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Italian Pages 292 Year 2002
FRANCESCO ARONADIO
PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE (Merone
Cratilo
BIBLIOPOLIS
Repubblica)
La distinzione fra le forme del sapere è senza dubbio una delle questioni costitutive della riflessione filosofica di Platone. All'origine di tale distinzione è qui posta la riserva con la quale il filosofo guarda ai saperi di tipo procedurale. La sua concezione del conoscere come relazione intenzionale, vale a dire come dinamica strutturalmente orientata al reale, comporta la superiorità di una conoscenza noetica, nella quale si coniugano il carattere diretto e il carattere articolato o discorsivo del conoscere, uscendo dalla stretta fra immediatezza (con quasi inevitabile esito mistico)
e proceduralità (incapace di produrre conoscenza certa). Attraverso la considerazione del Menone, del Cratilo e della Repubblica, dialoghi hei quali questa problematica trova progressiva esplicitazione e teorizzazione,
si delinea come il requisito fondamentale dei fenomeni autenticamente conoscitivi sia la referenzialità, cioè il loro trovare saturazione nella realtà delle cose che sono, in
accordo con una nozione di verità intesa come proprietà degli enti, e in ciò nettamente distinta dalla correttezza formale dei saperi procedurali.
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ELENCHOS Collana di testi e studi sul pensiero antico fondata da GABRIELE GIANNANTONI
XXXVIII
ISTITUTO PER IL LEssICO INTELLETTUALE EUROPEO E STORIA DELLE IDEE
SEZIONE PENSIERO ‘ANTICO
Responsabile Vincenza Celluprica
FRANCESCO
ARONADIO
PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE (Menone
Cratilo Repubblica)
Secondo le norme dell’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee questo volume è stato sottoposto all’approvazione di M. Isnardi Parente e M. Vegetti.
Copyright © 2002 by C.N.R., Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee ISBN 88-7088-412-0
SOMMARIO INTRODUZIONE
Do:
CAPITOLO PRIMO QUESTIONI PROCEDURALI NEL MENONE (71 B-75 A)
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1. Lo Su corretto, p. 21. 2. Lo èmi scorretto, p. 30. 2.1 Lo òroîov, p. 34. 3. Lo 6mi parziale, p. 37. 3.1 L’angolo visuale presupposto dallo éti parziale, p. 40. 3.2 Ancora sullo 611 parziale, p. 44. 3.2.1 L’esempio della figura, p. 45. 3.2.2 La priorità metodologica del tutto rispetto alle parti, p. 48. 3.3 Ricapitolazione, p. 50. 4. Conclusioni, p. 52. CAPITOLO SECONDO OP®OTHE E AAHOEIA NEL MENONE E NEL CRATILO
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e)
1. ’Op@n séta ed émotmun nel Merone, p. 58. 2. Il Seopòc, p. 63. 3. ’Op@î Séza e avapvnotg: questioni procedurali, p. 75. 4. L’òp®ù séta nel contesto drammatico del Merone, p. 78. 4.1 Gli uomini virtuosi non sono maestri di virtù, p. 79. 4.2 Nel corso
dell’argomentazione può accadere di sbagliare, p. 84. 4.3 Una procedura può condurre alla verità, ma essere instabile, p. 87. 4.4 Sul campo semantico di 6p86g nel Merone, p. 90. 5. Ancora sulla differenza fra $6t&a ed gmrotnun, p. 93. 6. ’Op@6mng e dina, p. 100. 7. ’OpAétng e dAnbera nel Cratilo, p. 103. 7.1 Il legislatore e l’òp96tnc, p. 103. 7.2 Il dialettico e l’aAn010, p. 107. 7.3 Il Sotdterv del legislatore e l’eidévai del dialettico, p. 111. 7.4 Le mpaéers, l’odoia e la struttura dell’inquanto, p. 117. CAPITOLO TERZO OLTRE LE PROCEDURE:
LA AHAQZIE NEL CRATILO
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1. Inadeguatezza del linguaggio, p. 125. 1.1 Il nome in quanto
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nome: l’alterità del linguaggio, p. 125. 1.2 La relazione nome-
cosa: inconsistenza della piunois, p. 129. 2. La SUvapig del linguaggio, p. 138. 2.1 L’utilità del nome, p. 138. 2.2 Il regu-
xévar dell’utilità del nome, p. 141. 3. La sublimazione del linguaggio: la $hAwo1g, p. 149. 3.1 Le occorrenze di SnAodv, ènAmpa e èNAwotg: una sintomatica progressione, p. 149. 3.2
L’ostensione nella dimensione comunicativa, p. 154. 3.3 Referenzialità dell’ostensione, p. 157. 3.3.1 Il Siavoio@ar: digressione interpretativa, p. 158. 3.3.2 Interiorizzazione e referenzialità, p. 160. 3.4 Modalità e contenuti dell’ostensione, p. 164.
CAPITOLO QUARTO IL SAPERE DIRETTO: EYFTENEIA E NOYZ
DITTA
1. Considerazioni sulla concezione platonica del conoscere, p. 172. 1.1 L’intenzionalità, p. 176. 1.2 Il verso dell’intenzionalità, p. 186. 2. L'orizzonte ontologico della concezione platonica del conoscere, p. 192. 2.1 Giustificazione dell’intenzionalità: la priorità della dimensione ontologica, p. 194. 2.1.1 L’argomentazione di resp. 477 A-480 A, p. 195. 2.1.2 Nota a margine, p. 204. 2.1.3 Resp. 477 A-480 Ae il primato dell’ontologia, p. 208. 2.2 Giustificazione dell’intenzionalità: il modello della relazione diretta, p. 210. 2.3 La cvyyéveta, p. 221. 2.3.1 La cvyyévera fra
discipline relative alle cose che sono, p. 233. 2.3.3 La cvyyévera come condizione dell’èriothun, p. 237. 3. Conclusioni, p. 244. BIBLIOGRAFIA
»
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INDICI
Indice dei luoghi platonici Indice degli autori moderni
» 271 Di
INTRODUZIONE
Chi studia Platone (come probabilmente ogni altro filosofo, o più in generale ogni autore di testi, non solo letterari) è inserito in una fitta trama di rimandi di letteratura primaria e secondaria, che, come l’aria della colomba kantiana, sorreggono, ma al tempo stesso trattengono, il volo dell’interprete. Il problema è che tale trama si fa sempre più intricata, al punto che si rischia di rimanervi invischiati, o di scambiare la rete stessa per la destinazione da raggiungere. È necessario recidere qualche filo, pur sapendo che un eccesso in tal senso porterebbe alla caduta nel vuoto. Quest'opera di selezione è compiuta anche sotto la guida dei presupposti interpretativi, vale a dire di quei modi di approccio al testo, a loro volta frutto di precedenti esperienze culturali, e di progressivi riadattamenti dettati dagli studi, che condizionano ogni rilettura, facendo da argine all’infinita possibilità delle interpretazioni. Credo che l’esplicitazione dei presupposti faciliti l’orientamento di chi opera l’interpretazione come di chi ne fruisce. In questo libro, per esempio, che pure si occupa delle tematiche relative alle forme del sapere, e alla loro veste linguistica, non seguirò il filo dell’attuale dibattito sul carattere proposizionale o non proposizionale del conoscere secondo Platone: non perché non sia tema interessante, o fruttuosa strategia di indagine, alla quale peraltro attingerò, ma perché non mi sembra sia da accogliere la sua impostazione di fondo. Potrei dire e argomentare che essa non può valere come griglia interpretativa (ma, semmai, solo come strumento interpretativo sussidiario) per il semplice ma decisivo fatto che non
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trova esplicito riscontro nei testi platonici, ma so che non sarebbe questa la mia motivazione più profonda. In realtà sono i presupposti a giocare un ruolo determinante: qui si partirà dall’assunto che quando Platone riflette sulla conoscenza non ha in mente tanto un’attività di un soggetto, quanto piuttosto una relazione fra il reale e l'umano, nella quale a dettare le condizioni è il reale nel suo essere e nel suo darsi, mentre il soggetto è dimensione che si costituisce in subordine. Di questo assunto tenterò di rintracciare le ragioni nei testi platonici, talora indicandone, sia pure di sfuggita, giustificazioni extratestuali, ma per l'essenziale sforzandomi di leggere i testi platonici dal loro interno, cercando, per quanto possibile, di astenermi dal sovrapporre categorie e griglie concettuali che siano loro estranee, e di acquisire, piuttosto, piena consapevolezza dei miei presupposti, per sottoporli al vaglio del criterio di fecondità che comunque presiede a ogni lettura o interpretazione di testi filosofici. In tal senso mi sembra che la tesi interpretativa che in questo libro propongo, e metto alla prova, apra un angolo visuale nuovo, dal quale il nesso stretto che nella filosofia platonica lega le implicazioni ontologiche e quelle gnoseologiche ed epistemologiche si apprezza meglio, nel senso che lascia vedere come questi domini non siano attraversati da fratture, per Platone, ma
siano fra loro solidali, e, al tempo stesso, prevedano una priorità del dominio ontologico. Mi ripropongo, dunque, di esaminare specificamente l’asse della riflessione sulla natura e sull’oggetto del conoscere, scorporandolo da quello di carattere morale e politico, relativo ai grandi temi della virtù e della giustizia, che pure rimane presente, com'è ovvio, alla mia consapevolezza. Non v'è dubbio che questi due assi siano fortemente interdipendenti, nelle
singole tappe come nello sviluppo complessivo del pensiero di Platone. E però altrettanto vero che uno dei tratti che connotano la filosofia platonica in senso innovativo, anche rispetto all'insegnamento socratico, è la teorizzazione del conoscere e
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del volere come dimensioni connesse ma diverse, implicantisi nella reciproca alterità, pur se destinate a congiungersi in quel vertice ideale che è la figura di Socrate o del vero filosofo, in cui teoria e prassi si convertono l’una nell’altra. Ciò si è tradotto per Platone, nel periodo cruciale di elaborazione della
sua propria filosofia, anche in una differenziazione tematica e compositiva, a seguito della quale — per quel che riguarda lo specifico di questo studio — è possibile individuare testi e passi platonici ove il filosofo, nonostante non manchino certo i
riferimenti alle implicazioni pratiche, prende in esame più direttamente i modi e gli esiti delle forme di conoscenza. Mi pare, pertanto, che possa essere di un certo interesse, e fruttuoso dal punto di vista interpretativo, seguire il solo asse gnoseologico, concentrando l’attenzione, in particolare, sulla fase in cui Platone, con un’analisi e una reinterpretazione delle procedure conoscitive cui egli stesso si affida, avvia la costruzione di quel grande edificio intellettuale che prenderà
corpo nella Repubblica, e ben sapendo, comunque, che la ricerca sul conoscere è rivolta sempre per Platone alla delineazione di una forma di vita fondata sul sapere o, per usare un'espressione tipica del Carzzide, di un émiotnpovog Gîiv. Dalla prospettiva qui assunta tenterò di mostrare come nella filosofia platonica il discrimine fra le forme di sapere,
la differenza specifica che nell’immagine della linea separa nettamente il quarto segmento dagli altri, non cada fra proposizionalità e non, ma fra sapere derivante da un’apprensione diretta dell’oggetto e saperi procedurali. Con questa espressione, volutamente plurale e generica, intendo riferirmi a tutte quelle forme di sapere (abbiano esse una funzione operativa, argomentativa o conoscitiva) che stabiliscono una relazione mediata con il loro oggetto, attraverso la codificazione, più o meno esplicita e rigorosa, di procedure di individuazione e trattamento dell’oggetto stesso. Esse si imperniano quindi sull’uso di determinati strumenti di relazione al reale, che ne consentono l’apertura fungendo come da intermediari
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fra uomo e cose. I saperi procedurali si configurano, pertanto, come forme di disciplinamento del reale, nelle quali viene in
risalto il momento attivo e progettuale dell’attività del soggetto: l’oggetto nella sua realtà è considerato solo nella misura in cui si inscrive all’interno di una tale attività finalizzata e finisce per assumere l’aspetto di inevitabile condizionamento, se non addirittura - negli esiti più relativistici - di limite da superare. Di queste forme di sapere sono esempio piuttosto evidente le tecniche (o, meglio, le téyvai), ma tipicamente pro-
cedurale è anche il cosiddetto metodo socratico della definizione, che può ben intendersi come strategia linguistica di disciplinamento dello strumento espressivo e della sua relazione con il reale. Rientrano, dunque, in questa categoria, in generale, i saperi d’uso così come le discipline che nella cultura greca dell’epoca di Platone andavano differenziandosi grazie alla delimitazione dell’oggetto specifico e all’elaborazione di un proprio metodo (si pensi alla medicina o alla geometria, ma anche alla musica, alla retorica o all’architettura).
Ritengo che il riferimento a una categoria così ampia sia giustificato dal fatto che la riflessione platonica sulla conoscenza matura e assume i suoi contorni caratteristici precisa-
mente attraverso una sempre più lucida ed esplicita presa di distanza dal carattere comune a tutti questi saperi, vale a dire dalla loro proceduralità. Mi propongo, infatti, di mostrare come Platone, sotto. la spinta di una istanza ontologica forte, abbia inteso la conoscenza come esperienza di una relazione diretta, e perciò solida e inoppugnabile, della realtà delle cose che sono, e abbia conseguentemente considerato come forme derivate di conoscenza quei saperi che, filtrando la realtà attraverso l’uso delle rispettive strumentazioni, non potevano vantare un pari grado di affidabilità, nel senso di piena rispondenza all’oggetto in sé. In questo senso il carattere della proceduralità va tenuto distinto da quello della discorsività: l'aggettivo “discorsivo”
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non rende ragione della differenza che Platone vuol mettere in luce. Si cercherà, infatti, di mettere in luce come anche la
conoscenza diretta può essere discorsiva: essa non è necessariamente puntuale, ma può dipanarsi anche attraverso mediazioni e passaggi logici, purché tali passaggi siano il frutto (e non lo strumento o la condizione) di una comprensione delle realtà e delle loro relazioni, vale a dire di una visione sinottica
che mette in condizione il soggetto conoscente di muoversi da un oggetto a un altro, di discorrere di forma in forma. Allo stesso modo, è stato evitato l'aggettivo “mediato”: anche il sapere diretto può esserlo, non solo nel senso, appena visto, della sua possibile dinamica, ma anche nel senso che non si tratta di un possesso istantaneo (anche se il suo originarsi può essere descritto come un improvviso insight), e quindi non si configura come una mistica adesione e un annullamento del soggetto nell’oggetto, ma ha corso nel tempo come esito di una faticosa conquista per divenire poi possesso anche duraturo del soggetto. Decisivo però è che il culmine del processo nella conoscenza in senso pieno non sia pensato come una costruzione o un’elaborazione autonoma del soggetto. Le capacità
dell’uomo di stabilire mediazioni conoscitive non porteranno mai all’oggetto stesso, se di esso (di ciò che esso è per se stesso, a prescindere dal nostro commercio con esso) non si
abbia una prioritaria nozione, indipendente da quelle mediazioni e, perciò, unico ancoraggio di quelle procedure. La diffidenza di Platone verso i saperi procedurali è perciò dettata anche proprio dalla loro pretesa di fondarsi in modo esclusivo sulle procedure. Da quanto detto emerge già che altro presupposto di questa indagine è che in Platone sia operante una nozione del conoscere come relazione intenzionale: quando Platone afferma che la conoscenza è sempre conoscenza di qualcosa, di qualcosa che è, tradisce questa concezione di una relazionalità che, per così dire, è anteriore rispetto alle singole realizzazioni della dinamica conoscitiva. Si tratta di un movimento orien-
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tato fra due termini che in qualche modo sono già da sempre in rapporto fra loro, e non già della moderna intrapresa eroica di un soggetto che si scopre esploratore del dominio dell’oggetto né della post-moderna pura relazionalità di simulacri. L’intenzionalità conoscitiva, nella quale, a mio parere, Platone pensa, ha un suo fondamento forte, che è l’essere delle
cose che sono, e un suo orientamento preciso, che è dettato ancora una volta dall’essere, dalla verità delle cose che sono.
La peculiarità della scrittura filosofica di Platone mi ha indotto a circoscrivere l'indagine, oltre che tramite l’individuazione di nuclei tematici (quali la domanda socratica “che cos'è x?”, i concetti di 6p96tng, dAnezia e dimo, la vyyÉvera), anche attraverso un riferimento a singoli dialoghi, la cui
struttura compositiva segna di volta in volta un orizzonte del campo d’indagine. Mi sembra corretta, infatti, una lettura di Platone che tenga conto del tessuto drammatico e concettuale dei suoi scritti, e si ponga poi anche il problema di rintracciare le linee di continuità/evoluzione da un dialogo all’altro. Un’eventuale evoluzione della riflessione filosofica di Platone ne risulta in tal modo tutt’altro che depressa, anche se indiscutibilmente, come si vedrà anche per le questioni qui affrontate, la considerazione del contenuto dei dialoghi in relazione alla loro unità compositiva lascia spesso emergere che un determinato motivo concettuale ha subito un trattamento diverso in diversi dialoghi non tanto per le trasformazioni impresse dal filosofo al suo pensiero nel corso della sua vita e della sua produzione, ma per il peso e la funzione che di volta in volta quel tale motivo assumeva nei vari contesti argomentativi. Uno degli esiti di questa indagine, in effetti, sarà l’individuazione di una continuità di fondo nell’atteggiamento di Platone verso i saperi procedurali in un periodo cronologicamente determinato, e teoricamente cruciale, del suo itinerario concettuale: nel Merone e nel Cratilo, da un lato, convergono i frutti di un’intensa riflessione sull’insegnamento socratico e
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sui suoi referenti culturali, ma, da un altro lato, e conseguen-
temente, in essi è disegnato il quadro di riferimento ontologico ed epistemologico che fa da sfondo a una lunga fase della produzione platonica, che comprende anche la Repubblica. I primi due dialoghi saranno perciò presi in esame nella loro interezza (sia pure dalle prospettive tematiche indicate), mentre i libri centrali della Repubblica saranno considerati solo nella misura in cui testimoniano la persistenza e la sistemazione teorica dei motivi concettuali enucleati nel Merone e nel
Cratilo: nella Repubblica, infatti, tali motivi sono inseriti in un contesto speculativo più ampio, che non ho la pretesa di chiamare in causa ir foto. Tuttavia, proprio in virtù di questo inserimento, essi sono portati a maturazione, chiarezza con-
cettuale ed esplicitazione, sia pure in alcuni casi attraverso modificazioni e riadattamenti. Il riferimento a queste tre opere platoniche consente, a mio vedere, di mettere a fuoco nella maniera più nitida e meno dispersiva il tema fondamentale del presente lavoro, vale a dire il contrasto fra forme di sapere derivanti da un’elaborazione intellettuale, presunta autonoma, e la conoscenza effettivamente congruente con la natura della realtà, e, per ciò, affidabile. Diversamente da altri dialoghi, precedenti o dello stesso periodo, ove questo itinerario di pensiero di Platone si intreccia con esigenze polemiche o con altre tematiche, certo strettamente legate a questa, ma appartenenti ad ambiti diversi (comé accade nel Fedone con la sua interconnessione
fra gnoseologia e psicologia), il Merone e il Cratilo affrontano in modo diretto la questione della portata delle procedure conoscitive, individuandone movenze specifiche e margini di legittimità; e, al tempo stesso, entrambi i dialoghi, l’uno sul piano delle strategie di indagine di tipo dialogico-dialettico, l’altro su quello più generale - ma anche paradigmatico - della natura e del valore epistemologico dei nomi, rinviano, oltre la dimensione della correttezza procedurale, a quel necessario radicamento d’ogni processo conoscitivo nel terreno della ve-
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rità-realtà degli Svta, che nella Repubblica diventa finalmente il cardine sul quale ruota la questione del sapere. Va da sé che la Repubblica, oltre che punto di riferimento finale, è però anche inizio. La chiarificazione concettuale,
infatti, porta con sé l’introduzione di nuovi elementi (si pensi alla differenziazione di vénorg e diavora — che implica una distinzione fra conoscenza diretta e conoscenza procedurale e alla loro comune contrapposizione alla $6éÉa - che comporta
un’ulteriore distinzione fra proceduralità scientifica e proceduralità opinativa); ma essa conduce anche alla posizione di nuovi problemi. Soprattutto, nei dialoghi successivi (e il riferimento è in primo luogo al Sofista, ma significativi sono, sotto aspetti diversi, tutti i dialoghi tardi), con la progressiva messa in discussione dell’univocità dell siva, in relazione all’esigenza crescente di pensare gli sin anche in termini di relazionalità reciproca, il baricentro della riflessione platonica si sposta dall’esigenza di marcare la differenza rispetto ai saperi parziali e inefficaci mediante la sottolineatura del tratto della referenzialità, alla necessità di ripensare il reale stesso nella sua articolazione e, per tanto, nella sua capacità fondativa ed esplicativa della stessa facoltà dialettica (si pensi al Parzzenide con il suo fugace, ma pregnante riferimento alla èùvapig toò diadgyeoda1, 135 c 2). Ciò comporterà l'emergenza di ulteriori nodi problematici, che comunque esulano dagli obiettivi di questa ricerca, e che tuttavia proprio l’indagine svolta in questo libro contribuisce, credo, a situare nella loro giusta prospettiva, storica e teorica. Essi sono caratterizzati da una
più consapevole ed esplicita volontà da parte di Platone di mettere a punto una ontologia, cioè una deliberata tematizzazione dello 6v in quanto tale, che invero non rientra nell’orizzonte concettuale della Repubblica o dei dialoghi che la precedono (dove l’essere o è esser-qualcosa, o è termine di una relazione, quale quella conoscitiva). E d’altra parte essi pongono ormai la questione della validità e verità delle strategie conoscitive in chiaro subordine rispetto a quella dello
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statuto ontologico delle realtà di volta in volta considerate (si pensi alla cosmologia del Tirzeo o alla trattazione del piacere e della scienza nel Fi/ebo). ** *
Alcuni ringraziamenti, sentiti prima che doverosi. Desidero, in primo luogo, esprimere la mia gratitudine verso il prof. Aldo Brancacci, ancor più che per la lettura meticolosa, per l’incoraggiamento e l’aiuto che ho da lui ricevuto in ogni fase di elaborazione di questo libro, a cominciare dalla sua stessa progettazione. Dai consigli e dalle indicazioni della prof. Margherita Isnardi Parente e del prof. Mario Vegetti,
i quali hanno esaminato con cura e acribia quanto ho scritto, ho tratto sicuro giovamento; preziosi sono stati anche i sugge-
rimenti della prof. Anna Maria Ioppolo e della prof. Giovanna Sillitti, con le quali ho potuto discutere alcune tematiche qui affrontate. Desidero ringraziare la dott. Vincenza Celluprica, senza il cui sostegno non avrei avuto il tempo e i modi per approfondire il mio studio presso il Centro di studio del pensiero antico (ora Sezione Pensiero Antico), da lei diretto, e per
pubblicare in questa pregiata collana. Mille grazie alla dott. Maria Cristina Dalfino per i mille consigli e aiuti nella cura della veste redazionale. Quanto di buono è presente nel libro è a tutti loro debitore, mentre, ovviamente, ogni errore o man-
chevolezza è da imputarsi solamente a me. Un grato ricordo a Gabriele Giannantoni, mio maestro,
alla cui lucidità intellettuale ho cercato di ispirarmi.
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CAPITOLO QUARTO
IL SAPERE DIRETTO: YYTTENEIA E NOYZ
L'analisi del Merone e del Cratilo ha permesso di mostrare come un motivo concettuale portante della filosofia di Platone sia la gerarchia delle procedure argomentative e conoscitive, che si lega immediatamente a una gerarchia di forme del sapere e di strumenti logico-linguistici: ne sono state esemplificazione le diverse modalità di sviluppo della domanda socratica, la contrapposizione fra Sotalewv e sidévai, e i gradi di op@étng dei nomi. In effetti è operante in Platone con una certa evidenza e con sempre maggiore nettezza a partire dal Gorgia', una nozione di sapere “forte” che funge da termine di confronto, modello e criterio di valutazione per altri saperi più “deboli”. Nei capitoli precedenti è stato anche evidenziato come,
® Ne è emblematica rappresentazione la celebre pagina dedicata al rapporto fra le téyvai e le relative contraffazioni (Gorg. 463 A-465 D), nella quale, in corrispondenza della distinzione di natura morale fra bene e piacere, si evidenzia una cesura qualitativa tra forme di sapere. Tale motivo concettuale si aggiunge a quello più socratico del principio di competenza, operante in molti dialoghi precedenti e riguardante un criterio di valutazione interno a ciascuna téyvn, piuttosto che la natura del sapere che una téyvn rende disponibile. La gerarchizzazione dei saperi non è comunque motivo del tutto assente nei primi scritti platonici (e probabilmente nell’insegnamento di Socrate): se ne trova, per
esempio, un’anticipazione già nell’Apologia (cfr. A. BrANcACCI, 1/ sapere di Socrate nell'Apologia’, cit., soprattutto pp. 320-6).
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PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
con altrettanto progressiva esplicitazione, Platone tenda al tempo stesso a mantenere una sorta di continuità fra questi diversi gradi di sapere: questo aspetto è apparso più evidente nella considerazione della particolare funzione di snodo assolta dallo $t1 parziale sul piano argomentativo, così come dal processo di avvio alla reminiscenza dello schiavo e dal fenomeno dell’intendere nella dimensione comunicativa del linguaggio.
Passando in esame alcuni passi dei libri centrali della Repubblica, si cercherà in questo capitolo di definire alcune questioni che tali premesse lasciano aperte. In primo luogo, si tenterà di mettere a fuoco un comune denominatore di tutte le forme del sapere. Si cercherà, poi, di delineare il quadro ontologico sul quale Platone vuole fondare una tale concezione epistemologica. Infine, se ne trarranno le indicazioni per cogliere le ragioni delle differenze e le linee di continuità fra sapere procedurale e sapere diretto.
1. Considerazioni sulla concezione platonica del conoscere Credo sia possibile ipotizzare che la concezione platonica del conoscere presenti quella struttura assiologica che è tipica di tutta la sua impostazione di pensiero”. Una tale struttura è
? Anche al fondo della disamina operata da W. WieLAND, Platon und die Formen des Wissen, cit., v'è la presupposizione che nel pensiero platonico siano riconosciute come forme del sapere molte e diverse modalità operative e conoscitive, ordinate e gerarchizzate alla luce della concezione della realtà dell’gidog. Lo studioso tedesco, infatti, articola la sua analisi lungo una serie di distinzioni fra tali forme, prima fra tutte quella fra sapere proposizionale e sapere non proposizionale, in quest’ultimo ambito differenziando ulteriormente fra le forme dell’abilità, delle
competenze, del sapere d’uso, di quello tecnico o pratico: di tale forme è riconoscibile nel pensiero platonico una gerarchia di valore (cfr., a puro titolo di esempio, pp. 251-2 e p. 280). Se nella forma questo approccio
IL SAPERE DIRETTO: EYTTENEIA E NOYE
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stata qui vista all’opera nella dimensione dell’òp@6tng del nome, lungo la quale i molti nomi, alcuni più adeguati, altri meno, sono ricondotti all’unico nome in sé. Allo stesso modo
anche le diverse, gerarchizzate pratiche conoscitive che non risultano efficaci come quella suprema e perfetta forma di sapere, cui sono ordinate, sono probabilmente comunque riconosciute da Platone come occorrenze del “sapere”, anche se lo realizzano sotto forma di versioni carenti, copie inadeguate?.
interpretativo è qui condiviso, ci si distanzia da esso nel merito, in particolare per quel che concerne l’opposizione fra sapere proposizionale e non, che nella lettura di Wieland assume un ruolo paradigmatico. Ciò comporta, per esempio, che il sapere tecnico, in virtù del suo carattere non proposizionale, cada sullo stesso versante del sapere noetico. A mio parere, il discrimine fondamentale nel pensiero platonico tende a separare il sapere basato sulla nozione diretta dell’oggetto dalle altre forme di sapere: in ragione di ciò, le téyvar cadono sul versante opposto del sapere noetico, poiché si imperniano su procedure le quali mirano allo 6roiov piuttosto che allo éti, o hanno nozione parziale dell’oggetto,
considerato solo in vista di un determinato scopo. Come si vedrà, l’elemento interpretativo dal quale si origina la differenza fra la lettura qui proposta e quella di Wieland è il ruolo fondamentale attribuito all’intenzionalità come carattere determinante della concezione platonica del conoscere: esso implica che la conoscenza sia sempre rivolta a oggetti, nel senso forte platonico di “cose che sono”, laddove lo studioso tedesco, conferendo un privilegio alla dimensione del soggetto conoscente, mette in maggiore risalto la nozione di sapere d’uso, orientata più che all'oggetto alle pratiche e agli effetti della loro manipolazione (ovviamente non solo fisica). » In resp. 477 c-D, nel bel mezzo dell’argomentazione volta a distinguere scienza, opinione e ignoranza, Platone sente il bisogno di soffermarsi sulla definizione delle “facoltà” (®ioopev Svvapers krA., «Definiremo facoltà...», 477 c 1), nel cui genere fa rientrare tanto le sensazioni, quanto la $éta e l’èmiothun. E questo un chiaro segno della possibilità di accomunare per certi versi quelle che noi oggi chiamiamo facoltà conoscitive (anche se non a tutte Platone riconoscerebbe il rango di “conoscitive”): le accomuna, giusta quella definizione, il fatto di riferirsi a un qualcosa (£9’@) e di produrre un certo risultato (ò arepyà-
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PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
Per trovare un’attestazione di una tale nozione generale di sapere, ci si può riferire alle pagine del Fedone dedicate alla teoria della reminiscenza‘, nelle quali più volte forme conoscitive imperfette, quali la sensazione e l’associazione psicologica su semplice base empirica, sono paragonate alla conoscenza della realtà in sé e spiegate come occorrenze di uno stesso meccanismo conoscitivo. Un'altra esemplificazione è costituita nel Teeteto dallo stesso sviluppo dell’argomentazione in esso condotta: da un lato, infatti, essa mira alla ricerca dello 611 corretto della conoscenza (grrotmun), alla quale
si provvede con il tipico procedimento esclusivo; dall’altro, non recide del tutto il rapporto fra le forme inferiori (e scartate) di conoscenza e l’érotpn in sé di cui si va in cerca. Nel portare a termine la confutazione della prima proposta di Teeteto, che la conoscenza sia sensazione, Socrate comunque afferma che l’émomun
viene sollecitata dalle sensazioni’.
