Logica dell’altro. Heidegger e Platone 9788869060144


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Logica dell’altro. Heidegger e Platone
 9788869060144

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Rosalia Peluso

Logica dell’altro Heidegger e Platone

COLLANA

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Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta”

T INCIPIT INCIPIT

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Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta” dell'Università degli Studi di Napoli Federico II

1 INCIPIT COLLANA DI TESTI E STUDI DIRETTA DA

FABRIZIO LOMONACO

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ROSALIA PELUSO

LOGICA DELL’ALTRO HEIDEGGER E PLATONE

Giannini Editore

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Copyright © 2008 by Giannini Editore Via Cisterna dell’Olio, 80134 Napoli www.gianninispa.it

ISBN e-book: 978-88-6906-014-4

con il contributo del M.I.U.R. (PRIn 2007-2008)

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Al ricordo di mia madre

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Il logos è esso pure una delle radici degli essenti. Privati di esso, ed è la cosa più grave, noi saremmo privati della filosofia. Platone, Sofista, 260a

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Indice

Presentazione di Fabrizio Lomonaco

XIII

Prefazione di Renata Viti Cavaliere

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Introduzione

Parte prima In cammino verso Platone Capitolo primo. Il gesto inaugurale del superamento 1. Architettura della distruzione 2. Il parricidio come metodo ermeneutico-fenomenologico

3 12 21

Capitolo secondo. Concetti fondamentali della filosofia platonica 1. Verità 2. Paideia Excursus. L’aggettivazione filosofica (Repubblica, V-VII) Natura – Educazione – Via – Opera – Oggetto – Mondo 3. Libertà 4. Idea e eidos 5. Agathon

29 32 45 51 66 72 77

Capitolo terzo. Lo statuto della non-verità 1. La fenomenologia indiretta del Teeteto 2. Eterodossie e allodossie 3. Analitica della non-verità

83 84 87 92

Appendice. Paideia e cultura occidentale. Un confronto con il neoumanesimo 1. La Aufklärung di Julius Stenzel 2. La antropoplastia di Werner Jaeger

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Parte seconda Ousia. Phainomenon. Heteron. Logos. Dentro il Sofista Capitolo primo. Una gigantomachia di concetti 1. La determinazione critico-polemica della filosofia 2. Interpretazione del prologo La scena dello Straniero – Lo spettatore e il confutatore – La differenza e l’apparenza – Il divino nella filosofia: la distinzione – Cosa, concetto, nome – Una brachilogia imperfetta – Verità come accordo – La via e l’esempio – Atmosfera spirituale: caccia, guerra, parricidio

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Capitolo secondo. Descrizioni fenomenologiche del quotidiano 1. Determinazione del fenomeno della quotidianità Filosofia del quotidiano – Quotidianità e temporalità 2. La descrizione fenomenologica 3. Senso comune e logos analogico 4. Eidos e ghenos 5. La tecnica tra cura e portare ad essere: appropriazione e produzione 6. Il paradigma e il fenomeno iniziale: la “presa” 7. Il metodo paradigmatico: la diairesi 8. Prima descrizione: la caccia 9. Seconda, terza e quarta descrizione: lo scambio e il commercio 10. Quinta descrizione: l’antilogica 11. Sesta descrizione: la sofistica ben nata ovvero la filosofia Pratiche domestiche di distinzione – La catarsi: criticare e purificare – Il pensiero liberato – L’errore di giudizio – Phronēsis, sōphrosynē e paraphrosynē – La credenza – L’elenchos e il senso del filosofare 12. Diairetica e sinottica Dalla “presa” alla poietica – Il sapere della totalità: tra onniscienza e illusionismo

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Capitolo terzo. Problematicità dell’apparenza 1. Esibire per figure 2. Settima descrizione: la mimetica L’imitazione e i fantasmi linguistici – L’essenza

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dell’immagine – L’alterazione poietica del logos – Tecnica divina e tecnica umana: lo sdoppiamento dell’apparire – Il sofista riproduttore di immagini 3. Essere è apparire 4. La via dell’apparenza 5. Farsi immagine del mondo 6. La sofistica tra le visioni del mondo Capitolo quarto. Elementi per una critica del logos 1. Il logos pollachōs legomenos 2. Logos e verità 3. La koinōnia come un Geviert 4. Logos e dialettica 5. Etero-logie I logoi ontologici degli altri: Essere plurale e singolare; Tra terra e cielo – I meghista ghenē – Heteron – Mē on – La negazione 6. Il logos e il sofista Retorica e pubblicità: interpretazione del Fedro – Il logos pseudēs 7. Logos e giudizio 8. La logica filosofica

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233 240 245

Parte terza L’origine tecnica del pensare Capitolo primo. Fisionomia del tardo Heidegger 1. Il pubblico, il privato e la logica 2. L’essenza della tecnica: verso il superamento delle interpretazioni antropologiche 3. La munificenza dell’essenza e il terrore dell’ovvietà

253 253 259 261

Capitolo secondo. Tecnica e verità 265 1. Aristotele, Etica nicomachea, VI. La dimensione pratico-poietica della produzione e l’essenza della tecnica antica 265 2. Aristotele, Metafisica, A,1. La tecnica come primo giudizio e conoscenza dell’universale eidetico 268

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XII

Capitolo terzo. La radice quotidiana della tecnica 1. Platone, Sofista, 219a10: produzione e acquisizione 2. La tecnica sofistica come delirio del logos poietico 3. Platone, Sofista, 265b8 e Aristotele, Metafisica, Z,7. La razionalità logico-eidetica della creazione e la ripetizione umana degli eidōla 4. A priori non tecnici: eidos e physis

275 275 279

Capitolo quarto. La tecnica moderna 1. L’impianto e la risorsa a compimento della logica metafisica 2. La svolta nella tecnica. Destino dell’essere e dell’umano nell’essere tecno-logico 3. La Kehre come con-versione e la nuova logica della poiēsis-poesia 4. Al margine, l’umano: il pastore e le rivoluzioni antropologiche 5. Oltre la polemica sull’umanismo, verso un’altra umano-logia: la misura umana

289 289

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Indice dei nomi

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281 283

294 296 301

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PRESENTAZIONE

L’idea di inaugurare una collana di studi e testi del Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta” dell’Ateneo Fridericiano l’ho coltivata da quando, nel 2000, chiamato dalla prestigiosa Università napoletana a insegnare Storia della Storiografia Filosofica, ho avuto l’onore di partecipare ai progetti di ricerca nazionale. Mi sono presto reso conto della quantità e, soprattutto, della qualità degli studi pubblicati nelle sedi culturali ed editoriali più autorevoli, ma spesso lontane da “casa”. Perciò, eletto, alla fine del 2007, Direttore del Dipartimento, non ho esitato a coltivare più da vicino quella idea e a perseguirla già nei primissimi giorni del mio nuovo impegno. E l’ho fatto pensando ai più giovani studiosi, alle loro prime e mature prove di scrittura e di pensiero, convinto che il rispetto doveroso degli studi svolti dagli ammirati maestri vicini e lontani viva non banalmente né demagogicamente della sensibilità, altrettanto doverosa, per le cose nuove nei liberi e rinnovati confronti. Da qui il nome della nuova collana “Incipit” che nasce grazie all’entusiasmo e alla cortese collaborazione degli editori Giannini, maestri dell’editoria napoletana per quella cura mai appariscente della stampa del libro antico e moderno dallo stile artigianale inconfondibile, fondato sul lavoro meticoloso e senza risparmio dedicato al particolare tecnico che dà voce al pensiero in forma sobria ed elegante. Un’esperienza di lavoro editoriale e di studio, dunque, che inizia e coinvolge i più giovani studiosi (neolaureati, dottori di ricerca, neoricercatori) e si lascia da essi coinvolgere, senza rinunciare a una serena valutazione delle pagine da pubblicare, affidata ai componenti la Giunta del Dipartimento. Il che è invito a incrementare una «pratica» di responsabilità, spesso faticosa, imbarazzante ma ineludibile, perché richiesta dal necessario confronto e rispetto per l’altro, da una logica dell’altro viene da dire, parafrasando prosaicamente il gran tema scelto da Rosalia Peluso per la sua documentata e affascinante interrogazione su Heidegger e Platone. è, questo, un tema assai ben documentato – come l’avvertito lettore vedrà – che affronta l’insidiosa questione delle fonti classiche del filosofo di Essere e Tempo, sciogliendola in un’«analitica dei fondamenti della

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XIV

filosofia platonica» di Heidegger che identifica nel logos il fenomeno centrale del Sofista (il dialogo privilegiato accanto al Teeteto, al Fedro e alla Repubblica), per intendere la vera teoresi, l’originario «sostenere la vista» nell’umano «fare la verità» che è invito, riuscitissimo della Peluso, a rimeditare sui giudizi dedicati dal cosiddetto primo e secondo Heidegger all’umanesimo e all’«origine tecnica del pensare». Ma qui punto e Auguri sinceri all’Autrice e, in primis, alla neonata «collana» nella speranza che possa vivere di molte «perle».

Fabrizio Lomonaco

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PREFAZIONE

Il tout est dit di La Bruyère potrebbe essere adoperato con pieno diritto ad ogni nuovo lavoro su Heidegger. Mi sia permesso, in occasione di un nuovo libro heideggeriano, parafrasare il noto incipit con il quale Luigi Scaravelli apriva le sue celebri Osservazioni sulla Critica del Giudizio di Kant. L’acuto interprete del criticismo non intendeva certo attenuare nei lettori l’interesse per l’opera del grande filosofo, sulla quale infatti si accingeva a formulare inedite analisi filologiche e pregevoli annotazioni teoriche. Neppure ebbe in mente di atteggiarsi a cronografo della fama postuma, decretando che prossimo era oramai il tempo di considerare superato quell’autentico classico del pensiero. Si servì piuttosto di un eccellente espediente retorico, proprio di chi vuole anzitutto sgombrare il campo dalla gran mole di questioni inutili, pletoriche e finanche insensate, intorno ad un costrutto di idee che occorreva invece liberamente affrontare, benché non senza la guida di alcune significative interpretazioni. Alla stessa maniera si potrebbe affermare che “tutto”, o quasi, su Heidegger sia stato già detto, ma secondo scorci ermeneutici a dir poco (specie negli ultimi tempi) fantasiosi, talvolta in contesti aridi e astratti, tra gli estremi di un imbarazzante silenzio sull’impegno politico del pensatore tedesco e di attacchi sferrati all’Autore con scarsa attenzione critica ai contenuti particolari. Dopo tutto questo è semmai ancora possibile avviare nuove linee di ricerca che non segnino sterilmente il passo, unite ad una precisa scelta di metodo. Lo studio del rapporto Heidegger/Platone, al quale il libro di Rosalia Peluso è dedicato, sia per il delicato confronto che intende stabilire tra mondi affini eppur così distanti, sia per le suggestive implicazioni del problema speculativo egregiamente contratto nella proposta di una “logica dell’altro”, ha richiesto una vera e propria opzione di fondo a favore dell’indagine teoretica intorno ai concetti-cardine della tradizione filosofica dalle sue origini. I concetti di essere, identità, differenza, alterità, logos e giudizio, sono infatti come i personaggi drammatici di un antico dialogare del pensiero con se stesso e con la diversità nella dimensione della verità dell’essere, che segue il filo di domande sempre

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attualissime sul senso del reale e sull’agire all’interno di ogni specifico mondo. Bisognava evitare alcune trappole ermeneutiche nelle quali non era difficile incappare: si pensi alla tentazione (sbagliata) di valutare la lettura heideggeriana di Platone sul piano esclusivo dei criteri e dei paradigmi della storiografia del mondo classico; e ancora al rischio di leggere il legame Heidegger-grecità soltanto nell’enfasi dell’auspicata riscossa dello spirito tedesco negli anni Trenta; si consideri il peso (negativo) insito nell’osservazione che entrambi i filosofi, quando vollero occuparsi di politica, preferirono simpatizzare per i tiranni. E tuttavia ancor più insidioso si sarebbe rivelato il proposito di prescindere del tutto dall’ampia storia delle interpretazioni platoniche, così come non pare oggi più sostenibile che il singolare ripensamento heideggeriano dei concetti fondamentali della metafisica possa essere uscito indenne, puro e innocente, dalla strumentale riconversione politico-nazionalsocialista nel pur breve periodo di rettorato a Friburgo tra il 1933 e il 1934. Si è solo accennato ad alcune pietre d’inciampo che l’Autrice ha di necessità incontrato e non semplicemente schivato, veri scandali per la ricerca filosofica odierna che con Heidegger in ogni modo ha finito per doversi misurare, anche in considerazione dell’immensa e pervasiva incidenza del suo pensiero. Vorrei per pochi tratti e con pochi mezzi, per dir così, indicare qui in breve la linea di partenza e di approdo dell’indagine storico-teoretica condotta dalla giovane studiosa, lasciando al lettore volenteroso il piacere di un maggiore approfondimento. Credo di poter dire che i contenuti del Sofista platonico siano stati per Heidegger una sorta di pensiero ricorrente, quasi un’ossessione di cui doversi liberare, in senso conoscitivo ovviamente; e quale migliore occasione per un docente di vaglia all’Università di Marburgo nei primi anni Venti del secolo scorso che la scelta del testo in questione per un corso semestrale. Fortuna volle che allievi particolarmente promettenti vi assistettero nell’inverno del 1924/25, che molti spunti nacquero all’attenzione del maestro in corso d’opera, che gli appunti preparati dallo stesso Heidegger e poi raccolti con le annotazioni degli studenti formassero il volume che è uscito nel 1992 nella sezione dedicata alle Vorlesungen della imponente raccolta della Gesamtausgabe. Una serie di circostanze favorevoli, direbbero gli storici, incontri propizi d’ogni genere hanno reso il Sofista un punto di intersezione privilegiato del rapporto Heidegger/Platone. D’altro canto come non ricordare la citazione dal Sofista collocata da Heidegger in esergo al suo testo maggiore Essere e Tempo del 1927, nella

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XVII

quale compariva in evidenza il problema del senso dell’essere all’interno di uno stato d’animo di perplessità che da sempre l’accompagna. In una lettera del ’53 a Hannah Arendt (segnalata intenzionalmente dalla Peluso nella terza parte del libro), riferendosi al suo discorso di Monaco sulla questione della tecnica, Heidegger scriveva: «Quello che ho detto nella mia conferenza sulla tecnica a proposito della technē risale molto indietro nel tempo, vale a dire all’introduzione al mio corso sul Sofista che tu hai potuto ascoltare». E val la pena sottolineare che in quella introduzione il filosofo scelse di utilizzare in chiave propedeutica la lettura del VI libro dell’Etica nicomachea di Aristotele: un percorso a ritroso che non stupisce affatto se è vero che nella storia dei concetti la genealogia non è mai separabile dalla teoria. Storico della filosofia davvero sui generis, interprete prevaricatore nell’uso dei lessici e più in generale della filologia, Heidegger ha in molte occasioni colto nel profondo l’eco e le risonanze di antiche nozioni filosofiche, sino a riproporle come autentiche novità del pensiero. Ciò vale in primo luogo per le basi ontologiche della “logica”, per l’identità dell’essere che è già differenza, per quel “germe” di giudizio che nasce insieme al mostrarsi del logos. Il ritmo vorticosamente dialettico del pensiero delle origini travolse per dir così Heidegger, inducendolo a tornare spesso sul senso delle pagine degli antichi filosofi, che peraltro egli sentiva rivivere così fortemente nel pensiero dei moderni, al punto di non riuscire a cogliere per contrappunto il carattere precipuo della modernità. Eppure il pensiero aperto all’alterità, la capacità di riconoscere il nuovo per l’avvento di orizzonti storicamente ogni volta diversi, l’invito presente nel monito del Forestiero di Elea, che esortava a non accogliere esclusivamente il già noto, avrebbero potuto costituire ottimi punti di partenza per la comprensione del mutare dei cosiddetti tempi storici. Heidegger ebbe a disposizione la possibilità di praticare una logica dell’altro che è proprio l’opposto della logica della tecnica. Sentì come pochi che ad un mondo di fini si stava da troppo tempo sostituendo un mondo di mezzi per scopi di potere, economico, politico, culturale. Tradusse però i principi moderni di libertà e di autonomia in vincoli da spezzare, e trasformò la critica della tecnica nell’essenza tecnica di una critica al mondo della centralità dell’umano. Incredibilmente gli ideali e i progetti incarnati nelle esistenze individuali, su cui aveva esercitato una pregevole analitica dai toni soffusi dell’ontologia fondamentale, presero la forma (a contatto con la realtà dei tempi) di incontrollabili e implausibili deroghe alle forze spirituali in stato di avanzamento sul proscenio della storia.

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Nemico dell’eclissi del senso, così come emergeva sinanche dalle pagine di Nietzsche ultimo pensatore della tecnica (dunque ancora fieramente moderno), ostile alla ragione strumentale tanto da vagheggiare poetici incontri con la natura che ama nascondersi, finì per caricare di senso, nel segno opposto all’auspicio del nuovo, il gesto “politico”, ineluttabile e irreversibile, a favore della più vieta conservazione antidemocratica e antiumanistica. Dopo Heidegger, e dopo una stagione anch’essa oramai esauritasi caratterizzata da una altrettanto enfatica rinucia al senso, appresa la lezione del filosofo di Messkirch che ha lasciato semi per una ripresa dell’umanologia magari contro la lettera di alcuni suoi testi dal messaggio fatalmente ambiguo, occorrerebbe oggi, quando ancora forze anonime si fanno spazio per il sopravvento, affidare il pensiero con discrezione e poco clamore ad una “logica dell’altro”, nella scia dell’antico logon didonai. Il lavoro scientifico di Rosalia Peluso ha il merito di inoltrarsi con perizia filologica e sicuro intento teoretico nei delicati intrecci costruiti da Heidegger come un ponte ideale con l’antico, tra sintonie inattese e qualche palese forzatura dei testi. Ne emergono – come si è cercato di dire fin qui nell’arco di una breve presentazione – una convinzione e una proposta. Sono certa di poter dire che la giovane studiosa si è mossa nella convinzione che la filosofia contemporanea ha bisogno di restare ancorata non già al passato ma alla tradizione dei suoi concetti fondamentali. Il tema del “giudizio” al quale allude la proposta di una “logica dell’altro” appartiene al moderno come ai primordi della logica filosofica: non c’è speranza di vita neppure per quel germe di giudizio di cui parlava Platone nel Sofista senza i concetti di identità, di essere, di alterità. L’identità serve per capire, e la differenza muove a non tradire la comprensione dell’altro.

Renata Viti Cavaliere

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INTRODUZIONE

Le letture heideggeriane dei pensatori antichi suscitano reazioni contrastanti. Da un lato si è ammaliati dal fascino di un pensiero in azione nell’interpretare, di una filosofia che è in cammino e che, a suo modo, cerca luoghi teorici su cui fondarsi ed esibirsi in alternativa a modelli consueti di pensare. Dall’altro è quasi inevitabile nutrire una certa diffidenza verso rappresentazioni talvolta monolitiche delle epoche storicofilosofiche, nonché di alcuni autori, presentati come rigidi paradigmi di distinte mentalità filosofiche. Il ruolo che Platone svolge nell’insieme dei colloqui heideggeriani con la storia della filosofia è, da questo punto di vista, paragonabile soltanto a quello che assume Cartesio per la modernità, vale a dire un ruolo di iniziatore di una specifica modalità di pensare che informerà la tradizione occidentale. La figura concettuale del platonismo, che connota la metafisica, funge più che altro da topos e poco si presta a dar conto del ben più complesso e problematico confronto di Heidegger con Platone. La più celebre pagina di questo confronto è la Dottrina platonica della verità, che Heidegger scrisse negli anni Trenta e pubblicò nel 1942, nella quale stigmatizzò il mutamento di determinazione della verità (da alētheia a orthotēs) di cui si dà tacita e indiretta testimonianza nella Repubblica di Platone. Se si tenta di risalire all’origine di questa interpretazione e si analizzano i corsi universitari dedicati ai dialoghi platonici, si rimane stupiti dalla varietà dei temi discussi, dalla forza di una rielaborazione della filosofia di Platone, smarcata dalla tradizione dei platonismi, dall’evidenza di una radice inedita e impensata di questo pensiero, incatenato spesso in aprioristiche e dogmatiche visioni. Ad inaugurare il lungo e produttivo colloquio con Platone è un corso del 1924-25, svolto durante il periodo dell’insegnamento di Heidegger a Marburgo e dedicato al Sofista. In esso trova posto un’originale lettura fenomenologico-esistenziale del dialogo che si segnala, fin dall’inizio, per la capacità, filologica e filosofica insieme, di fornire del testo un’interpretazione globale, non limitata alla discussione della teoria ontologica dei “generi”. è da dire che Heidegger possiede i suoi strumenti concettuali

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per accedere al Sofista e renderne conto in ogni suo aspetto. Trovano così applicazione le nozioni di “effettività” e di “quotidianità”, che giustificano, per un verso, l’esser di fatto del falso, della negazione o, in senso categoriale, della differenza, e, per l’altro, l’immediatezza e la primitività della relazione umana al mondo. In virtù di questi presupposti concettuali, ad esempio, la domanda relativa all’essenza e all’esistenza del sofista diviene un modo per esibire la filosofia in azione, per mostrare modalità esistenziali differenti, che vanno dalla vita teoretica alle sue mondane dissimulazioni, personificate in modo eccelso dal sofista. Nel corso friburghese del 1931-32, dedicato all’interpretazione del mito della caverna e al Teeteto, si focalizza meglio invece l’attenzione, che pure era centrale nella precedente Vorlesung, sulla questione della verità e dei suoi nascondimenti (la non-verità come falso e come oblio, dimenticanza). Nel testo marburghese il tema dello alētheuein era posto in relazione allo schiudimento dell’esistenza umana, alla sua capacità di aprirsi al mondo e di aprire mondi, grazie alla facoltà di “portare ad essere”, “produrre”, “far nascere” oggetti, azioni e idee, mediante il fare tecnico-scientifico, l’agire pratico e il pensare. Nel volume degli anni Trenta, che si intitola non a caso, L’essenza della verità, la questione si sposta dalla determinazione aletica dell’umano, dal suo “saper poter fare la verità”, alla verità, indeterminabile umanamente, dell’essere. Tra le due lezioni si colloca, com’è noto, la “svolta” che spinse Heidegger a rimettere in discussione il percorso filosofico compiuto fino alla pubblicazione nel ’27 di Essere e tempo, e ad intonare diversamente il rapporto dell’umano all’essere. Heidegger ha a più riprese rivendicato il carattere extralogico della verità, vale a dire la sua inesauribilità nell’asserzione della logica. Alētheia e orthotēs, homoiōsis o adaequatio, diventano progressivamente distinte esperienze fondamentali della relazione ontologica, dove la prima è “verità dell’essere e dell’essente”, la seconda “verità di giudizio”. Il mito platonico della caverna fa cenno al mutamento di determinazione della verità, da disvelamento a correttezza, mostrato attraverso i passaggi ontologici e logici dall’essente e dal vero ad un “massimamente essente” e “massimamente vero”, che è l’idea dell’agathon. Il processo è tuttavia presentato indirettamente, mediante invece un esplicito percorso della mente umana che passa, per differenti gradi di liberazione, dall’incultura iniziale alla formazione completa (paideia), corrispondente a quella decisiva torsione che porta l’umano al cospetto dell’idea suprema. Piuttosto che assumere il platonismo come “figura archetipica” della metafisica e dar conto di questo principio, improduttivo quando

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vincolato ad un giudizio su Platone deciso a priori, si è sondata la più sdrucciolevole strada di un’analitica dei fondamenti di filosofia platonica secondo Heidegger. Il cammino in questo caso è più impervio perché, oltre al tentativo di argomentare le posizioni heideggeriane, si propone anche di mostrare percorsi alternativi, che non sono finalizzati a riabilitare o ad attualizzare banalmente Platone, nemmeno però a limitarsi alla lettera di Heidegger, ma a rimettere in gioco alcuni dei concetti di cui la filosofia ha pur sempre bisogno e che trovano spesso nei testi platonici la loro genesi filosofica e, con essa, anche la possibilità di essere diversamente, di divenire altro nel confronto con la storicità e con il compito di comprendere il proprio tempo e di esserne responsabili, oltre che testimoni. L’idea di una “logica dell’altro” risponde a suo modo a questa esigenza. Essa si ispira alla centralità del logos individuata da Heidegger nei dialoghi platonici, in special modo nel Sofista, dove prende forma una ricognizione etimologica e teoretica del poliedrico nome greco che, proprio nel suo essere più cose e nel suo dirsi in modo molteplice, si propone già come luogo di sintesi di elementi distinti eppure affini e complementari. Logos era già per Eraclito un unico nome che indicava insieme la ragione, la norma, l’elemento comune, il discorso, il senso, un nome che mirava a render conto della pluralità dell’essere tipica dell’idea greca di physis. In Platone l’istanza già eraclitea si arricchisce di un elemento “logico” più sofisticato, il giudizio, che nella sua forma minima di intreccio (symplokē) e di sintesi (synthesis) tra nome e verbo, supera sia la mera nominazione sia le aporie delle sinonimie e delle analogie che caratterizzano il linguaggio quotidiano. La teoria dell’essere che Platone fornisce nel Sofista, la comunione dei generi (meglio sarebbe chiamarli, per seguire Heidegger, “radici ontologiche”) costituisce il presupposto principale della sintesi che si realizza nel logos. La koinōnia esprime l’essere l’uno con l’altro (Miteinandersein) di queste radici fondamentali, che sono l’identità e la differenza, il permanere e il divenire. Si tratta della reciproca relazione di dimensioni distinte, ciascuna diversa dall’altra, eppure a sua volta pronta a dare testimonianza dell’esistenza delle altre, come accade nel Geviert heideggeriano tra mortali e divini, terra e cielo. Prende corpo in questo modo una visione plurale dell’essere, Mitsein o Mitanwesenheit (perché l’essere in senso greco è per Heidegger “presenza”, Anwesenheit, che traduce ousia ed indica principalmente gli averi di cui si dispone), che giustifica la conformazione plurale anche del logos. Heidegger definisce il logos il fenomeno centrale del Sofista, chiara-

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mente perché l’esistenza umana, di cui le definizioni di sofista tentano una descrizione, è logicamente caratterizzata (logon echein) e si serve del logos per accedere all’essere e alle sue rappresentazioni ontiche. Il leghein realizza l’umano alētheuein, nel senso che ogni pratica di verità è mediata dalla facoltà di parola, da un dire che ambisce ad essere comunicativo e condiviso. Il parlare è intenzionato non solo perché dice sempre qualcosa (leghein ti) ma anche perché è il discorso di qualcuno per qualcuno, necessita quindi di uno spazio intermedio in cui spendere le parole e di una comunità di parlanti che le intendono. Tra le capacità umane di compiere la verità mediante il dire fa eccezione unicamente il puro pensiero (il noein), non a caso sradicato dal mondo, anzi, tanto più coerente quanto più astratto, quanto più fondato su un’attività interiore ed individuale che ha bisogno di isolamento e silenzio. Il logos è naturalmente eterologo ed eterodosso, già prima di far questione del genere “logico” dell’alterità. Nasce infatti per contrapporsi alla tautologia, non al discorso che tematizza l’identità, quanto alla monotona ripetizione della stessa cosa, alla vocalizzazione pavida che si tiene sì al riparo dalla contraddizione, ma così anche da ogni possibilità di senso, di rinnovamento, di arricchimento, di crescita. I suoi slittamenti semantici, che lo rendono in Platone sinonimo di verità e dialettica, retorica e giudizio, idea e parola, ne fanno anche lo strumento idoneo a sondare vie inesplorate e a sospendere perciò la validità del principio parmenideo, per verificare l’esistenza del non-essere e della negazione come caratteri non accidentali dell’essere e del discorso. In questo modo la “logica dell’altro”, che ben racchiude il senso complessivo delle letture heideggeriane di Platone, in quanto “logica dell’ente”, nello specifico di quell’essente che può essere diversamente (l’aristotelico endechomenon allōs), si configura come il tentativo di rendere ragione – nel senso del logon didonai – dell’alterità. Questa resa dei conti parte dal fenomeno immediato dell’altro, dall’esperienza primaria dell’incontro nel mondo delle figure dell’alterità, sino all’individuazione della differenza come genere categoriale che consente processi di differenziazione. Le nozioni di “quotidianità” e di “apparenza” risultano funzionali ad incontrare filosoficamente l’alterità, principalmente perché a loro modo rappresentano l’altro della filosofia (il pre- e l’anti-filosofico). Il tema della quotidianità trova in Heidegger un severo censore che, pur individuando nella modalità del vivere alla giornata la temporalità dell’esistenza qualunque, di quel dato di fatto, ineludibile per ogni analisi esistenziale, che è la vita “per lo più”, indica un percorso di affranca-

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mento dal dominio dell’impersonale, del “Si”, che esaurisce la ben più ricca dimensione pubblica dell’essere-con-gli-altri. La rilevanza teoretica di questo argomento non apre però ad una indiscriminata filosofia del quotidiano, che è per molti versi aporetica. Più praticabile si rivela invece la via di una genesi “quotidiana” dei concetti filosofici, il loro essere una rarefazione e una sofisticazione di esperienze concrete. Valga per tutti l’esempio di eidos, termine che nasce nell’eziologia medica per indicare il caso clinico, la patologia, e che in Platone diviene non a caso il punto “logico” di raccolta della molteplicità, l’unica idea cui deve mirare il procedimento dialettico. L’apparenza è nozione solitamente contrapposta a quella di essere, spesso assunta come sinonimo di opinione, approssimazione, errore e dissimulazione. La posizione platonica è piuttosto complessa: consapevole delle insidie contenute nell’apparire, Platone non esita a presentare però il suo concetto fondamentale, l’idea, con tratti visivi e a farne, a suo modo, il più lucente tra i modi dell’apparire. Heidegger, dal canto suo, rivendica la presenza dell’apparenza tra le parole originarie dell’essere, come schiudersi della physis che si fa vedere e si sottrae al nascondimento. Limita tuttavia, e ciò in armonia con le intenzioni platoniche, la portata filosofica dell’immagine, prodotto della mentalità tetico-rappresentativa della modernità, che riduce il mondo ad oggetto di una soggettività che lo pone. Anche per Platone l’eidōlon era, sebbene fondato etimologicamente sull’eidos, una sua duplicazione, quindi l’alterazione e la falsificazione di un originale univoco e coerente. Nella ripetizione dell’originale, nella sua ri-creazione, è impensabile non scorgere però anche la nascita del mondo della pluralità, che si serve di immagini, visioni, copie, imitazioni, persino di idoli, per prendere forma in concrete e distinte individualità. Se quotidianità e apparenza, logos e alterità, costituiscono i nodi problematici principali del Sofista, dalla lettura congiunta della Repubblica e del Teeteto emerge una sorprendente varietà di concetti che, grazie all’interpretazione heideggeriana, mostrano non solo la genesi delle parole fondamentali della metafisica ma anche una via alternativa per il pensare. La verità, ad esempio, più che rimanere scissa tra disvelamento dell’essere e correttezza di giudizio, deve armonizzare le sue manifestazioni, in nome di quell’accordo intersoggettivo, da Platone definito un intonarsi attraverso i logoi sulla cosa stessa, ricerca di un universale che non è mai posseduto dall’inizio: così è da leggere nel Sofista il synōmologhēsthai dia logōn peri to pragma auto, e che per Heidegger equivale a übereinstimmen,

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“conformare”, origine dell’adeguazione logica. La Übereinstimmung è però un convenire come accordarsi al concetto, farsi interprete della “voce universale” della pluralità che risuona in ogni singolo e che costituisce il gesto dialettico fondamentale, vale a dire il gesto del dare assenso e del condividere, proprio di chi non dice ciecamente “sì” ma approva solo in presenza della ragione. Piuttosto che interrogarsi sull’originarietà delle due teorie della verità e tenerle distinte, è da meditare intorno al senso della “verità filosofica”, che è alētheia e homoiōsis insieme, apertura e consonanza, e ciò affinché la verità della filosofia perda il suo carattere segreto e iniziatico e si conceda alla condivisione e alla comunicazione, che richiedono l’esperienza concreta dell’altro nella costruzione della verità o nella semplice attesa che l’evento superiore dell’essere, non provocato dall’umano, si compia. Vivere, agire e pensare a partire dalla verità significa farsi voce della verità, darne testimonianza inverandola umanamente nel mondo. In questo senso essa è pragmatica e non può mai essere sempre e solo disvelamento né esclusivamente verità teoretica o dell’asserzione logica. L’umano “fare la verità” implica uno stare in prospettiva dinanzi all’accadere dell’essere e della natura, anche nella teoresi, perché theōrein è originariamente un “sostenere la vista”, non abbassare lo sguardo, dire in faccia all’ente ciò che è (katēgoreisthai). Intendere, come fa Heidegger, l’idea platonica come una “veduta” significa comprenderla come una prospettiva e una finestra che si apre sul mondo e che può permettere sì di rappresentarsi la totalità dell’ente a propria immagine, ma anche di schiudere nuovi orizzonti, di offrire nuove e inconsuete visioni. Le idee per loro natura non sono rigidi punti di vista perché, platonicamente, «punti di appoggio e di lancio», princìpi da cui partire per poter dire e fare qualcosa di sensato. Nemmeno sono le abitatrici di un luogo desolato che nega la concretezza. Connotate visivamente, esse costituiscono ciò che dell’essere deve essere scorto, la radice adombrata nella sensibilità. L’illuminazione prodotta dalle idee e la loro estrinsecazione costituiscono il senso fondamentale della nozione, così cara a Platone e agli umanisti, di paideia. Il giudizio heideggeriano sulla formazione umana e sull’umanismo in genere è molto severo. L’essere paideitico dell’umano, sfrondato da ogni implicazione metafisica, esprime semplicemente la facoltà di coltivare idee ed esprimerle, quella che Heidegger stesso definisce «la giusta scelta del punto di vista, il coraggio di averne». Il concetto greco fa leva sull’essenza plastica della natura umana, sulla sua capacità di aprirsi al mondo e generare un accordo. Esso va posto egualmente in

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relazione alla verità, come fa Heidegger, e alla “eccellenza” (aretē), a quella suprema che è per Platone la giustizia. Quest’ultima è racchiusa nella formula di to ta autou prattein, genericamente tradotta con un “fare il proprio dovere” e politicamente interpretata come una limitazione degli individui a rigide classi sociali. Più genuinamente essa indica la necessità dell’autocomprensione, di conoscersi per determinarsi e realizzare così l’eccellenza del proprio esistere. La paideia corrisponde ad un processo di liberazione della mente dai vincoli dei pregiudizi finché non si giunge alla condizione di essere liberi per…, vale a dire essere liberi per potersi progettare, per divenire ciò che si ha il dovere di diventare, assumendo l’essere come vincolo esclusivo. In questa prospettiva anche nel pensiero di Heidegger persiste un umanesimo radicale, che qualifica il mansueto contegno umano dinanzi all’inveramento dell’essere. All’Uomo che impone la sua signoria, antistorico modello degli astratti umanismi, Heidegger contrappone la metaforica immagine del pastore che attende e coopera, con quiete, all’Evento dell’essere e da esso trae l’unica misura del suo atteggiarsi nel mondo, racchiuso in un’etica del margine, nel senso che è compito degli umani sapersi collocati al margine dell’accadere dell’essere. Questo umanesimo minimale fa leva sulla povertà dell’epoca presente, quando ogni cosa è in condizione di bisogno, l’essere non meno dell’umano. La celebre meditazione heideggeriana sull’essenza della tecnica contemporanea, se ha lo scopo di disegnare, con qualche eccesso di antimodernismo, le tinte fosche di questo stato di indigenza, ha anche il proposito di mostrare la verità al fondo dei nascondimenti, la memoria al fondo degli oblii. La tecnica è non solo l’insieme degli apparati di produzione ma anche il paradigma di una mentalità filosofica che produce l’essere. Essa è indice di una specifica relazione che il Dasein intrattiene con il mondo, in virtù della quale è possibile portare ad essere ciò che prima non era. Grazie a questa capacità creativa, si trova annoverata da Aristotele tra i modi umani di effettuare la verità e costituisce un primo giudizio perché originaria conoscenza dell’universale (l’artefice produce perché conosce in anticipo l’eidos, la forma cui l’oggetto dovrà corrispondere). La metafisica fa di questa capacità riproduttiva la struttura “logica” del suo pensiero. Eppure tecnica è sia la produzione sia la poesia: nella parola greca poiēsis si trovano dati entrambi i significati. Ancora una volta il compito filosofico principale è assumere la pluralità degli aspetti e renderne conto, non rinunciare all’elemento “logico” solo perché una lunga storia di contaminazioni ha reso la logica una dottrina “tecnica”,

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neutra e formale. Negli anni di Marburgo Heidegger ha offerto alcuni cenni di una “logica filosofica” non interamente sviluppata. è forse da verificare se questa indicazione si articoli nel suggerimento, già vichiano, di una “logica poetica”, nella parola della poesia che custodisce l’essenza del logos. Le tre parti in cui ho articolato questo saggio esprimono analiticamente ciò che in questa premessa ho detto in sintesi. La prima è stata pensata come un’introduzione heideggeriana alle questioni platoniche, la seconda come un dettagliato resoconto del Sofista e della Vorlesung heideggeriana, infine la terza come un luogo di collegamento tra il cosiddetto primo e secondo Heidegger, in nome della persistenza nel suo pensiero dei problemi “logici” sui quali intendo ritornare. Il superamento dei trionfalismi della modernità, nonché di alcuni sterili eccessi del post-moderno, sta imponendo con insistenza un rinnovato interesse per il modello greco di umanità, variante di un esistere che fa esercizio di moderazione, realizza un accordo tra la necessità della natura e la libertà del volere, tra le istanze del pensiero e della sensibilità. L’appendice alla prima parte dedicata a Julius Stenzel e a Werner Jaeger ha lo scopo di indicare nella “esigenza di logos” e nel “filosofare umanamente” il cuore pulsante della pratica umanistica, alla quale introduce la confidenza con la grande lezione della filosofia antica e che può articolare una sensata risposta, non viziata da essenzialismi e banalizzazioni, alla confusione concettuale del nostro interessante e complicato presente. Ringrazio la professoressa Renata Viti Cavaliere, che ha sostenuto e seguito con partecipazione la lunga e faticosa genesi di questo lavoro, il professor Eugenio Mazzarella, che ha coordinato il progetto del dottorato di ricerca all’interno del quale questo studio ha avuto origine, il professor Fabrizio Lomonaco, che ne ha accolto la pubblicazione in una così prestigiosa collana, i professori Giuseppe Cantillo e Giuseppe Cacciatore per i preziosi insegnamenti, la professoressa Lidia Palumbo per gli importanti consigli, infine gli amici, ai quali sono sempre riconoscente per la loro amicizia.

Rosalia Peluso Roma, 11 gennaio 2008

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PARTE PRIMA In cammino verso Platone

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CAPITOLO PRIMO Il gesto inaugurale del superamento «Credo di possedere la vocazione interiore per la filosofia e per la sua realizzazione nella ricerca e nell’insegnamento, orientati alla definizione esterna dell’uomo in quanto tale; solo in virtù di questo credo di poter compiere ciò che è nelle mie forze e in questo modo giustificare davanti a Dio la mia esistenza e il mio operato». Rileggendo la conclusione della celebre lettera che Heidegger scrisse a Engelbert Krebs nel gennaio del 1919, nella quale dichiarava «inaccettabile il sistema del cattolicesimo» sebbene «non il cristianesimo e la metafisica in quanto tali», è difficile resistere alla tentazione di illuminare il passato con gli esiti nei quali si produsse la “realizzazione” di quella “vocazione interiore per la filosofia” e che prese forma, in particolare nel periodo dell’insegnamento di Marburgo, in un serrato confronto con la tradizione filosofica e fu raccolto nella formula-programma della Destruktion1. Il progetto rivoluzionario che animava il giovane pensatore si concretizzò esteriormente nell’osteggiare l’ambiente accademico che lo ospitava. Di lì a qualche anno però la valenza positiva del criterio ermeneutico fu posta al servizio del programma politico-filosofico del rettorato di Heidegger e finì malauguratamente per assestarsi in una retriva appropriazione del passato che impedì la comprensione di un presente tragico, il quale esigeva sì la facoltà di pensare e di distinguere il vecchio dal nuovo ma al fine di non confondere la reale natura della “novità” storica che nel 1933 era ben più che definita. Se compito della filosofia “scientifica” è – ha sostenuto a più riprese Heidegger – tenersi al riparo dalla tentazione di approvare i bisogni spirituali del proprio tempo, ciò al fine di evitare che le percezioni confuse dei più vengano rielaborate in sede teorica e strutturate in tesi del pensiero, la comproLa lettera a Krebs, docente della Facoltà di teologia di Friburgo, sacerdote che aveva unito in nozze Heidegger a Elfride Petri nel 1917, è citata in H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, tr. it. di F. Cassinari, Martin Heidegger. Sentieri biografici, Milano, 1990, pp. 97-98. 1

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missione di Heidegger con il nazionalsocialismo continua a gettare ombre sul valore di quel compito e a far nutrire dubbi sulla capacità della filosofia professionale di rispondere al presente. Dalla filosofia non si possono pretendere risposte esaurienti e definitive perché questa pretesa invaliderebbe il senso stesso della pratica filosofica. Eppure sarebbe bastato appellarsi ad un antico concetto, al greco logon didonai, al “render conto”, nel caso specifico “dare ragione di una scelta”, perché una risposta sensata si producesse2. Invece quel minimo criterio etico fu trasformato nell’antecedente più remoto del principio metafisico di ragion sufficiente e reso quasi colpevole di quel che gli uomini avevano compiuto. L’esperienza personale di Heidegger, come quella di molti altri che fallirono la chiamata della storia, implica responsabilità personali ma anche responsabilità che gravano sulla filosofia, sul suo compito, sì scientifico, ma esercitato in mezzo al mondo. Quando Heidegger fu chiamato a Marburgo come professore straordinario, all’amico Jaspers, con il quale era già legato dal 1920 in un symphilosophein come “comunità di lotta”, descriveva le tinte fosche dell’ateneo e della cittadina, lamentando l’aria piccolo-borghese che solo il rifugio a Todtnauberg poteva alleviare. Scriveva ad esempio nel 1926: «poiché mi sto occupando del problema della negatività, qui ho l’occasione migliore per studiare che aspetto abbia ‘il niente’»3. è in ogni caso limitativo pensare agli anni 1923-’28 come un intermezzo o un esilio. In verità proprio durante il quinquennio marburghese Heidegger formerà la più nota cerchia dei suoi allievi, da Gadamer a Arendt a Jonas (la sua «truppa d’assalto» e i suoi «fiancheggiatori»), intraprenderà, nel

Sarebbe anche bastato rispondere “Io, no”, come ha ricordato Joachim Fest nella sua autobiografia (Io, no. Memorie di infanzia e gioventù, Milano, 2007). Hannah Arendt ha svolto un’analisi pregevole del crollo dell’etica dinanzi all’ascesa dei totalitarismi e ha ricordato come il principio socratico del “meglio subire il male anziché farlo” possa fungere da ultimo criterio regolativo dell’azione umana nei tempi di crisi, quando cioè le costruzioni morali si rivelano insufficienti o sembrano sbriciolarsi: cfr. H. Arendt, «Basic Moral Propositions», in Id., Responsibility and Judgment, a cura di J. Kohn, tr. it. di D. Tarizzo, «Alcune questioni di filosofia morale», in Id., Responsabilità e giudizio, Torino, 2004, pp. 41-126. 3 M. Heidegger, K. Jaspers, Briefwechsel. 1920-1963, Frankfurt a. M., 1990; tr. fr. di P. David, M. Heidegger, Correspondance avec Karl Jaspers, Paris, 1996, pp. 24 e 60 (lettere del 27 giugno 1922 e del 2 dicembre 1926). 2

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migliore spirito guerriero, i suoi contestati e impareggiabili confronti con la tradizione antica e moderna, conoscerà il peso delle “spine”, del conflitto tra la fedeltà alla missione della propria esistenza e i desideri e le passioni che rendono la vita degna di essere vissuta, tra la pura filosofia e l’accomodamento alle esigenze mondane, conoscerà il dissidio tra l’autenticità, forma perfetta dell’esistenza, e il quotidiano infrangersi di quell’ideale contro gli scogli dell’impersonalità. Soltanto col senno di poi, quando, come normalmente accade, il ricordo e la distanza rendono dolci anche i tormenti dell’anima, egli ripensò a quegli anni come al periodo più felice della sua vita. Il giudizio è da estendere dalla dimensione privata alla meditazione, anzi soprattutto a quest’ultima che, ormai quasi completamente nota nel suo svolgimento dopo la pubblicazione dei corsi di quegli anni, appare in tutta la sua ricchezza e carica di stimoli che è ancora in grado di esercitare sulla riflessione teoretica contemporanea. I confronti heideggeriani con la tradizione hanno sempre suscitato grande interesse e sonore stroncature. Rilievi importanti sono stati mossi a certe libertà filologiche che Heidegger si permetteva soprattutto interpretando i testi antichi. Se si limita il senso dell’interpretare alla corrispondenza con la lettera del testo, le letture heideggeriane difficilmente riusciranno a superare le obiezioni. Nel caso in cui si voglia invece prestar fede ad uno dei principali criteri heideggeriani, vale a dire alla decisiva distinzione tra l’oggettività della ricerca, che non può non ispirarsi alle regole della conformità e della dimostrazione, e la “verità” che esibisce e lascia vedere e non ha bisogno perciò di pratiche di validazione scientifica, il giudizio sarà notevolmente differente. La distinzione tra le cosiddette “teorie della verità” ha avuto un ruolo decisivo nella filosofia del Novecento, in primo luogo per le sorti stesse della filosofia e del suo senso, in particolar modo per la riflessione che poco o nulla ha ceduto sia nei metodi sia nei contenuti nel pur proficuo confronto interdisciplinare. L’autonomia e la specificità del pensiero filosofico contemporaneo avrebbe ben poche credenziali spendibili nella costante lotta per il proprio riconoscimento se non si ispirasse a questa distinzione che Heidegger ha con vigore sostenuto e che ha potuto motivare ispirandosi al significato di “verità filosofica” nata in grembo alla filosofia greca, la quale certamente riassumeva nella nozione di epistēmē il sapere umano in generale senza ulteriore specializzazione. Questa constatazione introduce un altro elemento utile per intendere la relazione con la storia della filosofia e che si può riassumere sotto la

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formula di “riattivazione” o “riabilitazione” del passato al fine di attualizzare problematiche antiche. Se esiste un esercizio che la pratica con la filosofia insegna, certo esso consiste nell’imparare a nutrire diffidenza per il sistema delle etichette, che può pur essere utile per orientarsi nel mondo delle produzioni intellettuali ma può anche, specie quando è assunto come un pregiudizio, limitare l’intendimento e rendere incapaci di scovare il nuovo, l’inedito e l’inaudito nella storia, in quello che si immagina come il chiuso mondo del già-stato, dell’intoccabile compiutezza della verità di fatto. è stato spesso ripetuto, in particolare da quanti hanno assistito direttamente ai corsi dedicati ai filosofi antichi, che Heidegger soleva attingere direttamente alla fonte, utilizzando quasi sempre il testo in lingua originale, cosicché delle stratificazioni prodotte dalla tradizione ermeneutica non si avesse immediata percezione e Platone e gli antichi in genere potessero presentarsi come contemporanei. è difficile resistere al fascino dell’operazione che intende abolire barriere storiche e riportare in vita i concetti. Anche in questo caso occorre tuttavia muoversi con prudenza. Certamente va ascritto a merito di Heidegger il tentativo di superare il processo di museificazione dei pensieri cristallizzati in discipline e settori di ricerca, e ciò in nome di un’idea “totale” di umano che non può essere frammentato o, peggio ancora, vivisezionato tra saperi particolari, quasi che tra questi non vi sia possibilità di raccordo. La proposta teorica fondamentale della filosofia è la ricerca di questa unità dell’umano nella distinzione delle prospettive, dell’integrità e dell’irriducibilità della vita rispetto ad una parzialità di punti di vista. Ciò non significa che esista un unico modello di umanità, sia esso pura razionalità o mera corporeità, geograficamente situato e culturalmente legittimato ad assumere il ruolo, ha scritto proprio Heidegger, di “signore del mondo”, nei confronti dei suoi simili e di altre forme di vita. Un’idea siffatta è piuttosto una rappresentazione aprioristica che non rende conto delle esigenze della pluralità che abitano nel medesimo. Il concetto di identità appare in prima istanza algido, capace di imporsi senza argomentazione, senza dunque chiedere l’accordo di un altro. Esso è piuttosto l’aprirsi della differenza, l’evidenza dell’appartenere che avvince sempre due, il tenere unito in una sintesi compiuta quanto all’apparenza si presenta irrelato. Heidegger ha definito questa identità aperta come Zusammengehörigkeit; il fatto che egli ne abbia parlato per rinnovare l’identità comunemente tramandata (uguaglianza, uniformità, unanimità) in una discussione sui princìpi della logica, non nell’ambito di una delle tante professioni di

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amicizia e dialogo interculturale, ne fa molto di più che una suggestiva immagine o l’utopia di una comunità di filantropi. La forza della meditazione heideggeriana ha la peculiarità di essere al tempo stesso metodo e concetto, indicazione e proposizione, domanda e risposta. Il breve richiamo alla “interezza” dell’umano e all’identità come schiudersi della differenza ha seguìto il proposito di mostrare un percorso concreto affinché la proposta di attualizzare l’antico non sia accolta con enfasi e senza criterio né liquidata in nome di una contaminazione impraticabile o di un paradosso antistorico. Occorre seguire alcune delle indicazioni heideggeriane. L’interpretare è definito un’attività di liberazione (Freilegung). Si libera qualcosa che è in catene, che è incapace di sviluppi ulteriori perché imprigionato in trappole concettuali che non ne permettono un autonomo sviluppo. Per contestualizzare il significato di questa proposta ermeneutica, il “Platone incatenato” è l’ostaggio di una tradizione incapace di distinguere tra l’originale e i suoi effetti, tra il testo platonico e i platonismi, oppure che si avvicina ai dialoghi con un’immagine prevenuta, con la pretesa di possedere in anticipo l’identità in quanto dottrina fondamentale (la teoria delle idee, la henologia, via via fino a scadere nei tentativi di chi scioccamente pretende di sapere “cosa ha detto veramente Platone”). Non serve profondarsi nei testi heideggeriani per scoprire quanto si legge pressoché in ogni intelligente monografia platonica, vale a dire che l’immagine di Platone o di altri classici è una risposta alle esigenze del tempo. Nemmeno Heidegger sfugge ad un simile ingranaggio perché la sua raffigurazione della metafisica coincidente con il platonismo dà conferma di quella indistinzione che si è prodotta nel corso del tempo tra l’originale e le sue riproduzioni, e che l’avvilupparsi in Platone di concetto e realtà, di logica e ontologia, non soddisfaceva la sua proposta di rinnovare l’ontologia al di fuori della logica, di distinguere nettamente l’essere dalle sue rappresentazioni4. 4 Il platonismo ha uno “statuto esistenziale”, nel senso che nasce da quella che, nei primi anni del Novecento, Lukács definiva nei termini di una esigenza di forma e che ha la sua radice storica nel proposito nietzschiano di “rovesciare il platonismo”. Heidegger rielabora questa “esigenza di forma” in una forma filosofica, caratteristica di un atteggiarsi del pensiero e storicamente determinata nella metafisica occidentale. Da nucleo esistenziale essa diviene “figura archetipica” (F. Volpi, «Platonismo e aristotelismo come figure archetipiche della metafisica di Heidegger», in Heidegger in discussione, a cura di F. Bianco, Milano, 1992, pp. 242-273). Il monumentale studio di Robert Petkovšek, Le

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Si cela dietro ad ogni tentativo di liberazione il proposito di riporstatut existential du platonisme. Platon dans l’analytique existentiale de Heidegger, Bern, 2004, coglie in pieno questo passaggio, concentrandosi sull’analisi, certo non semplice, della presenza di Platone nell’analitica esistenziale di Essere e tempo. Inutile ribadire che non di Platone occorre andare in cerca, quanto di quella Stimmung platonica, estrema variante romantica, che caratterizzò una generazione di pensatori, artisti, poeti e critici e che, come controparte, ha trovato una volgarizzazione di Platone nella genesi ideologica di totalitarismi, specie di quello nazionalsocialista. L’Autore definisce il platonismo una «evasione in un mondo concettuale di certezza», «essenza stessa del modo di pensare proprio dell’Occidente», radicato sull’istanza platonica di un trascendimento del mondo (cfr. Introduzione). Da questa interpretazione del platonismo all’archetipo del pensare tecnico-metafisico il salto è breve. Interpretare produttivamente Platone significa però anche scioglierlo dal giogo di una lunga storia di letture aprioristiche e di pregiudizi ai quali non sfugge lo stesso Heidegger, il quale candidamente confessò ad un allievo, alla fine degli anni Trenta, vale a dire dopo aver scritto su Platone tutto quanto noi oggi studiamo attentamente e discutiamo, che il pensiero platonico gli rimaneva sostanzialmente oscuro. Non basta «decorticare» il platonismo tradizionale, ad esempio quello neokantiano, da Heidegger definito “platonismo dei nostri tempi” o “dei barbari” in nome di un altro platonismo, fosse pure «delotico» (cfr. pp. 56, 113 e 686). Occorre invece, come invitava Nietzsche (consapevole che un platonismo, sebbene rovesciato, è sempre platonismo), abbandonare ogni platonismo e le sue istanze. Da questo oltrepassamento è probabile che Platone stesso ne trarrà indubitabili benefici. Sull’influenza nietzschiana sulla genesi heideggeriana del platonismo si veda A. Boutot, Heidegger et Platon. Le problème du nihilisme, Paris, 1987, in particolare pp. 281-301. Anche il lavoro di Pierpaolo Ciccarelli, Il Platone di Heidegger. Dalla “differenza ontologica” alla “svolta”, Napoli, 2002, assume Platone come “rispecchiamento” dell’analitica esistenziale e poi del pensiero heideggeriano successivo alla Kehre. In questo caso però il platonismo è assimilato ad un “vizio”, nel quale in larga parte Heidegger si troverebbe impigliato. L’indagine si rivela in questo caso più pertinente perché situata nel quadro di una “critica immanente” che Heidegger stesso svolge del suo pensiero e alla quale sottoporre i suoi esiti più maturi: è in questione non solo l’intonazione umanistica, antropologica, dell’analitica esistenziale, ma anche l’idea di verità, biforcata tra verità ontica e verità ontologica, nonché la nozione di differenza ontologica. Il platonismo è assunto come figura concettuale dogmatica anche da A.Boutot, op. cit., che intende mostrare, attraverso una documentata esegesi, il platonismo come nichilismo, ossia dimostrare – testi heideggeriani alla mano – che la storia della metafisica come oblio dell’essere è in fondo storia del platonismo. Per un inquadramento generale del tema rinvio anche ai volumi di Contre

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tare a nuova vita le idee di un pensatore, specie quando queste idee rispondono al bisogno di comprensione del presente. Un simile progetto può essere meritorio quando viene a colmare difetti di memoria e smorzare il sensazionalismo di alcune proposte culturali. Quando invece si vuole ad arte perseguire forme e modi lontani nel tempo, è difficile non scorgere in questo disegno il tentativo di restaurare l’antico dinanzi all’inadeguatezza del pensiero di tener dietro ai problemi attuali5. Un certo conservatorismo non manca all’impresa heideggeriana di riabilitare l’ontologia greca, epperò il suo richiamo diretto ai testi antichi ha il valore di segnare la differenza tra eterogenee e inconciliabili mentalità filosofiche, che sono la meditazione e la razionalità strumentale, dove la prima intende superare, impoverendolo da tecnicismi, il tipico pensiero rappresentativo della seconda che ha il proprio inizio storico, dopo una lunga incubazione, nella modernità. Per quanto la proposta teoretica di Heidegger possa lasciare insoddisfatti molti, soprattutto quando si limita ad esibire percorsi piuttosto che accompagnare a destinazione con una soluzione condivisibile, ciò nondimeno va ad essa riconosciuto il pregio di aver mostrato quanto meno l’indicazione per un rinnovato altro inizio del pensare. Platon, a cura di M. Dixsaut, Paris, 1995, e ai lavori di J. N. Findlay, Plato und der Platonismus. Eine Einführung, tr. ted. di H. J. Vienken, Königstein, 1981, in part. pp. 152-179; di M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Torino, 2003, nello specifico alla quindicesima lezione «Platonismi», pp. 215-223; di D. A. Hyland, Die Frage des Platonismus, tr. ted. di E. M. Vogt, Wien, 2004 , in part. pp. 27-99. Per una complessiva presenza di Platone nella filosofia contemporanea si veda il lavoro di A. Zadro, Platone nel Novecento, Roma-Bari, 1987. Sul ruolo del corso sul Sofista nella genesi di Essere e tempo rinvio a T. Kisiel, The Genesis of Heidegger’s Being and Time, Berkeley e Los Angeles, 1995, in part. pp. 301-308. 5 Queste obiezioni sono state rivolte al cosiddetto neoaristotelismo novecentesco che si è ispirato ad Aristotele per recuperare un modello di ragione pratica, spesso come alternativo a Kant. Nella “riabilitazione della filosofia pratica” molto ha influito anche Heidegger: si vedano in particolare il volume Heidegger e la filosofia pratica, a cura di P. Di Giovanni, Palermo, 1994, e nello specifico i contributi di E. Berti, «L’influenza di Heidegger sulla “riabilitazione della filosofia pratica”», pp. 307-331, e di F. Volpi, «Essere e tempo: una versione dell’Etica nicomachea? Heidegger e il problema della filosofia pratica», pp. 333370. Per una completa ricostruzione della presenza di Aristotele nella filosofia contemporanea rimando ai volumi di E. Berti, Aristotele nel Novecento, RomaBari, 1992, e Filosofia pratica, Napoli, 2004.

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Il tentativo di riattivare problematiche antiche può aver senso, evitando critiche antistoriche, purché si intenda per contemporaneità il luogo temporale simbolico nel quale avviene l’incontro tra l’esigenza del presente e la risposta del passato e dove l’azione (e la suggestione) della memoria del tempo non condizioni l’attualità, operando a forza la restaurazione di un potere ormai esautorato. è indiscutibile che il passato rinasca perché c’è un interesse individuale in grado non di riportarlo in vita, cosa che equivarrebbe a riesumare un cadavere, ma di ridargli un’altra vita, mai uguale alla precedente. Così, in definitiva, le letture heideggeriane di Platone, specie la lettura che si colloca anteriormente alla cosiddetta “svolta” e alla determinazione della metafisica in quanto platonismo, e che ha ad oggetto il Sofista, si inserisce nel solco di quel tentativo di liberare il passato filosofico, di ripristinare l’attenzione della filosofia per la questione ontologica, infine di fare del testo platonico lo spazio nel quale si struttura la proposta ontologica heideggeriana nel suo differire rispetto alla tradizione6. Un’affinità di fondo lega il tentativo heideggeriano con il dialogo platonico, un’affinità che si gioca sul terreno controverso della conservazione o del superamento della tradizione. Risulta utile entrare nel testo platonico e al tempo stesso nel commento di Heidegger toccando la questione più lungamente dibattuta del Sofista, vale a dire il suo tentativo, totale o parziale che sia, riuscito o mancato, simbolico o reale, di commettere “parricidio” nei confronti delle proposte ontologiche precedenti, e in particolare di Parmenide che certo aveva fornito la più compiuta definizione di essere. L’analisi di questa affinità non deve essere interpretata come un’imposizione dell’interpretazione. Essa possiede un riscontro nel testo heideggeriano ed è inoltre teoreticamente sostenibile sulla base della natura del metodo ermeneutico-fenomenologico con il quale ristabilire la priorità della domanda ontologica. In apertura della Vorlesung marburghese del 1924-’25 sul Sofista Heidegger premette alcune annotazioni propedeutiche. In esse si trova l’indicazione di un percorso metodologico che si sdoppia in una «preSi vedano i contributi di P. Pellecchia, Da Platone verso l’essere di Heidegger, in «Aquinas», 1 (1982), pp. 499-514; M. del Carmen Paredes, «Amicus Plato sed magis amica veritas: Reading Heidegger in Plato’s Cave», in Heidegger and Plato. Toward Dialogue, a cura di C. Partenie e T. Rockmore, Evanston, Illinois, 2005, pp. 108-120, e T. Rockmore, «Heidegger’s Uses of Plato and the History of Philosophy», in ivi, pp. 193-212. 6

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parazione filosofico-fenomenologica» e in una preparazione «storicoermeneutica»7. Il lavoro introduttivo ha la finalità di sgomberare il campo da immagini precostituite della dottrina platonica. Non si tratta di discutere interpretazioni prestabilite dei dialoghi quanto del loro contenuto autentico, vale a dire di quei «concetti fondamentali» che vanno esplorati e saggiati, alla fine resi familiari, come se si presentassero per la prima volta e non ci fosse dunque una lunga “storia degli effetti” che li precede. La preparazione storico-ermeneutica ha l’obiettivo di non proiettare su Platone punti di vista e chiavi di lettura già possedute per via di un apprendimento dogmatico che non fa questione della conoscenza. L’intervento della filosofia fenomenologica ha invece lo scopo di fornire un «orientamento»: deve dunque indicare “come” diventa visibile, mostrandosi da sé, il contenuto del testo platonico e “dove” lo si può incontrare. Orientarsi significa poter contare su luoghi spaziali: nello specifico il “luogo” dell’incontro con Platone avviene per Heidegger al di fuori di Platone stesso, nei testi di Aristotele, che godrebbero di un privilegio di chiarezza supplementare rispetto al dialogo platonico8. L’acquisizione del punto di vista fenomenologico (la capacità di imparare a vedere fenomenologicamente) comporta la possibilità di sondare nuove vie filosofiche che hanno di mira costantemente le cose (i fenomeni) e il discorso che le tematizza. Se la “cosa del pensiero” è il passato, non si tratta di fare di questa storia il neutro e freddo oggetto di una ricostruzione storiografica (Historie). Il passato è storia (Geschichte) che ancora accade, coinvolgendo anche i contemporanei nel suo acca-

M. Heidegger, Platon: Sophistes, GA XIX, a cura di I. Schüssler, Frankfurt a. M., 1992, § 1, pp. 7-13. L’opera sarà in seguito citata con il solo titolo. La traduzione dei passi citati è mia. 8 Sul limite dell’influenza aristotelica nell’approccio heideggeriano a Platone si veda H.-G. Gadamer, «Platone e Heidegger», in Id., Scritti platonici, ed. it. a cura di G. Moretto, Genova, 1984, vol. II, pp. 302-313. Per un approfondimento cfr. P. C. Smith, H.-G.Gadamer’s Heideggerian Interpretation of Plato, in «The Journal of the British Society for Phenomenology», 3 (1981), pp. 211230, e M. Riedel, Zwischen Plato und Aristoteles. Heideggers doppelte Exposition der Seinsfrage und der Ansatz von Gadamers hermeneutischer Gesprächsdialektik, in «Allgemeine Zeitschrift für Philosophie», 3 (1986), pp. 1-28. 7

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dere: l’evento concluso si ridesta ogni volta che cade nella rielaborazione della coscienza attuale. Il risveglio della storia agisce duplicemente: sull’interpretato, che è sottratto dall’ovvietà da cui sembra circondato e nuovamente obbligato a ripetere la sua questione fondamentale, e sull’interprete, che, nel lavoro della comprensione storica, scopre di essere coinvolto nel medesimo destino di storicità. Comprendere la storia è comprendere se stessi. La fenomenologia opera una rivoluzionaria ripetizione quando afferma che ciò che conta è il fenomeno, il libero mostrarsi della cosa. E svolge, in questo modo, già un lavoro ermeneutico perché disbosca il campo storico-filosofico da pregiudizi, settarismi, scolasticismi e dogmatismi: restituisce al discorso e all’interpretazione la possibilità di avere un senso. Il tentativo platonico di commettere parricidio nei confronti di Parmenide può essere interpretato secondo tali coordinate. Innanzitutto il proposito filosofico di esautorare il principio parmenideo secondo il quale “il non-essere non è” è formulato negativamente: «non credere che io divenga quasi un parricida». In secondo luogo non si tratta di una invalidazione a tutti gli effetti, quanto semmai di una temporanea sospensione di validità: il principio non è revocato in assoluto ma solo provvisoriamente reso inoffensivo. L’inefficacia del principio permette di sondare vie che altrimenti mai si schiuderebbero. Ha poi anche il compito di valutarne a pieno l’efficacia, in quelle regioni ontologiche dove conta distinguere tra contrarietà e differenza del non-ente rispetto all’essere. Il non-essere in quanto nulla continua ad agire anche in Platone come postulato impensabile. L’opzione parricida di Platone va dunque accostata da un lato al metodo ermeneutico-fenomenologico, dall’altro alla pratica della “distruzione” nei confronti della tradizione.

1. Architettura della distruzione L’osservazione del fenomeno della negatività dell’essere apre la strada ad una complessa “fenomenologia del non” che distingue il nulla assoluto dal non-essere relativo e, in quest’ultimo ambito, il non-essente in generale dal diversamente essente e dall’altro essente. L’idea che appaia qualcosa che non è comporta, nota Heidegger, una «rivoluzione della concezione del senso dell’essere» che Platone avrebbe compiuto nel Sofista, e che mira ad un «più radicale coglimento del senso dell’essere

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stesso e dei caratteri del “non” che vi si trovano contenuti»9. La rivoluzione cui si riferisce Heidegger in questa pagina riguarda la modificazione dell’ontologia di stampo parmenideo che il pensatore tedesco ancora riconosce come il retroterra teorico all’interno del quale si muove l’orientamento platonico. La piena aderenza agli argomenti eleatici prefigurerebbe un arretramento dinanzi all’evidenza che esiste qualcosa come non-essente; di questa evidenza occorre rendere ragione. Inoltre – ed è un punto fondamentale anche per la determinazione della filosofia – essente è ciò che viene incontro nel mondo ed è interpellato discorsivamente. Il venir incontro dell’ente e il suo essere incontrato attraverso il discorso, esperienze antecedenti i logoi della ragione, costituiscono i tratti essenziali di ogni ente a partire dal quale bisogna porre il problema dell’essere; dimensione, questa, estranea all’afferramento concettuale dell’essere che si compie nel noein, nell’apprensione intellettuale che necessita della negazione di ogni specificazione mondana. Il problema ontologico è innanzitutto, secondo la lezione heideggeriana, «onto-logia»10, vale a dire approccio discorsivo all’essere assunto, in virtù del suo essere “in quanto tale”, predicabile logicamente, legomenon, qualcosa che va detto: «più di ogni altra cosa è il discorso stesso, se giustamente analizzato, che ci potrebbe rivelare ciò»11, ovverosia è il logos che mostra qualche cosa che eccede la dottrina eleatica relativa alla non-esistenza e alla nonpensabilità del non-essere. Discutendo della “fatticità del sofista”, intorno alla questione che l’esistenza del sofista sia un “fatto”, come fattuale è la verità che egli pronuncia, gli interlocutori del dialogo platonico sono posti dinanzi Platon: Sophistes, § 27, p. 192. Ivi, § 29, p. 207. 11 Platone, Sofista 237b1-2, tr. it. di G. Cambiano, in Platone, Dialoghi filosofici, Torino, 1981, pp. 359-436. Per il testo in lingua originale ho fatto riferimento all’edizione stabilita da John Burnet, Platonis opera, Oxford, 1961. Ho inoltre tenuto presenti le seguenti traduzioni italiane: «Il sofista», tr. it. di E. Martini, in G. Carchia, La favola dell’essere. Commento al Sofista, Macerata, 1997, pp. 123-201; «Sofista», tr. it. di A. Zadro, in Platone, Opere, Bari, 1966, vol. I, pp. 359-436; Il sofista, tr. it. di M. Vitali, Milano, 1996; «Sofista», tr. it. di C. Mazzarelli, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Milano, 2000, pp. 261-314; Il sofista, tr. it. di F. Fronterotta, Milano, 2007. D’ora in avanti l’opera sarà così abbreviata: Plat. Soph.. Il nome del traduttore sarà indicato a fianco della citazione. 9

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a queste due constatazioni: 1) tò faínesqai toûto kaì tò dokeîn, eônai dè mÔ e 2) tò légein mèn \tta, ÞlhqÖ dè mÔ, c’è un apparire e un sembrare che tuttavia non è, e c’è un portare qualcosa al discorso (etwas ansprechen) che tuttavia non si lascia vedere nel suo disvelamento (“nicht aber es im Aufgedecktsein sehen lassen”)12. La questione è carica di aporie perché «affermare e pensare che il falso veramente sia (yeudÖ légein J doxázein 3ntwj eônai)» sembra impossibile da dimostrare senza cadere in contraddizione (ænantiologí= mÕ sunécesqai)13. Eppure il dialogo tra lo Straniero e Teeteto, all’apparenza in modo inavvertito, ma si scoprirà in seguito con piena deliberazione, ha osato porre a fondamento l’ipotesi che il non-essere sia (øpoqésqai tò mÕ ïn eônai). «Parmenide il grande [...] ha testimoniato per noi che allora eravamo bambini» che mai deve essere costretto ad essere il non-essere e che dinanzi a simili cedimenti occorre tenere ben salda la mente: «mai tu costringerai ad essere ciò che non è, / tu invece da questa via, nel tuo cercare, tieni lontano il pensiero»14. L’imperativo logico che sta a fondamento di questa tesi ontologica richiede una coerenza estrema alla mente: chiede ad essa che non si lasci sorprendere dalle cose e che si concentri unicamente sulla perfezione di quel principio, l’identità, che impedisce la predicazione della medesima cosa con un’altra diversa da se stessa: salva dunque dalla contraddizione. C’è tuttavia anche un altro compito, anch’esso radicato nell’essenza della ricerca filosofica: «soltanto se si presuppone questo: tò mÕ $on eônai, c’è in generale qualcosa di simile ad un sofista. Se questa presupposizione è illegittima, cioè attenendoci al principio di Parmenide, fin qui non crollato, secondo cui il non-essente non è, allora non può esserci il sofista. Ma allora non c’è alcuna differenza tra la ricerca scientifica e ciò che fanno i sofisti, ovvero la chiacchiera. Ogni discorso in quanto tale è ugualmente giustificato. Con ciò appare il vero significato di tutte le definizioni date fin qui, scolasticistiche solo in apparenza: siete costretti con ciò ad opporvi ai dogmi della tradizione di un Parmenide nella ricerca fondata sulla cosa stessa»15. Il discorso introduttivo alla delineazione delle aporie interne alla tesi eleatica viene da Heidegger incardinato sulla relazione della filosofia alla 12 13 14 15

Ivi, 236e1-2 e Platon: Sophistes, § 59, p. 406. Plat. Soph. 236e4-5 (tr. it. di G. Cambiano). Ivi, 237a3, 8-9 (tr. it. di G. Cambiano). Platon: Sophistes, § 59, pp. 410-411 (ultimo corsivo mio).

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tradizione, dunque sul rifiuto della dogmatica e sull’idea “costruttiva” della distruzione. Se ne ricava un’indicazione imprescindibile per le sorti sia del dialogo platonico sia del pensiero heideggeriano che, fin dalle prime esperienze, si è mosso in un confronto serrato con la tradizione filosofica occidentale e ha provato a “ristrutturarla” tentando di evidenziare ciò che la sistemazione del tempo e delle interpretazioni aveva celato o fatto sprofondare nel terreno inquestionabile dell’ovvietà. L’analisi dell’ontologia parmenidea esaminata dal pensatore tedesco ha l’implicita finalità di porre la filosofia dinanzi ad un’alternativa: rispettare pedissequamente la dogmatica – dunque condividere gli assunti di Parmenide e della sua scuola, farsi scolaro al pari degli sterili continuatori di questo indirizzo già stigmatizzati all’inizio del Sofista – oppure rispondere all’appello delle cose che è, secondo il metodo fenomenologico praticato nella Vorlesung, l’unica possibile modalità di rispondere all’invito del pensiero. Il dilemma di Platone è: rimanere fedele a Parmenide ma, in questo modo, ignorare l’essere fattivo del sofista; ciò implica di conseguenza, rifiutare a sé l’appellativo di filosofo e riconoscerlo invece al suo avversario, dal momento che non si presenta più alcuna possibilità di distinguere il “vero” dal suo contrario, il “falso”. «Oppure riconoscere il dato di fatto dell’essere-presente del sofista, nonché del mÕ 3n, dello yeûdoj, la fatticità dell’illusione, dell’occultamento, dello sviamento, com’essa è e in questo modo rielaborare la teoria dell’essere»16. La rinuncia alla filosofia comporta l’abbandono della propria identità esistenziale, se è vero che nella pratica della filosofia “ne va” di volta in volta dell’esistenza che conduce la ricerca ed in ogni caso si tratta di “esaminare la vita” a partire dalla vita che si è. Pertanto la questione dell’essere riguarda nel caso concreto il bios all’interno del quale essa si schiude. La relazione alla tradizione concerne non meno di Platone e Aristotele, sebbene in modo differente, il pensiero di ogni tempo. Una lettura “romantica” di Platone, inaugurata dalla sistemazione del corpus dei dialoghi compiuta da Schleiermacher è, secondo Heidegger, all’origine di un fraintendimento esemplare nell’approccio al pensatore antico: essa non lascia emergere ciò che di veramente produttivo si trova contenuto in ogni dialogo, e che non è la risposta completa ad un interrogativo, come ad esempio la strutturazione della teoria delle idee o l’individuazione dell’Uno che servono a conferire senso

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Ivi, § 60, p. 411.

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compiuto alla meditazione17. Platone risponde all’appello delle cose impegnandosi nella riflessione ma sempre consapevole della parzialità e della provvisorietà di ogni risultato: meglio di ogni altra testimonianza parlano i dialoghi aporetici, quelli corrispondenti alla cosiddetta fase giovanile o socratica; eppure Heidegger ritiene che anche gli scritti da lui definiti propriamente «scientifici», tra i quali è da annoverare certamente il Sofista, hanno di «veramente positivo [...] il non compiuto, il frammentario [...] ciò che rimane [...] in corso d’opera»18. Nella Vorlesung platonica Heidegger mette in guardia da un approccio «romantico» di certa fenomenologia che ingenuamente crede di potersi liberare del passato con un semplice salto. Rivendicando implicitamente l’importanza della storia per il pensiero che è innanzitutto vita, Heidegger sostiene al contrario che scopo della filosofia «non è la liberazione dal passato» ma «liberare per noi il passato, separarlo dalla tradizione, da quella tradizione inautentica che ha la specificità di alterare il dato stesso nel dare, nel tradere, nel restituire»19. Il recupero del passato, smarcato dai tentativi di imbalsamazione della storia, è indice del recupero della storicità intrinseca ad ogni esistenza che si volge indietro e nel già-stato scopre se stessa. «Mancanza di riguardo verso la tradizione è profondo rispetto per il passato – e questo rispetto è autentico solo se ci si appropria di quest’ultimo (il passato) attraverso la distruzione [“Destruktion”] della prima (la tradizione)»20. La salvaguardia dell’essere-storico comporta un’opera di demolizione; dunque la distruzione deve essere architettata, deve corrispondere ad un progetto, per 17 F. D. E. Schleiermacher, Einleitung in Platons Werke, tr. it. a cura di G. Sansonetti, Introduzione a Platone, con un’appendice di W. Dilthey, Brescia, 1994. In realtà il proposito di Schleiermacher non era poi troppo dissimile da quello heideggeriano. La lettura “romantica” si riferisce al fatto che Schleiermacher non separa forma e contenuto, il Platone filosofo fa tutt’uno con il Platone artista e si inserisce pienamente in quella che Dilthey definisce la «atmosfera spirituale dell’epoca» che nutriva l’esigenza di un «idealismo oggettivo» (cfr. ivi, pp. 54 sgg. e 95-96). Sul Platonbild nella storiografia classica tedesca come antecedente della lettura heideggeriana di Platone si veda L. Massaia, Preliminari per l’interpretazione della “Platons Lehre von der Wahrheit” di M. Heidegger, in «Verifiche», 2-3 (1983), pp. 139-156, in particolare su Schleiermacher pp. 152-154. 18 Platon: Sophistes, § 60, p. 413. 19 Ibid. 20 Ivi, § 60, p. 414.

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non confondersi con la furia cieca dei tentativi di smantellamento della tradizione, dell’antico come della modernità, inalberati con eccessiva fiducia da presunte avanguardie filosofiche. Si ricordi che nel corso Grundprobleme der Phänomenologie del ’27 la Destruktion si trova tra le «tre componenti fondamentali del metodo fenomenologico»21. Nel quinto paragrafo della Introduzione al corso, dopo aver ribadito il valore eminentemente metodico della fenomenologia e la necessità della differenza ontologica tra ente ed essere, nonché il presupposto secondo il quale «si dà essere solo se esiste la comprensione dell’essere»22, solo dunque se esiste un ente che ne possa avere comprensione, Heidegger stabilisce che i tre momenti strutturali del metodo fenomenologico sono la «riduzione», la «costruzione» e la «distruzione». Il senso della riduzione ha lo scopo di volgere lo sguardo dall’ente nel quale si schiude il tema dell’essere a quest’ultimo, ossia intuire che il «fondamento ontico» sul quale si struttura la questione ha di mira un approdo ontologico. La «costruzione fenomenologica» tende a rendere positivo questo sguardo: si richiede cioè un atteggiamento impegnato, un rigore coerente al tema. Da quest’analisi si ricava che è necessario innanzitutto inquadrare la «situazione storica in cui si situa un’indagine filosofica», giacché l’essere storico dell’Esserci deve condurre alla consapevolezza che ogni problematica è sempre influenzata dal periodo storico. Ecco dunque emergere il tema del relazionarsi dell’esistenza alla propria storicità: «ogni sviluppo della filosofia, anche il più radicale, anche quello che assume un punto di partenza nuovo, è condizionato da quei concetti e quindi da quegli orizzonti e da quei punti di vista tramandati che non è detto affatto siano scaturiti originariamente e genuinamente dall’ambito e dalla costituzione d’essere che essi pretendono di concepire. Per questo motivo, all’interpretazione concettuale dell’essere e delle sue strutture, vale a dire alla costruzione riducente dell’essere, appartiene necessariamente una distruzione, cioè una decostruzione critica di quei concetti che ci sono stati tramandati e che debbono anzitutto essere necessariamente impiegati, allo scopo di risalire alle fonti da cui sono scaturiti. Solo attraverso una tale distruM. Heidegger, Die Grundprobleme der Phänomenologie, GA XXIV, a cura di F.-W. von Herrmann, Frankfurt a. M., 1975, p. 26; tr. it. di A. Fabris, I problemi fondamentali della fenomenologia, Genova, 1988, § 5, p. 17. L’opera sarà in seguito citata con il titolo tedesco. 22 Ivi, § 5, p. 26; tr. it. p. 17. 21

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zione l’ontologia può assicurarsi fenomenologicamente della genuinità dei propri concetti»23. Nel § 6 di Essere e tempo è ribadito il ruolo primario della Destruktion nella riproposizione della questione ontologica e di una nuova e più autentica comprensione della storicità. Nello Hauptwerk Heidegger rivendica l’appartenenza dell’Esserci al suo passato, in definitiva la radice storica della sua esistenza, e propone una «storiografia» dell’essere, cioè un’indagine storiografica che abbia lo scopo di interpretare positivamente i precedenti confronti con la questione ontologica. Nell’opera del ’27 la determinazione storica del Dasein è arricchita dalla descrizione delle sue “strutture” esistenziali, così il rapporto tra l’Esserci e il passato è interpretato come una caduta: «l’Esserci, non solo ha l’inclinazione a cadere in quel mondo che gli appartiene e in cui è, e ad interpretarsi alla luce riflessa [reluzent] da esso, ma, nel contempo, cade anche dentro la propria tradizione»24. Questo trovarsi originariamente nel proprio passato non implica il godimento di un accesso libero; «la tradizione sradica» dalla storicità e i tentativi compiuti per accostarsi a quell’origine, di solito sulla scorta dell’appartenenza ad una corrente o ad una scuola, non fanno altro che camuffare «il proprio sradicamento». «Se il problema dell’essere stesso deve venire in chiaro quanto alla propria storia, bisogna che una tradizione sclerotizzata sia resa nuovamente fluida e che i veli da essa accumulati siano rimossi. Questo compito è da noi inteso come la distruzione del contenuto tradizionale dell’ontologia antica, distruzione da compiersi seguendo il filo conduttore del problema dell’essere, fino a risalire alle esperienze originarie in cui furono raggiunte quelle prime determinazioni dell’essere che fecero successivamente da guida»25. Anche in questo caso la Destruktion, per quanto non esplicitamente formalizzata come strumento del metodo fenomenologico, ha carattere metodico: serve ad assicurare l’accesso al passato, nello specifico ad una storia che è stata interpretazione e comprensione di un problema storicamente coniugato26. Ivi, § 5, p. 31; tr. it. p. 21. M. Heidegger, Sein und Zeit, § 6, Tübingen, 2001, p. 21; tr. it. Essere e tempo, nuova edizione italiana a cura di F. Volpi sulla versione di P. Chiodi, Milano, 2005, p. 35 (nel testo quest’ultima traduzione è così specificata: Chiodi-Volpi). Si è tenuta presente anche la nuova traduzione di A. Marini, Mondadori, Milano, 2006. L’opera sarà in seguito citata con il titolo tedesco. 25 Ivi, § 6, p. 22; tr. it. Chiodi-Volpi, p. 36. 26 Nella conferenza del 1955 Was ist das – die Philosophie?, Heidegger ri23 24

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L’impegno decostruttivo non ha finalità rivoluzionarie, ovvero non tende al sovvertimento radicale della tradizione cosicché essa possa considerarsi definitivamente superata. «La distruzione non si propone di seppellire il passato nel nulla, ma ha un intento positivo; la sua funzione negativa resta implicita e indiretta»27. I propositi positivi che si trovano a fondamento della Destruktion costituiscono forse la più immediata eredità socratica trasposta nel pensiero heideggeriano. Non si dà confutazione dell’avversario che non sia, nel quadro del dialeghesthai, accompagnato dall’intento positivo di liberarlo dalle false nozioni per renderlo disponibile ad accogliere nel suo intimo il “nuovo inizio” che accompagna ogni esperienza singolare di filosofia. Così «la costruzione della filosofia è necessariamente distruzione» e «la distruzione è parte della costruzione»28: innanzitutto perché non esiste demolizione che non sia pianificata nei minimi dettagli, a patto che non si tratti di una rivoluzione, cioè di un rovesciamento improvviso e radicale. Eppure il clima rivoluzionario è, come si dice, sempre nell’aria: così, ad esempio, Heidegger ha dimostrato in modo magistrale che tutta l’atmosfera spirituale e concettuale del Sofista è impregnata di fermenti rivoluzionari, dal principio fino alla fine, e che la contestazione al padre-Parmenide non giunge insospettata nel cosiddetto “nocciolo” del dialogo, ma è coscientemente preparata in ogni sua tappa, dal primo apparire dello Straniero fino alla messa in pratica dell’assassinio filosofico. In secondo luogo lo scopo della Destruktion non è esibire «“certificati di nascita”» chiama il § 6 dello Hauptwerk e così commenta: «Distruggere non significa annientare ma smantellare, estirpare e accantonare – per l’appunto le asserzioni meramente storiografiche sulla storia della filosofia. Distruggere significa dischiudere il nostro orecchio, renderlo libero per ciò che si rivolge a noi nella tradizione come essere dell’essente e che ci chiama in causa» («Was ist das - die Philosophie?», in Identität und Differenz, GA XI, a cura di F.-W. von Herrmann, Frankfurt a. M., 2006, pp. 7-26; tr. it. di C. Angelino, Che cos’è la filosofia?, Genova, 1997, p. 35). Un’indicazione di non poco conto sull’avvenire della filosofia si trova anche nella conferenza del 1962 Tempo e essere: «l’unico cammino possibile [...] per far progredire il pensiero ulteriore circa siffatto destino dell’essere (Seins-Geschick), resta quello di pensare fino in fondo ciò che in Essere e tempo è detto sulla distruzione della dottrina ontologica dell’essere dell’essente» (Zur Sache des Denkens, GA XIV, a cura di F.-W. von Herrmann, Frankfurt a. M., 2007, p. 13; tr. it. e cura di E. Mazzarella, Tempo e essere, Napoli, 1991, p. 111; nuova edizione italiana a cura di C. Badocco, Milano, 2007). 27 Sein un Zeit, § 6, p. 23; tr. it. Chiodi-Volpi, p. 37. 28 Die Grundprobleme der Phänomenologie, § 5, p. 31; tr. it. p. 21.

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dei concetti, dunque ritornare al passato solo per legittimare l’orientamento di una ricerca presente, ma nemmeno «ha il senso negativo di uno sbarazzarsi della tradizione ontologica»29. L’atto distruttivo contiene infine una finalità superiore ad ogni arido tentativo di continuazione del passato, tende cioè ad una positiva appropriazione della tradizione, a quella vitalità della storia che la sedimentazione dei tempi e delle opinioni tendono a mascherare. Questa appropriazione vuole “circoscrivere” la tradizione, in modo che emergano i suoi contributi positivi, e “de-finirla”, raccoglierla cioè nei suoi «limiti» e non lasciare più che da questi confini essa trabocchi nel presente e condizioni le sue potenzialità. In questo modo la re-invenzione – l’invenire come ritrovamento dell’ingegno – del passato si presenta piuttosto come una critica diretta all’attualità, al modo presente di recuperare l’antico. Ha in ogni caso di mira la Wirkungsgeschichte che accompagna i problemi filosofici, le testimonianze, le opere umane, cariche della tradizione nella quale queste tracce sono state di volta in volta accolte e re-interpretate. All’atteggiamento ermeneutico tuttavia, per certi versi rassegnato al corredo di esperienze che, iscrivendosi nell’opera, la sovra-scrivono, incidono sull’originale memorie del presente, Heidegger palesa, nella fase del suo pensiero corrispondente allo studio dell’analitica esistenziale, la possibilità che tale affrancamento sia praticabile. è possibile arguire che al superamento di questa posizione abbia contribuito anche l’esperimento non andato a buon fine con la tradizione filosofica occidentale30. Il problema della “distruzione della tradizione” è radicato nella questione ontologica che sorge nell’ente chiamato Esserci, dunque riguarda una più profonda comprensione della storia nella quale si muove quell’esistenza destinata a porre e riproporre la questione relativa all’essere. Quando, nello svolgimento della meditazione heideggeriana, questo tema prenderà un cammino differente, vale a dire quando sarà tentata la strada dell’evenemenzialità assoluta dell’essere, il principio fenomenologico della Destruktion non avrà più ad oggetto la «liberazione del passato» utile «a noi» per riappropriarci della nostra storia e così di noi stessi. L’esistenza verrà marginalizzata ai limiti dell’Evento: disboscare il passato non costituirà più una garanzia per la manifestazione dell’essere; Sein und Zeit, § 6, p. 22; tr. it. Chiodi-Volpi, p. 36. Sull’impiego della Destruktion nelle ricostruzioni “storiografiche” di Heidegger rimando a R. Viti Cavaliere, Heidegger e la storia della filosofia, Napoli, 1979, in particolare «La distruzione della storia dell’ontologia», pp. 77-89. 29

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nessuna delle determinazioni umane, a partire dal logos delotico o apofantico, riuscirà più a farsi causa di questo accadimento.

2. Il parricidio come metodo ermeneutico-fenomenologico Nel Sofista Platone fa uso della “distruzione” nei confronti della scuola eleatica e contemporaneamente delle precedenti e coeve teorie dell’essere. Non si deve trascurare infatti che la strutturazione dell’ontologia si articola anche a partire dal superamento di quella “storiografia” dell’essere disegnata nei quattro momenti dell’analisi dei monisti, dei pluralisti, degli “idealisti” e dei “materialisti”; a queste demolizioni è da aggiungere anche il riferimento ad Antistene e alla logica della tautologia, nonché il quadro generale della caccia filosofica alla sofistica. Questo scenario polemico si trova prefigurato dal primo apparire dello Straniero, che provenendo da Elea, discepolo di Parmenide, ambiguo filosofo agli occhi di Socrate, esperto di confutazioni, può rivendicare la propria appartenenza alla filosofia solo se si mostra un parricida potenziale. Il parricidio annunciato dallo Straniero in 241d3 è o sembra essere, poiché il programma dell’assassinio è enunciato in forma negativa e come un tentativo di fugare i dubbi che questo gesto possa realmente compiersi («non credere che io divenga quasi un parricida»), l’estrema conseguenza della confutazione che costituisce l’anima dell’argomentare e del procedimento dialettico31. La analisi della tecnica confutatoria, descritta in 230b4 e sg., può essere sinteticamente riassunta nei seguenti punti: c’è l’evidenza incontrovertibile di un dire che “dice nulla”, dinanPlatone utilizza in 241d6 i verbi basanízein, “sottoporre ad esame”, “mettere alla prova” e biázesqai, “sostenere con forza” per definire il suo parricidio programmatico. Non si può non notare, a conferma del carattere criticopolemico della filosofia, che i due verbi indicano azioni violente: in particolare basanízein significa anche “torturare”, e biázesqai, sia nella forma attiva sia in quella media, indica “fare violenza”. S. Rosen, Plato’s Sophist. The Drama of Original and Image, New Haven e London, 1983, p. 205, sostiene che a questo punto si passi «from hunting to war». Cfr. anche G. Sasso, L’essere e le differenze. Sul “Sofista” di Platone, Bologna, 1991, p. 11: i verbi platonici rimandando ad un’idea «di violazione e profanazione: come se appunto occorresse qualcosa come una 0brij per indurre ad essere, e all’“essere”, “ciò che non è”, e per capovolgere, in modo così drastico il logo di Parmenide». 31

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zi al quale il confutatore svolge un previo esame dell’argomentazione; assume le opinioni sostenute e le raccoglie in modo da dimostrare la loro inconsistenza ma soprattutto che esse affondano nella contraddizione assoluta. Segue il momento appropriativo della confutazione, vale a dire la “costruzione” della conoscenza che ha il proprio punto di partenza nel riconoscimento di un sapere difettivo, in quel «sapere solo ciò che si sa, e nulla di più». Anche analizzando la dottrina eleatica si parte da un’evidenza altrettanto incontestabile, tuttavia necessitante di un impegno ben più gravoso rispetto a quello che richiede la confutazione di individui che si scoprirà essere anti-filosofi, poiché il principio di Parmenide è êscuròj lógoj (cfr. 241c9), un discorso duro da contestare. Il dato di fatto da cui si innesca il processo demolitorio della tradizione nasce dalla constatazione che c’è un “dire il nulla”, un discorso che enuncia e lascia apparire l’esistenza di ciò che intende negare. Al divieto di Parmenide, «mai tu costringerai ad essere ciò che non è», occorre lanciare una sfida: «dobbiamo osare». L’audacia non riguarda tanto l’enunciare questa parola, come sostiene lo Straniero, vale a dire il non-essere, giacché essa si spinge oltre, risalendo le tappe del discorso e del ragionamento che lo fonda nella sua credibilità scientifica, per giungere al limite estremo di pensare il non-essere, dimostrando in tal modo che il discorso che lo predica risponde ad una conoscenza già verificata. «Comprendi allora con me – si rivolge lo Straniero al suo giovane interlocutore – che non è possibile pronunciare né dire la denominazione del non-essente e nemmeno pensarlo per sé, e che anzi è impensabile (Þdianóhton), indicibile (\rrhton), impronunciabile (\fqegkton) e al di fuori di ogni discorso (\logon)»32? Alla lettera dell’imperativo eleatico le possibilità di discorrere a proposito del non-essente sono impedite da questa incapacità di predicazione. Tra le difficoltà che una simile discussione presenta una è la maggiore: «non capisci, proprio da quanto si è detto, che il non-essente mette in difficoltà (eêj Þporían) anche chi ne confuta la nozione e la denominazione, cosicché quando uno si prova a farne la confutazione è costretto a dire di esso cose che nel suo dire stanno in reciproca opposizione (ænantía)»33? La confutazione si svela una pratica di argomentazione non più sufficiente alla conduzione del discorso, giacché fa precipitare anche il confutatore 32 33

Plat. Soph. 238c8-10 (tr. it. di G. Cambiano, lievemente modificata). Ivi, 238d4-7 (tr. it. di G. Cambiano, lievemente modificata).

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nell’abisso delle contraddizioni dalle quali egli cerca di salvare il confutato. Colui che assume il ruolo di confutare il confutatore è il sofista: per questo motivo l’alternativa descritta da Heidegger dinanzi alla quale si trova Platone, decidersi per la filosofia o per il dogma, costituisce il segno della salvaguardia del pensiero contro i suoi detrattori, o contro coloro che si servono dei discorsi disancorandoli dalle cose. Attribuire il falso ai logoi sofistici significa sperimentare la massima aporia: equivale ad ammettere l’esistenza di un dire che lascia vedere qualcosa che in realtà non è. Il sofista dirà dunque che «per questa ammissione più volte siamo costretti ad attribuire l’essere al non-essente, proprio noi che poco fa abbiamo convenuto che questo è assolutamente impossibile»34. L’avversario della filosofia si fa dunque paladino del principio eleatico: ripetendo alla lettera il pensiero del “padre”, egli confuta i nuovi filosofi che osano contestarlo, giungendo a negare loro l’identità filosofica e attribuirla invece a se stesso. Questo è dunque lo scenario in cui è lanciata l’idea del parricidio. è difatti «necessità dire cose in opposizione a chi stesso le dice»35, ossia è «necessario sottoporre ad esame il discorso del nostro padre Parmenide, e sostenere con forza che il non-essente in un certo senso è e che l’essere a sua volta in un certo senso non è»36. Di questa citazione Heidegger mette in rilievo due punti: il non-essente è detto essente in quanto “cosa” (ti), mentre l’essere è detto non-essente riguardo al “modo” (p+). «Non si tratta dunque di una opposizione radicale tra il non-essere e l’essere, o della loro sumplokÔ [...] ma: tò ïn Ìj o÷k 1sti p+, cioè che l’3n non ha la stessa maniera di non essere del mÕ 3n, ma un’altra, e che il mÕ 3n non ha la stessa maniera d’essere dell’3n, ma un’altra, Ìj 1sti katá ti. Questo implica pertanto una modificazione del senso dell’essere in generale. Questo è il vero argomento»37. Il concetto di “altro”, destinato a dare nome a una simile modificazione, è preannunciato in 238a5 come tÏn 3ntwn 6teron, «altro tra gli essenti», e in 240a8 come 6teron toioûton, «tal altra cosa» rispetto ad una prima, e viene riferito all’immagine, che è altra rispetto a ciò che rappresenta e che nella manifestazione iconica si trova in tal modo esibito. La confutazione dell’eleate costituisce la fatica e il rischio estremo del pensatore. Essa simboleggia l’abbandono della 34 35 36 37

Ivi, 241b1-3 (tr. it. di G. Cambiano, lievemente modificata). Ivi, 241e5 (tr. it. di G. Cambiano, lievemente modificata). Ivi, 241d5-7 (tr. it. di G. Cambiano, lievemente modificata). Platon: Sophistes, § 62, pp. 433-434.

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sicurezza derivante dalla propria identità e dall’appartenenza del proprio pensiero ad una scuola per sondare sentieri impraticabili e proibiti, fino ad apparire ai più un «folle» (242a11): la pazzia è all’apparenza la conseguenza estrema di chi non vuole ma «per necessità ineluttabile» (242b7-8) è costretto a trasformarsi in un parricida. Il disegno parricida si estende da Parmenide a tutti coloro che, nel passato e nell’attualità contemporanea a Platone, avevano già discusso di essere. Lo Straniero utilizza un’espressione di grande efficacia che serve al contempo per riscrivere il senso della filosofia e per prendere le distanze da ingenue soluzioni del problema ontologico. Parmenide, in modo non dissimile da altri, ha usato, nei confronti dei posteri o comunque dei giovani allievi, una certa bonarietà; pertanto alla fine, quella tradizione ontologica precedente sembra che abbia raccontato una favola (mûqon dihgeîsqai, cfr.242c8) credendo appunto di rivolgersi a bambini. «Sarebbe difficile e fuori luogo fare rimproveri su questioni di così grande portata ad uomini tanto illustri ed antichi; una cosa invece ci è dato di dichiarare senza attirare su di noi alcuna impopolarità [...] essi hanno troppo avuto in dispregio la moltitudine che noi siamo guardandoci dall’alto: infatti senza badare minimamente se noi seguiamo le loro parole oppure se li lasciamo andare soli, ciascuno di essi batte la propria strada fino in fondo»38. Il punto sul quale si applica l’attenzione di Platone è quella «del numero dell’ente e della sua costituzione»39, ossia di definire l’3n in senso qualitativo e quantitativo: che cos’è “essere” e in che numero si mostra? Platone descrive una sintetica storiografia della comprensione dell’essere segnalando quattro argomenti principali che verranno in seguito discussi e decostruiti. La prima scuola è di quanti sostengono che l’essere sia composto da tre elementi che possono scomporsi e combinarsi e così dar vita ad altri enti. Gli interpreti individuano in questa descrizione Ferecide di Siro o Jone di Chio. La seconda scuola, forse di Archelao di Atene, individua invece due elementi, il caldo e il freddo o l’umido e il secco, anch’essi opposti ma combinabili. C’è poi la «gente eleatica», discendente da Senofane e altri più antichi40, che ritiene che i Plat. Soph. 243a3-b1 (tr. it. di G. Cambiano). Platon: Sophistes, § 63, p. 436. 40 Cfr. I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Roma-Bari, 2002, vol. I, cap. 1, pp. 11-12, dove si rimanda alle testimonianze dei dialoghi platonici sulla scuola orfica cui il passo del Sofista potrebbe alludere. 38

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panta siano una sola cosa. Infine ci sono le «Muse» ioniche e di Sicilia, chiaramente Eraclito e Empedocle, che hanno ripreso le concezioni precedenti giungendo a definire l’essere uno e molteplice, animato da princìpi contrastanti che ne determinano il divenire. Le Muse eraclitee, «più intonate», sostengono che nel disaccordo si genera sempre concordia. Le altre, meno rigide, sostengono che «in alterna vicenda» l’essere può essere uno quando cade sotto il potere aggregante della forza di coesione, oppure molteplice quando prevale l’elemento disgregante. In questa descrizione alquanto mitica della precedente storia dell’ontologia, sembra prevalere soprattutto la semplicità dei ragionamenti sottesi a simili teorie, che richiederebbero dunque un rigore maggiore e soprattutto il superamento di una prospettiva primitiva e naturalistica, della dimensione ontica41. Con l’espressione “raccontare una favola” Platone pretende di correggere al contempo una deriva intrinseca ad ogni pensiero: la disponibilità ad essere intesa dalla moltitudine arrischia la filosofia in descrizioni ingenue che possono limitare la sua portata teoretica. Si tratta dunque di un irrigidimento che Platone esige innanzitutto dalla propria speculazione: non è casuale che il Sofista sia un dialogo che si segnala per l’assenza di un mito, ai cui racconti Platone ci ha abituato. Lo Straniero argomenta che è possibile scegliere qualcuna di tali strade solo in gioventù, quando non si è ancora pervenuti ad intendere la problematicità intrinseca ad espressioni all’apparenza facilmente comprensibili quali “essere” e “non-essere”. Né d’altro canto è stata premura di quegli antichi maestri verificare la corretta comprensione delle loro dottrine da parte dei loro allievi, così che hanno contribuito a generare quella degenerazione della speculazione che Platone sta lamentando in particolare nella eredità parmenidea: «“raccontano storie”, senza vero logos»42, fanno uso di parole ma sono incapaci di verificare l’aderenza del loro dire “alla cosa stessa”, dando l’impressione di favoleggiare. 41 Platon: Sophistes, § 64, p. 441: «Ciò vuol dire che, per quanto avessero trattato dell’essere, gli Antichi raccontavano qualcosa sull’ente: [...] non arrivavano mai al punto di tener fermo ciò che riguardava l’essere dell’ente. Allorché, ad esempio, raccontavano tría tà 3nta, evidenziavano un ente determinato che aveva per loro un senso particolare e spiegavano l’ente con l’ente. Questo è il senso dell’espressione «raccontano storie», ovvero essi si muovevano ingenuamente nella dimensione dell’ente, senza mai entrare nella dimensione dell’essere dell’ente». 42 Ivi, § 64, p. 443.

