, è un concetto sovraordinato, ad esempio quello di esseri umani. Simile è il caso di infinitazioni come «non-fumatore», con cui si suddivi­ dono i viaggiatori tra quelli che fumano e quelli che non fumano. Solo se non si riconosce la capacità dell’infinitazione a effettuare una dicotomia di una rappresentazione sovraordinata si può avere per conseguenza la singolare visione di comprendere, ad esempio, con «non-uomo» — senza considerare la rappresentazione sovra­ ordinata comune tanto agli uomini quanto ai non-uomini — tutto ciò che per l’appunto non sia, senza eccezione, uomo, e quindi un angelo non meno di una casa, una passione, uno squillo di tromba. Ma una tale concezione dell’ ovop,a aÓQtatov difficilmente potrebbe essere sostenuta ancor oggi con serietà. Se l’infinitazione ha quindi realmente un effetto dicotomico in rapporto a una rappresentazione sovraordinata, è chiaro allora che espressioni come non-greci, non-fumatore e altre — prese nel senso appena detto — lungi dall’essere prive di significato, possono essere con sommo diritto designate come categorematiche. L’infinitazione di per sé non elimina, pertanto, la natura categorematica di un’e­ spressione. Ma si vede che questo effetto dicotomico dell’infinitazione è legato a una condizione. Deve esserci, cioè, una rappre­ sentazione sovraordinata alla rappresentazione che è significata dal nome infinitizzato; se non c’è tale rappresentazione, il nome infini­ tizzato diviene allora privo di significato. È chiaro che con «qual­ cosa» si designa una rappresentazione che non ne ha più alcuna di sovraordinata. Infatti se ci fosse qualcosa di sovraordinato al qual­ cosa, allora anche il sovraordinato sarebbe appunto qualcosa; ci sarebbe dunque una stessa cosa che è a un tempo sovraordinata e coordinata a un’altra. L’infinitazione di «qualcosa» presuppone quindi un «qualcosa» sovraordinato, e pertanto presuppone un’as­ surdità. Essa non è dunque assolutamente possibile nello stesso senso in cui invece lo è, ad esempio, l’infinitazione di nomi come greci o simili. Già Avicenna ha richiamato l’attenzione su questo fatto e ha definito inammissibili infinitazioni come non-res, non-aliquid, non-ens per le ragioni qui riportate.28 E se si considera più da vi­ cino il ruolo che la parola «niente» svolge all’interno del linguag­ gio, si trova in effetti che questa espressione è sincategorematica

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e che non è affatto un nome, ma una componente di proposizioni negative. Niente è eterno significa: non c’è qualcosa di eterno; io non vedo niente significa: non c’è qualcosa visto da me, e simili. Se le precedenti considerazioni sono corrette, l’argomento così ricavato dall’espressione «niente», a favore dell’esistenza di rap­ presentazioni senza oggetto, viene automaticamente a cadere, in quanto l’espressione «niente» non sta appunto a significare alcuna rappresentazione. C’è solo da meravigliarsi che la natura sincategorematica di questa espressione sia sfuggita a uno studioso quale Bolzano, giacché egli ha infatti correttamente riconosciuto la na­ tura sincategorematica della parola «nessuno». Si può vedere, egli dice, che la rappresentazione nessun essere umano contiene sicura­ mente le rappresentazioni essere umano e non, tuttavia non così che il non si riferisca alla parola essere umano negandola, ma in modo che questo non si riferisca, piuttosto, al primo predicato che deve seguire nella proposizione.29 E in un altro passo Bolzano tratta perfino della presupposizione menzionata, in base alla quale un’infinitazione è ammissibile, senza tuttavia trarre da ciò le debite con­ seguenze circa l’infinitazione di qualcosa.^ 2 e 3. Un secondo gruppo di presunte rappresentazioni senza oggetto è formato da quelle rappresentazioni nel cui contenuto si trovano riunite note caratteristiche incompatibili. Una rappresen­ tazione di questo tipo è, ad esempio, quella di un quadrato con gli angoli obliqui. Peraltro, un esame più attento della situazione ci insegna che quanti affermano che sotto tali rappresentazioni non cade nessun oggetto si rendono colpevoli di una confusione: con­ fusione facilmente svelata se si considerano le tre funzioni che spettano al nome. Anche in questo caso, infatti, si trovano tutte e tre le funzioni in precedenza nominate, e cioè il rendere noto, il significare e il nominare. Colui che pronuncia l’espressione «qua­ drato con gli angoli obliqui» rende noto che in lui ha luogo una rappresentazione. Il contenuto correlato a questo atto di rappre­ sentazione costituisce il significato del nome. Tuttavia, questo nome non significa solamente qualcosa, ma esso nomina anche qualcosa, e più precisamente qualcosa che riunisce in sé proprietà tra loro contraddittorie, e di cui si nega l’esistenza non appena ci si vede indotti a enunciare un giudizio intorno a ciò che si è nominato. Ma qualcosa è senza dubbio designato mediante il nome, anche se esso non esiste. E ciò che viene nominato è distinto dal conte­ nuto della rappresentazione; poiché, in primo luogo, questo esiste.

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mentre quello non esiste e, in secondo luogo, noi attribuiamo a ciò che nominiamo proprietà che certamente contrastano tra loro, ma che senz’altro non appartengono al contenuto della rappresenta­ zione. Il contenuto, infatti, se avesse queste proprietà tra loro con­ traddittorie non esisterebbe; ma invece esiste. Non è al contenuto della rappresentazione che noi attribuiamo l’esser-quadrato e in­ sieme la proprietà di avere gli angoli obliqui, bensì a ciò che viene designato con il nome «quadrato con gli angoli obliqui», il quale di certo non esiste, ma è purtuttavia il portatore di queste pro­ prietà. E precisamente, il quadrato con gli angoli obliqui non è qualcosa di rappresentato nel senso in cui lo è un contenuto di rappresentazione; il contenuto, infatti, esiste. Piuttosto, il quadrato con gli angoli obliqui è qualcosa di rappresentato nel senso del­ l’oggetto della rappresentazione, che in questo caso è certamente negato, ma nondimeno è rappresentato come oggetto. Solo come oggetto della rappresentazione il quadrato con gli angoli obliqui può essere negato; è negato ciò che è designato con il nome «qua­ drato con gli angoli obliqui». Come contenuto della rappresenta­ zione il quadrato con gli angoli obliqui non può essere negato; il contenuto psichico, che costituisce il significato del nome, esiste nel senso più vero di questa parola. La confusione dovuta ai sostenitori delle rappresentazioni senza oggetto consiste nel fatto che essi ritengono che la non-esistenza di un oggetto sia identica al suo non essere rappresentato. Ma al­ lora, per mezzo di ogni rappresentazione si rappresenta un oggetto, sia che esso esista o no, proprio come ogni nome designa un og­ getto, senza riguardo al fatto se esso esista o meno. Si aveva dunque ragione nell’affermare che gli oggetti di certe rappresentazioni non esistono, ma si disse qualcosa di troppo sostenendo che sotto tali rappresentazioni non cade alcun oggetto, che tali rappresentazioni non avrebbero nessun oggetto e che esse sarebbero dunque rap­ presentazioni senza oggetto. Contro tali considerazioni potrebbe essere sollevata una seria obiezione. Si potrebbe dire infatti che con una concezione siffatta vengono cancellati i confini tra esistenza e non-esistenza. L’oggetto di una rappresentazione, nel cui contenuto vengono rappresentate note caratteristiche contraddittorie, non esiste; tuttavia si asserisce che esso è rappresentato; quindi dopo tutto esso esiste, e precisamente come oggetto rappresentato.

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Chi argomenta in questo modo non considera che se qualcosa «esiste» come qualcosa di rappresentato, nel senso dell’oggetto di una rappresentazione, questa sua esistenza non è affatto un’esi­ stenza in senso proprio. Con l’aggiunta «come oggetto di una rappresentazione» si modifica il significato dell’espressione «esi­ stenza»; infatti, qualcosa che esiste come oggetto di rappresenta­ zione in verità non esiste, ma è solamente rappresentato. Opposta all’esistenza reale di un oggetto — intesa come ciò che costituisce il contenuto di un giudizio affermativo — è l’esistenza fenomenica, intenzionale di questo oggetto;31 quest’ultima consiste unicamente nel suo essere rappresentato. Ben lungi dal cancellare i confini tra esistenza e non-esistenza, le nostre precedenti considerazioni circa l’oggetto di presunte rappresentazioni «senza oggetto» contribui­ scono piuttosto a tracciare tali confini nel modo più preciso possi­ bile. Infatti sappiamo ormai che ci si deve guardare dal confondere l’esistenza di un oggetto con il suo essere rappresentato. Quest’ul­ timo implica tanto poco l’esistenza dell’oggetto rappresentato, quanto poco l’essere nominato di un oggetto ha quale presupposto o conseguenza la sua esistenza. La scolastica ha infatti certamente riconosciuto la peculiarità degli oggetti che sono rappresentati, ma che purtuttavia non esistono, e da essa deriva l’espressione secondo cui questi oggetti avrebbero soltanto un’esistenza obiettiva (objective), intenzionale, essendo peraltro ben consci di non designare, con tale espressione, nessuna forma di esistenza effettiva. Solo che in tale occasione ci si limitò a considerare gli oggetti possibili, liberi cioè da contraddizioni interne, tralasciando così gli oggetti impossibili. Tuttavia non si può certo comprendere perché ciò che è valido per quelli non dovrebbe essere applicato anche a questi. Se ci si rappresenta un oggetto non esistente, non occorre sempre notare allora a prima vista se l’oggetto è affetto da determinazioni contraddittorie o se non lo è. È pensabile anzi che le determina­ zioni di questo oggetto appaiano, in un primo tempo, compatibili tra loro, e si dimostrino incompatibili solo attraverso le conseguenze che ne derivano. In questo caso la rappresentazione avrebbe un oggetto, finché non vengono notate queste contraddizioni; ma nel momento in cui colui che ha una rappresentazione divenisse con­ scio di tali contraddizioni, la rappresentazione cesserebbe di avere un oggetto. Su che cosa sussisterebbero, allora, queste contraddi­ zioni? Non certo sul contenuto della rappresentazione, in quanto le determinazioni contraddittorie sono rappresentate in esso, senza