{etar), o, in altri termini, il fatto di stabilire una qualche relazione fra noi e qualcos'altro. Ciò aiuta a dire che le varie facoltà sono all’origine di diverse forme di sapere, dalle cui specificità è lecito fare astrazione per ricavare qualcosa come i requisiti minimi e generali del sapere. 4 Cfr. Phaed. 73 A-77 A. 3 Cfr. Theaet. 186 D 2-3: «in queste affezioni non c’è conoscenza, bensì nel ragionare che si fa intorzo a esse». Si vuol qui solamente sostenere che alla presenza di dati percettivi nella mente Platone riconosce un qualche ruolo (sia pur quello minimo e strumentale di spunto involontario) nel processo conoscitivo, nel senso indicato dalla distinzione
con la quale nel Teeteto si imposta la presentazione della cosiddetta teoria dei kowd: se è vero che non vediamo “con gli occhi”, è anche vero che vediamo per lo meno “mediante gli occhi” (Theaet. 184 8 8-c 9). La precisazione dell'eventuale portata cognitiva della sensazione in quanto tale richiederebbe, invece, un’analisi approfondita di queste pagine del Teeteto, sulle quali i pareri non sono concordi (sostenitore di un'autonomia conoscitiva, sia pur limitata, della sensazione è, per esempio, M.F. BurnvEAaT, The ‘Theaetetus' of Plato, translated by M.J. Levett, rev. by M.F. Burnyeat, Cambridge 1990, pp. 61-5, tesi contrastata, per es., da A.M. Ioppoto, Introduzione a Platone. Teeteto, cit., pp. xLvXLVI, e note 134, 140, 141).
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Allo stesso modo, l'esempio dei giudici e del testimone oculare‘, che costituisce la stoccata finale al nuovo tentativo di
definire la conoscenza come opinione vera, non nega a essa un suo valore conoscitivo o, meglio, una qualche relazione di
possibile congruenza con la conoscenza, come già si è visto accadere nel Merone; infatti i giudici, che non hanno assistito al compimento del reato si comportano ugualmente in modo giusto (èixai®g, 201 B 7) quando, pur continuando inevitabilmente a opinare, si lasciano persuadere dal testimone piuttosto che da un abile avvocato, vale a dire quando cercano di garantire la loro opinione legandola a una conoscenza in senso forte”. Non si dimentichi, infine, che la ricerca condotta nel dialogo era stata indicata, in 148 p 4-7, come riconduzione 44
unum di molte èmotfpar. Si potrebbero produrre ulteriori indicazioni, ma quel che qui preme sottolineare è che la conoscenza nel pensiero platonico si configura come un insieme di forme del sapere, gerarchizzate in base a un principio di valore. Ciò vuol dire che la conoscenza in sé, vertice di questo sistema assiologico, presenta alcune caratteristiche che sono proprie anche delle altre forme di sapere, pur se espresse in queste ultime con minor perfezione. In altri termini, è possibile individuare un corredo di caratteri comuni a tutte le forme di conoscenza, perché
$ Cfr. Theaet. 201 Bc. ? Anche questo passo del Teeteto presenterebbe, a un’analisi più dettagliata che non è qui possibile condurre, elementi di grande interesse, se non altro per la sottolineatura dell'importanza di una conoscenza diretta, come quella del testimone oculare (cfr. M.F. BURNYEAT,
Socrates and the Jury: Paradoxes in Plato’s Distinction between Knowledge and True Belief, «Proceedings of the Aristotelian Society», Suppl. vol. LIV (1980) pp. 177-91). Non credo, comunque, che l'esempio della giuria vada letto in modo letterale (come già quello della strada di Larissa nel Menone), come se implicasse una sorta di riconoscimento della funzione conoscitiva della sensazione
(come ritiene invece J. McDoweELL
Plato. Theaetetus, Oxford 1973, pp. 227-8).
(ed.),
PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
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definisce il fenomeno conoscitivo in quanto tale ed è pertanto presente al massimo grado e in modo esclusivo nella conoscenza vera e propria, ma è proprio anche dei saperi meno efficaci a livelli inferiori di perfezione, confuso e mescolato con altri caratteri, che ne diminuiscono la nettezza e preci-
sione. Fra tali tratti comuni, di particolare rilievo mi sembra essere l’intenzionalità.
1.1 L’intenzionalità
Alla fine del libro v della Repubblica Platone disegna la cornice concettuale all’interno della quale si muoveranno le argomentazioni dei due libri successivi. Le affermazioni contenute in quelle pagine hanno la semplicità, la nettezza e la generalità delle tesi paradigmatiche. Nel momento in cui viene affrontata la questione della distinzione di fondo tra opinione e scienza, Platone sceglie la seguente impostazione, che sul piano drammatico non costituisce l’avvio della questione, ma ne è il punto di partenza logico, quello dal quale occorrerebbe ricominciare se l’interlocutore non fosse disposto ad accogliere idee diverse dalla sua?: «Chi conosce, conosce qualcosa (ti) o niente?»?.
Dopo questa domanda, già per sé significativa, lo scambio con Glaucone continua così: «- Risponderò, disse, che conosce qualcosa. — Una cosa che è o una che non è? - Che è: come potrebbe conoscerne una che non è? - Ecco dunque un punto bene acquisito, anche se più
volte ripetessimo il nostro esame: ciò che è in maniera perfetta * Cfr. resp. 476 D 8-E 8. ? Resp. 476 E 7: 6 YIYv®OK@V yiyv@OKEI TÌ î) oddév;
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è perfettamente conoscibile, ma ciò che assolutamente non è è
completamente inconoscibile»'°.
Che il passaggio sia cruciale è sottolineato da Platone stesso in queste ultime parole, con le quali quanto detto è rimarcato come risultato definitivamente acquisito. In realtà, a ben guardare, le acquisizioni sono due: è chiaro che l’argomentazione deve concludersi con l’assicurazione del legame fra scienza e ciò che è, ma ciò avviene attraverso un altro
elemento sul quale Socrate chiede il consenso dell’interlocutore. Quest’altro elemento è il ti, il qualcosa. Ancor prima di sapere che l’étuotnun è riferita all'ente, anzi per pervenire a tale consapevolezza, si deve riconoscere che ‘conoscere’ è sempre “conoscere qualcosa”. È per il fatto che l’atto conoscitivo, per darsi come tale, si compie su qualcosa, che si può poi dare spessore ontologico a quel qualcosa, ed essere costretti a dire che si tratta di un ente. L’essere rivolto, intenzionato a un qualche altro oggetto, a prescindere dalla precisazione della sua natura, è, a quanto sembra, un carattere proprio del conoscere in quanto tale: la conoscenza, l’atto del conoscere, non sembra inteso come l’attività (percettiva, intuitiva, elaborativa, e quant'altro) di un soggetto conoscente,
che, solo in quanto è già di per sé conoscente, si rivolge agli oggetti; essa è invece intesa come relazione intenzionale, che non ha senso e non sussiste se non completandosi in un qualcosa, a cui è strutturalmente orientata”. Nell’un caso, che
‘° Resp. 476 E 9-477 A 4: ’Arokpivodpat, En, STI YIYVOOKEL ti. Ilétepov dv f) oùk dv; "Ov rog yùp dv pù Gv YÉ 1 yvoodein; Tkavòg oùv toto Eyopev, xv si rAgovayî] okomoîuev, STI TÒ pev ravied@e dv TAVTEA.DG yvaotov, un dv dè undapî tavt] dyvaotov.
‘ È precisamente a questo dato strutturale che si è voluto richiamare l’attenzione con l’impiego del termine “intenzionalità”, che traduce il latino intentionalitas proprio del lessico filosofico medievale; l’accezione che tale termine assume nella fenomenologia contemporanea comporta un riferimento a una nozione di coscienza, che non si attaglia,
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PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
corrisponde a una sensibilità moderna in fatto di conoscenza, l’accento cade sul soggetto; nell’altro, sicuramente arcaico, ma - ritengo - ancora platonico, l’accento cade sull’altro polo della relazione dinamica, inteso come il luogo in cui ha termine un movimento da-a”.
ovviamente, all’orizzonte di pensiero di Platone. Cfr. E.A. HAvELOCK, Cultura orale e civiltà della scrittura, cit., pp. 175-6 e 187, il quale, com'è noto, descriveilpassaggio dall’oralità alla scrittura come un processo di progressiva consapevole differenziazione fra i domini del soggetto conoscente e dell’oggetto conosciuto, sempre tenendo fermo, però, che il carattere specifico della conoscenza rimane per i Greci il suo essere orientata alla natura, all'ambiente esterno, ai “fatti”, poiché quel che
si rinnova è la sintassi della loro decodificazione. 2 Non si tratta di una differenza di poco conto. Tra le sue implicazioni, che si vedranno meglio più avanti, è possibile qui anticiparne una relativa alla già discussa nozione di è6ta: riconoscendole, infatti, il carattere di intenzionalità, intrinseco per Platone a ogni atto conoscitivo, cade, per esempio, la questione della sua presunta ambiguità di significato, che oscillerebbe fra quello di “rappresentazione” e quello di “giudizio”. La questione e il dibattito relativi a questo aspetto sono stati illustrati da Y. LAFRANCE, La théorie platonicienne de la doxa, cit., pp. 125-7, e Méthode et exégèse en histoire de la philosophie, MontréalParis 1983, pp. 60-5, il quale - a mio parere, giustamente - rileva che nella Repubblica il termine ha entrambe le accezioni, ma vede in ciò — a mio parere, ingiustamente - un’ambiguità da cui discenderebbe la difficoltà platonica di spiegare la natura del giudizio falso, difficoltà risolta solo nel Sofista con la prevalenza dell’accezione di “giudizio”. Il problema deriverebbe dal fatto che della natura rappresentazionale della déba (in questo assimilabile all’esperienza percettiva) non si può predicare la verità o la falsità, mentre ciò diviene possibile solo quando se ne sia separato e considerato primario il carattere proposizionale di giudizio. Credo, invece, che dalla prospettiva dell’intenzionalità l'ambiguità non sussista, nel senso che non c’è bisogno di distinguere quelle che a noi appaiono due diverse componenti semantiche: sia la rappresentazione sia l'opinione giudicante sono sempre “di qualcosa”, e non sono mai (neanche nel Sofista, cfr. 263 E e 264 C) pure e semplici operazioni mentali del soggetto. Il nesso fra conoscente e conosciuto (e nel caso specifico, fra opinante e opinato) è inscindibile. Il problema per Platone non è la distinzione fra rappresentazione e giudizio, ma lo statuto ontologico
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Nelle battute successive questo orientamento del movimento è indicato dalla preposizione èri seguita dal dativo: «Ora la conoscenza (yvòotg) non si riferisce a ciò che è (èrì t® Ovti Mv)?» (477 A 9). Così si giunge all’indicazione della vera natura della conoscenza: «Dunque la scienza (èruotipn) è per natura riferita a ciò che »
>
,
x
.
.
*x
è, ossia è un conoscere (yv@var) come è ciò che è».
Questa definizione non contiene nulla di sorprendente, se
da assegnare all’opinato: la soluzione del Sofista nasce dalla capacità acquisita mediante il nuovo strumento concettuale del “diverso” di riconoscere un tale statuto all’esito fallace dei saperi procedurali, nasce cioè da un arricchimento dello strumentario ontologico e non già da un’avvenuta distinzione di carattere epistemologico. Che all'opinione fosse intrinseca la possibilità di essere vera o falsa, e che ciò le derivasse dalla sua proceduralità, era chiaro a Platone fin dal Merone (e cosa del tutto analoga vale per il Cratilo in relazione al “discorso”, anch’esso passibile di verità o falsità): per il suo carattere procedurale la $6Éa si propone come attivo operatore di processi (ri-)costruttivi dell'oggetto e per ciò, dal punto di vista di Platone, rischia comunque di fallire il bersaglio cui è pur sempre orientata. Non c’è discontinuità, dunque, fra Menone e Sofista quanto alla concezione della S6ta: nel Sofista Platone ha trovato un “luogo” ontologico positivo a quello che prima era soltanto un petatò o anche un semplice bersaglio mancato, vale a dire un qualcosa che per la sua denominazione in negativo restava esposto alla confusione con il nulla. Sulle difficoltà inerenti alla traduzione della nozione di $6ta nel Teeteto, cfr. M. Narcy, Doxazein: “opinare” o “giudicare”?, in G. CaserTANO (ed.), Il ‘Teeteto’ di Platone cit., pp. 7-23. Sulle modalità con cui Platone ha affrontato nel Sofista la questione del nulla in senso parmenideo si veda il contributo assai originale e penetrante di G. SiuITTI, Parmenide e Platone sull'aporia del nulla, in M. HerLInc-M. ReALE (edd.), Storia, Filosofia e Letteratura, Studi in onore di Gennaro Sasso, Napoli 1999, pp. 45-59. > Resp. 477 B 10-11: Oùkodv Eriotium pèv Erì tO Ovri Tépuxe, yvòvar ©g goti tò dv. Si noti il répvxe, che riporta a quella dimensione di naturalità, in questo caso della conoscenza, già riscontrata a proposito dei nomi: non ci si può soffermare ora su tale aspetto, che sarà comunque considerato più avanti.
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180
letta alla luce dei precedenti dialoghi platonici, le cui argomentazioni essa riassume nel modo sintetico e astratto di una formula. Si era visto come nel Mezoze lo $t1 corretto, che solo
la scienza rende possibile, abbia per oggetto l’oòcia, ossia l’esser-x. Dall’attuale angolazione di analisi, comunque, la frase citata conferma che la conoscenza,
nella sua massima
espressione, è per la sua stessa natura orientata verso ciò che è, del quale ha il compito di conoscere lo stato, la condizione (0g Eye). Tale intenzionalità dell’&riotmun trova espressione nella precedente affermazione di Socrate: «Quindi, a una cosa è ordinata (tétakta1) l'opinione e a un’al-
tra la scienza: ciascuna secondo la facoltà sua propria». Da queste parole si constata che anche la 866a, processo sicuramente inferiore all’éimiomun, condivide con essa il
tratto dell’intenzionalità, pur se diverso è il termine del movimento intenzionale”. L’una e l’altra sono ordinate a qualcosa. È a partire da questo aspetto che Platone si accinge a portare la sua argomentazione a un livello di maggiore generalità con l’introduzione della nozione di Sùvapig (‘“facoltà”). Il suo intento è chiaramente individuare un terreno comune a scienza e opinione sul cui sfondo far poi risaltare la loro diversità: ciò ha luogo con la breve digressione a carattere definitorio di 477 c-D, ove le uvdperg sono presentate come «un genere delle cose che sono» (YÉvog ti TOv Sviov, 477 c 1). La specificità di questi enti è che, diversamente da altre cose che sono, le quali risultano definibili mediante la messa a fuoco di una qualche caratteristica loro propria', le facoltà
“ Resp. 477 B 7-8:
’En’'dMo dpa tétaxtar Séga kai Er dido
ELIOT UN, Kata tiv Sovapiv ÉKatépa tùv adrijc. ” Si veda anche l’ancor più esplicito passo in resp. 478 B 6-10. ! Platone impiega al riguardo il verbo àroBAérew, che tipicamente
indica l’osservazione con gli occhi della mente delle realtà ideali.
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possono essere colte solo considerando qualcos'altro da esse, con cui esse sono strutturalmente in relazione. Le facoltà rientrano dunque nel novero ancor più generale degli “enti relativi”, ovvero delle cose che sono in quanto elemento di relazione. Nel loro peculiare modo di essere relazionali è inclusa precisamente la loro intenzionalità: infatti, - come ho già avuto modo di sottolineare - si caratterizzano, oltre che per ciò che producono, per ciò cui si riferiscono, e l’intenzio-
nalità altro non è che questa relazione dinamica con un preciso orientamento e una precisa terminazione. In ciò si esaurisce la natura delle Svvapers, come si evince anche dal fatto che
traggono la loro denominazione sulla base del rispettivo termine di riferimento ed effetto prodotto". Del resto, già in precedenza Platone si era soffermato sul carattere relazionale proprio delle facoltà dell'anima. In 437 B439 p egli aveva elaborato un’argomentazione volta a mostrare la possibile conflittualità e così giustificare la partizione dell'anima: aveva preso le mosse dall'esame del meccanismo soggiacente ai desideri, scegliendo come esempio la sete. Ebbene, il tratto caratteristico che viene evidenziato è, anche in questo caso, l’intenzionalità: la sete è sempre sete di qualcosa da bere!. Poco più avanti (438 c-E) ai desideri sono accostate
V Cfr. resp. 477 D 1-5: «Della facoltà guardo (AE) solo a ciò cui si riferisce e a ciò che produce, e in base a ciò ho denominato ciascuna di quelle facoltà: l’una, ordinata a un certo oggetto e capace di produrre un certo risultato, la chiamo in un certo modo; l’altra, ordinata a qualcos’altro e con altro risultato, la chiamo in altro modo».
18 Resp. 437 p 8-E 5: «Per esempio: la sete è sete di bevanda calda o fresca, o di molta o poca, o in una parola di una bevanda con una certa qualità? Oppure se alla sete si aggiunga un certo calore, si aggiungerà il desiderio del fresco, e se si aggiunga una certa frescura, quello del caldo? E se per la presenza della gran quantità la sete fosse molta, ci sarebbe il desiderio del molto, mentre se fosse poca, quello del poco? Ma potrà mai avvenire che in se stesso il fatto di sentire sete divenga desiderio di qualcos’altro che di ciò di cui è per natura (régukev) sete, e cioè di una bevanda in quanto tale?». In resp. 439 A questo concetto è ribadito
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le conoscenze (èriotfiuar), proprio in virtù del fatto che anch’esse sono sempre conoscenze di qualcosa”. Il procedimento dimostrativo è analogo a quello visto poc’anzi, ma a un livello di più alta generalità: come nel quadro della complessiva struttura dell’anima il comune meccanismo dell’intenzionalità costituisce lo sfondo su cui far emergere la diversità fra parte razionale e parte appetitiva, così all’interno della parte razionale dell’anima è possibile confrontare e differenziare éruotmun e 66 sul comune terreno dell’intenzionalità conoscitiva; con la differenza che, nel primo caso, l’i-
dentità del termine di riferimento di due processi intenzionali di qualità opposta implica che quei processi facciano capo a
in modo più secco, e dato come acquisito. Sulla relazionalità dei desideri, e per un accurato commento delle pagine platoniche dedicate all’analisi di tale fenomeno, cfr. S. CAMPESE, Epitbymia/epithymetikon, in M. VEGETTI (ed.), Platone. La Repubblica, m1, Napoli 1998, pp. 245-86, spec.
pp. 252-62. Con riferimento ai dialoghi più tardi, T.S. GANSON, Appetitive Desire in Later Plato, «History of Philosophy Quarterly», xviu (2001) pp. 227-37, fa notare come la descrizione dei desideri fornita in questi passi della Repubblica subisca nel Filebo (31 B-36 E) significative modificazioni (che, forse, apparirebbero meno accentuate se si tenesse adeguatamente conto di resp. 585 B 1-E 1, citato, infra, p. 241); ad ogni modo tali modificazioni vanno nel senso di un consolidamento del carattere intenzionale dei desideri, se è vero che nel dialogo più tardo Platone adotta «a more robustly teleological approach to the appetites than that we find in the Republic» (p. 232). ‘ Per il motivo dell’intenzionalità dei desideri, cfr. syzzp. 199 D 1200 B 2, che è il luogo ove si trova l'impostazione del discorso di Socrate su Amore, che - si noti — si avvia con una domanda del tutto simile a quella di resp. 476 E 7 (cit., supra, p. 176 e nota 9) sull’èriotàUn: «Amore è siffatto da essere amore di qualcosa o di nulla?» (syp. 199 D 1-2: notEpov ÉoTI toLodtog ci0g ivai tivog è "Epog Epag, î) oddevéc:). Inoltre è interessante notare che l’espressione tooùdtog viog givai tivog ricorre anche nei passi della Repubblica dedicati alla discussione degli enti relazionali (438 A 7-B 2; 438 D 12-£ 8, sui quali mi soffermerò tra breve), il che, da un lato, conferisce un rilievo tecnico alla concettualizzazione platonica della relazionalità e, dall’altro, conferma la legittimità dell’inclusione dei desideri nel novero di tali enti.
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parti diverse dell'anima”, mentre, nel secondo caso, la diversità degli effetti? di processi intenzionali dello stesso tipo
implica la loro diversità”. Altro dato interessante è che nel passo relativo ai desideri Platone illustra il meccanismo dell’intenzionalità mediante un riferimento, operato per via di generalizzazione, ad altri enti
® Cfr. resp. 439 B 3-6: «Ebbene, se, quando [l’anima] ha sete, c’è qualche altra cosa che la tira in senso opposto, non ci sarà in lei un elemento diverso da quello che ha sete e che, come una bestia, la spinge a bere? Perché, come s'è detto, la stessa cosa non può compiere nel
medesimo tempo azioni opposte con la stessa sua parte e rispetto all’identico oggetto». Il riferimento è a resp. 477 E 4-7, ove Socrate e Glaucone convengono sulla differenza fondamentale fra opinione e scienza: «- Del resto poco fa convenivi che scienza e opinione non sono la stessa cosa. Certo, rispose, come potrebbe mai chi ha senno porre come identico l’infallibile con ciò che non lo è?». E sulla base dell’inconfondibilità dell’infallibile émrotipun con la fallibile è6ta che Socrate concluderà per la diversità dei rispettivi termini di riferimento. ® Questo gioco apparentemente intricato di identità e differenze rimonta ovviamente alla concezione platonica dell’anima come realtà complessa e composita: infatti, nel primo caso sono prese in considerazione attitudini dell'anima diverse fra loro, che possono pertanto sovrapporsi e intrecciarsi, laddove nel secondo caso sono a confronto diverse espressioni di una stessa attitudine dell’anima, che possono darsi solo in modo alternativo. Quanto viene qui affermato si ispira alla linea interpretativa che vede nella partizione dell’anima una distinzione fra fattori motivazionali dell’anima, piuttosto che una contrapposizione fra una componente razionale inerte e non desiderante, e le componenti irrazionali appetitive (cfr. R.C. Cross-A.D. WoozLey, Plato's ‘Republic’: A Philosophical Commentary, London 1964, pp. 118-28; J. ANNAS, An Introduction to Plato’s ‘Republic’, cit., pp. 124-5; J.M. Cooper, Plato°’s Theory of Human Motivation, «History of Philosophy Quarterly», 1
(1984) pp. 3-21; S. CAMPESE, Epithymia/epithymetikon, cit., pp. 254 e 265-6; M. VEGETTI, Introduzione al libro rv, in M. VecETTI (ed.), Platone. La Repubblica, n, cit., pp. 11-45, spec. pp. 37-40). Sull’intenzionalità propria della parte razionale, da non intendersi quindi come meramente strumentale, si sofferma M. VecETTI, Sophia/logistikon, in op. cit., pp. 177-86, spec. pp. 183-5.
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relazionali. Ascoltato l’esempio della sete, infatti, Glaucone conclude: «È così, rispose; ciascun desiderio, in sé, è desiderio solamente di quella cosa di cui esso è per natura (régpvxev) desi-
derio; i desideri di qualcosa con questa o quell’altra qualità dipendono da ciò che si aggiunge». E poco dopo Socrate allarga il raggio di questa conclusione: «Ma, feci io, tutte le cose che sono in relazione con un oggetto, se presentano una determinata qualità (tà rorà atta),
sono in relazione, a mio parere, con un oggetto che ha quella qualità; ma ciascuna per se stessa (tà aùtà), è in relazione
solamente con il suo singolo oggetto in sé»”.
Per rimediare alla mancata comprensione da parte del suo
% Resp. 437 E 7-8: Oiitac, Épn, adi ye 7 Emdvpia gKdotn adtod povov EKdoTOv Od TEQPLKEV, tod dè Toiov fj Toiov TÀ Tpooyiyvopeva. “ Resp. 438 A 7-B 2: ’A\à pevtor, fiv è éYO, da Y'Éotìi toradta cia givai tov, TÀ pèv rod dtTta ToLoò tivog Éotiv, ®g guoì dokei, tà
3’ adtà Ekxaota adtod éKdotov povov. Nel contesto dell’argomentazione che Socrate sta conducendo è rilevante la contrapposizione, sottolineata in questo passo, fra l'oggetto considerato per se stesso e le sue qualità: l’intento è, infatti, come già detto, individuare uno stesso oggetto, semplice e identico, che possa attrarre il desiderio e respingere la ragione, per giustificare la concorrenza di due parti diverse dell’anima (si può notare, di passaggio, che quella contrapposizione fra aùtò x e towòv x è tratta esattamente secondo le modalità già viste in precedenza, soprattutto nel capitolo primo, quando si sottolineava che un oggetto è concepito da Platone come uno $Xov articolato, e che il rapporto fra l’intero e le sue articolazioni, 0, se si vuole, fra il tutto e le parti, è da intendersi in termini di rapporto 6ti-Oroîov, oppure ovcia-rà00g). Al momento, però, non è su questa contrapposizione che si vuole richiamare l’attenzione: si vuole invece far notare come, tanto al livello della oòcia quanto a quello dei rd0n, Platone riscontri una relazione strutturale (dimensione del regvxéva1) fra l’anima e l'oggetto della sua attività.
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interlocutore, Socrate fa gli esempi di alcune coppie di relativi, quali maggiore-minore, più-meno, pesante-leggero, e altri. Poi passa alla seguente affermazione: «E per le scienze non è lo stesso? La scienza in sé è scienza della nozione (ua@mpatoc) in sé o comunque di ciò, quale che sia, che dev’esser posto come oggetto della scienza; ma una scienza particolare e determinata è scienza di un oggetto determinato e particolare»?. È chiaro che c'è una differenza fra la relazionalità propria di quei termini relativi (grande-piccolo, leggero-pesante, o anche caldo-freddo) e quella propria dei desideri o delle attitudini conoscitive: la prima è una relazione simmetrica fra termini dello stesso tipo (dimensione, peso, temperatura), mentre la seconda è asimmetrica (la bevanda non desidera la sete) e ha
luogo fra termini non equivalenti. Per quanto riguarda le attitudini conoscitive si è già visto come Platone, nel passo 477 c-D, precisi quali siano le caratteristiche specifiche della loro relazionalità, individuandole nell’intenzionalità e nella produzione di un determinato effetto. Ma, pur essendoci questa diversità specifica, è altrettanto chiaro dal confronto fra i due luoghi della Repubblica, che tutte le specie menzionate (i relativi come i desideri e le conoscenze, o come le facoltà) rientrano nello stesso genere, quello delle cose che sono in quanto sono in relazione ad altro. Sembra quindi plausibile disegnare la seguente architettura concettuale: nel genere degli enti relazionali sarebbero compresi (almeno) i relativi e le attitudini dell’anima; gli uni e le altre in
qualche modo “sono di qualcosa” (anche il maggiore lo è de/
3 Resp. 438 c 6-p 1: Ti dè tà rmepì tdg gmommpag; odg ò abtòg tpòrog; èriomtiun pèv ad padfuatog adtoò eriotmpn gotiv f) dtov òù dei dsivar tiv Emiotipnv, émomtmun dé tIG Kai mora TIG TOLOÙ TIVOG Kai TIvòg. % Cfr. resp. 438 D 12-E 8, riportato qui sotto alla nota 29.
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minore), ma la maniera di esserlo propria delle attitudini dell’anima è l’intenzionalità. L’anima è realtà complessa: le sue diverse articolazioni condividono comunque il carattere dell’intenzionalità. Esso è quindi proprio anche di quelle sue specifiche attitudini che sono le forme del conoscere”.
1.2 Il verso dell’intenzionalità
Si è già visto prima come, nell’ambito del passo dedicato alla partizione dell'anima, Platone operi un riferimento agli enti relazionali in generale. Questa parte dell’argomentazione
si apre con il brano su riportato” e si chiude con la ripetizione della tesi Îì esposta, riformulata ora in modo più dispiegato: «tutte le cose che sono in relazione con un oggetto, in sé da sole sono in relazione con quelle sole cose in sé, ma, se in relazione con cose di determinate qualità, saranno anch'esse dotate di certe qualità. E non dico che siano tali quali sono le cose con cui si trovano in relazione; non dico, per esempio, che la scienza delle cose sane e malate è sana e malata, e quella delle cattive e buone è cattiva e buona; ma poiché essa è sorta come scienza non di ciò stesso con cui è in relazione la scienza,
ma di qualcosa con una certa qualità, ossia del sano e del malato, ecco che le è accaduto di divenire qualcosa di una determinata qualità; ciò fece sì che non fosse più chiamata semplicemente scienza, ma, per l'aggiunta di una certa qualità, scienza medica»”.
? Le forme del conoscere sono tratteggiate con i caratteri dell’intenzionalità anche in dialoghi precedenti (cfr., per esempio, Charmz. 171 A 3-6) o successivi (cfr., per esempio, Theaet. 152 c 5-6; 186 A 4) alla
Repubblica. ® Cfr., supra, p. 184 e nota 24. ? Resp. 438 D 12-E 8: Soa éotiv via sivai tov, aùtà pèv pova aùtév povov EOTIV, TOV SÈ TOLDV TIVOV Torà ditta. kai 06 ti Xéyo, de, 0imv dv
î, toLudTa Kai Eotiv, dg ipa kai tòv dyievòv kai vocodov f) motiUn DyiELVÒ Kai vooc@dng kai tov Kaxòv kai tov dya@òv xaxî xai dya@t:
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La più perfetta forma del conoscere, l’èrioti]un, presenta dunque la struttura propria degli enti relazionali, tanto che, pur non essendo oggetto dell’argomentazione in corso, è prescelta quale esempio tipico. Ma c’è di più: nella parte finale del brano citato, proprio nel momento in cui si sottolinea l’alterità fra la scienza e il suo oggetto (la scienza del malato non è per questo malata), si afferma la corrispondenza fra le determinazioni dell’oggetto e il determinarsi della scienza specifica che lo studia: tale corrispondenza non è però biunivoca (com'è logico, d’altronde, aspettarsi data la già rilevata asimmetria), poiché è in ragione delle qualità del suo oggetto che
anche la scienza viene ad acquisire una determinata qualità”. Ancora una volta questa consequenzialità è sottolineata da Platone mediante il riferimento alla denominazione, che, come sappiamo dal Crati/o, segue e non certo precede la configurazione naturale della cosa: nell’esempio platonico, è l’aver per oggetto il sano e il malato che, conferendo alla scienza una natura particolare, giustifica la denominazione particolare di scienza medica. È vero che in questo esempio tale meccanismo di priorità
dell’oggetto rispetto alla scienza viene evidenziato al livello del roîov: ciò accade perché risulta funzionale all’argomentazione che Socrate sta conducendo”; ma credo che lo si possa facilmente estendere anche al livello dello 6t1, ossia della co-
noscenza in quanto tale, se solo si considera quanto Socrate aveva detto nello stesso contesto argomentativo a proposito
dA ErELST odk adtod obrEp Emotmun gotiv éyÉvero griotmpm, dAdù mood tIvog, TodTO 3’ fiv dyiervòv kai voobdec, torà dn tIS ovvEBN Kai
abtù Yevéodai, kai toÙTO aÙTàV EToINOEV pmkéti Emotipnv amis aieîodar, dAXà TOÙ TOLOÙ TIVOG TPOCYEVOPEVOV IATpuxnv.
» È significativa l’espressione morà dî tIG CUvEBN Kai adti Yevéo9a, che ho tradotto «le è accaduto di divenire qualcosa di una determinata qualità»: il determinarsi della scienza come scienza particolare è un processo derivato, e non originario. 3 Cfr., supra, nota 24.
PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
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della sete e della fame (sottolineando come considerate per se stesse siano desideri di bevande e alimenti in quanto tali”), e
lo si confronta con l’affermazione, su riportata”, secondo cui oggetto dell’&riotAUN per se stessa è il pGOnpa in quanto tale. Visto questo parallelismo, credo sia perfettamente platonico dire che se l’oggetto cui l’anima è protesa è una bevanda, allora il moto dell'anima corrispondente è la sete, se è un alimento, allora è la fame, e se un pd@npa, l’eriomyn. Si è voluto così richiamare l’attenzione sul carattere del movimento intenzionale del conoscere.