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La critica platonica non si rivolge solo alle dottrine antiche43. Essa prende di mira anche le tesi contemporanee a Platone, che esprimono tuttavia un approccio trasversale ed universale alla questione dell’essere. Nei passi 246a-250e è descritta la «battaglia di giganti» (246a4), scontro che infuria tra i sostenitori di due schieramenti: i primi sostengono che l’essere sia identificabile con la materia (o÷sía = sÏma), i secondi – forse i Megarici – con le sostanze immateriali (o÷sía = eôdoj). La discussione platonica sulle tesi ontologiche passate e contemporanee ha lo scopo di riproporre il problema dell’essere come questione inaugurale di ogni filosofia. L’articolazione del discorso filosofico preplatonico, con la sola eccezione di Parmenide, si muove nell’ambito dell’ontico più che dell’ontologico: «La critica, esercitata da Platone sull’epoca precedente, si dispiega nel seguente orientamento: pervenire all’ontologico in opposizione all’ontico, alla spiegazione categoriale dell’essere in opposizione alla descrizione ontica dell’ente, vale a dire renderli in generale visibili nei loro rispettivi domini. Poiché per Platone era veramente una scoperta inaudita vedere l’essere in opposizione all’ente – scoperta verso la quale Parmenide aveva fatto il primo passo, in parte a sua insaputa, con il principio in apparenza banale secondo il quale “l’ente è”. Con un tale principio egli si è fondamentalmente elevato al di sopra dell’ente inteso nel senso di una descrizione» cioè di una descrizione «dell’ente attraverso l’ente»44. L’avanzamento di Platone rispetto ai pensatori passati e coevi consiste nell’abbozzo di un riconoscimento della “differenza ontologica”, ossia nel riuscire a

La discussione delle dottrine antiche è svolta in 242c-245c (per la lettura di Heidegger cfr. Platon: Sophistes, §§ 63-64, pp. 439-440 e 444): prima è discussa la tesi della molteplicità dell’essere, la cui confutazione porterà all’individuazione dell’essere come uno; in secondo luogo è analizzata la tesi eleatica per concludere che l’uno rimanda ad una molteplicità. La ripresa degli argomenti eraclitei ed empedoclei avverrà invece nel corso della “ricostruzione” ontologica, ossia dell’esposizione della teoria platonica. Cfr. infra, I logoi ontologici degli altri, pp. 219 sgg. Cfr. Platon: Sophistes, § 70, p. 489: «Mettendo in evidenza la kínhsij e la stásij, Platone ha recuperato i due concetti fondamentali la cui vitalità è attestata nelle posizioni delle ontologie precedenti: la stásij di Parmenide e la kínhsij di Eraclito, e questo in modo che si possa al tempo stesso operare la giunzione tra queste posizioni nel fenomeno del gignÍskein». 44 Ivi, § 63, pp. 438-439. 43

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scorgere e portare ad un maggiore livello di consapevolezza la differenza dell’ente rispetto al proprio modo d’essere. Il paesaggio metodico del parricidio arriva a comprendere con lo sguardo un orizzonte ben più esteso del confronto con il solo “padre venerando e terribile”. In sintesi, divenire parricida equivale ad assumere un atteggiamento radicale nei confronti della tradizione, sperimentare praticamente la destrutturazione del passato per appropriarsene in senso positivo, come pretende Heidegger, e indicare in tal modo scenari futuri per la filosofia innanzitutto preservandole uno spazio d’azione che il rispetto formale dell’autorità le nega. La rassegna critica delle precedenti teorie recupera il senso originario della confutazione, ovvero si serve della confutazione dell’avversario per salvare dalla contraddizione il proprio discorso in apparenza aporetico. Le premesse programmatiche e metodologiche così esposte anticipano e legittimano la scomposizione delle opinioni sull’essere al fine di preparare la ricostruzione della questione ontologica.

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CAPITOLO SECONDO Concetti fondamentali della filosofia platonica Il cammino heideggeriano è un cammino che procede a ritroso, indietro e in direzione della determinazione dell’essenza della metafisica che «parla la lingua di Platone»45. Esiste una semantica concettuale che prende avvio con la speculazione platonica e che costituisce essenzialmente il quadro all’interno del quale sboccia e si orienta la metafisica occidentale. In questa prospettiva il testo della Dottrina platonica della verità contiene i riferimenti fondamentali della determinazione sia del pensiero platonico sia di quello metafisico46. Può essere pertanto utilizzato come compendio dei concetti platonici rivisitati da Heidegger, mentre gli altri testi platonici, il corso del ’24-’25 sul Sofista e quello del ’31-’32 sulla Repubblica e sul Teeteto, nonché quello del ’26 sulla filosofia antica, entrano nel dettaglio delle singole questioni che, in modo più sintetico e non esente da rielaborazioni, si trovano nello Zur Sache des Denkens, cit., p. 82; tr. it. di E. Mazzarella, p. 181. M. Heidegger, «Platons Lehre von der Wahrheit», in Wegmarken, GA IX, a cura di F.-W. von Herrmann, Frankfurt a. M., 1996, pp. 203-238; tr. it. di F. Volpi, in Segnavia, Milano, pp. 159-192. Il testo fu redatto nel 1940 e pubblicato nel 1942 in «Geistige Überlieferung. Das zweite Jahrbuch». Nel ’47 apparve assieme al Brief über den Humanismus e nel ’67 in Wegmarken. D’ora in avanti il testo si troverà citato con il solo titolo tedesco. Le citazioni dall’originale sono tratte dall’estratto dell’editore Klostermann. Il saggio è stato ampiamente studiato: cfr. W. Hirsch, «Platon und das Problem der Wahrheit», in Durchblicke. Martin Heidegger zum 80. Geburtstag, Frankfurt a. M., 1970, pp. 207-234; R. Viti Cavaliere, Martin Heidegger e la dottrina di Platone sulla verità, in «Rivista di studi crociani», 3 (1976), pp. 289-294; W. A. Galston, Heidegger’s Plato. A Critique of Plato’s Doctrine of Truth, in «The Philosophical Forum. A Quartely», 4 (1982), pp. 371-384; R. J. Dostal, Beyond Being: Heidegger’s Plato, in «Journal of the History of Philosophy», 1 (1985), pp. 71-98; F. Bosio, «La presenza di Platone nel pensiero di Heidegger», in Letture platoniche, Quaderni dell’Istituto di Filosofia, Napoli, 1987, pp. 131-146; J. Barnes, Heidegger spéléologue, in «Revue de métaphysique et de morale», 95 (1990), pp. 173-195. 45 46

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scritto degli anni Quaranta47. La varietà dei temi e delle interpretazioni heideggeriane può essere ridotta ad un apparato concettuale che si limita alla enucleazione di quei fondamenti di filosofia platonica filtrati dalla meditazione di Heidegger e raccolti intorno alle nozioni di verità e non-verità, libertà, paideia, idea e agathon48. 47 M. Heidegger, Platon: Sophistes, cit.; Id., Grundbegriffe der antiken Philosophie, GA XXII, a cura di F.-K. Blust, Frankfurt a. M., 1993, tr. it. a cura di F. Volpi e G. Gurisatti, Milano, 2000; Id., Vom Wesen der Wahrheit. Zu Platons Höhlengleichnis und Theätet, GA XXXIV, a cura di H. Mörchen, Frankfurt a. M., 1988, tr. it. a cura di F. Volpi, Milano, 1997. Le opere saranno di seguito citate coi rispettivi titoli tedeschi. 48 Per una sintetica ricostruzione della presenza platonica in Heidegger, nonché di alcuni orientamenti critici (soprattutto in lingua inglese) si veda l’Introduzione di Catalin Partenie e Tom Rockmore al volume, da loro curato, Heidegger and Plato. Toward Dialogue, cit., pp. XIX-XXVII. è opinione alquanto diffusa distinguere tra diverse fasi della lettura heideggeriana di Platone: ad una prima fase, corrispondente agli anni Venti, incentrata su una positiva appropriazione di Platone, farebbe seguito la fase del superamento e l’elaborazione, per il tramite di Nietzsche, del platonismo come genesi del pensiero metafisico. Sulle distinte fasi si veda anche A. Le Moli, Heidegger e Platone. Essere relazione differenza, Milano, 2002. Indiscutibile il valore di questa distinzione in ambito critico-storiografico, meno giustificabile sul piano teoretico: inutile ripetere che alcuni nessi concettuali dei primi lavori si chiariscono (anche quando distorcono l’intenzione platonica) nel ripensamento successivo, così come alcune oscurità del periodo successivo alla Kehre sono più chiare se relazionate alle precedenti analisi. J.-F. Courtine, «Le platonisme de Heidegger», in Id., Heidegger et la phénoménologie, Paris, 1990, pp. 129-158, anziché distinguere tra una fase positiva e una negativa dell’interpretazione heideggeriana di Platone, preferisce distinguere tra due interpretazioni presenti nel corpus heideggeriano: l’interpretazione di Platone e l’interpretazione del platonismo, che spesso si intrecciano e si confondono. Soltanto se si fa salva questa premessa si può parlare di interpretazione positiva e negativa, dove quest’ultima è segnatamente archiviata sotto la voce di antiplatonismo: ossia, nel momento in cui Heidegger svolge la sua critica, per approdare ad una presa di distanza dalla metafisica occidentale caratterizzata dal platonismo, allora egli si pone sotto il segno dell’antiplatonismo. Courtine vuole tuttavia dimostrare, al di là della presenza platonica nella pagina heideggeriana – molto scarsa a suo dire, per cui si può parlare di un vero e proprio “silenzio” su Platone –, che c’è un intero mondo di motivi d’origine platonica che segna l’orientamento di pensiero di Heidegger: l’Autore conduce la discussione sotto la premessa di un “platonismo di Heidegger”, che egli stesso definisce “pa-

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La lettura heideggeriana non poteva assicurarsi un accesso più diretto nel cuore della filosofia platonica, nonché nel sistema di rappresentazioni che sono state offerte del platonismo, se non indirizzandosi, anche simbolicamente, alla forse più celebre sintesi del pensiero platonico, a quello che comunemente è chiamato “mito” della caverna, che favola certamente non è, quanto piuttosto, come nota anche Heidegger, un’immagine o una narrazione che contiene un duplice livello di interpretazione. La descrizione degli umani incatenati e le alterne fasi della liberazione, dell’ascesa verso l’esterno e della ridiscesa nella caverna, può essere definita “mito” purché si intenda quest’ultimo come un complesso analogico. Il mito è qualcosa che fa cenno a ciò che deve essere compreso e che non è immediatamente disponibile, qualcosa che dunque può essere presentato soltanto per via intuitiva. Analogon è definito da Socrate nel VI libro della Repubblica il sole rispetto all’idea di bene perché è immagine e dunque un simbolo sensibile che adombra un intellegibile. Ma le «corrispondenze simboliche»49, il ricorso all’analogia, al simbolo che lega, per introdurre la duplicazione tra i luoghi del pensiero, il visibile e l’invisibile, non è il canale esclusivo per intendere la duplicità concettuale cui Heidegger accenna in apertura alla sua interpretazione e che distingue tra la tangibilità delle tesi, la loro univoca visibilità e il disporsi ad un impiego, e l’inaccessibilità della “dottrina” che invece è quanto nell’esplicitamente detto rimane celato. Più che rimandare alla distinzione tra le funzioni essoteriche ed esoteriche del pensiero platonico, ovverosia ad una teoria fondamentale dell’essere non trasposta nella scrittura e riservata all’oralità, Heidegger sembra adeguarsi alla distinzione platonica relativa alla duplicità dell’essere scisso tra l’horaton e il noēton, che può accrescersi per gradi ontologici e logici, diventare dunque “più essente” e “più vero”. Si ha così un primo livello immediato, garantito dalla certezza di ciò che si vede, che si ha sottomano, e che in un testo filosofico è chiaramente espresso, ed un secondo livello, questa volta mediato, che può essere intenzionalmente o spesso inconsapevolmente nascosto.

radossale”, ma che si rivela più produttiva rispetto alle tante interpretazioni che vogliono, oltre i giusti limiti, assegnare alla lettura platonica un ruolo eccessivo nel pensiero di Heidegger o che intendono liquidare la questione inserendo la lettura heideggeriana sotto il segno del più totale fraintendimento di Platone. 49 Platons Lehre von der Wahrheit, p. 17; tr. it. p. 171.

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Il problema del corretto accesso e il lavoro dell’interpretazione che deve inoltrarsi nel doppio rimane una costante di ogni interpretazione heideggeriana di Platone. Già Schleiermacher, nella sua introduzione ai dialoghi platonici, aveva messo in guardia l’interprete dal presumere anzi tempo di intendere la dottrina di un autore meglio di quanto egli stesso l’abbia effettivamente compresa, aveva inoltre dichiarato che invece il compito di un’interpretazione consiste nell’«indovinare la grande intenzionalità» dell’autore50. Ciò che è determinante in Heidegger è la coscienza dell’irriducibilità di questo doppio, che non appartiene all’autore e che quindi l’interprete non può togliere una volta compreso un pensiero nella sua interezza. Sarebbe “romantico” attendersi dall’ermeneutica il superamento dell’ambiguità. Ciò cui invece l’interpretazione giunge è la sua chiara visione. Se, dunque, la duplicità platonica del reale si offre come sistema analogico per l’articolazione del pensiero più o meno definito, e sarà meglio definito all’inizio e più evanescente man mano che si approssima al coglimento dell’idea fondamentale, l’ambiguità che Heidegger coglie nel “non-detto” trabocca questa doppiezza logica e ontologica e tenta di insinuarsi in ciò che in Platone rimane inespresso e risulta invece determinante nel destino storico della filosofia. Bisogna arrivare a vedere quel mutamento di determinazione nell’essenza della verità, quella biforcazione nel destino e nella storia, che si fa visibile nel testo platonico ma del quale Platone non può essere considerato responsabile, dal momento che egli stesso si è adeguato ad un movimento interno alla stessa verità.

1. Verità La domanda sulla “essenza della verità” costituisce il filo conduttore della lettura heideggeriana di Platone, specie negli anni Trenta. Anche nei corsi marburghesi è da registrare l’insistenza da parte di Heidegger sul tema platonico della verità; in questi confronti tuttavia l’interesse è mediato dalla priorità accordata al logos e al suo carattere apofantico o delotico, vale a dire alla capacità che ha il dire di rendere trasparenti le cose, lasciate apparire nella loro essenza. Il logos ha un rapporto privilegiato con la verità ma non ne esaurisce lo spettro semantico: pensare questo significa limitarsi ad una concezione particolare di verità come 50

F. D. E. Schleiermacher, op. cit., pp. 46-47.

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correttezza del giudizio, corrispondenza del detto al fatto. Non che la verità non sia anche questo. Tuttavia non è solo questo. “Essenza della verità”, “dottrina della verità” sono i titoli delle Vorlesungen heideggeriane su Platone. Che cos’è dunque “verità?” Domandare, come fa Heidegger, della “essenza della verità” è domandare del “che cos’è verità?”. Il che-cosa, l’essenza, è genericamente interpretato come qualcosa di “universale”, “comune” a tutte le cose particolari. Sembra così che ogni volta che ci avviciniamo alle cose possediamo già in anticipo il concetto di questo universale che rinveniamo nei particolari. Il problema è che, a dispetto di ogni deduzione, si conoscono sempre per prime le particolarità e poi se ne ricava una generalità, un concetto. Riguardo poi al tema della verità, porlo nella sua astrattezza conduce ad una sua invalidazione sul piano pratico: non si conosce la verità in generale e in assoluto ma sempre e soltanto verità particolari. Siano verità razionali (“2+1 = 3”) oppure verità di fatto (“nel 1914 è scoppiata la prima guerra mondiale”), esse sono sempre riconosciute vere nella loro singolarità, vere perché «contengono qualcosa di “vero”». Il luogo nel quale la loro verità è contenuta è l’asserzione (Satz). Nella proposizione che predica la verità di un particolare nondimeno però si possiede una visione generale della verità. L’essenza della verità espressa dalla asserzione è «conformità», «concordanza», precisamente è il concordare tra le cose e ciò che su di esse è detto, concordare reso possibile da una conformità tra la proposizione e ciò di cui essa asserisce qualcosa51. La verità stabilisce concordanze perché si fonda sulla possibilità del conformarsi dell’asserto alla cosa. L’essenza della verità, di questa verità, è concordanza. Da questa interpretazione dell’essenza della verità emerge però chiaramente anche «un’altra essenza della verità»52. Il fatto che la proposizione asserisce, ciò con cui essa concorda, è una verità già data. Tra la verità e il fatto c’è una distanza. Le nozioni che spacciamo intorno ad essere, essenza e verità sono credute ovvie perché «la verità fa parte […] in un certo senso dell’uso quotidiano»: usiamo concetti non perché ne abbiamo avuto previa dimostrazione certa ed evidente53. è il nostro fiuto, il cosiddetto sesto senso che ci rende familiare la verità. Impariamo a dire la verità molto prima di sapere che cosa essa sia. Se questo è indubitabi51 52 53

Vom Wesen der Wahrheit, § 1, p. 2; tr. it. p. 24. Platons Lehre von der Wahrheit, p. 26; tr. it. p. 179. Vom Wesen der Wahrheit, § 1, p. 7; tr. it. p. 29.

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le, è altresì certo che proprio questo utilizzo volgarizzato delle nozioni le rende inquestionabili, quasi non degne di essere interrogate (nicht frag-würdig), perché troppo ovvie, troppo scontate. La verità è invece un concetto ambiguo – ammesso che sia possibile ridurla ad un concetto. Il criterio della concordanza non può essere elevato a strumento universalmente valido perché esistono “fatti” di cui esso non può rendere conto. Quando si dice, ad esempio, “amico vero”, “oro vero”, quale tipo di conformità si sta esprimendo: il concordare dell’amico o dell’oro con il vero? Ciò che costituisce l’essenza della verità dell’asserzione non vale universalmente per ogni fatto e, probabilmente, non per ogni asserzione. “Tizio è un vero amico” implica in ogni caso un predicato di verità ma questa verità ha ben poco a che fare con il concordare di Tizio ad un dato, generalmente riconosciuto, di “vera amicizia”. Semmai si dice “Tizio sembra un vero amico”, “in quella circostanza Tizio si è rivelato un vero amico”: già in questi esempi linguistici sta prendendo corpo un’altra verità sulla verità. La scoperta dell’ambiguità nella definizione di verità implica l’inesauribilità di un’unica nozione e getta una certa equivocità anche sul concetto di essenza, anzi sull’essenza dell’essenza (la essenzialità, Wesenheit). Non basta l’idea che “essenza” sia qualcosa di universale di cui le singolarità partecipano, perché il partecipare delle cose può essere differente. Come accade per il concordare della verità, anche il partecipare non esaurisce lo spettro semantico dell’essenza di ogni singola cosa, non può dar conto del “che cosa è” di ogni particolare. è chiaro che l’essenza della verità in quanto universalità del concordare non è il significato ma uno dei possibili particolari significati di essenza e di verità. Molti luoghi comuni si tramandano intorno alla verità. Innanzitutto che essa soltanto possiede il tratto dell’universalità. A ben guardare quest’ultimo è però un travisamento dell’essenza autentica della verità. Non basta dire che una cosa è universale per essere vera perché spesso anche le ovvietà e i pregiudizi hanno valore universale e valgono come vincoli assoluti senza per questo essere veri: la loro universalità non è garantita dal lasciar vedere le cose così come sono in realtà, piuttosto le mostrano nel loro contrario, nel fatto cioè che esse non si mostrano per quello che sono. Anche le non-verità possono essere universali e vincolanti54. In secondo luogo si ritiene che la verità sia di pertinenza della cono54

Platon: Sophistes, § 4, p. 23.

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scenza teoretica, delle scienze rigorose che non prestano il fianco ad equivoci. In realtà la verità è un concetto prescientifico e prefilosofico, un’esperienza, prima ancora di essere una costruzione intellettuale, che ciascuna esistenza fa nella relazione con altre esistenze e in generale con il mondo. Inoltre esistono campi dell’essere e delle attività umane nelle quali le opinioni correnti sulla verità si dimostrano infondate. Come si può non dire che vera è anche l’esperienza del bello, dello spirituale, dell’etico? In questo caso però tutte le nozioni teoreticistiche si rivelano inadeguate a render conto di questi fenomeni e non basta dire, per eludere il problema, che l’etica e la metafisica, l’estetica e la religione producono in genere dei non-sensi e per essi non c’è discorso razionale che tenga55. Dinanzi a questo riduzionismo moderno basta la banale constatazione che altro è la verità scientifica, altro è la verità in senso lato; altro la verità della ragione, altro la verità e la semantica del fatto, a partire dal fatto che esistono “fatti” come il vissuto, le credenze, l’anima, il giudizio, le esperienze spirituali a vario titolo che hanno altrettanta, sebbene diversa, evidenza. Uno schizzo della storia del concetto di verità, che è «storia della decadenza della verità», mostra con chiarezza se non l’ambiguità dell’essenza della verità (che non si risolve in una o due interpretazioni ma in una varietà maggiore) almeno una duplicità56. La storiografia filosofica porterebbe in primo piano almeno due sensi determinanti della verità. Il primo si ricollega alla nozione già indicata di verità come concordanza: veritas est adaequatio rei et intellectus sive enuntiationis, «verità è l'adeguazione del pensiero, ovvero dell’asserzione, alla cosa, cioè la concordanza con essa, oppure anche commensuratio, com-misurazione, un misurarsi su qualcosa»57. Questa definizione si è imposta in epoca medievale e ha dominato le metafisiche dell’età moderna, giungendo pressoché intatta fino ad oggi. Anche il pensiero greco possiede tuttavia una nozione equivalente: la verità come homoiōsis (ñmoíwsij tÏn paqhmáton tÖj yucÖj kaì tÏn pragmátwn). Le concezioni 55 Era questa, ad esempio, la angusta prospettiva di Rudolf Carnap che tentò di invalidare il discorso heideggeriano di Was ist Metaphysik? partendo da simili presupposti. Sul tema si veda I. Bachmann, Die kritische Aufnahme der Existential-philosophie Martin Heideggers, tr. it. di S. Cresti, intr. di E. Mazzarella, La ricezione critica della filosofia esistenziale di Martin Heidegger, Napoli, 1992, pp. 17-29. 56 Platon: Sophistes, § 4, pp. 24 sgg.. 57 Vom Wesen der Wahrheit, § 2, p. 8; tr. it. p. 30.

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di essenza relativa alla verità come adeguazione sono la quidditas e il ghenos, «universale del genere»58. Questa concezione della verità sembra possedere una durevolezza e una validità che la rende immune dalle trasformazioni cui la storia è andata incontro. Ripercorrere la storia del concetto della verità è molto più – dice Heidegger – di un’innocua passeggiata negli antichi giardini o di una evasione dinanzi alle responsabilità che il proprio tempo impone o di un cammino a ritroso per legittimare le proprie idee, andare alla ricerca dei “certificati di nascita” dei concetti. Ritornare alla storia rende evidente che «l’odierno» è «qualcosa di assai antico»59. Nel ripercorrere la storia, nel saltare dall’epoca presente verso il passato, si cade in una tradizione diversa del concetto di verità che ha subìto la dominazione della adaequatio. L’altra storia della verità è la alētheia, la svelatezza, la parola che reca scritto nel nome il non-nascondersi delle cose. Alētheia è Aufdecken, Unverborgenheit, Entdecken, “disvelamento”, “non-nascondimento”, “essere-scoperto”, ma anche Erschlossenwerden, “divenir aperto”, e Durchsichtigkeit, trasparenza dell’ente. Il vero (alēthes), lo “svelato” vuol dire «non più velato», «ciò che è senza velatezza», «ciò che è stato strappato alla velatezza», «ciò che è esente da velatezza»60. Rispetto alle più moderne varianti (veritas, 58

Ibid. Ivi, § 2, p. 9; tr. it. p. 31. 60 Ivi, § 2, pp. 10 e 12; tr. it. pp. 33 e 35. Sul recupero heideggeriano della nozione greca si veda la critica di P. Friedländer, «Alētheia. Una discussione con Martin Heidegger», in Id., Platone. Eidos – Paideia – Dialogos, tr. it. di D. Faucci, Firenze, 1979, pp. 291-303. Inizialmente Friedländer si oppose alla traduzione heideggeriana di alētheia con “non-nascondimento”. In un secondo momento l’accettò perché trovò questo uso impiegato nell’epica arcaica (ad esempio in Omero). Ferma si mantenne invece la sua opposizione all’uso storico che ne fece Heidegger, in particolare all’interpretazione secondo la quale la svolta interna alla verità (da non-nascondimento a correttezza del percepire e dell’asserire) si sarebbe prodotta in Platone, con il quale la verità e l’essere sarebbero stati sottomessi all’idea. Friedländer non solo dimostrò che in Platone sono presenti entrambi i significati ma dimostra altresì che tutta l’epoca preplatonica, compresi i presocratici Parmenide e Eraclito, ha fatto uso congiunto delle “due” verità secondo tre fondamentali modalità che possono essere così sintetizzate: la verità è verità del dire e del pensiero (logos e noein), verità dell’essere (dell’on e della physis), infine verità del bios, cioè dell’esistenza umana. Questa molteplicità rende il concetto di verità vario e non ambiguo, come vorrebbe Heidegger. L’ambiguità insorge nel momento in cui si fa questione del carattere dominante 59

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verità, Wahrheit, vérité), il dato rilevante dell’espressione greca è il recare scritto nel nome un’esperienza di privazione: vero è ciò che è senza qualcosa, ciò che non ha più la velatezza. Questa condizione privativa non è irreversibile, vale a dire il vero non ha superato e posto alle proprie spalle la velatezza, esprime semmai ancora una compartecipazione al precedente stato: «nell’esperienza del vero come di qualcosa di svelato dev’essere compartecipe l’esperienza del velato nella sua velatezza»61. Il vero va strappato da una cornice iniziale di non verità. La verità secondo questo significato, che Heidegger definisce «fondamentale» e «originario», non è il predicato universale del soggetto di un’asserzione. è invece il carattere dell’ente: l’ente svelato è l’ente che si mostra nella sua essenza, in e per ciò che è. Le testimonianze che Heidegger trae a conferma di questa tesi sulla verità sono frammentarie; parlano per cenni e frammenti ma anche attraverso un linguaggio criptico e poetico che si accorda con il presentarsi della stessa verità. Come questa si concede in tracce e conserva il legame originario con la velatezza, così il suo dire non può mai essere esplicitazione totale ma sempre un parlare abbozzato. Eraclito o Parmenide, che danno esperienza di questa verità, distinta dalla «proprietà dell’asserzione o di una proposizione», parlano per cenni anche laddove i loro testi sono sopravvissuti alla storia. Si sa soltanto che Þ-lÔqeia è una «esperienza fondamentale» dello schiudersi dell’ente e del suo ritorno nel nascondimento: l’eracliteo «la natura ama nascondersi» esprime proprio questo movimento. Si sa ancora che il parmenideo sentiero della alētheia è via che conduce «al di fuori dei sentieri abituali degli uomini»62. Non si ingenera così il dubbio che questa esperienza primigenia e originario della verità (che per Heidegger è verità dell’essere) a scapito degli altri. Per questo motivo l’affermazione aristotelica dell’Etica nicomachea Þlhqeúei Ó yucÔ diviene per Heidegger, specie dopo la svolta, problematica ed enigmatica: allude infatti ad un compimento della verità di cui Heidegger non può più tener conto e che si affaccerà solo più tardi, nella meditazione sulla tecnica, quando il pensatore sarà costretto a ritornare sull’affermazione aristotelica secondo la quale la tecnica è un modo attraverso cui l’esistenza umana “fa la verità” (cfr. infra, L’origine tecnica del pensare). Va riconosciuto in ogni caso a Heidegger il merito di aver riscoperto l’antico senso della altēheia: cfr. l’analisi di J. Grondin, L’ÞlÔqeia entre Platon et Heidegger, in «Revue de métaphysique et de morale», 4 (1982), pp. 551-556. 61 Vom Wesen der Wahrheit, § 2, pp. 12-13; tr. it. p. 35. 62 Ivi, § 2, p. 14; tr. it. p. 36.

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della verità sia in realtà qualcosa sì di lirico e poetico, ma al tempo stesso di primitivo? Il fatto che questa concezione di verità sia stata ripudiata in nome della homoiōsis-adaequatio deve indurci a meditare intorno a questa fortuna. La concordanza si è dimostrata strumento concettuale e metodologico dal quale si sono sviluppate la filosofia moderna e la scienza. La verità della ricerca scientifica deve essere garantita dal concordare di ciò che è detto nell’asserzione con il verificarsi del dato. La concordanza è sempre stato strumento prediletto anche della metafisica: le prove dell’esistenza di Dio sono costruite su quella struttura di corrispondenza tra l’intuizione della mente alla cosa, per cui è implicita nell’asserzione e nel procedimento intellettuale che la precede l’esistenza della cosa esterna cui si riferisce. Piuttosto che attribuire una primitività alla alētheia, Heidegger sostiene che un imbarbarimento si è prodotto al contrario nella nozione derivata di adeguazione. Ciò che è iniziale, inaugurale, non può non essere «il più grande», perfetto, intangibile63. Ciò che si origina da esso è invece approssimativo, incerto, parziale. Il derivato è uno scadimento, una contaminazione di una purezza originaria. Constatare che la «verità come svelatezza e la verità come conformità sono due cose completamente distinte, come se derivassero da esperienze fondamentali del tutto diverse e tra loro inconciliabili», non implica l’invalidazione automatica della adaequatio; implica semmai un suo restringimento di campo, l’abbattimento della pretesa di fare di questa verità una verità universale64. Nella alētheia e nella conformità ci sono a monte due distinte esperienze fondamentali che tra loro sembrano irriducibili: la prima parla di un darsi dell’ente nella sua trasparenza, il suo venire allo scoperto; la seconda di un’affinità elettiva tra mente e cosa nella proposizione. La prima è verità dell’ente, la seconda è verità di giudizio. Quest’ultima può originarsi soltanto sul precedente e più generale accadere della prima, di quel non-nascondimento che è «una determinazione dell’ente in quanto esso si fa incontro»65. Rispetto alla purezza del detto presocratico, nei testi platonici e aristotelici è già all’opera una conversione, una contaminazione tra la svelatezza e l’adeguazione, che dal «significato fondamentale della parola ÞlÔqeia» porterà alla «concezione comune dell’essenza della verità» 63 64 65

Ivi, § 2, p. 15; tr. it. 37. Ivi, § 2, p. 11; tr. it. 33. Platon: Sophistes, § 3, p. 17.

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ancora operante. Ciò che è rilevante è questo «peculiare intreccio» tra le due concezioni: più che approfondire l’originarietà della alētheia e la derivazione dell’adaequatio, è da meditare intorno alla loro relazione, nello specifico alla nascita della conformità dal seno della svelatezza66. Questo perché il loro intreccio corrisponde ad una «svolta» (Wendung) interna alla storia della verità stessa, storia che è altro dalla storiografia, da quella storia del concetto di verità scritta dagli umani67. Corrisponde ad un «accadimento» che ad un certo punto accade nell’essere storico della verità: questo accadimento è lo svoltare della verità dal disvelamento all’adeguazione68. Il testo platonico registra tra le righe questo accadere. Nel mito della caverna, nel linguaggio ontologico del sottofondo che si nasconde tra le pieghe, è descritto «un mutamento dell’essenza della verità»69. Il nondetto, lo Ungesagte, che Heidegger ritiene sia la vera dottrina platonica, è registrazione di una svolta che si inserisce nel destino stesso della verità. E cos’è questa verità alfine? La verità è il darsi dell’essere. L’essere si dà come disvelamento e si dà come adeguazione. Si dà come essere e si dà come modo d’essere di un ente o come ente tout court. Nella storia della verità si inscrive la storia dell’essere. Come si dice la verità diventa questione di come si dice l’essere. Nel corso sul Sofista il problema della verità è risolto nella dottrina del logos perché quest’ultimo dice tutta l’interezza dell’essere, quello che Aristotele definisce Þeí e il suo contrario, lo ændécetai \llwj, ente eterno e ente che può essere altrimenti (questa distinzione sta a monte della comprensione del dialogo platonico, specie la seconda determinazione dell’essere, quella del poter essere altrimenti da…). Il logos è il cuore Vom Wesen der Wahrheit, § 2, p. 17; tr. it. p. 39. Platons Lehre von der Wahrheit, p. 5; tr. it. p. 159. Cfr. W. Patt, «Seinsgeschichtliche Wendung gegen Plato: Heidegger», in Id., Formen des Anti-Platonismus bei Kant, Nietzsche und Heidegger, Frankfurt a. M., 1997, pp. 189-302. 68 Vom Wesen der Wahrheit, § 2, p. 17; tr. it. p. 39. Vincenzo Vitiello, Di là dall’evidenza, verso l’ombra. Heidegger interprete di Platone, in «Il Pensiero», I (1982), pp. 65-84, ha notato molto acutamente che non solo nell’oblio dell’essere permane un riferimento all’essere stesso e che dunque questa persistenza del riferimento all’essere si mantiene in Platone e in tutta la metafisica, ed inoltre che ciò che rimane obliato in Platone non è l’essere o la luce, quanto piuttosto la tenebra, «il nulla che è prima dell’essere» (p. 77), la dimenticanza prima della memoria, il negativo da cui trae origine il positivo. 69 Platons Lehre von der Wahrheit, p. 20; tr. it. p. 173. 66 67

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del problema della verità perché, specie nella sua accezione di apofansi, è il luogo rivelativo della verità degli enti. è vero altresì però che proprio questa interpretazione è a fondamento dello slittamento dalla verità dell’ente alla verità di giudizio, perché il vero dell’asserzione è il detto, non più la cosa cui si riferisce. Nel dire viene meno il «presentificarsi» (vergegenwärtigen) delle cose: la cosa, il fatto, il dato primario scompare, man mano che aumenta la capacità della coscienza di saper parlare del mondo anche in sua assenza70. Le proposizioni acquistano un’esistenza autonoma e una forza di imposizione maggiore man mano che il riferimento alla realtà scompare. Il logos, non più l’ente, è vero o falso. Il problema logico fondamentale diviene la concordanza tra la cosa e il giudizio. La questione ha avuto, dice Heidegger, almeno tre interpretazioni dominanti: il soggettivismo, l’oggettivismo e le filosofie del valore. Per il soggettivismo, quello ad esempio del razionalismo cartesiano, del criticismo kantiano, delle scienze dello spirito e della fenomenologia husserliana, la psiche, l’Esserci, è il soggetto, e il logos le sue esperienze vissute. Il problema diviene la corrispondenza degli stati interni della coscienza agli oggetti esterni. In questo caso verità è adeguazione del giudizio – ossia di quel discorso che ha a tema la coscienza – con l’oggetto. L’oggettivismo, quello del neoempirismo, nasce come reazione a questa prospettiva: tutto ciò che è soggettivo è un non-senso. L’unità di misura che dovrebbe fungere da parametro per valutare la concordanza perfetta tra il giudizio soggettivo e la cosa dovrebbe poggiare su una previa conoscenza dell’oggettivo. Quest’ultimo gode di un’evidenza superiore. Però l’oggettivo è in questo caso il fatto bruto, ciò che è crudamente empirico. Un residuale soggettivismo rimane tuttavia perché tutto ciò di cui si può rendere ragione sono enunciati dotati di senso. Enunciati sensati sono proposizioni del logos umano. Il punto di vista della soggettività dei parlanti che si comprendono è dominante. La teoria della conoscenza, soprattutto di area neokantiana, che afferma che pensare è giudicare e che il giudizio può affermare e negare, riconosce che attribuire un predicato significa in fondo attribuire valore all’enunciato: l’essere diviene dover-essere. L’oggetto di tale conoscere è un valore; la verità stessa si riduce ad un valore. Nuovamente ritorna il predominante punto di vista della soggettività: non conta ciò che l’oggetto è in sé, conta il valore che riveste per me che conosco71. Tutte le dottrine dominanti hanno a tema una variante teoreticistica 70 71

Platon: Sophistes, § 4, p. 25. Ivi, § 4, pp. 26-27.

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della verità che invalida la comprensione della verità come fenomeno preteoretico. Questo non significa però che basta rivendicare, contro le sue storpiature, quella esperienza originaria. La sottolineatura del carattere privativo della verità secondo l’accezione greca, che tanto sta a cuore a Heidegger, indica anche l’impossibilità di essere compresa a livello di percezione immediata. Non basta rifarsi ad un’esperienza precedente la teoresi per assicurarsi un corretto accesso all’essenza della verità. Se l’occultato, il velato, è il punto di partenza della quotidianità, la filosofia deve aver di mira la conquista dell’assenza di privazione, la negazione dello stato di occultamento, oppure deve almeno essere capace di arrivare a vedere questa negatività iniziale e metterla in questione. Il non-nascondimento è in relazione al phainesthai, all’apparire, al modo in cui le cose si mostrano da sé. Il discorso apofantico è rivelativo, non dissimulato, condivide con la verità il carattere di apertura e di manifestatività. Esso è cifra dell’incontro tra il darsi delle cose e l’animale discorsivo (lo zōon logon echon) che fa esperienza del mondo attraverso il logos, dal livello immediato fino alle vette della speculazione filosofica. Se la alētheia è «un carattere peculiare dell’essere dell’ente», l’alētheuein è invece «un modo d’essere dell’Esserci umano» perché esso necessita sempre non solo dello schiudersi da sé (della verità dell’ente) ma anche della prospettiva, del punto di vista che si assume dinanzi a questo schiudersi. Alētheuein significa «essere-discoprente» (aufdeckendsein), «rimuovere il mondo dalla sua chiusura» (Verschlossenheit) e dal suo «ricoprimento» (Verdecktheit)72. «Il légein assume primariamente la funzione dello Þlhqeúein»73. Leghein significa alētheuein, nella misura in cui il primo esprime un concordare derivato rispetto alla primigenia donazione delle cose, la quale a sua volta rimarrebbe priva di senso se non è compresa all’interno di un dire che vuol essere comunicativo, vuole portare l’esperienza della verità ad una condivisione intersoggettiva. Logos è sempre discorso di qualcosa (logos tinos) ma è anche discorso di qualcuno per qualcuno. Ivi, § 3, p. 17. è singolare che Heidegger non tenti di tradurre alētheuein utilizzando una perifrasi come “dire la verità” o “predicare il vero”. Se per alētheia si possiede un corrispondente (preciso o meno che sia), per alētheuein non c’è equivalente. In quanto fenomeno umano, effettuazione del movimento dell’anima – dice Aristotele – esso travalica il senso del concordare che si realizza nel discorso. 73 Ivi, § 4, p. 27. 72

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Alla luce dell’altissimo valore politico che il significato platonico della filosofia possiede è da chiedere se in questa direzione non ci sia la possibilità per un riscatto produttivo della verità come homoiōsis, da Heidegger liquidata come un venir meno del senso più originario del disvelamento. Questo recupero si rende necessario perché la concordanza è innanzitutto commisurazione della mente alle cose: è la cosa che si impone e la mente vi si adegua, non viceversa. Più che ad una “differenza ontologica” verrebbe da pensare a questo proposito ad una “conformazione ontologica”, ad un vincolo di appartenenza delle cose – mente compresa – alla natura dell’essere che le rende in qualche modo analoghe l’una all’altra, conformabili sulla base di una reciproca condivisione della qualità ontologica, al “fatto” di essere entrambe essenti. Non tutto – dice Platone nel Sofista – può entrare in relazione: entra in comunicazione (koinōnia) soltanto ciò che condivide un’affinità di fondo, che è la comune condizione di esistente, a sua volta fondamento di ogni differenziarsi particolare, il primo dei quali è il differire di ogni ente rispetto all’essere74. Nel concordare agisce inoltre la regola invisibile che lega in virtuale accordo tutti gli individui. Senza dubbio la alētheia, il disvelamento dell’essere e degli enti, ha un significato più originario rispetto invece al “derivato” accordarsi nel giudizio. è vero altresì che senza un accordo, senza l’intervento di una verità condivisibile attraverso il discorso, il disvelamento potrebbe avere anche il sapore di una verità segreta e privata. è naturale che qualcosa su cui devo convenire, qualcosa su cui devo accordarmi con altri, deve per prima cosa apparire, rendersi manifesto senza che io possa in alcun modo forzare il suo libero accadere. La concordanza è secondaria perché è sempre una Sulla genesi aristotelica della nozione platonica di verità, e soprattutto sulla compresenza delle due “teorie della verità”, non escludentisi, si veda E. Berti, «Heidegger and the Platonic Concept of Truth», in Heidegger and Plato. Toward Dialogue, cit., pp. 96-107. L’armonizzazione tra i due concetti permette anche il superamento delle due distinte mentalità filosofiche, l’analitica e la continentale: cfr., nello stesso volume, il contributo di J. Margolis, «Heidegger on Truth and Being», pp. 121-139. La verità è – diceva Hannah Arendt – “apolitica” e ciò per preservarsi dalle manipolazioni e dai rovesciamenti cui può andare incontro sulla scena pubblica. è indubitabile però che la politica sia il luogo naturale dell’apparire della verità: è perciò molto pertinente la difesa concettuale della verità che si legge nel libro di Michael P. Lynch, True to Life. Why Truth Matters, tr. it. di S. Fortuna, La verità e i suoi nemici, Milano, 2007. 74

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verità di fatto, qualcosa che segue un evento primario e collabora con quest’ultimo alla costruzione di una nozione più complessa di verità, nella quale sono in gioco le verità di due enti: il soggetto e l’oggetto, l’io e il mondo, la mente e la cosa. Non tutto ciò che è secondo perde di necessità il rapporto con l’origine; talvolta può costituirne un arricchimento. L’Esserci realizza lo alētheuein nel logos. L’espressione aristotelica «l’Esserci umano apre l’ente» (Þlhqeúei Ó yucÔ) che Heidegger utilizza come propedeutica all’interpretazione di Platone, esprime molto di più che l’origine del soggettivismo e della adeguazione forzata delle res all’occhio della mente. Esprime semmai la relazione che anche l’Esserci, in quanto ente particolare, intrattiene con l’accadere della verità. L’Esserci è da sempre nella verità perché è un modo particolare del suo accadimento, modo che a sua volta si articola in modalità particolari e che segnano l’umano agire e operare nel mondo (technē, epistēmē, phronēsis, sophia, nous)75. La alētheia è per questo, assieme ad un «carattere dell’ente nella misura in cui viene incontro», anche «determinazione ontologica dell’esserci umano»76. Sia l’ente in generale sia l’umano corrono il rischio del ricoprimento, possono esser dissimulati nel falso, nel non-vero, nell’errore, nell’ignoranza, nell’opinione. è necessaria un’opera di disoccultamento che il Dasein deve compiere innanzitutto su se stesso, per rendersi chiaro, trasparente. «Esser-vero, essere-nella-verità, come determinazione dell’Esserci, significa: aver a disposizione non ricoperto l’ente di volta in volta con il quale l’Esserci intrattiene una relazione»77. La verità non è soltanto Objektivität, oggettività scientifica, ma innanzitutto Sachlichkeit, l’esser-cosa della cosa, ciò che una cosa è nella sua essenza. L’oggettività è un’astratta e perciò universale nozione di validità: l’oggettivo, l’imparziale, il neutro è ciò che è sempre valido in ogni tempo e per ogni luogo. La cosalità, l’attenzione per la Sache, 75 Platon: Sophistes, § 4, p. 21; Aristotele, Etica nicomachea VI, 3, 1139b15 sgg., tr. it. di C. Mazzarelli, Milano, 2003 (d’ora in avanti citata con l’abbreviazione Arist. Et. Nic.). Cfr. U. Regina, «La virtù della verità. Heidegger interprete del VI libro dell’Etica Nicomachea», in Id., Servire l’essere con Heidegger, Brescia, 1995, pp. 243-284, e R. Perrotta, «Die Marburger Vorlesung Platon: Sophistes (WS 1924/25)», in Id., Heideggers Jeweiligkeit. Versuch einer Analyse der Seinsfrage anhand der veröffentlichten Texte, Würzburg, 1999, pp. 84-105. 76 Platon: Sophistes, § 4, p. 23. 77 Ibid.

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esprime invece la viva ed empatica partecipazione al mostrarsi delle cose. Se la prima è una nozione di verità che ben si adatta alle attività scientifiche e teoretiche, la seconda parla dell’immediatezza della vita. L’alēthes è sempre questione del pragma, della cosa78. Tuttavia, proprio all’interno di questa distinzione si fa strada anche la possibilità che la verità teoretica, quella che ha di mira gli universali astratti, si imponga come supremo ideale conoscitivo. La radice di questa possibilità alberga nei modi dell’effettuazione del vero nell’esistenza umana. L’Esserci apre l’ente, “produce” verità incontrando le cose, avendo con esse un rapporto non mediato, un commercio (Umgang). Il Dasein disvela le cose parlandone, ovverosia affidando al logos il loro disoccultamento. La determinazione principale dell’umano è difatti il logon echein, l’aver il discorso come possibilità, anzi lo si possiede primariamente in quanto per prima cosa “animale” linguistico. L’antecedenza della animalità, la naturalità dello stare al mondo e dell’aprirsi al mondo nelle parole, mostra all’Esserci, all’ente che può autocomprendersi, il percorso per cui il disvelamento della cosa (la Sachlichkeit) diventa questione del discorso, oggettività come corrispondenza della cosa al detto. Il vero si fa semplice predicato da attribuire o meno al soggetto di una preposizione. La riduzione della verità a “verità di giudizio” fornisce “esattezza” (orthotēs, Richtigkeit) e “orientamento”: tutto ciò che si sa del mondo lo si può dire nel logos79. Ciò che cade fuori del discorso è un non-senso, un non-vero, un non-essente. Se le asserzioni forniscono un sicuro orientamento nel mondo, giacché stabiliscono limiti all’agire, per essere generalmente riconosciute devono astrarsi dai particolari, conquistare un’indipendenza dalle cose di cui parlano. L’oggettività è infine Unsachlichkeit, “indifferenza”, “non partecipazione” nei confronti dell’ente, Sachlosigkeit, “mancanza di radicamento”, sinonimo di inautenticità dell’esistenza che è in gioco

78 Ivi, § 4, pp. 23-24. Propone di leggere la Sachlichkeit come “topicality” (aver luogo, essere-situato) R. Polt, Heidegger’s Topical Hermeneutics: the Sophist Lectures, in «The Journal of the British Society for Phenomenology», 1 (1996), pp. 53-76: la Sachlichkeit non è oggettività ma nemmeno relatività; essa va piuttosto interpretata sulla base del “circolo ermenuetico” che coinvolge la Sache, l’interprete e la storicità. Si veda anche B. Bacsó, «Heideggers frühe Hermeneutik. Eine Interpretation von Platon: Sophistes», in Id., Die Unvermeidbarkeit des Irrtums. Essays zur Hermeneutik, Cuxhaven & Dartford, 1997, pp. 113-122. 79 Platon: Sophistes, § 4, p. 25.

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nell’apprensione della verità, relativa sia all’essenza di se stessa sia a quella di un altro da sé80.

2. Paideia Nella storia raccontata da Socrate all’inizio del VII libro della Repubblica si assiste all’azione combinata di un linguaggio della superficie e di un codice della profondità che si muove su più livelli. Nella Platons Lehre von der Wahrheit i concetti di paideia e alētheia esprimono questa duplicità che all’apparenza sembra investire soltanto l’interpretazione del testo e che invece riguarda la rappresentazione dell’essere e della sua verità. Il mito non si limita infatti a descrivere una condizione, l’essere incatenati nella caverna, metafora dell’umano abitare sulla terra; esprime piuttosto una serie di «processi»81, di mutamenti che investono sia la situazione umana nel suo abituale soggiorno mondano, sia l’essere e la verità, che mutano via via, elevandosi da un’incompletezza originaria e facendosi progressivamente “più essente” (mâllon 3n, das Seiendere) e “più vero” (Þlhqésteron, e poi infine Þlhqéstaton, das Unverborgenste)82. L’incremento ontologico e gnoseologico si accompagna ad un accrescimento della natura umana che deve passare, come si legge nella breve introduzione che Socrate premette alla narrazione, da uno stato iniziale di Þpaideusía (mancanza di cultura o di formazione) alla più completa paideía, ossia al completamento perfetto del cammino umano verso la verità che si compie nell’educazione filosofica83. L’adeguamento etico e teoretico della prospettiva umana rispetto al cangiare dell’essere e delle sue manifestazioni rappresenta il codice immediatamente visibile che Platone intende descrivere. Ciò che invece va tematizzato e che a prima vista sembra esprimere la volontà Ivi, § 34, pp. 230 sgg. Platons Lehre von der Wahrheit, p. 17; tr. it. p. 171. 82 Ivi, pp. 9 e 23; tr. it. 163 e 176. 83 Platone, Repubblica 514a, tr. it. di F. Gabrieli, intr. di F. Adorno, Milano, 1999 (d’ora in poi citata con l’abbreviazione Plat. Rsp.). La traduzione heideggeriana radicalizza molto la processualità della natura umana: «Dopo di ciò, cerca di ricavare dal tipo di esperienza (che in seguito verrà descritta) una visione (dell’essenza) della “formazione” così come della mancanza di formazione che (in una connessione inseparabile) riguardano il nostro essere umano nel suo fondamento» (Platons Lehre von der Wahrheit, pp. 19-20; tr. it. p. 173). 80 81

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di far violenza al testo è quanto in questo primo apparire rimane ad un secondo livello di percezione. La tesi heideggeriana è che, contemporaneamente al mutamento che si produce nell’umano e nel suo sistema di cognizioni, si stia descrivendo un «mutamento dell’essenza della verità»84. Questo mutamento è chiaramente visibile nel passaggio dal sostantivo tò Þlhqéj, utilizzato per descrivere nello stadio dell’immaginazione il primo apparire delle cose, al secondo livello, quello della credenza, che ha già la coscienza di un accrescimento di verità: le cose da vere diventano “più vere” (Þlhqéstera) e possono essere riconosciute come ombre e non più come l’autentico essere85. L’ultimo grado, che porta alla contemplazione all’esterno della caverna, corrisponde al coglimento di ciò che è “massimamente vero”, l’idea di bene, che è anche la realtà più piena. L’ascesa graduale verso più sofisticate apprensioni della verità e dell’essere procede di pari passo con l’adeguamento progressivo della natura umana a questa ascesa. Platone nel mito definisce la modificazione della mente umana come una “torsione dell’anima” (yucÖj periagwgÔ)86, un volgersi dell’anima che va adattata (poiché penerà a lungo prima di poter sostenere la vista del fuoco e poi del sole) in modo graduale alla vera visione. L’adeguarsi dell’anima è strutturato come un conformarsi fisico dell’occhio alla percezione della luce. L’analogia tra il fisico e lo spirituale è soltanto l’ultima di una serie di corrispondenze di cui è intrisa la narrazione. Nel ricorso all’aggettivo sostantivato tò Þlhqéj per la descrizione del fenomeno percepito dagli uomini incatenati è possibile comprendere che in realtà la caverna è sì costruita su base analogica (la volta rimanda alla volta celeste, il fuoco e le ombre corrispondono a ciò che fuori sono il sole e le idee), trattandosi però del più immediato luogo del soggiorno umano, essa non può non essere a sua volta “apertura”, dunque “verità”. In essa si schiude infatti per la prima volta la alētheia, sebbene in modo mediato e confuso, corrispondente a quella incultura iniziale da cui la formazione solleverà la natura umana. Il punto determinante dell’interpretazione heideggeriana del mito è l’esposizione del rapporto tra paideia e alētheia, nonché del loro reciproco relazionarsi all’idea, che diviene garanzia ontologica dell’esistente 84 85 86

Ibid. Plat. Rsp. 515c-d. Ivi, 521c.

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e concetto fondamentale sotto il cui giogo vengono poste sia la verità sia l’azione umana. Il soggiogamento della verità all’idea corrisponde al mutamento di determinazione della sua essenza, che cessa di esser disvelamento e si avvia a configurarsi come un adeguamento conoscitivo tra la cosa e il soggetto. In secondo luogo però l’idea di bene soggioga per così dire anche il libero formarsi umano che non può essere lasciato a prodursi in completa autonomia perché deve essere condotto con criterio e misura adeguata. La visione del bene, più che una liberazione fisica, nel senso dell’affrancamento dalle catene, costituisce invece un vincolo cui la mente deve adeguarsi nella comprensione. Così allo stesso modo essa deve fungere da criterio elettivo che sorregge in pubblico e in privato l’azione umana. Paideia è senz’altro “formazione” (Bildung), in quanto «imprimere una forma», conferire alla natura umana un ethos spirituale che la induca a sollevarsi dall’iniziale condizione di incultura. Questo carattere realizza l’essenza dell’anima nella sua idealità, perché corrisponde a ciò che essa ha da essere in armonia con la sua natura di vita in formazione. Tale archetipo però è reso possibile dalla condizione preliminare che sia riconoscibile un ideale, la somma delle perfezioni, che è appunto l’idea. La formazione è al tempo stesso un «con-formare a un modello», adeguarsi di volta in volta all’archetipo in virtù della sua natura plastica87. La «svolta», che su scala macrologica Heidegger coglie nell’essenza della verità, corrisponde al mutamento individuale che la formazione incoraggia e promuove e che dipende da quel primo e fonPlatons Lehre von der Wahrheit, p. 19; tr. it. p. 173. Nel corso sul Sofista il concetto platonico-aristotelico di paideia è ricavato in contrapposizione con quello sofistico. Per i sofisti paideia è «essere-educati relativamente al fatto di parlare di tutte le cose», non è limitata ad un dominio particolare ma è possibilità di un accesso discorsivo a tutto l’ente; esprime dunque una radicale «disinvoltura» nei confronti delle cose e la conseguente possibilità di un non radicamento del discorso sull’essenza della cosa. Nella prospettiva aristotelica, in particolare, paideia è invece «essere-educati relativamente alla possibilità di corrispondere ogni volta alla cosa di cui si parla». La paideia è «formazione metodica» che prepara alla ricerca scientifica di volta in volta articolata su regioni particolari dell’essere che richiedono percorsi metodologici differenti (Platon: Sophistes, § 31, p. 217). Sulla relazione tra paideia e “cura di sé” si veda R. Petkovšek, op. cit., in part. pp. 450-467: in Platone la paideia non sarebbe «egocentrica» ma «agatho-centrica» (p. 454). Rinvio anche a P. Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique, tr. it. di A. M. Marietti, Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino, 2005, in particolare «Riflessioni sulla nozione di cultura di sé», pp. 169-176. 87

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damentale cambiamento: «soltanto l’essenza della verità e la modalità del suo mutamento rendono possibile “la formazione” nella sua struttura fondamentale»88. L’unità strutturale tra i due concetti può essere mostrata innanzitutto in base alla relazione che sia la paideia sia la alētheia mantengono con il loro negativo e che funge anche da carattere costante per la loro determinazione. Nel caso della verità questo rimando è ancora più essenziale, trattandosi di una formula negativa che rinvia di necessità ad un positivo (Þ-lÔqeia). Come la paideia non si intenderebbe senza l’iniziale condizione di privazione, e con la conquista, il dolore e la fatica che la formazione comporta, così la alētheia è il progressivo strappo di ciò che va svelato dalla velatezza (Verborgenheit). La apaideusia e la nonverità coincidono temporalmente all’inizio della narrazione, con un vistoso scollamento finale quando il massimo di formazione, raggiunto attraverso l’ascesa verso l’esterno, si trova a dover combattere contro il nascondimento totale nel momento della ridiscesa nella caverna come luogo del soggiorno originario cui occorre ritornare. La formazione opera un trasferimento dell’umano da un luogo all’altro del suo soggiorno; ciò che è decisivo nell’effettuarsi di questa traslazione spirituale (metabolÔ) è la trasformazione che subisce la regione dell’ente che si sta percorrendo attraverso i quattro distinti modi della conoscenza. Non l’anima ma le cose mutano innanzitutto e compito della prima è registrare questo mutamento, questa radicale e lenta trasformazione, per adeguarvisi e farsi, di pari passo con ciò che sembra mutare ma che invece si sta schiudendo nella sua più propria essenza, essa stessa misura del cambiamento. La relazione tra cultura-formazione e verità costituisce lo schema attraverso il quale poter intendere perché ad un certo punto si svolti verso «un’altra essenza della verità», che tanto condizionerà gli esiti successivi della filosofia occidentale. La verità, in quanto «svelamento dell’ente», costituisce la «esperienza fondamentale» di cui si narra nel mito89. Tutto ciò che è possibile leggere attraverso un sistema di corrispondenze simboliche in realtà è tale soltanto perché l’immagine della caverna e nello specifico i primi due gradi dell’essere (le immagini e le ombre) e della conoscenza (l’immaginazione e l’opinione) si connettono ad un momento della verità corrispondente alla sua mancanza, o 88 89

Platons Lehre von der Wahrheit, pp. 5 e 20; tr. it. pp. 159 e 174. Ivi, p. 26; tr. it. p. 179.

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meglio al suo rimanere adombrata nel nascondimento. Determinante è allora questa logica di violazione del manifesto, giacché il vero va sottratto, “strappato” dall’offuscamento e stagliato su una cornice più chiara. Se su scala ontologica il più chiaro, il più manifesto, il “più vero” è l’idea, allora quel fenomeno che viene nominato come “verità” consiste nel conformarsi alla luce che promana da questo concetto supremo e che rende possibile sia la vista, come facoltà che consente di vedere il visibile, sia il visibile stesso. Deve esserci tra l’organo e l’oggetto che esso prende mira una corrispondenza che assicuri di volta in volta la verità dell’uno e dell’altro. L’idea è il più visibile ed è capace di risplendere da sé, senza dover contare, come accade per il reale, su un fondamento ulteriore. La questione decisiva che Heidegger interpreta come il mutarsi dell’essenza della verità è il venirsi a costituire, da parte dell’idea, della condizione che rende possibile il vedere, o conoscere, e il veduto, o conosciuto, e che dunque si offre come presupposto irriducibile del loro accadere individuale nonché della relazione che li coinvolge e che dà vita al fenomeno della conoscenza. La verticalità logica che la «unità essenziale originaria» di formazione e verità suggerisce attraverso i simboli della uscita e del ritorno nella caverna e che Platone esplicita nel ricorso agli avverbi \nw (in alto) e kátw (in basso), non comporta la trascendenza dell’idea rispetto alla cosa90. Piuttosto i gradi della verità, che comprendono un “vero” ritenuto tale, ad un “più vero rispetto a…”, fino al “massimamente vero” sono piani orizzontali che corrispondono ad una penetrazione della vista nel visibile, fino a scorgere ciò che ogni manifestarsi della verità custodisce ed adombra. L’essere stesso della verità comporta un simile movimento centripeto che dalla dispersione e dallo spaesamento provocato dalla pluralità fenomenica che nasconde l’essenza, prende di mira l’unità essenziale (la mía êdéa), cui il pensiero si adegua raccogliendosi in sinossi per sostenere la vista di quella “unica idea”. La tesi heideggeriana più celebre della sua lettura di Platone ritiene che il venir in primo piano dell’idea, il suo ergersi sovrana dell’ente e largitrice di verità, e lo sforzo paideitico cui lo sguardo deve sottoporsi prima di poter sostenere una simile veduta dell’essente, comportano un abbandono del «tratto fondamentale della svelatezza» verso una nuova determinazione della verità come «concordanza del conoscere con la cosa stessa» (ñmoíwsij). Questa innovazione logica deve a sua volta 90

Ivi, p. 20; tr. it. p. 174.

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essere garantita da un emergere della correttezza (ðrqóthj) dell’organo della conoscenza, la mente che vede l’idea, che è “corretta” se si conforma, si adegua a quella visione. La verità cambia luogo, vale a dire sposterebbe il suo accadere in mezzo all’ente verso lo specifico relazionarsi di un ente, l’umano, che conosce. La verità si compie nell’occhio rettamente indirizzato di chi sa vedere ciò che va visto e che è a sua volta misura di questa rettitudine. La dottrina platonica della verità è certamente gravata, come nota Heidegger, da «un’inevitabile ambiguità». L’ambiguità però non va registrata come slittamento tra la alētheia e la orthotēs, tra il disvelamento in quanto carattere dell’ente e l’adaequatio del soggetto che impone all’ente la rettitudine del suo giudizio. La orthotēs, prima ancora di essere “verità di giudizio”, correttezza della proposizione logica che ripete un’apprensione della mente, è un concetto etico ed esprime tutt’altro dall’avvento anzi tempo del soggettivismo e dell’adeguazione della res all’intelletto. Essa esprime semmai il giusto e virtuoso contegno umano dinanzi allo schiudersi dell’ente, la finalità ultima dell’autentica formazione, in quanto lotta individuale perché il contrario del vero, il falso, il nascondimento, non intoni la nota fondamentale del conformarsi dell’umano all’essere delle cose. Non a caso l’opposto di alētheia è pseudos, mentre il contrario di orthotēs è hamartia, cioè l’errore di valutazione individuale che manca la sua meta, il difetto di giudizio relativo all’occhio di chi guarda. Un simile slittamento si rende possibile all’interno di una concezione tecnica del pensare, quando il pensiero stesso, nella forma suprema della sophia è interpretato come un «sapersi orientare», un «intendersene» che conquista il proprio «sostegno» sull’assicurazione dell’ente reso stabile91. La visione dell’idea sostiene certamente la conoscenza, rende stabile il possesso della verità così esperita. Che però la conoscenza sia paragonabile ad una tecnica del pensare (del ben pensare o del pensare esatto) elimina alla radice la possibilità della ricerca e riduce il processo di formazione al sofistico travasare nell’anima digiuna un sistema di cognizioni. La via filosofica, che è “larga” e “difficile” ed implica un “lungo giro”, esigendo chi vi è coinvolto nella sua interezza, non avrebbe ragione di esistere se non come alternativa ad una tecnica sì oggettiva ma omologante e incapace di lasciar fiorire la libera e autonoma determinazione di chi la percorre. Heidegger ha colto un aspetto determinante nello stabilire, a fondamento del mito della caverna, l’unità di paideia e alētheia; questa 91

Ivi, pp. 36-37; tr. it. p. 189.

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unità ha però esiti imprevedibili, rispetto sia a quelli delle metafisiche, delle teologie, degli umanismi nei quali si trovano trasfuse le intuizioni platoniche già ridotte a platonismo, sia rispetto ad una troppo spinta azione retroattiva che, partita dall’intenzione di restituire Platone a se stesso, si è alla fine assestata su una posizione altrettanto dottrinaria, non dissimile, per la sua perentorietà, dalle opinioni filosofiche che hanno fatto di Platone l’alter ego del loro tempo92.

Excursus. L’aggettivazione filosofica (Repubblica, V-VII) Il punto nevralgico della filosofia platonica su cui Heidegger costruisce l’impalcatura ermeneutica del suo ultimo confronto con Platone lo si legge in 508e: «Ora ciò che conferisce la verità sia alle cose conosciute sia alla facoltà di chi conosce chiamala pure idea del bene». Poiché la posizione heideggeriana rasenta un certo dogmatismo, in quanto fa propria un’interpretazione aprioristica del platonismo, e poiché si è intravista la possibilità che il nesso formazione-verità possa aprire vie precipue per la filosofia che intende rispondere alle necessità del proprio tempo, senza per questo restaurare un ordine fittizio, si rende indispensabile, a partire da quella citazione che compendia a metà strada il lungo cammino della Repubblica, tratteggiare un breve excursus nell’impianto del dialogo. Nell’abbozzo che segue si tenterà di dimostrare che, malgrado tutte le professioni di fede e la meticolosa descrizione dell’ideale comunità umana, il testo platonico, soprattutto nei libri V, VI e VII, non si arresta ad una definizione sistematica di filosofia e mette in discussione le possibilità più proficue dell’aggettivazione filosofica, come una natura comune che può penetrare in più cose93. A scanso di equivoci va detto che una definizione di filosofia c’è e la si legge a compendio dell’autointerpretazione del mito della caverna: «in verità filosofia è il volgersi dell’anima da un giorno crepuscolare ad Su questo aspetto sono fondamentali i lavori di Stanley Rosen. Si vedano in particolare «Heidegger’s Interpretation of Plato», in Id., The Quarrel between Philosophy and Poetry. Studies in Ancient Thought, New York-London, 1993, pp. 127-147, e il più recente «Remarks on Heidegger’s Plato», in Heidegger and Plato. Toward Dialogue, cit., pp. 178-191. 93 Su questo argomento cfr. M. Dixsaut, La natura filosofica. Saggio sui dialoghi di Platone, tr. it. di C. Colletta, Napoli, 2002. 92

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uno vero, alla reale ascesa all’essere»94. Ha ragione Heidegger a notare come in questo caso si definisca la paideia più che la filosofia, ovvero si definisce la natura filosofica di un processo di formazione che ha il proprio completamento in quella torsione. Ciò che conta allora è la qualità filosofica di questa conversione spirituale. Il fatto poi che Platone sia stato tentato di dover aggiungere alla parola “filosofia” l’avverbio ÞlhqÖ, induce a pensare che una philosophia minor o una pseudo-filosofia era pur possibile, sia in quanto contrabbando di nozioni sia in quanto eccesso di teoreticismo, attardarsi nella contemplazione e fingere di essere, da vivo, giusto ma morto al mondo. Non si dà previa descrizione della filosofia e del filosofo prima di aver indagato la “natura” di ciò che è filosofico di cui sia la filosofia sia il filosofo partecipano come determinazioni particolari. I libri centrali, da questo punto di vista, fanno della Repubblica il capolavoro filosofico che è, come compendio dell’umano considerato nella sua interezza. Così le prospettive particolari, le considerazioni specifiche della qualità umana, articolate nell’etica e nella politica, nella gnoseologia e nella ontologia, si intersecano al fine di fornire dell’oggetto umano una visione unitaria e complessa al tempo stesso. Il mito della caverna costituisce sia un percorso analogico della dottrina sia una sintesi dello stesso dialogo, che è strutturato come una ascesa dalla concretezza dello spazio pubblico, dove Socrate con i suoi interlocutori discetta sul senso della giustizia, alla sospensione teoretica della mente che giunge a cogliere l’idea come elemento irriducibile del pensare, per poi ridiscendere nella dimensione mondana ed attribuire ad essa nuovi valori fondati su quella visione intellettuale. Le nozioni di “natura filosofica”, “anima filosofica”, “educazione filosofica”, tornano utili, anzi si rendono necessarie, per giustificare la tesi, al limite tra provocazione, utopia e aristocratico significato del pensare (non tutti sono filosofi ma chiunque può diventarlo purché sia a ciò indirizzato dalla natura e nutrito conformemente dalla cultura), secondo la quale ai filosofi spetti la reggenza della città95.

Plat. Rsp. 521c. Per una critica al Platone teorico della “società chiusa” rimando a R. Maurer, «De l’antiplatonisme politico-philosophique moderne», nel secondo volume di Contre Platon: Le platonisme renversé, cit., pp. 129-154. Per una discussione sull’antidemocratismo platonico si veda J.-F. Pradeau, Platon, les démocrates et la démocratie. Essai sur la réception contemporaine de la pensée politique platonicienne, Napoli, 2005. 94 95

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Accanto alla definizione del politico-filosofo, questi libri rappresentano anche la summa di alcune delle più celebri teorie platoniche: la natura delle idee, la distinzione tra il visibile e l’intellegibile, i gradi della conoscenza e le relative facoltà.

Natura Il tema è già preannunciato in alcuni libri precedenti (II-III), nei quali si insiste sul concetto di physis, da intendersi come intima essenza, contrapposta all’apparenza (doxa)96. In quel caso l’essere “di natura” equivale a “realmente” o “veramente”. Il V libro (da 473 in poi) si è già occupato di definire il philosophos, ma per contrasto, utilizzando cioè schemi interpretativi di chi filosofo non può esserlo sebbene ne abbia le sembianze perché come il primo coltiva la teoria. Il filosofo è philomathēs, amante della conoscenza nella sua interezza, o meglio amante della tendenza a conoscere il senso e l’intero delle cose piuttosto che nutrire curiosità per la loro varietà. Non è dunque il mero “teoreta”, lo “spettatore”. Ciò implica che l’atteggiamento speculativo debba essere rifondato sulla base di una ridefinizione del vedere stesso. Filosofi sono coloro «desiderosi di contemplare la verità», in cerca della «natura» delle cose97. Lo spettatore contempla al contrario la singolarità e la molteplicità, confonde l’in sé con le singole manifestazioni, giudica secondo somiglianza ed è perciò prossimo ad un sognatore o ad un orbo. Soltanto alla preoccupazione per la “natura” spetta il titolo di scienza (gnÍmh); il resto sarà opinione (dóxa). Platone riconosce che ambedue sono “facoltà” (dunámeij) cui deve corrispondere di necessità un «genere di realtà»98. Nulla può difatti essere al contempo conoscibile e opinabile perché ammetterlo implicherebbe che il medesimo può essere insieme essente e non-essente. Il genere ontologico cui corrisponde la doxa come sua facoltà conoscitiva è una realtà intermedia tra l’essere e il non-essere (quest’ultimo corrisponde, su piano gnoseologico all’ignoranza, \gnoia, e rappresenta l’inesistente e l’inconoscibile). Come Plat. Rsp. 375e, 376b, 410e. Ivi, 475e. 98 Ivi, 476d; cfr. 477c: «le facoltà sono un genere di realtà, con le quali siam capaci di ciò di cui siam capaci, sia noi sia ogni altra cosa che ha una qualche capacità». 96

97

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l’opinione è intermedia tra la scienza e l’ignoranza, così il suo oggetto si trova a metà strada tra l’in sé e le sue apparizioni sensibili. Il “doppio” (diplásion) è questione propriamente inerente al campo dell’opinione, sia perché la sua realtà è biforcata tra l’essere e il non-essere, sia perché si concretizza in un'infinita molteplicità, sia perché infine contempla la compresenza dei contrari, le opposte qualità. L’ambivalenza oggettuale e la difettività conoscitiva a questo livello di spiegazione sono ricondotte ad una mancanza di natura logica, un errore di giudizio più che una perdita di essere, paragonabile ad un difetto di vista (Socrate ad esempio dice che chi contempla il molteplice “non vede”)99. Questo difetto di prospettiva rende possibile la distinzione tra i conoscenti e gli opinanti. Non è tuttavia raffinando le qualità individuali né sommandole che si ottiene la conoscenza perché il poter vedere correttamente implica la capacità di volgere l’occhio altrove, nella profondità dell’apparenza. Lo spettatore assume il punto di vista della relatività, sebbene riesca, come a teatro, a godere di una vista unitaria. Quella vista è però la somma di singole apparenze artefatta da escogitazioni illusionistiche che distorcono la prospettiva di insieme. Se il filosofo si accorda all’essere, all’in sé, alla natura delle cose, chi si limita a vedere è un philodoxos, amante dei punti di vista che può mutare adeguandosi come un camaleonte al mutare di ciò che appare100. Il parallelo tra il difetto di giudizio e la cecità è sotteso anche in apertura al VI libro, che si inaugura con il richiamo alla «vista acuta», e questo forse per anticipare la grande analogia tra il vedere e il conoscere filosofico che chiude questa parte della trattazione101. La prima definizione della “natura filosofica”, ciò che rende acuta la vista, è «l’amore di una scienza» (máqhma) rivelatrice di una «realtà eterna» (o÷sía) non sottomessa al divenire, l’amore della sua interezza. La seconda definizione è che questa natura è congenere e familiare alla verità. è di conseguenza incapace di mentire e non è sensibile al falso (yeûdoj). Il filosofo non può essere filoyeudÔj ma «congenere» (suggenÔj) e «familiare» (oêkeîoj) alla verità (ÞlÔqeia). Anche della verità non ama mai una singola parte ma sempre l’interezza102. Il «veramente filosofo» (ÞlhqÏj filósofoj) possiede qualità senza le quali non ci sarebbe 99 100 101 102

Ivi, 479e. Ivi, 480a. Ivi, 484c. Ivi, 485b-d.

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garanzia del suo amore per la totalità. Queste qualità liberali sono: l’avere una buona memoria (mnÔmwn), l’essere ben disposto all’apprendere (e÷maqÔj) e alla grazia (e5carij), il possesso di generosità (megaloprépeia), l’essere amico e congiunto della verità (fíloj te kaì suggenÕj Þlhqeíaj), della giustizia (dikaiosúnh), del coraggio (Þndreía), della temperanza (swfrosúnh), l’aver proporzione o simmetria (æmmetría), l’essere disposto alla teoria (qewría). Una natura così qualificata prende forma nell’anima filosofica103.

Educazione Platone fa cenno ad una natura incolta, l’essere \mousoj, non toccato dal dono delle Muse. Ci sono obiezioni in merito al fatto che sia l’altra natura umana, coltivata nella filosofia, a guidare al meglio la città, giacché l’opinione comune ha dell’educazione filosofica un’immagine differente. è l’obiezione che l’essere troppo a lungo allevati nella filosofia fiacchi il carattere: è quanto i sofisti, specie della seconda generazione, condannano come imbarbarimento teoretico. Per difendere il suo giudizio Socrate è costretto a «ragionar per immagini» e proporre l’analogia del pilota della nave. è naturale che i filosofi siano invisi al volgo perché la natura filosofica è cosa rara, difficile da ottenere e portare al perfetto compimento, certamente non conforme ad ogni esistenza. Un’altra obiezione che si rivolge alla filosofia è la sua inutilità sociale; tuttavia è facile smorzare questi dubbi poiché il filosofo è simile ad un medico al quale ci si rivolge quando si ha bisogno di lui. Non sarà lui a proporsi ma gli altri busseranno alla sua porta per chiedere i suoi servigi. Discutendo delle possibili corruzioni della natura filosofica o delle sue imitazioni, Socrate richiama l’immagine naturale del nutrimento (trofÔ) e dice che, come un seme, una pianta, un animale, possono non trovare nutrimento e terreno fertile ad accoglierli né stagione né luogo adatto, così quell’anima ben disposta alla filosofia, se non trova l’ambiente adatto a coltivarla, può corrompersi. E poiché si tratta della massima ed ottima natura, maggiore sarà la corruzione, maggiore anche il male che da essa può scaturire, di gran lunga superiore a quello commesso da un’anima meschina. Il terreno adatto all’educazione 103

Ivi, 485d-487a.

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filosofica deve essere dunque uno stato riformato da filosofi, i quali si prenderanno in seguito cura delle anime filosofiche in formazione. Alla definizione di una simile educazione si accompagna la critica a quella sofistica che imita la prima e ha il difetto principale di mancare lo scopo dell’interezza, smarrendosi dietro opinioni della massa che vuol compiacere ed adulare104.

Via Già nel corso del IV libro Platone aveva parlato di una «altra, più lunga e maggiore via»105. Nel contesto del VI libro si discute innanzitutto dei modi attraverso i quali nasce la confidenza con la filosofia (tra altre concause Socrate aggiunge il daimon, l’ispirazione interiore). Polemizzando contro i “filosofissimi” Socrate torna a parlare di una «altra via» alla quale si rinasce: la vita filosofica è simile ad una seconda vita, è una seconda nascita. Si chiarisce meglio il valore di questa via quando viene fatto riferimento alla «massima scienza» (mégiston máqhma) e ad un «giro più lungo» (makrotéra períodoj) come finalità e metodologia della vita filosofica106. Questa via «più lunga» comporta fatica, sia nell’apprendimento sia nella ginnastica (Socrate infatti inserisce anche la cura del corpo nell’educazione filosofica, specie in giovane età), per raggiungere il «sapere sommo» che spetta all’anima filosofica. Il progetto filosofico, che comprende la natura filosofica, l’anima filosofica, l’educazione filosofica e la via filosofica, non è impossibile (Þdúnaton). Non è dunque un’utopia ma una via praticabile. La medesima affermazione compare nel IX libro, quando si discute della praticabilità del progetto politico della città perfetta, che non ha corrispondenza nei modelli storici, ma non per questo è irrealizzabile. La città delineata ha sede æn lógoij ed esiste come un parádeigma: alberga nei discorsi ed ha valore esemplare107. Altra cosa è invece il fatto che la via filosofica, come la città ideale, sia difficile (calepón), difficoltà che ben si accorda con la rarità dell’anima filosofica. La tensione verso la filosofia non è il prodotto di una scelta, è invece una «necessità della 104 105 106 107

Ivi, 486d-496a. Ivi, 435d: \llh gàr makrotéra kaì pleíwn ñdój. Ivi, 504b e 505a. Ivi, 592a-b.

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sorte» (Þnágkh tij æk túchj), scaturisce dall’interna finalità di ciascuna anima. La necessità poggia sulla determinazione di ciò che Socrate ha chiamato “natura”. La natura non si sceglie, è. E ciò che è per natura (fúsei) non è oggetto di deliberazione. Si deve allora immaginare un abito filosofico (lo si può chiamare ˜qoj oppure 6xij) che si possiede per natura, un talento già dato che l’educazione deve portare al perfetto compimento: deve allevare, nutrire, custodire. è difficile altresì (ma non impossibile) che i filosofi arrivino a governare la città, e questo in primo luogo per l’opposizione del plÖqoj, la folla che non è filosofica. Esso va dunque persuaso, condotto attraverso il ragionamento, che ciò che ottimo per natura non porta alcun male ma fa invece il bene comune108.

Opera L’opera del filosofo, il suo dovere, non si arresta al raggiungimento di un bene interiore e individuale. A che la sua salvezza se tutto il mondo perisse? Ciò che egli intuisce nel suo percorso individuo e interiore deve divenire ethos condiviso, nella sfera pubblica come in quella privata. La formazione filosofica (çautòn pláttein) deve essere posta a fondamento della città. Il filosofo è come un «pittore di costituzioni» che ha innanzitutto il compito di ripulire la tavolozza dei costumi umani (deve cioè sgomberare il campo dai pregiudizi), poi deve abbozzare lo schema della politeia e così potrà dare a chiunque una sacralità intangibile109. Nel fare il proprio, perseguendo dunque la virtù individuale della giustizia, in quanto “compiere il proprio dovere”, il filosofo si rivolge all’in sé (il giusto, il bello, il saggio) per poi infonderlo e mischiarlo come un colore nelle anime degli umani. Il compito politico del filosofo è già fissato. A questo compito apporterà una nuova luce il mito della caverna del VII libro, che farà anche da sintesi al “contenuto filosofico” discusso nella parte conclusiva del VI libro, che può essere definito insieme un trattato di ontologia e di logica platonica. Una considerazione a parte, prima di arrivare a considerare “l’oggetto della filosofia”, merita la concezione platonica della giustizia, in 108 109

Ivi, 496c-499e. Ivi, 500d-501c.

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primo luogo perché chiarisce e negativo il contenuto filosofico principale: la dikaiosúnh non è l’Þgaqón, la giustizia è ÞretÔ, il bene è êdéa che definisce l’essenza ontologica e concettuale della prima. La risposta alla domanda “che cos’è” della giustizia, nonché la sua praticabilità etica, passa attraverso la conoscenza dell’essere. In secondo luogo perché esemplifica il comportamento individuale del filosofo e non solo, ma di tutta la prassi umana orientata secondo criterio e misura. La Repubblica si inaugura con una riflessione sulle correnti concezioni della giustizia, nessuna delle quali sembra però arrivare a definire correttamente l’essenza del giusto. C’è chi la radica nell’autorità degli antichi sapienti, soprattutto poeti, c’è chi la restringe all’utilità del più forte. La concezione tradizionale avanza l’idea che giustizia sia la restituzione del debito, dunque di ciò che ad ognuno spetta in termini di obbligazione. Una parziale verità si annuncia in questa posizione, vale a dire che la giustizia sia elargizione di premi secondo spettanza. In questo caso si confonde però il «debito» con il «conveniente». In una certa misura anche la tesi utilitaristica contiene un’idea legittima di giustizia: certamente fare il giusto è utile poiché non nuoce alla salute dell’anima. Nella definizione di “utilità del più forte” invece non solo si sostiene un tipo di utile individuale e non comune, inoltre, dal momento che il raggiungimento del proprio utile crea disordine e frammentazione, alla lunga questo paradigma di giustizia finisce per rivolgersi contro chi dovrebbe praticarlo. La tesi socratico-platonica definisce invece la giustizia come «eccellenza dell’anima» (yucÖj ÞretÔ), ricavata attraverso un paragone con i sensi del corpo, dunque come ciò che conviene, è compito di ogni organo eseguire nel modo migliore110. La giustizia però non può essere soltanto disposizione ad agire (non basta dire che è dovere dell’anima essere giusta come si dice che funzione dell’occhio è il vedere) perché l’azione giusta deve accompagnarsi con la conoscenza dell’essenza della giustizia (fúsij dikaiosúnhj)111. Così la giustizia è «sapienza ed eccellenza» (sofía kaì ÞretÔ)112. Il racconto della favola di Gige, il pastore che si rende invisibile grazie ad un anello magico e può così attraverso l’ingiustizia usurpare il regno, espone in simboli un presupposto fondamentale del reale valore 110 111 112

Ivi, 353e7. Ivi, 359b. Ivi, 351a.

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della giustizia nella vita umana. Chiunque, il giusto e l’ingiusto, potendo contare sull’invisibilità, cederebbe volentieri a crimini privati che, trasposti nel pubblico, potrebbero promuovere un rinnovamento politico. Il mito contiene implicitamente una riflessione sulla responsabilità dell’apparire, è uno scavo nella psicologia umana ed esprime un giudizio sulla sua natura, sulla presenza nell’anima di un male radicale, inestirpabile, connaturato all’esistenza. La distinzione fondamentale su cui è giocata la narrazione è la contrapposizione tra le due sfere dell’azione umana, il privato e il pubblico, tra l’invisibilità del primo e la visibilità dell’altro. La giustizia si mostra, perché si fa evidente, nella relazione interpersonale, nello spazio politico. Ma il fondamento dell’agire retto va fondato sulla conoscenza del valore individuale della giustizia. La giustizia secondo il modello platonico, in quanto eccellenza caratteriale e sapienza, è in grado di ricomporre il privato e il pubblico, l’etica e la politica. La qualità etica della giustizia, in quanto “eccellenza”, “concordia” (filía e sumfwnía), radicata sulla conoscenza di ciò che buono “in sé”, è depositata nel microcosmo privato dell’anima, ma si riflette anche nel macrocosmo politico della città, dove l’invisibilità e la micrologia della prima può trasferirsi nella visibilità e nella macrologia della seconda: il carattere pubblico della politica esibisce particolari chiari e funziona da lente di ingrandimento per il luogo umano dell’interiorità. Il recupero della relazione tra individuo e comunità passa attraverso l’analogia esistente tra il talento individuale (l’essere disposto per natura a svolgere la propria mansione) e il benessere condiviso che è autentica felicità. Giustizia è «svolgere il proprio compito» (tò tà aøtoû práttein, oppure in sintesi oêkeiopragía), ingiusta è invece la dispersione, il disordine, l’assenza di una salute pubblica. Platone pone il contrario della giustizia nella polupragmosúnh, letteralmente nello spendersi in diverse faccende e nel disperdersi nella cattiva infinità di interessi molteplici, mancando lo scopo principale della realizzazione individuale della propria esistenza113. Interpretata con minore radicalità di quanto spesso sia accaduto, lasciando cadere il pregiudizio dello statalismo e del controllo politico sull’individuo, questa concezione va sondata più in profondità e armonizzata con l’idea platonica di umanità. La polypragmosynē sembra a prima vista il divieto posto da un’anima 113

Ivi, 433b-434c.

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aristocratica e totalitaria che mortifica e non tollera la gioiosa compresenza delle pluralità nel singolo. A ben guardare invece pare che essa alluda ad una mancanza di determinazione, vale a dire all’incapacità di raggiungere una salutare conoscenza della propria natura individuale e, di conseguenza, all’impossibilità di agire in conformità ad un dono, una dynamis elargita a chiunque dalla natura. Sapere chi si è, come invitava a fare Socrate, comporta anche il dovere di diventarlo, di coltivare e portare a maturazione il proprio talento o la propria disposizione. Rimedio alla dispersione è la concentrazione su ciò che si è e si fa in modo eccellente, ovvero virtuoso. La tripartizione della società, certo troppo schematica per la sensibilità moderna, ha tuttavia valore esemplare: ciascuno è dotato di una capacità dominante su altre, che possiede al pari della prima. Ogni virtù è individuale; comune è invece quella “eccellenza” che permette a ciascuna di diventare eccellente nella sua particolarità. La giustizia, secondo il significato di agire conformemente al dono naturale, è elemento comune e residuale, nel senso dell’idea fondamentale che rimane una volta superato l’ambito della molteplicità. In definitiva ogni virtù trova la sua eccellenza nella virtù principale che definisce lo stesso concetto di eccellenza. Concorrono a questa visione due presupposti concettuali. Da un lato l’ideale della musicalità, sul quale è costruita un’anima musicale che armonizza in sé gli opposti, i plurali «centri motivazionali» della razionalità, della sensibilità e della volontà114. Un’anima armoniosa può essere concorde con gli altri, perché ha sperimentato da sé l’antieconomicità del dissidio interiore. Sull’altro versante si colloca l’abbozzo di una teoria funzionalista della giustizia. Il giusto è una funzione che consente ad ogni essente, sia esso creato dalla natura o costruito dalla tecnica, di mirar dritto e raggiungere lo scopo, che equivale a realizzare, conformemente ai mezzi e al fine, la compiutezza di un’azione o di una pratica.

Oggetto Quando Socrate introduce la nozione di una “scienza suprema” gli viene chiesto se non si era già convenuto che fosse la giustizia il massimo oggetto della riflessione filosofica. Maggiore della giustizia, 114 M. Vegetti, «Conflitto e ricomposizione: il progetto dell’anima e della città in Platone», in Id., L’etica degli antichi, Roma-Bari, 2004, p. 113.

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risponde Socrate, è l’idea di bene (Ó toû Þgaqoû êdéa). La giustizia è la suprema ÞretÔ, la maggiore virtù etica, ciò che è diffuso ed è comune a tutte le virtù. Sul piano più propriamente ontologico, ma con forti oscillazioni verso la sintesi di etica e di ontologia, c’è il bene (Þgaqón). L’idea di bene è la «somma scienza» (mégiston máqhma): in questa affermazione si trova raccolta e compendiata l’unione di ontologia (idea di bene), logica (idea) e etica (bene)115. Privi di questa idea non si ha conoscenza né giovamento. Il bene non è piacere (ÓdonÔ), come sembra ai più, né intelligenza (frónhsij), come sembra ai più raffinati: nel secondo caso l’idea rimane indeterminata perché quando si chiede “che cos’è intelligenza?” si risponde “intelligenza del bene”, si finisce quindi in un circolo vizioso e si dà il bene comune come presupposto. Nel primo caso si confonde invece l’idea con la doxa, con ciò che appare come bene e che l’opinione considera tale. In questo caso, rispetto al precedente esempio, c’è un intendimento comune di bene, la sua natura piacevole; questo comune però si stempera subito nel più soggettivo dei giudizi: a me, per me, secondo me … Se è facile però accontentarsi dell’apparenza della giustizia e della bellezza, nessuno si accontenta dell’apparenza di bene e tutti «cercano la realtà» (tà 3nta)116. Incalzato ad offrire una definizione di bene, Socrate rifiuta. Non si tratta di discuterne come di una opinione tra le tante, lasciando intendere che non si applica metodicamente alla ricerca del bene ciò è stato possibile per la giustizia, la cui definizione è ricavata attraverso un vaglio dialettico tra posizioni differenti, invalidando alcune e consolidando e rafforzando altre. Poiché si tratta di qualcosa di troppo grande (pléon), Socrate accetta invece di parlarne per analogia, tematizzando quello che lui identifica come il «figlio del bene» (1kgonoj toû Þgaqoû), il suo rampollo, chi deriva dalla sua fonte117. Con questo richiamo alla generazione si introduce il procedimento analogico, nonché lo sdoppiamento gnoseologico della medesima idea. Sembra chiaro che l’idea di bene sia un oggetto smisurato per il discorso e per farne il tema di una discussione. Accanto a questa prudenza si pone però anche l’esigenza di lasciar vedere, esibire indirettamente quell’idea. Il ragionamento è il seguente: da una parte c’è la molteplicità (i pollá), dall’altra 115 116 117

Plat. Rsp. 505a. Ivi, 505b-d. Ivi, 506e.

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l’in sé (a÷tó). Si scorge di ciascuna cosa l’in sé quando la si consideri «secondo un’unica idea» (kat’êdéan mían). Da una parte c’è il vedere e non il pensare, dall’altra il non vedere e il pensare (ñrâsqai e noeîsqai, si vede e si pensa). Il “mezzo” del vedere è la vista (3yij), che è «la facoltà (dúnamij) più preziosa». Sia la vista sia il visibile (l’ñratón, ciò che si dà a vedere) necessitano però di un «terzo elemento» (génoj tríton) che rende possibile sia il vedere (ñrân) sia l’esser-visto (ñrâsqai). Questo terzo elemento è la luce (fÏj). Il «senso del vedere» (Ó toû ñrân asqhsij) e la «facoltà di essere visto» (Ó toû ñrâsqai dúnamij) sono uniti in legame da un «concetto» (êdéa) tutt’altro che piccolo. L’autore di questo accordo non può non essere il sole (7lioj). La luce-sole non si identifica né con la sensazione del vedere né con la facoltà dell’essere veduto perché essa è aêtía, causa dell’una e dell’altra. La luce non è nella vista né nel suo organo, l’occhio (3mma), che certo tra gli organi corporei è il più vicino al sole118. Trasponiamo ora questo costrutto analogico al bene. Il sole è figlio del bene che esso ha generato come suo analogo (Þnálogon). Il bene nel «luogo intellegibile» (æn tÐ nohtÐ tóp_) ha il suo analogo nel visibile (æn tÐ ñratÐ). Quel che è il sole per la vista e per il visibile è il bene per l’intelletto (noûj) e per l’intellegibile (tà nooúmena). L’anima ha il proprio analogo nell’occhio: come questo non vede chiaramente in condizioni di scarsa visibilità, così la prima vede con chiarezza ciò che è illuminato e lo definisce vero e reale, e può compiere questo riconoscimento perché dotata di intelletto, mentre nell’oscurità, nella cecità del divenire e del molteplice, si attiene a congetture e sembra sragionare. Il bene allora, oltre ad essere causa del pensare e dei pensieri, è anche l’elemento che conferisce verità (ÞlÔqeia) sia alle cose conosciute sia alla facoltà conoscente: stabilisce cioè una conformità tra il conoscere e il conosciuto, tra la mente e la realtà119. è questo l’adeguamento cui Heidegger si riferisce nell’interpretare la mutazione essenziale della verità. Il bene è causa di realtà e di verità, di essere e conoscere, ed è a sua volta conoscibile, però non si identifica con nessuna delle due. Il sole infatti, che in quanto luce, è condizione di possibilità del vedereconoscere, non è solo causa logica. Come il sole, ragionando ancora per analogia, il bene non solo illumina ma permette anche generazione e crescita, dà nutrimento: è in sostanza causa del divenire senza dive118 119

Ivi, 507b-508b. Ivi, 508b-509a.

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nire esso stesso. Il bene è allora anche causa ontologica perché da esso discendono l’essere (l’eônai) e la presenza (o÷sía) delle cose120. Non si identifica tuttavia con la ousia, vale a dire con l’essere presente di ogni cosa sensibile, perché la supera rendendosi ulteriore rispetto alla stessa presenzialità e visibilità.

Mondo La definizione di “mondo filosofico” potrebbe apparire scorretta perché lascia presupporre un mondo nel quale il filosofo vive (nel Sofista sarà assimilato ad un luogo pieno di luce) e che è separato dal visibile. In verità più che appartenere all’uno o all’altro mondo il filosofo li condivide, così da far anche da tramite per entrambi, è simbolo – nel senso che raccoglie l’esigenza dell’uno trasponendolo nell’altro, dando a questo la forma che gli spetta. Platone non parla propriamente di “mondo”, vale dire di un sistema chiuso e significante, perché sarebbe stato forse assurdo per un pensatore greco immaginare un altro kosmos o un’altra physis. Discute invece di tópoj e di génoj, uno nohtón e l’altro ñratón, il luogo del pensiero e il luogo del visibile ovvero della percezione sensibile, ciascuno dei due conservato nell’altro. Platone si appella alla geometria per esplicitare quella che molti hanno interpretato come una separazione. Più che divisi, i due piani sono raccolti visivamente all’interno di un’unica figura geometrica: poiché non ci sono due ma un solo mondo, l’unico mondo è rappresentato dalla linea geometrica che però si articola in parti, quelle che il pensatore chiama génh oppure edh, e che sono segmenti (tmÖma: il taglio, la divisione – la diairesi – è anche il procedimento dialettico che seleziona gli elementi del discorso tagliando gli argomenti in due parti delle quali una soltanto è funzionale all’argomentazione). ñratón

nohtón

eêkÍn

“3n”

“dianohtikaì “dialektikaì øpoqéseij” øpoqéseij”

eêkasía

pístij

diánoia

120

noûj

Ivi, 509b.

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Su un’unica retta possiamo rappresentare, suddividendola in due segmenti, il visibile e il pensabile. Il primo comprende le ombre e i riflessi della luce, nonché le cose reali di cui c’è duplicazione (immaginiamo dunque la prima divisione sottostante alla macrodivisione come la distinzione tra una fotografia e la cosa che riproduce)121. Nella sottodivisione del pensabile si è distinto, mantenendo vivo il significato del testo platonico (evidenziando però le perifrasi con gli apici), tra le ipotesi raziocinanti della matematica e le ipotesi dialettiche. Sull’ultima linea sono rappresentati i gradi della verità corrispondenti a queste distinte località ontologiche. L’originale greco øpóqesij sta ad indicare, accanto all’ipotesi scientifica, che necessita di un presupposto per giungere a conclusione, il “pre-supposto” su cui la prima si fonda. Innanzitutto è da segnalare che ipotesi, secondo il primo significato, mantiene un rapporto residuale con le immagini (le forme geometriche sono rappresentazioni visive); nel secondo caso invece si è sradicata ogni possibilità di penetrazione dell’immagine e si ha l’idea “pura”, l’apprensione della quale non è mediata da veicoli sensibili epperò è visibile in senso pieno, perché è il più visibile, il più evidente della scala ontologica (la si chiami idea o eidos il riferimento al vedere è nella radice del nome). La vista si raffina man mano che dalle riproduzioni si passa all’essere presenti delle cose (alla loro ousia), e per il tramite della rarefazione dell’immagine nell’essenzializzazione delle forme geometriche e delle formule matematiche, si perviene al nocciolo “ideale”, all’essere (einai) come fondamento soggiacente ad ogni precedente e approssimativa (ma non sbagliata) manifestazione ontologica (tÐ 3nti øpoqéseij). Platone parla chiaramente delle idee come di «punti di appoggio e di lancio» verso ogni essente. L’idea è il fondamento non fondato, non sorretto da un ulteriore presupposto perché «principio di tutto» (toû pantòj ÞrcÔ)122. 121 S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, tr. it. di E. Capriolo, Torino, 2004, in particolare «Nella grotta di Platone», pp. 3-23. 122 Plat. Rsp. 511b. «Quando […] Platone alla fine del sesto libro della Repubblica, dove descrive il procedimento della matematica, parla di øpoqéseij, qésij non significa né ipotesi (supposizione) nel senso odierno, né tanto meno significa “semplice premessa”: øpóqesij è piuttosto la posizione che sta alla base, la posizione del fondamento, che per la matematica è già disponibile: il pari, il dispari, le figure, gli angoli. Questa posizione preliminare (Vor-Lage), intesa come il complesso di ciò che è già posto davanti, le øpoqéseij, è caratterizzata come Ìj fanerá (510d): come cose a ognuno evidenti, di cui non

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Nella simbolizzazione dei due topoi per il tramite della linea geometrica, si è conservata l’intenzione non verticalistica della rappresentazione platonica dell’essere, dove la linea orizzontale induce a pensare più ad una penetrazione del pensiero all’interno della molteplicità dell’apparire verso la fonte e la radice di ogni essente che ad un’ascesi verticale verso la conquista di un trascendente. Questo fondo ontologico è senz’altro per Platone essenza concettuale: fare di tale acquisizione il preambolo per la costruzione di mondi spirituali irriducibili alla mentalità greca significa semplificare in formule quelle che invece sono state complesse operazioni storiche. L’azione pensante percorre la linea dall’empirico all’idea e poi dall’idea all’empirico, risalendo a ritroso il cammino ma servendosi, nel ritorno, non più dell’immagine ma «delle idee stesse, per esse e verso esse». In questo viaggio la dianoia è insufficiente perché è ancora facoltà media tra l’empirico e il pensabile, tra l’opinione e la scienza. Occorre invece il logos (a÷tòj ñ lógoj) che agisce «con la forza della dialettica» (tØ toû dialégesqai dunámei) e si fa scienza (toû dialégesqai æpistÔmh)123. Dialettica è «sinossi», raccoglimento del molteplice in uno sguardo unitario; è, coerentemente alla natura musicale dell’anima umana, un «canto» che custodisce singole voci e che «dà e riceve ragione di una cosa». Essa è la facoltà in grado di creare un accordo tra «il migliore elemento dell’anima» e «l’ottimo nell’essere»124. Certamente si tratta di un’adeguazione, ma, più che ad un’operazione logica che cristallizza il reale per renderlo pensabile, è da pensare ad un’intonazione, raggiunta attraverso una severa e disciplinata educazione, che attraverso un processo di crescita e di rivolgimento interiore, conforma il mentale al reale e non viceversa. Non va ascritto al caso la coincidenza che in due dei testi platonici su cui Heidegger rivolge la sua attenzione teoretica, vale a dire la Repubblica e il Sofista, la dialettica come via epistemica della filosofia sia merita più rendere conto» (M. Heidegger, Was heisst Denken?, GA VIII, a cura di P.-L. Coriando, Frankfurt a. M., 2002, p. 203; tr. it. di G. Vattimo e U. Ugazio, Che cosa significa pensare?, Carnago (Varese), 1996, p. 208). 123 Plat. Rsp. 511b-c. 124 Ivi, 537c, 531e, 532c. Cfr. J.-F. Mattéi, «La symphonie de l’être», in Id., L’ordre du monde. Platon-Nietzsche-Heidegger, Paris, 1989, pp. 25-47. Sul valore teoretico dell’armonia musicale si veda A. G. Wersinger, Platon et la dysharmonie, Paris, 2001.