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tuttavia appartenergli; non resta dunque nient’altro che queste de­ terminazioni siano rappresentate come inerenti all’oggetto; e in questo caso l’oggetto stesso deve sicuramente essere rappresentato. La differenza tra le rappresentazioni con oggetti possibili e quelle con oggetti impossibili consiste nel fatto che colui che ha una rappresentazione nel primo caso, e cioè quando egli si rappre­ senta qualcosa di possibile, avrà di gran lunga minori occasioni, in genere, di enunciare un giudizio affermativo o negativo intorno a questo oggetto di rappresentazione internamente privo di contrad­ dizioni, rispetto a quanto non accada invece nel secondo caso, in cui egli si rappresenta un oggetto impossibile, senza che gliene possa sfuggire l’impossibilità. In questo secondo caso comparirà, per nulla sollecitato, un giudizio negativo; il non formularlo po­ trebbe costare uno sforzo considerevole da parte di colui che si rappresenta l’oggetto impossibile. Ma anche se si è immediatamente inclini a negare l’oggetto e, cedendo a tale inclinazione, a formulare il giudizio «questo oggetto non esiste», per poter enunciare tale giudizio ci si deve per l’appunto rappresentare l’oggetto. La dottrina delle rappresentazioni vere o false, come ancora si incontra in Descartes e nei suoi successori, resta incomprensibil­ mente priva del presupposto che ad ogni rappresentazione, senza eccezione, corrisponda un oggetto. Ogni rappresentazione, dice Descartes, rappresenta qualcosa, per così dire, come oggetto; se questo oggetto esiste, la rappresentazione è allora materialmente vera; se esso non esiste, la rappresentazione è allora materialmente falsa.32 È evidente secondo Descartes che l’oggetto di una rappresenta­ zione, indipendentemente dal fatto che esso possa esistere o no, appare sempre dato in una rappresentazione. La questione è sol­ tanto se a questa esistenza intenzionale dell’oggetto nella rappre­ sentazione corrisponda un’esistenza effettiva; e nel porgere a colui che rappresenta, nello stesso modo e senza distinzione alcuna, tanto gli oggetti realmente esistenti quanto quelli che esistono solo inten­ zionalmente, le rappresentazioni sono facilmente causa di falsi giu­ dizi, in quanto si può essere propensi, con altrettanta facilità, a ritenere realmente esistenti sia gli oggetti che godono di una sem­ plice esistenza intenzionale, sia pure gli stessi oggetti che hanno un’esistenza effettiva. Nelle considerazioni di Descartes troviamo pertanto una con­ ferma dell’opinione qui da noi espressa, secondo cui ad ogni rap­

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presentazione corrisponde un oggetto. Se siamo riusciti a mostrare che alle stesse rappresentazioni, nel cui contenuto sono rappresen­ tate determinazioni contraddittorie, spettano oggetti, si è allora fornita anche la dimostrazione corrispondente al terzo gruppo di presunte rappresentazioni «senza oggetto», il cui oggetto non è certo impossibile, ma l’esistenza del quale non è data realmente nell’esperienza. Riguardo a ciò si dovrà quindi essere fermi nel rite­ nere che per mezzo di ogni rappresentazione si rappresenta un oggetto, sia che esso possa esistere o meno; anche le rappresenta­ zioni i cui oggetti non possono esistere non costituiscono affatto un’eccezione di questa legge. Alla luce di questa necessaria appartenenza di un oggetto ad ogni atto di rappresentazione e contenuto, emerge con chiarezza la natura della tipica relazione che sussiste tra l’atto psichico — che noi chiamiamo rappresentare — e il suo oggetto. In questo modo, si distingue anche la relazione con l’oggetto, tipica della classe delle rappresentazioni, da quella propria della classe dei giudizi, poiché in quest’ultima si tratta dell’esistenza o non-esistenza di un oggetto, il quale è invece semplicemente rappresentato mediante la prima classe di fenomeni psichici, senza alcun riguardo al fatto se esso esista o meno. Non deve sorprendere il fatto che qui vengano asserite relazioni tali che uno dei loro termini esiste mentre l’altro no, e quindi rela­ zioni tra esistente e non-esistente, considerando che la questione se i termini di una relazione esistano o meno non è rilevante quanto alla relazione che «sussiste» tra loro, come Höfler ha dimo­ strato.33 Malgrado ciò, Höfler incorre nell’errore di confondere il contenuto con l’oggetto della rappresentazione. Egli dice: un giu­ dizio che asserisce una relazione non assume l’esistenza «reale» dei termini della relazione; è sufficiente rappresentarsi questi termini perché il giudizio si rivolga a questi contenuti di rappresentazione. Ciò non sembra tuttavia corretto, in quanto da un lato i contenuti della rappresentazione esistono certamente, ma dall’altro non sono quelli i termini tra i quali ha luogo la relazione asserita nel giudizio di relazione. Chi dice che il numero quattro è maggiore del numero tre non parla di una relazione tra il contenuto della rappresentazione del numero tre e il contenuto della rappresentazione del numero quattro. Non c’è infatti alcuna relazione di grandezza tra i contenuti di tali rappresentazioni. La relazione si trova invece tra il «numero tre» e il «numero quattro», presi entrambi come oggetti di una rap­

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presentazione, senza considerare se essi esistano o meno o se siano so­ lamente rappresentati per mezzo di rappresentazioni corrispondenti. Ma se le cose stanno così, sorge allora un’altra difficoltà, che era già stata messa in risalto anche da Höfler. I giudizi di relazione, che hanno per contenuto l’esistenza di una relazione che ha luogo tra oggetti non esistenti, sembrano affermare gli oggetti stessi; ma in ragione di ciò che è stato in precedenza osservato intorno alla relazione tra l’affermazione delle parti e l’affermazione dell’intero in cui queste parti sono contenute, con l’affermazione di una rela­ zione deve essere affermato anche ogni termine di tale relazione. Questa riflessione conduce pertanto a un esito che contraddice apertamente l’affermazione secondo cui, in un giudizio di relazione, non abbia alcuna importanza l’esistenza dei termini della relazione. Questa difficoltà si risolve peraltro mediante la seguente conside­ razione. Secondo la dottrina idiogenetica del giudizio, che pone l’essenza del giudizio nell’affermazione o nella negazione di un oggetto,34 ci sono soltanto giudizi affermativi particolari e giudizi negativi uni­ versali, mentre i cosiddetti giudizi affermativi universali e quelli negativi particolari possono essere ricondotti a quelle due classi.35 Ora, per ciò che concerne i «giudizi di relazione» universali nega­ tivi, la già menzionata difficoltà in verità non esiste. Un giudizio di questo tipo, come ad esempio «Non vi è cerchio con raggi di­ suguali» (espresso in forma categorica: «Tutti i raggi di un cer­ chio sono uguali tra loro»), non contiene nulla circa l’esistenza dei raggi. Esso nega soltanto la disuguaglianza tra i raggi di un cerchio, senza asserire alcunché intorno all’esistenza dei raggi stessi. Per ciò che riguarda invece i giudizi affermativi particolari, nei quali si asserisce qualcosa intorno a una relazione, scompare ugualmente la menzionata difficoltà, se si identifica il vero soggetto di tali propo­ sizioni. Nella proposizione «Poseidone era il dio del mare», con l’affermazione della relazione in cui stanno Poseidone e il mare sembra che sia implicitamente affermato lo stesso Poseidone. Ma questa è solo apparenza; poiché, da quando il nome proprio «sta» — secondo un’espressione della scolastica — per il designato come qualcosa di designato, il soggetto della proposizione non è «Po­ seidone», bensì «qualcosa chiamato Poseidone».36 Ciò che dunque è implicitamente affermato è qualcosa di designato come tale, un oggetto di rappresentazione in quanto è designato e non l’oggetto di rappresentazione puro e semplice. «

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Di conseguenza la relazione tra l’atto di rappresentazione e l’og­ getto rappresentato con esso dovrebbe essere dimostrata come in­ dipendente dalla questione se questo oggetto esista o no. Con ciò viene a cadere l’ostacolo che contrasta l’affermazione secondo cui ad ogni rappresentazione corrisponda un oggetto, sia che esso esista o meno. L’espressione «rappresentazione senza oggetto» è tale da contenere una contraddizione interna. Non c’è infatti nes­ suna rappresentazione che non rappresenti qualcosa come oggetto; non può darsi nessuna rappresentazione del genere. Per contro ci sono numerose rappresentazioni il cui oggetto non esiste, e preci­ samente perché o questo oggetto riunisce determinazioni tra loro contraddittorie, e quindi non può esistere, o soltanto perché esso in realtà non esiste. Ma anche in questo caso è rappresentato un oggetto, così che si può certamente parlare di rappresentazioni i cui oggetti non esistono, ma non di rappresentazioni che sono senza oggetto, di rappresentazioni alle quali non corrisponde nessun oggetto.37

6. Differenza tra contenuto e oggetto della rappresentazione

Difficilmente si potrebbe contestare il fatto che il contenuto e l’oggetto di una rappresentazione siano distinti l’uno dall’altro nel caso in cui l’oggetto della rappresentazione esista. Chi dice: «Il sole esiste» non pensa evidentemente al contenuto di una sua rap­ presentazione, ma a qualcosa di totalmente distinto da questo con­ tenuto. Le cose non stanno in maniera così semplice nel caso delle rappresentazioni i cui oggetti non esistono. In questo caso si po­ trebbe facilmente essere dell’opinione che tra contenuto e oggetto non esista una differenza reale, ma soltanto logica; che in questo caso, cioè, contenuto e oggetto siano in verità un’unica cosa, e che soltanto il duplice punto di vista sotto cui la cosa singola può es­ sere considerata, la faccia apparire ora come contenuto ora come oggetto. Ma non è così. Al contrario, una breve considerazione ci in­ segna che tra contenuto e oggetto di una rappresentazione, anche nel caso in cui l’oggetto non esista, corre la stessa differenza che si può dimostrare esserci nel primo caso in cui l’oggetto esiste. Elencheremo le principali tra queste differenze e cercheremo di mostrare come ciascuna di esse valga tanto per gli oggetti esi­ stenti quanto per quelli non esistenti.

