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Italian Pages 165 Year 2021
Marco Mazzeo
Logica e tumulti Wittgenstein filosofo della storia Quodlibet Studio
Indice
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Introduzione. Wittgenstein e fine della storia I.
Un classico nel freezer
2. La storia non è omeostasi
3· Ricordo e aspettativa 15 4· Un gioco privo di giocattoli
II
I.
21 21
I.
L'amico di Sraffa
Status di un enigma
24 2. Le dita sotto il mento 29 3· Quale antropologia? 32 4· Spengler e la filosofia della storia Filologia. Il sostantivo «storia» 39 II. L'allievo di Spengler 55 55 I. Astigmatismo e presbiopia 58 2. Il filosofo miope 64 3· La tradizione morfologica 67 4· Ambivalenze della certC"LZa Filologia. L'aggettivo «storico» 71 81 III. Quale storia naturale? 81 1. Natura e storia 86 2. Una partenza tradizionale 88 3. Morfologia e rappresentazione perspicua 91 4. Questo Wittgenstein: paradossi della storia naturale umana 104 Filologia. L'espressione «storia naturale»
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INDICE
Appendici Tempi di gioco: gli scacchi
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I.
Arma a doppio taglio
121
2.
La regina di Wittgenstein
125 3· Gli scacchi di Saussure 130 4· Problemi in Persia: le trasformazioni ludiche
Tempi di esposizione: la fotografia 135 135 I. Due fotografi 136 2. Il caso Gatton 139 3· Mettere a fuoco 144 4· Zoom fotografico e povertà di storia 149 173
Bibliografia Indice dei nomi
Introduzione. Wittgenstein e fine della storia
1.
Un classico nel freezer
Non è un mistero, Ludwig Wittgenstein costituisce un classico del Novecento. Eppure, neanche cent'anni dopo la sua scomparsa, il filosofo austriaco sembra destinato alla crioconservazione. I suoi testi continuano ad agitare commentatori e specialisti circa questioni esegetiche e dilemmi filologici. Nel contempo la disputa che, ancora alla fine degli anni Novanta, vedeva analitici e continentali contendersi la proprietà intellettuale di Wittgenstein pare mutata in un precipitoso abbandono. Il mainstream analitico privilegia metafisica teorica, pragmatica sociale o addirittura una filosofia centrata sullo studio di una mente non linguistica. Il pensiero continentale è frammentato tra il recupero di Lacan, il tramonto di Habermas e qualche fenomeno idiosincratico à la Zizek. Questo libro nasce dalla convinzione che un materialismo nuovo e vitale necessiti di un confronto con il più importante filosofo del XX secolo. Il confronto potrà dirsi riuscito nella misura in cui otterrà due risultati. Un materialismo all'altezza dei tempi, cioè una rinnovata storia naturale (cap. 111), deve applicare Wittgenstein a Wittgenstein. Nella prefazione al suo libro più noto, l'austriaco dichiara di dover compiere «scorribande» circa «il concetto di significato, di comprendere, di proposizione» (RF, p. 3). Occorre effettuare scorribande lungo le migliaia di pagine del suo Nachlass, cioè degli scritti inediti. Con la stessa avvertenza di fondo, però. Le scorribande filosofiche non hanno nulla di estemporaneo o teppistico, sono piuttosto sortite «lunghe e complicate» (ibid.). Nella convinzione che sia impossibile distillare l'essenza del linguaggio, il filosofo privilegia uno stile di scrittura dall'andamento carsico, non lineare, ad «album» (ibid.). Di
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questo stile si può avere l'opinione che si crede; di certo non rappresenta una scorciatoia. Una nuova storia naturale è chiamata ad applicare la legge del Taglione: fare a Wittgenstein ciò che Wittgenstein ha fatto al linguaggio. Comporre un album fotografico che non abbia l'ardire di ritrarre l'essenza di questo autore perché impegnato a perseguire un compito più ambizioso: far uso di Wittgenstein, renderlo principio attivo della filosofia del XXI secolo. Per raggiungere l'obiettivo è necessario un secondo movimento teorico. Chi desideri assumere parte della ricerca filosofica di Wittgenstein deve arrendersi all'idea di un congedo. È in questa prospettiva che altrove mi sono occupato dell' «uso» (Mazzeo, 2016). Si tratta di proseguire il lavoro insistendo, ora, sulla nozione di storia. Il motivo è presto detto. Un materialismo che desideri raccogliere le sfide del presente (riduzione del linguaggio a comunicazione, emergenza ambientale, oscillazione tra guerra civile globale e assolutismo del libero mercato) non può schiacciarsi sul presente. La ragione è semplice: l'osanna del momento attuale, l'idea in sostanza che la storia sia finita, è il punto di forza della parola assorbita dagli in-put, di una distruzione di habitat che pare inevitabile e di un neoliberismo che sembra privo d'alternative. Non fosse che per questo, il nuovo materialismo deve farsi storico. Poiché la dicitura «materialismo storico» è gravata di connotazioni stratificate che ne hanno logorato presa e chiarezza, meglio concentrarsi su una nozione diversa ma ad essa imparentata (il grado di parentela non sarà oggetto della discussione). Il parente del materialismo storico, magari uno di quei parenti dei quali hai solo sentito parlare, porta il nome di «storia naturale». Attenzione: l'espressione non ammicca a una duplicità scissa. Sotto la scusa della divisione del lavoro teorico (al biologo la natura, all'archivista la storia) spesso si cela una crepa schizoide. Concede il naturalista duro e puro, per il quale la storia è una striscia a fumetti: l'umano è naturale e poi, in qualche modo, pure storico. No, i sapiens sono naturali perché storici. La storia permette alla nostra specie di sopravvivere. Ammicca, di converso, lo storicista rimandato quattro volte in biologia durante gli anni del liceo: gli umani sono storici e, in qualche modo, pure naturali. Ancora no, i sapiens sono storici perché animali: la storia non scende dal cielo, si fonda su facoltà corporee dei sapiens come il linguaggio, l'infanzia cronica, la specificità di un corpo bipede e
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implume (Mazzeo, 2019). Una nuova storia naturale è la costruzione dell'antropologia linguistica che emerge da questa doppia negazione. Ai fini del nostro discorso, l'espressione «storia naturale» presenta il vantaggio di essere ben presente nei testi wittgensteiniani e protagonista di una quantità discreta di studi recenti. Nel libro, la nozione costituirà un approdo dopo scorribande, lunghe e complicate, circa la questione preliminare della storia. Seppur implicitamente, abbiamo scovato dunque una delle ragioni per le quali Wittgenstein rischia di fare la parte del «classico nel freezer». Se ci si arrende all'idea che la storia sia finita, siamo condannati a un eterno presente. Freddi, nel frigo del tempo attuale, non resta che contemplare il passato prossimo wittgensteiniano come il più fastoso tra i surgelati. La crioconservazione di Wittgenstein è il sintomo di un processo più ampio che riguarda l'atteggiamento del mondo contemporaneo verso il tempo: il neoliberalismo mette in stand-by la storia perché ne costituirebbe il miglior finale possibile. Esiste una seconda ragione per affrontare in modo sistematico il tema della storia nel pensiero di Wittgenstein. L'austriaco non è solo vittima di chi vuole farla finita con la storia, ma anche suo complice, più o meno consapevole. Circa questo punto, davvero delicato, non è difficile individuare gli estremi di una discussione polarizzata. Per un verso, alcuni insistono sul fatto che la storia non troverebbe mai spazio nel Tractatus o nelle Ricerche. Lo scarso rilievo affidato alla questione farebbe di Wittgenstein un pensatore decisivo perché, si aggiunge, la storia poco conta per una filosofia degna del suo nome. Per un altro verso, altri ribadiscono che no, la storia è praticamente ovunque negli scritti di Wittgenstein, specie dopo il suo ritorno alla filosofia, e questo ne farebbe un pensatore imprescindibile perché la storia costituisce una dimensione fondamentale della vita umana. In sintesi: per chi è indifferente alla storia, Wittgenstein le è giustamente indifferente; per chi se ne interessa, l'austriaco continuamente la pensa e ne scrive. Uno degli obiettivi del libro è spezzare un circolo vizioso e proiettivo. La storia è una dimensione decisiva della vita animale umana; verso di essa, Wittgenstein è purtroppo miope. Per questo motivo, una nuova storia naturale può assumere la sua filosofia come punto di partenza e non d'arrivo. Della storia che finisce, l'autore delle Ricerche è vittima ma, almeno in parte, una delle fonti. Il filosofo è finito in un freezer al cui fabbisogno energetico contribuisce pure il suo Nachlass.
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2.
La storia non è omeostasi
Come il lettore potrà immaginare, si tratta di intraprendere una strada impervia giacché destinata a prender schiaffi sia dalla mano destra che dalla sinistra. L'uno dirà che la miopia verso la storia è un ovvio pregio di Wittgenstein, dunque non occorre indugiarvi; l'altro attaccherà ogni argomentazione ribadendo che «Wittgenstein è dei nostri, non dei loro» poiché, magari sottotraccia, la storia è diffusa nelle pieghe del lascito testamentario e di diverse opere edite. Per evitare fraintendimenti, e magari schivare qualche colpo, occorre esplicitare come intendere la nozione. La storia, innanzitutto, non coincide con il tempo cronologico. Sin dai Quaderni, Wittgenstein annota decine d'osservazioni sul tempo. Contemporaneamente afferma: «che cosa m'interessa la storia? Il mio mondo è il primo e l'unico!» (Q, 2.9.16, p. 228). Non abbiamo a che fare con una scissione della personalità provocata dalla Grande Guerra e dai suoi traumi. È l'ovvia conseguenza del disinteresse per quella particolare categoria antropologica che in tedesco trova il nome di «Geschichte». Nell'affermare la miopia di Wittgenstein verso la storia, intendo sostenere la presenza di un disturbo oculare verso l'insieme delle trasformazioni istituzionali e produttive grazie alle quali gli esseri umani riescono a salvare la pelle. La storia indica, in primo luogo, il modo nel quale i sapiens producono le condizioni di possibilità della propria vita. Che sia caccia o industria pesante, pesca o new economy, tipico della nostra specie è dover risolvere il problema della produzione dei mezzi di sussistenza nella contingenza del «proprio qui» (la valle del Nilo, le distese del Serengeti, le coste della Grecia) e del «proprio ora» (l'apprendimento infantile alle prese con le strategie vitali delle generazioni precedenti). Non potendo ricorrere, in modo automatico e veloce, a un repertorio di istinti e a un corpo specializzato come quello del leone o del grillo, nella storia l'umano sbarca il lunario grazie a trasformazioni che hanno la caratteristica di essere imprevedibili e necessarie. Sono imprevedibili poiché, a differenza della deriva dei continenti o della termodinamica, non è possibile calcolare dalle condizioni date il risultato del cambiamento futuro (la direzione della faglia, la dispersione d'energia). Sono necessarie giacché non possono non darsi: l'idea secondo la quale le popolazioni cosiddette primitive mancherebbero di storia è il residuo di
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una filosofia discriminatoria e positivista che pone l'Occidente contemporaneo al vertice dell'antropogenesi. Detto in altri termini, la storia è l'inverso della omeostasi. Quest'ultima ricerca costantemente l'equilibrio, tende a organizzarsi per via ciclica. La prima, invece, è la successione discontinua degli squilibri produttivi e istituzionali. Solo in questo modo la nozione di storia assume connotati non caricaturali. Non è la copia sbiadita della fotosintesi, non corrisponde alla versione cialtrona dei cicli dell'estro. La storia è il tempo dei sapiens. Per questo tempo, non quello dei fiumi o della geologia, Wittgenstein difetta di molte diottrie.
3. Ricordo e aspettativa
Afferma Reinhart Koselleck (1989, pp. 301 esgg.): categorie principali della storia sono «spazio di esperienza» e «orizzonte d'aspettativa». Lo spazio d'esperienza allude all'asse costituito dal «ricordo» (ivi, p. 303) poiché «l'esperienza è un passato presente, i cui eventi sono stati conglobati e possono essere ricordati» (ivi, p. 304). Al contrario, l'asse dell'aspettativa corrisponde a un «futuro presentificato, tende a ciò che non è ancora, al non esperito, a ciò che si può solo arguire e scoprire» (ivi, pp. 304-305 ). Per questo motivo, è imparentato con la «speranza» (ivi, p. 305). La storia non corrisponde a uno dei due assi o alla loro somma, quanto alla loro inevitabile divergenza. «Nella storia», infatti, «si verifica sempre di più o di meno di ciò che è contenuto nei fatti preliminari» (ivi, p. 307). Anche in quelle che Lévi-Strauss (1962, p. 254) chiama «società fredde», cioè a basso tasso d'evidenza del fatto storico, si dà «eterogenesi dei fini» vale a dire che «le cose accadono in modo diverso da quel che si pensa» (Koselleck, 1989, p. 307). Le categorie di Koselleck, proprio perché estranee alla filosofia di Wittgenstein, possono esser utili per un primo ritratto del problema che ne fissi da lontano alcune delle sagome principali. Dal punto di vista antropologico, Wittgenstein insiste tanto sulla dimensione del ricordo che della speranza. Nelle Osservazioni sulla filosofia della psicologia, ad esempio, troviamo una fitta rete di riflessioni sulla memoria quanto affermazioni circa la storia naturale tipicamente umana che fa dell'uomo colui che spera (cap. Ili). La seconda parte delle Ricerche si apre proprio con la speranza, cartina
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di tornasole del rapporto differenziale tra sapiens e cani: «può sperare solo colui che può parlare? Solo colui che è padrone dell'impiego di un linguaggio. Cioè i fenomeni dello sperare sono una modificazione di questa complicata forma di vita» (RF II, p. 230). Dal 1929, un elevato numero di note scritte e di lezioni è dedicato al tema dell'aspettativa (per una panoramica: Gargani, 199 5 ). Wittgenstein intreccia il problema del rapporto tra aspettativa e adempimento con quello della volontà tramite la ripresa costante di esempi ( «sollevare il braccio»: Q, 20.10.16, p. 233) che risalgono all'infatuazione giovanile per il pensiero di Schopenhauer (Mazzeo, 1998). In questo modo, la metafisica della volontà è esorcizzata insieme al mentalismo sostenuto da un altro punto di riferimento decisivo, Bertrand Russell. Tra aspettativa e adempimento, questa l'architrave del discorso, non si dà un ente intermedio di ti po mentale o volontaristico, giacché la partita tra i due termini si gioca dentro il linguaggio: «la somiglianza dell'aspettativa rispetto al soddisfacimento è mostrata dal fatto che entrambi sono espressi nelle medesime parole entro il linguaggio, e non da una proposizione ulteriore» (L 30-32, p. 52). Nelle lezioni dei primi anni Trenta tenute a Cambridge, si arriva a dire che «la relazione tra aspettativa e soddisfacimento è esattamente quella che sussiste tra calcolo e risultato. 2x2 ha come risultato 4. Un'azione è l'ultimo passo di un calcolo» (ivi, p. 8 5 ). Il calcolo non sembra lasciare margini allo iato storico tra esperienza e aspettativa (di questa impostazione si trova ancora un'eco nella più avanzata Grammatica filosofica: cfr. ad es. GF II, 80, § 13, p. 375). Nelle Ricerche filosofiche, le cose vanno meglio. «Nel linguaggio, aspettativa e adempimento si toccano» (RF I,§ 445). Il cambiamento non è banale: dalla coincidenza aritmetica si passa a sottolineare la presa linguistica, il punto di congiunzione tra «aspettare Paolo» e l'arrivo di Paolo. Il passaggio da coincidenza a congiunzione rende giustizia del cambiamento di Wittgenstein nel corso del tempo. Esso, però, testimonia anche il grado di miopia che pure le Ricerche mostrano di fronte alla tavola optometrica della storia. Paradossalmente, l'insistenza sul congiungimento tra aspettativa e adempimento in termini linguistici porta Wittgenstein ad assumere come assioma l'indifferenza per la storia, unico spazio comune a tre filosofi che, altrimenti, più diversi non potrebbero essere. Dopo lo sforzo di descrivere la connessione tra aspettativa e adempimento, resta poco fiato per sottolineare la
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scissione sorprendente che ca,ratterizza, il loro rapporto. Si badi: qua e là emerge nel testo qualche spunto adatto a un'analisi del genere. A volte, si insiste sul fatto che ci si aspetta un «colpo di fucile» ma non la «detonazione» ad esso correlata (RF I, § 442). Oppure non si esclude che, all'imperativo «esci dalla stanza», l'interlocutore possa uscire dalla stanza, farlo adagio oppure spiazzarci buttandosi «dalla finestra» (BT, 79, § 2, p. 371). Oltre questi spiragli, però, non si va. L'eterogenesi dei fini è sacrificata sull'altare della lotta allo psicologismo. La grammatica storica dell'aspettativa è barattata per quella linguistica del «foreshadowing [... ], il poter pensare adesso che si verificherà quello che acca,drà più tardi» (BT, 78, § 8, p. 3 6 5, corsivi nel testo). Wittgenstein gioca una splendida partita difensiva per sottolineare che «nel linguaggio tutto quanto è reso pubblico» (ivi, 80, § 29, p. 378, corsivo nel testo). Raramente, sortisce in folate d'attacco: la grammatica dell'aspettativa, infatti, è storica poiché allude a un orizzonte «non ancora visibile» (Koselleck, 1989, p. 306). L'aspettativa umana è tale proprio perché non si realizza secondo le modalità della sua prefigurazione. Il cardine pubblico dell'esperienza umana si gioca sulla non coincidenza tra quel che mi attendo e ciò che accade: compro un animale al mercato, mi attendo una bistecca e invece produco un'epidemia globale; mi do fuoco per l'esasperazione di un mondo ingiusto e faccio da sponda per un'insurrezione che costeggia il Medio Oriente. Questa mancanza di coincidenza non è riempita in anticipo dalla mente che vuole, piuttosto è svelata a posteriori dal carattere storico della prassi. Dal punto di vista del metodo, si verifica un fenomeno opposto e complementare. Se sul piano descrittivo l'aspettativa pare a Wittgenstein più interessante della memoria, l'attività filosofica consiste, almeno nel periodo della maturità, «nel mettere insieme ricordi per uno scopo determinato» (RF I, § 127). L'insistenza sulla descrizione polemizza con la pretesa riduzionista di fondare ogni sa pere sulla «spiegazione» (ivi, § 109). È per questo che «Wittgenstein non ha mai cessato di insistere sulla contrapposizione tra storia e filosofia» (Grondin, 2010, p. 363): le discipline storiche sono condannate in quanto versione umanista del riduzionismo biologico o chimico ( The Chemical History of a Candel di Faraday è forse l'unico libro citato da Wittgenstein che abbia la parola «storia» nel titolo: cap. I, filologia). La polemica verso la «spiegazione» si rivolge, come noto, anche
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contro la «scoperta» (RF I,§§ 124-126). La lotta al mentalismo finisce, una volta di più, col reprimere la dimensione storica; il contrasto al riduzionismo di chi urla che «solo la scienza è un'attività razionale» soffoca lo spazio antropologico della scoperta di chi s'accorge che l'economia di mercato non è quel Paradiso che immaginava o del padre che, esaudendo ogni desiderio filiale prima che sia espresso, ne ha organizzato la repressione esistenziale. La battaglia, sacrosanta, contro una scienza ridotta a feticcio si trasforma nel congedo preliminare dall'eterogenesi dei fini e dalle sue sorprendenti scoperte. Ad esser precisi, quest'ultime sono rivalutate solo quando rendono capaci di «smettere di filosofare quando voglio» (ivi,§ 133). Un altro modo per ribadire che lì, dove comincia la storia, la filosofia finisce. Paradossalmente, sul tema dovremo tornare (cap. III, § 4), è dalla matematica che Wittgenstein riceve gli stimoli migliori per affrontare il tempo storico. A proposito della scoperta matematica si precisa: «il fatto fondamentale, qui, è che noi fissiamo certe regole, una tecnica per un gioco, e poi, quando seguiamo le regole, le cose non vanno come avevamo supposto. Che dunque ci impigliamo, per così dire, nelle nostre proprie regole. [... ] Esso getta una luce sul nostro concetto di intendere» (ivi, § 125 ). È in simili frangenti che la prospettiva delle Ricerche si apre, seppur implicitamente, a una prassi la cui grammatica sia segnata in primo luogo dall'eterogenesi dei fini. Questo filo rosso è però aggrovigliato dalla polemica contro il progresso. Spiega Koselleck (1989, pp. 3 14 e sgg. ): da Kant in poi il concetto di «Fortschritt» serve per rendere conto della divaricazione sempre più ampia tra esperienza e aspettativa. La rapida trasformazione del mondo contemporaneo fa sì che sia sempre più difficile prevedere il futuro. Improvvisamente, dopo centinaia di anni, gli schizzi tecnico-artistici di Leonardo cominciano a divenire realtà; Pegaso prende forma in aerei a motore (alla cui ingegneria Wittgenstein contribuisce in modo significativo); il mondo produttivo passa dall'agricoltura all'industria rompendo consuetudini millenarie. Come è noto, le Ricerche si aprono con una citazione che invita il lettore a diffidare dal progresso, il quale, recita il testo di Nestroy, «ha la caratteristica di sembrare molto più di quel che è veramente» (RF, p. 1 ). In diverse note, Wittgenstein riprende la questione affidandosi all'apparato concettuale di Oswald Spengler (cap. Il). Il progresso è il corpo malandato di una «Zivilisation», cioè di un sistema culturale
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che, superata la maturità, si avvia verso un putrescente tramonto. Lo schema si ripete: l'opposizione al positivismo che vede nel capitale la salvezza dell'umanità si mescola alla rinnovata miopia verso la forbice tra esperienza e aspettativa. Per criticare il progresso, si chiude un occhio sul problema della storia.
4. Un gioco privo di giocattoli È possibile descrivere la coppia esperienza/aspettativa secondo una diversa terminologia. Sulla scorta di Lévi-Strauss e Saussure, Giorgio Agamben propone il binomio sincronia/diacronia, vale a dire l'opposizione tra istanti puntuali del «qui ed ora» e la loro successione lineare. Come accade per Koselleck, pure Agamben (1978, p. 79) insiste sul fatto che la storia non è identificabile con uno dei due assi quanto con «l'opposizione tra diacronia e sincronia che caratterizza ogni società umana». La storia non coincide con la cronologia, poiché ogni società umana istituisce la propria tramite un modo specifico di misurare il tempo. La storia non coincide con la progressione lineare dell'orologio diacronico poiché l'orologio è, lui stesso, il prodotto di una storia particolare. La storia giace nel contrasto e nel rimando tra due dimensioni, impersonificate dall'attività rituale e ludica. Il rito tende a schiacciare la successione degli eventi su una struttura presente già da sempre: il suo andamento allude a un'evasione dal tempo lineare. Il gioco, viceversa, schiaccia lo scarto sulla sponda diacronica: «tende a spezzare la connessione tra passato e presente e a risolvere e sbriciolare tutta la struttura in eventi» (ivi, p. 77 ). Mentre il rito organizza il tempo nelle more di una istituzione eterna (il carnevale o la messa), il gioco riparte continuamente da zero. Ognuno degli assi aspira, dunque, all' «abolizione della storia» (ivi, p. 82). Il rito prova a schiacciarla sul sincronico, il gioco nella diacronia. Il rito mira a un «eterno presente» nel quale la successione diventi contemporaneità; il gioco punta al «paese dei balocchi, in cui le ore corrono come baleni» affinché il presente si diluisca in un cambiamento continuo (ivi, pp. 81-82). Non sarebbe del tutto errato riassumere così il modo nel quale si trasforma l'atteggiamento di Wittgenstein: se il Tractatus riflette in modo esplicito sul fatto che «vive in eterno colui che vive presente»
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(T, 6.4311 ), le Ricerche si avvalgono dell'immagine di bimbi che giocano «as we go along» (RF I, § 8 3 ), via via che si procede. Si tratta di due vie diverse, certo, che conducono però a un risultato simile, giacché al filosofo la storia continua a sfuggire tra le dita. La tendenza del gioco ad assorbire la dimensione sincronica trova la sua «pietra d'inciampo», continua Agamben (1978, p. 82), nel giocattolo. «A gioco finito, il giocattolo si rovescia nel suo opposto e si presenta come il residuo sincronico che il gioco non riesce più a eliminare» (ivi, p. 84, corsivo nel testo). Il giocattolo resta, permane al di là del veloce fluire ludico: i mattoncini da costruzione si ostinano a trovarsi sul tappeto anche dopo la conclusione di un gioco che, via via che si procede, ne ha fatto automobili, palazzi, animali. Questo residuo costituisce il muro che il gioco produce e che, paradossalmente, il gioco non riesce a superare. Man mano che ci si allontana dal Tractatus, il pensiero di Wittgenstein diventa sempre più una «filosofia del gioco linguistico», nozione che figura tra i lasciti più rilevanti (e controversi) della sua parabola teorica. Già qualcuno ha avuto modo di notare che una filosofia del gioco linguistico non coincide automaticamente con una filosofia del gioco. Nelle Ricerche gli accenni al gioco infantile sono presenti, certo, ma in quantità meno rilevante di quel che si potrebbe immaginare (Rovatti, 2008). Di sicuro, nella filosofia di Wittgenstein non trova spazio il giocattolo, la pietra d'inciampo per la riduzione del sincronico al diacronico. A mostrarlo è un dato filologico sorprendente. Se si cercano nel Nachlass le tre parole che in tedesco traducono la parola italiana «giocattolo» ( «Spielzeug», «Spielsachen», «Spielwaren» ), il risultato è di una sola occorrenza (LM, § 50, p. 138): Immagina come un bambino potrebbe essere addestrato nella prassi della «narrazione degli eventi passati». Egli ha imparato a chiedere certe cose (per così dire a dare ordini. Cfr. 1). Parte di questo addestramento è stato l'esercizio del «denominare le cose». Il bambino ha così appreso a denominare (e a richiedere) una dozzina dei suoi giocattoli.
Non è casuale, forse, che una simile rarità emerga a proposito della «narrazione degli eventi passati». Il giocattolo emerge tra la sabbia solo per un instante, a proposito di un passato descritto nelle pieghe dell'ambiguità della parola tedesca «Geschichte» che, come l'italiano «storia», è valida per indicare tanto una dimensione antropologica
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che una forma specifica di narrazione (cap. I). Si concordi o meno con l'ipotesi di dettaglio, l'assenza del termine nel resto degli scritti rimane indicativa: il mondo linguistico di Wittgenstein è formato da giochi privi di giocattoli, da diacronie prive dell'attrito che possa aprirli al tempo storico. Se si procede ali' analisi degli esempi prediletti, di certo sono gli scacchi a figurare tra le forme concrete di gioco più ricorrenti. Gli scacchi sono oggetti ludici tipicamente adulti e per questo non figurano a pieno titolo tra i giocattoli (appendice I). Non a caso, Walter Benjamin (1940) apre le sue Tesi sulla storia con una metafora scacchistica per sottolineare l'i-nsufficienza dell'analogia. Gli scacchi sono lo scenario di uno dei trucchi metafisici tanto detestati da Wittgenstein. Sin dall'automa di fine Settecento ideato da Wolfgang von Kempelen, a volte giocano a scacchi macchine che sfruttano l'intelligenza umana di soppiatto. In passato, si trattava di un uomo di piccole dimensioni che, nascosto tra gli ingranaggi, animava un fantoccio esotico vestito con gli abiti di un distinto giocatore proveniente dalla Turchia. Oggi che i computer possono batterci per davvero, il gioco di prestigio è divenuto più insidioso. I «turchi» sono lavoratori del linguaggio trattati da macchine perché suppliscono a ciò che le macchine non possono fare ancora. Questo sono i «Turker» di Amazoo e i loro parenti prossimi sparsi per il mondo contemporaneo. Sfatare il trucco metafisico circa il tempo specifico dei sapiens significa guardare negli occhi, così lo descrive Benjamin (ivi, p. 7 5), il «nano gobbo, che era un asso nel gioco degli scacchi e che guidava per mezzo di fili la mano del burattino». Una filosofia che voglia fare a meno della storia è destinata ad esser manovrata da quel nano, perché le sarà sempre impossibile liberare automi spacciati per umani e umani scambiati per macchine. Il volume nasce da una fitta rete di discussioni e controversie. Amici cari, referees, studiosi conosciuti sui libri e poi per mail hanno contribuito a dare forma al testo. In modo un po' ingenuo sono partito dall'idea che fosse pacifico spiegare la turbolenta amicizia tra Wittgenstein e Sraffa sulla base di una diversa concezione del rapporto tra la storia e la filosofia (cap. I). Le reazioni a questa proposta, in alcuni casi durissime, mi hanno portato ad approfondire il rapporto tra Wittgenstein e Spengler, figura che qui propongo come
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nemesi etico-politica dell'economista italiano (cap. Il). Ho pensato che la costruzione di un apparato filologico in grado di ripercorrere la presenza del lessico direttamente legato alla storia potesse contribuire a perorare la mia causa o, quantomeno, a sbrogliare una quantità notevole di fraintendimenti. Per questo motivo, ogni capitolo è seguito da un 'incursione filologica cui affidare elenco e catalogazione dell'uso teorico delle parole tedesche che traducono l'italiano «storia»/«storico» e il concetto chiave in grado di riscattare, almeno in parte, la diagnosi circa il corpus wittgensteiniano: la «storia naturale» (cap. Ili). Ho poi accluso in appendice due saggi che arrivano a trattare per via indiretta il rapporto tra Wittgenstein e la storia: gli scacchi in un caso, la fotografia nell'altro. Ringrazio per le critiche e i suggerimenti Adriano Bertollini, Silvana Borutti, Moira De Iaco, Marina De Palo, Rosaria Egidi, Mauro Engelmann, Emanuele Fadda, Lia Formigari, Stefano Gensini, Franco Lo Piparo, Alessandro Lutri, Lucia Morra, Alois Pitchler, Paolo Virno e un paio di valutatori anonimi. Durante il soggiorno abitativo forzato legato all'epidemia COVID-19, Roberta Pasquarè mi ha sostenuto dall'Austria con i suoi consigli circa la traduzione di alcuni passi inediti. Per esplicitare lo spirito nel quale è stato scritto un libro critico verso alcuni aspetti della filosofia di Wittgenstein, pare doveroso precisare che il suo autore è un wittgensteiniano della prima ora. Nel novembre del 1992, durante il mio primo giorno di università presso «La Sapienza» di Roma, fui folgorato da una lezione circa le Ricerche filosofiche. Per commentare il testo, il professore usava il racconto di Borges nel quale si riporta la leggenda etiope secondo cui le scimmie non parlano perché non vogliono lavorare. Per saperne di più, andai subito a comprare i libri di Aldo Gargani e Anthony Kenny; poco dopo arrivai ai testi di Diego Marconi, Luigi Perissinotto, Jacques Bouveresse e Ray Monk. Era chiaro a chi avrei chiesto di seguirmi per la tesi di laurea. Ben presto, a Villa Mirafiori scoppiò la moda di una T-shirt con il ritratto di Wittgenstein incorniciato dal segno rosso del divieto. Guardavo quei ragazzi con cupa diffidenza e fiero astio; una notte di Capodanno mi capitò di discutere se potesse esistere un gioco linguistico privo di regole. Tempo dopo un secondo professore, all'epoca dall'aria davvero severa, cominciò a dimostrare nei miei confronti una generosità sorprendente e imprevedibile. Un
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tipico fenomeno storico. Diede fiducia a un pesce ripescato al fiume, offrendogli la possibilità di studiare (Wittgenstein e altro) presso l'università della Calabria. Il libro è dedicato ai miei due professori, Massimo Prampolini e Daniele Gambarara.