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esemplificata mediante un paragone con la musica. Non c’è lessico filosofico che non sia intriso di metafore musicali e questo perché la verità filosofica ha inclinazioni musicali in quanto intonarsi della singola voce al coro dell’universale da creare, disfare e ricreare nuovamente, come il filo di una melodia che si dà intera, si scompone poi nei suoi elementi e si ricompone infine come tema dominante. Certamente fa leva su questa affascinante comparazione l’etimologia del nome, che richiama al legame con le Muse, le laiche custodi dell’essere e della sapienza umana. è questa conformità musical-dialettica che forse occorrerebbe richiamare per approdare ad una teoria dell’adeguazione che non può non essere logica, in virtù del carattere discorsivo dell’“animale umano”, ma logica di altra natura. “Dire la verità” è innanzitutto operazione del pensiero che riconosce e stabilisce accordi, dunque armonia di mente ed essere; questa operazione non rimane vincolata però alla validità assoluta di un soggetto universale perché è synōmologhēsthai, “convenire”, “accordarsi sul vero”, pratica intersoggettiva che richiede in ogni caso e nel concreto l’assenso del singolo umano, di volta in volta qui ed ora, piuttosto che di un evanescente ed antipolitico modello di umanità125.

3. Libertà La Repubblica, il Teeteto e il Sofista sono i testi platonici con i quali Heidegger si è confrontato a più riprese. La dottrina platonica della verità esprime in sintesi il risultato di una lunga elaborazione interpretativa. L’analisi degli stadi del mito della caverna fu oggetto di speciale considerazione anche nei corsi universitari del 1926 sui Concetti fondamentali della filosofia antica e del 1931-’32 sulla Essenza della verità. Sul mito della caverna e sul Teeteto di Platone. Anche in questi documenti gli stadi ontologici e conoscitivi esposti da Socrate per via analogica confermano l’intuizione che già da sempre si è nell’essere e nella sua verità, perfino in quella condizione di inautenticità che è il nostro quotidiano, quando mancano la “differenza ontologica” tra essere e ente e la “differenza gnoseologica” tra vero e falso, e si prende per vero, come gli schiavi incatenati, tutto ciò che passa davanti agli occhi. Le condizioni strutturali dell’essere al mondo come essere-nella-caverna sono la «datità» (die Vorgegebenheit) e l’«essere a portata di mano» (das Vor125

Plat. Soph. 253b3 e 259e1-2; Plat. Rsp. 401d-412a, 532a.

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handene) del mondo, il fatto che un mondo si dà ed è immediatamente disponibile, seppur in un particolare approccio all’essere del mondo che è «sembianza» (eikasia); una «comprensione implicita dell’essere»; la possibilità di parlare di qualcosa (dialeghesthai: gli incatenati discutono tra loro); l’«esserci», quella esistenza cui l’essere si dà, nella sua forma immediata di rappresentazione della vita nella caverna126. Il dato più rilevante del corso platonico degli anni Trenta è il nesso tra verità e libertà. Mentre nella Platons Lehre la tesi del mutamento nell’essenza della verità è focalizzato sulla torsione che volge dalla alētheia alla paideia, dall’accadere della verità alla formazione-conformazione del soggetto, qui invece determinante è il discorso sulla libertà e i suoi vari modi di effettuazione, dalla non-libertà all’affrancamento da vincoli, dalla liberazione alla libertà senza aggettivi, nonché la sua relazione profonda con la verità in quanto disvelamento. In questo testo la paideia non è intesa tanto come formazione (Bildung), quanto come la “nostra più propria natura”, come il «contegno» umano che obbliga a compiere una scelta libera per accogliere un sostegno, un vincolo che sorregga e qualifichi l’azione umana nel mondo. Il vincolo è imposto dalla verità dell’essere127. Esiste dunque una sostanziale prossimità tra l’accadere della verità e «la liberazione dell’uomo o, più precisamente, […] la riuscita della liberazione, cioè […] l’autentico essere-liberi»128. Il contenuto del mito della caverna parlerebbe in sostanza, data questa connessione strutturale tra verità e libertà, null’altro che della liberazione stessa e così del “chi” è in gioco in questo processo di affrancamento verso la piena essenza della libertà autentica: «la domanda sull’essenza della verità come svelatezza è la domanda sulla storia dell’essenza dell’uomo»129.

Grundbegriffe der antiken Philosophie, § 34, pp. 101-103; tr. it. pp. 182-184; Vom Wesen der Wahrheit, § 3, pp. 23, 25, 26-27, 28 ; tr. it. p. 47, p. 49 («è proprio dell’essere umano […] lo stare nello svelato»), p. 51 («essere uomini significa anche, fra l’altro, stare in ciò che è velato, esserne avvolti»), p. 52 (la caverna è «un’immagine della situazione quotidiana dell’uomo che quest’ultimo non è affatto capace di vedere nella sua stupefacente stranezza, proprio perché dispone solo del metro della quotidianità […] questa prima immagine [offre] un cenno che ci rimanda nell’essenza della verità della quotidianità dell’uomo»). 127 Vom Wesen der Wahrheit, § 15, pp. 112 sgg.; tr. it. pp. 139 sgg. 128 Ivi, § 4, p. 38; tr. it. p. 62. 129 Ivi, § 15, p. 114; tr. it. p. 141. 126

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Se la condizione iniziale dell’umanità è il servaggio alla dimensione dell’approssimazione che Heidegger designa come quotidianità, dunque uno stato di prigionia non alle cose, ma a ciò che si crede cosa e che in realtà è ombra e riflesso, il primo avvicinamento alla verità si compie come affrancamento dalle catene, che è tuttavia «solo l’inizio della liberazione». Questa prima fase è votata al fallimento tant’è che i liberati vogliono tornare nella precedente condizione: lo scioglimento dai ceppi non si accompagna alla «guarigione dalla mancanza di discernimento». «L’affrancamento dalle catene non è quindi una liberazione effettiva dell’uomo, ma rimane esteriore e non coglie l’uomo nel suo proprio sé»130. L’iniziale momento della liberazione fallisce perché non è garantito da una corrispondente apprensione della verità: non si sostiene la vista delle cose perché manca un corretto intendimento di cosa esse significhino per davvero. Un livello più alto e complesso di liberazione si compie nel cammino che l’umano, non più costretto da impedimenti, liberamente attraversa fino all’uscita dalla caverna. Per questo caso soltanto Heidegger parla di «autentica liberazione»131. La prima era violenta perché l’umano è con forza sottratto dalle catene; indispensabile affinché l’affrancamento spirituale abbia esito positivo è il «lento familiarizzarsi» con ciò per cui le cose appaiono in un modo o nell’altro. Fondamentale è la relazione con la luce. Rendersi familiare qualcosa innanzitutto implica che la cosa non sia percepita come estranea; in secondo luogo occorre liberarsi con tenacia e perseveranza anche di tutte le abitudini fisiche e mentali con le quali si è soliti contemplare il mondo. La liberazione ha dunque anche e principalmente il significato spirituale di discernimento critico, che libera dai pregiudizi e dai vincoli mentali. La conquista della libertà spirituale deve essere senza dubbio incoraggiata e promossa dal percorso formativo della paideia ma deve anche concretizzarsi nell’autonomo superamento di vecchi e dogmatici punti di vista e nell’acquisizione di una nuova prospettiva alla luce della quale il mondo appaia veramente differente. Questa nuova «veduta» (Anblick) è per Platone l’idea: il mondo è scorto sotto nuove sembianze quando è illuminato dalla luce delle idee. Idea è vedere qualcosa con occhi nuovi ma vederla perché qualcosa sembra presentarsi per la prima volta per ciò che è: «“idea” è

130 131

Ivi, § 4, pp. 35-36; tr. it. pp. 60-61. Ivi, § 5, p. 41; tr. it. p. 66.

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dunque la veduta dell’“in quanto che cosa” qualcosa che è si presenta», è visione della sua essenza132. La luce delle idee genera un inedito sguardo sul mondo, quasi come se per la prima volta si vedesse. Tra la conquista di questa prospettiva e la liberazione da schemi mentali retrivi c’è una stretta collaborazione. «Non la libertà da punti di vista (che è in sé qualcosa di immaginario), ma la giusta scelta del punto di vista, il coraggio di averne, l’impiego dei punti di vista e la loro fissazione, questo è il compito che certo si attua solo nel lavoro filosofico»133. Il rischiaramento che l’idea produce tocca anche «il fenomeno della libertà». Dall’alto del nuovo punto di vista conquistato appare chiaro che la libertà non è solo libertà negativa, «divenire liberi da qualcosa»134. L’assenza di vincoli non dà né stabilità né sostegno. Chi è liberato è insicuro, maldestro, confuso. Vuole ritornare in ceppi, incatenato al suo punto di vista sul mondo che, per quanto fisso, gli conferisce certezza e stabilità. La luce, il sole, il chiarore abbagliante delle idee sono visioni insostenibili per un occhio non addestrato, per l’occhio schiavo della sicurezza immediata dell’apparire delle cose. Ecco allora che nel concetto di libertà negativa avanza anche una comprensione positiva della libertà: libertà non può essere esposizione all’incertezza e all’instabilità, quanto al contrario, raccogliersi attorno a «sostegno e sicurezza, quiete e stabilità». Si fa strada un concetto di “libertà vincolata” che è ben altro dalla libertà sottoposta a condizione o dalla libertà relativa: «la libertà genuina, positiva, non è solo un essereliberi-da … (via da…), ma è un essere liberi-per (verso…)». Divenire autenticamente liberi equivale ad un «vincolarsi progettante», a dare a se stessi da sé un vincolo, farsi in qualche modo progetto dell’essere che reclama la nostra scelta per se stesso. Libertà è «compiere il progetto di essere»135. Il vincolo è dunque il motivo fondamentale attorno al quale si disegna il progetto di un’esistenza che mette in gioco se stessa, si arrischia. «Noi siamo solo quello che abbiamo la forza di pretendere da noi»136. Libertà significa essere liberi da impedimenti per poter essere disponibili a qualcosa, qualcosa che prende forma nel nostro progetto 132 133 134 135 136

Ivi, §§ 6 e 24, pp. 51 e 173; tr. it. pp. 76 e 204. Ivi, § 9, p. 78; tr. it. p. 104. Ivi, § 7, p. 58; tr. it. p. 83. Ivi, §§ 7-8, pp. 58-61; tr. it. pp. 84-86. Ivi, § 9, p. 76; tr. it. p. 102.

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di essere non questa o quell’altra ma un’esistenza, la mia esistenza. Libertà è esposizione al rischio di poter essere quella unica cosa in cui si decide del valore e della qualità del mio esistere. «Vincolo non è una perdita di potenza, ma una presa-di-possesso»137. C’è una relazione profonda tra l’idea e la libertà: se l’idea è la luce che rischiara il mondo, questo rischiaramento, suggerito dal verbo tedesco lichten, comporta anche uno “sgomberare”, un “liberare”, un “far posto”, un “diradare”. Liberarsi-da implica anche un essere liberi per la luce dell’idea, e divenire liberi per la luce vuol dire, diceva già Kant, “cominciare a vedere chiaro”. L’essenza della libertà è «lo spiraglio di luce» (Lichtblick)138. Divenire liberi per il proprio progetto esistenziale significa rendersi liberi per accogliere l’evento dell’essere: «divenireliberi nel senso di vincolarsi alle idee» è «lasciare la guida all’essere»139. Significa cessare di esercitare un arbitrario dominio sull’ente e sottomettersi liberamente all’unico giogo che realmente concede di esperire il senso più alto della libertà umana, quell’unica verità per cui l’essere umano è stato creato libero. L’essere e il suo accadere in quanto disvelamento sono la sola misura dell’umano per la comprensione della sua libertà. Non c’è spazio d’azione al di fuori dell’essere. Questo implica che non c’è spazio per un uomo-creatore che fa giochi di prestigio tirando fuori dal cilindro del nulla la creazione di mondi a sua immagine. Il mondo è umano non perché è antropomorfizzato. L’umanità si misura dall’indietreggiare nei confronti di ogni tentazione all’impero e alla normazione di ciò che è physei, esiste da sé, senza alcuna umana mediazione. L’essere è misura della nostra azione nel mondo nel duplice senso di stabilire un limite e di descrivere un confine all’interno del quale il nostro agire va esercitato. Fare un passo indietro equivale a resistere alla tentazione di imporre una norma fittizia a quanto “per natura” possiede già la sua norma e che nessun tentativo di imbrigliamento concettuale ed etico potrà condizionare senza perciò alterare il senso e il corso del mondo. Nell’ultimo stadio descritto nel mito della caverna torna ancora in questione il tema della libertà, questa volta però in relazione alla morte, da intendersi come il pericolo estremo cui ci si espone nella scelta per la libertà. In questo contesto non si discute più di un avanzamento nella 137 138 139

Ivi, § 7, pp. 59-60; tr. it. p. 85. Ivi, § 8, p. 60; tr. it. p. 86. Ivi, § 9, p. 73; tr. it. p. 99.

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comprensione della verità: la sezione ontologica e logica si è chiusa con la visione dell’idea somma. Qui si registra al contrario un’inversione: dalla radura dell’idea si fa ritorno nell’oscurità della grotta. Ovvero si torna tra uomini dei quali il liberato vuol essere liberatore. Il processo di liberazione non può dunque dirsi completato se non ha riguardato anche l’esistenza di altri. «La libertà non è soltanto l’essere-liberati dalle catene né soltanto l’esser-divenuti-liberi per la luce, ma l’autentico essere-liberi è essere-liberatori dal buio»140. Heidegger interpreta questo viaggio à rebours del liberatore come un esporsi del filosofo alla morte, intesa come espulsione dal corpo sociale. Dinanzi al pericolo concreto del proprio annientamento, non c’è che il rifugio nella cittadella interiore dove occorre avere sempre dinanzi a sé la possibilità di morire per gli uomini. «Il filosofo – ammonisce – deve restare solitario», deve continuare ad agire nel pensiero come se il “frammezzo” che lega la sua esistenza a quella degli altri non esistesse141. Il morire del filosofo deve essere interpretato come il venire meno di questo infra (das Zwischen, metaxú), dell’essere in mezzo ad altri umani. In Platone invece il ritorno nella caverna ha una valenza differente e più positiva, almeno nell’intenzione di rifondare la politica su base filosofica. Si tratta non di eliminare quanto di ricomporre quel frammezzo che il pensiero ha interrotto, quella linea di continuità tra i viventi del cosmo politico da cui il filosofo si è appartato prendendo la via della speculazione. Lo spazio sociale deve essere ricostruito perché da questa ricostruzione dipende il senso della filosofia in seno alla comunità umana. Naturalmente questo progetto filosofico-politico è un rischio: è naturale che gli incatenati deridano e tentino l’uccisione di chi dice una verità contraria al senso corrente; ma a questo rischio non vi è alternativa. Filosofare significa recuperare il valore della comunità quantunque il luogo di incontro tra il pensiero e la prassi sia spesso un fuori-luogo, una u-topia. L’effettuarsi della libertà, la sua “fenomenologia”, segue il libero accadere della verità che mai è quieto possesso. Aprirsi alla verità, renderla dunque concretamente operante, significa coinvolgersi in una lunga, pericolosa e difficile attività di liberazione individuale. Il cosmo platonico, che tiene uniti la scienza (epistēmē) e la produttività (poiēsis), «l’agire» e «la storia» (praxis) e «il concreto e lo Stato» (polis), richiede 140 141

Ivi, § 11, p. 91; tr. it. p. 116. Ivi, § 10, p. 86; tr. it. p. 112.

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che questa attività di liberazione e rischiaramento non rimanga confinata però all’ambito strettamente privato ma sia globalmente ripulitura di quella immensa ed unica individualità greca che è il corpo politico142.

4. Idea e eidos Se si volesse indicare il concetto fondamentale di Platone, quello che, nel solo nominarlo, si trova sintetizzato il senso del suo filosofare, nonché quello che ha avuto maggiori rielaborazioni nel corso della storia del pensiero, questo concetto non potrebbe essere altro che “idea”. «Che cosa significa “idea”? – chiede Heidegger in un addendum al corso platonico degli anni Trenta – Con questa domanda tocchiamo la componente e la costituzione fondamentali dell’esistenza spirituale occidentale. Infatti con l’aiuto della dottrina platonica delle idee è stato sviluppato il concetto cristiano di Dio e con ciò si è formato il metro Grundbegriffe der antiken Philosophie, § 34, p. 99; tr. it. p. 181. L’idea di Heidegger “filosofo della libertà” costituisce il cuore dell’interessante lavoro di Günter Figal, Martin Heidegger. Phänomenologie der Freiheit, tr. it. di F. Filippi, prefazione di C. Angelino, Martin Heidegger. Fenomenologia della libertà, Genova, 2007. La tesi di Figal è che, soprattutto in Sein und Zeit, si sarebbe articolata una “filosofia della libertà” alternativa alla filosofia della soggettività moderna, cui si associa la “scoperta” della libertà. Pur nutrito dal confronto con la modernità filosofica, Heidegger avrebbe dato vita ad un’idea di libertà che non è più la «libertà di un volere» di Kant (nemmeno però quella aristotelica di «attuazione volontaria di azioni») ed è invece «apertura dell’Esserci umano», «possibilità di comportarsi in un mondo» e quindi anche «apertura di questo mondo». La libertà quindi non sarebbe soltanto «un affare degli uomini» perché «appartiene piuttosto all’essenza del mondo» (ivi, p. 411). Il problema è che se la “filosofia della libertà” si fa ontologia, come sostiene l’Autore, in quanto libertà dell’Essere, ha più il sapore della necessità, mentre la libertà umana si tramuterebbe nel comandamento necessitato imposto dall’Essere. La questione che si pone è: ha senso una libertà senza soggetto, o meglio, una libertà senza individuo? Senza un “chi” cui imputare una scelta, che può essere ad esempio quella fondamentale tra il bene e il male, che ne è della libertà? Forse usiamo quello che è il più umano dei concetti per rendere metaforicamente l’incondizionato accadere dell’essere e forse ne stiamo facendo, ancora una volta, una questione troppo umana. Sulla definizione di Heidegger come filosofo della libertà pesa poi il gesto irredimibile della sua adesione a quel regime di nonlibertà che fu il totalitarismo nazionalsocialista. 142

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per la concezione guida di tutti gli altri enti (non-divini). Con l’aiuto della dottrina platonica delle idee si sviluppano il concetto moderno di ragione, l’era dell’illuminismo e il dominio della razionalità e così pure il movimento opposto del classicismo e del romanticismo tedesco»143. Non da ultimo l’idea platonica è all’origine della costituzione delle visioni del mondo e della «dottrina dell’ideologia»144. L’inizio platonico è gravido di storia. L’idea platonica è una radice visibile, caratterizzata da quel “vedere” (ñrân, êdeîn) che reca scritto nel nome, a sua volta fondamento delle possibilità conoscitive (il noeîn) costruite anch’esse su analogie visibili. Pur tuttavia nella distinzione che Platone introduce tra le due dimensioni del visibile e dell’intellegibile, l’idea si trova confinata in questa seconda che, in opposizione alla prima, è spesso presentata come il luogo dell’invisibilità, della mancanza di apparenza. Idea è certamente un nome astratto, forse tra i primi che la filosofia ha acquisito nel proprio corredo concettuale. Le astrazioni devono di necessità sospendere temporaneamente la validità dell’apparenza perché, essendo in essa adombrate, vanno scorte solo quando si giunge al nocciolo della sensibilità. Le idee si trovano dentro, non sopra il sensibile, e vengono identificate dopo la percezione immediata che, rarefacendosi, si scopre nella propria essenza irriducibile. L’idea di ogni evento è ciò che rimane al fondo. Il sensibile non è mai annientato perché racchiude quanto in ogni processo conoscitivo detiene il privilegio della priorità spaziotemporale. L’idea giunge dopo l’esperienza sensibile primaria, è per questo «qualcosa d’altro rispetto all’ente», ed è scorta mediante un processo di penetrazione che attraversa ogni grado della sensibilità, ovverosia di ciò che appare in prima istanza. «L’idea è ciò che è avvistato, che si può vedere, che è essenzialmente riferito ad un vedere, non è qualcosa che se ne sta per aria, ma è visibile e scorgibile solo in quel vedere e guardare che come tale scorge il visibile […] Ciò che deve essere scorto sul piano

Vom Wesen der Wahrheit, pp. 324-325; tr. it. p. 359. Ivi, p. 325; tr. it. p. 360 e «Die Zeit des Weltbildes», in Holzwege, GA V, a cura di F.-W. von Herrmann, Frankfurt a. M., 1977, p. 84 (si cita dall’edizione Klostermann del 1952); tr. it. di P. Chiodi, «L’epoca dell’immagine del mondo», in Sentieri interrotti, Firenze, 1994, p. 90. Si segnala anche la nuova traduzione di V. Cicero, Holzwege. Sentieri erranti nella selva, Milano, 2002. Cfr. A. Le Moli, Heidegger e la teoria platonica delle Idee. Aspetti ermeneutici e questioni critiche, in «Giornale di metafisica», 2 (2000), pp. 283-313. 143

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più alto esige lo scorgere più profondo. Il più alto e il più profondo: l’uno non è senza l’altro»145. L’idea non revoca la sensibilità, semmai la approfondisce nella sua più vera natura. Essa dunque non sospende nemmeno il valore della visibilità: e come potrebbe essendo essa stessa, nella radice, un visibile? Platone non parla forse di un arrivare a scorgere le idee? Si vede solo ciò che può essere visto. L’invisibile non si vede, nemmeno con gli occhi della mente. è vero che i momenti gnoseologici superiori descritti nel mito della caverna, corrispondenti all’apprensione dell’idea di bene, sono costruiti per analogia al processo gnoseologico precedente. Ma questa costruzione simbolica conferma e non contraddice la forte componente visibile nella natura dell’idea stessa. «L’idea è legata essenzialmente allo scorgere (Erblicken), e non è niente al di fuori di questo scorgere». Il vedere, nota Heidegger, è il «senso eccelso» per i Greci, perché attraverso la vista le cose sono colte nella loro perfezione, vale a dire nella loro «immediata presenza». La vista delimita, stabilisce il confine della percezione e rende conforme a tale apprensione anche la figura delle cose, a sua volta limite ontologico del loro apparire: ciò «spiega perché il senso della vista offra il filo conduttore per il significato del conoscere, cioè perché il conoscere non sia un udire o un annusare, ma, in questa corrispondenza, un vedere»146. Idea allora non è l’invisibile (lo è momentaneamente, fintantoché non si vede): è al contrario il “massimamente visibile”, ossia ciò che in sé è più chiaro e che, in base a questa chiarezza, può rischiarare con la propria luce il mondo che rimane in ombra, offrire quella che Heidegger ha chiamato una “veduta”, una prospettiva sull’essere a partire dalla quale le cose sono illuminate e appaiono più essenti, più vere, più vive. L’idea introduce nel mondo un accrescimento logico, valutabile attraverso una comparazione positiva rispetto ad un primitivo e più oscuro mani-

145 Vom Wesen der Wahrheit, §§ 6 e 14, pp. 48 e 111; tr. it. pp. 73 e 138. Nel corso sul Sofista Heidegger annota: «Bisogna disabituarsi ad applicare alla filosofia platonica l’orizzonte scolasticistico, come se in Platone ci fosse, da una parte, la sensibilità e, dall’altra, il soprasensibile. Platone ha visto quanto noi il mondo in maniera semplice, però, rispetto a noi, in modo molto più originario» (Platon: Sophistes, § 79, p. 580). Sulla connotazione visiva dell’idea si vada anche A. Boutot, «L’interprétation “optique” de l’être et du connaître chez Platon», in Id., op. cit., pp. 115-125. 146 Vom Wesen der Wahrheit, § 13, pp. 104 e 102; tr. it. pp. 131 e 128-129.

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festarsi. «La veduta, êdéa, dà dunque l’“in quanto che cosa” una cosa si presenta, ossia ciò che una cosa è: il suo essere»147. La medesima radicale visibilità è conservata anche nell’altro nome dell’idea, nell’eidos che in alcuni dialoghi, tra cui il Sofista, sostituisce l’uso di idea e che anche Heidegger assume come suo sinonimo. L’eidos, come l’idea, si trova sempre al fondo delle cose particolari. Si trova ad esempio alla radice di eidōlon, l’immagine, qualcosa che non è quel visibile ma sembra averne l’aspetto (Aussehen è la traduzione heideggeriana di eidos, talvolta scritta Aus-sehen, “e-videnza”). L’immagine è una ripetizione dell’eidos, ma ripetere l’eidos significa anche duplicarlo, oppure farne qualcosa di diverso rispetto all’originale. La scissione di questo nucleo concettuale originario è però la nascita del mondo della pluralità, della varietà, della molteplicità delle forme-immagini rispetto all’unica forma-archetipo. Separare gli eidē è inoltre il compito critico del pensiero dialettico che taglia in due i concetti e poi li raccoglie in sintesi in un’unità di senso148. Non si può dunque dire frettolosamente che gli eidōla sono falsi: essi sono veri (alētha) ma di una verità che certo è altra cosa rispetto al più univoco esser-vero del modello. Questa univocità dell’eidos è ciò che Heidegger chiama l’essere massimamente svelato, essere il più vero. Tutto ciò che si sdoppia, che prende altra forma, è costretto a subire suo malgrado il rischio dell’ambiguità, della polisemia, dell’equivocità: è il rischio di essere confuso per una cosa che in fondo non è. Anche nella fenomenologia dell’eidos si riscontra però una ambiguità originata dalla polisemia del nome. Rispetto al “che cos’è?” socratico, l’eidos platonico, l’“aspetto”, contiene un’accentuazione del modo attraverso il quale una cosa si mostra, «“come che cosa” qualcosa si mostra in se stesso», un modo più radicale del domandare ontologico che non chiede più “che cosa è questo?” ma “come si mostra questo?”, intendendo mostrare attraverso quel “come” l’essere dell’ente. Se si è legittimati a parlare di una “dottrina platonica delle idee”, la ricerca relativa al “che cosa è l’idea” deve risolversi nel «domandare dell’essere dell’ente»149. L’eidos rende visibile questo differire di ente ed essere ma lo Ivi, § 6, p. 51; tr. it. p. 76. Ivi, § 9, p. 68; tr. it. p. 94. 149 Grundbegriffe der antiken Philosophie, § 33, pp. 96-98; tr. it. pp. 177-179. Nella trascrizione di Hermann Mörchen si legge: «εMδος non significa solo “aspetto”, ma anche “forma”. La forma non è composta con i pezzi dell’intero, ma è la legge della combinazione e della combinabilità delle parti; 147 148

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fa in modo molteplice, giacché può essere colto come “forma”, “legge”, “intero ordinato”, “norma”, “ciò che è stabile”. L’idea è la radice veramente visibile delle cose. è a sua volta visibilità e, in una certa misura, apparenza. Quando si dice apparenza, in quello che tradizionalmente si identifica come il sistema platonico, si intende quasi sempre una dimensione approssimativa, se non addirittura falsa. In verità l’apparenza e la sua fenomenologia (la doxa, il phantasma) sono modalità di un medesimo mostrarsi (il phainesthai) che avvolge in unità i cosiddetti visibile e intellegibile. Tutto è apparenza, fenomeno, non meno l’idea stessa che senza mostrarsi da sé, schiudersi, disvelarsi, non potrebbe essere scorta. Ciò che muta e segna la differenza tra le diverse dimensioni del pensiero è semmai l’entità di tale mostrarsi, il suo essere “più o meno” totale nell’opinione, nelle illusioni, nelle ombre, nei sogni, e chiaramente squadernato invece nell’idea. Così quest’ultima può essere definita come “massimamente visibile” perché “massimamente svelata” (alēthestatē). La superlativa perfezione dell’idea è garante della possibilità di comparazione con enti particolari che si avvicinano alla sua compiutezza soltanto in modo approssimativo. La lettura heideggeriana, che pure si fregia di non partire da opinioni consolidate sul pensiero platonico o, peggio, dal platonismo come visione del mondo, si raccoglie, soprattutto per quanto riguarda l’interpretazione di “idea”, intorno a dei punti fissi che, spingendo avanti nel tempo la nozione di Platone, nella storia delle sue riprese e dei suoi fraintendimenti, corrono il rischio di essere non meno svianti. L’attenzione di Heidegger si concentra in particolar modo sulla êdéa toû Þgaqoû, la cosiddetta “idea di bene”, che è «qualcosa di sommo», «massimamente essente» e «massimamente svelato». La condizione essa non è somma e risultato, bensì legge, ed è quell’antecedente in relazione al quale un singolo “questo qui” (dies da) è formato. Essa è principio, criterio, regola, norma. Il concetto di idea contiene dunque molteplici determinazioni. L’idea c’è già sempre per ogni singola entità formata: è l’antecedente e lo stabile. Essa è il perenne e l’immutabile, ed è dunque per i Greci ciò che è conoscibile in senso stretto e unico, giacché posso conoscere solo ciò che è sempre. Questa concezione fondamentale dell’essere-ordinato emerge ovunque nell’esperienza: il cielo, il globo, eccetera; e anche nella medicina, dove la salute è ciò su cui si orienta la ricerca medica. La salute non è uno stato casuale, bensì l’idea […]. L’idea è l’3ntwj 3n, l’“ente autentico”, che è essente come solo esso può essere» (ivi, pp. 252-253; tr. it. pp. 350-351). In questa ultima accezione l’idea, l’eidos, è «un trascendente» (ivi, § 33, p. 97; tr. it. p. 179).

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superlativa dell’idea di bene genera contraddizione nel momento in cui l’idea somma sembra venire a stare sopra tutte le altre idee, comprese quelle di essere e di verità. Di conseguenza essa viene ad essere condizione di possibilità sia per l’essere sia per la verità, ossia è condizione di possibilità per se stessa. L’essere condizione dell’accadere di essere e verità rende l’idea stessa una “possibilità”, un “essere in potenza” (dynamis; Macht). Il punto decisivo della lettura heideggeriana è questa ulteriorità dell’idea rispetto all’essere e alla verità, e la sua trascendentalità che la espone a divenire causa efficiente (aitia) di una produzione fabbrile (Machenschaft)150.

5. Agathon L’idea di bene è un «giogo» sotto il quale cade la visibilità, da intendersi sia come «la facoltà del vedere» sia come «la facoltà e la possibilità dell’esser visto»151. Entrambe queste facoltà sono dynameis152. Il bene non è però esso stesso dynamis (potenza o possibilità) ma hexis, «ciò che ha il carattere di conferire potere»: «l’Þgaqón ha il carattere della 6xij, di ciò che può, ossia di ciò che porta con sé il potere primo e ultimo»153. L’unica dynamis dell’idea è conferire dynamis alle cose particolari. L’idea che impone il giogo è a sua volta soggiogata. Essa esercita dunque un dominio perché funge da condizione a priori del conoscere, nella duplice facies della proprietà attiva e della proprietà passiva (il vedere e l’esser-visto). Il suo giogo è tuttavia vincolato: essa stessa patisce in un certo senso il vincolo della visibilità, assumendo la facoltà di cui è garanzia per divenire oggetto di conoscenza. Heidegger traduce in vario modo il «significato autentico e originario» di agathon. Nel corso sulla Essenza della verità è reso con «ciò che è idoneo a qualcosa e rende idoneo qualcos’altro con cui si possa iniziare qualcosa; “bene!” significa: “si fa! è deciso!”». La rivendicazione di questa originaria e autentica, nonché risoluta, idoneità intende porre termine a qualunque identificazione del bene così compreso con Vom Wesen der Wahrheit, § 12, p. 99; tr. it. pp. 125-126. Ivi, § 13, pp. 101-102; tr. it. p. 128. 152 Plat. Rsp. 507c. Platone però distingue anche la prima come sensazione (asqhsij) e la seconda come facoltà (dúnamij) (cfr. ivi, 507e-508a). 153 Vom Wesen der Wahrheit, §§ 14 e 13, pp. 106 e 105; tr. it. pp. 133 e 131. 150

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la nozione di “bene morale”, che costituirebbe un restringimento di campo di una polisemia più ampia. Bene è, secondo il senso greco, «ciò che è valido, ciò che si fa valere, che resiste»154. è quello che pensiamo quando ad esempio, dice Heidegger, compriamo un paio di sci e vediamo che “vanno bene”, che calzano, che sono fatti di un materiale resistente e che risultano perfettamente funzionali all’uso per il quale sono stati prodotti. Si tratta di una funzionalità che non si limita a stabilire una corrispondenza tra la fabbricazione di un oggetto e la sua destinazione d’uso, perché ci si aspetta che l’impiego sia un “buon impiego”, il miglior impiego possibile, ciò che fa la differenza di qualità tra un oggetto e un altro, sebbene entrambi siano stati fatti per assolvere alla medesima funzione. «’Idéa Þgaqoû: ciò che in assoluto va preferito a tutto, il sommamente pre-feribile (das Vor-züglichste)»155. La qualità delle cose è buona, la riuscita dei prodotti è buona, la resa dei materiali è buona. Il “buon uomo”, l’individuo non particolarmente dotato né intelligente, è anche un “buono a niente”: l’uomo buono dell’etica è soltanto una nozione derivata. è singolare constatare che il significato primigenio della parola “bene” si conserva pressoché intatto nel linguaggio ordinario: che le cose vadano bene ha poco a che fare con qualunque valutazione morale. Nelle lezioni del ’26 si trova stabilita invece, seppur in modo frammentario, la relazione tra il bene così inteso e la «utilità» (ōpheleia), nozione a cui le pagine precedenti alludono, senza mai renderla esplicita. Questa connessione è lì precisata perché è chiaramente detto che l’agathon è «l’essere [...] compreso in quanto ente»156. Bene è «in vista di cui» (Umwillen, Worumwillen, um dessentwillen), “fine” (telos e peras) verso cui l’ente tende157. Ciò verso cui un ente tende è il proprio essere. Ivi, § 14, pp. 106-107; tr. it. p. 133. Grundbegriffe der antiken Philosophie, § 34, p. 106; tr. it. p. 188. 156 Ivi, § 49, pp. 140-141; tr. it. p. 225. Cfr. trascrizione Mörchen (ivi, pp. 283-284; tr. it. p. 384): «L’Þgaqón non è una determinazione ontologica pura […] Chiamare l’essere Þgaqón significa misconoscere l’essere». 157 Platon: Sophistes, § 16, p. 122: «Questo málista æpisthtón, che conferisce al massimo grado al sapere un’autentica configurazione, è ciò che è còlto quando si tratta di acquisire gli ultimi orientamenti all’interno dell’ente, quando si tratta di vedere per quale ragione (weshalb) questo o quello deve accadere. Quest’ultimo “per questa ragione” o meglio ultimo in-vista-di (letzter Worumwillen), o 6neka, è in quanto téloj sempre un Þgaqón». Il passo commenta Aristotele, Metafisica A, 2, 982b4-10, tr. it. di G. Reale, Milano, 154 155

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Ogni ente che è in vista dell’essere è buono. Il bene è dunque anche un metro che misura il “ne va” di ogni ente, la sua qualità di essente. Di conseguenza il parametro secondo il quale si decise della “qualità”, del “valore” dell’essere è l’ente stesso che ad esso mira. L’idea di bene gode, rispetto alle cose di cui è condizione, di una trascendenza. In quanto hexis, capacità di conferire potere, in quanto garante del nascere e del perire di ogni cosa, essa non è né l’uno né l’altro: è sottratta almeno al giogo del divenire. Si trova dunque nell’“al di là” (epekeina) e al di sopra dell’essere delle cose sottoposte al ciclo di nascita e morte come «venire-all’essere» e «svanire-dall’essere»158. Il suo essere sta al di sopra dell’essere degli enti. Così come è ulteriore anche rispetto al loro mostrarsi, al loro disvelamento, alla loro verità. Non si tratta però di una trascendenza assoluta ma di volta in volta condizionata, relativa all’accadere di ogni singolo ente. Il «sovrastare» dell’idea somma non è un semplice «stare più in alto e al di sopra», essere in qualche luogo e sussistere da sé indifferentemente. «Sovrastare nel senso dell’idea» è tenere sotto il proprio giogo l’essere e la verità degli enti particolari. «Nella misura in cui però essere-idea vuol dire conferire il potere di essere e rendere manifesto l’ente, questo sovrastare proprio dell’idea del bene significa che questa idea sovrasta in generale l’essere come tale e la verità»159. Si apre a questo punto la massima aporia: come può qualcosa che Platone qualifica come “massimamente essente” e “massimamente vero” stare al di sopra dell’essere e della verità? Sarebbe come voler dire che il bene sta al di sopra di se stesso, aprendo la via ad una trascendenza non solo assoluta ma infinita. Se tutto ciò che sappiamo di ogni ente, idee comprese, è un sapere relativo al loro essere e al loro esser-vero, dove e quando si arresta questo processo di trascendimento continuo che va oltre ciò che dell’ente-idea possiamo sapere? Esiste forse un garante ulteriore per lo stesso concetto di agathon? Ma se così fosse l’idea perderebbe la propria condizione di massimamente essente e vero, perché oltre se stesso ci sarebbe un altro, più essente e più vero. La perfezione assoluta di quest’ultimo renderebbe condizionata e relativa la perfezione dell’idea somma. 2003 (d’ora in poi citata con l’abbreviazione Arist. Met.): «la più elevata delle scienze [...] è quella che conosce il fine per cui (tínoj 6neken) vien fatta ogni cosa; e il fine, in ogni cosa, è il bene (tÞgaqòn), e, in generale, nella natura tutta, il fine è il sommo bene (tò \riston)». 158 Vom Wesen der Wahrheit, § 14, pp. 107-108; tr. it. p. 134. 159 Ivi, § 14, p. 108; tr. it. p. 135.

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L’agathon è invece «ciò che conferisce il potere di essere», senza condizione, e «ciò di cui ne va prima di ogni essere, per ogni essere e per ogni verità»160. Nei pochi cenni che Platone concede alla descrizione dell’idea di bene – si ricordi la riluttanza di Socrate a parlarne – si apprende che essa è kuría, «sovrana», e non ammette altro al di sopra di sé, «fine e compimento» (teleutaía), «causa originaria» (aêtía), «forza efficiente» (kúrion), «fondamento» e «origine» (ÞrcÔ)161. Heidegger ritiene che cercare con zelo negli altri dialoghi la soluzione a queste aporie, oppure una definizione più compiuta delle idee o ancora un possibile loro superamento (l’ipotesi dell’Uno del cosiddetto Platone esoterico) equivalga ad un fraintendimento di Platone. Non si può rinunciare all’idea e al suo eventuale sistema perché ciò corrisponderebbe all’abbandono della filosofia che ha pur bisogno di idee sulle quali e attraverso le quali ragionare: «ogni volta che si domanda dell’essere e della verità, si ha di mira il “bene”», precisamente il riconoscimento di quella idoneità funzionale che si applica ai nostri pensieri non diversamente dalle cose162. Le idee sono buone, i pensieri sono buoni, il ragionamento è buono, le domande sono buone. Talvolta anche le risposte, quando in filosofia si danno. L’agathon «non può essere pensato e colto in un sol colpo», non è il risultato di un’intuizione immediata e magari mistica ma ogni volta comprensibile a frammenti, risalendo i singoli gradi delle scienze particolari per pervenire a «ciò che è primo e ultimo», ciò che è residuale ma che costituisce il fondamento comune di tutto l’ente163. Per questi motivi rinunciare all’idea somma, all’idea delle idee, implica una rinuncia alla filosofia: comporta la rinuncia alla ricerca inesausta di questo elemento comune che Eraclito ad esempio aveva chiamato logos e che era capace di legare ogni cosa, perfino gli opposti. «Il bene è ciò che conferisce il potere, la dúnamij, che rende possibili l’essere e la svelatezza nella loro essenza. Detto diversamente: ciò che importa nel domandare dell’essere e della svelatezza è ciò che conferisce a essi il potere di pervenire alla loro essenza. Che cosa sia ciò e in che modo accada, è una domanda che a tutt’oggi non ha ricevuto risposta; Ivi, § 14, p. 109; tr. it. p. 136. Plat. Rsp. 517c4, 517b8, 517c2, 511b7; Grundbegriffe der antiken Philosophie, § 34, pp. 105-106; tr. it. pp. 187-188; Vom Wesen der Wahrheit, § 14, p. 109; tr. it. p. 136. 162 Vom Wesen der Wahrheit, § 14, p. 110; tr. it. p. 137. 163 Ibid. 160 161

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non solo, ma che non è più nemmeno stata posta in senso originariamente platonico. Nel frattempo essa è diventata quasi una banalità: omne ens est bonum. Per chi domanda filosoficamente, Platone dice anche troppo. Per chi invece vuole solo stabilire che cos’è il bene per il proprio uso e consumo, egli dice troppo poco, anzi non dice proprio nulla. Con quello che c’è scritto, infatti, se lo si prende così com’è, non si arriva da nessuna parte. Solo al domandare filosofico questa illuminazione dell’idea del bene dice qualcosa»164. L’idea di Þgaqón, l’idea delle idee, è «ciò che è atto a qualcosa e che rende atto a qualcosa»165, “bene” purché lo si intenda come garanzia o condizione dell’apparire di ogni cosa per ciò che è. Con questa definizione Heidegger intende distinguere nettamente il concetto platonico dalle sue interpretazioni moderne, che ne hanno fatto sinonimo del bene morale o del valore. In Platone tuttavia, e significativamente nel testo della Repubblica, vige un’intersezione tra ontologia, logica, etica e politica, per cui difficilmente si può esperire un significato esclusivo dell’idea somma che è tale non soltanto perché costituisce il fondamento inconcusso dell’apprensione conoscitiva ma anche perché funge da criterio intangibile dell’azione umana pubblica, che eccede il puro ambito gnoseologico, privato e individuale, sebbene quest’ultimo goda senza dubbio di una priorità sostanziale perché l’agire sia rettamente indirizzato. La lettura heideggeriana sembra attingere alla definizione della giustizia come tò tà a÷toû práttein, “fare il proprio dovere”, nel senso di agire conformemente alla propria natura e portare a compimento la propria essenza. La giustizia tuttavia non è l’idea suprema, la “più vera”, perché è in primo luogo una aretē, qualifica l’eccellenza umana di compiere ciò che è in proprio potere eseguire. Diversamente l’agathon è l’idea in quanto «conoscenza massima» (mégiston máqhma), «maggiore della giustizia» (meîzon dikaiosúnhj) e di tutte le cognizioni particolari analizzate nelle fasi precedenti del dialogo166. Il “bene” in quanto essere atto a qualcosa diviene “giusto”; mentre il “rendere atto”, che effettivamente richiama una fondazione anteriore, nel senso della condizione prioritaria che, sulla base della propria esistenza, rende possibile l’esistenza e l’essenza di altro, contiene un riferimento esclusivo all’esser causa che è uno, ma non l’esclusivo signi164 165 166

Ivi, § 14, p. 111; tr. it. p. 138. Platons Lehre von der Wahrheit, p. 29; tr. it. p. 182. Plat. Rsp. 505a e 504d.

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ficato di agathon, ed inoltre si richiama ad un concetto di “finalità”, nel senso dell’essere compiuto delle cose, che Platone non sembra aver propriamente di mira in questo contesto. Il “bene” è, evidenzia l’interpretazione heideggeriana, êdéa teleutaía, rimanda dunque ad un fine in quanto compimento, e questo perché «in essa si compie l’essenza dell’idea, cioè comincia ad essere (wesen), nel senso che da essa e solo da essa scaturisce, la possibilità di tutte le altre idee»167. Questo fine cui tende il conoscere è al contempo «causa originaria» (Ur-sache, aêtía), ciò da cui promana ogni singolo e concreto determinarsi dell’essente, che trova in questa origine essenziale e finalità gnoseologica il punto di raccolta della sua pluralità168.

167 168

Platons Lehre von der Wahrheit, p. 30; tr. it. p. 183. Ivi, p. 31; tr. it. p. 184.

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CAPITOLO TERZO Lo statuto della non-verità Nel quarto ed ultimo stadio descritto nel mito della caverna si assiste al ritorno nella caverna del liberato per farsi a sua volta liberatore degli altri incatenati. Accade che «il liberatore porta con sé una distinzione (Unterscheidung)». Tornando dalla chiara luce dell’idea somma, il liberatore si fa annuncio di una differenza: fa vedere la separazione tra la verità e la non-verità. L’essere-nella-caverna è il primo modo di essere al mondo dell’umano, nel quale già si è nella svelatezza senza averne tuttavia chiara comprensione. Manca a questa condizione iniziale la capacità di distinguere (l’essere dall’ente, il vero dal non-vero) e si assume come unica misura il «metro della quotidianità». La «essenza della verità della quotidianità» poggia su questa incapacità di discernere (assenza di phronēsis, di avvedutezza, i. e., platonicamente, mancanza di pensiero), e dunque di cogliere il profondo e originario legame tra velatezza e disvelamento169. Il liberatore allora mostra al contempo proprio come questa distinzione alluda anche ad una loro «coappartenenza», alla necessità che il pensiero dell’una comporti di riflesso il pensiero dell’altro. Non solo, annota Heidegger, Platone sapeva che «la non-verità è l’antagonista della verità», ma molti dialoghi della maturità «non hanno per tema nient’altro che la non-verità»170. La parola e il concetto “verità” sono ambigui: mostrano qualcosa di diverso da ciò che è immediatamente comprensibile nella nozione comune di vero. Tesi centrale del pensiero heideggeriano è però la radicalità di questa ambiguità, non legata soltanto agli usi e agli abusi che nel corso della storia sono stati compiuti. La verità accade da sé, è per l’umano (nel senso di rivolgersi a) e non ad opera dell’uomo. Il punto è ora quale destino ha, all’interno dell’accadimento della verità, la nonverità. Quale relazione la alētheia mantiene con ciò che si configura come il suo positivo: l’oblio, la dimenticanza, il nascondimento? «Se l’essenza della verità è svelatezza, allora il metro per il fondamento, l’ori169 170

Vom Wesen der Wahrheit, § 3, p. 28; tr. it. p. 52. Ivi, § 11, pp. 91-92; tr. it. pp. 117-118.

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gine e la genuinità della domanda sulla svelatezza riposa nelle modalità della domanda sulla velatezza»171. L’autenticità della questione della verità si fonda sulla questione della non-verità. Per autenticità non è da intendersi un parametro di valutazione basato sulla corrispondenza di caratteri già decisi dall’inizio: l’oro autentico è quello non falso perché risponde a criteri valutativi inoppugnabili. L’autenticità esprime una pertinenza: alla verità pertiene la non-verità, la porta inscritta nel nome greco, in quella formula negativa (a-lētheia, non-nascondimento) che riflette l’essenza del positivo (il nascondimento). La domanda sull’essenza della verità è dunque: di che cosa la alētheia è negazione? Ovvero: che cos’è non-verità? A questa domanda Heidegger indica una risposta nell’interpretazione del Teeteto, che si trova analizzato nei corsi platonici del 1926 e del ’31-’32.

1. La fenomenologia indiretta del Teeteto Il Teeteto è un testo complesso e stimolante. Partito dalla volontà di dimostrare cosa sia la “scienza” o il “sapere” (epistēmē), si conclude con il dichiarare inconsistente ciascuna definizione abbozzata nella discussione. L’essenza dello scritto consiste forse proprio in questa fenomenologia del negativo (che cosa non è sapere o non è l’“idea” di sapere) e in alcune considerazioni relative al non-essere, al falso e al diverso che fanno da preludio alla grande discussione del Sofista. Oltre a queste riflessioni teoreticamente seducenti, il Teeteto presenta anche alcuni dei più celebri contenuti della filosofia socratico-platonica: la similitudine tra l’arte della levatrice e l’opera maieutica di Socrate, il pensiero che la filosofia nasca dalla meraviglia, l’opportunità per il filosofo di tenersi lontano dalla piazza e dai tribunali, il racconto della caduta di Talete in un pozzo e il riso della servetta tracia, infine il lungo commento al detto di Protagora sull’“uomo misura di tutte le cose”. Nel mezzo si intervallano le analisi delle tesi ontologiche dell’eraclitismo e dell’eleatismo e l’introduzione di metafore divenute poi famose nella letteratura platonica, quali le analogie tra l’anima e la tavoletta di cera e la colombaia. Le tesi dibattute intorno all’essenza del sapere sono sostanzialmente tre: sapere non è sensazione, non è opinione falsa e non è opinione vera accompagnata da dimostrazione (logos). Il procedimento socratico mira 171

Ivi, § 17, p. 124; tr. it. p. 152.

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a mantenere valida per una parte del dialogo ciascuna di queste tre definizioni finché, sul fondamento dei risultati conseguiti nella discussione, ognuna non sveli la propria aporeticità. Accogliere la tesi secondo la quale sapere è sensazione è lecito fintantoché non sia chiaro che la sensazione può sì fungere da raccolta di impressioni sensibili che la mente poi esamina, ma che la conoscenza non può esaurirsi in una somma di sensazioni. La mente conosce e pensa anche in assenza di percezione sensibile, perché si serve del ricordo delle esperienze o perché riflette sull’essere e sulla verità che non dipendono dalla verifica empirica. Ammettere che sapere e sensazione coincidano significa anche accettare che scienza e apparenza sono lo stesso: se sensazione è sempre “mia sensazione” – il fatto che io sento qualcosa e ne ho per questo esperienza – è escluso che si possa avere un’idea generalmente condivisa. Nessuno può sentire al posto mio. A fondamento di questo discorso si radica una teoria della relazione che esclude la nozione dell’in sé e si fonda sull’esperienza privata ed individuale secondo la quale qualcosa è sempre in rapporto ad un altro (è per me, per te) e non appare al di fuori di questa connessione. A questa teoria si connette inoltre una dottrina del divenire, specie di origine eraclitea, che esclude l’essere come quiete e afferma invece il divenire di tutte le cose. Se tutto diviene, nulla può essere conosciuto se non a rischio di inestricabili contraddizioni che vanificano innanzitutto la relazione conoscitiva: ciò di cui si ha scienza è sempre un non-essere-più e un non-essere-ancora e il soggetto stesso di tale conoscenza patisce a sua volta un inesausto movimento che lo porta ad essere sempre altro da ciò che dovrebbe essere (l’io agente del conoscere) e a non poter fissare in un nome né in un concetto ciò di cui dovrebbe avere scienza. Una concezione della epistēmē basata su questi presupposti è invalidata dai suoi stessi princìpi172. Il sapere può essere un’opinione purché si intenda per opinione un discorso dell’anima con se stessa, l’espressione di un pensiero173. Dalla discussione del frammento protagoreo emerge però che, in mondo di sapienti, un mondo cioè dove ognuno privatamente è misura di tutte le cose e può per questo avere scienza di tutto, si annulla la differenza tra la sapienza e l’ignoranza: si perde ogni parametro di comparazione 172 Platone, Teeteto 151d-186e, in Id., Tutti gli scritti, tr. it. di C. Mazzarelli, cit., pp. 191-260 (d’ora in poi citato con l’abbreviazione Plat. Tee.). 173 Ivi, 187a e 190a.

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perché nessuno è più sapiente di un altro e tutto è scienza. Poco valore ha dire che la scienza sia «pensiero vero» e l’ignoranza «opinione falsa» in quanto si ha sempre pensiero ed opinione di ciò che si conosce174. Il falso non può essere identificato con il non conosciuto perché l’ignorare compromette ogni giudizio di verità e di falsità. Altra cosa è dire invece che non conoscere è non riconoscere: si ha un’idea di qualcosa ma sul piano empirico la si confonde con qualcos’altro. Il falso non coincide nemmeno con il non-essere perché si pensa e si opina sempre a proposito di un ente, di qualcosa che esiste: «chi opina un non-ente, nulla opina» e dunque «opinare il falso è una cosa diversa dall’opinare il non-ente»175. Il falso non si risolve neanche nel diverso, come differenza di una cosa rispetto ad un’altra. Non basta dire che la falsità è differente perché, se si pensa ad una cosa, non si pensa a ciò che quella cosa non è, ad un altro da sé. In ultima istanza non è condivisibile nemmeno la tesi secondo cui sapere sia opinione vera con dimostrazione. Ciò perché innanzitutto, come dimostra il caso precedente, non si coglie l’essenza del sapere come opinione falsa in quanto il sapere è diverso dall’opinione, in secondo luogo perché la nozione di “dimostrazione” non è univoca: è sinonimo di parlare, di descrizione analitica e, infine, di «scienza della differenza»176. In quest’ultimo caso l’essenza della scienza deriva dall’essenza della differenza. Come dunque le definizioni di “scienza della sensazione” e di “scienza dell’opinione” dilazionano in altro il concetto di sapere, la medesima obiezione è da muovere alla “scienza della differenza”, che ricade su se stessa e si dispone ad una fenomenologia del diverso che il Sofista, prosieguo ideale del Teeteto, si propone di dipanare. Tutto il dialogo sembra cadere sotto il segno della negatività: nulla di ciò che è analizzato trova una definizione certa. In verità nell’esibizione del negativo è detto molto anche in termini positivi, con la caratteristica però che questo contenuto positivo non è esplicitamente espresso ma mostrato indirettamente, attraverso una funzione del logos che Platone chiama analoghizesthai, «calcolare andando su e giù» e perciò parlar analogicamente, cioè far conto di rapporti esistenti e di relazioni possibili tra le cose177. Di positivo si apprende ciò che pertiene al 174 175 176 177

Ivi, 170c. Ivi, 189a-b. Ivi, 210a. Ivi, 186a e Vom Wesen der Wahrheit, § 32, p. 219; tr. it. p. 252.

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sapere: la scoperta e la custodia dell’essere nella verità, la comprensione, la funzione della mente e del ragionamento, i significati di logos178.

2. Eterodossie e allodossie Dovrebbe risultare chiaro, soprattutto da quanto analizzato discutendo della verità, che quando Heidegger parla di verità e non-verità non intende limitarne l’impiego all’interno di una dottrina della conoscenza. La differenza tra verità dell’ente e verità di giudizio dice molto più di quanto sembri: dice il differire della verità dell’essere rispetto alla verità del discorso, che è fenomeno derivato e limitato dinanzi all’attuazione del disvelamento dell’essere. Anche il fenomeno della non-verità va analizzato alla luce di questa intuizione fondamentale. Non giunge pertanto inaspettata la considerazione heideggeriana secondo la quale il Teeteto sarebbe molto più di un dialogo “gnoseologico”; esso possiede un’intonazione ontologica di fondo perché il suo contenuto è la domanda relativa all’essere dell’ente179. L’indagine diretta prevede un esame delle nozioni di “sapere”, “sensazione”, “opinione” e “discorso”. Il fatto che ciascuna conservi una «struttura intenzionale», che non si dia se non come sapere, sensazione opinione e discorso di qualcosa, enuncia però in modo diretto la sua relazione all’essere (il qualcosa è sempre un ente)180. Nello specifico l’ente di cui si ragiona è un «essere che può anche non essere», dunque il «non-ente»181. Il logos costituisce il modello comune a tutte le attività analizzate e dunque anche all’apprensione dei relativi fenomeni ontologici. Il logos impone alla epistēmē, alla aisthēsis e alla doxa la propria struttura relazionale e intenzionale; può operare una simile imposizione perché ciascuna si effettua metà lógou, attraverso il discorso182. In particolare la seconda definizione di sapere è straordinariamente carica di significati. In essa prende forma una struttura sintetica di logos che segna il superamento della logica tautologica di Antistene. Quest’ultimo riteneva che dire il falso era impossibile perché ogni cosa non ammette altro predicato al Grundbegriffe der antiken Philosophie, § 42, p. 123; tr. it. p. 207. Ivi, § 38, p. 112; tr. it. p. 195 e Vom Wesen der Wahrheit, § 20, pp. 151-152; tr. it. pp. 181-182. 180 Grundbegriffe der antiken Philosophie, § 40, p. 120; tr. it. p. 203. 181 Ivi, § 38, p. 112; tr. it. p. 195. 182 Vom Wesen der Wahrheit, § 40, p. 284; tr. it. p. 317. 178

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di fuori dell’identità. Platone introduce e fonda invece il carattere sintetico, combinatorio del logos che è “eterodosso”, si esplica cioè in un çterodoxeîn, un dire qualcosa di diverso rispetto all’identità, e dà vita ad una Þllodoxía183. Leghein è etimologicamente «raccogliere» prima di “dire”, «esporre qualcosa in modo raccolto e renderlo manifesto, e così mostrarlo ad altri», ancora «com-prendere qualcosa nei suoi riferimenti, connettere l’uno e l’altro in modo tale che entrambi, in questa com-prensione, si presentino e vengano alla vista come raccolti»184. Logos è sillogismo, a patto che si assuma questo termine come il semplice “tener insieme” all’interno di un discorso di senso compiuto e non ancora come figura della logica tradizionale. In effetti non si parla di eterologie o di allologie – questa particolare modalità linguistica di approccio allo heteron sarà tentata nel Sofista – ma di un logos particolare, la doxa, che diviene dire specifico dell’altro, appunto eterodossia o allodossia. Questo determinato modo di “dire” non si fonda su uno scambio (ad esempio sullo scambio di identità), quanto sul cambiare una cosa con un’altra. Perché questo cambio sia possibile è necessario che due oggetti si presentino insieme nel medesimo fenomeno, due apprensioni delle quali l’una è irriducibile all’altra e ciascuna è presa “al posto” dell’altra: «l’enigmaticità del fenomeno [della allodossia] sta chiaramente nel fatto che esso ha due oggetti, l’uno e l’altro. Fissato questo aspetto, si tratta di evidenziare e di comprendere come vengano posti l’uno e l’altro. La spiegazione è questa: l’uno viene posto in luogo dell’altro»185. Un dire che si fa viva esibizione di un’alterità, distinta da ciò che si coglie immediatamente, è caratterizzato da ciò che Heidegger definisce come «eccedenza». Eccedenza è un «essere di più» che si lascia cogliere186. Discutendo della prima tesi, quella secondo la quale il sapere è aisthēsis, viene esibito in maniera indiretta una differenza tra il contenuto direttamente comprensibile di una sensazione (vedere questo colore, udire questo suono) e la condizione ontologica del percetto, il suo essere 183 Plat. Tee. 189b-190c; Grundbegriffe der antiken Philosophie, §§ 44 e 48, pp. 128-129 e 138; tr. it. pp. 212-214 e 223. Cfr. A. D’Angelo, Antistene e il Teeteto di Platone in una Vorlesung inedita di Martin Heidegger, in «La Cultura», 2 (1988), pp. 286-318. 184 Vom Wesen der Wahrheit, §§ 28 e 32, pp. 198 e 223-224; tr. it. pp. 230 e 256. 185 Ivi, § 39, pp. 277-278 e 282; tr. it. pp. 311 e 316. 186 Ivi, § 26, pp. 186-187; tr. it. pp. 218-219.

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essente. L’eccedenza è dunque ontologica e il “di più” esibito indirettamente è l’essere di questo essente esperito sul piano sensibile. Non solo c’è un rinvio all’essere dell’essente, c’è anche un rimando all’essere in sé dell’essente e al suo differire rispetto ad altro (colore non è suono, udire non è vedere). Nell’eccedenza sono contenuti la differenza tra gli essenti e il loro essere-in-comune, il fatto cioè di avere qualcosa di condiviso (koinon). Questa «comunanza» è l’essere stesso diffuso in ogni cosa (dia tinos)187. La vera eccedenza è dunque l’essere, perché “eccede” ogni singolo ente; pur eccedendo però è in ogni caso comune a tutti. Anche i suoi caratteri, quelli che Platone chiama “essere” e “non-essere”, “uguaglianza” e “disuguaglianza”, “identità” e “differenza”, sono allora koina, comuni ad ogni essente188. La facoltà che coglie la natura di questa eccedenza e i suoi caratteri è l’anima (psychē), che ha la capacità di rapportarsi alla pluralità dell’essere così esperito (come identico e diverso, essere e non-essere, uguale e difforme) e raccoglierla in sintesi sensata. Questa facoltà è caratterizzata da una «tensione ontologica», da uno slancio erotico verso l’essere e verso la sua «preminenza onnicomprensiva» che contiene in sé la pluralità e che preesiste ad ogni intendimento concettuale: l’essere è immediato e senza concetto189. è chiaro ormai che ciò che Heidegger definisce “eccedenza” non è una semplice «aggiunta», qualcosa di superfluo che si incorpora in un secondo tempo alla prima percezione. Al contrario il vero eccedente è sempre «pre-dato» (Vorgabe), il «dato anticipatamente», la qualità primaria delle cose190. Quando nel Teeteto si discute di aisthēsis e doxa, nonché della loro possibilità di configurarsi come l’autentico sapere, si sta facendo questione proprio di una particolare comprensione dell’essere «aconcettuale», vale a dire di quella immediatezza di cui l’anima dispone nell’accostarsi all’essere in forme non teoretiche. La doxa, nello specifico, è un fenomeno della «vita irriflessa», della vita nel suo darsi concreto e preconcettuale che, come la sensazione, caratterizza lo specifico orientarsi dell’essere umano nel mondo e che a prima vista è interpretato come autentico sapere: sapiente è chi, per intuito o dono naturale, ha Ivi, § 27, pp. 188-190; tr. it. pp. 221-222. Plat. Tee. 185c-d. 189 Vom Wesen der Wahrheit, §§ 29 e 30, pp. 203, 202 e 207; tr. it. pp. 236, 235 e 240. 190 Ivi, § 33, p. 231; tr. it. p. 264. 187

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l’aria di sapersela cavare, di imboccare la strada giusta, di fornire risposte sensate191. Doxa è molto più che “opinione”: è in primo luogo «aspetto» o «immagine» (è un eidos), «onore», «gloria», «immagine pubblica». Decisivo è il legame che il nome intrattiene con l’apparire e, in particolare, con l’apparire in pubblico. Per il termine greco Heidegger propone la traduzione con «veduta» (Ansicht), che singolarmente ripropone la stessa scelta di “idea”. “Veduta” va intesa in duplice modo: nel senso in cui si dice “offrire una veduta” (quella ad esempio che si mostra in una foto) e “avere una veduta”, essere dell’opinione. Di conseguenza il doxazein non è solo “opinare”. Il verbo da cui deriva, dokein, significa innanzitutto “mostrarsi” a sé e agli altri. Antitetico a “nascondersi”, dokein allude ad un’esposizione, ad un’esibizione sulla scena pubblica assumendo un determinato aspetto, specifiche sembianze. Nel doxazein e nella doxa «c’è il mostrarsi di qualcosa, l’offrire-una-visione e soprattutto l’avere un aspetto», apparire cioè “in qualità di”192. I due significati di doxa, l’oggettiva veduta e il soggettivo essere della veduta che …, sono strettamente connessi perché la possibilità della “mia visione” è legata alla “visione” di qualcosa. Ciascuno dei due inoltre subisce un’ulteriore divisione interna: la visione di qualcosa può non corrispondere all’ente, può contraffarlo, occultarlo; lo stesso processo di distorsione si compie quando qualcuno sta offrendo la propria visione delle cose. Nella doxa agisce una «biforcazione» che si origina dalla molteplicità e dalla ambiguità del suo oggetto tematico, la visione offerta e l’avere una veduta193. Questa essenza biforcata si chiarisce nella distinzione dei fenomeni del «presentare» (Gegenwärtigen) e del «ripresentare» (Vergegenwärtigen)194. I due fenomeni descrivono la medesima relazione tra l’esserci umano e l’ente con l’implicita e fondamentale differenza che, mentre nel primo caso l’ente si fa incontro, nel secondo è l’esserci a muoversi incontro verso l’ente. Il primo momento è quello della cosiddetta percezione immediata, il diretto imporsi della presenza dell’ente. Nel secondo momento questa presenza “in carne ed ossa” non c’è: al suo posto c’è un ritornare della mente all’esperienza dell’ente una volta 191 192 193 194

Ivi, §§ 30 e 37, pp. 207 e 254; tr. it. pp. 240 e 287. Ivi, § 37, pp. 254-256; tr. it. pp. 288-289. Ivi, § 44, pp. 312-313; tr. it. pp. 346-347. Ivi, § 42, p. 296; tr. it. p. 329.

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presente. Il modo più diretto di etichettare l’esperienza della ripresentazione è quello di descriverlo come un’esperienza interiore ed equipararlo ad un ricordo. Ripresentare non è ricordare – o almeno non è solo questo. Nel ripresentare non c’è raccoglimento interiore, quanto al contrario un essere rivolti all’esterno, via da sé, proiettati verso l’ente. La presenza diretta e reale dell’ente fa sì che di esso si colga l’eidos, la forma, l’aspetto, nonché la sua essenza. L’eidos incontrato nella visione dev’essere in qualche modo conservato dalla mente: è necessario che quest’ultima si faccia della forma delle cose un eidōlon, un’immagine, quel “segno” impresso nell’anima da riattivare al momento opportuno. L’ente “immaginato” è conservato grazie alla ritenzione. Una cosa ritenuta è trattenuta per ulteriori, successive ripresentazioni. Ciò che si presenta nuovamente è però davvero sempre la stessa cosa presentata per la prima volta? Il ripresentare ha sempre bisogno di un «riferimento all’essere», di un «attenersi all’ente»195. Questo riferimento può difatti allentarsi e ciò perché può mutare l’ente che così diverge dalla nostra ritenzione, può l’esserci allontanarsi dall’ente ed infine è possibile, nella ripresentazione, dar libero sfogo all’immaginazione e così contraffare l’ente, farlo diventare altro. La biforcazione che interessa la doxa poggia su queste possibilità del ripresentare, il cui discostarsi dall’ente può avvenire per distinte responsabilità. Ciò che è determinante però, qualunque sia il motivo della separazione tra l’ente presente e l’ente ripresentato, è che nello scollamento avanza qualcosa che non è più l’ente reale ma “ha l’aria di…”, “dà l’impressione” di essere quell’ente196. Quest’ultimo non è più “cambiato” con un altro, come nella allodossia, ma letteralmente travisato: «lo yeûdoj della dóxa, la distorsione della veduta di qualcosa in quanto qualcosa, è concepito ora nel senso del travisare che, vedendo, manca»197. Il travisamento si attua perché la doxa stessa, conformemente alla sua struttura enigmatica e duplice, prepara il terreno su cui agisce la possibilità dello pseudos. Dell’ampio campo semantico di doxa l’elemento comune è certamente l’apparire (o sembrare) e il far apparire. La doxa è strutturalmente protesa a lasciar passare attraverso di sé la possibilità dell’altro, di qualcosa che è “altrimenti”, un «non-essere-così» (Nichtsosein), nonché 195 196 197

Ivi, § 42, pp. 298-300; tr. it. pp. 332-334. Ivi, § 45, p. 315; tr. it. p. 349. Ivi, § 45, p. 317; tr. it. p. 351.

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“altro da”, “altro da qualcosa”, “altro rispetto a qualcosa”198. Il dato più rilevante nell’analisi della doxa è la sua capacità di mostrare l’alterità come condizione di comprensione delle cose. L’interpretazione che “altro” sia “falso” è soltanto una tra le varianti possibili: se sarà compito del Sofista discutere della fenomenologia dell’altro, nel Teeteto si tratta invece di analizzare le possibilità delotiche della doxa, in virtù del carattere “logico” che la contraddistingue e, in secondo luogo, tentare una descrizione del fenomeno della non-verità partendo dal suo più immediato intendimento come pseudos.

3. Analitica della non-verità Il contrario della verità secondo l’uso greco è pseudos. Il primo dato rilevante è che mentre la formulazione della verità prevede una struttura negativa, quella del suo contrario, la non-verità è detta con un termine positivo199. Nello pseudos sono contenuti un «occultare» e un «far vedere»: i due termini non sono in contrasto tra loro perché, nel mentre si occulta, qualcosa si mostra, si mostra proprio questo occultamento, «un velare proprio per mezzo di un mostrare e di un far-vedere»200. Come il “non”, anche lo pseudos non si limita ad occultare perché mostra qualcosa: ciò che mostra è il carattere della negazione implicito nell’essere. All’essere appartiene il “non”. Senza questa fondamentale comprensione del carattere ontologico e fenomenologico della negatività, nulla si potrebbe intendere del fenomeno del “falso”: già definirlo “fenomeno” significa accettare implicitamente che in esso qualcosa si dà ed appare. Un ulteriore dato da registrare è che la verità è «strappata», conquistata a seguito di una «lotta» contro la velatezza. Ciò che si trova nella non-verità è per così dire anche custodito, posto al riparo, protetto da un’aggressione. Si è soliti tradurre il greco pseudos con “falso”. Se si assume l’unicità di questa interpretazione si accetta soltanto una variante della relazione tra verità e non-verità come verità e falsità nell’asserzione logica. Invece il «nemico della verità non sono solo la falsità e l’inesattezGrundbegriffe der antiken Philosophie, § 39, pp. 117-118; tr. it. pp. 200-201. 199 Platon: Sophistes, § 3, p. 16. Cfr. M. Inwood, «Truth and Untruth in Plato and Heidegger», in Heidegger and Plato. Toward Dialogue, cit., pp. 72-95. 200 Grundbegriffe der antiken Philosophie, § 43, p. 127; tr. it. p. 211 e Vom Wesen der Wahrheit, § 18, p. 136; tr. it. p. 164. 198

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za». La medesima ambiguità che Heidegger registra nella parola “verità” si riflette anche sul suo contrario. Ciò contro cui la verità è in lotta è una nozione «polisemica». La «non-verità» (Un-wahrheit) è «negazione della verità» (Nicht-Wahrheit) in un senso tanto ampio da comprendere molto altro assieme alla falsità201. Il nome greco ancora si conserva in parole moderne quali – non a caso – “pseudonimo”. Se si traducesse alla lettera, si leggerebbe “falso nome”; invece lo pseudonimo significa l’agire, l’operare, il pubblicare «“sotto” altro nome», «sotto la copertura di questo nome». Decisivo non è l’opera di falsificazione quanto il fatto che nello pseudos il vero autore si celi, si nasconda, si copra oppure, in modo ancora più complesso, acquisti un’altra identità. Nello pseudonimo accade una «distorsione», un «ritorcere», un capovolgimento o uno stravolgimento: le cose appaiono diverse da quello che sono. Si capovolge e si stravolge un lato di qualcosa per far apparire il lato opposto, perfino quando dietro si trova il «niente», il «nullo» o il «vano»202. Vom Wesen der Wahrheit, § 17, pp. 125-127; tr. it. pp. 153-155. Un capitolo a parte della “fenomenologia della non-verità” dovrebbe prendere in esame il tema della menzogna. La menzogna non è il falso né l’errore perché è un atto intenzionale, fondato sulla performatività degli atti linguistici, ovvero sulla promessa ad essi intrinseca che chi parla stia dicendo la verità. Il tema rasenta il paradosso perché si può teorizzare il concetto di menzogna ma certamente non si può fare una storia della menzogna (una menzogna dichiarata non è più menzogna: il paradosso del mentitore allude anche a questo). La questione non può certamente essere elusa nel pensiero contemporaneo. In primo luogo perché la storia del Novecento ci ha posti di fronte all’irrompere della menzogna assoluta (cfr. H. Arendt, Verità e politica, ed. it. a cura di V. Sorrentino, Torino, 1995). In secondo luogo perché riguarda pratiche storiografiche che metteno in gioco un’altra nozione, la “contro-verità”, e sono oggi molto discusse, ad esempio il revisionismo e il negazionismo, che sono chiaramente cose ben distinte, dal momento che il primo ha a che fare con l’accrescimento della conoscenza storica, mentre l’altro è l’intenzionale negazione del fatto. Infine la menzogna richiama responsabilità politiche di grande rilievo (la questione attualissima dei genocidi negati da parte non di deliranti pseudostorici ma di autorità governative, ed ancora quella dell’imposizione della verità storica per mezzo di una legge di Stato). Si vedano le riflessioni di J. Derrida, Histoire du mensonge, tr. it. di M. Bertolini, Breve storia della menzogna. Prolegomeni, Roma, 2006. Utile è il rilievo che la menzogna richiama ad una «problematica testimoniale», alla testimonianza, più che al nesso epistemico vero-falso (ivi, p. 80). 202 Vom Wesen der Wahrheit, § 18, pp. 134-137; tr. it. pp. 162-164. Per un 201

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Pseudos è solo genericamente il “falso”, lo “scambio”, l’“errore”. L’aggettivo pseudes ha due significati dominanti: non-svelato è «ciò che è non ancora svelato» e «ciò che è non più svelato». La comprensione dei due significati si radica nel tempo, nel passato del non essere più e nel futuro del non esserci ancora203. Questo implica che è possibile confondere per chiara una percezione temporale confusa: «una cosa non viene intesa in quanto ciò che non è, bensì in quanto ciò che io ritengo che sia» nel momento in cui la colgo204. «La non verità intesa in senso lato si rivela ora del tutto ambigua. Una volta il non-svelato (das Nicht-Unverborgene), il non-vero, è il velato nel senso del nondisvelato (das Nicht-Entborgene), un’altra volta è l’occultato nel senso del non-più-disvelato. Entrambi, sia il non-ancora-disvelato, sia il non-più-disvelato, hanno a loro volta molteplici significati. Ovvero: l’ancora-mai-disvelato, ancora-mai-reso-manifesto, benché disvelabile; oppure: l’occultato nel senso del non-più-disvelato, che prima però era manifesto, può essere ciò che di nuovo è precipitato completamente nella velatezza, oppure qualcosa di velato che tuttavia è in un certo senso disvelato e si mostra: il contraffatto»205. Nel Teeteto “non-disvelato” è un aggettivo attribuito al doxazein, all’aver una veduta. Lo yeudÖ doxázein può prendere forma negli esempi citati da Platone: conosco Teeteto e conosco Teodoro; di loro ho i rispettivi “segni” impressi nella mia anima. Quando incontro uno dei due, ne ho percezione, la memoria del “sigillo” si riattiva e io posso riconoscerlo per quello che è. Supponiamo che entrambi o uno dei due si stiano avvicinando ma la distanza non mi permetta di scorgerli chiaramente. Due sono i casi: posso confondere Teeteto e Teodoro oppure posso credere che quello che si sta avvicinando sia l’altro. Si dà inoltre un terzo caso, quando nessuno dei due ma un terzo uomo si fa avanti e io credo che sia o Teeteto o Teodoro. Si deve accettare questo paradigma a patto che lo si intenda però come una spiegazione parziale del fenomeno della pseudēs doxa. Si tratta di un esempio limitato perché il falso non si genera soltanto da una non corrispondenza tra idea e sensazione approfondimento del valore apofantico dello pseudonimo cfr. R. Viti Cavaliere, Critica della vita intima. Soggettività e giudizio in Hannah Arendt, Napoli, 2005, in particolare il capitolo «Anonimia e pseudonimia. Volti e maschere della soggettività», pp. 15-39. 203 Vom Wesen der Wahrheit, § 17, p. 127; tr. it. p. 155. 204 Grundbegriffe der antiken Philosophie, § 45, p. 130; tr. it. p. 215. 205 Vom Wesen der Wahrheit, § 19, p. 145; tr. it. p. 173.

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ma può riguardare anche soltanto il pensiero: posso confondere – dice Platone – l’undici con il dodici per non averne avuto esperienza206. Il dato più significativo, quello che tocca il cuore della questione, è la constatazione che alētheia e pseudos non hanno la stessa radice etimologica. La verità e il suo contrario hanno nomi differenti. La parola “verità” tuttavia può essere resa con «non-yeûdoj (Þ-yeûdoj)», perché il verbo Þyeudéw significa «dire la verità»207. Questo uso verbale denota però la centralità del logos nella comprensione della verità. Come per lo alētheuein, che è la specifica attuazione umana della verità attraverso il carattere linguistico che determina l’essere umano, così gli usi di pseudein e di pseudesthai sono vincolati alle modalità di effettuazione dell’esistenza e dei suoi esistenziali. In particolare la forma media indica un «comportarsi distorcendo, soprattutto nel parlare, nel dire e nell’asserire»208. Da qui i fenomeni di «logoramento» che limitano il “falso” al giudizio e ne fanno una questione di esattezza209. Il contrario della verità è il “falso”, nella misura in cui la questione della verità è limitata al giudizio. Il contrario della verità dell’ente è invece la lēthē, la «dimenticanza», non situazione psicologica soggettiva ma «oggettivo accadere del sottrarsi e del ritrarsi dell’ente», «accadere fatale che si abbatte sugli uomini». Nella dimenticanza cade l’ente che da presente diventa assente, scompare. Non-verità è dunque anche uno stato di assenza (Abwesenheit), «esser-via» (Weg-sein, Weg-heit) dell’ente. Questa lontananza assoluta non prende più il carattere dello pseudos secondo il quale, nel sottrarre, qualcosa si custodisce: tutto sembra irrimediabilmente perduto e distante. Il “niente”, la perdita totale dell’ente cui lo pseudein, nel capovolgere qualcosa, accenna, appare nella lēthē nella sua imponente dimensione. Dinanzi a questo venir meno dell’ente l’umano si adegua, vi corrisponde nella annoia, l’assenza di pensiero che non è mera “ignoranza”, ma un «non-saper-ne-più», nel senso di un «non-saper-si-più-orientare» in quella totalità degli enti che è il mondo210. La questione della non-verità è contenuta nel «contesto interrogativo» della seconda tesi sostenuta nel Teeteto (il sapere non è opinione falsa)211. 206 207 208 209 210 211

Plat. Tee. 193b-194a e 195e. Vom Wesen der Wahrheit, § 18, p. 134; tr. it. p. 162. Ivi, § 18, p. 137; tr. it. p. 164. Ivi, § 18, p. 142; tr. it. p. 170. Ivi, § 18, pp. 139-140; tr. it. pp. 167-168. Ivi, § 36, p. 248; tr. it. p. 281.

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Le tre soluzioni indagate a conforto di questa tesi rappresentano, pur nella parzialità del risultato conseguito, il tentativo platonico di fuoriuscire dal «dominio dell’ovvio», delle opinioni dominanti sia sulla doxa sia sullo pseudos212. I tre argomenti discussi si mantengono sul terreno della contraddizione perché l’ambito da quale si originano e sul quale abbozzano una conclusione non può non essere contraddittorio. La prima alternativa indaga se si dia la compresenza di conoscenza e nonconoscenza riguardo allo stesso fenomeno; la seconda soluzione analizza se un medesimo oggetto possa essere e non-essere al contempo. A meno che non lo si chiami “miracolo”, questa compresenza è impossibile. La lettura heideggeriana riconosce invece a Platone la capacità di aver colto la «potenza prodigiosa e inquietante» della non-verità e di averla discussa nel tentativo di sottrarla ai pregiudizi del senso comune da una parte e dai dogmi filosofici dall’altra213. La prospettiva scientifica di Platone arriva a scorgere tra fenomeni apparentemente antitetici, quali conoscere e non-conoscere, essere e non-essere, un luogo medio, un “fra” (metaxú), che rende possibili fenomeni intermedi, quali ad esempio l’imparare quando ancora non si conosce e il non essere ancora o essere diversamente. La «grande scoperta di Platone» è che tra i due estremi «ci sia un fra»214. L’individuazione di questi fenomeni intermedi non va direttamente verso la soluzione delle aporie che il concetto di non-verità è in grado di generare a causa della sua complessa struttura; accresce senz’altro invece l’ambiguità e l’equivocità del caso e, con questo incremento di problematicità, si schiudono anche nuove vie filosofiche. Nel caso della pseudēs doxa si tratta di mostrare come, all’ambiguità sia dello pseudos sia della doxa, corrisponda un comportamento ambiguo dell’esistenza che ad essi si rivolge. Occorre mostrare come si dia «la possibilità di un comportamento misto» che faccia seguito all’oggetto “mescolato”, “impuro”, “intermedio”215. Dinanzi ai luoghi comuni e ai pregiudizi, il compito filosofico va nella direzione di “salvare i fenomeni”: tra le impossibilità gnoseologiche tastate dal senso comune e la pur evidente presenza del “dato di fatto” di qualcosa come la «veduta distor-

212 213 214 215

Ivi, § 39, p. 276; tr. it. p. 309. Ivi, § 41, p. 287; tr. it. 321. Ivi, § 39, p. 267; tr. it. 300. Ivi, § 41, p. 290; tr. it. 324.

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ta», dovere filosofico è quello di schierarsi dalla parte dei fenomeni in nome della loro inoppugnabile datità216. Le due similitudini platoniche che assimilano l’anima ad un blocco di cera e ad una colombaia, rispondono all’esigenza di tener conto della pseudēs doxa, del suo «carattere intermedio e di mescolanza»217. L’“avere una veduta distorta” appartiene difatti ad un «comportamento» e ad una «condizione dell’uomo» nel modo in cui egli, attraverso la propria anima, il proprio esserci, si riferisce all’ente218. I modi già discussi del “presentare” e del “ripresentare” sono modalità della relazione dell’esserci all’ente, modi e possibilità del “ritenere” l’ente, nella duplice forma del possesso (ktēsis) e del poter disporre di qualcosa avendone la facoltà (hexis). L’anima-colombaia è un «contenitore» di cui si può disporre nella sua interezza219. I contenuti sono altrettanti possessi, ciascuno dei quali non sempre materialmente posseduto ma disponibile, in grado di essere catturato e riportato alla mente al momento opportuno. Attingendo ai contenuti dell’anima si può, per così dire, fallire il tiro, «non-centrare» il bersaglio220. Il fenomeno della “veduta distorta”, una volta ridotta alla fallibilità della mira, apre però la strada, secondo Heidegger, all’esaurimento delle molteplici varianti dello pseudos ad una sola possibilità come «non correttezza dell’asserzione»221. Il restringimento logico della verità e della non-verità a questioni di attribuzione del predicato si riflette sulla doxa stessa, ridotta a sradicato e soggettivo opinare. Scompare il dato essenziale dell’apparire in pubblico, dell’offrire una veduta e dell’assumere la fama di ciò che si è agli occhi del mondo, vale a dire quella fondamentale costituzione intersoggettiva e preteoretica dell’essere-insieme che consente di gettare uno sguardo sul mondo a partire dallo sguardo che il mondo rivolge a noi.

216 217 218 219 220 221

Ivi, p. 262; tr. it. p. 295. Ivi, § 42, p. 292; tr. it. p. 325. Ivi, § 42, p. 292; tr. it. 326. Ivi, § 42, p. 304; tr. it. p. 338. Ivi, § 46, p. 319; tr. it. p. 353. Ivi, § 46, pp. 319-320; tr. it. p. 353.

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APPENDICE Paideia e cultura occidentale. Un confronto con il neoumanesimo Negli anni in cui Heidegger elaborava la sua lettura della paideia platonica, legandola indissolubilmente alle sorti dell’umanesimo, con distinte intenzioni e ben altro significato etico-politico, nasceva e si diffondeva, anche sotto la decadenza spirituale del tempo, il cosiddetto “neo-” o “terzo umanesimo” – ultimo dopo la stagione rinascimentale e l’età di Goethe – che trovò risonanza negli studi di Julius Stenzel e Werner Jaeger. Già nel periodo marburghese Heidegger aveva dimostrato di essere proficuamente in dialogo con alcuni argomenti dell’interpretazione genetica della filosofia antica222. Non è tuttavia sul terreno 222 Con Stenzel intrattenne anche un carteggio, in particolare sugli esiti della temporalità discussa in Sein und Zeit in chiave di un recupero della grecità: M. Heidegger, Briefe Martin Heideggers an Julius Stenzel, in «Heidegger Studies», 16 (2000), pp. 11-33. Cfr. anche A. Cimino, Neoumanesimo, ontologia, platonismo. Il confronto di Martin Heidegger con Julius Stenzel, in «Rinascimento», seconda serie, XLIV (2004), pp. 77-114. Nel corso sul Sofista fu discussa principalmente la tesi della natura ontologica e non quantitativo-matematica del numero, in contrasto con il saggio di Stenzel del 1924 Zahl und Gestalt bei Plato und Aristoteles. Di Jaeger Heidegger contrastò molto polemicamente il suo Aristoteles. Grundlegung einer Geschichte seiner Entwicklung (1923), tr. it. a cura di G. Calogero, Aristotele. Prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale, Firenze, 1968, in particolare la tesi della genesi platonica della filosofia aristotelica: cfr. Platon: Sophistes, § 10, p. 65; Grundbegriffe der antiken Philosophie, § 51, pp. 145-146; tr. it. pp. 232-233; «Vom Wesen und Begriff der fúsij. Aristoteles, Physik B, 1», in Wegmarken, p. 242; tr. it. «Sull’essenza e il concetto di ϕUσις. Aristotele, Fisica B, 1», p. 197. Infine, con chiaro intento polemico nei confronti del neokantismo di Natorp e del neoumanesimo, Heidegger annota: «le idee come valori e la paideía come formazione ed educazione – il peggio del XIX secolo, ma niente di “antico”» (Vom Wesen der Wahrheit, § 15, p. 116; tr. it. p. 143). Il neoumanesimo ha subito pesanti e talvolta ingiustificate accuse di presentare attraverso il ritorno all’antico ideale greco un’ideologia elitaria, conservatrice e antidemocratica: per la ricostruzione del quadro si veda

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rigorosamente filologico che va fondata la possibilità di un confronto produttivo, quanto negli esiti maturi della speculazione heideggeriana sulla metafisica e in quelli del movimento umanistico di Jaeger e Stenzel, i quali hanno consegnato alla storia la tesi secondo la quale l’educazione culturale dei greci, radicata nella categoria di paideia, abbia raggiunto la sua più solida conformazione in Platone e che, mediante soprattutto il testo della Repubblica, abbia potuto diffondersi come imperituro valore della “formazione umana”. La più decisa decostruzione della paideia merita di essere posta in relazione con la sua più convinta ripresa. Nella natura della paideia ne va della natura dell’umano. Questa importante conclusione, che coinvolge il valore perenne dell’umanesimo, si trova singolarmente ribadita nel testo heideggeriano. La critica heideggeriana all’idea di Bildung, posta a fondamento della tradizione umanistica e illuministica e ispirata all’idea già greca della creazione culturale dell’umanità, interseca il giudizio complessivo sull’essenza della cultura occidentale e sul modello umano che l’ha generata223. La denominazione “neoumanesimo” condivide senza dubbio l’imposizione sterile dell’etichetta. Più che rifondare l’umanesimo, il progetto culturale di Stenzel e di Jaeger, mai volgarizzato in un manifesto, va ascritto a merito della “capacità di rinascenza” della grecità, in particolare del modello greco di umanità che torna anche oggi, come reazione agli eccessi della modernità e del post-modernismo, ad incontrare consensi. L’esercizio della misura, la pratica dell’accordo tra physis e ethos (necessità e libertà), l’armonia di pensiero, azione e sensibilità, costituiscono la descrizione più prossima dell’umano qual è nella sua concretezza, di quell’ontologia dell’immediato divenuta compito etico, a scanso di ideali generalisti e riduzionisti224.

1. La Aufklärung di Julius Stenzel Il Platon der Erzieher di Stenzel ha il proposito ambizioso di fare di Platone, come dice il titolo, l’educatore225. Volendo evidenziare le E. Berti, «Il neoumanesimo tedesco del primo Novecento», in Id., Aristotele nel Novecento, cit., pp. 15-43. 223 Per l’analisi della critica heideggeriana all’umanismo rinvio alla III parte, L’origine tecnica del pensare. 224 Cfr. V. Gessa Kurotschka, Etica, Napoli, 2006. 225 J. Stenzel, Platone educatore, tr. it. di F. Gabrieli, Roma-Bari, 1966. Il

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potenzialità educative del progetto filosofico platonico in continuità con l’ideale greco, per qualificare la nascita della filosofia l’autore sceglie non a caso l’etichetta, che a taluni potrebbe suscitare qualche diffidenza antistorica, di Aufklärung. Se tuttavia con questa parola si intende, come incoraggiavano a fare alcuni tra i più raffinati interpreti del cosiddetto “illuminismo”, non il periodo storico ma la naturale tendenza e il diritto dell’umano, giunti in quel tempo a matura consapevolezza, di esercitare una critica sul presente, far uso pubblico della propria intelligenza e dar pieno sviluppo alla propria personalità, lo scetticismo si smorza dinanzi all’evidenza che nella storia si sono prodotte molte e alterne fasi di oscurantismo e rischiaramento. Più che il compiuto affrancamento dalla schiavitù mentale e spirituale, i tentativi di portare luce nel mondo si sono sempre prudentemente limitati ad invocare il lume della razionalità e della ragionevolezza come una responsabilità intellettuale, che nulla doveva condividere con la fanatica esaltazione. Così, anche per Stenzel la Aufklärung è la «maggiore età spirituale» come «inalienabile compito dell’Europa», e scrive queste parole di calda partecipazione al presente sia per scoraggiare infruttuosi arruolamenti di Platone tra le file dell’intellettualismo o dell’irrazionalismo, che sono per l’autore le degenerazioni culturali dell’epoca presente, ritratte nella forma mitica della sofistica, sia per rinnovare, a partire da Platone il compito inesauribile di condurre la personalità umana lontano dai ceppi della minorità226. La proposta non è inedita. Anche per Nietzsche, prima almeno che diventasse “l’antiplatonico più sfrenato”, la figura di Platone corrispondeva a quella del perfetto educatore della gioventù. Nietzsche ha evidenziato il grande ruolo educativo svolto dai dialoghi platonici, come una vera e propria introduzione al pathos della filosofia. Durante l’esperienza dell’insegnamento a Basilea, scrive ad esempio: «leggendo il Fedone ho modo di contagiare i miei allievi con la filosofia», oppure «vi sono buone ragioni per consigliare a quei giovani non già di affidarsi alla guida di casuali e accademici filosofi di mestiere, bensì di leggere Platone», ed infine ammette, preparando il corso introduttivo allo studio dei dialoghi platonici del 1871-’72, «Platone è sempre stato considerato con diritto la vera guida filosofica della gioventù. Egli mostra l’immagine paradossale di una natura filosofica stracolma, che saggio apparve in tedesco nel 1928. 226 Ivi, p. 314.

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nel medesimo tempo è capace di grandiosi e vivi sguardi d’insieme e del lavoro dialettico del concetto. L’immagine di questa natura stracolma determina la spinta alla filosofia; essa suscita precisamente quel qaumázein che è il páqoj filosofico»227. Il problema nuovo nasce invece dalla questione, incentivata senz’altro anche dal rinnovamento degli studi filologici, di quale educazione Platone si facesse realmente promotore. L’interesse di Stenzel si origina dal riconoscimento di un valore attuale del pensatore greco, del suo “filosofare umanamente”, che conserva un nucleo intatto nell’idea armonica di persona, che mai cede all’individualismo né alle altre tentazioni di frammentazione di pubblico e privato, pensiero e azione, cultura e natura, mente e corpo. La nietzschiana “natura filosofica stracolma” è in verità una natura che si serve di semplici locuzioni quali “fare la propria parte”, il “proprio dovere” (questo il significato di eu prattein), si ispira allo schiudersi del campo per esplicitare la “maturazione ad umanità”, in definitiva recupera molto più della vita quotidiana di quanto un presunto “idealismo” platonico sia disposto ad ammettere. Il riscatto dell’immediatezza avviene in particolare nell’ambito della definizione del concetto, eidos o idea, che, non solo non è in contrasto con il mondo fenomenico, ma è ad esso immanente. Stenzel si serve dell’idea husserliana di “adombramento” in duplice modo: ontologicamente e gnoseologicamente, per spiegare la penetrazione dell’idea nelle cose sensibili, e antropologicamente, per dar conto dell’inerenza del singolo alla comunità. In ambedue i casi si ha a che fare con la relazione dell’uno con il molteplice. L’eidos non è un fenomeno di accumulo, la somma delle perfezioni: è in ogni singolo frammento di realtà adombrato e scorto dall’occhio teoretico. L’ordinamento onto-gnoseologico platonico distingue tra un originale, la percezione psichico-spirituale e il concreto. Ai gradi di realtà corrispondono distinti livelli della conoscenza. I gradi cosiddetti inferiori, il “concreto”, che nella Repubblica è scisso tra eikasia (supposizione o verosimile) e pistis (opinione), non si oppongono ma collaborano al formarsi della “ragione filosofica” (la noēsis), cooperano servendosi di quelle scienze intermedie (Stenzel ha in mente soprattutto la matematica) che mediano tra il sensibile e lo spirituale. Si prenda l’esempio dello

227 Le citazioni sono tratte dal volume di F. Ghedini, Il Platone di Nietzsche. Genesi e motivi di un simbolo controverso (1864-1879), Napoli, 1999, p. 50.

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schiavo del Menone. In quel caso la formale rappresentazione della figura geometrica è il veicolo esclusivo per riattivare la conoscenza sopita. Platone per Stenzel è estraneo ad ogni «eccesso di ideologia aprioristica» e ad ogni «svalutazione sentimentale di tutto il regno sensibile»228. La mathēsis, vale a dire la conoscenza fondamentale che fonda ogni altra cognizione, è esposta come un «ricavare dal visibile un essere più profondo», «rendere il mondo dei sensi trasparente ad una luce che sembra venire dall’al di là, eppure spiega la sua forza solo nel custodire questo visibile nella sua essenza a lui propria»229. Sul piano etico l’adombramento dell’idea nel sensibile corrisponde alla persistenza dell’individuo nella comunità e della sua precipua capacità di azione. Il singolo è un’ombra della comunità, come il sensibile è ombra del reale. Al ruolo della matematica svolto nel Menone, Stenzel riferisce il mito conclusivo della Repubblica, la celebre narrazione che vede Er, dopo la morte, assistere alla scelta di una nuova vita. Questo mito rappresenta il completo rovesciamento dell’esempio della anamnesi, la memoria della vita anteriore riattivata attraverso un’immagine che consente allo schiavo di ricordare la sua origine. Dopo la morte si ha memoria della vita terrena e si deve, in virtù della conoscenza mondana, operare una scelta metafisica di cui non si conserverà traccia perché, prima di reincarnarsi, bisogna bere l’acqua della dimenticanza. Sembra che tutto sia già deciso e che il destino individuale dipenda una volta per sempre da questa decisione prenatale. Qual è tuttavia il significato di questo esempio? Occorre scegliere la scelta, in quanto capacità di discernere di volta in volta il bene e farne criterio sicuro della propria azione terrena. Il bene, la massima conoscenza nella dottrina platonica, è non a caso l’idea che congiunge il motivo teoretico e quello etico. L’occhio filosofico scorge la «immanenza logica dell’inferiore nel superiore», «del particolare entro il più alto»230. Suo dovere è però quello di non «perdersi nell’universale» o fingere da vivo di godere della beatitudine dei morti. La necessità della sua natura gli impone di fare ritorno nella città umana e spendersi rettamente in pubblico e in privato. Ogni rischiaramento filosofico può essere letto alla luce della «esigenza di Logos»231. Logos è “dar conto”, ricerca di “senso”, “significato”, 228 229 230 231

Stenzel, Platone educatore, tr. it. cit., p. 180. Ivi, p. 182. Ivi, pp. 283-284. Ivi, p. 40.

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ma anche “elemento comune”, “legge”, “consapevolezza” (perciò “ragione”), “lingua”, “discorso”, “dialettica” di domanda e risposta. Laddove il logos si impone con tutta la sua straordinaria polisemia concettuale si rinnova il miracolo spirituale della «volontà di intendere», «la capacità dell’uomo a pensare»232. Nulla di ciò che è “logico” contraddice la physis ma ne costituisce invece un completamento. L’intesa metafisica, vale a dire la continuità tra il logico e il fisico, è a fondamento di un’altra intesa, questa volta stagliata sullo sfondo del secondo grande concetto greco di totalità: la comunità. L’educazione è la capacità di agire sull’altro, di influenzarlo positivamente attraverso esempi concreti di vita. Il lato “naturale” dell’esistenza è garanzia del fatto che quanto viene esposto e tramandato nei processi di crescita sia immediatamente compreso. Quando si pensa si parla, e si parla ad alta voce, e quando si parla si dice sempre qualcosa che, sulla garanzia della lingua comune, può essere da tutti inteso. Le questioni linguistico-concettuali sono per questo motivo politiche, nella misura in cui mettono sempre in comunicazione due o più persone. Nel pensare e nel comunicare c’è una trasposizione del proprio – di ciò che si pensa da sé – nel comune, nel noi che è soggetto plurale e unico della polis. Il Platone di Stenzel non è il pensatore teoretico, l’inventore della vita contemplativa e di una ristretta comunità accademica. Egli è stato l’uomo della vita attiva e per un greco vivere attivamente equivaleva a vivere politicamente. L’Accademia non era il chiuso mondo dell’elaborazione dottrinale di un sapere concesso a pochi eletti né una “comunità di sentimento” quanto il luogo del “sentire in comune”, dell’avere in comune, dove i rapporti erano regolati sulle tacite leggi dell’amicizia, un luogo in definitiva da cui si entrava e si usciva a piacimento e ci si allontanava anche per far partecipe dell’educazione lì impartita il maggior numero di persone. La morte di Socrate ha posto Platone dinanzi ai fallimenti della politica. A poco a poco è maturata in lui l’esigenza di poter rifondare la società solo a patto che venisse ricreata la persona umana. L’Accademia è, come si legge nella Lettera VII, «comunità della libera paideia», «comunità di educatori ed educati»233. La fonte primaria della formazione è l’insegnamento socratico che ha la finalità di rendere stabile l’accordo tra la propria e l’altrui

232 233

Ivi, pp. 40 e 15. Ivi, pp. 101 e 97.

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ragione, realizzare una concordia sulla base della condivisa conoscenza della aretē, la sola che possa essere fonte di utilità pubblica, benessere e felicità individuali. Nella Repubblica Platone si serve di un parallelismo tra le parti dell’anima e quello dello stato per rendere in maniera efficace la finalità politica dell’armonia. Più che posizione dogmatica, questo «schema fecondo»234 richiama la conformazione plurale dell’anima in quanto pensiero, volontà e sensazione, in cui è ragionevole supporre che la parte migliore tenga a freno la peggiore, non per reprimerla quanto per realizzare quella richiesta e necessaria simmetria. Così una comunità politica si ispira all’autodominio individuale e lo trasferisce su larga scala prevedendo che a ciascuno sia assegnato il proprio, quanto gli spetta secondo il suo talento naturale, in modo da poter “fare il proprio dovere” e ed essere così condotto alla “bella realizzazione di sé” (questo il significato di eudaimonia). L’esigenza di armonia e ritmo spiega perché nel dialogo venga attribuita tanta importanza all’educazione poetica e musicale. Essa può ispirare un «ethos misurato», una «nobile compostezza», in definitiva l’ideale della kalokagathia, la «influenza della bellezza sulla moralità»235.