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i. Per dimostrare la distinzione intorno a cui si snoda il nostro discorso, ci siamo già più volte serviti del rimando al modo del tutto diverso in cui il contenuto e l’oggetto si comportano riguardo al giudizio affermativo o negativo. Se, cioè, il contenuto e l’oggetto di una rappresentazione non fossero realmente distinti tra loro, ma lo fossero solo logicamente, non sarebbe possibile che il contenuto, per così dire, esistesse, mentre l’oggetto non esiste. Ma, sovente, il caso è esattamente questo. Chi enuncia un giudizio vero che nega un oggetto deve, tuttavia, rappresentarsi l’oggetto che egli giudica in maniera negativa. L’oggetto viene dunque rappresentato come oggetto per mezzo di un contenuto corrispondente. Spesso il caso che si verifica è allora questo: il contenuto esiste, ma l’oggetto non esiste, in quanto è proprio esso che viene negato in un giudizio negativo vero. Se il contenuto e l’oggetto fossero in realtà la stessa cosa, non sarebbe possibile che l’uno esistesse e l’altro, nel mede­ simo istante, non esistesse. Da questa relazione del giudizio nega­ tivo vero con il contenuto e l’oggetto di una rappresentazione che sta a fondamento del giudizio, noi ricaviamo perciò l’argomento più efficace a favore della loro reale differenza. 2. Un ulteriore argomento viene menzionato da Kerry. La dif­ ferenza, egli dice, tra il concetto di un numero e il numero stesso risulta chiara dal fatto che il numero ha delle proprietà ed è im­ plicato in relazioni che sono del tutto estranee al suo concetto.3^ Kerry intende per concetto ciò che noi chiamiamo contenuto della rappresentazione; il numero stesso è l’oggetto. Una montagna d’oro, ad esempio, ha tra le altre proprietà quella di essere spazialmente estesa, di essere fatta d’oro, di essere più grande o più piccola di altre montagne. Queste proprietà e la relazione di grandezza con altre montagne non appartengono chiaramente al contenuto della rappresentazione di una montagna d’oro, rappresentazione che in­ fatti non è spazialmente estesa, non è d’oro, e su cui non possono trovare applicazione asserzioni riguardanti relazioni di grandezza. E se anche la montagna d’oro non esiste, le si attribuiscono tuttavia queste proprietà, in quanto essa è oggetto di una rappresentazione, e la si pone in relazione con altri oggetti di rappresentazione che sono, forse, altrettanto poco esistenti. E la stessa cosa vale di og­ getti ai quali si ascrivono determinazioni tra loro contraddittorie. Queste determinazioni reciprocamente contraddittorie non sono attribuite al contenuto della rappresentazione; il contenuto della rappresentazione di un quadrato con gli angoli obliqui non è né

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quadrato né con gli angoli obliqui; ma è vero invece che l’oggetto di questa rappresentazione è il quadrato stesso con gli angoli obli­ qui. E così, anche da questo punto di vista emerge la differenza tra contenuto e oggetto della rappresentazione. Liebmann, che si è sforzato di distinguere con rigore l’atto dal contenuto di una rappresentazione, intesi come entità del tutto dif­ ferenti, non coglie, ciò nonostante, la differenza tra contenuto e oggetto. Egli dice: «Il contenuto, e specialmente quello delle no­ stre rappresentazioni visive e tattili, possiede sempre, unitamente all’estensione spaziale, certi predicati geometrici come la posizione, la figura e simili. L’atto di rappresentare questo contenuto si mostra peraltro inaccessibile a quei predicati geometrici allo stesso modo della luminosità, dell’intensità sonora, della temperatura e di altre grandezze intensive.»39 Qui Liebmann chiama «contenuto» ciò che noi chiamiamo «oggetto» delle rappresentazioni; quest’ultimo pos­ siede infatti quei predicati geometrici di cui Liebmann parla. Ma se Liebmann intende per contenuto la medesima cosa che noi de­ signiamo come oggetto, in tal caso le sue considerazioni sono di certo corrette, ma in esse manca quel termine di congiunzione tra atto e oggetto di una rappresentazione, in virtù del quale un atto si riferisce appunto a questo determinato oggetto e a nessun altro. E questo anello di congiunzione, ovvero il contenuto della rappre­ sentazione nel senso da noi assunto, non è identico all’atto. Certo, esso costituisce insieme all’atto una singola realtà psichica, ma mentre l’atto di rappresentazione è qualcosa di reale, al contenuto della rappresentazione fa sempre difetto la realtà (Realität). All’og­ getto, invece, talvolta spetta la realtà, talvolta no. Anche in questo diverso comportamento nei confronti della proprietà di essere reale si esprime la differenza tra il contenuto e l’oggetto di una rappre­ sentazione. 3. Un’ulteriore dimostrazione della differenza reale e non solo logica tra contenuto e oggetto delle rappresentazioni è fornita dalle cosiddette rappresentazioni interscambiabili (Wechselvorstellungen). Secondo la definizione abituale con ciò si intende quelle rappre­ sentazioni che hanno la stessa estensione, ma un contenuto diffe­ rente. Rappresentazioni interscambiabili sono, ad esempio, «la città situata sul luogo della romana Juvavum» e «il luogo di nascita di Mozart». I due nomi significano qualcosa di diverso, ma designano la stessa cosa. Ora, poiché il significato di un nome, come abbiamo già visto, coincide con il contenuto della rappresentazione desi­

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gnata da esso e poiché ciò che è designato dal nome è l’oggetto della rappresentazione, le rappresentazioni interscambiabili si pos­ sono anche definire rappresentazioni nelle quali è rappresentato un contenuto differente, ma -per mezzo delle quali è rappresentato lo stesso oggetto. Con ciò è già data la distinzione tra contenuto e oggetto. Si pensa infatti qualcosa di totalmente diverso con «la città che si trova sul luogo della romana Juvavum» e con «il luogo di nascita di Mozart». Queste due rappresentazioni consistono di componenti assai diverse. Nella prima appaiono come componenti le rappresentazioni dei romani e di un’antica città che costituiva un accampamento fortificato; nella seconda rappresentazione appaiono, in qualità di componenti, le rappresentazioni di un compositore e della relazione in cui egli sta con la propria città natale, mentre manca il rapporto con l’antico insediamento che si trovava un tempo in quel luogo e che è rappresentato mediante la prima rap­ presentazione. Malgrado la grande differenza tra le componenti dei contenuti di rappresentazione menzionati, entrambi i contenuti si riferiscono, tuttavia, allo stesso oggetto. Le stesse proprietà che appartengono al luogo di nascita di Mozart appartengono anche alla città situata nel luogo della romana Juvavum; questa è identica al luogo di nascita di Mozart. L’oggetto delle rappresentazioni è lo stesso; ciò che distingue le due rappresentazioni è il loro diffe­ rente contenuto. È facile applicare ciò che si è detto a rappresentazioni il cui og­ getto non esiste. Come è stato riconosciuto, un cerchio in senso strettamente geometrico non esiste in nessun luogo. Tuttavia lo si può rappresentare nei più diversi modi; sia come una linea di curvatura costante, sia come una figura espressa dall’equazione (x—#)2+(j~ b)2 — r2, sia come una linea i cui punti sono ugual­ mente distanti da un punto determinato. Tutte queste rappresenta­ zioni differenti si riferiscono alla stessa cosa. L’identica cosa alla quale esse si riferiscono è il loro oggetto; ciò che invece le distin­ gue l’una dall’altra è il loro contenuto. Non sembra una procedura priva di difficoltà l’applicazione del­ l’argomento delle rappresentazioni interscambiabili a favore della reale distinzione tra contenuto e oggetto delle rappresentazioni il cui oggetto contiene determinazioni tra loro contraddittorie. Se si rappresenta un quadrato con gli angoli obliqui e un quadrato che ha le diagonali disuguali, allora si hanno, come è il caso di tutte le rappresentazioni interscambiabili, due rappresentazioni con conte­

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nuti in parte identici e in parte differenti. Ma è difficile stabilire se questi contenuti differenti si riferiscono allo stesso oggetto, poiché mancano tutte le altre rappresentazioni dell’oggetto all’infuori delle rappresentazioni interscambiabili per l’appunto presenti, e in con­ seguenza di ciò non è possibile ciò che Kerry designa come il «prender conoscenza» (Kenntnisnahme) dell’oggetto della rappre­ sentazione.40 Anche in ragione di ciò non è possibile fare un con­ fronto tra le proprietà dell’oggetto di una delle rappresentazioni interscambiabili e le proprietà dell’oggetto dell’altra rappresenta­ zione interscambiabile, poiché è abolita ogni connessione logica tra le note caratteristiche. Una maniera sostitutiva di costatare l’iden­ tità dell’oggetto rappresentato da entrambe le rappresentazioni in­ terscambiabili può essere tuttavia offerta nel seguente modo. Si può formare la rappresentazione di un oggetto dotato di de­ terminazioni tra loro contraddittorie, il cui contenuto è rappresen­ tato da più di un paio di tali determinazioni incompatibili. Una rappresentazione di questo tipo è, ad esempio, quella di una figura quadrata, con gli angoli obliqui, che ha inoltre le diagonali disu­ guali. Qui le determinazioni «quadrato» e «con angoli obliqui», come pure le determinazioni «quadrato» e «avente diagonali disu­ guali» contrastano tra loro a due a due. Mediante la rappresenta­ zione che ha per contenuto entrambe le coppie di determinazioni viene rappresentato un singolo oggetto non esistente. Tuttavia si può ora dividere questa rappresentazione in due parti, rappresen­ tandosi ogni volta solo una delle coppie di proprietà reciproca­ mente contraddittorie. Ci si può rappresentare la figura quadrata, con gli angoli obliqui e che ha le diagonali disuguali, una volta rappresentandosi soltanto le determinazioni «quadrata» e «con gli angoli obliqui», e ci si può l’altra volta rappresentare lo stesso oggetto, del quale si sa, in base alla premessa, che è quadrato e con gli angoli obliqui, rappresentandosi soltanto la coppia di proprietà designata attraverso le parole: «essere quadrato e avere le diagonali disuguali». Secondo questa premessa ci si rappresenta mediante en­ trambe le rappresentazioni lo stesso oggetto; ma entrambe le rap­ presentazioni sono solo parzialmente identiche riguardo al loro contenuto, e quindi sono autentiche rappresentazioni interscam­ biabili. In questo modo, l’argomento tratto dalle rappresentazioni interscambiabili a favore della distinzione tra contenuto e oggetto della rappresentazione si può applicare anche a quelle rappresenta­

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zioni i cui oggetti non possono esistere, perché le singole determi­ nazioni degli stessi sono incompatibili tra loro. 4. Kerry si serve ancora di un ulteriore argomento per dimo­ strare la non-identità tra contenuto e oggetto. La rappresentazione generale, intesa come rappresentazione sotto cui cadono una plu­ ralità di oggetti, ha nondimeno solo un singolo contenuto, e con ciò egli fornisce la dimostrazione che contenuto e oggetto debbano essere nettamente distinti.41 Questo argomento si presenta, per così dire, complementare al precedente, nel quale la medesima diffe­ renza venne dimostrata per mezzo dell’appartenenza di più conte­ nuti a un singolo oggetto. Ma il fatto che sotto le rappresentazioni generali cada realmente una pluralità di oggetti pare un errore — per quanto ciò possa sembrare incredibile — e per questo l’argo­ mento di Kerry mostra di essere alquanto debole. Tuttavia, anche senza questo argomento le ragioni che sono state addotte sembrano mostrare a sufficienza che si debbano certamente distinguere tra loro il contenuto e l’oggetto, anche se quest’ultimo deve essere negato. 7. Descrizione dell’oggetto di una rappresentazione