Esso sembra avere,
per così dire, oltre che una direzione anche un verso, che non è quello che va dal soggetto all’oggetto: al contrario, il conoscere qualcosa (in quanto tale o determinato qualitativamente) si costituisce e si giustifica a partire dal qualcosa (ancora una volta, in quanto tale o determinato qualitativamente) di cui è conoscenza. Molto eloquente in tal senso è l’avvio del libro vi. Socrate e Glaucone, forti della distinzione fra filosofi e non filosofi messa a punto alla fine del libro precedente, si apprestano a indagare più da presso la natura del filosofo per disporre di un criterio di selezione degli individui più adatti a svolgere il ruolo di guardiani ed eventualmente reggitori. Socrate imposta l’analisi con la domanda, ironica e retorica, se un compito di sorveglianza vada affidato a un guardiano cieco o a uno di vista acuta, cui segue un’altrettanto retorica, ma più impegnativa interrogazione:
«Ti sembra dunque che ci sia qualche differenza tra i ciechi e coloro che sono realmente sprovvisti della conoscenza di ciascuna cosa che è, che non possiedono nell’anima loro alcun luminoso modello (evapyùg Tmapaderyua) e non riescono, .
9
x
Li
come i pittori, a guardare la somma
°
verità, a riportarvisi
? Cfr. resp. 437 D 8-E 8, citato, supra, note 18 e 23.
» Cfr. resp. 438 c 6-D 1, citato, supra, nota 25.
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189
(avapépovtec) sempre, a contemplarla più esattamente pos-
sibile?»*.
Può sembrare che questo passo non dica molto sul verso dell’intenzionalità. In effetti esso ripropone una descrizione della conoscenza delle realtà ideali presente in molti altri luoghi platonici, con tanto di paragone con la téyvn. Certo, si potrebbe insistere sul valore dell’aggettivo èvapyng, che pare accreditare quale motore del fenomeno conoscitivo l’oggetto
piuttosto che il soggetto; si potrebbe sottilizzare sul verbo avapéper, che, nel ricalcare con la preposizione àva un campo semantico già incontrato nel Merone”,
suggerisce qualcosa
come un movimento di ritorno del soggetto conoscente verso il conoscibile, nuovamente inteso come origine; si potrebbe dire che, se Platone credesse che l’intenzionalità del conoscere
fosse promossa dal soggetto verso l’oggetto, non avrebbe posto come premessa la presenza nell’anima di un paradigma, ma si sarebbe limitato a sottolinearne l’azione del guardare e la capacità di pervenire all’oggetto. È vero, però, che si tratta solo di deboli segnali, aperti ad altre opzioni interpretative. Questo solo passo non è sufficiente a convalidare un tale approccio di lettura, ma seguendo lo svolgimento del dialogo, esso appare man mano più legittimo, e forse anche calzante. Svelando gradualmente il senso dell'immagine del cieco, Socrate avvia un’indagine intorno alle capacità di cui dev’essere provvista una natura filosofica, della quale fornisce inizialmente una sorta di definizione:
«Possiamo dunque convenire così a proposito delle nature filosofiche: esse amano sempre una cognizione (uG0npa) che mostri ($nA.0î) loro quella essenza sempre essente e non flut-
tuante a causa della generazione e della corruzione»”.
» Resp. 484 c 6-D 1. » Cfr., supra, p. 67 nota 21. » Resp. 485 A 10-B 3.
PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
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Qui è più chiaramente espressa la modalità della relazione conoscitiva: è il paOnpa, che - come s’è appena visto - è l'oggetto in quanto tale dell’ètiotnun, ad agire sulla natura filosofica, la quale di conseguenza ne risulta attratta. Md&0npa è infatti il soggetto del verbo ènA0$v, che, come nel caso della $hA0o1g linguistica, comporta un mostrarsi dell’essenza al soggetto, e non una conquista dell'essenza da parte del soggetto. Il motivo del ènA0îv, inoltre, ben si associa a quello dell’èvapyera del passo precedente, poiché in entrambi i casi è . la “luminosità” che promana dal rapàderypa o dal pa@npa a consentire l’apprensione conoscitiva. Ma il ruolo trainante e attivo dell’oggetto conoscitivo e quello, in un certo senso, passivo del soggetto emerge in modo ancor più palese in una successiva battuta del dialogo. Dopo un breve excursus, causato da un’interruzione di Adimanto, Socrate torna su quanto aveva detto: «Riprendiamo dunque la discussione, richiamando alla memoria quel punto in cui spiegavamo quali doti naturali siano necessarie a chi dovrà essere un uomo perfetto. Se rammenti, lo guidava in primo luogo la verità, che quello doveva seguire in tutto e per tutto, altrimenti sarebbe stato un impostore e non avrebbe partecipato in nessun modo alla vera filosofia»?”. La natura filosofica è quella che si lascia guidare dalla verità”, che è dunque punto d’avvio e di ritorno del conoscere nel suo grado più elevato. In questo senso si diceva prima che l’intenzionalità dell’atto conoscitivo ha un verso, e che la sua origine è nell’oggetto, cioè nell’essenza e nella verità, per usare i termini dei passi citati. Del resto, in tutta l’indagine intorno alle qualità
” Resp. 489 E 3-490 A 3.
#* Il ruolo attivo di guida da parte della dANBe1a è ribadito da Platone poco più avanti, in resp. 490 c 2.
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della natura filosofica, che segue quella descrizione quasi definitoria prima riportata, si ripropone la stessa dinamica”: il filo conduttore di questa ricerca è l'accertamento delle qualità dell’oggetto del sapere filosofico, su/la cui base prende forma la natura filosofica. Questa è sincera sol perché l'oggetto del sapere non può che essere il vero, non ha bassezza o piccineria perché grande è l’orizzonte del tempo e dell’essere che essa è chiamata a contemplare, è misurata perché della verità è propria la misura. Insomma, non sono le qualità del soggetto conoscente a conferire determinati caratteri al prodotto della sua attività, ma viceversa. Quando, poi, Socrate avrà concluso l’individuazione delle
qualità dell’anima filosofica e tornerà alla considerazione della sua natura e della sua relazione con ciò che è, la esprimerà in questi termini:
«Ebbene? Ti sembra che le singole qualità da noi via via esposte siano non necessarie né conseguenti l’una all’altra, per un’anima che deve pienamente e perfettamente partecipare di ciò che è?»*.
L’anima di chi conosce, che — come si è visto — ha dentro di sé i luminosi modelli delle cose che sono, ha qualità per le quali è congenere (ovyyevns‘) alla verità, poiché è chiamata a partecipare a ciò che è: a parte le altre pesanti implicazioni che la nozione di partecipazione potrebbe avere, è chiaro che essa qui comporta il riconoscimento di una sorta di dipendenza dell’a-
nima dall’essere, che invece costituisce come il perno, il punto di riferimento e d’attrazione dell'anima nel suo moto conoscitivo‘.
# Cfr. resp. 485 c-487 A. © Resp. 486 E 1-3: Ti oùv; um my Soxodpév vor odg dvaycaîa Exacta SieAnAvdévar kai érbueva GANNA0IG TI peddovon toù Svtog ikxav@®g te kai teRéog yuri petaAmyeodar; 4 Sulla syugeneia ci si soffermerà, più avanti; cfr., infra, pp. 221-44. # Questa forte dipendenza dalla fattualità, nella quale si è qui
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PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
2. L'orizzonte ontologico della concezione platonica del conoscere Si può notare come nei diversi luoghi citati il carattere dell’intenzionalità non sia introdotto da Platone come un elemento di novità o come un tratto la cui appartenenza al conoscere fosse da dimostrare. Al contrario, esso è un dato scontato per Socrate e i suoi interlocutori, il punto di partenza
ravvisata l’asimmetria dell’intenzionalità, e quindi il suo verso, si giustifica nella Repubblica in ragione dell’intento fondazionale che Platone persegue in questo dialogo: del conoscere egli cerca, in linea con quanto già visto nel Merone e nel Cratilo, un ancoraggio ultimo, una sorta di motore immobile che spieghi il movimento della 36vapig conoscitiva (e quando, in 508 p-509 B, si parla al passivo di un ‘essere conosciuto” dello 6v, ciò avviene comunque sotto l’egida dell’idea del bene, che gioca chiaramente il ruolo di motore). Vale però la pena di precisare che tale prospettiva sarà modificata nei dialoghi tardi, dove Platone, forte della avvenuta differenziazione dei presunti oggetti dell’esperienza dai veri e propri 6vta, potrà da questi ripartire e rendere “mobile” lo stesso an-
coraggio. È quanto avviene nel Sofista, già nelle pagine dedicate alla confutazione degli “amici delle forme” (248 A-249 D), ove Platone pre-
senta la dinamica del conoscere in termini di attività dell’anima e passività dell’essere. Questo passo prepara la trattazione della kowovia di moto, quiete e év, ma soprattutto è preceduto dalla dichiarazione che lo ov è Sbvapig (247 E). Ciò muta, evidentemente, in modo radicale il quadro nel quale Platone colloca la S6vapig conoscitiva, poiché, con una accentuazione della cvyyÉvera fra anima conoscente e realtà conoscibile, la realtà stessa degli évta è pensata come capacità di relazione. Quella conoscitiva potrà allora essere intesa come una relazione paritaria, non asimmetrica, fra enti entrambi dinamici: non a caso il termine koivavia è introdotto nel Sofista proprio nel passo sopra citato (precisamente in 247 A 7) per descrivere il rapporto fra anima ed essere in contrapposizione al rapporto fra sensazione e divenire. Naturalmente ciò comporta, inoltre, che lo év, punto fermo e dato di fatto non bisognoso di ulteriore analisi nella Repubblica, sia fatto oggetto nel Sofista di una deliberata tematizzazione, di una esplicita ontologia. Su questi argomenti, cfr. M. IsvArRDI PARENTE, La vu Epistola platonica e il suo excursus filosofico, «Rendiconti della Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche dell’Accademia dei Lincei», serie rx, xt (2001) pp. 395-
408.
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ovvio e condiviso dal quale avviare semmai altre argomentazioni. Quello che si è voluto fin qui mostrare è precisamente questo: per Platone va da sé che conoscere sia conoscere qual-
cosa, e sembra non aver senso per lui porsi in astratto il problema del conoscere per sé preso”. Senza dubbio all’origine di ciò v'è un fattore di natura antropologico-culturale, che affonda le radici in una extrafilosofica mentalità greca, o probabilmente in una ancora più ampia mentalità mitica‘. Ma, ben al di qua di un tale allargamento di orizzonte — che pure sarebbe assai interessante e istruttivo compiere, ma che non è possibile effettuare in questa sede —, sussiste pur sempre il problema della messa a fuoco di quella particolare e sofisticata operazione che Platone ha voluto attuare su un tale dato culturale. Il suo sforzo, autenticamente filosofico, consiste infatti nel tentarne una concet-
tualizzazione, inserendolo in un sistema di significati capace non soltanto di descriverlo nella sua ovvietà, ma anche di
farne leggere un senso. È questo l’aspetto che viene qui tematizzato. Ciò vuol dire che la domanda che ci si pone non è “quali fattori hanno
© È un dato del tutto analogo a quello commentato nel corso del capitolo primo a proposito del verbo givai (cfr., supra, p. 29 nota 18), ricordando in particolare come C.H. Kahn, lì citato, nella sua analisi di tale verbo individui la componente dell’intentiona! being-so. * Oltre al già citato Havelock (cfr., supra, p. 32 nota 25), cfr. W.J. OnG, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna 1986, pp. 7580, eJ. Goonvy-I. WATT, The Consequences of Literacy, inJ. Goopy (ed.), Literacy in Traditional Societies, Cambridge 1968, pp. 27-84, in partico-
lare pp. 31-3, i quali sottolineano che in una cultura orale (o ancora permeata di oralità) la relazione fra le forme e i prodotti della conoscenza, da un lato, e la realtà naturale e sociale, dall'altro, è stretta al
punto che modificazioni intervenute nel dominio del reale determinano corrispondenti riaggiustamenti nelle modalità di descrizione di quella realtà, che non sono avvertiti come cambiamenti o correzioni, dal mo-
mento che i portatori di questo sapere si dichiarano convinti di restituire fedelmente la tradizione.
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indotto Platone a formulare una tale concezione della conoscenza?”, ma piuttosto “in che modo Platone ha giustificato questo che (probabilmente) per lui era un tratto caratteristico della conoscenza?”; la prima domanda nasce da un approccio interpretativo esterno al pensiero platonico, la seconda tenta di muoversi dall’interno di esso.
2.1 Giustificazione dell’intenzionalità: la priorità della dimensione ontologica
Un primo risultato della riflessione platonica sull’intenzionalità del conoscere e sul suo verso in queste pagine della Repubblica è la priorità della dimensione ontologica rispetto a quella gnoseologica. Ciò era già emerso in modo già abbastanza evidente dal-
l’analisi del Cratilo, e non solo per quel che concerne l’esplicitamente proclamata anteriorità delle cose che sono rispetto ai nomi, ma anche, e soprattutto, in riferimento alla spiegazione platonica della capacità, che ai nomi è comunque riconosciuta, di insegnare e discernere le cose che sono: il loro potere delotico — si ricorderà - non consiste nell’attiva istituzione di un riferimento oggettivo, ma nel loro poter contribuire, se bene utilizzati, a creare le premesse per la manifestazione della verità delle cose che sono. Anche il vaglio delle procedure conoscitive effettuato sul Mezoze aveva avuto come esito proprio la loro riconduzione alla dimensione ontologica: e lo si è constatato, anche in questo caso, su due diversi livelli, su quello più palese dell’anteriorità della visione diretta delle cose che sono rispetto a ogni processo di reminiscenza, come
su quello più profondo del confronto fra opinione vera e scienza, le quali, per altri versi intercambiabili, risultano sostanzialmente differenti proprio in relazione al loro fondamento ontologico. Quanto visto nei capitoli precedenti già predispone la
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comprensione della particolare angolazione con cui si vuole qui sostenere il primato dell’ontologia sulla gnoseologia nel pensiero platonico. Non lo si vuole intendere come espressione di un realismo o di un oggettivismo: ciò significherebbe attribuire comunque alla filosofia di Platone una concezione del conoscere inteso come dominio separato e autonomo rispetto a quello della realtà. Se, invece, è vero che il pensiero platonico emerge nell’orizzonte culturale dell’intenzionalità per elaborarne una concettualizzazione, allora si può affermare che esso ci prospetta una concezione del conoscere che nella sua stessa natura si configura come funzionale alla realtà: esso assume così l’aspetto non tanto di una dimensione altra rispetto al reale (com'è sottinteso nella mentalità moderna, e
pertanto anche dal realismo oggettivistico), ma quasi di una sua articolazione, di un suo correlato essenziale, anche se —come s’è detto — non simmetrico. Il meccanismo dell’intenzionalità è determinante per comprendere questo tratto, che sembra conferire alla filosofia di Platone una sfumatura di arcaicità, ma che non di meno mi pare connaturato al suo pensiero. Ancora una volta si può trovare un'attestazione di ciò
nella Repubblica, luogo in cui gli sforzi di concettualizzazione rintracciabili
nei dialoghi precedenti
si traducono
in un
(primo) esito teorico e in una formulazione organica. Si è già
individuato in 476 E-477 a il luogo in cui Platone introduce il motivo dell’intenzionalità: ebbene, i modi stessi dell’argomentazione che ne consegue (477 A-480 A) sono particolarmente
indicativi.
2.1.1 L’argomentazione di resp. 477 A-480 A
Tale argomentazione ha come scopo ribadire quanto So-
crate aveva già affermato subito prima‘: che i filosofi, capaci
© Cfr. resp. 474 8 4-476 D 7.
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di contemplare la bellezza in sé, sono ben diversi dagli amanti degli spettacoli, attratti solo dalle molte cose belle, e che quelli hanno conoscenza, mentre questi solo opinione. Questa distinzione dovrà essere ribadita in modo così stringente da superare le resistenze di chi, accusato di opinare solamente, potrebbe non essere disposto a riconoscersi in essa‘. L’argomento dev'essere quindi molto forte: il modo in cui saranno differenziati conoscenza e opinione deve avere il pregio dell'evidenza”. L’analisi della struttura di questa argomentazione potrà pertanto mettere in luce quali sono i capisaldi sui quali Platone ritiene di poterla costruire in modo inoppugnabile*.
4 Cfr. resp. 476 D 8-E 3. # J.C. GosLing, Adta and Abvapig in Plato’s ‘Republic’, «Phronesis», xl (1968) pp. 119-30 (spec. p. 120), G. Fine, Knowledge and Belief in ‘Republic’ 5-7, in G. FINE (ed.), Plato 1, cit., pp. 215-46, spec. p. 217 (già nelle pp. 88-115 di S. Everson (ed.), Cambridge Companions to Ancient Thought, 1: Epistemology, Cambridge 1990), e I. CrysTAL, Parmenidean Allusions in ‘Republic’ v, «Ancient Philosophy», xvI (1996) pp. 351-63 (spec. p. 351), insistono sul fatto che Platone non può far uso in questa argomentazione del suo strumentario filosofico, poiché essa è diretta agli amanti degli spettacoli, cioè a interlocutori conquistabili solo sulla base di nozioni comprensibili a tutti (si tratta del dialectica!
requirement, per usare la fortunata espressione della Fine; cfr. le osservazioni dedicate all'argomento nell’apertura del suo articolo da D.C. BLatzLY, Knowledge and Belief in ‘Republic’ v, «Archiv fiir Geschichte der Philosophie», LxxIx (1997) pp. 239-72). Il richiamo al dialectical requirement non comporta, tuttavia, la conclusione estrema di TH. EBERT, Meinung und Wissen in der Philosophie Platons. Untersuchungen zum ‘Charmides’, ‘Menon’ und ‘Staat', Berlin-New York 1974, pp. 109 sgg., il quale asserisce che lo scambio dialogico in questione avrebbe solo una matrice retorica e non conterrebbe contenuti dottrinari platonici. Sulle interrogazioni fittizie presenti in resp. 476 E 4-9 e 478. 7-479B2, che assumono caratteristiche peculiari rispetto a quelle reperibili nei dialoghi precedenti (in particolare in quelli cosiddetti giovanili), si sofferma A. Lonco, La tecnica della domanda e le interrogazioni fittizie în Platone, Pisa 2000, pp. 152-5; 163-6. '* Le pagine platoniche che ci si appresta a esaminare sono fra le più
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Le premesse (476 E 7-477 A 5). Come ovvia, innanzi tutto,
è presentata l’assunzione da cui l’argomentazione parte: l’intenzionalità del conoscere, vale a dire il suo carattere relazionale e il suo essere ordinata a un obiettivo (o, in altri termini, il suo essere dinamica e ordinata a un obiettivo che pone termine al suo movimento). A tale assunzione viene subito
applicata una logica dell’opposizione‘: il conoscere è relativo a “ciò che è”, il non conoscere a “non ciò che è” 7°,
visitate dalla critica. In molti casi, inoltre, si è sentito il bisogno di
riproporre una ricostruzione della struttura dell’argomentazione condotta da Socrate, poiché l’interpretazione dipende fortemente dalla funzione attribuita a determinati passaggi nel quadro della complessiva dimostrazione. Purtroppo non sono riuscito a sottrarmi a questa esigenza e ho predisposto anch’io una presentazione e partizione della pagina platonica, che richiederà al lettore un’ulteriore dose di pazienza. Fra le ricostruzioni fornite dagli studiosi, e le rispettive interpretazioni a esse funzionali, vorrei ricordare quelle di J. AnNAS, An Introduction to Plato's ‘Republic’, cit., pp. 194-211; G. Fine, Knowledge and Belief in ‘Republic’ v, «Archiv fiùr Geschicthe der Philosophie», LX (1978) pp. 121-39, spec. pp. 124-39; F.J. GonzaLez, Propositions or Objects? A Critique of Gail Fine on Knowledge and Belief in ‘Republic’ v, «Phrone-
sis», XLI (1996) pp. 245-75, spec. pp. 246-8.
* Anche il modulo di pensiero delle polarità oppositive è adottato da Platone come di per sé persuasivo, poiché è tipico della mentalità greca arcaica (e più in generale delle culture orali). Sulla costruzione di questa opposizione polare e sulle sue implicazioni si veda M. VEGETTI, Introduzione al libro v, in M. VeceTTI (ed.), Platone. La Repubblica, Iv, Napoli 2000, pp. 13-38, spec. pp. 29-32. * Come già per la traduzione di Craft. 429 D 5-6, opto per questo sintagma, che, per quanto inelegante nel suono, consente di evitare un possibile equivoco: tradurre pù 6v con “ciò che non è” induce a scorgervi una sorta di ontologizzazione del nulla. Come nel Cratilo in relazione alla problematica del dire il falso, anche qui Platone vuol fare riferimento semplicemente all'assenza di essere, all’altro dall’essere (pur se in ciò è da leggersi una semplice e non ulteriormente qualificata alterità, ma non ancora la nozione di “diverso” del Sofista, per la quale, come mostra in modo chiaro G. CASERTANO, I/ nome della cosa. Linguaggio e realtà negli ultimi dialoghi di Platone, cit., in particolare pp. 131-2, occorrerà che la riflessione platonica espliciti un motivo, peraltro pre-
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PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
La parte A (477 A 6-478 E 6). Quindi l’argomentazione si volge alla componente relazionale: le facoltà (intese - lo si è già visto - come enti strutturalmente in relazione ad altro). Si mostra come la facoltà dell’opinare produca effetti diversi sia dalla conoscenza (in quanto non è infallibile come questa) sia dal non conoscere (in quanto è pur sempre relazione a un qualcosa). Se ne conclude che l’opinione è intermedia fra scienza e ignoranza.
La parte B (478 E 7-479 p 6). Si passa poi all’altra componente, quella del termine della dinamica conoscitiva, di nuovo applicando inizialmente la logica degli opposti: l’oggetto a cui è intenzionato colui che solo opina (e che non crede che si diano realtà quali la bellezza in sé, ma solo cose belle) non è
sempre e solo qualificabile come x, ma anche come l’opposto di x?. Tale oggetto “sarà x” non più che “non sarà x”°??. L’og-
sente, ma non sviluppato nella Repubblica, vale a dire lo scarto fra il ti e il determinato òv). L’indicazione di quel possibile equivoco non sembra al momento particolarmente significativa, poiché aiuta semplicemente a cogliere il carattere di limite estremo ideale che Platone attribuisce al non conoscere, che non è certo inteso come ordinato a un ‘‘oggettonulla” (cfr. R.C. Cross-A.D. WoozLey, Plato’s ‘Republic’ cit., p. 145).
Ma questa è conclusione pressoché intuitiva. Più problematica apparirà la comprensione dell’espressione pù 6v in coniugazione a tò 6v a proposito dell’oggetto dell’opinione, su cui la lettura ontologizzante ha effetti più marcati (al riguardo cfr., infra, pp. 204-10, spec. nota 61). 7 Viene qui ripreso in forma succinta (e come dato per acquisito) l'argomento della contrapposizione fra i molti e l’uno, presente in molti dialoghi precedenti, e in particolare, con riferimento alla bellezza, nelle celebri pagine dell’Ippia maggiore. Sulla relazione fra questi luoghi della Repubblica e l’Ippia maggiore, ctr. J.A. PALMER, Plato’s Reception of Parmenides, cit., pp. 60-6. ° Ritorna con molta evidenza e urgenza in questo passo la questione delle valenze del verbo essere, che ha diviso gli studiosi e generato una varietà di posizioni interpretative. Senza avere la pretesa di rendere conto dell’intero dibattito, va ricordata la tesi di coloro che sostengono che il verbo sia qui usato da Platone in senso esistenziale (A.C. CrossA.D. Wooziev, Plato's ‘Republic’ cit., cap. 8; M.C. SToKEs, Plato and
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getto dell’opinione vaga nella zona intermedia tra “ciò che è” e “non ciò che è”. La conclusione (479 D 7-E 9). A questo punto i due svi-
Sightlovers of the ‘Republic’, «Apeiron», xxv (1992) pp. 103-32); altri, all'opposto, hanno scorto un’accezione più sofisticata, perché legata non agli oggetti, ma alle proposizioni sugli oggetti e al loro valore di verità, cosicché, quando Platone afferma che “la conoscenza è ordinata a ciò che è”, intenderebbe che “la conoscenza è ordinata a ciò che è vero”, cioè alle proposizioni vere (J.C. GosLIn, Adta and Avvapig in Plato's ‘Republic’, cit.; G. Fine, Knowledge and Belief in ‘Republic’ v, cit.); altri hanno riconosciuto come determinante l’accezione predicativa (G. VLAstos, Degrees of Reality in Plato, in R. BaMmBROUGH (ed.), New Essays on Plato and Aristotle, London 1965, pp. 1-20, ora anche in Platonic Studies, pp. 58-75;J.AnNAS, Ax Introduction to Plato's ‘Republic’, cit., pp. 195-9; F. FERRARI, Teoria delle idee e ontologia, in M. VEGETTI (ed.), Platone. La Repubblica, iv, cit., pp. 365-91, spec. pp. 376-84). In relazione a quanto detto in questo capitolo e a quanto già visto in precedenza, quando si ricordava la tesi della sovradeterminazione sostenuta da Kahn (cfr., supra, p. 29; si veda pure sull’argomento C.H. KAHN, Being in Parmenides and Plato, «La Parola del passato», xLm (1988) pp. 237-61), credo
che nell’uso platonico del verbo sia presente una componente esistenziale, molto chiara nella premessa dell’argomentazione qui in esame, e implicita nella concezione intenzionale fin qui delineata. Ma certo tale componente non è l’unica né quella su cui fa perno l’argomentazione. La parte B, infatti, svela in modo più manifesto la componente predicativa, intrinseca anche agli usi precedenti: uno Sv è qualcosa che esiste e, in quanto esistente, ha una certa determinazione (cfr. C.H. KAHN, Why Existence Does Not Emerge as a Distinct Concept in Greek Philosophy, «Archiv fiir Geschichte der Philosophie», Lv (1976) pp. 324-34; lega le due valenze esistenziale e predicativa F.J. GONZALEZ, Propositions or Objects? cit., spec. pp. 253-62; un’operazione analoga, sia pure con una certa accentuazione della componente esistenziale, aveva compuito R. FeRrBER, Platos idee des Guten, Sankt Augustin 1989, pp. 21-3). Ogni 3v, poi, è per Platone anche vero, non nel senso logico-proposizionale (è la Fine), ma nel senso ontologico, già più volte riscontrato, della ainza tv Svtov. (Su questi argomenti si ritornerà comunque più avanti.) Sostenitore di un’accezione veridica, a esclusione però di quella
esistenziale e di quella predicativa, è C.B. WRENN, Being and Knowledge: A Connoisseur's Guide to ‘Republic’ v 476 E ff., «Apeiron», xxxm (2000) pp. 87-108.
200
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luppi argomentativi vengono incrociati: queste realtà interme-
die sono ciò con cui è in relazione la facoltà intermedia. Quindi: esiste un opinare senza conoscere. L’osservazione che potrebbe sorgere a una prima lettura è che, essendo l’argomentazione finalizzata a differenziare fra scienza e opinione, il suo scopo può dirsi di fatto già conse-
guito alla fine della parte A. Questa impressione sembrerebbe ulteriormente suffragata dal fatto che l’argomentazione sembra procedere su due binari paralleli: le sue due parti sembrerebbero dar luogo indipendentemente a due esiti. La parte B parrebbe allora avere una funzione di mero rinforzo della prima. Nel testo, però, sono reperibili chiari segnali che spingono a una differente lettura. Significativo è, per esempio, il fatto che la parte B prenda l’avvio dopo la clausola riassuntiva «ciò posto» (toòtav dm dtoxgpévov, 478 E 7”), seguita inoltre dal richiamo all’interlocutore ideale di questa argomentazione, l’amante degli spettacoli, cui Socrate si era indirizzato inizialmente
(476 E 7-8), ma che poi era stato momentaneamente
lasciato in ombra. È come se Socrate volesse dire che quanto fin Îì convenuto costituisce solo un punto d’appoggio per il ragionamento, che deve ancora essere svolto. In effetti la parte A presenta una struttura circolare: essa si apre e si chiude con proposizioni ipotetiche la cui protasi rimane pressoché invariata. A 477 A 6-B 2 si legge: «- Se una cosa è tale (gi dè è) t1 obtag Eyei) da essere e anche non essere, non sarà intermedia tra ciò che assolutamente è e ciò che in nessun modo è? — Intermedia. - Dunque, la conoscenza era riferita a ciò che è, la non
? Anche in altri luoghi platonici il verbo òèrokgioda1 ha valenza dialettica, sia in senso dialogico in riferimento alle premesse concordate con l’interlocutore (esattamente come in questo caso; cfr. Prot. 359 A 2 sia in senso logico (cfr. Crat. 436 D 6, Tim. 28 B 5).
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201
conoscenza necessariamente a non ciò che è; e allora riferito a
questo intermedio sarà da cercare qualcosa di intermedio fra ignoranza e scienza, sempre che esista qualcosa di simile (gi ti TuyXàver dv TOLODTOV)?
— Certamente». La formula finale (ei t1 tuyyaver dv torodtov) riprende l'ipotesi iniziale (ci Sè 3 n oitog Eye): a parte la conseguenza che se ne ricava (e che guida la parte A dell’argomentazione), ciò che è presentato come dubbio, e quindi bisognoso di chiarimento, è l’esistenza di qualcosa di intermedio tra essere e non essere”. Lo stesso vale per l'affermazione in
478 E 1-5, a conclusione della parte A: «Ci rimarrebbe dunque da trovare questo qualcosa, che partecipa di entrambi, dell’essere e del non essere, e che non potrebbe essere correttamente denominato né come l’uno né come l’altro in senso assoluto, affinché, se si manifesterà (&àv gavîj), lo possiamo a buon diritto (èv dikn) denominare opinabile».
Il “se” della protasi riguarda ancora quell’intermedio tra
essere e non essere, che dunque è rimasto in sospeso, e non è stato affrontato nella parte A dell’argomentazione. Solo la parte B, infatti, consentirà di affermare &v Sikn (478 E 4) la conclusione.
Tutto ciò lascia intendere che con la parte A l’argomentazione è tutt'altro che conclusa, anzi, è appena avviata. Ma per rispondere completamente all’osservazione da prima lettura, non basta prendere atto di ciò; occorre anche spiegarne il
perché, e cioè spiegare perché, al fine di differenziare scienza e opinione, a Platone non è sufficiente dimostrare che l’opinione occupa una posizione intermedia fra scienza e igno* Lo fa notare, in contrapposizione alla lettura della Fine, FJ. GonzaLez, Propositions or Objects? cit., p. 247 e p. 250.