2. La antropoplastia di Werner Jaeger L’opera di Jaeger intitolata Paideia. Die Formung des griechischen Menschen è tutt’altro da una storia del concetto di educazione: è «descrizione genetica del rapporto di uomo e polis»236. Già il titolo suggerisce inequivocabilmente l’idea di “antropoplastia”, una concezione plastica dell’umanità che è da formare, nel senso estetico del termine, mediante l’azione culturale esercitata storicamente da poeti, legislatori, storici, retori e filosofi. La formazione si concretizza nell’imprimere una “forma”, nello stabilire una corrispondenza ad un modello ideale, secondo un percorso incoraggiato e seguito da un formatore. Giunta Ivi, p. 118. Ivi, pp. 139-140. 236 W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, tr. it. di L. Emery e A. Setti, intr. di G. Reale, Milano, 2003, p. 828. Il primo volume, sull’epoca arcaica fino ai tragici, apparve nel 1934, il secondo, incentrato su Platone, nel 1943, infine il terzo, sui modelli filosofico, medico e retorico di umanità e cultura, nel 1944. 234 235

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a completa definizione con la sofistica, l’idea culturale della paideia presuppone un concetto plastico anche della “natura umana” che ha nel fisico il suo fondamento e riceve da esso la prescrizione dei limiti all’interno dei quali va esercitata l’azione della cultura che, come una seconda natura, porta a compimento la «interna disposizione» impressa dalla prima237. La metafora della cultura come cura animi, ricavata dalla agricoltura, dal lavoro della semina e della crescita, non rende completamente ragione dell’essenza formativa della paideia, poiché la sua intima finalità, la euplastia, l’idea che l’umano sia in cammino verso la propria essenza e la sua più compiuta definizione, non è affidata al caso né alla spontaneità, dal momento che questa fioritura potrebbe anche condurre al pericolo, denunciato nell’età periclea, di imbarbarimento teoretico e debolezza civile. La definizione di “terapia dell’anima”, tipicamente socratica, nasce in parallelo con l’emancipazione della medicina dall’astronomia e dalla meteorologia, dunque nell’ambito di una scienza dell’umano autonoma rispetto a quella cosmico-naturalistica. Le numerose metafore mediche presenti nei dialoghi platonici rappresentano il segno esteriore di un radicamento ben più profondo, che agisce sulla determinazione dell’eidos in quanto raccolta delle esperienze molteplici in unità e che era per il medico la riconduzione di casi vari ad una tipologia generale e sintetica238. Il problema teorico di Jaeger è l’individuazione della archē, il «miracolo del nascimento», l’origine di quel prodotto dello spirito che è stato l’uomo greco, o meglio l’individualità greca ricavata, diversamente da quanto avviene nella modernità mediante un procedimento di autocoscienza, attraverso l’intuizione della relazione che lega la parte – l’individuo – alla totalità, sia essa natura o comunità. Seguendo geneticamente la nascita di questo modello, nel senso platonico di forma e idea ma anche di esempio o paradigma, dall’età arcaica fino allo sviluppo della civiltà attica e dunque al suo compimento nella polis ateniese, Jaeger interpreta senza soluzione di continuità la cultura greca, i cui motivi di fondo sono da un lato la «sete di forma» e dall’altro, ad esso coerentemente legato, il concetto di aretē, l’umana eccellenza di sapersi disposta verso la realizzazione individuale di un ideale storico. Ivi, p. 526. Ivi, pp. 748 sgg. e 859 sgg.; sull’isomorfismo giustizia-salute e sul valore normativo di entrambe per l’anima e per il corpo, cfr. pp. 1101 sgg. e 1245 sgg.; cfr. infine il capitolo La medicina greca come paideia, in part. pp. 1372 sgg.. 237 238

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Il modello umano è storico nella misura in cui si accorda ai valori del tempo e ne rappresenta l’istanza fondamentale, ma di necessità astorico in quanto patrimonio seminale che produrrà poi attraverso i tempi nuove forme ideali. L’etica platonica e aristotelica ha rappresentato la risposta storica all’esigenza già antica di una norma umana che, sebbene superata nella sostanza, rimane fonte indiscussa di autorevolezza ed esemplarità. I poeti greci, i primi sophoi, sono stati principalmente “filosofi della vita” perché la poesia, come poi la grande tragedia, è stata sorgente di normatività pratica. L’idea di sophia non si impone all’improvviso con l’indagine filosofica, ma rappresenta originariamente la capacità poetica di investigare il destino umano. Ciò implica che l’etica abbia avuto origine estetica dal momento che sono state “tecniche” specifiche, la poesia, l’arte, il diritto, la medicina e la matematica, nonché gli agoni militari e ginnici, a formare un ideale di umanità, raffinato poi dalla filosofia e trasfuso in categorie generali di un comune spirito greco che ha superato ogni regionalismo. Il bisogno di sintesi che si accompagna al desiderio di forma, a quella che Platone chiamerà poi l’“unica idea”, nasce come esigenza dell’occhio plastico, educato alla potenza formativa delle arti, di raccogliere in unità pluralità distinte ma non per questo prive di capacità di relazione. La cultura greca è normativa principalmente perché è finalizzata alla «chiara visione delle norme costanti su cui si basa ogni accadimento e cangiamento della natura e del mondo umano»239. La ricerca della “legge”, della intima regolarità delle cose, si origina da un bisogno di organicità in vista della conoscenza del legame parte-tutto, diretta prioritariamente all’individuazione delle norme che regolano il rapporto tra il singolo e la comunità. L’homo-idea è grecamente il “politico”, chi vive nel e del comune. L’intera poesia greca, perfino le produzioni in apparenza più intimistiche, hanno ad oggetto questo legame primario che fa del bios politikos una “seconda esistenza”, eticamente superiore rispetto al gretto individualismo dell’“idiota” che vive per sé e non si cura d’altro. Il “dar forma” greco risponde ad una finalità specifica: è «imprimere al singolo la forma della comunità»240. L’avvento della legge Su questi punti si veda diffusamente la “Introduzione” di Jaeger alla Paideia, in ivi, pp. 1 sgg. (le citazioni sono tratte dalle pp. 8, 13 e 12). 240 Ivi, p. 16. Il verbo politeúesqai significa sia “partecipare alla vita politica” sia in generale “vivere”: cfr. ivi, p. 218. 239

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scritta armonizzerà meglio la “virtù” umana, sempre individuale, con il diritto che ha cogenza intersoggettiva ma è anche garanzia del rispetto di ciò che è singolo, secondo il significato laico della “spettanza”: dikē è ciò che a ciascuno spetta secondo il proprio valore e la dignità della propria azione ed è la fonte, non la conseguenza, di ciò che chiamiamo diritto e giustizia, i quali cessano di essere imposti per comando divino o tramite il potere di casta. Con la filosofia naturalistica, che non mette da parte l’antropologia ma la riscrive in forma nuova, si approfondisce il nesso tra l’umano e l’altra grande totalità greca dopo la comunità, la physis. Valga come esempio la lettura fornita da Jaeger del frammento di Anassimandro che traspone analogicamente la contesa giudiziaria della polis nello spazio cosmico, dove il tempo fa da giudice dell’esistenza che è in giudizio e deve sottostare nel suo essere ad un comando imperativo241. La politica è l’esperienza totale, sul fondamento della quale è possibile rendere analogicamente ragione di ogni altra conoscenza. Anche i concetti socratici di autarchia (antica variante del pensar da sé) e di autodominio degli istinti costituiscono una traslazione nell’interiorità di forme di autogoverno cittadino. La maggiore relazione tra il governo dell’interiorità e la comunità politica si istituisce però nella Repubblica platonica. Benché consapevole dell’autonomia della filosofia genericamente definita presocratica o pre-platonica, Jaeger ritiene che l’apogeo della cultura greca sia raggiunto con Platone, nei cui dialoghi matura la piena consapevolezza dell’ideale culturale greco della paideia in quanto “virtù politica” ed è raggiunta la sintesi più notevole tra l’esigenza della forma, colta come eidos, la sua conoscenza teoretica e il modello umano (la vita filosofica) ad esso adeguata. La Repubblica non è uno scritto di scienza politica ma un capolavoro di psicologia. In essa è descritto non tanto lo stato ideale quanto la formazione perfetta dell’anima che necessita dello stato come sfondo per poter mettere a frutto le sue conquiste interiori. Sono in particolare 241 Ivi, pp. 299 sgg.. Merita di essere segnalata anche l’interpretazione del Logos di Eraclito, il vero elemento comune ma impossibile a rendersi se non per immagini e mediante il contegno umano che ad esso deve adeguarsi. Eraclito è il primo “antropologo filosofo” perché ha stabilito rigorosamente il nesso tra l’intuizione del Logos e il vivere e l’agire umani: al pensatore di Efeso si deve il primo uso di frónhsij e la comprensione del pensare come froneîn: cfr. ivi, pp. 332 sgg.. La phronēsis diviene con Socrate la vera “scienza”, “scienza della giusta scelta”: cfr. ivi, p. 981.

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tre i nuclei tematici dell’interpretazione di Jaeger su cui è interessante soffermarsi: il primo ontologico, relativo alla natura dell’idea di bene; un altro logico, riguardante i gradi della realtà e i modi della conoscenza; il terzo infine propriamente etico-politico, illustrato mediante il ricorso al mito della caverna. Come per l’ultima delle questioni analizzate, anche il problema dell’idea di bene è risolto mediante una similitudine, nello specifico una similitudine naturalistico-spirituale tra il sole-dio, che è fondamento dell’esistenza e del suo nutrimento, e il bene, la cui conoscenza permette la vita filosoficamente qualificata e la coltiva. Riguardo alla scelta di non osare definire oltre o in maniera differente l’idea fondamentale, Jaeger ritiene che Platone non abbia mai voluto offrire una trattazione sistematica della teoria delle idee o perché la riteneva di volta in volta presupposta o perché pensava che ogni discorso relativo a questa realtà intellettuale dovesse essere reso soltanto in maniera indiretta. Così l’idea di bene non è definita ma mostrata, per di più esibita all’inizio del percorso formativo dei reggitori-filosofi, per mezzo di una visione, che è «funzione intellettuale sintetizzante che coglie nel molteplice l’unità». Siccome non è possibile “significar per parole” la sinossi, che è «la via dialettica alla visione dell’idea», Platone la sostituisce con una «visione sensibile di ciò che è il suo “analogo” nel mondo sensibile»242. Il sole-bene è causa e principio del vedere, che è a sua volta analogo del conoscere e dell’agire umano. L’occhio rappresenta il simbolo dell’anima-mente. In questo modo la conoscenza consiste non tanto nell’arrivare a vedere ciò per cui è possibile qualcosa come la visione, quanto nel pervenire a cogliere la relazione fondamentale tra il principio e ciò che da esso trae origine, appunto come comprendere la natura del sole è cogliere l’essere da parte sua condizione della visibilità delle cose e del loro nutrimento. L’idea di bene funge da norma suprema, e la filosofia, definita come una «arte della misura»243, è questo esercizio dialettico che attraversa i discorsi comuni fino a scorgere il criterio assoluto da cui dipende ogni umana misurazione e vi si adegua nella sua azione nel mondo, che è agire politico nel senso più ampio. Si perviene alla visione dell’idea passando per modalità conoscitive inferiori, che vanno dalla congettura alla fede, sino al sapere matematico e alla conoscenza intellettuale. Questi gradi si differenziano in virtù della capacità di farsi autentica fonte di conoscenza del loro oggetto. Per 242 243

Ivi, p. 1177. Ivi, p. 1184.

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cui dalla percezione dei fenomeni visivi (ombre, sogni e simili) si passa agli enti naturali o tecnici, a loro volta riflesso sensibile di una superiore realtà, alla quale le conoscenze matematiche si avvicinano ma che soltanto il sapere filosofico coglie nella loro specifica qualità ontologica. La distinzione gnoseologica è conseguenza della vista di volta in volta calibrata sull’oggetto dell’apprensione. Da realtà incerte e indefinite non può non derivare una conoscenza approssimativa. La questione è assieme ontologica e logica, ribadisce Jaeger, ponendosi in opposizione alla tesi aristotelica che rimproverava a Platone una ipostatizzazione ontologica di un concetto logico (tra i più celebri rappresentanti dell’indirizzo che si è ispirato a Aristotele va annoverato lo stesso Heidegger). L’obiezione di Jaeger non è irrilevante. Così come egli intende prendere le distanze da interpretazioni che trasferiscono nell’antichità concetti moderni, e moderna rispetto alla dottrina platonica è per lui anche la distinzione tra la realtà ontologica e il concetto logico, nemmeno è da condividere per lui la tesi neokantiana che, proprio per superare l’obiezione aristotelica e la sua fortuna, ha prodotto uno sdoppiamento non dissimile, interpretando l’idea unicamente come concetto logico. La differenza logico-ontologica in Platone non si dà mai compiutamente, come del resto non si dà mai neanche univocamente la differenza tra phronēsis, sophia e epistēmē (distinzione che sarà teorizzata per la prima volta da Aristotele), ed è destinato a fallire anche il tentativo di individuare usi diversi di eidos e di idea, poiché Platone mostra spesso di utilizzarli come sinonimi244. Platone non poteva ipostatizzare i concetti, trasformare dunque il pensiero in realtà, poiché il concetto logico è «ancora avviluppato e involto nell’idea» ed è un «processo di penetrazione dalle apparenze all’essenza […], un atto, cioè, di visione intellettuale che concepisce nel molteplice l’uno»245. L’occhio che coglie questo universale è teoretico, laddove theōrein indica l’atteggiamento dei valorosi 244 Sull’interpretazione neokantiana e su Natorp in particolare, cfr. ivi, pp. 968 sgg.. è opportuno aver presenti questi argomenti perché saranno ampiamente ripresi da Heidegger nelle sue interpretazioni di Platone. Cfr. P. Natorp, Platos Ideenlehre. Eine Einführung in den Idealismus, tr. it. di V. Cicero, introduzione di G. Reale, La dottrina platonica delle idee. Un’introduzione all’idealismo, Milano, 1999. Heidegger ha molto osteggiato la lettura neokantiana di Platone: su questo punto rinvio a M. J. Brach, Heidegger-Platon. Vom Neukantianismus zur existentiellen Interpretation des Sophistes, Würzburg, 1996, in part. pp. 43-206 , e a R. Petkovšek, op. cit., in part. pp. 5-116. 245 Jaeger, Paideia, tr. it. cit., p. 970.

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in battaglia, come “sostenere la vista”: è capace di guardare nelle cose senza ritrarsene, fin quando non si è colta la vera realtà246. Come l’anima, anche la mente ha natura plastica, va cioè formata, coltivando le disposizioni originarie perché fiorisca secondo la sua naturale inclinazione e pervenga alla virtuosa condizione di tener fermo e alto lo sguardo. L’ontologia delle idee è strettamente irrelata alla questione della formazione umana, anzi è da dire che essa costituisce una «metafisica della paideia»247. Per la costruzione delle sue tesi filosofiche Platone si ispira alle altre grandi correnti formative della Grecia antica: così se, ad esempio, il modello matematico funge da archetipo per la descrizione delle proporzioni tra i distinti livelli della conoscenza e la strutturazione dei mondi, e il modello naturalistico e mitico per esplicitare l’ontologia, sul piano propriamente etico-politico la grande forza che agisce sui modelli platonici è la medicina. Già Socrate aveva assunto numerose metafore dalla scienza medica del tempo e pare che Platone stesso e Aristotele per la definizione filosofica dell’eidos avessero fatto riferimento ai “tipi” (eidē) che la medicina aveva ritrovato e utilizzava per la cura del corpo248. Il Platone che Jaeger presenta coltiva il sogno di abolire gli ospedali e i tribunali: se i primi curano i corpi, i secondi si occupano delle patologie dell’anima. Come la medicina antica si rivolge ai malati ma principalmente ai sani, perché vede nella salute la fonte normativa su cui legittimare il suo intervento “tecnico”, così la filosofia persegue l’obiettivo di farsi guida delle anime assumendo il concetto normativo di giustizia che è l’analogo della salute fisica. L’essere virtuosi e il mantenere intatta la rettitudine del proprio giudizio ispirandosi ad un criterio interno equivalgono a perseguire i dettami di una dieta, cosicché la causa della salute non provenga più dall’esterno (da un medico che impartisce consigli e cure) ma da una disciplina che si è riconosciuta conforme alla propria natura. La aretē è la “salute dell’anima” ed essendo la giustizia la virtù suprema essa non può non essere la norma assoluta su cui misurare ogni umana azione. Platone si ispira alla distinzione propriamente medica di “contro natura” e “secondo natura” per discutere dell’utilità della giustizia per la vita. Poiché nessuno chiede se la salute sia utile o dannosa per l’equilibrio del corpo, la medesima banalità del domandare investe anche la discussione relativa alla giusti246 247 248

Ivi, p. 1125. Ivi, p. 1188. Ivi, pp. 1370 sgg.

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zia come misura assoluta. Non è da obiettare che l’idealità del concetto lo rende inadatto all’approssimazione della vita umana, perché è proprio il richiamo ad una conformità alla natura dell’essenza del giusto a rendere l’idea più che una mera astrazione, ed invece valore oggettivo e concreto. Fissato il metro incondizionato, ogni deviazione da esso sarà valutato in termini di patologia o degenerazione da un’ideale condizione iniziale di benessere. Il modello umano di salute spirituale agisce anche sulla determinazione della salute della politica, sulla riforma dello stato che consegue a quella dell’anima, a quel ristabilire l’equilibrio iniziale, l’essere cioè disposti al giusto mediante l’azione formativa dello sviluppo di un talento naturale già posseduto. Lo stato idealmente non può non essere conforme al massimo di giustizia pensabile. Se tale è la natura essenziale del corpo politico, ogni allontanamento da questo ideale sarà valutato in termini di medicina politico-filosofica come una patologia e le forme politiche reali non corrisponderanno mai alla città ideale ma tutt’al più saranno valutabili nell’ambito di una «eidologia patologica»249. La complessiva interpretazione di Jaeger offre numerosi pretesti al dissenso, compreso il punto più rimarchevole della sua posizione, vale a dire la trasposizione della lettura dalla politica alla psicologia, cosicché la Repubblica si mostra nella sostanza un trattato di formazione dell’anima umana. Più che discutere l’impostazione generale del lavoro, è utile indagare invece come, in questo contesto ermeneutico, si inserisca l’interpretazione del mito della caverna. Jaeger sostiene che questa esemplificazione trovi la sua unità di fondo nella parole con cui si apre la narrazione, le parole cioè della “cultura” e della “incultura” dell’umano. Rileva Jaeger: «pochi pongono mente al periodo iniziale del settimo libro, dove Platone, introducendo la similitudine della caverna, dice espressamente che essa è simbolo della paideia, anzi, più esattamente, la definisce come un’immagine della natura umana relativamente a cultura ed incultura, paideia e apaideusia»250. L’analogia che il processo di liberazione dalle catene ha con l’affrancamento dall’incultura è giocata intorno al ruolo della formazione, in particolare dell’educazione suprema che è quella filosofica e che trova nella “conversione” (periagwgÔ) dell’anima alla natura del bene il suo punto nevralgico. Compito dell’educazione filosofica è produrre nell’anima questa torsione, por249 250

Ivi, p. 1104. Ivi, p. 1198.

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tarla a vedere l’evidenza dell’idea somma che deve produrre una vera e propria rivoluzione individuale. Dalla visione della norma suprema discende il successivo orientamento di quanti, avendo contemplato e trovato la giusta misura, fanno ritorno nel mondo. è loro compito anzi calarsi tra gli uomini incolti ancora incatenati, tra i politici che non conoscono altra utilità se non meschini interessi personali, per mostrar loro non il racconto della visione ma la via filosofica che accompagna alla coscienza di finalità condivise. Ciò che è detto in questa «unica immaginosa e concreta rappresentazione della natura della paideia»251 non va disgiunto dalle altre similitudini teoretiche, a partire dalla analogia ontologica del sole-idea e della teoria delle proporzioni della conoscenza della realtà. Anche questi costrutti teorici trovano il loro fondamento nella formazione umana, dal momento che esplicitano la finalità suprema della cultura e la scienza adeguata allo scopo. Si diceva sopra che i primi due paradigmi descrivono modelli ontologici e logici; soltanto nella terza similitudine è approfondita la questione propriamente umana dell’educazione. Il discorso di Socrate esprime la fiducia che l’anima e la mente umane siano naturalmente predisposte all’essere in formazione, così da potersi affrancare dall’ottundimento della coscienza e dagli usuali modi di pensare che incatenano ad un’unica visione. Paideia è socraticamente la proprietà umana più radicale, quell’essere disposti verso la definizione della propria essenza. Nulla è stabilito a priori di questo processo, né trattati né discipline, non una sola regola è fornita, se non una descrizione a grandi linee di come è da sperare si produca il mutamento in chi, seppur ontologicamente in divenire, è fisso sulla rappresentazione di ciò che appare innanzitutto e per lo più e giudica a partire dall’imporsi dei pregiudizi. Avendo dinanzi la figura ideale del tecnico della conoscenza che rimpinza le menti nude di cognizioni in vario modo spendibili nel controllo sociale, Platone sembra mediare tra gli eccessi dell’intellettualismo e quelli del relativismo, dando “forma” alla tradizione socratica e indicando di volta in volta il cammino dove certi appaiono soltanto la via (la filosofia) e la finalità (l’idea); il resto non è che un provvisorio costrutto di un viaggio sempre differente attraverso le “qualità” mondane e i “tipi” umani. Si media in questo modo tra il rigore richiesto dalla epistēmē e le esigenze della phronēsis, che è “scienza”

251

Ibid.

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anch’essa, ma scienza sui generis, indisciplinata e sregolata formatrice dell’uomo che ciascuno è secondo l’esercizio critico che discerne di volta in volta il bene per la crescita della vita spirituale.

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PARTE SECONDA Ousia. Phainomenon. Heteron. Logos. Dentro il Sofista

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CAPITOLO PRIMO Una gigantomachia di concetti Heidegger si accosta al Sofista platonico allo scopo di non utilizzarlo come luogo di conferma di una dottrina precostituita, quanto di lasciarlo parlare da sé. Per questo fine si serve di un’analisi che segue, passo dopo passo, lo svolgimento problematico delle questioni che Platone pone in discussione affinché emerga non «una dottrina millenaria», ma «una problematica estremamente attuale»1. Il metodo ermeneuticofenomenologico heideggeriano, nel tentativo di far emergere da sé la Sache del testo di Platone, cerca in questo modo di arginare il pericolo di cadere nelle seduzioni platoniche, nelle cui trame si è adescati per lo più a causa del fraintendimento relativo all’impiego della forma dialogica, nel significato di drammatico-artistica, che già Hegel denunciava come il principale ostacolo alla comprensione della filosofia platonica2.

H. Arendt, «Martin Heidegger ha ottanta anni», in AA. VV., Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, Napoli, 1992, p. 255; ora anche in AA. VV., Su Heidegger. Cinque voci ebraiche, Roma, 1998 e in H. Arendt/M. Heidegger, Lettere (1925-1975), Torino, 2001. Per una ricostruzione generale della lettura si veda I. Schüssler, «Le Sophiste de Platon dans l’interprétation de M. Heidegger», in Heidegger 1919-1929. De l’herméneutique de la facticité à la métaphysique du Dasein, a cura di J.-F. Courtine, Paris, 1996, pp. 91-111. Il principale bersaglio polemico di Heidegger è il neokantismo, in particolare la lettura che Natorp aveva svolto di Platone, individuando la centralità della dottrina delle idee. è significativo che la Vorlesung heideggeriana si apra con un ricordo – che contiene al tempo stesso un giudizio molto severo – di Natorp, professore a Marburgo, scomparso nell’estate del 1924. Sulla lettura natorpiana del Sofista si veda P. Natorp, «Sofista», in Id., La dottrina platonica delle idee, tr. it. cit., pp. 339-378. Per un approfondimento rimando a Brach, op. cit., pp. 174-206. In quest’ultimo studio si segnala inoltre il riferimento alla lettura del Sofista di Emil Lask (pp. 127-132). 2 G. F. W. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, tr. it. di E. Codignola e G. Sanna, Lezioni sulla storia della filosofia, Firenze, 1967, vol. II, 1

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La natura drammatica della scrittura platonica ha però anche il merito di far risaltare come nel Sofista si trovi descritto un vero e proprio polemos concettuale. Ad uno sguardo sintetico l’opera si presenta difatti come il campo di battaglia sul quale si combattono i “concetti fondamentali” della filosofia, i “giganti” del pensiero, che fungono da linee guida per la descrizione dell’ontologia platonica. I Grundbegriffe di cui si discute sono apparenza, discorso, esistenza, parricidio, negazione, essere e non-essere, verità e non-verità. Lo scopo di una rinnovata concezione dell’essere passa attraverso una dura ed estenuante contesa che coinvolge ogni volta l’identità concettuale dei fenomeni di cui si discute: i “nomi” e l’impossibilità di una determinazione scientifica dell’onomatica, lo statuto della filosofia in quanto scienza suprema, la dialettica, le teorie ontologiche alternative a questa nuova proposta, tra le quali è da annoverare anche la stessa dottrina platonica delle idee. 1. La determinazione critico-polemica della filosofia Il disegno polemico, che permea la struttura critica del pensiero, si specifica innanzitutto come «Kampf gegen das Gerede»3, lotta serrata contro la “chiacchiera”, che individua nella sofistica la propria possibilità pseudo-scientifica di comprensione dell’ente. Questo approccio naturale al mondo è legittimato almeno sino a quando non si specifica la valenza teoretica dello pseudos, che rende la sofistica un «sapere solo apparente», scienza del pressappoco e dell’approssimazione4. Il campo dello scontro tra due distinti approcci all’essere del mondo è il logos, in un duplice senso: sia perché il fenomeno del ricoprimento del vero è un problema relativo alla struttura discorsiva dell’essere umano, rientra dunque tra i modi fattuali del discorso la possibilità che la verità patisca di sempre ritornanti oblii; sia perché il discorso diviene l’arma della stessa contesa, che è guerra della parola contro le parole, lotta intestina

p. 163. Si veda anche G. W. F. Hegel, Lezioni su Platone (1825-1826), intr. di J.-L. Vieillard-Baron, tr. it. di G. Orsi, Milano, 1995. Rosen (Plato’s Sophist, cit.), per amplificare invece la natura drammatica dell’esposizione e dei contenuti, divide l’analisi del dialogo in “atti” e “scene”. 3 Platon: Sophistes, § 3, p. 16. 4 Plat. Soph. 233c10: doxastikÕn æpistÔmhn; Arist. Met. G, 2, 1004b19: fainoménh mónon sofía.

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nella quale si assiste alla drammatica coincidenza di soggetto e oggetto del contendere, dove, per forza di cose, è facile diventare parricidi, rivoltarsi contro il proprio principio. L’esempio più eloquente dell’intrinseco carattere polemico della filosofia è offerto dalla definizione di sofista come “cacciatore di uomini” che è a sua volta “cacciato”, braccato dai logoi del suo contendente, il “cacciatore di sofisti”5. Platone ne parla infatti dalle prime battute, quando non è ancora pervenuto alla prima definizione, come di «cosa difficile e penosa a cacciare (dusqÔreuton)», argomento confermato anche in conclusione6. Il sofista è descritto quasi sempre come una preda (qhríon), un animale anziché un uomo, «fiera multiforme» che «non si può afferrare con una sola mano»7, la cui incapacità di elevarsi al grado più alto di umanità, lo condanna a subire un penoso inseguimento: l’appellativo di polukéfaloj, «dalle molte teste»8, esprime sinteticamente i tratti ferini di questa metamorfosi ed è metafora di un abbrutimento etico e speculativo. Come una serpe egli va fuggendo insinuandosi in luoghi impenetrabili, «abile e astuto com’è, è riuscito ad imboscarsi (katapéfeugen) in qualche specie dai recessi inestricabili»9, penetra come una fiera negli antri più tenebrosi, «ed è così difficile scoprirlo per l’oscurità (tò skoteinòn) del luogo in cui si arrocca»10; solo attraversando impervie difficoltà e arrischiandosi nel pericolo estremo, ossia il capovolgimento della sicurezza che deriva dal rimanere ancorati alla tradizione, lo si mette con le spalle al muro, costringendolo nella spessa trama delle aporie in cui inceppa: «è proprio giusto il proverbio “non è facile sfuggire a tutti i colpi”. Al punto in cui siamo è più che mai ora di balzargli addosso (æpiqetéon)»11, tenerlo «in una trappola che [...] stringe da ogni parte, in una di quelle reti che a questo scopo apparecchiano i discorsi»12, cingerlo d’assedio come si stringe per l’as-

5 F. Wolff, «Le chasseur chassé. Les définitions du sophiste», in Etudes sur le Sophiste de Platon, a cura di P. Aubenque e M. Narcy, Napoli, 1991, pp. 19-52. 6 Plat. Soph. 218d3 e 261a5 (tr. it. di G. Cambiano). 7 Ivi, 226a6-7 (tr. it. di G. Cambiano). 8 Ivi, 240c4 (tr. it. di C. Mazzarelli). 9 Ivi, 236d1-2, (tr. it. di M. Vitali). 10 Ivi, 254a5-6, (tr. it. di M. Vitali). 11 Ivi, 231c5-6 (tr. it. di G. Cambiano). 12 Ivi, 235b1-3 (tr. it. di G. Cambiano).

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salto finale l’ultima roccaforte di un’ormai fiacca resistenza, così che alla fine «possiamo affermare di avere espugnato la più forte delle difese»13. La gigantomachia immaginata da Platone tra i “figli della terra” e gli “amici delle forme”, che discute sotto queste immagini due distinti concezioni ontologiche, diviene il simbolo di un’attitudine specifica del pensiero. La lotta descritta nel dialogo è sia contesa concettuale, come nelle parti iniziali, a proposito ad esempio del ghenos contro il phantasma, sia contrapposizione di visioni del mondo, quando è rappresentato lo scontro eterno tra materialisti e idealisti. Il ricorso a esplicite metafore di guerra o di caccia testimonia la persistenza di una “filopolemologia”, che più che insistere sulla violenza strutturale della filosofia dovrebbe indicare la coincidenza di philein e polemos nel logos14. Il significato di mách, pólemoj o qÔra va ricondotto all’1legkoj e al diakrínein, la confutazione e la distinzione, che inaugurano il dialogo e informano la dialettica platonica la quale, solo raccogliendo i tasselli disseminati durante la discussione delle diairesi, si lascia cogliere alla fine nella sua piena identità. Essere polemici fa tutt’uno con la pratica della confutazione nei confronti di se stessi, avendo di mira dunque la purificazione della mente che correda la «nobile sofistica» della sesta definizione, e nei confronti dei propri interlocutori, fa tutt’uno quindi con la disposizione ironica dell’eredità filosofica socratica. Confutare ha l’obiettivo principale di salvare dall’indistinzione i fenomeni, esercitare l’arte critica: l’elenchos 13 Ivi, 261c2-3 (tr. it. di G. Cambiano). La più completa associazione tra la caccia e la ricerca filosofica è offerta da Platone durante la discussione della settima definizione (235b9 sgg.): «il sofista fin dall’inizio ci si presenterà innanzi facendoci resistenza», occorre allora «afferrarlo secondo il comando del discorso regio e consegnandolo al re mostrare a quest’ultimo la nostra preda» (tr. it. di G. Cambiano). «Non c’è verso che o costui o qualche altra specie possa mai valutarsi d’essere sfuggito all’indagine di quelli che così metodicamente sappiano investigare le cose nei loro particolari e nel loro complesso» (ivi, tr. it. di E. Martini). 14 Si è presa in prestito l’espressione da Jacques Derrida, «L’orecchio di Heidegger. Filopolemologia», in Id., La mano di Heidegger, a cura di M. Ferraris, Roma-Bari, 1991, pp. 81-170. La filopolemologia non è antropolemologia né teopolemologia ma disposizione verso la contesa cosmica, metadivina e metaumana, che prospetta ad esempio il logos eracliteo. Questa amicizia per la contesa obbliga il logos ad “omologarsi” alla contesa per divenire a sua volta filopolemico.

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è dunque chiaramente finalizzato ad una messa in discussione del reale perché possa essere garantito l’esercizio del krinein, non una mera distinzione di apparenze, come ad esempio fare differenza tra nomi, ma diakrínein katà génoj (253e1-2), distinguere secondo la vera radice ontologica delle cose, non più o non solo in virtù delle denominazioni o delle parvenze nelle quali esse si mostrano nel loro primo darsi nel mondo. 2. Interpretazione del prologo Il logos elenchico e critico è sempre polemico. Fin dalle prime battute, il discorso del Sofista ha lo scopo di porre gli uni contro gli altri armati i concetti fondamentali del suo argomentare filosofico. La più evidente e al tempo stesso inaspettata mappa di tali concetti si ricava dal prologo al dialogo che, solo di recente, è stato riconosciuto come la sintetica formulazione degli argomenti principali del Sofista. In gran parte dei commenti antichi e contemporanei, molti dei quali impegnati a ricercare un orientamento dominante della discussione, questa introduzione, al pari di altre sezioni, è stata considerata un’appendice accessoria, funzionale alla mera presentazione dei protagonisti, dunque poco più di un artificio artistico o retorico. «Tema» e «metodo» si trovano al contrario riprodotti nel «preludio» al dialogo15. L’argomento principale del dialogo è, secondo Heidegger, la domanda relativa all’identità del filosofo. Quest’identità, metafora empirica dell’intellegibile, dunque medium tra luoghi incomunicabili, sembra sottrarsi ad ogni evidenza e si cela dietro ambigue sembianze. è da sperare che il nascondimento del filosofo non sia intenzionale ma dovuto – com’è specificato nel prologo – ad un’incapacità della gente comune nell’andar a fondo nelle cose, fino a scorgere la vera apparenza dietro la parvenza. Il luogo comune da contestare è la coincidenza dei volti del filosofo e del suo doppio, il sofista. La questione è dunque trasposta su

Platon: Sophistes, § 36, p. 236. Sull’importanza del prologo cfr., oltre al già citato S. Rosen, Plato’s Sophist, anche G. Movia, Apparenze, essere e verità. Commentario storico-filosofico al “Sofista” di Platone, Milano, 1994, e G. Casertano, Il nome della cosa. Linguaggio e realtà negli ultimi dialoghi di Platone, Napoli, 1996. 15

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questa individualità che, essendo immagine, rimanda ad un originale e può esistere soltanto nella luce riflessa dal vero. Rispetto all’apparenza derivata, «non sana» (232a3), il filosofo si coglie infine come il «realmente essente (3ntwj ïn, 240b3)».

La scena dello Straniero La scena della discussione si presenta in questo modo: avendo convenuto (katà tÕn [...] ñmologían, 216a1) il giorno precedente su un nuovo appuntamento durante il quale continuare la discussione del Teeteto, Teodoro e Teeteto si presentano a Socrate in compagnia di un personaggio sconosciuto e al quale non verrà assegnato alcun nome, identificato soltanto in virtù della sua provenienza: «egli viene da Elea», il suo ghenos è eleatico, in un senso più scolastico che geografico16. La contrapposizione tra il nome – mancante in questo caso – e il ghenos potrebbe essere la prima scena polemica del dialogo: non dei nomi ma dei ghenē occorre avere scienza. Straniero di Elea è l’appellativo con cui sarà conosciuto questo misterioso personaggio. Nello stesso contesto è specificato che egli è compagno dei discepoli di Parmenide e di Zenone e che è filosofo sul serio. «L’intera atmosfera spirituale del dialogo si trova già caratterizzata»17. In questione è la filosofia parmenidea. In realtà è già dato anche il punto specifico di tale discussione, il problema del non-essere, dal momento che lo Straniero non appare immediatamente a Socrate per ciò che è, vale a dire come «uomo filosofico», quanto come una potenza ostile, forse un dio sceso sulla terra allo scopo di dimostrare l’inconsistenza dei discorsi umani. Egli è già in sé il silenzioso custode del sovvertimento del principio eleatico, il parricida potenziale, il contestatore

Plat. Soph. 216a3: tò mèn génoj æx’Eléaj (tr. it. di G. Cambiano). Rosen, Plato’s Sophist, cit., p. 62: «The question “Who is the Stranger?” has no historical significance. To the reader of Plato’s drama, this question is a more accessible version of the question “What is the Stranger?”», che non è problema storico ma domanda relativa all’essenza concettuale di ciò che può essere definito straniero – diverso – da altro. 17 Platon: Sophistes, § 36, p. 237. 16

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dell’autorità paterna: solo aprendosi alla possibilità pratica di mettere in discussione la tradizione, è apprezzabile come filosofo e non come sterile continuatore della scuola18. La persona pensante “Socrate” non si lancia immediatamente nella discussione; sembra al contrario assorto in una preoccupata meditazione in merito all’identità del nuovo interlocutore, sul quale egli avanza il dubbio che possa trattarsi di un pedissequo e sterile ripetitore della dottrina parmenidea oppure di uno di quegli esseri superiori (tÏn kreittónwn, 216b4), divino e temibile al tempo stesso, in entrambi i casi giunto a confutare i discorsi umani. Lo Straniero si presenta come il riflesso di una superficie nella quale si specchia anche il filosofo-Socrate, patendo da parte sua il pericolo di esser confuso con il suo contrario. Teodoro, che appare meno lungimirante di Socrate, non è capace di far luce sulla persona che a lui si accompagna, rimane nelle possibilità del nascondimento (lélhqaj, 216a6) relative sia alla propria che all’altrui esistenza. Se si dovesse dar credito alle parole del poeta che parla di dèi che vanno insieme agli umani con tutta la discrezione richiesta da questo travestimento, sarebbe da credere che si tratti del «dio degli ospiti» (tòn xénion [...] qeòn, 216b2), Zeus in persona, particolarmente esperto di camuffamenti. Lo scopo di queste visite divine è la verifica della conformità delle azioni umane ai princìpi, indagare se esse pecchino di hybris o se si attuino nel rispetto della legge (e÷nomía)19. La caratteristica degli dèi è kaqorân (216b3), un’osservazione che mantiene sempre la necessaria distanza dall’oggetto osservato, perché è uno sguardo dall’alto, quantunque si possa godere di questa vista in mezzo agli umani. Guardare dall’alto è giudicare, verificare la correttezza dei logoi, o, in caso contrario, sottoporre a confutazione. Un dio siffatto non è altri che il «dio della confutazione» (qeòj ælegktikój, 216b5-6).

Lo spettatore e il confutatore Kathoran e elenchein sono gli attributi fondamentali di un modo precipuo di rivolgere l’attenzione agli affari umani: la vista dall’alto gode senz’altro del distacco dalle particolarità nelle quali si perde invece 18 19

Ivi, § 36, p. 241. Cfr. Plat. Soph. 216b3.

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lo sguardo intersoggettivo poco avveduto e, potendo contare su questa osservazione disinteressata, l’esercizio della confutazione degli argomenti e dei modi esistenziali insostenibili, perché non conformi alle regole superiori del kosmos, può dispiegarsi in tutta la sua funzionalità. L’essere spettatore e confutatore sono determinazioni che appartengono ad una particolare forma di esistenza che qui non è ancora emersa e che ancora tende a nascondersi dietro la maschera del divino. Con la implicita ironia delle sue argomentazioni, Socrate dimostra di condividere l’atteggiamento proprio del senso comune che, incapace di dare nome reale alle cose incontrate nel mondo, attribuisce loro tratti di eccezionalità, la divinità oppure la follia. Il verbo kathoran è ripetuto più avanti, in 216c6, «dove si trova caratterizzato il filosofo, quello vero», e in questo contesto si tratta di distinguerne l’essenza dai sofisti, dai politici e dai folli, modalità esistenziali con le quali il pensatore autentico è spesso confuso20. Una duplice premessa è contenuta in questa presentazione: innanzitutto è possibile kathoran, portare lo sguardo sulle cose umane, essere spettatori del loro destino, non necessariamente elevandosi al di sopra degli accadimenti terrestri, ma essendo nel mondo, al pari degli dèi che vi discendono per esaminare da vicino i comportamenti, il bios dei mortali. Inoltre il logos umano, poiché è spesso incapace di aderire alla reale essenza delle cose, offre facilmente il fianco alla confutazione. La presentazione socratica dello Straniero, che è già in sé una confutazione del discorso di Teodoro, ha lo scopo di deviare l’attenzione dalla persona fisica prendendo di mira una possibilità esistenziale più elevata – sebbene ancora non sia chiaro se si tratti della filosofia o della divinità – che può associarsi alla comparsa dello xenos.

La differenza e l’apparenza In poche battute sono introdotte non soltanto l’ipotesi della contestazione della dottrina parmenidea e l’eventualità del nascondimento, quindi del falso, relativa al modo di interpretare l’esistenza umana. Un’altra presentazione tematica accompagna questo prologo: l’introduzione del tema della differenza e l’argomento ad esso connesso dell’apparenza21. Se le cose, nel loro primo darsi, giacciono nell’indistinzione, 20 21

Platon: Sophistes, § 36, p. 240. Sull’importanza della nozione di apparenza nel Sofista si veda Natorp,

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tanto che è difficile e probabile fonte di fraintendimento distinguere un uomo, un filosofo, un dio e le maschere dietro le quali ciascuna di queste esistenze può celarsi, è richiesto un esercizio critico. Questa critica deve tuttavia essere capace di distinguere la reale identità degli oggetti di cui si occupa da ciò che essi non sono, quindi da ciò che si caratterizza, relativamente alla sua fisionomia concettuale, come alterità. Lo Straniero è il paradigma vivente di questa alterità e conferma della dimensione concreta, umana, effettuale della differenza. Il diverso si incontra nel mondo, è per prima cosa sentimento, percezione, esperienza; soltanto sulla base di questa intuizione originaria è poi possibile concepire un “genere” logico o, meglio, procedere al riconoscimento logico di una priorità ontologica. L’idea di apparenza è il veicolo principale della indistinzione iniziale in cui giacciono i fenomeni. Essa è destinata a svolgere nella «fenomenologia dell’Esserci» un ruolo paragonabile a quello del logos22. L’inganno in cui, in modi differenti, cadono, relativamente all’identità dello Straniero, Teodoro e Socrate, già rappresentanti di una esistenza particolare che non coincide con l’intendimento quotidiano, è originato dal primo darsi fenomenico delle cose, dal loro essere costitutivamente apparenze. La differenza si àncora nella struttura fenomenica ed è dall’analisi confutatoria di quest’ultima che deriva la possibilità dell’individuazione della prima. Il sofista, come il filosofo, è “apparire tra apparenze” e il tema del falso è argomento implicito di un’ermeneutica della apparenza. Che sia il modo di apparire di ogni fenomeno a rendere concreta la possibilità del vero e del falso è dimostrato poco più avanti, quando la ricerca del sofista viene a coincidere con la polemica nei confronti del logos comune, la chiacchiera, alimentata dallo statuto contraddittorio dell’apparenza, vale a dire dall’attitudine che non fa questione del darsi delle cose e le assume acriticamente secondo tale fisionomia. La messa in discussione dell’essenza degli oggetti è indice di una capacità precipua, anzi di un’esistenza che va oltre i dati esperiti nella quotidianità. La dynamis polemica diviene dunque espressione visibile di un’altra possibilità esistenziale, tanto che la necessità di procedere alla corretta denominazione del sofista si riflette sull’identità di chi pratica la ricerca della definizione, determinando per converso un autoriconoscimento. op. cit., p. 343. 22 Platon: Sophistes, § 9, p. 62. Questo punto è stato colto anche da R. Petkovšek, op. cit., pp. 574 sgg..

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Al passo 216c4 fa comparsa per la prima volta il verbo “apparire” (fantazómenoi), per specificare che questi umani di cui si sta discutendo, i filosofi, nello spazio pubblico che di volta in volta occupano («vanno intorno di città in città»), si presentano al volgo sotto una pluralità di aspetti23. Il verbo fantázesqai e il suo uso sostantivato fántasma richiamano nella radice il più generale faínesqai, che non esprime una accezione negativa ma indica invece il semplice “mostrarsi”, una possibilità che si radica nell’inesorabile destino che il filosofo, non diversamente dall’uomo comune, è apparenza24. Una generica classificazione (dokoûsin, 216c7) accompagna il modo fenomenico di questa esistenza: agli occhi degli uni essa appare priva di valore, per altri è degna della massima venerazione, altri ancora non sono in grado di distinguerla da un politico, da un sofista o addirittura da un folle. L’errore dell’opinione è connesso ai modi dell’apparire. Occorre distinguere tra la multiformità delle apparenze, verificarle secondo il “genere” per non incorrere nel medesimo errore di valutazione nel quale è caduto anche Socrate all’inizio.

Il divino nella filosofia: la distinzione La risposta di Teodoro, al pari degli argomenti socratici, dimostra di muoversi ancora sul terreno dell’opinione. Il «mi sembra (moi dokeî, 216b9)», con il quale egli corregge il giudizio di “dio della confutazione” che Socrate assegna allo Straniero, è la rivendicazione della quotidianità come dato primario dal quale cominciare la problematizzazione filosofica. è tuttavia anche espressione della possibilità concreta di un’opinione, che non è di necessità falsa. Essendo la doxa, al pari della scienza, effettuata attraverso il logos, ne patisce gli effetti contrari come tutti gli altri discorsi. L’opinione che Teodoro ha maturato dello Straniero è fondata sulla realtà, è sachlich, originata da una costante frequentazione della cosa in discussione: questa Sachlichkeit pone il suo argomentare al di sopra del giudizio pur penetrante di Socrate e lo corregge, giacché Plat. Soph. 216c5 (tr. it. di G. Cambiano). Sull’importanza della nozione di apparenza nel Sofista cfr. L. Palumbo, Il non essere e l’apparenza. Sul Sofista di Platone, Napoli, 1994, e N. Notomi, The Unity of Plato’s Sophist: between the Sophist and the Philosopher, Cambridge, 1999. 23

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non di un dio si tratta ma di uomo divino, nella misura in cui l’attributo della divinità possa davvero accompagnarsi ai filosofi. Nella risposta di Teodoro è implicito il tema della divinità del sapere. «Questo predicato del divino per i filosofi significa qui che essi hanno ad oggetto del loro domandare ciò vi è di più elevato all’interno dell’ente»25. Il theion non è caratterizzato in senso spirituale o religioso: esso esprime la preesistenza ontologica di alcuni enti, che occupano il vertice della scala gerarchica del reale. Il filosofo può essere divino perché capace di occuparsi del “più divino”, del più astratto nella sfera della contingenza. Alla natura divina della filosofia pertiene la facoltà di distinguere ogni cosa secondo la propria origine (tò génoj [...] diakrínein, 216c23), perfino quelle realtà, quali la divinità e l’umanità filosofica, che troppo spesso, nell’intendimento comune, vengono confuse. Il ghenos non è “genere” (Gattung) alla maniera della logica; il termine esprime un’appartenenza ontologica, è dunque «radice (Stamm)», «provenienza (Herkunft)», ciò a partire da cui le cose diventano ciò che sono, «ciò da cui proviene l’ente nel suo essere»26. La difficoltà di distinguere divino e filosofico è ancorata alla percezione immediata dei fenomeni, nella quale non si pone la questione dell’origine concettuale. I due ambiti sono tuttavia molto prossimi, sembrano possedere un comune fondamento, forse perché entrambi condividono la capacità di osservare in maniera distaccata e disinteressata le vicende umane. Nella descrizione socratica «i veri filosofi» (3ntwj filósofoi, 216c6) «dall’alto osservano la vita di chi in basso vive» (kaqorÏntej øyóqen tòn tÏn kátw bíon)27. «3ntwj filósofoj è detto in opposizione a plastÏj (216c6); pláttw è “forgiare”, “inventare”, “comporre un’opera”», dunque il vero filosofo esprime un’autenticità cui fa da contraltare la rappresentazione fittizia28. Nella determinazione del “vero filosofo” ritorna il verbo kathoran, questa volta specificato come un “guardare dall’alto” la vita, il bios, non la mera esistenza biologica, ma il comportamento che ha per oggetto una progettualità che anima il suo agire, la sua praxis. «Il tema della filosofia è dunque il bíoj degli

25 26 27 28

Platon: Sophistes, § 36, p. 242. Ivi, §§ 36 e 76, pp. 243 e 522. Plat. Soph. 216c6-7 (tr. it. di G. Cambiano). Platon: Sophistes, § 36, p. 244.

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umani e, eventualmente, la diversità dei bíoi»29. Perché il filosofo possa godere di questo sguardo imparziale è necessario che, per ricorrere alla celebre immagine della Repubblica, sia fuori della caverna, proiettato all’esterno, introdotto cioè nel medesimo spazio pubblico nel quale agiscono le esistenze con cui viene confuso. La visione dall’alto non è mai fuori del mondo, giacché come si è visto dando credito alle parole di Omero, anche gli dèi scendono tra gli umani per poterli osservare meglio. Una rigorosa dialettica di vicinanza e lontananza caratterizza il senso del kathoran30.

Cosa, concetto, nome La presentazione dell’esistenza filosofica si arresta a questo punto. Taluni interpreti hanno ritenuto che in questo prologo Platone avesse avanzato la proposta di analizzare i tre modi dell’esistenza “pubblica”, il sofista, il politico e il filosofo, in tre distinti dialoghi. Il fatto che il Sofista sia seguito dal Politico ha dato credito a questa ipotesi e alla contestuale tesi che Platone non abbia scritto il Filosofo, o che questo dialogo non ci sia pervenuto, o che ne abbia affidato la discussione all’oralità31. Heidegger pone la questione su un piano differente e si situa tra coloro che hanno ritenuto superfluo il completamento della trilogia. La determinazione della filosofia è difatti il tema principale del dialogo in esame, in virtù della descrizione fornita nel prologo e nel passo 253c8-9, nel quale la ricerca della definizione di sofista si arresta all’improvviso dinanzi alla constatazione che «cercando il sofista, prima di lui abbiamo scoperto il filosofo» dal momento che è stata individuata

29

Ibid. L’insistenza di Platone sui fenomeni del vedere (il kaqorân, il fantázesqai) potrebbe essere posta in relazione al libro A della Metafisica e a ciò che Heidegger ha definito il «primato dell’ñrân» (ivi, § 11, p. 70). Al senso generale del dialogo potrebbe essere riferita l’affermazione aristotelica «la vista [...] ci rende manifeste numerose differenze tra le cose (pollàj dhloî diaforáj)» (Arist. Met. A, 1, 980a27). 31 G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone: rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle dottrine non scritte, Milano, 1997, e G. Movia, op. cit. 30

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quella «scienza degli uomini liberi», la dialettica che, discriminando le cose secondo la loro vera essenza, è tecnica e sostanza del filosofare32. Nella prima parte di questo intensissimo prologo è formalmente indicato il tema intorno al quale ruota l’intero dialogo. Il tema è la domanda “che cos’è un filosofo?”. Si badi bene alla formulazione della questione: non si chiede “chi è filosofo?”, avendo di mira la legittimazione personale di un singolo relativamente ad un concetto già posseduto; è domandato invece di investigare in merito alla natura profonda (“che cosa è?”, tí pot’1stin, 217b3) di qualche cosa, nel caso specifico un’esistenza, cui possiamo assegnare l’appellativo di “filosofo”. La ricerca si scandisce dunque in tre momenti costitutivi: la determinazione cosale (il ti) dell’oggetto, la specificazione ontologica (il génoj) e infine la denominazione (l’3noma), che è il segno più visibile ed esteriore33. Tutti e tre i fenomeni analizzati, il ti, il ghenos e l’onoma, sono ricondotti al «campo unitario» del logos. «Poiché ogni parlare comporta, in quanto discussione, un su-qualcosa della discussione, un ti, nel più ampio senso della parola, ogni parlare è sempre discutere di qualcosa in quanto qualcosa e a partire da “qualcosa” indicare, esplicitare, condurre alla piena intelligibilità. Questo implica formalmente un génoj; e ogni discussione, se concreta, è una vocalizzazione; la cosa, quella di cui si parla, ha il suo nome, la sua designazione; essa si chiama – come si dice – in questo o quel modo. Nel fenomeno concreto del lógoj si trovano dunque dati il “su-qualcosa”, lo “in-quanto-cosa” e la designazione vocale»34. Socrate si rivolge allo Straniero per la prima volta sottoponendogli il compito di distinguere le tre entità nominate (sofista, politico e filosofo), chiedendogli di verificare la coincidenza dei tre nomi nella stessa radice ontologica o di argomentare la distinzione dei nomi a partire dal reciproco ghenos (diairoúmenoi, 217a7: è il primo impiego del verbo diaireîn)35. Non ci si aspetta che lo Straniero esponga il proprio punto Tr. it. di E. Martini. Platon: Sophistes, § 37, p. 247: «Per apprezzare in maniera conveniente questa problematica, dobbiamo avere ben presente il fatto che, per la scienza e la filosofia di quest’epoca, è stato tutt’altro che evidente operare una simile distinzione tra la cosa, la determinazione o determinabilità della sua provenienza, e la sua distinzione nominale. Platone è stato veramente il primo in questo dialogo a stabilire questa differenza primaria». 34 Ivi, § 37, p. 248. 35 La diairesi è il metodo dicotomico che consiste nell’assumere un oggetto e identificarlo secondo due definizioni; la prima, messa da parte, non è ulterior32 33

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di vista sulla questione perché lo si interroga in quanto portavoce e rappresentante della sua scuola. Gli si chiede però di far uso del diakrinein to ghenos che è stata individuata in precedenza come faccenda dura a risolversi, almeno relativamente alla possibilità di distinguere il filosofo dal dio. «Non è poca cosa né facile compito» nemmeno argomentare la tesi eleatica che individua i tre nomi citati in tre distinti generi, poiché la difficoltà principale riguarda la capacità di far luce su ciascuno di questi presi singolarmente36. Laddove dunque una forma di comparazione si rende possibile, è facile argomentare le differenze. Quando, al contrario, il confronto manca, è complesso disputare in merito all’identità di ogni singola cosa. Con tono pacato e umile lo Straniero fa il suo ingresso nel vivo del dibattito, mostrandosi pronto a raccogliere il polemico invito socratico. Alle possibilità di nascondimento che la figura di Teodoro porta con sé (si ricordi il lélhqaj di 216a6), l’eleate si presenta come colui che «dice di non aver dimenticato» (o÷k Þmnhmoneîn, 217b9), di serbare memoria degli argomenti che ha già contrapposto durante una conversazione precedente.

Una brachilogia imperfetta Alla determinazione oggettuale fa seguito, nella seconda parte del prologo, la specificazione del metodo da seguire. Enunciazione del tema ed esposizione del metodo sono le due grandi questioni che competono direttamente a Socrate, dopodiché egli si ritira dalla discussione lasciando il campo al più giovane Teeteto. Allo Straniero sono poste davanti diverse possibilità di argomentazione: il logos makros, che è il monologo, mente divisa, mentre la seconda costituisce il punto di partenza per una successiva dicotomia. Platone ne offre una definizione in 264d10-265a2: «Allora proviamo ancora, dividendo in due il genere che abbiamo davanti, a camminare sempre nella direzione segnata dalla parte di questo che ad ogni suddivisione risulterà a destra, attenendoci sempre a ciò che risulta comune al sofista, fino a che detratte tutte le determinazioni generiche che gli appartengono ed isolata la sua propria e particolare natura, proprio questa finalmente riveliamo a noi stessi e dopo di noi anche a quelli che più strettamente sono portati per natura a questo genere di metodo di ricerca» (tr. it. di G. Cambiano). 36 Plat. Soph. 217b3 (tr. it. di G. Cambiano): o÷ smikròn o÷dè ×âdion 1rgon.

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oppure il discorso fatto di domande e risposte, la brachilogia. Quasi a volere indirizzare la scelta dell’interlocutore, Socrate aggiunge di aver visto da giovane Parmenide, sebbene avanti negli anni, far uso del secondo metodo e di aver udito da lui «cose meravigliose». Ancora una volta il valore dello xenos è posto in relazione alla figura del maestro. Se egli avesse risposto di getto e accettata la seconda ipotesi, avrebbe manifestato forse un attaccamento a Parmenide più di forma che di sostanza. Egli invece rimanda la scelta al calibro della persona che gli sta di fronte. Dimostra dunque una notevole autonomia di giudizio che, con ogni probabilità, il fronte socratico-platonico non riconosceva ai continuatori della scuola eleatica. La strategia del lógoj pròj \llon (217d2) è attuabile se l’interlocutore non è facilmente irritabile, e si lascia condurre docilmente nella discussione, ossia se non si irrigidisce sulle proprie posizioni, se non cavilla, se non pretende di avere l’ultima parola su tutto. In caso contrario, se non si presentano queste qualità, allora sarà meglio ricorrere ad una macrologia. I caratteri richiesti per l’avvio del discorso brachilogico implicitamente richiedono una persona giovane, nella quale l’accomodamento agli argomenti dipende non tanto da una lungimiranza quanto dall’inconsistenza delle posizioni, che possono essere dunque facilmente confutabili37. La scelta cade su Teeteto, sia perché ha già discusso con lo Gli esempi di ignoranza citati da Platone hanno ad oggetto sempre persone giovani. Si veda Plat. Soph. 234b5 sgg., dove «giovani ignari fanciulli» sono facile preda di inganni visivi e, in generale, i giovani sono «molto lontani dalla verità». Sullo stesso punto conviene anche Teeteto, che ammette: «per quanto almeno a me, all’età che ho, è dato giudicare; pure penso d’essere anch’io uno di quelli che sono ancora molto lontani dal conoscere la verità delle cose» (234e3-4) e «forse, per l’età mia, spesso passo dall’una all’altra opinione» (265d1-2; tr. it. di G. Cambiano). Oltremodo significativi sono due rimproveri che lo Straniero rivolge al suo giovane e confuso interlocutore; dopo essersi disposto paternamente ad evitargli ogni «dolorosa esperienza», quale la confutazione o il brusco risveglio dai «fantasmi dei discorsi» alle «cose della vita», e aver coinvolto tutti i presenti nell’opera di accompagnamento di Teeteto, lo Straniero si spazientisce quando si accorge che il suo allievo è spinto non da uno slancio disinteressato verso la verità, ma dall’abitudine e conviene con il suo discorso solo esteriormente, non si accorge delle aporie che lo Straniero sta esponendo e di essersi trovato dinanzi al concetto chiave della discussione, il non-essere (cfr. 236d5 sgg.); oppure quando, avendo Teeteto fornito la propria definizione di eidōlon, dimostra la sua scarsa attitudine teoretica, attirando il riso del sofista e l’ironia del suo tutore (cfr. 239d6 sgg.). 37

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Straniero, sia perché si tratta del candidato ideale indicato da Socrate. Lo xenos finge una certa benevolenza. Dichiara un certo pudore (aêdÍj, 217d8) nel non poter scambiare brevi battute con tutti i presenti. Verrebbe tuttavia meno ai doveri prescritti dall’ospitalità se rifiutasse l’invito a confrontarsi nel modo indicato – il confronto serrato – con l’interlocutore prescelto. La materia da discutere presenta tuttavia una serie di difficoltà per risolvere le quali egli è costretto a ricorrere, seppur in presenza di un altro dialogante, ad un discorso che richiede molto tempo e un’esposizione continua (sucnòn, 217e1). «Risulta un misto assolutamente particolare di trattare il tema: si tratta sì di un dialogo, di una discussione, ma che comporta già, in partenza, il carattere di monologo»38. Le giustificazioni presentate dallo Straniero qualificano ulteriormente i suoi meriti. Egli è radicato nell’essenza delle cose, non si serve del logos per fare giochi di prestigio – come fanno invece i sofisti – dunque non sceglie una tecnica argomentativa senza calibrarla sull’entità del tema che dovrà discutere. La necessità di ricorrere ad argomentazioni più lunghe corrisponde alla natura degli oggetti da trattare, ossia all’impossibilità che essi vengano esauriti in un serrato scambio di battute.

Verità come accordo Il compimento della preparazione al dialogo prevede un’ultima ulteriore specificazione che riguarda, questa volta, non più l’oggetto né il metodo, ma il senso della verità. Esso viene descritto mostrando la contrapposizione tra due modi di conoscere le cose: quello privato (êdí=, 218b5 e c3) e quello comune (koin, 218b6 e c1). La conoscenza relativa ai nomi è espressione di una concezione particolaristica della verità, mentre il sapere dei ghenē è condiviso e universale. Occorre allora abbandonare questa prospettiva soggettivistica e ricercare l’elemento comune. è necessario una nuova forma di accordo (sunwmologÖsqai, 218c5) che non conviene più sulle mere denominazioni ma cerca «attraverso i discorsi» (dià lógwn, 218c4) di intendersi «sulla cosa stessa» (perì tò prâgma a÷tó)39. Platon: Sophistes, § 38, p. 251. Ivi, § 40, p. 258: synōmologhēsthai è «“übereinstimmen, dasselbe sagen mit dem Anderen, dasselbe meinen wie der Andere”». 38

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Il nome è tuttavia pur sempre la base primaria su cui avanza la ricerca più raffinata, è il koinon tacito che deve essere preso come punto di inizio dell’indagine in vista di un suo superamento. Le successive diairesi sono difatti interventi tecnici sui nomi, si servono delle denominazioni comuni al fine non tanto di mostrare l’aderenza degli onomata ai pragmata, quanto per risalire a ciò che nel nome, che è comunque un modo dell’apparire, è presupposto.

La via e l’esempio Raccogliendo le informazioni in comune sull’oggetto da indagare lo Straniero e Teeteto hanno già convenuto che il sofista – il primo della lista ad essere investigato relativamente alla «storia della sua provenienza»40 – è «cosa difficile e penosa a cacciare (calepòn kaì dusqÔreuton, 218d3)». Si adotta un’altra convenzione, condivisa fin dai tempi antichi, secondo la quale, prima di cimentarsi nelle grandi imprese, occorre esercitarsi sulle piccole (æn smikroîj kaì ×âosin, 218d1). Il metodo (tÕn méqodon, 218d4-5) indicato dallo Straniero è questo e poiché Teeteto non sa indicare altra strada (\llhn ñdón, 218d6), si procederà in questa direzione. I caratteri dell’oggetto da assumere a paradigma (parádeigma, 218d9) della ricerca sono l’immediata comprensione (e5gnwston, 218e2) e la scarsa rilevanza (smikrón). L’ambito da cui ricavare il paradeigma è lo spazio della familiarità, quindi della non problematicità che specifica il senso pratico ed operativo, dunque non astratto dalla contingenza, dell’investigazione platonica. Ciò che invece deve essere problematico, ossia capace di suscitare “questioni” dalle cose che sembrano non enigmatiche, è il discorso che lo tematizza, «che non sia più breve di quanto viene richiesto da tutto ciò che è di maggior impegno»41. L’oggetto comune, estratto dal quotidiano («è cosa che tutti possono conoscere e tale da non richiedere soverchia attenzione»)42 non è un oggetto stricto sensu, perché è la definizione di un’esistenza, il «pescatore con la lenza» (ÞspalieutÔj, 218e4). Certo non è da credere che 40 41 42

Ibid.: «Stammesgeschichte». Plat. Soph. 218e3 (tr. it. di G. Cambiano). Ivi, 218e4-5 (tr. it. di E. Martini).

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la scelta sia fortuita. I motivi che la determinano sono implicitamente già contenuti nella descrizione di sofista che si intende ottenere e, per riflesso, di colui che va mascherato “di città in città” confondendosi tra le apparenze.

Atmosfera spirituale: caccia, guerra, parricidio La battaglia concettuale messa in scena nel prologo del Sofista si conclude in maniera non fortuita con una metafora venatoria, la «caccia agli animali acquatici» (220a9-10), già preludio alle parti successive e ulteriore conferma del carattere polemico della ricerca filosofica. Già nella fasi iniziali della discussione sono visti contrapposti il phantasma, modo immediato del darsi di ogni essente, e il ghenos, specificazione ontologica dell’ente; il logos elenchico, critico e la doxa, intuizione primaria e non scientifica dei fenomeni; l’esistenza filosofica e le sue dissimulazioni – la politica e la sofistica – e, per certi versi, gli attributi propri ed impropri coi quali viene qualificata – la divinità o la follia. Radicando la contesa nel cuore delle apparenze, le argomentazioni degli interlocutori lasciano intravedere inoltre il corretto orizzonte dell’indagine teoretica, non polemica eristica impegnata in sterili confutazioni, ma discussione radicata nell’essenza multiforme e problematica delle cose. Il recupero dell’eleatismo – sia esso più o meno “illuminato” – passa attraverso la contestazione radicale dei suoi princìpi, invocando maggiore fedeltà al primo mostrarsi degli enti che agli assunti della scuola. Il «vero filosofo» dà ascolto all’immediato e si preoccupa più di non contraddire le evidenze anziché una tesi al momento non dimostrata. Non è questione di stabilire ancora se Platone abbia o meno portato a termine l’assassinio filosofico del padre; nella legittimazione iniziale ogni pensiero ha il compito di rendersi omicida potenziale, parricida addirittura, che è come dire portare l’assassinio nel cuore di quella familiarità, la tradizione, nella quale ci si sente a casa o perché la si è assunta acriticamente o perché la si è già destrutturata e vivificata, così da far apparire concretamente il passato nel quale ciascuno è 43. Di «“fallimento” platonico» parla ad esempio G. Sasso, L’essere e le differenze, cit., pp. 7 sgg. Di assoluta mancanza di volontà a commettere il parricidio parla invece G. Casertano, Il nome della cosa, cit., p. 139; di opinione simile è G. Carchia, La favola dell’essere, cit., p. 66 sgg., per il quale la promessa di par43

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Del dio della confutazione Socrate teme più di ogni altra cosa la revisione critica dei suoi logoi. Questo timore può rivelarsi pratica di ironia, nel caso in cui lo Straniero si riveli un erista; oppure può concludersi nel riconoscimento di un'infeconda devozione al magistero parmenideo, quindi con la scoperta di assenza di problematizzazione del principio ontologico che colloca il non-essere al di fuori dell’esistente e non dà ragione del “policefalo” fenomeno della differenza. Socrate paventa di non essere stato fino in fondo discepolo del maestro e di vedersi di lì a poco rimproverato dalla voce delle cose che dice altro rispetto alla lezione di scuola. La fedeltà ai maestri e a se stessi si paga con il rischio estremo. è necessario dunque che si sfiori il pericolo massimo di uccidere il padre e, traslatamente, se stessi. Il valore supremo del parrēsiastēs, il dicitore di verità, è la sua capacità di essere parricida.

ricidio è «mossa tattica», il tentativo estremo di salvare il principio parmenideo dalla doxa. Per J.-L. Nancy, Il ventriloquo: sofista e filosofo, tr. it. di F. F. Palese, Nardò, 2003, p. 51, il parricidio «è mimato». Sul significato “epocale” del parricidio nella filosofia occidentale è fondamentale lo scritto di E. Severino, Il parricidio mancato, Milano, 1988.

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CAPITOLO SECONDO Descrizioni fenomenologiche del quotidiano Il Sofista è un dialogo complesso44. La complessità si evince in primo luogo da una serie di nozioni che, come mostra il prologo, sono esibite per poter essere chiarite in seguito, quando sarà attribuita alla “scienza dialettica” la capacità di stringere in sintesi, raccogliendo sotto un’unica idea, un fenomeno che sembra vario e molteplice. Il dialogo appare complesso anche perché è costituito da una serie di sezioni che possono essere variamente interpretate. Solitamente si distingue il Sofista A chi minimizza l’importanza del Sofista si potrebbe rispondere con l’ironia di Luigi Scaravelli: diceva che se avesse incontrato il suo “amico Platone”, immaginando di discorrere con lui sulla separazione tra il mondo delle idee e quello delle cose, gli avrebbe obiettato di lasciar «fare queste separazioni ai platonici, e che si ricordasse di aver scritto il Sofista, ove non c’è verso di trovare una distinzione che non richieda per la propria possibilità una contraddittorietà» (cit. in G. Sasso, «Luigi Scaravelli e il Sofista di Platone», in Id., Filosofia e Idealismo. III: De Ruggiero, Calogero, Scaravelli, Napoli, 1997, pp. 573-620, in part. p. 575; si vedano anche i contributi di R. Assunto, C. Cesa, M. Corsi, R. Franchini, V. Verra, raccolti in Le lettere di Scaravelli ad un amico fiorentino, Napoli, 1989). Maurizio Migliori, Il Sofista di Platone. Valore e limiti dell’ontologia, Brescia, 2006, si interroga su questa contraddittorietà, considerandola un limite dell’ontologia costruita nel dialogo platonico il cui problema dominante sarebbe una «movenza teorica che ruota intorno ai concetti di intero e parte, alla relazione-distinzione tra uno, intero, tutto, e che culmina nella coppia agire e patire» (ivi, pp. 87-95). Occorre mettere in risalto che, però, Platone discute questi temi nel confronto con le ontologie precedenti e che la “scoperta” filosofica dell’alterità è tutt’altro che scontata e va ben al di là della possibilità di dire il non-essere (posizione che l’Autore definisce il centro tematico dello scritto). Migliori ha ragione a definire la «visione del reale» di Platone «una dinamica, cioè una dialettica» (ivi, p. 41) ma questa visione dinamica non si scontra di necessità con l’ontologia, quasi come se quest’ultima fosse perpetuamente statica ed escludesse il movimento implicito nell’essere che, proprio nel Sofista, Platone afferma con decisione. 44

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in più parti, la più importante delle quali è la discussione dei “generi sommi” e la possibilità ontologica del non-essere in quanto “diverso”. Questa sezione arriva però a circa metà della discussione, dopo che gli interlocutori si sono affannati a cercare una definizione esaustiva di sofista, senza trovarne una che non generasse aporie. Dinanzi ai tentativi compiuti si può essere di diverso avviso: li si può considerare un giuoco pseudo-dialettico o sofistico, che ha lo scopo di mostrare le contraddizioni di un discorso non fondato scientificamente; li si può leggere come un divertissement platonico, un cedimento quasi teatrale dell’indagine filosofica. Esprimere riserve di questo tipo nei confronti della prima parte del dialogo implica una netta presa di posizione che induce a considerare i tentativi di definizione un percorso accidentale e marginale rispetto al vero e proprio nocciolo teoretico. Qualcosa insomma di cui poter fare anche a meno. Una posizione siffatta non rende però ragione del “fatto” che Platone premette alla discussione sulla “comunità dei generi sommi” una vivace discussione che forse, riguardata sotto un’altra luce, può esprimere un positivo contenuto filosofico. Se non altro la scelta dell’oggetto e del metodo paradigmatico (il pescatore e la diairesi), l’individuazione di uno schema esemplare (la tecnica), le numerose analogie tra il sofista e i mestieri di cui si ha esperienza diretta nel mondo, costituiscono gli argomenti per delimitare il campo pre-filosofico e, per certi versi, antifilosofico, che rappresenta il punto di partenza da cui Platone si allontana progressivamente, finché non individua il primato della dialettica e della scienza filosofica che sole permettono una soluzione delle aporie. Indagate analiticamente, le prime sei definizioni offrono una descrizione fenomenologica della quotidianità, vale a dire di quella esperienza del mondo radicata nel darsi dei fenomeni e non ancora mediata dalla riflessione e dalla concettualizzazione della filosofia. La settima e conclusiva definizione giunge soltanto quando si sono investigate le possibilità ontologiche del non-essere. Quest’ultimo tentativo costituisce un deciso allontanamento dal paradigma tecnico indicato all’inizio del dialogo, e passa dalla tecnica acquisitiva alla tecnica poietica. Merita pertanto di essere interpretato separatamente, anche perché pone in discussione una specifica nozione filosofica, l’apparenza, che necessita di un’autonoma considerazione.

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1. Determinazione del fenomeno della quotidianità Essere e tempo contiene pagine memorabili sul fenomeno della quotidianità. L’interpretazione si inserisce nel quadro dell’analitica dell’esistenza che ha lo scopo di riproporre la questione ontologica. Tornare a chiedere dell’essere, come pretende Heidegger, passa attraverso l’analisi di quell’ente che, unico tra gli essenti, ha la possibilità di far questione del proprio essere. Lo scopo dell’analitica è portare l’esserci umano a vedere chiaramente se stesso, a comprendersi nella propria costituzione, a partire dalla vita che Heidegger definisce «innanzitutto e per lo più», «medietà», «opacità»45. L’Esserci si caratterizza per la sua relazione (Umgang) al mondo che è costituito da oggetti e da persone. Dominata da questo sistema di relazioni con altri enti intramondani, l’esistenza umana non può che smarrirsi, distraendosi dallo scopo di divenire problema a se stessa, punto di partenza di un percorso di autocomprensione. L’Esserci soggiogato dai rapporti interpersonali, da quella percezione del mondo che Heidegger definisce «con-essere» (Mit-sein) e «con-esserci» (Mitdasein), perde ogni possibilità di individualizzazione e, invece di divenire autentico soggetto (“Chi”), si perde in una generica impersonalità46. Dagli altri non ci si distingue, eppure ogni sforzo di autocomprensione è un tentativo di distinzione. Finché questa differenza non si realizza, tutti sono ognuno e ciascuno è “nessuno”, vale quanto un altro, è tecnicamente sostituibile, interscambiabile, quasi come se nessuna qualità umana possa definirlo. Laddove esiste solo il “Si” (Man), non esiste individualità. Eppure l’impersonale puro, questo corpo anonimo, è in fondo «“soggetto realissimo” della quotidianità», un soggetto però senza soggettività, privo di autonomia e di capacità di individuazione47. L’impersonalità esercita una vera e propria dittatura, imponendo modi di dire e di agire, stabilendo un valore medio della vita cui ogni esistere deve uniformarsi. Il “Si” «decreta il modo d’essere della quotidianità» e sorveglia ogni eccezione, livella ogni primato, omologa ogni concreta possibilità di essere diverso48. L’Esserci quotidiano è dunque un’esistenza anonima che non sceglie e si lascia scegliere, che non distin45 46 47 48

Sein und Zeit, §§ 5 e 9, pp. 16 e 44; tr. it. Chiodi-Volpi, pp. 30 e 62. Ivi, § 26, p. 118; tr. it. p. 149. Ivi, § 27, p. 128; tr. it. p. 160. Ivi, § 27, p. 127; tr. it. p. 159.

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gue nemmeno la più autentica possibilità d’essere che è l’essere-per-lamorte: in fondo “si muore” perché “si deve morire”. I comportamenti attraverso i quali si esplica questa esistenza, la chiacchiera, l’equivoco, la curiosità, rappresentano esili tentativi di caratterizzare la propria relazione al mondo e costituiscono invece modi falsificati di un più autentico rapporto mondano costruito sul discorso, sulla comprensione di sé e del proprio essere e sull’essere insediati in un legame col mondo sempre intonato emotivamente. La quotidianità è una riproduzione imperfetta e falsificante di un originario rapporto con il mondo, fonte a sua volta di concrete e insidiose possibilità di falsificazioni linguistiche e comportamentali. L’analisi heideggeriana costituisce un paradigma raffinato per comprendere il senso generale delle descrizioni platoniche dell’esistenza anonima e sfuggevole che va sotto il nome di “sofista”.

Filosofia del quotidiano Sotto la nozione di quotidianità (Alltäglichkeit) cade la vita nella sua immediatezza, nel proprio accadere effettivo e concreto. Sembra quasi che il suffisso astratto (-ità, -keit) conferisca a questa dimensione naturale dell’esistere una sofisticazione aggiuntiva, quando non il peso del concetto che ne soffoca la spontaneità. Fare filosofia del quotidiano è impossibile: quando comincia la filosofia, il quotidiano si è già dissolto49. Questo è grosso modo il parametro che, dagli albori del pensiero, ha sempre contrapposto la vita della mente alla vita di tutti i giorni, a quella dimensione che è stata di volta in volta interpretata come mondo dell’opinione, del senso comune, dell’istinto e delle passioni, dell’approssimazione. Alla eccezionalità della prima, a quel destino privilegiato che sembra toccare solo a pochi, si è contrapposta la generalità della seconda, il suo essere e appartenere a tutti. L’aneddotica sui filosofi “fuori del mondo” e l’appello da parte dei pensatori all’abbandono del mondo o la messa al riparo in una selezionata comunità di affini sono F. Rigotti, Il pensiero delle cose, Milano, 2007, pp. 13 sgg.. L’autrice segnala anche il rischio che una “filosofia della vita quotidiana”, delle “piccole cose”, possa restringere ulteriormente la sfera del pensiero femminile nell’ambito del domestico, del focolare, alla vita privata che non può essere spesa in pubblico e perciò non produce autentica condivisione. 49

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esempi che dimostrano come e quanto sia difficile tentare una conciliazione tra i due ambiti. Non basta neanche l’ingenua evidenza che, malgrado l’astrazione, pensare significa pensare a partire da un corpo e con esso attraverso una mente che, finché vive, è nel mondo e mai altrove. L’ovvio e il profondo sembrano attributi inconciliabili, specie quando si attribuisce il primo alla dimensione pre-teoretica dell’esistenza e il secondo alle sfere quasi intangibili e irte di mistica dell’atteggiamento contemplativo. Il “fatto bruto” della vita è tuttavia una persistenza insuperabile, un’eccedenza che nemmeno la meditazione più disincarnata può annichilire col gesto libero e complesso del negare. Così il pensiero più profondo nasce sempre da ciò che più vive, da quella vita nuda che si torna ad amare e a proteggere con maggiore intensità dopo l’esercizio spirituale più alienante, o forse l’algore di quest’ultimo non ha altro fine che quel “primo amore”. La caduta libera nella ovvietà è il più eloquente segno dell’elemento vitale insito nella teoria, che conquista la “fatica del concetto” nel cerchio immediato e perturbante dell’oiko-logia, il logos analitico che rende conto e ragione dell’essere che viene per primo nella ghenesis e ospita, attrae e respinge come solo la domesticità della nostra essenza può fare, domesticità che non vuol dire porto sicuro, rifugio alle intemperie, ma essere insediati nel cuore del tempo e dei suoi tormenti: il deinon sofocleo è l’umano sentirsi a casa nell’essere senza dimora. Quotidianità e filosofia sono in dissidio stridente. Questo contrasto però non nasce tanto da una dimostrata inconciliabilità quanto da ormai retrivi e superati pregiudizi. Il quotidiano e il filosofico convivono nella stessa persona. Diversa è invece la questione se le categorie e i metodi della filosofia possano valere anche per la vita spontanea, che però rimane tale fintantoché non viene concettualizzata o fatta oggetto di indagini scientifiche particolari. Così come problematico è il tentativo di abbozzare una filosofia del quotidiano, fare cioè di quest’ultimo l’oggetto di una disciplina filosofica particolare. Gli esperimenti più interessanti vengono soprattutto dalla filosofia del linguaggio, che ha riconosciuto al linguaggio ordinario dignità filosofica50. In verità ogni disciplina specialistica dedita all’analisi di una regione dell’ente è a suo modo analisi di una piccola porzione del nostro quotidiano riguardato Basti ricordare le Ricerche filosofiche di Wittgenstein (ed. it. a cura di M. Trinchero, Torino, 1999) e le intuizioni di John Austin (Saggi filosofici, tr. it. di P. Leonardi, Milano, 1990, e Come fare cose con le parole, tr. it. di C. Villata, Genova, 1987). 50

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sotto una luce particolare, che può spaziare dalla medicina alla politica, dall’etica alla cucina. Allora il problema è: qual è il quotidiano della filosofia? Se la domanda si rivolge al contenuto, si può tentare un abbozzo di soluzione solo per via indiretta e negativa, distinguendo il filosofico dal non-filosofico, inserendo in quest’ultimo il quotidiano, che diviene sinonimo di pre-filosofico, non ancora o non più filosofico, non necessariamente filosofico. Se l’interrogativo è invece di forma, l’unica risposta possibile è che la quotidianità della filosofia è esercizio giornaliero di concetti e di pensiero critico. Quando però si tenta in un modo o nell’altro di definire la pratica filosofica si ha sempre l’impressione di dire nulla. La vita di tutti i giorni di chi si occupa di filosofia vive di momenti più o meno filosofici, pur facendo di una certa interpretazione della filosofia il luogo di relazione e di incontro tra sé e il mondo. Il rischio principale insito in una presunta “filosofia del quotidiano” è la resa intellettualistica e categoriale di fenomeni che per la loro immediatezza sono retrivi a qualunque incapsulamento concettuale. Laddove intervengono i concetti, le teorie, i metodi, il quotidiano si snatura: perde in individualizzazione e si appresta a divenire un dato statistico e generalizzabile. Altra e ben più fondata cosa è esibire invece la radice quotidiana della lingua filosofica: in questa prospettiva i tentativi platonici di definire il sofista mostrano questa legittima derivazione; particolarmente interessante è la dimostrazione del carattere critico ed elenchico della filosofia ricavato per analogia dalle mansioni domestiche del distinguere, del setacciare, del filtrare51. Se a prima vista quotidiana è la vita incolore di tutti, è vero però che ciascuno vive quotidianamente a modo suo e si sforza di rendere il proprio quotidiano non tanto il luogo massimo della spersonalizzazione, quanto al contrario quello che, per scelte, per abitudini e per contesti, maggiormente caratterizza la propria singolarità e la rende dissimile da altre. Più che essere liquidata come impersonale, anonima e indifferente, la quotidianità e la sua strutturazione possono costituire invece il volto più autentico della percezione del presente, quando diviene tempo dedicato ai progetti dell’avvenire, alla custodia della memoria, Mansioni domestiche, servili e femminili: cfr. A. Cavarero, Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica, Roma, 1999 e soprattutto il ruolo tacitamente rivoluzionario di Penelope che scompone trame già definite (pp. 13-32). 51

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alla fatica del cambiamento, alla costruzione di un miglioramento. Tutto ciò che è eccezionale, ovvero tutto ciò che qualifica ognuno per l’individuo che è, ha radici nella vita quotidiana52.

Quotidianità e temporalità Quotidiana è la vita di tutti i giorni, scandita da ritmi ripetibili. è quasi un luogo comune esprimere giudizi severi su tutto ciò che è ripetitivo, spesso reso sinonimo di routine, di ripetizione stucchevole, di monotonia da evadere. Accade però che proprio quando questo circolo si interrompe, muta la percezione dell’essenza del nostro quotidiano: tutto ciò che un tempo appariva noioso appare di colpo profondamente interessante e desiderabile. Eventi decisivi della storia personale, soprattutto perdite, lutti, separazioni, possono strapparci forzatamente a quel ciclo di normalità al quale ci accorgiamo di colpo di non avere dato mai sufficiente valore. Avvenimenti della grande storia possono irrompere nei nostri microcosmi personali e minacciare di interrompere il placido e monotono ritorno di giornate uguali. L’interpretazione heideggeriana del fenomeno della quotidianità si inserisce tra le analisi più compiute e più interessanti di Essere e tempo. Il giudizio complessivo sul fenomeno non lascia spazio a fraintendimenti: quotidianità è sinonimo di medietà, impersonalità, uniformità, omologazione. Un punto risulta tuttavia decisivo nella lettura di Heidegger, vale a dire la relazione tra la vita quotidiana e la temporalità: «col termine quotidianità si intende, in sostanza, null’altro che la temporalità che, come tale, rende possibile l’essere dell’Esserci»53. Questo rapporto ontologico fondamentale è facilmente sperimentabile perché è implicita nella nozione di quotidianità la ripetizione di un tempo che appare identico a se stesso; sono tuttavia le grandi fratture della nostra esistenza a far mutare questa prima e ingenua percezione e a renderci capaci di

Si vedano le sensate obiezioni di Jean-Luc Nancy all’analisi heideggeriana della quotidianità (Essere singolare plurale, introduzione di R. Esposito in dialogo con Jean-Luc Nancy, Torino, 2001, in part. pp. 15-16). 53 Sein und Zeit, § 71, pp. 371-372; tr. it. Chiodi-Volpi, p. 439. Cfr. anche M. Heidegger, Der Begriff der Zeit, tr. it. a cura di F. Volpi, Milano, 1998. Sulla questione platonica della temporalità cfr. A. Boutot, «L’être et la présence», in Id., op. cit., pp. 23-88. 52

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individuare in quella ripetitività il legame decisivo che il nostro esistere intrattiene con il tempo: nel tempo che scorre, perfino in quello perso, si insinua il racconto della nostra esistenza. Il modo principale di qualificare l’esistenza nella sua medietà rinvia ad un più profondo e originario legame con il tempo. L’aggettivo “quotidiano” significa in prima istanza la vita di “tutti i giorni”54. L’espressione può definire semplicemente la somma dei giorni, la durata della vita secondo unità di misura stabilite dal calendario o dall’orologio. La quotidianità tuttavia è più che un semplice calcolo, come il tempo è più che un criterio di misurazione. L’esperienza quotidiana esprime una modalità esistenziale, un “come” si può vivere e questo modo è in fondo una prospettiva che si assume dinanzi al tempo. Nella quotidianità ci si trova dinanzi alla radice temporale del proprio essere come un “vivere alla giornata”, si è dinanzi ad un presente assoluto che sembra escludere qualunque distinzione tra un passato e un futuro differenti. Il fatto che Heidegger distingua tra un presente autentico (l’attimo) e uno inautentico (la presentazione) deriva in larga parte dal modo in cui ci avviciniamo al presente55. Possiamo semplicemente abbandonarci al consueto e dunque immaginare che ogni novità che il tempo porta con sé sia null’altro che la ripetizione del già-stato; così come possiamo immaginare che il futuro in fondo non sia altro che una riedizione di vecchie abitudini. L’esistenza umana trova il senso del proprio essere nella temporalità. Su questo fondamento dell’esistere è possibile procedere anche ad una “temporalizzazione della temporalità”, vale a dire la radice ontologicotemporale costituisce la fonte da cui scaturiscono esperienze concrete di poter esistere nel tempo. Vivere, come accade nella temporalità quotidiana, sotto il giogo del presente può significare anche eludere ogni tentativo di progettazione esistenziale, perché vivere alla giornata vuol dire affidarsi completamente a ciò che il presente offre e sentirsene appagati. Il presente autenticamente speso coincide invece con il coglimento dell’attimo opportuno (kairos, Augenblick) che consente di gettare uno sguardo complessivo sul progetto d’essere della propria esistenza in costruzione.

54 55

Sein und Zeit, § 71, pp. 370-371; tr. it. Chiodi-Volpi, pp. 437-438. Ivi, § 68, pp. 337-338; tr. it. pp. 400-401.

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2. La descrizione fenomenologica Nessuna delle prime sei possibili interpretazioni del sofista può essere considerata asserto scientifico. Ciascuna è rimessa in discussione dalla successiva, così che l’insieme delle denominazioni si articola in un continuo circolo di rinvii e superamenti. Il limite fondamentale per il raggiungimento di una definizione condivisa dipende dalla mancanza di individuazione del ghenos, dell’autentico avere-in-comune capace di legare in sintesi sensata un fenomeno che dal suo primo darsi appare “policefalo”, variopinto e molteplice. Le diairesi non possono dar luogo a enunciati definitivi, perché, più che definizioni, devono essere assunte come «descrizioni», come esibizioni più o meno dirette di fenomeni collaterali che, per qualche accidente o analogia, hanno solo simbolicamente a che fare con l’essenza del sofista56. Il procedimento diairetico ha lo scopo principale di operare tagli nell’essere e sostenere distinzioni nel discorso, vale a dire non si identifica con la facoltà che può raccogliere in unità la molteplicità apparente. Platone fa uso del metodo della distinzione nella prima parte del dialogo perché ha lo scopo di servirsi di una metodologia non dimostrativa ma “mostrativa”, capace di far vedere ed ancora estranea ad ogni conciliazione dialettica. Si ricava dunque una fenomenologia, nel senso letterale del termine, vale a dire un discorso sul fenomeno tematizzato. Questa fenomenologia è radicata sul terreno fattuale su cui si muove il “tema” – è quasi imprendibile, come un animale cacciato – e ha l’obiettivo di individuare il suo ambiente, i suoi comportamenti, le sue relazioni. è «questa fatticità (dieses Faktische)», il radicamento nei fatti e nelle cose di questa esistenza, «a dover essere compresa e non un’idea chimerica del sofista»57. Dalla descrizione del tessuto relazionale che l’ente-sofista intrattiene con il suo mondo torna indietro, come un riflesso, l’immagine più prossima all’oggetto della ricerca. Si rivela dunque estranea alle intenzioni di Platone la discussione relativa alla correttezza logica delle definizioni, all’insussistenza delle prime sei e al carattere conclusivo dell’ultima, che verrebbe a condensare i frutti abortiti dai tentativi iniziali. Seguendo questo principio fondamentale, anche il commento heideggeriano si muove sul piano 56 57

Platon: Sophistes, § 45, p. 289. Ivi, § 46, p. 295.

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delle descrizioni fenomenologiche e ha come obiettivo fondamentale l’interpretare più che il dimostrare. Non si fraintende il senso generale di questo commento riprendendo gli argomenti di cui si è più volte servito Heidegger: la scientificità di una produzione si misura dalla capacità di aprire e mostrare questioni, più che risolverle inseguendo da principio l’idea di sistematica. 3. Senso comune e logos analogico Platone premette alla discussione sul sofista l’analisi di un paradigma. Il pescatore con la lenza è un oggetto “piccolo” e di “facile comprensione”, ricavato dall’ambito della quotidianità nel quale è facile convenire in merito alla sua definizione. Il primo problema che pone la scelta di un simile esempio è la sua aderenza al seguito del discorso oppure la più completa autonomia: questo oggetto è analizzato al solo scopo di esplicitare il metodo o esprime una continuità con il sofista? Se prevale la prima ipotesi, è chiaro che il procedimento metodologico risulta assolutamente indipendente dal tema discusso, ed è una mera «tecnica formale». Al contrario, «tra l’oggetto esemplare [...] e quello tematico [...] esiste anche un rapporto di contenuto»58. Questa relazione è stabilita in base alla technē, posseduta sia dal pescatore che dal sofista, che li rende esperti dunque di una certa tecnica (tecníthj), e perciò a modo loro insediati nel cuore della verità dell’essere. Lo zÔthma prÏton (221c8), il primo punto da sottoporre ad indagine, è come interpretare (Ìj [...] qÔsomen, 219a5-6) il pescatore: è tecníthn, \tecnon oppure \llhn dè dúnamin 1conta (ivi), è esperto di una certa tecnica, ne è assolutamente privo, o possiede forse qualche altra abilità? La corretta determinazione iniziale dell’oggetto ha una priorità non meramente cronologica, come se fosse la prima fortuita questione, sostituibile da un’altra; essa ha al contrario un primato di contenuto, è il «pre-disponibile (Vor-habe)», un prerequisito necessario che informa l’intera ricerca. Il dato più rilevante che emerge dalla posizione del problema da parte di Platone è la relazione tacita stabilita tra la technē e la dynamis, tra un modo della verità e la definizione principale degli enti: «io pongo come definizione delle cose che sono (tà 3nta), questa: gli essenti non 58

Ivi, § 42, pp. 262-263.

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sono altro che possibilità (dúnamij)»59. Ogni essente è caratterizzato dalla “possibilità di” (eêj [...] dúnamin, 219b8-9) essere in un modo o nell’altro, di stabilire nei confronti della verità il proprio rapporto, l’essere esperto di una certa arte, l’essere avveduto relativamente alle proprie azioni, l’essere dedito alla pura attività conoscitiva o l’essere sapiente in merito alla costituzione ontologica di ogni ente. è implicito che il pescatore, se anche non possedesse alcuna tecnica, dovrebbe a suo modo, in quanto essente, avere la propria specifica relazione alla verità. Il termine êdiÍthj (cfr. 221c9), che verrà preso a sinonimo di \tecnoj, indica «l’uomo qualunque», chi ancora non è divenuto trasparente a se stesso nel proprio modo d’essere e nell’entrare in rapporto con la verità. Alla domanda se il pescatore sia dotato o meno di una tecnica risponde il senso comune; la facile intellezione che caratterizza la sua essenza deriva dal fatto che è sotto gli occhi di tutti che egli sia dotato di un certo intendersi (Sich-Auskennen). Che ci si muova sul terreno del sentito dire e dell’approssimazione emerge anche dalla successiva specificazione che Platone offre della tecnica e che non ha lo scopo di pervenire ad una “sistematica”, indicando quindi con esattezza i modi del suo manifestarsi. Lo scedón (219a8), che introduce la descrizione degli eidē della tecnica, implica la mancanza di una soluzione definitiva: «i modi dell’intendersi [...] sono approssimativamente, forse (scedòn), due», due sono gli aspetti nei quali tutte le tecniche si mostrano, ma questa distinzione è approssimativa e mai definitiva60. Il cammino procede anche in questo caso dalla determinazione dell’immediato, del più prossimo, per risalire a ciò che costituisce la forma assoluta della tecnica, il suo senso generale, la sua visibilità, senza che tuttavia questo percorso implichi una parola definitiva su un fenomeno che si presenta invece molto complesso. Il primo dato evidente è che la tecnica, in quanto intendersi di qualcosa, esprime una relazione con l’oggetto (Worin) di cui si occupa. Relativamente a quest’ultimo è possibile ricavare una descrizione della tecnica dai modi più semplici dell’esistenza, intensificando ulteriormente la convinzione che la parte iniziale del Sofista esponga una vera e propria analitica dell’esistenza, a partire dalle sue modalità più quotidiane, fino a quelle più sofisticate, quali il bios theōrētikos e la sua dissimulazione, intenzionale o meno, ad opera della sofistica. Il senso comune fornisce dunque il primo orientamento per la 59 60

Plat. Soph. 247e3-4 (tr. it. di G. Cambiano, lievemente modificata). Platon: Sophistes, § 42, p. 266.

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promozione di una discussione filosofica che deve pur poggiare su un presupposto facilmente condivisibile. Questa intenzione di fondo deve armonizzarsi con il linguaggio nel quale si esplica: si rende necessario un logos adeguato, un discorso che tenga dietro ai fenomeni approssimativi suggeriti dal senso comune. Un simile logos non può non essere analogico e ciò per vari motivi: innanzitutto, in quanto analitico e fenomenologico, non può essere sinottico, manca dunque della vista unitaria sull’ente; in secondo luogo, per meglio aderire all’oggetto di riferimento, deve riprodurne i modi, deve cioè far propria la strategia di parlare “come se”, perché, discutendo della molteplicità, è consapevole di non poter pervenire ad una definizione conclusiva ed universalmente riconosciuta. Le prime sei descrizioni di sofista sono quindi “analogiche” perché in ciascuna il fenomeno ricercato non è presentato nella sua originale essenza, ma è sempre posto in relazione con una professionalità con la quale sembra essere in un rapporto di somiglianza. Se i primi tentativi di definire il sofista falliscono ciò dipende dal fatto che con il logos analogico è impossibile ricavare una soluzione definitiva. Il sofista non è ma sembra essere qualcosa di ben definito, ovvero sembra agire come un cacciatore, un mercante, un filosofo. La contraddizione dell’analogia nasce dalla convinzione che, nel tentativo di determinare un concetto, si sta facendo ricorso ad un altro nome, e dietro a questo nome, ad un altro concetto e ad una cosa completamente differente. 4. Eidos e ghenos Una piccola annotazione in merito all’impiego da parte di Platone di eôdoj e génoj si rende necessaria. Secondo la lettura di Heidegger questi termini vanno assunti come equivalenti e non ulteriormente differenziati: «Platone impiega génoj e eôdoj in modo promiscuo», mentre «génoj e eôdoj sono [...] due termini di orientamento molto diverso, sia nel loro carattere concettuale, sia nel loro rispettivo contesto. génoj è un concetto strutturale dell’essere, eôdoj è un concetto di donazione dell’essere dell’ente» e, si specifica in un’annotazione a piè di pagina, «génoj: essere-stato, eôdoj: evidenza, presenza»61. Il primo dunque contribuisce a chiarire «reciproci rapporti di fondazione» (Fundierungs61

Ivi, § 76, pp. 523-524.

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zusammenhänge), le relazioni ontologiche preesistenti, «l’a priori», che si colgono nell’atto intellettivo. Eidos accentua invece il «contenuto reale» (Sachhaltigkeit) delle cose ma nulla dice relativamente al loro essere. Almeno nelle prime diairesi è tuttavia evidente che la coincidenza concettuale lamentata da Heidegger non è assoluta. La grande bipartizione interna alla tecnica ci pone dinanzi due eidē, così come nuovi eidē porteranno in luce anche le ulteriori distinzioni. Soltanto verso la fine di ogni descrizione compare il termine ghenos, che viene ad indicare dunque una categoria meno ampia. L’articolazione delle diairesi comincia sempre da un presupposto; nel caso della prima e fondamentale dicotomia appare tuttavia che il dato comune è l’eidos, che dal punto di vista della sua costituzione non è di certo un particolare. Eidos è il nome dell’universale che si trova presupposto all’interno della quotidianità62. Si tratta di un’intuizione che non verrà mai contestata nel corso del dialogo. L’esperienza empirica ci pone dunque dinanzi ad un universale che ha la sua ragion d’essere unicamente nella condivisione; è come l’essere che è senza ragione e senza fondamento, non patisce in conclusione il peso della dimostrazione o della verifica. Il termine êdéa invece si trova impiegato solo di rado e quasi sempre in un’accezione neutra, sinonimo di eidos, come “carattere”, in 235d2, 253d5 e 255e5: in quest’ultimo caso analogo di fúsij, e dunque anche “natura propria” (254a9). 5. La tecnica tra cura e portare ad essere: appropriazione e produzione La determinazione della tecnica parte dal fenomeno della gewrgía (219a10), l’agricoltura, che esprime una forma di cura (qerapeía, 219a11) della terra; allo stesso fenomeno della cura è riportata ogni attività che in genere si occupa di ciò che è mortale; la perì tò qnhtòn pân sÏma qerapeía (219a10-11) è da assumere come sinonimo di allevamento. 62 Più avanti si troverà anche eidos tradotto con “concetto”. Questa scelta ha carattere meramente formale e non si propone di avallare l’interpretazione gnoseologica, ad esempio quella natorpiana, della nozione platonica. è ben chiaro che logica e ontologia sono due cose distinte per quanto in Platone spesso sovrapposte. Dal seguito emergerà chiaramente che l’ontologia fonda la logica e non viceversa (ad esempio: la koinōnia degli essenti è il fondamento della symplokē degli elementi del giudizio). Per una critica alla lettura neokantiana si veda la “Introduzione” di Giovanni Reale a Natorp, op. cit., pp. XXVI sgg..