Nel designare come oggetto ciò che è rappresentato per mezzo di una rappresentazione, noi diamo a questa parola il significato già conferitole da Kant. «Il più alto concetto — si legge in Kant — con il quale si suole dare inizio a una filosofia trascendentale, è comunemente la divisione in possibile e impossibile. Ma poiché ogni divisione presuppone un concetto da dividere, si deve fornire un concetto ancora più alto, e questo è il concetto di un oggetto in generale (quando lo si assuma problematicamente, e rimanga in­ certo se tale oggetto è qualcosa oppure nulla). »42 Solo in un aspetto riteniamo di dover modificare il senso che Kant dà alla parola oggetto. Per Kant l’oggetto può essere «qualcosa» o «niente». In contrasto con Kant noi abbiamo già precisato (vedi sopra, pp. 74 sgg.) che «niente» non deve essere concepito come nome di oggetti di possibili atti di rappresentazione, ma come un’espres­ sione sincategorematica: «niente» significa il limite del rappresen­ tare, dove il rappresentare stesso cessa di essere tale. Alle ragioni già addotte per questa concezione di «niente» può essere aggiunta ancora la seguente. Abbiamo designato come oggetto ciò che è rappresentato per mezzo di una rappresentazione, giudicato tramite

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un giudizio, desiderato o detestato mediante un’attività dell’animo. Se «niente» fosse l’oggetto di una rappresentazione, dovrebbe po­ ter essere anche affermato o negato, desiderato o detestato. Ma le cose non stanno assolutamente così. Non si può dire, infatti, né «niente» esiste, né «niente» non esiste, e non si può nemmeno vo­ lere «niente», né detestarlo. Quando tuttavia si usano queste o simili locuzioni, in quel caso l’espressione «niente» rivela aperta­ mente o la sua natura sincategorematica — come quando il solipsi­ sta dice « non c’è niente » = non c’è qualcosa di reale al di fuori del soggetto di rappresentazione — oppure essa sta, in senso per così dire figurato, per un altro nome, come quando il buddista dice che alla morte segue una condizione del niente. Chi dice dunque di rappresentarsi « niente », in realtà non si rap­ presenta affatto; chi invece si rappresenta, si rappresenta qualcosa, un oggetto. Bolzano43 e Erdmann44 seguono Kant quanto all’uso della parola «oggetto»; entrambi fanno valere «niente» come un tipo di og­ getti. Anche Kerry45 lo fa; peraltro, l’uso kantiano della parola «oggetto» non gli sembra, in un’altra direzione, esente da obie­ zioni. Egli trova infatti che Kant non usi questa parola sempre nello stesso senso, poiché per Kant l’oggetto è talvolta qualcosa di reale che «eccita l’animo», talvolta è l’oggetto di un concetto.46 Senza stare ad analizzare se l’appunto che Kerry indirizza a Kant sia giustificato, qui vogliamo precisare il nostro punto di vista su tale questione. Secondo la nostra opinione, l’oggetto delle rappresentazioni, dei giudizi e dei sentimenti, nonché delle volizioni è qualcosa di di­ stinto dalla cosa in sé, nel caso si comprenda con essa la causa sconosciuta di ciò che eccita i nostri sensi. Sotto questo riguardo, il significato della parola oggetto coincide con quello dell’espres­ sione «fenomeno» o «apparenza», la cui causa è secondo Berkeley Dio, secondo gli idealisti estremi il nostro stesso spirito, e secondo i «real-idealisti» moderati possono essere le rispettive cose in sé. Ciò che è stato detto finora intorno agli oggetti della rappresenta­ zione e che risulterà ancora nel corso della ricerca può essere ri­ vendicato come valido, indipendentemente da quale punto di vista si scelga tra quelli appena indicati. Per mezzo di ogni rappresenta­ zione è rappresentato qualcosa, sia che questo esista o no, sia che si mostri indipendente da noi e si imponga alle nostre percezioni, o che sia invece formato da noi nell’immaginazione; comunque sia,

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esso è in quanto noi lo rappresentiamo, in contrasto con noi e con la nostra attività di rappresentazione dell’oggetto stesso. Se questo oggetto sia qualcosa di reale o di non reale resterà difficile deciderlo fintantoché non si sarà d’accordo sul significato da annettere a queste espressioni. La realtà di un oggetto non ha niente a che fare con la sua esistenza: senza considerare il fatto se esista o meno, si dice di un oggetto che è qualcosa di reale o no, così come si può parlare della semplicità o del carattere composto di un oggetto senza per questo domandare se esso esista o no. Non si può dunque esprimere a parole in che cosa consista la realtà di un oggetto; oggi tuttavia la maggior parte dei filosofi sono certa­ mente d’accordo sul fatto che oggetti come un tono acuto, un albero, un’afflizione, un movimento siano qualcosa di reale, mentre oggetti come la mancanza, l’assenza, la possibilità e simili siano da annoverare tra i non reali.47 Ora, come un oggetto reale può certa­ mente una volta esistere e un’altra no, così anche qualcosa di non­ reale può ora esistere e ora no. Giudizi come: «c’è mancanza di denaro», oppure «non c’è la possibilità che questo o quello accada» sono veri o falsi del tutto indipendentemente dalla non-realtà del­ l’oggetto che essi affermano o negano. Noi replichiamo dunque all’appunto sollevato da Kerry nei confronti di Kant, affermando che è assolutamente possibile — as­ sumendo la parola oggetto nel senso qui stabilito — parlare ora di un oggetto reale, ora dell’oggetto di un concetto — e pertanto di un oggetto non reale — poiché gli oggetti, potendo essere sud­ divisi in esistenti e non esistenti, da una parte sono qualcosa di reale e dall’altra non sono reali. C’è ancora un’altra espressione nei confronti della quale si deve determinare il significato della parola «oggetto». Questa parola non deve essere scambiata con «fatti» o «cose». Queste ultime rappresentano soltanto un gruppo di oggetti; ci sono ancora molti altri oggetti che non sono né un fatto, né una cosa. Agli oggetti appartengono tutte le categorie di ciò che è rappresentabile, men­ tre le cose o i fatti designano soltanto una di queste categorie. Una caduta mortale non è una cosa, ma è tuttavia certamente un oggetto come lo sono, ad esempio, anche esperimento, assassinio, at­ tacco epilettico, tranquillità d’animo, seno (in trigonometria) e simili. Al fine di chiarire ulteriormente il significato della parola og­ getto, ci si può riferire — come abbiamo già fatto — alla designa­ zione linguistica e dire che tutto ciò che viene nominato sia un

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oggetto. Questa designazione si serve o di nomina intesi in senso grammaticale, o dei composti di nomina e altre espressioni o infine anche di altre parti del discorso, a condizione della loro sostantivizzazione. Si può dire pertanto che tutto ciò che è designato da un sostantivo o da un’espressione sostantivata sia un oggetto nel senso qui stabilito. Ora, poiché tutto ciò può essere oggetto, oggetto di una rappre­ sentazione — compreso il soggetto stesso della rappresentazione — si dimostra quindi giustificata quell’affermazione che vede nell’og­ getto il genere sommo. Tutto ciò che è, è un oggetto di un possi­ bile atto di rappresentazione; tutto ciò che è, è qualcosa. E di conseguenza qui è il punto in cui la discussione psicologica intorno alla distinzione tra oggetto e contenuto della rappresentazione sfocia nella metafisica. Anche gli oggetti della rappresentazione, infatti, sono stati con­ siderati fino all’epoca odierna dal punto di vista metafisico. Nel designarli come ovta, entia, si rivelò la via che ha condotto ad essi. Ma che l’aristotelico ov — nella forma di ens che la filosofia medie­ vale gli ha conferito — non sia altro che l’oggetto della rappresen­ tazione, lo dimostra il fatto che tutte le dottrine che sono state formulate intorno alYens, nella misura in cui sono corrette, valgono dell’oggetto della rappresentazione. In seguito ci limiteremo alle più note di queste tesi. i. L’oggetto è qualcosa di diverso dall’esistente; ad alcuni og­ getti, mentre ad altri no, spetta oltre alla loro oggettualità (Gegen­ ständlichkeit), oltre cioè alla proprietà di essere rappresentati (che è il senso proprio della parola essentia), anche l’esistenza. È un oggetto sia ciò che esiste (ens habens actualem existentiam), come pure ciò che meramente potrebbe esistere (ens possibile)-, ma è un oggetto anche ciò che non potrebbe mai esistere, ma che può essere solamente rappresentato (ens rationis)-, in breve, è un oggetto tutto ciò che non è niente, ma in un qualche senso è «qualcosa».48 In realtà la maggior parte degli scolastici affermano che aliquid è sinonimo di ens, e precisamente in contrasto a quelli che concepi­ scono il primo come un attributo dell’ultimo. z. Oggetto è summum genus. Gli scolastici esprimono questo principio affermando che il concetto di ens non è affatto un con­ cetto di genere, ma un concetto trascendentale poiché omnia genera transcendit. 3. Ogni oggetto di una rappresentazione può essere l’oggetto di

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un giudizio e l’oggetto di un’attività dell’animo. Questo è il signi­ ficato della dottrina scolastica, secondo la quale ogni oggetto di rappresentazione è «vero» e «buono». La verità (metafisica) di un oggetto non consiste nell’essere giudicato mediante un giudizio (logicamente) vero; altrettanto poco la sua bontà dipende dal fatto che il sentimento relativo ad esso sia o no buono in senso etico. Vero si dice piuttosto un oggetto in quanto è oggetto di un giu­ dizio, e lo si nomina buono in quanto ad esso si riferisce un’attività dell’animo. Certo anche da parte della scolastica non sempre ci si è attenuti rigorosamente a questo significato della verità e della bontà di un oggetto. Chi definisce, ad esempio, la verità metafisica come conformitas inter rem et intellectum presuppone la verità del giu­ dizio che è rivolto all’oggetto relativo. E se Tommaso d’Aquino, ad esempio, pone la verità di un oggetto nella sua cognoscibilitas o intelligibilitas, con ciò allora tiene conto della verità del giudizio, poiché ogni forma di conoscenza è un giudizio vero. E tuttavia Tommaso abbandona questo punto di vista quando insegna: «Come si dice buono ciò verso cui tende il desiderio, così si dice vero ciò verso cui tende l’intelletto.»49 In tale versione la dottrina non vuol dire nient’altro che questo: un oggetto si dice vero in quanto ad esso si riferisce un giudizio, e si dice buono in quanto ad esso si rife­ risce un sentimento. E poiché ogni oggetto di una rappresentazione può essere sottomesso a un giudizio, a un desiderio o una ripulsa, la verità e la bontà appartengono allora ad ogni oggetto di rappre­ sentazione, e la dottrina scolastica si dimostra corretta nel senso che ogni ens è tanto bonum quanto verum. 4. Un oggetto si dice vero con riguardo alla sua capacità di es­ sere giudicato; si dice buono, invece, con riguardo alla sua capacità di essere oggetto di un’attività dell’animo. Si potrebbe pertanto sollevare la questione se all’oggetto non appartenga, in maniera analoga, un attributo che esprima la sua rappresentabilità e che, quindi, sia un nome per l’oggetto in quanto è rappresentato. Ora, la filosofia medievale conosce ancora un terzo attributo dell’og­ getto: ogni ens, essa dice, non è solamente verum e bonum, ma è anche unum. Quale significato abbia l’unità in rapporto all’esser rappresentato di un oggetto, e in particolare se si debba o no ve­ dere in essa l’analogo, nel campo dell’attività rappresentativa, della verità nell’ambito del giudizio e in quello dell’attività dell’animo, saranno questioni esaminate in un altro contesto, allorché si pre­ senteranno da sé.