202
PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
ranza. Credo si possa rispondere a questa domanda ponendo mente al contenuto delle premesse dell’argomentazione, che inquadrava le dinamiche conoscitive nel meccanismo dell’intenzionalità: anche l’opinione, di cui si parla nella parte A, è
inserita in questo quadro, in quanto facoltà. Essa è dunque un ente relazionale, che sussiste solo in quanto si rapporta a
qualcosa; non ha una sua autonoma consistenza, e pertanto non è di per sé un elemento probante”. Quando a conclusione della parte A Platone mostra, ragionando sulle sole facoltà, che l’opinione ha caratteri differenti dalla scienza e dall’ignoranza, gli occorre ancora dimostrare, per darle consistenza,
l’esistenza di un oggetto specifico dell’opinione (cioè di una realtà intermedia): solo così potrà poi a buon diritto concludere che l’opinione sussiste come qualcosa, e in particolare come qualcosa di differente dalla scienza. Le due protasi sopta citate risultano, alla luce di ciò, simili nel contenuto, ma diverse nella funzione argomentativa: il primo “se” è un’assunzione ipotetica nel senso platonico del termine (infatti dà luogo a una @inois), che, ponendo prov-
visoriamente fra parentesi la questione dell’effettiva esistenza di un intermedio tra essere e non essere, procede all’individuazione delle corrispondenze di scienza e opinione con i loro relativi oggetti. Ma mentre l’oggetto della scienza è “ciò che è”, e quindi esiste, quello dell’opinione è tutto da dimostrare. Fermare qui l’argomentazione avrebbe potuto lasciare aperta la possibilità che ciò a cui sono intenzionate opinione e scienza fosse la stessa cosa, e che la diversità fra le due fosse solo una questione di grado di certezza. A Platone occorre dare una consistenza ontologica all’oggetto dell’opinione, giacché il suo
obiettivo è dimostrare che la diversità tra opinione e scienza
? Contrariamente a quanto afferma M. VecETTI, Introduzione al libro v, cit., p. 31, il quale ritiene che in questa parte dell’argomentazione la dimensione dell’intermedio si costituisce a partire dal polo epistemologico e non da quello ontologico.
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203
non è occasionale, ma sostanziale, che la scienza non è opi-
nione vera, ma è dinamica conoscitiva intenzionata a qualcosa di diverso dall’opinione.
Ecco, allora, che il secondo “se” invece si rivela un “solo
se”, che pone una condizione logica: il manifestarsi di “qualcosa che è e anche non è” è la condizione della differenziabilità di un opinabile da un conoscibile, e quindi dell'opinione dalla conoscenza. Ma allora perché dimostrare prima, in via ipotetica, che l’opinione è diversa dalla conoscenza, e non limitarsi alla parte B dell’argomentazione? Perché è solo sulla base del principio di intenzionalità e sulla base della dimostrata diversità fra le caratteristiche dei due movimenti intenzionali che il manifestarsi della sussistenza di punti d’arrivo corrispondentemente diversi chiude il cerchio. Insomma: la parte A dell’argomentazione serve a dimostrare che esistono movimenti intenzionali conoscitivi con caratteristiche diverse, ma essendo questi enti relazionali, possono essere detti effettivamente diversi solo se il ciò cui sono orientati è effettivamente diverso. La parte B serve appunto a rendere manifesta la sussistenza di ciò che i sostenitori dell’opinione considerano come oggetto, che ha caratteristiche ontologiche diverse da ciò che è: ciò vuol dire che l’opinione è un ente relazionale orientato a qualcosa di diverso dalla scienza, che è quanto occorre per dire che opinione e scienza sono diverse. L’argomentazione non procede dunque per due strade parallele, come a tutta prima poteva sembrare, poiché le due parti sono asimmetriche. Esse, infatti, non si possono invertire: come si è detto, la parte A pone i dati (non le premesse in
senso logico, ma ciò che risulta di più spontanea evidenza, ciò da cui si parte, ciò che c’è sul tavolo e che si deve spiegare); la B spiega i dati. Il significato, qui rilevante, di tale asimmetria sta nel fatto che sono i diversi caratteri ontologici degli og-
5% Su ciò, meglio, infra, pp. 204-10.
PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
204
getti di opinione e scienza a spiegare la loro diversità (e non viceversa): ciò perché opinione e scienza sono facoltà, cioè enti relazionali intenzionali (e perciò asimmetrici), cioè enti
che sono in quanto altro, dove questo “altro” è ciò da cui traggono il loro essere (e non viceversa)”.
2.1.2 Nota a margine
È forse opportuno presentare brevemente una questione che risulta tangenziale all’indagine condotta in questo lavoro, ma che riveste una notevole importanza per l’interpretazione della complessiva filosofia di Platone. Finora a proposito della sota e del dotaotév sono stati a volte utilizzati per comodità espositiva termini quali “oggetto” o ‘caratteristiche ontologiche”. Ma uno degli elementi problematici del lungo passo della Repubblica che è stato commentato consiste proprio nello statuto ontologico da riconoscersi al èoéjaotov. Siamo di fronte a una sorta di ontologizzazione delle realtà intermedie? È quanto ritengono coloro che attribuiscono a Platone una teoria dei gradi dell’essere”?. La cautela con cui sono stati mossi i passi in questa argomentazione, e in particolare l’indeterminatezza nella quale
” Del resto una tale asimmetria è rinvenibile all’interno di ciascuna
delle due parti dell’argomentazione: nella parte A, per mostrare il carattere di petaé0 dell’opinione, risulta decisivo che, appuratane la diversità dalla scienza in ragione della sua fallibilità, essa abbia comunque carattere intenzionale, e sia perciò riferita a un qualcosa e non a nulla, altrimenti si sarebbe confusa con l’ignoranza (cfr. resp. 478 B 6-c 9); nella parte B è ancora più evidente la priorità del dato ontologico rispetto a quello gnoseologico (cfr. resp. 479 D 3-E 9).
* Si può far riferimento, fra gli altri, a G. VLastos, Degrees of Reality in Plato, cit., A.C. Cross-A.D. WoozLev, Plato’s ‘Republic’ cit.; J. BRETLINGER, Particulars in Plato's Middle Dialogues, «Archiv fiir
Geschichte der Philosophie», LIv (1972) pp. 116-52; R. FERBER, P/atos idee des Guten, cit., pp. 19-28.
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205
viene lasciata la presunta dimensione ontologica del $o&aotév,
che non viene designata con altro nome che petatò”, può suscitare una qualche diffidenza nei confronti di questa soluzione interpretativa e spingere a guardarne il pregio della semplicità sotto la luce della schematicità. Inoltre si consideri che in questo passo il verbo givar è usato, nella sua componente semantica esistenziale, con valenza chiaramente univoca, come
mostra già il taglio quasi parmenideo delle premesse‘. (Credo, peraltro, che l’univocità dell’givar sia propria più in generale del lessico dei dialoghi giovanili e della maturità.) Non è questa la sede per un’analisi approfondita della questione: mi limiterò a esplicitare brevemente la prospettiva interpretativa che ritengo preferibile. Non credo che in questo passo Platone abbia voluto ritagliare un grado ontologico specifico per l'opinione: non mi pare si debba attribuire un’au-
tonoma consistenza ontologica né al termine ideale di riferimento della non conoscenza (motivo per cui ho preferito evitare la traduzione “ciò che non è”) né al termine dell’opinione. Probabilmente l’unica dimensione di realtà è per il
pensiero premetafisico di Platone quella dello è goti, di ciò di cui si dice che è. Il problema, in un orientamento pluralistico com'è anche quello platonico, è l'individuazione delle vere unità elementari del reale, cioè degli Svta. Il senso della proposta di Platone, e la sua differenza dalle concezioni tradizionali e correnti al suo tempo, mi sembra consistere non nell’additare il grado ontologico supremo delle idee da contrapporsi al grado delle realtà d’esperienza, ma nell’applicare
all’unico piano della realtà una differente griglia di lettura, una differente selezione delle unità elementari: una vera e stabile unità del reale è, per esempio, la bellezza (della quale
Peraltro non inusuale né insignificante in Platone, come ricorda M. VecetTI, Introduzione al libro v, cit., pp. 30-1 e p. 95 nota 125 (con riferimenti bibliografici). © Cfr. J.A. PALMER, Plato’s Reception of Parmenides, cit., p. 77.
206
PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
non si può che dire che è bella) e non più la cosa bella (della quale si può dire che è bella, ma anche che è alta, o luminosa,
ecc., o perfino che è brutta, se posta a confronto con qualcos’altro che sia più bello). Le molte cose belle non costituiscono un grado inferiore di realtà: esse sono piuttosto il frutto di un’errata suddivisione del continuum del reale, operata dalla $é6ta, che - come si è avuto modo di vedere nel capitolo primo mettendo a confronto unità elementari apparenti ed siòn non vede “ciò che è” (lo òti), ma congettura e costruisce
un'immagine deformata del reale, prendendo come unità elementare del reale ciò che è invece solo una sua occorrenza parziale e mescolata con altre occorrenze. Il carattere di petaéò del dogtaotév è dato dal suo costituirsi come un’immagine parziale e confusa dell’unica realtà esistente, della quale restituisce imperfettamente le caratteristiche®!. Questa è co-
6! In tal senso si può dire che, mentre le idee sono in senso assoluto, indipendentemente dall’essere conosciute, il Sogaotov è in senso relativo, poiché deve la sua presunta autonomia ontologica alla $6Éa, alla cattiva messa a fuoco del reale da parte degli uomini. In realtà nella parte B dell’argomentazione Platone non dimostra “l’esistenza di realtà intermedie” (come pure, per comodità espositiva, mi sono espresso), ma dimostra che quelli che gli amanti di spettacoli considerano come unità del reale, hanno, sì, caratteri reali (e in tal senso ‘sono x”), ma solo in modo imperfetto (e in tal senso ‘non sono x” o “sono non x”). La S6ta
sembra quindi caratterizzarsi anche per un movimento intenzionale anomalo, poiché tende a sostituire al naturale verso (che, come si è visto in precedenza e com’è naturale in una concezione finalistica, consiste in
una sorta di guida e di attrazione esercitata dal termine del movimento sulla sua origine) un altro verso, forzato e artificiale, consistente nella presunzione del soggetto di (ri-)costruire da solo l’oggetto. Questa anomalia della è6&a potrebbe anche fornire una diversa prospettiva a una delle controversie che hanno impegnato gli studiosi: se, cioè, l'opinione e la scienza abbiano oggetti ontologicamente diversi (come sostengono, per esempio, A.C. Cross-A.D. WoozLey, Plato’s ‘Republic’ cit., e I. CrystAL, Parmenidean Allusions in ‘Republic’ v, cit., p. 362) o possano avere lo stesso oggetto (come ritengono J.C. GosLInG, Aòéa 274 Advapic in Plato's ‘Republic’, cit., pp. 123-4, e G. Fine, Knowledge and Belief in
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207
munque la sua (pur fragile) consistenza ontologica, quella che consente di prenderlo come il termine di un movimento intenzionale conoscitivo: nella prospettiva del filosofo, che vede le vere unità del reale, la consistenza ontologica del $otaotév è data dal riconoscerlo come occorrenza di quelle unità vere e stabili. Anziché parlare di grado inferiore di essere, si può
‘Republic’ 5-7, cit., pp. 217-25). Potrebbe non essere necessario far ricorso alla cosiddetta “teoria dei due mondi”, implicata dalla prima
posizione, poiché la realtà è una sola (quella degli èvta), che è conosciuta (yvaotév) quando è colta come è, o opinata ($otaotév), quando non è messa a fuoco e se ne colgono in modo parziale le articolazioni. Potrebbe, altresì non essere necessario asserire, come fanno Gosling e
Fine, che il verbo essere sia impiegato in questo passo con accezione veridico-proposizionale, per mettere in risalto la prospettiva epistemologica dell’argomentazione con il conseguente indebolimento del suo spessore ontologico: a essere conosciuti e opinati non sono singole proposizioni o set of propositions (Fine, p. 221), ma òvta, con un’accezione dell’esser-x che — come s’è già detto — può avere al tempo stesso significato esistenziale, veridico e predicativo, tanto (ovviamente) nel caso
della realtà conosciuta (che è lo 6X.0v dello 6ti corretto) quanto nel caso della parziale occorrenza cui si riferisce chi opina (che è lo 611 parziale). £ Se mi si consente una metafora linguistica, si può dire che l’unità elementare apparente (la cosa bella) esiste così come esiste un singolo atto di parole (un impiego della parola “casa”), ma è chiaro che l’una e l’altro vanno ricondotti a una dimensione diversa per poter essere intesi (rispettivamente, all’unità vera e stabile dell’gidog e al segno collocato
all’interno della langue); è chiaro, inoltre, che una singola occorrenza (una cosa bella o un impiego di ‘“casa”’) non esauriscono, rispettivamente, l’essenza della bellezza o il significato del segno “casa”. In tal senso appaiono interessanti le posizioni critiche di quegli studiosi che, prendendo le distanze da una versione radicale della teoria dei gradi dell'essere, ne forniscono una rilettura o una versione moderata. Ad esempio, N. Cooper, Between Knowledge and Ignorance, «Phronesis», XXXI (1986) pp. 229-42, parla di «different grades of ontological status [...] dependent on the status of the truth of the sentences in which they figure», in accordo con la sua interpretazione in senso esistenziale e veridico del verbo essere: dal mio punto di vista, i diversi status ontologici non sono dipendenti dalla verità dei giudizi, ma semmai dalla verità delle cose stesse, che è piena nel caso dell’eidog e parziale nel caso delle
PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
208
pensare, a mio parere, a due diversi livelli di identità/identi-
ficazione, quella contestualizzata dell’occorrenza e quella de-
contestualizzata dell’gidog®.
2.1.3 Resp. 477 A-480 A e il primato dell’ontologia Comunque sia, valga o meno la teoria dei gradi dell’essere,
l’analisi del passo della Repubblica credo mostri in modo sufficientemente chiaro il delinearsi di un primato dell’ontologia. Si è visto, infatti, come l'articolazione stessa della lunga argomentazione trovi senso e perda gli apparenti caratteri di ripetitività se letta alla luce del meccanismo dell’intenzionalità che stabilisce una relazione asimmetrica fra conosciuto e facoltà conoscitiva: ciò comporta che la dimostrazione può dirsi veramente conclusa solo quando abbia conquistato un fondamento di natura ontologica, e cioè — nello specifico — solo quando come termine dell’opinione si sia rivelato un qualcosa, del quale in un qualche modo si possa dire che è. Emerge, inoltre, in modo evidente come siano i caratteri ontologici a determinare il valore e la qualità del processo conoscitivo. Si ricordi che l’argomentazione era diretta a
sue occorrenze. Un secondo esempio è costituito da F. FERRARI, Teoria delle idee e ontologia, cit., il quale punta a una distinzione fra l’unità assoluta (l’eidog che è F) e le sue istanziazioni (sia in cose sensibili sia in
altri eiòn), anche se la sua predilezione per l’accezione predicativa dell’givar lo porta, a mio parere, a sopravvalutare la componente proposizionale del conoscere (p. 409 e p. 410) e a sottovalutare il peso della proceduralità del sapere doxastico nella differenziazione platonica dall’erompn (p. 404). Si segnala qui anche il contributo di B.E. HESTIR, A Conception of Truth in ‘Republic’ v, «History of Philosophy Quarterly», XVII (2000) pp. 311-32, il quale afferma che per Platone sia le forme sia le molte cose sono things, cose che esistono, diverse fra di loro per stabilità. £ Come già visto, supra, pp. 41-4. “ M. VEGETTI, Introduzione al libro v, cit., p. 31, afferma con
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209
ribadire la differenza fra filosofi e amanti degli spettacoli (che ora a buon diritto possono essere detti filodossi): per raggiungere questo obiettivo Platone non ritiene sufficiente la contrapposizione delle rispettive modalità conoscitive (altrimenti
si sarebbe fermato alla parte A, che ha invece valore strumentale in vista della B), ma istituisce un confronto di carattere ontologico frai termini delle due facoltà conoscitive. È cru-
ciale, al riguardo, il momento in cui Socrate, dopo aver precisato al suo interlocutore che gli oggetti a cui si indirizza l'amante degli spettacoli sono le molte cose empiriche (tà toXA.a), conclude che di esse si può dire “sono” non più che “non sono”:
«- E le cose grandi e piccole, e le leggere e pesanti, saranno chiamate nel modo in cui noi le diremo non più che nei modi opposti? - No, rispose, per ciascuna andranno sempre bene sia questi sia quelli (Gugotépav #Éetar).
—- E allora ciascuna di queste molte cose “è” più che “non è” quel che qualcuno la dica essere? — [...] queste cose [sembrano] tendere ora da una parte ora
dall’altra (&raugotepitewv), e di nessuna di esse è possibile conoscere saldamente (rayiog voffoai) né che è né che non è, e né entrambe né alcuna delle due»
efficace sintesi: «l’argomentazione [...] mostra chiaramente che per Platone è in ultima istanza la natura ontologica dell’oggetto a determinare lo statuto epistemologico della relativa forma di conoscenza: anche a partire da quest’ultima, il carattere di verità, stabilità, universalità dei suoi enunciati dipende dalle rispettive proprietà degli oggetti su cui essi vertono». Cfr. F. FERRARI, Teoria delle idee e ontologia, cit., spec. pp. 403-4 e pp. 407-12. 5 Resp. 479 B 6-c 5: Kai pueyada dî kai opixpà ai xoùpa kai Bapéa ui ti paiXov d dv QNopev, tadta rpoopn@noetar îj tavavtia; Oùk, dA dei, Epn, Exaotov dppotépov Egetar. IMotepov oùv Éoti paiov f) oùk Eotiv Ekaotov TOY roAXMbv todto è dv tic gf adrò eivar; [...] kai yàùp tadta étappotepiterv, cai od sivar oùte pù) sivar oddèv adtov Suvatòv rayiog vofioar, cite dupotepa oite oddétepov.
PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
210
Proprio sulla base di questo “essere” non più che “non essere” (che va evidentemente inteso anche come “esser-x’’ e
“non esser-x”) Platone potrà subito dopo concludere per il carattere intermedio di tà roXAé, delle molte cose, non più oscure di “non ciò che è” né più chiare di “ciò che è”. Oscurità e chiarezza indicano qui il grado di determinazione dell’ente. Delle molte cose si può dire x e il contrario di x: sono indeterminate nel loro essere. Il massimo della determinazione - lo si è visto nel Mezone - è l’oòoia, che interamente ed esclusivamente è-x. Tà toXXd, invece, étaupotepitovonv,
oscillano da una parte e dall’altra, perché non se ne può determinare in modo fisso (rayiwg) l'essere. Non si può dire che
non siano, poiché in esse è presente l’occorrenza delle oùciar (anche di odoiar opposte); ma non si può nemmeno dire che siano, poiché il loro esser-x è occasionale e incompleto. Questa fragilità ontologica di quelle che i filodossi considerano realtà comporta la fragilità della $6Éa: costoro guardano alle molte cose belle (toX).d xaXd), ma non al bello in sé (adtò tò kaX.6v), alle molte cose giuste (moXAà dikara), ma non
al giusto in sé (adtò tò dikarov), e in questo senso si può dire che opinano su qualcosa che non conoscono.
2.2 Giustificazione dell’intenzionalità: il modello della relazione diretta
Un secondo elemento mi sembra essere il risultato dell’elaborazione filosofica che Platone ha operato sul dato dell’intenzionalità del conoscere: in questa relazione asimmetrica, dove l’aspetto ontologico gioca un ruolo prioritario e dove sembra aver luogo una dinamica di ‘attraenza dell’esser-
vero”, risulta privilegiata fra le diverse possibili modalità conoscitive quella che assicura un contatto diretto e completo
6 Cfr. resp. 479 E 1-5.
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211
con l’ente®. La migliore realizzazione dell’intenzionalità conoscitiva è quella che raggiunge il suo obiettivo quanto più precisamente e rapidamente Un segnale abbastanza eloquente in tale senso proviene dalla ben nota tendenza platonica a ricorrere alle metafore imperniate sul senso della vista: già in uso in molti altri dialoghi, esse trovano ancor più ampia applicazione nella Repubblica, e non soltanto nelle pagine dedicate all’analogia del sole, al paragone della linea o all’allegoria della caverna, ma, di continuo, nelle contrapposizioni fra ciechi e vedenti, nell’adozione della scala della chiarezza come criterio dell’efficacia conoscitiva, nell'impiego dei diversi verbi che indicano il vedere per illustrare le modalità del conoscere. Certo, si potrebbe obiettare che queste sono forme letterarie, figure retoriche, che non necessariamente sono cariche
di implicazioni concettuali. Anche se probabilmente è vero che nell’ottica platonica le parole non possono fare molto di più che evocare per immagini quando si trovino chiamate a riferirsi alle
# Come già per la priorità della componente ontologica, anche di questo dato è stata già trovata attestazione nel Merone e nel Cratilo, commentando i quali a più riprese si è parlato di visione diretta delle cose che sono a proposito dell’èriotmun, o della conoscenza originaria cui rimonta l’avauvnois, o ancora del fondamento conoscitivo dell’uso dialettico dei nomi. Si tratta, infatti, in questo caso così come in quello trattato nel precedente paragrafo, di coordinate di ampio momento del pensiero platonico, che sono delineate in modo abbastanza chiaro già nei primi dei cosiddetti dialoghi della maturità. Nella Repubblica (e, ovviamente, in altri dialoghi, quali il Fedone, il Simposio, il Fedro) esse si trovano confermate e, per certi versi, esplicitate o elaborate in modo da trarne ulteriori conseguenze: in tal senso le analisi dei passi della Repubblica che vengono proposte in questo capitolo mirano a indicare conferme e sviluppi di quanto rinvenuto nei capitoli precedenti. s È questo che si vuole qui intendere quando si parla di conoscenza diretta: diretta nel senso che salta le mediazioni, ma non nel senso di statica, puntuale o istantanea. Come si vedrà è diretta per Platone anche quell’intuizione intellettuale, che pure trascorre di idea in idea e si svolge in una visione sinottica.
292,
PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
realtà e verità fondamentali (il che, peraltro, è conseguenza di
quanto emerso in precedenza nel corso dell’analisi del Crati/o, ove si sottolineava che la capacità delotica dei nomi non può essere intesa come indicazione delle cose), una tale replica aprirebbe la questione del ruolo del linguaggio analogico e metaforico nel pensiero e negli scritti di Platone, una questione troppo vasta per poter essere affrontata in questa sede. Perciò, pur sottolineando come pure il così frequente uso di quelle immagini sottintenda la presenza di un qualche denominatore comune fra l’esperienza della visione e quella della conoscenza, esse dovranno qui considerarsi come semplici indizi, da sostanziare con elementi meno stilistico-letterari e più concettuali,
attinenti meno alla forma e più ai contenuti”.
# «Platon hat sich gerne einer auf die Anschauung bezogenen Metaphorik bedient, wenn es darum ging, die Eigenart der Ideensphàre zur Sprache zu bringen. Ein guter Teil der Auseinandersetzung um Platons Philosophie entziindet sich seit jeher an der Frage, wo die Grenze zwischen Metaphorik und “eigentlich” Gemeintem zu ziehen ist» (W. WieLAND, Platon und die Formen des Wissen, cit., pp. 98-9). Con più specifico riferimento alla questione in esame, si consideri la lucida e sottile posizione espressa da M. DixsauT, Platon et la question de la pensée, cit., p. 125: «La différence propre à la science dialectique ne peut en effet dialectiquement s’énoncer, seulement se montrer par différence. En affirmant cette différence analogue è celle qui existe entre la vision pure et le quasi-aveuglement, le langage analogique constitue le seul métalangage capable d’intégrer le langage du savoir et celui de l’opinion, de les comparer et de les situer [...]. Mais le discours analogique est soustendu par du métaphorique; soleil, lumière, vision ne sont pas seulement des termes présentant des rapports analogues à ceux qui, dans les domaine de la connaissance, relient les termes correspondants, ce sont des termes qui ressezzblent, et peut-ètre les seuls en qui puisse se dire ce que font les termes qui leur correspodent». Devo aggiungere che la studiosa
francese non interpreta comunque la metafora della visione come espressione di contatto diretto, a seguito di un’interpretazione del tpitog yévog (resp. 507 D 1 e sgg.) come legame che media, anziché come legame che unisce. ® Queste distinzioni ritengo siano inapplicabili, in realtà, ai dialoghi platonici, ma sono qui adottate a scopo puramente euristico e, come
IL SAPERE DIRETTO: EYTTENEIA E NOYE
213
Prima di ciò, però, vorrei aggiungere un’altra suggestione
terminologica, anche questa già rilevata e piegata a contrastanti interpretazioni, e tuttavia significativa in questo contesto, poiché accentua quanto detto a proposito della vista. Mi
riferisco alla metafora tattile: anche in queste pagine della Repubblica compare, infatti, il verbo èparteoda: (“afferrarsi”), che, insieme ad drteodar (“toccare”), viene impiegato con una certa frequenza per indicare il conseguimento della verità da parte dell’&momyn”. Si prenda ad esempio il seguente passo, che si trova proprio all’inizio del libro vi:
«filosofi sono coloro i quali sono in grado di afferrare (è9drteodal) ciò che permane sempre invariabilmente costante (tod kata tadta @oadtag Eyovtoc); quelli che non sono in grado di far ciò e che, invece, restano a vagare (rÀav@pevoi) fra le molte cose e in molti modi, non sono filosofi»”.
In questo passo «ciò che permane invariabilmente costante»” è evidentemente il termine del movimento intenzio-
ho già detto, a seguito dell’impossibilità di diffondersi maggiormente sull’intrinsecità di forma letteraria e forma di pensiero in Platone. Su questo aspetto, che torna ad avere un crescente riconoscimento e spazio negli studi su Platone, si veda come esempio recente il lavoro di A. CAPRA, ’Ayòv A6yov. Il ‘Protagora’ di Platone tra eristica e commedia, Milano 2001, in particolare le osservazioni contenute nella Premessa, pp. 13-33.
" Cfr., per esempio, Phaed. 65 B 9, symp. 212 A 4-5. Cfr. Y. LaFRANCE, Pour interpréter Platon, n: La Ligne en‘République’ vi, 509d-511e. Le texte et son histoire, Montréal 1994, p. 370, il quale a proposito dell’uso platonico del verbo afferma che esso «est employé d’une facon métaphorique pour indiquer l’attachement du /ogos ou du raisonnement au moeton [...]}. La métaphore suggère l’idée d’une intuition qui surgit au terme d’un raisonnement». ? Cfr. resp. 484 B 3-7. » Anche questa espressione non va sovraccaricata di significati ontologici 4 posteriori; in essa va pur sempre riconosciuto un valore di
PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
214
nale proprio della scienza: l’espressione con la quale è designato è perfettamente simmetrica e opposta a quell’étappotepitew di 479 c 7. Corrispondentemente, in analoga contrapposizione si trovano qui i verbi che descrivono (metaforicamente!) le dinamiche delle due forme conoscitive: all’eparteoda1 della scienza fa da contraltare il rAavicdar dell’opinione””. Come i presunti oggetti dei filodossi, oscillando nell’indeterminazione del loro essere, costringono costoro a vagare e a permanere in uno stato di vaghezza, così la stabile realtà delle cose cui si rivolge la scienza consente ai
filosofi di afferrarle, di giungere a toccarle. Ancora una volta il movimento diretto verso la cosa - tanto diretto che si traduce in una presa immediata —- viene contrapposto a un itinerario
zig-zagante, che passa per molti altri siti, ma non giunge mai alla meta (0, se vi perviene - potremmo aggiungere pensando al caso dell’opinione vera - lo fa in modo indiretto, seguendo una via più lunga). È difficile resistere alla tentazione di combinare le due metafore, visuale e tattile”, e immaginare l’atto supremo del
immagine, se non di metafora, poiché, se è vero che assurge nei dialoghi platonici a un impiego e un’accezione tecnici, è anche vero che è desunta dal corrente uso della lingua greca, come ha mostrato B. VANcAMP, Katà tabtà Exew. Zum Herkunft einer platonischen Redewendung aus dem Bereich der Ideenlehre, «Rheinisches Museum fiir Philologie», cxxxIx (1996) pp. 352-4, il quale riporta alcune attestazioni dell’espressione in autori precedenti con il significato di “sich in der gleichen Weise verhalten”, o “unverindert bleiben”. " La corrispondenza fra i due luoghi è rafforzata dal fatto che in 479 p 9 il dominio delle cose che graupotepitovor è chiamato tò petatò tiavntòv («vagante nella zona intermedia»). Sugli echi parmenidei di questa come di altre espressioni usate da Platone in queste pagine si vedano I. Crysrat, Parmenidean Allusions in ‘Republic’ v, cit., pp.
357-61; J.A. PALMER, P/ato’s Reception of Parmenides, cit., spec. pp. 77-83.
” Come, peraltro, avviene nel luogo del Simposio citato poc'anzi (212 A 2-5).
IL SAPERE DIRETTO: EYTTENEIA E NOYE
215
conoscere come un vedere con perfetta definizione, e quindi un afferrare con presa sicura e diretta. È difficile pensare che queste metafore non significhino almeno che l’èriotià pn è un procedere dritto all’oggetto, evitando diversioni, come solo una visione chiara della meta consente di fare. Del resto, un
tale vedere e andare dritto non ricorda l’esempio della strada di Larissa? La differenza fra ériotiun e Séta (perfino nella sua forma òp0n) non consisteva già nel Merone nel fatto che l'una si fa forte della nozione diretta di ciò che conosce, laddove l’altra, non avendone una visione chiara e dovendo
perciò rinunciare all'evidenza che ne deriverebbe, lo congettura e ne fornisce una sorta di (ri-)costruzione ”? Se è vero ciò,
allora è chiaro che ogni mediazione che si introduca nel processo conoscitivo aumenta il rischio dell’errore e conferisce all'eventuale acquisizione del vero un carattere solo occasionale: in tal senso si era ravvisata una diffidenza di Platone nei confronti dei saperi procedurali che trova ulteriore conferma e nuova giustificazione ontologica ed epistemologica nelle pagine della Repubblica. Si era comunque deciso di trattare questi dati come semplici prove indiziarie. È quindi il caso di passare all’esame di un luogo in cui Platone tematizza la più alta forma di conoscenza, per studiare i modi in cui egli ne ha fornito una con-
* Il carattere di conoscenza diretta, e non mediata, dell’èmotnun aiuta anche a meglio situare quella specificità della $68a che era stata già rilevata (cfr., supra, nota 61): in effetti rispetto all’intenzionalità, carattere fondamentale di ogni processo conoscitivo, l’opinione presenta quasi un'anomalia (che non è propria, ad esempio, della conoscenza sensibile così come viene presentata nel Teeteto), poiché si configura come un processo, sì, intenzionale, ma guidato dal soggetto, e non trainato dal suo termine. Ciò fa sì che chi opina non possa cogliere che occasionalmente il bersaglio del suo presunto movimento conoscitivo. Contro questa presunzione, che è tipica dei saperi procedurali, Platone si scaglia, come si è visto, fin dal Gorgia (e anche da dialoghi precedenti): nella Repubblica tale motivo concettuale guadagna una collocazione in un contesto più ampio e una maggiore chiarezza e fecondità concettuale.
PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
216
cettualizzazione. Non credo ci siano passi più densi e più pertinenti di quelli in cui Socrate spiega a Glaucone il significato delle ultime due sezioni della linea: «- Ecco dunque che cosa intendevo per specie intelligibile, dicendo che, ricercandola, l’anima è costretta (&vaykaCopévnv) a ricorrere (ypfi0da1) a ipotesi, non dirigendosi verso
il principio (oòk ér° dpynv iodoav), non essendo in grado (où Suvapévnv) di salire (&xBaivew) più in alto delle ipotesi, ma utilizzando (yp@pévnv) come immagini quelle stesse cose che
nella sezione inferiore sono riprodotte e che rispetto a queste copie sono ritenute e stimate evidenti realtà.