Nota editoriale Alcune parti del volume hanno trovato precedenti sedi di pubblicazione, al fine di un confronto con critiche e osservazioni. Il primo capitolo costituisce la rielaborazione del saggio Wittgenstein contro Sraffa: un'antropologia senza storia («Paradigmi», 2018, 2, pp. 333350). Il secondo riprende, con il rifacimento del primo paragrafo e l'aggiunta dell'ultimo, l'articolo L'allievo di Spengler. Wittgenstein e la storia naturale che figura nel testo a cura di Alessandro Lutri Immaginare forme di vita. Letture intorno e oltre il metodo di L. Wittgenstein, Villaggio Maori, Catania 2017, pp. 73-86, 181-192, 207-230. Il terzo include e integra quanto pubblicato sulla «Rivista italiana di filosofia del linguaggio» (2020, numero speciale SFL: Linguaggio ed emozioni 20I9, pp. 439-451) sotto il titolo Il leone non ha due code. Wittgenstein e la storia naturale. L'appendice I approfondisce un saggio apparso in inglese sui «Cahiers Ferdinand de Saussure» (71, 2018, pp. 61-78). L'appendice II ha trovato ospitalità nel volume Scatti del pensiero. La fotografia come problema filosofico, a cura di M.W. Bruno, G. Cosenza e C. Martino (Mimesis, Milano-Udine 2021, pp. 111-126).
I.
L'amico di Sraffa
1.
Status di un enigma
Tullio De Mauro è stato uno dei pensatori che ha lavorato con maggior assiduità sul pensiero di Ludwig Wittgenstein. Come racconta in una breve nota, De Mauro comincia a interessarsi all'autore delle Ricerche sin dal 1951. La cattedra di filosofia del linguaggio presso l'università La Sapienza di Roma affianca le Ricerche filosofiche al Corso di linguistica generale di Saussure come testo base di insegnamento per ben trentacinque anni (dal 1961 al 1996: De Mauro, 2006, p. 41). Non è strano dunque che uno dei testi più conosciuti del filosofo e linguista italiano, Introduzione alla semantica, si concluda con una riflessione su Wittgenstein. Si tratta di affermazioni tanto dense e impegnative che vale la pena riportarle quasi per intero (De Mauro, 1965, pp. 202-203): Nella concezione di Wittgenstein, consonante con quella dell'ultimo Saussure e dell'ultimo Croce, [... ) la lingua diventa davvero «un vascello sul mare». [... ] Questa concezione del parlare e della lingua rimanda, o per meglio dire, si fa incontro a una nuova concezione dell'uomo. [... ) Né Logica, né Arte, né Dio, né Sistema Razionale governano il vascello sul mare, ma soltanto uomini. L'uomo è il solo responsabile del suo parlare, del quale egli solo foggia, sorregge e trasforma forme e valori. Il suo parlare è uno dei suoi modi di intervenire nel mondo[ ... ]. L'esperienza semantica riposa dunque sulla possibilità d'azione dell'uomo. La nuova concezione che si sta delineando, non per estrinseca giustapposizione sorretta da mode accademiche [... ), si fa incontro alle filosofie che da Marx allo storicismo e al pragmatismo del Novecento si sono costruite sul primato e per il primato della prassi.
LOGICA E TUMULTI
2.2.
Si tratta di un brano fondamentale per la valutazione critica di uno dei filosofi che senza dubbio hanno più influenzato il pensiero del XX secolo. Per due ragioni di fondo. La prima: proprio perché immune da quel che lo stesso De Mauro (2006, p. 40) ha chiamato Wittgensteinfieber, questo passo dell'Introduzione alla semantica. non fa del filosofo austriaco il paladino del pensiero analitico ma un autore che appartiene alla galassia del materialismo europeo. La seconda: De Mauro dà per scontato che nelle opere di Wittgenstein sia possibile rintracciare facilmente la centralità della contingenza storica (a tal proposito si parla addirittura di «storicismo»). Mentre la prima affermazione può svolgere, ancora oggi, il ruolo di stella polare, la seconda merita un approfondimento. Nelle pagine che seguono, proverò ad argomentare infatti un'ipotesi diversa. La centralità della nozione di uso e prassi nella filosofia di Wittgenstein (cfr. ad es. il recente Lo Piparo, 2014) non implica, purtroppo, una visione storica della vita umana. Wittgenstein ci pone di fronte al compito di rileggere criticamente una filosofia della prassi tendenzialmente astorica.. Per avere una prima idea del problema, può essere utile affrontare quel che, ancora nel 1990, anno di edizione della più completa biografia di Ludwig Wittgenstein, costituisce un oggetto misterioso: il rapporto tra il filosofo austriaco e Piero Sraffa. Come è noto, nella prefazione alle Ricerche Wittgenstein riconosce esplicitamente un profondo debito nei confronti dell'economista italiano 1. Ad amici fidati confessa che «il maggior guadagno che aveva tratto dalle conversazioni con Sraffa era un modo "antropologico" di affrontare la problematica filosofica» (Monk, 1990, p. 260). Le loro discussioni lo facevano sentire «un albero cui tutti i rami fossero stati tagliati» (von Wright, 19 54, p. 23). Nonostante alcuni studi pionieristici (ad es. Rossi Landi, 1966), alla fine del XX secolo il quadro rimaneva però enigmatico, poiché di un rapporto tanto proficuo non sembrava essere rimasta traccia. «Della corrispondenza tra Wittgenstein e Sraffa», ammette Monk (1990, p. 388), ci è pervenuta «una unica lettera». Anche dopo la pubblicazione del Nachlass, la cifra di questo ringraziamento rimane nell'ombra. Delle diciannove occorrenze del nome di Sraffa rintracciabili nel lascito testamentario, ben nove (Item 117, pp. 114, 119, 125 2 ; Item 128, p. 44; Item 129, p. 4r; Item 159, p. 4or; Item 227a, p. 3; Item 217b, p. 3) compaiono all'interno di bo1.ze della prefazione alle Ricerche filosofiche, senza aggiunte che diano ragguagli sulle sue ragioni teoriche. 1
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23
Per molti versi, trent'anni dopo, le cose sono cambiate. L'interesse per le vicissitudini biografico-intellettuali di Sraffa e la ricostruzione dei sentieri filosofici ed esistenziali percorsi da Wittgenstein hanno prodotto risultati non trascurabili. È opportuno citarne tre: 1) Il rinvenimento (nel 2004-2006) e la pubblicazione (nel 2008) di lettere e appunti inediti (per la loro storia: Schweizer, 2012). 2) La collezione da parte di conoscenti o allievi di Sraffa di frammenti testimoniali circa il rapporto tra l'economista italiano e il filosofo austriaco (Roncaglia, 2000; Roncaglia, 2009; Kurz, 2009). 3) Una indagine più ampia circa incontri, conoscenze e milieu culturale della Cambridge degli anni Trenta (McGuinness, 2008a; Morra, 2016) in cui spicca il tentativo di ricostruire un rapporto non più duale ma triadico fra Wittgenstein, Sraffa e Antonio Gramsci (Davis, 2002a; Davis 2002b; Sen, 2003; Sinha, 2006; Lo Piparo, 2014; Seddone, 2014; Cascione, 2016).
La crescente quantità di materiale a disposizione ha prodotto uno spostamento storiografico. L'enigma costituito dalla relazione tra Wittgenstein e Sraffa lascia il posto a un paradosso: lo iato tra una affinità teorica che in molti giudicano profondissima e la documentazione di un rapporto personale certamente travagliato. In più di una circostanza ci si trova di fronte alla scena di un Wittgenstein costernato che insegue ostinatamente uno Sraffa sfuggente. Per un verso la letteratura critica ha sottolineato, nei modi più diversi, una piena convergenza di ricerca: «gli aspetti anti-formalisti del pensiero economico di Sraffa sono in perfetta conformità con le critiche di Wittgenstein alla filosofia formalista di Hilbert», scrive uno dei massimi conoscitori della filosofia della matematica di Wittgenstein (Marion, 2005, p. 400); «il modello presentato ne La produzione di merci a mezzo di merci» è paragonabile a «un gioco linguistico» (Andrews, 1996, p. 776); entrambi avrebbero dato «una spiegazione dell'azione in termini di relazioni sociali» (Sharpe, 2002, p. 125; cfr. Roncaglia, 2009, p. 24; Grieve, 2004, p. 113) tanto che l'affinità toccherebbe, oltre questioni generali di ordine teorico o metodologico-descrittivo (ivi, pp. 55 e sgg.; Schweizer, 2012, p. 147; Sinha, 2002, p. 15), le nozioni di «somiglianza di famiglia» (Davis, 2002a, p. 396; Arena, 2013, p. 93; Arena, 2015, pp. 1099-1100) e di «seguire una regola»
LOGICA E TUMULTI
(Davis, 2002b, p. 139). I più critici rovesciano l'elogio in un rimprovero: il pensiero di Wittgenstein e di Sraffa sarebbe caratterizzato da «un approccio analitico» (Sandemose, 2001, p. 222) che si contraddistinguerebbe per «una riflessione non critica» circa modalità ed esiti dello «sviluppo capitalista» (ivi, p. 193). Al di là delle inclinazioni interpretative emerge una costante. Dal punto di vista teorico, Wittgenstein e Sraffa sarebbero stati «gemelli diversi», fautori di posizioni simili seppur in discipline accademicamente lontane. Il mio obiettivo è mettere in discussione questo scenario. Per due ragioni. La prima riguarda la ricostruzione biografica. Se Wittgenstein e Sraffa erano tanto sintonici circa le proprie idee filosofiche, matematiche ed etico-politiche, appare misterioso il motivo per il quale le loro discussioni teoriche si fanno ben presto, a loro stesso dire, insostenibili (§ 2). Innalzare il vessillo del «carattere difficile» significa fare appello, in mancanza di evidenza documentale, al culto irrazionale del genio sregolato. Il secondo ordine di questioni è più importante, perché strettamente teorico. La lettura che fa di Wittgenstein e Sraffa due simbionti impedisce di mettere a fuoco un limite interno a uno dei più influenti filosofi del Novecento. La constatazione di questo limite è invece decisiva per chiunque auspichi una filosofia materialista all'altezza del tempo presente: anche nella più raffinata delle sue descrizioni antropologiche, Wittgenstein difetta spesso della dimensione storica. Propongo l'ipotesi che sia stata proprio questa caratteristica della filosofia wittgensteiniana a irritare Sraffa (§ 3), al punto da interrompere ogni discussione (esplicitamente nel 1946, ma già dal marzo 1934 gli incontri sembrano rarefarsi: McGuinness, 2008b, p. 481 ). La passione manifestata da Wittgenstein per la filosofia di Spengler non fa che peggiorare la situazione, sia per quel che riguarda il rapporto con l'economista (§ 4) sia, più in generale, per quel che concerne l'assetto teorico ed etico-politico della filosofia che ruota intorno alle Ricerche (cap. Il).
2.
Le dita sotto il mento
Di solito il paradosso di Wittgenstein e Sraffa, solidali sul piano teorico ma scontrosi fino al parossismo nelle discussioni filosofiche, viene spiegato ricorrendo a idiosincrasie personali. Si fa appello alle
I. L'AMICO DI SRAFFA
bizzarrie caratteriali di Wittgenstein (Schweizer, 2012, p. 146), a uno Sraffa «difficile da sopportare» (Cascione, 2016, p. 52), fino a ipotizzare una liaison di tipo «erotico-sentimentale» (Lo Piparo, 2014, p. 2 5 ). Il problema di simili congetture non è di essere pruriginose2 , quanto di scindere in modo preventivo modalità di discussione e contenuto del dibattito. A tal proposito occorre ribadire un punto decisivo: le discussioni di cui abbiamo testimonianza non sono di tipo personale (non riguardano cioè gusti musicali o affinità elettive), poiché sono, i due protagonisti lo dichiarano esplicitamente, incontri il cui nodo centrale è rappresentato da «argomentazioni» (cfr. ad es. L, 171-172, pp. 190-194). Una volta assunto l'atteggiamento interpretativo delle sfere impermeabili (brutto carattere vs affinità teorica), non stupisce che i frammenti della discussione tra i due appaiano incomprensibili, tanto che per spiegarli diventa necessario l'intervento di un protagonista terzo. A tal proposito, Antonio Gramsci rappresenta certamente una figura importante. Se però non si scioglie il nodo del rapporto teorico tra Wittgenstein e Sraffa, il segretario del Partito comunista italiano rischia di interpretare il ruolo del deus ex machina. Non stupisce nemmeno che, di solito, lettere e appunti fino a qualche anno fa inediti vengano oggi commentati in modo generico, come testimonianza di un intreccio teorico destinato a rimanere opaco: «la documentazione è senza dubbio affascinante, anche se, va detto subito, non presenta nessuna "rivelazione filosofica": chi cercasse nuove teorie o chiarimenti sulla filosofia di Wittgenstein resterebbe forse deluso», si ricorda in una dettagliata analisi dei materiali (Schweizer, 2012, p. 250). Il rischio è ritrovarsi inchiodati alla resa, quasi incondizionata, cui è costretta una delle prime indagini circa la questione: «sul rapporto tra Wittgenstein e Sraffa la conclusione è una non-conclusione» (Albani, 1998, p. 173). Ciò non vuol dire, naturalmente, che tre decenni siano passati invano. Il triangolo Wittgenstein-Gramsci-Sraffa si giova di sostegni filologici non secondari, come quelli che riguardano il termine Praxis3. Sembra certo, inoltre, che i due abbiano avuto un impatto De Vivo, Naldi, 2015, p. I 10. I due autori criticano aspramente la ricostruzione del legame tra Wittgenstein, Gramsci e Sraffa proposta da Lo Piparo (2014). Per una replica affilata, si può consultare il sito della casa editrice Donzelli con un commento interlineare di Lo Piparo (2015) alla recensione. 3 Lo Piparo, 2014. Al contrario, Borutti (2016, p. 36 nota 19) sostiene che «le occorren1..e di "Praxis", data la loro scarsità, non possono essere considerate significative» 2.
2.6
LOGICA E TUMULTI
decisivo l'uno sull'altro: se Wittgenstein lo mette nero su bianco nella prefazione alle Ricerche e nei manoscritti, negli ultimi anni della sua vita Sraffa allenta almeno di un poco la propria reticenza nei confronti dell'austriaco. Alcuni studiosi ipotizzano che nel lavoro dell'economista sia possibile ravvisare la presenza di diverse idee wittgensteiniane (Sinha, 2002; Kurz, 2009 ). Ricerche d'archivio stabiliscono addirittura ora e data di quel che si presume sia stato il primo incontro: «17 febbraio 1929 alle 4,30 del pomeriggio» è l'appunto di Sraffa rinvenuto in uno dei suoi Cambridge Pocket Diary (Kurz, 2009, p. 363 nota 2). Anche l'episodio più celebre circa il peso che ebbe l'economista sull'evoluzione filosofica di Wittgenstein ha tratto giovamento dalle ultime indagini. Racconta Norman Malcolm (1958, p. 83) in uno dei primi Memoir biografici su Wittgenstein: un giorno (mi pare che fossero in treno), mentre Wittgenstein sosteneva che una proposizione e ciò che essa descrive devono avere la stessa «forma logica», la stessa «molteplicità logica», Sraffa, con un gesto tipico dei napoletani che esprime qualcosa di simile al disgusto o al disprezzo, si passò la punta delle dita di una mano sotto il mento, con un movimento verso l'esterno. Poi domandò: «qual è la forma logica di questo?».
La decennale ritrosia di Sraffa nel parlare del rapporto con Wittgenstein4 ha prodotto più di un dubbio circa la veridicità del ricordo di Malcolm, tanto da indurre Amartya Sen (2003, p. 1242) ad affermare che si tratterebbe «più di un racconto edificante che di un avvenimento realmente accaduto». In effetti la ripetizione dell'episodio, spesso con semplice valore coreografico, ha prodotto varianti imprecise. Una delle più esotiche trasforma addirittura il gesto in «siciliano» (Samuelson, 2000, p. 13 9 ). Di recente è emerso che il racconto narrato da Malcolm è confermato da Sraffa in più di un'occasione: a voce il 21 dicembre del 1973 (Roncaglia, 2000, p. 44 nota giacché il termine ricorre, tra forma sostantivale e aggettivale, in sci paragrafi dei quali solo quattro rilevanti (ivi, pp. 24-25). Uno sguardo complessivo al Nachlass di Wittgenstein mostra, però, una più massiccia presenza dcli, espressione che supera il centinaio di occorren1..c (Mazzeo, 2016, pp. 82-85). • Durante alcuni colloqui avvenuti tra il 1958 e il 1963, Sraffa risponde con «puzzling answers» alle domande di Scn (2013, p. 1243). Sraffa è altrettanto evasivo quando nel 1960 Rossi Landi lo incalza circa il rapporto con Wittgcnstcin (Albani, 1998, p. 170).
I. L'AMICO DI SRAFFA
22; Roncaglia, 2009, p. 27 nota 8); per iscritto, il 23 ottobre del 1974, l'economista precisa di aver parlato di «grammatica» e non di «forma logica» (Schweizer, 2012, pp. 211-212; Engelmann, 2013, pp. 152-153). Assodata la veridicità dell'episodio, è possibile fare un passo in avanti. Perché il gesto di Sraffa avrebbe avuto un impatto così potente su Wittgenstein? La spiegazione più diffusa è che l'esempio proposto da Sraffa sarebbe stato utile per mettere in discussione l' atomismo logico del Tractatus (Davis, 1988, p. 32) e l'idea del linguaggio come calcolo (De Mauro, 1980, pp. 66-67). Se, come sembra, l'episodio è da collocare nei primi anni Trenta (si stava parlando di «grammatica», non di «forma logica» ricorda Sraffa)s, il quadro cambia. All'epoca Wittgenstein ha superato, o sta già superando per altre vie, l'impianto del suo primo libro. L'episodio va letto, allora, in maniera diversa: non come testimonianza di una obiezione assorbita, quanto come indizio di un contrasto teorico mai sopito. In fondo, non ci sarebbe di che meravigliarsi. La metafora impiegata da Wittgenstein - un albero cui sono tagliati i rami - indica un rapporto salutare ma doloroso. I vecchi rami sono potati, ciò non vuol dire che ne nasceranno di nuovi, o che sia già chiaro quale forma assumeranno. Nella sua semplicità, il gesto di Sraffa rimanda a una precisa dimensione linguistica: al mondo del dialetto, della parlata locale, del singolo contesto storico. Qui è l'aggettivo a fare la differenza: storico. Non si tratta solo di sfuggire ad analogie troppo stringenti tra lingua e calcolo. Sraffa non propone un gesto qualsiasi (o dalla pregnanza transculturale come l'indicazione con il dito in una certa direzione), ma un movimento della mano legato a una tradizione di un gruppo di parlanti. Così facendo, l'economista invita l'interlocutore a una mossa di importanza teorica decisiva, vale a dire inserire s Engelmann (2.013, pp. 153 e sgg.) argomenta in modo convincente a favore dell'ipotesi secondo la quale l'episodio del gesto sarebbe da collocare nella prima metà degli anni Trenta. Morra (2.016, p. 103) non esclude che l'episodio possa essersi verificato in un periodo ancora precedente, vale a dire nella «primavera del 1930•. In una nota al Big Typescript (la redazione dattiloscritta del testo è del 1933, ma poiché si tratta di una aggiunta scritta a mano è difficile datarla con esattezza), sarebbe possibile trovare traccia dell'episodio (BT, 2., S 2.2., p. 13, nota 2.0). È sempre lo studioso brasiliano (Engelmann, 2.013, p. 153) a sostenere che le critiche di Sraffa «erano dirette a un aspetto del Tractatus che nel Big Typescript era sopravvissuto: l'idea che il linguaggio debba essere un sistema di regole fisse e che funziona come un calcolo•.
2.8
LOGICA E TUMULTI
il ca.mbiamento storico all'interno del proprio impianto. Propongo di parlare di tensione teorica. (non solo personale) irrisolta perché, di fatto, un simile inserimento avverrà in minima parte. La sensibilità di Wittgenstein verso il profilo storico della vita umana rimarrà limitata. Quello di Sraffa, la mano sotto il mento di chi indica indifferenza sprezzante, è un gesto popolare: allude a una precisa collocazione socio-economica, quella di chi usa la lingua secondo un registro informale; richiama la spazialità circoscritta di parlanti non semplicemente italiani, ma meridionali. Il fatto che Sraffa non avesse origine napoletana (pare che il gesto possa esser stato implicitamente suggerito da un italianista di stanza a Cambridge, Raffaello Piccoli, frequentato in quel periodo dai due: Morra, 2016) avvalora l'ipotesi. Sraffa non propone una scena quotidiana folkloristica, che magari faccia appello a una qualche autenticità territoriale ( «a casa mia si fa così»). Offre un preciso controesempio antropologico che ha la caratteristica di non appartenere a esperimenti mentali, popoli immaginari o tribù fittizie (modalità consueta per Wittgenstein: Andronico, 1998) ma a parlanti che operano in una porzione storicamente circoscritta dell'umano spazio-tempo. È un aspetto della riflessione teorica che a Sraffa sta molto a cuore. Wittgenstein mostra di saperlo in una lettera del 193 5: nel «tentare di formulare che cos'è che ti irrita nel modo di pensare di Cambridge e di me in particolare», il filosofo individua il fatto che tali persone (lui incluso) «bizzarramente si sforzano di parlare delle cose "in maniera imparziale", pretendono di sapersi svestire della propria pelle,[ ... ] come se degli attori dimenticassero di non essere realmente i tizi che impersonano» (L, 184, 17.3.1935, p. 205). Nonostante l'ammissione, la dimensione storica non riesce a penetrare in profondità nel pensiero wittgensteiniano. Potrebbe esser stato questo uno dei motivi principali per i quali Sraffa si mostra sempre più insofferente nei confronti di Wittgenstein. In un ampio numero di missive emerge il fatto che la frattura tra i due è da ricondurre a una scelta dell'economista. Già nel gennaio del 1934 Wittgenstein si lamenta del fatto che «le ultime conversazioni non sono state proficue» (ivi, 169, p. 188); un anno dopo aggiunge che «quando guardi dentro di me vedi che lì c'è qualcosa che non va» (ivi, 194, p. 215) o che «niente di quello che dico ha un vero interesse per te» (ivi, 195, p. 215, corsivo nel testo). Fino alla rottura definitiva del 1946: «sarò disposto a parlare di qualsiasi cosa», disse Wittgen-
I. L'AMICO DI SRAFFA
stein a Sraffa, che rispose «sì, ma alla tua maniera» (Monk, 1990, p. 479, corsivo nel testo). Il mancato cortocircuito nei ringraziamenti editoriali è sintomo di una differenza di vedute: nella prefazione alle Ricerche Wittgenstein ringrazia Frank Ramsey e Piero Sraffa; quest'ultimo nella sua prefazione a Produzio,ze di merci a mezzo di merci ringrazia Ramsey senza citare però il filosofo austriaco (Sraffa, "")6 19 6o,p.vu.
3. Quale antropologia?
Proviamo a cambiare prospettiva. Anziché contrapporre il dato biografico a quello teorico, conviene cogliere il loro intreccio. Una fitta rete di incontri di discussione (qualcuno ne fissa il numero in 237: Schweizer, 2012, p. 142) porta a una rottura che si rivela insanabile. Una rapida osservazione di Sen (2003, p. 1243) offre una pista preziosa: «Sraffa potrebbe essere stato esasperato dalla ingenuità politica di Wittgenstein». In effetti, il carteggio che riguarda i dubbi del filosofo circa un possibile viaggio nell'Austria nazista è pieno di osservazioni naives. Wittgenstein sembra non rendersi conto, nono6
Un referee anonimo obietta che «dopo il 1946 Sraffa e Wingenstein non ripresero le loro conversazioni, ma si diedero ancora alcuni appuntamenti». L'osservazione consente di chiarire il punto. Nel 1946, come si diceva, la situazione è già logorata e i due non si incontrano più per discussioni teoriche. Successivamente, c'è traccia di contatti che filano via lisci solo se rimangono su un registro vagamente amicale. Quando invece i due provano ad affrontare discorsi più impegnativi, il tono delle missive torna a essere all'insegna dell'incomprensione reciproca. È a questo carattere ormai solo sporadico-conflittuale che mi riferisco parlando di «rottura definitiva». Nel 1947, Wittgenstein ricostruisce esplicitamente i tormenti del rapporto con uno Sraffa che Ludwig arriva a definire «un maestro elementare irritabile» fino ad ammonirlo a «non diventare completamente disumano» (L, 373, 10.10.1947, pp. 362-363). Dopo quell'episodio, nell'epistolario figurano solo cinque lettere: in una Wittgenstein chiede a Sraffa di salutargli la madre (ivi, 376, 5.11.1947, p. 364), in un'altra (ivi, 410, n.7.1949, p. 397) Wittgenstein accenna a una conversazione telefonica nella quale si era forse verificato un equivoco. «Se le nostre lingue (la tua e la mia) fossero state più simili», afferma Wittgenstein con rammarico. Per poi concludere: «Quando oggi ho telefonato, il motivo era che adesso mi sentivo di poterti dire qualcosa, se ci fossimo incontrati. Non ha funzionato». In una lettera dello stesso anno il filosofo viennese insiste su «differenze tra le loro intere vite», paragonabili a quelle che sussistono tra «un elefante» e un «pesce» (ivi, 411, 23.8.1949, pp. 398-399; cfr. Kurz, 2009). Nel 19 50 due missive cordiali ma lapidarie accennano a uno scambio di oggetti (tappi per le orecchie, riviste) e a incontri che però non sembra avranno mai luogo (ivi, 426, 10.7.1950, p. 4II; 429, 24.10.1950, p. 413).
30
LOGICA E TUMULTI
stante i ripetuti avvertimenti di Sraffa, del guaio nel quale rischia di cacciarsi. Non comprende la gravità politica della situazione. Del resto, qualche anno prima aveva dichiarato: «mi interessa sapere quali modi di dire useranno gli austriaci una volta diventati nazisti» (L, 170, 31.1.1934, p. 184), quasi fosse un turista in procinto di intraprendere un viaggio esotico. C'è da aggiungere che in questo caso Sraffa si mostra paziente. Spiega per filo e per segno come stanno le cose (l'Austria non esiste più, «adesso sei un cittadino tedesco»: L, 218, 14.3.38, pp. 234-235), passa per Vienna nei suoi viaggi verso l'Italia al fine di far visita alla famiglia del filosofo, incita quest'ultimo a chiedere la naturalizzazione inglese. Wittgenstein gli dà ascolto: nel 19 3 8 non parte per l'Austria e fa richiesta di cittadinanza, sebbene la cosa non lo entusiasmi. L'esasperazione di Sraffa, a cui fa cenno Sen, non sembra nascere dunque dalla discussione circa l'assetto politico internazionale del tempo (anche se, a proposito della guerra in Spagna, i due interlocutori non sembrano in sintonia: L, prima del 30.9.1936, 200, p. 220). L'ingenuità politica di Wittgenstein, che suscita l'irritazione di Sraffa, riguarda una dimensione teorica più generale perché l'autore del Tractatus tende a espungere la storia anche dall'indagine sui giochi linguistici e sulle forme di vita. A sostegno di questa ipotesi è possibile addurre diversi indizi testuali. Mi limito a indicarne due: 1) Il problema della scarsa presenza della dimensione storica nelle
riflessioni di Wittgenstein emerge in modo esplicito negli appunti di Sraffa. 2) Per quanto riguarda la filosofia della storia, il punto di riferimento di Wittgenstein è Oswald Spengler ed è documentato quanto questa opzione risulti insopportabile al pensatore italiano (L, 2 50, 15.3.1939, pp. 265-266; Schweizer, 2012, p. 222; Brusotti, 2016, p. 44; cfr. § 4). Tra i documenti ritrovati tra il 2004 e il 2006, poi acquistati dal Trinity College, ci sono appunti che danno parzialmente conto, caso più unico che raro, di una delle discussioni tra Wittgenstein e Sraffa da entrambi i punti di vista. Wittgenstein si chiede: «perché la moda cambia?» (L, 171, 21.2.1934, p. 191). La sua risposta sottolinea che non esiste «un serbatoio in cui vengono conservate le cause reali del-
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le nostre azioni», vale a dire «la mentalità di un popolo» (ibid. ). Ribattere che ciò accade «perché il gusto cambia» (ibid.) è sbagliato giacché presuppone «che ogni azione che una persona compie è preceduta da un particolare stato d'animo di cui quell'azione è l'esito» (ibid.). Alla mossa antipsicologista (per Wittgenstein del tutto consueta) se ne associa, però, un'altra. Si può parlare della fisionomia di un re o di una nazione come la Germania1 a patto di non ritenere «che un certo tipo di caratteristiche (di cui la mentalità è l'espressione) non cambierà» (ibid.). Wittgenstein, in altre parole, sembra dar credito all'impiego di una descrizione fisiognomica di fenomeni storico-sociali come la sorte di un monarca o le trasformazioni di uno Stato nazionale. Sarebbe importante intendere in modo corretto la nozione di fisionomia: non serbatoio immutabile di stati psichici, ma volto nuovo che una persona o un popolo può assumere dopo un cambiamento magari imprevisto. Il presunto gemellaggio teorico Wittgenstein-Sraffa, tanto in voga nella letteratura, ha fatto sì che questa posizione fosse data per condivisa: «questi documenti mostrano», argomenta Arena (2015, p. 1103), «come entrambi gli autori tentino di caratterizzare la "fisionomia di un popolo"». Gli appunti di Sraffa, però, sembrano dire una cosa molto diversa (L, 172, 23.3.1934, pp. 193-194): Il re, la Germania - la fisionomia - il vizio cli ragionamento sta nell'assumere che la fisionomia non cambia. No, l'errore è supporre che la fisionomia sia il serbatoio di cambiamenti primari. Ciò che ci serve non è un serbatoio di cose immutabili, ma un serbatoio di cose che cambiano per prime. È questo il punto. Secondo me, il serbatoio deve contenere cose concrete e definite, preferibilmente misurabili e verificabili [... ]. Le fisionomie non lo sono; sono fatte dei miei pregiudizi, delle mie simpatie, ecc. [... ]. A me serve un serbatoio cli cose i cui cambiamenti saranno visibili prima, o più precisamente o sicuramente [... ] cose come la quantità di carbone prodotta dalla Germania (se è pertinente), non cose come lo spirito del popolo tedesco.