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5. Se l’oggetto delle rappresentazioni, dei giudizi e dei senti­ menti non è nient’altro che Yens aristotelico-scolastico, la meta­ fisica deve allora poter essere definita come la scienza degli oggetti in generale, assumendo questa parola nel senso qui indicato. E le cose stanno effettivamente in questi termini. Ciò di cui si occupano le singole scienze non sono altro che gli oggetti delle nostre rap­ presentazioni, i mutamenti che in esse si succedono, le qualità che ineriscono loro, nonché le leggi in base a cui gli oggetti agi­ scono l’uno sull’altro. Solo che nelle singole scienze ci si limita e si tratta sempre soltanto di un gruppo più o meno ampio di oggetti, formato per mezzo del contesto naturale e con riguardo a un deter­ minato scopo. Così le scienze naturali si occupano, nel senso più ampio del termine, delle peculiarità di quell’oggetto che si designa come corpo inorganico e organico; la psicologia ricerca le pro­ prietà e le leggi che sono caratteristiche dei fenomeni psichici, degli oggetti psichici. La metafisica è la scienza che prende in con­ siderazione tutti gli oggetti, tanto quelli fisici — organici e inor­ ganici — quanto quelli psichici, quelli reali e quelli non reali, gli oggetti esistenti allo stesso modo di quelli non esistenti, e ricerca le leggi alle quali obbediscono gli oggetti in generale e non solo un gruppo determinato di essi. La venerabile definizione che la metafisica sia la scienza dell’essere in quanto tale ha dunque il si­ gnificato qui circoscritto.50 Questo sguardo retrospettivo su alcuni punti della dottrina sco­ lastica deH’ewr ci deve servire a caratterizzare, nel modo più pre­ ciso possibile, il significato connesso nella presente ricerca alla parola oggetto. Riepilogando ciò che si è detto finora, l’oggetto si può all’incirca descrivere nel seguente modo. Noi chiamiamo og­ getto tutto ciò che è rappresentato per mezzo di una rappresenta­ zione, affermato o negato mediante un giudizio, desiderato o dete­ stato attraverso un’attività dell’animo. Gli oggetti sono reali o non reali, sono possibili o impossibili, esistono o non esistono. A tutti è comune il fatto che sono o che possono essere l’oggetto {non quello intenzionale!) degli atti psichici, e che il nome è la loro desi­ gnazione linguistica (nel senso definito sopra a p. 65) e che, con­ siderati come genere, essi formano il stimmi genus, il quale trova la sua abituale espressione linguistica nel «qualcosa». Tutto ciò che è in senso più ampio «qualcosa» si chiama «oggetto», anzitutto in relazione al soggetto della rappresentazione, ma poi anche indi­ pendentemente da questa relazione.

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8. L'ambiguità inerente al termine «nota caratteristica» Se siamo riusciti a dimostrare l’effettiva distinzione esistente tra oggetto di una rappresentazione e suo contenuto, da ciò deriva allora la conseguenza che anche le parti di un contenuto di rap­ presentazione siano distinte dalle parti dell’oggetto rappresentato. Siccome può essere solamente fonte d’imbarazzo designare come og­ getto di una rappresentazione a volte l’oggetto intenzionale della stessa — e quindi il suo contenuto — a volte il suo oggetto reale, e siccome questa confusione compare realmente in alcuni studiosi, risulta allora da quella terminologia equivoca un duplice modo di usare la parola «nota caratteristica» (Merkmal), in quanto la stessa si applica ora a designare qualcosa di inerente all’oggetto intenzio­ nale, e dunque al contenuto della rappresentazione, ora invece qual­ cosa di inerente all’oggetto della rappresentazione. Così, ad esempio, Kerry parla di concetti, tali che il loro con­ tenuto e il loro oggetto «contengano precisamente le stesse note caratteristiche»;51 secondo Harms il concetto consiste nelle note caratteristiche permanenti di una cosa;52 anche Marty ritiene che un concetto sia formato dalle note caratteristiche di un oggetto.55 Questi autori si servono dunque del termine «nota caratteristica» per designare tanto parti dell’oggetto quanto parti del contenuto di una rappresentazione. E non sono i soli.54 Ma se il contenuto e l’oggetto non sono identici tra loro, allora anche le parti di entrambi sono differenti; pertanto, contenuto e oggetto possono solo in modo equivoco essere designati con la stessa espressione. Per questa ragione Hoppe ha già protestato contro un uso scientifico della parola «nota caratteristica». Mal­ grado il suo uso frequente nella logica, questa espressione non gli sembra adatta come termine tecnico e gli pare piuttosto una pa­ rola comune introdotta all’interno della scienza.55 Ed egli mostra di aver ragione se si considera che gli stessi studiosi che, in base alla loro più esplicita assicurazione, vogliono intendere con «note caratteristiche» le componenti del contenuto di una rappresenta­ zione, designano senz’altro come «note caratteristiche» le pro­ prietà dell’oggetto di una rappresentazione. Così Sigwart chiama «note caratteristiche» gli elementi o rappresentazioni parziali di cui consistono le rappresentazioni composte. Nondimeno egli conta tra le note caratteristiche il colore, l’equilateralità, l’estensione e

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simili; e tuttavia Sigwart con ciò non ha voluto di certo sostenere che la rappresentazione di un triangolo sia composta da un deter­ minato colore, di un’estensione ecc.; poiché altrimenti questa rap­ presentazione (e cioè, il contenuto di una rappresentazione) sarebbe qualcosa di esteso, di colorato ecc.56 Höfler, che definisce esplicita­ mente le note caratteristiche come quelle componenti di un con­ tenuto di rappresentazione che sono rappresentazioni di proprietà di un oggetto, quasi contemporaneamente chiama queste stesse pro­ prietà «note caratteristiche» e parla della «nota caratteristica bianco» e della «nota caratteristica colore», mentre egli stesso ha consentito di designare come note caratteristiche soltanto la rap­ presentazione del bianco ecc.57 Per quel che riguarda le rappre­ sentazioni composte, Baumann chiama rappresentazione parziale o nota caratteristica ognuna delle diverse parti distinguibili in esse in rapporto all’intera rappresentazione; il contenuto di una rap­ presentazione non è altro quindi che la totalità delle sue note ca­ ratteristiche concepite come un intero. Tuttavia egli elenca come esempi di note caratteristiche: pesante, dilatabile, scintillante ecc.58 Questa ambiguità del termine «nota caratteristica» ha il suo fon­ damento nel fatto che non si è soliti distinguere nettamente tra contenuto e oggetto di una rappresentazione; se lo si fosse sempre fatto, non si sarebbe tralasciata la distinzione tra i due significati della parola «rappresentato» e, di conseguenza, non si sarebbero designate con lo stesso nome le parti di ciò che è rappresentato, nel senso del contenuto, e le parti di ciò che è rappresentato nel­ l’altro senso, vale a dire l’oggetto. Come per mezzo di una rappresentazione è rappresentato l’intero oggetto, così le singole parti dell’oggetto sono rappresentate me­ diante parti corrispondenti della rappresentazione. Ora, le parti dell’oggetto di una rappresentazione sono a loro volta oggetti di rappresentazioni che, dal canto loro, sono parti dell’intera rappre­ sentazione. Le parti del contenuto della rappresentazione sono con­ tenuti di rappresentazione, così come le parti dell’oggetto sono og­ getti. Analogamente al modo in cui le parti dell’oggetto formano l’oggetto nella sua unitarietà e interezza, le parti del contenuto formano l’intero contenuto di una rappresentazione. Pertanto, colui che si rappresenta, ad esempio, una mela, si rap­ presenta anche le sue parti. Tanto la mela, quanto le sue parti sono rappresentate; la mela è l’intero, unitario oggetto della rappresen­ tazione: le sue parti sono oggetti parziali ai quali corrispondono,

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nel contenuto della rappresentazione relativa alla mela, parti del tutto determinate. Ma nel mentre che la mela e le sue parti vengono rappresentate, esse non cessano di essere oggetti di una rappresen­ tazione. Quanto poco la mela si trasforma in una rappresentazione, quando la si rappresenta, tanto poco le sue parti divengono, per il fatto di essere rappresentate, componenti del contenuto di una rappresentazione. Poiché «essere rappresentato» significa, in questo caso, qualcosa di simile a essere l’oggetto di una rappresentazione: è il termine nel suo significato determinativo. «La mela è rappre­ sentata» non significa nient’altro che la mela entra in un determi­ nato rapporto con un essere dotato della capacità di avere rappre­ sentazioni. Chi intende dunque con «note caratteristiche» le parti di un oggetto può, a pieno diritto, parlare di note caratteristiche rappresentate; solamente deve restare consapevole del fatto che «essere rappresentato» significa in questo caso «essere l'oggetto di una rappresentazione» e che, pertanto, la nota caratteristica rap­ presentata in questo senso non è una parte di una rappresentazione, bensì è parte dell’oggetto di una rappresentazione. Sembra appunto che non si sia tenuto conto di questo fatto quando, senza esserne pienamente consci, si è scambiato il senso modificante della parola «rappresentato» con il suo senso deter­ minativo. La mela rappresentata e la rappresentazione della mela sembrano in ogni caso essere la stessa cosa, mentre l’uguaglianza tra i significati delle due espressioni può esistere solo se si assume «rappresentato» in senso modificante, se cioè con mela rappre­ sentata si intende il contenuto della rappresentazione della mela; anche quest’ultimo, infatti, è rappresentato. La mela rappresentata in questo senso non è naturalmente una mela, ma un contenuto di rappresentazione; in questo modo, allora, anche le parti della mela che abbiamo chiamato note caratteristiche sono trasformate in componenti del contenuto di una rappresentazione, qualora si sia inteso con la mela rappresentata il contenuto della rappresenta­ zione della mela. La nota caratteristica si è trasformata da parte della mela in parte del contenuto della rappresentazione, poiché il contenuto della rappresentazione era proprio la mela rappresentata. E se lo era, allora le parti rappresentate della mela erano compo­ nenti del contenuto della rappresentazione. Come si comprende con «rappresentato» ora il contenuto ora l’oggetto di una rappresentazione, così si intende con nota caratte­ ristica — termine con il quale si sono designate le parti di «ciò