- Comprendo, disse, che parli del mondo della geometria e delle tecniche che le sono sorelle. — Allora comprendi che per secondo segmento dell’intelligibile io intendo quello cui il discorso attinge (&rteta1) con il potere dialettico (ti tod SiaAéyeoda1 Suvaper), considerando (torovuevoc) le ipotesi non principi, ma ipotesi nel senso reale
della parola, punti di appoggio
(&m1Baoer)
e di slancio
(6puàc), affinché, dirigendosi verso il principio di ogni cosa (£rì toò ravtòg dapynv idv) fino a ciò che è immune da ipotesi, una volta afferratolo (&ydpevoc), di nuovo
attenendosi alle
cose che attengono a quello (&ybuevog tòv èkeivng èyopévov), così discenda (xataBaivn) alla conclusione, senza assolutamente ricorrere (rpooypopevoc) a niente di sensibile, ma alle sole forme attraverso esse e alla volta di esse, e si concluda (terevtà) nelle idee»”.
Di questo frequentatissimo luogo platonico, sul quale ritornerò in seguito”, vorrei considerare al momento
soltanto
un aspetto, quello dei modi del confronto fra la terza e la quarta sezione.
Credo che, coerentemente con quanto Platone aveva detto in generale sulle facoltà, dichiarandole definibili in base al loro riferirsi a un qualcosa (è9’ ©) e al produrre un certo ri-
VoyResplldi lasso ® Infra, pp. 250-2.
IL SAPERE DIRETTO: EYTTENEIA E NOYF
DI
sultato (ò arepyatovtar)”, questo confronto abbia luogo an-
cora secondo tali due parametri®. A) Qual è nei due casi il termine di riferimento? Quale il
movimento caratteristico? Si può notare come da questo punto di vista ci sia una chiara contrapposizione, poiché ciò che viene espresso in termini negativi a proposito della terza sezione (non si dirige verso il principio, è incapace di uscire dalle ipotesi e superarle") è poi ripreso in positivo: il /ogos
dialettico sfrutta le ipotesi come punti d’appoggio* e si dirige verso il principio. Di esso viene inoltre specificato che assume un movimento discensivo”, che poi ha termine. B) Con quali attività ed effetti vengono caratterizzate le due sezioni? Innanzi tutto, va sottolineato che nella terza
sezione si descrive uno stato di katopévnv), determinato da un pera (où Suvauévnv). Anche per perfetta opposizione: nella terza strumentale, che viene negata nuovamente fornite indicazioni
costrizione dell'anima (avaylimite della facoltà qui all’ole attività, poi, si delinea una sezione si parla di un'attività nella quarta. Infine, vengono ulteriori sulle attività della
quarta sezione: in ordine si parla di un toccare (attingere),
di un’assenza di attività manipolatoria sulle ipotesi, nuovamente di un aver toccato, e infine di un attenersi.
? Cfr., supra, p. 173 nota 3. 8 Nel descrivere l’una e l’altra sezione Platone parla di Suvapig (511 A 5 e B 4), usa il verbo iévai seguito da érì, e descrive il tipo di attività svolta dall’anima e dal logos. 8 Nel verbo &kfaivew sono presenti entrambe queste componenti semantiche. & Il termine éméoers sembra proprio scelto a rovesciamento del precedente èkBaivew. # Katafaivew: ancora un termine derivato da Raiverv, a testimonianza che la direzione del movimento è deliberatamente scelta come criterio di raffronto. # Il verbo ypficda: è quello utilizzato da Platone per descrivere le attività delle téyvar.
218
PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
Alla luce di questa rappresentazione è possibile evidenziare alcune delle caratteristiche discriminanti della forma più alta di conoscenza, la vénoig, presentata nella quarta sezione
della linea e differenziata dalla è1&vora”. In primo luogo, va ancora una volta rilevato il carattere dell’intenzionalità: il movimento che viene descritto è chiaramente orientato e rivolto verso un fine, che ne costituisce il perno, nel senso che lo determina, come mostra chiaramente il fatto che vi trova compimento e vi si spegne. L’intenzionalità della vonoig, inoltre, sembra avere come tratto peculiare quello di svolgersi in tutta spontaneità, come processo naturale, laddove a proposito della è1&vora Platone rimarca lo stato di costrizione in cui si trova l’anima, che nell’affidarsi allo strumento delle ipotesi è come bloccata nel suo movimento intenzionale, come se non
fosse capace di fare a meno di quelle. Ciò consente di mettere in luce un secondo e fondamentale tratto distintivo: la vono1g non prende le ipotesi per quello che non sono, ma lascia che svolgano la loro naturale funzione di
punti d’appoggio. In altri termini, il sapere noetico, diversamente da quello dianoetico, non è da intendersi in chiave costruttivistica, ma è intuitivo* e trova ragione del suo svolgersi non nelle pratiche di manipolazione dei concetti (le procedure), ma nell’attingere un principio in sé autosufficiente”.
% Com'è noto Platone assegna questi nomi alle ultime due sezioni della linea in 511 D6-E 4. % Il termine “intuizione” è qui impiegato per esigenze di sintesi espressiva, poiché - come si vedrà fra breve - il suo classico campo semantico dovrà essere riadattato alle caratteristiche della nozione platonica di vonoig, che non esclude una qualche processualità e una sua articolazione logica. M. DrxsAuT, Platon et la question de la pensée, cit., in particolare pp. 63-70, nega la presenza di una conoscenza intuitiva nel pensiero di Platone; ma lascia aperta la strada a una sigrification inhabituelle (p. 66) di “intuizione”, che immagino sia quella cui ricorre alla fine
della sua analisi (nel brano riportato, infra, nota 91). ® Quale sia questo principio e come esplichi la sua azione non è
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Sia che una tale toò ravtòs àpyi consista di volta in volta nell’eidog cui è da ricondursi una determinata ricerca, sia che
essa si identifichi nell’idea del bene (precedentemente introdotta, in 508 p-509 8, come luogo di fondazione e causazione
degli enti e della loro conoscibilità, e perciò ènékewva tijg obciac), resta il fatto che la vonorg è qui presentata come capacità di porsi in relazione diretta con il suo termine, grazie
al suo potere dialettico di fare a meno degli intermediari (uscendo da essi e salendo oltre)®. Certo, una conoscenza di-
retta è possibile solo a condizione che abbia libero corso la tensione (òpun) dell’intenzionalità®, cosa non facile, ma corri-
tema che viene per il momento affrontato: qui è sufficiente che risulti chiara la differenza fra uavora e vonoig quanto all’ig’ è. $ Si ricordi il SraRextuxòg del Cratz/o, il quale sapeva insegnare e discernere con i nomi proprio perché era in grado di fare a meno dei nomi stessi e contemplare senza di essi la verità delle cose che sono. Sul carattere non mediato della vonoig, cfr. L. BrIsson, L’intelligible comme source ultime d'évidence chez Platon, in C. Lévy-L. PeRNOT (édd.), Dire l’évidence (philosophie et rbétorique antiques), Paris-Montréal 1997, pp. 95111, il quale ascrive carattere intuitivo alla conoscenza noetica e ne sottolinea la funzione di garanzia dei procedimenti conoscitivi discorsivi. W. WieLanp, Platon und die Formen des Wissens, cit., pur negando che la conoscenza degli sièn abbia carattere discorsivo, ritiene che «die Konzeption der intuitiven Ideenschau hat jedoch nur die Funktion einer Grenzbestimmung. [...] Daher wird man gut daran tun, in der Metaphorik der
Ideenschau nur ein Musterbild fiir Formen nichtdiskursiver Erkenntnis iberhaupt zu sehen»: questa idea di un uso negativo dell’intuizione, come concetto limite, stride, però, con la frequenza con cui il Platone dei dialo-
ghi centrali della sua produzione fa riferimento alla “metafora” dell’intuizione e al parallelismo con le esperienze della visione e del tatto, una frequenza - per altro riconosciuta dallo stesso studioso - superiore a quella delle esemplificazioni tramite i saperi d’uso, che nell’interpretazione di Wieland costituiscono la forma fondamentale di sapere non discorsivo. # Che il cammino e il successo dell’intrapresa conoscitiva siano per Platone anche una questione di “slancio” (6pym) trova espressione in molti luoghi, fra i quali, per esempio quello celeberrimo, in 506 E, ove Socrate sospende la trattazione del bene in sé proprio perché non ritiene ancora adeguato lo slancio. Ma in relazione alla facoltà dialettica è inte-
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PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
spondente alla natura della facoltà conoscitiva, rivolta proprio
- come si è visto - all’apprensione di ciò che è così com'è”. In terzo luogo, la vono1g si differenzia per la dinamica che consegue a questa relazione diretta. Si deve tenere presente, infatti, che il movimento descritto nella quarta sezione è duplice: in un primo momento, si tratta di uscire dalle ipotesi per arrivare a “toccare” il principio (movimento orientato, intenzionale, guidato dal suo termine); ma poi, una volta toccato il principio, il movimento discende e finisce. Quest'ultima dinamica sembra essere impressa dal principio stesso e si svolge in virtù di
esso nella sola dimensione delle forme. Ma ciò apre questioni che porterebbero oltre l’attuale ambito tematico: al momento basti osservare che si tratta della dinamica propria dell’eriotmpn al
suo massimo dispiegamento, che rivela così di possedere, oltre al carattere intuitivo appena rilevato, anche una sua discorsività”!. Credo sia possibile, a questo punto, trarre qualche conclu-
ressante quest'altro passo: «Ora, Glaucone, non è questa la canzone che esegue la dialettica? Pur essendo propria dell’intelligibile, potrà essere imitata dalla facoltà della vista, che, come dicevamo, cerca di guardare (aroBAénerwv) agli esseri animati stessi, agli astri stessi e infine al sole stesso. Così accade pure quando uno con la dialettica cerchi di slanciarsi (òppàv) senza alcuna delle sensazioni attraverso il /ogos, verso ciascuna cosa che è in se stessa» (resp. 532 A 1-7). Oltre al rinnovarsi del paral-
lelismo metaforico con la vista e alla ripresa quasi letterale di alcuni elementi presenti in 511 A 3-c 2, è da notare che qui il verbo òppàv è il corrispettivo fuor di metafora dell’àroAérew, e indica quindi da solo l’attività della vònoig, come il guardare indica l’attività della vista. * Cfr., supra, p. 179. " E la conclusione cui perviene, seguendo un percorso inverso, dalla discorsività all’intuitività, M. DrxsAuT, Platon et la question de la
pensée, cit., p. 70: «Aussi difficile qu’il soit pour nous de le comprendre, le logos ne s’identifie pas pour Platon à une activité purement discursive, il a la capacité de voir et de toucher, il unit en lui les deux aspectes de l’intuitif et du discursif, dont nous n’arrivons plus à penser que l’opposition. La dialectique procède d’une certaine espèce d’eros, et elle est sous-tendue par la réminiscence qu’a l’àme de son pouvoir de penser (de s'apparenter è l’intelligible)».
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sione. Il luogo che è stato preso in considerazione è uno di quelli in cui Platone più esplicitamente tematizza le forme e i modi del conoscere. Nella gerarchizzazione che ne deriva egli concentra chiaramente i caratteri epistemologici più puri nel
più alto livello, quello della vonoic: il dominio della scienza comprende certo in qualche modo anche la $&vota, ma questa viene tratteggiata solo per difetto rispetto alla v6noig, vale a dire sottolineando in negativo le caratteristiche che le mancano per dispiegarsi pienamente come conoscenza scientifica. In tal senso la quarta sezione della linea esprime, nella sua essenzialità epistemologica, in modo completo ed esclusivo ciò che ogni altro livello conoscitivo imperfettamente è: quando le forme conoscitive vengono liberate dal peso della corporeità (i sensi, i bisogni fisici, insomma le “masse plumbee”, per usare l’espressione di Socrate”), sono poste in condizione di superare i limiti e i vincoli imposti agli uomini dalla difficoltà di assicurarsi una adeguata formazione, dalla necessità di acquisire gradualmente e progressivamente familiarità con l’oggetto della conoscenza e dalla limitatezza della capacità umane. Allora quel che già da sempre è il potenziale insito nell’anima umana può prendere la forma di una conoscenza immediata, nel senso che è diretta, priva di mediazioni (ma non certo nel senso di statica, o istantanea).
2.3 La cvyyévera
Alla fine del paragrafo 1.2 ci si era soffermati sull’avvio del libro vi della Repubblica (485 A-487 A), dove viene trat-
teggiata la natura filosofica. Si era Îì messo in luce come da queste battute emergesse il ruolo trainante della verità degli Svra sull’intenzionalità conoscitiva, ovvero su un’anima che, comunque, può esserne attratta in quanto è congenere
? Il riferimento è a resp. 519 B 1.
222
PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
(coyyeviio) alla verità. Ma, più in generale, l’argomentazione condotta in quelle pagine, pur nel suo carattere interlocutorio, perché descrittivo e psicologico, ha il pregio di presentare in forma semplice, ancorché implicita, l'orizzonte concettuale e filosofico all’interno del quale Platone inquadra la successiva trattazione dei libri vi e vII, e con essa tutta la sua riflessione sulla natura e le forme della conoscenza condotta nei dialoghi precedenti, della quale quella trattazione è il culmine. Il tema della syugeneia”, infatti, mi pare possa essere individuato come qualcosa di più di una conseguenza della riflessione filosofica sul dato dell’intenzionalità: esso è piuttosto il quadro di riferimento richiesto da quelle stesse conseguenze, poc'anzi trattate, l'orizzonte - appunto - di comprensibilità del fenomeno conoscitivo. In quelle pagine iniziali del libro vi, in un modo destinato per scelta compositiva a restare pressoché inavvertito per il lettore, questo tema viene introdotto, coniugandone le tre dimensioni lungo le quali lo vorrei poi analizzare. L’argomentazione si avviava, come si ricorderà, dal passo, già citato”:
«Possiamo dunque convenire così a proposito delle nature filosofiche: esse amano sempre una cognizione (uG0npa) che mostri ($nAoî) loro quella essenza sempre essente (agì cong)
e non fluttuante (um tAavapévnc) a causa della generazione e della corruzione».
Condizione della conoscenza - lo si è detto - è che al desiderio conoscitivo sia dato trovare soddisfazione, vale a
dire che esso abbia un fondamento oggettivo e permanente nella natura delle cose che sono. Si vedrà come sia questo il
? Lascerò non tradotto questo termine, mentre userò per la forma aggettivale cvyyevég l’italiano “congenere”, che rimane aderente all’etimologia della parola. * Si tratta di resp. 485 A 10-B 3, riportato supra, p. 189, che qui trascrivo per comodità di lettura.
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significato più profondo della syrgeneia, ma sarà prima necessario esaminarne due accezioni più superficiali, e più apparenti. La prima di esse emerge nel corso della successiva ricerca delle caratteristiche del conosciuto e, conseguentemente, del
conoscente. A proposito della dote della sincerità, intesa come amore per la verità, Socrate afferma:
«è del tutto necessario che chi per natura ama qualcosa, sia affezionato a tutto ciò che è congenere (ovyyevéc) e affine all'oggetto amato»”.
La verità è congenere alla cognizione di ciò che sempre è: c’è dunque una syrgerezsa che lega fra loro i caratteri delle cose conosciute.
Ma questa fase del dialogo si conclude con un’affermazione, nella quale l’aggettivo “congenere” assume un’ulteriore valenza: «C’è dunque qualche lato per cui biasimerai una simile professione, che uno non riuscirebbe mai a svolgere come si deve, se non fosse naturalmente dotato di memoria, pronto ad apprendere, magnanimo, aggraziato, e amico e congenere (cvuyyevnc) alla verità (GAnbeiag), alla giustizia, al coraggio
alla temperanza?»”*. Non considerando gli altri aspetti qui sottolineati da Socrate (fra i quali è certo rilevante la syrngeneia allafe virtù), occorre comunque prendere atto che l’indagine sulle qualità della natura filosofica si conclude con l’indicazione che l’anima (vvyî, 486 E 3) del filosofo è congenere all’aAn0era. Esaminando una per una (ma con ordine inverso) queste
tre dimensioni della syrgereia, ora brevemente passate in ras-
% Resp. 485 c 6-8. * Resp. 487 A 2-5.
224
PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
segna, così come fugacemente traspaiono dal passo esaminato, si tenterà di verificare quale consistenza e peso abbia tale motivo concettuale nelle tematiche affrontate da Platone nei libri centrali della Repubblica.
2.3.1 La ovyyévera fra l’anima e le cose che sono
Dalla prospettiva psicologica l’indagine sulla natura filosofica è imperniata sullo slancio amoroso che la caratterizza, descritto in termini di épog (‘“amore”, 485 B 1), ayàrn (“affezione”, c 8), émidvpia (“desiderio”, D 6 sgg.), 6petic (“brama”, 486 A 6), otépyew (“essere contento di”, c 4). Tutta
questa carica energetica” dell’anima è orientata all’acquisizione del sapere, o più precisamente - come s'è visto —- di quel uGOnua che mostra (ènAoî) l'essenza sempre essente: ciò perché la natura filosofica è chiamata a partecipare pienamente e perfettamente di ciò che è’. Questi due motivi psicologici, la tensione amorosa e la sua destinazione, svuotati della loro
portata affettiva, corrispondono al meccanismo gnoseologico dell’intenzionalità e del suo mirare a una relazione diretta con l’oggetto. Tale commistione di naturalità e processi logico-gnoseologici è assai interessante, ma anche fonte di nodi problematici, che meriterebbero un’attenzione maggiore. Ma dall’attuale prospettiva d’analisi, è rilevante il fatto che le dinamiche conoscitive affondano le loro radici nel terreno fattuale ed esistenziale della natura umana”. Esemplari mi sembrano in tal senso queste parole, prestate da Platone a Socrate per
” Per l’immagine della corrente di energia e per l'indicazione del suo orientamento, cfr. resp. 485 D 3-E 1. * Cfr. resp. 486 E 2; già citato, supra, p. 191 e nota 40. ? Cfr. R. FERBER, P/atos Idee des Guten, cit., pp. 135-6.
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scandire il momento in cui egli individua una delle qualità della natura filosofica: «Cerchiamo allora un modo di pensare ($uavorav), fra l’altro,
misurato e aggraziato per natura (pèoei), che il suo naturale
modo d’essere (tò adtogvéc) renderà incline (edéyoyov) all’idea di ciascuna cosa che è (èrì tiv tod Bvtog idéav éxdoTov)»!®. Prescindendo al momento da altre importanti implicazioni di questo passo', si può notare come la capacità logica ($14vora) sia implicitamente presentata come qualcosa di non determinato una volta per tutte, ma passibile di acquisire determinati caratteri; affinché tenda alla considerazione dell’idea,
com’è del resto nella sua natura, ha bisogno di un’ulteriore dotazione di alcune qualità piuttosto che altre, in questo caso la misura e la grazia. È già notevole che ci si ritrovi qui di fronte a quel piano della predisposizione naturale delle cose
0 Resp, 486 p 9-11. ! Come ho già detto, in luoghi come questo, apparentemente meno “alti” rispetto ad altri più sofisticati passaggi, ma altrettanto densi, proprio in virtù della funzione preparatoria che Platone assegna loro nel più ampio quadro argomentativo dell’opera, si intrecciano, senza trovare svolgimento, nodi problematici di un certo rilievo: come non accorgersi che è qui in gioco la concezione platonica dell’anima come realtà complessa, con il conseguente problema del rapporto fra le sue parti? Ma, più specificamente, l’accostamento di termini come eddyoyov e udtogvéc, il primo con il suo rinvio a un contesto paideutico (edayoyov significa “docile alla guida”, come mostra l’unica altra occorrenza dell’aggettivo nei dialoghi platonici, in /eg. 671 B 10; l’edayoyia è “buona educazione”), e il secondo con il richiamo alla spontaneità (è con questa accezione che il termine, peraltro raro in Platone, compare in Gorg. 513 B 4, soph. 266 8 10, /eg. 642 c 8, 794 A 2, e soprattutto in resp. 520 B 3), pone la questione di quanta parte vada riconosciuta alla natura e quanta alla cultura in una dinamica come quella in questione. Strettamente connesso a ciò è il problema dell’insorgenza e della spiegazione della devianza e dell’errore, su cui accennerò qualcosa più avanti.
226
PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
cui Platone aveva attribuito un ruolo determinante nel Cratilo!®, ma ancor più significativo è che tale retroscena naturale consista, nel campo gnoseologico, nell’inclinazione all’idea di ciò che è!%. Ritorna anche qui la terminologia dell’intenzionalità: si parla infatti di un movimento (ed6y@yov) verso (érì) ciò che è. Quel che è interessante è che la dinamica intenzionale, che si svolge, certo, grazie all’attività intellettuale, si deve trovare inserita in un quadro di naturale e generale (vale
a dire non solo logica o epistemica) affinità fra la mente che pensa e ciò che viene pensato: è questo, forse, il filo conduttore implicito della trattazione della natura filosofica, ma nel passo citato viene più palesemente all’espressione. Forte di questa prima presentazione, all’apparenza di non grande spessore teorico, ma capace di far breccia, sul piano drammatico, nel buon senso degli interlocutori (e del lettore), Platone ritorna su questo tema più avanti, in un contesto argomentativo di maggiore rilievo per la problematica episte-
mologica. Di maggior peso è, infatti, la seguente affermazione, se si considera che viene pronunciata dopo l’illustrazione della linea e l’introduzione dell’allegoria della caverna:
«L'educazione non è tale quale alcuni proclamano che sia. Dicono che, non essendovi nell’anima la scienza (oòk gvovong griotmpun), sono loro a porvela, come se in occhi ciechi ponessero la vista. [...] Invece, dissi io, il presente discorso significa che a quella facoltà ($bvapiv), presente (îvodoa) nell’anima di
ciascuno, e a quell’organo, con cui ciascuno apprende, si deve far compiere una conversione insieme con l’anima tutta (distogliendola) da ciò che diviene, fino a che non divenga capace di elevarsi contemplando ciò che è e il più splendido fra ciò
2 Cfr., supra, pp. 141-4; ma si vedano pure questi altri luoghi della Repubblica, molto vicini nel contenuto a quanto si vuole qui mettere in evidenza: 490 A-B, 494 D-E.
!? Dove è superfluo ricordare che idéa non ha certo valenza psicologica, poiché non designa un’entità mentale, ma l’apparire alla visione, l'essere visto.
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che è, così come non è possibile volgere gli occhi dall’oscurità allo splendore se non insieme con il corpo tutto»!". Le due occorrenze di èveîvar, con le quali Platone marca l'opposizione fra il suo punto di vista e il comune buon senso, non lasciano dubbi: la facoltà di conoscere, nel senso più alto del termine, quello dell’èmiotiun, è presente nell’anima di ciascuno. Si tratta, come dire, di una potenzialità connaturata all'anima umana?”. Certo, una volta radicata la possibilità dell’&muotmun nella natura stessa dell'anima, una volta affermato che l’anima per sua natura è protesa verso la comprensione di ciò che è, si pone il problema della spiegazione della deviazione dalla giusta direzione di questo movimento intenzionale!*. E Platone
non può che fondare anch’essa sul terreno della naturalità dell’anima!”, la quale è realtà composita, ove prendono il sopravvento innanzi tutto e per lo più i bisogni immediati, occasionali e contestuali, che fuorviano l’anima stessa dalla sua autonomia".
!* Resp. 518 B 6-c 10. ! Cfr. R. FerBER, Platos Idee des Guten, cit., pp. 136-7, il quale individua un nesso con la dottrina della reminiscenza del Merone. 1 Non si tratta ancora del problema dell’errore, quale sarà affrontato nel Teeteto, ma di una questione che si colloca più a monte: si tratta, a mio avviso, della spiegazione dell’imperfezione che vizia al suo nascere
il movimento intenzionale; da questa originaria imperfezione deriva la tendenza diffusa a ricorrere alla 36ta, dalla cui pratica si genera, poi, la dinamica dell’errore, giacché in essa soltanto si apre l’alternativa vero/ falso (che non si pone invece al livello dell’&muotiun). e Lo si evince, per esempio, da un passo immediatamente succes-
sivo (resp. 518 p-519 8), nel quale Socrate si riferisce alla naturale tendenza dell’uomo a lasciarsi distrarre dai piaceri del corpo: anche qui viene usato il termine syrgenes, a sottolineare come una parte dell'anima sia congenere a ciò che diviene, e non a ciò che è. ‘ts Ovviamente questo tema è strettamente legato alle problematiche psicologiche già affrontate da Platone nel libro 1v, e in particolare al ruolo della cogpooivn: su ciò cfr. F. CALABI, Andreia/thymoeides, in M.
228
PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
Nondimeno, una parte della yvyi è per natura capace di scienza: qui sembra che Platone addirittura estenda a tutta l’umanità quanto aveva prima riservato alle rare nature filosofiche; ma dal prosieguo del dialogo emerge che non è così!”. Subito, infatti, viene precisato che gli uomini possiedono la capacità conoscitiva, ma essa «non è orientata correttamente e non guarda a ciò che dovrebbe» (518 D 6-7). Ma che cos'è
che rende possibile ripristinare il corretto orientamento? Su che cosa l’educazione deve far leva per far compiere all'anima la conversione, se, come si è visto, non può indurla dall’esterno? Occorre, a questo punto, combinare questi elementi con i risultati della trattazione sulla natura filosofica prima esami-
nata. Da Îì era emerso che la differenza specifica fra il filosofo e l’uomo comune non è nella sola capacità intellettuale, ma — come già Socrate aveva sottolineato — nelle qualità cui si accompagna. Tali qualità, come è stato ora notato, si innestano
su una predisposizione naturale alla scienza (sia pure in competizione con un’altra predisposizione alla caducità delle cose relative al corpo), ma a loro volta dipendono da un'ulteriore predisposizione naturale, che caratterizza la parte razionale dell’anima. In altri termini: tutti gli uomini hanno la possibilità di utilizzare le loro (diverse) risorse intellettuali, ma solo
VEGETTI (ed.), Platone. La Repubblica, m, cit., pp. 186-203, spec. pp. 196-9, e ivi, S. GastALDI, Sophrosyne, pp. 205-37, spec. pp. 210-2 e 2283-30. ; !° Alla questione dell’origine della capacità umana di conoscere
dedica pagine interessanti F. FRONTEROTTA, ME@EZIZ cit., pp. 85-91. Per quanto riguarda, invece, il carattere “elitario” della propensione alla scienza, è interessante questa considerazione: «Plato is both too pessimistic in thinking that human nature is so unequally gifted in reason, and too optimistic in thinking that those who are so gifted could be so disinterested as to rule well with no external sanctions on their rule» (J. AnNAs, An Introduction to Plato’s ‘Republic’, cit., p. 177).
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in alcuni tali potenzialità sono spontaneamente! orientate nel verso giusto. Ora, si è visto prima che per spiegare questo corretto orientamento Platone aveva chiamato in causa la syrgeneia, la corrispondenza di natura, fra l’anima razionale del
filosofo e l'oggetto del suo conoscere. Tale syrgereia non è, evidentemente, un qualcosa che il filosofo costruisca e sopraggiunga alla natura della sua anima, ma è, come dice il termine,
qualcosa di originario, che egli deve solo saper recuperare e far riaffiorare astenendosi dal piegare l’anima a scopi che non sono consoni al suo essere. Insomma, Platone sembra voler dire che scavando fino in
fondo nella complessità dell’anima e spogliandola delle molteplici relazioni che occasionalmente la legano ai suoi contesti esistenziali per recuperare la sua dimensione essenziale, si scopre, sempre che sia un’anima ben dotata (e0g@vng, resp. 491 E 2, di buona natura!"), la sua semplice consonanza con
la verità delle cose che sono. Si tratta di un motivo concettuale non nuovo, come risulta
da questo passo del Fedone: «L'anima, quando per indagare qualcosa si serve del corpo (tò ocQuati rpocypfitar) per il tramite del vedere, dell’udire o di
0 È necessario che tale orientamento sia spontaneo, trattandosi di una dinamica naturale, che l’educazione può solo risvegliare e valorizzare, ma non indurre. n! Su questo intreccio di condizione naturale dell’anima e disposizione a conoscere ciò che è, cfr. epist. va 343 E 2-3: î) dè dà ravtov abtov Slayoyi, ivo kai kéato petaBaivovoa gp’ Ekuotov, pòyic Eriotfmunv eveterev eÙ reguKétog eÙ reguxoTti («il trascorrere attraverso
tutte queste [sci/. le prime quattro componenti del processo conoscitivo], spostandosi su e giù verso ognuna di esse, può con fatica far nascere in chi è ben predisposto per natura la conoscenza di ciò che è ben predisposto per natura»): come si vede, la dimensione del regvéva1 si configura esplicitamente come il terreno comune dell'anima e del conoscibile.
In tal senso si è espressa M. IsnarpI PARENTE, Filosofia e politica nelle lettere di Platone, cit., pp. 96-7.
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qualche altra sensazione - giacché questo è l’indagare attraverso il corpo: il farlo per il tramite della sensazione -, allora è trascinata dal corpo a cose che non permangono mai costanti, ed ella stessa vaga (rAavata1) e si turba e barcolla come ebbra, poiché si afferra (&partopévn) a cose di tal fatta. [...] Quando invece l’anima indaghi da se stessa (aùtà cad” adrnv), si dirige verso il puro e il sempre
essente
(agì 6v) e l’immortale
e
l’invariabilmente costante (0oadtog Éyov), e, nel suo essere congenere (cuyyevnic) a questi, sempre con questi viene a essere ogni qual volta le sia concesso di stare per se stessa, e smette il suo errare e permane sempre rispetto a essi invariabilmente costante (repì ékeîva di xatà taùdtà Moabtag Éyel), poiché si afferra (&partopévn) a cose di tal fatta»!!.
Come si può notare, in questo passo sono presenti molti degli elementi rinvenuti nei passi della Repubblica, espressi con una terminologia che per il suo ricorrere assume chiaramente valenza tecnica. Ai fini dell’attuale analisi è da notare come l’opposizione disegnata nel brano si giochi sulla coppia TO cmuati TPpocypijtar/admn xa0” adtnv, che separa l’attitudine artificiale da quella naturale dell'anima. Particolarmente significativa è poi la duplice occorrenza dell’aggettivo cvyyeviig: anche se nella Repubblica la concezione platonica dell’anima è più complessa, già nel Fedoze appare chiaramente che l’anima è affetta dalle caratteristiche delle cose con cui entra in relazione, siano esse di alto o di basso profilo; quando però essa guadagna la sua autosufficienza e riesce pertanto a essere se stessa, a dispiegare il suo essere, emerge la sua sygeneia con ciò che è!!.
112 Phaed. 19 c 2-p 6. !% Ancora più chiaramente tale concetto è espresso poco più avanti nel Fedone: alla domanda di Socrate su quale sia la specie di cose cui l’anima è più congenere (ovyyevéotepov), Cebete risponde che «l’anima è in tutto e per tutto più simile a ciò che sempre permane invariabilmente» (79 E 3-4). Cfr. anche le occorrenze dell’aggettivo in Phaed. 84 B 2, epist. va 342 D 2, 344 A 2, 6,7.