Altro che consonanza: Wittgenstein propone una lettura fisiognomica delle forme istituzionali in polemica con l'idea del serbatoio di attitudini psicologiche; Sraffa lavora all'individuazione di un serbaNel Big Typescript (IIT, 110, S 3, p. 524), «Volk» e «Konig» compaiono come parole chiave di un passo nel quale Wittgenstein lavora sulle idee di Spcngler (cfr. Item 211, p. 674; forse del 1932: von Wright, 1982, p. 73). 7
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toio storico di cambiamenti imminenti, costituito da fattori produttivi che riguardano ad esempio la quantità del carbone estratto in miniera. Agli esempi percettivi di Wittgenstein che traccia cerchi sulla carta (L, 171, 21.2.1934, p. 192), Sraffa contrappone il fatto che «quest'anno la coltura dei bachi è andata male» o che «i colori saranno scuri per resistere allo sporco di Londra» (L, 172, 23.2.1934, p. 194). A emergere è un rovesciamento che trova un'ancora per la discussione comune solo nell'antipsicologismo (Davis, 1988, pp. 343 5 ). Wittgenstein ripudia ogni serbatoio mentale e lavora sulla nozione di fisionomia; Sraffa precisa in che modo la metafora del serbatoio possa funzionare ed esclude che il concetto di fisionomia possa vantare la minima utilità teorica. Una lettera successiva, da poco rinvenuta e risalente all'11 marzo del 1934, rafforza l'impressione (De laco, 2020, pp. 105-109). Nel rispondere al filosofo italiano, Wittgenstein insiste sulla nozione di «fisionomia» (ivi, pp. 106-107) e di «gusto» (ivi, p. 109 ). Di fronte al controesempio del carbone, prova a concedere: «Se sei in grado di rendere degne di fiducia le previsioni del futuro della Germania in base alla quantità di carbone prodotta [... ] ciò è meraviglioso» (ivi, p. 108). O variazioni di gusto oppure previsione scientifica. La storia continua a figurare come il terzo escluso.
4. Spengler e la filosofia della storia
All'inizio degli appunti che abbiamo appena visto, Sraffa si lamenta del fatto che Wittgenstein salti continuamente da un tema all'altro. La critica non è frutto di una idiosincrasia. Non è certo il brutto carattere (ammesso fosse tale8 ), oggetto di più di un rimprovero da parte del filosofo austriaco, a fargli sottolineare la necessità di comporre «storie lunghe, non storie brevi» (L, 172, 23.3.1934, p. 193 ). Secondo Sraffa, solo in questo modo è possibile cogliere il carattere storico della 8
Le lamentele di Wittgcnstcin circa il modo nel quale Sraffa discute non trovano riscontro, ad esempio, nel racconto di Nicholas Kaldor (1986, pp. 325-325}, secondo il quale Sraffa era un uomo «modesto e riservato, non cercava mai di mostrare la sua superiorità schiacciando un avversario nella discussione». In una conversazione del 2002, Pierangelo Garegnani ricorda, al contrario, che «nella discussione Sraffa si animava a tal punto da alzare il tono della voce fino a gridare» (Schweizer, 2012, p. 146).
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vita umana: per dipanarsi, l'intreccio tra fattori produttivi, cambiamenti ambientali, trasformazioni dell'ethos ha bisogno di una scena descrittiva sufficientemente ampia. Alcuni biglietti ritrovati nel lascito testamentario di Sraffa sembrano confermarlo. Nel commentare il cosiddetto Libro Blu, uno degli scritti preparatori alle Ricerche, Sraffa scrive (Venturinha, 2012, p. 189; Schweizer, 2012, p. 162): Tu dici: Circostanze. Perché produci sempre o inventi frasi? Perché non le prendi dal lavoro di qualche filosofo, ad es ... Causa. È, storicamente, vera? Rimedio. Non è in realtà una cura? Metafisica, perché non teologia? Disputa sulla psicanalisi.
Si tratta di frammenti la cui comprensibilità è parziale. Su un punto, però, Sraffa insiste con chiarezza. Occorre passare da esempi fittizi (espressioni linguistiche inventate, uscite chissà da dove) a campioni linguistici ed etico-politici storicamente dati. Il riferimento ai «filosofi» non è un richiamo a una qualche correttezza accademica, ma alla necessità di confrontarsi con forme storiche del pensiero. Lo stesso vale per la coppia «metafisica-teologia» e «rimedio-cura», di cui il caso della psicanalisi costituisce espressione concreta: «quando tu descrivi le cause di questi enigmi prescrivi il rimedio, agisci come uno scienziato (Freud)», incalza subito dopo Sraffa (ibid.). Come a dire: anche il tuo lavoro si colloca all'interno del linguaggio e della sua utilizzazione da parte di attori concreti; non costituisce un occhio disincarnato in grado di decretare quale sia il buon uso delle parole. Sraffa invita Wittgenstein a non considerare il lavoro filosofico esterno alla trama dei fatti storici, a non presumere di potersi collocare fuori dallo spazio-tempo umano. All'economista non sta a cuore una qualche sociologia della conoscenza, ma una battaglia contro lo psicologismo (Kurz, Salvadori, 2005; Marion, 2005, pp. 387 e sgg.) condotta con armi più efficaci di quelle impiegate da Wittgenstein. Anziché fare appello alla fisiognomica (accettandone di fatto le derive romantiche), bisogna ricorrere a fattori misurabili mediante i quali chiarire le dinamiche antropologiche in esame. Questi fattori misurabili sono in larga misura storici, giacché riguardano le modalità di produzione e gli assetti istituzionali nonché, più in generale, la molla in grado di modificare i giochi linguistici e le loro fondamenta.
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Sulle scelte personali circa il mondo politico degli anni Trenta Wittgenstein dimostra di dare ascolto a Sraffa; lo stesso non può dirsi quando si tratta di fare un salto di ordine teorico. Se occorre mettere a fuoco la politicità storica intrinseca agli esseri umani, Wittgenstein fa fatica, non va oltre qualche accenno. Ricorda che il linguaggio è paragonabile a una città stratificata per epoche e quartieri (RF I, § 18), concede un laconico «d'altra parte, il gioco linguistico cambia col tempo» (DC, § 2 56; cfr. cap. II, § 4). Il fatto che il filosofo austriaco non prenda a sufficienza le distanze da Oswald Spengler (1880-1936), sua bussola d'elezione per orientarsi nei fenomeni storici, sembra confermare queste difficoltà. È proprio una citazione di Spengler a far emergere una dissonanza teorica tanto profonda da sconfinare nello screzio personale (L, 2 50, 15.3.1939, pp. 265-266, corsivo nel testo): Caro Sraffa, ti accludo il biglietto di mio nipote con la citazione di Spengler. [... ] Quanto alla citazione di Spengler voglio precisare che, benché non mi sembri di alcuna importanza che tu non ne faccia nulla, mi sembra tuttavia importante il fatto che quando te la citai la tua reazione fu un sorriso (di un certo tipo). Devo confessare che questo fenomeno non mi piace affatto. Si tratta, naturalmente, del solito atteggiamento di disprC"LZo per quello che uno non capisce.
Difficile credere che Sraffa non capisse Spengler, o che addirittura non lo conoscesse (almeno due delle sue opere erano presenti nella biblioteca dell'economista9 ). È più probabile che Sraffa semplicemente lo considerasse l'antitesi della propria impostazione. Non bisogna dimenticare che Spengler è un filosofo talmente reazionario da essersi meritato la traduzione italiana di Julius Evola. Ne Il tramonto dell'Occidente, decisiva è «la lotta tra denaro e sangue» (Spengler, 1918, p. 1396): idea molto diffusa nel pensiero autoritario del Novecento. Quanti sottolineano, spesso giustamente, la convergenza tra Spengler e Wittgenstein non si preoccupano di precisare il senso etico-politico
9 Nel catalogo della biblioteca del Trinity College che registra i libri donati da Sraffa (Schweizcr, 2012, pp. 104 e sgg.), è possibile trovare sia l'edizione inglese del 1926 dc li tramonto dell'Occidente (collocazione: «Sraffa 1013») che quella tedesca dc L'uomo e la tecnica edita nel 1932 (collocazione: «Sraffa 2357»). Hark (1990, p. 35, nota 12) congettura che pure Wittgcnstein possa aver letto L'uomo e la tecnica.
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degli scritti del primo 10• Solo così è possibile che Allan Janik (2008, p. 145) possa affermare che «Spengler spiana la strada alla forte influenza di Sraffa su Wittgenstein». Come osserva McGuinness (2008a, p. 147 ), la lista originale dei nomi che avrebbero influenzato Wittgenstein contenuta in un appunto del 1931 propone in una prima versione solo due coppie: Frege e Russell, Sraffa e Spengler «le "muse" rispettivamente della prima e della seconda filosofia». Il parallelismo è più radicale: se Frege e Russell agiscono nello stesso campo teorico (la logica) con risultati opposti (l'antinomia di Russell segna di fatto il crollo dell'impianto teorico di Frege), Spengler e Sraffa lavorano sul mondo storico secondo prospettive inconciliabili. Wittgenstein incontra i due quasi simultaneamente: comincia a frequentare in modo assiduo Sraffa a partire dall'ottobre del 1930 (McGuinness, 2008b, p. 470); le prime tracce della lettura de Il 'tramonto dell'Occidente risalgono al 6 maggio dello stesso anno 11 • Circa il modo di intendere la nozione di storia, 10
Per fare qualche esempio: von Wright (1982, p. 250) afferma esplicitamente che concepire la storia come decadenza non è un problema, poiché Wittgenstein «visse il declino dell'Occidente», dando per scontato dunque che la prospettiva di Spengler sia corretta. Von Wright si limita a parlare, eufemisticamente, di un comune «pessimismo culturale». Mentre Haller (1982, pp. 71-72) conferma la diagnosi, Cahill (2009) la corregge distinguendo uno Spengler «metafisicamente pessimista» (ivi, p. 32) da un Wittgenstein caratteri1.Zato da «un tipo di pessimismo culturale e non metafisico» (ivi, p. 38). Di recente, Engelmann (2016, p. 1 5 5) si è spinto oltre fino a parlare della posizione di Spengler circa la descrizione della propria epoca come «ragionevolmente realistica». Per alcuni, infatti, l'accusa di pessimismo nei confronti del filosofo tedesco appare addirittura troppo severa poiché egli avrebbe insistito sulle possibilità prodotte dalla decadenza di una civiltà (Landerer, 1992, pp. 37-39). Janik (2008, p. 134), dal canto suo, parla de Il tramonto dell'Occidente come di un «capolavoro», mentre Bernardo (2011, p. 114, nota 2) sottolinea la sensibilità culturale dell'opera. Andronico (1998, p. 176) si limita a constatare che in qualche studio circa la relazione tra i due filosofi emerge «una sorta di disagio». Più di recente, Turanli (2005, p. 80) accenna al fatto che Spengler sia considerato da Popper «il peggiore degli storicisti», senza però spiegarne la ragione. Nessuno di questi autori fa il minimo cenno al fatto che Il tramonto dell'Occidente parli con disinvoltura di «razze» e che sia farcito di affermazioni come la seguente: «finché un popolo è nazione, e realizza il destino come nazione, in esso vi sarà sempre una minoranza che lo rappresenta e l'attua in nome di tutta la sua storia» (Spengler, 1918, p. 904). L'unica eccezione è rappresentata da Bouveresse (1983, p. 84) che in un articolo parla della prossimità tra Spengler e quel che sarà il nazionalsocialismo. Occorre però aggiungere che la nota1.ione appare in un saggio che non si occupa del rapporto con Wittgenstein. In altri testi, che affrontano la relazione tra i due filosofi (Bouveressc, 1986; 1998), il problema delle conseguen1.e etico-politiche scompare oppure è solo sfiorato (Bouveressc, 2000). 11 Item 183, p. 16. Il brano comincia con: «Leggo il Tramonto di Spengler (Lese Spengler Untergang etc.)» (per la traduzione italiana: MP, 16-17, p. 22; per un commento del passo nella sua totalità: cap. Il). Il riferimento a Spengler è presente in un altro appunto
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Wittgenstein pare affascinato dall'idea che il metodo fisiognomico di Goethe possa applicarsi alle forme del tempo umano. Le singole epoche sono considerate da Spengler equivalenti a fasi di sviluppo di un organismo, attraverserebbero periodi di rigogliosa effervescenza fino a divenire corpi vecchi e decadenti (invecchiamento e decadenza di cui il Novecento sarebbe ottimo esempio). Per Spengler (1918, p. 69), «i tratti essenziali [di un episodio della storia] possono essere predetti e calcolati in base ai precedenti esempi» su base fisiognomico-analogica in modo da mettere in relazione «Traiano e Ramses II, Borboni e demos attico, Maometto e Pitagora» (ivi, pp. 68-69 ). Niente di più lontano dalle previsioni cui accenna Sraffa, legate a dinamiche economicoproduttive. Per dare un'idea rapida di quanto, per Sraffa, fosse decisiva la dimensione storica per il pensiero filosofico è sufficiente riportare qualche frase di una lettera indirizzata a Gramsci nel 19 3 2: «ad ogni modo è molto difficile apprezzare l'importanza filosofica, se vi è, di Ricardo, perché egli stesso, al contrario dei filosofi della -praxis, non si ripiegava mai a considerare storicamente il proprio pensiero» (Sraffa, 1991, p. 74). Senza storia, nessuna filosofia: questa l'inequivocabile sentenza. «A uno sguardo superficiale», commenta Unterhuber (2007 ), «le lettere mostrano solo che Sraffa acconsentì a parlare di un ampio ventaglio di argomenti che andavano da questioni pratico-politiche alla [... ] filosofia di Spengler». Proprio vero, può sembrare così solo se si rimane in superficie: in realtà, di Spengler Sraffa non vuole proprio sentir parlare. È plausibile che Wittgenstein e Sraffa fossero concordi nel ritenere che il Novecento non fosse l'epoca del progresso illimitato e salvifico. Da questo comune punto di partenza Wittgenstein imbocca una strada solitaria. Egli mostra più di una simpatia per l'idea che si debba parlare della decadenza di una «cultura» (Kultur) che diventa «civilizzazione» (Ziviliza,tion). Con questa espressione Spengler (1918, p.
dello stesso giorno (Item 183, p. 19) e poi di tre giorni dopo (Item 183, p. 9). Appare dunque necessario retrodatare l'ipotesi di Ferber (1991, p. 188), secondo la quale l'incontro di Wittgenstein con le opere di Spengler sarebbe da collocare nelranno 1931, e di Engelmann (2013, p. 299, nota 3) che ipotizza un generico «1930-1931». Ferbcr si basa sui passi pubblicati in Pensieri diversi; Engelmann cita un passo che si trova in un manoscritto (Item 113, p. 102v) che però nel catalogo di von Wright (1982, p. 73) è datato «28 novembre 1931-23 maggio 1932».
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58) intende un «processo storico [che] consiste in una demolizione metodica di forme divenute anorganiche e morte». Il fatto che le «somiglianze di famiglia» - una nozione centrale per il Wittgenstein maturo - siano da ricondurre all'influenza de Il tramonto dell'Occidente (il riferimento è esplicito: BT, 89, § 7, p. 416) costituisce molto più di un accidente biografico o di una curiosità storiografica: è indice della ritrosia di Wittgenstein a considerare l'ethos linguistico della vita umana in una prospettiva pienamente storica. È un dato al quale la letteratura secondaria accenna. Le somiglianze di famiglia sarebbero analoghe al concetto di equilibrio di Sraffa o di equilibrio catastrofico di Gramsci, «seppur più statico» (Davis, 2002a, p. 396) o «senza l'uso del tempo» (Arena, 2015, p. 1110). Peccato, però, che non si tratti di effettuare un'aggiunta, di inserire una sfumatura cromatica in profili teorici per il resto analoghi. La diversa concezione del rapporto tra storia e antropologia spinge Wittgenstein e Sraffa in direzioni teoriche tanto divergenti da risultare, alla fine, quasi opposte 12 • Se si accetta di considerare le varie epoche come fasi ontogenetiche di un organismo genericamente animale, dunque biologico e non storico, di fatto si accetta di far fuori la storia in nome di un sostituto che Spengler (1918, p. 241) chiama, in modo esplicito quanto minaccioso, «destino» (Schicksal). È vero, dunque: Sraffa contribuisce alla svolta antropologica di Wittgenstein. Non contribuisce però a quella di ordine storico. Non è stato l'incontro tra caratteri difficili a interrompere un idillio teorico. Viceversa, è stata la presenza insistente di punto di fondamentale disaccordo filosofico a incrinare una frequentazione assidua. Ricorda Rossi Landi (1966, pp. 208-209 ): le Ricerche insistono sui disastri del linguaggio che va in vacanza, «ma non s'interroga[ no] mai [... ] su quale sia l'origine storica di questi crampi e perplessità» 1 3. i2. Per una efficace descrizione di questo dissenso, stavolta però dal punto di vista di Wittgenstein, si veda l'accuratissimo Brusotti, 2016. In questa sede, mi limito a citarne una delle conclusioni: «Nel Febbraio del 1932, Wittgenstein rivolge per prima cosa obiezioni contro la storia naturale di Sraffa, simili a quelle che aveva mosso contro il Ramo d'oro di Frazer circa sei mesi prima» (ivi, p. 61). Della nozione di storia naturale ci occuperemo, come già anticipato, nel terzo capitolo. 13 L'articolo di Rossi Landi (1966) è senz'altro pionieristico. Risente, però, delle oscillazioni interpretative di cui si parlava in precedenza (cfr. introdwlone). Per un verso, il saggio identifica parallelismi tra il Wittgenstein successivo al Tractatus e L'ideologia tedesca di Marx (ivi, p. 206) fino a indicare ben quattro tratti di comunanza tra le Ricerche e
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La dimensione storica resta ai margini del pensiero wittgensteiniano: è il motivo che spinge Sraffa a interrompere gli incontri con il filosofo. A sostegno quantomeno della plausibilità dell'ipotesi, propongo un veloce esperimento di carotaggio testuale (per un'analisi più dettagliata rimando all'incursione filologica). Se si prende in esame un'opera non certo marginale, le Ricerche filosofiche, è facile constatare che il termine «Geschichte» («storia») compare solo quattro volte per descrivere la ricostruzione di un ricordo circa un'intenzione passata (RF I, §§ 638, 644) o in riferimento alla lettura o illustrazione di un racconto (RF I, §§ 23, 663 ). In un testo seminale come le Ricerche, non compare mai il termine chiave per indicare la molla permanente della mutabilità di giochi linguistici e forme di vita. Se si rimane solo sul piano logico-morfologico, l'indagine sugli usi, che a Wittgenstein sta tanto a cuore, perde parte decisiva della propria forza: diventa complicato mettere a fuoco modalità trasformative potenzialmente sempre presenti. È per questa ragione che Wittgenstein rischia di mettere in scena un' antropologia amputata, un'antropologia senza storia. Per riprendere le parole di De Mauro con le quali avevamo cominciato, se in Wittgenstein si dà uno storicismo esso è paradossalmente «senza storia» (Hacker, 2009, p. 116), giacché preda della morfologia di Spengler. Il superamento di questa menomazione costituisce una delle questioni aperte per il materialismo del XXI secolo. Una nuova lettura potrà ritenersi valida solo all'interno di un programma di ricerca ambizioso. Qualcosa che somigli, per intenderci, più alla riconversione ecologica dell'industria a carbone che al restauro pittorico di una tinta cromatica resa opaca dagli anni.
il pensiero di Sraffa (ritorno al contesto, insistenza sulla vita pubblica, critica al feticismo, comune metodo d'astrazione: ivi, pp. 201-203). Per un altro, critica il viennese perché non avrebbe una immagine adeguata dell'infanzia (ivi, pp. 207-208) visto che «è difficile stabilire quanto l'approccio del secondo Wittgenstein sia o non sia psicologista» (ivi, p. 194). Fino ad affermare: «manca di una teoria sociale e storica su cui basare la propria ricerca» (ivi, p. 209). Il problema pare un altro. Wittgenstein propone una idea complessa e raffinata dell'infanzia (Mazzco, 2016) e un'articolata filosofia della prassi (Lo Piparo, 2014). Nel contempo, egli è quasi privo della dimensione storica. È in questa specifica costellazione che brilla e muore la luce della sua stella.
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Filologia. La parola «storia» L'indagine per parole-chiave nel lascito testamentario di Wittgenstein evidenzia un totale di circa 184 occorrenze del termine «Geschichte» (storia). Si tratta del frutto di un negoziato tra due istanze differenti. Per un verso, il calcolo meccanico delle singole occorrenze porterebbe a numeri diversi. Secondo la Bergen Electronic Edition (BBE) avremmo 176 occorrenze (168 per il singolare, 8 per il plurale), mentre per i più recenti Wittgenstein Archives at the University of Bergen (WAB) sarebbero addirittura 230 (questo motore di ricerca non distingue tra singolare e plurale). Per un altro verso, spesso le occorrenze indicano solo ripetizioni dell'espressione all'interno di uno stesso passo con conseguenze paradossali: nel giro di qualche riga dovremmo contare sei occorrenze dell'espressione (si veda, ad es., la voce 179 ). Nell'elenco che segue si è cercato di conciliare i due criteri al fine di avere una stima meno sbilanciata. Nella maggior parte dei casi, le ripetizioni all'interno dello stesso passo non saranno conteggiate, a meno che entrambe le edizioni non le indichino come separate (cosa, peraltro, molto rara). In questo senso, dunque, seguiremo la BBE. Nel contempo, integreremo la cifra con alcune occorrenze in più segnalate, invece, solo nei WAB. Un numero orientativo può aggirarsi dunque intorno alle 186 occorrenze. Si tratta del risultato di una somma: alle 184 che risultano dalla ricerca vanno aggiunte altre due corrispondenti al composto, particolarmente significativo dal punto di vista teorico, «Entstehungsgeschichte» (storia delle origini: 185-186) 14 • La lista in fondo a questa incursione filologica le elenca una per una proponendone una classificazione rudimentale. A ogni occorrenza segue una lettera ( «R», «C», «P», «G» ), alla quale è stato affidato
•4 L'elenco di occorrenze non pretende d'essere esclusivo. I composti del termine «Geschichte» sono numerosi. Mi limito a segnalarne alcuni: «Geschichtsbuch» (Item 114, p. 128r [secondo BEE: II4, p. 194]), «Geschichtsschreibung» (Item I II, p. 1; Item 211, p. 1), «Geschichtswerke» (Item I II, p. 1; Item 2II, p. 1), «Geschichtsschema» (Item 146, p. 35v [secondo BEE: 146, p. 70]) e «Geschichtsunterricht» (Item 175, p. 4or). Non prenderò in considerazione l'inglese «history»: si tratta di un basso numero di occorrenze (undici), la maggior parte delle quali riguarda il titolo del libro di Faraday The Chemical History of a uzndle (otto: Item 124, p. 134; Item 127, p. 14; Item 129, p. 177; Item 227b, p. 86; Item 228, p. 97; Item 230a, p. 34; Item 230b, p. 34; Item 23oc, p. 34).
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il compito, a volte non facile 1 s, di indicare in modo approssimativo l'accezione nella quale Wittgenstein impiega la parola «storia» 16 • È possibile distinguere almeno quattro classi d'uso. La loro breve illustrazione può essere utile per stilare un primo bilancio teorico circa lo spazio che il filosofo austriaco riserva a un termine dalle notevoli implicazioni antropologiche. Quasi la metà delle occasioni nelle quali Wittgenstein impiega «Geschichte» (92 su 186), il termine presenta l'accezione di «racconto, resoconto» ( «R» ). Geschichte non è tempo storico ma poesia ( «Gedicht»: 49-50), parole che illustrano una situazione ( «Situation»: 43, 44, 47, 105, 146, 154, 158, 162, 165, 166) oppure una scena ( «Szene»: 46, 147, 168), produzioni verbali legate in vario modo a una immagine («Bild» 17 : 4, 27, 31, 54, 77,109,110, 144145, 155, 168; «Illustration»: 32, 61, 64, 71, 140, 144-145, 15 5), a un sogno («Traum»: 24, 62, 74, 149, 153, 165, 169), a un'opera 1
s Limitiamoci a un esempio. Le occorrenze 12 e 119 corrispondono a un passo poi pubblicato nelle Note al Ramo d'oro (NRO, p. 19). In questa occasione si parla della «storia del re della foresta di Nemi». Catalogare un simile impiego del termine «Geschichte» è tutt'altro che semplice: nel testo si cita quel che oggi chiameremmo una «leggenda» ma che probabilmente in epoca arcaica era considerata un fatto storico; Wittgenstein aggiunge che questa storia Fra1.er ce la «racconta» (ibid.) non districando l'intreccio semantico (possibile sia in italiano che in tedesco) tra raccontare la storia (l'inizio della Prima guerra mondiale) e raccontare una storia (Cappuccetto Rosso). Mi è sembrato più corretto indicare questa occorrenza come un caso di riferimento generico alla dimensione storica (cioè teoricamente non connotato e vago da un punto di vista descrittivo). Chiaramente, qui e altrove, la classificazione non sarà in grado di restituire la complessità del brani in questione. 16 La classificazione coincide solo parzialmente con quella proposta da Grondin (2010) secondo la quale Wittgenstein impiegherebbe il termine secondo quattro accezioni. La prima si riferirebbe «al sistema di proposizioni che conferisce all'espressione di un'intenzione il suo senso» (ivi, p. 368). La seconda a un «insieme di fatti antropologici» spesso chiamato «storia naturale» ma che «non ha niente di storico» (ibid.). La tea.a indicherebbe «l'evoluzione di una lingua data» in termini etimologici o psicogenetici, il quarto «la storia che possiamo raccontare circa l'apprendimento di una certa espressione» (ibid.). Nel presente testo, la questione della storia naturale, senz'altro decisiva, è rimandata al ter~o capitolo. Può essere utile, in termini di semplicità, fondere la prima e quarta accezione. Circa la terza, Grondin sostiene che esisterebbe un'affinità tra Wittgenstein e Saussure poiché entrambi sposerebbero l'idea di una «divisione del lavoro» (ibid.) tra piano sincronico e diacronico. Circa questo punto, e una sua elaborazione teorica molto diversa, rinvio alla prima appendice. 1 1 Il legame è tanto forte da produrre un numero relativamente alto di occorrenze dell'espressione «Bildergeschichte» (fumetti): Item 110, p. 45; Item 110, p. 57; Item 115, p. 13; Item u5, p. 168; Item 130, p. 135; Item 137, p. 17a; Item 137, p. 94a; Item 146, p. 36r [secondo BEE, 146, p. 71]; Item 211, p. 164; Item 228, p. 111; Item 229, p. 207; Item 233a, p. 51; Item 245, p. 145.
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teatrale («Schauspiel»: 58, 165), a un romanzo (15, 93, 167) o comunque alla lettura ( «lesen»: 24, 27, 32, 42, 56-59, 68, 74, 78-79, 86, 95, 136-137, 141, 148, 170, 172-173). Circa un terzo delle occorrenze (57 su 18 6) sono indica te dalla lettera «C» poiché segnalano osservazioni rivolte contro l'idea che la dimensione storica sia rilevante. A tal proposito, non è secondario che la fraseologia più ricorrente nell'intero Nachlass circa la storia sia «die Geschichte hat fiir uns kein Interesse» (la storia non ha per noi interesse: due occorrenze) 18, «die Geschichte ist ohne Interesse» (la storia è priva d'interesse) in un passo che ricorre quattro volte1 9, «die Geschichte interessiert uns/mich nicht» (la storia non ci/mi interessa: sei occorrenze delle quali cinque ripetono il medesimo brano) 20 e «es ist nur Geschichte» (è solo storia: tredici occorrenze) 21 • La lettera «G» segnala i passi nei quali la storia è citata in modo talmente generico da risultare poco utile per comprendere quanto questa dimensione sia importante per il pensiero wittgensteiniano (ventisette occorrenze). Si va da notazioni di carattere personale (1) fino a espressioni vaghe come «storia del mio spirito» (107) o la storia di chi «io sono» (29 ). In altre circostanze, l'elemento storico è citato semplicemente come un caso tra gli altri (il problema di provare «l'esistenza di un tavolo» o «di Napoleone»: 97). La lettera «P» indicherà i casi nei quali Wittgenstein attribuisce al tempo storico rilievo positivo, vale a dire teorico-descrittivo. Di essi, ci occuperemo dopo aver proposto la classificazione delle occorrenze. Prima di procedere, però, può essere utile qualche breve annotazione:
Affermazioni generiche. Tra le occorrenze generiche ne esiste una decina caratterizzata da una connotazione positiva. Questo dato potrebbe ingannare. Ad esempio, per ribadire il carattere pubblico del seguire una regola Wittgenstein afferma che non è possibile che ciò avvenga «una sola volta nella storia». Diverse le varianti sul tema: «non si può fare una moltiplicazione una sola volta nelI.
18
Occorrenze: 11, 117. 9 Occorrenze: 17, 120, 124, 130. 2.0 Occorrenze: 16, 48, 83, 109, 126, 133. Tranne la 48, le altre rappresentano la riproposizione dello stesso passo. 21 Occorrenze: 17 (lo stesso passo di 84, 120), 18 (lo stesso di 85, 121), 22, 53, 70, 79, 88, 152 (lo stesso di 176). 1
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la storia» (3 5), «pronunciare una frase» (3 6), «seguire una regola» (37, 87), «dare un ordine» (39, 103), «giocare un gioco» (37). In alcuni casi emerge il richiamo generico a una, non meglio specificata, «storia dell'umanità» (89, 90, 103). Simili affermazioni, però, non sembrano fare alcun riferimento alla struttura temporale tipica dei fenomeni storici, tanto che nelle Ricerche la sottolineatura circa l'impossibilità di seguire una regola «una sola volta nella storia» diventa l'impossibilità di farlo «una sola volta» o «una sola volta nella vita» (RF I, § 199). L'obiettivo sembra essere solo l'identificazione di un concetto genericamente temporale, di uno strumento utile per ribadire il carattere pubblico dell'agire umano: «i nostri stati di coscienza hanno una storia. Sono simultanei con accadimenti del mondo corporeo» (91). È forse per questo che a Wittgenstein è sufficiente dare una descrizione del tempo storico in termini di mera accumulazione (si pensi alla celebre immagine del fiume che compare in DC, §§ 96-99: cfr. cap. II, § 4). Come abbiamo visto, però (introduzione), il deposito cronologico non distingue il tempo delle istituzioni umane dalla deriva dei continenti o dell'evoluzione delle specie. Una simile genericità potrebbe spiegare perché nel lascito in alcuni casi sia possibile trovare una variante testuale che alterna a «Geschichte» l'ancor più vago (e per molti aspetti antinomico) «Vorgeschichte» (antefatto, preistoria: 8, 33, 38). In un altro grappolo di occorrenze (96-101), invece, la storia è considerata come qualcosa in cui si crede, sempre in modo cumulativo, aWinterno di una certa immagine del mondo: si tratta di sapere che «la Terra esiste da almeno 100 anni» (100-101) o di credere «alla storia e alla geografia» (98-99). In questo caso (si tratta di affermazioni che di solito ruotano intorno al Della certezza), Geschichte non è termine che indica la dimensione di fondo in cui variano i sistemi culturali, ma solo un elemento interno ad alcuni di essi.