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che è rappresentato» — talvolta partì del contenuto, talaltra parti dell’oggetto. E poiché molti filosofi non hanno distinto convenien­ temente o non hanno distinto affatto tra contenuto e oggetto, considerandoli un’unica cosa, hanno allora designato con lo stesso nome di «note caratteristiche » sia componenti dell’uno, il conte­ nuto, sia componenti dell’altro, l’oggetto. Sigwart, con la sua esposizione della tradizionale dottrina rela­ tiva alla composizione dei concetti, dimostra che non è infondato ciò che si è detto. Egli non approva per nulla questa dottrina; al fine di criticarla la riassume così: «La dottrina tradizionale riguar­ dante i concetti insegna come determinare per mezzo di note ca­ ratteristiche ciò che è pensato in una rappresentazione unitaria, designata da una sola parola, e come scomporre un concetto nelle sue rappresentazioni o concetti parziali. Questi sono pensati nel concetto e formano il suo contenuto. Così nel concetto di oro sono pensate le note caratteristiche pesante, giallo, scintillante, metallico ecc.; nel concetto di quadrato le note caratteristiche delimitato, quadrilatero, equilatero, rettangolare, figura piana; nel concetto di omicidio l’illegalità, l’uccisione deliberata di un uomo, compiuta cioè con premeditazione. L’insieme di queste note caratteristiche costituisce il contenuto dei concetti oro, quadrato, omicidio; e cer­ tamente si rappresenta questo contenuto come la somma o il pro­ dotto delle singole note caratteristiche.59 Sigwart riferisce dunque che ciò che «è determinato mediante note caratteristiche» è ciò che è «pensato» in una rappresenta­ zione unitaria, designata da una singola parola. A prescindere dal fatto che qualcosa possa essere pensato del tutto correttamente in una rappresentazione unitaria senza essere esattamente designato da una singola -parola, noi troviamo qui l’ambiguità già criticata con cui si può parlare di qualcosa di «rappresentato»; un’ambiguità che non si elimina per il fatto che l’espressione «rappresentato» ap­ pare sostituita da un’altra espressione, e cioè «pensato». Poiché ciò che è determinato mediante note caratteristiche è o l’oggetto o il contenuto di una rappresentazione. In base agli esempi che Sigwart adduce, è l’oggetto che viene determinato dalle note caratteristi­ che; infatti non è al contenuto della rappresentazione dell’oro, ma è all’oro stesso, come oggetto della rappresentazione, che spettano le determinazioni pesante, giallo, scintillante, metallico ecc. Queste determinazioni sono rappresentate mediante la rappresentazione dell’oro; ma l’insieme di queste determinazioni non costituisce il

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contenuto della rappresentazione dell’oro. Quest’ultimo, piuttosto, si compone esattamente di tante parti (o anche di più) quante sono le determinazioni distinte inerenti all’oro, le quali sono rappresen­ tate mediante le parti di quella rappresentazione totale e che, quindi, sono di nuovo rappresentate per mezzo di rappresenta­ zioni. Il contenuto della rappresentazione dell’oro non consiste dunque nell’insieme delle note caratteristiche, ma nell’insieme delle rappresentazioni di queste note caratteristiche. Nel riferire circa questa dottrina della logica tradizionale, Sigwart stesso non coglie la duplicità di senso rappresentata dall’espres­ sione secondo cui «qualcosa è qualcosa di pensato», duplicità che noi ci siamo sforzati di evitare mediante la distinzione tra ciò che è pensato in una rappresentazione (e quindi come contenuto) e ciò che è pensato per mezzo di una rappresentazione (e quindi come oggetto). Se Sigwart fosse stato consapevole del fatto che le cose non stavano in questi termini, non avrebbe potuto addurre la defi­ nizione che Ueberweg ha dato della nota caratteristica a dimo­ strazione della sua tesi sulla dottrina tradizionale riguardante i con­ cetti. Poiché è proprio Ueberweg a richiamare esplicitamente l’attenzione sul fatto che non è ammissibile parlare di note caratte­ ristiche ora come componenti di un contenuto, ora come compo­ nenti di una rappresentazione. Relativamente a ciò egli dice: «Nota caratteristica (nota, zex/j.^Qiov') di un oggetto è tutto ciò attraverso cui esso si distingue da un altro oggetto. La rappresentazione di una nota caratteristica è contenuta nella rappresentazione dell’og­ getto come rappresentazione parziale, e cioè come una parte del­ l’intera rappresentazione (repraesentatio particularis). Le note ca­ ratteristiche sono note caratteristiche della cosa, dell’oggetto reale o, comunque, dell’oggetto rappresentato come se fosse reale. Si può giustificatamente parlare delle note caratteristiche della rappresen­ tazione solo in quanto essa stessa è considerata qualcosa di obiet­ tivo, vale a dire l’oggetto di un pensiero rivolto ad essa. «Includere una nota caratteristica in una rappresentazione» è un’espressione abbreviata per «divenire consci della nota caratteristica di una cosa per mezzo della rappresentazione parziale corrispondente» oppure per «includere nella rappresentazione un elemento mediante cui è rappresentata la rispettiva nota caratteristica della cosa».60 È difficile poter pensare una conferma più gradita di ciò che si è detto. Anche per Ueberweg la nota caratteristica è una parte del­ l’oggetto, e come l’oggetto è rappresentato per mezzo dell’intera 7

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rappresentazione, così le singole parti di questo oggetto, le sue note caratteristiche, sono rappresentate per mezzo delle singole parti dell’intera rappresentazione. Ma ciò che è rappresentato nell’intera rappresentazione sono appunto le parti di essa, le rappresentazioni parziali, e la loro «totalità, nel modo in cui la loro reciproca con­ nessione è determinata dalle relazioni reali corrispondenti» costi­ tuisce «il contenuto (compiexus) di una rappresentazione». Ueberweg non è tuttavia il solo al quale ci si possa richiamare. Bolzano, che concepisce il termine nota caratteristica in un senso molto più stretto di Ueberweg, si oppone con fermezza all’uso oscillante di questa espressione, secondo cui essa nomina ora una parte del contenuto, ora una parte dell’oggetto. Egli dice: «Si era riconosciuto che non ogni nota caratteristica di un oggetto è si­ multaneamente pensata nella rappresentazione stessa: si era perve­ nuti dunque al concetto di qualcosa che è pensato, in una rappre­ sentazione, insieme ad altre cose, e sarebbe stato necessario avere una parola adeguata a questo concetto. A mio avviso, tale parola sarebbe stata, ad esempio, "parte” o “componente” di una rappre­ sentazione, solo che proprio questa parola venne usata assai rara­ mente, preferendo chiamare quelle note caratteristiche "essenziali”, “originarie” o anche note caratteristiche "costitutive”. Per quanto corretta sia anche quest’ultima denominazione, essa peraltro favo­ risce eccessivamente l’idea che un concetto non sia nient’altro che un insieme di certe note caratteristiche che lo costituiscono, e cioè che non ci siano in un concetto (o in una rappresentazione in gene­ rale) altre componenti che le note caratteristiche. Ora, se si è dun­ que permesso, come di fatto è avvenuto, probabilmente solo per comodità, di chiamare le note caratteristiche dell’oggetto di un concetto note caratteristiche di questo stesso concetto, anche que­ sto fatto ha contribuito da parte sua a far sì che si confondessero le note caratteristiche di un oggetto, purché necessarie, con le componenti di un concetto.61 Pertanto, ciò che Ueberweg attribuisce allo sforzo di essere con­ cisi nell’espressione, Bolzano lo fa derivare invece dalla comodità, e cioè dal fatto che si è trovato conveniente dare lo stesso nome alle componenti dell’oggetto e alle componenti del contenuto di una rappresentazione. Bolzano giudica la questione della correttezza di ciò abbastanza importante per discuterne non solo nel passo citato, ma per ritornarvi su più volte.62 Da questa circostanza e dal fatto che da una netta distinzione tra la nota caratteristica, intesa come

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qualcosa che appartiene all’oggetto di una rappresentazione, e le componenti del contenuto di una rappresentazione derivano — come si mostrerà in seguito — importanti conseguenze, noi abbiamo tratto il diritto di soffermarci più diffusamente su tale questione che, a prima vista, sembra essere puramente terminologica. Come esito della nostra riflessione, possiamo avanzare la tesi che si devono designare come note caratteristiche sempre e solo le parti dell’oggetto di una rappresentazione, e mai però le parti del contenuto di una rappre­ sentazione. In seguito torneremo sul problema di quali parti di un oggetto possano essere chiamate note caratteristiche e quali invece no. (Si veda § 13.) Per il fatto che ci avvaliamo dell’espressione «nota caratteristi­ ca» per designare le parti dell’oggetto di una rappresentazione, nasce l’obbligo di disporre di un nome per le parti del contenuto di una rappresentazione. Si è soliti designare queste parti come rappresen­ tazioni parziali. Contro questa abitudine sono state tuttavia sollevate obiezioni. Sigwart ritiene che la denominazione «concetti parziali» o «rappresentazioni parziali», ricavata da relazioni spaziali o tem­ porali, possa essere usata tuttavia solo in senso figurato; le rappre­ sentazioni parziali non devono infatti essere rappresentazioni delle parti di un intero (ad esempio le rappresentazioni di testa, collo, tronco ecc. come rappresentazioni delle parti di un animale), le quali starebbero rispetto alla rappresentazione dell’intero nella stessa relazione in cui le parti stanno con l’intero, ma devono essere piut­ tosto componenti della rappresentazione, come le singole proprietà sono componenti di una cosa.63 Solo in seguito si dovrà quindi decidere se le rappresentazioni parziali sono rappresentazioni delle parti di un tutto o no. Ma la designazione delle componenti del contenuto di una rappresenta­ zione come «rappresentazioni parziali» si dimostra già massimamente inadeguata per un’altra ragione più evidente. Per com­ prenderlo si deve soltanto considerare che alle componenti del contenuto di una rappresentazione non appartengono solamente i contenuti relativamente più semplici, nei quali essa può essere ana­ lizzata, ma anche le relazioni tra questi contenuti relativamente più semplici appartengono come componenti — sebbene di altro ge­ nere — al contenuto nella sua totalità. E queste relazioni, che non sono affatto rappresentazioni, non si possono certo designare come rappresentazioni parziali. C’è del vero, dunque, quando Lotze af­ ferma che si presenta «un inconveniente per il fatto che ci manca