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Nella Repubblica il motivo ritorna in modo esplicito nell’ultimo libro, quando Socrate, affrontando il tema dell’immortalità dell’anima e del suo rapporto con il corpo, sottolinea come per coglierla quale essa è in verità occorra guardare «al suo amore di sapere (QuA\ocogiav), e comprendere quali siano le cose che tocca (&rteta1) e quali le relazioni che ricerca, in quanto è congenere (cvyyevr)c) al divino e all’immortale e al sempre essente, e quale potrebbe divenire se tutta si
lasciasse guidare da siffatte cose e se da quello slancio (òrò tavtng Opuîs) fosse condotta via dal mare in cui ora si trova» !!.
Ancora una volta: se si lascia essere l’anima quello che è, e non la si lascia adulterare dalle sollecitazioni occasionali, co-
stringendola a un sapere strumentale e finalizzato a contesti e scopi particolari, essa svela la sua natura affine a quella della struttura profonda e permanente del reale e si dimostra così capace di una piena conoscenza qual è quella della scienza”. Se nel passo appena letto la syugeneia fra l’anima e le cose che sono è dichiarata, essa è forse anche, sia pur meno espli-
citamente, al fondo dell’analogia del sole. Si ricorderà che nel quadro del parallelismo che Platone stabilisce fra la visione e la conoscenza, si attribuisce alla luce il ruolo di tlu®TtEpov
14 Resp. 611 E 1-5. 5 Cfr. Phaedr. 270 c 1-2: ‘Puyfig odv poor atiag Xbyov katavofcar ci Suvatòv eivar dvev tfg tod dX0v pboevg; («Credi sia possibile comprendere la natura dell'anima in modo degno di un discorso prescindendo dalla natura del tutto?»). Come ha osservato G. CAMBIANO, Dialettica, medicina, retorica nel ‘Fedro’ platonico, «Rivista di Filosofia», LvI (1966) pp. 284-305, spec. pp. 287-92, in questo passo è presente, attra-
verso la nozione di 6Aov, un riferimento alla sintatticità propria dell’oggetto della definizione e dei procedimenti dialettici: si tratta, a mio parere, anche in questo caso di un elemento di syrgeneia, fra l’anima e le cose che sono, poiché la trama di relazioni che l’anima è capace di intessere corrisponde, come si vedrà meglio più avanti, alla trama di relazioni costitutiva della realtà.
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&6yov (“legame di maggior pregio”) fra la facoltà della vista e le cose viste: «Per un tratto non insignificante, dunque, sono stati congiunti il senso della vista e la facoltà di essere visti con un legame di maggior pregio rispetto alle altre coniugazioni»!!°.
Tale legame, tale giogo!”, ha una connotazione tutt'altro che negativa: in questa immagine non mira, a mio parere, a significare qualcosa come un soggiogamento"!*o un intervento unificatore esterno. Al contrario, l’occhio stesso è presentato
come l’organo che più di ogni altro è della stessa specie del sole, dal quale ha ricevuto, come un fluido, la sua facoltà!!?. La luce che promana dal sole è condizione della visione poiché è
16 Resp. 507 E 6-508 A 1. Va da sé che questo passo e, più in generale, le pagine 507 A-509 B, cui si farà riferimento, sono assai ricche e cruciali, ma dovranno essere qui affrontate in modo tangenziale, senza
pretesa di esaurirne il contenuto. Sull’analogia del sole, com’è noto, è stato scritto moltissimo; in quanto segue ho tenuto presente, oltre alla già citata M. Drxsaut, Platon et la question de la pensée, cit., pp. 121-51, il recente e interessante contributo di F. FERRARI, La causalità del bene
nella ‘Repubblica’ di Platone, «Elenchos», xx (2001) pp. 5-37. 7 Il termine Gdyov (“giogo”’) ritorna nel sostantivo e nei due verbi impiegati in questa battuta del dialogo. L'immagine ricorda quella del Seouòg già incontrata nel Merone: anche in quel caso un termine che può a noi suonare connotato negativamente per l’associazione a uno stato di privazione di libertà, in Platone sembra invece avere valenza positiva, in virtù probabilmente dell’associazione con l’idea della stabilità e della saldezza dei vincoli che reggono la trama dell’essere. !!8 Così lo intende invece H. HUNI, Luzzière et idée chez Platon, «Revue de Philosophie Ancienne», x1 (1993) pp. 67-7, in particolare pp. 74-7, il quale fornisce conseguentemente una lettura riduttiva della conoscenza noetica, intesa come esperienza dei limiti della capacità conoscitiva dell’uomo. !° Cfr. resp. 508 B. Ma si veda anche la spiegazione della dinamica visiva in Tim. 45 c-E, dove viene chiaramente espressa l’affinità fra il fuoco interno all’occhio e il fuoco esterno che produce la luce, appaiati mediante il sostantivo ddeA.pdg (45 B 6) e l'aggettivo ovyyevég (45 D 4).
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l'elemento di affinità fra vedente e veduto, allo stesso modo
che la luce intelligibile che promana dal bene o, fuor di metafora, la verità e il ciò che è'”, nei quali si esprime l’idea del bene, sono l'elemento di affinità fra conoscente e conosciuto.
2.3.2 La cvyyévera fra le discipline relative alle cose che sono La relazione che congiunge l’anima con l’essere e con la verità si configura dunque come una ‘comune natura”, come
una derivazione da una matrice comune. Essa è il fondamento sui cui può edificarsi l'educazione dell’uomo e prepararsi, così, quella conversione di cui Platone parla in resp. 518 B-c!%. Tutta la trattazione del programma educativo, che occupa
buona parte del libro vi, è volta per l'appunto a specificare con quali discipline (ua@npata) e con quali strategie e obiettivi di studio si possa attirare l’anima al suo compito più proprio, vale a dire alla considerazione di ciò che è, giacché «con queste discipline si depura e si riaccende! un organo dell’anima di ciascuno rovinato e accecato dalle altre occupa-
zioni»: come a dire che la funzione di quelle discipline è aiutare a preservare l’anima favorendo la riassunzione della sua naturale disposizione a conoscere la verità!”*. Pertanto, ai fini della preparazione alla dialettica, di tali discipline non è rilevante tanto l’oggetto specifico, nella sua fisicità, contestualità, o praticità, quanto quei tratti dei rispettivi oggetti che consentano di orientare lo sguardo verso una
122 *AANBe1a e tò 6v compaiono con questo ruolo in 508 D 5. 121 Citato, supra, p. 226-7. 122 ’Avat@nvpeitar: ancora una volta un verbo composto con ùva-,
che indica un processo di recupero di un’attitudine latente, ma connaturata all’anima umana. Cfr. anche l’&yeprixd di 524 D 5.
> Resp. 527 D 8-E 2.
14 Resp. 527 E 3: uovo yàp avrò dAmbera bpatar («solo con quell'organo, infatti si vede la verità»).
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realtà sempre essente!. In questo senso le varie discipline, pur nella diversità che le contraddistingue, cospirano tutte nella stessa direzione, come afferma Socrate a conclusione della loro disamina: «Credo [...] che, se il percorso di studio (ué9030g) di queste
discipline che abbiamo passato in rassegna giunge alla loro reciproca comunanza (xoivoviav) e syrgezeia, e quelle siano
abbracciate con il pensiero (cvAX0y1007]) per quel che sono fra loro affini (oiketa), la loro trattazione dia un qualche frutto
nella direzione che vogliamo, e non sia vano lo sforzo di occuparsene; se no, esso sarebbe vano»!°. Si dà quindi una syrgeneia fra le discipline che presentano un'applicazione generale (èri tavia tervOvTa, 522 B 9) e che sono atte a risvegliare l’intellezione (&yeptikà TÎjg vonoeos, 524 p 5). Esse non sono da coltivare soltanto per se stesse, ma per il modo in cui possono essere orientate e risultare orientanti. Ciò si evince chiaramente, per esempio, da quanto Socrate afferma sulla geometria: «se costringe a contemplare l'essenza, è conveniente; se la generazione, non è conveniente» (526 E 6-7). Il valore aggiunto, che fa di queste disci-
pline un momento determinante nell’educazione del filosofo, consiste non certo nelle informazioni che esse procurano su realtà e circostanze particolari, ma nella direzione che esse possono riuscire a far assumere al movimento conoscitivo intenzionale. In questo esse sono congeneri e per ciò la comprensione della loro syrgereia è lo scopo di questa fase pre-
dialettica della rardsia. Infatti i pa@nuata devono ovAMMoyio@ivar, cioè essere compresi razionalmente, in base alle loro affinità. Anche questo verbo mette in risalto il fatto che per preparare il dispiegarsi della facoltà dialettica è opportuno orientare i propri
1 Cfr., per es.) resp. 525 D 5-B)3; 527 B 5-7;529 6 Resp. 531 c 9-p 4.
4-5,
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sforzi verso ciò che di comune è al fondo dei diversi saperi.
Ma in esso è presente un’altra sfumatura semantica: quella della coniugazione, del confronto e della raccolta di qualcosa di unitario da una disparità di elementi. Non si tratta certo di un aspetto di secondo piano, se è vero che ritorna poco più avanti, in un luogo giustamente considerato di cardinale importanza:
«le discipline impartite ai giovani in modo scoordinato devono essere per loro raccolte in vista di una sinossi (gig oùvoyiv) dell’affinità (oixe16tntog) che lega fra loro le discipline e la natura di ciò che è (tig tod Svtog gboewc). [...] Infatti il sinottico è dialettico, chi non lo è no»!”.
I saperi devono dunque essere coniugati fra loro perché nella loro syrgeneia si ritrova il giusto orientamento verso ciò
che è. Il dialettico è colui che è capace di una visione sinottica, perché egli deve non solo e non tanto dar prova di dominare un circoscritto dominio dell’ente, ma deve sapere volgere lo sguardo a quei tratti permanenti ed essenziali per i quali ogni ente è ente, deve sapere riconoscerli in una molteplicità di realtà e contesti diversi, e deve sapere coniugarli. Si era già visto che la filosofia non consiste solo nell’attingere certi contenuti, ma anche nel cercare le relazioni!*: tali relazioni non
sono (solamente) rapporti di affinità epistemologica fra dottrine e metodi conoscitivi, ma, come ben mostra l’espressione oikeu0tng tig tod Gvtog gioenc, sono la trama soggiacente
alla natura dell’essere e, di conseguenza, rapporti di affinità fra i saperi e la realtà. La syngeneia tra le discipline, derivando dal loro orienta-
12? Resp. 537 c 1-7: tà te y6òènv pa@fpara rarciv èv ti rardeig MV TOV yevòpeva tobtorg CUvaKTÉOv £iG oÙvoYIv OIKELOTNTOG TE GAAMA pa@nuatwv ai tig tod Svrog pioewo. [...] è pèv yàp ovvontiIKòg diaAextuxòc, 6 dè un où. 128 Il riferimento è a resp. 611 E 1-5, citato supra, p. 231.
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mento intenzionale verso il ciò che è, rimanda a, o meglio
consiste in una syngeneia tra gli 6vta di cui quelle si occupano, come del resto è ovvio attendersi in una prospettiva filosofica caratterizzata da un primato dell’ontologia. Questo motivo della familiarità in cui sono strette tutte le cose che sono, e
conseguentemente dell’affinità con esse delle forme di sapere coltivando le quali l’anima torna a esprimere le sua natura essenziale per insediarsi così a buon diritto nella trama delle relazioni fra le cose che sono, non è una novità assoluta nei
dialoghi platonici. Se ne è trovato un primo presentimento in quel passo del Merone in cui Socrate fornisce una spiegazione della versione mitica della reminiscenza!’, un passo che ri-
mane senza sostanziali sviluppi in quel dialogo, ma che, letto in controluce su questi luoghi della Repubblica, rivela la sua pregnanza: «Poiché la natura è tutta congenere, e l’anima ha appreso tucte le cose, nulla impedisce che, ricordando una sola cosa (il che gli uomini chiamano apprendimento) trovi da sé tutte le altre»!”.
Altrettanto pertinente, e ancor più esplicito nel tratteggiare la trama ontologica della syrgeneia è il seguente passo del Cratilo, che segue immediatamente il luogo in cui l’aANAzia tv Ovtov è individuata come ancoraggio ultimo della conoscenza e quindi presupposto dell’uso corretto dei nomi: «Se le cose stanno proprio così, Cratilo, allora, verosimil-
mente, è possibile imparare le cose che sono senza i nomi.
!2 Cfr., supra, p. 73 e nota 35. "0 Men. 81 c 9-D 3: dite YUP Tfg pioeag andong cvyfevodg obong, Kai pepaBnrviag tig yuxfig dravta, oddev xoXver Ev povov dvapvnodevia - è dm pa@norv kaXodow dvAparor - tddda TAvta adtov dvevpeiv. Il termine pd0norg va inteso come “apprendimento acquisito” e indica quindi il possesso di una nozione da parte dell’anima, come già nel passo
del Gorgia commentato in precedenza (cfr., supra, p. 98 e nota 78).
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[...] Con quale altro mezzo dunque ti aspetti ancora di impararle? Forse con un qualche altro mezzo che non sia quello conveniente e giustissimo, vale a dire le une per mezzo delle altre, se in qualche modo sono congeneri, e per mezzo di loro stesse?» !.
2.3.3 La cvyyévera come condizione dell'èiromun La comunanza della quale Platone, a mio avviso, sollecita una presa di coscienza con i suoi riferimenti alla syrgereia, ha dunque uno spessore ontologico. È comunanza fra le discipline perché congeneri sono i loro referenti, quando si sappia
selezionare per ciascuna di esse una modalità fondamentale di orientamento, quella verso il ciò che è. È affinità fra conoscente e conosciuto perché alle cose che sempre sono è congenere la parte più nobile dell'anima, quella che propriamente èanima.
Ma se, come sembra, la syrgeneia è quella parentela che lega fra loro le cose che sono, allora è chiaro che solo in virtù di essa è possibile la conoscenza, giacché questa si configura
come una tra le naturali strutture relazionali costitutive della realtà (sia pure nella forma asimmetrica che è propria della relazione intenzionale). A questo scenario unitario conducono gli spunti, apparentemente eterocliti, presentati nei due paragrafi precedenti. Presupposto perché ci sia étrotiyn è che l’intenzionalità conoscitiva si ingeneri a seguito di un’affinità fra i due termini
del movimento.
3I Crat. 438 E 2-7: padeîv dvev èvopatov tà dov obv Et tpoodokdg slk6c te xai Sixarétatov, è adtov;
"Eotv dpa, 0g Eorvev, © Kpatvde, duvatòv Svra, einep tadta obtwg Eyer. [...] Atù tivog dv tudta padeiv; dpa du dio tov Î obrep MW Ye, Ei mm ovyYEVÎ] goti, Kai adtà SU GAMMA
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«Colui che è in realtà ($vtoc) amante dell’apprendimento è predisposto (regukc) a lottare per ciò che è e non si attarda su tutte quelle molte cose che si crede siano, ma procede e non si placa e non si distoglie dall’amato prima di aver toccato (&yacda1) quella che è la natura di ciascuna cosa con la parte dell’anima cui si addice afferrarsi (&panteoda1) a cosa di tal fatta — si addice a ciò che è congenere (cvyyeveî) - e con quella parte avvicinandosi e unendosi a ciò che in realtà ($vtac) è, generando intelligenza e verità (voòv kai GAMOetav), conosce (yv6im) e vive veramente e si nutre e così smette il travaglio, ma non prima» !.
C’è innanzi tutto da notare il risalto che Platone dà alla naturalità del fenomeno conoscitivo, qui raffigurato attraverso l’immagine del rapporto amoroso, a indicarne l’originarietà e il radicamento profondo nell’essere stesso, semplicemente fattuale: in tal senso il corrispondersi delle due occorrenze di vtwg è assai eloquente, perché, chiarendo che solo nell’autenticità — cioè nell’essere se stessi — si realizza l’incontro fra conoscente e conosciuto, li rinvia entrambi all’unico
piano della natura essenziale. Ma la naturalità di questo processo implica anche che tale piano essenziale non vada inteso come distinto da quello esistenziale: è nella natura stessa dell’anima vivente che risiede tale tensione conoscitiva; anzi, è
solo lasciando che questa si dispieghi fino alle sue ultime conseguenze (la generazione di intelligenza e verità), che l’anima vive dAn9dg (nella sua verità, cioè per quel che è). Certo, nella complessità della sua articolazione anche l’anima è in qualche sua parte dissipatrice d’essere, così come l’essere degli òvta si dissipa nella yéveorg: ma c’è una parte dell’anima che risulta conveniente all’unione con il ciò che è, e non può che trattarsi della parte a esso congenere!?.
Senza quella predisposizione naturale e senza questa affi-
©? Resp. 490 A 8-B 7. Cfr. symp. 210 E-212 A. !? Un’analoga presentazione della conoscenza come relazione di
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nità d’essere fra ciò che è propriamente l’anima e ciò che è propriamente la natura delle cose, non si darebbe conoscenza, che viene qui significativamente presentata come frutto di un incontro fra amante e amato, e non come espressione, per così dire, unilaterale dell’attività di un presunto soggetto. Per di più, questa syrgereia fra i due termini della relazione intenzionale si profila come l’unica garanzia che l’intenzionalità conoscitiva colga nel segno e non si attardi, vagando, in tentativi ed errori!*. Ma, al tempo stesso, anche da un’altra prospettiva la syn-
syngeneia fra “la specie più alta dell'anima umana” e la realtà si trova in Tim. 90 A-D.
!* La syrgeneia si configura, come già implicito in quanto detto, come quello scenario ontologico rispetto al quale risulta sofistica l’obiezione di Menone sull’impossibilità di cercare ciò che si ignora (Mer. 80 D-E): lo stato di ente che ricerca è connaturato all’anima dell’uomo (alla sua parte più propria), giacché essa è intenzionale e congenere alle cose
che sono, e può pertanto entrare in relazione con esse. Come si vede, quando si afferma qui che la syrgereia è condizione della conoscenza non ci si situa su una prospettiva natorpiana. Infatti la syngeneia e, tanto meno, l’gidog non vengono qui intesi come condizione trascendentale della conoscibilità delle cose e della loro esistenza, come vorrebbe la lettura neokantiana, volta a ricostruire il pensiero di Platone a partire da un’esigenza giustificazionista del conoscere e del suo oggetto: nella lettura di P. NaToRrp, Platos Ideenlebre. Eine Einfiihrung in den Idealismus, Leipzig 1903 (trad. it. Milano 1999), l’ontologia platonica appare come un'ipotesi di lavoro, quella senza la quale non si spiegano il reale e la sua conoscibilità, una condicio sine qua non. Nella lettura che qui si propone, invece, il ruolo dell’ontologia è primario, non ha primariamente valore in negativo (come condicio sine qua non), ma in positivo,
perché la verità dell’eidog e del ciò che è si impone. La verità ha i caratteri dell’evidenza: in primo luogo, perché, una volta che se ne sia avuta nozione attraverso un atto noetico (come si dirà fra breve), non
presenta residui né margini di incertezza; in secondo luogo, perché a essa corrisponde il ciò che è della nostra anima, poiché congenere; in terzo luogo, perché essa semplicemente è, nella sua autosufficienza, e nel bene (cioè come il meglio per se stessa). In tal senso la syrgereia è innanzi tutto condizione fattuale e non trascendentale.
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geneia si mostra come condizione della conoscenza: solo in quanto le cose che sono siano congeneri e condividano, innanzi tutto, la stessa dignità di sempre essenti, può darsi l’émommyn con i suoi caratteri di infallibilità, autosufficienza e stabilità.
Questo aspetto della questione è rilevabile, per esempio, nel seguente passo della Repubblica, tratto da un luogo dell’opera abbastanza lontano dall’ultimo citato, ma in continuità con esso per la rappresentazione del processo conoscitivo come
fenomeno naturale dell’anima, appaiato ad altri suoi stati: «- Fame, sete, e cose simili non sono come dei vuoti nello stato del corpo? - Perché no? — Ignoranza e stoltezza non sono a loro volta una vacuità dello stato del corpo? — Certamente. — Dunque li può colmare chi assuma nutrimento e possiede intelligenza (voòv)?
- Come no? - È più vera la pienezza di ciò che meno è o di ciò che più è?, —- E chiaro: di ciò che più è. — Ebbene quale genere credi che partecipi (uetéyeiv) di più della pura essenza (odoiav): quello del pane, della bevanda, del companatico e di tutto il cibo, o quello della opinione vera, della scienza, dell’intelligenza e, insomma, della
virtù tutta? Fai questa scelta: ciò che attiene al sempre essente e all’immortale e alla verità, sia perché è sempre tale sia perché si trova in cosa di tal fatta, non ti sembra che sia di più (uGXi0v givai) di ciò che è mai simile, mortale, sia tale in se
stesso sia trovandosi in cose di tal fatta? - Lo supera di molto il genere che attiene al sempre simile. - Ora, l'essenza (obcia) del sempre essente partecipa (uetéyeu) dell'essenza più che della scienza? — In nessun modo. — E della verità? - Nemmeno. - E se [partecipa] meno della verità, non [partecipa] anche meno dell’essenza?
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— Necessariamente. - Dunque, nel complesso, i generi concernenti la cura del corpo partecipano dell’essenza e della verità meno di quelli concernenti la cura dell'anima? - Di molto, certo. — E il corpo stesso [meno] dell’anima: non credi sia così?
- Sì. - Dunque, ciò che più è e che si riempie delle cose che più sono si riempie realmente (6vt@c) più di ciò che meno è e che si riempie delle cose che meno sono? - Come no? - Allora, se è piacevole riempirsi delle cose affini (rpootkovta) per natura, ciò che più si riempie delle cose che sono e per mezzo di ciò che è, tanto più farà godere realmente e veramente di un vero piacere»!”.
Credo sia, a questo punto, superfluo insistere ulteriormente sulla sottolineatura da parte di Platone dell’aspetto fisiologico del processo conoscitivo, come pure vale solo la pena notare di sfuggita che la dinamica vuoto-riempimento conferma quanto detto sul carattere intenzionale della conoscenza, intesa come mancanza proprio perché pensata come essenzialmente ordinata a ciò di cui può contestualmente essere priva!*. Più importante è notare come
questo passo, nella so-
stanza!”, renda conto della sovrapponibilità di quelli che fin
55 Resp. 585 B1-E 1. 6 Invero il brano citato contiene numerose altre sollecitazioni come il concetto di “pienezza” in rapporto alla coppia yiyv6pevov/dv, oppure la nozione di partecipazione in riferimento ai yévn e all’oùòcia alle quali non è possibile dare qui spazio. Sul motivo del “più essere/ meno essere” tornerò fra breve (infra, nota 138). !57 Anche se nel brano citato non compare il termine syrgereia, mi pare evidente che per il suo contenuto, così come per le occorrenze di altri termini chiave, esso è in piena sintonia con la tematica che si sta discutendo, della quale credo costituisca una chiara esemplificazione. Lo stesso può dirsi del passo in cui la 001 dei prigionieri nella caverna
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qui sono stati presentati nell’analisi come due distinti aspetti della syngeneia. Le ultime due battute di Socrate mettono bene in luce che, dipendendo la soddisfazione del bisogno conoscitivo (come d’ogni altro bisogno) dal colmare il vuoto che quel bisogno rappresenta, ed essendo una tale opera di riempimento più efficace se produce un assetto stabile e definito, come quello del ciò che è!*, tale efficacia dipende parizzenti dall’essere di ciò che riempie e da quello di ciò che è riempito, o in altri termini dall’essere degli òvta e da quello dell’anima. Rispetto alle due battute precedenti, che pure preparano tale esito, in queste è dato maggior risalto alla coniugazione ed equiparazione di anima e scienza, che anziché essere intese
come due domini esterni l’uno all’altro e poi posti in connessione tra loro, sono concepiti come articolazioni e manifestazioni diverse di un unico dominio, quello dell’oòoia. E la concezione di questa unicità, del resto, che spiega perché Socrate possa avere, subito prima, dato per ovvie le equivalenze fra l’essenza di ciò che è sempre simile!”, la scienza, e la
viene presentata come un evento naturale, pòoer (resp. 515 c 4-6, un passo sul quale ha richiamato la mia attenzione Mario Vegetti, che ringràzio).
138 Ritornano nel brano citato le espressioni uaAXov/fttov sivar (“più/meno essere’), già incontrate in 479 B-D (nel quadro del passo 477 A-480 A, già commentato, caso, riagganciandomi a quanto non credo siano da intendersi in intesi come distinte dimensioni gone fra ciò che solo è e ciò che
supra, pp. 208-10): anche in questo già rilevato (supra, note 52, 61, 62),
riferimento a presunti gradi dell’essere, ontologiche, ma nel senso di un paraanche non è (e che, pertanto, può dirsi meno essente). Il paragone qui istituito da Platone mediante l’opposizione più/meno non ha luogo fra due livelli di una scala (per quanto l’uso del comparativo possa indurre a crederlo), ma fra ciò che partecipa a pieno titolo dell’essenza (cfr. 585 c 7) e ciò che vi partecipa a minor titolo (meno perfettamente, meno costantemente, ecc.).
1° L'espressione tò di 6potov, “ciò che è sempre simile”, che a quanto ne so compare solo qui in questa accezione, ricalca sicuramente i sintagmi dgì 6v (“sempre essente”) e Q0avtwg Eyov (“invariabilmente costante”), di uso frequente e tecnico nei dialoghi platonici (cfr., per es.,
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verità, equivalenze che ancora una volta danno un ‘quadro molto forte del legame di syrgereia sussistente fra tutto quanto abbia per Platone una natura stabile, al di qua di ogni (moderna) distinzione fra soggetto e oggetto. Tutto ciò lascia meglio comprendere, a mio parere, il senso
di quel sapere inteso come visione della trama di relazioni, come trascorrere di idea in idea sempre restando nelle idee, i cui contorni Platone aveva tracciato in precedenza!‘ e che ha alle spalle quella We/tarschauung, inizialmente forse ancora generica, poi sempre più concettualizzata, di una natura tutta
imparentata con se stessa, di una trama dell’essere retta daiun senso univoco e permanente. Un tale disegno era stato già prefigurato in quelle pagine conclusive del Crati/o, dove Platone, dopo aver destituito di autonomo fondamento ilpilastro di ogni sapere procedurale, il linguaggio, aveva additato:la strada da seguire per scorgere il terreno su cui possa fondarsi un’autentica conoscenza, capace di rapportarsi alle cose che sono perché a esse congenere: «Ma neppure è verosimile dire che ci sia conoscenza, Ctatilo, se tutte le cose cambiano e nulla permane. Se infatti, dell’esì sere conoscenza, questo stesso, cioè la conoscenza, non cammÙ
il passo in Phaed. 79 c 2-D 6 citato, supra, p. 229), ma ne costituisce un'interessante variante, giacché chiama in causa la relazione di somiglianza, che può essere letta in molti modi: come somiglianza di sé con sé, o di sé con il simile di pari dignità ontologica (per es., la virtù e l’anima), o anche di sé con il simile di inferiore dignità ontologica (per es., un eîdos e i molti che ne partecipano). Ritengo che in questo passo questa ambiguità (o polisemia) sia in parte voluta, poiché la compresenza delle prime due accezioni è sicuramente funzionale alla fissazione del legame di syngeneia in cui sono strette tutte le cose che sono. Più problematica risulterebbe la questione ove si considerasse (come non credo sia alle viste nella Repubblica) anche la terza accezione: il che, non a caso, è il motivo concettuale che darà avvio alla disamina autocritica della prima parte del Parzzenide (cfr. 128 E-130 A). © In particolare in resp. 511 A 3-c 2 (citato, supra, p. 216).
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bia, allora la conoscenza permarrà sempre e sarà conoscenza. Ma se la stessa idea della conoscenza cambia, in quel momento si cambierà in un’altra idea di conoscenza e non sarà conoscenza: e se sempre cambia, sempre non sarà conoscenza, e alla luce di questo discorso non sarà né ciò che dovrebbe conoscere né ciò che dovrebbe essere conosciuto. Ma se è sempre ciò che conosce, e ciò che è conosciuto, e il bello, e il buono, e ciascuna singola cosa di quelle che sono, queste cose che sono, di cui noi parliamo ora, non mi sembrano in nulla simili alla corrente né al movimento»!4. L’àgì sivar è il fatto nel quale si inscrive la conoscenza, in quanto esso vale 4//0 stesso titolo per il darsi del conoscere e per il darsi del conosciuto.
3. Conclusioni
Nei luoghi della Repubblica presi in esame in questo capitolo si rende manifesto l’approdo della lunga riflessione di Platone sui saperi procedurali, che si è qui cercato di ricostruire attraverso una rilettura di suoi momenti salienti nel Menone e nel Cratilo. Tale approdo trova una emblematica esemplificazione ancora in un delicato passo della Lettera vu, là dove, quasi al termine dell’enumerazione delle cinque componenti del processo conoscitivo globale, si chiamano in causa al quarto posto, che è quello dell’etromiun, il vodg e la dAn0àg d6a, precisando: «Fra queste si accosta più vicino al quinto per syrgereia e
somiglianza il zous, mentre le altre distano di più»!*.
14! Crat. 440 A 6-c 1. “ Epist. va 342 D 1-3: toòtov dè éyybtata pèv ovyyeveig kai OuordiniI toù rEéLTTOV vos merAnoiarev, rada dè rAgov aréyer. Su questo passo, in riferimento alle ragioni dell’accostamento di voòg e dAnong Séta, che non implica però una confusione o una riduzione della
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Criterio discriminante fra le forme del conoscere è dunque la vicinanza per syrgeneia e somiglianza: da questo punto di vista al voùg è assegnata una preferenza, poiché, come si è visto, esso realizza un contatto diretto con la cosa 0, fuor di
metafora, esso è quell’esperienza conoscitiva nella quale ciò che è si mostra nella sua evidenza (o verità)!®. La convinzione che la conoscenza per dirsi realmente tale debba consistere in un incontro diretto con la realtà che si manifesta, è da ascriversi probabilmente al modello culturale nel quale Platone è vissuto e si è riconosciuto, che è quello arcaico e sapienziale: rispetto a esso egli ha intrapreso un’opera che, dal suo punto di vista, poteva ben dirsi di straordinaria carica innovativa, poiché aveva come obiettivo la laicizzazione e la rigorizzazione di quella concezione del sapere, sostituendo alla relazione di mistica e rituale appartenenza dell’iniziato alla sapienza divina una relazione per certi aspetti
differenza fra i due, cfr. M. IsnARDI PARENTE, Filosofia e politica nelle lettere di Platone, cit., p. 27 e 62; F. TRABATTONI, Scrivere nell'anima cit., pp. 206-7.