Scarsa varietà argomentativa. Come è noto, nel Nachlass spesso accade che il numero di occorrenze in cui compare un'espressione sia il prodotto di numerose ripetizioni in volumi diversi di un brano di per sé identico. Per quel che concerne la varietà testuale dei passi nei quali Wittgenstein riconosce alla storia un ruolo teorico-descrittivo positivo e non generico, il numero iniziale di occorrenze (dieci) diminuisce fino ad arrivare a un numero bassissimo: il passo poi pub2.
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blicato in OFP I, § 903 e Z, § 608 appare infatti cinque volte; le affermazioni che è possibile ritrovare in BT, § 102, p. 484 ritornano in altri due luoghi del lascito testamentario. 3. Quattro passi. I brani nei quali si rivaluta la storia in modo non generico sono dunque solo quattro: OFP I,§ 903 (33, 51, 151, 171, 175); BT, § 102, p. 484 (20, 127, 134); PD, p. 123 (55); GF I, § 2, p. 6 (66). Li discuteremo nel dettaglio dopo la classificazione delle occorrenze. Per il momento, è opportuno notare che per metà sembrano legati alla tradizione morfologica: uno (PD, p. 123) vive della coppia spengleriana Kultur/Zivilisation; in un altro compare un esempio di natura botanica presumibilmente legato alle riflessioni di Goethe (OFP I, § 903; cfr. OFP I, § 889). Questa occorrenza figura anche tra i passi nei quali è possibile trovare la variante generica «preistoria/antefatto» (51). Infine, in BT, § 102, p. 484 si afferma esplicitamente che la storia è un «tempo omogeneo» (dunque, paradossalmente, poco storico). 4. Uno spiraglio cronologico. L'unico elemento che sembra indurre a una linea di tendenza diversa rispetto a quella descritta finora è di ordine quantitativo. Se si prende in considerazione il mondo ristretto costituito dalle affermazioni non generiche che attribuiscono alla storia un ruolo teorico, è possibile rinvenire un andamento cronologico piuttosto regolare. Come abbiamo detto, tra queste dieci occorrenze è possibile individuare parecchie ripetizioni di passi altrimenti identici. La ripetizione di un passo in volumi diversi è però segno di predilezione e assenso. Wittgenstein è alla continua ricerca di una forma espressiva adeguata alla propria filosofia; per questo motivo, egli taglia e incolla in ordine diverso osservazioni che non di rado diventano ricorrenti. Se dunque la bassa varietà di questi passi indica che il ruolo della storia nel suo sistema teorico tende a essere limitato, l'andamento cronologico delle ripetizioni di quei passi può indicare il tentativo di concedere qualcosa a un tema comunque marginale. In tal senso, non è irrilevante che negli anni Venti non sia possibile riscontrare nemmeno una occorrenza del termine «storia» di tipo positivo non generico. Al contrario, negli anni Trenta se ne trovano cinque (20 [1932], 127 [1932-1933], 134 [1933], 66 [1933], 33 [1937]) e nel decennio successivo altre cinque, in un anno tardo come il 1947(51 [aprile], 171 [set-
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tembre/ottobre], 151 [settembre/ottobre], 175 [settembre/dicembre], 55 [dicembre]). Con il passare del tempo, Wittgenstein appare meno diffidente nei confronti della storia.
Classificazione delle occorrenze « Geschichte »
1. Item 101, p. 35v: G 2. Item 103, p. 49r: C 3. Item 109, p. 165: C 4. Item 110, p. 45: R 5. Item I 10, p. 46: e 6. Item I 10, p. 70: e 7. Item 110, p. 81: C 8. Jtem I IO, p. 81: C 9. Item 110, p. 82: e Io. Item I 10, p. 92: e I 1. Item I 10, p. 146: e 12. Item 110, p. 180: G 13. Item 110, p. 187: C 14. Item I 10, p. 298: e 15. Item 111, p. 77: R 16. Item III, p. 95: e 17.Item 112,p. 8u/v: C 18. Item I 12, p. 88v: e 19. Item 113, p. 61v: R 20. Item 113, p. 123v: P 21. Item 114, p. 59: C (per BBE 114, p. 56) 22. Item 114, p. 123: C (per BBE 114, p. 185) 23. Item 114, p. 128: C (per BBE 114, p. 195) 24. Item 114, p. 134: R (per BBE 114, p. 208) 25. Item 115, p. 3: C 26. Item 115, p. 5: C 27. Item 115, p. 13: R 28. Item I 16, p. I 12: e 29. Item 116, p. 157: G
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30.Item 31. Item 32. Item 33. Item 34. Item 35. Item 36. Item 37. Item 38. Item 39. Item 40. Item 41. Item 42. Item 43. Item 44. Item 45. Item 46. Item 47.Item 48. Item 49. Item 50. Item 51. Item 52. Item 53. Item 54. Item 5 5. Item 56. Item 57. Item 58. Item 59. Item 60.Item 61. Item 62. Item 63. Item 64.Item 65. Item 66. Item 67. Item
116, 116, 116, 119, 120, 124, 124, 124, 124, 127, 128, 128, 128, 129, 129, 129, 129, 131, I
3 2,
133, 134, 134, 134, 134, 135, 136, 136, 136, 136, 136, 136, 136, 136, 137, 137, 137, 140, 140,
45
p. 209: G p. 288: R p. 321: R p. 22: P p. 3or: G p. 188: G p. 189: G p. 206: G p.231: G p. 149: G p. 11: R p. 11: R p. 12: R p. 100: R p. 101: R p. 146: R p. 147: R pp. 205-206: R p. 17: e p. 74r: R p. 78: R p. 97: P p. 148: C p. 173: R p. 16: C (per BBE 135, p. 31) p. 18b: P p. 78b: R p. 83b: R p. 84b: R p. 84b: R p. 116b: R p. 137b: R p. 138a: R p. 105b: R p. 108a: R p. 108a: R p. 2r: P p. 4: C
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68. Item 142, pp. 18-20: R 69. Item 143, p. 15: C 70. Item 145, p. 20: C 71. Item 145, p. 34: R 72. Item 145, p. 36: C 73. Item 145, p. 40: C 74. Item 145, p. 51: R 75. Item 146, p. 19r: C (per BBE 146, p. 37) 76. Item 146, p. 20V: e (per BBE 146, p. 40) 77. Item 146, p. 26r: R (per BBE 146, p. 51) 78. Item 146, p. 34r: R (per BBE 146, p. 67) 79. Item 146, p. 36v: R (per BBE 146, p. 68) So. Item 152, p. 47: R 81. Item 154, p. 8v: R 82.Item 154,p. 22v: G 83. Item 155, p. 5r: C 84. Item 155, p. 73v: C 85. Item 155, p. 8or: C 86. Item 164, p. 39: R 87. Item 164, p. 57: G 88. Item 164, p. 96: C 89. Item 164, p. 129: G 90. Item 164, p. 129: G 91. Item 165, p. 157: G 92. Item 165, p. 159: G 93. Item 165, pp. 166-167: R 94. Item 167, p. 24v: R 95.Item 169,p. 44v: R 96. Item 174, p. 18r: G 97. Item 174, p. 35r: G 98. Item 175, p. 5v: G 99. Item 175, p. 12v: G 100. Item 175, p. 38r: G 101. Item 175, p. 38v: G 102. Item 179, p. 11v: R 103. Item 180a, p. 1v: G 104. Item 180a, p. 20v: R 105. Item 180a, p. 21r: R
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106. Item 107. Item 108. Item 109. Item 110. Item
Item 112. Item 113. Item 114. Item I 15. Item I 16. Item 117. Item I I 8. Item 119. Item 120. Item I 21. Item 122. Item 123. Item 124. Item 125. Item 126. Item 127. Item 128. Item 129. Item 130. Item 13 i. Item 132. Item 133. Item 134. Item 13 5. Item 136. Item 137. Item 138. Item 139. Item 140. Item 141. Item 142. Item 143. Item III.
180a, p. 39r: R 183, p. 125: G 183, p. 132: C 211, p. 56: C 211, p. 164: R 211, p. 164: e 211, p. 176: C 211, p. 182: C 211, p. 183: C 211, p. 183: e 211, p. 189: e 211, p. 222: C 2 I I, p. 24 I: e 211, p. 314: G 211, pp. 475-476: C 21 I, p. 484: e 211, p. 615: R 212, p. 26: C 212, p. 544: C 212, p. 630: R 212, p. 933: C 212, p. 1316: P 213, p. 5: C 213, p. 177r: C 213, p. 177r: C 213, p. 205: R 213, p. 208r: R 213, p. 332: C 213, p. 495: P 213, p. 557: R 220, p. 16: R 227a, p. 22: R 227a, pp. 307-308: R 227a, p. 309: R 227a, p. 315: R 227b, p. 22: R 227b, p. 307-308: R 227b, p. 309: R
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144.Item 227b, p. 315: R 145. Item 228, p. 61: R 146. Item 228, p. 68: R 147. Item 228, p. 86: R 148. Item 228, p. 111: R 149. Item 228, p. 154: R 150. Item 229, p. 280: R 151. Item 229, p. 402: P 152.Item 229, p. 425: C 153. Item 230a, p. 56: R 154. Item 230a, p. 115: R 15 5. Item 230a, p. 121: R 156. Item 230a, p. 122: R 157.Item 230b, p. 56: R 158. Item 230b, p. 115: R 159. Item 230b, p. 121: R 160. Item 230b, p. 122: R 161. Item 230c, p. 56: R 162. Item 230c, p. 115: R 163. Item 230c, p. 121: R 164. Item 230c, p. 122: R 165. Item 232, p. 675: R 166. Item 233a, p. 2: R 167. Item 233a, p. 15: R 168. Item 233a, p. 36: R 169. Item 233a, p. 49: R 170. Item 233a, p. 51: R 171. Item 233b, p. 44: P 172. Item 223b, p. 48: R 173. Item 239, p. 16: R 174. Item 245, pp. 206-207: R 175. Item 245, p. 288: P 176. Item 245, p. 304: C «Geschichten» 177. Item 115, p. 14: R 178. Item 137, p. 98a: R
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179. 180. 181. 182. 183. 184.
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Item 137, p. 105b: R Item 137, p. 105b: R Item 146, p. 17r: G (per BBE, 146, p. 33) Item 146, p. 72: G (per BBE, 146, p. 36v) Item 146, p. 37v: R (per BBE, 146, p. 74) Item 233a, p. 30: R
« Ensteh ungsgeschichte»
18 5. Item 124, p. 93: C 186. Item 163, p. 23: C Come dicevamo, è opportuno un esame più ravvicinato delle quattro occorrenze nelle quali si riconosce alla storia una funzione antropologica che non sia generica (BT, § 102, p. 484; GF I, § 2, p. 6; OFP I, § 903; PD, p. 123 ). È significativo che questi passi si presentino come frammenti: si tratta di osservazioni sconnesse, a volte slegate anche dal contesto argomentativo nel quale di volta in volta prendono forma (PD, p. 123). Quando emerge una connessione con il filo del ragionamento al quale Wittgenstein sta lavorando, il richiamo alla storia svolge il ruolo della comparsa o dell'esempio esornativo (BT, § 102; GF I,§ 2, p. 6; OFP I, § 903). Per supportare questa ipotesi, può essere utile produrre una breve analisi dei brani nei quali Wittgenstein sembra strizzare l'occhio al tempo storico. Vedremo, purtroppo, che tutto si risolve nel breve volgere di un battito di ciglia.
Quello che possiamo chiamare tempo del fenomeno (specious present) non giace nel tempo (passato, presente, futuro) della storia, non è un segmento del tempo. Mentre ciò che intendiamo con «linguaggio»/ Mentre il processo del «linguaggio» si svolge nel tempo storico omogeneo.
Da un punto di vista cronologico, è questo uno dei primi brani in cui Wittgenstein valuta positivamente il tempo storico (cfr. cap. II, filologia). Nel Big Typescriptsi sta discutendo un'idea risalente al Trac'tatus22: che il presente possa costituire un'area privilegiata dell'espe2.2.
Cfr. T, 6.4311: «vive eterno colui che vive nel presente».
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rienza, l'illusione metafisica secondo la quale «"Soltanto l'esperienza dell'istante presente ha realtà"» (BT, § 102, p. 485). Questa posizione è ora tacciata esplicitamente di «idealismo» e «solipsismo» (ivi, p. 48 3 ). Wittgenstein insiste su una metafora: lo stato d'eccezione assegnato al tempo presente è sostenibile solo se si concepisce «il fare esperienza come una pellicola cinematografica» (ibid. ). In questo caso, l'immagine presente in questo momento davanti alla lente sembra possedere uno status privilegiato. Come si passa però allo «spazio visivo e al suo tempo» fuori dalla pellicola, ecco che l'illusione svanisce (cfr. appendice Il). Il passo fa riferimento alla storia in termini positivi poiché afferma chiaramente che quello della storia è il tempo del linguaggio. Tuttavia, oltre questo non si va. Wittgenstein tende a una riduzione: il tempo della storia non sembra differenziarsi da quel che, poco prima e poco dopo, egli chiama tempo «fisico» (ivi, p. 483), la storia entra in scena accanto a un linguaggio «inteso come fenomeno fisico» (ivi, p. 484). È in questo contesto che il riferimento alla Geschichte come «tempo omogeneo» diventa più chiaro. Wittgenstein non si riferisce al tempo delle rivoluzioni, degli assedi e delle guerre, ma a una nozione tanto generica da includere al proprio interno moti planetari, ere geologiche o variazioni climatiche. Al mito del presente Wittgenstein contrappone una nozione di tempo certamente pubblica, ma che è storica solo in senso lato. Anche in testi molto più tardi e promettenti, come il Della certezza (DC, § § 96-99; cfr. cap. II, § 4), il linguaggio è storico come può esserlo una roccia che resiste, per migliaia di anni, agli agenti atmosferici. 2) GF I,§ 2, p. 6 [1934 circa]: Quel che chiamiamo «capire un linguaggio» è spesso della stessa specie della comprensione di un calcolo cui perveniamo quando impariamo la storia della sua origine o la sua applicazione pratica. E anche qui impariamo un simbolismo facile e perspicuo [leicht ubersehbaren] in luogo di un altro simbolismo che ci è estraneo. Immaginiamo che in origine un tizio abbia imparato a conoscere gli scacchi come un gioco scritto e più tardi gli venga mostrata «l'interpretazione» degli scacchi come gioco da scacchiera. Qui «capire» significa qualcosa di simile ad «abbracciare con lo sguardo» [Obersehn].
In uno dei primi passi nei quali compare la nozione di «perspicuo» e «abbracciabile con lo sguardo» (termini chiave per le osser-
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vazioni successive circa il «notare un aspetto» ma anche per la filosofia della matematica: Mazzeo, 2016), la storia delle origini di un gioco è messa sullo stesso piano della sua applicazione pratica. Pure in questo caso, ci troviamo di fronte a un tentativo di rivalutazione della storia decisamente timido. Che la storia accompagni l'applicazione pratica di un gioco assume in questo contesto un significato preciso: tutte e due i richiami mirano a concentrare l'attenzione su quanto quella attività umana (giocare a scacchi) si sia consolidata nel tempo. Ancora una volta la storia è termine del consolidamento più che della trasformazione. A riprova di ciò, il caso alternativo proposto da Wittgenstein è immaginario e non storico: l'ipotesi che qualcuno impari gli scacchi come fossero un gioco scritto. Inoltre, bisogna tenere conto del fatto che questo passo compare nelle prime pagine della Grammatica filosofica. Solo qualche riga più in là, torna il modo consueto di impiegare il termine «storia». Nell'insistere che «il linguaggio deve parlare per sé stesso», Wittgenstein comincia a tessere un lungo ragionamento contro l'idea che debba esistere un processo psichico che accompagni la comprensione di una parola (GF, I, § 11, p. 16). Nel parlare della differenza tra una lingua straniera e una conosciuta si aggiunge: «l'apprendimento della lingua ne provoca la comprensione. Ma ciò appartiene alla storia di questa reazione. Il capir la proposizione ha luogo, per me, non appena odo la proposizione e accompagna il fatto che la odo» (ivi, I, § 3, p. 7, corsivo nel testo). La risposta squalificante è dell'alter ego wittgensteiniano che tenta di perorare la causa di una «esperienza immediata» (ibid.) del comprendere. Di fatto, però, Wittgenstein concorda con il suo avversario su questo punto: la storia è una faccenda che porterebbe fuori strada. La Grammatica filosofica non discute il modo di intendere questo termine: tutte le parti in causa nella lotta contro le illusioni prodotte dal linguaggio concordano nel considerare la parola «Geschichte» come indicatore di una generica connessione causale in grado di provocare un effetto. Invece di concentrarsi su un fenomeno secondario legato a un addestramento individuale limitato nel tempo, secondo Wittgenstein occorre prestare attenzione a ciò che costituirebbe il fenomeno della comprensione in quanto tale.
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3) OFP I,§ 903 [1947]:
Sarebbe un caso simile a quello di certe piante - se esse si riproducessero sì mediante semi così che un seme produce sempre la stessa specie di pianta dalla quale è stato prodotto - ma in modo tale che niente nel seme corrisponda alla pianta che ne nasce; e sia perciò impossibile inferire dalle proprietà e dalla struttura del seme quelle della pianta che ne nasce - che lo si possa fare solo in base alla sua storia.
Wittgenstein sta discutendo un,ipotesi connessa alle ricerche sperimentali di Wundt (poco dopo si cita il concetto di «parallelismo psico-fisico»: OFP I,§ 906 e Z, § 611), legata a un tema ancora oggi al centro del dibattito filosofico: se sia possibile sostenere che «al pensare» sia coordinato un qualche «processo nel cervello» (ibid.). Al riguardo, la risposta è netta. Wittgenstein afferma che niente gli «sembra più naturale» che negare una simile eventualità (ibid.). Anche in questo caso il ruolo svolto dal termine Geschichte è meno interessante di quel che si potrebbe immaginare. L'argomentazione di Wittgenstein è vicina alla coppia teorica formata da Goethe e Spengler: l'esempio del seme e della pianta richiama un'opera del primo (la Metamorfosi delle piante: cfr. OFP I,§ 889); l'applicazione alla storia della morfologia è una mossa tipica del secondo. Per questa ragione, il termine «storia» assume un ruolo che non riscatta il tempo proprio della vita dei sapiens. È l'analogo umano di quel che avverrebbe nella crescita vegetale. Il condizionale è d'obbligo: è difficile sostenere, infatti, che non ci sia nulla nel seme delle piante che dirà qualcosa circa la forma adulta. Non occorre essere dei riduzionisti per affermare che il DNA di un organismo contenga parecchie indicazioni circa la sua forma futura. Al contrario, Wittgenstein insiste sull'arbitrarietà completa del rapporto che sussiste tra seme e sviluppo organico. Il brodo di coltura di questa arbitrarietà sarebbe, per l'appunto, la storia. Il movimento continua a essere doppio: si riconosce alla storia un carattere imprevedibile; questa imprevedibilità sarebbe pari a quella esibita da una forma vegetale che diviene adulta a partire dal seme. Nella occorrenza presente nel Big Typescript, la storia costituisce un piano descrittivo importante solo in quanto fenomeno fisico; nella Grammatica filosofica emerge come applicazione pratica consolidata; ora il termine «Geschichte» ritrova la propria imprevedibilità nei termini organici di una ramificazione vegetale.
I. L'AMICO DI SRAFFA
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4) PD, p. 123 [1947]: Un giorno, forse, da questa cultura [Kultur] trarrà origine una civiltà [Zivilisation ]. Si avrà allora la vera storia delle invenzioni dei secoli XVIII, XIX, XX, che sarà ricca di profondo interesse.
Anche in questo caso si tratta di un passo tardo, risalente addirittura al 21 dicembre 1947. Oltre quindici anni dopo la prima lettura de Il tramonto dell'Occidente, Wittgenstein ne ripropone con precisione i temi portanti: la coppia cultura/civilizzazione, la questione della tecnica (cfr. cap. II, § 2). De Angelis (2007, p. 44) sostiene che in questa occasione Wittgenstein si conferma più ottimista di Spengler: per quest'ultimo «le culture producono civilizzazioni; le civilizzazioni non producono culture. Nel passo citato sopra Wittgenstein, al contrario, prende in considerazione una possibilità di segno opposto». Segnalata questa differenza, il brano pare confermare che ancora nel 1947 per Wittgenstein la contrapposizione tra cultura e civilizzazione conserva un forte potenziale esplicativo. Agli occhi del filosofo di Vienna questa coppia concettuale costituisce una delle chiavi per mezzo delle quali leggere il mondo. In modo più unico che raro, Wittgenstein fa qui esplicito riferimento al cambiamento storico tipicamente umano (vale a dire né geologico, né vegetale): accenna in modo inequivocabile alle trasformazioni della tecnica. Ciò avviene però in un contesto legato alla filosofia di Spengler che vede nel Novecento il tempo della decadenza.
II.
L'allievo di Spengler
1.
Astigmatismo e presbiopia
In più di un'occasione, Wittgenstein propone osservazioni dal taglio antropologico. Il filosofo europeo-continentale, notoriamente presbite circa il dettaglio, le considera una boccata d'aria fresca in grado di riscattare la falsa partenza del Tractatus. Lo studioso anglosassone di marca analitica, del quale è riconosciuto l'astigmatismo per le forme della storia, guarda a questi spunti con sospetto poiché cedimento alle vanità relativiste. Naturalmente, si tratta di un quadro caricaturale. Ad esempio, uno dei primi testi che mette in evidenza l'attualità antropologica del pensiero wittgensteiniano è scritto in lingua inglese, anche se non è di scuola analitica, giacché legato al contesto gallese della cosiddetta «scuola di Swansea ». In Understanding Primitive Cultures, Peter Winch (1972, p. 22) propone di «paragonare il disaccordo tra me e Evans-Pritchard con il disaccordo tra il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche e il suo alter ego del Tractatus» al fine di fornire un'immagine meno coloniale delle popolazioni cosiddette primitive. Eppure, già nel 1972, una ricerca pionieristica circa il senso etico-politico degli scritti wittgensteiniani constata con preoccupazione «due temi apparentemente in conflitto circa la relazione tra il singolo parlante e il suo linguaggio o il suo gruppo linguistico» (Pitkin, 1993, p. 194). Da una parte «Wittgenstein sembra sottolineare temi nominalisti, individualisti e anche relativisti» (ibid.); dall'altra, il filosofo sarebbe compagno di Austin nel sottolineare «che si danno errori pure nell'uso del linguaggio, [... ] che non possiamo dire qualsiasi cosa in qualsiasi contesto o in un tempo qualunque» (ibid.). La posizione di Hanna Pitkin è chiara: quando parla di infanzia e antropologia Wittgenstein appare rela-
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tivista, anche se, fortunatamente, nei suoi testi emerge una filosofia del linguaggio ordinario in grado di mettere a posto le cose. La dicotomia, però, è davvero apparente. L'elezione di Wittgenstein a esponente di riferimento per il pensiero debole degli anni Ottanta (Marconi, 1983) è la dimostrazione più conseguente della compatibilità tra sfarfallio antropologico e filosofia analitica: la varietà dei giochi linguistici è benvenuta poiché, al tramonto degli anni della contestazione, oramai si inscrive nel palcoscenico sempre ordinario del mondo tardo-capitalista. Spesso la lettura antropologica di Wittgenstein ha cercato di ricostruire, all'interno di uno scenario biografico e culturale di ampio respiro, una figura contesa poiché luogo di sovrapposizione tra analitici e continentali (D'Agostini, 1997). Chi non si riconosce nel Wittgenstein filosofo del linguaggio ordinario si appella in primo luogo alle note redatte dal viennese circa un classico dell'antropologia culturale: il Ramo d,oro di Frazer (Brusotti, 2016). In seconda battuta, può anche affidarsi a una raccolta (sempre ad opera di Winch) di frammenti che, dal 1977 in poi, consente di avere uno sguardo più ampio su un Nachlass all'epoca ancora poco sconosciuto. Il titolo affibbiato al volume, Culture and Value, tradisce un sapore vagamente relativista: il valore è legato alla cultura di riferimento. In quegli anni è su queste ed altre basi documentali che un gruppo di studiosi ristretto ma di notevole acume (nel Regno Unito la scuola di Swansea, in Italia Michele Ranchetti 1 , Aldo Gargani e la scuola linguistica romana di Tullio De Mauro, in Francia Jacques Bouveresse) tenta di proporre un Wittgenstein mitteleuropeo. Oggi questa contrapposizione appare superata. Il Nachlass è pubblicato on-line; lo sforzo ricostruttivo di tipo storico-biografico ha prodotto risultati innovativi: uno per tutti, l'indagine circa il rapporto tra Wittgenstein, Sraffa e Gramsci (cap. I). Ciò non significa, però, che sia avvenuta una ricomposizione critica. L'autore delle Ricerche È opportuno segnalare l,eleganza del titolo italiano delle Vermischte Bemerkungen tedesche e del Culture and Value inglese. La decisione di chiamare ropera Pensieri diversi ha conservato buona parte del senso del titolo originale aggiungendo ad esso raccenno alla varietà delle forme del pensiero su cui insiste redizione anglosassone. Appare meno opportuna, invece, la scelta di non inserire nelredizione italiana (anche in quella recentissima del 2021) la data precisa nella quale è stato scritto ogni singolo frammento e, poi, di non aggiornarla inserendo nella raccolta una poesia regalata da Wittgenstein a Hansel, composta probabilmente dal filosofo viennese. 1
Il. L'ALLIEVO DI SPENGLER
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è ancora oggetto di una tortura elefantiaca, tirato a sé dalla filosofia analitica o da chi ne ha fatto esempio terminale della cultura austroungarica di fine secolo. L'interrogativo, mai sopito, «relativista, scettico o filosofo del linguaggio ordinario?» (si pensi, per esempio, agli influenti scritti di Kripke e di Cavell) continua a ricacciare sullo sfondo un tema inevaso: qual è il rapporto, in Wittgenstein, tra linguaggio e mu'tamento storico?2 I due esempi riportati prima ben illustrano il problema perché, qualunque sia la risposta circa il relativismo, la questione rimane intonsa. Winch paragona in sincronia mondo occidentale e Azande africani; Pitkin accenna alle soluzioni normative di una filosofia del linguaggio ordinario che si occupa di come si parla qui ed ora. In entrambi i casi, nulla si dice della cifra costitutivamente storica della nostra natura. 2
Glock sostiene cli non aver trovato nella vastissima letteratura critica nessun articolo che si sia occupato in molto esplicito della relazione tra il pensiero di Wittgenstein e la nozione di storia. Siamo nel 2006, solo quindici anni fa (Glock, 2006, p. 277). Di fatto anche l'articolo di Glock si limita a sfiorare la questione, poiché è in gran parte dedicato al rapporto che Wittgenstein ha avuto con la storia della filosofia. Più in tema è il saggio di Sluga (2013) che prende le mosse proprio dal libro cli Hanna Pitkin. Secondo Sluga, al giovane Wittgenstein antistorico (ivi, nota 3) sarebbe succeduto un Wittgenstein «soggetto a un profondo cambiamento» (ivi, p. 8), dovuto soprattutto all'incontro con il pensiero di Spengler e Frazcr. A tal proposito, Sluga propone un'affermazione ficcante che vale la pena riportare per intero (ivi, p. 13): «possiamo immaginare che Spengler abbia aiutato Wittgenstein a vedere che il suo precedente anti-storicismo era esso stesso un sintomo del fatto che l'Occidente era ormai in uno stato di civilizzazione nel quale la sua cultura vivente si era deteriorata fino a raggiungere una condizione catatonica e che in quanto uomo senza storia, come si era descritto nell'osservazione del 1916, involontariamente aveva fatto parte cli quella civilizzazione dalla quale adesso si sentiva così profondamente lontano». L'analisi è precisa. Proprio per questo è inconciliabile con l'idea che Wittgenstein abbia riscoperto in tarda età la dimensione della storia. Piuttosto, da spengleriano coerente, l'autore delle Ricerche ha finito col produrre, come tra poco vedremo, uno «storicismo senza storia» (Hacker, 2009, p. 116). Di certo un altro saggio di Sluga (2018), più recente del primo, costituisce l'approfondimento migliore sul tema oggi disponibile. Descrive il rapporto tra la postura antistorica cli Wittgenstein e la filosofia di Schopenhauer, Russell e Spengler. Tuttavia anche questo articolo si chiude con due conclusioni discutibili. La prima sostiene che «Spengler ha ragione nel considerarci esseri storici solo in modo contingente» (ivi, p. 440), avallando la confusione tra società umane «fredde» (per usare l'espressione di Lévi-Strauss: cfr. Introdu1Jone) e la necessità per i sapiens di vivere storicamente; la seconda sdogana la sovrapposizione tra «teli a story» e dimensione storica (cioè «historical»: cfr. cap. III, S 1) dell'antropologia (ibid.). Circa gli esempi storici che appaiono nelle le1Joni sull'estetica che Wittgenstein tenne nel 1938 si veda, invece, l'interessante saggio di Bcrtollini (2017).
LOGICA E TUMULTI
2.
Il filosofo miope
Per uscire dall'oscillazione tra presbiopia continentale e astigmatismo analitico, occorre individuare uno dei punti dolenti della filosofia di Wittgenstein. Il viennese è afflitto da una malattia che potremmo chiamare «miopia per la storia». Il morbo trova brodo di coltura nelle letture giovanili del Mondo come volontà e rappresen"tazione di SchopenhauerJ. La sindrome, però, è in grado di manifestare un vero e proprio salto di qualità grazie all'incontro con il pensiero di un filosofo romantico e autoritario: Oswald Spengler. Una parte consistente della rivalutazione in senso antropologico del pensiero di Wittgenstein ha fatto leva sull'ispirazione morfologica della descrizione dei giochi linguistici e delle forme di vita (Andronico, 1998; Krkac, 2012). È questa l'origine di un paradosso piuttosto singolare: per la riabilitazione di Wittgenstein e della sua antropologia la coppia Goethe-Spengler ha giocato negli ultimi decenni un ruolo non marginale. Così facendo, però, è stata tralasciata la discussione di un aspetto tutt'altro che secondario della filosofia che gravita intorno alle Ricerche. L'applicazione alla storia, da parte di Spengler, del metodo morfologico di Goethe è stata interpretata come chiaro segnale di apertura verso la molteplicità dei fenomeni culturali (Landerer, 1992;Janik, 2008; Bernardo, 2011). Alla peggio, Wittgenstein è considerato erede di una visione etico-politica «a tono con il pessimismo di Spengler» (Sloga, 1998, p. 13) e «apocalittica del mondo» (PD, p. 109) che riceverà conferma da quel che sarebbe poi accaduto «negli anni Sessanta e Settanta» (von Wright, 1982, p. 249). Quest'ultima affermazione, proposta da uno studioso autorevole e amico persona3 Sluga insiste sul ruolo che avrebbe avuto Russell nell'indurre Wittgenstein all'atteggiamento espresso nella nota seguente: «Cosa mi importa della storia? Il mio mondo è il primo e l'unico» (Q, 2.9.1916, p. 228). È proprio l'appunto edito poi nei Quaderni a dare il titolo a un saggio che Sluga (1998) in prima battuta pensa come recensione a un testo di Hacker sul rapporto tra il viennese e la filosofia analitica. Non v'è dubbio che «le parole di Wittgenstein ci riportano alle idee sulla logica che egli poteva aver condiviso con Russcll nel periodo precedente alla Prima Guerra mondiale» (ivi, p. 7). Il passo in questione, però, risale al 1916 quando il conflitto è già in corso. La nota fa parte di una sezione dei Quaderni (dall' II. 1. 16 fino al 19. 1 1.191 6) che dialoga in modo costante con il pensiero di Schopenhauer (per le corrispondenze terminologiche e testuali: Ma1.zco, 1998). Sarebbe riduttivo, dunque, limitare il confronto tra questi ultimi due alla sola faccenda del mondo visto «sub specie aeternitatis» (Sluga, 1998, pp. 7-8). Nell'interrogativo da cui parte Sluga si parla non a caso di «mondo», tipico termine schopenhaueriano.