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un nome appropriato per le componenti con le quali noi costi­ tuiamo il concetto; «nota caratteristica» e «rappresentazione par­ ziale» vanno bene solo per casi determinati».64 Se si vuole rimediare a questo inconveniente, ci si può servire dell’espressione «elemento» per designare le componenti del con­ tenuto di una rappresentazione. Questo nome si addice tanto a quelle componenti del contenuto che sono a loro volta contenuti di una rappresentazione, quanto a quelle che non lo sono. Studiosi contemporanei, ad esempio Wundt, mostrano una particolare pre­ ferenza per l’uso di questo nome nel senso indicato. Tuttavia può essere opportuno riservare l’espressione considerata per le compo­ nenti della vita psichica che non sono ulteriormente analizzabili con l’analisi psicologica, lasciando alla parola il significato secon­ dario che le inerisce in ragione della sua applicazione nelle scienze della natura. In questo caso si possono designare le componenti del contenuto di una rappresentazione come parti di una rappresenta­ zione, con il che ci si deve soltanto attenere al fatto che con rap­ presentazione, in questo contesto, si debba comprendere sempre e solo il contenuto di una rappresentazione e mai l’atto di rappresen­ tazione. Se si vuole mettere particolarmente in rilievo questo fatto, si può parlare allora, invece che di parti, di contenuti di rappre­ sentazioni o, laddove il contesto non ammetta alcuna ambiguità, di parti di contenuti. Alle componenti dell’oggetto di una rappresentazione si contrapgono le componenti del corrispondente contenuto di una rappre­ sentazione; alle parti dell’oggetto le parti del contenuto. Esse de­ vono tanto poco essere confuse tra loro, quanto poco il contenuto di una rappresentazione va confuso con il suo oggetto. La realizza­ zione rigorosa della distinzione tra i due tipi di componenti è stata necessaria per la ragione che soltanto con un’esatta considerazione della differenza esistente può essere esaminata, con qualche speranza di riuscita, la relazione tra le parti del contenuto di una rappresenta­ zione e le parti del corrispondente oggetto di rappresentazione.

9. Le componenti materiali dell'oggetto Come si è già accennato alla fine del precedente paragrafo, ogni­ qualvolta si parla delle parti di un oggetto composto si deve pren­ dere in considerazione, oltre a ciò che si designa come parte nel senso comune della parola, anche le relazioni in cui quelle parti

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stanno tra loro e che, non meno delle parti, si mostrano come com­ ponenti dell’intero composto. Noi siamo soliti designare come ma­ teria la totalità delle parti nominate per prime, delle quali, per così dire, l’intero consiste, mentre la totalità delle componenti del se­ condo genere è chiamata la forma dell’ihteto. In ogni composto distinguiamo perciò le componenti materiali e formali di cui esso è costituito.65 C’è una grande varietà di tipi di componenti materiali da cui può essere composto un oggetto. Una disposizione in gruppi delle stesse si può effettuare secondo i più diversi punti di vista e, in­ fatti, è stata tentata ora in questo, ora in quel modo. Non è qui nostro compito esaminare quali siano i generi di parti e di interi da esse composte. Di ciò si dovrebbe occupare una completa teoria delle relazioni, in quanto descriverebbe e classificherebbe i modi in cui qualcosa è parte di un intero e come un intero è costituito di parti. Qui ci interessa soltanto quel che è comune a tutti i tipi di parti e a tutte le forme di ciò che è composto di parti, vale a dire il tipo dal quale segue ogni sintesi e che sta a fondamento dei modi più diversi in cui un intero può essere composto. Per questo scopo, non è necessaria una conoscenza di tutti gli elementi di cui si compongono gli oggetti delle rappresentazioni, nel senso in cui Sigwart cerca di indicarli.66 Anche il modo in cui un composto si forma a partire da ciò che è semplice, ovvero l’ori­ gine genetica del composto, è un punto che non occorre che qui sia toccato. Il nostro presupposto è che ci sia qualcosa di composto. La parola «parte», «componente», deve essere presa nel senso più ampio. Con ciò deve intendersi non solo ciò che il linguaggio ordinario o quello matematico designano come parte, ma, in gene­ rale, tutto ciò che si può distinguere nell’oggetto di una rappre­ sentazione, indipendentemente dal fatto che si possa parlare, per quanto riguarda ciò che è distinguibile, di una scomposizione reale oppure soltanto di un’analisi mentale. A questa condizione si dovrà anzitutto distinguere tra quelle parti materiali di un intero che sono semplici e quelle che si pos­ sono a loro volta scomporre in parti. Se le parti materiali di un oggetto si possono nuovamente scomporre in parti, ne risulta allora una differenza tra parti più vicine e parti più distanti.67 Laddove è importante indicare con precisione la differenza tra parti più vicine e parti più lontane, si possono distinguere componenti materiali del primo ordine, del secondo ecc. Le componenti materiali del primo

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ordine sono quelle in cui l’oggetto come intero appare diviso. Le parti delle parti ottenute mediante la scomposizione dell’intero og­ getto sono le parti materiali del secondo ordine ecc. Se si scompone per esempio un libro nelle sue pagine e nella copertina, le une e l’altra sono le componenti materiali del primo ordine del libro. Ora, se si distingue nelle pagine il colore e il formato, nella coper­ tina la facciata, il retro nonché il dorso, queste allora sono parti del secondo ordine del libro, ma anche, rispettivamente, parti del primo ordine delle pagine e della copertina. È chiaro che la differenza tra le componenti materiali del primo ordine e quelle degli ordini seguenti spesso può essere, in un altro senso, anche soltanto relativa. Mentre in taluni casi il consegui­ mento delle componenti più lontane è legato alla scomposizione di quelle più vicine, e quello si può avere soltanto appena si esegue questa, in altri casi una singola scomposizione può dare immediata­ mente come risultato quelle componenti che, sotto il presupposto di una duplice scomposizione, appaiono come componenti del se­ condo ordine. Se si scompone un’ora in minuti, e questi in secondi, allora i secondi sono componenti del secondo ordine delle ore. Ma si può, invece di dividere le ore in sessanta minuti e ogni minuto in sessanta secondi, dividere le ore, per così dire in un sol colpo, in tremilaseicento secondi. Se si effettua la divisione nel modo indi­ cato, i secondi allora appaiono come componenti del primo ordine delle ore. Se si ha a che fare con queste parti più lontane che, mediante un’adeguata scomposizione, possono apparire come le più vicine, anche le parti più lontane si designano allora, senza esitazione, come parti dell’intero; non così in quei casi in cui le parti più lon­ tane si possono ottenere soltanto dopo l’avvenuta scomposizione dell’intero nelle sue parti più vicine. In questo caso l’uso linguistico si oppone a designare le parti più lontane come parti dell’intero. I secondi si dicono parti delle ore non meno dei minuti; si esita, invece, a designare le finestre delle case come parti di una città, anche se sono le parti più lontane di questa. Infatti esse possono essere ottenute soltanto dopo che la scomposizione del collettivo «città» ne ha fatto scaturire le parti più vicine, ovvero le case. Ciò che si è detto tuttavia non vale senza eccezione. L’uso lin­ guistico della vita quotidiana, che risente in molti punti essenziali delle opinioni scientifiche, talvolta chiama anche le componenti più lontane di un oggetto parti di questo oggetto, parti che si possono

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ottenere però soltanto mediante una precedente analisi dell’oggetto nelle sue componenti del primo ordine. Questo accade, ad esempio, quando si tratta della composizione chimica di una materia a partire dagli atomi dei rispettivi elementi. Gli atomi sono le componenti più lontane, in quanto possono essere ottenuti solo, attraverso la scomposizione delle molecole, le quali devono essere designate come le componenti più vicine. Nondimeno si parla degli atomi come parti di un oggetto considerato composto da essi. Malgrado questa eccezione, la relazione che sussiste tra le com­ ponenti più vicine e quelle più lontane di un oggetto rispetto all’og­ getto intero, sembra adatta a servire da principio di classificazione delle possibili componenti di oggetti, principio che, in ragione della sua natura, offrirebbe una garanzia per la completezza dell’enume­ razione. La filosofia antica accennò a tale argomento quando di­ stinse tra le parti che sono omonime con l’intero e quelle tra le quali non c’è omonimia. Questa posizione può essere utilizzata come principio di suddivisione. Ma per la divisione principale ci si do­ vrebbe avvalere, come principio, della posizione citata in prece­ denza. Si dovrebbe pertanto distinguere tra parti semplici e com­ poste; le parti composte dovrebbero essere suddivise in quelle le cui componenti possono essere parti dello stesso ordine dell’intero, come le parti dell’intero composte da esse, e così via. Oltre a questa suddivisione delle componenti materiali di un oggetto ce n’è un’altra. Esistono componenti materiali che possono entrare come componenti in un intero composto sempre e soltanto in uno stesso modo. Altre, per contro, possono fungere da compo­ nenti di un oggetto in modi differenti. «Rosso», ad esempio, in un senso è componente di una palla rossa, in un altro modo lo è dello spettro, e in un terzo modo è componente di tutti i colori composti in cui è contenuto. L’estensione — non nel senso di una grandezza determinata, ma nel senso di un’estensione secondo una, due o tre dimensioni — è, ovunque essa compaia come compo­ nente, componente dell’oggetto esteso in un solo e medesimo modo. La stessa cosa vale del tempo, in quanto esso, quale componente di oggetti, ne appare come la «durata». C’è ancora una terza suddivisione di componenti. Secondo que­ sta, le componenti si dividono in quelle che possono esistere di per sé anche separate dall’intero di cui sono componenti, mentre un secondo gruppo comprende quelle componenti la cui esistenza è legata ad altre, senza che l’esistenza di queste altre componenti