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Cura la si riferisce anche ad ogni utensile (skeûoj, 219b1) che è stato «composto» o «modellato», è dunque l’oggetto di una «fabbricazione (Verfertigen)», nonché alla mimhtikÔ (ivi), alla capacità imitativa che, a differenza della produzione, lavora su un materiale preesistente fornendo di quest’ultimo una copia, in ogni caso un’immagine che non corrisponde all’originale se non per il modo di apparire63. Questi quattro modi immediati del prendersi cura dell’esistente possono essere indicati «con una sola denominazione»64. Il nome unico esprime una medesimezza (Selbigkeit) di contenuto che risulta essere strutturale ad ogni intendersi riconosciuto come un prendersi cura65. Questo fenomeno unitario è eêj o÷sían \gein (cfr. 219b4-5), il condurre ad essere. Implicitamente è contenuta in questa definizione anche l’affermazione che si può portare ad essere qualche cosa che in precedenza non esisteva (mÕ próterón [...] ïν, 219b4). Il termine o÷sía è da assumere qui in un’accezione naturale e originaria, e si riferisce alle piante, ai frutti della terra, agli animali, agli utensili, agli ornamenti e alle opere d’arte. Il senso dell’essere che Platone esprime in questo contesto ha lo stesso significato di physis, in quanto essere generato delle cose, mentre non è ancora determinata la differenza tra enti di natura e enti artificiali prodotti dagli umani. «Essere significa dunque qui, in un senso assolutamente determinato, la presenza (Anwesenheit) di certe cose nell’ambito dell’uso quotidiano e del vedere quotidiano»66. Poiché “portare ad essere” implica un “fare”, «chi conduce all’essere “fa” (poieîn) e ciò che viene condotto all’essere “viene fatto” (poieîsqai)»67: «essere vuol dire dunque essere pro-dotto (Her-gestelltsein)» e «stare a disposizione» (Zur-Verfügung-Stehen)68. Il significato più antico di o÷sía indica infatti i beni, gli averi, tutto ciò di cui si dispone nell’ambito del quotidiano e che si presta ad un uso. Ancora prima di consacrarsi ad un’esistenza scientifica, i Greci erano già in possesso di un’ontologia originaria e naturale, elaborata all’interno di Platon: Sophistes, § 42, p. 267. Plat. Soph. 219b2 (tr. it. di G. Cambiano): çnì [...] ðnómati. La presenza dell’avverbio dikaiótata (“a ragione”, “correttamente”) indica che in questo caso la correttezza del “nome” è stata verificata attraverso i discorsi e non si tratta dunque di una denominazione arbitraria. 65 Platon: Sophistes, § 42, p. 268. 66 Ivi, § 42, p. 269. 67 Plat. Soph. 219b5 (tr. it. di G. Cambiano). 68 Platon: Sophistes, § 42, p. 270. 63

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una concezione del mondo in quanto Umwelt. La successiva determinazione degli essenti, in quanto dotati di una precipua capacità (eêj [...] dúnamin, 219b8-9), segue il filo della delineazione di questa ontologia fondata sul primigenio rapporto con l’essere delle cose. Si estrae dall’intendimento comune la certezza che alcuni enti sono naturalmente disposti verso il produrre. Tutte le attività in precedenza citate, elaborate su uno specifico concetto di relazione al mondo che è quello della cura, ontologicamente determinate alla produzione di qualcosa, possono essere ricondotte sotto la denominazione unitaria di poihtikÔ (cfr. 219b11): questo è il primo eidos della tecnica. è questo un passo fondamentale del Sofista perché riguarda la complessità delle questioni analizzate: innanzitutto la specificazione del poiein nell’ambito degli esistenti, poi dell’aver sotto mano enti che attraversano il campo delle possibilità loro concesse, passare cioè dal non-essere all’essere, fino al compimento finale della loro dynamis, che nella sua essenza più radicale indica per l’appunto questo passaggio e dunque la possibilità di appartenere sia al non-essere che all’essere. Non è casuale che il sofista sia in seguito definito “tecnico” e che l’analisi del non-essere intervenga a chiarire il senso proprio di una capacità di portare ad essere cose, che non hanno la loro provenienza ma la loro attualità nel non-essere. L’essere come dynamis (cfr. 247e3-4) è un essere come “piega”, non più paragonabile alla sfera di parmenidea memoria perché ha i suoi chiaroscuri, le sue ombre, apre squarci nei quali si insinua, primo tra tutti, il non-essere che è la tenebra più fitta. Non si esce dall’ambito del quotidiano neanche nella specificazione del secondo eidos, il quale è ottenuto sulla base della chiarificazione del primo. Non possono rientrare nella definizione di poietica l’apprendere, il conoscere, il guadagno, la lotta e la caccia, giacché nessuna di queste attività produce alcunché, e invece o si impossessa «per mezzo di parole e di azioni, delle cose esistenti in natura o già prodotte» oppure «impedisce ad altri di impossessarsene», fa resistenza69. La parola chiave di questa nuova forma di tecnica è ceiroûsqai, letteralmente “mettere le mani su qualcosa”, trarlo a sé (an-sich-bringen), impadronirsene. Anche la conoscenza e l’apprendimento implicano una specie di appropriazione, non meno della pratica del guadagno, dell’agonistica e della caccia, dove questa attitudine è più facilmente comprensibile. Apprendere è «averacquisito, essersi procurato qualcosa (Sich-etwas-Beibringen)», conoscere 69

Plat. Soph. 219c2-5 (tr. it. di M. Vitali).

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«rendersi familiare qualcosa, fare conoscenza di qualcosa, o [...] prendere conoscenza di qualcosa»70. Questi modi della tecnica si caratterizzano per una mancanza, cioè il fatto di “non produrre” (dhmiourgeî [...] o÷dén, 219c4), e di avere di conseguenza un atteggiamento assolutamente indifferente rispetto alla cosa di cui si appropriano, poiché non interessa al loro modo di effettuarsi sapere se essa esista per natura o sia il prodotto di un’attività71. L’instaurarsi del possesso, l’acquisizione che consegue al ceiroûsqai, è la ktÖsij e la tecnica così caratterizzata è kthtikÔ (219c7). I due aspetti della tecnica possono essere relati, nella misura in cui la tecnica acquisitiva si sviluppa come appropriazione di un dato preesistente che è prodotto dalla poietica. La produzione non esaurisce tuttavia lo spettro ontologico dell’essere, poiché esistono enti di natura che sono eterni, non sottoposti al divenire e pertanto, sebbene sia possibile individuare il loro principio di generazione, sono al di fuori di ogni processo produttivo72. Heidegger interpreta la distinzione tra poiētikē e ktētikē come distinzione tra due modi per accedere alla comprensione, il primo, dell’ousia, e, il secondo, del logos. Il discorso è da includere tra le attività che si caratterizzano per un “produrre nulla” (dhmiourgeî o÷dén) e dunque va compreso nella tecnica acquisitiva. Questa inclusione implica che il discorso sia un fenomeno appropriativo che ha la Platon: Sophistes, § 42, p. 273. Ibid.: «dÔmion significa “pubblicamente”; dhmiourgeîn: “produrre qualcosa di cui ‘si’ ha bisogno quotidianamente nella vita pubblica”; dhmiourgój è l’artigiano che produce le cose d’uso quotidiano». 72 Si tenta in questo modo di conciliare la lettura heideggeriana con il passo platonico, che non sarà analizzato nel commento, della doppia poíhsij, divina e umana. Plat. Soph. 265c1 sgg. (tr. it. di G. Cambiano, lievemente modificata): «Tutti gli animali mortali, e così anche le piante, e quanto sulla terra sorge da seme o da radice, quanto senz’anima sta entro la terra, corpi che si possono o non si possono fondere, diremo noi che tutto ciò, che prima non era (próteron o÷k 3nta) viene ad essere poi per altra causa che non sia un dio fabbricatore (qeoû dhmiourgoûntoj)? [...] La natura genera sulla base di un discorso (metà lógou), di una scienza divina che procede dalla divinità». Anche le realtà divine non sono estranee al processo di generazione-produzione. La sola capitale differenza tra questo punto e il passo 219b, nel quale è esposta per la prima volta la definizione della poíhsij, è la presenza della aêtía: tecnica poietica è «possibilità che viene ad essere la causa (aêtía) per cui le cose che prima non sono vengono poi all’essere» (265b9-10). Cfr. R. Brague, «La cosmologie finale du Sophiste (265b4-e6)», in AA.VV., Etudes sur le Sophiste de Platone, cit., pp. 269-288. 70

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caratteristica di lasciar-essere (Sein-lassen) un ente, non lo modifica né lo produce, non lo trasporta dalla sua naturale costituzione nell’ambito del soggetto, della coscienza, non ne fa dunque un fenomeno derivato: lo lascia essere qual è e, in questo modo, pone in atto una pratica del disvelamento. «Ciò di cui ci si appropria nella conoscenza e nel discorso è la verità dell’ente, il suo disoccultamento. Il légein, il parlare riguardo a qualcosa, è un modo d’appropriazione dell’essente nell’evidenza in cui si offre (es aussieht)»73. Questo è il vero senso del percepire (Wahr-nehmen): cogliere il vero (das Wahre nehmen). La produzione e l’appropriazione sono i due modi possibili della relazione all’ente da parte dell’Esserci quotidiano. La determinazione della pesca, necessaria a pervenire alla definizione del pescatore, la quale si specifica come un “prendere” – la “presa” (Fang) – avviene nell’ambito della tecnica appropriativa, in cui è compreso anche il logos. Il discorso costituisce un fenomeno primario, relativamente sia all’esistenza umana che al campo di indagine principale del Sofista. 6. Il paradigma e il fenomeno iniziale: la “presa” Stabilita nella precedente diairesi la differenza tra le tecniche, le successive distinzioni hanno ad oggetto la tecnica acquisitiva. Il primo eidos è il metablhtikón, il secondo è ceirwtikón (219d5 e 7). L’appropriazione che sorregge il metablhtikón è uno scambio che avviene «fra due parti per volontà di ambedue», quindi più che di un impossessarsi si tratta di un donare e, in ogni caso, anche in una compravendita o nel percepire un salario per una prestazione, anche laddove cioè predomina l’aspetto monetario, prevale la dimensione non unilaterale dell’azione74. Il ceirwtikón è invece «impadronirsi di qualcosa attraverso l’azione o il discorso» (219d6-7). Il senso di reciprocità implicito nel dono della prima appropriazione lascia qui il posto ad un possesso successivo ad una cattura, ad un «mettere-le-mani-su tutto e per tutto»75. Quest’ultima separazione, tralasciando il primo argomento che nello svolgimento della diairesi è sempre posto da parte, si presta a sua volta ad un’ulteriore dicotomia, quella tra lo Þgwnistikón e il 73 74 75

Platon: Sophistes, § 42, p. 276. Plat. Soph. 219d4-5 (tr. it. di G. Cambiano). Platon: Sophistes, § 43, p. 280.

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qhreutikón, la lotta e la caccia, che si specificano per il compiersi

«allo scoperto» la prima, «di nascosto» la seconda (219e1-2). L’essere allo scoperto nella lotta implica che colui che è oggetto di tale atto di appropriazione sia al corrente dell’attacco che gli si sta sferrando, così da potersene difendere. Il nascondimento in cui si compie la caccia, al di là del realistico significato, che è quello di stare appostato, attendere il momento opportuno per poter balzare sulla preda, rimanda simbolicamente all’astuzia, dunque alle nascoste intenzioni di chi la pratica, e all’oscurità nella quale si trova la preda, appunto ignara di essere attaccata e quindi indifesa. La delineazione della pesca, che fino a questo momento si è svolta sul fenomeno iniziale della “presa”, dunque sul modo (Wie) nel quale si compie, si sposta, a partire da 219e4, sull’oggetto (Was). Il fenomeno sarà dunque analizzato a partire dalla vittima, dove non si prendono più in esame i «rapporti ontologici (Seinsverhältnisse)» tra gli eidē del fenomeno da definire, bensì il comportamento (Verhalten) concreto di questo fenomeno e le relazioni che intrattiene con altri enti, quali ad esempio l’essere cacciatore e il rapporto con la preda, comportamento e relazioni che sono il manifestarsi fattivo (faktisch) degli eidē76. La caccia prende di mira esseri \yucon e 1myucon (cfr. 219e7), inanimati e viventi; nel primo caso va compresa ad esempio l’arte del tuffarsi, del palombaro, e poche altre cose simili, che, data l’irrilevanza ai fini della questione, potrà anche rimanere «senza nome»; nel secondo l’intera categoria della «caccia agli animali» (z_oqhrikÔn, 220a5), a qualunque tipo di esistenza naturale, compresi gli umani: sul fondamento di questa diairesi si procederà in seguito alla definizione di sofista come cacciatore. Gli zÐa sono a loro volta divisibili in tò mèn pezoû génouj (220a8), secondo il genere degli animali che vivono sulla terra, e in tò [...] neustikoû zou, secondo il genere degli animali che nuotano. La caccia corrispondente ai primi è pezoqhrikón, «caccia ai terrestri», la seconda è ænugroqhrikón, «caccia acquatica» (220a8-10). Tra gli animali acquatici è da distinguere il ceppo (fûlon) di quelli dotati di ali (pthnón), ad esempio gli uccelli marini, e di quelli che vivono costantemente sott’acqua (1nudron): la prima caccia è ðrniqeutikÔ, la seconda è ßlieutikÔ, la pesca (220b1sg.).

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Ivi, § 46, p. 292.

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L’analisi si modifica ancora una volta perché, dopo essere giunti alla determinazione del fenomeno dal punto di vista degli oggetti, l’interesse di Platone si sposta nuovamente sulle modalità attraverso le quali è effettuata la pesca. Segue l’ultimo gruppo di diairesi. I pesci possono essere catturati «per mezzo di chiusure», «di un impedimento» – «nasse, reti, calappi, trappole e simili» – oppure «mediante percussione»: la prima pesca è çrkoqhrikón («caccia di preclusione», 220c7), la seconda è plhktikÕn [...] qÔran (220d1), «caccia a percussione» che si compie mediante l’utilizzo di esche e tridenti. Quest’ultima può essere svolta di notte ed è nukterikón (220d5), «pesca con le lampare», quella diurna può essere sinteticamente definita «pesca con l’amo» (Þgkistreutikón, 220d10), in riferimento agli uncini che costituiscono le estremità anche delle fiocine o dei tridenti. Quando la pesca comporta un movimento che va dall’alto in basso, allora la pesca sarà triodontía (220e4), «col tridente». Se il colpo non ferisce a caso ma mira al capo o alla bocca del pesce e se il movimento dell’oggetto va dal basso all’alto, come la canna del pescatore dall’acqua risale in superficie recando la preda catturata, la pesca sarà allora ÞspalieutikÔ (cfr. 221a7). Gli interpreti che non hanno considerato l’esempio del pescatore come un gioco, un mero esercizio metodico, si sono impegnati a verificare la correttezza delle distinzioni platoniche, investendo forse troppo impegno nello stabilire le cause che avevano portato Platone a scegliere tra una diairesi o l’altra. Queste annotazioni critiche avrebbero senso se l’intento platonico fosse stato quello di fornire una classificazione del reale nel quadro di una cosmologia naturale. Dal momento che Platone tuttavia ha premesso a tutte le diairesi della prima definizione in cui i personaggi si impegnano lo scedón, l’approssimazione, e dunque ha fatto ricadere la scelta delle distinzioni sulla capacità critica – il diakrinein – di chi le presenta, in conclusione gli argomenti esposti fungono poco da sistematica e molto più da pratica discorsiva radicata nelle cose. Più che di una descrizione biologica dei fenomeni, il mondo presentato da Platone è la Umwelt, l’ambiente, nel senso letterale del termine. Non è detto che l’approccio dello Straniero non sia diretto a fornire dell’ente la descrizione più consona al suo naturale e originario mostrarsi, così che anche il logos, che è a fondamento di questa interpretazione, corrisponda all’aspetto, all’eidos, nel suo primo darsi. Rimanendo nell’ambito della quotidianità, dove si è assunto il fenomeno dell’apparenza a dato primario, è da considerare il mutamento della determinazione dell’apparire tra il prologo e la definizione del

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pescatore: se l’introduzione al dialogo pone dinanzi agli occhi la nuda problematicità del phantasma, dell’apparenza pura e non ancora discussa sulla base del suo fondamento ontologico, la ricerca del pescatore con la lenza si inaugura con la entrata in scena del termine eidos, da assumere qui in senso indeterminato, e dunque appunto come “aspetto”, “visione” ma anche “forma” o “modo”. Esso si trova impiegato nel corso delle diairesi, talvolta sovrapposto a ghenos o a phylon, per tagliare il termine estremo di una precedente divisione in una doppia e ulteriormente scomponibile coppia di eidē. Se quotidiano è l’aspetto primario del mondo, quotidiano è anche il modo di interpretarlo. Quotidiano in quest’ultimo significato non equivale ad ingenuo, giacché è necessario che il logos «non sia più breve di quanto viene richiesto da tutto ciò che è di maggior impegno»77. La sesta definizione del sofista chiarirà il senso originario del diairein e del diakrinein riportandolo alla quotidianità delle mansioni svolte dai domestici che, nello spazio familiare dell’ousia, dell’essere in quanto “casa”, «tagliano», «filtrano», «selezionano», offrendo un modello alla comprensione scientifica del mondo. In maniera non dissimile è da interpretare questa prima fatica diacritica, che è in grado di vedere a fondo, laddove la vista del senso comune è annebbiata dalla multiformità delle apparenze delle cose, e scorgere le differenze tra gli essenti, preparandosi così a comprendere la stessa differenza in mezzo agli essenti, come parimenti essente. 7. Il metodo paradigmatico: la diairesi Il metodo impiegato può essere definito “della divisione”, ed è allora detto diairesi, oppure “del tagliare in due” (témnein, ma talvolta Platone usa anche il verbo scízein, “fendere”), e viene indicato come “dicotomia”. Entrambi i modi dell’operare una distinzione devono essere interpretati sulla base del dhloûn, «mostrare, rendere manifeste le cose»78. La prospettiva di Heidegger non è arbitraria, in considerazione del fatto che il metodo diairetico o dicotomico si riferisce al logos, che è a sua volta delotico, e informa di questo carattere tutti i fenomeni che gli si riferiscono. Il procedimento del separare non procede tuttavia Plat. Soph. 218e3 (tr. it. di G. Cambiano). témnein (223c12; 227d1 sgg.), scízein (229d8). Platon: Sophistes, § 44, p. 286. 77

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all’infinito, giacché ha lo scopo di pervenire ad una definizione che, alla lettera, stabilisce un confine e un limite estremo oltre il quale non è dato procedere. Il termine conclusivo – per quanto al tempo stesso provvisorio, suscettibile cioè di essere impiegato in ulteriori diairesi e quindi nella ricerca di altre definizioni – è indivisibile, vale a dire sussiste nella sua concretezza senza la necessità di essere ancora riferito ad altro. Lo svolgimento della diairesi prevede difatti sempre la relazione ad un’altra cosa che si elimina, come si separa “il meglio dal peggio”, in quanto esterna alla determinazione della cosa in esame. Il dato di fatto più rilevante è l’applicazione delle dicotomie non soltanto al campo dell’ente, che è questo ambito della quotidianità nel quale siamo ormai addentrati, ma anche nelle strutture dell’essere, mediante l’introduzione della distinzione tra i ghenē che compongono la “comunità” dell’essere. «è stato mostrato in maniera soddisfacente» (ëkanÏj dedÔlwtai, 221c4), conferma Teeteto, come l’accordo relativo all’essenza del pescatore sia stato raggiunto. Lo Straniero aveva infatti utilizzato l’espressione sunwmologÔkamen (221b1) per indicare la condivisione dell’universale sopraggiunta al termine della definizione, a sua volta conferma dell’ipotesi iniziale della ricerca, che era appunto «convenire» (sunwmologÖsqai, 218c5), «intonarsi» sul concetto che sta dietro il nome, per dire – secondo la perifrasi che Heidegger ha reso del verbo – con l’altro, la stessa cosa dell’altro. Accordarsi sul ghenos del pescatore è stato relativamente semplice. Ben altro impegno comporta la definizione del sofista dal momento che il suo apparire non è «di poco conto», implicando una «tecnica molto ricca di aspetti, multiforme» (mála poikílhj, 223c2). Ritorna, nella constatazione dello Straniero, il rimando alla varietà che accompagna l’apparire del sofista e della sua arte. Il rinvio non è casuale poiché si tratta di contrapporre appunto il molteplice da un lato e il semplice, relativamente alla sua composizione, dall’altro, semplice che tuttavia, nella scala del rinvenimento gnoseologico è l’ultimo ad essere colto. L’indagine segue il filo della varietà delle apparenze nelle quali il sofista si mostra: arrestando le prime sei definizioni, lo Straniero invita ad un provvisorio riposo da questa contesa e «a riprendere fiato» (231c8) per ripetere ancora una volta a noi stessi finora «in quanti modi il sofista si è presentato» (ñpósa [...] péfantai, 231d1-2). «Più sono vari gli aspetti nei quali il sofista si mostra a chi ha a che fare con lui, tanto più enigmatico e arduo diviene il compito di coglierlo in maniera univoca, di ottenere una sua definizione che permetta al tempo stesso

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di riunire questa varietà di determinazioni immediate e di donare loro un fondamento unitario»79. Questa complessità strutturale impedisce che si possa rinvenire, come dato presunto e condiviso, un «fenomeno di partenza» (221c8) indiscusso. Se per il pescatore il fenomeno iniziale era la “presa” e dunque le sue competenze erano facilmente classificabili sotto la tecnica acquisitiva che implica un “prendere” e un “trarre a sé” (ceiroûsqai e ktÖsqai), da dove bisogna partire per la determinazione di questo fenomeno che già all’inizio è ritenuto complesso e dunque tale da non garantire un accordo presupposto? La ricerca arranca e corre il rischio di perdersi in vuote elaborazioni concettuali. Ancor una volta occorre dunque fidarsi della vita quotidiana, degli orizzonti più familiari, per centrare lo scopo, approssimarsi alla verità: «Se tutto ciò che partecipa di un movimento – la conoscenza ad esempio – e si propone una meta, ad ogni tentativo devii da essa e la sbagli; diremmo noi che ciò gli accade per una proporzione tra l’uno e l’altra o al contrario per una sproporzione?»80. Tra lo scopo – la corretta denominazione di sofista – e la ricerca esiste una mancanza di misura, una sproporzione e potremmo assumere proprio questa come fenomeno iniziale. 8. Prima descrizione: la caccia L’analisi parte da un’acquisizione già stabilita nelle diairesi precedenti perché come per il pescatore, si domanda: il sofista è inesperto (êdiÍthn, 221c9) o possiede una tecnica (técnhn 1conta) ed è, in quest’ultimo caso, «veramente sofista» (ÞlhqÏj sofistÔn, 221d2)? Lo Straniero anticipa con quest’ultima espressione che egli è in possesso di un presupposto in merito alla definizione cui vuole pervenire: l’avIvi, § 46, p. 296. Si veda ivi, § 56, pp. 354-55: «l’accentuazione della struttura, cui io qui accordo grande valore, non ha l’intenzione di determinare alcunché relativamente alla forma letteraria del dialogo e cogliere l’ordine cronologico a partire da elementi di critica stilistica, ma unicamente di comprendere il contenuto reale, se peraltro abbiamo il diritto di presupporre che Platone abbia conformato la disposizione del suo logos alla forma della cosa stessa; cioè, conformemente alla pluralità di forme del sofista, egli parte da quest’ultima per condurla verso un 6n che permette di avere un’unica vista di insieme – nel modo della sunagwgÔ – in modo da poterla determinare autenticamente a partire da lì». 80 Plat. Soph. 228c1-5 (tr. it. di E. Martini). 79

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verbio ÞlhqÏj si riferisce ad un pre-concetto, in questo caso il nome, posseduto in anticipo. Il pescatore e il sofista sono «l’uno congenere (suggenÖ) all’altro» (221d9) perché hanno in comune il possesso di un’abilità. Non è l’essere entrambi dei “tecnici” che li apparenta – questo è solo il dato pre-acquisito ricavato dall’intendimento comune – ma la condivisione di una tecnica specifica. «Entrambi mi si chiariscono – avanza Teeteto – come due cacciatori (qhreutá)»81 e difatti si vedranno «procedere insieme» (–ma [...] poreúesqon, 222a3), provenendo «dalla tecnica acquisitiva» (ivi), fino a un certo punto. Così «è indicato quale percorso fanno insieme nella storia della loro provenienza: dalla técnh, attraverso la ktÖsij e il ceirwtikón, fino al qhreutikón; è il percorso dell’appropriazione, nel senso della caccia che afferra. Il sofista ha in comune con l’ÞspalieutÔj tutta questa preistoria ontologica»82. La distinzione avviene al punto in cui si è vista la definizione del pescatore mutare di segno per la prima volta, quando cioè la ricerca si è spostata dal modo del suo effettuarsi all’oggetto. A questo punto i comportamenti divergono: uno «va verso il mare, i fiumi, i laghi, a cacciare ciò che vive in questi luoghi», mentre l’altro «si avvia verso la terra [...] verso prati, non avari di gioventù e di ricchezza per impadronirsi di ciò che vi cresce»83. Gli animali terrestri, ghenos che in precedenza è stato lasciato indiviso e verso il quale il sofista mostra attenzione, è in realtà polueidéj (221e7), poliedrico, contiene numerosi altri eidē su cui esercitare l’arte dicotomica. La tÖj pezÖj qÔra (cfr. 222b2) può essere distinta in «caccia agli animali selvatici» (tò dè tÏn Þgríwn, 222b5) e in ÓmeroqhrikÔ (cfr. 222c3), «caccia agli animali domestici». Teeteto chiede se sia legittimo parlare di una caccia agli animali domestici e lo Straniero risponde, introducendo un altro dato convenuto – l’essere, il sofista, cacciatore di umani – che esiste ed è legittima qualora si inseriscano anche gli esseri umani negli animali domestici. Messo alle strette, giacché gli viene chiesto di chiarire la sua posizione a riguardo (esistono gli animali domestici?, Quali sono?, L’umano è un animale selvatico?, Anche se l’umano è un animale domestico, esiste una caccia che lo ha ad oggetto?), Teeteto risponde, ed è più la voce di una resa, che «per quanto mi è dato sapere» (Ógoûmai, 222c1), l’umano è un animale domestico ed esiste una caccia che ambisce alla sua 81 82 83

Ivi, 221d13 (tr. it. di E. Martini). Platon: Sophistes, § 46, p. 291. Plat. Soph. 222a5-11 (tr. it. di G. Cambiano, lievemente modificata).

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cattura (Þnqrwpoqhríaj, 223b3-4). La Þnqrwpoqhría è suddivisa innanzitutto in «caccia violenta» (bíaion qÔran, 222c6), compiuta ad esempio dai briganti, organizzata per riprendere un fuggitivo; in generale la tirannide, la guerra, vanno incomprese sotto questa specie. Il dato più notevole di questa descrizione è l’inserimento di una forma politica tra i generi venatori: forse intento dello Straniero è delineare «il quadro di una umanità “civile”» nel quale si ergono come antitetici modelli esistenziali la domesticità degli umani – in questo modo si potrebbe comprendere meglio l’incalzare dello Straniero dinanzi alla titubanza di Teeteto nel convenire su questa divisione – e la ferocia dei despoti e dei sanguinari84. Forse Platone tratteggia qui uno stato di natura, dove l’essere fuori della legge significa in questo caso essere “innaturali”, vale a dire contravvenire alla vera natura umana che è nomos. Accanto alla violenza, fa comparsa un’attività che non è più caccia ma tecnica, la piqanourgikÔ (222c10), la capacità di persuadere. La “violenza” e il logos sono, nel corso di questa definizione, non nettamente distinguibili, in quanto esprimono in ogni caso una forma di costrizione nell’estorcere un consenso; il discorso agirebbe in maniera ancora più riprovevole giacché si acquatta, come un cacciatore appostato in attesa della preda, sotto le melliflue arti della persuasione. Questa distinzione deve essere ricondotta alla diairesi, presentata nella definizione del pescatore, dell’impadronirsi di qualcosa «attraverso l’azione o il discorso» (219d6-7). è chiaro che la caccia violenta è un’appropriazione per il tramite di un’azione, mentre l’abilità persuasiva si serve dei discorsi: entrambe appartengono tuttavia allo stesso dominio del ceiroûsqai. All’improvviso la ricerca della denominazione di sofista è riportata sul terreno del logos. Si tratta del discorso ridotto a “chiacchiera”, che comprende non solo il linguaggio della vita quotidiana ma anche la retorica, nella forma di discorso giudiziario, oratoria pubblica, in genere il conversare, accomunati alle distorsioni della parola proprie della sofistica. La piqanourgikÔ è sia privata (êdí=, 222d5; êdioqhría, 223b4), indirizzata cioè ad individui singoli, sia pubblica (dhmosí=), la prima è finalizzata al guadagno (misqarnhtikón, 222d7; nomismatopwlikÖj, 223b4-5) oppure si realizza in una serie di doni (δωροϕορικOν, 222d8): esempio dell’ultima è la caccia degli amanti (ærwtikÔ, 222e3) che seducono anche attraverso regali, la prima invece può essere ÓduntikÔ (cfr. 223a1), tecnica dell’adulare sfoggiando amabilità e 84

G. Carchia, La favola dell’essere, cit., p. 24.

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ricorrendo alla gratificazione di chi ascolta (kolakikÔ, 222e7: kólax è il parassita); oppure quella pratica di «intrecciare conversazione» (ñmilíaj poioúmenon, 223a4), allo scopo apparente di comunicare una «virtù» e di procurare in questo modo un’educazione apparente (doxopaideutikÔ, cfr. 223b5) a «giovani ricchi e di origine illustre» mentre ha l’unico obiettivo di accaparrarsi un profitto. Chi agisce in tal modo ha «il nome che gli si addice»: è sofistÔj (cfr. 223a8), «lo abbiamo messo allo scoperto» (Þnhurhkénai, 223a9), e la sua abilità è la sofistikÔ (223b7). La prima descrizione del sofista sembra avere carattere più dimostrativo che assertorio. è vero che si immette sulle strutture vitali già evidenziate per il pescatore ma la semplicità e la facilità con cui si è pervenuti alla verità sulla sua essenza si contrappongono ad un fenomeno che già in partenza è stato definito complesso e inafferrabile. Si ha l’impressione che questo primo movimento diairetico voglia confermare la tesi dell’imprendibilità, dell’evanescenza e della multiformità del “tema” dell’analisi. Non c’è diairesi del pescatore sul tronco della quale non possa innestarsi l’inizio di un cammino definitorio del sofista, così come non c’è aspetto emerso in questa definizione che non valga la pena riprendere per tentare un cammino differente. Il sofista è sempre paragonato ad una fiera, disumanizzato quasi a renderlo un oggetto più appetibile da cacciare. L’immagine ferina che meglio lo rappresenta sulla base di questo primo volto poliedrico è forse l’idra, perché ad ogni divisione corrisponde una moltiplicazione, e ogni volta il volto moltiplicato non è mai identico a quello reciso. 9. Seconda, terza e quarta descrizione: lo scambio e il commercio La prima descrizione si conclude con la constatazione della non coincidenza tra il dato di fatto incontrovertibile che il sofista possieda un’apparenza (fántasma parécetai, 223c3) e che questa non corrisponda al ghenos enunciato, la caccia, bensì ad un altro (Þll’6teron, 223c4). Lo svolgimento dell’indagine non sovverte completamente i risultati già acquisiti perché procede retrospettivamente, ritornando sulla struttura interpretativa del pescatore, che dunque costituisce lo sfondo ermeneutico della fatticità del sofista. Nel corso delle successive definizioni, si vedrà come ogni ulteriore specificazione del “tema” si allontani man mano dal paradigma, viene cioè ristretto il campo di

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quella preistoria ontologica comune che li rende «congeneri», affinché si abbia la certezza di aver individuato due ghenē che rendono i fenomeni analizzati perfettamente distinguibili l’uno dall’altro. Andare a ritroso comporterà il risalire le tappe delle precedenti diairesi, fino a giungere alla prima e fondamentale dicotomia interna all’essenza della tecnica: le definizioni iniziali si approssimano alla verità senza centrarla perché si articolano sul terreno dell’appropriazione. Lo Straniero e Teeteto perverranno durante la sesta definizione alla constatazione che il sofista vada invece innestato sul tronco della poietica. Si vedrà di seguito come questa intuizione comporti la necessità di un approfondimento ontologico che condurrà alla legittimazione sia del non-essere sia della tecnica in quanto modalità del disvelamento. La seconda, la terza e la quarta definizione possono essere raggruppate sotto un unico eidos, anteriore alla precedente determinazione che abbiamo visto iniziare dal genere domestico degli umani. Tutte e tre le descrizioni sono ricondotte alla distinzione interna alla tecnica acquisitiva tra caccia e tecnica degli scambi e fatte partire dalla metablhtikÔ. Il filo conduttore di questo nuovo impegno diairetico è la dimostrazione dello stravolgimento compiuto dai sofisti nella concezione della verità, ridotta a “utile”. Il problema verte non tanto sul nomadismo della cosiddetta “grande” sofistica della seconda definizione o sulla sedentarietà della terza e della quarta: anche i filosofi si spostano, cambiano città, o trascorrono la vita nello stesso posto, dialogano e dunque usano il discorso come mezzo di scambio delle loro conoscenze. La questione riguarda la monetizzazione del vero, la sua riduzione a merce di scambio, che è concessa dietro pagamento di una cospicua somma. Chi compra non è da meno coinvolto in questo lucro spirituale, poiché egli compra solo per rivendere a più alto prezzo, ovverosia si serve delle cognizioni comprate per comprare, ancora una volta, una posizione di dominio nella comunità. Lo scambio è già stato definito sempre bilaterale (qui è specificato come Þllaktikón, 223c7), consistente nello scambio gratuito di doni, e in quello, a fini di lucro, della compravendita o del ricevere un compenso. Quest’ultimo è Þgorastikón (223c10), «scambio mercantile», vendita dunque di propri manufatti o mercatura (metablhtikÔn, 223d3) di prodotti realizzati da altri, che è a sua volta «artigianato» (kaphlikÔ, 223d6) o «commercio ambulante» (æmporikÔ, 223d10). Dal momento che si possono commerciare beni per il corpo e beni per la anima, come la musica, la pittura, l’arte dei prestigiatori, nonché

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le cognizioni (maqhmatopwlikÔ, 224b9), la vendita delle conoscenze relativa alle virtù è il sofistikòn génoj (224c7-8) e il sofista è 1mporoj85. I momenti salienti di questa seconda determinazione del sofista come venditore ambulante di prodotti altrui, sono innanzitutto il commercio itinerante, il fatto di viaggiare «da una città all’altra» (223d9) – come nella descrizione iniziale i filosofi che «vanno di città in città» (216c5) – e di non assumere atteggiamenti ludici come i musici, i pittori e gli illusionisti, ma di mantenere una visibile serietà (spoudÖj cárin, 224a5) che tuttavia agli occhi avveduti non appare mai «cosa meno risibile» (224b5), ed infine di mercanteggiare «discorsi e cognizioni» (224d1) non originali relativi all’anima. è posto in primo piano il fenomeno della paideia, che tende alla «educazione dell’autentico Esserci, all’esistenza nella pólij», ed è assunto qui come un contrabbando di virtù86. Lo Straniero ammette che esattamente su questo fenomeno, il commercio di cose spirituali (yucemporikÔ), non si ha esatta conoscenza (Þgnooûmen, 223e5), «ignoriamo» cosa esso significhi in realtà e di conseguenza chi lo pratica non è immediatamente identificabile. Per determinare la terza definizione non occorre allontanarsi molto dalla seconda e ritornare indietro al punto in cui si è distinta la «parte» (méroj, 223d6) dell’artigianato da quella della vendita ambulante. La kaphlikÔ è il commercio sedentario di un artigiano che vende propri manufatti e, in piccola misura, quelli di altri. Anche a questa parte della metablhtikÔ vanno attribuite le stesse competenze della æmporikÔ, vale a dire il traffico di cose spirituali e di cognizioni. La sofistica può dunque essere paragonata al lavoro dell’artigiano. Questa definizione, che in maniera apparentemente innocente viene a sovrapporsi alla precedente, corre il pericolo di invalidare le diairesi anteriori giacché le divisioni successive all’individuazione della æmporikÔ sono identiche a quelle che caratterizzano la kaphlikÔ e dunque la dicotomia tra commercio ambulante e artigianato non è corretta. I due fenomeni si differenziano appena attraverso alcune modalità in cui si attuano. Al contrario, definendo il sofista sia un káphloj sia un uomo dedito è da notare l’inserimento delle principali arti sotto questa categoria, ma soprattutto che compaiano due arti visive, la grafikÔ e la qaumatopoiikÔ, in particolare quest’ultima, la tecnica illusionistica, molto prossima alla definizione conclusiva del sofista che “fa giochi di prestigio”, lasciando vedere apparenze che non sono. 86 Platon: Sophistes, § 47, p. 299. 85

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all’a÷topwlikón (224e2), all’autoproduzione, si sottintende che egli non solo si appropria di manufatti altrui ma ne produce di propri: è dunque un facitore e la sua competenza è la poiēsis. Non una dunque, bensì due definizioni sono così presentate: la terza è quella di venditore al minuto, la quarta è propriamente quella di artigiano. La quarta definizione, richiamando la poietica, in sordina conduce già al di fuori del tracciato segnato dal paradigma. 10. Quinta descrizione: l’antilogica La quinta definizione si innesta sulla distinzione tra la caccia e la lotta, la ÞgwnistikÔ, e si serve di quest’ultima per pervenire a conclusione, perché, discutendo, è emersa un’altra somiglianza (proséoiken, 224e6). La lotta può essere distinta infatti in gara di emulazione e in combattimento vero e proprio (machtikón, 225a6), che è colluttazione, oppure contrappone «discorso a discorso» ed è Þmfisbhthtikón (225b1), contestazione. La caratteristica dell’agone è di non prevedere mai l’annientamento dell’avversario, giacché la continuazione della tenzone dipende dalla sua resistenza. Il dibattito può essere pubblico, come un’orazione della difesa o dell’accusa, ed è il contenzioso giudiziario, oppure è un discorso serrato, fatto di domande e risposte, svolto in privato: Þntilogikón (225b10), il contraddittorio87. Esso non è necessariamente un discorso tecnico: la parte che prevede una molteplicità di categorie è bene lasciarla senza nome, mentre la parte opposta la si può definire æristikón (225c9), disputa. Quando ci si cimenta nella disputa per puro piacere, trascurando gli affari domestici, allora si ha cicaleccio (Þdolescikón, cfr. 225d10)88; se invece si ha di mira un guadagno, allora è crhmatistikÔ. Un altro sinonimo di sofista è dunque erista. Il senso di quest’ultima definizione è per Heidegger indice del rapporto del sofista, in quanto esistenza, con il logos. Sebbene il discorso fosse il fondamento tacito anche delle altre definizioni, il mezzo (Womit) con In 225b8 appare katakekermatisménon, da kermatízein, “cambiare in moneta”, cioè scomporre fino al più piccolo elemento, assunto come sinonimo di diaireîn. 88 La Þdolescía è «chiacchiera culturale» (Bildungsgeschwätz, Platon: Sophistes, § 48, p. 304) e l’Þdoléschj il «chiacchierone». Heidegger rimanda ai Caratteri di Teofrasto, in particolare al Terzo, dove è descritta proprio questa figura. 87

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cui cacciare e vendere, è in questo contesto che tale aderenza emerge senza equivoci, poiché il logos è divenuto fondamento, oggetto e modo dell’attuarsi dell’esistenza sofistica89. Il filo rosso che collega le ultime tre definizioni è da ricondurre al fenomeno dello antileghein. L’antilogica è propriamente una tecnica. Per tecnica non bisogna solo intendere una competenza del sofista quanto qualcosa che gli permette di strutturare la sua relazione al mondo. L’antileghein rappresenta il fenomeno unitario delle precedenti descrizioni perché, a partire dalla comprensione di questo fenomeno, si può interpretare la caccia come caccia eristica e i vari commerci come commercio fondato sullo scambio di competenze linguistiche. La specifica relazione al mondo secondo l’antilogica prevede un mezzo, un modo e un oggetto (womit, wie, was): «detto in relazione al sofista: il con-cui (womit) egli commercia, il “con cosa” egli ha veramente a che fare, sono gli umani, un ente a lui congenere, che viene al mondo ed è con lui. Un tale ente, che è con noi nel modo del nostro proprio essere, lo chiamiamo “mondo in comune (Mitwelt)”. In opposizione, l’ente con il quale noi abbiamo a che fare, che non è nel modo del nostro proprio essere, lo chiamiamo “mondo-ambiente (Umwelt)” – alberi, pietre, terra, mare. Ora, ciò con cui il sofista ha a che fare sono gli umani. L’essere dell’umano è però determinato come zÐon lógon 1con. Così quelli con cui il sofista ha a che fare sono i lógon 1contej. Il modo (Weise) del commercio, la specie della cura, è l’Þntilégesqai, ovvero il légein. E il cosa (was), ciò di cui il commercio ha cura, è la paideía, ovvero una certa dúnamij dell’Þntilégesqai. Così la struttura ontologica del sofista, inizialmente caratterizzata in maniera assolutamente formale come técnh, diviene ora concreta. Il con-cosa del commercio sono quelli che si caratterizzano attraverso il légein; il modo del commercio è il légein; e il cosa, ciò di cui ci si preoccupa nel commercio è di nuovo il légein. è dunque qui, nella técnh sofistikÔ, che diventano visibili le differenti sfaccettature della struttura del lógoj»90. 11. Sesta descrizione: la sofistica ben nata ovvero la filosofia Se le definizioni, come si sono finora presentate, hanno costituito 89 90

Ivi, § 47, p. 296. Ivi, § 58, pp. 386-387.

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un prisma concettuale all’interno del quale convogliare le diverse immagini del sofista, se in sostanza ciascuna di esse era riconducile al fondo unitario stabilito dal paradigma, la sesta definizione interrompe questa continuità e mostra un modo di procedere affatto scontato. Rispetto alle altre, la sesta «possiede già un carattere descrittivo più positivo», preparando metodologicamente la settima91. A conclusione della prima descrizione lo Straniero ammette: l’arte del sofista è troppo varia (mála poikílhj, 223c2); al termine della quinta è ripresa la medesima idea della molteplicità e si ammette che l’avversario è una «fiera multiforme» (tò poikílon [...] qhríon, 226a6-7), difficile ad essere catturata in un colpo solo. Si rende necessario un grande impegno speculativo per giungere alla corretta denominazione, così è bene mettersi sul suo cammino seguendone le tracce che si è lasciato indietro (metaqéontaj cnoj, 226b2).

Pratiche domestiche di distinzione Le orme del sofista conducono all’interno dell’ousia in quanto spazio del quotidiano, mettendoci dinanzi le mansioni che i domestici svolgono in casa. La domanda dello Straniero, che per radicalità della svolta lascia interdetto Teeteto, è: sotto quale nome si riconoscono alcune di queste occupazioni, quali il «filtrare» (dihqeîn), il «setacciare» (diattân), il «vagliare, spulare» (bráttein), il «separare» (diakrínein) – o secondo un’altra lettura diasÔqein, «sceverare»; inoltre il «cardare» (xaínein), il «filare» (katágein), il «tessere» (kerkízein)92? è evidente che lo Straniero intende prendere queste attività come paradeígmata (226c1-2), ma perché ne domanda? La risposta che viene fornita comporterà una modificazione radicale del modello stabilito nel precedente paradigma del pescatore: esse «hanno in comune la caratteristica di dividere (diairetiká, 226c3)»93, possono essere raccolte sul fondamento unitario di una sola tecnica (mían [...] técnhn, 226c5-6), e indicate con un nome solo: distinzione (diakritikÔ, cfr. 226c8). Il verbo diakrínein sarebbe espressione più rigorosa di diaireîn, perché accanto alla scomposizione, alla dissociazione, comporta un 91 92 93

Ivi, § 56, p. 354. Plat. Soph. 226b5-9. Tr. it. di Cambiano.

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ulteriore fattore: mettere in evidenza (Abhebung), l’uno rispetto all’altro, in contrasto, gli elementi scomposti94. Questo carattere si comprende meglio sottoponendo la distinzione ad una dicotomia interna. Scomporre (Þpocwrízein, 226d2) si può dire del «simile dal simile» (tò d’8moion Þf’ñmoíou, 226d2-3), ma per questa separazione Platone ammette di non avere un nome appropriato ed uno possibile potrebbe essere “vagliatura”; oppure del «peggio dal meglio» (tò mèn ceîron Þpò beltíonoj, 226d2) e in questo caso lo si può denominare kaqarmój (226d10), «purificazione». Il rilievo in cui sono portati i termini evidenziati dalla catarsi, che implica sempre una distinzione pratica del bene dal male, sono eliminati oppure conservati: Þpobállein tò ceîron, disfarsi del peggio, e kataleípein tò béltion, trattenere il meglio (cfr. 226d6-7). Ciò che è estratto mediante la purificazione è così liberato (Freilegung) dagli ostacoli che lo occultavano e rimesso a se stesso95.

La catarsi: criticare e purificare La catarsi può avere ad oggetto corpi o anime – ritorna la distinzione già analizzata durante la seconda definizione, nonché le forme del commercio spirituale in tutte le sue forme, dalla vendita ambulante all’eristica – e la descrizione della purificazione dei corpi funge da premessa per quella delle anime, innanzitutto perché è il senso complessivo e non parcellizzato dell’esistenza che qui è da considerare, inoltre perché, ancora una volta, si parte dall’immediato, dal più familiare, per avvicinarsi ad un fenomeno, quello della vita spirituale sul quale già in precedenza lo Straniero ha ammesso di essere in difficoltà. Nella káqarsij perì tà sÍmata (cfr. 226e5-6) il corpo può essere esperito come mera estensione fisica (\yucon, Körperding) e può essere purificato per il tramite di lavaggi (gnafeutikÔ) e detersioni (kosmhtikÔ); queste attività e molteplici altre (l’arte del lavare con la spugna o la farmacopea, ad esempio) di cui è impossibile dar conto riguardano soltanto le parti esterne dei corpi. Discipline come la ginnastica (gumnastikÔ) o la medicina (êatrikÔ) assumono il corpo in quanto animato (1myucon, Leib), vivente in senso proprio, e mirano a detergere l’interiorità. 94 95

Platon: Sophistes, § 56, p. 357. Ivi, § 56, p. 358.

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Questa separazione contiene anche un’importante correzione della dialettica che si sta delineando, la méqodoj tÏn lógwn (cfr. 227a8), la quale non ha lo scopo di distinguere attività più nobili da altre più risibili, come se ad esempio, cercando il ghenos della caccia, si desse maggior risalto all’arte strategica piuttosto che allo spidocchiare, dunque alla caccia agli umani piuttosto che a quella ai pidocchi. Tutte le attività considerate hanno pari grado di dignità e sono conservate nelle diairesi successive unicamente in vista della definizione che si vuole ottenere. L’obiettivo fondamentale è la «comprensione» (6neka noûn, 227b1) per individuare (katanoeîn, 227b2), tra queste tecniche, quali siano congeneri e quali non lo siano. Il metodo, per poter essere efficace, deve essere obiettivo nella massima misura possibile, esimendosi dal pronunciare giudizi di valore sulla consistenza ontologica degli enti.

Il pensiero liberato A questo punto la denominazione della catarsi corporea può anche rimanere senza nome: la rinuncia a definirla, come è stato premesso, non interviene sul valore di questa specie; essa costituisce solo la prova evidente della sua esistenza, come distinta dalla purificazione dell’anima, verso cui tende l’analisi, in vista della determinazione del kaqarmój perì tÕn diánoian (cfr. 227c4). Quest’ultima si ottiene legittimando e definendo l’esistenza della purificazione dell’interiorità, che assume il nome di «estrazione del vizio dall’anima» (kakíaj Þfaíresin, 227d9-10), vale a dire distinguere il peggio – il vizio, che viene così eliminato – dal meglio – la virtù, che invece è conservata. Vizio può essere la malattia (nósoj) oppure la bruttura (aMscoj); la prima si qualifica come «rivolta» (stásij) che ingenera una «corruzione» (diafqorá), dovuta appunto da «una qualche discordia (diaforá) di ciò che per natura è unito e congenere», provoca «una dispersione di ciò che è suggenéj [...] un annichilimento nel senso più ampio»; la seconda, che non è influenzata da una disposizione affettiva, e non dipende dunque dal trovarsi in un umore piuttosto che in un altro, è «mancanza di armonia (Þmetría)» ed è deformità vera e propria (duseidéj)96. Il conflitto interiore del malvagio è descritto da Platone come il campo sul quale le opinioni contrastano con i desideri, gli impulsi con i piaceri, i discorsi 96

Plat. Soph. 228a1-8 (tr. it. di G. Cambiano). Platon: Sophistes, § 56, p. 364.

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con le paure, per cui la malvagità (ponhrían, 228b8) può esattamente definirsi come una malattia e una rivolta dell’anima97.

L’errore di giudizio La fenomenologia delle attitudini negative dell’anima ha lo scopo di far emergere l’ignoranza in quanto errore di giudizio, difetto di valutazione che sbaglia a prendere la giusta mira tra il soggetto della conoscenza e l’oggetto. Il movimento dell’anima verso la cosa – il fatto che essa partecipi del movimento (kinÔsewj metascónta, 228c1) è «essere-in-cammino-verso» – è conoscenza98. «Questo fenomeno interno alla yucÔ è il noeîn, secondo una più concreta intellezione è il froneîn, la frónhsij, che in Platone non è ancora separata né dalla sofía né dall’æpistÔmh»99. L’incapacità a raggiungere la finalità prefissa è dovuta ad un’asimmetria tra i due fenomeni coinvolti, è dunque la certezza di una distanza valutata in maniera errata a causa di un difetto che è tuttavia interno all’anima giudicante e mai strutturale all’essenza dell’oggetto preso di mira. Phronēsis, sōphrosynē e paraphrosynē «L’ignorare (Þgnoeîn) infatti altro non è fuorché un’aberrazione dell’anima, che nel tendere alla verità devia dal sentiero della conoscenza»: questa è la parafrosúnh, errore di valutazione, deviazione della correttezza di giudizio100. è da evidenziare in particolare il prefisso pará per sottolineare la vicinanza del movimento dell’anima alla verità (l’essere-presso, che costituisce la determinazione fondamentale dell’essere-nel-mondo), una vicinanza che tuttavia non è mai esperita fino in

97 Ibid.: «dóxa, æpiqumía, qumój, ÓdonÔ, lógoj, lúph [...]: tutte queste determinazioni sono costitutive per l’essere dell’umano. Tuttavia per qualcuno, allorché si trova in una condizione di infelicità di tipo psichico, non soltanto questi momenti strutturali si disgregano ma entrano in disaccordo, di modo che ne risulti una ribellione». 98 Ivi, § 56, p. 366. 99 Ivi, § 56, p. 367. 100 Plat. Soph. 228c10-d2 (tr. it. di E. Martini).

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fondo e che conduce dunque ad una parzialità di veduta, all’incapacità di godere una vista unitaria sull’ente. è interessante notare come il termine parafrosúnh ripeta, capovolgendola, la scrittura semantica della swfrosúnh, la ponderazione che salva la frónhsij. Essendone il rovescio, il delirio del giudizio è lo smarrimento dello sguardo avveduto sul mondo, è una para-phronēsis, stupidità in quanto mancanza. L’ignoranza è propriamente «una disposizione ontologica, libera di ogni contenuto ontico inerente a ciò che è saputo in quanto tale»101. Aggiunge Platone tuttavia che l’ignoranza talvolta è non intenzionale: «ogni anima tutto ciò che ignora, lo ignora senza intenzione di ignorarlo»102. La annoia è dunque un fenomeno che va compreso nella sua «multiforme molteplicità» (tò dè tÖj pollÖj kaì pantodapÖj Þgnoíaj páqoj, 228e4) e considerato innanzitutto come un’affezione dello spirito da cui è necessario purificarsi affinché quella distanza intermedia tra l’anima e le cose sia vicinanza il più possibile.

La credenza L’estirpazione del vizio può ottenere buoni risultati per prima cosa attraverso l’insegnamento (didaskalikÔ) ma perché questo si specifichi come trasmissione di informazioni, dunque come insegnamento tecnico, e spinta a ricercare la verità, occorre far un po’ di luce sulla «multiforme molteplicità» dell’ignoranza, quanto meno per individuare un fattore dominante, una nervatura interna da sottoporre ad una eventuale divisione. Dalla possibilità di tale distinzione derivano poi le differenti pratiche didattiche. Il dato rilevante è che la catarsi, non meno dell’insegnamento tecnico vero e proprio, è una tecnica103. «Penso di vedere – argomenta lo Straniero – almeno un’importante e grave specie di ignoranza», vale a dire «credere di sapere qualche cosa non sapendola (tò mÕ kateidóta ti dokeîn eêdénai); da ciò [...] dipendono [...] tutti gli errori del nostro pensiero»104. Ignorare è non aver ancora visto qualcosa (eêdénai) e tuttavia credere (dokeîn), dunque fingere, di averlo Platon: Sophistes, § 56, p. 379. Plat. Soph. 228c7-8 (tr. it. di G. Cambiano). 103 Ivi, 228e7. La catarsi è la técnh che permette di «lasciar diventare libero l’ Þlhqeúein stesso» (Platon: Sophistes, § 56, p. 374). 104 Plat. Soph. 229c1-6 (tr. it. di G. Cambiano, lievemente modificata). 101

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visto. «Questo mÕ kateidóta ti dokeîn eêdénai, la pretesa familiarità con qualcosa, è la vera origine dell’illusione e dell’errore. L’essenziale non è la semplice ignoranza, il semplice non-sapere, ma, positivamente, il tenerper (Dafürhalten) come se si sapesse»105.

L’elenchos e il senso del filosofare La liberazione dalla annoia può avvenire come dhmiourgikÔ, insegnamento di un mestiere, o paideía, così infatti «è detta presso tutti i Greci» (229d4) l’educazione, non nel senso della formazione, quando ad esempio si dice che un ciclo formativo ha raggiunto i suoi risultati, bensì nel senso della «pragmateía, un compito» da realizzarsi indefinitamente106. Quest’ultima, sempre effettuata per il tramite di discorsi (æn toîj lógoij, 229e1), prende due strade: la prima è nouqethtikÔ, l’ammonimento messo in pratica, ad esempio, dai padri nei confronti dei figli; la seconda è la confutazione, l’1legcoj. Il concetto non è nuovo, poiché ha segnato il primo ingresso in scena dello Straniero ed in quella circostanza sembrava connotato negativamente. Qui ne viene offerta invece una descrizione molto dettagliata, dunque è sfrondato da ogni riferimento alle polemiche degli eristi, e collocato a fondamento dell’attitudine critica del pensiero. La confutazione è esercitata nei confronti di coloro che, stimandosi sapienti, sono duri a richiamare alla ragione con arti tradizionali, poiché credono che l’ignoranza sia sempre un fenomeno non intenzionale e hanno accumulato talmente tante opinioni sui fenomeni da credere di essere in possesso di un sapere stabile, definitivo e coerente e non sono affatto disposti a continuare il loro processo formativo. Questo «pensare da sé» (230a5-6), nel significato di farsi opinioni infondate, è il concreto obiettivo della liberazione (ækbolÔ, cfr. 230b1) catartica. Le opinioni formate dai falsi sapienti potrebbero contenere un implicito riferimento alla poiēsis, dal momento che, seppur non specificato, queste opinioni vengono formate dagli umani, sono il prodotto di un’attività di pensiero, e dunque rappresentano un ulteriore allontanamento dallo schema diairetico iniziale fissato per il pescatore e incentrato sulla tecnica appropriativa. Gli educatori hanno lo scopo di interrogare 105 106

Platon: Sophistes, § 56, p. 372. Ivi, § 56, p. 373.

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persone di tale risma certi che essi non dicano nulla che abbia senso107; raccolgono (sunágontej, 230b6) le opinioni, le confrontano in modo da dimostrare, mediante una visione sinottica, al modo del «sunorân: essi “vedono insieme”»108, che sono «in contraddizione (ænantíaj) ad un tempo con se stesse109, sullo stesso oggetto, nello stesso rapporto e nello stesso senso»110. Il confutato diventa più docile, avviandosi così a liberarsi da tutti gli «ostacoli interni» (230c6) che gli impedivano di gustare nuovi frutti: egli non potrà godere delle cognizioni prima che qualcuno «esercitando la confutazione» (ælégcwn, 230d1) lo «riduca alla vergogna di sé» (eêj aêscúnhn); sarà veramente purificato quando giunge a «sapere soltanto ciò che sa e niente più», quando cioè si sarà disfatto del sapere solo apparente (doxosofía, cfr. 231b6)111. L’1legcoj è «la maggiore e più efficace» (megísth kaì kuriwtáth, 230d7) purificazione, «la prima ad aprire l’Esserci all’incontro possibile con il mondo e con se stesso», l’affrancamento «più dolce» (ÞpallagÕ [...] Ódísth, cfr. 230c2-3), sia per chi lo pratica attivamente sia per chi Ivi, § 56, p. 376: «dierwtân vuol dire: scuoterlo in qualche modo interrogandolo, pressarlo con questioni in modo che sia toccato nel suo eêdénai; strapparlo alla sua presunta familiarità con le cose. è qui data congiuntamente la connessione reale con i modi dell’azione quotidiana dati all’inizio, ad esempio spulare il grano». 108 Ibid. 109 Ivi, § 56, p. 377: «Qui non si deve assumere in maniera totalmente univoca il senso di questo –ma. Si è tentato di prenderlo quasi sempre come una determinazione temporale: quella del “nello stesso tempo” – nella misura in cui le dóxai sono comprese come ciò che afferra la stessa cosa, nel senso di una presentazione. Ciò significa che sia ciò su cui vertono i pareri sia questi stessi pareri si tengono nel carattere dell’“ora” (Jetzt): “ora” la cosa è in questo o quel modo, ovvero “ora” tale parere dice questo, l’altro il contrario». 110 Plat. Soph. 230b7-8 (tr. it. di E. Martini). Heidegger non concorda con quanti ritengono che questo gioco dialettico che contrappone le opinioni l’una contro l’altra abbia segnato, da parte di Platone, la scoperta del principio di non-contraddizione. Platon: Sophistes, § 56, p. 378: un principio non può essere scoperto prima che sia stato chiarito che cosa è un principio (Satz): «Si può tutt’al più dire che in un certo senso il principio di non-contraddizione si trova qui allo stato virtuale». 111 Plat. Soph. 230d3-4 (tr. it. di G. Cambiano). Il termine doxosofía è l’equivalente concettuale di doxopaideutikÔ di 223b5: se quest’ultima era l’apparente – dunque falsa – educazione, il sapere di chi la pratica è un finto sapere. 107

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lo subisce112. Si è giunti al momento in cui, trovato il ghenos, occorre convenire sul nome: «ho paura a chiamarli “sofisti”» (231a1), ammette lo Straniero, questi purificatori che confutano, per non attribuire ai primi un onore troppo grande. Teeteto reintroduce nella sua risposta un argomento che aveva già fatto comparsa nel prologo, la similitudine: il sofista «assomiglia» (proséoike, 231a4) al divino confutatore, a quel filosofo che è lo Straniero, ma si tratta di una somiglianza esteriore, come del resto ogni similitudine, allo stesso modo del lupo – nuovamente una metafora ferina – il più selvaggio degli animali, che assomiglia solo nell’aspetto esterno al più domestico degli animali, al cane. Purificarsi dall’ignoranza significa anche non tener dietro alle somiglianze (táj ñmoióthtaj, 231a7), «genere molto infido», «terreno oltremodo sdrucciolevole» (ivi). Al genere delle similitudini appartiene tuttavia anche la sesta definizione che viene resa: il fenomeno descritto è la cosiddetta «sofistica di stirpe pura» (Ó génei gennaía sofistikÔ, 231b7-8). Gli interlocutori piombano così nell’imbarazzo perché sembrano essere tornati indietro al bivio che aveva indicato Socrate nell’introduzione, vale a dire alla complessità dei fenomeni da analizzare che, per il fatto di apparire e di essere l’uno simile all’altro, sono difficili da distinguere. Troppe sono, confessa Teeteto, le apparizioni in cui il sofista si è finora mostrato (dià tò pollà pefánqai, 231b9-c1) e tali da far piombare nella confusione. Non bisogna concedere enfasi eccessiva a questa descrizione, nell’accentuare i tratti di tangenza tra il filosofo e il suo doppio, giacché – come specifica il riepilogo che conclude la sesta definizione – non è questione di discutere se il sofista possa avere tratti comuni con il suo avversario: certo è che il volto confutatorio della sofistica ha «il grande merito di “umiliare” la ragione presuntuosa, di riportare l’anima nella sua nudità»113. 12. Diairetica e sinottica Aperta e ancora sondabile rimane la questione che qualche cosa di esistente, mostrandosi come un’apparenza, appaia polimorfo relativamente sia ai suoi aspetti umani e animali sia alle competenze e alle cognizioni di cui fa sfoggio. Si tratta, ammette Platone, di una 112 113

Platon: Sophistes, § 56, p. 379. G. Carchia, La favola dell’essere, cit., p. 40.

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apparenza «non sana» (232a3) e chi ne è affetto (páscwn, 232a3) non «è in grado di vedere» (o÷ dúnatai katideîn, 232a4) il punto su cui convergono tutte le conoscenze, l’eêj 8 (ivi), non gode cioè della vista unitaria. L’eêj 8, che è unità, penalizza tuttavia la multiformità emersa durante le descrizioni: la prevalenza della convergenza sull’uno è lo sguardo sinottico che supera il momento analitico, al punto che le sue acquisizioni rimarranno lettera morta per la rimanente parte della discussione. Il solo fenomeno unitario che l’indagine ha potuto mettere in luce durante le sei definizioni è il logos, proprio del sofista in quanto esistenza; dell’antilogia per quanto riguarda il campo delle sue pratiche. La conclusione della quinta definizione può dunque essere assunta a riepilogo delle precedenti, dalla quali emergeva che la caccia e i vari tipi di commercio cui è dedito il sofista sono effettuati sempre attraverso i discorsi. La polemica eristica della quinta definizione è per così dire salita di rango nella sesta, dove l’arte di mettere alla berlina l’avversario – che è un altro significato di elenchos – diviene l’arte sublime di ottenere ragione screditando le false ragioni altrui. Abbiamo concretamente di fronte le due estreme possibilità del logos, la prima, ancorata nell’intendimento quotidiano, la seconda veicolata verso l’autentica comprensione dell’essere. Le precedenti descrizioni si muovono tra apparenti contraddizioni, apparenti perché nessuna definizione è mai aporetica: ciascuna da sé costituisce una totalità conclusa e la necessità della loro riscrittura appare una strategia attuata da Platone per mostrare non tanto il filosofo quanto il sofista in azione. Se il filosofo difatti sarà operante nella sezione successiva dove indaga il fondamento della possibilità esistenziale di un “oggetto” chiamato sofista, sofistici sono i discorsi che conducono ogni volta a distinte verità sullo stesso dato. La fenomenologia del quotidiano ha dunque anche lo scopo di penetrare nel cuore della quotidianità sofistica, nella «molteplicità delle sue attitudini» fino all’«Esserci concreto del sofista»114.

Dalla “presa” alla poietica Le sei definizioni finora esposte, pur nella loro circolarità, hanno un unico punto di riferimento: tutte sono ancorate al paradigma origina114

Platon: Sophistes, § 27, pp. 191-192.

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rio, taluna se ne allontana per un certo momento oppure solo in maniera non rilevante. Il dato comune a ciascuna è l’appartenenza alla tecnica acquisitiva: cacciando ci si appropria della preda, mercanteggiando si vendono prodotti di cui ci si è appropriati in precedenza – ad eccezione dell’autoproduttore della quarta definizione – praticando in maniera degenerata la sottile arte dei ragionamenti verbali ci si appropria dell’animo tenero di chi li ascolta, infine – non sembri una forzatura – purificando l’anima ci si appropria del suo vuoto, del suo silenzio, del suo “essere nuda”. Heidegger ha ragione a ritenere il logos il fenomeno originario e portante del Sofista e a convenire che il carattere comune delle definizioni è il loro radicamento nell’antileghein. Sofista è chi fa pratica del contraddire, ma è anche colui che insegna quella pratica, se ne fa maestro. L’espressione poieîn Þntilogikoúj (232b12) rimanda indietro alla prima diramazione diairetica, alla distinzione portante tra appropriazione e poietica. L’aspetto del “tecnico” è ora completo. Nella Metafisica Aristotele ha definito i possessori di una tecnica più sapienti (sofwtérouj) di coloro che hanno la mera esperienza, e questo perché l’esperienza è conoscenza dei soli particolari, mentre la tecnica è conoscenza degli universali115. Il credito di cui godono questi tecnici, ribadisce Platone nel Sofista, deriva dal sembrare di possedere un sapere su qualunque cosa (pánta æpístasqai, 233a3), delle realtà sublimi e pertanto oscure, di quelle visibili e manifeste ai più, dell’essere e del divenire, delle leggi e di altre questioni politiche, dell’essenza della tecnica e di tutte le specie particolari di produzione, tanto che è chiara la loro capacità (dúnamij) di poter dibattere «in generale su tutto» (æn kefalaí_ perì pántwn, 232e3)116. La questione della possibilità del sapere universale in Platone non è certo priva di ironia, come dimostra il modo di rivolgersi dello Straniero a Teeteto, fingendo di chiedere ad un giovane, ritenuto più lungimirante di un adulto, se si dia qualcosa come la cognizione universale. Lo Straniero si rivolge al suo giovane interlocutore non soltanto per interrogarlo in merito alla pretesa scientifica della sofistica ma anche per Arist. Met. A, 1, 981a20 sgg. (tr. it. di G. Reale). Platon: Sophistes, § 58, p. 385: «Questa ricapitolazione è naturalmente importante anche per la caratterizzazione positiva dell’orizzonte che è stato presente a Platone, alla sua filosofia: l’ente come dio e mondo, l’ente nel senso dell’umano e, in relazione a tutto ciò, l’essere di questo ente e congiuntamente i modi dell’intender-si in ciascuno di questi modi dell’ente e dell’essere». 115

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ricavarne l’opinione comune se appunto sia possibile qualcosa come il sapere universale, che è ben altra cosa dal sapere dell’universale, scienza del concetto, nella quale si impegna la ricerca filosofica. Il vero sapiente, dunque non il sofista, sa che non si può sapere la totalità dei fenomeni né di quegli enti che non si lasciano cogliere attraverso l’evidenza sensibile. Sa soltanto che l’indagine filosofica è domanda relativa ai princìpi in virtù dei quali possa darsi qualcosa come il tutto. La purificazione della mente, sulla quale si è così dilungata la sesta descrizione, il rinvenimento dell’ignoranza in quanto mancanza di misura tra il soggetto giudicante e l’oggetto preso di mira, necessitano dunque anche di una calibratura: la sproporzione rimane tale fin quando una mente finita, qual è quella umana, si dirige – si slancia – verso la totalità degli enti.

Il sapere della totalità: tra onniscienza e illusionismo I sofisti, nella descrizione platonica, non si limitano a fingere l’onniscienza, ma ne fanno mercato, cioè la sottopongono ad un insegnamento. L’inganno è duplicato. La «capacità sofistica» è qaûma (233a9), termine che conosciamo come “meraviglia”, “stupore”, e che in maniera innocente poniamo addirittura come principio del filosofare. Esso indica anche il “burattino”, la “marionetta”, e, in questa accezione, si è già incontrato durante la prima definizione, nel composto qaumatopoiikÔ. Non è privo di intenzione il richiamo dello Straniero: da un lato egli vuole richiamare l’ammirazione suscitata dal sofista, dall’altro è già sulla via di attribuirgli la stessa tecnica illusionistica che era stata scartata in una precedente diairesi e che, come si evince dal rimando al poiein nella sua struttura, è “produttrice di cose portentose”. La questione è finalmente posta: essi «appaiono» (faínontai, 233c6) in possesso dell’onniscienza, eppure «non lo sono» (o÷k 3ntej ge, 233c8). La risoluzione del problema pone in campo un’ermeneutica dell’apparenza, da elemento fondativo comune ad ogni essente, dunque univoco, fino alla sua dynamis moltiplicativa, che ne fa il doppio di se stessa. Il dato più rilevante della pretesa all’onniscienza è tuttavia l’anticipazione della successiva problematica relativa all’essere del non-ente, al caso cioè, come dimostrano anche i prestigiatori, che sia presente, secondo il significato indicato da Heidegger dell’essere come presenza, dunque come collocazione degli enti nella sfera della disponibilità all’uso, sia presente un ente che in realtà non-è: come può darsi la simultanea

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presenza di un’assenza, l’esistere di un’inesistenza? «Ciò che ha indicato l’interpretazione condotta fin qui è che questa técnh accompagna in maniera fattiva l’esistenza del sofista, di modo che con il sofista, con la técnh sofistica, abbiamo dinanzi un ente che è presente e che è tuttavia ontologicamente impossibile, di conseguenza, per anticipare il seguito: l’essere del non-ente»117.

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Ivi, § 58, p. 389.

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CAPITOLO TERZO Problematicità dell’apparenza Sostenere che «la tradizione filosofica, fin dall’inizio, ha considerato il “vedere” come modo d’accesso privilegiato all’ente e all’essere» sembra per certi versi un truismo, per altri la tentazione ossimorica di elaborare una teoria dei contrari che dia conto dell’ordinario e dell’eccezionale, del quotidiano e del filosofico118. Heidegger intende mostrare, mediante una constatazione all’apparenza banale, la costituzione visiva del pensiero filosofico delle origini. Il vedere detiene un “primato” sugli altri sensi, tanto che, quando Platone struttura il luogo metasensibile della mente, lo riproduce analogicamente sul modello della percezione visiva. La priorità del vedere, stando alla lettera della Metafisica aristotelica, si fonda su un principio biologico più che filosofico. Nel libro A, infatti, è enunciata la naturale disposizione umana al sapere che è vedere (eêdénai, dalla stessa radice del verbo ñrân, êd-); testimonianza ne è «l’amore per le sensazioni» e, tra queste, più di tutte si ama la vista (Ó dià tÏn ðmmátwn): «non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in un certo senso a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze tra le cose»119. La causa principale del primato della vista consiste nella struttura diacritica del suo effettuarsi, nel suo far risaltare le differenze esistenti tra le cose. La sensazione visiva è la prima conoscenza per distinzione. Sin qui nulla di problematico se non che questa ingenua ed innocua intuizione si scontra con la constatazione che la radice visiva degli enti, il fatto di lasciarsi vedere e quindi di apparire, è una questione tutt’altro che pacifica. Nella costituzione visiva degli essenti si fonda la possibilità che ciò che si dà a vedere possa subire storture e falsificazioni, fino a 118 119

Sein und Zeit, § 31, p. 147; tr. it. di Chiodi-Volpi, p. 181. Arist. Met. A, 1, 980a23 (tr. it. di G. Reale).

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rendere il fenomeno, da semplice apparenza, una complessa parvenza, vale a dire un’apparire che non ha un fenomeno corrispondente. Phainomenon condivide con phantasia (rappresentazione o immaginazione) e con phantasma (l’apparenza o la parvenza) la dynamis di apparire: ogni manifestazione fenomenica, sia essa vera o falsa, è derivata dal poter essere apparenza delle cose. Nel Sofista Platone espone una complessa fenomenologia dei modi dell’apparire, necessaria a correggere la determinazione iniziale di phantasma, che ha segnato l’ingresso in scena del “vero filosofo” e del “vero sofista”, che è il “falso filosofo”. Nel corso della settima definizione, il discorso diviene più articolato, giacché, accanto all’ineludibile presupposto che tutti gli essenti sono nel mondo al modo di apparenze, è via via specificato che non tutte le apparenze, ma solo «alcune di esse e qualche volta siano false» (1nia kaì æníote, 264b3). Il dato rilevante è quell’«alcune», che necessita dunque di un’elaborazione categoriale, di una ricerca “genetica”, e il «qualche volta», l’estensione temporale di tale possibilità. Poiché si ricava questa conclusione a posteriori, dopo aver riconosciuto le apparenze congeneri al discorso, occorre risalire le tappe del ragionamento che vi conducono e che passano per la risoluzione della questione “che cos’è un’apparenza falsa?”, a sua volta scissa in due distinti problemi, “che cos’è un’apparenza?” e “che cos’è il falso?”. Lo Straniero ha già indicato nel sofista una apparenza «non sana» (232a3), contro la quale occorre dire «qualcosa di sano» (233a6), è necessario un logos che non si smarrisca nella multiformità che la diairesi lascia emergere e che abbia di mira il punto focale della raccolta delle determinazioni sparute nella sintesi dialettica. La sanità dei logoi si acquisisce attraverso la confutazione, ovverosia attraverso il potere catartico del logos dialettico. 1. Esibire per figure Appellandosi alla Quinta Ricerca Logica di Husserl, dove è stabilita la differenza tra il Bildobjekt, l’oggetto-immagine, e il Bildsujet, il soggetto-immagine, Heidegger sostiene che Platone sia indifferente nei confronti sia dell’essere-immagine (Bild-sein) delle cose sia del «fenomeno della figuratività (Bildlichkeit)», essendo interessato soltanto a ciò che nel soggetto-immagine si trova esposto. Ciò che conta è l’esposizione, meglio, “ciò che è esposto”, poiché l’esposto – ciò che si rende presente

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nell’immagine – è il non-essere. L’interesse per i problemi relativi al fenomeno dell’apparenza muoverebbe unicamente dalla possibilità da loro esibita di incontrare il non-essere120. Questa osservazione merita un maggiore approfondimento. è vero innanzitutto che l’obiettivo platonico è proprio quello di esibire la possibilità concettuale del nonessere attraverso un’interpretazione dell’immagine; è vero altresì che questa fenomenologia (che non è una “teoria”) si occupa dell’immagine (eidōlon, Bild) solo in quanto modo derivato del più generale apparire: è «descrizione delle modalità dell’essere in quanto edwlon»121. L’apparenza ha lo scopo di rendere visibile concettualmente il “dato di fatto” di un’inesistenza; di quest’ultima intuizione non si possiede il concetto corrispondente, di modo che è necessaria quella che Kant ha definito una «resa sensibile (Versinnlichung)», un’esibizione indiretta del concetto, la manifestazione di un’evidenza attraverso un altro ad essa legata da un rapporto di analogia (symbolon, da symballein, “unire”): da ciò si ricava che l’eidōlon-immagine, portando a vedere il phantasmaparvenza o apparenza falsa, può essere veicolo dell’eidos in senso descrittivo-fenomenologico122. Il procedimento euristico articolato nel Sofista parte difatti dall’individuazione del concetto già presunto di non-essere e lo fissa all’empirico mediante un’individuazione concreta. Anche i “paradigmi” più volte richiamati da Platone – la tecnica, il pescatore, lo «scherzo» che sarà enunciato nel corso della settima definizione, cioè la pretesa produttiva del logos – non hanno altro scopo che quello di ancorare al sensibile l’elaborazione concettuale, di rimanere fedele alla “cosa stessa” (tò prâgma a÷tó, 218c4) e, laddove questa immediata corrispondenza manchi, esibire la concretezza mediante una relazione analogica. L’intera discussione si svolge sotto il segno della paradigmaticità. Il sofista però non è solo l’analogo, il simbolo del non-essere perché lo rende visibile; egli è al contrario la visibilità aderente, o meglio «la versatile fatticità (die wandelnde Faktizität) del mÕ 3n»123.

Platon: Sophistes, § 58, p. 400. G. Carchia, La favola dell’essere, cit., p. 52. 122 I. Kant, Kritik der Urteilskraft, §59, tr. it. di L. Amoroso, Critica della capacità di giudizio, Milano, 1995, pp. 542 sgg.. 123 Platon: Sophistes, § 58, p. 404 (corsivo mio). 120

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2. Settima descrizione: la mimetica La nozione di apparenza, fin dai primi movimenti dialettici del Sofista, si agita tra contraddizioni insanabili. L’individuo-sofista reca una differenza fondamentale: egli «è apparso» (Þnapéfantai, 233c11) in possesso di una presunta «scienza dell’opinabile» (doxastikÕn æpistÔmhn, 233c10) ma non della verità (Þll’o÷k ÞlÔqeian, 233c11). Dopo aver contestato la pretesa pseudoscientifica dell’onniscienza, dunque il falso volto appropriativo della totalità degli essenti, Platone polemizza contro l’attitudine altrettanto dissimulante della tecnica intellettuale che congettura di poter far essere le cose, non soltanto quelle realmente producibili, come l’artigiano fa oggetti d’uso quotidiano, ma i súmpanta (cfr. 234a4), tutte le cose, la terra, il cielo, gli dèi, i mortali: è la presunta creazione della totalità. Il nuovo paradigma richiesto per chiarire questo aspetto appare a Teeteto uno «scherzo» (234a6), giacché è risibile la pretesa ammessa, che si possa cioè essere in possesso della capacità di creare tutte le cose; si rivela invece questione serissima, giacché li coinvolgerà in un discorso inesauribile e nel progressivo manifestarsi di aporie.

L’imitazione e i fantasmi linguistici Il primo modo (eôdoj, 234b2) del portare ad essere è il mimhtikón (ivi), l’imitazione, specie di grande estensione, «molto varia» e ciononostante capace di garantire uno sguardo sinottico (eêj &en pánta sullabÎn, 234b3-4). La forma più ingenua di offrire imitazioni o omonimie degli esistenti è la raffigurazione pittorica, che certo può tenere all’oscuro (lanqánein, 234b9) soltanto i fanciulli che guardano quelle immagini da lontano124. Il riferimento alla lontananza serve a Platone per indicare la distanza tra lo slancio verso la verità e la sua incapacità

Platone parla di “fanciulli” o “giovani” quando si vuole riferire ad un approccio ingenuo al mondo. Il riferimento più importante avviene durante la contestazione degli argomenti ontologici dei filosofi precedenti, accusati di “raccontare favole”, vale a dire di non considerare il reale spessore intellettuale di chi ascolta, considerato alla stregua di un “bambino”, espressione non critica di quella «moltitudine che – innanzitutto e per lo più – siamo» (cfr. Plat. Soph. 242c sgg.). 124

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a coglierla: come una pittura, il discorso tiene «lontani dalla verità» (il contrasto è giocato sull’opposizione di lanqánein del periodo precedente e ÞlÔqeia) offrendo «immagini parlate» (edwla legómena, 234c6) delle cose, al fine di «creare l’opinione – in chi ascolta – che si stia dicendo il vero» (poieîn ÞlhqÖ dokeîn légesqai). Questa espressione opera una vera e propria dissimulazione della poiēsis come “condurre ad essere”, qui sostituito dal «poieîn pánta dokeîn, un non far altro che somigliare a ...»125. L’impiego di doxa in questo passo capovolge l’apofansi del logos, il discorso che lascia vedere, e diviene dimostrazione di una somiglianza, disinteressandosi di verificare se questa similitudine sia reale – cioè riferita ad un essente – oppure finta – priva del contatto con le cose, addirittura imparentata con il non essente. Nella successiva argomentazione dello Straniero è presentata un’ulteriore opposizione, quella tra i æn toîj lógoij fantásmata (234e1) e gli æn taîj práxesin 1rga (cfr. 234e2), tra le mere parvenze annidate nei discorsi e la concretezza delle realtà dell’esperienza vissuta. Il sofista è ricondotto alla classe degli imitatori o dei prestigiatori (mimhtÔj, góhj), a coloro che creano giochi illusionistici, al qaumatopoiòn génoj (cfr. 235b5), che inganna la percezione ingenua. La mimhtikÔ, l’imitazione, è indicata da Platone anche come eêdwlopoiïkÔ (cfr. 235b8-9), tecnica del produrre immagini. è da notare che l’equivalenza tra mimetica e eidolopoietica si basa sull’equazione fondamentale tra eidōlon e mimēma: ogni immagine è sempre un’imitazione. Dal momento che la profondità scientifica del metodo implica l’astensione dal pronunciare giudizi di valore sui fenomeni analizzati, Platone si impegna nella descrizione fenomenologica dell’apparire sine ira et studio. Una simile obiettività è garantita dal kaqorân (235d1), che interviene a questo punto per riprendere lo sguardo avveduto e imparziale sul mondo richiamato all’inizio del dialogo e attribuito già allora sia agli esseri divini sia all’esistenza filosofica. Applicando la diairesi a questa tecnica produttiva, risultano ottenuti due eidē, la rappresentazione di un modello secondo le esatte proporzioni, e la produzione di parvenze, eêkastikÔ (cfr. 235d6) e fantastikÔ (cfr. 236c4). Oggetto della prima è in generale l’eêkÍn (cfr. 236a8), che è rappresentazione nel senso della “copia”, ed è il tipo di immagine di cui si servono ad esempio i pittori, gli scultori e in una certa misura anche i musici, se è vero che la musica riproduce l’armonia reale del cosmo. 125

Platon: Sophistes, § 58, p. 392.

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Della seconda fanno parte i phantasmata, le apparenze, che tuttavia non sono “apparenze semplici”, ma vere e proprie “parvenze”. Il principale elemento discriminante tra la rappresentazione e la parvenza è costituito dalla similitudine all’oggetto imitato, somiglianza presente nell’eikōn e difettiva nel phantasma. La rappresentazione è difatti sempre eêkój ge 3n (236a8), «simile al vero essente», mentre la parvenza è mhd’eêkòj [...] æoikénai (236b6), «non appare nemmeno somigliante», faínetai mén, 1oike dè o5 (236b7), «appare somigliante, ma non lo è». Il rapporto di summetría (236a5), presente nella somiglianza della copia all’oggetto reale, esprime un rapporto di concordanza, dunque di verità nel senso della homoiōsis o della orthotēs, anche quando non vengono rispettati i rapporti proporzionali reali poiché la finalità della produzione è mirata ad apparire bella allo sguardo dell’ammiratore126. La corrispondenza formale e parziale manca invece completamente nelle immagini fantasmatiche127. Se il phantasma è il primo modo dell’apparire, ricollegandosi al verbo fantázesqai di 216c e sg., la ñmoióthj, la somiglianza, è senza dubbio il secondo; esso è stato definito in 227b3 un «genere infido, sdrucciolevole» su cui è scivolato anche Socrate dinanzi al primo apparire dello Straniero-filosofo. Ed in questo \poron eôdoj (236d2), in una radice ontologica aporetica per chi la vuole investigare, si è andato a rifugiare il sofista cacciato. Durante la diairesi della mimetica torna l’immagine dominante della ricerca filosofica in quanto caccia, indagine euristica. I riferimenti sono molteplici e 126 La eêkastikÔ «ha luogo soprattutto quando uno, attenendosi alle proporzioni del modello in lunghezza, larghezza e profondità, e, per di più, applicando a ciascuna parte i colori convenienti, esegue la sua opera d’imitazione. – E che? Tutti quelli che imitano qualche cosa, non si sforzano appunto di far questo? – Non però, credo, quanti o plasmano o dipingono qualcuna delle cose grandi. Giacché, se riproducessero la vera proporzione delle cose belle, sai perfettamente che le parti superiori apparirebbero più piccole del giusto, e le inferiori più grandi, per essere da noi le une viste di lontano, e le altre da vicino. – Senza dubbio. – Non è dunque esatto dire che ora gli artisti, lasciato da parte il vero, riproducono nelle loro immagini, non già le proporzioni reali, ma quelle che possono parer belle? – Precisamente» (Plat. Soph. 235d6- 236a10 [tr. it. di E. Martini]). 127 Platone aveva già parlato di mimÔmata kaì ñmÍnuma tÏn 3ntwn (234b6-7) a proposito della grafikÔ. La similitudine insita nelle “omonimie” è a fondamento della definizione degli edwla legómena e dei fantásmata æn toîj lógoij.

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spiegano al contempo lo stupore dell’eleate quando Teeteto ha paragonato in precedenza il sofista al cacciatore (221d13). Il qaumatopoiòn génoj è il nuovo calappio, apparecchiato a questo scopo dai discorsi per serrare la fuga della preda (235b5sg.).

L’essenza dell’immagine L’interpretazione dei modi dell’apparire si interrompe bruscamente con un rimprovero a Teeteto che non scorge il reale grado di difficoltà in cui sta procedendo la ricerca: «l’apparire (faínesqai), il sembrare (dokeîn) e non essere (eônai dè mÔ)» (236e1-2) apre un nuovo prologo teso prima all’enunciazione delle aporie insite nella spinosa questione della negazione (il mÔ o l’o÷ che hanno negato alla parvenza la similitudine all’essente), poi della non esistenza del non-essente che tuttavia una concezione apofantica del discorso lascia manifestare, ed infine la destrutturazione delle tradizionali teorie ontologiche su cui la ricerca platonica pratica l’elenchos nel senso più radicale, prospettando il pericolo estremo della “distruzione”, e ciò allo scopo di liberare il logos dai suoi fantasmi per rispondere all’appello delle cose e pervenire ad una “ortologia del non-essere” (cfr. 239b4). La diairesi interna alla mimetica o produzione di immagini tra tecnica icastica e tecnica fantastica è subordinata alla soluzione del problema ontologico. Essa è dunque lasciata sospesa fino a quando non si scopre che è possibile ricondurre il sofista sotto la fantastikÔ: egli è difatti eêdwlopoiój, “fa” immagini servendosi di argomenti antilogici. Si mostra finalmente all’opera quando, vedendosi ormai braccato, tenta di rovesciare il discorso che lo sta confutando portando questa obiezione: «che cosa diciamo, in generale, con “immagine”?» (tí pote tò parápan edwlon légomen, 239d3-4). La struttura della domanda, com’è evidente, riproduce il modo propriamente socratico di porre in difficoltà l’interlocutore, e non a caso è lo Straniero a pronunciare questa obiezione dinanzi alle contraddizioni in cui si sta avvolgendo l’argomentare di Teeteto: questa avrebbe dovuto essere la prima questione ad essere formulata non appena imboccato il cammino della poietica icastica. La risposta precipitosa di Teeteto (edwla sono le immagini riflesse nell’acqua o nello specchio, quelle modellate o dipinte), attira la contestazione del suo avversario, cui lo Straniero riconosce di «avere occhi». Il sofista “ha occhio”, si avvede delle contraddizioni e le usa per

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controbattere alle tesi: è naturale che qui Platone stia facendo dell’ironia, allo scopo di rendere più “avveduto” Teeteto. L’aporia consiste nell’aver nominato realtà disparate sotto un unico fenomeno, come se «un’unità» fosse supposta alla base di ciascuna di esse. Il punto è di grande importanza: mediante il richiamo sensibile alla vista, si schiuderebbe una modalità di intellezione ultrasensibile. Ciò che si evidenzia è difatti l’êdéa (cfr. 253d5), la «nota caratteristica», la «vista (Sicht)» che è «una» e permette di raccogliere i dati molteplici in unità128. Teeteto non si avvede che attraverso il suo ingenuo argomentare ha già individuato il punto di raccolta, corrispondente nella dialettica al momento della sinossi. «La questione verte dunque su una permanenza (Selbigkeit), sulla fissità dell’edwlon in opposizione al cambiamento arbitrario degli edwla nelle loro diverse forme concrete»129. Il problema cade, nel seguito del dialogo, sulla somiglianza (Þfwmoiwménon, 240a8): avendo collocato il sofista tra i mistificatori (yeudourgój, cfr. 241b6) e gli illusionisti si è operata una moltiplicazione delle difficoltà e delle antinomie. Solo la previa indagine sul falso è garante delle possibilità d’esistenza di edwlon, eêkÍn e fantasía (260c8-9): «se il falso è, c’è anche l’inganno» e «se c’è l’inganno, necessariamente tutto sarà pieno di immagini, di rappresentazioni e di parvenza»130. L’alterazione poietica del logos Nel quadro delle descrizioni fenomenologiche dell’esistenza sofistica lo spartiacque concettuale si situa tra i modi del suo intender-si, del suo affaccendarsi impegnato nel mondo, il primo appropriativo, il secondo produttivo. Gli enti di cui ci si impossessa attraverso il discorso non sono meno essenti di quelli della produzione. L’accentuazione preponderante del secondo implica l’esplicito intervento umano a condurre all’essere, implica allora il poiein, l’attività producente. D’altro canto Platon: Sophistes, § 62, p. 427. Ivi, § 62, p. 428. 130 Plat. Soph. 260c6-9 (tr. it. di E. Martini, lievemente modificata). Cfr. anche la ricapitolazione di 264c12-13: «piombò sulla nostra mente una vertigine anche più tenebrosa, quando ci apparve quell’argomentazione che contro tutti sosteneva non esserci assolutamente né simulacro né immagine né apparenza alcuna, per ciò che non possa esserci mai nessuna falsità di nessun genere e in nessun caso». 128

129

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il logos non è sempre e solo Sein-lassen, lasciar-essere, giacché una delle acquisizioni principali della definizione finale di sofista è la capacità poietica del discorso, produzione di “immagini verbali”. La determinazione poietica è tuttavia una degenerazione del discorso perché il logos autentico non deve essere produttivo ma sempre e solo appropriativo, deve cioè agire su un contenuto già dato, preesistente al suo effettuarsi. Di conseguenza non soltanto il discorso sarà falso, lo sarà anche la produzione che dà vita ad inesistenze. Ci troviamo allora dinanzi non una bensì due tecniche, la prima, reale, è poiein in senso stretto, condurre ad essere; la seconda è mimeisthai, imitazione del vero produrre131. Il pericolo più grave insito nella volontà produttiva del discorso è la sua interferenza nell’ambito dell’essere: se il senso del produrre è “portare ad essere”, portare alla presenza, dove questo essere-presenza non è mai ontologicamente determinato dalla produzione che lavora su soggiacenze anteriori, il logos poietico pretende invece di modificare l’essere, di non accontentarsi dunque dell’appropriazione del già esistente o, al limite, di far-esistere: esso vuole l’ousia, l’essere. Il discorso è costituito di affermazioni e negazioni (fásij e Þpófasij, cfr. 263e12): radicata nella questione del non-essere c’è anche quella negazione. Un giudizio che nega non è meno delotico di uno affermativo. Per delotico è da intendersi sia il significante, secondo il senso aristotelico del sēmantikos, sia l’apofantico, il giudizio che “esibisce” (Aufweisung) la verità come disvelamento assoluto, non più coniugato nella riduttiva forma della predicazione del vero o del falso. Anche il falso è un modo del dēloun, essendone difatti l’annichilimento, la contrarietà che, ciononostante, si lascia vedere, appare, si mostra. Il falso esibisce sempre un rapporto analogico con il vero, appunto perché della verità, della sua simmetrica costituzione, della sua corrispondenza con i discorsi umani, è analogo, simbolo rovesciato, in quanto “ricoprimento”, “dissimulazione”, “inganno”, “illusione”, “parvenza”. Il radicamento delle apparenze nel logos, dunque la loro possibilità di essere false, comprova l’esistenza delle imitazioni del reale (264d4) e di una specifica tecnica dell’inganno (ÞpathtikÔ, cfr. 264d5).

131 Platon: Sophistes, § 58, p. 397: «poieîn significa: pro-durre (Her-stellen); mímhsij, mimeîsqai significa: es-porre (Dar-stellen)».

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Tecnica divina e tecnica umana: lo sdoppiamento dell’apparire La parvenza si trova collocata in conclusione al dialogo tra la mente e l’opinione (diánoia e dóxa), ossia tra quei luoghi dell’anima in cui si generano il vero e il falso: l’integrazione di questi fenomeni nel discorso evidenzia «il primato del lógoj su tutti gli altri possibili modi del disvelamento e dell’apertura»132. Questa inclusione è descritta come relazione che ciascuna di queste attività intrattiene con il parlare, nella multiformità del dialogo con sé, fondato sulla salda certezza dell’interiorità (kaq’aøtò, 264a4) e della corrispondenza tra la mente e il reale; e del discorso che è invece di’aêsqÔsewj (ivi): la particolarità della “sensazione” fa da pendant alla universalità della verità mentale, su cui è facile trovare l’accordo. L’aisthēsis è l’individuale puro, soggettivismo ineffabile. Il discorso sensibile è phantasia, che risulta essere dunque «congenere al discorso» (264b2-3), e su questa base rende «alcune» apparenze e «talvolta» false. Nella sezione finale Platone legittima l’appartenenza della mimetica alla tecnica poietica: «l’imitazione (mímhsij) è una sorta di fare (poíhsíj tij)» (265b1) che ha ad oggetto eidōla. La poiēsis è la possibilità (dúnamij) di generare (gígnesqai prende il posto di \gein di 219b, “condurre”, “portare”), e questa “capacità” è qui specificata come aêtía, causa efficiente della produzione. L’artefice divino, che procede con scienza e giudizio, genera l’esistente in tutte le sue forme, dagli animali alle piante. I fúsei legómena (cfr. 265e3) sono opera del poiein divino, mentre gli assemblaggi ulteriori, che si servono dunque degli esistenti per natura, sono opera umana. La prima importante ammissione di questa singolare distinzione tra tecnica divina e tecnica umana è la possibilità, da parte del principio divino, di produrre immagini, di essere eêdwlopoiïkÔ (cfr. 266a10). Platone non arriva a dire che l’essere immagine delle cose è radicato esplicitamente nelle loro essenze; ammette tuttavia che ci sono immagini che non dipendono dalle intenzioni umane di condurre in inganno: queste sono i sogni, le ombre e tutte le altre visioni apparenti. Il sapiente artefice, la segreta finalità che tempera la umana hybris e alimenta la speranza di senso, fa seguire alle cose (oggetto della a÷topoihtikÔ, cfr. 266a9) le loro immagini. Non è la fede ma il rigore dell’intelletto a credere che esse occupino nell’ordine dell’esistente la loro razionale col132

Ivi, § 81, p. 607.

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locazione, se non altro, almeno, per fungere da impedimento alla mente che passa, di purificazione in purificazione, dal visibile all’invisibile. Che cos’è del resto l’eidos, la “figura” di una cosa, la sua “idea”, se non il suo “aspetto” sommo, la sua visione suprema, il suo apparire sfrondato di sensibilità, intuibile con gli occhi della mente? Anche l’apparenza, come la sua forma degenerata, la parvenza, impastata di opinione e sensazione (súmmeixij aêsqÔsewj kaì dóxhj, 264b2) è “visione” ed è per questo motivo che può essere imitazione, copia, rappresentazione, falsificazione del reale, perché, come il reale, si dà a vedere, meno nascostamente, in maniera plateale, così da ingenerare facilmente la consapevolezza dell’inganno.

Il sofista riproduttore di immagini Per concludere con le definizioni di sofista basta seguire l’ordine inverso della ricapitolazione che Platone espone alla fine del dialogo e che riproduce in sintesi i modi distinti dell’apparire nei quali si è articolata questa ermeneutica dell’apparenza, per cui «chi dirà che il vero sofista appartiene a tale genìa e a tal sangue, dirà l’assoluta verità (tÞlhqéstata)»133. Esiste la eêdwlopoiïkÔ, divina ed umana, o anche eêdwlourgikÔ (cfr. 266d8), una tecnica di produrre immagini, distinta in eêkastikÔ e fantastikÔ (cfr. 266d9; nel sommario fantastikòn génoj, 268c9), quest’ultima è qaumatopoiikÔ (cfr. 268d2), una creazione di apparenze illusorie, che può essere doxomimhtikÔ (267e1; o doxastikÕ mímhsij, cfr. 268c9) – che è il terzo neologismo platonico del Sofista composto da dóxa, dopo doxopaideutikÔ (cfr. 223b5) e doxosofía (cfr. 231b6) – imitazione dell’opinabile, che può essere a sua volta eêrwnikÕ mímhsij (cfr. 268a7), imitazione che simula, “ironica”, come ad esempio quella dell’oratore pubblico, oppure la ænantiopoiologikÔ (268c8), quella del contraddire in privato, attraverso brevi discorsi. Come si chiamerà quest’ultimo, chiede lo Straniero, «“sapiente” o “sofista” », giocando sulla somiglianza tra i nomi sofój-sofistÔj, per sottolineare il tentativo di similitudine che si insinua anche nel nome? Egli è il «realmente e assolutamente sofista» (268c4). La caccia filosofica ha catturato la sua preda.

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Plat. Soph. 268d3-4 (tr. it. di G. Cambiano, lievemente modificata).

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3. Essere è apparire In quella ricerca «sulla grammatica e sulla etimologia della parola “essere”» che è il corso del 1935, Introduzione alla metafisica, Heidegger colloca l’analisi dell’essere come apparire134. Dire che essere è apparire è in fondo una risposta alla domanda metafisica “perché, in generale, l’essente e non il nulla?”. La nozione di apparenza intrattiene un rapporto privilegiato con entrambi i termini della questione, essente e nulla, dal momento che ciò che appare sembra aver infranto ogni congetturale provenienza dal nulla e si impone come essente in quanto si dà a vedere, c’è. L’apparenza, in virtù della sua capacità di darsi come essente, sembra godere anche del privilegio di essere l’autentico essente, il cui riconoscimento è garantito dal contesto di una relazione intersoggettiva nella quale ci si mostra: si appare agli altri e in mezzo al mondo e nessuno può revocare un giudizio di esistenza così evidente. è più che ragionevole presumere che non tutto l’essente sia o sia sempre immediatamente visibile, ma tutto ciò che conta per gli umani deve prima o poi in qualche modo apparire pubblicamente, divenire oggetto del riconoscimento altrui e farsi responsabile della fama (doxa) di cui si gode. In realtà l’apparire mantiene con il nulla una relazione fondamentale ed è per questo spesso apparentato al divenire135. Se la vigenza dell’apparire è inquestionabile, è vero che si assegna a ciò che appare “qui ed ora” il destino di ricadere nel nulla. Appare ciò che un tempo non era e quando non si appare non si è. Il nulla è in grado di far vacillare l’essente, di porlo a metà tra l’essere e il non-essere. L’apparenza è questo essente intermedio, un essente che si situa tra il non essere ancora e il non essere più e la piena presenzialità. Apparire è sempre in fondo un portare all’apparenza, dunque un portare ad essere hic et nunc che può essere revocato ogni qualvolta venga meno la visibilità, il fatto che l’apparenza si dia a vedere. L’esistenza appariscente delle cose è in 134 Einführung in die Metaphysik, GA XL, a cura di P. Jaeger, Frankfurt a. M., 1983, p. 40 (si cita dall’edizione Niemeyer del 1966); tr. it. di G. Masi, presentazione di G. Vattimo, Milano, 1990, p. 63. Un pensiero che concede dignità filosofica all’apparenza e al suo corredo concettuale può costituire un’autentica alternativa alla metafisica: si vedano le profonde pagine di Hannah Arendt sul tema dell’apparire in The Life of the Mind, ed. it. a cura di A. Dal Lago, La vita della mente, Bologna, 1987, in particolare pp. 99-150. 135 Einführung in die Metaphysik, pp. 87-88; tr. it. p. 124.

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sostanza un tentativo continuo di resistenza alla «possibilità estrema del non essere»136. Sostenere, come fa Heidegger, che apparire sia “idea” o eidos non significa affatto snaturare l’essenza di un concetto filosofico fondamentale a vantaggio dell’apparenza, che invece si trova quasi sempre screditata perché sinonimo di una visione ingenua ed approssimativa del mondo: chi misura le cose secondo la loro apparenza spesso si inganna. L’idea ha una radice visibile inscritta nel nome ed è essa stessa “veduta” sul mondo, anzi è capace di aprire mondi e di offrire vedute e scenari inconsueti. L’idea di una cosa è in fondo la sua forma, l’aspetto che assume (eidos), la sua terminazione visiva: appare in un certo modo, sotto specifiche sembianze qualcosa che si stringe intorno ai suoi confini sensibili e che vuole essere riconosciuta per quel che è perché ne ha la forma. L’apparire è dunque la forma dell’essere, l’aspetto che l’essere di volta in volta assume. L’apparenza è in questo senso l’idea-eidos dell’essere137. Per questo motivo la «limitazione» di “essere e apparenza” di cui parla Heidegger va letta anche nel senso della terminazione compiuta, apprensione particolare dell’essere che può essere anche apparenza. Se difatti l’essere è un concetto vuoto e fumoso perché generale e ovvio, la determinazione entro limiti, la stabilizzazione entro confini, non può non facilitarne la comprensione (e anche favorirne i fraintendimenti). Tutto ciò che si può dire dell’essere è possibile solo sul fondamento di un determinato orizzonte ontico che ne permette la comprensione. Il termine “limitazione” non ha solo valenza negativa perché rimanda allo stabilire definizioni spaziali, al raccogliere intorno ad un luogo il confine di esistenza di ogni essente, oppure al donare spazio quando si riunisce entro sé. Lo spazio non è solo estensione, è anche “spazio sacro”, alla maniera della chōra, che si trova nel posto più remoto e inaccessibile del tempio, ed ospita la statua della divinità, che, segreta ma non invisibile, è nascosta ai più e si lascia vedere da coloro che hanno occhi per contemplarla. A fondamento di una delle radici etimologiche della parola “essere” che Heidegger analizza, l’apparire compare in relazione allo schiudersi, alla physis, a ciò che, portandosi dalla latenza alla visibilità (alla verità), appare ovvero è. L’essere che si dice in più modi comprende l’apparire non come significato accessorio quanto tra le modalità fondamentali 136 137

Ivi, p. 23; tr. it. p. 41. Ivi, p. 46; tr. it. p. 71.