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le di Wittgenstein, è preziosa poiché sintomo nitido, rash cutaneo di una malattia esantematica. Vedere nei decenni chiave della contestazione solo i «motivi in favore della sua [di Wittgenstein] idea che la natura delle moderne società industriali ha in sé il pericolo dell'autodistruzione» (ibid.) suona quantomeno limitante, se non frutto di un occhio decisamente conservatore. La frase di von Wright, si badi, non è fuori luogo. Al contrario, ben interpreta la «nostalgia per il passato» di Wittgenstein (ibid.), aspetto che sarebbe errato considerare una semplice inclinazione caratteriale4. A proposito della liason tra Wittgenstein e Spengler abbiamo una data precisa da cui partire, il 6 maggio del 1930 (MP, p. 22)5: Leggo il Tramonto etc. e, malgrado molti particolari irresponsabili, trovo
parecchi pensieri autentici, significativi. Molto, forse la maggior parte, coincide del tutto con ciò che io stesso ho più volte pensato. La possibilità della prevalenza di sistemi chiusi i quali, una volta presenti, appaiono essere l'uno il proseguimento dell'altro.
L'ammissione esplicita, risalente all'anno successivo, con la quale il filosofo conferma di esser stato influenzato da «Frege e Russell, Sraffa e Spengler» (solo in seconda battuta verranno aggiunti i nomi di Boltzmann, Schopenhauer, Weininger, Hertz e Loos) trova un preciso fondamento testuale6. In Spengler Wittgenstein riconosce molte ,. È proprio in questo modo che von Wright cerca di sbrigare la faccenda. Lo studioso concede che «con gli anni, addirittura, in Wittgenstein tale visione si incupì nell'odio della nostra civiltà decadente e nel desiderio della sua distruzione» (von Wright, 1995, p. 10). Alla domanda circa la necessità per l'Europa di una nuova guerra mondiale, Wingenstein risponde: «Non una, ma due o tre» (ibid.). Si tratterebbe di «opinioni apocalittiche» (ibid.) che non sarebbero sintomo di conservatorismo poiché «Wittgenstein era molto più preoccupato di combattere l'atteggiamento mentale prevalente[ ... ] che di operare per raffori;are qualcosa che stava ormai svanendo» (ivi, p. 11 ). L'autoritarismo elitario à la Spengler non prevede, però, di tenere in piedi un sistema degenerato, quanto di spazzarlo via in nome di uno più vitale. La strenua opposizione di Wittgenstein all'opinione prevalente non è affatto in contrasto, dunque, con l'idea del tramonto dell'Occidente. Ne costituisce, piuttosto, la più coerente delle riproposizioni. s Cfr. Item 183, p. 16. Per la discussione dell'ipotesi che l'incontro tra Wingenstein e Spengler sia da retrodatare agli anni Venti rimando a Engelmann, 2016, pp. 160-162. ~ Altre eviden7~ o congetture testuali mettono in risalto l'impatto del pensiero di Spengler su Wittgenstein: sulle nozioni di «archetipo» e «somiglianza di famiglia» si veda von Wright (1982); della nozione di «tecnica» e dell'enfasi su aspetti musicali del linguaggio parla Michel Tcr Hark (1990); di «rappresentazione perspicua» e «somiglianza di
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delle proprie idee. Si potrebbe ipotizzare, con un pizzico di ottimismo, che l'inciso circa i pensieri parecchio «irresponsabili» presenti ne Il tramonto dell'Occidente si riferisca ai passi nei quali Spengler teorizza, ad esempio, la distinzione tra razze o il carattere necessariamente oligarchico del potere. Il modo nel quale proseguono gli appunti, purtroppo, smentisce l'ipotesi (MP, 19-24, pp. 23-24; cfr. Item 183, pp. 19-24): È un peccato che Spengler non sia rimasto alle sue buone idee e abbia proseguito oltre ciò di cui potesse rispondere. Del resto, il suo pensiero in una forma più limpida sarebbe stato più difficile da capire, ma solo in tal modo davvero efficace nel tempo. Così l'idea che gli strumenti ad arco abbiano assunto la loro forma definitiva tra il 1500 e il 1600 ha un'enorme portata (e simbolismo). [... ] Noi vediamo nella scoperta copernicana qualche cosa di grande - poiché sappiamo che essa significò a suo tempo qualcosa di grande e forse anche perché ancora una ultima eco di questo significato giunge fino a noi - e ora deduciamo per analogiam che le scoperte di Einstein ecc. sono perlomeno qualcosa di altrettanto grande. Ma esse - per quanto grande il loro valore pratico, per quanto vasto il loro interesse ecc. - sono tuttavia grandi solo in quanto sono significative (simboliche). Succede qui, naturalmente, come - per esempio con l'eroismo. Un fatto d'armi del passato viene celebrato - a ragione - come un'impresa eroica. Ma è del tutto possibile che un fatto d'armi altrettanto o ancora più eroico sia oggi un evento sportivo puro e semplice e, a torto, riceva il nome di impresa eroica. La difficoltà, il significato pratico, tutto ciò si può, per così dire, giudicare dal di fuori; la grandezza, l'eroicità viene determinata dal significato che l'azione ha. Dal pathos che è legato a quel modo di agire. Visto però che una determinata epoca, una determinata razza lega il suo pathos a modi di agire ben determinati, gli uomini vengono fuorviati e credono che la grandezza, il significato riposi necessariamente in quel modo d'agire.
Il passo è di grande interesse, per più di una ragione. In primo luogo, Wittgenstein dà per buona una visione dell'umanità organizzata famiglia» si occupano Ferber (1991) e Glock (1996, pp. 120, 279) il quale accenna alla possibilità di una influenza anche circa il termine chiave «forma di vita» (ivi, p. 124); la discussione del termine «pneuma» è analizzata da Schultc (2006) che più di recente si è soffermato sulle affinità circa il comune metodo comparativo (Schulte, 2018); della varietà molteplice delle matematiche tratta Engelmann (2013), che ha messo in discussione l'idea che la no1..ionc di «rappresentazione perspicua» di Wittgcnstein abbia tratto origine dal pensiero di Spengler (Engclmann 2016, p. 153). Per una panoramica sulla letteratura esistente si veda Dc Angclis (2007).
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per «Rasse» (razza). È vero, come ama ripetere il difensore d'ufficio, le Note sul Ramo d'oro insistono con sarcasmo sulle semplificazioni vittoriane delle quali è infarcito il libro di Frazer. È altrettanto vero, però, che occorre inquadrare questa critica in un contesto teorico più ampio. Il modo in cui Wittgenstein parla delle cose spengleriane presagisce una critica all'opposizione tra primitivo e contemporaneo che giunge, per così dire, da destra. Uno dei cardini de Il tramonto dell'Occidente è l'antinomia tra «cultura» e «civilizzazione». La prima sarebbe forma aurorale di una struttura sociale; la seconda sintomo della decadenza tecnica di mondi istituzionali, produttivi ed etico-politici oramai alla fine. L'opposizione tra civiltà e civilizzazione è del tutto compatibile con il sarcasmo verso «spiegazioni delle usanze primitive» che «sono molto più rozze del senso di quelle usanze stesse» (NRO, p. 28). È fondato affermare che in più di un appunto Wittgenstein critica Spengler circa il suo dogmatismo7. È altrettanto importante notare, tuttavia, la cifra di una simile critica. Il fatto che il significato di un comportamento non giaccia nella struttura dell'azione ma nel suo contesto culturale mina alle fondamenta l'essenzialismo del gesto di per sé eroico. I farmaci ai quali si ricorre per curare questa piaga filosofica sembrano, però, peggiori della malattia. Wittgenstein parla di pathos di un'epoca, della visione di una determinata razza in un determinato tempo, del valore simbolico di un gesto. Tutti elementi di spiegazione irrazionalisti, romantici ma soprattutto astorici. Da questo punto di vista sono proprio le tanto celebrate Note sul ramo d'oro a fornire una mole significativa, quanto inquietante, di osservazioni (NRO, pp. 28-30): La spiegazione storica, la spiegazione come ipotesi di sviluppo, è solo un modo di raccogliere i dati - della loro sinossi. È ugualmente possibile vedere i dati nella loro relazione reciproca e riassumerli in una immagine generale che non abbia la forma di un'ipotesi circa lo sviluppo cronologico [zeitliche
Entwicklung].
L'apparente spirito pluralista del passo cela molte insidie. Wittgenstein propone di considerare la dimensione storica semplicemente come una delle tante dimensioni della spiegazione. Non v'è l'idea 7
Andronico, 1998, pp. 203 e sgg.; Bouveresse, 1998, pp. 27-42; Bouveressc, 2000, p. 50; De Angelis, 2007, p. 18; Engelmann, 2016, p. 151.
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che il tempo umano sia caratterizzato da modalità di organizzazione tipiche di quel che chiamiamo «storia»: mutazioni di istituzioni, di forme produttive o, più in generale, di tutte le componenti che fanno della storia la molla in grado di sconvolgere e modificare l'intera vita degli umani. La storia non sarebbe dimemione deWantropologia ma piano epistemologico della spiegazione. Si ripensi a quanto Wittgenstein afferma nel passo del maggio 1930: le azioni umane sono grandi solo nella misura in cui sono «significative, cioè simboliche». Il termine «simbolico» (symbolisch) rischia di trarci in inganno: è una espressione che, almeno in questo contesto, non ha a che fare con il piano del linguaggio quanto con il pathos generato da un certo comportamento. Il riferimento al simbolico contiene una implicita diminuzione. Non è importante il contesto storico in quanto tale, ma il contesto in cui s'inserisce un certo comportamento in quanto interno ad una simbologia (barocca o medievale, illuminista o bizantina). Se questa simbologia non si organizza, sparisce pure l'alveo storico. Tantomeno è presa in considerazione l'importanza del gesto o dell'impresa ai fini della sopravvivenza. A dominare è il simbolico nel senso più retrivo dell'espressione: la guerra sarebbe una questione seria, davvero eroica, mentre lo sport sintomo della decadenza dei bei tempi nei quali il sangue scorreva a fiumi 8 • Il wittgensteiniano di scuola troverà queste osservazioni, forse, troppo severe. Il problema, purtroppo, è che il quadro risulta ancora più grave9. Quello storico, infatti, è un ordine esplicativo che in que8
Per una critica a questa idea rimando a Ma1..zeo, 2017. Cavell (1989, p. 87) prova a impostare la questione nel modo seguente. Wittgenstein adotta l'idea di Spengler del «declino di una cultura come processo di esteriorizzazione» quando critica chi pretende di «parlare fuori dei giochi linguistici». La differenza tra i due giacerebbe nel fatto che «le Ricerche filosofiche rendono quotidiana la visione di Spengler del destino verso forme esaurite, verso il nomadismo, verso la perdita della cultura o della patria» (ivi, p. 88). La conseguenza di questo doppio movimento sarebbe l'apertura verso parole che finalmente dovrebbero essere ascoltate e udite (ibid. ). Credo, invece, che le conseguenze di questo apparentamento procedano in direzione opposta. In primo luogo, il parlare fuori dai giochi linguistici è spesso accostato da Wittgenstein all'uso filosofico delle parole, il cui potere di trasformazione finisce, in questo modo, per esser relegato in fondo all'armadio delle cose quotidiane (per un approfondimento: Ma1..zeo, 2016). In secondo luogo, è proprio l'immersione del lascito spengleriano nel linguaggio ordinario la più pericolosa delle mosse etico-politiche compiuta dalle Ricerche. Si rischia di dare per scontato che quel di cui avremmo bisogno sia una patria, che il nomadismo rappresenti una forma di vita esaurita e altri luoghi comuni tipici del pensiero autoritario-conservatore. Un simile 9
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ste pagine è fatto coincidere con la nozione di «sviluppo» (Entwicklung). Anche questa seconda mossa tradisce la matrice spengleriana. La storia somiglia al dipanarsi ontogenetico di un organismo poiché conosce le fasi della nascita, della crescita e di quell'irrigidimento senile chiamato «civilizzazione» (Zivilisation). È chiaro che se la storia equivale a sviluppo diventa del tutto lecito, così prosegue il passo delle Note appena citato, rappresentare una legge «mediante una ipotesi di Entwicklung o anche analogamente allo schema di una pianta [... ] in una rappresentazione perspicua» (NRO, p. 29 ). Si noti la petitio principii: prima Wittgenstein dà per scontato che la storia sia analoga alle sorti organiche del vivente; poi afferma che si può procedere all'analogia tra morfologia botanica e tempo degli umani. Rimane del tutto inevasa la questione della legittimità di una simile equiparazione, se sia possibile lavorare su tempo storico e morfologia delle piante nei termini di due varianti di un'unica modalità rappresentativa. In sintesi, il testo di Wittgenstein più esplicitamente antropologico, le Note sul Ramo d'oro, lavora a un punto di vista che ha un alleato esplicito e un implicito avversario. Wittgenstein ragiona con Spengler (l'alleato) contro un'antropologia storica 10 • Probabilmente è di questa idea che discute con Piero Sraffa fino ad arrivare alla rottura (cap. I). Il filosofo austriaco cita Spengler per la prima volta il 6 maggio del 1930. Rush Rhees (1967, p. 11), uno degli esecutori testamentari, afferma che Wittgenstein ha letto il Ramo
modo di procedere produce storture, magari irriflesse, ma non per questo meno inquietanti. Per esempio, quando si tratta di criticare il presunto potere fondante della definizione ostensiva, Wittgenstein afferma: «E allo stesso modo colui al quale do una definizione ostensiva del nome di una persona potrebbe interpretarlo come il nome di un colore, come la designazione di una razza [Rasse] o addirittura come il nome di un punto cardinale» (RF I, S 28). La razza finisce sullo stesso piano del «colore», della «sostanza» e del «numero» (ibid. ): sarebbero tutti oggetti ordinari. 10 Grundy (2005, p. 96) sostiene invece che l'influenza di Spengler contribuisce, insieme ad altre, a fissare «i termini di una nuova temporalizzazione del modo nel quale Wittgenstein intende il linguaggio e la prassi umana». Poco dopo, però, questi sono gli esempi del «nuovo interesse per il tempo» (ibid.): il fatto che il modo nel quale parliamo della dimensione temporale influisce sull'esperienza che ne facciamo (ivi, p. 97) e che il tempo prediletto da Wittgenstein sarebbe legato al movimento di chi costruisce «afferrando sempre la stessa pietra» (PD, p. 28). Il primo esempio è generico, si tratta di un'analisi possibile, tanto per dirne una, anche all'interno della più rigida filosofia del linguaggio ordinario. Il secondo appare addirittura propenso a fare astrazione dalla dimensione storica e dalle sue trasformazioni.
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d'oro e poi scritto i suoi appunti tra il 1930 e il giugno 193 I. La correlazione tra i due eventi è confermata dall'esplicito riferimento a Spengler presente nelle Note circa la nozione di «rappresentazione perspicua» (NRO, p. 29 ). Wittgenstein si apre alla molteplicità delle forme culturali, ma questo non lo porta ad assumere una prospettiva storica. La mossa è resa possibile dall'adesione a una antropologia di tipo morfologico. Si dichiara esplicitamente: «anche l'ipotesi evolutiva posso considerarla come nient'altro che un travestimento di una connessione formale» (ivi, p. 30). La posizione di Wittgenstein è tutt'altro che neutra. Un conto è affermare, contro le paludi dello storicismo, la prudenza del «questo potrebbe esser nato da quello» (ivi, p. 50) senza il postulato di meccanismi occulti o di misteriosi ingranaggi epocali. Altro è procedere alla riduzione inversa e considerare la storia come «nient'altro che un travestimento». Appena si parla di storia, la prudenza di Wittgenstein svanisce. Il risultato è l'edificazione di un'antropologia che guarda alle differenti forme della vita umana come «una relazione interna tra ellisse e cerchio» al fine di «rendere il nostro occhio sensibile a una connessione formale» (ivi, p. 30). La storia è rimpiazzata da una geometria organica.
3. La tradizione morfologica
Occorre esser chiari: non v'è dubbio che il pensiero morfologico abbia inciso a diversi livelli nella filosofia del Wittgenstein successivo al Tractatus. Le letture del viennese non incrociano solo il minaccioso Spengler ma anche il più mite (almeno in senso etico-politico) Goethe. L'insistenza sulla necessità di lavorare sul linguaggio in termini descrittivi per mezzo di analogie, anziché ricercare un sottofondo (metafisico o scientifico) al quale ricondurre l'essenza della vita umana, è forse il precipitato più significativo del rendez-vous con il pensiero morfologico. È proprio nell'antipsicologismo di Wittgenstein che l'incontro mostra il massimo potenziale teorico (il nome di Goethe ricorre il maggior numero di volte nelle Osservazioni sulla filosofia della psicologia), poiché l'antipsicologismo non implica l'adesione a un panorama teorico reazionario o astorico. È proprio questa battaglia filosofica che accomuna Wittgenstein a uno Sraffa impegnato nella sfida contro l'idea secondo la quale l'economia si baserebbe su preferenze soggettive e
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interessi personali atomici (Roncaglia, 2000 ). C'è da aggiungere inoltre che Goethe, rispetto a Spengler, gode del vantaggio di non voler applicare esplicitamente il proprio metodo ai fenomeni storici. Detto questo, il quadro etico-politico legato alla tradizione morfologica considerata nel suo complesso rimane poco esaltante. Per chiarire un punto decisivo, è opportuna una precisazione filologica. Il fatto che il nome di Goethe appaia così di frequente in una opera tarda come le Osservazioni sulla filosofia della psicologia non dimostra la priorità dell'autore del Faust su Splenger nelle gerarchie wittgensteiniane. Delle 40 occorrenze del nome di Goethe nel Nachlass, addirittura 34 (1'8 5 % del totale) compaiono solo a partire dal 1946 11 • L'ingresso del pensiero di Goethe negli scritti di Wittgenstein appare tardivo, comunque successivo a quello di Spengler 12• La cronologia delle letture del filosofo indica un percorso poco rassicurante: non un appassionato di Goethe che si incuriosisce delle bizzarrie di uno dei più tardi (e autoritari) epigoni della Me"tamorfosi delle piante, quanto un Wittgenstein che, colpito da Spengler, va alla ricerca di una delle sue fonti 13 • • • Ecco la lista (accorpo alcune occorrenze consecutive che i WAB indicano come separate): Item 110, p. 12 [1931]; Item 110, p. 257 [1931]; Item 112, p. 128v [1931]; Item 120, p. 71v [1938]; Item 130, p. 89 [1944-1946]; Item 131, p. 141 [1946]; Item 131, p. 149 [1946]; Item 131, pp. 150-152 [1946]; Item 133, p. 16v [1946]; Item 134, p. 78 [1947]; Item 134, p. 154 [1947]; Item 136, p. 8oa [1948]; Item 136, p. 92b [1948]; Item 144, p. 12r [1948]; Item 156a, p. 56v [1932-1933]; Item 172, p. 24 [1950]; Item 173, p. 14r [1950]; Item 173, pp. 2ov-21v [1950]; Item 173, pp. 29r-29v [1950]; Item 173, p. 48r [1950]; Item 173, p. 68r [1950]; Item 173, p. 75v [1950]; Item 174, p. 9v [1950]; Item 176, p. u [1950-1951]; Item 176, p. 5v [1950-1951]; Item 176, p. 13v [1950-1951]; Item 176, pp. 17v-19r [1950-1951]; Item 211, p. 157 [1931-1932]; Item 229, p. 202 [1947]; Item 229, p. 265 [1947]; Item 229, pp. 267-268 [1947]; Item 229, p. 396 [1947]; Item 229, p. 412 [1947]; Item 233a, p. 37 [1948]; Item 233a, p. 71 [1947]; Item 245, p. 141 [1947]; Item 245, p. 196 [1947]; Item 245, p. 198 [1947]; Item 245, p. 285 [1947]; Item 245, p. 296 [1947]. •2.11 primo riferimento a Goethe è datato 16.1.1931 (Item no, p. 12; cfr. Item 211, p. 157; PD, p. 3 1 e Rofena, 2011, p. 13 nota 1). Il passo fa esplicito riferimento all'autore de Il tramonto dell'Occidente e al tema del «pensiero occidentale» e della «cultura del progresso» (ibid.). Probabilmente, dunque, Wittgenstein legge il primo sulla scorta del secondo e non viceversa. A favore di questa ipotesi esiste un secondo argomento di tipo testuale: nel noto passo circa gli autori che lo avrebbero influenzato (PD, p. 47), Wittgenstein cita Spengler e non Goethe. Per questa linea argomentativa: Klagge, 2003. 13 McGuinness (1988, pp. 54-57) mostra che Wittgenstein lesse alcune opere di Goethe sin dalla fanciullezza. Il filosofo, infatti, cita brani del poeta tedesco a Eccles (ivi, p. 108), a Russell (ivi, pp. 197, 343, nota 30), a un amico conosciuto sul fronte della Grande
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L'applicazione spengleriana del metodo morfologico alla storia ha il merito di mettere in evidenza un problema di fondo: l'insistenza della morfologia sulle transizioni continue da una forma all'altra lascia sullo sfondo un ampio numero di interrogativi. Marilena Andronico (1998, p. 13 9) sottolinea che, per Goethe, «vi è una concezione della natura che la vede come organismo vivente, come un tutto armonico di parti correlate». Si adotti o meno la prospettiva de Il tramonto dell'Occidente, pensare che il punto di vista di Goethe sia applicabile alle dinamiche storiche è fuorviante. Difficile negare che la storia dei sapiens non sia un'orchestra melodica. Se si decide di negarlo, conflitti e guerre, dissenso e scisma finiscono con l'apparire solo come eccezioni dello stato naturale. Da qui alla convinzione che tali eccezioni debbano essere rimesse in riga da un assetto istituzionale autoritario il passo è breve. Sembra altrettanto infondato ritenere che i cambiamenti storici siano analoghi alle transizioni della morfologia botanica o a somiglianze fisiognomiche (si pensi alla discussione tra Wittgenstein e Sraffa sulla questione: cap. I, § 3 ). La storia è, in quanto tale, temporalmente discontinua: questa è la ragione per la quale non è possibile stabilire un rapporto meccanico di causa/effetto (l'obiettivo polemico tanto di Goethe che di Spengler); questa è la ragione per la quale la continuità tra le forme postulata dal metodo morfologico non può che mostrarsi insufficiente per la comprensione di questo tipo di fenomeni. Affermare, ad esempio, che «il divenire di ogni civiltà è scandito da un ritmo di tipo biologico» (giustamente Andronico riassume così il punto di vista di Spengler: 1998, p. 159) significa negare la storicità di ogni forma culturale che si caratterizza, invece, per tempi non biologici. Solo un tempo discontinuo, cioè non regolato da cicli metabolici legati a dimensioni e temperatura corporea, può produrre un secolo breve come il Novecento (per citare la celebre definizione di E. Hobsbawn), dieci giorni che sconvolsero il mondo (titolo altrettanto noto del libro di J. Reed) o l'esplosione tecnico-culturale che circa cinquantamila anni fa pare abbia caratterizzato la vita dei sapiens. Questo processo di contrazione e dilatazione è l'esatto opposto dell'idea che il tempo Guerra (ivi, pp. 342-343) e a un membro del circolo di Engelmann (ivi, pp. 370-371). Mentre è ancora arruolato, richiede a Engelmann gli Epigrammi veneziani, le Elegie e le Epistole (ivi, p. 385). Tutte queste testimonianze, però, sono compatibili con l'ipotesi che, almeno in un primo momento (cioè fino alla lettura di Spcngler), Wittgenstein fosse «un estimatore dell'opera soprattutto poetica di Goethe» (Egidi, 2005, p. 138).
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storico sia paragonabile alle fasi ontogenetiche dell'infanzia, della maturità e della vecchiaia: «secondo Spengler, la storia è una serie di ere discrete che crescono, fioriscono e decadono» (Klagge, 2003, p. 20). È anche in contraddizione con «l'idea di Goethe che la natura sia una entità armonica che è in sé modificabile e, allo stesso tempo, costante» (Kuhn, 1987, p. 11). La costante modificabilità della storia è tale proprio perché niente affatto melodica. La miopia di Wittgenstein per il tempo storico è evidenziata da una delle più chiare ricostruzioni della questione che stiamo affrontando. È sempre Andronico (1998, p. 189) ad affermare che il metodo morfologico svolge per il viennese una funzione doppia. Per un verso, «facilita l'invenzione di configurazioni variate»; per un altro, «mostra che l'analisi del significato non verte sulle cause di un fenomeno, ma consiste nell'esplorazione delle relazioni logiche o morfologiche - che un dato concetto [... ] intrattiene con altri concetti» (ibid.). Attenzione agli aggettivi, giacché sono scelti con cura: le relazioni tra i concetti sono «logiche o morfologiche», non storiche.
4. Ambivalenze della certezza
Prima di concludere il capitolo, è doveroso affrontare un'obiezione. Nella produzione wittgensteiniana spicca un testo di particolare rilievo e originalità teorica. Il Della certezza è un'opera innovativa da molti punti di vista (per una panoramica: Perissinotto, 1991). Non è dunque da escludere che possa costituire un testo sorprendente anche circa la storicità della vita umana. Esiste, ad esempio, un nucleo di paragrafi (DC, §§ 93-99) che affida alla dimensione temporale un ruolo importante. I diversi gruppi di parlanti, commenta Wittgenstein, si avvalgono di una specifica «immagine del mondo». Si tratta dello «sfondo tramandato» che organizza i cardini di quel che sarà certo nella vita. Tra gli esempi più diffusi di proposizioni nelle quali si condensa questo sfondo troviamo espressioni tipo «qui c'è una mano» (ivi, § 1) oppure «la Terra è esistita molto tempo prima» della nostra nascita (ivi, § 84). Tramite la metafora del fiume, Wittgenstein insiste sul fatto che il confine tra gli argini dello scorrere della vita (giacché «descrivono quest'immagine del mondo»: ivi, § 9 5) e le singole proposizioni che ogni giorno pronunciamo ( «empiriche»: ivi, § 96) cambia «col tempo» (ibid.).
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Non v'è dubbio, dunque, che Della certezza apra, come non mai, alla trasformazione delle pratiche linguistiche umane. A tal proposito, è importante intendersi su una distinzione. Sicuramente, la discussione dei testi di Moore, che impegna gli ultimi due anni di vita del pensatore austriaco, costituisce il riferimento imprescindibile per una ripresa critica del progetto filosofico di Wittgenstein. È proprio da qui, solo per fare un esempio, che si deve partire per un'antropologia dell'uso (Virno, 2015; Mazzeo, 2016). Nel contempo, queste note sembrano risentire ancora della miopia wittgensteiniana nei confronti della storia. O meglio: questa miopia si evolve in un'ambivalenza, più ricca rispetto agli scritti precedenti, ma ancora irrisolta. Non c'è da stupirsi. Come sappiamo si tratta di scritti che, a differenza di tanti altri, non hanno potuto avvalersi del lavoro di scrittura tipico delle minute osservazioni che compongono il Nachlass. Alla questione della storia nel Della certezza, sembra adattarsi magnificamente una nota di insoddisfazione che Wittgenstein verga di proprio pugno (DC,§ 387): Io credo che leggere queste mie annotazioni potrebbe interessare un filosofo: un filosofo che sappia pensare da sé. Infatti anche se soltanto raramente ho colto il bersaglio, lui potrebbe tuttavia riconoscere a quale bersaglio io abbia incessantemente continuato a mirare.
Il bersaglio al quale il testo pare mirare è costituito proprio dalla storicità dei giochi linguistici. Spesso, però, il Della certezza manca l'obiettivo perché riesce a conseguire il risultato parziale ed equivoco di una temporizzazione del linguaggio. Il termine «temporizzazione» è un'espressione tecnica che indica di solito l'aggiunta a uno strumento di un dispositivo meccanico che misuri il tempo. Nelle Ricerche il linguaggio è paragonato a una cassetta di utensili (RF I,§ 11 ); il Della certezza dota quella cassetta non solo di martelli, metri e colla, ma anche di un orologio. La ripresa sistematica dell'esempio coniato da Moore circa la certezza che «la Terra esisteva già da molto tempo prima che io nascessi» (DC,§ 288) fa sì che il tempo sia presente in un numero notevole di paragrafi, specie nella prima metà del testo 14 • Ad esempio, il fatto '" I riferimenti temporali sono particolarmente frequenti in un gruppo di osservazioni che va, alrincirca, dal § 57 al § 349 (Della certezza è composto da 676 paragrafi).