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sia condizionata da quelle. A un terzo e ultimo gruppo sono infine assegnate quelle componenti che, per quanto riguarda la loro esi­ stenza, sono reciprocamente dipendenti l’una dall’altra.68 Noi tut­ tavia non possiamo aderire a questa suddivisione delle componenti materiali di oggetti per il fatto che si fonda sulla condizione del­ l’ esistenza di parti. Quando qui parliamo di oggetti e delle loro componenti, in conformità alle premesse fatte prescindiamo dall’esi­ stenza reale, possibile o anche impossibile degli oggetti e delle loro parti, e consideriamo gli oggetti solo in quanto rappresentati per mezzo di rappresentazioni corrispondenti, cioè solo come oggetti di rappresentazioni. In quanto tuttavia questa suddivisione delle componenti mira alla loro rappresentabilità, e separa quindi le componenti in quelle che possono essere rappresentate indipendentemente l’una dall’al­ tra da quelle che possono essere rappresentate solo come dipendenti in maniera reciproca o unilaterale, essa non è tanto una suddivi­ sione delle componenti degli oggetti quanto, piuttosto, delle com­ ponenti dei contenuti di rappresentazioni. E da questo punto di vista, dovremo ritornare ancora su di essa.

io. Le componenti formali dell’oggetto

Le componenti formali di un oggetto si dividono in due gruppi, a seconda che si considerino le relazioni che hanno luogo tra le singole componenti, da un lato, e l’oggetto come intero dall’altro, e a seconda che si osservino le relazioni che occorrono recipro­ camente tra le singole componenti. Chiamiamo componenti for­ mali primarie le relazioni che hanno luogo tra l’oggetto e le sue componenti, mentre designiamo le relazioni delle parti tra loro come componenti formali secondarie dell’oggetto. Nel caso in cui si definiscono componenti formali primarie di un oggetto le relazioni tra le sue parti e un intero da esse costi­ tuito, la definizione, a ben vedere, è equivoca. Infatti, in essa oc­ corrono due tipi di relazioni tra un intero e le sue parti. Un tipo comprende le relazioni in virtù delle quali le parti sono appunto parti di questo intero. Poiché le parti «non stanno puramente l’una accanto all’altra in maniera estrinseca, non sono semplicemente in un intero come in una cornice comprensiva; piuttosto vi è connessa una relazione causale — l’intero comprende le parti, le tiene unite, le ha (...) La relazione che intercorre tra l’intero e le parti appare

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come un’azione esercitata dall’intero sulle parti o da queste su quello; l’intero ha, e cioè tiene unite le parti, le lega insieme in un’unità per mezzo di un’azione, le parti invece "formano” l’intero».69 Queste relazioni tra il tutto e le sue parti, che dal punto di vista dell’intero vengono designate come 1’«avere» delle parti, mentre dal punto di vista delle parti come il «formare» l’intero, noi le chiamiamo componenti formali primarie in senso proprio. Oltre a queste, un oggetto composto presenta anche altre rela­ zioni, i cui termini sono formati, da un lato, dalle sue parti, e dall’altro dall’oggetto come un intero. In questo modo, l’intero oggetto è maggiore delle sue parti prese singolarmente; l’oggetto come intero può essere simile alle sue parti sotto vari aspetti, e diverso da esse sotto altri; tra l’intero oggetto e le sue parti può sussistere la relazione di coesistenza (quando, ad esempio, l’oggetto è una cosa) o di successione (quando l’oggetto è, ad esempio, un movimento, un cambiamento o anche un anno, un’ora o simili). Tutte queste relazioni sono differenti da quelle in cui le parti come tali stanno in relazione con l’intero come tale. Noi le designiamo come componenti formali primarie in senso improprio dell’oggetto. Poiché le componenti formali primarie in senso improprio stanno a loro volta in rapporto a quelle così designate in senso proprio, in quanto queste possono presupporre quelle, ma anche in quanto esse possono sussistere sebbene le parti non vengano considerate come parti di un intero, bensì come oggetti indipendenti, entrambi i generi di componenti formali primarie costituiscono allora i ter­ mini di nuove relazioni. Designiamo queste relazioni come rela­ zioni di secondo grado, riservando quest’espressione per tutte le relazioni i cui termini sono relazioni. In modo analogo, si dovreb­ bero designare i rapporti tra relazioni di secondo grado come rela­ zioni di terzo grado e così via. Alla condizione, verificantesi nella grande maggioranza dei casi, che le componenti materiali primarie di un oggetto siano a loro volta composte, si possono trovare in esse, in quanto a loro volta considerate come oggetti, tutte le componenti formali primarie già nominate. Infatti anche le componenti materiali di secondo ordine stanno alle componenti materiali di primo ordine anzitutto nella relazione delle parti rispetto all’intero formato da esse (compo­ nenti formali primarie in senso proprio); ma sussistono, inoltre, tra le componenti materiali nominate relazioni che sono differenti da quei rapporti esistenti tra l’intero e le sue parti come tali (compo­

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nenti formali primarie in senso improprio). Pertanto abbiamo, in analogia con le componenti materiali di primo, secondo ... ordine, componenti formali primarie di primo, secondo ... grado, e preci­ samente tanto quelle in senso proprio quanto quelle in senso impro­ prio. E poiché l’analisi di un oggetto si potrà considerare terminata solo in rarissimi casi, quando cioè è pervenuta alle componenti mate­ riali del secondo ordine, allora alle componenti formali primarie di primo e secondo grado si aggiungono quelle di terzo e quarto grado. Si potrebbe ritenere che queste componenti formali primarie si debbano distinguere in componenti di primo, secondo ... ordine. Ma tale designazione ci occorre per un altro scopo. Abbiamo desi­ gnato come componenti materiali più lontane quelle ottenute me­ diante l’analisi delle componenti materiali più vicine; proprio allo stesso modo si devono intendere come componenti formali più distanti quelle che risultano dall’analisi delle componenti formali più vicine. Fino ad ora, certo, è stato possibile solo nei casi più rari analizzare le relazioni come tali. Queste si mostrano perlopiù come qualcosa di semplice che si prende gioco di tutti gli sforzi diretti a una scomposizione. Si pensi a relazioni quali quella di coesistenza, di identità e simili. Ma quando l’analisi è possibile, la relazione com­ posta non si mostra costituita da quelle relazioni che avrebbero gli stessi termini di ogni siffatta relazione; l’analisi della relazione com­ posta comporta invece l’analisi di uno o entrambi i suoi termini. Il primo è il caso della relazione causale. Se la si definisce così: Un insieme U di fatti u2, u2 ... u„ si designa come la causa (Ursache) dell’inizio W di un processo e W si designa come l’effetto (Wir­ kung) di U se, nell’istante in cui l’insieme u{, u2 ... un diviene com­ pleto, W si verifica necessariamente;70 allora l’analisi della relazione causale risulta legata all’analisi di uno dei suoi termini. Al posto della causazione di W mediante U si pone ora la dipendenza di W da ut, u2 ... u„. Questo secondo caso ha luogo nelle relazioni di similitudine, laddove la relazione stessa si può concepire come iden­ tità parziale. Diciamo che A(=abcde) è simile a B(=abc8e), e costatiamo con ciò una relazione tra A e B che si può risolvere in tre relazioni di identità i cui termini sono a, b e c. Il primo di questi due casi si verifica quando si analizza la rela­ zione in virtù della quale determinati oggetti compaiono come parti di un composto. Non appena queste parti sono a loro volta composte, si risolvono le relazioni tra l’intero e le sue componenti materiali del primo ordine in tante relazioni tra l’intero e le sue

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componenti materiali del secondo ordine quante sono le componenti del secondo genere dimostrabili nell’intero. E ci sono poi le rela­ zioni menzionate da ultimo che noi crediamo di dover designare come componenti formali primarie del secondo ordine. In modo analogo si possono mostrare, quindi, le relazioni del terzo, quarto ... ordine. E ciò precisamente non vale solo per le componenti for­ mali primarie in senso proprio, ma anche per quelle prese in senso improprio. Tutte le relazioni di diverso grado e ordine menzionate possono stare e staranno tra loro in nuove relazioni (di secondo, terzo ... grado). E ciò sarà precisamente possibile in due modi. O i termini di queste relazioni sono costituiti da relazioni che appartengono allo stesso grado o a un grado differente, oppure i termini delle nuove relazioni apparterranno l’uno a una relazione del primo, se­ condo ... ordine, l’altro a una relazione del primo, secondo ... grado. In questo modo emergono diversi gruppi di relazioni di ordini superiori. Con ciò sembra sia stato trattato in maniera esauriente quanto si doveva dire in generale intorno ai generi delle componenti formali primarie e delle relazioni tra loro possibili. Per ciò che riguarda ora le stesse componenti formali primarie, esse presentano nel loro insieme una grande varietà. Infatti, secondo la natura delle componenti materiali, saranno differenti sia il modo in cui esse «formano» l’intero sia il modo in cui l’intero le «pos­ siede». Da questo punto di vista la disposizione in gruppi delle componenti formali dovrebbe basarsi su una suddivisione delle com­ ponenti materiali, cosa che peraltro noi vogliamo di proposito evi­ tare. Quando si parla di componenti formali primarie, tuttavia, si deve ritenere che esse sono sempre identiche secondo il genere, mentre secondo la specie possono essere enormemente differenti; e per questo Sigwart ha diritto di dire che può «produrre soltanto confusione il fatto che, senza distinzione, ogni cosa, ad esempio una figura a tre lati, un rosso scuro, un movimento rotatorio, un corpo giallo, un nocciolo avvolto da una buccia e così via, venga espressa mediante la stessa formula A = abcd, come se questa giustapposi­ zione fosse l’espressione di una forma di connessione sempre uguale ».71 Negli esempi addotti da Sigwart ogni volta si trova una specie di sintesi differente, tuttavia ogni volta, riguardo al genere, la sin­ tesi tra le parti e l’intero è la stessa, e si conserva in tutte le forme

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per quanto così diverse. In questo senso ogni oggetto composto può essere concepito come funzione delle sue parti e si può appli­ care la formula usata da Lotze e da Zimmermann per designare le componenti del contenuto di una rappresentazione e le loro rela­ zioni con l’intero contenuto. L’oggetto si può dunque esprimere in questo modo: O = f(Pt, P2, P3 ... PK), dove con P si intendono le sue parti, e precisamente le componenti materiali di primo ordine. A seconda della categoria di oggetti con i quali si ha a che fare e in base alla natura delle componenti materiali, il modo in cui esse sono contenute nell’intero sarà differente e come tale potrà essere designato mediante f, f', F, F',