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del suo darsi. La polisemia dell’apparenza ha il proprio fondamento sulle molte e diverse guise dell’essere. Apparenza è però anche ciò che è altro dall’essere, altrimenti non si comprende perché, per significare la stessa cosa, si hanno due nomi. La diade “essere e apparire” si trova iscritta nel destino della più antica storia della filosofia occidentale. Non è dunque un accostamento fortuito perché risponde ad una ragione d’essere più profonda che va analizzata. Tra essere e apparire c’è una «unità recondita», una «intima connessione»138. Se ci si limita a prendere i due termini come una coppia concettuale e a differenziarli mediante la congiunzione “e”, allora è chiaro che si sta facendo dell’apparenza un che di distinto dall’essere e, diffidando del carattere ingannevole perché mutevole dell’apparire, filosoficamente si prende posizione a favore dell’essere che ha carattere stabile e duraturo. Dall’alternativa tra “essere o apparire” conseguono scelte di vita fondamentali. Dei modi in cui la lingua parla di apparenza (Schein) Heidegger ne individua almeno tre: lo splendere o il rilucere (Leuchten), ad esempio quello del sole, di altre stelle o di una fiamma; il parere (Scheinen) come apparire (Erscheinen) o venire all’apparizione (Vor-schein); la pura apparenza o sembrare (Anschein), su cui si fonda una delle accezioni di doxa139. «L’essenza dell’apparenza (Schein) risiede nell’apparire (Erscheinen)», vale a dire nelle modalità del mostrarsi e dell’essere presente delle cose140. L’apparenza, in quanto portarsi alla presenza, ha lo stesso significato di essere, che è stare e mantenersi nella presenza e resistenza ai tentativi annichilenti del non-essere. L’apparire, perché fondamentalmente mostrarsi e rilucere, indica la posizione dell’essente nel mondo: il fatto che il sole risplenda non è un attributo derivato ed occasionale della sua essenza, ma è radicato nella sua appartenenza all’ordine dell’esistente. Ogni essente non è meno rilucente di una stella, è anch’esso a suo modo provvisto di un proprio lucore. La stessa alētheia mantiene un privilegiato rapporto con l’apparire, se è vero che essa dischiude, disvela, sottrae le cose dal loro occultamento visivo.

138 139 140

Ivi, pp. 75 e 76; tr. it. pp. 108 e 110. Ivi, p. 79; tr. it. p. 114. Ivi, p. 76; tr. it. p. 109.

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4. La via dell’apparenza Si sa dall’analisi delle etimologie che mostrarsi è in fondo uno schiudersi e che si schiude l’essere, la physis. L’apparire ha dunque a che fare con uno dei significarti fondamentali di essere che le lingue occidentali sembrano aver obliato. La considerazione negativa che spesso accompagna l’apparenza si rivolge solo ad un modo particolare dell’apparire, il “sembrare” (Anschein) che informa l’opinione, la veduta soggettiva e perciò parziale di un fenomeno. Nella doxa tuttavia, che è per prima cosa la fama di cui si gode, il “semplice aspetto” di una cosa, “l’aver l’aria di…” ovvero il somigliare (la “semplice apparenza”), l’opinione è un significato, però il significato che si è imposto e ha finito per prevalere sugli altri141. L’aspetto più inquietante del sovrastare dell’opinione non è quello che Heidegger denuncia come cedimento soggettivistico e relativistico. Pensare è avere idee e opinioni, che sono vedute, aperture, finestre sul mondo e non visioni cristallizzate a partire dalle quali si interpretano i fenomeni e li si rigetta quando contrastano con le teorie precostituite. Avere idee è l’esatto contrario del seguire un’ideologia, mania dell’idea fissa, del punto di vista irremovibile e impersonale. Pensare implica sempre uno stare in prospettiva e questo “prospettivismo” è ben altro da un posizionamento al centro. Assumere una prospettiva non coincide ancora con l’atteggiamento imprudente che fa del pensare da sé un collocare il sé al centro del pensiero come attore unico. Si parte da sé nel pensare perché non si saprebbe altrimenti da che parte partire. E partire da sé significa iniziare a pensare da quell’insieme di condizioni che rendono possibile il pensare stesso, come la lingua e il corredo concettuale che si eredita sempre con beneficio di inventario, dettando condizioni e non lasciarsele imporre. Il dato più pericoloso del dominio dell’opinione è il venir meno dell’orizzonte prospettico individuale e del sovrastare della cosiddetta “opinione pubblica”, che non è l’opinione estrinsecata, quanto l’opinione che si presume generalizzata. L’opinione è quel fenomeno che per la sua natura individualistica, relativa, parziale, non può essere generalizzato. “Doxa” invece è divenuto il nome di un istituto di rilevazione statistica e aver opinioni è divenuta la capacità di poter rispondere a sondaggi. Il fatto che si possano esprimere opinioni discordanti e impopolari non è, per la statistica, nemmeno più un elemento di disturbo. I 141

Ivi, pp. 79 sgg.; tr. it. pp. 114 sgg..

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pareri devono essere uniformati e perciò è necessario che i quesiti siano meno problematici possibili; ma ciò che è meno complesso è spesso banale ed inoltre esistono questioni alle quali non si può rispondere con un “sì” o con un “no”. Così quando si chiede se stare o meno dalla parte dell’apparenza, se vale più l’essere che l’apparire, cosa si chiede? Apparire non è diverso dall’essere, anzi è un carattere precipuo dell’essere-con e essere-tra gli altri, in mezzo alle cose e ai fatti, ai quali dobbiamo la responsabilità del nostro apparire (gli individui invisibili si sottraggono ai doveri dell’apparenza e sono irresponsabili e pericolosi: questo il monito platonico della favola di Gige). Come nell’essere si radicano le possibilità del non-essere e nella verità quelle della non-verità, così nell’apparenza sono compresi anche i fenomeni falsificanti dell’inganno, dell’illusione, dello sviamento. L’esposizione al negativo, al contrario, alle possibilità di nullificazione fanno parte del rischio che rende i fenomeni autentici. Assumere le parti dell’apparenza, compreso il pericolo delle sue derive, significa rispettare i fatti, stare dalla parte dei fenomeni, e con ciò salvare l’essere, la verità e l’apparenza dal niente, dall’oblio e dalla menzogna. Decidersi per l’apparenza non equivale ad una volgare scelta per la spettacolarizzazione della vita, per l’ostentazione di una verità altra, per l’esibizione di un’immagine falsificata o patinata. è stato Parmenide, non un comunicatore o un critico della “civiltà dell’immagine”, ad indicare la “via dell’apparenza” come compito filosofico. Parmenide ammonisce l’umano a non abbracciare senza criterio la strada larga delle opinioni facilmente condivise e rassicuranti e di tener ben fermo davanti a sé il terreno sdrucciolevole di questa scelta come soluzione per un pensiero unico e monotematico. Dall’opinione massificata bisogna guardarsi, non dalla questione problematica e squisitamente filosofica che le cose appaiono e che sembrano apparire anche cose che non sono142. 5. Farsi immagine del mondo L’evidenza originaria che l’apparenza sia radicata nell’essenza delle cose, essenti in quanto visibili, apre una serie di considerazioni che 142

Ivi, p. 86; tr. it. p. 122.

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investono il ruolo della filosofia dinanzi a questa disponibilità visiva delle cose. Il fatto che del mondo si possa avere un’idea, una veduta, implica già forse la riduzione del mondo stesso a immagine del soggetto che guarda? Tra l’apparenza e l’immagine c’è uno scarto, che già Platone segnalava come distinzione tra eidos e eidōlon. Il saggio del 1938 sulla Epoca dell’immagine del mondo contiene annotazioni importanti su questa differenza: «il fatto che in Platone l’entità dell’ente si definisca come eôdoj (aspetto, veduta), è il presupposto storico remoto, operante una lunga e nascosta meditazione, perché il mondo divenga immagine»143. Se l’apparire è il libero schiudersi dell’essere, l’immagine è il risultato di un lavoro immaginifico e creativo della soggettività che si rapporta al mondo mediante la visione. Le immagini nascono dalla produzione, nello specifico da una rappresentazione (Vorstellung) nella quale il soggetto pone dinanzi a sé (vor-stellen) le cose ridotte ad oggetti (Gegenstände)144. Il processo di riduzione oggettuale dell’essente è secondo Heidegger caratteristica della modernità che, stabilendo il primato della ricerca empirica, ha bisogno di assicurarsi domini dell’ente, dunque porzioni di essere di cui appropriarsi e da investigare. La visione heideggeriana della modernità denuncia il predominio della razionalità calcolante, della verità ridotta ad esattezza, dell’essenzializzazione della relazione al mondo in una dottrina della conoscenza, dell’applicazione indiscriminata del metodo sperimentale che ha l’obiettivo di formulare leggi anche per i fenomeni sregolati dello spirito, della cultura e della storia. «Riflettere sul Mondo Moderno significa cercare la moderna immagine del mondo (Weltbild)»145. Questo non significa che “immagine” corrisponda ad una visione o ad una mentalità che parla a nome di un’epoca, per cui all’immagine moderna se ne può contrapporre una antica. Il dato significativo è che proprio la modernità si nutre della creazione di immagini del mondo e lo fa in virtù della logica rappresentativa di soggetto-oggetto. Immagine è certamente il modo di raffigurarsi il mondo, «la riproduzione di qualcosa», una pittura dell’ente, anche l’imitazione di un

Die Zeit des Weltbildes, p. 84; tr. it. di P. Chiodi, p. 90. Ivi, p. 80; tr. it. p. 83. Cfr. V. M. Fóti, Representation and the Image. Between Heidegger, Derrida and Plato, in «Man and World», 1 (1985), pp. 65-78. 145 Die Zeit des Weltbildes, p. 81; tr. it. p. 86. 143

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originale146. Sebbene talvolta divergente dal modello, l’aspetto più insidioso dell’immagine non è la capacità imitativo-riproduttiva. Il dato più pericoloso è che nell’immagine sia implicito l’«avere un’idea (Bild) fissa (fissarsi) di qualcosa». Non l’idea, la veduta in quanto tale, è posta sotto accusa quanto l’imporsi e il dominio di un’unica idea, fissa perché capace di fermare il mondo e renderlo stabile, cristallizzarlo in un’immagine data una volta per tutte, fissa anche perché senza sorprese e riserve, sicuro ma maniacale strumento di orientamento. «“Farsi un’idea fissa di qualcosa” non significa soltanto rappresentarsi in generale l’ente ma anche porlo innanzi a noi come sistema»147. I sistemi, si sa, sono generalmente costanti e coerenti, congegni di pensiero automatico che sostituiscono la spontanea facoltà di avere idee e guardare il mondo a partire da sé con un mezzo di osservazione che si frappone tra il libero pensiero e le cose. Il sistema è una deformante trappola concettuale che ha la pretesa di fungere da lente correttiva, credendo che normalmente la percezione del mondo sia falsata, oppure da cannocchiale (telescopio e microscopio) quando esige di ampliare gli angusti confini della visione consueta e guadagnare, come si dice, nuovi orizzonti. Le immagini del mondo non esistono a priori: nessun sistema potrà pertanto ambire a conquistare il dominio assoluto delle modalità del vedere che differiscono a seconda degli occhi che guardano. La capacità di apparire accompagna gli essenti fin dal loro venire al mondo. Le immagini sono sempre il prodotto lavorato di una creazione, sia quando sono imitazioni, sia quando operano quella riduzione del «mondo concepito come immagine», il «costituirsi del mondo a immagine», tipico delle moderne capacità di rappresentazione148. Il farsi immagine del mondo è per Heidegger una mania moderna. Se tuttavia prospettive differenti possono convivere e condividere percorsi di esplicitazione, l’immagine del mondo persegue la pretesa sistematica di imporsi come unica e dominante. Così la facoltà umana di guardare il mondo, in virtù della disponibilità ad apparire che apparenta ogni essente, diviene criterio assoluto, punto di vista esclusivo e generalizzante. L’antropocentrismo, che è il successo antropologico più importante della modernità, indica il predominio dell’unica idea fissa e significa che, non ogni uomo, ma un generico modello di umanità stabilisce le 146 147 148

Ivi, p. 82; tr. it. p. 86. Ivi, p. 82; tr. it. p. 87. Ivi, pp. 82-83; tr. it. pp. 88-89.

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coordinate dell’esatta relazione al mondo. Lo «sguardo incontrante», che è «un immediato lasciar venire incontro nella luce enti, cose, esseri viventi e uomini», si fa «sguardo del predatore», vista della soggettività rappresentativa, che caccia l’ente, se ne appropria e stabilisce signorie inamovibili149. 6. La sofistica tra le visioni del mondo Il mondo-immagine è il presupposto storico-teoretico della visione del mondo (Weltanschauung) che struttura e sistema il mondo divenuto immagine in una visione compiuta e capace di aderire a qualunque ambito della vita voglia riferirsi150. Con le visioni del mondo gli umani misurano il loro rapporto all’ente e tra antitetiche visioni non c’è confronto ma lotta serrata perché ciascuna ha di mira il dominio totale dell’ente e delle coscienze. Nelle note sulla Psicologia delle visioni del mondo di Karl Jaspers, che un giovane Heidegger redasse tra il 1919 e il 1921, non è fatta critica esplicita della nozione di “visione del mondo”, quanto di alcuni princìpi di metodo e di teoria (i fenomeni della vita, dell’esistenza, dell’io) che Jaspers avrebbe premesso al suo lavoro senza indagarli a fondo. Un rinvio critico indiretto alla Weltanschauung si può leggere però in margine. Innanzitutto il ribadire che la psicologia può essere solo una “parte” e una “via” di indagine dell’umano va contro la pretesa totalizzante e riduzionistica delle visioni psicologistiche dell’umano. In secondo luogo, che le visioni del mondo si nutrano di cognizioni e di istanze filosofiche è indubbio, ma è altrettanto innegabile il fatto che esse non siano filosofiche, in quanto fondate su aprioristiche raffigurazioni dell’essente che hanno ben poco della dimensione interrogante della filosofia151. In terzo luogo, il tentativo di render conto della “totalità umana” è tipico della filosofia e non della psicologia, che è descrizione di un dominio ontico particolare. Tentare la definizione psicologica di una presunta totalità raccolta nelle visioni del mondo arranca tra

Parmenides, GA LIV, a cura di M. S. Frings, Frankfurt a. M., 1982; tr. it. di G. Gurisatti, a cura di F. Volpi, Milano, 1999, pp. 199, 200 e 260. 150 Die Zeit des Weltbildes, p. 86; tr. it. di P. Chiodi, p. 98. 151 Ivi, p. 92; tr. it. p. 85. 149

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molteplici difficoltà152. Se le visioni del mondo nascono come reazione alle situazioni-limite, come risposta alla delimitazione dello psichico fissato entro limiti stabiliti, c’è il rischio che la delineazione della totalità psichica poggi su una «anticipazione dello psichico», vale a dire su una predeterminata visione del mondo dello psichico153. Un’anticipazione si rende pur necessaria ma riguarda il senso dell’essere dell’esistenza psichica e delle sue modalità e possibilità effettuative, non un presupposto sterile, qualcosa come un’interpretazione già determinata. Il «fallimento filosofico» del lavoro jaspersiano consiste nell’aver preso i fenomeni dell’esistenza, della vita, dell’io sulla base di presupposti concettuali già definiti o ricavati dalla scienza154. Alcune pagine del corso sul Sofista platonico contengono annotazioni importanti sullo scivolamento della filosofia verso la visione del mondo, nonché sul valore paradigmatico della sofistica in quanto negazione dell’atteggiamento filosofico. La possibilità di essere incorporata ed esautorata da una visione del mondo è una delle insidie maggiori che ricade sulla filosofia. Questo snaturamento accade quasi sempre perché elementi extra-filosofici si inseriscono nel corpo della filosofia. L’incorporazione può avvenire in duplice modo: una visione del mondo può inglobare la filosofia che deve da allora innanzi limitarsi a rispondere a determinati bisogni spirituali (è quanto ad esempio è accaduto nell’appropriazione cristiana del pensiero greco); oppure la filosofia stessa diviene ideale formativo astratto, accanto alle altre discipline umanistiche, e si fa sistema di cognizioni, dal quale è espunta ogni idea di ricerca, apparato di conoscenze utili alla fioritura di un modello di umanità stabilito aprioristicamente155. Heidegger si appella alla distinzione che Jaspers aveva introdotto nella Psicologia delle visioni del mondo «Anmerkungen zu Karl Jaspers’ Psychologie der Weltanschauungen», in Wegmarken, pp. 1-44, in particolare pp. 1-2; tr. it. pp. 431-471, in particolare pp. 431-432. Cfr. A. Giugliano, «Note sulla critica filosofica di Rickert e Heidegger alla psicologia delle ‘visioni-del-mondo’ di Jaspers», nel suo volume Nietzsche-Rickert-Heidegger (ed altre allegorie filosofiche), Napoli, 1999, pp. 291-365. Per un confronto su Platone si veda K. Brinkmann, «Heidegger and Jaspers on Plato’s Idea of the Good», in Heidegger and Jaspers, a cura di A. M. Olson, Philadelphia, 1994, pp. 111-125. 153 Anmerkungen zu Karl Jaspers’ Psychologie der Weltanschauungen, p. 8; tr. it. p. 437. 154 Ivi, p. 15; tr. it. p. 445. 155 Platon: Sophistes, § 39, p. 255. 152

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tra “filosofia profetica” e “filosofia scientifica”, intendendo per profetica quella filosofia che, in modi e in tempi diversi, si fa cassa di risonanza dei bisogni spirituali dell’epoca, e per scientifica la filosofia che resiste al cedimento verso il profetismo, alla tentazione di farsi interprete del proprio tempo, all’ambizione di essere à la page. “Filosofia scientifica” è espressione pleonastica perché o la filosofia è scientifica o non si sa che cosa sia. La filosofia autenticamente praticata non cerca soluzioni ad esigenze dello spirito né può ambire a sentirsi rassicurata in visioni del mondo precostituite. Filosofare è rispondere all’appello di fedeltà alle cose, esercitare quella che Heidegger chiama la «libertà di attenersi alle cose» (Freiheit der Sachlichkeit), libera disposizione a salvare i fatti prima delle interpretazioni e indipendenza da schemi preconcetti156. Di contro al genuino atteggiamento filosofico sta invece la sofistica, prossima ad una visione del mondo. Il sofista è, alla lettera del dialogo platonico, il produttore di immagini verbali, di finzioni discorsive. Immagine eterna dell’antifilosofo, costituisce del filosofo l’eterno doppio, apparenza riflessa di un già apparente, simulacro riprodotto di una ripetizione, esistenza possibile ma inautentica. Jaspers ha tratteggiato nella Situazione spirituale del tempo un deciso ritratto del sofista, «potenza anonima», presenza ubiqua e versatile sempre in agguato per espropriarci e soggiogarci157. Sofista non è solo figura storica, radicata nella stagione del cosiddetto illuminismo greco; è anche figura archetipica di un poter essere attuale dell’umano, sedotto dalle possibilità di ridurre la varietà umana a massa informe158. Sofistica e visione del mondo sembrano coincidere perché entrambe reclamano esigenze totalitarie, nel presupposto ad esempio che tutto sia conoscibile o che ogni cosa sia dominabile. Se scopo della filosofia è la Sachlichkeit, la sofistica si trova invece caratterizzata da una radicale Unsachlichkeit, da una “non-oggettività”, da interpretarsi come assoluto sradicamento dalle cose di cui si discute. I discorsi sofistici sono evanescenti, nomadi, sospesi in aria (freischwebend)159. La non aderenza sofistica ai fenomeni non è intenzionalmente perseguita quanto conseguenza di una spropositata Ivi, § 39, p. 256. Die geistige Situation der Zeit, tr. it. N. De Domenico, La situazione spirituale del tempo, Roma, 1982, pp. 198-201. 158 R. Franchini, Il sofisma e la libertà, Napoli, 1971. 159 Platon: Sophistes, § 54, p. 340. 156

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sopravvalutazione del potere del logos. La Unsachlichkeit è propriamente Sachlosigkeit, il venire a mancare del fatto dietro le parole, una derealizzazione del discorso (il suo essere senza res), che diviene unsachlich, puro ornamento retorico, tecnica formale160. Questa evanescenza delle parole si riflette anche sull’esistenza di chi la pratica, così il sofista stesso si derealizza: proprio perché il discorso è il modo d’accesso privilegiato al mondo, «la mancanza di relazione alle cose da parte del discorso è sinonimo di inautenticità e sradicamento dell’esistenza umana»161. Sachlichkeit e Unsachlichkeit esemplificano un duplice rapporto possibile all’esistente, il primo denotato da una fedele aderenza alle cose, il secondo caratteristico di un atteggiamento disimpegnato, tipico di chi filosofo non è e non si pone dunque problemi sull’identità del reale. La Unsachlichkeit è l’esperienza di quella che Platone ha definito annoia, mostruosa deformità della mente, che manca senza sosta il raggiungimento del bersaglio prefissatosi. Il sofista rappresenta l’eterna sfida della filosofia. Egli è maschera concettuale, esibizione di idee, quali il non-pensiero, il non-essere, la non-verità. Porre il filosofo contro il sofista, ma radicarli entrambi all’interno delle possibilità di esistenza, equivale a ridisegnare uno scenario che è immutato dalla notte dei tempi filosofici: la purezza e l’astrazione dal mondo del primo e le implicazioni faticosamente mondane del secondo, che giunge al cospetto del suo avversario recando con sé notizie dell’al di qua, facendosi interprete del senso comune. Sparisce il sofista quando sparisce il suo antagonista, quando, per dirla con Nietzsche, il mondo apparente scompare con quello reale. Ampliando il valore dell’immagine sofistica e riprendendo i tratti di negatività che essa esprime – è anti- o pseudo-filosofo – è possibile delineare ulteriori scenari, che risultano proficui anche per il seguito della discussione. Il sofista senza dubbio costituisce l’alterità assoluta, l’estraneità nella sua forma più radicale che è appunto quella della negazione di una positività162. Platone ne è stato senz’altro consapevole, tanto che ne Ivi, § 34, p. 230. Ivi, § 34, p. 231. Sulla sofistica come modalità esistenziale cfr. diffusamente ivi, pp. 216-220. 162 Il sofista è senza dubbio uno straniero al pensiero. Anche lo Straniero di Elea, nel suo primo apparire, non si distingue ancora per la sua reale essenza filosofica che si mostrerà solo in corso d’opera. Egli mantiene per tutta la discussione una posizione di estraneità rispetto altri interlocutori: è il senza-nome, ha di proprio solo il ghenos, la provenienza, ed è quasi un concetto puro. Cfr. E. 160

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ha disegnato la fisionomia ricorrendo a descrizioni ferine, quasi che il suo scopo sia stato quello di rendere il suo eterno antagonista un oltreumano, perché molto meno che umano. è vero tuttavia che egli non è “meno essente”, non patisce una diminuzione di essere, bensì è essente “in modo diverso”, è nel senso di una differenza di qualità. Platone non disintegra l’altro, innanzitutto perché è consapevole che l’estraneità comincia nel medesimo, nel familiare, nel proprio163; inoltre perché, nel circolo della necessità dialettica della filosofia, il pensiero, privato della diversità, sarebbe un fumoso gioco di auto-contraddizioni e si arrovellerebbe a cercare dentro di sé il suo contrario, dandogli voce camuffata come in un ventriloquio164.

Jabès, Un étranger avec, sous le bras, un livre de petit format, tr. it. di A. Folin, con uno scritto di P. A. Rovatti, Uno straniero con sotto il braccio un libro di piccolo formato, Milano, 2001, p. 14: «Allo straniero non domandare il luogo di nascita, ma il luogo d’avvenire». 163 B. Waldenfels, Fenomenologia dell’estraneità, a cura di G. Baptist, Napoli, 2002. 164 L’immagine è ricavata da Plat. Soph. 252c7-9: lo Straniero parla di un Euricle, un ventriloquo, paragonandolo ai sostenitori della logica tautologica che non si avvedono di avere «il nemico in casa», che «parla loro di dentro» e li accompagna ovunque. Questo nemico è il «contraddittore», vale a dire il principio che esprime la necessità della predicazione fondata sulla mescolanza e sulla comunicazione reciproca delle cose. Jean-Luc Nancy ha interpretato il Sofista come un continuo ventriloquio, «gasterografia» (Ventriloquo, cit., p. 14), del sofista che “mima” il filosofo e dei filosofi (Platone, Socrate, Parmenide, Lo Straniero, i pensatori ontologici precedenti) che ripetono sempre il discorso di un altro. Così anche la dialettica è “discorso del ventre”, esternazione di un’interiorità, secondo la nota formula del «dialogo dell’anima con se stessa». Il ventre del filosofo ospita sempre un altro, porta l’alterità nel suo intimo. Questo estraneo diviene poi, nell’esperienza biografica di Nancy, un «intruso»: l’altro è introiettato nell’individuo ma la sua permanenza è vissuta sotto il segno dell’intrusione, in un gioco dialettico paradossale per il quale l’introiezione dell’“altro” nel “ventre” del sé è a sua volta possibilità di continuità della stessa medesimezza. Lo scritto cui mi riferisco è l’intenso racconto di questa introiezione clinica – introspezione meta-clinica fatto da Nancy in prima persona: L’intruso, tr. it. di V. Piazza, Napoli, 2000.

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CAPITOLO QUARTO Elementi per una critica del logos Che cos’è il logos? Dire “discorso” non basta. Del resto già Eraclito usava questo nome per significare più cose: il dire, la ragione, la norma, il render conto, il senso, il significato, l’elemento comune, la lingua, la dialogica. Anche in Platone, che fu eracliteo in gioventù, logos ha diversi significati. Il contributo determinante di Platone però, quello che segnerebbe la sua svolta rispetto alla meditazione precedente, coincide, secondo Heidegger, col pensiero che non si dia comprensione dell’essere al di fuori del logos e, di conseguenza, non c’è discorso che non verta sull’essere stesso. Nel suo significato fondamentale logos è Ansprechen, accessibilità discorsiva all’essere165. Accesso all’essere, ma anche accesso al suo differenziarsi dall’ente. Se ciò che si incontra per prima cosa sono enti particolari, è vero che il primo darsi delle cose è comunque l’essere, nel suo essere innanzitutto e per lo più. Ciò che si incontra per prima è una differenza operante ma non ancora colta. Tutto ciò che si sa dell’essere lo si sa attraverso il logos. Parmenide, il quale dice la non esistenza del non-essere, si trova già all’interno di una concezione apofantica del logos, un dire trasparente che lascia vedere ciò che è detto, il legomenon, perfino quando il detto è la predicazione di un non esistere. Le possibilità logiche sono possibilità ontologiche166. Il mondo termina dove termina il suo poter essere fatto oggetto di discorso. Ciò implica che il logos costituisca l’accesso privilegiato ai problemi di ontologia. I caratteri dell’essere sono il suo venire incontro nel mondo, con modalità che partono da una donazione immediata e da una comprensione approssimativa, e la sua accessibilità attraverso il discorso. Quest’ultimo però gode rispetto al primo, il carattere di incontro, di una priorità, dal momento che è comprensione di Platon: Sophistes, § 1, p. 8. Grundbegriffe der antiken Philosophie, p. 264; tr. it. p. 362 (trascrizione Mörchen): «in Platone il lógoj e la logica non sono nient’altro che ontologia». 165

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quel darsi. Il logos è dunque «“logica” dell’ente», nel duplice senso di poter dire l’ente, incontrarlo discorsivamente, e renderne conto (logon didonai). Che da questa intuizione logica immediata siano derivate le categorie e la logistica è solo questione secondaria. Ciò su cui occorre riflettere è il fatto che il logos rappresenti il «filo conduttore primario» per l’essere167. Attraverso il logos è possibile nondimeno esperire la differenza fondamentale che distingue essere ed ente. Ma il logos è anche il luogo dove questa differenza è preservata, così come la sua verità è preservata nella sintesi logica («lógoj: sún, “con”, “insieme”»)168, nel discorso sensato, nel giudizio. La koinōnia di cui parla Platone nel Sofista è giudizio, sintesi di distinte accezioni dell’essere che tra loro non generano contraddizione: si coniugano svelando un insieme definito di possibilità semantiche e ontologiche insieme. Per questo – nota Heidegger – la «struttura del lógoj è aperta, ma predefinita», aperta alla significazione ma definita nella sua attuazione, limitata ai significati possibili di essere come identità e differenza, quiete e movimento. L’essere possibile, l’essere esperito attraverso il discorso, è «possibilità dell’essere insieme l’uno con l’altro» (Möglichkeit des Miteinanderzusammenseins), «con-presenza», syn-thesis169.

1. Il logos pollachōs legomenos Il logos si può dire in molti modi. Heidegger assegna all’uso platonico della parola un’ampia polisemia. Con l’espressione logos si possono intendere nel testo di Platone almeno sette significati. Innanzitutto è leghein: se logos equivale a parola, discorso, leghein è il dire, il parlare. Certamente è questo il senso predominante però spesso Heidegger fa ricorso anche ad altre accezioni, come a quelle di “raccogliere”, “riunire”, “mettere a giacere” o “contare” (nel senso di “fare affidamento su qualcosa”)170. In secondo luogo logos è legomenon, “ciò che è detto”, che 167 168 169

Ivi, § 50, p. 143; tr. it. p. 227 e Platon: Sophistes, § 32, p. 224. Grundbegriffe der antiken Philosophie, § 50, p. 142; tr. it. p. 226. Ivi, § 50, pp. 142-143 e 285 (trascrizione Mörchen); tr. it. pp. 226-227

e 385. 170 Einführung in die Metaphysik, pp. 91-105 e 128-149; tr. it. pp. 129-146 e 174-200, e Logos, in Vorträge und Aufsätze (1936-1953) [1957], GA VII,

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a sua volta può essere distinto nel contenuto, in ciò che viene detto, e nel fatto di essere detto, vale a dire nell’espressione e nella comunicazione di un contenuto linguistico. Sarebbe quest’ultimo significato a prevalere sugli altri perché più immediatamente esperibile: per il senso comune il logos si limiterebbe all’enunciazione verbale delle cose. Invece logos può essere anche l’eidos, l’aspetto visibile delle cose, perché il logico lascia vedere la forma attraverso la quale l’ente si mostra. Logos può essere anche nous, primogenitura di quel significato fondamentale di ratio che imbriglierà il pensiero filosofico successivo; secondo il significato greco invece il logos-nous sarebbe un semplice percepire. Le ultime due accezioni che Heidegger presenta vanno progressivamente complicando l’idea di partenza: il logos può essere relazione e infine analogia. Nel primo caso la relazione è un riferirsi a qualcosa (Beziehung) e descrive il carattere intenzionale del “dire”: leghein è leghein ti kata tinos, «rendere accessibile qualcosa in quanto qualcosa». Non esiste logos sradicato a tal punto da “dire nulla”: perfino il sofista, che sembra parlare di nulla, sta dicendo in realtà qualcosa (il falso). Sul fondamento di questo necessario rinvio alla cosa, all’ente dietro la parola, si chiarisce anche l’ultimo significato, il logos analogico. Nell’analogon il riferimento non è diretto ma mediato perché una cosa sta al posto di un’altra ma questa cosa è legata all’altra da un rapporto analogico, da un’affinità eidetica – di forma o di contenuto. L’analogo è un «co-rispondente», corrisponde a qualcosa171. Nel riepilogo di alcuni dei significati di logos nel testo platonico, Heidegger fa importanti aggiunte: il logos come leghein è «accesso discorsivo di qualcosa» (Ansprechen von etwas); come legomenon è «il reso accessibile discorsivamente» (Angesprochene), nel duplice senso del “detto”, del contenuto di un dire, e dell’essente che dice qualcosa di sé nell’atto di essere detto; come leghesthai è «esser-detto», «proposizione» (Satz); come «accessibilità discorsiva» (Angesprochenheit) è «la struttura di ciò che è accessibile discorsivamente in quanto è un accessibile discorsivo», il “detto nel dire”172. a cura di F.-W. von Herrmann, Frankfurt a. M., 2000, pp. 199-222 (si cita dall’edizione Neske del 2000); tr. it. di G. Vattimo, Saggi e discorsi, Milano, 1991, pp. 141-157. 171 Platon: Sophistes, § 28, pp. 201-202. 172 Ivi, § 76, p. 529. Cfr. L. M. De Rijk, «Ist Logos Satz? Zu Heideggers Auffassung von Platos Stellung am Anfange der Metaphysik», in Heideggers These

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Decisivo in tutte le accezioni è il carattere dell’“in-quanto” (als-was) perché può riferirsi ad una «determinazione ontologica concreta» ed essere «disvelamento di un determinato contenuto reale di un essente», dire concretamente ciò che un ente è, oppure perché può dire qualcosa non dell’ente ma di un «carattere dell’essere»173. L’in-quanto si esplica a livello ontico e a livello ontologico, per cui il leghein stesso riveste un duplice fondamentale livello di significazione: è “logica dell’ente” perché può mostrare l’ente qual è, in sé e nelle sue relazioni con altri enti, o perché è capace di indicare un orizzonte trascendentale che supera il piano propriamente ontico-descrittivo e ha di mira l’essere dell’ente, così da esibire non solo l’identità dell’ente ma anche il suo differire rispetto ad un altro ente e rispetto all’essere, che ente non è. Il logos rappresenta nel Sofista il «campo unitario» che raccoglie la molteplicità dei fenomeni analizzati nel loro poter essere considerati come “cose”, “radici ontologiche” (ghenē) e “nomi”174. Non si tratta di erigere una semplice scienza del linguaggio o di verificare la corrispondenza tra il nome e la cosa, nemmeno di avanzare ipotesi sull’origine convenzionale o naturale del nome. Neppure però si tratta di indicare il percorso dell’ontologia autonomo dalle sue potenzialità logiche. La onto-logia platonica è “logica dell’ente” nella misura in cui mostra l’ente (la cosa, il ti), l’essere di questo ente (la sua radice ontologica, il ghenos) ed infine l’apparizione mondana dell’ente e del suo essere nel modo d’essere primario e fondamentale del nome (onoma). In virtù di questa sintesi di questioni il logos può essere definito il «fenomeno cruciale» (Kernphänomen) del dialogo platonico175. Il primo «accesso alla comprensione del lógoj» è fornito dall’analisi della tecnica appropriativa, a partire dalla quale si intende determinare il sofista mediante l’atto della “presa”, del mettere le mani sull’ente per farne un proprio dominio linguistico. Il leghein, il discutere di qualcosa, è un «portare-a-sé», un’appropriazione che non produce ma si armonizza con qualcosa che è già stato prodotto (portato ad essere e alla presenza). «Il légein, parlare di qualcosa, è un modo dell’appropriazione dell’essente come si mostra», vale a dire nella sua verità, nel suo vom Ende der Philosophie, a cura di M. F. Fresco, R. J. A. van Dijk e H. W. P. Vijgeboom, Bonn, 1989, pp. 21-32. 173 Platon: Sophistes, § 76, p. 530. 174 Ivi, § 37, p. 248. 175 Ivi, § 79, p. 580.

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disoccultamento. L’oggetto del dire non è trasportato nella dimensione del soggetto ma rimane precisamente cosa e dove è, come «essere-làin-sé», placida presenza che si mostra a viso scoperto. Il logos è nel suo significato originario, fondamentalmente sano, un «lasciar-vedere» (Sehen-lassen)176.

2. Logos e verità Il logos umano è dotato del carattere sorprendente di svelare e aprire mondi; in questo senso è alētheuein. Quando Aristotele dice, nel libro VI dell’Etica nicomachea, che dei modi in cui l’umano effettua il vero, produce verità, i primi quattro (la tecnica, la scienza, l’avvedutezza e la sapienza) si servono del logos (sono metà lógou), intende far risaltare questo carattere medio e conciliatorio del discorso177. L’ente che riceve la facoltà di compiere la verità è del resto un “animale discorsivo”, un’esistenza che invera se stessa nel parlare. Mediante la semplice «vocalizzazione» si producono significati, si elaborano e trasmettono interpretazioni e si creano condizioni di comprensione178. Questa fondamentale capacità veritativa del logos è la apophansis, letteralmente “spiegazione”, “conferma”, da Heidegger ricondotta al verbo apophainesthai, che significa “far vedere”, “mettere in luce”, “mostrare”, “rendere manifesto”, che è anche il significato del verbo dēloun. Il discorso apofantico o delotico è un dire che effettua la verità lasciando vedere ciò che va visto, “categorico” nel senso principale in cui vanno intese le categorie, come un dire in faccia, pubblicamente, a qualcuno quello che è, «dire qualcosa in quanto qualcosa»179. Il fatto Ivi, § 42, pp. 275-276. Arist. Et. Nic. VI, 3, 1139b15 sgg.. 178 Platon: Sophistes, § 3, pp. 17-18: «L’Þlhqeúein si manifesta dunque innanzitutto nel légein. Il légein, parlare, è la costituzione fondamentale dell’Esserci umano. Nel parlare esso si esprime parlando di qualcosa, del mondo. Questo légein era per i Greci un fenomeno così preponderante e quotidiano che essi ne trassero la definizione dell’umano determinandolo come zÐon lógon 1con». La relazione tra logos/psychē e essere nel Sofista heideggeriano è stata colta con attenzione da A. Cimino, Ontologia, storia, temporalità. Heidegger, Platone e l’essenza della filosofia, Pisa, 2005, pp. 117 sgg. 179 Sein und Zeit, § 9, p. 44; tr. it. di Chiodi-Volpi, p. 63; Platon: Sophistes, 176

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però che esista, oltre alle pratiche dianoetiche, quelle che Aristotele definisce attraversate e mediate dal discorso, anche il puro pensiero (noein), che è “senza discorso” (\neu lógou), deve indurre a non credere alla completa coincidenza di leghein e alētheuein180. Non tutto il dire è “mostrativo”, ha la facoltà di esibire le cose nel loro aspetto, ma soltanto quel logos che è apophantikos. Nel De Interpretatione Aristotele distingue logos apophantikos e logos sēmantikos181. Ogni discorso è semantico perché significa sempre qualcosa, perfino quando dice cose che all’apparenza sembrano inesistenti; non ogni discorso è però apofantico, bensì unicamente quello che dice la possibilità di dire il vero e il falso. Nella apofansi sono radicati sia l’alētheuein sia lo pseudesthai, la verità e la non-verità. Di conseguenza non solo l’affermazione ma anche la negazione, cioè il dire che nega, può essere a sua volta rivelativo182. Se parlare è sempre parlare di qualcosa in quanto qualcosa, il carattere apofantico del logos è dato da questo “in quanto”: si dice la cosa che è in quanto quella cosa. La struttura dell’“in quanto” (Als-Sagen) ospita però anche la possibilità che si possa dire una cosa “in quanto quella cosa non è” o come “in quanto altro”. Il logos che rivela l’ente può anche dissimulare e farsi veicolo dell’errore, dell’inganno, dell’illusione. Il falso in generale è ospitato soltanto all’interno di quel dire nel quale è prevista una sintesi, quando il dato della percezione (aisthēsis e noēsis) è scomposto in singoli dati esperiti e raccolto in un enunciato di senso. Una cosa, dice Heidegger, è la “lavagna nera”, dato percettivo colto come un intero; altra è dire “la lavagna in quanto nera”. Dove c’è sintesi, dove c’è «il carattere dell’in-quanto», c’è falsità183. Se si dice infatti “la lavagna in quanto grigia” o “in quanto non nera”, non si sta confermando una percezione (che nell’intero “lavagna” ha il suo essere-nera), ma si sta alterando un fatto: si sta dicendo che la lavagna detta, ciò di cui si sta parlando, è altra cosa dalla lavagna pensata, colta da quel pen-

§ 25, p. 180: ansprechen etwas als etwas. 180 Ivi, § 26, p. 182 : «Il discorso non è il primo e l’unico detentore dell’Þlhqéj; è qualcosa in cui l’Þlhqéj può essere presente ma non necessariamente. Il lógoj non è il luogo nel quale l’Þlhqeúein è a casa, trova il suo terreno». 181 Aristotele, Della interpretazione, 16b33 sgg., tr. it. di M. Zanatta, Milano, 2001. 182 Platon: Sophistes, §§ 26 e 3, pp. 181, 18 e 184. 183 Ivi, § 26, pp. 183-184.

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siero percettivo-intuitivo che è il noein184. La sintesi non va interpretata in antitesi alla divisione (synthesis e diairesis) perché ciò che permette una ricomposizione (la lavagna in quanto nera e in quanto non nera) è in realtà una scomposizione, una distinzione tra gli elementi percepiti (lavagna, nero, non-nero, ecc.)185. La struttura dell’“in quanto” è da Heidegger posta a fondamento di una sintesi che si realizza nel logos e che è «specificatamente “logica”», questo perché la verità e il falso possono essere predicati o, come dice Platone, sono “qualità” del discorso186. In ogni caso l’esame più interessante del Sofista che pone in relazione logos e verità non è tanto la dottrina del giudizio (261c6-263d4), che fonda la possibilità di un dire il falso, quanto la riconduzione delle attività umane quali l’opinare, il pensare e l’immaginare al logos. Il dato è rilevante perché si connette al senso aristotelico dell’alētheuein, come effettuazione della verità nei modi del vivere. Avere opinioni ed esprimerle in pubblico, pensare come raccogliersi nel proprio intimo, immaginare, creare rappresentazioni, compresa la possibilità di fare dei discorsi degli idola, sono attività che hanno a che fare con l’inveramento umano nell’esistere, sono modi in cui l’esistenza si schiude. Che questi fenomeni siano ricondotti alla struttura del logos è chiarito quando Platone afferma che ciascuna di queste azioni può essere vera o falsa. Pensiero è chiamato quel logos «dell’anima con se stessa», silenzioso; opinione è il logos che si accompagna con l’espressione ed è il momento conclusivo del pensiero, quando si ha la certezza di pensare ciò che si pensa e si procede alla sua resa pubblica; immaginazione è un logos impastato di opinione, pensiero estrinsecato, e sensazione, la quale immaginazione, talvolta e in una certa misura, produce apparenze false che sono «congeneri al logos»187. Dall’integrazione nel logos del doxazein, del dianoein e della phantasia, si ricava «il primato del lógoj su tutti gli altri modi possibili del disvelamento e dell’apertura»188.

Aristotele, L’anima, 430b1-2, tr. it. di G. Movia, Milano, 2001: «il falso ha luogo sempre nella sintesi». 185 Platon: Sophistes, § 26, p. 186. 186 Ivi, § 80, p. 601. 187 Plat. Soph. 263d6-264b3. 188 Platon: Sophistes, § 81, p. 607. 184

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3. La koinōnia come un Geviert Sulla scorta della lettura heideggeriana del logos platonico e della sua centralità nella posizione del problema del non-essere come falso, è possibile interpretare la koinōnia tōn ghenōn in termini logici189. è da ribadire che qui “logico” non va inteso in senso esclusivamente “proposizionale” perché Platone non si limita ad enunciare le possibilità predicative dell’essere, non fornisce dunque una lettura meramente “verbale” dell’essere, ma indica anche potenzialità ontologiche, come poter essere dell’essere. La koinōnia e le sue possibilità, il fatto che possa essere un dire composto, dato dall’unione di più elementi, pone di fronte ad un discorso del molteplice. La disanima di queste potenzialità inizia con il considerare il dire un mero “nominare” (onomazein). Platone chiede: «come avviene che noi indichiamo con molti nomi una stessa cosa?»: come dar conto, nel logos, dell’identità, dell’uno, se, ad esempio, per l’umano possiamo contare su una serie di attributi che lo qualificano190? Si ha l’impressione di allestire un «lauto banchetto» per quanti, come Antistene, negano il carattere di sintesi al nominare, escludono la possibilità di predicazione e ritengono che tutto il dire si risolva nell’enunciazione di tautologie191. La tautologia non è il discorso sull’identità perché, assumendo la nozione heideggeriana di leghein come ansprechen etwas als etwas, della specifica tendenza del dire a parlare delle cose sul fondamento della struttura logica dell’“in quanto”, si sta già facendo strada la possibilità di un discorso che ospiti la sintesi, e con essa la differenza, il falso e la contraddizione. Il logos sintetico è anti-logico (antileghein), aperto alla contraddizione, perché, commentava già Aristotele, lo pseudos e lo heteron si manifestano nella sintesi. Un dire che si limita alla semplice enunciazione della frase “uomo è uomo” non è affermativo né negativo, né diairetico né sintetico; esso esclude certamente il contraddittorio ma, così facendo, esclude anche ogni possibilità che il dire possa essere apportatore di specificità e novità: «la questione della koinwnía Ivi, § 37, p. 248: «La koinwnía tÏn genÏn, che nell’esame dell’essere del non-essente deve fornire la vera soluzione del problema, è comprensibile solo sulla base di una determinata concezione del lógoj, vale a dire di un’interpretazione determinata dei momenti strutturali che sono dati nel lógoj». 190 Plat. Soph. 251a5-6. 191 Ivi, 251b sgg. 189

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dell’essente» è «se e come ci sia qualcosa di simile ad un essere-l'unocon-l’altro (Miteinandersein) dell’essente». Le potenzialità significanti e sintetiche del logos si presentano sotto «una duplice prospettiva»: da un lato si tiene conto del fatto che nel dire, già nella semplice nominazione, si mostri un «intreccio» (symplokē) di essere e non-essere; dall’altro si presuppone un’unione tra il logos e l’essere192. Il logos-comunione è il tratto caratteristico della dottrina platonica perché, se è vero che essa si mantiene su un piano ontico, dal momento che si articola in una “logica dell’ente” che non fa questione dell’essere, è altresì vero che è questa sincresi speciale di logos ed essere a stabilire la produttività della comprensione ontologica: dell’essere che può essere appreso occorre farsi figure ontiche. Dunque «la dottrina del lógoj non deve essere separata dalla problematica ontologica» per una serie di considerazioni: innanzitutto per la capacità apofantica del dire; in secondo luogo perché l’essente è compreso immediatamente come legomenon, come ciò che può essere detto («come affermiamo gli onta nei nostri logoi», cfr. 251d); infine perché il porre in evidenza la dynamis di una comunione tra gli essenti fonda le possibilità del metodo e del contenuto specifico della filosofia che è la dialettica. Quest’ultima accoglie in termini “logici” le potenzialità di relazione e comunicazione tra gli essenti stabiliti della koinōnia ontologica193. Platone elenca tre ipotesi di comunità ontologica. La prima pone che «nulla ha con nulla nessuna capacità di comunione» (251e8); la seconda che «tutte le cose reciprocamente» possono entrare in comunione (252d2); la terza che una possibile comunione si dà «per le une e non per le altre» (251d9). Il primo caso espone l’impossibilità della koinōnia. Se nulla ha la facoltà di entrare in relazione con altro da sé («dúnamij del prój, dell’æpí»), tutto si rovescia, è sottosopra, tutto e nulla è possibile, «ogni onto-logia crolla»194. In realtà perfino quanti sostengono che “l’essere è uno” e che al di fuori dell’essere nulla è, stanno operando un’aggiunta, un «collegamento dell’essere» (252a9), una «mescolanza» (súmmeixij, 252b6), stanno mostrando «determinate Platon: Sophistes, § 73, pp. 511 e 507. Un'interessante declinazione antropologica del Miteinandersein si trova nella Habilitationsschrift di Karl Löwith, Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen (1928), tr. it. di A. Cera, L'individuo nel ruolo del co-uomo, Napoli, 2007. 193 Platon: Sophistes, § 73, pp. 510-511. 194 Ivi, § 74, p. 514. 192

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strutture ontologico-formali» per cui, continuando a sostenere simili affermazioni prive di senso, si coprono di ridicolo, si rivelano «impotenti» e non si avvedono di avere «in casa il nemico», il «confutatore», «chi li inchioda al palo»195. La seconda tesi prevede una koinōnia illimitata. Essa dispone che di tutto si possa dire tutto (del movimento che è fermo, della quiete che si muove) mentre non si avvede di star nominando entità contrapposte, «opposte tra loro in massimo grado» (ænantiÍtata, 250a8). Se la prima ipotesi escludeva la possibilità di relazione oltre ogni ragionevole obiezione, anche questa seconda formulazione appare non meno insensata: laddove la precedente eliminava alla radice l’esistenza della contraddizione, l’ultima si avvolge in una contraddizione perenne, per cui certamente non sarà annientata la possibilità del discorso ma senza dubbio si trova troncata l’eventualità che il dire possa produrre un senso compiuto e condiviso. Soltanto la terza ipotesi si rivela praticabile. Essa afferma difatti che la sola koinōnia possibile è quella «condizionata» (bedingt) perché «fondata sulle cose» (be-dingt), limitata «dall’ogni volta contenuto ontologico e reale degli essenti suscettibili di essere collegati»196. L’esemplarità di questa comunicazione è ricavata da un paragone con le lettere dell’alfabeto che, non in maniera indiscriminata, si legano tra loro. Tra le lettere ve ne sono alcune, le vocali, che hanno un potere specifico, quello di “scorrere”, “fluire” attraverso le altre come un «legame» (desmój, 253a5), un vincolo comune che rende partecipe di sé ogni cosa e ne stabilisce l’identità specifica. Sul piano degli essenti esistono alcune «determinazioni originarie dell’essere», l’identità, la differenza, il movimento e la stasi, che hanno il potere di imporsi e di condizionare la qualità ontologica di ogni essente. Il punto decisivo di questa analisi è il fatto che Platone stia esponendo, in antitesi alle dottrine ontologiche precedenti, una teoria dell’essere fondata sulla dynamis, come specifica possibilità di comunicare con altro da sé, dúnamij koinwníaj (cfr. 254c5), «dúnamij del koinwneîn, l’essere-possibile in quanto essere-insieme (Zusammen-sein)»197. I ghenē di cui Platone discute e che analizza nelle loro reciproche implicazioni sono «strutture ontologiche» che «nulla

195 196 197

Ivi, § 74, p. 515 e Plat. Soph. 252c. Platon: Sophistes, § 74, p. 517. Ivi, §§ 75 e 76, pp. 518 e 533.

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impedisce a che si colleghino a tutte le altre in tutte le cose»198. Questi “generi”, che hanno il potere di effondersi nel tutto (dià pántwn), sono, in virtù di questa capacità, «supremi» (mégista). Essi vanno analizzati singolarmente e nella loro «possibilità di essere-con-altro», nella loro «funzione categoriale» all’interno della koinōnia199. La “comunità dei generi sommi” ha doppio carattere, ontologico e logico insieme perché fonda possibilità ontologiche in vista di determinazioni logiche, stringe le radici dell’essere in nome di un discorso sensato nel quale le possibilità ontologiche del non-essere e del falso non suonino come delle mostruosità. L’essere-in-comune dei ghenē apre prospettive e punti di vista differenti sull’essere stesso, dal momento che si dà a vedere come essente molto più di una singola e rigida determinazione. L’immagine più prossima alla koinōnia ontologica di Platone è quello che Heidegger nella maturità chiamerà il Geviert, l’unione dei quattro (mortali e divini, cielo e terra), non solo perché si trovano genericamente implicati quattro elementi, quanto per il fatto che ciascuno costituisce una regione dell’essere all’interno della quale è possibile reperire notizie delle altre200. Così la coimplicazione di identità e differenza, movimento e quiete, nell’essere esperito come l’essere-con (Mitsein) dell’uno con l’altro, comporta che, da qualunque genere si parta, si arrivi anche agli altri, sulla base di un reciproco gioco di rimandi201. Nella Quadratura heideggeriana è nominato l’essere come coappartenenza (Zusammengehörigkeit), come raccolta dei quattro (Ge-viert), reciproco appartenere al plurale nel gioco delle sue implicazioni possibili. «Ciascuno dei Quattro rispecchia a modo suo l’essenza degli altri, e nel far ciò ognuno si rispecchia a modo suo nel suo proprio in seno

Ivi, § 77, p. 534 e Plat. Soph. 254b9-c1 (tr. it. di G. Cambiano, lievemente modificata). 199 Platon: Sophistes, § 77, p. 535. 200 Jean-François Mattéi, «Le crépuscule de la philosophie. Heidegger et Platon», in L’ordre du monde, cit., pp. 179-207, in particolare pp. 188-189, mette in relazione il Geviert heideggeriano con le quattro dimensioni del mondo (cielo, terra, dèi e umani) indicate da Platone nel Gorgia (507e-508a). La soluzione del Sofista è «onto-teo-cosmo-mito-logica», tiene insieme più dimensioni e si propone di dar conto dell’ordine del mondo (Id., «La symphonie de l’être», in ivi, p. 46). Non diversamente ispirata all’ordine del mondo è la Quadratura di Heidegger. 201 R. Viti Cavaliere, Filosofia del gioco, Napoli, 1983, pp. 21-23. 198

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alla semplicità dei Quattro»202. Il Geviert, l’essere insieme dei Quattro, è un «gioco di specchi» (Spiegel-Spiel), «circolo» di rinvii, di relazione e di riflessione perché ciascuno dei quattro si rispecchia nell’altro o fa specchiare l’altro dentro di sé203. La Quadratura è il mondeggiare del mondo, l’accadere di un mondo sulla base non di un’imposizione tecnico-metafisica che stabilisce limiti e confini, quanto sul placido insieme di dimensioni dell’essere, ciascuna chiamata in causa a dare testimonianza dell’esistenza delle altre. La responsabilità del pensiero che nasce dal libero schiudersi dell’essere è un condizionamento nel senso della koinōnia platonica, come un essere «condizionati dalla cosa» (Be-Dingt), vincolo che libera, che tiene insieme ciò che va stretto e respinge quanto è estraneo e estraniante204.

4. Logos e dialettica L’effettuazione della verità, il disvelamento dell’essere, che, in virtù del carattere discorsivo dell’umano si compie attraverso il logos, è un punto fermo della lettura heideggeriana di Platone. Nel pensatore antico l’evento della verità è sempre un dialeghesthai, una dialettica che indica un «comportamento specifico della discussione nel dialogo»205. La centralità che assume la relazione dialogica dovrebbe, secondo Heidegger, anche chiarire la scelta platonica di comporre dialoghi, che non può essere liquidata come una velleità artistica e una mera tecnica del filosofare al limite della teatralità. Platone elegge la forma dialogica a necessità intrinseca della filosofia che deve «aprirsi un varco attraverso il parlare», deve cioè partire da un intendimento non problematico del logos in quanto “chiacchiera” (Gerede), fino a pervenire a ciò che veramente si dice quando si parla, al fondamento di verità custodito in ogni dire. Il vero del dire è la “logica dell’ente”, il fatto che parla e lascia 202 M. Heidegger, «Das Ding», in Bremer und Freiburger Vorträge (1949-1957), GA LXXIX, a cura di P. Jaeger, Frankfurt a. M., 1994, p. 18; tr. it. di G. Gurisatti, a cura di F. Volpi, Conferenze di Brema e Friburgo, Milano, 2002, p. 36. Si veda anche la conferenza «Bauen Wohnen Denken», in Vorträge und Aufsätze, pp. 151-153; tr. it. pp. 99-101. 203 Das Ding, pp. 18-19; tr. it. pp. 37-38. 204 Ivi, p. 20; tr. it. p. 39. 205 Platon: Sophistes, § 28, p. 195.

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vedere le cose come sono. Per questo il dialeghesthai è principalmente un poreúesqai dià tÏn lógwn (253b10), un «attraversamento dei discorsi», un vaglio critico, un percorrere i discorsi comuni e consueti da una sponda all’altra perché siano chiariti nel loro contenuto ontologico. La dialettica è principalmente quel logos che ha «la funzione del disvelare» nei modi della discussione che sonda i discorsi da un capo all’altro, lasciando, nel suo procedere, nulla di intentato206. La constatazione che i logoi, secondo il senso comune, siano innocui, qualcosa su cui pacificamente convenire, dice molto sull’essenza del logos stesso e sulle riserve aristoteliche, che Heidegger fa proprie, di non esaurire le capacità di disvelamento nelle facoltà logiche generali207. Se il discorso quotidiano, la chiacchiera, il mondo del “si dice”, va problematizzato, significa che esso ha in primo luogo la capacità di coprire, di obliare, di dissimulare, piuttosto che aprire l’ente. Nel procedimento dialettico, grazie alla sua funzione di attraversare criticamente i discorsi, si schiude un orizzonte metalogico, la verità non mediata dal logos, la dimensione noetica del pensare. In Platone sarebbe conservata come «tendenza immanente» verso il noein senza tuttavia pervenirvi perché la dialettica deve limitarsi a discutere e a rimettere in discussione, a riaprire e a scomporre i circoli logici già costituiti e che sono per lo più luoghi comuni, oppure ad elaborarne di nuovi. Platone si atterrebbe a questo Ivi, § 28, p. 196. Sul ruolo di “autentico” filosofare della dialettica e sulla genesi di alcune questioni relative all’analitica esistenziale si vedano i contributi di A. Caputo «E÷daimonía (felicità)», in Id., Pensiero e affettività. Heidegger e le Stimmungen (1889-1928), Milano, 2001, pp. 237-251, e di C. Partenie, «Imprint: Heidegger’s Interpretation of Platonic Dialectic in the Sophist Lectures», in Heidegger and Plato. Toward Dialogue, cit., pp. 42-71. 207 Arist. Met. G, 2, 1004b17 sgg. Aristotele accomuna sofistica e dialettica perché entrambe somigliano alla filosofia. La dialettica discute di tutte le cose, non si muove su un dominio ontico definito, ma come la filosofia si indirizza all’ente nella sua totalità: la differenza specifica è però nella dynamis, «nel modo e nella maniera del poter» prendere di mira questa totalità. La dialettica abbozza, sperimenta questo slancio ma non lo porta a compimento: è un «cammino verso» l’ontologia senza essere in sé ontologico. La critica aristotelica alla dialettica platonica riguarderebbe la struttura intenzionale: che cosa si ha di mira nel logos dialettico? Per Platone l’ente, per Aristotele – commenta Heidegger – l’essere dell’ente. “Onto-logia” sarebbe propriamente «l’accesso discorsivo all’ente relativamente al suo essere». Cfr. Platon: Sophistes, § 29, p. 207 e diffusamente §§ 28-30, pp. 199-200, 206-207 e 213-216. 206

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vincolo quando risolve la questione ontologica dell’essere del non-essere nella soluzione “logica” della comunità dei generi, che stabilisce limiti ontologici alle possibilità logiche: i confini dell’essere sono segnati dal poter-dire l’essere nei modi dell’identico e del diverso, del permanere e del divenire. La “logica” costituisce il “filo conduttore”, il canale d’accesso privilegiato alle questioni ontologiche: questa «irruzione del lógoj» non è il capriccio di un pensatore ma un’esigenza vincolata al carattere “greco” dell’essere, al suo essere interpretato come «presenza» (Anwesenheit). Il logos di conseguenza è «il modo» attraverso il quale è possibile «presentificare qualcosa» (vergegenwärtigen). «Il senso della dialettica platonica costituisce la vera radice per la comprensione della logica greca e con essa delle problematiche logiche, quali sono divenute tradizionali nella filosofia successiva fino ad oggi». Dialettica è «attraversamento dei discorsi» o «direzione del cammino presa attraverso i lógoi» (cfr. 227a8: Ó tÏn lógwn méqodoj)208. La dialettica è un leghein che “prende di mira”, rivolge lo sguardo a qualcosa; si tratta in fondo di un vedere rivolto all’eidos, ad un’idea. Qualcosa deve essere visto, tenuto costantemente presente all’orizzonte visivo. L’eidos intravisto nel Sofista è il non-essere. La koinōnia dei ghenē è una «determinazione del dialégesqai» che stabilisce «connessioni delle strutture ontologiche»209. Perché una connessione sia però possibile, è necessario che ad una ad una queste strutture dell’essere siano evidenziate, siano mostrate come eidē, come fenomeni visibili. Il momento diairetico della dialettica ha lo scopo di tagliare l’ente e stagliarlo nei suoi elementi fondamentali. L’esemplarità delle pratiche quotidiane della distinzione indica il cammino di questa setacciatura dell’ente, di questo filtraggio ontico perché emerga sullo sfondo l’eidos su cui ci si sta interrogando, il non-essere. Una decisa caratterizzazione della «scienza dialettica», articolata in un momento analitico e in uno sintetico, arriva però soltanto quando Platone ha sondato le possibilità ontologiche della koinōnia tra gli essenti: è quest’ultima a costituire «il presupposto della possibilità della dialettica» che esiste in virtù della «possibilità del koinwneîn», vale a dire della disponibilità degli essenti ad entrare in comunione tra loro210. 208 209 210

Ivi, §§ 32 e 55, pp. 225 e 349. Ivi, § 55, pp. 351-352. Ivi, § 74, p. 513.

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La definizione di dialettica è introdotta dal paragone delle lettere dell’alfabeto che esemplifica le possibilità di esistenza di essenti che hanno la capacità di penetrare ogni cosa e dal fondamento di una comunicazione relativa, “condizionata” tra gli essenti. Come esiste una “tecnica”, la grammatica, che “si intende” delle comunicazioni di lettere, così deve esserci un corrispettivo nel pensiero, una qualche disciplina, che è esperta di combinazioni ontologiche. Questa capacità per Heidegger è una technē, per Platone è epistēmē, scienza, che realizza il dono più grande dato dalle Muse agli umani, quello di stabilire accordi ontologici211. Il dialettico è musico (mousikój), corrisponde ad una facoltà tipicamente umana e, così agendo, corrisponde all’essere che ha la necessità di essere armonizzato. Se umanamente condivisa, non è detto però che la dialettica sia generalmente praticata perché, dinanzi alla chiamata dell’essere, si può essere più o meno intonati, quando non completamente stonati (\mousoj). La dialettica è «scienza degli uomini liberi» che permette di «distinguere con esattezza una determinata ed unica nota caratteristica del reale (mían êdéan) fra molte altre di cui ciascuna sta come un’unità separata dalle altre, una nota – dico – appartenente a tutte queste, e così molte, diverse fra loro, tutte circondate dal di fuori da una sola, e poi una sola di queste che inerisce con continuità a molte totalità di esse ed è in se stessa un’unità continua, e ancora molte, distinte, e assolutamente non collegate fra loro»212. La dialettica è innanzitutto scienza e non tecnica perché, se quest’ultima implica senz’altro una conoscenza, è vero però che il suo sapere è limitato al campo di applicazione, mentre la scienza è capace di raccogliere il particolare e la molteplicità in unità, secondo l’unica “nota caratteristica”, l’idea generale213. Questa idea circonfonde, avvolge e ingloba molte altre idee particolari, ciascuna distinta. Pensare dialetticamente è però non solo individuare il fondamento unitario ma anche scorgere le differenze – tra le singole idee, tra un gruppo e un altro di idee – di modo che, sulla base di uno sguardo unitario e critico al tempo stesso, sinottico e diairetico, sia possibile studiare gli Ivi, § 75, p. 521 e Plat. Soph. 253b sgg. Plat. Soph. 253c6-d9 (tr. it. di G. Cambiano). 213 Di questo hanno discusso nel Teeteto Socrate e il suo giovane interlocutore, ma Heidegger non sembra tener conto di questa differenza, convinto dell’idea aristotelica della non perfetta scientificità della dialettica. Cfr. Plat. Tee. 145c-148c (tr. it. di C. Mazzarelli). 211

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accordi dell’essere ed evitare dissonanze. Questo è «distinguere secondo il ghenos» (253e1-2), articolare l’essente secondo la propria radice ontologica. Nonostante la professione di incomprensione che Heidegger fa riguardo al passo nel quale Platone espone – certo in maniera molto problematica, soprattutto riguardo alla relazione tra le idee – il contenuto del procedimento dialettico, fermo rimane il suo convincimento che il senso della dialettica platonica si risolva in una dottrina del logos inteso come «modo d’accesso all’ente» e come strumento che circoscrive le possibilità di apprendere qualcosa sull’ente e sul proprio essere214. La dialettica conduce ad una regione di pura luce nella quale il filosofo soggiorna, luogo rischiarato, scevro da condizionamenti particolaristici, cui fa da contrappunto la tenebra della dimora del sofista. Il dire di quest’ultimo sembra dialettico perché si serve della confutazione ma, incapace di procedere analiticamente, si arrovella in fumose contraddizioni. La dialettica, che sa invece «seguire i discorsi uno per uno vagliandoli e criticandoli», invece è «vera confutazione», autentica critica, diretta a scomporre l’essente nelle sue distinte regioni e così stabilirne i limiti, al fine di conquistare della molteplicità ontica la vista unitaria, lo sguardo di insieme ontologicamente intonato215.

5. Etero-logie Attraverso la propria esistenza “di fatto” e attraverso le modalità di attuazione di questo esistere, per il tramite soprattutto della sua relazione al mondo che è “commercio linguistico”, il sofista mostra l’esistenza di “altro”. Il sofista è imparentato con illusioni e inganni, cose che non sono perché sembrano non essere possibili, stando al detto di Parmenide. Agendo invece nel mondo, muovendosi tra gli umani, il sofista è l’essente che fa viva esibizione del non-essente: il non-essere è così portato alla presenza (ad essere) ed è mostrato nel suo essere-presente216. Platon: Sophistes, § 76, p. 529. Plat. Soph. 259c6 e d5-6 (tr. it. di G. Cambiano). Sulla genesi della dialettica platonica è opportuno riferirsi a R. Franchini, «La doppia dialettica di Platone», in Id., Le origini della dialettica, Napoli, 1976, pp. 29-59, e a G. Giannantoni, Dialogo socratico e nascita della dialettica nella filosofia di Platone, edizione postuma a cura di B. Centrone, Napoli, 2005. 216 Platon: Sophistes, §§ 27 e 58, pp. 192 e 402. 214

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L’etero-logia è speculare alla tautologia: se quest’ultima è la ripetizione improduttiva del medesimo, distinta dal discorso sull’identità, eterologo è il discorso che dice altro.217 Per prima cosa esso si presenta come un dire che nomina il non-essere, fa di quest’ultimo un nome. Dar conto di questo nome e della cosa di cui il nome è traccia linguistica significa innanzitutto verificare le dottrine ontologiche principali e analizzare la possibile conciliazione tra la fatticità del non-essere e una determinata concezione dell’essere: il punto di partenza è Parmenide, il quale sembra aver escluso questa conciliazione e che esibisce nel suo famoso principio molto più di quanto in apparenza enunci. Platone tratteggia però anche un breve schizzo di storia dell’ontologia greca secondo un duplice obiettivo: da un lato intende vagliare criticamente le dottrine, far pratica dimostrazione dell’arte della confutazione; dall’altro vuole porre in primo piano alcuni fenomeni specifici (ad esempio i concetti di dynamis e kinēsis) che, rielaborati, trovano posto nella proposta ontologica platonica. Poter dire l’altro significa allora innanzitutto esaminare come è stato finora detto e pensato l’altro. In secondo luogo la possibilità linguisticonoetica deve articolarsi in una complessa analitica che espone fenomenologicamente i modi attraverso i quali l’alterità si dà a vedere nel logos: si tratta principalmente di dimostrare l’autonomia dell’alterità rispetto alle altre radici dell’essere, poi studiare la relazione tra essere e alterità e verificare come questo ghenos, diffuso tra tutti gli essenti, renda ogni cosa al tempo stesso essente e non-essente. Occorre infine precisare meglio, attraverso una rielaborazione del concetto di negazione, l’effettiva portata del non-essere, che è sempre concreto, fattivo, rispetto invece al nulla.

I logoi ontologici degli altri La discussione delle teorie ontologiche è inaugurata dall’enunciazione del principio parmenideo che vieta di «costringere ad essere il nonessere» (B, 7). Il principio appare talmente ovvio e incontrovertibile da In Soph. 252b10 Platone parla di un “patire l’alterità” (páthma çtérou): è vero che l’altro in primo luogo si patisce. Ogni patēma però ha come corrispettivo un poíhma, una potenza, un’attività. Quest’ultima supera l’abisso improduttivo del subire e si fa azione: l’azione che si dispone ad incontrare l’altro. 217

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rendere la sua stessa analisi un gioco eristico. Chiedere però cosa significhi in realtà “non-essere” muta il senso dell’indagine perché obbliga a problematizzare la nozione. Innanzitutto essa non è nozione astratta dal momento che ha un nome e, in quanto tale, riferisce una denominazione a qualcosa (ad un ti). «è chiaro che – commenta Platone – “nonessere” non si può riferire a qualcosa compreso tra gli essenti»218. La prima aporia è dunque: il non-essere è in relazione ad un ti ma non ad un on; tra la cosa e l’essere sembra esserci uno scarto che in verità è inesistente perché ogni “qualcosa” è sempre un essente (æp’3nti, 237d2)219. La cosa non è mai spoglia di essere: il «mÕ ti, il non-qualcosa» è «dire nulla, mhdèn légein»220. Il leghein tinos, parlare di qualcosa, è sempre un leghein ontos, parlare di un essente: ogni qualvolta si nomina il nonessere si sta evocando un essente che condivide i caratteri comuni ad ogni esistenza, il fatto ad esempio di essere essente ed individuo (3n e 6n). La difficoltà principale delle possibilità “logiche” del non-essere è data dalla verifica di un’unione, di un intreccio (symplokē) tra essere e «un’altra tra le cose che sono» (tÏn 3ntwn 6teron, 238a5), tra essere e non-essere. La symplokē di essere e non-essere nel logos dà l’avvio alla discussione di una koinōnia ontologica tra i ghenē; essa è «espressione di questo specifico carattere del lógoj come accesso discorsivo»221. Questo primo momento confutatorio ha l’obiettivo di mettere con le spalle al muro quanti si ispirano al detto di Parmenide, cadendo in contraddizione perché ogni volta che pronunciano la parola “nonessere” stanno in larga parte già fornendo un’implicita ragione all’esistenza del non-essere. La etero-logia, il discorso sull’alterità, deve essere innanzitutto una “ortologia del non-essere” (239b4), il modo corretto di discutere del non-essere senza avvilupparsi in contraddizioni. Il tentativo platonico ha solo apparentemente la finalità di sovvertire il principio parmenideo e divenire parricida: Platone non pone la nozione di non-essere contrapposta all’essere ma ogni volta e condizionatamente l’opposizione è relativa: «il non-essere è, in un certo senso, esso pure […] l’essere, a sua volta, in un certo senso, non è» (241d6-7).

Plat. Soph. 237c7-8 (tr. it. di G. Cambiano, lievemente modificata). Heidegger propone di leggere æp’3n ti (cfr. Platon: Sophistes, § 61, pp. 417-418). 220 Ivi, § 61, p. 418. 221 Ivi, § 62, pp. 430-431. 218

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Una volta dipanate le aporie che il non-essere reca con sé e in vista della costruzione di una corretta logica del fenomeno, l’analisi platonica passa in rassegna quattro distinte concezioni dell’essere: l’essere come multiplo, come uno, come materia o divenire, come idea (eidos). Il salto dal non-essere all’essere non è fortuito né occasionale: ha lo scopo di inserire il non-essere tra i ghenē che compongono l’essere, facendo del non-essere stesso uno speciale modo d’essere dell’essere. Il primo dato rilevante è che ciascuna dottrina sembra simile ad una narrazione fantastica, ad una favola, e chi la propone sembra trattare i suoi interlocutori come bambini, ai quali non vanno fornite spiegazioni esaurienti e dettagliate (cfr. 242c). Questa apparenza mitica è causata dal radicamento ontico del problema ontologico: quanti dicono che l’essere è composto di uno, due o tre elementi, oppure che è molteplice e uno al tempo stesso (Eraclito), oppure che talvolta è molteplice, talaltra uno (Empedocle), descrivono uno o più enti ma non l’essere in generale. La «cosa più importante e principale» è «esplorare l’essere, scoprire che cosa mai ritengono di indicare con l’espressione “essere” tutti quelli che ne fanno uso nel discorso»222.

Essere plurale e singolare La raffigurazione che i pluralisti danno dell’essere è facilmente confutabile perché, nel caso in cui si sostiene che esso sia composto di due elementi, l’essere stesso si trova giustapposto tra i due come un terzo elemento comune ad entrambi e dunque come l’unico elemento veramente condiviso da ogni essente223. Il secondo momento confutatorio è diretto contro i monisti, ai quali Platone obietta alcuni argomenti suggeriti dall’analisi dei pluralisti. La discussione si articola in due momenti distinti: l’interpretazione dell’essere in quanto uno e in quanto intero. Se l’essere è uno, perché si dispone di due nomi distinti? L’uno sembra essere altro dall’essere e il nome stesso appare altro rispetto alla cosa di cui è nome. L’essere come intero è da Parmenide avvicinato ad una sfera perfetta; epperò di questo tutto compiuto si possono distinguere un centro e delle diramazioni periferi222 Plat. Soph. 243d1-5 (tr. it. di G. Cambiano, lievemente modificata). Cfr. anche Platon: Sophistes, § 64, p. 441. 223 Plat. Soph. 243e-244a.

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che, vale a dire delle parti che rompono la continuità di questo intero e ne fanno una somma, un insieme, un aggregato. L’essere composto di parti è molteplice, non può essere uno perché l’uno non ammette divisioni ulteriori. L’uno non è l’essere, semmai è un “pathos dell’essere”, qualcosa che si aggiunge, che l’essere subisce, dunque qualcosa d’altro dall’essere. In quanto affezione però l’uno si lega all’essere cosicché dire che un essente non è ogni volta un unicum, significa rendere impossibile l’esistenza di qualunque cosa224.

Tra terra e cielo I monisti e i pluralisti costituiscono due distinte teorie ontologiche di vecchia data. La “gigantomachia”, la lotta concettuale che infuria invece tra i “figli della terra” e gli “amici dei concetti” è la rappresentazione di una battaglia contemporanea ancora in corso225. Platone deve prendere una posizione più netta rispetto ai due fronti e non deve limitarsi a confutare. I “materialisti” limitano l’essere al corpo, perché è solo ciò che può essere toccato ed esperito sensibilmente. I loro oppositori danno invece credito anche all’invisibile, a quanto non è immediatamente esperibile attraverso i sensi. I sostenitori della seconda tesi dicono che “essere è eidos”; in questo modo e attraverso una dettagliata confutazione della tesi materialista guadagnano un orizzonte che non è più ontico ma ontologico in senso proprio: cessano di offrire una rappresentazione dell’essere come un ente, il corpo o la materia, ripetendo gli argomenti dei fisiologi, e si innalzano alla comprensione dell’essere in quanto eidos. Entrambi i gruppi fanno leva sulla concezione propriamente greca dell’essere come “presenza”, ciò che è sottomano, immediatamente comprensibile. Se i materialisti tuttavia ricercano l’accesso all’essere attraverso un’immediatezza sensibile, gli amici dell’eidos accedono invece all’essere attraverso il pensiero e il logos226.

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Ivi, 244b-245e. Ivi, 246a-251a. Platon: Sophistes, § 67, pp. 465 e 467.

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I figli della terra fanno leva su un’interpretazione dell’essente come «vivente mortale» (qnhtòn zÐon): muore ciò che vive e vive ciò che è animato, che ha anima (1myucon). L’essere è dunque un corpo animato. Convenendo su ciò e sui caratteri propri di un essere spirituale (l’essere giusto o ingiusto, saggio o poco avveduto), essi stanno tacitamente ammettendo la presenza (parousía) di uno spirito nel corpo, di un immateriale nella materia, di un invisibile nel visibile. I tre dati più significativi della discussione sono la determinazione dell’essere in quanto presenza (o÷sía), la possibilità che nel medesimo essere ci sia una congiunzione, una compresenza (la parousia è un preludio alla symplokē e alla koinōnia) e che in nome di questo con-essere (materia e spirito) si abbia la facoltà (dynamis) di essere una cosa o l’altra (giusto, sapiente, empio, avveduto)227. Questo momento dialettico-confutatorio si conclude con una prima e significativa definizione di essere: «io pongo come definizione degli essenti questa: gli essenti non sono altro che possibilità (dúnamij)» (247e3-4). Possibilità è agire, fare (poieîn) o patire (paqeîn). Patire significa «lasciarsi determinare da altro da sé», mentre fare è un agire (\gein) nel senso del portare ad essere, dare inizio a qualcosa, armonizzando il prodotto finale con i suoi tratti costitutivi di essente: «la determinazione dell’3n come dúnamij risulterà in seguito come un 6teron»228. Gli amici degli eidē sono portatori di una concezione ontologica che distingue nettamente essere e divenire; tuttavia gli essenti stabiliscono una doppia comunicazione (koinwneîn) per mezzo della sensazione con il divenire, e per mezzo del ragionamento (logismój) con l’essere. Koinōnein è «avere qualcosa in comune con …» (mit-haben), «essere per un altro, con esso»229. Se nella discussione precedente si è acquisita una nozione di essere fondata sulla dynamis, nella nuova analisi il concetto si trova arricchito dalla nuova teoria della koinōnia. Quando Platone chiede «cosa significa questo “comunicare”», intende spiegarlo sulla base di quanto già stabilito per l’essere dinamico: l’azione agita o patita cui la dynamis dà inizio, si verifica nell’incontro tra due termini: «l’essere-conaltro, l’essere-riferito-l’uno-all’altro e la possibilità che li sottende, la quale possibilità è nient’altro che il senso dell’essere». Dynamis e koinōnia vanno

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Ivi, § 68, p. 471. Ivi, § 68, pp. 475-476. Ivi, § 69, pp. 477-478.

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insieme, anzi la seconda si determina sulla prima, è dynamis koinōnias, possibilità di relazione, «possibilità dell’essere-l'uno-con-l’altro»230. Platone parte dall’affermazione che la tesi essere = eidos sia a lui più congeniale e che i suoi sostenitori siano più ragionevoli; cerca tuttavia di limitare le aporie di questa enunciazione che rifiuta di riconoscere all’essere il divenire e dunque la possibilità di relazione ad altro. Per confutare questa esclusione propone l’analisi del fenomeno della conoscenza in cui dimostra che l’essere, quando è fatto oggetto di un conoscere, patisce la conoscenza, in quanto azione dell’anima umana. Nella conoscenza si dà una koinōnia tra conoscere attivo ed essere-conosciuto passivo, dunque si dà nel primo caso la possibilità di conoscere e nel secondo di venir conosciuto: se il conosciuto è l’essere, esso non può non avere dynamis di patire la conoscenza e permettere un incontro tra diversi. Senza il riferimento al divenire verrebbero escluse dall’essere numerose cose: «il moto, la vita, l’anima, l’intelligenza», cosicché, privati del divenire, si sarebbe privati di ciò che più conta. Il passo platonico è spesso stato interpretato come una revisione della dottrina delle idee, alle quali Platone avrebbe aggiunto la partecipazione al movimento. Secondo Heidegger qui si sta dicendo altro. Si sta sostenendo che tutti i fenomeni vitali, l’intelligenza, la vita, il mutare sono essenti: una teoria ontologica che non ne renda conto è monca. Che le idee abbiano una vita, una durata che consenta loro di legarsi al mondo, è ragionevole presumerlo. Che tutto però sia movimento è contraddittorio perché senza quiete l’esistenza stessa di un’idea sarebbe gravemente compromessa231. A conti fatti entrambe le interpretazioni ontologiche hanno una loro radicale legittimità: la prima perché sostiene che in fondo gli inizi del pensiero siano di necessità i sensibili (i corpi) e che dunque i caratteri di questi enti (la dynamis, la kinēsis) debbano ottenere il riconoscimento filosofico dovuto; la seconda perché portatrice del concetto di eidos, che non annienta ma amplia la comprensione della sensibilità, ne costituisce il nucleo teoretico fondamentale. L’inclusione degli eidē nei sōmata, la compresenza (koinōnia) di entrambi nell’essere è il punto di partenza per la delineazione di un’ontologia capace di render conto dell’essente nelle sue molteplici dimensioni, a partire dal corporeo e dallo spirituale. 230 231

Ivi, § 69, pp. 478-479. Ivi, § 69, p. 482.

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L’intuizione di una comunicazione tra dimensioni ontologiche differenti deve essere approfondita in senso dialettico; diversamente si è preda delle medesime obiezioni che si rivolgono ai pluralisti i quali, dicendo due cose, ne nominano una. Dire che movimento e quiete sono, significa porre l’essere come un terzo, come un termine medio tra entrambi? Il primo momento logico-dialettico consiste nel dividere i termini della relazione e assumerli come entità tra loro distinte: essere, quiete e movimento. Il secondo momento dialettico è tuttavia quello della raccolta (sunagwgÔ, sullabÍn, cfr. 250b9), del vederli insieme, coglierli come due in uno, porre in risalto quanto li accomuna. Quiete e movimento hanno certamente in comune l’essere che, rispetto ad entrambi, costituisce un a priori. Riuscire a scorgere l’essere implica un volgere lo sguardo (Þpideîn) da ciò che si dà immediatamente nei fenomeni del moto e della stasi, portare lo sguardo in profondità e in direzione di una trascendenza degli enti concreti. Vedere correttamente non è guardare l’essere oltre ma dentro gli essenti, scorgerlo come loro modo d’essere e solo a questa condizione porre il problema dell’essere in generale232. Far risaltare dialetticamente l’essere come terzo e a priori significa renderlo altro rispetto a quiete e moto. Questa conclusione ontologica provvisoria ha lo scopo di dipanare i princìpi fondamentali della comprensione dell’essere ma anche quello di evidenziare la complessità del concetto di essere, che non è meno problematico del non-essere. Soprattutto rende chiaro che il logos ontologico, il logos che cerca l’accesso all’essere, non deve limitarsi ad accumulare nuove categorie di comprensione. Deve semmai ripartire ogni volta da principio, chiedere “che cosa è l’essere?”, come fa Platone rivolgendosi a quanti ne hanno parlato. «Il lógoj è […] il modo d’accesso della ricerca ontologica greca all’essere dell’ente». La critica platonica agli orientamenti precedenti può così riassumersi: «pervenire all’ontologico in opposizione all’ontico» e «alla spiegazione categoriale dell'essere in opposizione alla descrizione ontica dell’ente»233.

Sull’interpretazione dell’Þpideîn come “far risaltare” piuttosto che trascendere e sulla lettura neoplatonica e neokantiana dell’essere come a priori, cfr. ivi, § 71, pp. 493-496. Cfr. W. Beierwaltes, «Epekeina. Eine Anmerkung zu Heideggers Platon-Rezeption», in Transzendenz. Zu einem Grundwort der klassischen Metaphysik, a cura di L. Honnefelder e W. Schüssler, PaderbornMünchen-Wien-Zürich, 1992, pp. 39-55. 233 Platon: Sophistes, § 63, pp. 438-439. 232

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I meghista ghenē I cinque ghenē di cui si compone l’essere in quanto koinōnia sono identico (ta÷tón), diverso (6teron), quiete (stásij), movimento (kínhsij) ed essere (3n).234 Il primo dato rilevante è che l’essere, già analizzato come dynamis koinōnias, come possibilità del reciproco esserecon-altro (Mit-sein, Miteinandersein), si compone di un essere (on) non ancora determinato in quanto relazione. è una particolare apprensione dell’essere, l’essere (Sein) in quanto “presenza” (Anwesenheit, ousia), fatta oggetto di un’indagine particolare perché, sul fondamento di questa datità, siano sondate le possibilità del con-essere come com-presenza (Mitanwesenheit). L’essere è un «pre-dato» (Vor-gabe) assieme alla quiete e al movimento235. Il fatto che Platone assuma la stasis e la kinēsis come strutture già date è interpretabile come una concessione alle dottrine ontologiche più rilevanti, quella parmenidea e quella eraclitea: non si tratta allora di optare per l’una o per l’altra, quanto di armonizzarle in una nuova teoria ontologica. Quest’ultima, pur assumendo che quiete e movimento siano essenti tra loro contrapposti, individua in entrambi un elemento comune che consente di dire che ciascuno dei due è “mescolato” ad altro, che l’altro, rispetto ad entrambi, è essere, ed infine che ambedue sono essenti. Da questo schema triadico precostituito si M. Migliori, op. cit., pp. 75 e 80, ritiene invece che i generi siano otto: essere assoluto, non-essere assoluto, essere relativo, non-essere relativo, quiete, movimento, identico e diverso. è vero che Platone distingue un non-essere assoluto da un non-essere relativo; è vero anche che cade in contraddizione su questo punto perché, se in precedenza ha contestato a Parmenide che il nonessere doveva in qualche modo essere perché di esso vi è traccia nel linguaggio (il non-essere si dice), implicitamente rivolge a se stesso la medesima obiezione. Il prosieguo ideale del Sofista sarebbe dovuto essere dunque una discussione intorno all’esistenza del non-essere assoluto o nulla. Platone non ha però mai affermato nel corso del dialogo che il nulla possa comparire tra i generi sommi: un’affermazione simile avrebbe posto problemi rilevanti riguardo alla possibilità di partecipazione e comunicazione di questo genere con gli altri, perché si sarebbe dovuto dire che le cose partecipino in qualche modo del nulla. La vera contraddittorietà su questo punto è piuttosto pensare al non-essere scisso in due parti, appunto il relativo da una parte e l’assoluto dall’altra. Meglio è allora pensare ad una funzione categoriale del non-essere, come capacità di differenziarsi da… che fa essere e non-essere le cose, le fa oscillare non tra l’essere e il nulla ma sempre tra una cosa e un’altra, insomma tra l’essere e l’essere. 235 Platon: Sophistes, § 77, p. 536. 234

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ricavano le successive determinazioni ontologiche: «ciascuno di essi, allora, è diverso dagli altri due e identico a se stesso»236. Se le precedenti configurazioni costituivano una predatità che non consentiva alcun esercizio dialettico, l’individuazione di altre due possibili strutture ontologiche diviene il campo per l’applicazione della scienza dialettica, la quale si presenta certamente non per dire il medesimo, ma per “dire altro” (6teron légein) e dirlo anche a proposito del medesimo: non una tautologia ma una etero-logia. Il «lógoj è qualcosa d’altro da un légein del ta÷tón»237. Il primo passo dialettico è la comprensione dell’autonomia di “identità” e “differenza” da “quiete” e “movimento” perché, se è vero che ciò che sta fermo sembra rimanere sempre identico e ciò che si muove sembra diventare sempre altro, l’accesso discorsivo che si tenta di questi enti pone dinanzi a due fenomeni distinti: non uno bensì due legomena (e due onomata) si ricavano, quiete e identità, movimento e differenza. Il primo momento dialettico si compie nel riconoscimento dei fenomeni kaq’a÷tó, per ciò che sono. Implicito in questo compito è la determinazione di ciascuno come essente, in special modo l’heteron. Heteron Il diverso è un ghenos irriducibile agli altri quattro ma ciò nondimeno essente, presente. Esso va innanzitutto analizzato nelle sue potenzialità linguistico-concettuali perché occorre chiarire di quale “altro” si stia parlando, di «un altro» (ein Anderes), dell’«essere-altroda» (das Anders-sein-als) o, infine, di «alterità» (Andersheit, heterotēs)238. Heidegger mette in rilievo almeno tre significati possibili di “dire altro” e sottolinea che, siccome Platone sta tentando di definire un “genere”, un concetto supremo, è opportuno anche svuotarlo di ogni determiPlat. Soph. 254d14-15 (tr. it. di G. Cambiano). Platon: Sophistes, §§ 77 e 78, pp. 538 e 570. 238 Ivi,§ 77, p. 543. Vale la pena di segnalare questo rilievo di Natorp, op. cit., p. 373: «La mediazione è insita nel concetto dell’Altro. L’Altro è l’Altro dell’Altro. L’uomo greco intende l’alterità in tutto e per tutto come reciprocità; egli non dice, come facciamo invece noi: “’uno…l’altro”, bensì: “l’altro…l’altro” […] Con ciò è già dato il fatto che l’alterità non divide, ma piuttosto collega». Rilievo importante, del quale occorre tenere conto in sede di elaborazione teorica dell’alterità nell’ambito di questioni intersoggettive. 236 237

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nazione concreta perché il risultato da ottenere è la sua funzione categoriale, la sua capacità di pervadere ogni cosa e di effondersi in ogni essente. Il «carattere più originario» del fenomeno generale dell’alterità è la possibilità di relazione: «delle cose che sono si danno due generi, alcune si dicono essere quello che sono sempre in relazione a se stesse, altre sempre in relazione ad altro»239. Tra gli essenti è possibile distinguere alcuni che sono kath’auto, «in relazione a se stessi», e altri che sono pros allo, «in relazione ad altro». Il pros, la possibilità di relazione, è il fenomeno originario dell’alterità, nonché l’elemento discriminante che fonda la differenza dell’altro rispetto all’essere240. Essere è esistere in un certo modo, kath’auto e pros allo, poiché l’altro è sempre un pros ti, “diverso da”, “altro da” qualcosa, è vero che ogni heteron è un essente ma non ogni essente è un altro: «3n e 6teron non si sovrappongono, dal momento che esistono degli 3nta che non hanno il carattere del pròj ti»241. L’affermazione non va interpretata come una limitazione della capacità di diffusione dell’alterità tra gli essenti, quanto piuttosto come il riconoscimento dell’autonomia dell’heteron rispetto all’on, dunque come la conquista di una condizione di indipendenza rispetto ad ogni altro dominio ontologico. Una volta riconosciuto questo, si tratta di evidenziare le possibilità che un genere autonomo come l’heteron possa entrare in comunione con gli altri. La posta in gioco è alta perché è dalla dimostrazione di un’eventuale comunicazione e differenziazione dei generi tra loro che deriva la piena legittimità ontologica dell’altro. «Ogni qualcosa, ogni génoj, è 6teron “per il fatto che comporta in sé l’êdéa, la visibilità (Sichtbarkeit), di essere-altro”»242. Il diverso è un’idea diffusa per mezzo di una “partecipazione” (methexis): ciascun ghenos partecipa del diverso nella misura in cui non è preso per sé ma posto in relazione ad altro. L’heteron possiede, rispetto ad altri caratteri ontologici, una «presenza transitiva». In primo luogo, nella relazione di contrapposizione tra quiete e movimento, l’altro si svolge fenomenologicamente come pantápasin 6teron (255e11), «assolutamente altro»: il moto è assolutamente altro dalla quiete e viceversa. Questo reciproco «essere-differente» (Verschiedensein) si accompagna però ad una condivisione, l’esserci 239 240 241 242

Plat. Soph. 255c12-13 (tr. it. di G. Cambiano). Platon: Sophistes, § 77, p. 544. Ivi, § 77, p. 546. Ivi, § 77, p. 548.

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di entrambi nell’essere (Mitdasein)243. In secondo luogo la koinōnia con l’heteron emerge quando di qualcosa dobbiamo predicare la negazione (il movimento non è identità): in questo caso l’altro è pròj 6teron, quando si dice “in relazione all’alterità”, in virtù della comunicazione che qualcosa ha con il diverso. In terzo luogo si evince l’idea di una differenza categoriale distinta dal diverso: il moto è «diverso dal diverso», 6teron toû çtérou (256c5-6). In quarto luogo l’altro si presenta nella specifica funzione del non-essere: se infatti rispetto a ciascuno degli altri ghenē l’altro è non-identico al non-mosso, al non-fermo, rispetto all’essere l’altro è «altro dall’essere», 6teron toû 3ntoj (256d5), ossia non-essere. La natura del diverso (qatérou fúsij, 257c7) ha la capacità di “spezzettarsi”, di distinguersi in parti: ha la facoltà di individualizzarsi, di prendere forme concrete che arricchiscono la nozione astratta e la funzione generica dell’alterità. Lo spezzettamento della differenza è presentato da Platone ponendo la questione del “diverso dal bello” come non-bello: quest’ultimo manifesta una «contrapposizione dell’essere all’essere» (3ntoj pròj 3n Þntíqesij, 257e6) perché, presentandosi come diverso da un certo modo d’essere è anche contrapposto ad un altro determinato modo d’essere (il bello). Nel non-bello può esserci differenza e contrapposizione. Questa differenziazione non porta tuttavia a dichiarare il non-bello o il non-giusto, e dunque anche il non-essere, un «meno essente» rispetto all’essere, ma un diversamente essente perché la contrapposizione, il porre l’uno accanto all’altro due termini opposti (bello non-bello, essere non-essere) implica la comprensione di entrambi. «Platone ha così reso trasparente concettualmente l’6teron stesso» perché ha potuto mostrare innanzitutto che è data la forma generale della «alterità in quanto tale», la quale si concretizza in enti particolari che sono parti dell’essere e tra i quali l’opposizione non è “meno” quanto analogamente essente244. I veri progressi rispetto alla dottrina parmenidea dell’essere sono dunque l’esistenza delle cose che non sono, secondo modalità indicate dal concetto formale di differenza, la scoperta del ghenos indipendente del non-essere, l’individuazione della compenetrazione in ogni essente del non-essere in quanto diverso e la possibilità di rapporti reciproci all’interno dell’essere stesso. Se l’oltrepassamento del «divieto» parme243 244

Ivi, § 77, p. 549. Ivi, § 78, pp. 563 e 566.

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nideo (258c6), l’essere andati «al di là» dei limiti imposti dalla sua concezione ontologica, ha delineato una dottrina dell’essere più complessa, che rende ragione delle sue relate e distinte dimensioni, questo superamento non si è prefisso lo scopo di sovvertire il divieto stesso. «Nessuno dica di noi che indicando nel non-essere l’opposto (to÷nantíon) dell’essere, osiamo sostenere che esso in tal senso è. Noi infatti è già gran tempo che diciamo di non occuparci di un opposto dell’essere (ænantíou), se è o non è, se si tratta di una cosa che ammetta d’essere oggetto di un discorso o che ogni discorso rifiuti»245. La ragionevolezza del dire dialettico si specifica al contrario come individuazione dei ghenē e della loro «mescolanza» (súmmeixij, cfr. 259a4), della «partecipazione» (méqexij, cfr. 259a6) del diverso all’essere, della distinzione dall’essere e dunque del non-essere. Non solo l’essere, in virtù di questa mescolanza e partecipazione al diverso, ma tutti i “generi” «innumerevoli volte», «in innumerevoli circostanze», «in molti modi» sono e non sono246. Questi “molti modi” (pollacØ) di essere e non-essere sono a loro volta riflesso di un essere che è e si dice in modo molteplice. Mē on Nell’ultimo significato di heteron come “altro dall’essere” si fa strada il non-essere: ciascun genere rispetto all’essere è in fondo un non-essere. In questo modo «si trova messa in evidenza l’o÷sía mÕ 3ntoj, la presenza del non-essere nell’essere». «In relazione a tutti, infatti, la natura del diverso, rendendo ciascuno di essi diverso dall’essere, lo fa non-essere», «la presenza dell’6teron costituisce il non-essere di ogni ente»247. L’analisi condotta fino a questo punto ha avuto lo scopo di esaminare le implicazioni possibili della differenza con gli altri essenti, perché questa differenza stessa venisse insediata nel cuore dell’essere e perché, a partire da questo radicamento, venissero mostrate le potenzialità di esistenza di un non-essere collocato al centro dell’essere. In virtù della presenza transitiva che il concetto di diverso possiede, anche il non245

Plat. Soph. 258e6-259a1 (tr. it. di G. Cambiano, lievemente modifica-

ta). Ivi, 259b4-6, p. 425. Platon: Sophistes, § 77, pp. 555-556 e Plat. Soph. 256d12-e1 (tr. it. di G. Cambiano, lievemente modificata). 246

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essere si trova diffuso in ogni essente, così da rendere tutto ciò che è non-essente in una certa misura. Non essente non in generale, secondo una vuota formula che dice che le cose sono e non sono al tempo stesso, quanto secondo una specifica concezione dell’essere fondata sulla dynamis koinōnias che rende ogni essente, sotto una particolare prospettiva, alla luce di definiti legami e in virtù di una limitata capacità di relazione, non-essente. La teoria della koinōnia condizionata e relativa ha condotto ad un’interpretazione altrettanto condizionata e relativa del non-essere. «Quando noi parliamo di non-essere, è evidente che non parliamo di un opposto (ænantíon) dell’essere, ma solo di una cosa diversa (6teron)»248. Il diverso non è l’opposto perché, a differenza di quest’ultimo, non prevede la radicale contrapposizione all’essere, per cui o è essere o non è essere. Il concetto di non-essere che Platone espone non vive di opposizione quanto di compenetrazione nell’essere inteso come unione dei molteplici e di differenziazione dall’essere in quanto ghenos individuo. Ivi, 257b3-4 (tr. it. di G. Cambiano, lievemente modificata). Lo scopo del Sofista è procedere ad una “finitizzazione” del non-essere, alla sua individualizzazione (prendere forma a partire dalla sua possibilità di essere Forma) contro la “cattiva infinità” del non-essere postulata nel principio parmenideo. Luigi Scaravelli notava però che «al vestibolo del tempio filosofico si innalza al Nulla la grande statua di un dialogo di Platone, il Sofista, che ha per sottotitolo “delle idee”, ma che ben più a proposito dovrebbe avere quello di “studio del nulla”» («Appunti inediti su Heidegger», in Heideggeriana. Saggi e poesie nel decennale della morte di Martin Heidegger (1976-1986), a cura di G. Moretti, «Itinerari», nuova serie, 1-2 (1986), p. 111). Si veda anche il contributo di G. Sasso, «Luigi Scaravelli e il Sofista di Platone», cit.. Il concetto di non-essere risulta essere fondamentale anche per una storia dell’idea di finitudine. Già nel Simposio Platone considerava la mancanza d’essere come principio dell’essenza umana. Nel Sofista il non-essere in quanto deficienza è sottomessa all’idea di pienezza (il non-essere è l’essere) ma certamente non è abolito. Su questo punto rimando a A. Gravil, Philosophie et finiture, Paris, 2007, in part. «L’intelligibilité du manque», pp. 49-58. Nello stesso volume è da vedere la parte sulla «concezione heideggeriana della finitudine» (pp. 373-429), che si articola dalla Endlichkeit del Dasein (dove particolarmente interessante è l’indagine sul valore del non-essere nell’esistenza quotidiana) sino alla Ab-gründigkeit, l’abissalità dell’essere che delimita il progetto esistenziale e necessita della coscienza della propria finitezza. Sulla nozione di “difettività” e sulla lettura heideggeriana di Platone rinvio a P. Piovani, Oggettivazione etica e assenzialismo, a cura di F. Tessitore, Napoli, 1981, in part. pp. 122-133. 248

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La negazione Nell’idea di opposizione si incontra una concezione della negazione chiusa, che non apre a possibili comunicazioni tra le diverse regioni dell’essere. Il “non” in questo caso è l’“anti”. Platone non discute il nonessere come un anti-essere ma come un diversamente essente. Dunque «il “non” e la negazione sono compresi come un “non” che opera un’apertura. Il ne-gare (Ver-nichten) nel légein, il “dire no” (Nein-sagen), è un lasciar-vedere (Sehen-lassen)», vale a dire che, in quanto fenomeno radicato nel logos apofantico, la negazione è rivelativa, ha il «carattere di apertura», nondimeno dell’affermazione249. «Ogni “non”, in ogni dire“non” […] ha, in quanto parlare di…, il carattere della messa in evidenza. Anche il “non” vuoto, la semplice esclusione di qualcosa opposto a cosa che sia, mostra, ma mostra semplicemente ciò su cui è fondata la negazione, che allora nel dire-“non” è posto contro il niente»250. L’interpretazione fenomenologica della negazione, all’interno della quale è da collocare anche la lettura di Platone, fa leva sull’idea che predicare “non” di qualcosa comporti un’azione di messa in rilievo rispetto al niente. Il progresso teoretico rispetto alla tesi parmenidea consiste nell’individuazione della differenza tra “non” e niente: dire non-essere significa dire non soltanto qualcosa di diverso dall’essere ma al contempo dire qualcosa di diverso dal niente o dal nulla assoluto, che costituisce un limite anche per la dottrina ontologica platonica. Qualcosa d’altro si lascia vedere nella negazione, qualcosa che non si trova compreso né nel solo essere né negli altri domini, ad esempio nel movimento, cui spesso si trova associata l’idea della negatività, perché ciò che diviene nega un prima e, nella prospettiva del futuro, nega l’ora. La negazione può essere “antitesi” (Þntíqesij), posizione di una tesi contrapposta, che è altra cosa rispetto alla vuota e inconciliabile opposizione (ænantíwsij)251. Argomenta Platone: «le particelle negative, come mÔ e o÷, preposte ai nomi che le seguono, o piuttosto poste davanti alle cose alle quali sono applicati i nomi pronunciati dopo la negazione, indicano qualche cosa di altro»252. La negazione è un processo di differenziazione che non contraddice l’essere ma può dirlo in altro 249 250 251 252

Platon: Sophistes, § 78, p. 560. Ivi, § 78, pp. 570-571. Ivi, § 78, pp. 567-568. Plat. Soph. 257b10-c3 (tr. it. di G. Cambiano, lievemente modificata).