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che la proposizione grammaticale sia dichiarata «come non temporale» (ivi,§ 57), rileva Perissinotto (1991, p. 250), non significa che essa abbia «la proprietà di durare infinitamente». Al contrario, «le proposizioni grammaticali sono atemporali proprio in quanto sottratte al tempo» (ibid.). Le proposizioni grammaticali che compongono l'immagine del mondo di uno specifico gruppo di parlanti si avvalgono di una sottrazione al tempo paradossalmente temporanea. Come esplicita il paragone con lo scorrere del fiume, quel che può costituire l'argine certo di un modo della vita umana può entrare a far parte della corrente fluida di un altro e dunque rientrare nella dissipazione temporale di un presente che diventa via via più remoto. Questa temporizz,azione dell'immagine del mondo non coincide, però, con una storicizza,zione del linguaggio. Per il Della certezza, sembra calzare un'affermazione valida già per la prima opera di Wittgenstein: «che il tempo svolga un ruolo importante per il Tractatus non significa che anche la storia lo svolga» 1 s. Al fine di corroborare un'ipotesi poco consolatoria, propongo quattro linee argomentative. In primo luogo, l'analogia fluviale (DC, §§ 93-99) è geologica prima che storica: come il fiume muove i suoi argini, così l'immagine del mondo dei parlanti è smossa dalle pratiche linguistiche del gruppo cui appartiene. Come leggere la metafora? Un'antropologia storica direbbe che il paragone è calzante a una condizione non da poco: sostituire la temporalità fisica della corrosione del fiume con la storicità istituzionale dei sapiens. Se aggiungiamo la clausola, il passo diventa decisivo per una storia naturale materialista e innovativa 16 (cap. III). Occorre registrare, però, che questa clausola •s Perissinono, 1991, p. 247, nota 42. Circa il Tractatus, Prampolini (1996, p. 223) aggiunge: «Va da sé che, con queste premesse, ogni forma di storicità e di conoscenza storica viene esclusa. Ogni ordinamento seriale è arbitrario: [... ] ogni spiegazione, ogni dispiegamento dei fatti, dalla teoria meccanica di Newton alla teoria genetica di Mendel, dalle Vite Parallele di Plutarco agli Anna/es di Tacito, sono frammenti di una storia naturale, episodi di un quadro semifigurativo, che di vero ha i fatti e di illusorio proprio le connessioni in una unità narrativa». 16 Affronteremo il tema nel prossimo capitolo. Vale la pensa di anticipare che l'unica occorrenza di «storia naturale» presente nel Della certezza intende l'espressione nel modo tradizionale/morfologico del termine (ivi, S 534). Un genere letterario ed epistemico che, per affrontare il sempre crescente numero di dati con i quali fare i conti circa il mondo naturale e umano, si innova tramite un processo di «temporalizzazione» (Lepenies, 1976, pp. 27 e sgg.). Il suo sapere continua a essere una «sistematica astorica» (ivi, p. 76): storico è solo «l'ordine cronologico» (ivi, p. 30) delle varie scoperte che essa è in grado di registrare.
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nel testo non è presente per due ragioni che coincidono con la seconda e la terza delle argomentazioni che offro al lettore. Nei paragrafi in questione si parla di «tempo» e non di «storia»; la trasformazione di cui parla Wittgenstein riguarda il credere e l'agire, l'episteme e la prassi, ma non le forme istituzionali. Quando nel Della certezza si parla esplicitamente di «storia» (Geschichte) o di «storico» (geschichtlich, historisch), lo si fa in modo coerente con quel che accade nel resto del Nachlass (si veda l'incursione filologica precedente). Con l'espressione ci si riferisce a un metodo della ricerca (DC,§§ 85, 138; cfr. Armstrong, 1985), al racconto della creazione secondo la Bibbia (DC, § 3 36) o alla data di una battaglia contenuta in «un'opera storica» (ivi,§ 66). Una proposizione circa Napoleone farebbe parte della nostra immagine del mondo come il presupposto che «questo tavolo continua a rimanere qui quando nessuno vi bada» (ivi, §§ 163, 188, 190), una materia da imparare a scuola (ivi, §§ 170, 206, 311) o le due cose insieme (ivi, §§ 234, 236, 312, 316). La storia è la somma dei «dati di fatto» che «gli uomini mi trasmettono in una certa maniera» (ivi, § 170); «d'altra parte, il gioco linguistico cambia col tempo» (ivi, § 256). Queste due affermazioni condensano il vertice del pensiero wittgensteiniano circa il tempo storico. Si tratta di un risultato non trascurabile, perché altrove non è facile trovare una simile concentrazione di osservazioni che riguardano «i tempi più antichi» (ivi, § 284), «molti anni fa» (ivi, § 143), «150 anni fa» (ivi,§ 185), «100 anni fa» (ivi,§ 311), «50 anni fa» (ivi, § 262), «anni fa» (ivi, § 176), «mesi e mesi» (ivi, § 75 ), «per settimane» (ivi, § 416), «un'ora fa» (ivi, § 23 7), «cinque minuti fa» (ivi, § 349 ), «un minuto fa» (ivi, § 237). D'altra parte, abbiamo a che fare con un risultato parziale. Cambiamenti temporali e trasmissione culturale sono condizioni necessarie ma non sufficienti per parlare propriamente di storia. I primi riguardano anche deriva dei continenti e smottamenti di terrapieni; la seconda appartiene pure a diverse specie animali che esibiscono forme protoculturali (scimpanzé, corvi, delfini, ecc.). Il dibattito con Moore (e con Russell: Sluga, 2018, pp. 436 e sgg.) porta Wittgenstein a insistere sulla necessità epistemica di presupporre che qualche generazione di umani sia esistita prima di noi. Nel contempo, significativo è che si accenni solo a un numero ristretto di generazioni: la gittata degli esempi non supera il secolo e mezzo («150 anni fa», «la storia di Napoleone»:
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ivi, §§ 18 5 e 163) come se il passaggio intergenerazionale fosse finalmente visibile, ma ancora a corto raggio, confinato nei limiti prossimi di un occhio miope che si sforza di guardare lontano. Le espressioni 1 7, diffuse nel testo, che alludono a un tempo su larga scala si riferiscono alla credenza circa l'esistenza della Terra. Il tempo breve riguarda le generazioni umane; il tempo lungo concerne un fatto astronomico. Anche in termini ristretti (due secoli al massimo), la dimensione intergenerazionale trova di rado un'articolazione istituzionale. «Re» (ivi, § 13 2), «corte di giustizia» (ivi, § 33 5) e «corte marziale» (ivi, § 5 57) sono le tre istituzioni che fanno ca polino sulla scena nei termini del «non più» o del «diverso da ora». Per il resto, lo smottamento fluviale protagonista della metafora più suggestiva del libro non pare aver presa sulle istituzioni e sulle forme di riproduzione della vita necessarie ai sapiens 18 •
Filologia. L,aggettivo «storico» L'analisi delle forme aggettivali conferma quanto visto nel capitolo precedente a proposito del termine «Geschichte» (storia). In tedeLe espressioni sono: «molto tempo», «molto tempo prima», «già da tanto tempo» (lange vor, schon lange, soundso lange, so lange, langst vor: ivi, §§ 84, 85, 89, 91, 203, 236, 262, 288, 301, 327). A queste bisogna aggiungerne almeno un'altra. «Unvordcnklichc Zcit» è un'espressione che compare due volte nel Della certezza (SS 182, 211) e solo lì, poiché rappresenta una novità assoluta per il lessico wittgenstciniano (nel Nachlass non trova altre occorrcn1..e). La traduzione dal tedesco non è semplice: il testo italiano propone «tempo immemorabile». Preso alla lettera, l'aggettivo si riferisce a qualcosa di «non immaginabile», «non pensabile in anticipo». 18 Nel Della certezza l'ambivalenza della temporizzazione linguistica trova indizio ulteriore ncll' archeologia di una delle parole chiave del testo. L' «immagine del mondo» (Weltbild) di cui parla Wittgcnstcin si riferisce ai cardini dello sfondo condiviso dalle singole generazioni di parlanti. La nozione allude alla necessità di una trasmissione intergenerazionale dei cardini sui quali ruota l'agire collettivo: le proposi1.ioni che incarnano una cena immagine del mondo sono la riva del fiume delle pratiche. La metafora del flusso ha segnato in lungo e in largo alcune delle riflessioni di Wittgcnstein sul tempo, sin dagli scritti giovanili (Stero, 199 1). Uno studio recente suggerisce, però, che la sua origine sia legata non a Eraclito (ibid.) ma a Spcnglcr (Hamilton, 2014, p. 132). A favore di quest'ipotesi, milita un dato filologico. Nel Nachlass, la prima occorrenza di «Wcltbild» risale all'8.5.1930 (Item 108, 152), ovvero proprio al periodo nel quale Wittgcnstein afferma esplicitamente di essere immerso nella lettura dc Il tramonto dell'Occidente (cfr. cap. II, S2), libro nel quale l'espressione è endemica. Anche sul più avanzato dei testi wittgcnstciniani cala l'ombra del tempo senza storia. 17
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sco l'aggettivo presenta due varianti principali. Una ( «historisch» ), di derivazione latina, è particolarmente diffusa tra i parlanti austriaci. L'altra ( «geschichtlich» ), invece, è derivata dal sostantivo. Wittgenstein le impiega entrambe, in alcuni casi in modo esplicitamente intercambiabile. In un passo, ad esempio, le usa una dopo l'altra senza differenza alcuna (19, ripetuto poi in 67). Un altro brano presenta due varianti, per il resto identiche, che si distinguono solo per la sostituzione dell'aggettivo (CE, p. 13, corsivo nel testo): La forma di base del nostro gioco dcv' essere tale che in essa non ci sia spazio per il dubbio. - Da dove viene questa sicurezza? Non può trattarsi di una sicurezza storica.
Nel Nachlass, troviamo sia una versione nella quale si impiega «historische» che una in cui, invece, si trova «geschichtliche» (18, 66). Il conteggio delle occorrenze presenta le consuete difficoltà. Secondo i WAB, «historisch» compare 63 volte, per BBE 56. La variante «geschichtliche» figura 24 volte nei WAB, una in meno nella Bergen Electronic Edition. In questo caso adotterò la catalogazione dei Wittgenstein Archives at the University of Bergen enumerando, dunque, 87 passi. Per una prima organizzazione teorica dei brani, è opportuno riproporre tre delle diciture già impiegate nella precedente sezione filologica. Con «C» saranno segnalate, dunque, le osservazioni critiche e svalutative nei confronti della dimensione storica. Con «G» si indicheranno osservazioni generiche che si riferiscono a questa dimensione antropologica come costituisse un gioco linguistico tra gli altri o un ramo del sapere umano come la geografia o la chimica. Naturalmente, la distinzione tra i due casi non è netta. La mimetizzazione del fatto storico è spesso propedeutica alla sua svalutazione. In alcuni casi, il processo può esser così radicale da suggerire anche negli usi aggettivali il collasso tra la storia in senso antropologico (cambiamenti istituzionali e produttivi) e storia in senso narrativo (racconto, narrazione). A tal proposito, una nota inedita mostra in modo particolarmente vivido l'ambivalenza funambolica di un aggettivo che incarna contemporaneamente un precedente temporale e una cosa da raccontare (68): La vera connessione tra ciò che dico o faccio e la persona di cui sto parlando/a cui sto pensando risiede nella storia, negli eventi che hanno preceduto il mio pensiero. Penso a lui nello stesso senso in cui parlo di lui. Speravo
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venisse a trovarmi questo pomeriggio e mi portasse dei soldi. E questo aveva una storia. - Sono rimasto a casa nel pomeriggio; ho preparato questo e quello per lui; spesso pensavo a lui; quando ho sentito la porta di casa aprirsi, ho ascoltato, chiesto chi veniva, ecc. ecc. Ho fatto, omesso, pensato e detto varie cose e la mia voce è cambiata in un certo modo. Questa è l'immagine, il modo in cui appare, la speranza di questo evento. La connessione tra tutto ciò che faccio, non faccio, dico, penso, sento con questa persona è storica.
La catena di antefatti prossimi figura come una microstoria di comportamenti minimi, di variazioni fini, di fatto indistinguibili dalla possibilità di dirne e raccontarne. Da ultimo, con la lettera «P» saranno segnalate le occorrenze più interessanti, quelle che sembrano concedere alla storia una chance teorica. Su di esse torneremo in fondo a questa incursione. Un primo tentativo di conteggio porta a un panorama poco equivoco: Accezione critica (C): 37 occorrenze Accezione generica (G): 42 occorrenze Accezione positiva (P): 8 occorrenze
Quasi il 90% degli usi deWaggettivo «storico» è di tipo svalutativo o generico. A volte, la struttura sintagmatica è simile a quella già individuata per il sostantivo: non di rado un fenomeno è bollato come «nur» o «bloss historisch» ( «solo storico»: 2, 71, 73, 74, 86 [OFP I, § 1073]) perché lo storico diviene un sottoinsieme di ciò che è «ipotetico» (1, 2, 4-6 [NRO, pp. 28, 30, 34]) o «probabile» (22, 30 [BT, 33, p. 137; GF I, app. 7, p. 189], 37, 46, 48, 52), in contrapposizione a quella che può essere, invece, una «importante possibilità» (66). Si arriva ai collassi terminologici già visti nella precedente sezione filologica che fanno precipitare lo storico nel termine «Vorgeschichte» (antefatto/preistoria: 25) o lo accostano alla sua antitesi (la «biologia»: 9 [BT, 111, p. 528; GF II, 14, p. 262]) fino a dichiarazioni d'intenti più esplicite: «dal mio modo di considerare l'esser noto voglio escludere tutto ciò che è "storico"» (65, 76 [GF I, § 116, p. 129]). La storia è qualcosa a cui «il mio modo d'esprimermi non vuole far riferimento» (7 5 [GF I, § 116, p. 129]). Esiste poi un interessante gruppo di osservazioni, tematicamente omogeneo, che contrappone la dimensione storica a quella religiosa
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(19-22, 37-38 [MP, p. 104], 67, 81-82 [MP, p. 64-65]). Da questo confronto, la storia esce, ancora una volta, con più di un livido. La si intenda da credente o come fenomeno antropologico, quel che esula dalla storia pare in grado di cogliere il senso della vita. «L'evidenza storica» non sarebbe, infatti, altro che una delle diverse forme di «gioco» (21) ed è per questo «il cristianesimo non si basa su una verità storica» (19). In linea con questo ragionamento si trovano le occorrenze pubblicate nel Della certezza (cap. II, § 4). In esse la storia è uno dei possibili giochi linguistici della prova empirica o della credenza condivisa (33 [DC,§ 138], 34 [DC,§ 188], 35 [DC,§ 190], 78 [DC, § 170], 79 [DC,§ 236]). Altrove si allude alla storia in modo altrettanto generico, per far riferimento a una forma d'espressione artistica come un quadro (7, 13 [GF I, § 114, p. 127], 41, 56-58 [RF I, § 522]), un dramma (3, 8, 39, 40, 53), uno stile (31) magari d'arredamento (24 [USFP, § 750], 31) o a una «origine remota» (26 [NRO, p. 43]).
Classi{ietlzione delle occorrenze
«historisch » I. Item 109, p. 68: C 2. Item 109, p. 146: C 3. Item 110, p. 67: G 4· Item I 10, p. 225: C 5. Item I IO, p. 257: C 6. Item I 10, p. 297: C 7. Item 110, p. 300: G 8. Item 111, p. 1: G 9. Item 112, p. 4r: G 10. Item 113, pp. 1v-2r: G 11. Item 113, p. 11r: P 12. Item I 13, p. 134r: C 13. Item 114, p. 108r: G 14. Item I 14, p. 145r: C 15. Item 115, p. 57: P 16. Item 117, p. 232: P
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17. Item 18. Item 19. Item 20. Item 21. Item 22. Item 23. Item 24. Item 25. Item 26. Item 27. Item 28. Item 29. Item 30. Item 3 i. Item 32. Item 33. Item 34. Item 35. Item 36. Item 37. Item 38. Item 39. Item
40.Item 41.Item 42. Item 43.Item 44. Item 45. Item 46. Item 47. Item 48. Item 49. Item 50. Item 5 i. Item 52. Item 53. Item 54. Item
75
119, p. 76r: C 119, p. 101: C 120, p. 41v: C 120, p. 42r: C 120, p. 42v: C 120, p. 42v: C 130, p. 165: G 138, p. 7: G 140, p. 35r: C 143, p. 13: C 143, pp. 13-16: C 143, pp. 13-16: C 153a, pp. 136v-137r: G, stesso passo di (9) 153b, pp. 42r-42v: G 160, p. 22r [22v]: G 162b, p. 68v: P 174, p. 29v [3or]: G 174, p. 39r [40]: G 174, p. 39v [40]: G, seconda occorrenza nel testo sopra 175, p. 3v: G 183, p. 148: C 183, p. 239: C 211, p. 1: G, stesso passo di (8) 211, p. 274: G, stesso passo di (3) 211, p. 312: G, stesso passo di (7) 211, p. 321: e, stesso passo di (6) 211, p. 322: C, stesso passo di (5) 211, p. 375: e 211, p. 416: G, stesso passo di (9) 211, p. 544: G, stesso passo di (30) 211, p. 720: C, stesso passo di (12) 212, p. 423: G, stesso passo di (30) 212, p. 13 57: G, stesso passo di (3) 212, p. 1421: G, stesso passo di (9) 212, p. 1834: C, stesso passo di (12) 213, pp. 127r-128r: G, stesso passo di (30) 213, p. 519r: G, stesso passo di (3) 213, p. 548r: G, stesso passo di (9)
LOGICA E TUMULTI
55. Item 56. Item 57. Item 58. Item 59. Item 60. Item 61. Item 62. Item 6 3. Item
213, pp. 757r -758r: C, stesso passo di (12) 227a, pp. 266-267: G 227b, pp. 266-267: G, stesso passo del precedente 228, p. 148: G, stesso passo del precedente 229, p. 216: G 230a, p. 15: G, stesso passo del precedente 230b, p. 15: G, stesso passo del precedente 230c, p. 15: G, stesso passo del precedente 24 5, p. 1 52: G, stesso passo del precedente
«geschichtlich »
64.Item 113, p. 123v: P, già trattato nella filologia di «Geschichte» 65. Item 115, p. 5: C 66. Item l 19, p. 100: e 67. Item 120, p. 41v: C, stesso passo di (19) 68. Item 124, p. 232: G 69. Item 135, pp. 2v-3r: G 70. Item 135, p. 17v: G 71. Item 135, p. 47v: C 72. Item 136, p. 87b: G 73. Item 137, p. 25a: C 74. Item 146, p. 20V: e 75. Item 146, p. 26v: C 76. Item 146, p. 29r: C, stesso passo di (65) 77. Item 165, pp. 157 e 158: G 78. Item 174, p. 36v: G 79. Item 175, p. 13v: G 80. Item 179, pp. 12r-12v: G 81. Item 183, pp. 132-133: C 82. Item 183, pp. 132-133: C 83. Item 211, pp. 704-705: P, stesso passo di (64) 84. Item 212, pp. 1315-1316: P, stesso passo di (64) 85. Item 213, p. 495r: P, lo stesso passo di (64) 86. Item 229, p. 441: C, stesso passo di (71) 87. Item 245, p.315: C, stesso passo del precedente
Il. L'ALLIEVO DI SPENGLER
77
Prima di concludere, è opportuno analizzare i passi che lasciano aperta una via percorribile a un'antropologia storica o, come vedremo nel prossimo capitolo, a una nuova storia naturale. Il numero grezzo delle occorrenze può trarre in inganno. Qui, come altrove, Wittgenstein ripete passi che compaiono in volumi diversi dei suoi appunti o dattiloscritti. Occorre poi depennare un passo, ripetuto quattro volte (64, 83, 84, 85) e che abbiamo già commentato nel precedente affondo filologico, perché in esso compare anche il sostantivo «storia» (occorrenze 20, 27, 134). Da otto il numero dei passi scende dunque a quattro. Qui di seguito eccone la traduzione: (11) Item 113, p. 11r [19.05.1932, GF II, N, 18, p. 282]: D'altro canto si potrebbe immaginare una consuetudine, in analogia con qualche strana forma storica di misurazione, secondo la quale i soldati schierati si contano sempre tralasciando il primo soldato della fila (forse perché si deve indicare il numero delle possibili indicazioni del capofila con un altro soldato della fila).
(15) Item 115, p. 57 [dicembre 1933]: Una regola è una proposizione empirica, ad esempio circa l'uso del linguaggio? Una regola degli scacchi è una proposizione su come gli esseri umani ci hanno giocato dall'evento dell'invenzione degli scacchi, cioè su come hanno mosso i pezzi degli scacchi? Perché quando si dice che gli umani giocavano a scacchi in questo modo, gli «scacchi» devono essere definiti in modo tale che abbia senso dire che una volta vi si è giocato in modo diverso. (Il gioco degli scacchi è definito, ad esempio, dalla sua continuità storica/con l'aiuto della sua continuità storica). Di solito, infatti, le regole appartengono alla definizione degli scacchi. Che qualcuno giochi secondo questa regola è un fatto dell'esperienza; oppure: «A gioca secondo questa regola», «la maggior parte delle persone gioca secondo questa regola», «nessuno gioca secondo questa regola» sono frasi empiriche. La regola non è una proposizione empirica; nei nostri esempi fa parte di tali proposizioni. Se la definizione del metro è la lunghezza del metro conservato a Parigi, la proposizione «questa stanza è lunga 4 m» dice la stessa cosa della proposizione: «Questa stanza è lunga 4 metri e I metro= la lunghezza del metro di Parigi».
(16) Item 117, p. 232 [3.3.1940, OFM II,§ 80]: Per chiarire un problema filosofico è spesso molto utile immaginare che lo sviluppo storico, poniamo della matematica, sia stato completamente diverso
LOGICA E TUMULTI
da quello che in effetti fu. Se in matematica le cose fossero andate diversamente, a nessuno sarebbe venuto in mente di dire le cose che effettivamente si dicono.
Quel che vi è di seducente nelle considerazioni causali è che ti portano a dire «Certo, deve/doveva accadere così». Mentre uno dovrebbe pensare: «può accedere così e in molti altri modi». Quando usiamo l'approccio etnologico, dichiariamo che la filosofia sia etnologia? No, significa solo che spostiamo il nostro punto di vista un passo indietro per poter vedere le cose in modo più obiettivo. Mi fai vedere un nuovo oggetto e chiedi: «Cosa ne dici?» - E io: «Cosa posso dire al riguardo? - solo che... ». Non è possibile definire matematicamente le parole «conseguente» e «non conseguente». Una contraddizione p · ~ p può sempre essere intesa come ~ (p) · ~ (~ p) e questa come la proposizione: non voglio affermare p, né~ p. Uno dei metodi più importanti di cui mi avvalgo è immaginare il corso storico dello sviluppo dei nostri pensieri in modo diverso da quello effettivamente accaduto.
Tre di questi passi (11, 16, 32) sono accomunati da un medesimo movimento di pensiero, giacché insistono sulla storia come motore immaginativo. Considero quel che è avvenuto per pensarlo in modo diverso, vederne alternative possibili. Le sorti editoriali del primo passo incarnano tutta l'ambivalenza del viennese per la storia. La frase che fa riferimento esplicito ad essa risulta, infatti, cancellata. Per questo motivo, nel brano corrispondente pubblicato nell'opera conosciuta come Grammatica filosofica l'aggettivo non compare. La storia è un trampolino di lancio immaginativo, utile per spiccare il salto verso altre antropologie. Ecco perché, dopo che ha fatto il suo lavoro, la tavola elastica può esser messa da parte. Wittgenstein apre alla storia lì dove forse non lo si immaginerebbe, vale a dire quando tratta della matematica. Che sia in questione la «misurazione» o la «contraddizione», Wittgenstein parla finalmente di «sviluppo» (Entwicklung) senza suggerire l'analogia fra trasformazione storica e calcolo del 1t (12 [BT, 39, pp. 714-715; GF 11, 42, pp. 437-438]); cfr. appendice I, § 4). Proprio per questo motivo, l'altro passo citato poco sopra (15) è il più promettente. La storia sembra vestire finalmente abiti civili: emerge dal caso speciale, per quanto decisivo, delle matematiche per entrare a pieno titolo tra le fondamenta del gioco linguistico.
Il. L'ALLIEVO DI SPENGLER
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Quando si sottolinea che «il gioco degli scacchi è definito, ad esempio, dalla sua continuità storica/con l'aiuto della sua continuità storica», Wittgenstein compie una mossa tutt'altro che banale. A proposito di un esempio sul quale occorrerà tornare (prima appendice), a metà strada tra calcolo della logica e giocattolo infantile, si fa largo un'impostazione che è agli antipodi rispetto alla citazione della storia tra i diversi giochi linguistici possibili. Invece di concedere distrattamente che si può rispondere a una certa questione «ad esempio in modo storico» (70), oppure che «i nostri «stati di coscienza» hanno una storia» (77), s'intravede finalmente la filigrana che permette ai giochi linguistici di avere un'identità che vada oltre il qui e l'ora. La storia dà luogo a fenomeni dimessi e, per questo, tutti umani: non incarna una generica «fetta della realtà corporea» (14 [GF I,§ 114, p. 128]), ma l'insieme delle tecniche che fanno di un gioco linguistico quel che è.
III.
Quale storia naturale?
1.
Natura e storia
Negli ultimi anni, specie nel mondo anglofono, il dibattito circa il naturalismo ha mostrato grande vivacità. Non v'è dubbio che per una filosofia materialista sia necessario esci udere il ricorso a speciali entità metafisiche «(ad esempio divinità, spiriti, entelechia o menti cartesiane), eventi (miracoli, magia) o particolari facoltà epistemiche (intuizioni mistiche, spirituali)» (De Caro, Macarthur, 2010a, p. 3) e comprendere in che modo la natura possa valere come piano esplicativo unico. Ai fini del nostro discorso, però, un dibattito ampio e sofisticato rischia di incagliarsi in un paio di scogli affilati. In primo luogo, esiste il pericolo che la nozione di naturalismo sdogani una fiducia incondizionata e riduzionista verso il sapere scientifico: «secondo la forma di naturalismo più comune, l'immagine del mondo offerta dalle scienze naturali coincide con tutto il mondo che c'è» (ivi, p. 2). In seconda battuta, occorre fare in modo che questa etichetta non diventi uno «slogan» (De Caro, Macarthur, 2004, p. 2). La filosofia analitica cerca di scongiurare l'insidia discutendo esplicitamente quel che essa chiama «placement problem» (De Caro, Macarthur, 2010a, p. 2): dove inserire, in un quadro naturalista, le condotte normative tipicamente umane che riguardano «significati, valori, ragioni» (ibid.)? Sin dalla metà degli anni Novanta, un testo oramai seminale di John McDowell (1996) poneva la questione del rapporto tra mondo naturale e spazio linguistico del significato. Nel tentativo di scongiurare un «platonismo sfrenato» (ivi, pp. 83 e sgg.), il filosofo sudafricano articolava una proposta teorica incardinata su alcuni autori di riferimento, non ultimo Ludwig Wittgenstein. Non è certo strano,
LOGICA E TUMULTI
dunque, che David Macarthur (2018, p. 34), ad esempio, abbia posto la questione di come inserire nel dibattito l'autore delle Ricerche filosofiche: «data la sua unicità e originalità, dire se egli sia un naturalista in un senso in qualche modo interessante non sarà meno difficile che descrivere la sua filosofia nella sua interezza». A volte la discussione circa il rapporto tra Wittgenstein e il naturalismo fa tornare sulla scena il richiamo al pensiero di Spengler, con tutti i problemi che questo comporta (cap. Il). La liaison tra Wittgenstein e Spengler, argomenta qualcuno, avrebbe aiutato l'austriaco a non fare della sua posizione un «naturalismo scientifico» (Beale, 2020, p. 75; cfr. Beale, 2017, p. 59). Più spesso, per una discussione approfondita la questione della storia naturale sembra costituire un terreno privilegiato. Già il testo di McDowell (1996, p. 102) impiega una delle più note affermazioni di Wittgenstein (RF I,§ 25) per insistere sull'opportunità di una posizione, il «platonismo naturalizzato», che faccia di significato, norme e ragioni la «seconda natura» dell'uomo. Anche successivamente, si è spesso insistito sull'importanza di una nozione che vuole «ricordarci l'uso ordinario delle parole come funzionano nella vita di tutti giorni degli esseri umani considerati esseri naturali in un mondo naturale» (Macarthur, 2018, p. 42). La storia naturale è legata a filo doppio col problema del «seguire una regola» (McGinn, 2010, pp. 335 e sgg.) o della «prova» matematica (Maruyama, 2020, pp. 249 e sgg.), ed è quindi in grado di scavare un solco netto tra Wittgenstein e la tradizione del naturalismo scientifico (Beale, 2020, p. 77). Questa messe di osservazioni, peraltro di gran rilievo, sembra ostinarsi però a riproporre un problema cardine dell'impostazione wittgensteiniana. Nel discutere di storia naturale, i protagonisti del dibattito non parlano della storia 1 • Viceversa, per Per una discussione di Mente e mondo in linea con la prospettiva che anima queste pagine sono costretto a rimandare a Mazzeo, 2003, pp. 3 8 e sgg. Circa la questione della storia, il libro di McDowell sembra condurre il lettore sulla soglia di un uscio che, di fatto, rimane chiuso. In un modo che per alcuni versi somiglia a quanto visto nel Della certezza (cap. II, S 4), McDowell insiste sulla necessità della Bildung, cioè del fatto che «gli esseri umani acquisiscono una seconda natura anche attraverso l'iniziazione a capacità concettuali» (McDowell, 1996, p. xxi), «uno sviluppo della sensibilità alle ragioni» (ivi, p. 91) «in for.la della nostra educazione» (ivi, pp. 93-94). Nel contempo, si insiste sul fatto che «non c'è alcuna particolare ragione per sentirsi in obbligo di condurre ricerche o spccula1..ioni circa la storia [history] di tale cultura» (ivi, p. 134). L'assunto va di pari passo con l'idea che «"il platonismo naturalizzato" non fa il paio con una porzione di filosofia 1
lii. QUALE STORIA NATURALE?
una filosofia che voglia dirsi materialista, l'espressione «storia naturale» è interessante se e solo se si dimostra all'altezza dell'ossimoro che la compone, vale a dire di una storia che faccia parte della nostra natura. Per fronteggiare lo spiritualismo, non basta dividere il campo in due e prendersi la parte naturale; occorre levare il terreno sotto i piedi a chi invoca facoltà mistiche o misteriose entità celesti. Occorre farsi carico dei fenomeni storici senza lasciarli nelle mani di chi parla di «intuizione», «terzo occhio» o «anima». Un naturalismo non rinunciatario fa storia naturale perché nell'ossimoro dell'espressione s'ingarbuglia un nodo gordiano. Occorre mantenere l'ossimoro poiché solo nell'intreccio tra natura (ontogenesi, filogenesi) e storia (le trasformazioni istituzionali di lingue, riti, forme della tecnica, modi di produzione) è possibile individuare il carattere peculiare della nostra specie. Non è un caso che, ancor oggi, la dicitura «storia naturale» sia protagonista della ricerca erede, a diverso titolo, della tradizione evoluzionista. Dà titolo a opere di autori tra loro diversi, da Michael Tomasello (2014) a Edoardo Boncinelli (2019); può riguardare il «profumo» (Aftel, 2001) e gli «alberi» (Thomas, 2000), «la birra» (DeSalle, Tattersall, 2019) quanto il concetto di «distopia» (Claeys, 2017). Questo ordito occorre, però, anche dipanarlo. Non basta accennare all'impasto tra corpo naturale e tempo storico, è necessario descriverne modalità e problemi. Un'indagine siffatta corrisponde, dunque, al sentiero che passa tra due precipizi: il riduzionismo di chi intravede nella storia null'altro che variazioni minime di una logica adattativa; l'evanescenza di coloro i quali alludono a cuor leggero a un vago mix tra DNA e cultura. A tal proposito, il confronto con Ludwig Wittgenstein può esser utile per afferrare importanza teorica e genesi semantica di un'espressione affascinante quanto sfuggente. Il fascino è legato a un'esplorazione di confine: la storia naturale costituisce il terreno privilegiato per l'incontro tra filosofia e scienza empirica. Nel contempo, però,
costruttiva» (ivi, p. 102), giacché occorrerebbe esser coerenti con l'idea di Wingenstein per cui lo scopo della filosofia «non è quello di offrire una dottrina» (ibid.). Un materialismo non rinunciatario richiede, al contrario, il movimento inverso: trarre da Wingenstein materiali per una filosofia propositiva che non faccia finta di poter galleggiare nella sospensione aerea di una pura chiarificazione del linguaggio (Mazzeo, 2016). Per questa ragione, occorre setacciare il Nachlass per individuare ogni allergene alla dimensione storica in esso contenuto.