1 Può essere interessante notare come un approccio evidenzialista sia stato attribuito allo stesso Socrate: D. ApAMs, E/enchos and Evidence, «Ancient Philosophy», xvm (1998) pp. 287-307, ritiene che l’elenchos praticato da Socrate (ricostruibile, a suo parere, dai dialoghi giovanili di
Platone) si appoggia non tanto sulla riduzione alla contraddizione dell’interlocutore, ma su un richiamo all’evidenza. Tra l’altro, l’evidenzialismo socratico spiega, secondo Adams (cfr. pp. 299-300), l'apparente
dualismo soggiacente la fallacia socratica (su cui si vedano, supra, p. 49 nota 48), in un modo che mi sembra convincente. Per il carattere di
evidenza della conoscenza noetica e il suo configurarsi in Platone come un contatto diretto cfr. L. Brisson, L’intelligible cit., pp. 99-101 e p. 106. Lo studioso francese inserisce, però, il suo confronto fra l'evidenza intuitiva e quella derivante dalle pratiche discorsive nel quadro del paradigma interpretativo dei gradi dell'essere, che non viene qui accolto e che, comunque, non mi pare decisivo nell'economia delle sue argomentazioni, come mostra il fatto che le dieci conclusioni, con le quali Brisson riassume l’esito della sua analisi, risultano comprensibili e sostenibili senza alcun riferimento a distinti livelli ontologici.
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diversa, giacché si origina da un percorso di ricerca consapevole, individuale e deliberato, e congiunge l’uomo capace di autopurificarsi (sia pure a seguito delle altrui sollecitazioni, come vuole la dimensione politica e - se mi è consentito periclea della nozione platonica di rardeia) a una realtà pensata nella sua profondità come immota, imperturbata, presente. Questo programma di riforma del sapere trovò uno stimolo nella prassi filosofica di Socrate, che fu probabilmente maestro di laicità intellettuale (in senso generale, e non solo
rispetto alla questione religiosa); esso, però, non presentava elementi di giuntura con altre tendenze diffusesi nell’ Atene del tempo, quelle risalenti a un Protagora e un Gorgia, ma anche a personaggi come Eutidemo e Dionisodoro, o ancora
ad Antistene e Isocrate (che Platone colpisce e copre dietro i suoi apparenti silenzi), tutti orientamenti più iconoclasti(e ai nostri occhi, forse, più moderni) di quello platonico. Nella contrapposizione a questi, e a quel loro retroterra culturale e sociale, che era il mondo variegato delle téyvat, si può ipotizzare che Platone sviluppi la sua diffidenza verso le forme procedurali di sapere, la cui esaltazione delle capacità operative e costruttive dell’uomo è diametralmente opposta alla sua mentalità tradizionalisticamente naturalistica, per la quale, appunto, il conoscere non può che compiersi in ultima analisi in ciò che già da sempre e per sempre è. In tal senso prioritaria e preliminare nel pensiero platonico è l’opera di esplicitazione e concettualizzazione di quella che a lui doveva apparire come l’ovvia nozione dell’essere, di stampo visualistico e parmenideo!, che gli consente di leg-
gere la realtà nella sua struttura profonda come una trama di unità elementari sintattiche (gli sin), nella quale soltanto trova senso e ragion d’essere la realtà superficiale delle unità
4 Riemerge qui il tradizionalismo di Platone incapace di scorgere la fecondità tanto degli esiti democritei del naturalismo antico quanto delle istanze sofistiche, e in particolare gorgiane.
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elementari apparenti della dimensione empirica. Con ciò Platone, da un lato, ritiene destituiti di fondamento i saperi
procedurali, perché privi di autonomo referente e perciò (nell'ottica platonica) di autonomia epistemologica. D'altro canto, egli in tale lettura del reale trova la legittimazione di quell’al-
tra operazione filosofica che si è tentato di descrivere in questo capitolo, consistente nella concettualizzazione della sua
spontanea nozione di conoscenza. In questo quadro si inserisce la preferenza accordata alla vénoig, visione intellettuale diretta e sapere per eccellenza non procedurale. A esso Platone finisce per attribuire non soltanto ciò che manca ai saperi procedurali (autonomia, necessità, stabilità), ma anche ciò che di positivo era in essi (dialetticità nel senso di sintatticità,
capacità di oltrepassare il dato immediato sensibile, dialetticità nel senso di persuasività e funzionalità educativa). C’è un nesso stretto che lega — come si è visto — la lettura
del reale in termini di giòn e la gerarchizzazione delle forme di sapere fino alla perfetta conoscenza noetica: è la syrgeneia fra tutte le cose che realmente sono, tra le quali è da annoverare la conoscenza stessa. Con ciò voglio dire che non è l’efficacia della vonoig a dimostrarne la superiorità, ma al contrario la superiorità ontologica a garantirne l’efficacia. Ma, forse, l'affermazione che nella delineazione del sapere propriamente epistemico Platone mira alla conservazione in
esso dei caratteri positivi dei saperi procedurali merita qualche delucidazione, anche per indicare rapidamente, con l’occasione, i modi della continuità pur sussistente fra il conoscere attraverso
mediazioni e il conoscere
noetico.
Si consideri,
innanzi tutto, il carattere operativo e costruttivo che le téyvai possiedono, guadagnandone la possibilità di proporsi come attività non solo di intervento sul reale, ma anche di trasfor-
mazione o addirittura reinvenzione e costruzione di una realtà parallela (quella del vépoc, che si sovrappone alla pòorc). Tale carattere deriva loro dalla messa in opera di procedimenti discorsivi, di mediazioni concettuali, che certamente Platone,
248
PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
come già Socrate, teneva in alto pregio, pur senza volerne condividere gli esiti, da lui considerati estremi. E precisamente una siffatta esigenza di sceverare i metodi dagli esiti a costituire uno dei motivi ispiratori del Merone, con la sua riflessione sulla distinzione fra érrotiun e S6ta. Dovrebbe essere ormai chiaro che, a mio parere, almeno da quel dialogo in avanti la ratio di tale opposizione non consiste nell’alternativa dato/costruito, che può essere trasformata in statico/dinamico o addirittura, con un possibile rovesciamento di valenze, in passivo/attivo. Nel Merone stesso, così come nel Cratilo e nella Repubblica, sono state rinvenute molteplici attestazioni del fatto che per Platone la conoscenza vera e propria è tutt'altro che estatica e inoperosa fruizione’; essa è, invece, una complessa e faticosa attività che comporta sempre un movimento intenzionale. Essa è costruttiva, se per costruttiva non si intende artificiosa!*, ma operativa e capace di esercitare un effetto sul reale (come mostra il ruolo di sovrintendente riservato al dialettico nel Crati/o); è dinamica, se si intende relazionale, e non certo se si intende in sé mobile (come si è visto, per esempio, in Crat. 440 A 6-c 1!). In poche parole, la stabilità dell’&rrotMun non significa la sua staticità, ma solo la saldezza e permanenza del suo ancoraggio. Il criterio distintivo rispetto ai saperi procedurali è dunque piuttosto
l’assenza di qualsiasi filtro fra l’anima e le cose che sono, con la conseguente emancipazione dal bisogno di ricorrere all’£ixdaCerv, e cioè all'immagine, alla riproduzione, alla congettura.
4 Attitudine che trova invece una satirica resa drammatica nel personaggio Cratilo. © Nell'ottica platonica la realtà artificiale non ha statuto ontologico autonomo, ma non può non essere immagine della realtà naturale, con l’aggravante che si spaccia per quella, riuscendo a confondere anche chi intenda denunciarla e, con essa, snidare il falso sapiente, il sofista, che ne costruisce l’inganno. 4? Citato, supra, p. 244.
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Questa stessa ratio governa nella Repubblica la coppia oppositiva diavora/vodg!*. Il movimento intenzionale, che ha come direzione la rela-
zione anima-òv e come verso (per superare il convenzionalismo e il costruttivismo) il mostrarsi dello òv all’anima, è l’u-
nico fattore di dinamicità presente anche nella conoscenza noetica, oppure essa non è un attingere puntuale e isolato, ma appunto un poter muoversi nel dominio delle idee? Tale questione apre scenari ulteriori rispetto a quelli qui tematizzati, anche perché costituisce la premessa di quell’opera di riaggiustamento della propria filosofia intrapreso da Platone a partire dal Teeteto e dal Parmenide. Un qualche accenno al problema è stato comunque fatto nel corso di questo capitolo,
4* Così come viene nettamente delineata in resp. 511 p 2-5. Tale distinzione mi sembra concettualmente chiara e significativa, anche a prescindere dalle oscillazioni nell’uso dei termini: in resp. 527 A 2, 530 D 8, sono chiamate émotfuar forme di sapere dianoetico, ma tali impieghi subiscono un aggiustamento in 533 D 4-E 1; allo stesso modo, c’è difformità fra la valenza di vonorg in 511 p 9 e quella in 534 A 2, dove con questo termine si indica l'ambito comprendente tanto l’émotiun che la èiavora, il che ha anche una sua sensatezza se si considera il fatto che tanto nell’approccio dianoetico quanto, ovviamente, in quello noetico il movimento intenzionale conoscitivo è virtuosamente orientato verso il ciò che è (in modo parziale nell’un caso, in modo esclusivo nell’altro,
come si evince da resp. 533 c 8, dove dei saperi dianoetici viene detto che sono in grado di toò Svtog 11 étAauBaveodai, “cogliere qualcosa del ciò che è”). In ogni caso la differenza fra un sapere noetico, perché scevro da mediazioni, e uno dianoetico, perché mediato, rimane intoccata da queste variazioni. Al tempo stesso, però, la continuità fra i due è assicurata dal comune orientamento verso gli 6vta, alla cui considera-
zione la $uavora progressivamente converte l’anima, utilizzando strumenti che continuano ad avere “riconoscibilità” empirica, ma piegandoli a una vera referenzialità (come accade con la sublimazione del linguaggio), finché l’anima non divenga capace di affidarsi esclusivamente alla vénois (cfr. resp. 518 c 4-10); solo grazie al lento decondizionamento dall’empirico è possibile il verificarsi dell’apprensione noetica. ‘9 Come ho cercato di mostrare in I/ ‘Parmenide’ e la sintassi dell'‘eidos’, cit.
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e credo sia emerso come, alla luce delle analisi svolte, alla conoscenza noetica vada riconosciuta una capacità elaborativa e discorsiva, senza che per questo ne risulti diminuita la valenza intuitiva e diretta. Le mediazioni che occorre lasciarsi alle spalle per accedere al più alto livello conoscitivo sono quelle che si frappongono fra l’anima e il conosciuto, non certo quelle che sussistono nella trama degli òvta e che il voòg può cogliere. È questa del resto la visione sinottica che il dialettico deve possedere. È questo il valore aggiunto che assume ormai, in quella che probabilmente è una reinterpretazione platonica della prassi del maestro, il $1aXéye00a1. Basti pensare all'impiego di un’espressione come î) toÙ diad.éye0901 étiotmun (“la scienza dialettica”, 511 c 5), che pur nell’ostentata indifferenza da parte di Platone verso l’assoluto rigore della terminologia!, e pur se pronunciata non da Socrate ma dal suo interlocutore, è troppo pregnante per poter essere semplicemente sfuggita all’autore. Basti pensare, soprattutto, a come viene descritta nel passo immediatamente precedente la Sbvapis toò SdiaXéyeodar (‘il potere dialettico” !) nel quadro di quell’importantissimo passo, già citato!, in cui si illustra proprio la differenza fra sapere dianoetico e sapere noetico: qui risulta esplicita l'affermazione che il “toccare” (&rteoda1) che è proprio del voòg ha luogo esattamente con la dialettica, e dà luogo a un trascorrere di eidog in eidog. Ancora una volta l’aspetto qualificante non è la puntualità e l’immobilità dell’atto noetico, ma il suo darsi e
150 Cfr. resp. 533 D 7-E 2. !! Espressione che torna nel Parzzeride in una posizione cruciale del tessuto argomentativo, a conferma di quanto si diceva poc'anzi sul carattere nodale di espressioni e concetti come questi, punto d’arrivo, ma anche di nuovo impulso nel quadro dell’itinerario filosofico di Platone. Sulla continuità fra la Repubblica e il Parmenide, in riferimento alla distinzione tra dianoia e nous, cfr. R. BRUMBAUGH, The Purpose of Plato's ‘Parmenides’, «Ancient Philosophy», 1 (1980) pp. 39-47. 2 Resp. 511 A 3-C 2, citato, supra, p. 216.
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muoversi in completa assenza di filtri sensibili o ipotetici!”. Ho il sospetto che quando si attribuisce al voùg la pura e semplice visione e si ascrive poi la ridiscesa fra le idee alla Suavora, ciò accada perché non è del tutto chiaro che voùc e
divora sono due forme di conoscenza (cioè di rapporto dell'ente anima con altro ente), e non due pure facoltà mentali (cioè attività dell'anima « prescindere dall'ente, il che - come
ho cercato di mostrare - non mi sembra congruente all’ottica platonica). Certo, ciò presuppone che si riconosca alla syngeneia il rilievo che le si è voluto qui conferire, e che conseguen-
temente si metta in luce la duplice valenza sintattica degli giòn, come unità del molteplice e come unità elementare e
relazionale della trama del reale: ma non è questa la sede per tale analisi. Mi limito qui a indicare la possibilità che Platone, nell’assimilare all’interno del più alto grado di conoscenza
qualità epistemologiche proprie dei saperi procedurali, consideri anche il sapere diretto del voòs come una conoscenza “discorsiva” nel senso tutto platonico di “dialettica”, come
> Da tutto quanto detto dovrebbe risultare chiaro che la conoscenza noetica non viene qui intesa come una sorta di esperienza mistica.
E per questo che, anche in ragione del già ricordato orientamento laicizzante (sia pure in modo conservatore) riconosciuto in Platone, sono pienamente condivisibili queste parole di G. CASERTANO, I/ (in) nome di Eros. Una lettura del discorso di Diotima nel ‘Simposio’ platonico, «Elenchos», xvm (1997) pp. 277-310, nonostante la diversità nell’interpretazione dello spessore ontologico dell’eidog: «Possedere l’idea del bello significa possedere la capacità di vedere la bellezza delle cose, nelle cose; e nello stesso processo che ci ha portato all’acquisizione di questa
capacità. [...] Questo è il fine di Eros e di ciò che gli uomini fanno in nome dell’amore. E questo fine non è una mera contemplazione estatica, una “visione” che determina l’afasia: non ha assolutamente nulla di mistico. Al contrario, è l’inizio di una nuova attività, continua e infinita, e che ha una forte connotazione etica. [...] Ape e dAnbe1a sono appunto i segni non di una fuga dal mondo, ma di un nuovo modo di vivere nel mondo, che è pensare ed agire con bellezza e con amore, con eccel-
lenza e verità. Questa è la mortale immortalità degli uomini» (p. 310).
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sembra potersi ricavare da queste parole, che qui riporto a puro titolo esemplificativo: «Non chiami forse dialettico colui che si dà ragione (A6yov) dell’essenza (odoiac) di ciascuna cosa? E non dici che chi non
ne è in grado, nella misura in cui non è capace di rendere ragione (X6yov d186va1) a se stesso e ad altri, in tale misura ne ha intelligenza (vodv Eyew)?»!.
Fra le caratteristiche positive dei saperi procedurali era stata indicata anche la capacità di oltrepassare il dato sensibile. Al riguardo può essere sufficiente far qui riferimento a quanto detto nel capitolo primo, dove si metteva pure in luce la differenza qualitativa fra le strategie procedurali (lo òti parziale, soprattutto) e la visione dell’gidog (lo 6t1 corretto),
le une e l’altra capaci di operare tale oltrepassamento, ma con esiti ed efficacia ben diversi. Per quanto concerne, infine, le capacità persuasive e la funzione didattica delle quali si facevano forti i sofisti e le relative pratiche conoscitive, e dalle quali non può andare esente il voùg platonico, basti qui il rimando alla critica e alla reimpostazione del problema riscontrabile nelle pagine 487 B489 p del libro vi della Repubblica, che vedono Socrate impegnato a difendersi con la celebre immagine della nave e del nocchiere dall’obiezione di Adimanto sull’utilità del sapere filosofico (cioè noetico): è chiaro che in questo contesto, come
in generale al fondo dell’attribuzione ai filosofi di funzioni di governo, v'è una rilettura della nozione stessa di utilità, che viene svincolata dalla funzionalità a singoli e occasionali scopi empirici e orientata a finalità di più alta generalità, il che peraltro non comporta che non si tenga conto, pur se in seconda istanza, della rilevanza dei contesti pratico-operativi e didattici. Ma sulla figura del dialettico e sulla sua funzione
1! Resp. 534 B 3-6.
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didattica ci si era anche soffermati nel corso delle considerazioni sul Crati/o. Oltre al confronto fra legislatore e dialettico, dal quale possono ricavarsi analogie e differenze fra un sapere procedurale e il sapere dialettico, si è anche tentato di evidenziare come già emergano in questo dialogo elementi di riflessione sulla funzionalità di base del pensiero dianoetico, e
quindi sulla esigenza di fare ricorso a esso, nella consapevo-
lezza però della necessità di un piano fondativo ulteriore senza il quale quella stessa funzionalità risulta deprivata nella sua potenzialità. Si è visto, infatti, come la comunicazione linguistica, e quindi anche la retorica e la didattica, passino sempre
attraverso le pratiche del $uavogiodar, ma anche come queste ultime non debbano in autonomia costituire l'orizzonte dell'insegnamento; la struttura sintattica del linguaggio è infatti veicolo di autentica persuasione ed educazione solo se se ne colga l’isomorfismo con gli òvta '” (al di là di ogni intenzione o volontà comunicativa dei parlanti) e al tempo stesso l’alterità rispetto a quel piano (a evitare ogni appiattimento su ciò che è necessariamente strumentale, come il linguaggio, di ciò che è necessariamente in se stesso autonomo, come gli òvta e, fra essi, quello 6v che è la conoscenza): solo il dialettico, forte
della comprensione di tale isomorfismo e tale alterità, sa fare un uso vero del linguaggio, servendosene come luogo della semplice èmAwo1g del reale e trasformando la sua visione diretta della realtà da fatto intimo e individuale a fonte di insegnamento (peraltro sempre esposto ai rischi intrinseci alla comunicazione e alla trasmissione della conoscenza attraverso il linguaggio parlato e/o scritto)!”.
55 Si sta, ovviamente, parlando di un isomorfismo fra la struttura del linguaggio e quella della realtà, non certo fra singoli nomi e singole cose. 156 La considerazione della syngereia e di un tale conseguente isomorfismo (che - per riprendere una metafora linguistica già impiegata ha luogo a livello della argue e non a livello degli atti di parole) può aiutare a comprendere il nesso di “immediatezza” e “relazionalità”, o
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Ciò detto, rimane
chiaro
che nel disegno
platonico
l’èmoti um, ancor più che assumere in sé le note positive delle forme di sapere procedurale, è chiamata a superarne le ca-
anche di carattere “diretto” e carattere “discorsivo”’, che qui si propone come caratteristico della conoscenza noetica (le virgolette vogliono ricordare che tali termini sono qui impiegati nelle determinate accezioni, già segnalate). F. TRABATTONI, Scrivere nell'anima cit., pp. 216-25, ritiene che quella che lui chiama l’interpretazione noetica (cioè quella che riconosce nel voòg un sapere qualitativamente diverso da quello dianoetico perché derivante da una visione non mediata della realtà ideale) sia sostanzialmente chiusa in una stretta: o riconosce che l’intuizione noetica è qualcosa di mistico oppure ne accoglie il carattere relazionale e discorsivo, ma deve allora evitare di pensare a una cesura netta con il sapere dianoetico, dialogico, linguistico. Ebbene, se si considera che la syngeneia fra l’anima e l'essere è la condivisione di una struttura articolata sintatticamente (che nella Repubblica è ancora una “capacità”, una Sévapic, per l’anima e una realtà di fatto per l’essere, laddove nel Soffsta sarà Sbvapig anche per lo stesso essere), allora potrà risultare conciliabile il carattere non mistico, ma razionale, della conoscenza noetica (faticosamente conquistata con l’esercizio dialogico attraverso cui l’anima impara a sceverare dentro di sé ciò che deriva dalla sua natura migliore e si attaglia perciò alla natura delle cose, da ciò che deriva da fattori distorcenti endogeni, come i desideri, o esogeni come le apparenze o le sollecitazioni sensibili) con il suo carattere relazionale (non derivante dalla
pratica del linguaggio, delle esecuzioni linguistiche, della parole, ma derivante da una dialetticità che è, in prima istanza, delle cose e, in seconda istanza, per l’asimmetria dell’intenzionalità, dell'anima). La fi-
gura del dialettico del Crailo esprime bene questo sapere relazionale (se il dialettico è in qualche modo un tecnico è perché la sua è una corrpetence, similmente a quella linguistica) e al tempo stesso diretto (basato sulle cose stesse e antecedente
perciò ai nomi).
È per questo che il
dialettico sa usare i nomi, e perciò, fra l’altro, può insegnare: ciò non toglie che nell’insegnamento ritornano a essere cruciali l'esecuzione linguistica e la dimensione del Savogio@at, con i rischi connessi (cfr., per es., epist. via 343 D 2-E 1). Ma gli infortuni nella comunicazione dipendono dal fatto che ci si trova sul piano della parole: del resto, ciascuno di noi, credo (e spero), ha sperimentato la frustrazione di fronte al modo parziale o deformato in cui è stata compresa dai nostri interlocutori una struttura concettuale che credevamo di poter comunicare pienamente e
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renze, o, per usare un’immagine dello stesso Platone, a riempire il vuoto d’essere e di conoscenza che esse lasciano nell’anima. Questo è l'aspetto più evidente della presentazione platonica nei libri centrali della Repubblica. La conquista dell’autonomia dell’éruompyn si configura come punto culminante dell’ascesa conoscitiva, poiché, come si è detto più volte, è dichiarata l’importanza che Platone, nel delineare la superiorità di tale forma di sapere, ascrive all’emancipazione da ogni elemento di mediazione. Tale autonomia e autosufficienza costituisce, poi, il corol-
lario di quell’altro tratto che nell’ottica platonica è necessariamente intrinseco a una conoscenza che sia veramente tale:
l’infallibilità. Essa conferisce al sapere diretto una necessità ben superiore a quella che può scaturire da un’applicazione pur rigorosa delle procedure conoscitive. Se nel passo precedentemente richiamato!” essa costituisce l’ovvio tratto distintivo dell’éruomun, è perché è probabilmente parte costitutiva di quella prenozione di conoscenza con la quale Platone si è sempre mosso e della quale ha progressivamente elaborato una giustificazione teorica. È l’infallibilità, infatti, il criterio discriminante fra opinione vera e scienza già nel Merone, poiché - come si è visto nel capitolo secondo - se è vero che né l’una né l’altra sbagliano, è anche vero che solo l’éruotiun non può sbagliare, in virtù proprio del contatto diretto con il ciò che è, reso possibile dall’aitiag A0yiopòs. Nel linguaggio del Merone il èecuòg, vale a dire il legame che assicura a una solida base le opinioni e che rimonta stando alla lettura propostane nel capitolo secondo! - alla visione diretta, dà luogo a un sapere (gidévar) qualitativamente diverso dall’opinare ($o&atew), proprio perché infalli-
lucidamente, perché da noi posseduta in modo evidente, di un’evidenza non mistica, ma razionale, perché costruita magari attraverso lo studio! 57 Cfr. resp. 477 E 4-7, su cui si veda, supra, p. 183 nota 21. 158 Si vedano in particolare, supra, le pp. 72-5.
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256
bile. L’ancoraggio delle opinioni al ciò che è, infatti, le promuove a ériotfuoar: esse ne guadagnano così uno statuto di stabilità. Nella Repubblica questi motivi concettuali, così come la preoccupazione platonica di precisare dei saperi procedurali quali e in quali modi siano funzionalizzabili a un’autentica énuomiun!’,
ritornano
e trovano
espressione meno
metaforica e trattazione più esplicita!. Nella pagina in cui
Socrate riprende il tema della gerarchizzazione delle forme di conoscenza e fa il punto sulle caratteristiche e sui pregi della
dialettica, si trovano queste interessanti affermazioni a proposito dei propedeutici saperi procedurali:
159 Di tale preoccupazione si era trovato traccia già nella prima parte del Merone, come rilevato ripetutamente nel capitolo primo. ! Molti studiosi negano che ci sia una tale continuità fra Repubblica e Menone, non ravvisando in quest’ultimo dialogo lo sfondo ontologico determinante in quello (cfr., per esempio, M. CANTO-SPERBER (éd.), Platon. Ménon, cit., in particolare pp. 93-4; G. VLASTOS, Socrates’ Disavowal of Knowledge, cit., p. 77 nota 36; M. VEGETTI, Introduzione al libro v, cit., p. 30 nota 26; J.A. PALMER, Plato’s Reception of Parmenides, cit., pp. 76-7). Quest'ultimo autore trae dalle stesse premesse di questa posizione interpretativa (vale a dire che nel Mezorze opinione e conoscenza possono vertere sullo stesso oggetto, mentre nella Repubblica sono dirette a oggetti ontologicamente differenti) una conseguenza che ha del paradossale (e che, a mio parere, la lettura qui proposta evita): egli infatti asserisce che, nonostante quanto esplicitamente detto in resp. 477
E 4-7, l'indicazione platonica dell’infallibilità come criterio distintivo fra emiotiun e Séa «is consistent with the Mero epistemology [...] but it seems foreign to the Republic theory. In this context, the idea that knowledge is unerring entails that an ‘erroneous’ apprehension of a potential object of knowledge is not an apprehension at all and thus not any kind of knowledge» (p. 76). Viene naturale chiedersi quale nesso, se non quale continuità, possa sussistere da questo punto di vista fra il secondo, il terzo e il quarto segmento della linea, o anche quale utilità possa avere in concreto il sapere del filosofo in rapporto al mondo empirico, nel quale egli è chiamato ad avere funzioni di comando. Che la coppia opinione vera-conoscenza presentata nel Meroze preluda alla distinzione fra Savoia e vodc della Repubblica, è di fatto riconosciuto da J.E. THomas, Musings on the ‘Meno’, cit., in particolare pp. 201-7.
IL SAPERE DIRETTO: EYTTENEIA E NOYE
257
«Le restanti [tecniche], che dicevamo cogliere qualcosa di ciò che è, la geometria e le discipline a essa conseguenti, vediamo che è come sognassero riguardo al ciò che è, mentre la realtà è per quelle impossibile a vedersi (iSeîv), finché, servendosi di ipotesi, le lasciano immobili (dkivitovc), non
potendo renderne conto (X6yov è186va1). A colui per il quale il principio (@pym) è ciò che non sa (pù vide), e la fine e i passaggi intermedi sono concatenati a partire da ciò che non sa, quale artificio mai potrà tramutare un simile accordo (ò6uoXoyia) in scienza (£riotmpn)? [...] Solo il percorso dialettico (i dladextir) pé00d0c) procede in ciò, eliminando le ipotesi, alla volta del principio stesso al fine di stabilizzarsi, e pian piano trae verso ciò che è e riporta verso l’alto l’occhio dell'anima sepolto in una sorta di barbarico fango, servendosi, come compagni e collaboratori nell'opera di conversione, di quelle tecniche che abbiamo considerato. Abbiamo spesso chiamato queste ultime “scienze”, conformemente all’uso, ma per esse occorre un altro nome, che esprima una maggiore evidenza di opinione ($6Éa),
e una maggiore oscu-
rità di scienza. In precedenza l’abbiamo definito “pensiero dianoetico”; ma, mi pare, non verte sul nome la disputa fra
coloro che indagano su questioni tali quali quelle che ci stanno davanti»!.
Il passaggio dal sapere non ancora autonomo di “scienze” come la geometria all’autentico sapere è qui descritto nei termini di una trasformazione della 6uoXoyia in émrompn, che ricordano da presso la differenziazione fra 0p96tng e dAMGera nel Cratilo. Di tale passaggio si sottolinea la capacità di stabilizzare (BeBarbontar)
come
e questa stabilizzazione
anche nel Menoze
è presentata,
(98 A 5-8), in qualità di momento
conclusivo e finale (iva) del percorso dialettico verso quell’àpyf, della quale chi pratica i saperi procedurali non sa nulla (uù oise). Si ripete così la dinamica già riscontrata in quel
passo del Merone, dove un Érerta scandiva “temporalmente”
16 Resp. 533 B 6-E 2.
258
PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
le fasi della trasformazione dell'opinione in scienza!. Ciò testimonia la continuità e la coerenza dell’attitudine platonica verso il problema del confronto fra saperi mediati e sapere diretto, confermata dalla volontà di ritagliare all’interno dei primi un ambito di maggiore pregio epistemologico. La distanza fra Menone e Repubblica è segnata in questi passi dalla | chiarezza e dal rigore concettuale con cui quest’ultima operazione è compiuta nel dialogo della maturità: nel luogo citato, così come in altri contesti, emerge in modo manifesto l’intento di definire, nel senso di delimitare e nominare, quell’opinare correttamente orientato al ciò che è, intento rafforzato dalla precisazione finale di relativo distacco dalle scelte terminologiche, che mostra come qui non siano in gioco questioni lessicali, ma sostanziali, non nomi, ma cose (in perfetta sintonia e attuazione dei dettami del Crati/o)!9. La 6uoXoyia, che sembrava essere il punto d’arrivo del
cosiddetto metodo socratico della definizione, oltre il quale già il Platone del Merone invitava a proseguire, trova qui una sua collocazione precisa, in ragione del suo consistere in un argomentare (parlare e/o ragionare) coerente e rigoroso, ma incapace di fondare la propria referenzialità, cioè di rendere conto del suo punto di partenza (4pyN), ancoraggio inindagato della procedura conoscitiva. Il movimento! conoscitivo dia-
12. Cfr., supra, p. 62. !® Una riconsiderazione della funzione positiva della è1&vora e dei saperi a essa afferenti potrebbe costituire un ulteriore sviluppo di questa ricerca, mirante più specificamente a indicare i modi dell’oltrepassamento dei saperi procedurali e a scorgerne l'orizzonte di giustificazione. Alla questione dello statuto e del ruolo della è1&vota si è accennato, per mostrare il confluire in essa di un orientamento già presente nel pensiero platonico: essa, infatti, sembra configurarsi come una facoltà e una strategia conoscitiva atta a svolgere quella funzione diacritica propedeutica alla èjAwo1g, che si è vista anticipata e attribuita al Savosîo@dai nell’analisi di alcuni luoghi del Cratilo. !* L'aggettivo dkivntog attribuito alle ipotesi rigide dei saperi pro-
IL SAPERE DIRETTO: EYTTENEIA E NOYF
259
lettico (î SiaAextixi pé00S0c), che, come sappiamo da resp. 511 B-p è la facoltà (3ovapic) di muoversi nella trama dei soli eiòn, raggiunge la stabilità mirando proprio quell’àpyf, così come nel Merone l’aitiag Aoyiopdg!9. Questa aitia e quell’apyn, che solo una visione diretta del ciò che è mette in condizione di conoscere, possono essere attinti senza l’aiuto di alcuna mediazione in virtù della syngeneia. Nel passo della Repubblica appena richiamato! v’è un’espressione che mi pare pregna di questo motivo concettuale: vi si dice che il A6yog grazie al potere dialettico tocca l’apyi e, una volta toccatala', inizia il suo trascorrere di idea in idea EyxOuevog tòv Exeivng gyopévov («attenendosi alle cose che attengono a quello [sci/. il principio»). L'uso dello stesso verbo nella stessa diatesi non deve essere lasciato inosservato. Esso vuol dire che a questo punto del percorso conoscitivo, cioè a contatto diretto avvenuto, il A6yog!* entra in relazione con determinate cose che, a loro volta, si trovano in questa stessa relazione con l’apym. Tali cose, piuttosto che le ‘“con-
seguenze” !, sono, come si evince dal prosieguo del testo, gli
cedurali sembra mostrare, nuovamente, come per Platone il tratto della staticità sia appannaggio di questi piuttosto che del sapere noetico. 5 Il che non esclude, anzi implica che un uso sapiente del linguaggio, come quello del Sialextix6g del Crazilo, il quale sa interrogare e rispondere, sia il terreno di una diversa, più consapevole duoAoyia, nella quale trovi nuova espressione la componente dialogica dell’insegnamento di Socrate. 6 Riportato per esteso, supra, p. 216.