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modo oppure può dire qualcosa di altrimenti essente: il non-bianco non è l’opposto del bianco quanto un modo di indicare un’ampia gamma di colori che bianco non sono. Limitarsi a cogliere la negazione come antitesi assoluta si rivela fenomenologicamente improduttivo perché si lascia fuori la varietà del molteplice, i molti modi in cui si può dire l’essere. La comprensione del carattere apofantico della negazione è una «revisione del senso del “non”», la quale fa a sua volta leva su una più incisiva e profonda «revisione del lógoj», una comprensione più radicale di questo fenomeno perché sia possibile affermare che perfino la negazione lascia trasparire un essente e lo conduce alla luce253.

6. Il logos e il sofista Il sofista costituisce una modalità esistenziale, caratterizzata da inautenticità, sradicamento, nomadismo. In quanto esistenza il sofista è però, non meno dei suoi oppositori, “vita linguistica”. Le medesime possibilità valgono per ogni esistenza umana. è di pertinenza del sofista allora la capacità di accedere al mondo attraverso il leghein. Il sofista è un “tecnico”, è dotato di un particolare intendersi254; questa facoltà trova nel discorso il luogo di coltura perché è nella parola che si producono fantasmi linguistici, imitazioni non radicate in un originale. Nel discorso sofistico manca la corrispondenza tra la parola e la cosa. Per poter rendere conto della differenza mostrata dal logos sofistico, occorre compiere quella che Heidegger definisce una «rivoluzione» della concezione del senso dell’essere255. Le rivoluzioni, si sa, producono frutti duraturi se sono preparate accuratamente ed erette su stabili fondamenta. La rivoluzione ontologica ha come prima necessità l’esigenza di essere fondata su un terreno solido, che è l’esistenza concreta, da tutti esperibile, del sofista. La ricerca ontologica platonica riceve, sulla base del fondamento fattuale ed esistenziale, una fondazione particolare: banalmente, non si parte dall’astratto, dal pensiero puro, ma dalla realtà del fatto. Si deve rendere ragione del sofista perché esso è innanzitutto un ente mondano, che si incontra e che ci viene incontro. In seconPlaton: Sophistes, § 61, p. 419. Ivi, § 27, p. 191: «“Sich-Auskennen im Sprechen über alles, was es gibt”», «ein Sich-Auskennen im Besprechen des “Seienden”». 255 Ivi, § 27, p. 192. 253

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do luogo bisogna investigare le possibilità esistenziali di questo ente, vale a dire i modi in cui appare. L’esistenza umana è linguisticamente connotata; il sofista è un modo dell’umano esistere, è un Esserci; tra le modalità del suo relazionarsi al mondo, al mondo comune costituito da altri umani (Mitwelt), c’è il logos. Il logos è sia accesso (Ansprechen) sia elaborazione discorsiva (Besprechen): nella parola si schiudono mondi e si ha la possibilità di interpretarli e render partecipi gli altri della loro comprensione. Nella prospettiva logica però il sofista, che è un ente, può a sua volta essere elaborato attraverso il discorso, divenire legomenon, oggetto di un dire. «Il lógoj, l’elaborazione discorsiva del mondo e dell’ente, gioca il ruolo del filo conduttore, nella misura in cui l’ente si dà (da ist) nel legómenon»256. La finalità principale del logos sofistico è l’eu leghein, il bel dire, il discorso ornamentale che ha l’obiettivo di persuadere e così formare gli individui attraverso la paideia. Platone e Aristotele condividono il medesimo giudizio sul dire sofistico che non si adegua alla cosa del suo dire ma rispetta solamente le tecniche formali per poter parlare genericamente di qualcosa. L’ideale educativo sofistico non è perciò l’oggettività (nel senso della Sachlichkeit) ma l’«essere-educati a parlare di tutto». Il “bel parlare” è disinvoltura, sradicamento, incapacità a riconoscere domini ontici distinti cui di volta in volta adeguare la parola257. Una volta stabilito che il logos è fondamentalmente un’appropriazione che non espropria, un “mettere le mani” sull’ente senza sradicarlo dal suo dominio, così che esso possa continuare a darsi qual è, occorre vedere come il sofista si allontani da questa comprensione autentica del dire. Il fatto che le prime descrizioni siano ricondotte al fenomeno primario della “presa”, che rinvia ai modi effettuativi del logos, dimostra che ciascuna descrizione possa essere letta come la pratica dimostrazione di ciò che può avvenire nel discorso, il suo eventuale radicamento nei fatti o il suo allontanamento, le sue distorsioni e alterazioni. La connessione tra descrizione del sofista e logos è decisiva perché nella questione “logica” di come si dice l’essere è implicita anche una descrizione fenomenologica del logos stesso. Il logos è il «fenomeno fondamentale» e in «ogni descrizione si ha dunque di mira il lógoj nelle sue differenti possibilità»258. 256 257 258

Ivi, § 29, pp. 204-206. Ivi, §§ 30 e 31, pp. 215-216 e 219. Ivi, § 48, p. 303.

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L’analogia stabilita tra il sofista e il cacciatore mette in luce, ad esempio, che la specificità della caccia sofistica consiste nel prendere possesso delle menti attraverso i discorsi in modi molteplici (dinanzi ad un tribunale, nel corso delle assemblee). Il logos sofistico è per prima cosa una caccia attraverso i logoi: la sua finalità è persuadere o adulare; si tratta allora di collocare questo specifico e fattivo uso del discorso in un campo determinato, che è quello della retorica. Nelle descrizioni successive emerge un altro dato rilevante, vale a dire la possibilità che il logos stesso divenga una merce di scambio, il mezzo attraverso il quale raggiungere gli scopi dell’argomentazione retorica259. Il fulcro di questo progressivo restringimento della questione “che cosa è il sofista?” intorno al logos si raggiunge nella quinta descrizione, dove si analizza il fenomeno dell’antileghein. In questa analisi trova posto una lunga digressione che Heidegger compie sull’interpretazione platonica della retorica, soffermandosi in particolare sul Fedro. Retorica e pubblicità: interpretazione del Fedro All’inizio del Fedro Socrate si presenta “ammalato di discorso”, attratto da quel testo di Lisia che Fedro porta sempre in tasca e, come animale gratificato da un frutto che gli si esibisce, lo segue al di fuori della città. La “malattia del discorso” va coniugata con la «passione per la conoscenza di sé» richiamata alla memoria dalla testimonianza dell’imperativo delfico260. I tre discorsi erotici con cui Socrate inaugura la discussione sono finalizzati a radicare i problemi filosofici nell’esistenza Ivi, § 47, p. 301: «Ciò che conta essenzialmente nella seconda, così come nella terza e nella quarta definizione, che costituiscono un tutto coerente, è il fatto che il sofista non investa soltanto nei discorsi, intesi come mezzo per persuadere gli altri, ma che egli stesso faccia commercio di lógoi, discorsi, prodotti da altri o inventati da lui, e dunque che egli abbia a che fare con il lógoj, che tratta questi lógoi, detti, da altri prodotti o da lui inventati come merce. Il lógoj non è soltanto la via per conquistare gli altri, ma anche ciò che il sofista commercia. Da ciò risulta chiaramente come tutto il comportamento del sofista si concentri sempre più intorno al lógoj e che tutta la sua esistenza sia interamente dedicata al légein». Cfr. H. Niehues-Pröbsting, Überredung zur Einsicht. Der Zusammenhang von Philosophie und Rhetorik bei Platon und in der Phänomenologie, Frankfurt a. M., 1987. 260 Platon: Sophistes, § 51, p. 316. 259

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umana che è e si sente nel mondo. La disamina, che prende in esame sia il discorso orale sia quello scritto, mira a indicare il reale criterio in base al quale è possibile identificare un logos come vero. La caratteristica fondamentale perché un discorso possa ritenersi adatto ai parametri della competenza e del rigore è la necessità del pensiero, dell’aver già visto preliminarmente «il vero intorno alle cose su cui si accinge a parlare»261. Le obiezioni di Fedro, vale a dire la possibilità di un conoscere fondato sull’aver udito, sul “sentito dire”, e non sulla esperienza diretta, e la non indispensabilità della conoscenza del vero da parte dell’oratore – a lui basta conoscere ciò che la moltitudine ritiene essere vero – specificano l’immagine del logos freischwebend. Nella definizione che Socrate fornisce della retorica risuonano i medesimi attributi della sofistica: è capace «di rendere ogni cosa simile a ogni cosa», in tutti i modi e i casi possibili, oppure «sa nasconderla»262. La capacità di stabilire somiglianze tra le cose presenta un’ambiguità di fondo: «chi intenda ingannare un altro senza essere a sua volta ingannato, bisogna che distingua la somiglianza e la dissomiglianza degli esseri in modo preciso»; vale a dire l’inganno, per realizzarsi, deve possedere una previa conoscenza dell’oggetto263. Come infatti contraffare il volto reale delle cose se di esse non si possiede appunto la verità? La conoscenza si rende necessaria perché chi è ingannato non abbia la sensazione di esserlo; occorre dunque operare somiglianze tra cose simili, tenendo da parte le dissimili. Per evitare equivoci: se l’ignoranza non è intenzionale, lo è invece l’inganno. Retori e sofisti non pervengono alla conoscenza perché sono privi di atteggiamento speculativo. Ciò che posseggono è appunto un sapere relativo alle somiglianze, scienza apparente dell’apparente. Le possibilità che l’inganno vada a segno aumentano quando si fanno oggetto dell’argomentare enti astratti e non rinvenibili del quotidiano: pressoché nessuno confonderebbe ferro ed argento, per quanto simili; in molti al contrario si prestano all’inganno relativo a concetti quali il bene o la giustizia. Se il logos sofistico è sradicato, il discorso reale è dialettico, ossia filosofico. La dialettica, nella lezione del Fedro, è articolata in sunagwgÔ e diaíresij: «la prima forma del procedimento consiste nel ricondurre ad un’unica idea, cogliendo con uno sguardo d’insieme le cose disperse 261 262 263

Platone, Fedro 259e1 sgg., tr. it. di G. Reale, in Id., Tutti gli scritti, cit.. Ivi, 261e1 sgg.. Ivi, 262a sgg..

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in molteplici modi», mentre la seconda è «saper dividere secondo le idee, in base alle articolazioni che hanno per natura, e cercare di non spezzare nessuna parte»264. Il dialettico è «amante [...] delle divisioni e delle unificazioni, al fine di essere capace di parlare e di pensare. E se ritengo che qualcun altro sia capace di guardare verso l’uno e anche sui molti, io gli vado dietro seguendo le sue orme, come quelle di un dio»265. Il dialettico è il solo esperto di discorsi, giacché possiede la conoscenza che è a fondamento di ogni logos e che nel dialogo è descritta come anamnēsis, ricordo del sapere dell’origine. Le possibilità concrete del discorso devono essere accompagnate da una «conoscenza fondamentale della yucÔ»266, perché il ricordare è segno della relazione che l’anima intrattiene con la sua origine. La retorica autentica è perciò psychagōghia, fondata sulla dialettica e radicata nella psychē. Il vero contenuto del Fedro non è l’esposizione di un’opinione sulla retorica né la semplice enunciazione di una teoria della dialettica, quanto il fatto che si discute del «discorso nel senso dell’esprimersi e del comunicare, della parola come modo di esistenza nella quale ciascuno si esprime ad un altro, ricercando l’uno con altro, tutti e due insieme, la cosa»267. La questione del logos è «questione propria dell’esistenza umana» nella specifica variante del «rendere-pubblico», «comunicare-ad-altri»268. La pubblicità dei discorsi non è limitata alla pubblica e particolare esposizione dinanzi ad un tribunale o ad un’assemblea. Il tribunale o l’assemblea cui ci si appella quando si parla e si agisce dialetticamente è il consesso umano, l’adunanza degli esseri razionali che convengono sulla ragionevolezza delle idee di cui il discorso – sia esso reso oralmente o per iscritto – si fa veicolo. «Nella sua funzione propria il lógoj si fonda sulla dialettica. Vediamo tuttavia al contempo che il lógoj, se è una parola viva – vivente, in quanto lascia vedere gli altri – presuppone necessariamente che la yucÔ altrui si trovi in una disposizione a vedere»269. La psychagōghia è la retta conduzione della mente che ha di mira l’esser-pubblico delle idee, il loro non poter non essere pubbliche. La pubblicità delle idee non riguarda l’immediata espressione dinanzi 264 265 266 267 268 269

Ivi, 265d-e sgg.. Ivi, 266b3 sgg.. Platon: Sophistes, § 53, pp. 335-336. Ivi, § 51, p. 315. Ivi, §§ 51 e 53, pp. 319 e 323. Ivi, § 54, p. 347.

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ad un altro di un’opinione, quanto il fatto che, proprio in quanto idee, visibili apparenze del pensiero e trasparenza della mente, esse sono pubbliche, evidenti, oggetto di condivisione, non semplice prerogativa di una soggettività astratta. Autentica retorica è quel dire dialettico che esibisce idee, vale a dire mostra quei punti di raccolta in grado di rischiarare per tutti ciò che lo sguardo di ognuno abbraccia ogni volta. Immagine del nomadismo del logos sono in una certa misura gli scritti. Il mito descritto nel Fedro, che secondo alcuni interpreti segna l’implicita condanna da parte di Platone dei suoi scritti e rinvia ad una speculazione ulteriore affidata solo al ragionamento orale, va in realtà connesso con la anamnesi, quindi all’idea che la vera conoscenza consista nell’aver già veduto una volta. Il logos autentico si innalza solo da questo sapere: lo scritto è un esempio paradigmatico della estraniazione dalla conoscenza, è l’immagine più eloquente dell’appellarsi all’autorità, all’aver-udito senza aver da sé visto e conosciuto. Il dire del sofista o del retore è “fluttuante”, “sradicato”. Il logos filosofico è invece “vivente” (lebendig)270. C’è contrasto tra un parlare che è vuoto cicaleccio, un “dir nulla”, lettera morta, incapace di destare l’attenzione di un uditore o di un interprete, e la forza vitale del discorso. Più che impegnarsi nella discussione sulla preminenza del testo scritto o dell’oralità, l’attenzione andrebbe spostata dal discorso a colui che lo riceve, al destinatario che si dispone ad ascoltare quanto il logos dice, e a colui che, per iscritto o oralmente, gli ha dato forma. Il riferimento va dunque alla psychē, che è come un fiume sotterraneo che esce in superficie soltanto quando si accorda nella disposizione d’animo – la Stimmung – con la linfa nascosta, ombrosa, oscura del logos: quest’ultimo appare “vivo” soltanto a chi è vivo nello spirito mentre sembra morto a chi in realtà è morto nell’anima. La vita segreta del logos esige la pubblica vita del pensiero, la capacità dell’anima di estrinsecarsi in idee e la disponibilità di queste ultime ad aprirsi alla condivisione. Il logos pseudēs Il concetto di pseudos riceve legittimità soltanto quando si è dimostrata, al di fuori di ogni aporia, l’esistenza del non-essere in quanto

270

Ivi, § 54, p. 345.

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diverso. Parlare di “falso” implica sempre un riferimento al logos; la predicazione del non-essere relativa al discorso si esplica come un “dire il falso” o in un “dire falso”. Il logos pseudēs costituisce una forma particolare di koinōnia tra essere e non essere. è necessario che quanto stabilito in sede ontologica abbia riscontro anche in campo logico: è fondamentale allora che il concetto generale di non-essere possa applicarsi sia al logos sia alla doxa. Quest’ultima concretizzazione dell’alterità ha lo scopo di operare distinzioni tra un discorso e l’altro, tra un’opinione e l’altra: in caso contrario ogni dire e ogni opinare sarebbero sempre veri. Quando e se il non-essere invece si unisce all’uno o all’altra, allora si ha il fenomeno del falso. «Opinare o discorrere delle cose che non sono, questo è, direi, il falso nel pensiero e nei discorsi»271. Nel caso specifico del sofista il discorso prende una via determinata, quella di dire cose «in opposizione agli onta». Non l’heteron quanto l’enantion caratterizza il logos sofistico: il sofista dice cose in contrapposizione all’essere che hanno il loro diritto ad essere e a venir comprese in virtù dell’esistenza di una categoria formale, la alterità, che consente alle cose che sono di sembrare non essenti. Il dire sofistico è in ogni caso un dissimulare attraverso i discorsi le cose, così che sembrino apparire come non sono o addirittura che appaiono essenti cose non essenti. La dimostrazione dell’esistenza di un logos falso si concretizza come ultimo attacco sferrato contro il sofista, ultimo cimento dialettico in cui ne va della filosofia stessa. Nella discussione relativa al dire del sofista si rende necessario innanzitutto porre il logos tra gli onta: anche il logos è un essente. Questa premessa è indispensabile perché, enunciando la possibilità di concretizzazione di un discorso falso, si corre il pericolo che il logos stesso naufraghi. Privi di logos – dice Platone – «noi saremmo privati della filosofia, che è la cosa più grave»272. La constatazione, che stabilisce l’equivalenza di logos e filosofia, dovrebbe stabilire anche una volta per tutte la «preminenza del lógoj» nell’interpretazione del dialogo: ciò perché innanzitutto ogni esistenza è una “animalità linguistica”; da questa datità derivano i modi effettuativi dell’esistenza che, per i Greci, erano fondamentalmente forme pubbliche e politiche, per cui parlare è sempre parlare nella polis e al cospetto degli altri; infine perché all’indiscriminata facoltà di parola (tutti hanno il leghein perché chiunque, sofista compreso, è animale linguistico) va sottratta la parola 271 272

Plat. Soph. 260c3-4 (tr. it. di G. Cambiano). Ivi, 260a6-7.

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autentica, che è la filosofia. Per tutti questi motivi il logos può essere a ragione definito il Kernphänomen del Sofista di Platone273. Senza logos si direbbe nulla e senza logos si sarebbe nell’impossibilità di pensare dialetticamente: «il nostro logos nasce infatti dal reciproco collegamento (sumplokÔ) degli eidē dell’essere»274. I nostri discorsi devono armonizzarsi con le forme dell’essere (qui eidos ha lo stesso significato di ghenos), devono seguire l’essere, ragionare sui fatti e non sragionare sradicandosi. Il timore che Socrate avanza all’inizio del dialogo, quando crede che l’uomo elenchico, il confutatore, si sia calato dal cielo per giudicare i suoi discorsi, esplica, seppur in maniera indiretta e introduttiva, che un dire senza corrispondenza al fatto è pure possibile. Il dialettico deve essere chi è in grado non solo di scorgere la koinōnia degli essenti, ma anche di renderne conto (logon didonai) attraverso i suoi discorsi. Questa “resa dei conti” si sostanzia, in conclusione, in un corrispondere nel dire a ciò che è stabilito nell’essere. Per questo motivo la possibilità di un discorso sintetico, il giudizio, che nasce dall’unione di “nome” e “verbo”, e che ha la possibilità di ospitare il falso, deriva dalla comunione ontologica già individuata tra i generi dell’essere. Dalla posizione logica del falso discende l’inganno (Þpáth, 260c6) e, da questo, la possibilità dell’immagine (eidōlon), della rappresentazione (eikōn) e dell’apparenza (phantasia), di esibizioni visive che a vario modo non sono ma “hanno soltanto l’aria di …”, si spacciano per altro275. I fenomeni distorti dell’apparire si radicano dunque nell’eventualità del logos falso, anzi sono fenomeni inerenti al falso che è il nonessere che si dà nel logos. 7. Logos e giudizio Ciò che comunemente è denominato “giudizio”, enuntiatio, è, secondo Heidegger, un tratto derivato e non esclusivo del logos. La tradizione ha interpretato il logos apofantico di Aristotele come giudizio e ha reso quest’ultimo l’esclusivo detentore della verità, intesa come corrispondenza di pensiero e pensato (adaequatio rei et intellectus). La “logica” però non è soltanto una teoria della conoscenza perché “fare il 273 274 275

Platon: Sophistes, § 79, pp. 578 e 580. Plat. Soph. 259e5-6 (tr. it. di G. Cambiano, lievemente modificata). Platon: Sophistes, § 79, p. 580.

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logos” è realizzare la verità, nel senso della alētheia, e alētheuein significa esercitare il logos in quella polisemia concettuale che si è messa in rilievo e che denota l’attitudine alla pluralità e all’accoglimento del diverso propria del logos stesso276. L’analisi delle strutture del logos ha rappresentato per i Greci un «compito fondamentale» al quale certo è del tutto estranea ciò che in forma derivata è stata chiamata «logica proposizionale» (Satzlogik), dottrina del logos in quanto proposizione. «La “logica”, in senso greco, non ha propriamente niente a che fare con il pensiero, ma si colloca interamente nel compito della domanda sull’essere»277. Stabilita questa premessa, occorre però aggiungere che è proprio l’interpretazione greca del logos a contenere in germe le premesse perché la logica in senso formale e tradizionale si sia potuta sviluppare. Nella conclusione del Sofista di Platone è fornito un saggio di questa interpretazione. Volendo dimostrare le possibilità di concretizzazione del non-essere nel logos e con l’intento di dimostrare l’esistenza del falso nel discorso, Platone dà una rappresentazione della struttura elementare del logos, la proposizione minima composta di nome e verbo. Il lógoj prÏtoj kaì smikrótatoj (cfr. 262c6), il logos elementare e più piccolo, è l’enunciato, la prima formazione di senso compiuto che non si limita a nominare a caso le parole ma le accosta in virtù del significato che si intende produrre278. I nomi sono distinti in due grandi classi: i verbi, che indicano l’azione (la praxis), e i nomi, riferiti agli agenti (coloro che realizzano il prattein, compiono la praxis). Verbo e nome sono «dizioni primordiali dell’essente», la prima possibilità di poter dire l’essente279. Se ci si limitasse a pronunciare uno dietro l’altro distinti nomi e verbi, ciascuno singolarmente dotato di significato, non si direbbe alcunché di sensato. «I segni fonici infatti non indicano alcuna azione […] e neppure l’assenza di azione, non indicano l’essere di ciò che è, né di ciò che non è, fino a che ai nomi non vengano collegati dei verbi»280. La symplokē (262c6), unione di nome e verbo, è già giudizio, proposizione fornita di sintesi, di senso compiuto. Il giudizio è un logos minimo

Ivi, § 26, p. 182. Ivi, §§ 38 e 29, pp. 252 e 205. 278 Cfr. J.-F. Courtine, «L’interpretazione del lógoj e la teoria della proposizione nel Sofista», in Heidegger a Marburgo (1923-1928), a cura di E. Mazzarella, Genova, 2006, pp. 189-210. 279 Platon: Sophistes, § 80, p. 591. 280 Plat. Soph. 262c2-5 (tr. it. di G. Cambiano, lievemente modificata). 276

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che, a differenza del dire generico, non si limita soltanto a nominare o ad emettere suoni vocali che pure possono essere compresi in sé: si può dire, ad esempio, “cavallo”, “uomo”, “corre”, “sa”, e chiunque comprende la cosa cui il segno fonico si riferisce; ogni qualvolta però si vuole arricchire il dire relativo a ciascun oggetto, bisogna produrre un logos nel senso del giudizio che ha anche la capacità di significare (ti peraínei, 262d4): il cavallo corre, l’uomo sa. Il discorso, dice Platone, è sempre «discorso di qualcosa» (tinòj lógon, cfr. 262e5), è un dire che si riferisce ad un essente e deve essere dire relativo a ciò che riguarda l’essente: è un “dire di…”, “dire intorno a …”. La prima caratteristica del giudizio è il riferimento intenzionale alla cosa del suo dire, la sua «fondamentale struttura “onomatica” o “delotica”» che lascia vedere la cosa celata dietro il dire. Che il logos sia intenzionato, sia dire di qualcosa, sembra un’ovvietà, ma truismo certo non è perché, mediante questa annotazione, si sta manifestando un intreccio tra il discorso e l’essere281. Dietro l’enunciato c’è sempre il fatto e c’è sempre qualcuno cui il discorso pronunciato si sta rivolgendo: il dire è colto come un condiviso nominare e un immediato e comprensibile lasciar vedere anche ad altri. In secondo luogo è pur necessario che questo dire sia «qualitativamente determinato», abbia una «qualità» (poión, 262e8), che consenta di determinare «di cosa» (perì o, 263a4) parla e «a cosa» (8tou) si riferisce. Scopo di questa analisi è mettere in evidenza la funzione che rende ogni legomenon, ogni detto, un dēloumenon, un che di svelato, qualcosa di determinante relativamente a ciò di cui si sta discorrendo282. La proposizione “Teeteto siede” parla di Teeteto e si riferisce al fatto che è seduto. Dal punto di vista strutturale l’enunciato “Teeteto vola” è identico: la differenza qualitativa, la specificità dell’azione che Teeteto sta svolgendo, è tuttavia diversa, diversa a tal punto che si può dire che essa sia falsa, non solo perché in questo momento Teeteto non sta volando, quanto perché non inerisce all’agente “Teeteto” la facoltà di poter volare. Il vero e il falso sono dunque qualità, un “come” (Wie), del giudizio che può essere comunicato ogniqualvolta si enuncia un discorso di senso compiuto che dice, relativamente al suo soggetto, cose vere o false. Secondo Heidegger nell’esame dei caratteri strutturali del logos 281 282

Platon: Sophistes, § 80, pp. 582 e 598. Ivi, § 80, p. 582.

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Platone esibisce quattro possibili koinōniai interne al dire: la prima, «onomatica», fondata sull’espressione, è l’unione di nome e verbo; la seconda, «intenzionale», è unione di logos ed essere fondata sull’affermazione quasi banale che il discorso è dire di qualcosa, di un essente283; la terza, «logica», è l’unione specifica che la logica definisce sintesi e che Heidegger chiarisce come individuazione della «forma strutturale del qualcosa-in-quanto-qualcosa», del «carattere dell’in-quanto»284. C’è infine una quarta koinōnia, quella «delotica», nella quale i fenomeni del vero e del falso, dunque modi specifici dell’alētheuein, sono ricondotti al discorso285. Quest’ultima connessione si fonda sull’unione logica e sul carattere dell’in-quanto facendo subire a quest’ultimo uno sdoppiamento: di qualcosa si può dire che è per quello che è e si può dire che è altro286. è in virtù di quest’ultima sintesi che il legomenon diviene un dēloumenon. Un aspetto determinante della lettura heideggeriana è l’interpretazione di nome e verbo, che sono dhlÍmata (cfr. 261e5), non perché “segni”, quanto perché afferiscono al dēloun ed hanno la capacità di aprire mondi, piuttosto che legarsi alle cose per consuetudine. Di conseguenza il “piccolo logos” di cui Platone sta discorrendo ha funzione delotica in virtù della facoltà delotica dei suoi elementi costitutivi: il mondo si schiude nel logos perché ha, indipendentemente dal discorso, la possibilità di aprirsi e di rendersi manifesto. In questo senso il dēloun del dire sarebbe derivato e fondato su una più originaria apertura che Heidegger qualifica come «essere-nel-mondo» o «in-essere». L’implicazione mondana ha per l’essere umano un carattere logico determinante perché, per quanto il giudizio possa inserirsi nelle funzioni superiori, il logos costituisce comunque l’accesso principale affinché si dia comprensione sia del mondo sia dell’inerenza dell’umano al mondo stesso. La «sintesi» (súnqesij, 263d3) sensata di agente e azione, l’«intreccio» (262d6) di nome e verbo, costituisce l’acquisizione fondamentale Ivi, § 61, pp. 424-425. Ivi, § 80, p. 601. 285 Ivi, § 80, p. 605. Cfr. R. Petkovšek, op. cit., in part. «Il quadruplice lavoro sintetico del lógoj», pp. 650 sgg., che distingue la «sintesi onomatica» come «livello dell’espressione linguistica», la «sintesi delotica» come «livello esistenziale e apertura dell’essere», la «sintesi intenzionale» come «livello semantico e scoperta dell’ente» e la «sintesi logica» come «livello predicativo e categoriale». 286 Per una ricapitolazione, cfr. Platon: Sophistes, § 80, p. 606. 283

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di Platone verso il superamento della vuota tautologia. La struttura sintetica del giudizio prevede la necessità di ospitare il diverso e di farlo innanzitutto per creare enunciati di senso. Nel dire altro, nel dire qualcosa di diverso, di nuovo, di impensato, si radica il rischio che quest’attributo ulteriore non sia reale, sia falso. Quando Aristotele dice che il falso è ospitato sempre nella sintesi vuole sostenere che pressoché ogni discorso che intenda superare la sterile tautologia, che non è logos dell’identico ma logos che ripete la stessa cosa di ogni cosa, deve essere etero-logo, dire qualcos’altro, esponendosi al pericolo di dire il falso. Il discrimine autentico tra i logoi sradicati dei sofisti e quelli sachlich dei filosofi non risiede nella struttura elementare del logos, che è la proposizione minima, comune ad ogni esistenza parlante, quanto nella capacità di significazione fondata sull’esercizio dialettico, che scompone ogni parola del senso comune in vista di una verità ultima perché originaria. è significativo dunque che quel logos in quanto giudizio, che Heidegger pone come fenomeno derivato di una più semplice ed immediata comprensione della fatticità polisemica del logos, sia in realtà interpretato da Platone come dire minimo, “primo e più piccolo”, facoltà originaria di significazione comune ad ogni parlante287. Questo dato si ricava dalla stessa lettura heideggeriana del passo che esamina dettagliatamente le strutture di fondo del logos condiviso. Il leghein è per prima cosa «emissione vocale» (Verlautbarung) occasionata dall’incontro con il mondo: le cose incontrate sono nominate288. L’espressione fonica non è semplice produzione di suoni inarticolati. Parlare è «parlare in quanto parlare con altri (Miteinandersprechen) di qualcosa», parlare è significare e significare è cercare la comprensione, facilitare l’intendimento perché il mio dire sia inteso e condiviso (o anche frainteso e contrastato)289. Il fenomeno dell’inerenza al mondo (In-Sein) dei parlanti, che hanno il mondo in comune nel logos, avanza anche nella relazione che, nel dire, stringe i singoli elementi: le loro possibilità di significazione non poggiano su una sequenza di parole dette alla rinfusa quanto su una specifica funzione dell’essere-con-altro (Miteinandersein) già chiarita in sede ontologica che, sul piano strettamente logico, si chiarisce come

287 288 289

Ivi, § 80, p. 594. Ivi, § 80, p. 583. Ivi, § 80, p. 584.

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«essere-detto-insieme (Miteinander-gesagtsein) delle parole»290. L’essereinsieme sensato delle parole nel logos è ciò che è la koinōnia nell’essere, un’altrettanto sensata relazione tra regioni e funzioni ontologiche. 8. La logica filosofica L’indagine critica sul logos ha messo in risalto alcuni elementi fondamentali per la comprensione di questo fenomeno così complesso. Si è analizzata innanzitutto la relazione che intrattiene con la verità, in virtù dell’attitudine umana a “fare il vero” e del presupposto bio-culturale secondo il quale gli umani sono “animali linguistici” che hanno la capacità di “dire la verità” o compiere il vero attraverso la parola. Si è visto anche che il termine logos non può essere inteso esclusivamente come “discorso”, perché è semmai attraverso il dire che esso può realizzare la sua complicata polifonia concettuale. Si è poi discusso, in nome della priorità “logica” che caratterizza ogni essere umano, in merito all’eventualità di un logos falso, tipico dei dissimulatori, dei sofisti di ogni tempo, che creano fantasmi linguistici. Si è infine argomentata la possibilità ontologica di una sintesi nel logos, della koinōnia tra gli essenti quale fondamento della symplokē nel giudizio. Si è anche fatto cenno all’inesauribilità del logos in una dottrina della proposizione. In tutti questi casi è rimasto fermo il principio che comprendere il logos significa oltrepassare la logica tradizionale. Il punto è ora: verso dove? Vale a dire, qual è la direzione che l’ammonimento heideggeriano mostra? Verso quale orizzonte di significatività “logica” bisogna incamminarsi una volta stabilito che il logos ha poco o nulla a che fare con le dottrine logiche e che, tuttavia, esso è irrinunciabile perché, come dice Platone, privi di logos saremmo privati della filosofia? Se è vero che la “logica” non può essere ridotta ad uno strumento neutro e intermedio tra le scienze, ad un medium universale, ciononostante si ha bisogno di una “logica” per accedere all’essere. Una dimensione “logica diversa” si trova indicata in altri corsi marburghesi, coevi dunque alla Vorlesung sul Sofista platonico, e cade sotto il nome di “logica filosofica” o “logica filosofante”291. Ivi, § 80, pp. 585 e 588. Logik. Die Frage nach der Wahrheit, (WS 1925-’26), GA XXI, a cura di W. Biemel, Frankfurt a. M., 1976, pp. 12-19; tr. it. di U. M. Ugazio, Logica. 290

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Che cosa significa “logica filosofica”? Perché si sente la necessità dell’aggettivazione? Perché la logica deve essere determinata come “filosofica”, forse perché quella disciplina compresa nei corsi di filosofia non è filosofica? Di primo acchito logica filosofica suona come una tautologia: la logica è filosofica così come la filosofia è logica. Se si vuole però mettere in pratica una delle acquisizioni principali del Sofista di Platone, occorre avvedersi che, pronunciando due nomi differenti, non si sta dicendo la stessa cosa. Si sta semmai mostrando una «connessione originaria» tra «l’idea di logica» e «l’idea di filosofia» e, in particolare, che è quest’ultima a specificare la prima: è l’aggettivazione a rendere qualitativamente determinato il sostantivo292. La logica filosofica è una «logica diversa», dove la differenza è data dal suo divenire filosofica. Rispetto alla “logica materiale”, che si occupa di domini ontici definiti (ad esempio, natura o storia), e alla “logica formale”, caratterizzata da un’indifferenza di fondo nei confronti dei suoi oggetti, la logica filosofica è senza dubbio una “logica generale”293. Per comprendere questa generalità bisogna distinguerla dalla neutralità dell’organo logico e intenderla in riferimento al suo contenuto, perché la logica generale ha un oggetto specifico e concreto. La logica sofistica è anch’essa logica generale, perché derealizzata, priva dell’empatica partecipazione alla cosa del suo dire. La logica filosofica è invece sachlich, radicata nelle cose stesse, passionalmente coinvolta nell’immediata, innegabile, prioritaria irruzione dei fatti. Il contenuto specifico della logica filosofica non è un ente particolare (la natura o la storia), quanto piuttosto ciò che è comune ad ogni ente. La logica filosofica è onto-logia, logica dell’ente nello specifico senso che prende di mira, nell’ente, il suo essere, dunque è logica dell’essere. La logica così intesa non è astrattamente generale perché concretamente vincolata alla possibilità di intenzionare l’essere, renderlo visibile ed intellegibile nella sua differenza rispetto ad ogni ente particolare. Il problema della verità, Milano, 1986, pp. 10-14; Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leibniz (SS 1928), GA XXVI, a cura di K. Held, Frankfurt a. M., 1978, pp. 5-11, 23-27; tr. it. di G. Moretto, Principi metafisici della logica, Genova, 1990, pp. 18-23, 34-37. Si vedano nel vol. Heidegger a Marburgo, cit., i contributi di E. Mazzarella, «Heidegger a Marburgo: logica, ontologia, ontica», pp. 23-40, e di H. Seubert, «La logica come domanda sulla verità negli anni di Marburgo di Heidegger», pp. 259-291. 292 Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leibniz, p. 7; tr. it. p. 21. 293 Ivi, pp. 2-4; tr. it. pp. 16-17.

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Si è soliti associare alla logica il possesso di strumenti tecnici del pensare, dunque si è dell’avviso che un discorso pronunciato o un pensiero, espresso in armonia con le leggi della logica, sia tecnicamente inconfutabile. I princìpi della logica, identità, contraddizione, terzo escluso e ragion sufficiente, costituiscono una sorta di «legalità logica», di regole e leggi per il ben pensare294. Pensar bene significa pensare senza contraddizione formale. Le difficoltà di cogliere l’autonomia e la specificità della logica filosofica risiedono nella sua determinazione negativa, nel fatto che di essa si possa dare un’idea solo per via indiretta, solo per ciò che non è. Logica filosofica senza dubbio non è logica di scuola o logica tecnica perché non si limita all’enunciazione di regole formali295. Nel significato greco æpistÔmh logikÔ è scienza del logos, che discute e tratta del logos. Inevitabilmente essa non può non costituire un’introduzione alla filosofia, per la ragione specifica che, imparando a discutere del logos, si è introdotti nella filosofia, si è portati nel cuore delle questioni filosofiche, senza l’esigenza di porsi domande stucchevoli finalizzate a stabilire in partenza, prima di cominciare a filosofare, il senso stesso di questa attività così comune eppure così specifica. Il primo compito che una logica filosofica deve affrontare allora è la discussione critica di ciò che tradizionalmente è stato interpretato come “logico” e che ha veicolato una determinata interpretazione della filosofia. Il tema del “dare inizio ad una logica filosofica” implica il rinnovamento del senso della discussione, il gusto di mettere in questione l’ovvio, la scomposizione analitica delle opinioni consolidate, che non sono soltanto i pregiudizi del senso comune ma anche gli assunti dogmatici delle scuole e delle visioni del mondo. Gli «initia logicae» non sono punti di partenza rigidi o regole fisse: sono piuttosto l’ogni volta Ivi, p. 24; tr. it. p. 35. Rinvio a R. Franchini, La logica della filosofia, Napoli, 1967. La logica filosofica auspicata da Heidegger è ulteriore rispetto alla logica filosofica di matrice analitica perché non si limita a formalizzare i problemi della filosofia: cfr. A Companion to Philosophical Logic, a cura di D. Jacquette, Malden-Oxford, 2002. Quando sostiene che la “qualità” dell’idea di logica dipende dall’idea di filosofia che sta a monte, Heidegger sta ponendo come prioritaria e indispensabile l’individuazione dell’idea di filosofia che informa la sua logica. Questo significa che possono esserci tante logiche quante sono le filosofie. Per Heidegger è chiaro che la logica filosofica della sua filosofia ontologica prende corpo in una sintassi dell’essere. 294

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singolo tornare a far questione dei “fondamenti iniziali”, dei concetti nella loro molteplici varietà: il concetto di concetto, di verità, di libertà, di legge, di principio, di fondamento e così via296. In questi concetti fondamentali la filosofia ogni volta si dà e si rinnova, si rimette in gioco, sapendo di esporsi al pericolo che la concettualizzazione è spesso ostacolo alla vita o che solidi concetti di un tempo sono stati invalidati da nuovi fatti. Se il primo compito di una logica filosofica è disarticolare la tradizione logica, in questo lavoro analitico-decostruttivo ci si imbatte nella verità incontrovertibile che il giudizio, come indicava anche Platone nel “piccolo logos”, è «il nucleo fondamentale della logica»297. La qualità della ricerca dipende dalla verifica di un simile enunciato, escludendo, per ovvi motivi, che quando Heidegger lo pronuncia abbia in mente l’asserzione e la relativa teoria della verità come esattezza. Se «c’è bisogno di una logica diversa» è vero altresì che “c’è bisogno di un giudizio diverso”. Questo giudizio è più che altro una facoltà ed è stata indicata per la prima volta proprio dal cosiddetto padre della logica tradizionale. Aristotele discute, nel libro VI dell’Etica nicomachea, del giudizio come súnesij, che sarebbe antistorico tradurre con “coscienza”, perché è invece “aver giudizio”, esercitare la facoltà di giudicare. Giudizio (synesis) e «giudizio appropriato» (e÷sunesía) sono la stessa cosa: il giudizio non può che essere un buon giudizio, appropriato, radicato nelle cose. Il giudizio non è il principio dell’etica (la synesis non è la phronēsis) perché non dà comandi, né fornisce regole di comportamento: non è «imperativo» – dice Aristotele – ma sempre e soltanto «critico». Il giudizio così inteso è sinonimo di comprensione (suniénai), capacità di valutare i termini, gli eventi, gli atti che cadono nella deliberazione etica, contribuendo, in quanto vaglio critico, all’azione morale298. La differenza specifica tra la capacità di giudicare e l’azione morale in senso stretto dipende dal fatto che quest’ultima ha esigenza di deliberare sui mezzi necessari alla messa in opera dell’azione. Il giudizio non fa agire, non fornisce lo stimolo all’azione. In questa prospettiva non dà inizio ad alcunché. Eppure senza giudizio l’azione morale non sarebbe completa perché verrebbe a mancare a quest’ultima l’individuazione del Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leibniz, p. 27; tr. it. p. 38. 297 Ivi, p. 31; tr. it. p. 41. 298 Arist. Et. Nic. VI, 10, 1142b35-1143a15 (tr. it. di C. Mazzarelli). 296

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fine dell’azione stessa, la scelta fondamentale per il bene o per il male. Il giudizio così inteso, come sintesi specifica di tutto ciò che riguarda l’umano (l’agire, il pensare, il vivere) non può mai chiudersi in una scienza o in una disciplina particolare, né ha di mira il possesso delle conoscenze o l’acquisizione della saggezza: non è dominio teoretico né etico, semmai è quella facoltà intermedia tra l’uno e l’altro, capace di raccordare mondi distinti, porli in comunicazione e aprirli alla condivisione299.

I. Kant, «Introduzione» alla Critica della capacità di giudizio, §§ I-IX, tr. it. cit., pp. 73-141; L. Scaravelli, «Osservazioni sulla Critica del Giudizio», in Id., Scritti kantiani, a cura di M. Corsi, Firenze, 1990, pp. 337-528; H. Arendt, Lectures on Kant’s Political Philosophy, tr. it. di P. P. Portinaro, Teoria del giudizio politico, Genova, 2005; R. Viti Cavaliere, Il giudizio e la regola. Saggi e riflessioni, Napoli, 1997. 299

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PARTE TERZA L’origine tecnica del pensare

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CAPITOLO PRIMO Fisionomia del tardo Heidegger 1. Il pubblico, il privato e la logica La tematizzazione della “questione della tecnica”, che si risolve nel domandare circa la sua essenza, impegnò Heidegger nella tarda maturità e prese forma nella celebre conferenza di Monaco del 19531, che sintetizzò per alcuni versi e per altri ampliò le precedenti conferenze di Brema del 19492. Queste ultime corrisposero al ritorno sulla scena pubblica di Heidegger a seguito dell’allontanamento dall’insegnamento deciso nel 1946 dal senato accademico dell’università di Friburgo e dal governo francese di occupazione3. La tecnica funge da «apriori storico [...] della Seinsfrage»4 e il suo pensiero rappresenta la più evidente concretizzazione della questione

1 «Die Frage nach der Technik», in Vorträge und Aufsätze, pp. 9-40; tr. it. pp. 5-27. D’ora in avanti si troverà citata l’opera con il titolo tedesco. 2 «Einblick in das was ist», in Bremer und Freiburger Vorträge, pp. 3-77; tr. it. pp. 19-108. D’ora in avanti l’opera sarà citata con il titolo tedesco, specificando di volta in volta il titolo delle conferenze. 3 Per una ricostruzione delle vicende, sulle quali influì molto il giudizio di Karl Jaspers, al quale Heidegger stesso aveva richiesto un parere sul suo operato, ritenuto infine incompatibile con l’educazione dei giovani sopravvissuti alla guerra e alla dissoluzione politica della Germania, è ancora utile consultare la biografia di Rüdiger Safranski, Ein Meister aus Deutschland, tr. it. di N. Curcio, Heidegger e il suo tempo. Una biografia filosofica, Milano, 2001, in particolare le pp. 401-488. I documenti heideggeriani ufficiali si possono leggere in Martin Heidegger, Reden und andere Zeugnisse eines Lebensweges (1910-1976), GA XVI, a cura di H. Heidegger, Frankfurt a. M., 2000, tr. it. a cura di N. Curcio, Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita (1910-1976), Genova, 2005. 4 E. Mazzarella, Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger, Napoli, 1981, p. 229.

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ontologica heideggeriana5. Si trattò tuttavia non tanto di una novità che irruppe improvvisa nella meditazione sull’essere quanto di una riflessione che aveva avuto una lunga genesi. A Hannah Arendt, a proposito del testo monacense, Heidegger scrisse: «Quello che ho detto nella mia conferenza sulla tecnica a proposito della técnh risale molto indietro nel tempo, vale a dire all’introduzione al mio corso sul Sofista che tu hai potuto ascoltare»6. La propedeutica aristotelica del corso marburghese costituisce un utile strumento ermeneutico per la comprensione del discorso heideggeriano, in particolare per il corretto intendimento dell’affermazione secondo la quale «l’essenza della tecnica non è alcunché di tecnico» e, comparativamente, della nozione di Ge-stell, l’im-pianto, che qualifica l’atteggiamento della tecnica moderna nei confronti dell’essente, in qualunque forma lo si intenda, come natura o come umano7. La pro-vocazione dell’energia naturale, la riduzione dell’essente a risorsa disponibile e, infine, l’accumulo indiscriminato di uno sfruttamento talvolta autoreferenziale, hanno difatti snaturato l’essenza della tecnica antica che era poiēsis, produzione, e che qualificava in particolare in Platone il divenire in genere, quello naturale e, in forma derivata, quello umano, e in Aristotele specificamente la generazione prodotta ad opera della tecnica8. M. Ruggenini, «L’essenza della tecnica e il nichilismo», in Heidegger. Ermeneutica, Fenomenologia, Esistenzialismo, Ontologia, Teologia, Estetica, Etica, Tecnica, Nichilismo, a cura di F. Volpi, Roma-Bari, 1998, p. 226. 6 H. Arendt, M. Heidegger, Briefe 1925 bis 1975. Und andere Zeugnisse, tr. it. cit., p. 106, lettera del 21 dicembre 1953. 7 Die Frage nach der Technik, p. 9; tr. it. p. 5 (lievemente modificata). 8 Plat. Soph. 219b4 sgg. e 265b8 sgg. e Arist. Met. Z, 7, 1032a12 sgg.. Il motivo di fondo della critica di Stanley Rosen alle interpretazioni heideggeriane di Platone è stato l’utilizzo, a suo giudizio, improprio che Heidegger fa dell’idea platonica, come mutevole punto di vista dell’uomo sul mondo che gli consente di instaurare il proprio dominio tecnico. Rosen è tra i pochi che hanno focalizzato nel tema della tecnica il punto decisivo della lettura heideggeriana di Platone, parlandone come di una “ontologia (o metafisica) della produzione” o “produzionismo”. Per quest’ultima nozione si veda C. Pearson Geiman, From the Metaphysics of Production to Questioning Empowering: Heidegger’s Critical Interpretation of the Platonic and Aristotelean Accounts of the Good, in «Heidegger Studies», 11 (1995), pp. 95-121. Di Rosen, oltre al già citato «Remarks on Heidegger’s Plato» (in Heidegger and Plato. Toward Dialogue, cit., pp. 178-191), si veda anche la serie di conferenze parigine raccolte sotto il titolo La production 5

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Questa lettura tiene unite due sponde della riflessione heideggeriana che, per quanto distanti, sono tuttavia gli argini di un unico flusso pensante. Non si può spingere fino all’eccesso il gusto per la vivisezione degli oggetti scientifici ed eludere l’evidenza che perfino la rivoluzione più violenta ha avuto un’incubazione ragionevolmente lunga. Sia la prospettiva storica sia quella genetica si rivelano inadeguate se ridotte a strumenti interpretativi di un metodologismo scriteriato. Suddividere la teoresi heideggeriana in periodi ha un senso specifico, principalmente all’interno di un processo ermeneutico mirato che intende far emergere le sottili differenze di posizione su circoscritti temi. Più immediata si impone tuttavia la persistenza della questione ontologica che conferisce una lucida linearità ad un pensiero in divenire. La vera discontinuità va misurata pertanto in relazione a quanto, un tempo elemento centrale per la posizione della Seinsfrage, si trova in seguito relegato al margine dell’accadere dell’essere, mai però completamente irrelato. Esteriore e nondimeno necessario all’economia dell’interpretazione è il metodo genetico. è innegabile che, nel caso specifico della questione della tecnica, essa aveva già messo radici in una prima fase della meditazione heideggeriana. L’interpretazione della técnh in Platone e Aristotele – suggerisce lo stesso Heidegger – costituisce il precedente più prossimo del discorso futuro. Ad essa non si può non associare il tema della Zuhandenheit (utilizzabilità), dove la nozione di “mezzo” (Zeug) sarà in seguito sostituita da quella più radicale di Bestand (risorsa) e finirà per inglobare, in una più radicale prospettiva post-kantiana, anche l’umano che dalla precedente concezione era escluso9. O ancora il tema platonicienne. Thème et variations, Paris, 2005. Il tema è certamente complesso. Innanzitutto perché nell’idea generale di produzione rientrano molteplici e distinte attività (dalla creazione all’imitazione, alla ripetizione dell’originale, sino alla produzione tecnica in senso stretto). In secondo luogo – ed è un’idea molto interessante – a fondamento di questa tendenza ad omologare ogni cosa (natura compresa) nel fare tecnico, potrebbe esserci l’attitudine moderna a ritenere autenticamente conoscibile solo quanto è “fatto” dagli umani (cfr. ivi, p. 130). Sulla base di questa visione Heidegger critica la modernità poggiando sul principio moderno dell’equivalenza tra produzione e conoscenza che, nella stessa modernità, avrà differenti varianti: da quella di quanti ritengono che interamente conoscibile sia la natura, a quella di quanti limitano la conoscibilità umana al mondo della storia o ai fenomeni. 9 Rinvio su questo punto all’interessante lavoro di M. Ulivari, Die Welt des Gebrauchs im Spannungsfeld zwischen Platon und Heidegger. Ein Beitrag zum

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del nichilismo e le connesse interpretazioni della volontà di potenza e dell’essenza della metafisica. Anche il “nuovo pensiero” post-filosofico, ispirato al procedere singhiozzante e pindarico della poesia e a quello anti-logico della meditazione, prende corpo in alternativa ad un sapere che, sulla base dell’imposizione del calcolo, raggruppa logica, scienza ed esperienza tecnica del mondo. Il metodo genetico risale indietro nelle fonti fino a rintracciare il germe di un inizio. Se il metodo storico, che suddivide in epoche distinte la meditazione, enfatizza l’irrompere della novità teoretica, la genealogia delle questioni sottrae a queste ultime qualunque attributo di novità. Poiché ogni pensiero ha ragionevolmente una storia, la ripetizione acritica porta con sé il rischio di mancare l’apprensione del nuovo nel già-stato. Si finge una ripetizione e si perde la straordinaria sincronia dell’inedito nel già-detto che, insegnava proprio Heidegger nella Platons Lehre von der Wahrheit, nasconde sempre un non-detto. Non è accidentale che spesso i pensieri più originali nascano da quanto nel detto rimane impensato o inespresso. Seppure la filosofia fosse, com’è stato sostenuto, ripetizione, chi ripete lo farebbe in ogni caso in modo nuovo e dunque nella forma della creazione. Dopo quasi un lustro di isolamento, con il solo conforto forse della fama che intanto la Francia gli riservava, nel 1949 il senato accademico dell’ateneo di Friburgo si pronunciò favorevolmente per un reintegro di Heidegger nell’insegnamento. La rinascita pubblica di Heidegger, gravata da espliciti o meno dissensi, si interseca con una ripresa teorePolitischen, Marburg, 2007, che ricostruisce non solo il quadro heideggeriano di riferimento ma anche quello platonico, mettendo in relazione la nozione di “uso” con quella di tecnica. L’indagine è condotta secondo una prospettiva pratico-politica tutt’altro che trascurabile: come dimenticare che l’“uso”, il “mezzo”, l’“utile” ci relazionano al mondo delle cose e degli altri umani e che la nostra originaria relazione “tecnica” al mondo – la nostra capacità di portare ad essere come saper fare – è molto più che una falsificazione dell’esistere autentico, dal momento che ci apre alla dimensione dell’essere assieme ad altro/altri? Non solo la teoria delle idee e la dialettica nascono in relazione alle tecniche (ad esempio alla matematica e alla medicina), ma esiste anche una cerniera tra filosofia e politica, perché il technitēs, il portatore di una specifica tecnica, riveste un ruolo nel contesto storico-sociale: si veda G. Cambiano, Platone e le tecniche, Torino, 1971. Technē è sia ars (arte liberale) sia “capacità”: fraintendiamo il senso che Platone attribuisce al termine se la intendiamo solo come “produzione”: cfr. A. Balansard, Technē dans les Dialogues de Platon. L’empreinte de la sophistique, Sankt Augustin, 2001.

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tica delle questioni fondamentali del pensare, prima tra tutte la logica e la discussione relativa ai suoi princìpi che lo impegnerà soprattutto negli anni Cinquanta. Sono anni densi di impegni ufficiali che vedono Heidegger spesso in viaggio, soprattutto in Germania e Francia, a tenere cicli di conferenze. Ne sono testimonianza quelli di Brema del ’49, di Friburgo del ’57 oppure i seminari di Zollikon in Svizzera e di Le Thor in Provenza. è in particolare nel contesto di seminari e conferenze che viene esposta la tesi sulla tecnica. Le conferenze friburghesi sui Princìpi del pensiero e il corso del ’55-’56 sul principio di ragion sufficiente, nonché l’omonima conferenza del ’57, rappresentano invece i documenti di una rinascita delle questioni logiche, nelle quali è da far rientrare anche la stessa “questione del pensare” che costituisce l’orientamento di fondo delle lezioni del 1951, quando, con la qualifica di professore emerito, Heidegger tornò ad insegnare e significativamente intitolò il primo corso Che cosa significa pensare? Un titolo, che è sempre un “post-scritto” e al tempo stesso l’unico indicatore in grado di stringere in sintesi un argomentare senza destinazione finale, fonde l’esperienza individuale del pensare e l’essenza generale della filosofia. Nel caso di Heidegger l’intersecarsi del proprio e del generale diviene oltre modo sintomatico di un giudizio privato sul proprio operato filosofico che, nelle sue intenzioni, avrebbe potuto stemperare – come pure è avvenuto – la mancanza di una emendatio ufficiale della sua compromissione politica con il nazionalsocialismo. I riferimenti al tentativo ontologico di Essere e tempo espressi nella Lettera sull’umanismo del 1947, accanto alla vistosa distanza che si intende segnare dall’esistenzialismo francese, debbono nondimeno essere riportati ad un contesto storico e teoretico al tempo stesso. Essi costituiscono di fatto il primo giudizio espresso da Heidegger sulla precedente attività filosofica e nello specifico sull’iniziale esperimento di ridestare a nuova vita la questione ontologica attraverso l’analitica esistenziale. Al contempo, nella misura in cui si sta tracciando una separazione, si forniscono anche gli elementi di continuità che non vanno rinvenuti tanto nella soluzione contenutistica quanto nell’impostazione formale della Seinsfrage. La persistenza del motivo ontologico come unico filo conduttore del proprio destino filosofico corrisponde, sul piano individuale, al riconoscimento di una coerenza della speculazione, da cui deriva l’imposizione del suo primato sulla storia, priorità che funge, sebbene forse mai intenzionalmente concepita, da parametro esclusivo per la valutazione anche dell’agire etico e politico. Con il ritorno alle origini logiche della meditazione ontologica Heidegger rinserra

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le fila della coerenza argomentativa del suo interrogare filosofico e fornisce parimenti al giudizio storico gli unici documenti che sono realmente da stimare in una visione teoretica assorbente e inglobante. La risposta heideggeriana fu chiara, seppure non conforme alle aspettative di quanti, soprattutto antichi allievi e confidenti, insistevano per una ritrattazione propedeutica ad una completa riabilitazione10. 10 Si vedano ad esempio K. Löwith, Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933, tr. it. di E. Grillo, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Milano, 1988, e H. Marcuse, «Carteggio con Heidegger (1947-1948)», in Id., Davanti al nazismo. Scritti di teoria critica 1940-1948, Roma-Bari, 2001 pp. 127-133. è divenuto opportuno, a questo punto, spendere qualche parola in relazione all’assenza, in questo lavoro, di qualunque riferimento al testo heideggeriano che, all’apparenza, esprimerebbe maggiore vicinanza a Platone. Mi riferisco al discorso che Heidegger pronunciò all’inizio del suo rettorato nel 1933 e che in più parti allude alla Repubblica platonica («Die Selbstbehauptung der deutschen Universität», in Reden und andere Zeugnisse, pp. 107-117; tr. it. «L’autoaffermazione dell’università tedesca», in Discorsi ed altre testimonianze, cit., pp. 102-110). L’assenza di riferimenti è del tutto intenzionale ed è motivata dalla convinzione che non si tratti di uno scritto filosofico, quanto semmai, di “politica filosofica” (cfr. A. Dal Lago, «La politica del filosofo. Heidegger e noi», in A. Dal Lago e P. A. Rovatti, L’elogio del pudore. Per un pensiero debole, Milano, 1989, pp. 62-103), costruito su un approssimativo accomodamento della filosofia a quelli che Heidegger stesso chiamava i “bisogni spirituali del tempo”, dai quali una filosofia rigorosamente scientifica avrebbe dovuto tenersi lontana, o quantomeno avrebbe dovuto sapere indirizzare diversamente la scelta del pensatore. Il riecheggiare di Platone in quelle pagine strizza l’occhio più che altro ad una vulgata del peggiore platonismo, vale a dire proprio a quella metafisica platonicamente connotata della quale Heidegger a lezione disegnava la fisionomia e ne auspicava l’oltrepassamento. Sul tema si vedano i saggi di H. Eiland, The Pedagogy of Shadow: Heidegger and Plato, in «Boundary2», 2-3 (1989), pp. 1339; T. Kisiel, «On the Purported Platonism of Heidegger’s Rectoral Address», in Heidegger and Plato. Toward Dialogue, cit., pp. 3-21, e «Fatticità kantiana e ‘libertà tedesca’ negli ultimi corsi di Marburgo e oltre: in lode delle “Idee del 1914”», in Heidegger a Marburgo, cit., pp. 99-125; J. Bailiff, Truth and Power. Martin Heidegger, The Essence of Truth and The Self-assertion of the German University, in «Man and World», 20 (1987), pp. 327-336. Utile è riferirsi a V. Farias, Heidegger et le Nazisme, tr. it., Heidegger e il nazismo, Torino, 1988, a F. Fédier, Heidegger: anatomie d’un scandale, tr. it., Heidegger e la politica. Anatomia di uno scandalo, Milano, 1993, e a E. Nolte, Martin Heidegger. Politik und Geschichte im Leben und Denken, tr. it. di N. Curcio, Martin Heidegger tra politica e storia, Roma-Bari, 1994.

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2. L’essenza della tecnica: verso il superamento delle interpretazioni antropologiche Mediante il radicale rovesciamento dei princìpi logici in tesi sull’essere prende corpo sia il volto contemporaneo dell’essere nella tecnica sia il Denkblick, lo «sguardo pensante»11 che è «sguardo schietto gettato su semplici dati di fatto»12 e ad essi deve adeguarsi se intende godere del privilegio di saper rispondere ad un appello, poiché «scorgiamo soltanto ciò da cui noi stessi siamo già guardati»13. La “logica” sensibile dell’essere, che raccoglie in sintesi il senso dell’argomentare heideggeriano della sera della sua esistenza, si interseca così con la riproposizione della questione dell’umano nel mondo che Heidegger affrontò principalmente in relazione allo scenario terrificante di un dominio tecnico planetario. La relazione interna alla triade tecnica-umano-pensare si rende chiaramente visibile ad esempio nel contesto della discussione sul principio di identità, dove, analizzando la Zusammengehörigkeit e la sua duplice intonazione, si specifica l’attuale significato del coappartenere di essere e umano. Per intendere il senso di questa operazione “logica” che differenzia, e così facendo raccoglie i due termini dell’enunciato14, basterebbe – sostiene Heidegger – nominare la definizione dell’età contemporanea come “èra atomica” perché il rapporto sia chiaro. Nella conferenza sul Principio di ragione lo straordinario potere enunciativo di questa denominazione, «in apparenza innocua», riposa sulla dirompente novità che il qualificare un’epoca sulla base dell’energia naturale disponibile introduce nella storia umana: «già sembra che manchino i criteri e la forza di un ripensare, che consenta di esperire in modo ancora sufficientemente libero quanto c’è di inquietante e di spaesante in una simile interpretazione dell’epoca attuale»15. Il ragionamento teso ad «Grundsätze des Denkens», in Bremer und Freiburger Vorträge, p. 127; tr. it. p. 163. 12 Ivi, p. 144; tr. it. p. 182. 13 Ivi, p. 100; tr. it. p. 133. 14 Nel testo del seminario sulla Costituzione onto-teo-logica della metafisica si chiarisce il senso della Zusammengehörigkeit come “differenza” o “divergenza” (Austrag). Cfr. «Die onto-theo-logische Verfassung der Metaphysik» (1956-57), in Identität und Differenz, cit., pp. 53-79; tr. it. di U. M. Ugazio, Identità e differenza, in «aut-aut», 187-188 (1982), pp. 17-37, in particolare pp. 20 e 34. 15 M. Heidegger, Der Satz vom Grund, GA X, a cura di P. Jaeger, Frankfurt a. M., 1997, pp. 178-179; tr. it. di F. Volpi e G. Gurisatti, Il principio di ragione, 11

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escludere visioni “tecniche”, vale a dire interpretazioni antropologiche e strumentali, della tecnica, deve per prima cosa escludere l’«angusto» pensiero che identifica essere e «mondo tecnico» perché «l’intero […] del mondo tecnico è rappresentato in anticipo in base all’uomo e come sua creatura». Una simile rappresentazione della tecnica potrà tutt’al più concretizzarsi in una «etica del mondo tecnico»16, che non è estranea ad una valutazione pratica delle potenzialità scientifiche e tecnologiche, ma certamente eccede il rigore ontologico volto a determinare l’essenza della tecnica. Il bisogno di etica, tradizionalmente intesa come necessità di regole e prescrizioni, esplicita lo smarrimento contemporaneo prodotto dall’imporsi globale del dominio tecnico, quando urgente si pone la questione “che fare?” ossia “come devo agire?”. L’esigenza di un’etica (o delle etiche) non può non sorgere all’interno di un soggiorno (ēthos, Aufenthalt) che è la località dell’abitare umano. Se c’è bisogno etico è perché si è sempre nella condizione umana del bisogno e della deficienza, dove la penuria maggiore è, secondo la prospettiva heideggeriana, un non venire in chiaro sull’autentico pericolo che si nasconde nella tecnica moderna17. Pericolo che è tutt’altro dalle paure ontiche che si provano in circostanze determinate ed è invece la sublime esposizione a ciò che è in pericolo nell’attuale apparire del pericolo. Anguste sono le interpretazioni che si fondano su una percezione quotidiana del fenomeno “tecnica” e danno vita ad aspettative di redenzione, sia quando l’invadenza tecnologica è demonizzata a favore di un atteggiamento acriticamente nostalgico sia quando, nel quadro di un’entusiastica superiorità dei tempi moderni, si esaltano i benefici del progressismo tecnico che, incidendo nel vivo della tenuta e della durata delle cose terrene, sembrano modificare i tratti stessi della condizione umana.

Milano, 1990, p. 205. 16 «Der Satz der Identität», in Bremer und Freiburger Vorträge («Grundsätze des Denkens»), p. 123; tr. it. p. 158. 17 Utile su questi argomenti è il lavoro sulla tecnica di Bernard Stiegler, in part. La faute de Epiméthée, Paris, 1994. Per il rapporto etica-tecnica si veda A. P. Ruoppo, «‘Mondo’, ‘tecnica’, ‘pericolo’, ‘svolta’: le conferenze di Heidegger Einblick in das was ist nel contesto di una riflessione sul concetto di ethos», in Atti dell’Accademia di Scienze morali e politiche, Napoli, 2003, pp. 237-283.

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3. La munificenza dell’essenza e il terrore dell’ovvietà Il discorso heideggeriano nella forma appare intriso di toni apocalittici e anti-moderni, come quando ad esempio si confronta l’inno Il Reno di Hölderlin con l’oggetto “Reno” delle centrali idro-elettriche installate sulle sue rive o delle agenzie turistiche che organizzano escursioni sulle sue acque. Nella sostanza, tuttavia, un simile paragone sta in sordina introducendo la differenza sostanziale tra l’atteggiamento quieto e meditativo della poesia che lascia essere le cose, e quello calcolante su cui riposa l’industria e che necessita non solo di assicurarsi il dominio sulla natura ma pretende che la sua potenza sia ridotta ad un accumulo di energia, dove l’opera di immagazzinamento conta più dello sfruttamento vero e proprio in vista di un impiego. Il medesimo significato di “essenza” (Wesen) perde i connotati logico-metafisici del concetto, dell’universale, della forma o della idea, e assume il senso del durare (währen) e del concedere (gewähren), di ciò che permane e dura e si dà. Nell’essenza non parla altro se non il modo dell’accadere dell’essere, nello specifico prender forma nel quid della cosa singola. All’algida trascendenza dell’essentia Heidegger sostituisce l’essenza quotidiana e terrigena di un reale in-comune (koinon). Nessun precedente impiego filosofico del termine giungerà a portare testimonianza della corretta etimologia, ad eccezione della poesia di Hebel, che parla della solida e rassicurante persistenza della casa municipale, come del luogo attorno al quale si raccoglie la vita della comunità, oppure di Goethe, che suggerisce a Heidegger uno smorzamento del “durare” in quanto “perdurare” poiché non si tratta di pensare ad un’immutata ed eterna struttura teoretica che si invera, rimanendo invariata nella sua essenza oltremondana, nel particolare. Dura ciò che continua a concedersi (fortgewähren), solo ciò che dunque è nella storia e nel tempo, e si dà unicamente ciò che può durare come lo spazio concreto e simbolico attorno al quale tutto si raccoglie18. Domandare circa l’essenza della tecnica non porta a soluzione, vale a dire non può concludersi in un risultato condiviso, perché «è la pietà del pensiero»19, è ufficio pietoso del pensiero sostare a meditare per comprendere. La domanda funge piuttosto da indicazione che, come un segnale stradale, mostra la direzione e mai accompagna a destina18 19

Die Frage nach der Technik, pp. 32-35; tr. it. pp. 22-24. Ivi, p. 40; tr. it. p. 27.

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zione. Bisogna seguire «le vie del pensiero» (Denkwege) che inducono a «muoversi attraverso i discorsi»20. La questione della tecnica necessita di un attraversamento dei discorsi, del poreúesqai dià tÏn lógwn21 che nel Sofista è presentato come la capacità di sondare i discorsi del quotidiano, le opinioni comuni, sia per produrre uno sfondamento nel linguaggio sia per esautorare le parole d’uso comune che nascondono un significato remoto. Il volto «terrificante» della tecnica non riposa né sull’interpretazione catastrofica del presente né sulla prospettiva ottimistica del futuro. Né tanto meno è da rinviare alla sua ambigua neutralità che può renderla potenzialmente nociva e vantaggiosa al tempo stesso. Il vero terrore esercitato dalla tecnica risiede nell’incapacità di sondare fino in fondo l’ovvietà con cui si presenta. Nell’esperienza del «senzadistacco»22 che chiunque può sperimentare sulla poltrona di un aereo o su quella di casa attraverso la televisione, le nozioni di vicinanza e lontananza sono rappresentate come distanze spazio-temporali misurate tra due punti oppure semplicemente scompaiono in un indistinto e incolore disporre di ogni notizia in tempo reale, di ogni strumento a portata di mano, di ogni incontro in versione virtuale. Un processo oggi amplificato da recenti ritrovati tecnologici che hanno sensibilmente rivoluzionato la comunicazione e la produzione di informazioni, fino a fare del web uno dei principali, se non per molti esaustivo, non-luogo dove dislocare la propria identità quando non completamente reinventarla. I nuovi “romanzi senza biografia” come i blog, l’uso di nickname, l’esperimento fantascientifico di Second life, si sono appropriati visivamente di ciò che un tempo era il ruolo dell’immaginazione o il ricorso agli pseudonimi nella produzione letteraria. Proliferano identità altre dell’esistenza qualunque che non poggiano sul tempo, e non hanno dunque esigenza di provare la loro provenienza da un passato o un luogo, né tanto meno di aver futuro. L’unico residuo dell’identità reale che entra nella dimensione virtuale è la lingua e il sistema di pensiero costruito su quella originarietà irriducibile. La caduta nell’uniforme, nell’ovvio, nell’assenza di distanza, è però più radicale del dominio tecnico del mondo. La potenza dell’ovvietà si origina dall’impossibilità di gettare, recita il titolo delle conferenze di Brema che funge anche da «indicazione», lo «sguardo in ciò che è» e si 20 21 22

Ivi, p. 9; tr. it. p. 5. Plat. Soph. 253b10. «Das Ge-Stell», in Bremer und Freiburger Vorträge, p. 24; tr. it. p. 45.

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sostanzia nella messa a punto di un procedimento di trasformazione degli essenti in oggetti (Gegenstände). Il vero terrore esercitato dalla tecnica è determinato dalla capacità di ridurre ogni essente all’uniformità, ossia a porlo fuori della sua essenza. La conferenza del 1938 L’epoca dell’immagine del mondo costituisce un efficace esempio di ermeneutica heideggeriana che stringe in sintesi la definizione di metafisica e la partenogenesi al suo interno della scienza. L’interpretazione dell’essente sulla base della presenza (Vorhandenheit) e il concetto di verità come esattezza (Richtigkeit) costituiscono le coordinate con le quali è possibile rispondere alla domanda relativa all’essenza della metafisica che incorpora anche la scienza moderna23. Mediante la messa a punto di un metodo fondato sull’imposizione del soggetto osservatore sulla cosa indagata, si assiste ad una riduzione reificante del mondo, la cui anteriorità è annullata nel proposito di porre (stellen) l’esistenza delle cose. Quasi che queste ultime non preesistessero alla coscienza, sembrano venir alla luce per la prima volta nel loro adeguamento guidato alla struttura rappresentativa (vor-stellen) della soggettività conoscitiva.

Die Zeit des Weltbildes, pp. 69-104; pp. 71-101. Sulla conformazione metafisica della scienza utile è anche richiamarsi alla prolusione del 1929 «Was ist Metaphysik?», in Wegmarken, pp. 103-122; tr. it. «Che cos’è metafisica?», pp. 59-77, nonché alla conferenza del 1953 «Wissenschaft und Besinnung», in Vorträge und Aufsätze, pp. 41-66; tr. it. «Scienza e meditazione», pp. 28-44. 23

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CAPITOLO II Tecnica e verità

1. Aristotele, Etica nicomachea, VI. La dimensione pratico-poietica della produzione e l’essenza della tecnica antica «La tecnica è un modo del disvelamento (eine Weise des Entbergens)»24: è un modo della verità dell’essere e dell’accadere della sua storia. Con la enunciazione di questa tesi, all’apparenza paradossale, Heidegger ritorna al passo dell’Etica Nicomachea, dove appunto la technē è inserita tra i «modi» attraverso i quali «l’Esserci apre l’essente»25. Il commento heideggeriano al Sofista si inaugura con una lunga disamina della citazione aristotelica nella quale la tecnica, assieme a epistēmē, phronēsis, sophia e nous, costituisce il primo e più immediato effettuarsi dell’alētheuein (Aufdecken) «nell’affermazione o nella negazione»26. La particolarità che riunisce le modalità del compiersi della verità è l’azione che sulla loro determinazione esercita il logos. Ad eccezione dell’intelletto, le prime quattro, argomenta Heidegger, sono metà lógou, poiché nessuna potrebbe inverarsi senza la mediazione del parlare (Sprechen). La lettura heideggeriana dà in tal modo ragione dell’indicazione aristotelica di 6xij metà lógou, che accompagna il commento a queste diverse forme di conoscenza. La resa heideggeriana della hexis con possibilità (Möglichkeit) intende sospendere la struttura impositiva, il “porre” e la Die Frage nach der Technik, p. 16; tr. it. p. 9. Platon: Sophistes, § 4, p. 21. 26 Arist. Et. Nic. VI, 3, 1139b15-17. Cfr. F. Volpi, «Der Bezug zu Platon und Aristoteles in Heideggers Fundamentalverständnis der Technik», in Kunst und Technik. Gedächtnisschrift zum 100. Geburtstag von Martin Heidegger, a cura di W. Biemel e F.-W. v. Herrmann, Frankfurt a. M., 1989, pp. 67-91. 24

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ratio operanti nella “disposizione ragionata”, e mettere in evidenza al contempo la disponibilità discorsiva di questo modo effettuativo. La nozione di Ansprechen, che traduce leghein, interviene a chiarire inoltre l’incontro mediato dal discorso con “qualcosa in quanto qualcosa”, vale a dire con l’essente attraverso la prima immediata percezione del suo essere-mostrarsi come è. Una simile apprensione corrisponde al carattere prioritariamente “logico” dello zōon logon echon che può trasformare la verità dell’accadere del mondo in un giudizio di conoscenza, a qualunque grado avvenga il conoscere, dall’orientamento quotidiano fino alla più elevata sapienza. C’è anzi da precisare che, per una presenza che struttura il proprio essere nel mondo, dunque la sua stessa verità, sulla riduzione linguistica dei pragmata, nonché di se stesso, in legomena, uno alētheuein al di fuori del leghein è impensabile. Dal primo al sommo grado della conoscenza l’attribuzione del “vero” e del suo contrario, il “falso”, è un fenomeno inerente al logos e la verità è «determinazione ontologica del “Dasein”» 27, e non pertinenza dell’essere delle cose; pertanto lo stesso sarà affermare, parafrasando l’inizio aristotelico del corso heideggeriano, “l’Esserci dice l’essente”. La prima e determinante innovazione relativa alla tecnica compiuta da Aristotele, rispetto alla considerazione pre-filosofica che ne aveva Platone, è il suo riconoscimento come modalità conoscitiva, forma di pensiero e dunque verità. A fondamento della produzione c’è una diánoia poihtikÔ che realizza un accordo tra la verità, propria del pensiero, e una particolare forma di correttezza che, in ambito tecnico, corrisponde a mandare ad effetto ciò che si vuole produrre. La struttura di una tale conformità ricalca il sintagma “intelletto desiderante” o “desiderio pensato” che, nell’etica, concilia verità (ÞlÔqeia) e rettitudine (ðrqóthj). Anche la produzione, come la prassi, si origina da una scelta e si compie avendo di mira un fine che, per il fare, si identifica con la conclusione della fabbricazione e la raggiunta sussistenza dell’opera. La tecnica «si muove nell’orizzonte dell’essente che, nel divenire, è in cammino verso il proprio essere». La relazione (Umgang) che essa intrattiene con l’essente è strutturata come un «disporsi in vista di» (Zu-richten für)28. Si tratta però di una finalità condizionata e vincolata, nel cominciamento, all’artefice e, nel risultato, all’estraneità dell’opera al fare e si risolve nella concretezza dell’esclusivo portar ad essere per 27 28

Platon: Sophistes, § 4, p. 23. Ivi, § 7, p. 40.

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l’esser-fatto dell’oggetto. Lo scopo della tecnica (tinoj 6neka, um willen von etwas), è la produzione dell’opera ma il prodotto appartiene al produrre fintantoché è da fare. Nella contesa tra facoltà (cui è dedicato il VI libro dell’Etica nicomachea), in vista della determinazione dell’eccellenza teoretica dei saperi, la verità poietica è “impropria” (uneigentlich) e la tecnica ricopre una posizione subordinata rispetto alla phronēsis, autonoma sia nell’inizio sia nella conclusione. Si dovrebbe immaginare, come riflesso della eupraxia, che stabilisce la conformità del fine dell’azione con il bene, una eupoietica che istituisce, sulla base del risultato raggiunto, la corrispondenza tra la verità del pensiero e il buon esito del fare. Sarebbe azzardato chiamare quest’ultimo orthos, giacché Aristotele usa l’espressione come equivalente della verità intellettuale solo per il piano pratico. La orthotēs della tecnica, sebbene non sia “rettitudine” morale, ciò nondimeno è “correttezza”, ovvero adeguatezza nell’esito alle aspettative e alle previsioni della riflessione. La prassi e la poietica sono accomunate e distinte dal pensiero teoretico o puro dalla capacità di dare inizio, fondata sull’essere partecipi del e partecipate dal movimento. Entrambe ingaggiano esperimenti di corrispondenza tra l’intelletto, il mutevole e il temporale, fissano gli occhi «sul futuro (æsómenon) e sul contingente (ændecómenon)», al possibile e al da-farsi, mai al necessario né al giàfatto che nemmeno una divinità – dice Aristotele – potrebbe mutare29. Ambedue esercitano un “giudizio di previsione” che si indirizza al nonessere nel duplice senso del non-essere-ancora del tempo e del poteressere-altro dell’esistere nel mondo30. Divenire e differenziare-giudicare sono i tratti specifici dell’esistenza (zōē) che, sublimando la capacità di orientamento di cui certamente dispongono anche forme di vite pre-linguistiche, coniugando il primitivo krinein con la coscienza del kinein, si riconosce dotata di “discernimento attraverso la parola” (logon echein) che consente di dare inizio a qualcosa di nuovo, disposizione comune al fare tecnico e all’agire morale31. I due saperi terreni, più che affini nella destinazione alla medesima porzione di essente e nella Arist. Et. Nic. VI, 2, 1139a18 sgg. R. Franchini, Teoria della previsione, a cura di G. Cotroneo e G. Gembillo, Messina, 2001. 31 Platon: Sophistes, § 6, p. 39. Fondamentale si rivela invece la differenza tra opera e azione: si veda la classica distinzione tra fare e agire di Hannah Arendt, in The Human Condition, ed. it. Vita activa, a cura di A. Dal Lago, Milano, 2003. 29

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condivisione della struttura formale di effettuazione, si differenziano, come anticipato, per la qualità della finalità, lo scopo superiore e mai determinato della prassi, e quello concreto e utilitaristico della tecnica, caratterizzata inoltre da una studiata ripetizione che, quanto più rimane fedele alla regola, tanto più logora la propria capacità di innovare il mondo. In questo modo la previsione del produrre si risolve piuttosto in un calcolo attinente a criteri universalmente validi, mentre il prevedere dell’azione si rivela l’autentica “previdenza”, o meglio avvedutezza, che è capacità di vedere in anticipo (così si legge alla lettera phronēsis, per Heidegger Umsicht).

2. Aristotele, Metafisica, A,1. La tecnica come primo giudizio e conoscenza dell’universale eidetico Il testo dell’Etica interseca il grande suggerimento contenuto nel primo libro della Metafisica da cui si può ricavare la tesi secondo la quale la tecnica costituisce una prima forma di giudizio perché, ponendosi al di sopra della mera sensazione e dell’esperienza empirica del mondo, obbliga ad una primitiva conoscenza degli universali (gnÏsij tÏn kaqólou)32. «La tecnica si origina quando, da molte osservazioni di esperienza, si forma un giudizio (øpólhyij) generale ed unico riferibile a tutti i casi simili»33. Il giudizio della tecnica può originarsi però soltanto da una congiunta esperienza del particolare (kaq’6kaston) sul quale si riverberano gli effetti della conoscenza dell’universale. Un medico non guarisce l’astratto concetto di “uomo” ma ogni volta colui al quale è accaduto per accidente di essere uomo. Il riferimento, contenuto nell’Etica, alla possibilità di predicazione nell’affermazione e nella negazione risponde allora ad una struttura conoscitiva che incontra per la prima volta l’universale e non certo soltanto sotto l’aspetto della generalità delle leggi di produzione applicate al caso particolare. Distinta dal sapere dell’universale, proprio della scienza e della sapienza, la prima come dimostrazione della verità che presuppone la conoscenza indimostrabile dei princìpi, e la seconda come sapere supremo degli stessi, la tecnica si presenta, ciò

32 33

Arist. Met. A, I, 981a16. Ivi, 981a5-7 (tr. it. di G. Reale, lievemente modificata).

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nonostante, come una scienza e desta, come i saperi più astratti dalle necessità quotidiane, l’ammirazione del senso comune34. Heidegger definisce «sorprendente» l’affermazione secondo la quale la sophia costituisce l’eccellenza della tecnica35. L’interpretazione heideggeriana della tesi aristotelica, congiunta alla lettura del primo libro della Metafisica, si risolve nella messa in evidenza di una tendenza immanente nell’Esserci quotidiano o naturale per il sapere supremo, tendenza che si esercita in diversi livelli di perfezionamento che partono dalla mera sensazione e terminano nella sapienza. La tecnica, in questa scala di saperi, si colloca in una posizione intermedia, precisamente nella formulazione del giudizio unico riferibile ai casi particolari. Aristotele condivide l’opinione comune secondo la quale il tecnico gode di maggiore considerazione ed appare più sapiente rispetto all’uomo di esperienza. Questa maggiore considerazione consiste nella superiore prossimità della tecnica al sapere completo, alla capacità di prefigurare la forma perfetta della produzione (eidos), che è astratta dalla materia e presente nella mente dell’artefice. Il tecnico riesce in questo modo ad innalzarsi al di sopra delle necessità quotidiane e approssimarsi alla elevazione dalla contingenza, che è però anche una forma di sradicamento dal mondo, proprio della sapienza. Il commento heideggeriano si spinge anche oltre le intenzioni di Aristotele. Intendendo la hypolēpsis non come “giudizio” ma come sinonimo di opinione (Dafürhalten), Heidegger ritiene che tale struttura sia riferibile non solo e per la prima volta alla tecnica ma anche all’esperienza. Quest’ultima esprime una primitiva capacità di giudicare concretizzata nella possibilità di orientamento e dunque nella sicurezza con cui ci si può muovere nel mondo. La empeiria, che raccoglie i dati della sensazione nella memoria, costituisce, rispetto ai cinque sensi, un senso ulteriore, paragonabile al senso comune condiviso da tutte le specie viventi, tant’è che – sostiene Aristotele – anche gli animali sono in un certo senso saggi, potendo contare su una ancora non raffinata intelligenza pratica che serve loro per orientarsi nel mondo. Trattandosi di un giudizio sui generis, l’esperienza presuppone un impianto logico di fondo che stabilisce la sua particolare forma di relazione all’ente. La «connessione di rinvio» (Verweisungszusammenhang) dell’esperienza è quella temporale del «quando… allora» (das Sobald-dann). L’esperienza raccoglie 34 35

Arist. Et. Nic. VI, 3, 1139b31-32 e Id., Met. A, I, 981b13 sgg. Id., Et. Nic. VI, 7, 1141a12.

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e mantiene presente «un insieme determinato di eventi nella stessa cosa». Sulla base di una simile capacità di sintetizzare la pluralità delle esperienze particolari, si origina una connessione, non ancora causale, fondata sull’accadere di circostanziati eventi e sull’«essere-temporale del Dasein». Rispetto all’apprensione fortuita dei dati sensibili, l’esperienza gode di una sicurezza specifica, sebbene non identica alla «capacità di discernimento» della connessione in quanto tale che, raffinata, permette poi di prevedere quando, stabilite le cause, si produce un effetto. Questa «relazione di presenza», ancora rudimentale, dispone perciò già di una possibilità, vale a dire l’essere orientato a e disposto verso l’esecuzione di un’azione, dunque di una «connessione reale» (Sachzusammenhang) che raccoglie la pluralità delle sensazioni. L’esperienza si concretizza in una prima capacità di misura e precisamente in un «abbozzo determinato di un comportamento, e questo prendendo di volta in volta la misura dal presentarsi o mancare di qualcosa»36. Nella tecnica la struttura relazionale dell’esperienza si modifica, ponendo quest’ultima sullo sfondo e mai eliminandola perché irriducibile è la temporalità dell’esistenza che ne sta a fondamento. La radicale modificazione consiste nell’apprensione, mai avvenuta nei gradi inferiori della conoscenza, di un universale. Le acquisizioni conoscitive dell’esperienza, raccolte in modo assolutamente casuale, si depositano in un giudizio che consolida l’orientamento fortuito e di volta in volta raggiunto. Viene per la prima volta alla luce l’essere-cosa (Was), il fondamento unitario dell’identità delle molteplici sensazioni, dunque si trova estratto (Heraushebung) e messo in rilievo (Abhebung) l’eidos. Non più dunque agisce la connessione temporale-casuale bensì quella intenzionale e causale del «se…allora» (Wenn-so), «poiché…perciò» (Weil-deshalb). «Si modifica così la struttura relazionale di modo che la comprensione diventi più propria (eigentlicher). E il comprendere diviene più proprio in quanto ciò di cui si tratta è messo in rilievo nel suo aspetto (Aussehen). Il comprendere si fonda ora non più sulla presenza di un effetto di esecuzione e di operazione, nel ritenere una successione, ma nella presentazione dell’aspetto della cosa, sulla considerazione del quale si dirige il prendersi cura (Besorgen)». La comprensione dell’essente si raffina realizzando via via il senso più autentico dello alētheuein, quando è ricavato l’eidos, l’aspetto generale, l’esser-cosa della cosa, sottratto da un contesto di mera operatività cui è preclusa ogni 36

Platon: Sophistes, § 11, pp. 71-74.

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possibilità di evidenziare l’universale celato nel particolare. L’agire della tecnica, questo peculiare aver cura dell’essente, si concretizza allora nel disvelare quanto nel comportamento dell’Esserci naturale e quotidiano rimane nascosto. Nella tecnica si trova configurata una elementare sophia perché per la prima volta è saggiata una «connessione di fondamento e conseguenza», una primitiva conoscenza della “causa” che nel sapere più elevato corrisponde al “principio”. La presenza dell’eidos nella tecnica «apre la strada al disvelamento dell’essente a partire dalla sua ÞrcÔ», del suo «a partire da» (das Von-her) che «c’è già sempre». Nel disvelare il fondamento del suo esserci l’essente è condotto alla sua più propria «presenza» (Anwesenheit – ousia). Il tecnico è colui che «senza l’esperienza ha il logos», vale a dire, pur non essendo perito sul modo di trattare gli oggetti, «conosce lo eôdoj» (1cei tòn lógon)37, e dunque ha la possibilità di approssimarsi al significato più autentico della verità proprio soltanto della sapienza. La tecnica non esce difatti dall’ambito della quotidianità. La medesima caratterizzazione di hypolēpsis, questo “primo giudizio”, come opinione ne offre conferma. Essendo in fondo più condivisa posizione che asserto di scienza, essa ha la caratteristica di avvicinarsi «più o meno» al disvelamento dei princìpi. Nel medesimo contesto di Etica nicomachea, dove è asserita la comprensione della tecnica tra i modi della verità, la hypolēpsis è, assieme alla doxa, caratterizzata dalla possibilità di ingannarsi. In quanto fondata sulla hypolēpsis come primo giudizio che riferisce l’universale al particolare, anche la tecnica patisce la possibilità di essere falsa e di generare l’illusione. L’universale raggiunto nella tecnica, la visione dell’eidos, si realizza mediante un’astrazione dalla contingenza per raggiungere un universale non assoluto ma relativamente condiviso, come accade ad esempio quando un retore parla e tenta di ottenere il consenso dell’uditorio ricavando una forma di universalità, generalmente vincolata alla situazione, su cui convenire. L’universale è ricavato per induzione e non certo costituisce il principio supremo, risultato dell’apprensione concettuale, garanzia della verità degli enunciati38. La tecnica si esercita nell’ambito del particolare, di ciò che Aristotele definisce tà ændecómena \llwj per qualificare le realtà sottoposte al divenire e che pertanto patiscono il passaggio dal non-essere all’essere.

37 38

Ivi, § 13, p. 91. Ivi, § 11, pp. 74-78.

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Sia la produzione sia l’azione pratica si occupano di mutabilia ma soltanto la tecnica «riguarda il far venire all’essere e il progettare (tecnázein), cioè il considerare (qewreîn) in che modo può venire all’essere qualche oggetto di quelli che possono essere e non essere, e di quelli in cui il principio (ÞrcÔ) è in chi produce e non in ciò che è prodotto»39. Sia il technazein della tecnica sia il bouleuesthai della phronēsis costituiscono corrispondenti forme di theōrein e specifica qualifica affinché l’una e l’altra, sebbene sostanzialmente vincolante alla struttura del contingente, possano essere annoverate tra i saperi e riconosciute come eccellenze del pensiero. La sostanziale differenza della poiēsis rispetto alla praxis risiede in questa dislocazione del principio, qui da intendersi come quella che, nella dottrina delle cause, sarà definita la causa efficiente, nel produttore, e nella determinazione della finalità. L’azione pratica è autonoma riguardo ad entrambe e deve accordarsi, nel suo compimento, con la finalità indeterminabile mediante la deliberazione che, dirà chiaramente Aristotele, è una forma di attività teoretica che ha la particolarità di rivolgersi esclusivamente alle modalità dell’azione e mai può discettare dei fini che, come i princìpi del sapere, sono indimostrabili e indiscussi. L’attività dell’intelligenza pratica si circoscrive all’individuazione dello scopo supremo cui l’azione deve conformarsi e all’industriarsi, mediante l’esercizio del ben deliberare, a predisporre i mezzi necessari perché l’azione realizzata sia corrispondente a quella anticipata nel pensiero e riconosciuta perfetta riguardo alla sua conformità ai fini. Il “progettare” della tecnica deve, al contrario, stabilire anche in anticipo gli scopi concreti della sua azione, dal momento che un calice senza fondo, ad esempio, non renderebbe l’oggetto della produzione in grado di sussistere e rendersi disponibile all’impiego per il quale l’intera attività di produzione, dall’individuazione della forma archetipica del “calice” fino alla pratica messa in opera, è stata predisposta. Al fondo dell’invalidazione dell’intero processo si collocherebbe non tanto un difetto di produzione quanto un più radicale errore di giudizio del produttore che, in quanto “principio” del prodotto, ne è responsabile. La nozione di “responsabilità” è anche la chiave di lettura della quale si serve Heidegger per commentare la dottrina delle cause, una nozione che – ribadisce il pensatore – ha principalmente valenza ontologica e solo secondariamente ha trovato un inedito significato nella filosofia 39

Arist. Et. Nic. VI, 4, 1140a11-14 (tr. it. di C. Mazzarelli).

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pratica. L’evoluzione subita dalla dottrina che risale ad Aristotele ha imposto il primato della causa efficiente e dunque dell’artefice, considerato il garante del venire alla presenza della cosa. Diversi modi dell’essere-responsabile del calice parlano in modo distinto eppure congiunto: la materia, il “fine”, la “forma” e l’artefice “rispondono” ciascuno, sulla base di una combinata corresponsabilità, della sussistenza e della disponibilità all’impiego, in altre parole della «presenza di una cosapresente», dell’essere all’apparenza di qualcosa che è40. Il produttore è in grado di raccogliere – qui risuona il significato del logos come raccolta/ raccoglimento (Sammlung e Versammlung) ma anche di “riflessione”, “considerazione”41. Nella disposizione “logica” dell’artefice si fa strada la responsabilità effettuale del legare in sintesi, attraverso un’attività teoretica (il technazein della tecnica), ciò che ha la possibilità, direbbe Platone, di entrare in comunicazione con altro da sé in un rapporto mai aprioristicamente determinato. Ma l’artefice appartiene anche a quella dimensione dell’essere, vale a dire ai mortali, che nel commento al Geviert incontrano l’altro nella forma del divino, del terreno e del celeste, e che il mescere della brocca, o l’effettuarsi della destinazione finale della cosa, tiene uniti in quanto diversi in una relazione fondata sulla reciproca appartenenza all’essere. La “quadratura”, questa enigmatica traccia presocratica del tardo Heidegger, emenda a suo modo la tradizionale teoria della causalità e al tempo stesso interviene a chiarire il significato non meramente predicativo della koinōnia platonica. Pensare difatti ai “generi” non come a categorie universali di predicazione quanto invece a “radici” ontologiche che determinano il modo d’essere delle cose equivale ad uscire dal quadro derivato del teoretico e farsi avanti nella dimensione immediata e quotidiana nella quale l’essente si fa incontro, carico di null’altro se non del proprio esporsi come identico a sé nella differenza da altro, costitutivamente motile eppure definito nel riconoscimento nominale-concettuale42.

Die Frage nach der Technik, pp. 11-14; tr. it. pp. 6-8. Per l’interpretazione del significato comunque “sintetico” del logos-raccolta rinvio al capitolo Elementi per una critica del logos. 42 «Das Ding», in Bremer und Freiburger Vorträge, pp. 10 sgg.; tr. it. pp. 27 sgg., e in Vorträge und Aufsätze, pp. 179 sgg.; tr. it. p. 115 sgg. 40

41

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CAPITOLO III La radice quotidiana della tecnica 1. Platone, Sofista, 219a10: produzione e acquisizione Heidegger tocca, con la sua interpretazione della causa, uno dei più delicati aspetti in gioco nella determinazione dell’essenza tecnica, la sua capacità di far «avvenire nella presenza ciò che ancora non è presente». Nel Sofista Platone descrive la technē come la capacità di «portare ad essere ciò che prima non era»43 e per questo Heidegger, nel suo commento, può tradurre il termine greco con Sich-Auskennen, l’“intendersi”, l’abilità di estrarre dal dominio delle possibilità la concreta ed univoca consistenza di qualcosa. «La técnh è l’intendersi del prendersi cura, del maneggiare, del produrre, che può svilupparsi in gradi differenti, come nel caso del calzolaio o del sarto; essa non consiste nel maneggiare o nel fare, ma è essa stessa un tipo di conoscenza, nello specifico l’intendersi che guida la poíhsij»44. Il prendersi cura (Besorgen), il maneggiare (Hantieren) e il produrre (Herstellen), qui indicati da Heidegger come modi del compimento del più generale intendersi, richiamano la distinzione che Platone introduce nel Sofista, poco prima della definizione di poiēsis, fra la “cura” della terra (gewrgía, agricoltura) e ogni altra cura (qerapeía), la produzione di utensili e la mímhsij, che sono tutte “arti” poietiche45. Più tardi, nel dialogo platonico, un simile talento si trova condiviso non soltanto dai manovali della materia ma anche da coloro Plat. Soph. 219b4 sgg. Platon: Sophistes, § 4, p. 22. La medesima interpretazione conoscitiva della tecnica si legge nel testo del seminario del 1939-’40 «Vom Wesen und Begriff der fúsij. Aristoteles, Physik B, 1», in Wegmarken, pp. 251 sgg.; tr. it. pp. 205 sgg. (d’ora in avanti citato col titolo tedesco). La technē non è la professione (Beruf, klÖsij) ma una abilità generale, sapere di regole generali e conoscenze sicure: cfr. W. Jaeger, Paideia, cit., pp. 516, 905-909. 45 Plat. Soph. 219a10 sgg. 43

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che, attraverso il linguaggio e il pensiero, trascinano dal non-essere all’apparenza ciò che può esser considerato essente a patto che sia posta la condizione ontologica di una sua differenza/divergenza dall’essere. Il nulla esibito nella tecnica non è l’assoluta dimensione della negatività né quella determinata della negazione. Il vuoto della brocca, ad esempio, costituisce la persistenza del nulla, sia come negatività di provenienza sia come custodia del poter-essere-cosa. Il vuoto è innanzitutto ciò da cui la brocca può ricevere la propria autonomia tramite la produzione che ha la sua esclusiva ragion d’essere nel portare la brocca alla sussistenza. In secondo luogo il vuoto preserva anche un rapporto con il non-essere nella funzione per la quale è stata portata ad essere, vale a dire per accogliere, conservare e mescere. La tesi di Heidegger è che questa essenza non si conservi nella determinazione scientifica dell’oggetto-brocca. Mancherebbe alla scienza la comprensione della “cosa in quanto cosa” e dunque la persistenza del nulla esibita nella possibilità di essere-contenitore-per è annientata dall’avventata sentenza secondo la quale il nulla non esiste. La vertiginosa esposizione del nulla nell’essere va di volta in volta stemperata nel progetto di esistenza che tiene uniti il “produrre” dei divini e quello dei mortali. La medesima definizione di tecnica si trova difatti ripetuta in conclusione al Sofista con la non accidentale aggiunta della nozione di aêtía46, che, alla lettera della discussione heideggeriana, corrisponde all’“essere-responsabile” di altro da sé (ein anderes verschuldet)47. Il dialogo platonico, nella parte relativa alla ricerca della definizione, taglia in due le caratteristiche della tecnica distinguendo tra quella acquisitiva e quella poietica in senso stretto. La generale determinazione della tecnica come portare ad essere (\gein eêj o÷sían) è ulteriormente specificata come un poieîn, proprio di chi compie l’azione che conduce alla presenza, e un poieîsqai passivo dell’oggetto che patisce il passaggio dal nulla all’essere, estratto dal mare delle possibilità e portato alla presenza del suo essere concreto48. L’indagine non guadagna l’agognato risultato finché si limita al campo della tecnica acquisitiva, quando l’essenza del sofista è resa esclusivamente mediante l’ausilio dell’analogia che stabilisce alcune affinità tra il suo operare e alcune mansioni della quotidianità, la caccia, il commercio e la lotta. La vera 46 47 48

R. Brague, La cosmologie finale du Sophiste (265b4-e6), cit. Die Frage nach der Technik, p. 12; tr. it. p. 7. Plat. Soph. 219b5.

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svolta si colloca quando si risale indietro nel paradigma iniziale fino alla capitale scissione tra l’acquisizione e la produzione e, per il tramite della sezione ontologica che conferisce autentica garanzia di esistenza al non-essere in quanto falso, si colloca l’attitudine del sofista nell’ambito della poiēsis. Heidegger inserisce una vistosa eccezione nelle interpretazioni del dialogo platonico, non trascurando ma analizzando nel dettaglio la prima sezione e i fondamentali presupposti lì espressi nel quadro di una comprensione globale dell’essere. Né l’oggetto paradigmatico (il pescatore con la lenza) né il metodo di indagine (la diairesi) sono per così dire esteriori rispetto alla sezione ontologica vera a propria. Sia dal punto di vista metodico-strutturale sia nel quadro dei contenuti, la ricerca della definizione di un oggetto di scarsa importanza teoretica e di facile intellezione è intrinsecamente connesso all’indagine relativa all’essenza del sofista. Si deve in anticipo individuare una «storia di provenienza» che è comune ad entrambi in virtù della condivisione della medesima «preistoria ontologica». La «origine ontologica comune» al pescatore e al sofista non può non essere la possibilità di attuare, in forme e modi distinti, una relazione “tecnica” con il mondo49. La ricerca della corretta definizione, così come la determinazione dell’essenza più propria di un certo agire nel mondo, vale a dire la tecnica, sono tratti dall’ambito di ciò che Heidegger definisce l’orientamento quotidiano dell’esistenza, caratterizzato da una radicale approssimazione, da ciò che è sempre «più o meno», da un esercizio non genuino della conoscenza e da una mancanza di determinazione dello specifico “oggetto” del sapere, “dall’una cosa vale l’altra”. Nonostante l’esigua scientificità di questo approccio, non si esce tuttavia dalla discussione ontologica e l’unica differenza è determinata piuttosto dall’essere la prima una «ontologia originaria e naturale»50, nella quale il senso dell’essere si trova dissimulato sotto una coltre di strutture non ancora intellegibili nel quadro di una «autointerpretazione naturale»51, sino all’indagine relativa alle “radici” ontologiche che fungono da condizioni trascendentali del poter-essere fattivo del mondo, delle cose e degli umani. La ricerca ontologica non irrompe improvvisa con il tentativo di sovvertire il principio parmenideo di identità che stabilisce logicamente l’impossibilità di coesistenza di essere 49 50 51

Platon: Sophistes, § 46, p. 291. Ivi, § 42, p. 270. Ivi, § 58, p. 390.