LOGICA E TUMULTI
l'ampia diffusione del termine non aiuta a comprendere con precisione a cosa alluda l'espressione. L'indagine può sperare di esser promettente solo a patto di accettare un dato sgradevole per una storia naturale davvero naturalista perché davvero interessata alla storia: Wittgenstein non offre un'immagine perspicua del problema, tantomeno una precisa linea risolutiva. Il Nachlass è il deposito, ricco e disordinato, di opzioni teoriche non di rado contrastanti. Circa il termine «Naturgeschichte», infatti, il filosofo propone molti spunti di ricerca ma anche parecchie zone di «indeterminatezza» (Schulte, 2004, p. 187). Nelle Ricerche filosofiche, per riprendere il passo protagonista della riflessione di McDowell, prima si sostiene che «l'impiego del linguaggio fa parte della storia naturale degli uomini come il camminare, il mangiare, il bere, il giocare» (RF I, § 25). Poi, in una delle ultime pagine del libro, arriva la doccia gelata: «ai nostri scopi una scienza naturale, o una storia naturale, potremmo inventarla» (ivi, II, p. 299 ). All'improvviso ricompare una delle più diffuse fonti di confusione concettuale che gioca sulla polisemia del tedesco «Geschichte» termine che, come abbiamo detto, può riferirsi tanto alla temporalità specifica della nostra specie quanto all'insieme di racconti dello «story-telling» (Schulte 2004, p. 192; Mazzeo 2019)2.. La proposta che intende la Naturgeschichte come l'insieme delle «osservazioni di cui nessuno ha mai dubitato» (RF I, § 415) non costituisce l'apparizione misteriosa di riflessioni stranamente inutili per il materialista lettore di Marx (Schatzki, 2002). Siamo piuttosto di fronte al sintomo del fatto che anche il ragionamento di Wittgenstein rischia di prendere una brutta piega3 • In passi del genere, il filosofo indirizza la discussione sull'affidabilità del senso comune e il ritorno al linguaggio ordinario mettendo tra parentesi un punto decisivo: la continua esposizione di linguaggio e istituzioni a fibrillazioni storiche. 2
Schulte (2.004, p. 187) allude a questa difficoltà come fosse una questione di indeterminatezza semantica. Il fatto che oggi nella letteratura anglofona una simile sovrapposizione concettuale sia diffusa suggerisce invece che si tratta di una questione teorica più che linguistica (come noto, a differenza di tedesco e italiano, l'inglese gode della distinzione lessicale tra «story» e «history» ). Un modo per sminuire l'importan1..a della dimensione storica consiste nel ridurla alla capacità di produrre racconti. Nella letteratura wittgensteiniana si veda ad esempio Botwinick (1981 ); il tema ricorre in testi di respiro più ampio come Smail (2.008). 3 Per un orientamento circa la discussione sul senso politico della filosofia di Wittgenstein rimando a Sparti (2000) e Segreto (2016).
lii. QUALE STORIA NATURALE?
Per chiarire l'impasse, può essere utile prendere subito in esame un paio delle occorrenze dell'espressione «Naturgeschichte» presenti nel lascito. Nelle Osservazioni sui colori, ad esempio, si prova a introdurre una distinzione. «La storia naturale dei colori» sarebbe «atemporale», mentre la «storia naturale delle piante» sarebbe «temporale» (OC III, § 8). La prima sarebbe formata da proposizioni grammaticali ( «il giallo saturo è più chiaro del blu saturo»: ivi, § 9) e darebbe luogo a una sorta di «matematica dei colori» (ibid.). È notevole che secondo Wittgenstein possa darsi, anche solo per via ipotetica (si tratta di osservazioni dubitative), una storia naturale che sia addirittura fuori dal tempo. Invece di essere luogo di incontro tra la dimensione massimamente naturale e massimamente storica del mondo (le modalità culturali di sopravvivenza biologica della nostra specie), la storia naturale rischia di coincidere con la struttura logica senza tempo di una relazione tra proposizioni. Non è un caso che il rapporto tra storia naturale e logica sia una questione sulla quale Wittgenstein si interroga sin dalle Osservazioni filosofiche. Negli anni 1929-1930, egli ritiene che la storia naturale dell'uso di una parola non abbia nulla a che fare con la logica (OF, § 15) e che la logica sia indipendente «dalla storia naturale di un essere vivente» (Item 108, p. 217). Più tardi Wittgenstein pare di altro avviso: «la storia naturale degli uomini è il presupposto della logica» (Item 164, pp. 149-150 ). Nelle Osservazioni sui colori, il filosofo cerca di conciliare la contrapposizione. Il grimaldello in grado di forzare la cassaforte è individuato nella nozione di uso: storia naturale temporale e atemporale costituiscono due «impieghi» che forse non si possono distinguere «chiaramente» (OC III, § 11 ). L'happy end, purtroppo, è talmente generico da nascondere l'interrogativo dirimente. Qual è, infatti, il rapporto tra storia naturale e uso? Nel 1929 si sceglie la strada della separazione: da un lato la logica, dall'altro l'uso storico-naturale. Quasi vent'anni dopo si opta per una strada migliore, ma ancora interlocutoria. Storia naturale temporale e atemporale sarebbero due forme di impiego del linguaggio. Ci si ferma qui senza proseguire, senza impegnarsi in un passo esplicito che dichiari finalmente l'uso del linguaggio come parte decisiva della nostra Naturgeschich-te: è facendone uso che gli umani riescono a sopravvivere (Virno 2015; Mazzeo 2016). Questo passaggio sembra l'anello mancante di una impostazione che stenta a riconoscere la cifra storica di ogni impiego.
86
LOGICA E TUMULTI
È possibile, tuttavia, trovare in anfratti dell'antropologia di Wittgenstein uno spiraglio che apra a una simile prospettiva? È possibile dar spazio a quel che nelle Ricerche viene chiamato «modo di comportarsi comune agli uomini» (RF I, § 206) e, contemporaneamente, alle trasformazioni istituzionali che riguardano lingue, tumulti, forme di governo o modi dell'amicizia? Fornire elementi di risposta a questi due interrogativi sarà l'obiettivo dei prossimi paragrafi.
2.
Una partenza tradizionale
L'espressione «storia naturale» compare per la prima volta nel Dizionario per le scuole elementari del 1926. Il termine entra in costellazione sinonimica con «natura, scienza naturale» (DSE, p. 202). Nelle opere esplicitamente filosofiche l'occorrenza più antica risale alle Osservazioni filosofiche (OF, § 15), testo del 1929 (Item 107, p. 134). Non è facile comprendere se esista una fonte precisa dalla quale Wittgenstein abbia ricavato il termine. La nozione veleggia tra coste lontane: è impiegata in un paio di note che si riferiscono alle discussioni con Sraffa (Item 132, p. 25v [20 febbraio 1932], poi in BT, § 57, 7, p. 253; Item 117, p. 142 [1937-1940 circa]); altre, invece, traggono spunto dalla morfologia di Goethe (cfr. ad es. Item 134, p. 153 [24 aprile 1947], poi in OFP I,§ 950). L'impressione è che Wittgenstein stia provando a fare i conti con una nozione dalla tradizione tormentata. Pare impossibile, infatti, trovare una linea di lettura che attribuisca alla nozione fattezze teoriche costanti. L'impiego dell'espressione «è difficilmente del tutto univoco» (Schulte 2004, p. 188 nota 7 ), visto che nel lascito testamentario pare lecito individuare addirittura tre modi di concepire la storia naturale. Sulla scorta di Wolf Lepenies (1988, p. 28), potremmo chiamare tradizionale il primo, poiché coincide con una linea teorica millenaria il cui fondatore riconosciuto è Plinio il Vecchio. Si tratta, in estrema sintesi, di un paradigma epistemico concentrato sull' «elenco e descrizione dei corpi appartenenti al regno della natura» (Lepenies, 1976, p. 42). In questo elenco fatti biologici e storici, scientifici e narrativi si mescolano senza soluzione di continuità. Se, ad esempio, si scorre l'indice del libro VII della Naturalis Historia di Plinio (Nat. Hist., p. 49) si troverà tanto l' «istintivo senso del pericolo» negli elefanti
lii. QUALE STORIA NATURALE?
quanto i metodi umani «di cattura» «per dominarli» (ibid.). «Cercopitechi» e «lupi mannari» si succedono tra loro senza imbarazzo (ibid.). La storia naturale tradizionale si caratterizza per la continuità di una «catena dell'essere» (Lepenies, 1976, p. 5 5) sostanzialmente «statica» (ivi, p. 61) che, nel corso dei secoli, si avvale tutt'al più di una «temporalizzazione» dei fenomeni naturali senza un confronto esplicito con la dimensione storica. Si tratta di una «disposizione spaziale del sapere scientifico» (ivi, p. 28). Senza attardarci sul confronto tra questo tipo di storia naturale e la filosofia di Wittgenstein, può essere utile limitarsi a qualche osservazione stenografica circa alcuni punti di convergenza. La prima riguarda il rapporto tra descrizione e cura. Per la linea che va da Plinio a George-Louis Ledere de Buffon, descrivere il mondo naturale significa trarne forme di cura. Fino al XVIII secolo, catalogare le piante sarà il presupposto per la catalogazione della malattie (Lepenies, 1976, p. 93); già nella Naturalis Historia (I, p. 145) descrivere i diversi tipi di vegetali vuol dire indugiare a più riprese sui «medicamenti». Wittgenstein sembra trasferire questa linea metodologica sul piano linguistico. Da un lato, «i riferimenti a una Lebensform si potrebbero paragonare alla pratica dei vecchi cartografi di etichettare le zone inesplorate come "Terra Incognita"» 4• Dall'altro, è cosa nota che per il viennese descrivere il linguaggio significava mettere in atto «terapie» (RF I, § 13 3 ). Anche per lui l'esplorazione geografica costituisce il prologo di un possibile intervento curativo, «l'anamnesi» (Lepenies, 1976, pp. 93 e sgg.) che precede il tentativo diagnostico. Non sorprende, dunque, che Wittgenstein citi tra i suoi appunti il motto dell'ultimo esponente di punta della storia naturale tradizionale («Le style c'est l'homme meme» in PD, p. 146). Quel che sarà croce e delizia di Buffon è «uno stile che non si può imitare senza condividere anche i pensieri del suo autore» (Lepenies, 1976, p. 163). Dall'albero numerato del Tractatus ai cespugli di paragrafi delle Ricerche, anche per il viennese stile di scritBlack (1978, p. 251, nota 4) cita esplicitamente Plinio e la sua Storia naturale. Tutte le metafore più ricorrenti del Wittgenstein che torna alla filosofia («mettere in ordine», «ricordare e recuperare», «mettere cartelli stradali»: Andronico, 1997, p. 276) sembrano riecheggiare i temi di una storia naturale di tipo tradizionale, «una tecnica descrittiva», «dipendente unicamente dalla memoria» e che per questo procede «in modo astorico» (Lepenies, 1976, p. 48). Nei testi di Wittgenstein «mettere in ordine» e «storia naturale» compaiono in Item 137, p. 61a [17.2.48], mentre il rapporto tra filosofia e memoria è sottolineato in passi molto noti, ad es. RF I, S 127. -4
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tura e metodo di indagine coincidono. È proprio qui che ha origine la pretesa di costruire una nuova filosofia. Proprio questo è uno dei punti di attacco del detrattore secondo il quale in un abecedario dei filosofi la lettera «W» dovrebbe essere saltata (Deleuze, 1989). Descrizione, cura e stile sono dunque tre delle cifre che accomunano storia naturale tradizionale e filosofia di Wittgenstein. Questa accezione del termine, à la Plinio, è particolarmente presente tra il 1926 e il 1930s ed è oggetto di riflessioni quanto mai ambivalenti. La storia naturale diviene spesso sinonimo o variante di scienza. naturale. Quando ammicca a una ricerca tendenzialmente riduzionista, che si rivolge all'individuazione di «cause» e non pensa al possibile (Item 130, p. 136, poi in OFP I,§ 78), al filosofo non interessa (Item 178b, p. 5 ). È la ragione per la quale una storia naturale «potremmo anche inventarla» (RF II, p. 299 ). Passaggi argomentativi di questo tipo sono trasgressivi solo in apparenza, giacché finiscono col ribadire una delle cifre costitutive della storia naturale tradizionale. Prima della loro estromissione per mano illuminista, «la storia naturale è interamente composta di favole» (Lepenies, 1976, p. 133): racconto e invenzione ne sono anima e corpo. Le tribù immaginarie di Wittgenstein e i popoli esotici di Plinio non sono poi così lontani. Il tempo è narrativo, il resto natura.
3. Morfologia e rappresentazione perspicua.
Più tardi, tra il 1937 e il 1951, Wittgenstein pare interessato a una linea interpretativa che trova i principali punti di riferimento in Goethe e Spengler6 • Si tratta di una storia naturale morfologica che descrive tanto i comportamenti umani che la vita delle piante, uno s Ma non solo, ovviamente. Si veda, ad esempio Item 130, p. 72 [1946], che compare in OFP I, S46 (nel 1949 ritorna in Item 101, p. 144) e Item 245, p. 139 [1942'1943], pubblicato in RF II, p. 299. Su questo passaggio Wittgenstein lavora con assiduità: nel 1946 (Item 130, p. 59 e Item 130, p. 72), poi nel 1947 (Item 229, p. 200; Item 245, p. 139), e ancora nel 1949 (Item 144, p. 88). Per una ipotesi di catalogazione più esaustiva rimando all'incursione filologica. 6 Abbiamo a che fare con una decina di occorrenze: Item 134, p. 153, Item 229, p. 412 e Item 245, p. 296 [OFP I, S 950]; Item 173, p. 1v [OC III, S 8]; Item 173, p. 2r [OC III, S 9]; Item 173, p. 2r [OC III, S 10]; Item 173, p. 19r [OC III, S 81]; Item 173, p. 49r [OC III, S 135]; Item 178, p. b5.
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degli oggetti privilegiati della storia naturale tradizionale (Lepenies, 1976, pp. 127 e sgg.; dr. l'appendice Il). Anche in quest'accezione la componente storica è assente poiché schiacciata sulla forma di quel che si descrive. Riassume uno degli interpreti più autorevoli del pensiero wittgensteiniano (Schulte, 2016, p. 83): Il pensiero fondamentale della morfologia è semplice: è quello di una rappresentazione che mette in fila l'un l'altro i fenomeni da spiegare come in una catena, il cui risultato è una gerarchia completa, in cui tutti i passi sono già tracciati e l'osservatore può abbracciarli tutti con lo sguardo.
Sia chiaro: l'insistenza storiografica circa il rapporto tra la filosofia di Wittgenstein e il pensiero di Goethe, colui che nel 1796 conia l'espressione «morfologia» (Cislaghi, 2008, p. 29), ha sicuramente giovato a entrambi. Ha contribuito a sdoganare la produzione del poeta dalla nomea di autore metafisico e sibillino7 • Ha aiutato gli interpreti di Wittgenstein ad assumere una postura meno rigida, sciogliendo alcune contratture di origine analitica (cfr. ad es. Schulte, 1990; Andronico, 1998; Egidi, 2005; Rofena, 2011). Ciò non vuol dire che questa mossa ricostruttiva sia immune da rischi o controindicazioni. L'accostamento tra Goethe e Wittgenstein risulta realistico, infatti, a due condizioni, nessuna delle quali gradevole al palato del materialista. La prima: occorre riconoscere che il sodalizio tra Goethe e Wittgenstein mostra aspetti regressivi legati alla comune diffidenza verso il tempo storico. Circa l'autore de La metamorfosi delle piante, Ernst Cassirer (1932, p. 47) è chiaro: «se si confronta l'atteggiamento di Goethe nei riguardi della storia con l'attenzione che egli dedica alla natura e alla ricerca naturale, si ottiene uno stridente contrasto». La diffidenza verso la «certezza storica» (ivi, p. 6 5) fondata sui fatti si coniuga con l'idea che la storia possa avere senso solo se accompagnata dal «poetico» (ivi, p. 5 5). Altrimenti in essa «non si può dare alcuna verità» (ivi, p. 50). Nella storia Goethe cerca di individuare la dimensione della «continuità» perché «solo nell'unità originaria trattazione storica e poetica si compenetrano immediatamente» (ivi, 7
A tal proposito, se ne condividano o meno i risultati, il libro di Cislaghi (2008) costituisce un esperimento interessante per radicalità. L'autrice prova a rileggere Goethe in una prospettiva di tipo wittgensteiniano tramite un fitto apparato di osservazioni e note (ivi, pp. 14, 32-33, 36, 51, 63-64, 72, 74-75, 84, 87-88, 138-149, 159-161, 165, 171, 190).
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p. 59). Non v'è dubbio che Goethe apporti innovazioni anche nella storia naturale: ad esempio, la morfologia «è in grado di rendere conto dei fenomeni senza ricorrere a cause nascoste» (Cislaghi, 2008, p. 31) alla ricerca di una «dinamicità» (ivi, p. 27 nota 15) naturale trascurata da Linneo. Per quel che riguarda, però, il carattere storico della storia naturale Goethe rimane un conservatore: sposa l'idea di una «grande catena dell'essere» (ivi, p. 41, nota 49) la cui descrizione dovrebbe essere orientata dal principio della «continuità» (ivi, p. 3 7; cfr. Cassirer, 1932, p. 59; Schulte, 2016, p. 84). La natura si avvale della storia per manifestare l'intrinseca produttività che le sarebbe propria: «rifiutava la storia quando si presentava come materia; la considerava piuttosto un medio, come un mezzo per scoprire la forma» (Cassirer, 1932, p. 67, corsivi nel testo). Quel che è specifico della storia è cancellato. Non si dà né la discontinuità tipica delle rivolte, delle colonizzazioni o delle restaurazioni, né la capacità di cambiamento innovativo tipico della trasformazione tecnica o di un mutamento grammaticale. Il rapporto tra Goethe e Wittgenstein non è, dunque, un pranzo di gala. Tanto più che, ed eccoci al secondo punto, l'incontro nasce grazie ali'ospitalità offerta da un padrone di casa inquietante, Il "tramonto deWOcciden'te. Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, il libro di Spengler, un'opera reazionaria cara alle destre del Novecento (Cacciatore, 200 5), contribuisce a rendere ancor più clamorosa l'insensibilità di Wittgenstein verso il mondo storico8 • A tal proposito, molti commentatori dedicano attenzione a un passo chiave delle note al Ramo d'oro di Frazer. Si tratta di un brano notevole perché in esso compare per la prima volta quel che sarà un architrave della filosofia wittgensteiniana, la «rappresentazione perspicua» (NRO, p. 29, corsivi nel testo): «E così il coro accenna a una legge segreta»: ecco come vien voglia di commentare la raccolta dei dati di Frazer. Ora questa legge, questa idea, io posso rappresentarla mediante un'ipotesi di sviluppo o anche, analogamente allo schema di una pianta, mediante lo schema di una cerimonia religiosa ovve8
Pare complicato concordare con Sluga (2018, p. 419) secondo il quale Wittgenstein «acquisì interesse per la storia [... ] come risultato, specificamente, della lettura dc Il tramonto dell'Occidente». Al contrario, la filosofia di Spcnglcr è «dcstoricizzante» giacché «l'uso della biologia» serve «per creare leggi di movimento storiche» (Lcpenics, 1976, p. 138). Più che una storia, quella dc Il tramonto dell'Occidente è una «fitologia» (Cacciatore, 2005, pp. 68 e sgg.).
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ro mediante il semplice raggruppamento di materiale in una rappresentazione 'perspicua'. Il concetto di rappresentazione perspicua ha per noi un'importanza fondamentale. Esso designa la nostra forma di rappresentazione, il modo in cui vediamo le cose. (Una specie di « Weltanschaaung» quale pare tipica della nostra epoca. Spengler).
Schulte (2016, p. 37) afferma che «in quale misura Wittgenstein sia debitore dello studio approfondito di Spengler per le sue vedute non riveste in questo contesto un 'importanza particolare». Difficile essere d'accordo. La citazione iniziale riprende la lirica inserita da Goethe (1790, p. 86) ne La metamorfosi delle piante. Il passo di Wittgenstein si chiude, però, con il riferimento esplicito a Spengler. È ragionevole considerare decisivo, dunque, l'apporto di entrambi gli autori per una nozione così importante per quel che saranno le Ricerche filosofiche. Contro la dimensione storica, Goethe e Spengler convergono in una morsa a tenaglia: «la spiegazione storica, la spiegazione come ipotesi di sviluppo, è solo un modo di raccogliere i dati» (NRO, p. 28). Come abbiamo visto (cap. II, § 2), costruire anelli intermedi nella rappresentazione perspicua, ad esempio tra cerchio ed ellisse, non ha il fine di «affermare che una determinata ellisse è scaturita effettivamente, storicamente da un cerchio (ipotesi evolutiva) bensì solo [di] rendere il nostro occhio sensibile a una connessione formale» (ivi, p. 30). Alla nuova filosofia la storia interessa poco, giacché equivalente a concetti generici ed eterogenei come «sviluppo», «evoluzione», «fatto effettivo» (ibid.).
4. Questo Wittgenstein: paradossi della storia naturale umana
A partire dal 1931 circa, a queste due strade si sovrappone una terza linea di ragionamento. Si tratta di una, seppur embrionale, antropologia filosofica che fa della tecnica parte intrinseca della nostra natura (Item 124, p. 74 poi in OFM V,§ 14) e che segna un discrimine tra vita genericamente animale (ad esempio dei grilli: Item 13 5, p. 167, poi in OFP II, § 24) e vita umana. L'espressione «storia naturale» non ambisce più al ruolo di neutro occhio di regia, poiché diventa «storia naturale degli umani». Mantiene un legame con «i fatti della psicologia», se con quest'espressione intendiamo la struttura lingui-
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stica della nostra mente. Si oppone, però, allo psicologismo cioè al culto dell'interiorità (Item 156a, p. 54v [1932-1934]). Dal punto di vista sintagmatico, questa linea di ragionamento si caratterizza per espressioni del tipo «agiamo in questo modo» (Item 137, p. 61a [17.2.48]), «noi contiamo così» (Item 119, p. 11 [25.9.37], corsivo nel testo) che mettono in evidenza la specificità della vita umana: noi agiamo così, le altre specie a loro maniera. Delle tre varianti teoriche, la storia naturale di ordine antropologico pare la più interessante giacché, finalmente, prova a dare diritto di cittadinanza a entrambe le espressioni che compongono il termine: alla storia e alla na,tura. Il filosofo apre a una prospettiva particolarmente innovativa quando tratta della matematica. La circostanza è tutt'altro che scontata. Le attività di calcolo sembrano tra le più refrattarie all'azione del tempo storico. È possibile intravedere la trasformazione della numerazione impiegata da una certa comunità di parlanti solo con un notevole sforzo ricostruttivo che la metta a confronto con altri sistemi di conteggio. Il calcolo in base dieci perde la sua aura di naturalità solo se giustapposto al calcolo in base sessanta diffuso nella Mesopotamia babilonese. Eppure è proprio in questo ambito che Wittgenstein sfodera una serie di osservazioni di notevole importanza teorica. Se, nelle Note al Ramo d'oro, l'espressione «sviluppo storico» (historische Entwicklung) è propedeutica a una svalutazione, nelle Osservazioni sulla filosofia della matematica diventa «molto utile immaginare che lo sviluppo storico, poniamo della matematica, sia stato completamente diverso da quello che in effetti fu» (OFM II, § 80; cfr. Sluga, 2018, p. 432). Pure in questo caso si corre lungo la lama affilata di un'ambivalenza. Quando, nelle Ricerche, si afferma che «una immagine approssimativa» dei cambiamenti linguistici «potrebbero darcela i mutamenti della matematica» (RF I, § 23), il rischio è pensare alle trasformazioni del nostro mondo nei termini slow motion tipici di aritmetica o geometria (Mazzeo, 2016). Tuttavia, negli scritti esplicitamente dedicati alla matematica emerge con più nettezza l'altra faccia della medaglia. I mutamenti che riguardano numeri, teoremi e dimostrazioni forniscono una immagine del cambiamento linguistico perché, al di là delle apparenze, anche questo campo antropologico risente in modo profondo delle trasformazioni storiche. Difficile dire quanto il filosofo avesse intenzione di seguire fino in fondo una stra-
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da del genere. Quantomeno non si può escludere che, a tal proposito, il confronto con Spengler abbia avuto un effetto, almeno per una volta, non reazionario. In una notazione inedita del 1942 circa la filosofia della matematica, Wittgenstein riconosce l'influenza di Spengler9. Secondo Engelmann (2009), il passo del 1930 che rivela la lettura de Il tramonto dell'Occidente circa «la possibilità della prevalenza di sistemi chiusi i quali, una volta presenti, appaiono essere l'uno il proseguimento dell'altro» (MP, p. 22; cfr. cap. II, § 2) si riferisce proprio alle riflessioni di Spengler circa le trasformazioni storiche della matematica. In chiave antiplatonica, l'insistenza del filosofo tedesco sul fatto che «non esiste una matematica, esistono solo delle matematiche» (Spengler, 1918, p. 102) può aver avuto una funzione significativa (Losev, 2012). Al di là delle speculazioni circa l'origine di questa apertura al mondo storico, è possibile verificare la praticabilità di un percorso che nel Nachlass muove quanto meno i primi passi. L'inversione sulla quale lavorare riguarda, dunque, la matematica. Sono i numeri a offrire un'immagine affidabile dei cambiamenti linguistici, perché batte un cuore storico anche in un'attività umana di solito considerata tempio della logica atemporale. Un caso particolarmente significativo riguarda la normatività dei comportamenti umani. Nel passo in cui emerge per la prima volta il tema in relazione alla storia naturale (Item 113, p. 25v [20.2.32] poi in BT, § 87, p. 409) si fa riferimento ai colloqui con Sraffa (cap. I). In quella occasione, Wittgenstein individua una storia naturale in grado di descrivere il fatto che nella vita umana certe azioni («la legge», «il contratto») abbiano valore vincolante per le condotte future. La storia naturale umana è equiparata esplicitamente a quella animale («forse avrà anche consultato un libro sulla vita del castoro») e per questo in essa non vi sarebbe spazio per la dimensione normativa. In seguito le cose sembrano andare diversamente. Già nel Libro Marrone (LM, p. 129 ), una regola sotto forma di tabella è considerata «un documento della storia naturale della tribù», senza alcuna assimilazione al compor9 Item 125, p. 30v: «Voglio dire: queste persone non dovrebbero giungere alla conclusione che stanno facendo scoperte matematiche - solo scoperte fisiche. [Quanto sono influenzato da Spengler nel mio pensiero]». A proposito di questo pa~o, Hacker (1986, pp. 120-121) afferma: «l'unica fonte di ispirazione filosofico-matematica riconosciuta da Wittgenstein fu Spengler». Si veda anche Cahill, 20n, p. 128.
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tamento di altre forme di vita. Nella parte iniziale delle Ricerche, la lista delle forme verbali è indicativa: «il comandare, l'interrogare, il raccontare, il chiacchierare fanno parte della nostra storia naturale come il camminare, il mangiare, il bere, il giocare» (RF I, § 2 5). Wittgenstein sembra insistere non più sulla contrapposizione tra descrittività storico-naturale e normatività logico-linguistica, quanto su una storia naturale umana che può descrivere la vita dei sapiens solo nella misura in cui prenda in carico (cioè non assimili al castoro, al grillo, al leone) il carattere normativo-pratico della nostra esistenza, quel che altrove Wittgenstein chiama «"dovere" logico» (Item 164, p. 149 [1941-1944]). Questa inclusività normativa conferisce alla storia naturale una struttura complessa. La sua funzione è, innanzitutto, antropologica (Item 163, p. 3or [7.7.1941]): «Muoviamo il re così e così». «Ti consentiamo di muovere il re così e così. A te è concesso». Potrebbe, al contrario, un naturalista usare le proposizioni della matematica come proposizioni della nostra storia naturale? Arriva da Marte e studia, tra le altre cose, la nostra matematica e come la usiamo/applichiamo. Quale ruolo svolgono nel suo resoconto su di noi le proposizioni della matematica. Sarebbero proposizioni contenute nel suo rapporto? Lo sarebbero di certo come qualcosa che è usato. «25x25=625» sarebbe allora una proposizione contenuta nel suo rapporto. Ma la nostra domanda «quanto fa 25x25 ?» è una domanda storico-naturale del resoconto? O se quel naturalista ora impara la nostra matematica e si impiglia in un problema matematico, pratica ancora qui una ricerca sulla natura? La descrizione della funzione di una proposizione matematica non ha la funzione della matematica.