‘7 Si noti l’uso dell’aoristo per questo participio (&yapevoc), dopo una serie di participi al presente (iodbouv, Suvapévnv, ypopévnv, roroùpevoc, i@v): questo dato, unito all’impiego anche questa volta della finale iva, dà l’idea della sequenzialità del processo conoscitivo noetico, ricor-
dando nuovamente l’érerta del Merone. 16 A questo punto per X.6y0g credo non si possa intendere altro che il pensiero (fattosi) noetico (cfr., supra, p. 220 nota 91, la citazione delle parole di M. Dixsaut).
6 È questo il termine con cui viene tradotto éopévov da F. Sar-
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PROCEDURE E VERITÀ IN PLATONE
altri siòn, ai quali ormai lo sguardo noetico e sinottico ha accesso. Ebbene, conoscere autenticamente significa entrare a far parte di una rete di relazioni essenziali, o, meglio, rico-
noscersi!”° come parte di essa: ciò dipende da, e in ciò consiste, la syageneia fra l’anima ($vtog dv, autenticamente tale) e la realtà (autenticamente tale).
tori nell’edizione laterziana (Platone. Opere complete, Bari 1966), che
non mantiene la corrispondenza con l’altro participio, èy6pevoc, tradotto con “attenendosi”. 1° Al modo dell’àvéuvnots.
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2/7 42
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INDICE DEI LUOGHI PLATONICI Alcibiades I 105 c
56 n. 1
Apologia Socratis 20 D 6-E3
105 n. 85
Charmides 168 D 2 171A43-6
28 n. 17 186 n. 27
Cratylus 383 384 384 385
B c D E 4-387B7
386 A 4
386
DIE 9
117 n. 105 117 n. 105 105 119 119
120 e n. 112
386 E-387 D
119 n. 109
386 E 1-4
145 n. 39
387 A
145 n. 40
387 A 1-8
141-2
387 A 1-B4
112 n. 96
386 E 4-389 D 4 142 n. 34
389 389 389 390 390 390 390 390 390 390 392 393 393 393 393 394 394 394 394 400 401 404 404 405 407
D 6-7 D 7 E 3 A 6 B l-c 12 81 B 7 c 6 c 10 E 3 D-394 D B-C D-E D-394 c D1I-E7 B 3-6 c 3 c 6-8 E 11 D 6-401 A5 A 4-5 c 5-D 1 E 2 A 2 B
141 127 141 141 107-8 e n. 90 141 96 n. 71 139 n. 26 139 n. 26 141 144 n. 39 145 n. 40 149 138 150 e n. 45 138-9 e n. 26 150 n. 46 139.e.m 21 151 n. 49
104 n. 85 412'e n, 95 147 n. 42
151 n. 49 151 n. 49 159 n. 70
387 A 1-B 6
121en.115; 128 n.9
387 B11-c4
143 e n. 37
388 A 388 B7-c1 388 B 13-c 1
104 108-9 e n. 91 166 n. 80
408 c 10
147 n. 42
411D7
388 389 389 389 389 389 389
138 139 n.29 141 141 141 144 e n. 38 105-6 e n. 87; 128
4l1lEl 412 A 412A1 414 A 416 c 1-2 416 c 10 41847
151 n. 49 147 n. 42 136 n. 22 147 n. 42; 151 n. 49 551 159 e n. 69 159 158; 159 n. 68
B-C A-390 A B 3 85 B 10 c 4-6 D 4-390 A 7
INDICE DEI LUOGHI PLATONICI
22 152 n. 50 418 B 3-5 I92m5:1 418 c 8-9 158 41809 131 422 c-D 12.9-M52 422 c 71-03 126 e n. 3 422 c 7-9 127en.6;137en. 25 422 D 1-3 422 D-423 E 152 Bliss 423 A6 13.113 4231 131 e n. 14 423B11 132/015 423 E 1-5 147 n. 42 423 E5 132 n. 16 424 A 1-82 131 424 E 55-6 n. 1 425 c 425 D 1-426 A 3 104 n. 85 133 427 c-D 147 n. 43 428E1 429 A-C 107 n. 89 ZO 429 ce sgg. 121 n. 114 429 c-E 117 n. 105 429 c 121 n. 114; 197 n. 50 429 D 5-6 429 E-431 B 117 n. 106 153 n.17 430 A-435 c 12.6'ein. 150129 430 A 6-8 430 B 430 E 5-6 431 A 431 p 2-5 431 E 107 n. 89 432 A8-B5 134 e n. 18 432c7 137 432 D 1-3 134 n. 18 135 e n. 20 432 D 5-9 432 D-433 B 153 432 D-435 c 135 432 E 6-7 136 n. 24; 163 e n. 433 B3
433 c-434 E 433 D 1-434 A 2 154 e n. 57 434 c-E 117 n. 104
434 D 7-435 A 10 155 e n. 60
434 p-435 Cc 434E5 434 E-435 Cc 434 E 6-7 435 A 2-3 435 A8 435 c 1 435 c 2-3 435 De sgg. 435 D 2 43649 11 436 B 12-c 3 436 D 6 437 A 437 83 438 A 2-c4 438 A-E 438 D 2-8 438 D 7
159 122 6 154 163 n. 75 156 e n. 62 162 n. 72 122 n. 116 136 n. 24 138; 160; 164 135 112-3.en97 114 e n. 99 200 n. 53 136 n. 22 147 n. 42 114-5 e n. 100 118 n. 107 116 e n. 101 147 n. 43; 167 n. 82 438 E 2-439 B 8 15320017 438 E 2-7 236-1 n. 131 439 A 168 n. 84 439 a5-88 1ile n. 94 439 B 10-p 12 164-5 e n. 78 439 c 2 158 n. 66 4404 6-c1 244 e n. 141; 248
Epistula va 324 A 342 D 1-3 342 D 2
260
244 e n. 142 230 e n. 113 342 E 2-343 A 1 Dlin252 343 02-£1 254 n. 156 343 E 2-3 229084 34442 23 en. 113 344 A 6 23 e n. 113 344 A7 23e n. .d13
Euthydemus 288 D-289 B 289 B 5-6
105 n. 86
110 n. 93
Euthyphro 6D lla
43 n. 4l 28 n. 17
273
INDICE DEI LUOGHI PLATONICI
Gorgias 454 c 7-D8 463 A-465 D 513 84
98 e n. 78 WI n. 1 225 n. 101
Hippias maior 287 c-E
288 A 301 B 6-8 301E4 302 c 5 304 DE
42 24 28 28
n. n. n. n.
4l 10 17 17
75 A 75 D 1-2
Laches 190 A 190 D-191E
Leges 642 c 8 6715810
794 A2 Meno 70 A-79 E 71B 71B 3-7 7183-4 71E1-72A5 72A42-5 72 A2 72 B 1-2 7281 7282 728 3-6 7284 72 B-C 72 c 2-3 72c6-D1 TEA 72£4-7
72£4-5 73 A-C 73 A 1-3 73A6-C5 TRO
730 5-8 Bel 73E5 74 A 7-8 748 2-4 74 8 4-7 74 c 5-6 740 4-2 74 D 7-8 74 E 74£ 4-9
225 n. 101 225 n. 101 225 n. 101
21 49 35 83 34
n. 48 n. 30; 49 n. 48; e n. 49 n. 28
75pD1 76 AS PL T1A6-7 78D4 79 A-C 79 B-C 798 7-c 3 79 c 3-7 pete 79 D5 80 DE 81 A-E
81 c 5-9 81c9-03 81 E-82A 82 B-82 E
71 e n. 32
73 n.35; 236e n.130
82 82 84 85
28; 51 n. 51 127 n.4 25.e n, 12 22 e n. 6; 167 n. 81 26:51 n.31
41-2 e n. 40
SP n132
B 1-2 E-84 A A-85 B B-86 B 85 B-86 c 85 C-D 85 c
90 n. 62 239 n. 134 365
85c9D1 85 D 3-4 85 p 12-86 B2 85 E-86 A 86A1 86 A 2
65 n. 19; 66; 70 n.
28 66 e n. 20 67 e n. 22; 68 n. 25; 88 n. 59 101-2 e n. 81
88 n. 58 81 n. 46 62 n. 12
274 86 A 6-10 8648 86 B 86 B 1-2 86 B 7-c 3 86D8E1 86 E-89 Cc 878 3-4 8708 88 A 3-5
88 E 1-3 89 c
89 c 5-D 8 89 p-96 c
INDICE DEI LUOGHI PLATONICI
68 62 88 69 89 34
n. n. n. n. n. n.
25; 88 n. 59 12 60 26; 116 n. 102 61 28
34 n. 28 79 n. 44; 90 n. 62 90 n. 63 90 n. 63 87 n. 55 89lein.93; IDMNLO
90 B-91 B 92 c 1-5
92 E 3-5 93 A 24 95 BD 96 D 1-4 96 D 1 96 E-97 A 96 E 97 A 97A-C 97 A-B 97 A1 9746 STUART:
98 B 7-9 99811
99 B 5-c6 99 c8 9 E 11 100 B6
128 E-130 A
1352
Phaedo 65B9 65 E-66 A 73 A-TI A 1DG 75 A-E 7502 75 D4 5E4 76 c 15 76 E 5-A 2 79c 2-26 7934
Phaedrus 265 E 1-3 270 c 1-2
90 n. 63
8398 n. 77 Isle. 64 n. 16 95-6 e n. 72 96 n. 74 90 n. 62 Zini.
Parmenides
81c9-D1 84B2
97 B-99 A
97812 DB 97 B 5-7
98B1
275 A
243 n. 139 16
72 n. 34 229-30 e n. 112; 243 n. 139 230 e n. 113 135nn35: 230 n. 113
143 e n. 35 231 n.115 78 n. 42
Pbilebus CIME) ip 97 D-98 A 97E6-98A1 98 A 1-8 98 A 5-8 98 A 7-8 99 B-C 98 B 1-5
38 c-39 c 55 E
182 n. 18 78 n. 42 162 n. 73 56 n. 1
Protagoras 318 E-319 A 33509 341E4 349 B 4 359 A 2
3.422 132 n. 16 156 n. 61 28 n. 17 200 n. 53
31 B-36 E 34 B-C
97 B-C
58 e n. 4; 94 n. 68
63-4 e n. 15; 66; 69 62 e n. 13; 257 257 e n. 3; 94
79 Dore. M:t70 n.490; 89 n. 61
275
INDICE DEI LUOGHI PLATONICI
360 c 360 E-361 A
24 n. 10 35 n. 29
Respublica 332 D 437 B-439 D 437 p8-E8 437 D8-E 5 437 E 7-8 438 A 7-B2 438 CE 438c6D1 438 D 12-£ 8
438 E 2-7 439 A 439 B 3-6 47484-476D7 476 08-£8 476 D 8-E 3 476 E 4-9 476 E-477 A 476£7-477A5 476 E 7-8 476 E 7 476£9477A4 477 A-480A 477A6478E6 477 A6-B2 477A9 4778 7-8 4778 10-11 477 cD 477c1 477 D 1-5 477£47 47886-c9 478 8 6-10 478 E 1-5 4784 478E7-479D6 478 7-479B2
31 n 22 181 188 n. 32 181 n. 18 183 e n. 23 182 n. 19; 184 n. 24 181 185 e n. 25; 188 n. 33 182 n. 19; 185 n. 26; 186 e n. 29 236-7 n. 131 181 n. 18
200 176 e n. 9; 182 n. 19 176-7 e n. 10 195-210
198 200 179 180 e n. 14 179 e n. 13 173 n. 3; 180; 185 173 n. 3; 180 181 n. 17
183 n 21; 25991. 157; 256 n. 160 204 n. 57 180 n. 15 201 201 198-9 196 n. 47
478 479 479 479 479 479 479 479 484 484 485 485
E7 B-D 8 6-c 5 c7 03-E9 07-E9 D9 E 1-5 B 3-7 c 6D1 A-487 A A 10-B 3
485 B1 485 c-487 A 485 c 6-8 485 c.8 485 D3-E1 485 D 6 segg. 486 A 6 486 c 4 486 D 9-11 486 E 1-3 486 E 2 486 E 3 487 A 2-5 487 B-489 D 489E3-490A3 490 A-B 490 A 8-87 490 c 2 491E2 494 D-E 506 E 507 A-509 B 507 D 1 507E£6-508A1 508 B 508 p-509 B 508 D 5 5ILA9C2
511A5 511B-D
200 242 n. 138 209 e n. 65 214 204 n. 57 199-200 214 n. 74 210 n. 66 213 e n.72 188-9 e n. 34 221 189 e n. 36; 222 n. 94 224 191 n. 396 223 e n. 95 224 224 n. 97 224 224 224 225 e n. 100
191 e n. 40 224 n. 98 223 223 e n. 96 252 190 e n. 37 226 n. 102 238 e n. 132 190 n. 38 229 296 n. 102 219 n. 89 232 n. 116 212 n. 69 232 e n. 116 SE VARONE, 192 n. 42; 219 233 n. 120 Zio e n. 77: 220. 89; 243 n. 140; 250 i0152:-259 217 n. 80 259
276
INDICE DEI LUOGHI PLATONICI
51184
Sco Silio 2-5 511D6-E4 511D9 511 E
515 c 4-6 518 B-C 518 8 6-c 10 518 c 4-10 518 D-519 B 518 D 6-7 519 B1 520 B 3 522 B9 524 D5 525 D 5-B 3 526 E 6-7 DZ 527 B 5-7 527 0 8-E£2 527 E3 529 B 4-5 53008 531c 9-04 532 A 1-7 533 B 1-3 533 B6-E 2 533 B 7 533 c 8 533 D4E1 533 D 7-£2 534 A 534 A2 534 B 3-6 537 c 1-7 585 B1-E 1 Sp)
7
596 A-597 A
597 86
217 n. 80 250 249 n. 148 218 n. 85 249 n. 148 56 n. 1 242 n. 137 233 227 e n. 104 249 n. 148 227 n. 107 228 22192 PISO 234 233 n. 122; 234 2547n..125 234 249 n. 148 234 n. 125 239. n2123 233 n. 124 234 n. 125 249 n. 148 234 e n. 126 220 n. 89 20 n. 4 257 e n. 161 132 n. 16 249 n. 148 249 n. 148 250 n. 150 56 n. 1 249 n. 148 252 e n. 154 235 e n. 127 182 n. 18; 240-1 e DIO 242 n. 138 141 n. 31; 148 n. 44 148 n. 44
601 c-602 A
105 n. 86
611 E 1-5
231 e n. 114; 235 n. 128
Sophista 2471A7
247 E 248 A-249 D
263 E 264 c 266 B 10
192 192 192 162 178 225
n. n. n. n. n. n.
42 42 42 73; 178 n. 12 12 101
Symposium 199 1-200B2 182 n. 19 199 D 1-2 182 n. 19 210 E-212A 238 n. 132 PINA LS) 214 n. 75 212 A 4-5 23m /1 221 c-D
Theaetetus 148 D 4-7 152 c 5-6
169 B 184 8 8-c9 185 c-186 c 185 c 4-7 185 E 1-2 186 44 186 D 2-3 189E£6-190A6
55 n. 1 75) 186 n. 27 55 n. 1 174 n.5 78 n. 42 163 n. 74 163 n. 74 186 n. 27 174 n.5 Irill'e. moi
201 B-c 20187
70 n. 29 175 n. 6 175
Timaeus 28B5 45 B6 45 C-E 45 D 4 90 A-D
200 n. 53 DIZIONI9 252 119 2520. 119 259.n.1133
201 A 7-c7
INDICE DEGLI AUTORI MODERNI D. Adams, 245 n. 143 J. Annas, 60 n. 8; 62 n. 11; 183 n. 22; 197 n. 48; 199 n. 52; 228 n. 109 F. Aronadio, 104 n. 83; 145 n. 39; 249 n. 149 R. Bambrough, 199 n. 52 R. Barney, 104 n. 84; 163 n. 76 T.M.S Baxter, 137 n. 25; 146 n. 41; 159 n. 70 L. Belloni, 64 n. 17 H.H. Benson, 25 n. 13
J. Beversluis, 25 n. 13; 49 n. 48 D.C. Blatzly, 196 n. 47 R.S. Bluck, 35 n. 30; 56 n. 1, n.2; 64 n. 16; 65 n. 19; 84 n. 51; 96 nisi A. Brancacci, 21 n. 5; 32 n. 25; 61
n. 10; 86 n. 54; 105 n. 85; 141 i32-.15/ n.63; lit ni
J. Brentlinger, 204 n. 58 L. Brisson, 219 n. 88; 245 n. 143
R. Brumbaugh, 250 n. 151 M.F. Burnyeat, 38 n. 36; 49 n. 48; 174 n. 5; 175 n. 7 F. Calabi, 228 n. 108 B. Calvert, 144 n. 39 G. Cambiano, 80 n. 45; 231 n. 115 S. Campese, 182 n. 18; 183 n. 22
M. Canto-Sperber, 23 n. 7; 24 n.
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315: 38 1-2: jLa 1: 96.n271; 97 n. 76; 256 n. 160
A. Capra, 213 n. 70 A. Carlini, 64 n. 17 G. Casertano, 146 n. 41; 162 n. 11; 156-n 79% 17/9 n__ 12: 197 n. 20; 25m. 153 B. Centrone, 36 n. 31; 51 n. 52 S.L. Churchill, 118 n. 107 J.M. Cooper, 183 n. 22
N. Cooper, 207 n. 62 R.C. Cross, 183 n. 22; 198 n. 50,
n. 52; 204 n. 58; 206 n. 61 I. Crystal, 196 n. 47; 206 n. 61; 214 n. 74 C. F. N. D. P. M.
Dalimier, 126 n. 2 Decleva Caizzi, 146 n. 41 Demand, 118 n. 107 Devereux, 38 n. 36 Dimas, 36 n. 30; 67 n. 21 Dixsaut, 28 n. 17; 109 n. 92; 158 n. 66; 169%nn837/;0212 n. 697 218%n.:86;1220.n91;232
n. 116; 259 n. 168 Th. Ebert, 196 n. 47 S. Everson, 196 n. 47
R. Ferber, 199 n. 52; 204 n. 58; 224 n. 99; 227.105
278
INDICE DEGLI AUTORI MODERNI
F. Ferrari, 199 n. 52; 208 n. 62; 209 n. 64; 232 n. 116 G. Fine, 23 n. 7; 27 n. 15; 38 n. SRI 6619196: 47; 197 n. 48; 199 n. 52; 201 n. 54; 206-7 n. 61 L. Franklin, 53 n. 54 F. Fronterotta, 28 n. 18; 133 n. 17; 228 n. 108
S. Keller, 136 n. 24 J. Klein, 70 n. 29; 96 n. 71
T.S. Ganson, 182 n. 18 S. Gastaldi, 228 n. 108 P. Geach, 49 n. 48 G. Giannantoni, 25 n. 11; 105 n. 05109 n 992
A. Longo, 196 n. 47 JAVA ce) Sin 2
J. Glucker, 77 n. 40 Fij. Gonzalez; 51° n: 52; 197 n. 48; 199 n. 52; 201 n. 54 J. Goody, 193 n. 44 J.C. Gosling, 196 n. 47; 199 n. 52; 206-7 n. 61 W.K.C. Guthrie, 51 n. 52
S. Martinelli Tempesta, 64 n. 17
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E.A. Havelock, 32 n. 25; 178 n. 11; 193 n. 44 E. Heitsch, 86 n. 54; 144 n. 39
N. Herling, 179 n. 12 B.E. Hestir, 208 n. 62 P. Huby, 64 n. 17 H. Hiini, 232 n. 118
A.M. Ioppolo, 93 n. 66; 162 n. TIGR174En95 T.H. Irwin, 23 n. 7; 38 n. 36; 99 n. 78 M. Isnardi Parente, 80 n. 45; 162 na 73; 192 #422229%n 1115 245 n. 143
G:H,sKahn, 27 n.616; 294n: 118; 193 n. 43; 199 n. 52
Y. Lafrance, 61 n. 10; 68 n. 25; 72% 253:-#/5 fn 5 Tg 09: 11778 n012:243n0 7
G.R. Ledger, 57 n. 2 M.G. Levett, 174 n. 5 S.B. Levin, 146 n. 41
C. Lévy, 219 n. 88
J. McDowell, 175 n. 7 M. Mackenzie, 57 n. 2 G. Milanese, 64 n. 17 L.M. Napolitano Valditara, 36 n. sy M. Narcy, 105 n. 85; 179 n. 12 P. Natorp, 239 n. 134 G. Neal, 64 n. 17 A. Nehamas, 69 n. 27
W.J. Ong, 193 n. 44 C.A. Page, 107 n. 89 J-A. (Palmer, 590n. 7; 198 n. 51; 205 n. 60; 214 n. 74; 256 n. 160 T. Penner, 38 n. 36 L. Pernot, 219 n. 88 A. Porro, 64 n. 17 W.J. Prior, 26 n. 13; 60 n.9 M. Reale, 179 n. 12
R. Robinson, 24 n. 11 Th.G. Rosenmeyer, 106 168 n. 85 D. Ross, 75 n. 39
n. 88;
279
INDICE DEGLI AUTORI MODERNI
F. Sartori, 259 n. 169
F. de Saussure, 139 n. 28 D. Scott, 66 n. 19 D. Sedley, 78 n. 43; 146 n. 41 R.W. Sharples, 77 n. 40; 96 n. 71 F.C.C. Sheffield, 84 n. 51 G. Sillitti, 179 n. 12
A. Silverman, 116 n. 103; 136 n. 23 M.C. Stokes, 198 n. 52 H. Tarrant, 64 n. 17
C.C.W. Taylor, 38 n. 36 H. Thesleff, 57 n. 2 J.E. Thomas, 22 n. 5; 24 n. 11; 32 n. 24; 36 n. 31; 39 n. 38; 57 n. 4:59 n. 7: 61 n. 11: 67 n, 23; 70 n. 29; 83 n. 51; 256 n. 160 F. Trabattoni, 162 n. 71, n. 73; 167 n. 83; 245 n. 143; 254 n. 156
B. Vancamp, 214 n. 73 M. Vegetti, 80 n. 45; 182 n. 18; 183 n. 22; 197 n. 49; 199 n. 32; 202 n. 53; 205 n. 59; 208
n. 64; 228 n. 108; 242 n. 137; 256 n. 160 G. Vlastos, 38 n. 36; 48 n. 46; 49 n. 48-99. 175 07 n. 235 199 n.
52; 204 n. 58; 256 n. 160 I. Watt, 193 n. 44 W. Wieland, 74 n. 38; 172 n. 2; 212 n. 69; 219 n. 885 K. Wilkes, 86 n. 55 L. Wittgenstein, 121 n. 114 A.D. Woozley, 183 n. 22; 198 n. 50, n. 52; 204 n. 58; 206 n. 61 C.B. Wrenn, 199 n. 52
M. Young, 57 n. 2
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ELENCHOS Collana di testi e studi sul pensiero antico fondata da G. Giannantoni . A.M. Ioppolo, Aristone di Chio e lo stoicismo antico, pp. 376, 1980. ISBN 88-7088-035-4
€ 21,00
. G. Sillitti, Tragelapbos. Storia di una metafora e di un problema, pp. 96, due tavole f.t., 1980. ISBN 88-7088-037-0
€ 11,00
. C. Baffioni, I/ IV Zibro dei «Meteorologica» di Aristotele, pp. 464, 1981. ISBN 88-7088-036-2
€ 26,00
. M. Gigante, Scetticismo e Epicureismo. Per l'avviamento di un
discorso storiografico, pp. 248, 1981. ISBN 88-7088-038-9
€ 21,00
. Pirrone. Testimonianze, a cura di F. Decleva Caizzi, pp. 312, 1981. ISBN 88-7088-039-7
Esaurito / Out of print
. Lo Scetticismo antico. Atti del Convegno organizzato dal Centro di studio del pensiero antico del C.N.R. Roma, 5-8 novembre 1980, a cura di G. Giannantoni, pp. 916, due volumi, 1982. ISBN 88-7088-047-8
€ 42,00
. R. Radice, Filone di Alessandria. Bibliografia generale 1937-1982, pp. 336, 1983. ISBN 88-7088-078
€ 26,00
. Socraticorum Reliquiae, collegit, disposuit, apparatibus notisque instruxit G. Giannantoni, pp. 1470, quattro volumi, 1985. Esaurito / Out of print
. La scienza ellenistica. Atti delle tre giornate di studio tenutesi a Pavia dal 14 al 16 aprile 1982, a cura di G. Giannantoni e M. Vegetti, pp. 512, 1985. ISBN 88-7088-097-4
Esaurito / Out of print
10. G. Calogero, Scritti minori di filosofia antica, pp. 570, 1985. ISBN 88-7088-120-2
€ 42,00
11. A. Brancacci, Rbetorike philosophousa. Dione Crisostomo nella
cultura antica e bizantina, pp. 352, 1986. ISBN 88-7088-139-3
€ 21,00
12. A.M. Ioppolo, Opinione e scienza. Il dibattito tra Stoici e Accademici nel III e nel II secolo a.C., pp. 256, 1986. ISBN 88-7088-137-7
€ 26,00
13. Le opere psicologiche di Galeno. Atti del III Colloquio galenico internazionale. Pavia, 10-12 settembre 1986, a cura di P. Manuli e M. Vegetti, pp. 336, 1988. € 26,00
ISBN 88-7088-187-3
14. Matter and Metapbysics. Fourth Symposium Hellenisticum, edited by J. Barnes and M. Mignucci, pp. 600, 1988. ISBN 88-7088-179-2
€ 62,00
d50 L.M. Napolitano, Le idee, i numeri, l'ordine. La dottrina della ‘matbesis universali’ dall'Accademia antica al neoplatonismo, pp. 656, 1988.
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ISBN 88-7088-189-X
€ 34,00
16. C. Natali, La saggezza di Aristotele, pp. 372, 1989. ISBN 88-7088-222-5
€ 24,00
"Dr Pseudopythagorica Ethica. I trattati morali di Archita, Metopo, Teage, Eurifamo, Introduzione, edizione, traduzione e commento a cura di B. Centrone, pp. 326, 1990. ISBN 88-7088-236-6
€ 24,00
18. Socratis et Socraticorum Reliquiae, collegit, disposuit, apparatibus notisque instruxit G. Giannantoni, pp. 2090, quattro volumi, rilegati, 1991. ISBN 88-7088-215-2
€ 155,00
19; Studi sull’etica di Aristotele, a cura di A. Alberti, pp. 332, 1990. ISBN 88-7088-238-1
€ 26,00
20. A. Brancacci, Oikeios Logos. La filosofia del linguaggio în Antistene, pp. 304, 1990. ISBN 88-7088-229-2
€ 24,00
21° AA.VV., Etudes sur le Sophiste de Platon, sous la direction de P.
Aubenque. Les textes de ce volume ont été recueillis par M. Narcy, pp. 590, 1991. ISBN 88-7088-250-0
€ 52,00
PI D. O'Brien, Plotinus on the origin of Matter. An exercise in the interpretation of the Enneads, pp. 108, 1991. ISBN 88-7088-263-2
23 F. Alesse,
€ 16,00
Panezio di Rodi e la tradizione stoica, pp. 312,
1994. ISBN 88-7088-358-2
€ 18,00
24. Sesto Empirico. Contro gli etici, introduzione, traduzione e commento di E. Spinelli, pp. 450, 1995. ISBN 88-7088-350-7
€ 24,00
25. L'epicureismo greco e romano. Atti del congresso internazionale, Napoli 19-26 maggio 1993, a cura di G. Giannantoni e M. Gigante, pp. 1152, tre volumi rigido, 1996. ISBN 88-7088-362-0
€ 104,00
26. Lezioni socratiche, a cura di G. Giannantoni e M. Narcy, pp. 380, 1997. ISBN 88-7088-322-1
€ 31,00
Pif Panezio di Rodi, Testimonianze, edizione, traduzione e commento a cura di F. Alesse, pp. 350, 1997. ISBN 88-7088-293-4
€ 31,00
28. Platone. La Repubblica, traduzione e commento a cura di M. Vegetti, vol. I, Libro I, pp. 280, 1998. ISBN 88-7088-317-5
€ 16,00
vol. II, Libri II e III, pp. 460, 1998. ISBN 88-7088-314-0
€ 21,00
vol. III, Libro IV, pp. 382, 1998. ISBN 88-7088-315-9
€ 16,00
vol. IV, Libro V, pp. 564, 2000. ISBN 88-7088-384-1
€ 26,00
29. M. Gigante, Kepos e Peripatos. Contributo alla storia dell’aristo-
telismo antico, pp. 158, 1999. ISBN 88-7088-308-6
€ 18,00
30. F. Alesse, La Stoa e la tradizione socratica, pp. 384, 2000. ISBN 88-7088-379-5
€ 26,00
>; È La Filosofia in età imperiale. Le scuole e le tradizioni filosofiche. Atti del colloguio internazionale, Roma 17-19 giugno 1999, a cura di A. Brancacci, pp. 326, 2000. ISBN 88-7088-399-X
€ 31,00
LF Sesto Empirico. Contro gli astrologi, a cura di E. Spinelli, pp. 222, 2000. ISBN 88-7088-396-5
€ 36,00
33. A. Falcon, Corpi e movimenti. Il De Caelo di Aristotele e la sua fortuna nel mondo antico, pp. 290, 2001. ISBN 88-7088-383-3
€ 31,00
34. Antichi e moderni nella filosofia di età imperiale. Atti del II colloquio internazionale, Roma 21-23 settembre 2000, a cura di A. Brancacci, pp. 390, 2001. ISBN 88-7088-403-1
€ 35,00
39: M. Bonelli, Alessandro di Afrodisia e la Metafisica come scienza dimostrativa, pp. 316, 2001. ISBN 88-7088-392-2
€ 31,00
37. R. Chiaradonna, Sostanza, movimento, analogia. Plotino critico di
Aristotele, pp. 328, 2002. ISBN 88-7088-410-4
€ 31,00
38. F. Aronadio, Procedure e verità in Platone (Menone, Cratilo, Re-
pubblica), pp. 286, 2002. ISBN 88-7088-412-0
€ 30,00
In preparazione
36. A. Gioè, Filosofi medioplatonici del II secolo d.c. Testimonianze e frammenti. Gaio, Albino, Lucio, Nicostrato, Tauro, Severo, Arpocrazione.
Francesco Aronadio svolge la sua attività scientifica presso l’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee- Se-
zione Pensiero Antico - del C.N.R., e presso l’Università di Roma Tor Vergata. Il suo prevalente campo di studi è il pensiero di Platone; si è occupato, inoltre, di filosofia presocratica e di dossografia antica.
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