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e nulla; nasce invece dall’indicazione del tema centrale dell’indagine, del “che cosa si sta cercando”. Questo «fenomeno di partenza» (zÔthma prÏton) è il «pre-dato» (“Vor-gabe”), «“ciò che è per prima cosa cercato e trovato e che si trova alla base di ogni concreta elaborazione del fenomeno», ossia del tema della ricerca che è l’esistenza sofistica52. Data una volta per tutte e mantenuta salda nelle tappe successive è la determinazione di un fenomeno specifico, la tecnica, il cui eidos, ovvero i due eidē di cui risulta composta, il primo della produzione, il secondo dell’acquisizione, è ricavato non per il tramite di una visione intellettuale ma per intuizione dall’ambito della quotidianità nella quale il fare tecnico trae origine e riceve destinazione. Si tratta di un concetto non ancora fissato in maniera precisa, considerato il campo approssimativo da cui è ricavato, nondimeno esso risulta provvisto già del «carattere ontologico originario della dúnamij». L’elemento concettuale primario della tecnica costituisce la «fondamentale direzione fenomenale», l’indicazione per la collocazione del dato “pescatore con la lenza” nel sistema della conoscenza intuitiva. Già nell’ambito di una primitiva comprensione del vivere è riconosciuta al pescatore una generale attitudine, dunque la “capacità di” (dúnamij eêj)53 far qualcosa. Essendo dotato di «determinato intender-si, di un determinato essere orientato verso» una specifica regione dell’essere, l’oggetto paradigmatico trova nella tecnica la sua «determinazione fondamentale» (“Grundbestimmung”). La radice primaria dell’essenza della tecnica è la sua “possibilità di” che può concretizzarsi in due differenti modi esperiti mediante l’esemplificazione sensibile del “qualcosa” (das “Worin”) cui si indirizza questa capacità. Se è attitudine a coltivare, allevare, fabbricare e imitare, la tecnica trova il proprio eidos nella produzione come capacità di condurre ad essere qualcosa che prima non era54. Fondamentali risultano le interpretazioni heideggeriane dei concetti greci di ousia e “essere”, il primo, proprio perché ricavato dal quadro della quotidianità, assunto prevalentemente come l’equivalente degli “averi”, delle “sostanze materiali” di cui si dispone, il secondo, concepito sulla base del precedente significato e reso ad esso equivalente, interpretato come «presenza» (“Anwesenheit”), intesa come «essere-presenti» (Vorhandensein) delle cose e relativa alla

52 53 54

Plat. Soph. 221c8. Ivi, 219b8. Platon: Sophistes, § 42, pp. 262-278.

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loro «disponibilità» (“Verfügbarkeit”) in vista di un impiego55. è ovvio che in questo contesto l’intuizione quotidiana del mondo è pressoché risolta nell’estensione dell’«essere-prodotto» (Her-gestelltsein) ad ogni essente, non esclusa la natura, che avanzando nella presenza si rende disponibile in quanto oggetto derivato di una produzione o di una creazione.

2. La tecnica sofistica come delirio del logos poietico L’ousia, nonché il commercio che con essa si intrattiene nel mondoambiente, costituisce il fenomeno identitario attorno al quale si raccoglie l’essenza della tecnica poietica. Viceversa nella determinazione della tecnica acquisitiva l’«identico fondo fenomenale» comune ad attività quali il cacciare, il lottare, il commerciare, l’insegnare e il conoscere, è la riduzione dell’essente a “ricchezza” (crÖma prende il posto di o÷sía) e l’azione che si esercita per l’acquisizione di ciò che già giace nella presenza e non deve essere condotto all’esistenza è un letterale “mettere le mani su”, “impossessarsi di”, “afferrare” qualcosa. Il fenomeno principale di questo eidos della tecnica è il possesso mediante acquisizione (ktÖsij) che si trova allora contrapposto al poiein. In entrambe le caratterizzazioni della tecnica si esperisce l’interpretazione dell’essere secondo i Greci nel quadro di un’ontologia dell’immediato e della prossimità che si distingue da quella più sofisticata della scienza non tanto per il fatto di centrare con maggiore precisione il senso dell’essere. La comprensione dell’essere come presenza è al contrario tratto comune di qualunque indagine ontologica. La radicale differenza riguarda piuttosto il giudizio di valore, l’essere propria o impropria, autentica o inautentica, che viene espresso sulle finalità della ricerca e che, traslatamente, si riflette sulla qualità dell’esistenza in gioco nell’indagine. La seconda determinazione della tecnica come acquisizione, in quanto si riferisce anche all’interpretazione platonica della conoscenza, contiene secondo Heidegger un’indicazione fondamentale, accanto all’apprensione dell’essere come presenza, per intendere il fenomeno del logos, nel quale il sapere e la verità come disoccultamento si trova55 Anche per le interpretazioni di o÷sía e di dúnamij è utile riferirsi a Vom Wesen und Begriff der fúsij, pp. 259-261 e 281-288; tr. it. pp. 214-216 e 235-242.

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no veicolati. Della tecnica, in quanto specifica “relazione” (Umgang) con l’ente, si possono ricavare tre «momenti strutturali»: il “con” (das Womit), mediante il quale si compie questa relazione, il “modo” (Weise) e l’“oggetto” (Was). La determinazione dell’essere umano come animale “linguistico” giunge a fornire risposta al tipo di rapporto con il mondo che si sperimenta nella tecnica acquisitiva e nello specifico nella conoscenza. Nel caso dell’esistenza sofistica è innegabile che coloro “con cui” si commercia sono umani caratterizzati dalla possibilità di mediare la loro relazione all’essente con il linguaggio e “con” i quali si ha in-comune un mondo (Mitwelt). Il modo e l’oggetto di questa relazione interumana non può non essere il logos stesso, che è strumento di cui il sofista si serve per divulgare logoi. Da questa multiforme struttura, comune ad ogni rapporto all’essente, sia esso esperito come mondo-ambiente o come mondo-comune, Platone tenta di individuare il condiviso fondamento identitario che raccoglie in uno questa varietà. Il “punto focale” della tecnica sofistica è l’esibizione di una «impossibilità ontologica» ovvero della presenza di questa impossibilità, «l’essere-presente del non-essente». C’è dunque un rinvio che, per il tramite dell’esperienza intuitiva di questa impossibilità, rimanda ad una impossibilità suprema, l’esistenza del non-essere. Il sofista mostra la percezione comune del non-essere nel presentarsi come capace di una conoscenza universale (pánta æpístasqai)56. Ciò che fa difetto nella sua presunzione non è tanto la struttura effettuativa del sapere, il suo essere mai possesso certo ma sempre ricerca e slancio, quanto la determinazione della “totalità” di cui si presume una conoscenza. Il leghein, come pratica concretizzazione del senso umano della verità, si trova collocato naturaliter nell’ambito di una specifica attitudine tecnica che non produce ma acquisisce un dato preesistente. Il sofista produce un doppio capovolgimento: il primo relativo all’essenza del logos, il secondo a quella del produrre. Ridurre il parlare, nonché l’apprensione dell’ente che viene incontro nel discorso, a produzione significa snaturare il senso dell’ousia con cui il produrre è in relazione, e pervertire il più mansueto lasciar essere le cose del discorso acquisitivo per aprire la strada ad un ragionamento discorsivo che pone e si im-pone sull’esistente. Nella distinzione platonica del doppio eidos della tecnica si trova dunque una diversa soluzione per l’interpretazione della relazione originaria dell’umano al mondo e una duplice possibilità per il logos, in quanto appropriazione e traspropriazione dell’essente 56

Parafrasi di Heidegger, cfr. Plat. Soph. 233d10.

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nella coscienza o in altre forme di rappresentazione della soggettività, ciò nonostante vincolante alla concretezza dell’esistere degli “oggetti” di scienza, oppure nel delirio assoluto di un cicaleccio privo di ogni radicamento nella verità dell’essere. Nella produzione linguistica non è esibita più la forma o la radice ontologica (l’eidos) delle cose, ma un’immagine (edwlon), o più precisamente, in una più raffinata prospettiva categoriale, l’imitazione di ciò che già in sé appare dotato di visibilità e apparenza. Nella tecnica illusionistica del sofista, che Platone qualifica come un «fingere che ogni cosa appaia in questo modo» (poieîn pánta dokeîn)57, si verifica il più radicale sovvertimento della verità, la predicazione del non-essere. Sia la tecnica sia il sofista sono in conclusione i prodotti di un’ontologia dell’immediato che hanno lo scopo di esibire quella che Heidegger definisce la “fatticità del mÕ 3n”, la sua presenza concreta ed effettiva secondo un’esperienza originaria del mondo58. Tutto ciò che relativamente alla tecnica e alla specificazione dell’esistenza sofistica in quanto “tecnica” è assunto come dato indiscusso, in primo luogo la determinazione del “fenomeno fondamentale” della tecnica, che è la “capacità di o attitudine a”, e quello del sofista, che fa di lui un “tecnico”, dotato di un certo sapere e pertanto non idiōtēs, è ricavato dal «piano dell’intuizione», vale a dire dalla condivisione di un percorso di ricerca che ha la propria evidenza primaria, il primo “universale concreto”, nella condivisione del medesimo mondo.

3. Platone, Sofista, 265b8 e Aristotele, Metafisica, Z,7. La razionalità logico-eidetica della creazione e la ripetizione umana degli eidōla Giunto in prossimità dell’essenza del sofista, precisamente quando si è raggiunta la definizione di “produttore di immagini”, il dialogo platonico svolta in direzione della determinazione ontologica del fenomeno “immagine”, avendo già definito la tecnica sulla base delle intuizioni del senso comune e limitato questa ricerca alla quotidianità che è l’ambito nel quale la tecnica, in quanto sapere, trova la sola possibilità di effettuazione. Non ancora pago del risultato che ha stabilito nella produzio-

57 58

Parafrasi di Heidegger, cfr. Plat. Soph. 234c6. Platon: Sophistes, § 58, pp. 384-405.

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ne di immagini la più prossima essenza del sofista, lo Straniero esorta a distinguere ulteriormente tra la capacità di rappresentare apparenze e quella di creare parvenze, ovvero imitare le immagini con le quali le cose si presentano o una particolare forma di figuratività, propria delle ombre, dei riflessi degli specchi, dei sogni, che sono esse stesse illusioni e veicolo di inganno. Le immagini delle cose reali, che non sono esse stesse reali, non corrispondono tuttavia soltanto alla riproduzione ad un altro livello di rappresentatività (la pittura rispetto al reale) ma anche, come è costretto ad ammettere lo stesso Platone, a ciò che si accompagna, segue come un destino la cosa nel suo apparire nel mondo. La distinzione tra due livelli dell’essere-immagine sembra insinuare una labile liberazione dell’apparenza, potenzialmente insidiosa quanto al giudizio di verità sulla sua essenza ma più innocua, perché memoria e riflesso mondano della forma primaria, figura non rappresentativa (eôdoj), rispetto invece alla nociva invenzione di immagini sradicate da ogni corrispondenza con il vero. La divisione interna alla poietica ha di mira sia la determinazione delle cose con cui il sofista commercia sia la sua pseudo-scienza, ripetizione ed imitazione di un fare qualificato come divino. L’imitazione è il secondo livello falsificato di una più generale produzione propria di un «dio fabbricatore» ed altro non esprime se non un’interna finalità della natura, un «logos» che si approssima, nella razionalità del suo movimento, ad una «scienza divina che procede dalla divinità»59. La produzione umana nasce come riflesso della creazione oltreumana e può essere fare concreto quando si industria a produrre oggetti reali sul fondamento delle cose di natura, oppure può ripetere l’aspetto già proprio della prima produzione, quello relativo al poter essere causa dell’esistenza delle immagini, ed essere a sua volta ripetitrice di inganni. Tecnica poietica è definita la «possibilità» (dúnamij, Möglichkeit) di essere-responsabile (aêtía) «del venire all’essere (gígnesqai) di ciò che prima non era»60. Questo passo andrebbe posto in relazione all’analisi del divenire della Metafisica, confronto che manca nel commento heideggeriano sebbene ci sia una lunga interpretazione del passo aristotelico. Nella determinazione degli enti sottoposti a generazione, siano essi prodotti dalla natura o dalla tecnica umana, la «possibilità di essere e di non-essere» è definita da Aristotele come materia (0lh). Quest’ultima, da interpretare – sostiene Heidegger – «in senso ontolo59 60

Plat. Soph. 265c1 sgg. Ivi, 265b8 sgg.

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gico», costituisce il «fondo» (Grund), «ciò a partire da cui» (das Woraus) qualcosa può esistere, il soggiacente fondamento (øpò tínoj, meglio definito come øpokeímenon) delle successive produzioni umane che si servono degli enti di natura come di una preesistente e garantita realtà da plasmare, già disponibile per ogni produrre e non prodotta, immanente al divenire e diveniente essa stessa in una seconda generazione che può principiare ogni volta sul fondamento di quella naturale. Sotto la nozione di poiēsis Aristotele comprende le produzioni che hanno origine da una tecnica, da una capacità o dal pensiero. Sono così compresi, sotto la medesima categoria, la tecnica vera e propria e una forma di ragionamento che può agire sul movimento e provocarlo. Il dato certamente più rilevante dell’intera meditazione è il ricorso al termine eidos, che costituisce «l’essere (eônai) e la prima presenza concettuale (tÕn prÍthn o÷sían)» delle cose, così come esse si mostrano nella mente dell’artefice. Ricorrendo all’esempio del medico che ha la facoltà di ripristinare uno stato di salute da una condizione di privazione della stessa, l’eidos costituisce il termine ultimo, la forma perfetta di un ragionamento ben condotto, a cui il pensiero stesso si arresta e da cui la produzione o il movimento che generano la salute possono aver inizio. Condizione immateriale della cosa, il suo primo apparire anteriore al prender corpo nella materia, l’eidos è sempre presupposto perché anticipato nella riflessione. Sulla determinazione del divenire agiscono dunque due elementi: il pensiero, che giunge alla forma, e la produzione, che trae origine dal termine ultimo cui è pervenuto il primo e ha l’obiettivo di realizzare nel concreto la sostanza concettuale ultima del ragionamento.

4. A priori non tecnici: eidos e physis Il technazein corrisponde al momento teorico della tecnica in cui sono indicati i presupposti concettuali e gli obiettivi finali del poiein. Sia la teoria sia la tecnica in senso proprio necessitano a loro volta di un’anteriorità che non è in loro potere produrre e che costituisce il più radicale sostrato a garanzia di ogni ulteriore divenire. La produzione esige dunque un a priori non tecnico: il soggiacere della materia, che in generale viene a corrispondere con la preesistenza della natura, e la visione, o pre-visione, dell’eidos61. Trova ulteriore conferma l’ipotesi 61

Arist. Met. Z, 7, 1032a12 sgg.

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della tecnica come “primo giudizio” di conoscenza e di previsione, che sarà chiarita attraverso la considerazione per la quale il pensare della tecnica si conclude in una visione anticipata di ciò che è in sé “visione”, apparenza, eidos. Heidegger definisce la riflessione anteriore alla produzione una «deliberazione» (Überlegung) che ha il compito di disvelare, deve cioè «lasciar vedere» (Sehenlassen, Þpofaínesqai) ciò che deve essere prodotto. Il pensiero che precede la fabbricazione è un «disvelare avveduto» (umsichtiges Aufdecken), una prudenza tecnica che mostra l’eidos. Meglio sarebbe indicare la specificità di questo principio conoscitivo a fondamento della produzione con «eôdoj proairetón», oggetto specifico di una scelta teoretica62. Il primo dato rilevante, ma anche la ragione per la quale phronēsis e technē sono da Aristotele individuate come manifestazioni distinte di un medesimo deliberare-calcolare, è la caratterizzazione della tecnica come intelligenza pratico-poietica. Pratica nella misura in cui ne va del senso dell’esistenza coinvolta nella produzione, e poietica giacché il successo del processo dipende dalla corrispondenza (entsprechen) tra il “fatto” (Gemachtsein) e l’“aspetto” (Aussehen) attraverso il quale per la prima volta la cosa appare all’artefice. L’anticipazione (Vorwegnahme) o pre-visione dell’eidos deve corrispondere al suo essere presentificato: solo in questo modo, stabilita la corrispondenza tra la verità e la correttezza, il significato della tecnica potrà considerarsi realmente operante. La presentificazione (Vergegenwärtigung) indica il portare per la prima volta al dispiegamento l’apparenza della cosa. Heidegger insiste particolarmente sulla radice visiva di tutte queste attività che giustifica innanzitutto l’interpretazione della tecnica come forma particolare di “avvedutezza”. Essere avveduti significa essere previdenti, vale a dire essere in grado di vedere in anticipo l’azione nella sua completezza, sia essa un’azione morale, un fare o un fabbricare. Garanzia della correttezza di una simile avvedutezza che, sul piano dell’ethos, corrisponde alla scelta dei mezzi utili al buon esito dell’azione pensata e diretta al bene, è la previsione dell’eidos, dell’“aspetto” o “evidenza”, primo apparire dell’essere immateriale della cosa, privo della materia concreta (e non del fondamento ontologico che è responsabile del suo poter essere). «L’eôdoj costituisce dunque l’ÞrcÔ; da esso principia la kínhsij. Questa kínhsij è anzitutto quella della 62 Vom Wesen und Begriff der fúsij, p. 251; tr. it. p. 206. è da tener in conto la traslazione che Heidegger compie degli aristotelici concetti di proaíresij e di boulÔ dall’ambito pratico a quello poietico.

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nóhsij, della deliberazione, e poi della poíhsij, quella dell’agire che deriva dalla deliberazione». Previdente e avveduta è dunque la tecnica perché necessita di un deliberare. Una simile scelta si concentra sulla corrispondenza tra il fare, l’esser-fatto e il modello ideale anticipatamente visto. Un eidos così concepito rappresenta, secondo Heidegger, l’equivalente dell’idea platonica, dell’archetipo, la forma perfetta cui il risultato materiale deve adeguarsi. Una conferma ulteriore dovrebbe scaturire da una più completa disamina dei caratteri ontologici della previsione che ne fanno l’equivalente sia del principio (ÞrcÔ) sia del “termine ultimo” (1scaton) e dunque del téloj della riflessione che si conclude con la sua visione. Per la «previdenza tecnica» l’eidos costituisce l’estremo del pensiero ma al tempo stesso l’elemento primo da cui scaturisce la produzione vera e propria. La caratteristica di questo pensiero avveduto è quella però di arrestarsi all’operazione della visione del modello che sarà a sua volta cominciamento del «portare ad essere» (Ins-Sein-Bringen) e non può passare ad un successivo passo teoretico. Nel loro fondarsi l’una sull’altra pensiero e produzione «coappartengono» (gehören zusammen), sono in una «connessione» (Zusammenhang) che riproduce l’intero ciclo di motilità che riguarda il particolare rapporto all’essente esperito nella tecnica. Assumere quest’ultima nell’ambito dei modi del conoscere e dunque della verità porta con sé la conseguenza che, se si assume la corrispondenza dell’eidos di cui parla Aristotele nel divenire con l’idea platonica, la tecnica costituisce il primo livello nel quale si rende «innanzitutto visibile» l’autentico essere, ossia si tratta di individuare in essa il primo grado, nonché il terreno fondamentale, per la conoscenza dell’idea. La comprensione dell’essente che scaturisce da una simile interpretazione è l’assunzione del suo «essere-presente» (Vorhandensein) sulla base del divenire e dell’essere-fabbricato. La totalità degli essenti, non esclusa la physis, può essere rapportata a questi modi d’essere poiché, anche qui, sostiene Heidegger, sotto l’influenza della filosofia platonica, la natura è pensata come un «portarsi a partire da sé», vale a dire senza dislocazione del principio e del fine fuori di se stessa, «alla forma (Gestalt) e all’aspetto (Aussehen)», ovvero il suo generarsi appare risolto in un corrispondere, attraverso il divenire autointenzionato, ad un modello ideale-teoretico cui il reale deve essere subordinato63. 63 Platon: Sophistes, § 7, p. 42-46. è opportuno insistere sulla determinazione più aristotelica che platonica (si prenda come esempio la distinzione tra arte combinatoria e scienza dialettica) della dimensione tecnica del pensare. La pro-

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Non si perviene all’essenza della physis abituati come si è a rappresentarla come un disegno su larga scala della produzione tecnica, se non si coglie l’elemento fondamentale del suo darsi come “origine” irriducibile di una specie determinata della motilità dell’essere che è nascitaghenesis. La trasposizione latina in natura agisce, è vero, sulla generalità assoluta del concetto contrapposto a cultura o storia; eppure proprio quella scrittura si fa memoria della «parola che sta per essere»64 e di una specie determinata della naturalità che è “venire alla presenza”. Il “fisico” ha la sua propria essenza nel nasci, nel ghignesthai, che nomina non soltanto l’astratto essere-in-divenire, ma il divenire nella forma perfetta della genesi incausata, lo schiudersi e il sorgere da sé. La “natura” umana che si specifica nella storia e nella cultura è soltanto una rappresentazione derivata del vero soggetto soggiacente (lo øpokeímenon) che è l’essere-fisico, privo di fondamento, sulla cui spontanea entrata nell’apparenza, nella stabilità dell’essente, non c’è calcolo razionale né progetti di perfezionamento zoo- e bio-logico che possa agire. Dire che la physis sia, come fa Aristotele nella Fisica, ÞrcÕ kinÔsewj, implica in primo luogo la dismissione dei concetti logico-scientifici del movimento come mutamento di luogo nello spazio. Si tende – nota Heidegger – «a cadere nell’opinione che l’ente determinato dalla fúsij [l’ente “fisico”, il Gewächse] sia ciò che si fa da sé»65. L’inizio è avvio e disposizione, ovvero «avvio che dispone» e «disposizione che avvia» 66, un portare alla presenza che non coincide però con il movimento tecnico del far essere ciò che prima non era. Lo schiudersi naturale, in quanto addivenire alla presenza, non è il mero darsi a vedere dell’opera compiuta ma un più originario portarsi nella svelatezza. Già Platone in verità distingueva pedeutica aristotelica, presentata come chiave d’accesso al Sofista, rende ragione della connotazione “aristotelica” del platonismo secondo la lettura heideggeriana. Insistendo proprio sulla determinazione dell’eôdoj secondo Aristotele e sulla trasposizione che ne fa Heidegger nella filosofia di Platone, Stanley Rosen ha così argomentato la fusione tra i due sistemi e la connotazione metafisica del platonismo sulla base di motivi propri dell’aristotelismo (Du platonisme comme aristotélisme, in Contre Platon: Le platonisme renversé, cit., vol. II, pp. 47-76). 64 Vom Wesen und Begriff der fúsij, p. 240; tr. it. p. 194. Cfr. J.-F. Mattéi, «L’étoile et le sillon: L’interprétation heideggerienne de l’être et de la nature chez Platon et Aristote», in Heidegger et l’idée de la phénoménologie, Dordrecht-Boston-London, 1988, pp. 43-66. 65 Vom Wesen und Begriff der fúsij, p. 255; tr. it. p. 209. 66 Ivi, p. 247; tr. it. p. 201.

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tra il venire ad essere nella duplice forma del poieîn-poieîsqai e del gígnesqai, utilizzando quest’ultimo fondamentale verbo per il divenire naturale. Pensare la genesi non equivale a pensarla nella forma della provenienza causale, come un provenire da, perché in questo caso l’apprensione del divenire è fondata sul concetto predeterminato di quiete (la “pace” del cristallizzarsi dei concetti di causa e principio). La nascita è uno schiudersi senza fondamento né causa né principio. Da umano nasce umano ma da letto non nasce letto: quest’ultimo è l’installarsi nella forma di una potenzialità che opera nella materia (il legno). La riduzione della natura ad un «artefatto che si fa da sé», pensarla dunque come autoproduzione, avviene nel quadro di una rappresentazione metafisica che «concepisce la “natura” come una “tecnica”». Una cosa è la poiēsis, altra è il “crescere” che è «ritornare in sé per s-chiudersi da sé». I viventi non si “fanno”, nel senso che non si produce un simile da simile, perché dal nascere, che conduce alla sussistenza ontologica, non deriva un prodotto conforme ad un paradigma ideale ma l’essenza stessa di ciò da cui si nasce. Dalla nascita umana si porta a stare nell’apparenza ciò che è umano nella sua essenza (l’essere natale e mortale), non c’è l’installazione materiale di una forma pensata, quanto piuttosto una «de-formazione», da leggersi come assoluta mancanza di conformità tra il fatto e il pensato. Se la eugenetica è in definitiva perfezione della tecnica perché il prodotto risulta adeguato e corrispondente all’immagine ideale, nessuna conformità può rintracciarsi nella nascita: l’eidos e la morphē nascono col nato, che è sempre individuo e perciò altro rispetto al proprio inizio, eppure anche un ritorno a quell’inizio nel senso che ne dispiega l’essenza autentica: «lo schiudersi che si dispiega è, in sé, un ritornare in sé»67. Il letto è prodotto sul fondamento di una perizia conoscitiva ma nessun vivente nasce da discipline quali la zoologia e la biologia. Non «violare il carattere sorprendente della fúsij» significa anche, in una prospettiva “oikologica”, attinente alla dimora sulla terra delle specie viventi, preservare la vita perché non divenga «un artefatto producibile “tecnicamente”»68. Ivi, pp. 288-290 e 254; tr. it. pp. 242-244 e 209. Ivi, pp. 292 e 257; tr. it. pp. 246 e 211. La clonazione ha pur sempre bisogno del fondamento “fisico” organico: il fisico senza fisica e la macchina vivente sono per ora le frontiere ancora lontane di un visionario e metafisico scientismo post-umano. Sulla “oikologia” rimando a E. Mazzarella, Tecnica e metafisica, cit., in part. pp. 291 sgg. 67 68

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CAPITOLO QUARTO La tecnica moderna 1. L’impianto e la risorsa a compimento della logica metafisica La technē può essere riconosciuta come il vero paradigma attorno al quale si raccoglie il senso fondamentale del Sofista platonico. Il significato di questa affermazione trova conforto nell’indicazione iniziale quando, sotto l’apparente e quasi ludica determinazione concettuale di “sofista”, si insinua invece il movimento tecnico stesso che informa sia il pensiero sia la consistenza dell’oggetto indagato. Più facile da determinare quest’ultimo, essendo il sofista un tecnico che porta ad essere parvenze linguistiche, meno appariscente la conformazione tecnica del pensare che va fatta risalire innanzitutto all’indicazione aristotelica del “primo giudizio” come sincresi di universale e particolare già eccedente l’esperienza quotidiana. Il metodo dicotomico ripete le sottigliezze esteriori dell’argomentazione eristica; nessun altro impiego giustificherebbe il ricorso platonico al genere delle capziosità di cui si fregia la preda di questa lunga indagine. Diverso è invece l’aspetto che assume il meditare quando entra in gioco la dialettica che, sebbene esposta mediante il paragone con l’“arte” del grammatico, è però “scienza”, non mera perizia argomentativa, come sosterrà in seguito Aristotele, ma il procedere stesso del pensiero che, abbandonato il campo empirico, si adegua al piano trascendentale del mutato oggetto del pensiero69. La lettura heideggeriana del significato platonico e aristotelico del pensare si trova dinanzi il carattere teoretico della tecnica che, nella successiva meditazione, determinerà un’implosione stessa del pensiero sulla sua «interpretazione “tecnica”»70. L’interpretazione tecnica del pensare, 69 70

Plat. Soph. 253a sgg. «Brief über den Humanismus», in Wegmarken, p. 6; tr. it. «Lettera sul-

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la sua “origine tecnica” nella filosofia occidentale, è principalmente una questione di logica, a partire dalla volontà di superamento del logicismo e di altre tecniche di pensiero. Il minuzioso commento svolto a Marburgo del VI libro dell’Etica nicomachea segue, passo dopo passo, gli argomenti aristotelici nel quadro di una contesa tra facoltà che dovrà risolversi nell’individuazione di una eccellenza teoretica, che sintetizzi la perfetta determinazione di ciascuna delle due parti nelle quali Aristotele divide l’anima, quella “scientifica” e quella “calcolante-deliberativa o risolutiva”. La tecnica si trova a condividere con la phronēsis la medesima regione dell’essente e la struttura finalisticamente orientata della sua effettuazione. Lo slittamento tra i due ambiti, la poiēsis e la praxis, che in Aristotele si trovano radicalmente differenziati, a partire dal tipo di pensiero in atto (diánoia poihtikÔ e diánoia praktikÔ), fino all’individuazione del principio e dello scopo, che nella tecnica sono eterotopi, in Heidegger è invece costantemente ripetuto e intenzionalmente ricercato. Questa indistinzione si rivela funzionale alla messa in evidenza del carattere “pratico” di tutte le attività, comprese quelle puramente scientifiche che non prevedono un momento deliberativo, e che, appartenendo al Dasein, rappresentano in ogni caso la manifestazione di una preoccupazione di carattere insieme teoretico e pratico per la comprensione del senso dell’essere, proprio e del mondo, una “resistenza”, così è qualificata da Heidegger, quando non nei termini di una «lotta», contro il ricoprimento, che può trascinare nell’inganno, nell’illusione e nell’errore. La vita umana trova perfetta realizzazione nella congiunzione di azione e pensiero, “prassi e verità”. In questa prospettiva l’esistenza del sofista corrisponde alla rappresentazione dell’Esserci in cui la non-verità ha il sopravvento sul disvelamento e agisce su un nascondimento originario provocando il più insidioso, perché di proposito perseguito, rimaner nascosto del senso dell’essere. Così l’attitudine primaria al discorso (Rede), che funge da veicolo per l’effettuazione della verità, diventa «chiacchiera» (Gerede). Perfino la scienza e la sapienza, forme di conoscenza disincarnate, costituiscono un «compito» per chi le pratica e ha di mira non il senso di un’oggettività sterile quanto la partecipata comprensione (Sachlichkeit) alla “cosa” del pensiero. L’esistenza umana, che determina con il proprio essere l’essenza della verità, rende così partecipi della sua costituzione ontologica, ad l’umanismo», p. 268 (le pagine del testo tedesco si riferiscono all’estratto dell’editore Klostermann). Il testo sarà in seguito citato con il titolo tedesco.

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esempio il venir caratterizzato dal tempo e dal movimento, anche i più astratti contenuti di conoscenza. I concetti di ÞÈdion, aêÍn e Þeí, non potrebbero essere colti scientificamente senza il tramite di una relazione alla temporalità nella quale si trova immersa l’esistenza coinvolta nella loro apprensione, la quale può, a sua volta, rivolgersi all’eterno sempre assumendo come riferimento il contrasto al tempo71. L’efficacia conoscitiva della tecnica è a fondamento della moderna rappresentazione del pensare sulla base dello stellen e del vor-stellen. Sebbene l’essenza della tecnica, in quanto durare e concedere, debba mantenersi immutata e valere per la tecnica antica come per quella moderna, l’intrusione del tempo nel concetto e il punto di vista della soggettività, che modula la validità dei concetti stessi, determinano una radicale distinzione ontologica per cui, rimanendo costante la determinazione platonico-aristotelica della tecnica come modo del disvelamento, nella modernità l’essenza della tecnica svolta in direzione del superamento dell’essenza poietica. In questa prospettiva la definizione heideggeriana secondo la quale “l’essenza della tecnica non è alcunché di tecnico” deve essere interpretata in modo duplice: l’essenza della tecnica non può essere compresa a partire dalla rappresentazione comune del prodotto tecnico per eccellenza, la macchina; l’essenza della tecnica moderna non condivide ormai più nulla dell’antica poiēsis che in fondo era anche il quieto coltivare del contadino che affidava alla terra la custodia del raccolto. Per quanto sia condivisibile l’idea che la posizione di Heidegger sulla tecnica ceda ben poco al «luddismo» o ad altro «scappricciamento irrazionalistico»72, quando ci si trova dinanzi a simili giudizi che distinguono il lavoro nei campi dall’industria meccanizzata dell’agricoltura la quale è, nell’essenza, identica alla «fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio», è difficile non cogliere elementi di radicale antimodernità nel complessivo discorso heideggeriano73. è probabile che esista un nucleo concettuale comune (das Selbe) tra l’impiego della tecnica nell’agricoltura e i campi di sterminio, una “identità” che risiede nell’aver snaturato l’essenza della produzione, che è condurre dalla latenza all’apertura della verità, in vista dello sfruttamento della risorsa, sia essa umana o naturale, secondo un ciclo che va 71 72 73

Platon: Sophistes, § 6, p. 33 e 39. M. Ruggenini, L’essenza della tecnica e il nichilismo, cit., p. 261. Das Ge-stell, p. 27; tr. it. pp. 49-50.

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dal porre, dalla riduzione dell’essente ad oggettità, fino all’ordinare e costringere a presentarsi (bestellen), al provocare (herausfordern). Mediante la formulazione del problema teoretico della tecnica Heidegger vuole rifuggire da ogni proposito di raffigurare la “situazione spirituale del tempo”, come farebbero, a suo dire, le rappresentazioni psicologicistiche, organicistiche, storicistiche e idealistiche della storia comunque nominata nell’accadere contemporaneo della tecnica. La sinistra identità tra l’agricoltura moderna e lo sterminio di massa, che sarà prudentemente espunta dal testo monacense, misconosce tuttavia la distinzione tra il fabbricare, che è ancora opera di creazione, e l’annientamento totale del dare la morte per “purificare” e che va ben oltre la “fabbricazione del cadavere”. La “ricaduta ontica dell’ontologia” anima purtroppo anche una visione alquanto campestre e provinciale della tecnica stessa, condannata in nome di una romantica nostalgia per il piccolo mondo antico dell’«essere-in-baita» contrapposto al più mondano e cittadino essere-nel-mondo74. Non si può non tener conto di simili congetture che, seppur non completamente irrazionalistiche, sono nondimeno limitate ad una visione monolitica della modernità, incapace di distinguere le risorse intellettuali di quest’ultima dai movimenti della storia che indietreggiano proprio dinanzi alle moderne conquiste di verità e libertà. «Il disvelamento che governa la tecnica moderna […] non si dispiega in un pro-durre nel senso della poíhsij. Il disvelamento che vige nella tecnica moderna è una pro-vocazione (Herausfordern) la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta (herausgefördert) e accumulata»75. Nella modernità giunge a compimento quanto nella tecnica antica si trovava in uno stato embrionale, vale a dire l’attitudine tetica del pensare poietico e il primato della qésij che costituiscono il fondamento a partire dal quale l’essenza della tecnica in quanto im-pianto (Ge-stell), dopo una lunga incubazione, si è disvelata alfine attraverso l’imposizione universale della mentalità scientifica. La perversione contenuta nell’estensione del calcolo logico, la tecno-logia, ha bisogno che si venga in chiaro per prima cosa sulle potenzialità teoretiche della tecnica che solo secondariamente si riverberano su quello pratico. Per questo si rende necessaria una «genealogia essenziale 74 «Warum bleiben wir in der Provinz?» (1933), tr. it. Perché restiamo in provincia?, in «Tellus», 8 (1992), p. 3. 75 Die Frage nach der Technik, p. 18; tr. it. p. 11.

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dell’impianto» che dovrebbe giustificare “l’origine tecnica del pensare”, propria non soltanto del pensiero greco-europeo-occidentale, se è vero che il dominio tecnico e con esso il «destino dell’essere occidentaleeuropeo» ha raggiunto un’estensione planetaria76. Il modo del disvelamento della tecnica moderna è la pro-vocazione e non più dunque la produzione. Il pro-vocare deve assicurarsi la stabilità dell’essente, di ciò che è presente: stabile (beständig) è il Bestand, questo «termine-chiave» che indica «il modo in cui è presente (anwest) tutto ciò che ha rapporto col disvelamento pro-vocante»77, e che non indica solo la giacenza, la scorta, la riserva oppure la risorsa o il fondo, ma appunto la durata e la stabilità dell’essente che di volta in volta è assicurato nella sua tenuta attraverso un’azione disvelante, che conduce all’aperto dalla latenza per mezzo di un’attività estrattiva possibile grazie alla trasformazione della terra in scorta infinita di risorse energetiche. Il termine Ge-stell, che nomina l’essenza della tecnica moderna, è un nome collettivo che indica la riunione dei significati, un «accumulo», un universale che «nomina il da sé raccolto universale ordinare la completa ordinabilità di ciò che è presente nella sua interezza»78. Ge-stell raccoglie i molteplici modi del porre e costituisce un sostegno, come uno scaffale, oppure un telaio, un’armatura, uno scheletro o una montatura per occhiali. Il lato più tenebroso dell’im-pianto è costituito dall’impiego che ha oggi in discipline mediche, che praticano impianti di cellule, di organi, infine l’impianto della vita, quando ad esempio si impiantano embrioni o ovuli nel corpo della donna, o semplicemente quando si nomina il processo di fecondazione estendendo così anche alla naturalità della nascita forme di comprensione tecnica. La natura è, coerentemente ai nuovi scenari bio-tecnologici, la «risorsa fondamentale» (Grundbestand). Nel processo di riduzione dell’essente a risorsa si è prodotto uno spezzettamento del concetto di intero per cui più nulla, umano compreso, sarà più parte di una totalità, ma soltanto isolato pezzo che, in quanto tale, è «pezzo di riserva», uniforme e sostituibile. La stessa natura, lo testimoniano le avanzate frontiere delle impiantologie e della rigenerazione in vitro di parti organiche del corpo, si è trasformata in «pezzo di riserva fondamentale» (Grundbestandstück)79. 76 77 78 79

«Die Gefahr», in Bremer und Freiburger Vorträge, p. 65; tr. it. p. 93. Die Frage nach der Technik, p. 20; tr. it. p. 12 (lievemente modificata). Das Ge-stell, p. 32; tr. it. p. 55. Ivi, pp. 36 e 43; tr. it. pp. 59 e 67. L’impianto è l’incorporazione dell’al-

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2. La svolta nella tecnica. Destino dell’essere e dell’umano nell’essere tecno-logico Nella rappresentazione della tecnica verso la specificazione ontologica dell’essenza dell’im-pianto che è pericolo si produce un salto. Pericolo è l’essere stesso nella fase in cui svolta dal disvelamento verso la latenza. Pericoloso è il destino dell’essere, l’intrinseca iscrizione nella sua storia dell’erranza, che accade nelle epoche del suo avvenire caratterizzate non più dalla verità ma dalla dimenticanza. Nella comprensione ontologica della questione della tecnica, dove è asserita la medesimezza di essere e tecnica, medesimezza che non significa mai uguaglianza né identità, ma «il rapporto della differenza» nell’esibizione di un «altro destino» nascosto nel velamento e nell’oblio, emerge con forza la relazione che lega l’umano alla tecnica e per suo tramite all’essere80. L’umano è certamente insidiato dal destino dell’essere. Non a caso Heidegger descrive la condizione umana in termini di necessità e penuria; celebre è l’immagine hölderliniana nella povertà, conseguenza dell’essere «insediati nel relativo»81, destino che assegna alla morte, da cui prende il nome il mortale, l’altro uomo che vive nell’eco dell’essere, il riparo dove la sua essenza è nascosta e salvaguardata. Heidegger si dichiara contrario fin da principio alle interpretazioni antropologiche che fingono una padronanza dell’uomo sull’essere, nell’ipotesi in cui la tecnica sia un mero prodotto della sua intelligenza. Sarebbe oltremodo cieco ergersi a signore della terra se non ci si avvede che anche gli umani sono ridotti a risorsa, non meno della natura, anzi forse proprio perché “pezzi” della natura. Gli umani sono impiegati nella pro-vocazione che, tro nel sé, una alterazione che mette in discussione l’identità biologicamente costruita del sistema immunitario. Dal carattere tetico della tecnica si passa alla pro-tesi, la non-vita che permette la continuazione e la preservazione della vita stessa, l’impianto della estraneità nella interiorità (cfr. J.-L. Nancy, L’intruso, cit.). è singolare notare che, nella prospettiva biologica, la gravidanza sia esperibile come una dialettica immunitaria della madre contro il figlio e del figlio contro la madre. Il feto provoca difatti un’alterazione del sistema immunitario della madre; la sua sopravvivenza è permessa dallo sviluppo da parte della donna di determinati anticorpi. Cfr. R. Esposito, Immunitas, Torino, 2002, in part. il capitolo «L’impianto», pp. 205 sgg.. 80 «Die Gefahr» e «Die Kehre», in Bremer und Freiburger Vorträge, pp. 52 e 68; tr. it. pp. 78 e 98. 81 Grundsätze des Denkens, p. 175; tr. it. p. 218.

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dice Heidegger, «concerne la natura e la storia», perché nessuno e niente è escluso dalla stabilità della risorsa (anche le risorse umane nominano questa impiegabilità dell’umano), perché il bestellen, l’ordinare, l’obbligo a presentarsi, ad avanzare nella svelatezza fuori della latenza, «è in sé universale», «mira a una sola cosa, versus unum, cioè a porre come risorsa l’Uno Intero (das Eine Ganze) di ciò che è presente»82. L’umano è «funzionario di un ordinare»83, a suo modo “pezzo di riserva”. Se però esso ha la possibilità di non poter essere mai pura risorsa, ciò dipende dalla relazione che, per il tramite della tecnica, intrattiene con l’essere e la propria essenza. «La minaccia per l’uomo non viene anzitutto dalle macchine e dagli apparati tecnici, che possono anche avere effetti mortali. La minaccia vera ha già raggiunto l’uomo nella sua essenza. Il dominio dell’im-pianto minaccia fondando la possibilità che all’uomo possa essere negato di raccogliersi ritornando in un disvelamento più originario e di esperire così l’appello di una verità più principiale»84. Il destino dell’umano nella tecnica è il destino umano nell’essere. Essendo il pericolo la necessità e il bisogno dell’essere, la sua esposizione alla latenza, occorre appellarsi, nel senso di porsi in ascolto al risuonare di un appello che si dirige a nessun altro essente se non all’umano, il quale, nella singolare condizione di «ascoltante», trova la sua autentica «dignità»85. Il mutamento di destino non può compiersi «senza la cooperazione dell’uomo» e ciò al di fuori di qualunque calcolo di natura scientifica e metafisica, così come al di fuori di ogni determinazione volontaristica verso il superamento dello sviamento tecnico dell’essere86. L’umano che coopera all’avvento dell’altro nascosto destino dell’essere è anche il testimone, colui che, mediante il proprio esistere, dà testimonianza di ciò che è. Esso è investito della responsabilità di una doppia testimonianza: ontologica, in quanto essente, ontica in quanto cooperante. «L’essere non è presente per l’uomo occasionalmente o eccezionalmente: esso, invece, è essenzialmente e durevolmente solo nella misura in cui ri-guarda (an-geht) l’uomo. Infatti soltanto l’uomo, aperto all’essere, lo lascia advenire (ankommen) in quanto essere essenzialmente presente. L’essere essenzialmente presente ha bisogno dell’aperto di 82 83 84 85 86

Das Ge-stell, p. 32; tr. it. p. 54. Ivi, p. 37; tr. it. p. 60. Die Frage nach der Technik, p. 32; tr. it. p. 21 (lievemente modificata). Ivi, pp. 28 e 36; tr. it. pp. 19 e 24. Die Kehre, p. 69; tr. it. p. 99.

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una radura ed è perciò affidato (übereignet) all’essere umano»87. Viene in questo modo a disegnarsi un’etica del margine, che è l’unica etica possibile all’interno del destino dell’essere. Un’etica che trasforma la domanda “che fare?” in “come si deve pensare?”, come cioè corrispondere all’appello o alla chiamata del libero lampeggiare – aprirsi nella radura – dell’essere sulla cui determinazione non si ha alcun potere. «C’è bisogno dell’uomo» perché l’essere si trova in uno stato di povertà: «La grande essenza dell’uomo riposa sul fatto che essa appartiene all’essenza dell’essere e che quest’ultimo ne ha bisogno per salvaguardare l’essenza dell’essere nella sua verità»88. Solo in questo modo può trovare autentica risposta la questione del posto dell’umano nel mondo che ha ormai superato ogni trionfo umanistico.

3. La Kehre come con-versione e la nuova logica della poiēsis-poesia Con la meditazione degli anni Cinquanta assume più chiara luce anche la “frattura” teoretica che, a partire dal 1930, qualificò, pure storicamente, la riflessione heideggeriana e che il pensatore riassunse sotto la complessa nozione di Kehre, per indicare la svolta interna alla sua posizione ontologica in una prospettiva post-esistenziale, che tuttavia dischiuse l’orizzonte per una più radicale umano-logia. Dal primato ontico-ontologico del Dasein, che potrebbe suggerire da un lato la preminenza della vita teoretica sulla sua dimensione pratica ed effettiva, e dall’altro l’assolutizzazione del “soggetto” esistenziale, l’umano, che, dopo l’esperienza di Essere e tempo, perde patenti di autenticità, è via via collocato al margine del destino di velamento-disvelamento dell’essere e qualificato come cooperante al compimento sussultorio di questa storia, un «pastore»89 che aspetta placido la transumanza della greggia e simboleggia la calma attesa umana dell’Evento. Il pastore heideggeriano, che attende un disegno cosmico e in esso non prende parte se non come co-destinatario del medesimo destino, trova la sua più prossima esibizione nell’errante pastore del Canto notturno di Leopardi. Nel testo poetico si esprime con maggiore immediatezza la condizione di attenDer Satz der Identität, p. 121; tr. it. p. 156. Die Kehre, p. 70; tr. it. pp. 99-100. 89 Brief über den Humanismus, p. 23; tr. it. p. 284, e Die Kehre, p. 71; tr. it. p. 101. 87

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dente e custode, di luogotenente, del tacito segreto che avvince la storia umana e l’universo fisico, facendosi di quella riposta e tragica saggezza del nulla per certi versi messaggero. è proprio del pastore raggiungere altitudini dove più esperibile è l’incontro con il divino, cifra della assoluta estraneità agli umani e per i quali chi ha goduto del privilegio di rispondere al suo appello deve ricoprire la funzione del demiurgo, di ciò che pressoché in tutte le culture è rappresentato come un incaricato di portare a destinazione volontà oltreumane e l’esempio evidente in grado di operare una mediazione tra un’astratta potenza e la vita concreta90. L’umano delocalizzato e decentralizzato della Kehre rovescia la rivoluzione umanistica ma apre al contempo ad un altro umanesimo che, al limite del numinoso poetico e religioso, prende forma nella funzione minimale della cooperazione. Spetta all’umano non più il primato dell’animal rationale, non più dunque il primato del primate che coglie il senso dell’essere come senso del proprio modo d’essere all’interno di strutture categorial-razionali, quanto un talento sensoriale e linguisticopoetico, proprio di chi è in cammino, orientato verso l’ascolto e la visione del luminoso nel mezzo del silenzio e dell’oscurità dell’erranza terrena. L’umano è il mortale, ha nella morte il suo «scrigno del nulla», il riparo del proprio essere. Mortale è già altro dall’animale determinato in base al vivere e al cessare di vivere91. La “svolta” è con-torsione e con-versione92: un passo di danza, un Su Leopardi e la tecnica rinvio a E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano, 2005. P. Ciccarelli, op. cit., in part. pp. 227 sgg., ha posto il problema della storia nel dopo-Kehre: che ne è della storia, e di tutto ciò che le appartiene, nel destino dell’essere in cui la libertà umana (che ha il proprio dominio nella storia), cessando di essere “libertà umana” per divenire “libertà dell’essere”, diviene necessità (dunque non libertà)? Certo la storia non è più il luogo della temporalizzazione del Dasein mentre fondamentale si rivela la sua relazione con la verità (e la non-verità). La riflessione heideggeriana sulla storia successiva alla svolta deve passare attraverso la problematizzazione storica della tecnica che, si sa, è un modo del disvelamento, accadere della nonverità e perciò dell’essere. Tecnico è però anche un modo umano di quel modo superiore: mi riferisco alla capacità di far essere e dunque di entrare, attraverso questo “fare”, nella storia. 91 «Das Ding», in Bremer und Freiburger Vorträge, p. 18; tr. it. p. 36, e Brief über den Humanismus, pp. 14-15; tr. it. p. 276. 92 è opportuno chiarire che, nell’accettare questa scrittura della Kehre, non si sta convalidando alcuna delle letture cosiddette “religiose” di Heidegger e 90

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volteggio, che obbliga chi lo effettua a tornare diverso nel medesimo luogo, oppure ad essere finalmente lo Stesso a seguito di un’operazione di differenziazione. è «rinuncia all’umana ostinatezza» e accoglimento dell’«evento dello sguardo» per “corrispondere” (entsprechen) all’appello-pretesa (Anspruch) che si impone nella biunivoca corrispondenza di essere sguardo-di e sguardo-a, ossia prodotto riflesso di un guardare, che è sia un venir preso di mira sia la possibilità di esserci in quanto chiamato ad essere come venire all’apparenza, condizioni preliminari che permettono di gettare lo «sguardo in ciò che è»93. Dall’atteggiamento fisico che devia, torcendosi, dalla normalità del tragitto del pensare a partire da sé, prende corpo una conversione che è in primo luogo un’operazione logica che rovescia l’ordine dei termini del giudizio mantenendo invariata la verità della proposizione. Nella Kehre avviene nondimeno un mutamento logico che fa sì che soggetto dell’evento dell’essere sia l’essere stesso e il cooperante umano svolga opera di predicazione, così da trascinare nell’immanenza il significato reale di un soggetto altrimenti assoluto e paradossalmente costretto a mai inverarsi al di fuori di un simile legame collaborativo. «L’essenza della verità è la che richiamano appunto una conversione al divino nella quieta accettazione del destino, dell’attesa per l’avvento, della rivelazione della verità. Non si può escludere che il concettualizzare heideggeriano successivo alla svolta sia intriso di simboli e metafore del numinoso. Si tratterebbe in questo caso però di un tentativo di uscire dalla consuetudinaria pratica linguistica per mutuare da altre esperienze non-filosofiche un’apertura alla verità e con essa un “altro logos”. Il risultato è che questa lingua, che è sempre a venire, non è in sé né poetica né religiosa perché ancora filosofica. Le celebri interpretazioni di Hölderlin e di Rilke, non implicano infatti che il linguaggio heideggeriano sia immediatamente poesia. è invece «balbettante ricerca della parola adatta», «linguaggio che supera continuamente se stesso», ma in ogni caso «linguaggio della meditazione», addirittura «dialettica» (H.-G. Gadamer, Heideggers Wege. Studien zum Spätwerk, tr. it. di R. Cristin e G. Moretto, I sentieri di Heidegger, Genova, 1988, p. 121). La scrittura della Kehre come con-versione dovrebbe fugare ogni dubbio sulle sue incursioni nel religioso. Come emergerà dal seguito della lettura, la con-versione è innanzitutto un processo logico-linguistico la cui prima esemplificazione è offerta da Heidegger nella sezione incompleta di Sein und Zeit, che passa da “essere e tempo” e “tempo e essere”: «Qui – commenta Heidegger nel Brief– il tutto si capovolge (Hier kehrt sich das Ganze um)» e, aggiunge in nota, nel senso del “che cosa” e del “come” «di ciò che è degno di essere pensato e del pensiero» (p. 20; tr. it. p. 281). 93 Die Kehre, p. 76; tr. it. p. 106.

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verità dell’essenza»: non è un gioco di parole ma la ripetizione di una «svolta nella storia dell’essere» della quale si tenta una comprensione logica conforme all’umano carattere linguistico del disvelamento. Si tratta di rendere chiaramente visibile – e perciò logicamente esperibile – che il “soggetto” della proposizione è la “verità dell’essenza”, poiché sola dà senso alla domanda relativa alla “essenza della verità”. La verità dell’essenza è la verità dell’essere, la sua apertura, che si conserva nell’essenza94. La «scoperta di logica della filosofia» che si annuncia nella Kehre dell’essere e del pensiero ad esso corrispondente non può indicare il tempo e il luogo dell’“altro inizio” poiché ciò implicherebbe l’intervento dell’umana volontà nella determinazione del destino dell’essere. Agisce allora su questa annunciata e non compiuta trasformazione una coerente rappresentazione della finitezza. Il tempo della povertà, quella discesa hölderliniana nell’indigenza, è bisogno sia dell’essere sia dell’umano. La “svolta” non può non essere fondamentalmente “salto” perché è un indietreggiare dinanzi alla metafisica e alla sua lingua, un balzo indietro «al di qua della logica»95. Heidegger ha molto insistito sul significato di Satz come Sprung, una torsione semantica che è il primo evidente capovolgersi del capovolgimento. Ma il salto oltre le questioni di logica formale non è salto al di fuori della logica: semmai è l’arrivo a destinazione in una nuova logica, un altro logos dell’essere. Il superamento della metafisica non può corrispondere all’abbandono radicale dell’intera tradizione filosofica occidentale che costituisce, malgrado tutto, sempre il terreno (Boden) e il fondamento (Grund) sul quale è possibile tentare l’esperienza del salto, affinché non si abbia la sensazione di trovarsi sradicati, freischwebend, e il risultato di un simile sperimentare si riveli infondato. La poesia è anch’essa, insegnava già Vico, una logica e precisamente “logica” secondo il significato primigenio e incontaminato di logos che Heidegger mirava a ridestare mediante il ricorso ad esperienze poetiche, filosofiche e mistiche al limite della follia, dell’afasia o ridotte dalla storia in frammenti, forse espressioni o esperimenti di un’inusuale vicinanza a forme spontanee di invenzione linguistica paragonabile a quella dei vichiani poeti96. Il «passo-indietro» «Vom Wesen der Wahrheit», in Wegmarken, pp. 177-202, in particolare p. 201; tr. it. 133-157, in particolare p. 156. 95 Sull’interpretazione “logica” della Kehre si veda R. Viti Cavaliere, Il Gran Principio. Heidegger e Leibniz, Napoli, 1989, in part. pp. 133 sgg.. 96 Un’influenza di Vico sulle sorti del meditare heideggeriano può essere 94

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richiesto da Heidegger dal pensiero rappresentativo-metafisico a quello rammemorante-poetico è appunto un indietreggiare dalle «macchinazioni» e il ritorno ad un’anteriorità sapienziale non tecnica97. Non è da trascurare la coincidenza semantica, sebbene non perfettamente concettuale, di arte e tecnica nel pensiero e nella lingua greca98. Dopo aver riconosciuto in essa una forma del conoscere, la poiēsis come poesia è per Aristotele “più filosofica” della storia, in virtù della sua capacità innovativa e immaginativa che non si arresta alla durezza dell’effettualità indirizzandosi invece al “verosimile”. Quest’ultimo ha un’estensione categoriale più ampia rispetto alla verità particolare – perché “di fatto” – della storia ed è appunto rivolta agli universali (tà kaqólou)99. Ciò in armonia con la definizione della Metafisica che riconosce nella tecnica la prima conoscenza dell’universale. Abituati a pensare alla tecnica come al possesso di un insieme definito di conoscenze da applicarsi al caso concreto, si sorvola sulla carica innovativa ed immaginativa in essa contenuta, sulla sua disposizione ad ingegnarsi per approssimarsi meglio al grado di verità ad essa concesso e alla scoperta dell’universale fantastico eppure concreto verso cui si dirige100. esperita solo indirettamente. è stato tuttavia Ernesto Grassi il primo ad individuare una linea di continuità tra Heidegger e Vico: si vedano in particolare i suoi volumi Heidegger e il problema dell’umanesimo, Napoli, 1985, e Vico e l’umanesimo, Milano, 1990. Jean-François Mattéi, «Le crépuscule de la philosophie. Heidegger et Platon», in L’ordre du monde, cit., pensa al mito come parola originaria post-logica e sostiene che la «parola essenziale di Heidegger è [...] mitica» (p. 195). 97 Sullo Schritt-zurück cfr. Brief über den Humanismus, p. 35; tr. it. p. 296 e «Das Ding», in Bremer und Freiburger Vorträge, p. 20; tr. it. p. 39. La “macchinazione” (Machenschaft) o propriamente “potenza del fare” comprende ogni interpretazione poietica del mondo, non ultima quella creazionista: la riduzione tecnica di ogni esperienza vissuta è una espropriazione della propria essenza. Su questo concetto, su cui agisce la rappresentazione tecnica della physis, si rinvia a Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), GA LXV, a cura di F.-W. von Herrmann, Frankfurt a. M., 1989, §§ 61 e 64, pp. 126-128 e 130; tr. it. di F. Volpi e A. Iadicicco, Contributi alla filosofia (Dall’evento), Milano, 2007, pp. 144-147. Per la “mobilitazione totale” (totale Mobilmachung) che deriva da questa esperienza meccanico-fabbrile si veda ivi, § 74, p. 143 (tr. it. p. 159) e il dialogo con Ernst Jünger, Oltre la linea, tr. it. di A. La Rocca e F. Volpi, Milano, 2004. 98 Die Frage nach der Technik, p. 38; tr. it. p. 26. 99 Aristotele, Poetica 9, 51a36 sgg., tr. it. di D. Lanza, Milano, 1999. 100 Fantasia e immaginazione devono, secondo Heidegger, rimanere distin-

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Più terrena tra tutte le forme conoscitive, la tecnica-poesia gode infatti del privilegio di essere verificata dall’esperienza, dalla prova dei fatti che consente a chiunque, dotato del gusto (direbbe Kant), di giudicare riuscito o mancato, bello o brutto, un risultato tecnico o artistico. La prova empirica non va certo confusa con la dimostrazione scientifica ed è chiaro che, analizzata in una prospettiva gnoseologica pura, la tecnica si mostra in ogni caso un genere di conoscenza imperfetta ed approssimativa, il cui alētheuein – dice Heidegger – «si riferisce ad un altro essere»101. Si deve però intendere questo rinvio all’alterità, questa dilazione che si dispone ad incontrare un altro, anche come una strutturale “eccellenza” della tecnica che, in quanto ingegno ed esperimento, molto più delle altre scienze che possono contare su un fondamento indimostrabile e perciò indiscusso, si espone al rischio del fallimento e simboleggia meglio di ogni altra la condizione umana della fragilità102.

4. Al margine, l’umano: il pastore e le rivoluzioni antropologiche Il pastore dell’essere, quieta figura che attende il nutrimento di ciò di cui ha cura, è l’altro umano nell’altro destino dell’essere. Trova così ragione la polemica che, su sollecitazione di Jean Beaufret, Heidegger condusse contro l’esistenzialismo francese che dopo la guerra mirava a rinvigorire la grande corrente umanistica della tradizione occidentale. La Lettera sull’umanismo è un testo complesso dove, accanto all’individuazione dei fraintendimenti esistenzialistici dell’analitica esistenziale te. La prima difatti si radica nel faínesqai e ha dunque un carattere apofantico, mentre la imaginatio è riduzione oggettiva dell’essente da parte del soggetto che rappresenta il mondo a sua immagine. In questo caso si esperisce non solo una trasformazione antropologica del pensare ma anche una modificazione antropomorfica dell’essente. Cfr. Die Zeit des Weltbildes, p. 98; tr. it. p. 92. 101 Platon: Sophistes, § 8, p. 49. 102 Con il richiamo all’ode pindarica, dove la vita umana è paragonata ad una vite che può crescere soltanto se debitamente sostenuta, e all’invidia che una simile condizione di “esposizione” al caso o alla fortuna – in quanto possibilità di fallire ma anche di eccellere – suscita negli dèi, Martha Nussbaum ha introdotto la sua discussione sulla “fragilità del bene” (The Fragility of Goodness. Luck and Ethics in Greek Tragedy and Philosophy, ed. it. a cura di G. Zanetti, La fragilità del bene. Fortuna e etica nella tragedia e nella filosofia greca, Bologna, 1996, pp. 45 sgg.).

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che già andava interpretata, secondo Heidegger, in chiave post-soggettivistica perché “ultra-umanistica”103, contiene una sapiente e raccolta meditazione sull’essenza propria dell’umano. Il mortale è l’umano del post-umanismo e della post-metafisica. L’uomo è la rappresentazione che di una più originaria bio-logia, cioè di un dire che parla a nome di e dell’esistenza umana (del bios), dà il moderno soggettivismo esistenzialistico. Nella riduzione del pensare a tecnica si patisce la «dittatura peculiare della dimensione pubblica», ovvero il potere dell’impersonalità (Man) che è però «dominio della soggettività»: il soggettivo, in quanto parla a nome di un’astratta categoria, è l’impersonale. Paradossalmente nel Brief si legge che la sottrazione del linguaggio, che è la casa dell’essere e di questa dimora l’umano deve aver cura, alla tecnica e al soggettivismo deve concretizzarsi in un «imparare ad esistere senza nomi». Questo compito spetta all’«uomo» stesso che non solo non deve farsi nomi e immagini dell’essere, ma nemmeno di se stesso: esso deve trovarsi al cospetto dell’essere, come Giobbe uscito dal ventre materno, nudo, senza nome. Ma l’assenza di nome non è il trionfo dell’impersonalità? Imparare ad esistere senza-nome significa forse che «l’uomo (homo)» deve diventare «umano (humanus)», deve dismettere un nome che parla di chiunque o di una parte ma in fondo di nessuno104. Non a caso Sartre scrive: «siamo su di un piano su cui ci sono solamente degli uomini»105. “Les hommes” sono soltanto gli epigoni di una lunga tradizione che, mediante l’incorporazione della paideia nella romanitas, si afferma generalmente come Stimmung che sorregge la cultura occidentale degli studia humaniora. In Heidegger non rimane traccia di vicinanza a questa atmosfera spirituale fondata sull’interpretazione dell’umano come animal rationale. L’angustia di una simile interpretazione non risiede tanto nel peso dell’aggettivazione, quanto nel ricorso, mediante il sostantivo, ad una rappresentazione aprioristica dell’umano sul fondamento dell’animalità106. La vita animale (zwÔ) non muore, si è E. Mazzarella, Tecnica e metafisica, cit., pp. 20 sgg.. Brief über den Humanismus, pp. 9-11; tr. it. pp. 271-273. 105 J.-P. Sartre, L’existentialisme est un humanisme (1946), tr. it. di G. Mursia Re, L’esistenzialismo è un umanismo, Milano, s.d., p. 40. 106 Il rifiuto della fondazione “animale” dell’umano non pretende certo di rinnegare l’evidenza primaria della sensibilità. Fermo il proposito ontologico del suo meditare ciò non esclude che esso possa avere “ricadute ontiche”. Torna dunque di grande attualità il suggerimento heideggeriano a non assolutizzare la pretesa scientifica di determinare l’umano su basi esclusivamente biologiche. 103

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detto, ma cessa semplicemente di vivere. Nella molteplicità del Geviert, logos che raccoglie l’essere nella sua plurale dimensione, l’umano non è il vivente ma il mortale, chi ha nella morte il «riparo» (Ge-birg) della sua essenza, ma anche il telos, il compimento del proprio essere-finito, che delimita il progetto di esistenza107. «Il fatto che la fisiologia e la chimica fisiologica possano indagare sull’uomo come organismo dal punto di vista delle scienze naturali, non è una prova che l’essenza dell’uomo stia nell’“organico”, cioè nel corpo, come è spiegato scientificamente» (Brief über den Humanismus, p. 16; tr. it. p. 278). 107 Forte è l’ascendenza aristotelica della pluridimensionalità dell’essere che raccoglie in unità differenziatesi ciò che può essere detto in più modi. Altrettanto decisa è l’accentuazione non teologica del telos dell’esistenza come confine. Nel libro Delta della Metafisica, l’intenso “libro dei significati”, sono assunti come strettamente irrelati al concetto di limite (péraj), quello di 1scaton (termine estremo), di eôdoj (forma), téloj (fine), «punto di arrivo del movimento e delle azioni», di o÷sía e eônai (presenza concettuale e essere), infine di ÞrcÔ. In questo ultimo caso è da notare che «il principio è un limite», giacché «il punto di partenza» è un argine dal non-essere di provenienza, ma «non ogni limite è un principio» perché è «il punto di arrivo o lo scopo», termine conclusivo in base al quale qualche cosa appare nella forma della perfezione (téleion). Perfetta può essere la cosa perché al di fuori di essa non c’è alcuna parte, perché può aver raggiunto l’eccellenza ad essa propria, perché infine può essere pervenuta al fine che ad essa compete (Arist. Met. D, 17, 1022a4 sgg.; per il téleion, ivi, 16, 1021b12 sgg.). è stato evidenziato il carattere «inquietante» della Kehre nella misura in cui, pur essendo quest’ultima «ripetizione ontologica dell’analitica esistenziale», smarrisce il progettarsi in vista della morte che costituisce l’autenticità dell’Esserci. Ciò che viene meno e che costituisce la vera inquietudine della svolta è la perdita di ogni «scelta per l’autenticità» (G. Vattimo, “Prefazione” alla tr. it. di Was heisst Denken?, cit., pp. 7-34). Con l’accentuazione della morte come «riparo» dell’essenza umana (il Gebirg, che alla lettera riunisce salvando-nascondendo), ancora una volta si incontra la morte a decidere della Eigentlichkeit che, come invita a fare lo stesso Heidegger (si veda Brief über den Humanismus, p. 24; tr. it. p. 286) non va tanto pensata in termini di “autenticità”, valore morale, ma “proprietà”, ciò che è più proprio dell’umano. Il mortale non si decide per la morte perché appartiene alla sua qualità umana riconoscere nella morte la custodia del proprio destino nella plurale dimensione dell’essere in quanto Geviert. La questione dell’umanismo, in particolare posta in relazione al platonismo, è al centro anche del lavoro di P. Ciccarelli, op. cit., il quale descrive una complessa parabola di umanizzazione e de-umanizzazione del problema heideggeriano dell’essere, dalla posizione della “differenza ontologica” alla Platons Lehre. La

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La tesi umanistica sartriana si fonda sull’anteriorità dell’esistenza rispetto all’essenza, ovvero: «bisogna partire dalla soggettività»108. Visione tecnico-oggettivistica (metafisica) è quella in base alla quale l’essenza precede l’esistenza, in linea di massima prossima all’interpretazione aristotelica del meditare tecnico che necessita della previsione dell’eidos antecedente la fabbricazione. L’unico ente nel quale si rovescia la priorità essenziale è «l’uomo o, come dice Heidegger, la realtà umana. […] l’uomo esiste innanzi tutto, si trova, sorge nel mondo, e […] si definisce dopo […] all’inizio è niente. Sarà solo in seguito, e sarà quale si sarà fatto […] L’uomo non è altro che ciò che si fa»109. Chiamato in causa come testimone dell’eccezionalità umana nel destino dell’essere, Heidegger interviene per dimostrare come, nonostante l’accordo che si può maturare intorno alla condizione primaria dell’esistere nel mondo, il linguaggio e il pensiero sartriani sono intrisi del concettualizzare della metafisica. Non serve invertire biecamente i termini della questione (essentia-existentia) per provocare un capovolgimento della tradizione linguistico-filosofica. La puntualizzazione è rilevante giacché il testo sartriano si picca di rifiutare in questo modo ogni determinazione a priori e universalistica della “natura umana”, per la quale «ogni uomo è un esempio particolare di un concetto universale». Nel progetto esistenziale che ogni uomo assume per la definizione della propria essenza non si esce da una rappresentazione universale dell’umano. «Io costruisco l’universale scegliendomi, lo costruisco comprendendo il progetto di ogni altro uomo, di qualunque epoca egli sia»: «ciascuno di noi fa l’assoluto»110. L’universale del concetto o dell’essenza è qui sostituito da una generalità ancora più vuota, una genericità funzionale che individua nella scelta, nella decisione, in definitiva nella trascendenza, il principio comune e incondizionato. L’indifferenza alla storia che Heidegger lamenta in ogni manifesto umanistico, sia esso teso alla diffusione del posizione heideggeriana sull’umanesimo in generale è di necessità ambigua, dal momento che oscilla tra la negazione degli umanismi tradizionali dell’Uomo e la ripresa di un umanesimo misurato, focalizzato sull’idea di “umano”, dove ciò che conta è – direbbe Hannah Arendt – la “qualità umana”. Heidegger stesso, del resto, avrebbe a suo modo ripetuto le idealità dell’umanesimo come pratica, a partire dai suoi celebri confronti con la storia della filosofia e attraverso l’esercizio costante di autocritica cui sottopose il proprio pensiero. 108 Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, pp. 24-25. 109 Ivi, pp. 28-29. 110 Ivi, p. 67.

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verbo esistenzialistico sia di quello fenomenologico, incapaci entrambi di cogliere «l’essenzialità della dimensione storica nell’essere»111 (e di mancare dunque l’adeguato confronto con il marxismo che va più a fondo nel coglimento della storia), nonostante la dichiarata necessità di non sopprimere «la relatività di ciascuna epoca»112, fa leva in ogni caso su un’essenza astorica per la quale conta ben poco il fatto che essa sia colta attraverso un movimento storiografico interno a quella medesima storicità. La soggettività sartriana del tempo degli dèi fuggiti è un «legislatore che sceglie», che esperisce la disperazione profonda dell’arbitrio nell’essere senza Dio e così arbitro del proprio destino nella condanna metafisica alla libertà. L’umanismo classico, che si anima del tema «assurdo» di pensare l’uomo «come fine e come valore superiore», avrebbe la pretesa di giudicare ogni uomo con la misura assoluta del modello umano113. Si è nel vero nell’affermare che il punto di partenza non può non essere «la soggettività dell’individuo, e questo per ragioni strettamente filosofiche»114. Suo malgrado è costretto ad ammetterlo anche Heidegger quando, commentando la trascendenza dell’essere rispetto all’ente asserita in Essere e tempo, definisce «inevitabile» anche Brief über den Humanismus, p. 32; tr. it. p. 292. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, p. 67. 113 Hannah Arendt, in un testo coevo sia allo scritto sartiano sia a quello heideggeriano, ha messo in evidenza l’assenza di confronto, da parte dei principali interpreti dell’esistenzialismo, con la filosofia da cui l’istanza umanistica trae origine nel proposito di sanare una frattura. Kant, che ha infranto l’antica «armonia prestabilita tra l'uomo e il mondo», superando la coincidenza, che si spinge fino a Hegel, di essere e pensiero, dopo l’antinomia ontologica di fenomeno e noumeno, ripete umanamente l’aporia di libertà, soggettivamente autonoma, e necessità, che costringe la prima ad essere oggettivamente non libera e sempre vincolata alle leggi naturali. Le filosofie dell’esistenza raccolgono, senza quasi mai menzionare l’autore, la frattura kantiana, nel tentativo però di superare la scissione ontologica e etica, smarrendo in questo mondo l’eredità dei kantiani concetti di libertà e dignità e dell’unico eroismo concesso all’umano, che è «vivere nel mondo che Kant ci ha lasciato in eredità». Il testo arendtiano del ’46 è forse il documento più critico nei confronti del progetto esistenziale heideggeriano e non è da escludere che il vero anti-Kant di questo scritto sia forse lo stesso Heidegger. Cfr. H. Arendt, «Was ist Existenz-Philosophie?», tr. it. a cura di S. Forti, «Che cos’è la filosofia dell’esistenza?», in Archivio Arendt I (1930-1948), Milano, 2001, pp. 197-221 (le citazioni sono tratte dalle pp. 204-205). 114 Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, pp. 33, 84 e 61. 111

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per il pensiero già indirizzato verso la verità dell’essere e al cospetto della differenza ontologica, fornire una rappresentazione dell’essenza dell’essere dell’ente a partire dall’ente stesso e dalla sua apertura, almeno come conseguenza dell’essere pervenuti alla chiarezza relativamente a proprio modo d’essere. L’apertura dell’essere è per prima cosa apertura della verità dell’ente sebbene questa determinazione sia in ogni caso «retrospettiva» e mai originaria115. Il punto decisivo, nonché il segno della distanza radicale tra Sartre e Heidegger, è la persistenza con cui il primo ancora continua a muoversi lungo il sentiero della metafisica moderna tracciato dal soggettivismo cartesiano. L’autoevidenza della soggettività è la certezza della coscienza pensante la soggettività, e poca o nulla è la differenza che essa sia mai completamente individuale bensì plurale, raggiunta attraverso l’incontro con l’alterità. L’homme deve trascendere i limiti dell’esistenza verso l’essenza. Trascendenza è in definitiva «liberazione»116, affrancamento dai vincoli dogmatici che ancora una volta richiamano il progetto di libertà intrinseco nella posizione cartesiana del soggetto assoluto117. La nascita moderna del soggetto nasce dalla «pretesa umana a un fundamentum inconcussum veritatis», pretesa imposta dalla volontà di «liberazione» dalla verità rivelata e non cercata, trovata e determinata dall’umana fatica di pensare. Dall’affrancamento deriva un’inedita interpretazione dell’essenza della libertà cosicché «l’uomo autoliberantesi [può] porre ciò che è obbligatorio». Ci si libera per determinarsi e determinare il mondo. Il sapere e la ratio calcolante, che si assicura mediante l’evidenza della mente speculativa la certezza della realtà esterna, sono instrumenta per il nuovo regnum. Il fondamento va a sua volta fondato. La fondazione è un’azione logica che pone (stellt) il fondamento assoluto nella «proposizione affermante» ego cogito (ergo) sum, asserto che pone insieme la presenza dell’esistenza umana e il suo pensiero. «La certezza fondamentale è il me cogitare = me esse». Costruita ontologicamente e assicurata come fondante gnoseologicamente, la Brief über den Humanismus, p. 29; tr. it. p. 290. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, p. 86. 117 Sul progetto rivoluzionario di Cartesio si veda la lettura che ne offre Paul Valéry in occasione del trecentesimo anniversario del Discours, in Varietà, ed. it. a cura di S. Agosti, Milano, 1990, pp. 43-76, e il commento di Karl Löwith, in Gott, Mensch und Welt in der Metaphysik von Descartes bis zu Nietzsche, ed. it. a cura di O. Franceschelli, Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche, Roma, 2000, pp. 43-46. 115

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soggettività acquisisce una centralità che nasce dall’evidenza primaria dell’uomo come «essere pensante-rappresentante»118. L’“uomo in rivolta” è la connotazione essenziale dell’umanismo in genere. La humanitas tradizionale, che si estende fino all’illuminismo e all’esistenzialismo, incorpora il progetto formativo-trascendentalistico della paideia greca in vista dell’edificazione dell’homo che non è ma “si fa”. Il riconoscimento della centralità dell’uomo nel corso e nell’ordine del cosmo, si consolida attraverso una rivolta, che è sia protesta contro uno stato di assegnazione all’esistente (l’essere-gettato, l’esperienza disperata di vedersi, senza progetto, cosa tra le cose), sia trasformazione del soggiacente (øpokeímenon) in subiectum. Ogni umanismo, sia esso marxistico, esistenzialistico, cristiano, contiene la promessa di una liberazione, che è per prima cosa libertà dall’assurdo, dall’alienazione, dall’estraneamento del sé dalla propria opera, dallo spaesamento nel mondo. L’aggettivazione con la quale storicamente si presentano forme molteplici dell’unica istanza umanistica, soggettivistica e metafisica, è, oltre all’evidente demarcazione di un’appartenenza, il cammino più immediato per trasformare il progetto rivoluzionario umanistico in una visione del mondo che stabilisce a priori la “natura” dell’umano (il proletario, l’homme, la persona) e la porzione di libertà che ad esso spetta: il regno dei cieli o la città terrena.

5. Oltre la polemica sull’umanismo, verso un’altra umano-logia: la misura umana A chi gli obietta il volo pindarico dalla modernità a Platone nella determinazione dell’essenza della metafisica, Heidegger risponde che il platonismo è soltanto «un presupposto storico-remoto» che opera in una «lunga e nascosta meditazione», un fiume carsico che sorregge la dissoluzione della differenza ontologica. C’è diversità nelle «due rispettive posizioni metafisiche», quella platonica e quella cartesiana, dove la diversità è data, oltre che dall’interpretazione dell’ente e dalla teoria della verità, anche dalla determinazione dell’umano come misura. La vera misura dell’umano è data di volta in volta dalla relazione che 118 Die Zeit des Weltbildes, nota 9, pp. 98-103; tr. it. pp. 94-96. Molto più complesso è il confronto di Heidegger con Cartesio: si veda R. De Biase, L’interpretazione heideggeriana di Descartes. Origini e problemi, Napoli, 2005.

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l’umano intrattiene con la verità dell’ente. Nella non-ascosità l’umano «percepisce come essente tutto ciò che è-presente in questa cerchia». La percezione della presenza dell’ente si radica dunque su un «soggiornare» dell’umano nell’essere-presenza (o÷sía, Anwesenheit). Questo rapporto di inerenza, soggiornare o abitare come in-essere, questo ēthos originario che qualifica la condizione dell’umano come abitante nel mondo è l’unica misura «offerta all’uomo». Una misura non assoluta, propria invece del punto di vista totale del soggetto, ma ogni volta misura del manifestarsi dell’ente. «L’uomo [...] è métron (misura) nel senso che assume su di sé la moderazione (Mässigung)», moderazione che riguarda sia il «tenersi dentro il non-esser-nascosto delimitato dall’io», dove l’io, più che fondante fondamento, è delimitazione storico-spaziale dell’apparire dell’essere, sia il riconoscimento del disvelamento dinanzi al quale l’uomo decide ben poco. Socrate-Platone, interpretando il detto di Protagora sull’umano-misura, deve convenire che egli non parlasse da sprovveduto. Nell’interpretazione platonica della sentenza protagorea l’anthrōpos non esiste come idea assoluta perché è sempre, «di volta in volta», «ora questo ora quello (io, tu, egli, essi)»119. Il soggetto cartesiano, prodotto di un’azione di affrancamento dalla rivelazione che si dà attraverso l’umana cooperazione, è invece «misura e centro dell’ente», «fonda se stesso come criterio di ogni misura con cui viene misurato e commisurato (calcolato) ciò che deve valere come certo, cioè come vero, cioè come essente». Dal soggetto unico è breve il cammino che conduce all’ossimoro dei soggetti collettivi che sono «diversi modi di egocentrismo e di egoismo», dispiegatisi «nell’imperialismo planetario dell’uomo tecnicamente organizzato»120: nazionalismo, razzismo, collettivismo, sono nomi distinti di un’unica realtà, «la soggettività dell’uomo portata sul piano della totalità»121. L’umano protagoreo è invece il sophos che, nella misura moderata, umile e remissiva, si restringe dinanzi alla pretesa impositiva sul mondo, anzi indietreggia davanti alla brama di dominio verso l’essente e l’accadere della sua verità. Questo indietreggiare dalla pretesa soggettivistica non esclude un umanesimo minimo, umanesimo che però – si legge nel Brief – è «più estremo» e «di specie strana», un «umanismo che pensa l’umanità dell’uomo a partire dalla vicinanza all’essere, ma nello stesso 119 120 121

Die Zeit des Weltbildes, nota 8, pp. 94-98; tr. it. pp. 90-92. Ivi, nota 9, p. 102; tr. it. pp. 96-97. Brief über den Humanismus, p. 33; tr. it. p. 294.

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tempo è l’umanismo in cui in gioco non è l’uomo, ma l’essenza storica dell’uomo nella sua provenienza dalla verità dell’essere»122. Questo umanesimo radicale non è né umanistico né antiumanistico perché ha già superato ogni opposizione “logica”, vale a dire la contraddittorietà tipica del pensare dialettico-metafisico. La logica sanziona l’interpretazione tecnica del pensare, a sua volta “tecnica” perché metodo, esercizio di scuola, attività ludica (i giochi dei paradossi). Il fatto che si sia radicalmente «imbevuti di “logica”» induce a condividere la credenza che pensare sia pensare per posizione e positività e tutto ciò che non è né posto né positivo (affermativo) sia logicamente risolto in negazione, negatività e nichilismo. L’umanesimo heideggeriano vuole oltrepassare l’umanesimo tradizionalmente inteso e storicamente esistito senza per questo farsi «portavoce dell’inumano». «Pensare contro “la logica” non significa spezzare una lancia a favore dell’illogico, ma solo ripensare il lógoj»123. Il compito del nuovo e insolito umanesimo si risolve allora Ivi, pp. 34-35 e 37; tr. it. pp. 295 e 298. Ivi, pp. 39 e 40; tr. it. pp. 298 e 300. è stato molto opportunamente notato che la polemica heideggeriana contro l’umanismo si risolve anche in un «antiumanesimo del non giudicare» (A. Rigobello, «L’idea di umanesimo nella cultura germanica e italiana del Novecento», in Germania latina, Latinitas teutonica. Politik, Wissenschaft, humanistische Kultur vom späten Mittelalter bis in unsere Zeit, a cura di E. Kessler e H. C. Kuhn, München, 2003, vol. II, pp. 843-854, in particolare p. 851). La coincidenza tra umanismo, soggettivismo e metafisica si interseca con il proposito di superare la logica e il suo strumento conoscitivo, il giudizio, interpretato come luogo della corrispondenza tra il soggetto giudice e l’oggetto giudicato, nel quadro di una teoria della verità come adeguazione. Alla pretesa incorporante della sintesi conoscitiva si contrappone il meno polemico «gusto di comprendere», gusto non intellettualistico che tuttavia, anziché sondare le potenzialità comprendenti e non determinanti di un altro giudizio, come quello kantiano di riflessione, si acquieta nell’inane decisione di chi sceglie di «non-giudicare» (ivi, p. 852). Le riserve heideggeriane nei confronti dell’umanismo, che pure ha celebri precedenti, si pensi ad esempio a Herder, il quale già a fine Settecento metteva in guardia dagli usi iperbolici della parola homo, nel Medioevo sinonimo di “servo”, possono rivelarsi azzardate sia sul piano teoretico sia su quello etico. Sovviene difatti la constatazione arendtiana sulla coincidenza tra la rinuncia a pensare, proprio nella forma del giudizio discriminante, che sceglie e non impone, e l’assenza di deliberazione che pure è un “abbandono” rilassato, in questo caso della volontà autodeterminantesi, in nome dell’unica scelta di affidarsi ad una decisione collettiva. Si veda di J. G. Herder, Briefe zur Beförderung der Humanität, lettere XXVII e XXVIII, tr. it. in 122 123

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in una umano-logia, nella quale è da credere sia attinta innanzitutto l’esperienza originaria del logos non logico, e ciò al fine di «meditare e curare che l’uomo sia umano e non non-umano, “inumano”, cioè al di fuori della sua essenza»124. L’essenza umana parla di una «es-posizione nella svelatezza»125, di un’entrata nella «radura (Lichtung) dell’essere» e un’uscita dalla dimensione impositiva della tecnica e della sua modalità conoscitiva. Il “fuori”, lo Hinaus, della e-sistenza, non è il correlato di un “dentro”, così come si dice che l’umano è esposto alle intemperie mondane quando è in mezzo ai suoi simili, quando si dà a vedere, mentre quando è solo, raccolto nella meditazione, è in compagnia della sua interiorità. E-sistere è, nota Heidegger, un «aprirsi della differenza», quella differenza fondamentale che nomina il differire dell’ente rispetto all’essere e che, nel caso umano, è differenza data dal “Ci” del suo esserci. Si è interpretata l’essenza non connotata metafisicamente come un durare-concedere. Altrettanto si può fare nominando l’originarietà della parola come o÷sía-Anwesenheit, come «modo in cui l’uomo nella sua essenza propria, è presente all’essere e all’estatico stare-dentro nella verità dell’essere»126. Poiché il venire alla presenza si fonda su una comprensione dinamica dell’essere, l’avere in-comune da parte di physis e technē la kinēsis e la generazione, accade allora che la presenza umana Che cos’è l’illuminismo. I testi e la genealogia del concetto, a cura di A. Tagliapietra, Milano, 1997, pp. 93-101, e di H. Arendt, Introduzione a «Pensare», in The Life of the Mind, tr. it. cit., pp. 83-98. Per la nozione di Gelassenheit, rinvio a M. Heidegger, L’abbandono, ed. it. a cura di C. Angelino e A. Fabris, Genova, 2006. 124 Brief über den Humanismus, p. 11; tr. it. p. 273. Alle congetture postumane, spesso animate da uno millenarismo esistenziale digiuno di storia, delle quali Heidegger stesso diffida, sarebbe da contrapporre il più ragionevole monito di chi, pur sapendo l’umanesimo dottrina di “una sola tradizione”, e per questo addirittura naïf nel modo in cui è interessato a certi uomini escludendo il resto della terra, è consapevole che nondimeno esso custodisca una sacralità di fondo quand’anche di sé non rimanesse che il vuoto nome, mentre «la scienza che oggi lo prosegue con molto maggiore ampiezza e sapere, la sua vera erede, l’antropologia, porta un nome che è, sì, affine al suo, ma quanto meno fiducioso». E. Canetti, Die Provinz des Menschen. Aufzeichnungen 1942-1972, tr. it. di F. Jesi, La provincia dell’uomo, Milano, 2006, p. 42. 125 «Vom Wesen der Wahrheit», in Wegmarken, p. 189; tr. it. p. 145. 126 Brief über den Humanismus, pp. 15, 18 e 22; tr. it. pp. 277, 280 e 283.

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all’essere, nell’inerente relazione alla sua verità, sia nascita. Se difatti vi è una diversità capitale tra il morire umano e il cessare di vivere animale, altrettanto è da dirsi a proposito del cominciamento primo del continuato esporsi esistenziale alla verità dell’essere: mentre gli animali cominciano a vivere, gli umani nascono e fondano sulla possibilità biologica la condizione degli innumerevoli altri e nuovi inizi (il pensare, l’agire, il fare)127. Il mortale (o il natale) toglie qualcosa all’essere umano dotato di ragione. In questa sottrazione, nel “meno”, esso acquisisce però un “più”: «guadagna l’essenziale povertà del pastore», che ha la sua dimora, “abita”, nella vicinanza dell’essere. Pastore, dimora, casa, semplice sono le parole fondamentali della umanologia non umanistica, nomi semplici per esperienze complesse che cercano non solo metafore e simboli per rappresentare l’altrimenti irrappresentabile ma davvero l’unica parola per l’unica esperienza. Il pastore è l’immagine umana di un moderato e modesto ritrarsi dall’imposizione, affidato alla remota sapienza che pur deve esistere nell’essere, del quale egli non può dar ragione (la luna leopardiana è “senza perché” – senza fondamento – come la rosa che si schiude di Silesio)128 né prevederne in anticipo il corso sulla base di un calcolo. L’abbandono all’essere diviene cifra della medesima propria sapienza misurata, perché misura sapiente, che consiste nella semplicità del ciclo quotidiano di destarsi, condurre, custodire, riposare: «altro mai non ispera». Nell’esperienza tecnica del mondo si perde familiarità con il semplice e con il vicino, che divengono estraneo e lontano. Non c’è speranza che una regola per la corretta conduzione della mente funga da guida per il recupero di una rinnovata confidenza con le cose. Il “compito del pensiero” coincide con la “fine della filosofia”, una coincidenza mai storico-dialettica ma di volta in volta singolarissima nel conformarsi alla storia. Il pensare s-regolato, il pensiero che ha saltato l’ostacolo della tecnica del ben pensare, non può non acclimatarsi in 127 Più volte la centralità della questione della morte in Heidegger è stata contrapposta all’importanza del tema della nascita in Arendt (si veda la parte di The Human Condition, cit., dedicata alla «Azione», pp. 127 sgg., e la Introduzione a «Volere» di The Life of the Mind, cit., pp. 315-319. Per un approfondimento critico rimando al saggio di R. Viti Cavaliere, «La categoria della natalità», nel suo volume Critica della vita intima, cit., pp. 103-117). 128 Il distico di Silesio, «la rosa è senza perché; fiorisce poiché fiorisce,/ di sé non gliene cale, non chiede d’esser vista», è commentato in Der Satz vom Grund, tr. it. pp. 68 sgg..

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una «con-venienza» che, come si legge nel Sofista platonico, è un synōmologhēsthai, convenire del pensiero alla storia dell’essere e conformarsi alla sua verità. Per conquistare questa corrispondenza il pensiero deve impoverirsi, liberarsi dell’istanza di una eupoietica logica, quella dei princìpi logici in primo luogo (talvolta strumenti per non épater i benpensanti: i visitatori di Eraclito, ad esempio, a caccia di stravaganze), al fine di non rinunciare all’eccezionalità quotidiana del pensar da sé129.

Brief über den Humanismus, pp. 34 e 56; tr. it. pp. 295 e 314. Conforme all’igienica norma suggerita da Heidegger di “rigore della meditazione”, “cura del dire” e “parsimonia delle parole”, è l’invito, contenuto nel volumetestamento di R. Franchini, Eutanasia dei principii logici, Napoli, 1989, a non accanirsi sulla vita spesso artificiale delle regole e dei princìpi della logica, specie quando essi non aiutano la generazione di novità teoretiche ma si risolvono in mera tecnica del pensare corretto. 129

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INDICE DEI NOMI

Adorno F., 45n. Agosti S., 306n. Amoroso L., 181n. Anassimandro, 108 Angelino C., 19n., 72n., 310n. Antistene, 21, 87, 210 Archelao di Atene, 24 Arendt H., XVII, 4 e n., 42n., 93n., 117n., 190n., 249n., 254 e n., 267n., 304n., 305n., 310n., 311n. Aristotele, XVII, XXV, 9n., 11, 15, 41n., 43n., 78n., 110, 111, 118n., 128n., 175, 207 e n., 208 e n., 209n., 210, 215n., 234, 240, 244, 248 e n., 254 e n., 255, 265-272, 281-286, 289, 290, 300 e n., 303n. Assunto R., 137n. Aubenque P., 119n. Austin J., 141n. Bachmann I., 35n. Bacsó B., 44n. Badocco C., 19n. Bailiff J., 258n. Balansard A., 256n. Baptist G., 201n. Barnes J., 29n. Beaufret J., 301 Beierwaltes W., 225n. Berti E., 9n., 42n., 100n. Bertolini M., 93n. Bianco F., 7n. Biemel W., 245n., 265n. Blust F.-K., 30n. Bosio F., 29n. Boutot A., 8n., 74n., 143n. Brach M. J., 110n., 117n. Brague R., 152n., 276n. Brinkmann K., 198n. Burnet J., 13n.

Cacciatore G., XXVI Calogero G., 99n. Cambiano G., 13n., 14n., 22n., 23n., 24n., 119n., 120n., 122n., 126n., 127n., 130n., 131n., 133n., 147n., 150n., 152n., 153n., 156n., 159n., 166n., 168n., 170n., 172n., 189n., 213n., 217n., 218n., 220n., 221n., 227n., 228n., 230n., 231n., 232n., 239n., 240n., 241n., 256n. Canetti E., 310n. Cantillo G., XXVI Capriolo E., 64n. Caputo A., 215n. Carchia G., 13n., 134n., 160n., 173n., 181n. Carnap R., 35n. Cartesio R., XIX, 306n., 307n. Casertano G., 121n., 134n. Cassinari F., 3n. Cavarero A., 142n. Centrone B., 218n. Cera A., 211n. Cesa C., 137n. Chiodi P., 18n., 19n., 20n., 73n., 139n., 143n., 144n., 179n., 195n., 197n., 207n. Ciccarelli P., 8n., 297n., 303n. Cicero V., 73n., 110n. Cimino A., 99n., 207n. Codignola G., 117n. Colletta C., 51n. Coriando P.-L., 65n. Corsi M., 137n., 249n. Cotroneo G., 267n. Courtine J.-F., 30n., 117n., 241n. Cresti S., 35n. Cristin R., 298n. Curcio N., 253n., 258n.

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314 Dal Lago A., 190n., 258n., 267n. D’Angelo A., 88n. David P., 4n. De Biase R., 307n. De Domenico N., 199n. del Carmen Paredes M., 10n. De Rijk L. M., 205n. Derrida J., 93n., 120n. Di Giovanni P., 9n. Dilthey W., 16n. Dixsaut M., 9n., 51n. Dostal R. J., 29n. Eiland H., 258n. Emery L., 105n. Empedocle, 25, 221 Eraclito, XXI, 25, 26n., 36n., 37, 80, 108n., 203, 221, 312 Esposito R., 143n., 294n. Fabris A., 17n., 310n. Farias V., 258n. Faucci D., 36n. Fédier F., 258n. Fedro, 235, 236 Ferecide di Siro, 24 Ferraris M., 120n. Fest J., 4n. Figal G., 72n. Filippi F., 72n. Findlay J. N., 9n. Folin A., 201n. Forti S., 305n. Fortuna S., 42n. Fóti M., 195n. Franceschelli O., 306n. Franchini R., 137n., 199n., 218n., 247n., 267n., 312n. Fresco M. F., 206n. Friedländer P., 36n. Frings M. S., 197n. Fronterotta F., 13n. Gabrieli F., 45n., 100n.

Gadamer H.-G., 4, 11n., 298n. Galston W. A., 29n. Gembillo G., 267n. Gessa Kurotschka V., 100n. Ghedini F., 102n. Giannantoni G., 218n. Giugliano A., 198n. Goethe J. W., 99, 261 Grassi E., 300n. Gravil A., 231n. Grillo E., 258n. Grondin J., 37n. Gurisatti G., 30n., 197n., 214n., 259n. Hadot P., 47n. Hebel J. P., 261 Hegel G. W. F., 117 e n., 118n., 305n. Heidegger H., 253n. Held K., 246n. Herder J. G., 309n. Hirsch W., 29n. Hölderlin F., 261, 298n. Honnefelder L., 225n. Husserl E., 180 Hyland D. A., 9n. Iadicicco A., 300n. Inwood M., 92n. Jabès E., 201n. Jacquette D., 247n. Jaeger P., 190n., 214n., 259n. Jaeger W., XXVI, 99-100, 105-114, 275n. Jaspers K., 4 e n., 197, 198, 199, 253n. Jesi F., 310n. Jonas H., 4 Jone di Chio, 24 Jünger E., 300n. Kant I., 9n., 70, 72n., 181 e n., 249n., 301, 305n.

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315 Kessler E., 309n. Kisiel T., 9n., 258n. Kohn J., 4n. Krebs E., 3 e n. Kuhn H. C., 309n. La Bruyère, XV Lanza D., 300n. La Rocca A., 300n. Lask E., 117n. Le Moli A., 30n., 73n. Leonardi P., 141n. Leopardi G., 296, 297n. Lisia, 235 Lomonaco F., XXVI Löwith K., 211n., 258n., 306n. Lukács G., 7n. Lynch M. P., 42n. Marcuse H., 258n. Margolis J., 42n. Marietti A. M., 47n. Marini A., 18n. Martini E., 13n., 120n., 129n., 133n., 158n., 159n., 169n., 172n., 184n., 186n. Masi G., 190n. Massaia L., 16n. Mattéi J.-F., 65n., 213n., 286n., 300n. Maurer R., 52n. Mazzarella E., XXVI, 19n., 29n., 35n., 241n., 246n., 253n., 287n., 302n. Mazzarelli C., 13n., 43n., 85n., 119n., 217n., 248n., 272n. Migliori M., 137n., 226n. Mörchen H., 30n., 75n., 78n., 203n., 204n. Moretti G., 231n. Moretto G., 11n., 246n., 298n. Movia G., 121n., 128n., 209n. Mursia Re G., 302n. Nancy J.-L., 135n., 143n., 201n., 294n.

Narcy M., 119n. Natorp P., 99n., 110n., 117n., 124n., 149n., 227n. Niehues-Pröbsting H., 235n. Nietzsche F., XVIII, 8n., 30n., 101, 200 Nolte E., 258n. Notomi N., 126n. Nussbaum M., 301n. Olson A. M., 198n. Omero, 36n., 128 Orsi G., 118n. Ott H., 3n. Palese F. F., 135n. Palumbo L., XXVI, 126n. Parmenide, 10, 12, 14, 15, 19, 21 e n., 22, 23, 24, 26 e n., 36n., 37, 122, 131, 194, 201n., 203, 218, 219, 220, 221, 226n. Partenie C., 10n., 30n., 215n. Patt W., 39n. Pearson Geiman C., 254n. Pellecchia P., 10n. Penelope, 142n. Perrotta R., 43n. Petkovšek R., 7n., 47n., 110n., 125n., 243n. Petri E., 3n. Piazza V., 201n. Piovani P., 231n. Polt R., 44n. Portinaro P. P., 249n. Pradeau J.-F., 52n. Protagora, 84, 308 Reale G., 13n., 78n., 105n., 110n., 128n., 149n., 175n., 179n., 236n., 268n. Regina U., 43n. Rigobello A., 309n. Rigotti F., 140n. Riedel M., 11n. Rilke R. M., 298n.

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316 Rockmore T., 10n., 30n. Rosen S., 21n., 51n., 118n., 121n., 122n., 254n., 286n. Rovatti P. A., 201n., 258n. Ruggenini M., 254n., 291n. Ruoppo A. P., 260n. Safranski R., 253n. Sanna G., 117n. Sansonetti G., 16n. Sartre J.-P., 302 e n., 304n., 305n., 306 e n. Sasso G., 21n., 134n., 137n., 231n. Scaravelli L., XV, 137n., 231n., 249n. Schleiermacher F. D. E., 15, 16n., 32 e n. Schüssler I., 11n., 117n. Schüssler W., 225n. Senofane di Colofone, 24 Setti A., 105n. Seubert H., 246n. Severino E., 135n., 297n. Silesio A., 311 e n. Smith P. C., 11n. Socrate, 21, 31, 45, 52, 54, 55, 56, 60, 61, 66, 80, 84, 104, 108n., 111, 113, 122-126, 129-132, 135, 173, 184, 201n., 217n., 235, 236, 240, 308 Sontag S., 64n. Sorrentino V., 93n. Stenzel J., XXVI, 99-105 Stiegler B., 260n. Tagliapietra A., 310n. Talete, 84 Tarizzo D., 4n. Teeteto, 14, 94, 122, 130, 131 e n., 133, 157, 159, 160, 162, 166, 173, 175, 182, 185, 186, 242

Teodoro, 94, 122-127, 130 Teofrasto, 164n. Tessitore F., 231n. Trinchero M., 141n. Ugazio U. M., 65n., 245n., 259n. Ulivari M., 255n. Valéry P., 306n. van Dijk R. J. A., 206n. Vattimo G., 65n., 190n., 205n., 303n. Vegetti M., 9n., 60n. Verra V., 137n. Vico G. B., 299 e n., 300n. Vieillard-Baron J.-L., 118n. Vienken H. J., 9n. Vijgeboom H. W. P., 206n. Villata C., 141n. Vitali M., 13n., 119n., 151n. Viti Cavaliere R., XXVI, 20n., 29n., 94n., 213n., 249n., 299n., 311n. Vitiello V., 39n. Vogt E. M., 9n. Volpi F., 7n., 9n., 18n., 19n., 20n., 29n., 30n., 139n., 143n., 144n., 179n., 197n., 207n., 214n., 254n., 259n., 265n., 300n. von Herrmann F.-W., 17n., 19n., 29n., 73n., 205n., 265n., 300n. Waldenfels B., 201n. Wersinger W., 65n. Wittgenstein L., 141n. Wolff F., 119n.

Zadro A., 9n., 13n. Zanatta M., 208n. Zanetti G., 301n. Zenone, 122

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