Studiare l'Homo sapiens significa annotare in proposizioni la sua «storia naturale». L'espressione non è più generica, di tipo zoologico, poiché fa riferimento all'insieme di regole pratico-linguistiche chiamate «matematica» delle quali, si chiarisce, si dà un uso (Item 163, p. 61v [11.7.1941]). Per comprendere meglio questa modalità terza di vedere la questione può essere utile cambiare per una volta stile espositivo e organizzare il discorso in punti. Ognuno di esso costituirà un «paradosso» storico-naturale, un invito a una riflessione circa l'intreccio tra natura e storia umana, a prescindere dalla filologia wittgensteiniana. a) La storia naturale umana ha un ca.rattere performativo. Nel
passo citato sopra, Wittgenstein anticipa uno dei più noti esperimenti
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mentali di Noam Chomsky. Un ricercatore marziano giunge sul pianeta Terra per studiare la nostra forma di vita. Il senso dell'immagine, però, è rovesciato. Non si sostiene l'impossibilità di studiare gli usi linguistici (Chomsky, 2012) perché di essi non si darebbe scienza alcuna. Al contrario, l'immagine serve a sottolineare l'impossibilftà di prescindere dall'uso: non solo da parte degli umani che parlano, ma anche di un alieno che li osservasse. Per comprendere i linguaggi umani, l'extraterrestre «impara la matematica», fa suoi i problemi d'impiego. Una ricerca marziana alle prese con la nostra storia naturale finirebbe, descrivendola, col partecipare alle pratiche d'uso dei sapiens. Detto in altri termini, l'esempio di Wittgenstein suggerisce che la descrizione della storia naturale umana rende umani. Alle altre specie, infatti, questa circostanza non si applica: descrivere il «coccodrillo» (OFP II, § 16) non rende il ricercatore un rettile, tracciare la storia naturale del «grillo» (ivi, II, §§ 23-24) non comporta il possesso di eccezionali facoltà di salto. Il filone teorico in grado di attribuire alla storia una collocazione antropologica adeguata si fonda su una tautologia solo apparente: si dà storia naturale solo delle specie in grado di comporre una storia naturale, dunque solo della specie umana. La storia naturale esibisce, in altre parole, un carattere che la filosofia successiva chiamerà «performativo» (Austin, 1962; Benveniste, 1963). Prima di dire «prendo in moglie questa donna», il fidanzato in frac è celibe; il giovane diventa sposato perché esegue l'atto performativo matrimoniale, e non certo perché descrive a parole uno status che, prima di parlare, non ha conseguito. In modo analogo, la Naturgeschichte umana non consiste nella descrizione di quel che circonda una specie da parte di un occhio che scruti la Terra dalla stratosfera. Essa consiste in un atto performativo che manifesta il carattere storico della nostra natura. Mentre la storia naturale delle altre forme di vita somiglia alla frase constativa «il gatto è sul tavolo», la storia naturale umana è parente prossimo del performativo «io giuro che», «prendo in sposa Monica», «domani scommetto cento euro sulla vittoria della Roma». La storia naturale umana è un dire che è un fare. b) I fatti della storia naturale umana non corrispondono a propo-
sizioni di storia naturale. Il discorso di Wittgenstein (o, se si preferisce, di questo Wittgenstein) prosegue con un secondo passaggio. Per
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il marziano e le altre specie terrestri, «descrivere» significa congelare proposizioni di fondo, cardini di un quadro d'insieme; «congelare proposizioni» vuol dire fare uso del linguaggio. Finalmente non si condanna la sospensione d'uso come fonte di tentazioni metafisiche (il linguaggio che «fa vacanza»: RF I,§ 38) per poi celebrare la solidità del linguaggio ordinario. Si aggiunge, anzi, che gli usi sono diversi tra loro. La storia naturale ha un «ruolo» specifico (Item 117, p. 142 [1937-1940]), un «differente modo d'impiego» (BT, 60, p. 282, nota 14) rispetto alle altre forme del linguaggio. Questa specificità è illustrata tramite una distinzione preziosa. A più riprese (BT, 60, p. 282, nota 14; Item 117, p. 142 [1937-1940]; Item 163, p. 27r [6.7.1941]; Item 164, p. 149 [1941-1944]; Item 164, p. 164 [19411944]), Wittgenstein si domanda in cosa consista una proposizione di storia naturale. Specie nella produzione più tarda si contrappongono due concetti apparentemente identici: l'appartenenw di un fatto alla nostra storia naturale non implica che gli oggetti, le pratiche e le attività enunciative di cui esso si compone corrispondano a proposizioni storico-naturali. L'equazione vale solo per la descrizione etologica di una specie. Dal fatto storico-naturale che riguarda l'alimentazione dei leoni traggo la proposizione storico-naturale che «il leone è un carnivoro»; dalla sua forma fisica deduco che l'affermazione «il leone ha due code» è falsa (GF II, 14, p. 263); dal fatto che gli umani digeriscono si può dedurre che «gli umani hanno uno stomaco» 10 o dal modo di comportarsi dei grilli che questi animali «non pensano» (OFP II, § 24). Appena si passa alle attività specificamente umane, la musica cambia. La matematica fa parte della storia naturale degli umani; le formule che la compongono, però, non sono proposizioni storiconaturali. Se così fosse, la matematica parlerebbe di oggetti che preesisterebbero al calcolo, con il risultato di una visione platonizzante del mondo numerico: una «mineralogia» (Item 125, p. 16r [1941-1942]) del «2» e del «3 » insensata quanto una «storia naturale» che parli di una «mineralogia del colore» (Item 137, p. 7b [5.2.1948]). I numeri 10
È quel che accade quando Wittgenstein tenta di risolvere la questione in termini di
mera continuità col mondo animale: «Invero anche le regole degli scacchi si potrebbero concepire come proposizioni della storia naturale degli uomini. (Nello stesso modo in cui i giochi degli animali vengono descritti nei libri di scienza naturale)» (BT, S 87, p. 409). Circa gli scacchi, rimando all'appendice I.
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sarebbero simili ad «animali» o «cristalli» (OFM III,§ 13). Al contrario, per la storia naturale wittgensteiniana la matematica è tema privilegiato perché ha un carattere performativo, conferisce esistenza a ciò di cui essa parla. Il marziano appena sbarcato sulla Terra che descrivesse gli umani non produrrebbe il corpo dei sapierzs tramite la sua descrizione. Al contrario, «il matematico produce essenza» (OFM I,§ 32), afferma Wittgenstein in un passo sorprendente. Non descrive teoremi che sarebbero lì, già pronti, in attesa d'esser scoperti. Gli oggetti matematici sono il risultato dell'azione pratica-linguistica di chi li impiega. Il platonismo matematico è dunque frutto del fraintendimento di chi crede alla preesistenza di un teorema da «scoprire», come Plinio che esplora terre incognite. Abbiamo detto: il marziano che descrivesse la nostra storia naturale cesserebbe di essere un alieno. Per il fatto di essere in grado di scrivere una Naturgeschichte sarebbe anch'egli un animale storico. Ora Wittgenstein aggiunge: al contrario, il matematico platonizzante si aliena giacché perde la bussola circa il carattere antropologico delle nostre attività numeriche. La mineralizzazione dell'addizione o della moltiplicazione produce la distorsione tipica della tradizione classica, una catena dell'essere disumana poiché senza tempo e priva di presupposti. Dobbiamo allora dire che, secondo questa accezione del termine, non si può parlare di proposizioni storico-naturali? Niente affatto. Eccone piuttosto alcuni esempi: «l'homo sapierzs è l'animale che ha il linguaggio», «la nostra specie è neotenica», «il vivente umano è un essere storico». Queste proposizioni, però, non si deducono da un singolo fatto o da un avvenimento specifico. Dall'ascesa di Napoleone posso risalire alla contingenza delle vicende istituzionali, non alla necessità biologica del comandante supremo; nel trionfo odierno della società di mercato s'intravede la necessità umana di produrre i mezzi per la propria sopravvivenza anche a costo di stravolgere il Pianeta, non certo la bellezza inevitabile del capitale. c) Tra fatti e regole della storia naturale umana si dà uno scarto.
La normatività del comportamento umano, il fatto che si comandi e obbedisca (RF I, § 2 5) fa parte della nostra storia naturale. Ciò non significa, però, che ogni comando ( «Apri la finestra!», «Lascia annegare quel migrante!») abbia lo statuto di una legge fisica. Piuttosto, il carattere propriamente storico della nostra storia naturale giace nello
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scarto tra fatti e regole, perché la nozione di «regola» (un'operazione aritmetica, una legge penale, un atto misurativo) non coincide con una legge biologica o chimica. In quest'ultimo caso si procede sulla strada dell'ottimizzazione dei processi e dei risultati tramite «la teoria del modo migliore» (OFP I,§ 1109), il cui scopo è «fare previsioni» (RF II, p. 299; OFP I,§ 46). La storia naturale umana, invece, non ha questa struttura: è tale perché imprevedibile. Anche un protagonista delle scienze dello spirito del Novecento, Sigmund Freud, rischia di incappare nella trappola quando propone una teoria funzionalista del sogno (PD, p. 136 [4.6.1948]): Si potrebbe considerare, io credo, come una legge fondamentale della storia naturale che, se mai una qualche cosa «ha una funzione» in natura, o «serve a uno scopo», questa stessa cosa compaia anche laddove non serve a nessuno scopo e anzi è «inopportuna». Posto che talvolta i sogni tutelino il sonno, puoi star certo che talvolta lo disturbano; se l'allucinazione onirica serve a uno scopo plausibile (l'immaginario appagamento del desiderio), puoi star certo che produce anche il contrario. Una «teoria dinamica dei sogni non esiste».
Deformare la storia naturale umana sulla falsariga della ricerca di ciò che è vantaggioso produce proposizioni insensate: «viviamo perché è pratico vivere? Pensiamo perché è pratico pensare?» (OFM V, § 14), si interroga beffardamente Wittgenstein. Ecco dunque un altro paradosso: la storia naturale umana si compone di prassi linguistiche (pensare, sperare, contare) che non si configurano come risposte perfezionate a esigenze precedenti. Se vi fosse prima un bisogno del pensiero e, poi, una risposta linguistica si potrebbe parlare della praticità o della convenienza della risposta. La storia naturale umana è tale, invece, proprio perché è difficile parlare di «adeguatezza» tra bisogni e azioni: «È adeguato ai nostri bisogni che noi contiamo come contiamo?» (Item 163, p. 3or), si interroga non a caso una nota inedita che risponde: «Noi viviamo così. Appartiene alla storia naturale degli umani» (ibid.). L'asseverazione circa il modo nel quale gli umani vivono non allude a una sfera della vita finalmente a problematica, pienamente coincidente con sé stessa 11 • Al contrario, si insiste che viviamo «così» per dire che potremmo vivere diversa11
È in questa prospettiva, circa l'uso e la storia naturale, che Agamben (2014) legge passi del genere (per una critica: Mazzeo, 2016, pp. 140 e sgg.).
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mente. L'insistenza di un gesto che indica cosa facciamo «qui e ora» non esorta a contemplare la bellezza di una sovrapposizione perfetta e atemporale tra la vita e la sua forma, tra la natura e la cultura. Punta a far emergere il carattere contingente di quel che potrebbe essere completamente diverso perché non è chiamato a rispondere a criteri di adeguatezza. Questa contingenza, adeguata solo a cose fatte, si chiama «storia» (cfr. introduzione). d) Anche le regole di un fatto storico-naturale non corrispondono
a proposizioni storico-naturali (OFM V,§ 14): Si dice che il calcolo è un esperimento, per fare vedere, con ciò, come esso possa rivelarsi così pratico. Perché, dell'esperimento, si sa che possiede un valore pratico effettivo. Soltanto si dimentica che l'esperimento possiede questo valore in virtù di una tecnica che è un fatto della storia naturale, ma le cui regole non hanno la parte di proposizioni della storia naturale.
Il fatto storico-naturale è deposito di attività d'uso, cioè di tecniche; la regola indica le modalità di organizzazione e stabilizzazione (forme e modi della tecnica). Per riprendere l'analogia con gli atti performativi, il fatto storico-naturale non corrisponde a una proposizione storico-naturale perché indica l'impiego di una tecnica performativa (giuramento, scommessa, richiesta di scuse). Anche la regola di un fatto storico-naturale non corrisponde a una proposizione storico-naturale, ma per una ragione diversa. La regola incarna, infatti, l'organizzazione istituzionale che ha dato vita a quel tipo particolare d'impiego performativo chiamato «giuramento» o «scommessa», un'organizzazione storica non presente in ogni luogo ed epoca. Se si desidera descrivere etologicamente i sapiens, l'idea tradizionale di storia naturale, si dirà che «l'essere umano spera» (OFP II, § 15). Se si vuole descrivere la nostra specie non etologicamente è più corretto formulare frasi del tipo «noi contiamo così» (Item 119, p. 11, corsivi nel testo). La storia naturale degli umani si compone di atti performativi, sembra suggerire Wittgenstein, dalla particolare struttura grammaticale. Per gli atti performativi classici, la forma paradigmatica di performativo è alla prima persona singolare («io giuro che», «io scommetto che», ecc.). La storia naturale umana si avvale, invece, della prima persona plurale: «noi contiamo così» (ibid.), «noi viviamo così» (Item 163, p. 3or). Il fatto che, a volte, il «noi» sia addirittura in corsivo sottolinea che la propo-
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sizione non indica solo una constatazione, ma una presa di posizione. Noi contiamo così, altri sapiens no. Noi contiamo così, mentre i grilli non contano affatto. Questa presa di posizione lavora per differenze storico-naturali: naturali verso le altre forme di vita perché mancano della dimensione storica; storiche verso gli altri esseri umani che articolano diversamente il tempo proprio della specie. Le proposizioni storico-naturali, dunque, possono comparire sotto doppia veste. Quando appaiono alla terza persona singolare descrivono la differenza umana secondo un criterio etologico, compatibile con la storia naturale tradizionale; se emergono dal testo alla prima persona plurale non si limitano a descrivere la specificità umana ma la affermano. Se la descrizione può illudersi (o illudere) di svolgere il ruolo di occhio di regia disincarnato, la presa di posizione performativa mostra la storicità di chi, qui e ora, afferma quel che, altrove e chissà quando, non è stato così. e) Umana è una prassi poco pratica. L'esempio del marziano dà modo di illustrare un quinto paradosso. Abbiamo detto che la nostra storia naturale si compone di prassi linguistiche (pensare, sperare, contare); quando queste adempiono al loro compito figurano come «capacità automatiche di azione» (Hookway, 2017, p. 753). Una simile automaticità non deve però trarre in inganno, poiché è il frutto di un esercizio prolungato e continuo che fronteggia inciampi, errori, ricadute. Le prassi di cui è intessu'ta la nostra storia naturale {parlare, camminare, bere, ecc.) sono poco pratiche, giacché non si configurano come risposta perfezionata a un'esigenza precedente. La storia natura umana non è una mineralogia. Se ci fossero prima numeri, operazioni e poi l'attività del matematico potremmo pensare a un processo di adeguamento. Come abbiamo visto, però, accade il contrario giacché «la matematica forma concetti» (OFM V, § 26). Per questo motivo, è difficile parlare di «adeguatezza» (figuriamoci poi di «convenienza») della nostra storia naturale. «È adeguato ai nostri bisogni che noi contiamo come contiamo?» (Item 163, p. 3or) si interroga di nuovo una nota inedita. Il marziano, appena fa uso della matematica, deve confrontarsi con i casi nei quali ci si «impiglia in un problema matematico». La prassi umana è tale poiché produce i problemi che risolve e, contemporaneamente, risolve i problemi che produce. A tal proposito, il paradosso è ancor più ingarbugliato dal
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fatto che la pratica chiama"ta «storia naturale» non sfugge al carattere poco pratico delle prassi umane. In alcuni preziosi appunti raccolti tra il 1934 e il 1935, Wittgenstein concede che «può sembrare che stiamo facendoci domande circa la storia naturale degli esseri umani [... ] anche se sappiamo che, in un senso piuttosto ovvio, noi non stiamo facendo storia naturale» (L 3 2-3 5, p. 97 ). Non facciamo storia naturale tradizionale, si spiega poco dopo, perché «siamo interessati al linguaggio nella misura in cui ci crea problemi» (ibid.). Per definizione, ogni prassi umana è poco pratica, dunque problematica. La storia naturale umana è tale proprio perché è alla prese con i problemi prodotti dal linguaggio. f) La storia naturale umana è rantitesi del linguaggio privato. Il linguaggio non formula risposte a domande poste da una natura prelinguistica. Se gli umani alla nascita avessero a che fare con precise esigenze che andassero oltre il bisogno generico di continuare a vivere, non ci sarebbe necessità del linguaggio. Se la nostra specie articolasse in termini espressivi precise esigenze prelinguistiche, esse rimarrebbero tali: un giacimento istintuale da soddisfare grazie a un sistema comunicativo come la danza delle api o il richiamo acustico dei grilli. La storia naturale umana ha a che fare, invece, con una indeterminatezza che è tanto dell'espressione linguistica del dolore (quanti modi esistono per esprimerlo e articolarlo?) quanto della sua espressione non linguistica (la genericità del pianto infantile: cfr. appendice Il). È questa la ragione per la quale Wittgenstein salta, in modo altrimenti poco spiegabile, da osservazioni circa la matematica e la storia naturale al problema del linguaggio privato. Tre occorrenze ancora inedite aiutano a comprendere un passaggio decisivo. Vale la pena citarle per esteso (Item 164, pp. 149, 150 e 164, corsivo nel testo): Arriviamo presso una tribù straniera della quale non comprendiamo la lingua. In quali circostanze diremo che hanno un capo tribù? Che cosa ci lascerebbe dire che quello è il capo anche se è vestito in modo povero come gli altri? È fondamentale che gli altri ubbidiscano al capo tribù? Qual è la differenza tra una falsa conclusione e nessuna conclusione; tra una addizione sbagliata e nessuna addizione. Pensaci. Che cosa ne dici se sembra venir fuori da tutto ciò che la logica appartiene alla storia naturale degli umani. [... ] E questo non è compatibile con la durezza della necessità logica. Ma il «dovere» logico è una
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componente delle proposizioni della logica e queste non sono proposizioni della storia naturale degli umani. Una proposizione della logica diceva: le azioni umane concordano tra loro in questo e in quest'altro modo, e questa sarebbe la forma della proposizione della storia naturale, poi diceva il suo contrario, qui si trova una carenza di accordo. No, qui c'è un altro tipo di accordo. L'accordo tra gli umani che è essenziale alla logica è un presupposto della logica/del fenomeno della logica, non è un accordo di opinioni. Meno che mai di opinioni su questioni della logica. Il fenomeno della logica si fonda sull'accordo della vita degli esseri umani non diversamente da quanto si fondi su di esso il linguaggio. Così ci sono allora proposizioni della storia naturale umana, che sono alla base delle proposizioni della logica? Certamente uno può giocare un gioco con sé stesso. E non può anche giocare nella rappresentazione soggettiva [Vorstellung] con sé stesso (o con altri)? Ma quando diremmo che lui, per esempio, ha giocato a scacchi con un altro nella propria fantasia? Come sa che quelli erano scacchi? Ha imparato nella rappresentazione soggettiva [Vorstellung] a giocarci?
Nel testo originale tra il primo passo e il secondo si dà una breve sezione intitolata «Private Sprache» (Item 164, p. 15 3) che prosegue fino a includere l'ultima delle tre occorrenze. La storia naturale pone la questione di quali siano i caratteri costituitivi della sfera pubblica umana. Una prima ipotesi, caldeggiata in un'opera giovanile come le Osservazioni filosofiche, sostiene la presenza di un nucleo logico sul quale poi innestare le pratiche linguistiche. Uno scenario del genere garantirebbe, in modo più o meno esplicito, una forma preventiva di accordo garantita per l'appunto dalle strutture cardine della logica classica (principio di identità, non contraddizione, terzo escluso). Nel corso degli anni Wittgenstein cambia posizione. Mentre comincia ad affermare che il principio di non contraddizione non è un tabù sacro come la logica tradizionale vorrebbe (Mazzeo, 2009 ), il rapporto tra i due fattori si trasforma. Questi due passi hanno il merito di essere particolarmente espliciti. È la logica ora ad avere bisogno di un presupposto, definito addirittura «essenziale» (wesentlich), che consiste nell'accordo tra gli esseri umani. Il cambiamento non è una partita di giro. Wittgenstein chiama questo accordo pre-logico «un accordo della vita degli umani» (Obereinstimmung des Lebens der Menschen) organizzato secondo due coordinate. La prima: per avere un'esperienza, questa dev'essere pubblica. Ecco il senso del riferimento al gioco
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degli scacchi e alla critica alla Vorstellung, la rappresentazione soggettiva, come fondamento della prassi. Alla seconda fa riferimento la parte iniziale della citazione. Non si propone più la logica a fondamento dei dissidi che è possibile trovare nei fenomeni antropologici, ad esempio tre le diverse forme d'uso. Al contrario, ora è una comune antropologia a costituire la condizione di possibilità di dissidi talmente aspri da poter essere interni anche alla logica. Il riferimento all'accordo della vita degli umani non è rivolto, dunque, a una visione edulcorata di una specie che vivrebbe secondo un'armonia prestabilita. La presenza di una scena pubblica comune, gli usi linguistici, è la condizione di possibilità di un dissenso talmente radicale da poter coinvolgere anche la più dura delle pratiche formali, la logica. Per riassumere, in una prima fase (si veda ad esempio il passo delle Osservazioni filosofiche), Wittgenstein ci pone di fronte a una scelta: o logica o storia naturale. Finché prosegue su quella strada, il filosofo non esce dal pantano costituito dal genere letterario storico-naturale di Plinio. Quando, con una punta di disprezzo, le Ricerche filosofiche si concludono con l'affermazione che «per i nostri scopi una storia naturale potremmo inventarcela», altro non fanno che riproporre la storia naturale tradizionale degli alberi parlanti. Gradualmente il filosofo sembra propendere, invece, per una soluzione terza, la cui presenza è segnalata spesso dai sintagmi «storia naturale degli uomini» o «la nostra storia naturale» 12 • È questa la strada aperta da Wittgenstein che attende di essere percorsa. L'ammiratore potrà consolarsi dicendo che la morte precoce impedì a quel genio di Ludwig di fare la cosa giusta. La sfiducia del disfattista sarà ripagata dall'idea che l'autore del Tractatus non riesce ad andare oltre le aperture ambivalenti al tempo storico contenute nel Della certezza, e oltre questo terzo filone di ricerca circa la Naturgeschichte. Quel che conta, naturalmente, è ciò che resta da fare a partire da Wittgenstein: la costruzione di una storia naturale dei sapiens. L'espressione «Naturgeschichte des Mcnschen» ricorre in: BT, S 87, p. 409; RF I, Item u7, p. 142 [1937-40); Item 137, p. 61a [17.2.1948]; Item 156a, p. 54v [1932-1934]; Item 163, p. 3or; Item 164, pp. 149150. Troviamo «unsere Naturgeschichte» in: RF I, S 25; OFM I, S 63; Item 119, p. 11 [25.9.37]; Item 163, p. 3or [7.7.1941]; Item 221b, p. 195 [1938]. •2.
S 25; RF, I, S 415; OFP I, S78; OFP I, S uo9;
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Filologia. L,es-pressio-ne «storia naturale» È necessario spendere qualche parola sul metodo utilizzato per la classificazione del sostantivo «Naturgeschichte» (storia naturale) e del corrispettivo aggettivale «naturgeschichtlich» (storico-naturale). Nel corso della sua produzione teorica, Wittgenstein impiega queste espressioni in modo instabile e cangiante. L'uso è instabile poiché il termine mostra connotazioni teoriche tra loro diverse, in alcuni casi antitetiche. È cangiante, giacché mutevole è la valutazione teorica che Wittgenstein gli attribuisce. A modificarsi nel tempo non è solo cosa intendere con l'espressione Naturgeschichte ma anche la sua compatibilità con la ricerca filosofica che si va sviluppando tra la metà degli anni Venti e la fine degli anni Quaranta. Nelle prime occorrenze, la contrapposizione è talmente netta da anticipare una metafora che sarà poi resa celebre da Noam Chomsky: la storia naturale sta al linguaggio come lo stomaco sta alla digestione. Quel che interessa Wittgenstein è la logica verbale, non la sua struttura biologica. Più o meno dal Libro Marro-ne in poi, emerge un'idea diversa che fa della storia naturale, invece, un documento prezioso per la ricerca filosofica. Questa mutevolezza, talvolta carsica o a zig-zag, pone il problema del canone secondo il quale riconoscere il senso teorico delle varie occorrenze del termine. Il rischio è di schiacciare il testo sulle preferenze dell'interprete di turno, con il risultato di perdere la possibilità di riflettere sulle indecisioni, i ripensamenti e le sfumature filosofiche di questo centinaio di note. Per una prima e grossolana classificazione, segnata da un margine inevitabile di discrezionalità, propongo di usare coordinate che siano chiare e minimali. L'uso antropologico della nozione è riconoscibile con un certo grado di attendibilità: a) se la nozione di «storia naturale» è impiegata in modo non squalificante; b) se emerge la distinzione tra vita umana e vita genericamente animale. Le due coordinate consentono di sciogliere la riserva interpretativa su un buon numero di occorrenze. Quando, ad esempio, Wittgenstein paragona la storia naturale degli scacchi a quella del gioco tra animali (BT, § 87, p. 409) si incammina su una strada tradizionale, poiché il riferimento alle forme di vita non umane in termini pura-
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mente analogici suggerisce quello schiacciamento dello storico sul naturale tipico del genere letterario fondato da Plinio. In diversi casi, tuttavia, la distinzione è difficile da tracciare. Sempre a titolo esemplificativo, basti pensare al paragrafo 415 delle Ricerche filosofiche: Ciò che noi forniamo sono, propriamente, osservazioni sulla storia naturale degli uomini; non però curiosità, ma costatazioni di cui mai nessuno ha dubitato e che sfuggono all'attenzione solo perché ci stanno continuamente sott'occhio.
Si tratta di un brano che ricorre spesso nel lascito, addirittura dieci volte (12, 57, 59, 61, 63, 65-66, 71-73). Da solo rappresenta i tre quarti delle occorrenze che propongo di catalogare in modo ancipite. Per un verso, infatti, nel paragrafo si usa un'espressione (storia naturale degli uomini) che allude esplicitamente alla dimensione antropologica; per un altro, l'impiego dell'osservazione pare interno alla strategia che prevede il ritorno al linguaggio ordinario. Esiste una seconda difficoltà. Abbiamo già visto nelle altre incursioni filologiche che, spesso, nel Nachlass un'occorrenza ripete una delle precedenti, riportata in un volume d'appunti o in un dattiloscritto. Nel valutare queste ripetizioni è difficile trovare un equilibrio tra due indirizzi antitetici. Per un verso, non v'è dubbio che circa metà delle occorrenze costituiscono ripetizioni (al massimo leggere varianti) di passi scritti in precedenza: occorrenze che paiono dunque di seconda categoria poiché non aggiungono alla discussione nuove forme argomentative. Per un altro, la presenza reiterata di un passo non sembra priva di significato poiché indizio di una radicata persistenza nel travagliato percorso teorico wittgensteiniano. La riproposizione in volumi cronologicamente distanti rinnova la validità di osservazioni che rischiano di «scadere» nel flusso di una varietà tanto ampia di usi e accezioni. Propongo, dunque, di non sottovalutare le ripetizioni. Si tratta, piuttosto, di evidenziare l'eventuale stereotipia fraseologica, la ripetitività delle argomentazioni o, al contrario, il livello di laboriosità che porta un passo che figura più volte ad assumere versioni modificate. È un lavoro in buona parte da compiere. In tal senso, il paragrafo 2 5 delle Ricerche è paradigmatico. Nel Nachlass, ricorre sei volte, quasi sempre con modifiche. Nelle occorrenze 2 7 e 5 5 compare una frase aggiuntiva tra parentesi ( «È lo stesso se si parla con le mani o con la bocca») eliminata in 62 e 64 (la versione divenuta oggi canonica), presente nella versione inglese (80 ),
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modificata poi nella 7 5 («in realtà non è essenziale se si parla con la bocca o con le mani»). Il passo non solo è ripetuto nel tempo, ma oggetto di un continuo lavorio teorico che pare ribadire l'importanza della storia naturale per l'articolazione del pensiero di Wittgenstein. Esiste, infine, una terza difficoltà. Abbiamo a disposizione oggi due versioni digitali del lascito wittgensteiniano. Anche in questo caso, esse divergono. Nella BBE (versione diplomatic), il termine tedesco «Naturgeschichte» conta 74 occorrenze. Le occorrenze diventano 8 3 nei WAB. La variazione riguarda modi diversi di conteggio e qualche lacuna nella vecchia versione su CD. Se aggiungiamo l'occorrenza presente nel Dizionario per le scuole elementari, l'aggettivo corrispondente ( «naturgeschichtlich») e l'inglese «natural history», le occorrenze superano il centinaio (103 per BBE, 116 per WAB). Il conteggio proposto nelle prossime pagine proporrà una cifra intermedia (106 passi), perché non sempre i WAB accorpano o dividono le occorrenze in modo condivisibile. Propongo qui di seguito una catalogazione riassuntiva che provi a riunire tutte le occorrenze secondo le tre accezioni di storia naturale individuate nel capitolo (tradizionale, morfologica, antropologica). Poi fornirò l'elenco completo con la relativa attribuzione, in modo simile a quanto fatto nelle altre incursioni filologiche. Per ogni voce indicherò il luogo nella quale è stata pubblicata e, quando possibile, la data. Vista la rilevanza della questione, se la nota è inedita o non sono riuscito a trovare dove sia stata pubblicata, verrà acclusa la traduzione del passo. A prescindere dalla scelta di dettaglio, la classificazione indica con chiarezza che l'accezione tradizionale e antropologica dividono a metà la porzione più ampia della torta. La lettura morfologica poggia, invece, su uno zoccolo duro e circoscritto che si aggira intorno alla decina d' occorrenze. Di certo, la nozione di storia naturale attraversa e tormenta buona parte della riflessione di Wittgenstein. L'occorrenza più antica risale al Dizionario del 1926; la più tarda al 16.4.1951, appena tredici giorni prima della morte.
Classificazione delle occorrenze Storia naturale classica (accezione C): 1-6, 18, 20, 24, 28, 43-54, 67, 76, 82-85, 87-89, 92, 94-95, 97-102, 104-106 = 4 3 occorrenze
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Storia naturale morfologica (accezione M): 21, 38-42, 69, 78, 96 = 9 occorrenze Storia naturale antropologica (accezione A): 8-11, 13-17, 19, 2223, 25-27, 29, 32-37, 55-56, 58, 60, 62, 64, 68, 70, 74-75, 77, 79-81, 86, 90-91, 93, 103 = 41 occorrenze Accezione AC (ancipite tra il classico e l'antropologico): 7, 12, 30-31, 57, 59, 61, 63, 65-66, 71-73 = 13 occorrenze
DSE, p. 202: ( C) 2.ltem 107, p. 234 [31.1.1930]: OF, § 15 (C) 3. ltem 108, p. 217 [19.7.1930]: I.
Un pensiero amorfo è impensabile tanto quanto un gioco degli scacchi amorfo. Quel che del pensiero fa per noi il pensiero non può esser qualcosa di umano, qualcosa che abbia a che fare con la struttura e l'essenza dell'essere umano, quanto piuttosto qualcosa di puramente logico che sia indipendente dalla storia naturale di un essere vivente. (C)
4. ltem 109, p. 282 [30.1.1931]: BT, § 87, p. 409 (C) 5.ltem 112, p. IIV [8.10.1931]: GF II, 24,p. 328; BT, 121, p. 599 (C) 6. ltem 113, p. 25v [20.2.1932]: BT, 57, pp. 253-254 (C) 7. ltem 115, p. 106 [dicembre 1933]: Naturalmente, che io non possa cercare di volere non è una affermazione circa la storia naturale della volontà. Il verbo «volere» ci suggerisce di confrontare il fatto del volere con il fatto della realizzazione della volontà e prendere la differenza grammaticale per una differenza di proprietà. (AC)
8. ltem 115, p. 153 [1936]: LM, p. 129 (A) 9. ltem 117, p. 85 [settembre 1937]: OFM I,§ 63 (A) 10.Item117, p. 142 [agosto 1938]: Rifletti anche su questo: «Che cos'è una legge penale?» -È una proposizione della storia naturale degli umani che ci dice che un essere umano è punito dal suo prossimo se si comporta così e così? Cosa distingue una legge da una proposizione della storia naturale? Non è il ruolo che gioca nella vita degli umani? Il meccanismo nel quale è impiegata? (A)
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11. ltem 118, p. 65v [8.9.1937]: stesso passo di (9) (A) 12. ltem 119, p. 1 [24.9.1937]: RF I,§ 415; OFM I,§ 141 (AC) 13. ltem 119, p. 11 [25.9.1937]: Quanto è una proprietà del segno